Lo spettacolo della memoria 9788874624652

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Lo spettacolo della memoria
 9788874624652

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Quodlibet Studio Lettere

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Annelisa Alleva Lo spettacolo della memoria Saggi e ricordi

Quodlibet

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Prima edizione: maggio 2013 © 2013 Quodlibet Macerata, Via Santa Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Spa presso lo stabilimento l.e.g.o. Spa - Lavis (tn) ISBN 978-88-7462-465-2

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Indice

Saggi 9

Biro seccate in un barattolo di plastica (la poesia di Wisława Szymborska)

25

La nostalgia del dolore (i Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning)

31

Anni d’infanzia di Bagrov nipote di Sergej Aksakov

39

La poesia Elegia di Iosif Brodskij

47

Tommaso Landolfi e Aleksandr Puškin

63

Il conscio letto (su Giacomo Leopardi)

75

Il mago gentile e il pupillo delle chiare muse (su Orest Kiprenskij)

83

Degli idoli miei mi vergogno (l’Evgenij Onegin di Puškin)

109

GFP (su Compassioni della mente di Gianfranco Palmery)

117

Tradurre Tolstoj

125

Lo spettacolo della memoria e la memoria dello spettacolo (sul Racconto di Sonecˇka di Marina Cvetaeva)

137

La sutura (la pubblicazione in italiano dell’opera completa di Sylvia Plath)

145

Angeli, poeti, dèi, manichini: figure di riflesso nei versi di Boris Ryžij

159

Odio la neve, le àgavi, i cervi (la poesia di Angelo Maria Ripellino)

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6

indice

183

Il treno e il mužik (su Anna Karenina)

193

I tre circoli magici (scene circolari in Anna Karenina)

209

L’istante indifeso (la poesia di Giovanna Sicari)

225

La luce. Il monumento e la statua. La cosa (la poesia di Iosif Brodskij) Ricordi e un’intervista

289

Proust e Cvetaeva (ricordo di Iosif Brodskij)

293

Ulica Pestelja, dom 27, kvartira 28 (ricordo dei genitori di Iosif Brodskij)

309

Un amor inrealizado (incontro con Evgenij Evtušenko)

313

Il re (ricordo di Rita Levi Montalcini)

317

Il plebeo schiaccia (ricordo di Idolina Landolfi )

321

Il maestro e la bidella (ricordo di Angelo Maria Ripellino)

329

La professoressa (ricordo di Anjuta Maver Lo Gatto)

333

Peggio delle sofferenze d’amore (ricordo di Titina Maselli)

349

Questo qui è bellissimo (su Ruggero Savinio)

355

I No di Nika (ricordo di Niccolò Tucci)

361

Intervista su Iosif Brodskij di Valentina Poluchina

379

Nota ai testi Indice dei nomi

385

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Saggi

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Biro seccate in un barattolo di plastica (la poesia di Wisława Szymborska)

Wisława Szymborska è morta il 1˚ febbraio 2012, e le sue poesie hanno in Italia un foltissimo, strabiliante numero di lettori. Nel 1996 vinse il Premio Nobel, e allora quasi nessuno, qui da noi, la conosceva. In Italia erano stati pubblicati tre volumetti dell’autrice: il primo, La fiera dei miracoli, fuori commercio, nel 1993; nel 1996 Gente sul ponte, una delle sue raccolte più belle, e infine, nel 1997, La fine e l’inizio1. La raccolta a cui fa riferimento questo saggio è Vista con granello di sabbia, una scelta da sette sue raccolte fra le più famose, già pubblicata nella stessa forma negli Stati Uniti, approvata dall’autrice, e corredata dal suo scabro e intenso discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Nobel. Le poesie di Wysława Szymborska hanno tutte un titolo, ma nessuna una data; questo ci colpisce immediatamente. Non abbiamo a che fare con una poetessa, la cui opera ha subito nel tempo un cambiamento radicale nelle scelte tematiche e stilistiche; le sue poesie, infatti, costituiscono sostanzialmente un continuum, che si rafforza via via con l’approfondimento della riflessione e una padronanza 1 Wisława Szymborska, La fiera dei miracoli, pubblicato nella collana «Strenne Franci», con matite di Alina Kalczyńska, traduzione di Pietro Marchesani, con testo a fronte, Scheiwiller, Milano 1993. Ead., Gente sul ponte, pubblicato nella collana «Poesia», a cura di Pietro Marchesani, testo a fronte, Scheiwiller, Milano 1996, riprende l’edizione polacca di Ludzie na moście, Czytelnik, Warszawa 1986. Ead., La fine e l’inizio, pubblicato nella collana «Poesia», a cura di Pietro Marchesani, testo a fronte, Scheiwiller, Milano 1997, riprende l’edizione polacca di Koniec i początek, Wydawnictwo a5, Poznań 1993. Il volume Vista con granello di sabbia, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1998, riprende la scelta antologica del volume View with a Grain of Sand (Harcourt Brace & Company, New York 1995), che include poesie scritte fra il 1957 e il 1993. Il titolo dell’antologia è tratto dalla poesia Widok z ziarnkiem piasku [Vista con granello di sabbia], che fa parte della raccolta Ludzie na moście, Warszawa, Czytelnik, 1986 (trad. it. Gente sul ponte, cit.). Le pagine dei versi citati nel saggio che segue si riferiscono alle edizioni italiane di Vista con granello di sabbia (abbr. Vista) e di Gente sul ponte (abbr. Gente).

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saggi

sempre più affinata della lingua. All’interno di questo continuum, o dietro, c’è un’autrice che non fa mostra di sé, della sua vita personale, ma che piuttosto si autoannulla e si trasfigura quasi completamente nelle proprie parole. Nessun primadonnismo achmatoviano, anche se, apprendiamo dalla postfazione, Anna Achmatova, nel 1964, quindi poco prima di morire, la tradusse. Dove si colloca la poetessa? In alto, lo capiamo quasi subito, ma la sua vista è molto concreta. In D’una spedizione sull’Himalaya non avvenuta2: Yeti, laggiù è mercoledì, abicì, pane e due più due fa quattro,

In Monologo per Cassandra, profetessa con la quale Szymborska deve almeno in parte identificarsi3: Li amavo. Ma amavo dall’alto. Da sopra la vita.

Il suo punto di vista sulle cose non è dell’emigrante, dell’esiliata interna, che ha fatto uno spostamento orizzontale, effettivo o mentale che sia, e osserva la realtà di sbieco, con la coda dell’occhio, ma di chi, per scappare e conquistarsi un proprio spazio, ascende, ha sulle cose uno sguardo distanziato, che domina tutto. La sua non è un’immaginazione che vola, ma che ama, piuttosto, attaccarsi a una superficie visiva, spesso quella di un quadro, per entrarvi dentro, e trasformare qualcosa di rappresentato e unidimensionale in qualcosa di animato, nel senso di non statico e di avente un’anima. In Paesaggio4: Nel paesaggio dell’antico maestro gli alberi hanno le radici sotto la pittura a olio,

2 W. Szymborska, D’una spedizione sull’Himalaya non avvenuta, in Vista, pp. 26-27. 3 W. Szymborska, Monologo per Cassandra, in Vista, pp. 64-65. 4 W. Szymborska, Paesaggio, in Vista, pp. 57-58.

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biro seccate in un barattolo di plastica

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Attraverso i quadri antichi si delinea anche il rapporto dell’autrice con la Storia, che è sempre stata, a suo parere, un’entità tanto astratta quanto imperiosa, malvagiamente selettiva, attenta solo ad autoconfermarsi. Szymborska non prova alcun rimpianto per il passato, il buon tempo antico, ma solo, semmai, per la fugacità della vita. L’imperiosità della Storia si riflette anche nelle correnti artistiche di un’epoca, si trasmette anche attraverso un quadro. Il Barocco, a esempio, impone solo donne rosee e abbondanti. In Le donne di Rubens5: Figlie del barocco. L’impasto si gonfia, vaporano i bagni, s’arrossano i vini, nel cielo galoppano porcelli di nuvole, le trombe nitriscono l’allarme carnale. […] Le loro magre sorelle si alzarono presto, prima che nel quadro facesse giorno. E nessuno le vide incamminarsi in fila sul lato non dipinto della tela.

Oppure, in Miniatura medievale6: Così avanzano stragraziosamente in questo realismo il più feudale. Lo stesso, nondimeno, badava all’equilibrio: gli preparava l’inferno su un altro quadretto. Ah, questo andava arci da sé.

Anche le fotografie sono per lei un pretesto di scavo oltre la superficie, di riflessione sul Tempo. In Movimento irrigidito7: Dietro il paravento un corsetto rosa, una borsetta, nella borsetta un biglietto per un piroscafo, 5

W. Szymborska, Le donne di Rubens, in Vista, pp. 42-43. W. Szymborska, Miniatura medievale, in Vista, pp. 125-126. 7 W. Szymborska, Movimento irrigidito, in Vista, p. 99. 6

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saggi

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partenza l’indomani, ossia sessant’anni fa; mai più, però alle nove esatte del mattino.

Dietro quel che c’è di fermo in una fotografia di Isadora Duncan, Szymborska immagina la vita che scorre, e, in mezzo al flusso di giorni ormai estinti, coglie un dettaglio immaginario, che fissa, come avrà fatto il fotografo prima d’immortalare la sua modella. Ne La prima fotografia di Hitler8 descrive la prima fotografia del futuro carnefice, con un tono lezioso, ridondante di diminutivi, che nel folclore slavo possono essere anche minacciose spie di eventi sinistri. All’interno di questa poesia Szymborska rifà il verso a quelli che si sdilinquiscono alla vista di un bambino appena nato, perché così si fa, ma poi possono diventare anche spettatori del male, del nazismo, vivere nelle loro casette amene a pochi chilometri dai lager, fingendo di non accorgersi di quanto vi accade. Il nazismo riuscì a affermarsi anche grazie a questa maggioranza di osservatori silenti e consenzienti, e Szymborska sembra avercela ancora di più con loro9: E chi è questo pupo in vestina? Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler! Diventerà forse un dottore in legge o un tenore dell’Opera di Vienna? Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?

Nella fotografia è impresso un momento privato, e Szymborska mette spesso in luce, aldilà delle apparenze, lo sfasamento fra vita pubblica, ufficiale, e privata. Nella poesia appena citata su Hitler l’elemento pubblico è tutto sottaciuto, vista la notorietà del personaggio. È una poesia di denuncia muta, questa, all’interno della quale Hitler viene descritto come un qualsiasi bambino grazioso, e nel suo finale viene descritta la quieta, noiosa ma rassicurante prosperità e inerzia della cittadina Braunau, nella quale, come in qualsiasi altra cittadina di provincia: L’insegnante di storia allenta il colletto e sbadiglia sui quaderni. 8 9

W. Szymborska, La prima fotografia di Hitler, in Vista, pp. 158-159. Cito l’inizio della stessa poesia, in Vista, p. 158.

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biro seccate in un barattolo di plastica

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In una bellissima poesia non inclusa in questa scelta, forse la più szymborskiana di tutte, Scrivere il curriculum10, la scrittrice analizza la crudeltà dello scrivere un curriculum, che, dovendo essere soprattutto stringato, lascia fuori molta parte della vita: Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati.

Vittima delle crudeli amputazioni della vita pubblica su quella privata non è solo l’uomo della strada o l’animaletto che nessuno prende in considerazione, ma anche l’intellettuale, l’artista, il compositore. Anche su di lui la Storia opera il suo sezionamento, anche lui non sfugge. La Storia trattiene l’opera per i posteri, cioè per sé, e butta via quel che è contingente, e quindi umano. Ne Il classico11: Finiranno tra i rifiuti le scarpe, scomode testimoni. Il violino verrà preso dall’allievo meno dotato. Saranno tolti dagli spartiti i conti del macellaio. Le lettere della povera madre finiranno in pancia ai topi.

Ne La stanza del suicida12 viene descritta la stanza di un amico intellettuale che si è suicidato senza lasciare niente di scritto, ma lasciando intatti i suoi oggetti, che parlano di lui anche ora, in sua assenza: Certo pensate che la stanza fosse vuota. E invece c’erano tre sedie con robusti schienali. Una lampada buona contro il buio. Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali. Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.

In Pietà13, il pretesto per mettere in luce questo sfasamento è dato da una visita della poetessa in Bulgaria, nel 1954, alla madre di Nikola Vapcarov, un poeta comunista fucilato dai nazisti a 10

W. Szymborska, Scrivere il curriculum, in Vista, pp. 167-168. W. Szymborska, Il classico, in Vista, pp. 100-101. 12 W. Szymborska, La stanza del suicida, in Vista, p. 137. 13 W. Szymborska, Pietà, in Vista, p. 69. 11

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saggi

Sofia. La visita alla madre rappresentava un’occasione ufficiale, celebrativa, ma il suo dolore di donna semplice di campagna era autentico. Sì, lo amava molto. Sì, era sempre stato così. Sì, lei allora si trovava sotto il muro della prigione. Sì, aveva sentito la scarica.

Dietro questi versi del tutto prosastici, prosastici come le laconiche risposte all’intervistatrice, si può intuire l’insofferenza della madre dell’eroe, spossata dal dolore e dalla strumentalizzazione che di questo viene fatta; spossata di non essere lasciata a se stessa, in pace. Nell’austero, critico spazio narrativo di Szymborska, la realtà si sgretola. Lei la smonta, scompone, decostruisce; poi recupera, seleziona, rimette insieme i pezzi a suo piacere, e la fa stridere. La Storia è Artefice, e quindi anche Madre, genitrice dell’uomo. La giustapposizione, di cui Szymborska si serve spesso all’interno di una poesia, può tracciare un piccolo ponte immaginario anche fra due poesie. Ecco la madre di quello che lei ci lascia intuire essere un suo amore; una piccola madre fisica, tangibile, deludente per l’autrice in confronto alla metafisica, colma di mistero, dell’amore, in Nato14: Dunque è sua madre. Questa piccola donna. Artefice dagli occhi grigi.

Ed ecco, in contrasto con la precedente, la Grande Madre in Un feticcio di fertilità del paleolitico15, una Madre-feticcio simbolica, impersonale, e quindi in qualche modo malefica agli occhi di Szymborska; anonima perché di valenza universale, scaturita dal ventre dei secoli, così come i figli scaturiscono dal ventre materno:

14 15

W. Szymborska, Nato, in Vista, pp. 62-63. W. Szymborska, Un feticcio di fertilità del paleolitico, in Vista, pp. 76-77.

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biro seccate in un barattolo di plastica

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La Grande Madre non ha piedi. Che se ne fa la Grande Madre dei piedi. Dove mai dovrebbe andare. E perché dovrebbe entrare nei particolari del mondo. Lei è già arrivata dove voleva arrivare, e fa la guardia nei laboratori sotto la pelle tesa.

In Ritorni16, che cito per intero: È ritornato. Non ha detto nulla. Era chiaro però che aveva avuto un dispiacere. Si è coricato col vestito. Ha messo la testa sotto la coperta. Ha ripiegato le gambe. È sulla quarantina, ma non in questo momento. Esiste – ma solo quanto nel ventre di sua madre, al di là di sette pelli, al riparo del buio. Domani terrà una conferenza sull’omeostasi nella cosmonautica metagalattica. Per il momento si è raggomitolato, dorme.

Questo contrasto Szymborska sembra averlo appreso ed ereditato dai grandi maestri realisti della narrativa ottocentesca; per esempio da Tolstoj, che in Anna Karenina scriveva: «“Se sapessero”, pensava Oblonskij, chinando la testa con aria significativa, durante l’ascolto della relazione, “che bambino colpevole era mezz’ora fa il loro presidente!” E i suoi occhi ridevano alla lettura del documento»17. Qui, però, in questa poesia-microromanzo, immaginiamo l’uomo, lo scienziato, in qualità di vittima, e non di colpevole. Lo scienziato che ha subìto – lascia immaginare al lettore, pur senza dirlo, la poetessa – un supruso, un’ingiustizia, è così scoraggiato e indifeso di fronte a questa da non avere neppure le forze di sfogarsi con la moglie. Unico suo rifugio: una posa fetale, orfana in un adulto, stridente in uno scienziato di fama; disperata, ancestrale.

16

W. Szymborska, Ritorni, in Vista, p. 90. Lev Tolstoj, Anna Karenina, trad. it. di Annelisa Alleva, introduzione, cronologia e bibliografia di Igor Sibaldi, con uno scritto di Vladimir Nabokov, Mondadori, Milano 2010, I, cap. 5, p. 20. 17

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saggi

Molto attenta all’umano, e al vivente in genere, l’autrice mette in scena quasi in ogni poesia, in modo simbolico, metaforico, l’uomo crocifisso, e la sua croce. L’immobilità impassibile della croce, strumento di tortura, in contrapposizione al corpo sofferente, moribondo, in una posa sempre impercettibilmente diversa, individuale. Szymborska analizza e ci restituisce il modo in cui il corpo devia dalla posa che la croce gli impone. Non nomina mai direttamente la croce, ma la rinviene nel potere, nella storia, nella natura, nella legge, in tutto quello che l’uomo non sceglie, ma subisce. Non nomina la croce, ma è precisa e attenta nel registrare i sintomi del dolore, così precisa e attenta a tutto questo da spostare l’attenzione del lettore dagli effetti alla causa, cioè al supplizio che li provoca. Il Cristo di questa poesia sceglie una posa fetale. Ne L’acrobata18 il Cristo è un uomo solo, con la propria acrobazia da esibire, con il proprio volo che gli riesce difficile perché non ha le ali, che lotta ferocemente contro la propria nuda condizione di uomo: Solo. O anche meno che solo, meno, perché imperfetto, perché gli mancano le ali, gli mancano molto, una mancanza che lo costringe a voli vergognosi su una attenzione senza piume ormai soltanto nuda.

Szymborska afferma negando, denuncia in modo indiretto, con un procedimento retorico da indovinello, da litote; la sua poesia è impegnata, moderna, ma quasi priva di riferimenti diretti all’attualità; d’ispirazione – più che civile – esistenziale. Infatti il suo paese può avere rivolgimenti politici, ma i suoi versi continuano a starsene lì, imperterriti, a insistere sempre sugli stessi temi. Il suo sguardo dall’alto, che vorrebbe essere onnicomprensivo, e non tralasciare niente e nessuno, concentra la propria speciale attenzione sul minuscolo, l’infinitamente piccolo, che lei predilige in segno di protesta contro la falcidiante Storia. Il piccolo come scoria, il piccolo come escluso, schiacciato dal grande, dall’importante. Sono tante le poesie che mettono in scena il picco18

W. Szymborska, L’acrobata, in Vista, p. 75.

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lissimo, quasi lei inforcasse, da quell’altura in cui si colloca, giganteschi, potentissimi occhiali. Nel Compleanno19: Dirò addio alle viole nel viaggio affrettato. Pur la più piccola – è una spesa folle: lo scialo di stelo, petali e pistillo una volta, a caso, in questa vastità, con sprezzo è precisa, di altera lievità.

Nel Tarsio20, animale assai poco conosciuto, da lei provocatoriamente scovato sull’enciclopedia: Io, tarsio, figlio di tarsio, nipote e pronipote di tarsio, piccola bestiola, fatta di due pupille e d’un resto di stretta necessità;

In Visto dall’alto21: E così questo scarabeo morto sul viottolo brilla non compianto verso il sole. Basta pensarci per la durata di uno sguardo: sembra che non gli sia accaduto nulla d’importante. L’importante, pare, riguarda noi. Solo la nostra vita, solo la nostra morte, una morte che gode d’una forzata precedenza.

In Salmo22: Tra gli innumerevoli insetti mi limiterò alla formica, che tra la scarpa sinistra e la destra del doganiere non si sente tenuta a rispondere alle domande «Da dove?» e «Dove?»

19 W.

Szymborska, Compleanno, in Vista, p. 95. W. Szymborska, Tarsio, in Vista, pp. 73-74. 21 W. Szymborska, Visto dall’alto, in Vista, p. 119. 22 W. Szymborska, Salmo, in Vista, pp. 115-116. 20

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saggi

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In Non occorre titolo23: Si dà il caso che io sia qui e guardi. Sopra di me una farfalla bianca sbatte nell’aria ali che sono solamente sue, e sulle mani mi vola un’ombra, non un’altra, non di altri, solo sua. A tale vista mi abbandona sempre la certezza che ciò che è importante sia più importante di ciò che non lo è.

Szymborska preferisce la natura alla Storia, perché la natura non è fatta dall’uomo; il mondo animale e vegetale coesistono in una continuità regolata dal ciclo implacabile della vita e della morte, ma senza le sovrastrutture imposte dall’uomo, cioè liberamente. Contraria a una visione antropocentrica, egoistica, che deforma l’esistenza, l’autrice ama, forse per salvarsi, scappare dalle pastoie quotidiane; trasformarsi, o meglio entrare, per esempio, nei panni di un gatto, oppure in un granello di sabbia. La sua è l’abilità del prestidigitatore, un’esibizione d’invisibilità. In Salmo24: Solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.

Ne Il gatto in un appartamento vuoto25: Morire – questo a un gatto non si fa.

In Vista con un granello di sabbia26, a proposito del granello, scrive: Del nostro sguardo e tocco non gli importa. Non si sente guardato e toccato. E che sia caduto sul davanzale è solo un’avventura nostra, non sua. 23

W. Szymborska, Non occorre titolo, in Vista, pp. 185-186. W. Szymborska, Salmo, in Vista, pp. 115-116. 25 W. Szymborska, Il gatto in un appartamento vuoto, in Vista, pp. 195-196. 26 W. Szymborska, Vista con granello di sabbia, in Vista, pp. 149-150. 24

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biro seccate in un barattolo di plastica

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Anche la Natura, però, al pari della Storia, non va per il sottile, e falcidia, con l’evoluzione, le «care sirene», i «diletti fauni», gli «eccelsi angeli», e chi ha letto le straordinarie poesie di Miłosz sa quanto spesso vi ricorrano gli angeli. Anche la Natura censura senza pietà le proprie creature, e poi le occulta, quasi fossero dettagli inutili del Creato. Così Szymborska conclude una poesia dedicata a tale argomento, Thomas Mann27: Ma il più bello è che le è sfuggito il momento in cui è spuntato un mammifero con la mano miracolosamente pennuta d’una Waterman.

Come se avesse studiato le discipline orientali, Szymborska ha un’anima trasmigratrice, capace di trasferirsi in altri corpi. Un’anima inquieta, sempre presente anche se poco nominata, mimetica, che s’afferma spesso con una negazione, un’assenza. Si può vedere dagli stessi titoli delle poesie e qualche volta anche delle raccolte: D’una spedizione sull’Himalaya non avvenuta, Nulla due volte, Allegro ma non troppo, Recensione d’una poesia non scritta, Nulla è in regalo. In Ringraziamento28: Devo molto a quelli che non amo. Il sollievo con cui accetto che siano più vicini a un altro. La gioia di non essere io il lupo dei loro agnelli.

La negazione è un’arma che la poetessa polacca sa padroneggiare con destrezza. La sua è una poesia che scava, gratta, ripulisce, s’arrovella, leva, sottrae, rinuncia. Una poesia ascetica, che poco s’abbandona, e molto lotta, lavora.

27 28

W. Szymborska, Thomas Mann, in Vista, pp. 71-72. W. Szymborska, Ringraziamento, in Vista, pp. 113-114.

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saggi

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In Grande numero29: Scelgo scartando, perché non c’è altro modo, ma quello che scarto è più numeroso, è più denso, più esigente che mai. A costo di perdite indicibili – una poesiola, un sospiro.

In Sotto una piccola stella30: Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche, e poi fatico per farle sembrare leggere.

Nel suo personalissimo modo di accostarsi all’amore è una specie di dichiarazione antiretorica. Amore e poesia vengono da lei affrontati con la stessa grinta corrosiva. Scansa il bello, il lirico, i cliché. Nell’incipit di Album31 scrive: Nessuno in famiglia è mai morto per amore.

Così commenta l’incontro dopo tanti anni con un vecchio amore, in Un incontro inatteso32: Siamo molto cortesi l’uno con l’altro, diciamo che è bello incontrarsi dopo anni. Le nostre tigri bevono latte. I nostri sparvieri vanno a piedi. I nostri squali affogano nell’acqua. I nostri lupi sbadigliano alla gabbia aperta.

In Un amore felice33 esalta l’amore felice forse proprio perché più comunemente la poesia ci descrive amori infelici. A proposito dei «due felici» si domanda:

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W. Szymborska, Grande numero, in Vista, pp. 111-112. W. Szymborska, Sotto una piccola stella, in Vista, pp. 106-107. 31 W. Szymborska, Album, in Vista, p. 59. 32 W. Szymborska, Un incontro inatteso, in Vista, p. 41. 33 W. Szymborska, Un amore felice, in Vista, pp. 104-105. 30

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biro seccate in un barattolo di plastica

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È difficile immaginare dove si andrebbe a finire se il loro esempio fosse imitabile. Su cosa potrebbero contare religioni, poesie, di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe, chi vorrebbe restare più nel cerchio?

In In lode di mia sorella34: Mia sorella non scrive poesie, né penso che si metterà a scrivere poesie. Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie, e dal padre, che anche lui non scriveva poesie.

Contrapponendo ironicamente, in Serata d’autore35, una serata di poesia a un incontro di pugilato, scrive: O Musa, essere un pugile o non essere affatto. Ci hai lesinato un pubblico in tumulto. Ci sono dodici persone ad ascoltare, è tempo ormai di cominciare. Metà è venuta perché piove, gli altri sono parenti. O Musa.

La scrittura non è romantico asservimento ai capricci dell’ispirazione, ma un atto anche aggressivo, un riscatto, una solitaria guerra dell’immaginazione, all’interno della quale il poeta gioca il ruolo di arbitro assoluto. In La gioia di scrivere36: Sopra il foglio bianco s’acquattano, pronte a balzare, lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo. In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta di cacciatori con l’occhio al mirino, pronti a correr giù per la ripida penna, a circondare la cerva, a puntare.

34

W. Szymborska, In lode di mia sorella, in Vista, p. 128. W. Szymborska, Serata d’autore, in Vista, p. 45. 36 W. Szymborska, La gioia di scrivere, in Vista, pp. 55-56. 35

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saggi

In una bella poesia, tratta dalla raccolta Gente sul ponte, dal titolo Possibilità37, una delle sue poesie insieme più programmatiche e intimistiche, come nel suo stile più autentico, afferma, con la sua solita sobrietà appassionata: Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne.

Abbiamo di fronte una poetessa saggia – al punto da misurarsi in sogno con l’Ecclesiaste, come ci racconta nel discorso pronunciato a Stoccolma in occasione del Nobel –, composta, sobria, pudica, che, sempre nel suo discorso di conferimento del Nobel, confessa la leggera vergogna che si prova nel rivelare agli altri il proprio mestiere di poeta. A parere di Szymborska solo Iosif Brodskij non provava questa vergogna, forse a causa delle vessazioni patite in gioventù. Lei, così attenta allo scarto umano, ci dice poco di sé, con quel suo incedere sghembo, indiretto. Probabilmente perché il suo io è un noi collettivo, anche se un noi fatto di tante piccole, preziose individualità, non un noi da calpestare. Nella poesia dal titolo Elogio dei sogni38, titolo che è già da solo una dichiarazione di protesta, dice, a proposito di sé, in sogno: Guido l’automobile, che mi obbedisce.

Così immaginiamo che sia una signora d’altri tempi, senza la patente di guida. E ancora, dalla stessa poesia: Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo.

37 38

W. Szymborska, Possibilità, in Gente, pp. 88-89. W. Szymborska, Elogio dei sogni, in Vista, pp. 102-103.

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biro seccate in un barattolo di plastica

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In Possibilità39 afferma anche qui con una sfilza di eufemismi: Preferisco avere sottomano ago e filo.

In Il cielo40: Miei segni particolari: incanto e disperazione.

Inutile sarà, per i curiosi, cercare ulteriori dettagli sulla vita, il carattere, l’atteggiamento di questa poetessa, che si rivela attraverso il resto del creato, con la premura di non tralasciare niente e nessuno. C’è una poesia, che si chiama La casa d’un grande uomo41 nella quale, più che in qualunque altra, Szymborska ci parla di sé, della sua vita, delle sue condizioni esistenziali, del suo paese, del suo tempo, e lo fa sempre con il suo metodo indiretto, premendo il pedale della sordina, attraverso la descrizione della casa di un grande uomo, neppure nominato, del passato. Questa è forse la sua poesia più forte, più incisiva: Hanno scritto nel marmo a lettere d’oro: Qui abitò lavorò e morì un grande uomo. Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui. Questa panchina – non toccare – l’ha scolpita lui. E – attenzione, tre gradini – entriamo dentro. Fece ancora in tempo a nascere nel momento giusto. Tutto quel che doveva passare, passò in questa casa. Non in caseggiati, non in metrature ammobiliate ma vuote, fra vicini sconosciuti, ai quindicesimi piani, dove sarebbe arduo trascinare scolari in gita. In questa stanza meditava, in questa alcova dormiva, e qui riceveva gli ospiti. 39

Cfr. nota 37. W. Szymborska, Il cielo, in Vista, pp. 183-184. 41 W. Szymborska, La casa d’un grande uomo, in Gente, pp. 36-39. 40

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saggi

Ritratti, poltrona, scrivania, pipa, mappamondo, flauto, tappetino consunto, veranda a vetri. Da qui scambiava inchini col sarto o il calzolaio che gli cucivano su misura. Non è come fotografie dentro le scatole, biro seccate in un barattolo di plastica, un vestito di serie in un armadio di serie, finestre più vicine alle nuvole che alla gente. Felice? Infelice? Non di questo si tratta. Ancora si confidava nelle lettere, senza il pensiero che le avrebbero aperte. Teneva ancora un diario puntuale e sincero, senza paura d’una perquisizione. Più di tutto lo inquietava il passaggio d’una cometa. La fine del mondo era solo nelle mani di Dio. Riuscì ancora a morire non in ospedale, dietro un chissà quale paravento bianco. Con ancora accanto qualcuno che ricordò le parole del suo borbottio. Era come se gli fosse toccata una vita riutilizzabile: mandava a rilegare i libri, non cancellava dal taccuino i nomi dei morti. E gli alberi che piantava dietro la casa gli crescevano ancora come juglans regia e quercus rubra e ulmus e larix e fraxinus excelsior. (2001)

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La nostalgia del dolore (i Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning)

I love thee with the passion put to use In my old griefs, and with my childwood’s faith1. Elizabeth Barrett Browning

All’epoca della stesura di questi versi, capolavoro all’interno della sua opera e della poesia di ogni tempo, Elizabeth Barrett aveva quarant’anni, e era in procinto di fuggire dalla sua casa, dalle amorevoli cure paterne, morbosamente possessive, che l’avevano tenuta in un’immobilità di finta malata, attorno alla quale invisibili tele erano state intessute, per rafforzare la sua reclusione. Le reti, le catene della prigionia e dell’abitudine si stavano trasformando in legame amoroso. Il poeta Robert Browning, infatti, a seguito della pubblicazione di un libro di versi di lei, il suo secondo importante, aveva scritto alla poetessa, già circondata all’epoca da un’aura leggendaria, e aveva così aperto un varco nella sua solitudine. Alla lettera era seguita una risposta, e a questa un’altra lettera; la corrispondenza s’era infittita, e i due avevano stabilito d’incontrarsi. Dal 1844, anno della pubblicazione del volume e della loro conoscenza, erano trascorsi due anni, durante i quali gli amanti avevano instaurato una confidenza più epistolare che fisica. I Sonetti dal portoghese furono scritti nel 1846, e completati due giorni prima delle nozze segrete col poeta. Elizabeth Barrett aveva voluto comporre, nell’ultimo periodo di una lunghissima fanciullezza, all’ombra delle sue pareti, prima di spiccare il volo verso la libertà, un corredo diaristico che ha anche il sapore di un 1 «Ti amo con la passione che metto nei vecchi dolori, / e con la fede dell’infanzia» (Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese, trad. it. di Francesco Dalessandro, postfazione di Annelisa Alleva, Il Labirinto, Roma 2000, pp. 92-93, XLIII sonetto).

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saggi

testamento, rielaborando il felice periodo della conoscenza epistolare. Probabilmente presentiva che quel loro delicato squilibrio di confidenza era destinato a rovesciarsi, e infatti osò infilare furtivamente nella tasca del marito i quarantaquattro piccoli fogli, che contenevano altrettanti sonetti, solo tre anni dopo, una certa mattina, ormai in Italia, a Bagni di Lucca. Robert Browning si commosse nel leggerli, rivivendo l’apoteosi del loro rapporto amoroso. Le suggerì d’intitolarli Sonetti dal portoghese, con una tenue finzione, in omaggio a una ballata di lei d’ispirazione portoghese che aveva particolarmente amato, Catarina to Camoens. Lei avrebbe preferito chiamarli Sonetti dal bosniaco, ma gli diede ascolto, e i sonetti furono pubblicati un anno dopo, nel 1850, col titolo di Robert. Tre anni dopo la morte di lei, nel 1864, Browning li definì nella lettera all’amica Julia Wedgwood «una strana, pesante corona»2. I sonetti infatti lo incoronano salvatore – l’immagine con cui si apre la corona di sonetti è quella di una creatura afferrata per i capelli, salvata in extremis – eppure, è strano, a una prima lettura, la sensazione d’infelicità che questi trasmettono fa pensare a un’amore infelice. Invece no, l’amore è felice, ricambiato; Elizabeth Barrett è felice come solo i grandi infelici possono essere, coloro che hanno dimestichezza con la morte in vita. Eppure la pesantezza c’è; pesante è definito il cuore tante volte, pesante come l’urna sepolcrale che Elettra solleva. La parola lacrime, pronunciata qui tante volte, s’intreccia come una ghirlanda al pianto, il pianto al dolore. Penetrando in questi versi, si ha l’impressione di scendere, e poi di risalire violentemente, e poi di risprofondare, proprio come deve accadere a una creatura dalle ali intorpidite. Il moto è più spesso ascensionale3: […] There’s nothing low In love, when love the lowest: meanest creatures Who love God, God accepts while loving so.

2 Maria Luisa Giartosio de Courten, BA (Elisabetta Barrett Browning), Sansoni, Firenze 1942, p. 302. 3 «[…] Niente è basso in amore, / pur amando l’infimo. Le più misere / creature che lo amano / Dio che lo amino / accetta. […]» (E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese, cit., pp. 26-27, X sonetto).

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la nostalgia del dolore

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Più avanti Elizabeth Barrett scrive a proposito del suo cuore4: […] Then thou didst bid me bring And let it drop adown thy calmly great Deep being! Fast it sinketh, as a thing Which its own nature does precipitate, While thine doth close above it, mediating Betwixt the stars and the unaccomplished fate.

Nella poesia di Elizabeth Barrett gli estremi sono sempre presenti: non c’è caduta senza stelle, non c’è salita vertiginosa di amore senza dolore. Sta vivendo un momento decisivo e, come succede sempre nelle tappe fondamentali dell’esistenza, sente rivivere dentro di sé tutto il passato in un istante, al pari di certi personaggi di Tolstoj in punto di morte; non può dimenticare la fila sterminata di giorni senza un barlume di luce, giorni in monotona sequenza: quelli, sì, orizzontali. Rappresenta se stessa circondata dalla polvere, in un paesaggio cupo popolato di animali notturni, simbolicamente povera, a contrasto con la lucente mondanità di lui, avvolto dalla porpora, nell’oro, fra gli angeli, sul trono delle altitudini celesti. Se deve consegnarsi a lui completamente, come ha scelto di fare, non può non confessargli tutto il dolore vissuto. È questa la sua dote. Nei versi si avverte uno sforzo sostitutivo, la lacerazione di un velo che lei preferiva tenesse celato il mistero; è lacerante, infatti, anche sostituire Dio con l’amato, sostituire la forza ravvicinante, traumatica dell’amore con quella lungimirante, astratta, ferma per la contemplazione, della distanza, alla quale lei non è capace di rinunciare5: […] But I look on thee – on thee – Beholding, besides love, the end of love, 4 «[…] Poi, tu m’ordinasti di prenderlo e calarlo / nella profonda quiete del tuo essere: / rapido affondò, come una cosa fatta / per precipitare, mentre il tuo lo ricopriva, / mettendosi tra le stelle e un destino incompiuto» (E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese, cit., pp. 56-57, XXV sonetto). 5 «[…] Invece a te / io guardo, a te, vedendo con l’amore / la fine dell’amore, e al di là della memoria / ascoltando l’oblio; come chi in alto / sieda e fissi, oltre i fiumi, il mare amaro» (E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese cit., pp. 36-37, XV sonetto).

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saggi

Hearing oblivion beyond memory! As one who sits and gazes from above, Over the rivers to the bitter sea.

Probabilmente l’attrazione che Robert Browning dovette sentire per Elizabeth Barrett fu proprio quella per la sofferenza. Anni dopo la morte di lei scrisse all’amica Isa Blagden, in un momento di confidenza6: L’impressione generale del passato è come di sofferenza. Non vorrei riviverlo, neppure un giorno. Eppure tutto quello sembra la mia vita, quando riguardo lì: e la vita è sofferenza. Lo penso sempre, quando rileggo l’Odissea. Omero fa dire ai Greci sopravvissuti, ogni volta che accennano a Troia: “Troia, dove i Greci soffrirono tanto”. Eppure tutta la loro vita era stata in quei dieci anni a Troia.

Un critico ottocentesco, Henry J. Langley, recensendo il volume di Elizabeth Barrett The Drama of Exile, and other Poems sul «Broadway Journal», scrisse che il libro era one flame, un’unica fiamma. Questi sonetti ricordano un petto umano radiografato quarantaquattro volte. Un petto umano che si sforza finalmente di respirare, perché qualcuno glielo chiede. Un respiro che si sforza di essere pieno, profondo, per prendere una boccata d’ossigeno. Quarantaquattro tentativi fissati dal bagliore di una radiazione. I sonetti registrano il miracolo del progressivo scambio amoroso, fatto, come vuole la tradizione ottocentesca, di lettere, ciocche di capelli, sfioramento di mani, baci che salgono e scendono: dalla mano alla fronte, dalla fronte alle labbra. La perenne, instancabile ricerca dell’altro, della corrispondenza amorosa, la definizione di sé attraverso il contrasto con lui rendono questi versi abbondanti di specchi, contrapposizioni simmetriche, forme dialogate, invocazioni. L’ossessione del motivo dell’altro è paragonabile al prezioso arabesco di una tappezzeria. Il dono diventa pretesto di racconto. Così al sonetto XVIII, in cui l’offerta di una ciocca di capelli all’amato diventa per lei occasione di attraversare di volata infanzia, giovinezza, sua morte presunta e quella reale della madre, fa 6

M. L. Giartosio de Courten, BA (Elisabetta Barrett Browning), cit., p. 509.

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la nostalgia del dolore

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seguito il XIX, in cui lui fa dono di un suo ricciolo all’amata. La magica evocazione di Venezia come luogo dello spirito, ma forse anche come desiderio di pura evasione, è presente in Venice-glass del IX sonetto, e ripetuta nel geniale The soul’s Rialto del XIX. Così come il contenuto dei versi di Elizabeth Barrett Browning oscilla fra nostalgia del passato e nostalgia del futuro, allo stesso modo autori del passato e del futuro fanno capolino in queste righe. Chiari echi biblici rimandano soprattutto ai Salmi e al Cantico dei Cantici; c’è un accenno iniziale ai versi di Teocrito ne Le Siracusane, al primo canto dell’Iliade, accenni all’Elettra di Sofocle, ma anche quanta rarefatta atmosfera dickinsoniana! Le due poetesse hanno tanti luoghi e soggetti in comune; il loro mondo è ugualmente abitato da re, api, rugiada; entrambe spostano la topografia su un piano metaforico, e danno ai colori il nome delle gemme: rubino, ametista. Entrambe rese sapienti dalla visione ascetica pagata con la reclusione, entrambe morte prima di conoscere la vecchiaia. Al loro confronto il mondo dell’antichità greca, gremito di mostri e di dei, pur nella tragedia, appare quasi rassicurante. Ma la ricerca dell’Assoluto e la proiezione verso l’eternità possono giocare di questi scherzi. (2000)

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Anni d’infanzia di Bagrov nipote di Sergej Aksakov

Dove sono bambini, là è l’età dell’oro. Novalis

Il romanzo di Sergej Aksakov Anni d’infanzia di Bagrov nipote1, scritto nel 1857 e pubblicato in Russia nel 1858, costituisce la seconda parte di una trilogia. Nella prima parte, Cronaca di famiglia2 (1856), Aksakov racconta la storia dei nonni paterni e descrive il difficile incontro fra il padre e la madre; il romanzo si chiude con la nascita del piccolo Sereža, l’autore. In Anni d’infanzia la vita di Sereža è seguita passo dopo passo dai primissimi ricordi fino agli otto anni d’età; nella terza parte, Ricordi, non ancora pubblicata in italiano, Aksakov descrive il suo tormentoso distacco dalla madre, quando viene affidato a un collegio di Kazan’, e la sua vita da studente fino al 1807, anno in cui prende congedo dall’università. La parte centrale della trilogia spetta a Anni d’infanzia, e rispecchia il punto di vista dell’autore sull’infanzia, da lui considerata l’età dell’oro della vita. I tre racconti d’esordio di Tolstoj, Infanzia, Adolescenza e Giovinezza, pubblicati rispettivamente nel 1852, nel 1854 e nel 1857, cioè i primi due poco tempo prima, e l’ultimo poco dopo Cronaca di famiglia di Aksakov, affrontano lo stesso argomento, ma con spirito totalmente diverso. Per Tolstoj poco più che ventenne i racconti rappresentavano infatti il primo allontanamento dal genere diaristico da parte di 1

Sergej T. Aksakov, Detskie gody Bagrova-vnuka [Anni d’infanzia di Bagrov nipote], in Id., Sobranie sočinenij v trech tomach [Opere complete in tre volumi], Chud. Lit., Moskva 1986; Anni d’infanzia, trad. it. di Paola Giuriati, introduzione di Annelisa Alleva, Arcana, Milano 1990. 2 Sergej T. Aksakov, Cronaca di famiglia, trad. it. di Angelo Maria Ripellino, con un saggio di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1984.

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saggi

un giovane che stava appena uscendo dall’infanzia e dall’adolescenza. I tre stadi sono visti come evoluzione, crescita della personalità e quindi della coscienza. Aksakov, al contrario, non guarda alla vita come al progressivo affinamento dell’introspezione, ma come a qualcosa che nell’infanzia ha il proprio momento sacro e nelle età successive cerca di preservare quella purezza originaria. A questo scopo si serve della memoria, una memoria implacabile: i ricordi sembrano privi d’invenzione al punto da restituire il miracolo della vita. Eppure nelle prime righe dell’introduzione Aksakov avvisa3: «Non lo so neanch’io: si può credere completamente a tutto quello che la mia memoria ha conservato?». La memoria pervade di luce queste pagine, dettate dallo scrittore sessantaseienne semicieco alla figlia Vera Sergeevna. Il libro è dedicato alla nipotina Ol’ga Grigor’evna Aksakova e nasceva, nelle prime intenzioni dell’autore, come «la storia di un bambino, scritta per i bambini»4. Fra le carte dello scrittore è stato ritrovato un appunto interessante, che probabilmente doveva essere la minuta di una lettera a un destinatario sconosciuto5: Ho un segreto proposito, che da tempo mi prende giorno e notte, ma Dio non mi dà senno e ispirazione per realizzarlo. Desidero scrivere un libro per bambini che non abbia precedenti in letteratura. Ho tentato molte volte, e poi lasciato perdere. L’idea c’è, ma la realizzazione non è all’altezza dell’idea. Un libro simile farebbe sì che tutta la Russia colta conservi a lungo un ricordo grato di me… Il segreto consiste nel fatto che dev’essere scritto senza ipocrisie per i bambini, ma come se fosse per gli adulti, in modo che non solo non ci siano precetti morali (che non piacciono ai bambini), ma neppure un accenno a un’impostazione moraleggiante, e che il risultato sia supremamente artistico.

Il risultato non fu un libro per bambini. Memoria e immaginazione, che all’inizio sembravano paralizzarsi a vicenda, riuscirono poi a congiungersi indissolubilmente. Immaginazione e 3 S. T. Aksakov, Detskie gody Bagrova-vnuka, cit., vol. I., Vstuplenie [Introduzione], p. 225; trad. it. Anni d’infanzia, cit., p. 3. 4 Michail Čvanov, Dobryj volšebnik [Il mago buono], nella prefazione a Sergej T. Aksakov, Detskie gody Bagrova-vnuka, Baškirskoe knižnoe izdatel’stvo, Ufa 1977, p. 9. 5 M. Čvanov, Dobryj volšebnik [Il mago buono], cit., p. 12.

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«anni d’infanzia di bagrov nipote»

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memoria rappresentano infatti il dritto e il rovescio di una stessa astrazione: che cos’è la memoria se non la ripetizione attraverso le immagini di un episodio vissuto? Entrambe hanno a che fare con la conservazione di sé, entrambe hanno a che fare con la realtà e da questa si tengono al riparo: l’immaginazione spesso è rivolta al futuro, la memoria al passato. Aksakov invece le congiunge per ricostruire il suo passato. Lo scrittore accenna in Anni d’infanzia al fatto che la madre di Sereža Bagrov a volte si sorprendesse della sua «ardente immaginazione»6. Dopo aver letto le fiabe di Sheherazade, il piccolo, con grande eccitazione, ne raccontava il contenuto alla sorellina e alla zia, senza rendersi conto di integrare le fiabe «con molti particolari di mia invenzione e parlavo di quanto avevo letto come se fossi stato presente e avessi visto tutto». Per Aksakov l’infanzia era l’età mitica dell’uomo, e quindi per eccellenza l’età dell’immaginazione; lui stesso la definì «il mondo fatato, la Sheherazade della vita umana». Arrivato ormai alla conclusione della propria vita, desidera lasciare degne tracce di sé. Sogna di essere ricordato, e proprio questa fantasticheria, punto d’incrocio fra passato e futuro, lo assorbe nella scrittura. La fiaba Il fiorellino scarlatto, che Aksakov aggiunge a Anni d’infanzia, conclude il romanzo e allo stesso tempo ne offre una chiave di lettura. Alla pretesa realtà dei ricordi d’infanzia viene unita in appendice la fiaba che la dispensiera Pelageja usava raccontargli, arricchita dall’autore di nuovi particolari. E scriveva a suo figlio Ivan7: Adesso mi sto occupando di un frammento che entrerà nel mio libro: sto scrivendo una fiaba che da bambino conoscevo a memoria e che raccontavo sempre per divertimento, con tutte le arguzie della favolista Pelageja. Me ne ero completamente dimenticato; ma adesso, rovistando nella soffitta dei ricordi infantili, ho trovato in un mare di vecchie cose un mucchio di frammenti di questa fiaba, e, poiché entrerà a far parte dei Racconti del nonno, mi sono deciso a ricomporla.

6 Questa e le altre brevi citazioni seguenti sono tratte da S. T. Aksakov, Detskie gody Bagrova-vnuka, in Id., Sobranie sočinenij v trech tomach, cit., pp. 377-381; trad. it. Anni d’infanzia, cit., pp. 240-244. 7 Ivan Sergeevič Aksakov v ego pis’mach [Ivan S. Aksakov nelle sue lettere], vol. III, Moskva 1892, p. 341.

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saggi

Stampata autonomamente in edizioni per bambini, e spesso rappresentatata a teatro, la fiaba è una versione russa rivisitata de La Bella e la Bestia. La Bestia, il mostro, incarna il sentimento dell’amore; intorno a questa figura si alternano sacrificio, coraggio, pietà, paura, gratitudine dell’eroina come sue sfaccettature. Anche l’amore filiale, la nostalgia per la casa paterna hanno un ruolo importante in questa versione della fiaba; non è casuale, infatti, che Aksakov, amante della vita patriarcale, abbia scelto proprio questa e nessun’altra, per darle una lingua e un ritmo narrativo di carezzevole russità. Il piccolo, irraggiungibile fiorellino, rosso scarlatto come la passione e il sangue, che la protagonista chiede in dono al padre, ricco mercante, rappresenta la mercanzia dallo scambio impossibile. Il padre accontenta la figlia, ma il fiorellino si rivelerà un pegno ben più serio di un capriccio: la figlia in cambio dovrà salvare il padre allontanandosi da casa, e salverà anche il mostro. La mostruosità simboleggia l’attrazione e la repulsione nei confronti dell’estraneo, dello straniero, del perturbante. Aksakov descrive la continuità dell’amore, che si trasmette di padre in figlio e che, destinato a riversarsi su un estraneo, lo rende familiare. Questo desiderio di beata continuità è stato magistralmente espresso da Ivan Gončarov ne Il sogno di Oblomov, scritto nel 1849, primo embrione del romanzo, che invece fu concluso e pubblicato con il titolo Oblomov8 nel 1859. Questo primo nucleo, con lo stesso titolo, diventò nella stesura definitiva il nono capitolo del romanzo, che uscì solo un anno dopo Anni d’infanzia. Nel sogno Gončarov descrive il meraviglioso, «benedetto angolo della terra»9 dove il protagonista ha trascorso l’infanzia. In questo placido cantuccio niente sembra mutare nel tempo, niente accade, «e non si sarebbe stampata mai una parola su questo paese se la contadina vedova Marina Kulkova di ventotto 8

Ivan A. Gončarov, Oblomov, izd-vo Chud. Lit., Moskva 1969. Ivan A. Gončarov, Oblòmov, trad. it. di Ettore Lo Gatto, Einaudi, Torino 1941, p. 99: «Dove siamo? In quale benedetto angolo della terra ci ha portati il sogno di Oblòmov? Quale paese meraviglioso! Non c’è, è vero, il mare qui, non ci sono alte montagne, rocce ed abissi, né foreste vergini: niente di grandioso, di selvaggio e di cupo». 9

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«anni d’infanzia di bagrov nipote»

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anni non avesse partorito quattro bambini in una volta, cosa che non era possibile passare sotto silenzio»10. In questo paese pacificamente ignorato e ignorante il bambino Il’ja Il’ič, di sette anni, ogni mattina riceve le stesse carezze e gli stessi baci dalla mamma, le stesse trepide cure. A Oblomovka, prima dei giorni di festa, le oche sono costrette a stare appese in una borsa, private di qualsiasi possibilità di movimento, perché s’ingrassino11. Quali provviste di conserve dolci e salate, quali marmellate! Che miele, che kvas veniva preparato, quali torte venivano infornate in Oblòmovka!

Questo mondo assomiglia ai regni descritti nelle fiabe, e il piccolo Il’ja Il’ič ne ascolta tante dalla tata, così tante che l’adulto nel sogno vede se stesso bambino intento a ascoltarle una sera d’inverno. L’assenza del tempo e degli affanni quotidiani nell’infanzia paralizzano, però, la volontà di Oblomov adulto di fronte alla realtà12. Sebbene l’adulto Il’ja Il’ič avesse poi saputo che non esistono fiumi di latte e miele, che non esistono le fate, sebbene sorridesse ai racconti della tata, questo sorriso non appariva sincero e era accompagnato da un sospiro segreto: la favola si era fusa per lui con la vita e lui inconsciamente si rattristava che la favola non fosse vita e la vita non fosse favola.

Alle soglie dell’abrogazione della servitù della gleba, avvenuta nel 1862-63, la classe dei proprietari, seppure piccoli proprietari, rifletteva in letteratura il sentore di cambiamento che si avvertiva nell’aria. Anche i vasti territori intatti, i fiumi traboccanti di pesce e le radure di selvaggina descritti in Anni d’infanzia, si possono paragonare a un sogno dilatato e dettagliato, a un’utopia dalla quale è arduo staccarsi. Ma sebbene il personaggio Aksakov fosse paragonato a Oblomov dai contemporanei, se ne differenzia nettamente, perché non ebbe mai il rammarico di accorgersi che la vita non coincide con il mondo fiabesco dell’infanzia. Per Aksakov la vita adulta è una semplice prosecuzione di questa, così come la realtà è intrecciata all’immaginazione. Con Anni d’infan10

Ivi, p. 102. Ivi, p. 112. 12 Ivi, p. 118. 11

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zia sembra voler dire: ricordo tutto, anche se sono trascorsi molti anni, e la freschezza dei miei ricordi testimonia il fatto che io nel frattempo non sono cambiato, sono lo stesso di allora. Questo messaggio s’impone come la cifra di un’intera esistenza. Il più proustiano fra i russi, Aksakov ricerca nella memoria il tempo perduto e tenta di restituirlo nel modo più integro possibile; il suo morboso attaccamento alla madre – descritto in Ricordi, terza parte della trilogia – non è da meno di quello del «lupacchiotto» della Recherche; a differenza di Proust, però, Aksakov non rianalizza tutto alla fredda luce del presente, con la distanza altera, il raziocinio e insieme con lo strazio che le trasformazioni del tempo conferiscono al passato. Il russo vezzeggia la sua infanzia da vecchio; sembra considerarla un tempo senza tempo, fuori dal tempo, un tempo vicino all’eternità, come vicina all’eternità è anche la vecchiaia. Il fatto che l’autore nella prefazione avanzi un dubbio sulla veridicità dei fatti narrati contribuisce a renderne incerta la fonte, e quindi a mitizzare il racconto, facendolo nebuloso e più antico di quanto non sia, come se fosse stato tramandato oralmente e avesse subito nel corso del tempo modifiche o aggiunte. Anche nella presentazione ai lettori Aksakov dice di aver narrato i fatti in prima persona per mantenere «la vivacità del racconto orale»13, ma tiene a precisare che è stato il nipote di Stepan Michajlovič Bagrov a raccontargli la storia dei suoi anni d’infanzia. Nella Storia della letteratura russa il principe Mirskij scrive che, all’interno di Anni d’infanzia14: i passaggi più memorabili sono forse quelli dedicati alla natura, come la meravigliosa descrizione della primavera nella steppa.

Infanzia e natura sono strettamente legate. Oltre al già citato sogno di Oblomov di Gončarov, su questo tema vengono in mente, per esempio, il racconto lungo La steppa di Čechov, del 1888: L’infanzia di Ženja Ljuvers di Boris Pasternak, del 1918; La vita di Arse13

S. T. Aksakov, Ai lettori, in Id., Anni d’infanzia, cit., p. 1. Dimitrij P. Mirskij, Aksakov, in Storia della letteratura russa, trad. it. di Silvo Bernardini, Garzanti, Milano 1995, p. 160. 14

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«anni d’infanzia di bagrov nipote»

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n’ev di Ivan Bunin, del 1930; così, pure, tanti film, fra i quali citerei L’infanzia di Ivan e Lo specchio, entrambi di Andrej Tarkovskij. Così come i bambini vivono in un tempo diverso da quello degli adulti, la natura vive in un tempo ciclico, incosciente. I bambini vengono cresciuti dai servi, ex contadini – a questo proposito vale la pena di ricordare la figura di Evseič, il precettore di Sereža Bagrov, il cui carattere è tratteggiato magistralmente da Aksakov, e che ricorda Savel’ič de La figlia del capitano di Puškin. I contadini, nei campi, porgono senza complimenti la falce ai figli dei signori, per farli divertire e lavorare. Sappiamo quanto la njanja, la tata, sia importante nella letteratura russa: è lei che trasmette ai bambini le tradizioni popolari attraverso le fiabe, leggende e credenze. Contadini e bambini sono creature semplici, naturali, e quindi predilette da Dio. La descrizione del mondo interiore di un bambino è uno dei compiti più difficili in arte. Nella letteratura europea del Settecento i bambini venivano rappresentati come «piccoli adulti». L’apparizione di David Copperfield (1849-1850) segnò l’inizio di una nuova epoca: Dickens fu il primo a saper mostrare nel bambino un mondo interiore totalmente autonomo, dotato di una sua complessità. Nella vita di Aksakov ebbe un ruolo importante l’amicizia con Gogol’, che durò dal 1832 al 1843, e che Aksakov descrive attraverso la loro corrispondenza nella Storia della mia conoscenza con Gogol’15. Gogol’ fu presentato a Aksakov quando era poco più che un giovane scrittore promettente. Verso di lui Aksakov aveva un atteggiamento affettuoso e protettivo: sembrava vezzeggiarlo, e lo aveva accolto nella sua ospitalissima casa dove Gogol’ gli si era presentato vestito da provinciale. Se nella Storia Gogol’ ci viene restituito in modo oggettivo, dall’amico cronista che osserva senza interpretare né giudicare, in Anni d’infanzia la realtà è consegnata generosamente al lettore, affinché questi possa arricchire la sua conoscenza del mondo russo – flora e fauna del paese, rapporti fra servi e padroni alla fine del Settecento – di particolari fino allora sconosciuti. 15 S. T. Aksakov, Istorija moego znakomstva s Gogolem, in Id., Sobranie sočinenij v trech tomach [Opere complete in tre volumi], cit., vol. III, pp. 5-248.

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saggi

La lingua di Aksakov, resa bene dalla traduzione di Paola Giuriati, è una lezione di prosa letteraria: riecheggia quella dei classici greci, degli autori russi settecenteschi, da Cheraskov a Sumarokov; è molto sobria nella scelta dei mezzi descrittivi, racconta in modo accattivante gli eventi più comuni. Aksakov apprezzava in Turgenev la misura; riprendeva da Puškin la trasparenza della frase, da Gogol’ la passione per le digressioni liriche e per le incursioni dirette dell’autore nel testo. Il tono della narrazione all’interno del romanzo ha il respiro ampio dell’epos, con descrizioni di caccia e pesca, di eventi naturali; il lessico a volte è arcaico, a volte colorito da espressioni regionali. Il ritmo sembra imitare l’ambio, il passo, il trotto, il galoppo dei cavalli, dai quali Aksakov si lasciava trasportare volentieri e che avevano avuto su di lui un effetto rassicurante e calmante fin dalla sua età dell’oro. (1990)

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La poesia Elegia di Iosif Brodskij

Nella poesia Elegia1, scritta da Brodskij nel 1985, tutto si fonda sui contrasti di tempo, sui contrasti di luce, sui contrasti dello stato d’animo dell’autore. All’interno della poesia è presente una quantità di termini legati al tempo in genere, e alla scansione del giorno in particolare: «anno», «imbrunire», «mattina», «mezzogiorno»; gli avverbi: «ora», «di continuo», «un giorno». Nel corso del giorno a seconda della luce tutto cambia, subisce una metamorfosi intorno all’autore. Anche la scritta sul monumento al conquistatore – e probabilmente qui Brodskij si riferisce al monumento veneziano a Bartolomeo Colleoni – si legge diversamente a seconda dell’ora del giorno. Nella poesia il sostantivo «Zavoevatel’», conquistatore, scritto con la lettera maiuscola, si trasforma, con una forte assonanza impossibile da ricreare in italiano, in «zavyvatel’», letteralmente lamentatore, o anche ululatore2 scritto con la lettera minuscola, e poi, ancora, più tardi, «a mezzogiorno», in «zabyvatel’», dimenticatore. 1

Iosif Brodskij, Elegija, in Id., Uranija, in Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], izd-vo Puškinskogo doma, izd-vo «Vita Nova», Sankt-Peterburg 2011, vol. 2, p. 110. La poesia Elegia di Iosif Brodskij – qui presente nella traduzione italiana alle pp. 283-284 di questo volume – è stata pubblicata insieme con un gruppo di altre e con il saggio Iosif Brodskij. La luce. Il monumento e la statua. La cosa. sulla rivista «Smerilliana», nn. 78, 2007, pp. 223-307, e prima era inedita in italiano. Per le tre parole finali, pressoché intraducibili in italiano, dalla fortissima assonanza: «Zavoevatel’», «zavyvatel’» «zabyvatel’», Brodskij, autore della traduzione in inglese di questa sua poesia nel volume Collected Poems, FSG, New York 2000, p. 319, trova la soluzione: «“Commander / in chief”. But it reads “in grief”, or “in brief”, or “in going under”». Da qui in avanti le traduzioni dal russo sono di Annelisa Alleva, a meno che non sia indicato diversamente. 2 In Montale, poeta che Brodskij amava e al quale dedicò il saggio All’ombra di Dante (tradotto da G. Forti in italiano ne Il canto del pendolo, Adelphi, Milano 1987, pp. 41-58), «l’ululo» è presente nella poesia Ballata scritta in una clinica (E. Montale, L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, pp. 209-210), là dove scrive nel finale: «[…] e poi l’ululo / del cane di legno è il mio, muto».

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saggi

Con grande maestria poetica Brodskij descrive i mutamenti del suo stato d’animo usando un lessico emozionalmente colorito. «Lamentatore», oltre al famoso condottiero Bartolomeo Colleoni, al quale potrebbe riferirsi in questa poesia di ambientazione veneziana, e che perse la giovane figlia, seppellita nella Cappella Colleoni a Bergamo, era anche, forse, lo stesso Brodskij. In questo modo il poeta s’identifica con il condottiero, in onore del quale fu eretto un monumento equestre. In russo il sostantivo «voj», dal quale deriva l’altro, «zavyvatel’» (il lamentatore), ha fondamentalmente tre significati3: 1) Suono persistente, prolungato, emesso da diversi animali (lupo, cane, sciacallo, ecc.); ululato; 2) Pianto a voce alta, prolungato. Suoni prolungati, mesti. 3) Protesta rumorosa, malcontento espresso a voce alta, rivolta. Forse non è un caso che il sostantivo «voj» e il verbo «zavyvat’» ricorrano spesso nella sua poesia, fin dall’inizio. Per esempio nella poesia Stichi pod epigrafom [Versi con epigrafe], scritta nel 19584: I my zavoem ot ran. E noi urleremo dalle ferite.

Oppure nel verso di una poesia più matura5: Pozvoljal svoim svjazkam vse zvuki, pomimo voja Ho permesso alle mie corde tutti i suoni, salvo il lamento, 3 AA.VV., Bol’ šoj tolkovyj slovar’ russkogo jazyka [Grande dizionario interpretativo della lingua russa], Accademia Russa delle Scienze, Norint, Sankt-Peterburg 2004, p. 145. 4 I. Brodskij, Stichi pod epigrafom [Versi con epigrafe] in Id., Ostanovka v pustyne [Fermata nel deserto], in Stichotvorenija i poemy, cit., vol. I, p. 148. Le evidenziazioni delle parole, qui e oltre, sono dell’autrice. Trad. it. L’intruso: Versi con epigrafe, a cura di Annelisa Alleva, con commento e biografia di IB, su «Alfalibri», supplemento mensile di «alfabeta 2», n. 15, dicembre 2011. 5 I. Brodskij, Ja vchodil vmesto dikogo zverja v kletku, [Sono entrato al posto di una belva in gabbia,] in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 104.

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la poesia «elegia» di iosif brodskij

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o, all’inizio di un’altra poesia6: Nevažno čto bylo vokrug, i nevažno, čem tam purga zavyvala protjažno, Non importa intorno che cosa c’era, né che cosa ululasse a lungo la bufera,

Il sostantivo «conquistatore» è legato alle azioni militari. All’interno di Elegia è associato a numerosi altri termini militari: «tenzone», «bronzo», «armatura», «riserve», «stendardi», e alla forma verbale «ci scontreremo». «Conquistatore», però, significa anche rubacuori, dongiovanni. Nella poesia è presente anche questo significato. Nel Dizionario italiano dei sinonimi e dei contrari il sostantivo «conquistatore» entra nel novero della seguente serie associativa: «invasore, soggiogatore, trionfatore, vincitore, usurpatore, tiranno // fortunato con le donne, in amore»7. Vittorie e sconfitte sul fronte personale sono mescolate a dettagli disparati, rimasti nella memoria dell’autore come trofei metonimici delle sue battaglie amorose: «le spoglie delle tue caviglie». L’autore preferiva in questa poesia proprio la seconda strofa, dove si parla delle caviglie. Lo dice al poeta Evgenij Rejn, citandola dopo aver recitato la poesia nel film-intervista girato a Venezia nel 19938. «Qui ora», scrive l’autore con un fondo di amarezza, «trafficano spoglie delle tue caviglie, armature / abbronzate, […]». In questi versi l’autore pensa al bronzo come materiale di cui è fatto il monumento, ma parla anche della pelle abbronzata d’estate, «bronzoj / zagorelych dospechov». Anche la combinazione ossimorica del «sorriso spento» (pogasšej ulybkoj) è legata alla luce, questa volta degli occhi, ma 6 I. Brodskij, Nevažno, čto bylo vokrug, i nevažno [Non importa intorno che cosa c’era, e non importa] in Id., Pejzaž s navodneniem [Paesaggio con inondazione], in Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], cit., vol. 2, p. 153. 7 A. Gabrielli, Dizionario dei sinonimi e dei contrari, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1979, p. 186. 8 Progulki s Brodskim I e II, a cura di Elena Jakovič, Aleksej S ˇ isˇov e Evgenij Rejn, Dokumental’nyj, Rossija 1993 e 2004.

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saggi

in questo caso in senso negativo, perché il sorriso ne è privo. Subito dopo Brodskij scrive: «il terribile pensiero / delle riserve fresche, la memoria degli inganni, / l’impressione di molti corpi su stendardi candidi». L’aggettivo «terribile», «groznyj», in russo richiama alla mente Ivan Groznyj, Ivan il Terribile, un altro conquistatore. Quale significato si cela dietro «il terribile pensiero / delle riserve fresche»? Di nuovo, penso, un doppio significato. Quello delle riserve militari mandate a morire per servire gli interessi militari di altri, e anche quello di corpi giovani femminili usati solo fisicamente, per soddisfare il proprio piacere. I corpi rimandano all’idea delle vittime di guerra e all’idea erotica di un corpo nudo. Questo pensiero cinico, l’utilizzazione seriale di molti corpi, appare spaventosa anche all’autore. Entrambe, l’idea eroica e quella erotica, quest’ultima spogliata del suo contenuto estetico perché frammentata in modo feticistico, suggeriscono immagini di sacrificio, di morte. A questo elenco enigmatico si aggiunge in questi versi la più astratta «memoria d’infedeltà». Nelle sue poesie ricorre spesso il tema delle sofferenze amorose. In Postfazione9, per esempio, l’autore nella seconda strofa parla della «menzogna di una donna», mentre nella Canzone amorosa di Ivanov10 scrive: La mia fidanzata s’innamorò del mio amico. Quando lo seppi, per poco non li ammazzo. Ma il Codice è severo. Il merito mio fu che ressi il colpo. Certo, bevvi un sacco.

Nei versi di Brodskij si avverte una certa diffidenza nei confronti della donna in genere, la paura che questa possa tradirlo. Così, per esempio, nella poesia Aria11 scrive: È una donna rara se non farà peccato.

9

I. Brodskij, Posleslovie [Postfazione], in Id., Uranija, cit., vol. 2, pp. 108-109. I. Brodskij, Ljubovnaja pesnja Ivanova [Canzone d’amore di Ivanov], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 178. 11 I. Brodskij, Arija [Aria], in Id., Uranija, cit., vol. 2, pp. 66-67. 10

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la poesia «elegia» di iosif brodskij

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In Elegia Brodskij colloca i corpi, di nuovo con un doppio senso militaresco/sessuale, «su stendardi candidi», come se giacessero su lenzuola pulite. Più avanti il poeta osserva: «e la differenza fra cuore e fossa / non è grande – non al punto da aver paura / che un giorno, come uova cieche, ci scontreremo ancora». Anche qui il cuore ha un significato ambivalente: il cuore costituiva per Brodskij, come per tutti, la sede dei sentimenti, ma anche una fonte costante di preoccupazione, perché era gravemente cardiopatico. La paura di un rincontro, a cui fa qui riferimento Brodskij, per associazione è anche quella perenne dei venditori ambulanti di essere minacciati dal temperino dei loro rivali, o sorpresi come abusivi dalle guardie. Infine compare l’immagine delle uova cieche, cioè dei visi oltre la vita, senza più lineamenti, che si contrappongono all’espressione idiomatica «quando non ti guarda in faccia nessuno». Quello che i morti avrebbero in comune con i vivi è lo scontro, l’atteggiamento battagliero che avevano in vita. L’aggettivo «fresco», in russo «svežij», sia in russo che in italiano si può attribuire sia alla carne («le riserve fresche»), sia alla biancheria («gli stendardi candidi»), sia alle uova («le uova cieche»). L’ultima immagine, oltre a richiamare in noi il gioco del biliardo, e lo schiocco prodotto dalle palle che si scontrano per un colpo di stecca e schizzano subito dopo in direzioni opposte, ha un afflato metafisico. «Voir tout, même l’homme, en tant que chose»12, scriveva Giorgio de Chirico. Le uova che si scontrano di Brodskij richiamano alla mente la mitologica coppia di Ettore e Andromaca in un dipinto di de Chirico del 192313, dove i due eroi-manichini, privi di lineamenti, ridotti a cose, reclinano invece teneramente la testa uno verso l’altra. Anche l’immagine della statua equestre in un campo veneziano ricorda molti quadri del pittore metafisico, e anche qui la luce gioca un ruolo molto importante, definendo la composizione dell’opera nel suo insieme.

12

Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, Einaudi, Torino 1985, p. 31. Paolo Baldacci (a cura di), Ettore e Andromaca, in De Chirico, Leonardo Arte, Milano 1997, p. 371. 13

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saggi

In questa poesia sono compresenti passato, presente e futuro, in tanti piani sovrapposti. Il primo passato di riferimento è quello della «tenzone». C’è un ritorno, nel presente della poesia, sugli stessi luoghi, là dove venditori ambulanti temono costantemente un atto aggressivo, cioè vivono sul chi va là, come braccati. Poi c’è «il ricordo dei tradimenti», che deve risalire a un passato più remoto non solo rispetto all’oggi, ma anche rispetto a quello della schermaglia. Un futuro comune di morte. Segue il riferimento al monumento, qualcosa che è destinato per antonomasia a restare nel tempo, ma che al poeta sembra venuto fuori «da un sonno pesante», che può essere quello della notte o della morte, «pesante» come è il metallo del monumento rispetto all’uomo a cui è dedicato. Il «Conquistatore» è anche un «lamentatore», un uomo provato, sofferente. Ma solo la mattina, cioè, letteralmente, in russo, «po utram», «le mattine», quando, in modo reiterato, Brodskij passa spesso da quelle parti. A mezzogiorno, invece, è l’obliante, il «dimenticatore». Queste tre parole sono tre microscopiche cattedrali di Rouen. Hanno come riferimento l’edificio della prima: «Zavoevatel’», e variano a seconda di come la si legge, a seconda dell’ora del giorno, cioè della luce. Mezzogiorno è l’ora egemone del peak, dello zenit, del massimo calore e della massima luce, dell’abbaglio, ma si ha l’impressione che con il procedere del giorno le parole potrebbero variare ancora, e l’elenco potrebbe continuare. Questo è solo un piccolo saggio di trasformazione, simile a quelli in cui si esibiva il Mago Merlino, quando si trasformava continuamente in mostri sempre di colore azzurro per combattere Maga Magò, che lo contrastava trasformandosi a sua volta in mostri rigorosamente rosa, in Fantasia di Walt Disney. Brodskij aveva spesso in mente, in genere, il film, anche quando entrava a visitare una chiesa, e vedeva rappresentato sulle pareti il percorso della via crucis, oppure episodi biblici. Il suo modo di girare è quello moderno: l’incipit di ogni sua poesia ti

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la poesia «elegia» di iosif brodskij

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porta impositivamente in medias res, come fanno anche i media. In Fondamenta degli incurabili14 scrive: […] Tutto questo, ovviamente, appartiene a un film di cui non ero il protagonista, e nemmeno una comparsa, a un film che per quanto ne so non gireranno mai (o, se lo faranno, la scenografia sarà tutta diversa). (2010)

14 Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, trad. it. di G. Forti, Adelphi, Milano 1989, p. 57 (in russo: Iosif Brodskij, Naberežnaja neiscelimych, in Id., Sočinenija Iosifa Brodskogo v 7 tomach [Opere di Iosif Brodskij in 7 volumi], vol. 7, Puškinskij Fond, Sankt-Peterburg 2001, p. 30).

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Tommaso Landolfi e Aleksandr Puškin

Tommaso Landolfi, nato a Pico nel 1908, e morto a Ronciglione nel 1979, oggi è considerato uno dei massimi scrittori italiani del Novecento. Tutta la sua opera è in corso di pubblicazione presso la casa editrice Adelphi, e sono in corso traduzioni dei suoi libri in russo, tedesco e francese. In vita, però, fu uno scrittore molto appartato, e quindi considerato, fino a pochi anni fa, uno splendido autore per pochi. Landolfi studiò il russo a Firenze e si laureò in Lettere, in un’epoca in cui a Firenze fiorivano i circoli letterari e c’era una vasta comunità di intellettuali russi, che lui frequentò, perfezionando la sua conoscenza della lingua. Ma non andò mai in Russia. In Italia sono note, oltre alle sue opere in prosa e in versi, le sue traduzioni dal russo. Per citare alcune fra le più importanti: i poemi, le liriche, il teatro, le fiabe e alcuni racconti di Puškin; le liriche e i poemi di Lermontov, le liriche di Tjutčev, i Racconti di Pietroburgo di Gogol’, i Ricordi dal sottosuolo di Dostoevskij, Il viaggiatore incantato di Leskov. Questi autori, com’è inevitabile, lo influenzarono. * L’influenza di Puškin nell’opera di Landolfi si sente più nei versi che nelle novelle, per le quali è più conosciuto, e nelle quali è più presente l’influenza dei grandi romanzieri russi ottocenteschi, soprattutto Gogol’ e Dostoevskij. Landolfi considerava la vita stessa di Puškin il suo capolavoro, e ne amava il senso dell’avventura. Puškin, primogenito delle lettere russe, incarnava la letteratura, e Landolfi, forse proprio per questo, provava per lui un sentimento ambivalente di attrazione e ripulsa.

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saggi

Puškin aveva sfidato le autorità con scritti compromettenti, per i quali fu più volte mandato al confino; aveva scritto forse le sue composizioni migliori nel 1830, mentre a Boldino, dove si trovava, infuriava la peste; si era battuto a duello, era stato un amante appassionato, aveva sposato una donna molto più giovane di lui, che lo condusse al duello finale per gelosia. Per Landolfi l’azzardo rappresentava uno stile di vita1, e giocava perché così aveva fatto Dostoevskij. Poi volle diventare padre, perché, secondo Dostoevskij, «i tre quarti delle gioie umane derivano dalla paternità»2. Come Puškin, prese tardi la decisione di sposarsi, e lo confessò nel suo diario La bière du pecheur3. Si riconosce in lui per un certo dandismo byroniano, anche se non lo considera tanto un romantico, quanto, piuttosto, un classico, e è consapevole dell’impossibilità di imitare un modello, una cultura, uno stile di vita del XIX secolo. Appare spesso ironico, grottesco, parossistico, e assume maschere ogni volta diverse, che ne riflettono in frammenti la personalità. Landolfi avvertiva in Puškin, dietro la sua limpida perfezione, anche un tormento, uno spirito autopunitivo, nel quale probabilmente si riconosceva4. Tommaso Landolfi fu da subito uno scrittore compiuto, pronto a tradurre. Il suo «straordinario istinto della lingua», «l’atmosfera d’inusitata seduzione», come scrive la figlia Idolina5 – anche 1 Tommaso Landolfi, Rien va, Adelphi, Milano 1998, pp. 45-46: «Gioco. Premessa: non parlo del gioco che è soddisfazione di qualche inclinazione decorativa […], ma del vero e puro, quello d’azzardo. Aggiungo giacché ci sono che, ove fossero ammissibili le scuole, vi introdurrei questo obbligatoriamente pel suo valore formativo o almeno rivelativo del carattere». 2 T. Landolfi, Rien va, cit., p. 10. 3 T. Landolfi, La bière du pecheur, Vallecchi, Firenze 1953, p. 94: «Giunto verso la soglia dei quarant’anni, io mi dissi: Sarebbe ora sommamente conveniente, secondo a gentiluomo si affà, che pagassi tutti i miei debiti, mi ritraessi a più dignitosa vita, mettessi capo a partito e magari su famiglia – immagine, come si vede, puschiniana quant’altre mai». 4 T. Landolfi, Rien va, cit., p. 93: «Dovrei tradurre del Puškin: bello, no, e anche facile? No, per nulla: che me ne importa? Anche lui credeva in se stesso, credeva perfino nella letteratura, e lo disprezzo per ciò. Ma no, povero amico, non è vero! Tanto venne ad abborrire se stesso e la letteratura, che faceva il paggio a corte e l’amore con una…». 5 Idolina Landolfi, Nota al testo, in Aleksandr Puškin, La dama di picche e altri racconti, trad. it. di Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 1998, p. 92.

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tommaso landolfi e aleksandr pusˇkin

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lei scrittrice e traduttrice dall’inglese e dal francese – rende molto preziose le sue traduzioni. In veste di traduttore, Landolfi conserva il suo proprio stile, ma non migliora quello degli altri, non lo eleva, come, secondo Kundera6, è naturale tendenza di quasi ogni traduttore. Dopo una serie di articoli critici su Puškin, strabilianti per intuizione, capacità analitica e demolitoria, apparsi su rivista nel 19377 – anno in cui ricorreva il centenario della morte del poeta – e la traduzione di alcuni racconti, tratti dall’immaginaria raccolta di Belkin: Il fabbricante di bare, Il mastro di posta, e anche La dama di picche – pubblicati nell’antologia dei Narratori russi a sua cura, uscita con l’editore Bompiani nel 1948 – negli anni Cinquanta Landolfi tradusse del poeta, non per scelta, ma per necessità economica, i poemi e le liriche8 e il teatro e le favole9. È la sua fatica più grande. In genere preferiva tradurre i versi rispetto alla prosa, perché gli prendeva meno tempo e gli rendeva di più, e di questo testimonia anche una lettera scritta all’amico Angelo Maria Ripellino10. Landolfi è un traduttore sicuro, fedele al testo11, e allo stesso tempo audace. Opera inversioni nell’ordine della frase, che restituiscono al lettore italiano la flessibilità della frase russa, e il virtuosismo puškiniano; pur avendo una sua lingua personalissima, 6 Milan Kundera, Una frase, in Id., I testamenti traditi, traduzione dal francese di Ena Marchi, Adelphi, Milano 1994, pp. 105-123. 7 Fantasia puschiniana in «Letteratura», n. 3, 1937; Morte di Puškin in «Omnibus», 8 maggio 1937; Puškin e i suoi esegeti, in «Quadrivio», 5 settembre 1937; Puškin, «Meridiano di Roma», 28 agosto 1937. 8 Aleksandr S. Puškin, Poemi e liriche, trad. it. di Tommaso Landolfi, Einaudi, Torino 1960. 9 Aleksandr S. Puškin, Teatro e favole, trad. it. di Tommaso Landolfi, Einaudi, Torino 1961. 10 Landolfi scrive nella lettera, citata nella Nota al testo del volume Il viaggiatore incantato di N. Leskov, Adelphi, Milano 1994, p. 189: «Insomma fa’ un po’ tu, solo tenendo presente che le pinate pagine di prosa russa mi danno il panico; se russo ha da essere, sia almeno un poeta». 11 Nota in calce alla traduzione di Poemi e liriche, citata dalla figlia Idolina sulla rivista «Scrittura», primavera 1996, p. 11: «[…] Mentre un piccolo numero di componimenti […] son rimasti per così dire allo stato grezzo e senza traccia alcuna di elaborazione ritmica. Ai quali non sarebbe stato difficile dare una ravviata; se non che mi è piaciuto lasciare occasionalmente il lettore a diretto contatto colla sintassi e, volendo, col fraseggio puschiniani».

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si preoccupa di rendere trasparente il testo che traduce. Imita, con l’uso di parole monosillabe e bisillabe, anche le chiuse inquiete, vibranti, delle liriche sentimentali puškiniane. Per fare solo un esempio12: Ja vas ljubil tak iskrenno, tak nežno, Kak daj vam Bog ljubima byt’ drugim.

Letteralmente: Vi ho amato così sinceramente, così teneramente Come vi conceda Dio amata d’essere da un altro.

Ecco come traduce questi due versi finali Landolfi13: Tanto sincero e tenero v’amai Come vi dia che un altro v’ami Iddio.

Landolfi forza l’inversione, allontanando le parole le une dalle altre, cioè il soggetto dal verbo nella proposizione concessiva del verso, ancora di più che nell’originale, e tale allontanamento sembra riprodurre lo stato d’animo di quel disorientamento che segue a una separazione amorosa. Poi accetta di scrivere un’introduzione al volume – cosa inusuale per lui, che di solito si rifiutava di scriverne, – e così mette insieme una serie di appunti di lavoro, che pubblicherà come sono, e sceglie di pubblicare un certo gruppo di poesie in una traduzione ancora solo abbozzata. In questa scelta è tutto Landolfi: quel suo prediligere sempre l’aspetto immediato, diaristico dell’opera, a quello più compiuto. Nell’introduzione ritroviamo quel senso d’insofferenza da lui già manifestato in precedenza, questa volta accresciuto dall’immane lavoro14. Nelle sue parole c’è un diffuso senso di fastidio, di oppres12

Aleksandr S. Puškin, Ja vas ljubil: ljubov’ ešcˇe, byt’mozˇet [Vi ho amato: l’amore ancora forse], Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], izd-vo Akademii Nauk SSSR, Leningrad 1948, p. 188. 13 Aleksandr S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 431. 14 Tommaso Landolfi, Introduzione a Aleksandr S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. VII: «[…] per me il tradurre o appena il rileggere un qualunque scrittore è render-

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sione, d’ingombro, di sproporzione15. «Oh, Puškin, Puškin, quanto mi costi!», si lamenta nelle pagine del suo diario16, mentre lavora alla traduzione del suo «amico e nemico»17 anche di notte. * Più tardi, negli anni Settanta, gli ultimi della sua vita, Landolfi approdò alla poesia con due raccolte di versi: Viola di morte18 e Il tradimento19. Nelle poesie, scarne quanto più ornata è la sua prosa, sembra accettare il canone letterario senza metterlo in discussione, come se la poesia fosse una scelta anacronistica in sé. In Viola di morte è più viva e tangibile l’influenza di Puškin. Viola di morte è dedicato a Fedor Ivanovič Tjutčev (18031873), la cui poesia Landolfi, nel frattempo, aveva tradotto e pubblicato,20 e a Gabriele D’Annunzio. Dietro l’influenza di Tjutčev, che Landolfi amava e riconosceva come suo autore senza il fastidio provato per Puškin, c’è Puškin medesimo, appunto, sul quale entrambi, in epoche e luoghi diversi, con un diverso approccio, si erano formati. È difficile stabilire dove sia Tjutčev e dove Puškin, in queste poesie. Sicuramente Landolfi, che considerava se stesso un «tipico minore»21, si riconosce di più in Tjutčev, nell’outsider Tjutčev, «agganciato alla metafisica melo come dire avverso; insomma qualcosa di simile a quanto avveniva a Gulliver colle gigantesse. Inoltre un uomo della mia età non dovrebbe mai mettersi a tradurre le opere d’un giovane: c’è di mezzo la fisiologia, che diamine!». 15 Così Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver (traduzione di Carlo Formichi, Mondadori, Milano 1970) descrive le gigantesse, a p. 171: «Quante volte mi spogliarono dalla testa ai piedi e mi posero a giacere lungo disteso sui loro petti. Nulla mi nauseava di più, perché, a dire il vero, dalle loro pelli esalava un pessimo odore. Accenno a tanto non certo per diminuire i meriti di quelle eccelse dame, per le quali il mio rispetto è completo, ma per osservare semplicemente che il mio olfatto era più acuto in proporzione della mia piccolezza, e che quelle signore illustri erano tanto lontane quanto le nostre in Inghilterra dall’infastidire l’odorato degli amanti o reciprocamente il loro proprio». 16 T. Landolfi, Rien va, cit., p. 98. 17 Ivi, p. 114. 18 Tommaso Landolfi, Viola di morte, Vallecchi, Firenze 1972, ripubblicato nel 2011 da Adelphi. Cito dall’ultima edizione. 19 Tommaso Landolfi, Il tradimento, Rizzoli, Milano 1977. 20 Fëdor I. Tjutčev, Poesie, trad. it. di Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 2011. 21 T. Landolfi, Rien va, cit., p. 137.

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del romanticismo tedesco […]; senza le divagazioni o gli ammicchi d’un Puškin, senza mai uscire dalla parte, senza Sterne: con saggezza senile»22. C’è l’Ottocento, con i canoni ormai completamente sorpassati al tempo in cui Landolfi scriveva – tempo, semmai, di avanguardie letterarie –, ma che accetta con la voluttà dell’andare controcorrente. Molteplici sono i segni della sua adesione ai canoni ottocenteschi: il titolo che riprende il primo verso della poesia; la maiuscola ai capoversi; la ripetizione della congiunzione E, e in genere la ripetizione di una stessa parola all’inizio del verso, l’uso dell’enjambement; il frequente vocativo rivolto a un tu immaginario; la forma dialogata; i puntini di sospensione; la forma interrogativa diretta; gli elementi naturali e le stagioni come metafora esistenziale. Riguarda, invece, più specificamente Puškin, a esempio, il rivolgersi direttamente al lettore. Leggiamo Puškin, ne La casetta a Kolomna23: XXIV Ella soffriva benché fosse bella E giovane, e la vita le passasse In molle fasto; e fosse a lei soggetta Fortuna; e che la moda le recasse Il suo incenso, – ma pure era infelice. Più beata di lei le mille volte, Lettore, la tua nuova conoscenza, Questa semplice e buona mia Parascia.

E Landolfi, nella poesia Il biancore degli astri tra le mani24: […] Lettore, è questa una speranza? Questa immagine sciocca che trabocca Dalla disperazione, Dall’umiliazione? 22

A. M. Ripellino, nella prefazione a F. Tjutčev, Poesie, cit., p. 11. A. S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 306. 24 T. Landolfi, Viola di morte, cit., p. 46. 23

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Deriva da Puškin il gusto della contrapposizione; questo, infatti, è alla base della sua opera in versi e in prosa. Riporto solo una poesia del 1828, Ty i vy25, Il tu e il voi: Il vuoto voi con il tu del cuore Lei, per errore, ha scambiato E tutte le felici chimere Nell’anima innamorata ha destato. Pensoso, davanti a lei mi fermo, Gli occhi da lei non oso staccare; E le dico: voi, come siete cara! E penso: come ti amo!

Puškin costruisce i suoi personaggi intorno al principio del contrasto, proprio come fa Landolfi con lo stesso Puškin, quando si paragona a Gulliver alle prese con le gigantesse nel passo introduttivo alle liriche tradotte. Basta pensare alla statua di Pietro il Grande e al piccolo Evgenij nella Storia pietroburghese Il cavaliere di bronzo (1833), o alla descrizione della vecchia contessa contrapposta alla sua giovane pupilla ne La dama di picche (1833)26: Hermann vide i servi portar fuori, sostenendola per le ascelle, la vecchia, curva e avviluppata in una pelliccia di zibellino; dietro a lei si mostrò un momento, in mantello leggero e col capo ornato di fiori freschi, la sua damigella di compagnia.

Nelle poesie di questa prima raccolta di Landolfi ci sono molte contrapposizioni – doppie, incrociate – fra la Maledetta/Benedetta a cui si rivolge, e il tutto e il nulla; fra l’amore e l’odio, la vita e la morte, l’oggi e il domani, il pianto e il riso, la salute e la malattia27: Sei partita, Maledetta, Ti sei sottratta al mio odio 25 A. S. Puškin, Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], cit., 1948, vol. 3, p. 103. 26 A. S. Puškin, Il cavaliere di bronzo è, nella traduzione di Landolfi, in Poemi e liriche, cit., pp. 353-367; La dama di picche, in La dama di picche e altri racconti, cit., p. 66. 27 Le citazioni dei versi che seguono sono tratte da T. Landolfi, Viola di morte, cit., rispettivamente da Sei partita, Maledetta, p. 196; Fino la tua presenza, amo; e di certo, p. 208; Dal tocco della morte vivo, p. 214; Da te a te stessa tu tessevi un riso, p. 220; Oh giorno della sorte, quando insieme, p. 258.

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Ed anche al mio amore, A quello che accompagna La tua rauca voce – Sebbene tu sia nulla ed io sia tutto. Ma il tuo nulla raggia: Il mio tutto è opaco E solo dal tuo nulla accoglie luce. * Fino la tua presenza amo; e di certo È odio questo, se non sceglie D’amare solo da lontano. * Dal tocco della morte vivo Oggi risorgo: ma domani? Mentre io quasi morivo Erano distratti i familiari. * «Oh, cara, sei svanita: Tu non piangi, tu ridi!» – * Ero ammalato e sofferente Eri gonfia di latte e fiorente;

Questa predilezione retorica per l’estremismo degli opposti conduce sia Puškin che Landolfi alla figura dell’ossimoro. Puškin usa l’ossimoro anche per alcuni titoli delle sue opere, come La signorina-contadina. Di altri suoi titoli Jakobson scrive28: soltanto la contrapposizione fra la materia immobile e morta, in cui la statua è modellata, e l’essere mobile e vivo, che la statua rappresenta, garantisce uno scarto sufficiente. È proprio questa contrapposizione fondamentale che esprimono certi titoli di Puškin come Il convitato di pietra, Il cavaliere di bronzo e Il galletto d’oro […].

Il titolo stesso della raccolta poetica di Landolfi, Viola di morte, può essere considerato una variazione dello strumento musicale della viola d’amore, ma anche puramente come colore, il colore cianotico della morte29. Amore e morte sono il tema del28 Roman Jakobson, La statua nella simbologia di Puškin, in Id., Poetica e poesia, trad. it. di Caterina Graziadei, Einaudi, Torino 1985, p. 102. 29 Andrea Cortellessa ha messo in luce questo secondo possibile significato del titolo della raccolta di versi di Landolfi, presentandola – in occasione della sua nuova

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l’intera raccolta; uno dei due termini è occultato, sottinteso nel titolo. Dietro queste poesie c’è una sofferenza d’amore, provocata da una mancata promessa, da una delusione. Solo qualche esempio di ossimoro landolfiano, tenendo conto che l’avverbio «sempremai» esiste, anche se completamente in disuso e che, sebbene costruito come un ossimoro, è una forma rafforzativa dell’avverbio «sempre»30. E tu come hai risposto a tanta attesa? – In vane forme la vita ci irride, E sempremai noi siamo parte lesa. * Dell’amabile male io sono il servo. * O cara, o maledetta? * E perché dunque è divenuto muto Il silenzio ciarliero? È perché invano * Oh, che fatica celebrarti, Te, familiare Sconosciuta.

Landolfi sembra voler riprodurre nelle sue poesie alcune forme lessicali possibili sia in russo che in italiano: una virtuosistica sequenza di parole monosillabiche, una sequenza di frammenti di linguaggio. Come Puškin nella celebre poesia Ja vas ljubil31 [Vi ho amato], prima citata, ritroviamo in Landolfi32: O più non sei perché non sei più mia? * Se non altra da te, che sei tu donna? * pubblicazione presso Adelphi – alla Casa delle Letterature, l’8 giugno 2011 (insieme a Giovanni Maccari, Raffaele Manica e Emanuele Trevi). 30 Le citazioni seguenti sono tratte rispettivamente da Vasto tumulto di passioni, pp. 74-75; Una virtù mi piove dalle stelle, p. 158; La gente mi diceva per la via, p. 239, nella raccolta Viola di morte, cit., e da Ecco lo stesso peso silenzio, p. 55, e Oh che fatica celebrarti, p. 105, nella raccolta Il tradimento, cit. 31 Cfr. note 12 e 13. 32 Dalle poesie Visitassi le stelle ad una ad una, p. 149; Che fa, se non ci spia, l’albero immoto?, p. 160; Sapevo che non mai saresti stata, p. 162, e Oh donde venta questo freddo, o cara, p. 244, nella raccolta Viola di morte, cit.

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Per me, non mai qui in terra fatta carne; Oh donde venta questo freddo, o cara? * Se non da che di te tu mi sei avara?

L’effetto di una serie di parole monosillabe o poco più è quello del respiro corto, mozzo, di una palpitazione precipitosa. Il tono è accorato, ma l’endecasillabo è scandito con precisione. * Landolfi scrive versi anacronistici, sfrontatamente non destinati alla popolarità, che guardano con fierezza al passato. Il senso del passato inteso come mitologia del passato gli è congeniale, e lo era anche a Puškin, ma Landolfi, con il suo senso critico ipertrofico, sa che è impossibile «quel rifarsi rigorosamente indietro…»33. Landolfi guarda alla tragedia Boris Godunov (1831) di Puškin, nella quale compare un Puškin antenato del poeta, mentre scrive il Landolfo VI di Benevento (1959), una tragedia in endecasillabi, che ha come protagonista un suo nobile antenato dell’XI secolo. Il periodo di composizione della tragedia coincide con il periodo in cui sta traducendo le liriche e il teatro di Puškin. Il passato al quale allude Landolfi in questa sua prima raccolta di versi è un passato antichissimo, ma soprattutto un Medioevo romantico e gotico. Il tessuto linguistico di queste poesie («castello», «fantasma», «spettro», «candela», «fiamma», «avi», «sire», «sudditi», «signore», «servo», «tiranno», «oltraggio», «crimine», «tralignamento», «discordia», «spada», ecc.) rimanda a una certa specifica atmosfera romantica di alcune liriche puškiniane, come quella de Il cavaliere povero (1829)34, che Landolfi doveva amare particolarmente, perché la citò nell’introduzione al volume dei poemi e delle liriche da lui tradotti. Anche nel linguaggio, Landolfi pone sempre una certa distanza fra sé e il suo tempo, fra sé e il lettore. Solo a volte parla apertamente delle sue idiosincrasie, e ci fa così dono di una dichiarazione di poetica. Riflette sulla scrittura nell’atto di scrivere. 33 34

T. Landolfi, Rien va, cit., p. 59. A. S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 424.

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Quanto più, improvvisamente, si fa diretto, tanto più ci ricorda l’«amico-nemico» russo. Vorrei giustapporre due citazioni, che mettono in luce affinità e discordanze fra Puškin e Landolfi. Ecco Puškin nel frammento Autunno35 del 1833: […] E si ridesta la poesia in me: L’anima è oppressa da lirico tumulto, Trepida e suona, e cerca, come in sogno, Di riversarsi finalmente in libera espressione –

Landolfi36: La prosa m’opprime: Non la parola che dirime, Mi giova, Ma l’avventurosa prova Del verso gettato al vento Dello sgomento,

Qui forse Landolfi ricordava l’espressione umorale puškiniana: «Duša stesnjaetsja liričeskim volnen’em»37 [L’anima è oppressa da lirico tumulto], che lui traduce usando lo stesso verbo che userà anni dopo in una sua poesia. Puškin aveva un approccio stagionale alla poesia. Il suo tono è leggero, aperto, frivolo, salottiero, e allo stesso tempo solenne, come si confà a un poeta classico: la sua poesia è memorabile; pronta, appena fatta, per essere imparata a memoria e recitata. Il tono di Landolfi invece è prossimo alla disperazione, sommesso, ma la sua introversione sembra trovare una via d’uscita sotto l’influsso di Puškin, genio estroverso. Un altro esempio di vicinanza fra i due scrittori ce l’offre la metafora guerresca, nel caso di Puškin legata prima all’inverno, e poi all’atto di comporre. Landolfi farà propria quest’ultima. Ne Il festino in tempo di peste (1830)38: 35

Ivi, p. 454. T. Landolfi, Non trovo conforto in Viola di morte, cit., p. 225. 37 A. S. Puškin, Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], cit., vol. 3, p. 103. 38 Aleksandr S. Puškin, Mozart e Salieri e altri microdrammi, traduzione di Tommaso Landolfi, Einaudi, Torino 1985, p. 86. 36

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Quando il possente Inverno viene E come baldo duce mena Contro di noi le irsute schiere Delle sue nevi e dei suoi geli, – Crepitando lo accolgono i camini, E lieto è l’invernale tepore dei festini.

Oppure, sempre in Puškin, nella V strofa de La Casetta a kolomna (1830)39: Come è bello menare i propri versi In buon ordine, schiera dopo schiera, E non lasciarli ciondolare in parte Quasi esercito in guerra sbaragliato!

E Landolfi, nella poesia È l’ora antica delle frasi sghembe40: È l’ora delle frasi sghembe: La penna piega sulle righe, E la pagina è come ventate spighe O come debellate schiere.

Questo, ultimo, è un calco della metafora del poeta russo, anche se di segno opposto. Il canto di Landolfi è crepuscolare; il canto dell’«amico-nemico» un’esaltazione della vittoria, un inno all’ordine e alla potenza della poesia. Landolfi riprende la similitudine militare, ma nel suo bollettino viene data per scontata la sconfitta. Ora, visto il tema guerresco, qualche parola sul fuoco. Il fuoco è uno dei soggetti più usati nelle metafore della poesia di ogni tempo. Puškin assumeva il fuoco come base di diverse metafore. Per citare solo alcuni versi, partiamo dall’Evgenij Onegin41 (1830), da una descrizione di Tat’jana. […] Ella non alza gli occhi velati: Divampa tempestoso in lei Il fuoco della passione; si sente soffocare […] 39

A. S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 300. T. Landolfi, Viola di morte, cit., pp. 206-207. 41 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cap. quinto, strofa XXX, p. 72, dalla traduzione su dispensa di Angelo Maria Ripellino, che tenne un corso monografico su Puškin nell’anno accademico 1975-1976 all’Università di Roma «La Sapienza». 40

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È un fuoco che distrugge le lettere d’amore quello nella poesia La lettera bruciata (1825)42: […] Ormai l’avida fiamma le tue pagine accoglie… Un attimo… avvamparono! Ardono… un lieve fumo, Volgendosi, si perde con questa implorazione.

Oppure è un fuoco che scalda, protegge e conforta, come nella piccola tragedia Il festino in tempo di peste, in cui i camini vengono accesi per combattere «le irsute schiere» del «possente Inverno». In un brano poco più avanti43: Noi come dal rissoso Inverno Ci chiuderemo dalla Peste, Accenderemo fuochi, boccali colmeremo, Le menti lietamente annegheremo E, dato inizio a balli e feste, Celebreremo il regno della Peste.

Landolfi, in Visetto lustro della mattutina44: O tu dall’ima cantina Facevi affiorare ciocchi e frasca Per fuochi anacronistici, Sappi che il mio terrore non ha fine, Che non sarò mai pago, Che non mai potrò vincere l’inferno – Se non mi sei vicina.

Qui Landolfi riprende il simbolo del fuoco in tutte le sue possibili varianti. Il fuoco come metonimia dell’inferno, nominato poco distante; il fuoco come simbolo di calore, cioè di amore, che una donna preparerà dopo aver portato su dalla cantina «ciocchi e frasca», ma invano, perché non potrà sostituire, con questo calore, quello affettivo della vicinanza di lei. Colui che parla sente lei, la donna, lontana, e l’inferno vicino, forse vicino come la can-

42 A.

S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 382. A. S. Puškin, Mozart e Salieri e altri microdrammi, cit., p. 87. 44 T. Landolfi, Viola di morte, cit., p. 219. 43

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tina, che sembra evocarlo. Il fuoco come metonimia della donna che lo porta, entrambi potenziali fonti di calore, ma anche di tormento. La poesia, piena di spostamenti simbolici, ha una sua particolare intensità. Un altro, ultimo esempio preso dalla poesia Cupo castello tra fruscianti abeti45: Cupo castello tra fruscianti abeti, E tu soffiasti sulla candela: E s’aprì l’orizzonte di miele Della tua carne. Dalla testa ai piedi Figurava il tuo corpo gli alti colli Dell’infanzia, la lussuria delle valli, Il clavicembalo dolente Del ripercosso vento. E, come allora, coi miei sensi persi Io non sapevo possederti.

Un paesaggio antico, a lui molto familiare, e un corpo femminile che gli si rivela all’improvviso, nuovo e antico allo stesso tempo. La rivelazione assume il valore di una conferma, una conferma della sua incapacità di possesso. La similitudine fra il corpo della donna e un paesaggio ondulato è un archetipo che ritroviamo in tanti scrittori, anche nell’opera di Gabriele D’Annunzio, uno dei due poeti ai quali la raccolta landolfiana è dedicata; o anche nella prosa di Cesare Pavese. Nel racconto puškiniano La tormenta (1930)46 è descritto il tentativo fallito di un promesso sposo, Vladimir, di raggiungere la chiesetta dove la fidanzata, Mar’ja Gavrilovna, lo aspetta per sposarlo in segreto. La tormenta impedisce l’incontro facendo smarrire Vladimir. Puškin, con la metafora nascosta del corpo femminile all’interno del paesaggio, ricrea, attraverso lo smarrimento del giovane, l’atmosfera d’inquietudine e l’impazienza del desiderio, che cresce via via sempre più, quanto più Vladimir s’allontana dalla meta e dalla fidanzata. La metafora aleggia, ma non 45

Ivi, p. 80. Aleksandr S. Puškin, Romanzi e racconti, introduzione di Serena Vitale, traduzione di Annelisa Alleva, Garzanti, Milano 2011, pp. 63-64. 46

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è mai chiaramente espressa. Spia ne è il nome del villaggio in cui si trova la chiesetta con la sposa, Žadrino, che ha la stessa radice di «žadnost’», «žažda», «žadnyj» («avidità» o «bramosia», «sete», «avido»): Vladimir si ritrovò nel campo e cercò invano d’imboccare nuovamente la strada; il cavallo procedeva alla ventura e, continuamente, ora saliva su un cumulo di neve, ora sprofondava in una fossa; la slitta si rovesciava ogni momento; Vladimir cercava solo di non perdere la giusta direzione. […] Infine da una parte cominciò a nereggiare qualcosa. Vladimir voltò in quella direzione, avvicinandosi vide un boschetto. Grazie a Dio, pensò, ormai ci sono. Costeggiò il boschetto, sperando d’imboccare subito la strada giusta o di aggirare il boschetto tutt’intorno: Žadrino era subito lì dietro. Presto trovò la strada e si addentrò nella tenebra degli alberi, denudati dall’inverno. […] Ma andava, andava, e Žadrino continuava a non vedersi; il boschetto non finiva mai. Vladimir si accorse terrorizzato di essere entrato in un bosco sconosciuto.

Vladimir perde la strada, e Mar’ja Gavrilovna sta andando sposa a un altro, un giovane portato in chiesa nella confusione generale, che lei scoprirà non essere Vladimir solo alla fine della cerimonia. Così come lo sbaglio di uno è simmetrico allo sbaglio dell’altra, allo stesso modo il matrimonio è ostacolato nel caso di lui dalla tormenta, nel caso di lei dal volere contrario dei genitori. * Anche nella seconda raccolta, Il tradimento, pubblicato due anni prima della morte, Landolfi celebra la sua attrazione per la terra usando la stessa metafora del corpo femminile/paesaggio, alla quale era già ricorso in precedenza47: Nell’oscuro richiamo Delle calde foreste femminili, […]

47 T. Landolfi, L’indifferenza è l’ultimo terrore, nella raccolta Il tradimento, cit., p. 133.

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In quest’ultima raccolta compare una poesia intitolata (Puschiniana)48: Perché si chiude in un’oscura dimensione, Perché non prende aria, sole e vento la mia canzone, Perché non so indurre ad affiorare Il diavoletto pervicace che voglia con me gareggiare? Di corrugare il mar li ho minacciati, E son rimasti molto preoccupati. Ma il fatto è che il mare si corrugherà, Non dico subito: nondimeno verrà tale momento E verrà anche senza il mio intervento, Ossia senza quello delle mie molte e sciocche parole, E sarà, in fondo, al primo giro di sole, Giacché vicino, vicino, vicino, È il giorno preveduto dal destino, Il giorno dei buffetti in fronte. Ecco, questa deviazione o scarroccio o deriva È quella che sostiene la poesia.

Molto prababilmente il riferimento di questa poesia è Scena dal Faust49 (1825), ma Puškin ormai è lontano, perché Landolfi si rende conto di non riuscire a far entrare «aria, sole e vento» nella sua canzone. Landolfi qui è assorbito dal pensiero della morte, e della vita come suo differimento. Il tema del differire è uno di quelli ricorrenti nelle sue due raccolte di poesia50, e nei diari. La letteratura, e perfino il desiderio di paternità, derivano per lui da una necessità di differimento. Anche la morte differisce, con il suo sguardo51: Di donna che non nega e differisce Sempre.

Nel differimento trova rifugio la poesia. (1999)

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T. Landolfi, Il tradimento, cit., p. 39. A. S. Puškin, Poemi e liriche, cit., p. 391-394. 50 Per esempio nella poesia “Differire” è la magica parola, in T. Landolfi, Viola di morte, cit., p. 135. 51 Dalla poesia Oh che fatica celebrarti, in T. Landolfi, Il tradimento, cit., p. 105. 49

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Il conscio letto (su Giacomo Leopardi)

Per Leopardi ha un ruolo molto importante la natura, che era lì, davanti alle sue finestre. E la natura aveva nel nome: Leopardi. Ho sempre sentito lo strano contrasto, ossimorico, del cognome Leopardi con il poeta che lo portava: fra il potente, snello e rapidissimo felino e il rampollo malato di un’antica famiglia aristocratica marchigiana. Nel primo dei suoi Sonetti dalla Cina1 [Sonnets from China] Auden scrive: Till, finally, there came a childish creature On whom the years could model any feature, Fake, as chance fell, a leopard or a dove, […] Quando, alla fine, venne una creatura bambina su cui gli anni potevano imprimere ogni fattezza, farne, a caso, un leopardo o una colomba, […]

e immagina così due destini opposti per «una creatura bambina»: diventare «un leopardo o una colomba». Citerò adesso un altro sonetto, del quale leggerò solo la prima strofa, di Francesco Petrarca2, che fu un diretto predecessore di Leopardi, anche se vissuto nel Trecento. S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale? 1 W.H. Auden, Opere poetiche, 2 voll., traduzione e cura di Aurora Ciliberti, Lerici, Milano 1966, vol. I, p. 77. 2 Francesco Petrarca, Canzoniere, testo critico e introduzione di Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1964, sonetto CXXXII, p. 184.

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Se bona, onde l’effecto aspro mortale? Se ria, onde sì dolce ogni tormento?

E ora leggerò l’inizio del canto di Leopardi Il primo amore3: Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii la prima volta, e dissi: Oimé, se quest’è amor, com’ei travaglia! Che gli occhi ai suoi tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch’a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! Perché seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desìo, tanto dolore?

Scrive Leopardi di Petrarca nello Zibaldone:4 La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche i più eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.

Quando Leopardi scrisse questo canto, il suo primo amore era già una ricordanza, per usare un termine a lui caro, e il contenuto di questi versi evoca un amore platonico, puro, «intaminato». Non ho voluto leggere nessuna delle sue poesie più note, ma quelle che imparavo a memoria a scuola erano: Il passero solitario, L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, Il sabato del villaggio. Allora, e questa era una fatica in più, ma anche una grande fortuna, a scuola si imparavano a memoria le poesie dei poeti italiani, e anche, ricordo, Omero in traduzione. Quando si trattava d’imparare a memoria Leopardi, però, si aveva, credo tutti, non l’impressione di eseguire un compito mnemonico noioso, di studiare un poeta da sussidiario, ma di far entrare dentro la propria memoria un poeta a sua volta carico di memoria. 3

Giacomo Leopardi, Canti, Compagnia degli Illusi, Napoli 1934, p. 57. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, 4 voll., a cura di Sergio e Raffaella Solmi, Einaudi, Torino 1977, vol. I, pensiero 112, p. 65. 4

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I versi di Leopardi trasudano storia, e alcuni in cui ne fa breve cenno sono fra i suoi più belli. Nella lirica Sopra il monumento di Dante5: Volgiti indietro, e guarda, o patria mia, Quella schiera infinita d’immortali,

E più avanti6: Mira queste ruine E le carte e le tele e i marmi e i templi; Pensa qual terra premi; […]

Più in particolare, quando descrive se stesso nella propria casa, ne Le ricordanze7: […] In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento,

Quanto grande è la fierezza per il tempo passato, altrettanto grande il suo sdegno per i tempi correnti. Alla conoscenza e all’amore per la storia e per i suoi monumenti, intesi come figure illustri e come opere, soprattutto di scultura, Leopardi associa la consapevolezza di sé, cioè dei suoi sentimenti, la vigilanza sul suo dolore. Anche ne Il primo amore8 ve ne sono delle tracce: Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore.

Oppure, ne Le ricordanze9 : […] e spesso all’ore tarde, assiso 5

G. Leopardi, Canti, cit., p. 15. Ivi, pp. 22-23. 7 Ivi, p. 105. 8 Ivi, p. 60. 9 Ivi, p. 107. 6

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Sul conscio letto, dolorosamente Alla fioca lucerna poetando, […]

Se il letto è legato al sonno, e quindi al sogno, il letto di Leopardi, invece, è deformato dall’essere «conscio»: un letto vigile, insonne, pieno di riflessioni e tormenti. Ne La quiete dopo la tempesta10 è ancora presente la casa: […] Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia11 :

In A Silvia12 : D’in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Nella lingua di Leopardi mi hanno sempre colpito gli aggettivi dimostrativi, che permangono in tanta poesia di oggi. Ne L’infinito13 : Sempre caro mi fu quest’ermo colle E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

E che si conclude così: E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Scrive a questo proposito Giorgio Agamben14: E sempre dall’esperienza del questo scaturisce il senso sgomento dell’interminato, dell’infinito, come se il gesto di indicare, di dir “questo”, 10

Ivi, p. 117. Il paesaggio intorno a Recanati si spalancava immediatamente agli occhi della famiglia Leopardi, bastava aprire una finestra. P. Citati riporta nel suo volume Leopardi, Mondadori, Milano 2010, a p. 10, la frase che il padre Monaldo amava ripetere: «Anche da una piccola finestra si può vedere un gran paese». 12 G. Leopardi, Canti, cit., p. 101. 13 Ivi, p. 64. 14 Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982, p. 94. 11

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facesse ogni volta affiorare nell’idillio l’incommensurabile, il silenzio, il pauroso; e, alla fine, è ancora in un “questo” che il pensiero si placa e fa naufragio.

Leopardi nomina sempre le cose con concretezza, anteponendo l’aggettivo «questo» con un senso di prossimità, ma anche come chi, malato e ridotto alla quasi cecità per un anno, il 1819, proprio lo stesso in cui scrisse L’Infinito, ha forse più degli altri la soddisfazione di vedere, quasi di toccare. Scrive da Roma alla sorella Paolina il 3 dicembre 182215: La cupola l’ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io era in viaggio, e l’ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce, come voi vedete di costà gli Appennini.

Del resto anche il sostantivo «idillio»16 – un genere da lui prediletto, di misura breve, in endecasillabi sciolti – deriva dal greco eidon, e indica un quadretto visibile con gli occhi. Al «questo» leopardiano si oppone l’infinito; il «questo» è necessario proprio per andare oltre17. Eugenio Montale, sulla scia della poesia leopardiana, che assume ma non direttamente, segue a volte questo stesso procedimento, analizzato da Gilberto Lonardi nella poesia A mia madre. La madre con la morte vuole «sciogliersi dal principio di individuazione»18. 15

Giacomo Leopardi, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di R. Damiani, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2006, p. 341. 16 Il Dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli (Le Monnier, Milano 1990) lo definisce così, a p. 879: «Quadretto georgico o pastorale, realizzato in un breve componimento poetico o musicale, di solito improntato a una incantata serenità». 17 Ne L’infinito (Canti, cit., p. 64), Leopardi scrive: «Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo». Scrive Montale (E. Montale, L’opera in versi, Einaudi, Torino 1975, A mia madre), a p. 203: «Ora che il coro delle coturnici / ti blandisce nel sonno eterno, rotta / felice schiera in fuga verso i clivi / vendemmiati del Mesco, […] La strada sgombra / non è una via, solo due mani, un volto, / quelle mani, quel volto, il gesto d’una / vita che non è altra ma se stessa». 18 Gilberto Lonardi, Le coturnici e le folaghe, in Id., Winston Churchill e il bulldog, Marsilio, Venezia 2011, p. 13.

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Lo stesso Iosif Brodskij usa questo stesso procedimento nella poesia «Quelle spalle ho abbracciato e ho visto il mondo»19, ma non abbiamo nessuna prova per affermare che all’epoca della stesura della poesia, nel 1962, avesse letto Leopardi, né Montale. Probabilmente non c’è un nesso diretto fra questa lirica e l’asse poetico italiano Leopardi-Montale. Mi colpiscono anche gli avverbi, che Leopardi sciorina, lunghi, all’interno del verso, sillaba dopo sillaba, offrendoli al lettore come moneta sonante. Negli avverbi leopardiani è scandito il tempo ritmico del verso, ma sembra scorrervi all’interno anche il tempo inteso in senso più ampio, come la storia di un’intera civiltà. Per fare solo qualche esempio: malinconicamente20 stupidamente21 dolorosamente22 novellamente23 lungamente24 immobilmente25 profondamente26 concordemente27 19 Nella traduzione di G. Buttafava (J. Brodskij, Fermata nel deserto, Mondadori, Milano 1979, pp. 19-20) la poesia suona così: «Quelle spalle ho abbracciato e ho visto il mondo / che mi si rivelava oltre la schiena / e una sedia isolata ho visto fondersi / col muro illuminato […]». Molti sono i punti in comune fra Montale e Brodskij, che dedicò al poeta italiano il saggio All’ombra di Dante del 1977 (ora ne Il canto del pendolo, trad. it. di G. Forti, Adelphi, Milano 1987, pp. 41-58). Brodskij lesse Leopardi, almeno le Operette morali, a New York, nella traduzione russa o inglese, durante l’estate del 1983, e commentò la lettura dicendo: «È diciannovesimo secolo». Quindi all’epoca della sua poesia, scritta nel 1962, sicuramente non lo conosceva. 20 G. Leopardi, Il primo amore, in Id., Canti, cit., p. 59. 21 Ibid. 22 G. Leopardi, Le ricordanze, in Id., Canti, cit., p. 107. 23 G. Leopardi, Amore e morte, in Id., Canti, cit., p. 130. 24 Ivi, p. 132. 25 G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna, in Id., Canti, cit., p. 146. 26 G. Leopardi, Palinodia, in Id., Canti, cit., p. 150. 27 Ivi, p. 150.

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irreparabilmente28 agevolmente29 veracemente30 durabilmente31 codardamente32 perpetuamente33 naturalmente34

Quello che esercita più fascino su di me è il contrasto fra poesia e prosa in Leopardi. Lì, nella sua prosa, troviamo una lingua un po’ più vicina alla nostra, ma che Leopardi non ha alcuna fretta di adeguare alla lingua parlata. Così scrive a questo proposito nello Zibaldone35: […] la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co’ termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti, ec. ec.), i quali esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura.

Per esempio, nell’operetta morale Dialogo di Plotino e di Porfirio36, Leopardi scrive: Qual cosa è manco naturale della medicina? Così di quella che si esercita con la mano, come di quella che opera per via di farmachi.

E preferisce all’«impoetico» termine tecnico «chirurgia» una perifrasi ricavata dalla traduzione letterale dal greco, «quella che si esercita con la mano». 28

Ivi, p. 156. Ivi, p. 157. 30 G. Leopardi, La Ginestra, in Id., Canti, cit., p. 169. 31 Ivi, p. 173. 32 Ivi, p. 175. 33 G. Leopardi, Imitazione, in Id., Canti, cit., p. 176. 34 Ibid. 35 G. Leopardi, Lo Zibaldone di pensieri, cit., vol. II, pensiero 1236, p. 272. 36 Giacomo Leopardi, Operette morali, a cura di Cesare Galimberti, Guida Editori, Napoli 1977, p. 400. 29

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Le parole di Leopardi estratte dallo Zibaldone non possono non richiamare alla mente la definizione «abisso di spazio», che Gogol’ diede della semantica del verso puškiniano. L’«abisso di spazio»37 è proprio quello che voleva creare Leopardi con la sua parola poetica, e Puškin era un suo quasi perfetto coetaneo. Puškin, infatti, era nato nel 1799, e morì nel 1837; Leopardi – nel 1798 e morto nel 1837. In comune, oltre all’epoca, e a una famiglia aristocratica decaduta alle spalle, hanno quel particolarissimo ondeggiare fra poesia e prosa. Puškin, però, ebbe una vita molto mondana, da dongiovanni, mentre Leopardi fu leggendariamente appartato e infelice. Puškin morì sfidando a duello un rivale, che corteggiava sua moglie. Leopardi morì di colera. Puškin è considerato un capostipite delle lettere russe, Leopardi un caso a parte nella tradizione italiana. La posizione di Puškin all’interno della sua cultura lo rende leggero, mozartiano, mercuriale; Leopardi è come se fosse fisicamente gravato dalla sua ereditarietà genetica e, in senso più ampio, culturale. La cosa curiosa, però, è che Leopardi, nonostante la cupezza dello sfondo, arriva a una sua leggerezza e allegria in forza della lingua e dello stile. Ho tradotto una sola strofa, la prima, tratta dall’ultimo capitolo del romanzo in versi Evgenij Onegin38 di Puškin, e ho scelto proprio questa, perché mi sembra che qui si trovi, condensato, il suo rapporto con la memoria del poeta studente, e del poeta sognatore, benedetto fin dall’inizio e vezzeggiato dalle Muse:

37 Nikolaj V. Gogol’, Neskol’ko slov o Puškine [Qualche parola su Puškin] in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 11 tomach [Opere complete in 11 volumi], vol. 8, Stat’i [Articoli], Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR (Puškinskij dom), Moskva 1952, p. 55. In italiano, Qualche parola su Puškin si legge nell’edizione delle Opere curata da Serena Prina per la collana mondadoriana «I Meridiani». Gogol’ scrisse quest’articolo nel 1832, a 23 anni, un anno dopo aver incontrato Puškin. Nel 1832 aveva avuto la consacrazione ufficiale, con l’uscita della seconda parte delle Veglie alla masseria presso Dikan’ka. Quest’articolo doveva essere forse il primo ideato per la raccolta Arabeschi. Gogol’ vi scrive: «Di parole non ve ne è molte, ma esse son talmente precise che tutto sanno tratteggiare. In ciascuna parola v’è un abisso di spazio; ciascuna parola è sconfinata, come il poeta stesso» (Nikolaj Gogol’, Opere in 2 volumi, Mondadori, Milano 1994, vol. I, p. 947). 38 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR, Leningrad 1937, vol. 6, p. 165.

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I V te dni, kogda v sadach Liceja Ja bezmjatežno rascvetal, Čital ochotno Apuleja, A Cicerona ne čital, V te dni v tainstvennych dolinach, Vesnoj, pri klikach lebedinych, Bliz vod, sijavšich v tišine, Javljat’sja muza stala mne. Moja studenčeskaja kel’ja Vdrug ozarilas’: muza v nej Otkryla pir mladych zatej, Vospela detskie vesel’ja, I slavu našej stariny, I serdca trepetnye sny. I Nei giorni in cui nei giardini del Liceo Fiorivo sereno, Amavo leggere Apuleio, E non leggevo Cicerone, Quei giorni nelle valli segrete, In primavera, al grido dei cigni, Vicino alle acque, splendenti nella quiete, La musa cominciò a apparirmi. La mia cella di liceale S’illuminò d’un tratto: la musa allora Aprì il festino della giovane baldoria, Cantò i divertimenti infantili, La gloria dei nostri vecchi tempi, E del cuore i sogni trepidanti.

Un tema in particolare hanno avuto in comune i due poeti: quello del gallo. Leopardi scrisse nel 1824 l’operetta morale Cantico del gallo silvestre39 e Puškin dieci anni dopo la Fiaba del galletto d’oro40. Qualcuno, l’accademico russo M.P. Alekseev, ha avanzato l’ipotesi, in Russia, che Puškin avesse letto l’opera 39

G. Leopardi, Operette morali, cit., pp. 319-332. A. S. Puškin, Skazka o zolotom petuške [Fiaba del galletto d’oro], in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach, cit., vol. 3, Moskva 1945, pp. 557-563. 40

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di Leopardi41, ma non possiamo verificarlo, perché Leopardi non compare spesso nella lista delle fonti letterarie di Puškin. Il Cantico leopardiano è stato apparentemente ritrovato in manoscritto, «in cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica […]»42. La Fiaba del galletto d’oro, invece, è l’unica delle fiabe puškiniane a non avere un’origine popolare: deriva dalla Leggenda dell’astrologo arabo contenuta nella raccolta di ispirazione romantica The Alhambra of the New Sketch Book (18191820) dello scrittore americano Washington Irving, che Puškin aveva nella traduzione francese, uscita a Parigi nel 1832, come testimonia l’edizione in due volumi della raccolta presente nella sua biblioteca. Lo scrive Anna Achmatova, che studiò a lungo l’opera di Puškin43. C’è un fiore sempre associato a Leopardi, e non posso scorgerlo senza fare a meno di pensarci: la ginestra. La scorgevo sulle rocce a picco sul mare, da ragazza, e l’associavo al pessimismo cosmico leopardiano. Un fiore robusto e eroico, che cresce nei punti impervi, gioioso e urlante per via del suo colore: il giallo, e del suo profumo. Leopardi lo vede sul Vesuvio. Io lo vedevo al mare, spesso dal mare, e avevo dimenticato l’associazione leopardiana del fiore giallo col grigio della lava. Volendo continuare la ricerca delle affinità fra Leopardi e Puškin, si può confrontare La ginestra, una delle sue ultime liriche, 41 Lo cita Aleksej Bukalov nel volume Puškinskaja Italija, Zapiski žurnalista [L’Italia di Puškin, Appunti di un giornalista], a cura del Dipartimento di Scienze del linguaggio dell’interpretazione e della traduzione dell’Università degli studi di Trieste, 2005, a p. 106, specificando in nota: «Alekseev M.P., Zametki na poljach [Appunti in margine], nel volume Vremennik Puškinskoj komissii [Periodico della Commissione puškiniana], 1979, Leningrad, Nauka, 1982, p. 94, e anche in Kuznecov I.S., O traktovke odnogo antičnogo sjužeta v lirike Puškina i Leopardi [Sull’interpretazione di un soggetto antico nella lirica di Puškin e di Leopardi] nel volume Vladikavkazskie Puškinskie čtenija [Letture puškiniane del Vladikavkaz], 1993». 42 G. Leopardi, Operette morali, cit., p. 321. 43 Anna Achmatova, O Puškine [Su Puškin], Sovetskij pisatel’, Leningrad 1977, nel capitolo «Skazka o zolotom petuške» i «Car’ uvidel pred soboj…» [«Fiaba del galletto d’oro» e «Lo zar vide avanti a sé…»], p. 39: «La traduzione francese è molto vicina all’originale e rende bene il tono ironico delle fiabe di Irving. Evidentemente Puškin ha usato la traduzione, non l’originale. Nella biblioteca del poeta si trova proprio l’edizione francese in due volumi dell’Alhambra».

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del 1836, con l’Ančar di Puškin, scritta nel 1828. L’«ančar» è un albero velenoso, che cresce nel deserto. Il messaggio delle due liriche è opposto: l’«ančar» è portatore di morte, mentre la ginestra è assunta da Leopardi a simbolo di solidarietà umana, sullo sfondo della distruzione delle illusioni infantili e in nome di una nuova, matura, amara consapevolezza. Dopo aver riletto La ginestra, ne sento tutto il significato drammatico, e ne apprezzo e riscopro le parti meno conosciute, come nuovi dettagli su un quadro già visto. Puškin scrive nell’Ančar44: […] Ad esso né l’uccello vola Né viene il tigre – solo il nero turbine L’albero della morte investe, E fugge lungi, ormai pestifero.

La ginestra, al contrario, è popolata da tanti, e brulicanti animali: «la serpe», «il coniglio», «gli armenti», «le formiche», «i pipistrelli». Sembra che Leopardi li chiami tutti a raccolta in un’arca, prima di dichiarare45: Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire Fraterne, ancor più gravi D’ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l’uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. 44

Aleksandr S. Puškin, Poemi e liriche, trad. it. di Tommaso Landolfi, pp. 415-

416. 45

G. Leopardi, Canti, cit., pp. 167-168.

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Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L’umana compagnia, Tutti fra se confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. […] (2011)

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Il mago gentile e il pupillo delle chiare muse (su Orest Kiprenskij)

A Kiprenskij Favorito della moda dalle leggere ali, Anche se non britanno, né francese, Tu hai ricreato, mago gentile, Me, pupillo delle chiare muse, E io rido dell’avello, Liberato per sempre dai mortali pesi. Me stesso come allo specchio vedo, Ma mi lusinga questo specchio. Esso afferma che non deludo Le aonidi preziose nel farmi il prediletto. Così a Roma, Parigi, Dresda Sarà prima famoso il mio aspetto. Aleksandr Puškin1

L’incoronazione di Nicola I nel 1825 influenzò gli eventi della vita privata dell’artista Kiprenskij e del poeta Puškin, dell’incontro dei quali parlerò più avanti. In questo momento magico, particolare, Puškin poté tornare dall’esilio alla sua vita a San Pietroburgo e a Mosca, e Orest Kiprenskij ottenne finalmente il permesso ufficiale di sposarsi, firmato dal Cardinal Bernetti, con la quattordicenne Anna Maria Falcucci (Mariuccia). Dopo un lungo soggiorno in Italia, soprattutto a Roma, Kiprenskij, educato 1 La poesia di Puškin Kiprenskomu [A Kiprenskij], inedita in italiano, è tratta da Stichotvorenija 1826-1836 [Poesie 1826-1836], in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], izd-vo Akademii Nauk Leningrad 1948, vol. 3, p. 63.

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all’arte classica e italiana, creò un ritratto di Puškin. Kiprenskij, che all’epoca era già stato soprannominato «il Van Dyck russo» aveva allora 44 anni, Puškin – 28. Il poeta fu molto contento del suo ritratto e decise di scrivere a Kiprenskij, in cambio, una piccola poesia in segno di riconoscenza, a lui dedicata. La poesia si divide in due strofe. Nella prima, all’inizio, Puškin chiama Kiprenskij «Favorito della moda dalle leggere ali», come avrebbe potuto caratterizzare Onegin: usa per lui, infatti, lo stesso tono improvvisato, semiserio; è la stessa epoca del famoso romanzo in versi. Stabilisce immediatamente con l’artista un rapporto in cui l’«io» e il «tu» sono a contrasto, e in cui Puškin assume un ruolo di primo piano, e relega Kiprenskij in una posizione di secondo piano. Si crea un contrasto fra Kiprenskij, viaggiatore alla moda, e l’eternità del ritratto da lui creato, che rende a sua volta Puškin immortale già in vita, esaltando la sua immagine. Noi sappiamo che quando Puškin era in vita questa poesia non fu pubblicata. Dagli autografi di Puškin conosciamo le varianti delle singole parole, che ci aiutano a capire l’atteggiamento dell’autore nei confronti di Kiprenskij2. È interessante notare che l’aggettivo «chiare», riferito alle muse nella prima strofa, nella precedente variante della poesia era «russe», e «Muse» era scritto con la lettera maiuscola. Evidentemente Puškin voleva sottolineare con questo la sua appartenenza alla Russia, la sua «russità», a contrasto con la «forestierità» di Kiprenskij. Puškin vede nel ritratto un suo sosia («Tu hai ricreato, mago gentile, / Me, pupillo delle chiare muse,»). Il ritratto gli piace molto, lo «lusinga», come se apparisse anche più bello del poeta. E Puškin chiama Kiprenskij: «mago gentile». Il ritratto effettivamente piacque a tutti gli amici e alle persone vicine al poeta. Suo padre, Sergej L’vovič, scriveva3: Il ritratto migliore di mio figlio è quello dipinto da Kiprenskij e inciso da Utkin. 2 3

Drugie redakcii i varianty [Altre redazioni e varianti], ivi, pp. 595-596. Sergej L. Puškin, «Otečestvennye Zapiski» [Appunti patriottici], 1841, vol. 15,

p. 4.

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La baronessa Del’vig manda all’amica l’ultimo numero della rivista «Severnye cvety» [Fiori del nord] del 1828 col ritratto di Puškin e le scrive4: Eccoti il nostro caro, buon Puškin. Il suo ritratto è sorprendentemente simile, come se lo vedessi di persona. Quanto lo ameresti, se lo vedessi come me. È un uomo che acquista, quando lo conosci.

Da questa lettera si vede che alla baronessa Del’vig il ritratto non solo sembra riuscito, ma vicino all’essere animato, quasi vivo. Nella poesia A Kiprenskij, al contrario, lo stesso Kiprenskij è chiamato da Puškin «mago gentile», come se fosse il personaggio di una fiaba. Evidentemente Kiprenskij maturo seppe mostrare nel ritratto la sua maestria, la sua conoscenza della pittura italiana, sotto l’influenza della quale continuò a vivere e a lavorare anche in patria. In Italia il romanticismo di Kiprenskij si tramutò in una percezione più misurata del mondo; in lui nacque «l’interesse per la pittura armoniosa del Cinquecento, in particolare per Leonardo da Vinci»5. In questo modo, prendendo in prestito lo sfumato leonardesco, forse addolcì un po’ i tratti del viso di Puškin. Disponiamo di poche testimonianze documentarie sull’aspetto di Puškin: il poeta, infatti, fu ritratto molto spesso, ma sempre d’immaginazione. A eccezione, certo, di rari ritratti riusciti e della maschera funebre, conservata nella casa-museo di Puškin sulla Mojka, al numero 12, a San Pietroburgo. Questa viene mostrata dalla custode per un minuto, e poi subito ricoperta, anche fra una visita e l’altra, con un panno nero. Ma, nel gesso bianco, dove venne impresso il viso del poeta con i favoriti, Puškin aveva dieci anni di più rispetto al ritratto di Kiprenskij, e il suo viso, forse, era anche deformato dalla gelosia, – che lo aveva oppresso a lungo, straziato, reso simile a una tigre, stando alla descrizione 4

S.M. Del’vig a A.N. Semenova, 9 febbraio 1828, cit. da Boris L. Modzalevskij, Puškin, Priboj, Leningrad 1929, p. 216. Vedi anche: T.K., Galuško, K istorii portreta Puškina [Per una storia del ritratto di Puškin], nella raccolta Orest Kiprenskij, Gos. Russkij Muzej, Sankt-Peterburg 1993, pp. 108-112. 5 Dmitrij Sarab’janov, Artisti russi in Italia, traduzione di Chiara Spano, in I russi e l’Italia, a cura di Vittorio Strada, Scheiwiller, Milano 1995, p. 143.

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dei contemporanei che frequentavano i suoi stessi salotti, – e dal dolore delle ferite ricevute in duello… C’è un altro modo ancora per sapere che aspetto avesse: Puškin lasciò un suo autoritratto giovanile, quasi infantile, in versi. La poesia Mon portrait fu scritta in francese nel 1814, cioè quando il poeta aveva quindici anni. La strofa finale suona così6: Vrai démon pour l’espièglerie, Vrai singe par sa mine, Beaucoup et trop d’étourderie. Ma foi, voilà Pouchkine.

Nella poesia A Kiprenskij le due strofe, uguali per misura, si guardano l’un l’altra, come una persona che si guardi allo specchio. Lo specchio di Puškin è il suo ritratto dipinto. Lo sguardo del poeta è rivolto anche a Kiprenskij. Nel seguito della poesia il poeta intravede la sua futura gloria dopo la morte. Puškin capiva già allora quello che oggi è evidente: che le immagini arrivano prima delle parole, che la loro strada è più veloce, e più efficace. Il ritratto di Puškin, a differenza dello stesso Puškin, può viaggiare, può essere mostrato «a Roma, Parigi, Dresda» e fare così pubblicità al poeta. Kiprenskij con le sue tele sostituì in parte il viaggio per molti. Puškin, forse, capiva che la sua «bruttezza da moro», di cui parla alla moglie in una lettera del 14 e 16 maggio 1836, unita alla sua eleganza, potevano contribuire alla sua fama, e, in parte, accelerarla. E, ancora, capiva che la riproduzione di un’immagine è importante («Tu, mago gentile, hai ricreato / Me,»), ma può essere effimera, come la moda dalle ali leggere, come il successo stesso. Nella poesia A Kiprenskij, a giudicare dalla prima stesura, Puškin è come se sottolineasse e andasse fiero del suo essere un uomo veramente russo, le cui radici affondano profondamente nella sua terra. Ma questo è anche un guaio. E sotto il suo tono negligente nei confronti dell’artista si avverte una certa invidia 6 «Un vero diavolo per le birichirate, / Una vera scimmia per l’aspetto, / Molta e fin troppa sventatezza. / Ecco, in fede mia, Puškin». La poesia si trova in Licejskie stichotvorenija [Poesie liceali], in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach, cit., 1937, vol. I, pp. 90-91.

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per la sorte di un altro più libero di lui. Kiprenskij aveva il privilegio concesso dagli zar di viaggiare più liberamente per l’Europa. Probabilmente era considerato meno pericoloso. Puškin di tanto in tanto malediceva la sua sorte, e in una lettera famosa alla moglie Natal’ja Nikolaevna del 18 maggio del 1836 scrive7: Il diavolo me l’ha fatto fare di nascere in Russia con un’anima e talento!

Se esiste una simmetria nella poesia A Kiprenskij fra le due strofe e una simmetria fra il ritratto di Puškin per mano di Kiprenskij e la lirica giovanile di Puškin Mon portrait, si può stabilire un certo legame incrociato fra Mon portrait del poeta e l’autoritratto di Kiprenskij del 1828. Kiprenskij era molto popolare in Italia; fu il primo artista russo al quale fu commissionato un autoritratto per la Galleria degli Uffizi di Firenze, dove si trova tuttora. Uno strano ritratto se vogliamo paragonarlo a quello puškiniano. Puškin se ne sta in una posa conchiusa, le braccia incrociate sul petto. È sussiegoso, prezioso come sono preziose le sue aonidi nella poesia sopra citata: «Esso afferma che non deludo / Le aonidi preziose nel farmi il prediletto». Ha 27-28 anni, non ha ancora conosciuto Natal’ja Nikolaevna Gončarova. Nella posa è espressa la sua gloria presente e futura, e s’intuisce una certa distanza, che separa il poeta dallo spettatore. Lo sguardo di Puškin ci evita, va oltre. Nel suo Autoritratto Kiprenskij, al contrario, è come se ci guardasse, ma invece, in realtà, non ci guarda. Kiprenskij guarda se stesso allo specchio, per ritrarsi. Infatti ha qualcosa in mano: un pennello, o uno stilo. I capelli ricci e scuri gli incorniciano le tempie e la fronte. La posa è protesa in avanti. Fra i suoi occhi e noi è come se ci fosse un vetro; il suo sguardo non ci raggiunge, ma si ferma da qualche parte nello spazio. Ha l’aspetto di un giovane, anche se ha 45 anni. Un bellimbusto, col bavero 7 A. S. Puškin, Perepiska 1835-1837 [Corrispondenza 1835-1837], cit., vol. 16, pp. 117-118.

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bianco della camicia sollevato, come andava di moda a quel tempo. Stando alla descrizione dello scultore Samuil Gal’berg8: era di statura media, piuttosto snello e piacente, ma amava farsi ancora più bello [farsi bello, in italiano nel testo, n.d.t.]: si arricciava i capelli, si coloriva, imparò a cantare e a suonare la chitarra.

Kiprenskij visse a lungo a Roma, e vi morì. A quel tempo nel centro di Roma era concentrata una quantità di artisti e scrittori, e non solo russi. È significativo che Kiprenskij e Gogol’ avessero preso in affitto un appartamento nella stessa strada, Via di Sant’Isidoro, dallo stesso proprietario Giovanni Masucci, anche se Gogol’ vent’anni più tardi. E Kiprenskij, quando tornò la seconda volta in Italia nel 1828, stando alle memorie del noto incisore Fedor Iordan, prese in affitto un appartamento di lusso in una casa, nella quale in passato aveva vissuto fino alla morte Claude Lorrain, a Via del Babbuino, non lontano da Piazza di Spagna. Kiprenskij e Puškin ebbero poche coincidenze topografiche, ma temi paralleli: personaggi in comune, appartenenti, fondamentalmente, a quell’epoca. Sono molti, è difficile elencarli. È da notare che uno a volte dipinge ciò di cui l’altro canta. Per esempio, Kiprenskij dipinse nel 1821 Il sepolcro di Anacreonte, un quadro che non è giunto fino a noi. Dipinse la danza del fauno e della baccante sulla tomba di Anacreonte9 (e la modella del fauno era stata Mariuccia, ancora bambina, la stessa Mariuccia che in seguito l’artista sposò)10. Puškin, invece, tradusse nel 1835 il frammento 8 S.I. Gal’berg, «Kiprenskij», in Russkij biografičeskij slovar’, izdan pod nabljudeniem predsedatelja Imperatorskogo Russkogo Istoričeskogo Obščestva A.A. Polovcova [Dizionario biografico russo, pubblicato sotto il controllo del presidente della Società Russa Storica Imperiale A.A. Polovcov], Sankt-Peterburg 1897, vol. 10, p. 635. 9 D. Sarab’janov, Artisti russi in Italia, cit., p. 144: «Secondo gli schizzi e le descrizioni dei contemporanei, Kiprenskij aveva raffigurato la danza di un satiro e di una baccante al suono della siringa di un fauno. Questa scena era stata ambientata dall’autore sulla tomba di Anacreonte, grande poeta d’amore, che, all’inizio del XIX secolo, era divenuto straordinariamente popolare in Russia, e aveva dato origine a tutta una corrente di “lirica anacreontica”, esponenti della quale erano Konstantin Batjuškov, Aleksandr Puškin, Evgenij Baratynskij e altri poeti russi dell’“età d’oro”». 10 Scrive Evgenija Petrova nel testo introduttivo al volume Orest Kiprenskij (1782-1836) e l’Italia – Carteggi inediti, traduzione dal russo di Annelisa Alleva, Edi-

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Da Anacreonte, l’Ode LVI (da Anacreonte) e l’Ode LVII11, che non furono neppure questi mai pubblicati in vita. Un altro esempio, meno diretto: il quadro di Kiprenskij I lettori di giornali a Napoli del 1831. Tutti i personaggi raffigurati nel quadro sono staccati uno dall’altro; guardano in direzioni diverse, come se ognuno avesse una sua reazione, una sua opinione personale sulle notizie del giornale. E Puškin scrive alla moglie Natal’ja Nikolaevna da Mosca il 18 maggio 183612: Brjullov è uscito ora e va a Pietroburgo a malincuore; teme il clima e la mancanza di libertà. Io provo a consolarlo e a incoraggiarlo; ma intanto mi piange il cuore nel ricordare che io stesso sono un giornalista.

Un altro tema, che avvicinava Kiprenskij e Puškin, era Goethe. Kiprenskij dipinse due ritratti di Goethe nel 1823 e dai disegni di questi furono eseguite delle litografie da H. Grevedon. Puškin scrisse nel 1825 la Scena dal Faust13 e dedicò a Goethe la poesia del 1828 Chi conosce il paese, dove brilla il cielo, con l’epigrafe: «Kennst du das Land…»14 Va ricordato ancora un quadro di Kiprenskij, che è vicino alla biografia di Puškin: il ritratto delle due figlie del generale aiutante di campo Benkendorf. Come riporta il Dizionario biografico russo15: Aleksandr Christoforovič Benkendorf, conte, generale di cavalleria, senatore, Membro del consiglio di Stato, […] capo dei gendarmi e comandante in capo del III Reparto della Cancelleria di Sua Altezza Imperiale […] non aveva figli di sesso maschile, e per questo motivo i suoi averi furono lasciati a suo nipote, Konstantin Konstantinovič Benkendorf. zioni del Borghetto, Roma 2005, p. 13: «L’artista aveva conosciuto una bambina chiamata Mariuccia (Anna Maria Falcucci), giovanissima modella che, in veste di piccolo fauno, posava per il suo dipinto La tomba di Anacreonte». 11 A. S. Puškin, Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], cit., vol. 3, pp. 373, 374, 375. 12 A. S. Puškin, Perepiska 1835-1837 [Corrispondenza 1835-1837], cit., vol. 16, p. 117. 13 A. S. Puškin, Licejskie stichotvorenija v pozdnejšich redakcijach [Poesie liceali in redazioni successive] 1947, in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach, cit., vol. 2, p. 434. 14 A. S. Puškin, Stichotvorenija 1826-1836. Skazki, cit., p. 96. 15 Russkij biografičeskij slovar’ [Dizionario biografico russo], Sankt-Peterburg 1900, vol. 2, pp. 695-697.

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Aleksandr Puškin fu affidato dallo zar alla tutela diretta di Benkendorf, e se ne lamentava amaramente. Benkendorf era l’intermediario delle edizioni dei suoi versi, delle sue retribuzioni, della censura; lo seguiva come un’ombra in ogni suo più piccolo spostamento. Puškin si rivolse a lui nella lettera del 21 aprile 182816: […] Poiché i prossimi 6 o 7 mesi resterò probabilmente in ozio, desidererei trascorrere questo periodo a Parigi, cosa che, forse, in seguito non mi sarà più possibile.

Le strade parallele di Kiprenskij e di Puškin furono fermate per volontà del divieto imperiale. A Puškin non fu concesso di andare a Parigi nel 1828, e dopo non gli riuscì più, come aveva previsto nella lettera a Benkendorf. Oggi San Pietroburgo vede i personaggi eminenti di due secoli fa e di un tempo più antico, mitologico, immortalati nei quadri di Orest Kiprenskij. Nella Casa sulla Fontanka si riunisce uno stormo di uccelli «dalle ali leggere», proveniente da diversi musei. Il ritrattista Kiprenskij è in mezzo a noi insieme con le persone da lui raffigurate. Ci inchiniamo davanti alla sua maestria e davanti alla tradizione pittorica russa. (2011)

16 A. S. Puškin, Perepiska 1828-1831 [Corrispondenza 1828-1831], Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach, cit., [Leningrad] 1941, vol. 14, p. 11.

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Degli idoli miei mi vergogno (l’Evgenij Onegin di Puškin)

Degli idoli miei mi vergogno. dal Dialogo del libraio col poeta di A. Puškin

C’è una frase di Puškin, in una lettera da Pietroburgo alla moglie incinta Natal’ja Nikolaevna Gončarova del 20-22 aprile 1834, che trovo illuminante per descrivere il suo metodo digressivo. Il poeta scrive a proposito del figlio Saška1: Che Dio lo guardi dal seguire le mie orme, scrivere versi e bisticciare con gli zar! Nei versi non batterà suo padre, e con la frusta non abbatterà la scure. Ma ora basta con le chiacchiere, parliamo di cose serie; per favore, riguardati, soprattutto i primi tempi […]

Per arrivare all’argomento che gli sta più a cuore, Puškin si serve di un procedimento stilistico a lui congeniale: la digressione2. Si abbandona a fastasticherie sul figlio e poi, subito dopo, manifesta, con una certa civetteria, la necessità di tralasciare quanto detto in precedenza, liquidandolo con «teper’ polnò vrat’» [ora basta con le chiacchiere]. Dopo averlo spezzato, riprende il discorso sulla salute della moglie incinta, le dedica un’attenzione esclusiva, seducendola con la mercurialità del suo carattere.

1 Aleksandr S. Puškin, Perepiska 1832-1834 [Corrispondenza 1832-1834] in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR, [Leningrad] 1948, vol. 15, p. 130. 2 Nel Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica diretto da Gian Luigi Beccaria, Einaudi, Torino 2004, la digressione viene così definita: «Imparentata con “trasgressione”, “divertimento” e “svago”, legame quest’ultimo ancora più evidente nel sinonimo “divagazione” (l’andar vagando), la digressione è l’allontanarsi momentaneo dall’argomento del discorso» (p. 240).

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La digressione nell’Onegin è qualcosa di molto simile a questo «teper’ polnò vrat», «ora basta con le chiacchiere», un continuo spezzettamento dell’intreccio per poi tornare, almeno apparentemente, al dunque, reso possibile dal fatto che il genere del «romanzo in versi» – come lo definì il suo autore – vi si prestava, avendo sia una fabula che una particolare struttura metrica. L’intreccio era già stato rotto nel Settecento, con i romanzi Vita e opinioni di Tristram Shandy (1760) e il Viaggio sentimentale (1768) di Laurence Sterne, nell’ultimo dei quali l’autore sembra registrare alla debita distanza la fuga del suo protagonista dal soggetto. Child Harold (1812, 1816, 1818) e l’incompiuto Don Juan (1819-1824) di Byron, modelli cronologicamente più vicini a Puškin, erano stati scritti invece in versi come l’Onegin (18231830), ma si differenziano ugualmente da questo. In una lettera al poeta principe Vjazemskij del 4 novembre 1823, Puškin scrive3: Per quanto riguarda il mio lavoro, ora sto scrivendo non un romanzo, ma un romanzo in versi – differenza diabolica. Sul tipo del Don Giovanni – di pubblicarlo neanche a pensarci; scrivo a ruota libera.

Nella scelta «diabolica», da Don Giovanni, di un genere doppio, che, come tale, esige il rispetto delle norme sia della prosa che della poesia, Puškin affronta un difficile percorso a ostacoli/cesure; si trova simbolicamente di fronte a due porte, che possono presentargli una doppia serratura, ma anche una doppia scappatoia. Fra quelle che Bachtin chiama le «zone»4 stilistiche, molteplici nell’Onegin quanto il numero di personaggi, ognuno dotato di una sua lingua specifica, le digressioni crescono come su una fer3 A. S. Puškin, Perepiska 1815-1827 [Corrispondenza 1815-1827], in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], cit., 1937, vol. 13, p. 73. 4 Michail Bachtin, La parola nel romanzo, in Id., Estetica e romanzo, introduzione di Rossana Platone, traduzione di Clara Strada Ianovič, Einaudi, Torino 1979, p. 125. Bachtin chiama zona «il raggio d’azione della voce del protagonista che in un modo o nell’altro si mescola alla voce dell’autore». Più avanti, a p. 129, scrive: «Le zone dei protagonisti sono l’oggetto più interessante delle analisi stilistiche e linguistiche: in esse si possono incontrare costruzioni che gettano una luce del tutto nuova sui problemi della sintassi e della stilistica».

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degli idoli miei mi vergogno

tile proprietà, si inseriscono come un prato pagano fra un terreno linguistico e l’altro, costituiscono una semplice rottura fra un piano narrativo, o metrico, e un altro. Il rapporto di interdipendenza fra versi e prosa nell’Onegin è inafferrabile quanto quello che intercorre fra digressioni e fabula. Ammettendo che lo studio della forma possa somigliare all’osservazione delle cuciture di un abito sul rovescio, che, sole, ci aiutano a capire come sia stato tagliato, montato e cucito, si può forse affermare che il filo straordinario, leggero ma resistentissimo, con cui Puškin costruì l’Onegin, sia proprio quello della digressione; attraverso questo filo si potrebbe raccontare il romanzo. Prima di affrontare il discorso sulla digressione, però, è necessario provare a capire quella frase di Puškin a Vjazemskij riportata da Tomaševskij, e anche da Tynjanov5: […] ora sto scrivendo non un romanzo, ma un romanzo in versi – differenza diabolica.

Che cosa intendeva dire Puškin con queste due parole enigmatiche: «d’javol’skaja raznica»? * Osip Mandel’štam sosteneva che la storia di un poeta può essere considerata come una storia di acquisizioni, ma anche come una catena di perdite. A Puškin quest’affermazione calza perfettamente; è evidente, infatti, che l’autore del Boris Godunov non avrebbe più potuto scrivere i versi liceali. L’Evgenij Onegin, scritto in 7 anni, 4 mesi e 17 giorni – dal 9 maggio 1823 al 25 settembre 1830, cioè fra i 24 e i 31 anni di Puškin – è una lunga testimonianza che accompagna parallelamente la migliore produzione lirica, considerata ormai matura, 5 Boris Tomaševskij, Načalo raboty nad Evgeniem Oneginym [Inizio del lavoro sull’Evgenij Onegin], in Id., Puškin, Akademija Nauk SSSR, Moskva-Leningrad 1956, kniga pervaja, p. 600; Jurij N. Tynjanov, Puškin, in Id., Avanguardia e tradizione, introduzione di Viktor Šklovskij, traduzione di Sergio Leone, Dedalo Libri, Bari 1968, p. 103.

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del poeta; secondo Ettore Lo Gatto l’Onegin rappresentava per il poeta un «diario lirico»6. Puškin replicava in una lettera del 24 marzo 1825 all’amico A.A. Bestužev da Michajlovskoe, dopo la stesura del primo capitolo, difendendosi disperatamente dagli attacchi al romanzo: La tua lettera ha molto senso, tu però hai comunque torto, comunque guardi l’Onegin dal punto di vista sbagliato, comunque è la mia opera migliore7.

In quest’opera Puškin perviene alla misura del complesso, diabolico romanzo in versi, che nel genere corrisponde, almeno parzialmente, alla sua storia di acquisizioni e di perdite, tant’è vero che lo accompagna più o meno fedelmente per sette anni. Dopo aver concluso il romanzo e aver rinunciato a completarlo, Puškin tenne per circa due anni un diario vero e proprio. Il «romanzo in versi», chiamato dallo stesso autore «romanzo libero»8, o «panorama», contiene tutto: sono presenti, infatti, in forma abbozzata, nelle digressioni liriche, alcune poesie 6 Ettore lo Gatto, Puškin. Storia di un poeta e del suo eroe, Mursia, Milano 1959, p. 39 dell’introduzione. 7 A. S. Puškin, Perepiska 1815-1827 [Corrispondenza 1815-1827], cit., p. 155. La lettera continua così: «Tu paragoni il primo capitolo con il Don Giovanni. Niente mi fa più onore del Don Giovanni (i primi 5 canti, gli altri non li ho letti), ma non ha niente in comune con Onegin. Tu parli della satira dell’inglese Byron e la paragoni con la mia, e pretendi la stessa da me! No, anima mia, vuoi troppo. Dov’è la mia satira? Non ce n’è traccia nell’Evgenij Onegin. Gli argini del fiume tremerebbero, se solo sfiorassi la satira. La parola satirico non dovrebbe neanche comparire nell’introduzione. Aspetta gli altri canti… Ah! Se riuscissi ad attirarti a Michajlovskoe!… vedrai che se bisogna paragonare Onegin al Don Giovanni, è solo in un senso: chi è più bella e graziosa (gracieuse), Tat’jana o Julia? Il primo canto è solo una veloce introduzione, e ne sono soddisfatto (cosa che mi capita di rado). Con questo concludo la nostra polemica…». 8 «La libertà dalla trama è messa in rilievo dalla fine del romanzo. Il romanzo termina com’era cominciato, all’improvviso. Il congedo con Onegin è dato in un momento di tensione della fabula. Ma sia l’ultimo capitolo (1832), sia la prima edizione completa dell’Evgenij Onegin (1833) terminavano con i Frammenti del viaggio di Evgenij Onegin, che risultano, in tal modo, la vera fine del romanzo e ne mettono in rilievo l’“incompiutezza”. Tali frammenti non solo sottolineano una costruzione priva di trama, ma sembrano stilisticamente simboleggiarla. Gli ultimi 140 versi sono scritti in forma di digressione variando una sola frase: “Io vivevo in Odessa polverosa”» (J. N. Tynjanov, Puškin, in Id., Avanguardia e tradizione, cit., p. 104; la versione russa è in Ju. N. Tynjanov, Archaisty i novatory, Wilhelm Fink Verlag, München 1967, p. 277).

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scritte in quegli anni, e la prosa, in contrapposizione con queste. Dove finiscono i poemi romantici byroniani della giovinezza inizia l’Onegin, dove finisce l’Onegin inizia la stesura dei Racconti di Belkin: l’attività letteraria di Puškin si potrebbe interpretare come un progressivo spostamento dai versi alla prosa, segnato da un’opera che si protrasse a lungo nel tempo e che conservò peculiarità di questi e di quella. Leggendo l’opera poetica di Puškin per esteso, infatti, ci si rende conto che il genere elegiaco e quello sferzante dell’epigramma convivono in lui fin dai primi passi; solo, all’inizio, in forma separata. È lecito, tuttavia, eleggere il genere elegiaco precursore della matura poesia sentimentale, e quello velenoso, disincantato dell’epigramma – precursore della prosa? Come dice Lo Gatto con profonda libertà di giudizio: «nulla impedisce al cinismo di essere lirico, […] pienamente lirico è il cinismo espresso da Puškin nella sua Scena dal Faust»9. Per capire questo è indispensabile leggere Il dialogo del libraio col poeta (1824), dal titolo che ricorda un’operetta morale leopardiana, una in particolare, assai affine per tema: Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere10. La poesia di Puškin sarebbe dovuta diventare l’introduzione al primo capitolo dell’Onegin, ma poi non fu inserita nel romanzo; in essa, dopo aver negato i sentimenti, il poeta-Puškin esclama11: Mne stydno idolov moich. K čemu, nesčastnyj, ja stremilsja? Pred kem unizil gordyj um? Kogo vostorgom čistych dum Bogotvorit’ ne ustydilsja?… Degli idoli miei mi vergogno. A cosa, infelice, ho aspirato? Davanti a chi ho abbassato la mente fiera? Chi nell’estasi di puri pensieri Di divinizzare non mi son vergognato?… 9

E. Lo Gatto, Puškin. Storia di un poeta e del suo eroe, cit., p. 37. G. Leopardi, Operette morali, a cura di Cesare Galimberti, Guida Editori, Napoli 1977, pp. 413-419. 11 Aleksandr S. Puškin, Stichotvorenija 1817-1825 [Poesie 1817-1825], Izdatel’stvo Akademii nauk SSSR, Leningrad 1947, vol. 2, p. 327. 10

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rinnegando così le innumerevoli Doride, Lile, principesse, fanciulle dalle iniziali puntate – tutte ugualmente muse ispiratrici della sua poesia precedente. Più avanti, infine, alla richiesta ripetuta del libraio di cedergli il manoscritto, per convertirlo «all’istante in rubli», il poeta acconsente, e la replica finale è la sua, in prosa: Poet Vy soveršenno pravy. Vot moja rukopis’. Uslovimsja. Poeta Avete completamente ragione. Ecco il mio manoscritto. Accordiamoci.

Questa è l’idea che Puškin ha della prosa; oppure, nell’ottava strofa della bellissima Autunno (1833), scrive12: Ja snova žizni poln – takov moj organizm (Izvol’te mne prostit’ nenužnyj prozaizm). Sono di nuovo pieno di vita – questo è il mio organismo (Vogliate scusarmi l’inutile prosaismo).

In una lettera del 1828, indirizzata a Praskov’ja Osipova da Pietroburgo a Michajlovskoe, Puškin scrive13: […] Je vous avoue que cette existence est assez sotte, et que je brûle de la changer de manière ou d’autre. Je ne sais si je viendrai encore à Michajlovskoe. Cependant c’eût été mon désir. Je vous avoue, Madame, que le bruit et le tumulte de Pétersbourg m’est devenu tout à fait étranger – je les supporte avec impatience. J’aime mieux votre beau jardin et le joli rivage 12 Aleksandr S. Puškin, Osen’, in Id., Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], Izdatel’stvo Akademii nauk SSSR, Leningrad 1948, vol. 3, p. 320. 13 Aleksandr S. Puškin, Perepiska 1828-1831 [Corrispondenza 1828-1831] in Id., Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach (Opere complete in 17 volumi), Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR, [Leningrad] 1941, vol. 14, p. 1: «Vi confesso che quest’esistenza è assai sciocca, e che ardo dalla voglia di cambiarla in un modo o in un altro. Non so se verrò ancora a Michajlovskoe. Comunque sarebbe stato mio desiderio. Vi confesso, Signora, che il rumore e la confusione di Pietroburgo mi sono diventati improvvisamente estranei e li sopporto con fastidio. Preferisco il vostro bel giardino e la graziosa riva del Sorot’. Vedete, Signora, che i miei gusti sono ancora poetici nonostante l’arida prosa della mia esistenza attuale. È vero che è difficile scrivervi senza essere poeta».

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de la Sorot’. Vous voyez, Madame, que mes goûts sont encore poétiques malgré la vilaine prose de mon existence actuelle. Il est vrai qu’il est difficile de vous écrire et de n’être pas poète.

Ma che cosa diventano questi giudizi convenzionali su poesia e prosa, misti a complimenti seducenti, nell’Onegin, impregnato di quell’elemento essenziale del romanzo che Bachtin chiama «pluridiscorsività»?14 La compresenza di affermazione e negazione, che caratterizza il Puškin della maturità, assomiglia a una fotografia scattata da diverse angolazioni e con diversi obiettivi, esibita nella sua gamma di fuochi, esposizioni, che rende con maggiore o minore evidenza il senso dello spazio attraverso la molteplicità di piani, contrasti cromatici, movimento. Naturalmente quanti più sono i piani rappresentati, tanto maggiore sarà la resa della profondità sulla piattezza della carta stampata. Bachtin, che ritiene il riso uno degli elementi caratterizzanti del romanzo in genere, scrive a proposito del romanzo comico15: L’autore esagera in modo più o meno vigoroso certi momenti della “lingua comune”; a volte denuda bruscamente la sua inadeguatezza al soggetto, a volte, al contrario, quasi solidarizza con essa, mantenendo solo una distanza minima, ma a volte fa risuonare in essa la propria voce […]. Lo stile umoristico esige questo vivo movimento dell’autore in direzione della lingua e viceversa, questo incessante mutamento della distanza tra loro e il conseguente passaggio di certi momenti della lingua dalla luce nell’ombra.

Bachtin sottolinea la libertà del romanzo, per esempio, rispetto al genere dell’epos, e si riferisce specificamente al nostro 14 M. Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 69: «Il romanzo come totalità è un fenomeno plurilinguistico, pluridiscorsivo, plurivoco». E a p. 71: «Il discorso dell’autore, i discorsi dei narratori, i generi letterari intercalati, i discorsi dei protagonisti non sono che le principali unità compositive, mediante le quali la pluridiscorsività è introdotta nel romanzo; ognuna di esse ammette una molteplicità di voci sociali e una varietà di legami e correlazioni (sempre in vario grado dialogizzati) tra queste. Tali particolari legami e correlazioni fra le enunciazioni e le lingue, questo movimento del tema attraverso le lingue e i discorsi, il suo frantumarsi nei rivoli e nelle gocce della pluridiscorsività sociale, la sua dialogizzazione: ecco la principale peculiarità della stilistica romanzesca». 15 Ivi, p. 110.

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romanzo16. Puškin è capace, o meglio lo diventa pienamente solo all’epoca della stesura della prima parte dell’Onegin, di avvicinarsi e di allontanarsi dalla propria lingua a piacimento, nella verità-menzogna di quanto asserisce, come un attore. Naturalmente la distanza che si frappone fra l’autore e la sua lingua è colmata dal discorso altrui17 tinto d’ironia. Nella strofa XLVI del primo capitolo Puškin scrive18: Kto žil i myslil, tot ne možet V duše ne prezirat’ ljudej; Kto čuvstvoval, togo trevožit Prizrak nevozvratimych dnej: Tomu už net očarovanij, Togo zmija vospominanij, Togo raskajan’e gryzet. […] Non può chi ha vissuto e pensato In cuor suo non disprezzare la gente; Chi ha sentito, è agitato Dallo spettro dei giorni spenti: Per lui non ci sono più incanti, Dal serpente dei rimpianti, Dal pentimento è roso. […]

Quanto detto suona come una confessione dell’autore; in particolare gli ultimi due versi riecheggiano in una poesia del 1828, Ricordo, in cui Puškin scrive19:

16 Ivi, 468: «Lo spostamento del centro temporale dell’orientamento artistico, spostamento che pone l’autore e i suoi lettori, da un lato, e i personaggi e il mondo da lui raffigurati, dall’altro, su uno stesso piano assiologico-temporale, su uno stesso livello, che li fa contemporanei, possibili conoscenti e amici e che familiarizza i loro rapporti (ricordo ancora una volta l’inizio manifestamente e accentuatamente romanzesco dell’Onegin), permette all’autore in tutte le sue maschere e sembianze di muoversi liberamente nel campo del mondo raffigurato, campo che nell’epos era assolutamente inaccessibile e chiuso». 17 Ivi, p. 122: «Il discorso dei narratori è sempre discorso altrui (rispetto al reale o possibile discorso diretto dell’autore) in una lingua altrui (rispetto alla varietà della lingua letteraria, alla quale si contrappone la lingua del narratore)». 18 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., p. 24. 19 A. S. Puškin, Vospominanie, in Id., Stichotvorenija 1826-1836. Skazki [Poesie 1826-1836. Fiabe], cit., vol. 3, p. 102.

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V bezdejstvii nočnom živej gorjat vo mne Zmei serdečnoj ugryzen’ja. Nell’ozio notturno più vivi ardono in me I morsi del serpente del cuore.

I versi immediatamente successivi sembrano, invece, negare quanto detto in precedenza. Puškin nella stessa strofa sopra citata dell’Onegin scrive: Vse eto často pridaet Bol’suju prelest’ razgovoru. Tutto questo spesso dona Gran fascino alla conversazione.

Il tono parodistico cambia a seconda del personaggio che si esprime attraverso l’autore: fra Onegin e Puškin, per esempio, la distanza è minima, e massima l’identificazione; fra Tat’jana e Puškin la distanza è maggiore, fra Lenskij e Puškin ancora di più. La digressione non è solo quella lirica, non coincide, cioè, solo con il momento in cui l’autore si avvicina al massimo alla propria lingua, fino a fondersi in essa, ma si trova in tutte le fratture del discorso, quindi anche, al contrario, nell’improvviso raffreddamento di tono dell’autore, cioè quando questi prende le distanze dalla sua lingua. Lotman, che ha dedicato uno studio all’Evgenij Onegin, scrive20: Così sorge il compito di costruire un testo artistico (organizzato) che imiti la non artisticità (non organizzazione), creare cioè una struttura che possa essere percepita come assenza di struttura.

Lotman sostiene inoltre che questa premeditata «assenza di struttura» serva a Puškin per avvicinarsi alla realtà, così come i suoi eroi libreschi vengono caratterizzati dalle loro letture affin20 Jurij M. Lotman, L’Evgenij Onegin di Puškin, in Id., Il testo e la storia, a cura di Clara Strada Ianovič, introduzione di Vittorio Strada, Il Mulino, Bologna 1985, p. 96.

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ché appaiano più veri, affinché escano dalla finzione testuale all’interno della quale si trovano intrappolati. E aggiunge21: L’effetto della semplicità è stato raggiunto complicando notevolmente la struttura del testo.

Questa tesi ci fa tornare in mente la frase, citata all’inizio del saggio, tratta da una lettera di Puškin alla moglie: «Teper’ polnò vrat’», ora basta con le chiacchiere. Ma invece di passare alle cose serie, Puškin si serve spesso di questo artificio per continuare a scherzare, per prendere in giro personaggi e lettori: la finzione continua, e, rimandata da una serie di specchi stilistici all’occhio di chi legge, invita a sua volta a prendere parte a questo gioco. Nel 1823, periodo che coincide con l’inizio della stesura del suo romanzo, Puškin annuncia nella corrispondenza con gli amici il suo lavoro sull’Onegin, e fin da subito lo considera qualcosa che lo segue nelle sue peregrinazioni intellettuali, emotive, e nella vita. Scrive a Vjazemskij la frase già citata: «Pišu spustja rukava», cioè «scrivo a ruota libera», letteralmente «abbassandomi le maniche». A Del’vig22: «Pišu teper’ novuju poemu, v kotoroj zabaltyvajus’ donel’zja», cioè: «Adesso sto scrivendo un nuovo poema, nel quale chiacchiero a più non posso». A Aleksandr I. Turgenev23: «Ja na dosuge pišu novuju poemu, Evgenij Onegin, gde zachlebyvajus’ zˇelcˇ ’ ju», cioè: «Nel tempo libero scrivo un nuovo poema, Evgenij Onegin, nel quale dò sfogo alla mia bile». Anche qui Puškin, con il suo solito accento negligente, prende le distanze da quanto scrive nelle onde limitrofe della corrispondenza, che si propagano, concentriche, intorno alla sua opera. La «d’javol’skaja raznica», la differenza diabolica fra romanzo e romanzo in versi si trova in questa doppiezza. Puškin, capostipite con l’Onegin del romanzo psicologico russo dell’Ottocento, non rinnega il diritto al lirismo del verso, ma se ne serve per contrapporgli, in forte contrasto, la prosa.

21

Ivi, p. 97. A. S. Puškin, Perepiska 1815-1827 [Corrispondenza 1815-1827], cit., p. 80. 23 Ivi, p. 73. 22

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* Torniamo ora alle crepe sul muro del romanzo, le digressioni. Viktor Šklovskij scrive al riguardo24: In generale le digressioni svolgono tre funzioni. La prima consiste nel permettere d’introdurre nel romanzo un nuovo materiale. […] Molto più importante è la seconda funzione delle digressioni, cioè il rallentamento dell’azione; il suo frenamento […]. La terza funzione delle digressioni consiste nel servire alla creazione di un contrasto.

Per citare un esempio della terza funzione della digressione Šklovskij pensa alle Foglie morte di Rozanov, in cui il contrasto creato dall’autore è quello fra le sue meditazioni e i luoghi in cui si svolgevano (i pensieri sulla prostituzione seguendo il feretro di Suvorin, l’articolo su Gogol’ in giardino, mentre aveva mal di pancia, eccetera), cioè fra quanto avviene in intellectu e quod fuerat in sensu. Il contrasto, nel caso di Rozanov, serve a mettere in risalto la non coincidenza fra la sua vita interiore e la sua vita esteriore. Šklovskij rileva in questo procedimento una forma di ossimoro. Puškin usa nel romanzo tutte e tre le funzioni della digressione sopra elencate, ma alla sua opera è congeniale soprattutto la terza, quella che serve a creare un contrasto. Anche prima del contrasto versi/romanzo Puškin aveva costantemente accostato la poesia a qualcos’altro di più immediatamente vicino alla sua vita e alle occasioni che questa gli presentava via via: poesia diventa il biglietto lasciato a un amico per invitarlo a un tè, la frase scritta per un onomastico, quella appuntata per ricordo nell’album di un’amica, la dichiarazione in una lettera d’amore, un’episodica pagina di diario. Ci sono anche contrasti che noi, lettori stranieri e di un altro secolo, non possiamo percepire. Per fare un esempio, il nome Tat’jana, russo popolare, mai usato prima in letteratura, non veniva associato a quel tempo a un’eroina romantica25. Di più, 24

Viktor Šklovskij, Teoria della prosa, con una prefazione inedita dell’autore e un saggio di J. Mukařovský, trad. it. di C.G. De Michelis e di R. Oliva, Einaudi, Torino 1976, p. 276. 25 V. Šklovskij, ivi, vi accenna poco più avanti, alle pp. 277-278: «Rozanov ha introdotto nella letteratura nuovi temi, da cucina. I temi domestici erano stati introdotti già prima; Carlotta nel Werther che taglia il pane fu per il suo tempo un feno-

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averla resa nel corso della narrazione principessa, doveva suonare agli orecchi del lettore russo contemporaneo di Puškin come un ossimoro. Molto probabilmente Puškin cerca questi contrasti anche negli altri e, in una lettera alla moglie del 183426, cita una frase tratta dalla commedia Il minorenne di Fonvizin: Vostra signoria, favorite sempre di abbaiare inutilmente.

Il contrasto spesso consiste anche nella negazione del passato, che coincide con l’inizio della stesura dell’Onegin. Come nei versi del Dialogo del poeta col libraio già sopra citati, Puškin rinnega il suo passato e nell’Onegin si chiede con rimpianto27: Kogo moj stich bogotvoril? Chi il mio verso ha divinizzato?

Ne «Il demone», sempre del 182328: I ničego vo vsej prirode Blagoslovit’ on ne chotel. E niente in tutta la natura Voleva benedire.

Nello spazio ridotto di due versi Puškin afferma e nega, dà luce e ombra alla parola, con quel forte slancio che gli è proprio. * L’interpretazione delle digressioni nell’Onegin ha nella critica russa una vera e propria storia, della quale tenterò di tracciare una cronologia sommaria. meno rivoluzionario, come lo fu nel romanzo di Puškin il nome di Tat’jana; tuttavia non erano ancora apparse nella letteratura la domesticità, la coperta imbottita, la cucina e il suo odore, se non in una luce satirica». 26 A. S. Puškin, Perepiska 1832-1834, cit., p. 166. 27 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. I, strofa LVIII, p. 29. 28 A. S. Puškin, Demon, in Id., Stichotvorenija 1817-1825, cit., p. 299.

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Il critico Ovsjaniko-Kulikovskij29, all’inizio del secolo scorso, definisce il carattere delle digressioni come manifestazioni liriche. A suo parere, le digressioni danno spazio alla lirica soggettiva di Puškin; in questo senso rappresentano qualcosa di aggiunto, arbitrario, di non necessario; senza di esse i personaggi resterebbero gli stessi, e il romanzo conserverebbe il suo valore artistico. Žirmunskij30, nel suo studio comparativo su Puškin e Byron, più sensibile di Ovsjaniko-Kulikovskij alle questioni dell’arte in generale, vede l’Onegin come […] l’uscita dalla soggettività e dall’isolamento del mondo interiore di Puškin verso la varietà degli avvenimenti e delle immagini della vita esteriore.

cioè come un avvicinamento – annunciato nelle digressioni – di Puškin alla prosa. Boris Tomaševskij31 sottolinea la distanza fra Puškin e Byron e cita a questo proposito una lettera di Puškin a Vjazemskij, in cui, morto Byron, di lui viene detto: Il genio di Byron è impallidito con la sua giovinezza… Era fatto tutto alla rovescia; non c’era in lui gradualità, era maturato e diventato uomo all’improvviso, aveva cantato e si era messo a tacere; e i suoi primi suoni non erano più tornati – dopo il quarto canto di Child-Harold non sentivamo più Byron, era un altro poeta che scriveva con un alto talento umano.

29 Dmitrij N. Ovsjaniko-Kulikovskij, Puškin – chudožnik realist. “Evgenij Onegin” [Puškin – artista realista. “Evgenij Onegin”], in Id. et al., Istorija russkoj literatury, v 5 tomach [Storia della letteratura russa, in 5 volumi], izd-vo T-va Mir, Moskva 1908, vol. 1, p. 349. 30 Viktor M. Žirmunskij, Romantizm Puškina, in Bajron i Puškin, Iz istorii romantičeskoj poemy [Il romanticismo di Puškin, in Byron e Puškin, Dalla storia del poema romantico], Academia, Leningrad 1924, p. 192: «È molto più sostanziale il fatto che per Puškin, come anche per Byron, il nuovo genere poetico determini l’uscita dalla soggettività lirica e dalla chiusura del mondo interiore in direzione della varietà degli eventi e delle immagini della vita esterna, e con ciò si apra la possibilità di un ampio pittoricismo epico: di situazioni, di vita domestica, di caratteri, di avvenimenti, di Pietroburgo, della campagna, del gran mondo, di una casa da possidente di provincia, di Onegin (e, di passaggio, anche di suo padre e dello zio, e perfino del precettore francese), di Lenskij, della famiglia dei Larin (non solo di Tat’jana e di Ol’ga, ma della loro madre e della vecchia tata), ecc. […] Nella forma in versi, Puškin affronta il romanzo psicologico […], nel quale non ha precedenti nella letteratura in versi». 31 B. Tomasˇ evskij, Romantizm Puškina [Il romanticismo di Puškin], in Id., Puškin, cit., p. 604.

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Gukovskij32 nel 1957 non riesce a immaginare il romanzo di Puškin eliminandone le digressioni, perché senza queste il romanzo «si disfarebbe», ma nega alle digressioni la proprietà di essere liriche, in quanto le giudica passaggi che «si prefiggono la creazione di un’immagine obiettiva del personaggio», che poi sarebbe lo stesso Puškin. Tomaševskij33, negli stessi anni, sostiene invece che qualche volta «nelle digressioni dell’autore si sente un tono elegiaco in contrasto col “cinismo” del resto». Ripensando al metodo formale, alla catalogazione di Šklovskij, che prevedeva tre funzioni nella digressione, non vedrò la digressione, in russo «otstuplenie», solo come una deviazione discorsiva col valore di chiacchiera dall’argomento del discorso – in questo caso dalla fabula del romanzo –, ma, in modo più ampio, anche come una divagazione linguistica dal russo in direzione di altre lingue; da una corrente, che è quella del romanticismo; o, anche, dalla scansione della rima, o da una regolare suddivisione numerata in strofe. * Non appena si entra nel vivo della narrazione, nelle prime scene, in cui viene descritto Onegin, il dandy Onegin, salta subi32 Grigorij A. Gukovskij, Puškin i problemy realističeskogo stilja [Puškin e i problemi dello stile realista], Gosudarstvennoe izdatel’stvo chudožestvennoj literatury, Moskva 1957, pp. 166-167. Cito il brano per intero: «Evgenij Onegin è un romanzo che si basa sul rapporto dei due protagonisti, Evgenij e Tat’jana. A essere precisi, è costruito intorno a tre figure centrali. La terza, forse la più centrale, che accompagna tutto il romanzo e tiene insieme tutto il testo, è la figura del poeta stesso, dell’autore. Al suo progressivo rivelarsi sono dedicate tutte le cosiddette “digressioni liriche” del romanzo. L’autore è costantemente presente in tutte le scene del romanzo, le commenta, dà i suoi chiarimenti, giudizi, valutazioni. È presente non solo come autore, letterariamente, ma come personaggio, testimone, che a tratti partecipa agli eventi, storiografo. È “materializzato”, ha una biografia, un destino individuale, un carattere, assai larghe vedute. Perciò si può concordare con difficoltà col termine ‘digressioni liriche’ nel caso dell’Onegin. I passaggi, definiti con questo termine, non sono un lirismo del tutto comune, perché si prefiggono lo scopo di creare un’immagine obiettiva del personaggio. È impensabile immaginare il romanzo puškiniano privo delle digressioni: non solo sarebbe diverso, come ogni opera che racchiude al suo interno le digressioni (il Don Giovanni di Byron, Guerra e pace), ma semplicemente si disfarebbe». 33 B. Tomaševskij, Puškin, cit., p. 609.

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to agli occhi l’uso frequente da parte di Puškin di parole o di intere espressioni straniere: più spesso francesi, inglesi, o anche italiane, spagnole, tedesche, che servono a dare un’immagine frivola, agiata, mondana della vita di Onegin, ma che allo stesso tempo danno di lui, più indirettamente, un’immediata caratterizzazione di romantico inquieto, privo di radici. Così Evgenij calza il «bolivar»34, cappello a larga tesa, sente il rintocco del «Bréguet»35 (russificato come «breget»), orologio che prende il nome dal suo fabbricante francese, e mangia il «roast-beef»36. Più avanti, quando nomina di nuovo l’orologio37: […] Ljublju ja čas Opredeljat’ obedom, čaem I užinom. My vremja znaem V derevne bez bol’šich suet: Želudok – vernyj naš breget; […] Amo capire l’ora Dal pranzo, il tè E la cena. Senza tante storie Sappiamo in campagna che ora è; Lo stomaco è il nostro fedele bréguet;

il Bréguet è ironicamente paragonato allo stomaco, che dà la misura dell’inadeguatezza di quest’oggetto, reliquia di città, in campagna, e in genere della semplicità della vita di campagna. Possiamo immaginare che l’esterofilia di Onegin suonasse come una provocazione nell’ambiente accademico russo, più chiuso, e come un abbassamento di tono della sua poesia. In questo caso Puškin fa rimare il nome dell’orologiaio parigino Bréguet, con «suet», genitivo plurale del sostantivo «suetà», letteralmente «affanno», «daffare». In una rima baciata, di per sé più scherzosa, «bolivar», il cappello sopra citato, fa rima con «bul’var», sostantivo russificato dal francese «boulevard»; «et cetera»38 fa coppia, sempre in una rima 34

A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. I, strofa XV, p. 11. Ibid. 36 Ivi, cap. I, strofa XVI, p. 11. 37 Ivi, cap. V, strofa XXVI, p. 113. 38 Ivi, cap. III, strofa II, p. 52. 35

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saggi

baciata, con «perà», genitivo singolare da «però», la penna stilo; «neraz», «più volte» fa rima con «vasisdas»39, altro vocabolo russificato, attraverso la mediazione francese, dal tedesco «was ist das», usato per indicare una finestrella sopra una porta o una finestra; lo champagne «Moët», declinato al genitivo «Moëta», è accoppiato con un altro genitivo, «poeta»40, dal sostantivo «poet», poeta. Lo stesso Puškin s’inserisce spesso nei versi come una digressione viva, in un gioco di avvicinamento e di distacco dal personaggio principale del romanzo, Onegin. Puškin parla evidentemente di sé, per esempio, quando dice di amare i piedini femminili41; quando afferma di non amare la gente42; quando descrive la vita da eremita di Onegin43, che in realtà è la sua di vigilato speciale; che dice: «Davvero presto avrò trent’anni?» che, addirittura, arriva a far «incantare» il poeta e amico principe Vjazemskij di Tanja44, incontrata da una zia noiosa, nell’equilibrio mozzafiato di un ennesimo artificio letterario; che cita innumerevoli libri, autori del passato e letterati del suo tempo, e all’improvviso si rivolge con ironia direttamente a uno di questi, il filologo purista conservatore e ammiraglio Šiškov45: «[…] Scusa, Šiškov / Non so come tradurre», riferendosi all’espressione francese «comme il faut». Anche il sistema, molto dibattuto e variamente interpretato dalla critica, d’interporre puntini di sospensione, che con il loro vuoto improvviso segnano pause di silenzio, può assumere un valore digressivo. Puškin omise in un secondo momento alcune strofe, perché, come dice Lo Gatto, riteneva troppo personali i fatti a cui faceva riferimento, operando su di esse, così, una forma di autocensura, o magari per motivi di stanchezza, semplice divertissement, per indicare il famoso «discorso altrui» bachtiniano, le voci alle spalle di commento ai fatti narrati, o ancora, semplicemente, per scandire lo scorrere del tempo? Le 39

Ivi, cap. I, strofa XXXV, p. 20. Ivi, cap. IV, strofe XXXVI-XXXVII, p. 88. 41 Ivi, cap. I, strofe XXVIII-XXXIV, pp. 16-19, e cap. V, strofa XL, p. 114. 42 Ivi, cap. I, strofa XLVI, p. 24. 43 Ivi, cap. IV, strofe XXXVI-XXXVII, p. 88. 44 Ivi, cap. VI, strofa XLIV, p. 136. 45 Ivi, cap. VII, strofa ILIX, p. 160. 40

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degli idoli miei mi vergogno

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strofe se ne stanno lì mute, come giorni in fila staccati uno a uno dal calendario. * Il romanticismo fa da sfondo a tutto il romanzo. A confermarlo sono ricorrenti termini, che ne rappresentano un indizio precipuo, come «tuman», la nebbia; «čad» o «dym», il fumo; «son», il sogno; ma soprattutto «ten’», l’ombra, nominata nel romanzo venti volte, anche come «sen’», variante più antiquata, e la cui presenza frequente come secondo termine di una similitudine è già stata rilevata da Brodskij46. L’ombra, però, nel romanzo si materializza: è proprio l’ombra, infatti, intesa così, come similitudine, a indicare lo spostamento della dipendenza di Tat’jana da Onegin a quella di Onegin da Tat’jana, come in un gioco di chiaroscuri in cui la luce finisce per concentrarsi su di lei. Il romanzo procede attraverso questa similitudine. All’inizio del romanzo l’ipocondria, «chandrà»47, insegue Onegin «come un’ombra, o una moglie fedele»; poco più avanti Tat’jana aspetta la risposta di Onegin «pallida come un’ombra, vestita fin dal mattino»48; a Tat’jana, nello stesso capitolo, poco più avanti, sembra di sentir arrivare Onegin attraverso lo scalpitio dei cavalli al galoppo, e «più leggera di un’ombra / Tat’jana si precipitò all’altro ingresso»49; Evgenij le appare davanti «simile a un’ombra minacciosa»50; ancora: «E si oscura della cara Tanja la giovinezza: / Così indossa l’ombra della tempesta / Il giorno appena sorto»51; Tat’jana «come un’ombra vaga senza scopo»52; infine «lui le corre appresso come un’ombra»53. 46 Nikolaj A. Brodskij, Evgenij Onegin roman A.S. Puškina [Evgenij Onegin, il romanzo di A.S. Puškin], izd-vo Mir, Moskva 1932, p. 112: «L’ombra viene usata piuttosto spesso come similitudine». 47A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. I, strofa LIV, p. 28. 48 Ivi, cap. III, strofa XXXVI, p. 69. 49 Ivi, cap. III, strofa XXXVIII, p. 70. 50 Ivi, cap. III, strofa XLI, p. 72. 51 Ivi, cap. IV, strofa XXIII, p. 83. 52 Ivi, cap. VII, strofa XIII, p. 144. 53 Ivi, cap. VIII, strofa XXX, p. 179.

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Altro elemento di marca romantica è il tema della noia, espresso come spleen, malumore, malinconia. Un’altra spia romantica nel romanzo è la presenza del folclore; Puškin riporta «il canto delle fanciulle»54, che è il canto delle giovani obbligate a cantare, perché non mangino la frutta dei padroni nell’atto di coglierla. Riportare il documento originale è costume letterario di epoca romantica, e è presente in diverse opere della prosa di Puškin. Qui, però, ha anche una funzione di rottura, staccato com’è dal resto del testo, perché dotato di un altro ritmo. Oltre a descriverci le abitudini, le feste, le cerimonie, le credenze popolari attraverso piccoli particolari, Puškin ci restituisce il mondo contadino soprattutto attraverso il linguaggio. E, così facendo, mette in versi una lingua mai riportata per iscritto prima di allora. Le abitudini regolari quanto sedentarie del padrone si susseguono, nel racconto della dispensiera di Onegin, con il senso iterativo trasmesso da un elenco di verbi imperfettivi: sižival55, obedyval, počival, cioè «sedeva», «pranzava», «riposava». «Kofej kušal»56, letteralmente «mangiava il caffè», racconta a Tat’jana. A contrasto con questa, che Bachtin chiamava «zona stilistica», è il linguaggio della vecchia zia principessa, che coincide con l’arrivo di Tat’jana a Mosca, cioè con il suo abbandono della campagna in compagnia della madre. La zia dice: «No vy zamučeny s dorogi»57, «Ma voi sarete spossate dal viaggio». In questa espressione è concentrata l’epoca in cui il viaggio in carrozza era davvero molto stancante; un’idea comoda della vita, all’interno della quale il viaggio rappresenta il massimo dello stress sopportabile, e anche la premura di una classe educata, elegante, verso l’ospite appena arrivato. * Nel romanzo sono presenti due coppie di personaggi: la prima è quella di Onegin e Tat’jana, il cui amore, prima dell’una, poi dell’altro, non è destinato a realizzarsi mai; la seconda è quella di 54

Ivi, cap. III, fra la strofa XXXIX e la strofa IL, pp. 71-72. Ivi, cap. VII, strofa XVII, p. 146. 56 Le ultime tre espressioni sono ivi, cap. VII, strofa XVIII, p. 146. 57 Ivi, cap. VII, strofa XLII, p. 157. 55

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degli idoli miei mi vergogno

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Lenskij e Ol’ga, sorella di Tat’jana. Nella figura di Lenskij è parodizzato l’ideale romantico abbassato al livello di un libro d’appendice, forse un se stesso del passato dal quale Puškin voleva prendere le distanze, che, come sostiene Tynjanov58, prende i tratti del poeta romantico compagno di liceo Kjuchel’beker. Oppure, e questa è l’interpretazione forse più verosimile, con Lenskij Puškin uccideva simbolicamente, attraverso Onegin, il sentimento romantico che gli appariva ormai logoro e ridicolo. Puškin contrappone Onegin a Lenskij59: […] volna i kamen’, Stichi i proza, led i plamen’ Ne stol’ različny mež soboj. […] onda e pietra, Versi e prosa, ghiaccio e fiamma Non sono tanto diversi fra loro.

Di fronte alla passione di Lenskij per Ol’ga, Onegin si sente un vecchio invalido, che ascolta le pene altrui «con aria compresa»60, ma finisce presto col confessare che l’immagine di Ol’ga l’ha «infinitamente stancato»61. Per mano di Puškin, i due amici si battono a duello, e Lenskij, dallo stile poetico «oscuro e fiacco», in russo «temno i vjalo»62, muore. L’estremo sdoppiamento di Puškin fra l’assunzione di moduli romantici, che privilegiano l’interiorità, e lo smascheramento della trivialità che presiede all’esistenza osservata dal di fuori, viene esternato in tutta la sua potenza quando, morto Lenskij, lo 58 «Evgenij all’inizio era stato concepito come un “eroe” (con i connotati de Il demone, prototipo di N. Raevskij). Nello svolgimento del romanzo non solo si amplia il materiale sull’eroe (introduzione di tratti autobiografici), ma Evgenij viene ripensato parodisticamente. Lenskij doveva essere “uno che gridava sempre e un ribelle di strano aspetto” (con i tratti di Kjuchel’beker), e diventa un elegiaco, per contrasto con Onegin e per l’attualità della questione delle elegie; questo dà modo al poeta d’introdurre materiale contemporaneo» (J. N. Tynjanov, Puškin, in Id., Avanguardia e tradizione, cit., p. 104; la versione russa è in Ju. N. Tynjanov, Archaisty i novatory, cit., p. 277). 59 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. II, strofa XIII, p. 37. 60 Ivi, cap. II, strofa XIX, p. 39. 61 Ivi, cap. II, strofa XXIII, p. 41. 62 Ivi, cap. V, strofa XXIII, p. 107.

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scrittore immagina per lui due ipotetici futuri opposti. Dapprima Puškin immagina che «Un gradino alto, sui gradini del mondo / Forse attendeva il poeta»63, ma nella strofa successiva, intervallata da un’altra omessa, scrive: «Ma può essere anche questo: che / Una sorte qualsiasi attendesse il poeta»64. V derevne sčastliv i rogat Nosil by steganyj chalat; Uznal by žizn’ na samom dele Podagru b v sorok let imel, […] In campagna cornuto e contento Avrebbe portato la vestaglia trapunta; Avrebbe conosciuto la vita com’è nei fatti, E a quarant’anni avrebbe avuto la gotta, […]

* I perni emotivi attorno ai quali ruota il romanzo sono le due lettere d’amore riportate da Puškin: quella di Tat’jana a Onegin, e quella di Onegin a Tat’jana, che sono collocate all’incirca nella stessa posizione, nel cuore di un capitolo iniziale quella di lei, e nel cuore di un capitolo finale quella di lui, e contano mediamente una cinquantina di strofe. Entrambe le lettere costituiscono una digressione ritmica dallo schema dell’Onegin, infatti la numerazione delle strofe viene interrotta, i versi si susseguono con pause diverse, dettate dal sentimento, e sono frutto di un superbo artificio letterario: la lettera di Tat’jana è scritta da lei in francese, e successivamente tradotta in russo e messa in versi da Puškin; quella di Onegin può essere considerata, invece, una digressione psicologica di questi dal suo personaggio precedente. «Com’era trascurato nelle lettere del cuore»65, aveva esclamato Puškin nel primo capitolo. La strofa nell’Evgenij Onegin è composta da quattordici versi – tre quartine + un distico a rima baciata, sulle orme del poema eroico e cavalleresco italiano – scanditi come tetrametri giambici con una rima di tipo AaAaBBbbCccCdd. 63

Ivi, cap. VI, strofa XXXVII, p. 133. Ivi, cap. VI, strofe XXXVIII-XXXIX, p. 133. 65 Ivi, cap. I, strofa X, p. 9. 64

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Un critico autorevole come Gofman66 scrisse che «la finitezza e l’indipendenza della strofa, la scomposizione del capitolo come in una serie di poesie a sé stanti favorì le digressioni liriche e la ‘coloritura’ delle strofe, la loro varietà (cosa che sarebbe stata assai più difficoltosa se il poeta avesse adottato, per esempio, la forma della terzina, la struttura musicale della quale, una catena di tristici legati dalla rima, porta, a sua volta, a una logica concatenazione del racconto; anche una serie di quartine avrebbe reso difficoltose le digressioni liriche)». La Lettera di Tat’jana a Onegin è scandita in 79 versi con pause distribuite dopo i primi 21 versi, dopo 9, 45, 4. Dopo i primi 30 versi Tat’jana si abbandona completamente allo slancio della passione, e si rivolge per la prima volta a Onegin dandogli del tu. Il torrente di parole d’amore ha bisogno di continuità, il materiale si dilata in uno spazio più ampio. La Lettera di Onegin a Tat’jana è più breve: solo 60 versi, suddivisi in raggruppamenti di 8, 14, 8, 10, 16, 4. Il ritmo di Onegin è più spezzato, diseguale. Le lettere hanno in comune la chiusa, in forma di congedo, di 4 versi. Il congedo di Tat’jana67: Končaju! Strašno perečest’… Stydom i strachom zamiraju… No mne porukoj vaša čest’, I smelo ej sebja vverjaju… Finisco! Di rileggere ho orrore… Muoio di vergogna e paura… Ma prendo a garanzia il vostro onore, E a lui mi affido temeraria…

esprime paura e coraggio allo stesso tempo, nell’attesa timida e fiduciosa che i puntini di sospensione lasciano trasparire. Onegin invece è fermo e rassegnato alla sorte68:

66 Michail L. Gofman nella postfazione dell’edizione dell’Evgenij Onegin a sua cura: Evgenij Onegin: roman v stichach [Evgenij Onegin: romanzo in versi], Tipographie «Étoile», Paris 1937, p. 217. 67 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. III, strofa XXXI, p. 67. 68 A. S. Puškin, Evgenij Onegin, cit., cap. VIII, strofa XXXII, p. 181.

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No tak i byt’: ja sam sebe Protivit’sja ne v silach bole; Vse rešeno: ja v vašej vole, I predajus’ moej sud’be. E sia: non ho più le forze Per resistere a me stesso; Tutto è deciso: sono in vostro possesso, E mi abbandono alla mia sorte.

Nell’ultimo capitolo, che riporta la spiegazione di Onegin con Tat’jana, Puškin fa riapparire come una digressione il diminutivo Tanja nel momento più drammatico del romanzo, quando Tat’jana è diventata ormai una principessa. Il diminutivo assume in tal modo una coloritura temporale – Tanja era una semplice fanciulla –, spaziale – Tanja viveva in campagna, in una provincia remota –, nostalgica – Tanja, quella Tanja non esiste più –, sentimentale – Onegin è innamorato di Tat’jana, l’irraggiungibile e irreprensibile donna di società, sposata, e lei piange, scongiurandolo di vedere in lei la Tanja di sempre, che lui, al contrario, non ha saputo amare. Nella quarantesima strofa dell’ottavo capitolo, pallido come un cadavere, Onegin entra in casa di lei, che sta piangendo sulla lettera di lui69: Primčalsja k nej, k svoej Tat’jane Moj neispravlennyj čudak. Si precipitò da lei, dalla sua Tat’jana Il mio incorreggibile bislacco.

Nella strofa successiva Puškin esclama incredulo70: Kto prežnej Tani, bednoj Tani Teper’ v knjagine b ne uznal!

69 70

Ivi, cap. VIII, strofa XL, p. 185. Ivi, cap. VIII, strofa XLI, p. 185.

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Chi avrebbe riconosciuto Tanja, la povera Tanja Di prima nella principessa di adesso!

Più avanti, nei versi di apertura, Tat’jana dice71: Ja plaču… esli vašej Tani Vy ne zabyli do sich por, Io piango… se la vostra Tanja Non avete dimenticato fino adesso,

E ancora, Tat’jana dice di se stessa:72 […] dlja bednoj Tani Vse byli žrebii ravny… […] per la povera Tanja Tutte le sorti erano uguali…

Infine73: I muž Tat’janin pokazalsja, E apparve il marito di Tat’jana.

Oltre a mettere in luce il contrasto fra la fanciulla di prima e la donna di adesso, Puškin, usando alternativamente il nome e il diminutivo dell’eroina, mette in rilievo la sua immagine esteriore (Tat’jana) e quella interiore (Tanja). Prima di riprendere del tutto le sue spoglie sociali, Tanja confessa a Onegin che darebbe via subito74 Ves’ etot blesk, i šum, i čad Za polku knig, za dikij sad, Za naše bednoe žilišče, Za te mesta, gde v pervyj raz, Onegin, videla ja vas, Da za smirennoe kladbišče, 71

Ivi, cap. VIII, strofa XLV, p. 187. Ivi, cap. VIII, strofa XLVII, p. 188. 73 Ivi, cap. VIII, strofa XLVIII, p. 189. 74 Ivi, cap. VIII, strofa XLVI, p. 188. 72

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Gde nynče krest i ten’ vetvej Nad bednoj njaneju moej… Tutto questo scintillio, fumo e rumore, Per lo scaffale dei libri, per il giardino solitario, Per la nostra povera dimora Per quei luoghi dove, per la prima volta, Onegin, ho visto voi, E per l’umile cimitero Dove una croce e dei rami l’ombra Sono sulla mia povera tata ora…

La strofa successiva si chiude con la confessione della sua infelicità, ma anche con l’autoaffermazione, che deriva dall’accettazione del suo destino75: Ja vyšla zamuž. Vy dolžny, Ja vas prošu, menja ostavit’; Ja znaju: v vašem serdce est’ I gordost’ i prjamaja čest’. Ja vas ljublju (k čemu lukavit’?), No ja drugomu otdana; Ja budu vek emu verna. Io mi sono sposata. Voi dovete, Io vi prego, lasciarmi stare; Io lo so: c’è nel vostro cuore Fierezza e un vero onore. Io vi amo (a che serve ingannare?), Ma sono stata data a un altro; E fedele sempre gli sarò accanto.

Persi i connotati dell’ombra, del diminutivo, ma anche del nome, Tat’jana è diventata un semplice «io», ripetuto molte volte. In particolare con gli ultimi due versi, in cui spicca la contrapposizione fra la passività di un atto non scelto espresso dalla forma «otdanà», «sono stata data», e la promessa di eterna fedeltà, Tanja si ricongiunge alla tradizione degli amori infelici presente nella sua famiglia; come in una trinità terrena, femminile, sia sua madre che la njanja, la tata, erano state date in sposa senza 75

Ivi, cap. VIII, strofa XLVII, p. 188.

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amore. Se nel penultimo verso c’è un inchino rassegnato alla propria sorte, la dichiarazione contenuta nell’ultimo verso suona come una porta sbattuta in faccia a Onegin (sembra dirgli: «non sarò mai tua»), a se stessa («non sarò mai felice»), al tempo («sfido i secoli a controllare la mia fedeltà»), al lettore, stupefatto da tanta forza. (1984-2013)

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GFP (su Compassioni della mente di Gianfranco Palmery)

Compassioni della mente è il nuovo titolo che si aggiunge all’opera poetica, fin qui articolata in undici libri, di Gianfranco Palmery1. È difficile dare una sigla alle parole di un poeta, e in modo particolare a questo poeta nel quale vita e poesia da sempre coincidono. Un appartamento in un quartiere di Roma che ha una sigla per nome: EUR. Attraversato da una strada di grande, veloce scorrimento, Viale Cristoforo Colombo, che per un caso del destino porta al mare, in direzione dell’antico porto di Ostia. E, neanche a farlo apposta, una moglie americana: Nancy Watkins, artista cresciuta sulle rive del lago Michigan, alta, spirituale come lui. Una gatta nera pettinata ogni giorno con cura come se fosse una bambina, e che di una bambina ha il nome, Marzia. Selvaggia, ardimentosa e guerriera. Amici distillati che visitano la casa, che fanno squillare il telefono di tanto in tanto. Il mistero intorno alla sua età, svelato a pochi. Due grandi baffi rossicci venati di bianco. I capelli sottili arruffati. Gli occhiali severi. Gambe lunghe che hanno molto camminato. Ascendenze transalpine e siciliane, cioè un maledettismo romantico francese e una demonìa barocca manierista siciliana, succulenta quanto amara. In 1970: […] scampanando cercavo scampo, mallarmeando amare marmellate di rimpianto: (Ivi, p. 35) 1 Gianfranco Palmery, Compassioni della mente (1997-2002), prefazione di Sauro Albisani, Passigli Poesia, Firenze 2011, p. 35. Nel frattempo sono usciti due suoi nuovi libri di versi: Amarezze, Madrigali e altre maniere amare, Il Labirinto, Roma 2012, e Corpo di scena, Passigli Poesia, Firenze 2013.

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Un amore grande per i libri, per la letteratura in genere. La ribellione come gesto estetico della giovinezza ai tempi del liceo, al Visconti. Anni di «viaggi da camera», e di città (biblioteche, palestre di boxe, mescite). Un soggiorno lungo e avventuroso in California, con letture di poesia tenute in varie università: Pomona, Scripps, San Francisco… Poi la critica militante a «Il Messaggero». La direzione di una rivista molto raffinata nella veste e nella sostanza, «Arsenale». Poi una casa editrice con tanti piccoli libri color pastello, e illustrati: «Il Labirinto». Traduzioni, articoli affilati sulla rivista «Pagine», con una propria rubrica, «Appunti e disappunti». E i disegni, marcati con tratti decisi, di se stesso e dei suoi animali totemici. Direi incisi, come incise sono le parole, graffiate, infierendo sulla carta, che poi è la sua stessa pelle. Versioni dal francese, dall’inglese, dal latino verso il romanesco. Libri pubblicati quasi sempre con la sua casa editrice, qualche volta celandosi dietro uno pseudonimo. Scrittore di feroci, acuti aforismi, ne Il poeta in 100 pezzi del 2004, per esempio. Una selezione di poesie tradotta ultimamente in inglese, Garden of Delights, da Barbara Carle, e uscita per le edizioni Gradiva Publications nel 2010. Un talento speciale, vorrei ancora dire, da poeta, da editore, ma anche da scopritore di talenti nuovi, per i titoli. Rabdomante esperto per tutti e due, titoli e talenti, che sono un po’ la stessa cosa. Un collocare la testa sulle spalle di qualcuno o qualcosa. Gianfranco è sempre stato molto alto e magro, ma ultimamente è ancora più scarno. È sempre lui, certo: affettuoso a suo modo e curioso del mondo esterno, coltissimo, interlocutore veloce e ironico, pronto al calembour. Ma è anche stanco, come chi sia esausto di lottare. E, se si va a scavare, si scopre, proprio dalle sue poesie, e non solo da queste ultime, che la lotta ingaggiata da lungo tempo è con se stesso. Un se stesso che lo ha pungolato per tanti anni – e allora veniva chiamato «caro despota» – e poi ha infierito proprio quando lo ha visto indebolirsi, e a quel punto si è fatto via via più crudele, indecentemente crudele.

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In Spavento puro: Mi spaventa la pace e anche il furore nemico con cui mi tolgo la pace mi spaventa – […] (Ivi, p. 38)

Stando alle date che accompagnano il titolo all’interno del libro, queste poesie sono state scritte fra il 1997 e il 2002. Caratteristica importante di tutto quello che esce dalle sue mani e viene stampato: Palmery pone in mezzo, sempre, un tempo per la gestazione/digestione della sua opera; prevede sempre un tempo «da cassetto», di silenzio, per tutto quello che fa. Un tempo di oscurità prima di consegnare alla luce il manufatto. E cita in epigrafe una frase di Hedayàt significativa in questo senso: L’origine della bellezza è nella paura e nell’oscurità. (Ivi, p. 13)

Tenebroso, inutile dirlo, è il carattere di chi estrapola sapientemente e pazientemente questa citazione dalle letture di una vita. Una vita segnata dalle pietre miliari dei versi, che sono anche i sassolini lasciati per ritrovare la strada di casa. Del suo citofono, sul quale sono incise a caratteri gotici tre lettere enigmatiche che ne riassumono il nome e il cognome, e allo stesso tempo l’identità: GFP. Il percorso di Palmery è coerente; fedele, fedelissimo è stato il suo servizio alle lettere. Coerente il suo stile molto curato, il suo modo personalissimo di giocare con le assonanze, in un verso che a tratti cede alla tentazione di un perfetto endecasillabo, a tratti lo rifugge. Questo l’esempio di una bellissima chiusa tratta da Veglia, nell’ultima raccolta: nuvole luminose come lune (Ivi, p. 47)

Dopo non segue un punto; nessuna di queste poesie, infatti, si conclude con un punto. La mancanza del punto è una spia della sua angoscia. Hanno, invece, quasi tutte, un titolo, come una

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nascita, una partenza, una direzione, un punto cardinale, un orientamento. Una indicazione di percorso. E descrivono la lacerazione di chi non ha mai raggiunto un equilibrio con l’esterno, perché ha esagerato con l’interiore e l’interno inteso come vita chiusa, prigioniera delle pareti domestiche. Una scelta estrema, in parte voluta, in parte no. Una posa romantica solitaria, misantropica, eremitica. Uno sdegno regale, orgoglioso, implica però, purtroppo, una forma di sudditanza al proprio ruolo. Così scrive Palmery in una poesia all’interno della sequenza Vulnerario: Se sceglierai il silenzio ora sai che porterai nel capo il suo frastuono: l’insegna invisibile micidiale di Medusa: i suoi fischi i fruscii i colpi di frusta che saettano all’orecchio. Ah il rombo del silenzio, il sibilo della solitudine! Da solo solo faccio un silenzioso fracasso (Ivi, p. 19)

Ci troviamo nella cripta umida, buia, di una chiesa dell’ordine dei Cappuccini, piena di ossa sistemate ad arte, intrecciate, così che il corpo umano, massimamente scabro, non sia più riconducibile a uno scheletro, non sia più umano, né corpo, ma disegno, ornamento infiorettato. Abbiamo davanti un disperato, pieno di rimpianto per la vita, ma anche perseguito, ricreato ad arte, sofisticato, macabro trofeo. Qui sta la bellezza, e qui l’ossimoro: «silenzioso fracasso». Le ossa possono anche assumere paradossalmente le fattezze di una tromba, di un organo, di un’arpa… e fare così fracasso in un silenzio di tomba, un silenzio assordante. Uno spiffero, «il sibilo», può passare attraverso due grandi orbite oculari nere e vuote, proprio come quelle raffigurate da Palmery nel dipinto Mutazioni sulla copertina della raccolta L’io non esiste del 2003, o essere più direttamente il sibilo di una serpe come quella riprodotta sul retro dello stesso volume, in posa acciambellata come il disegno del gatto sulla copertina della raccolta poetica Gatti e prodigi, nella collana «Tarsie»,

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uscita nel 1997. La posa acciambellata ricorda le circonvoluzioni cerebrali, qualcosa di molto rannicchiato, aggrovigliato, inestricabile, labirintico. In Anni serpenti: […] anni serpenti, che mi rientrate da vene e giunture! (Ivi, p. 34)

Oppure, in Contro di sé: […] – tesso e ritesso in un intreccio serpentino (Ivi, p. 43)

Anche le copertine di Nancy Watkins parlano: il suo Red Burst (Combustione rossa), una tesa, violenta esplosione floreale sui toni del rosa e del rosso sulla copertina di Garden of Delights, appare come una risposta alla raccolta italiana, da cui il titolo dell’antologia americana deriva: Giardino di delizie e altre vanità, del 1999, e sulla quale il poeta aveva scelto di porre il suo Gladioli. Qui ne figura uno che, se non si può dire acciambellato come il gatto e il serpente, definirei ripiegato su se stesso. Il fiore – quasi un becco animale, sul punto di sfiorire. Nella sezione «Grani e gocce», che reca sotto il titolo una citazione da Lowry: «Ero sempre io quel velenoso scorpione / che si pungeva a morte sotto una pietra»: Chi fermerà il furore circolare del cervello che s’inarca scorpionesco e ricade carnefice su se stesso, […] (Ivi, p. 36)

Nancy è anche la fotografa del marito, e lo ritrae in uno scatto ritagliato a forma di medaglione sulla copertina del volume Il poeta in 100 pezzi, mentre viene azzannato sul collo da un enorme muso leonino di marmo.

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In Artigli Palmery scrive: Erano sempre belve – ma l’amore le faceva ammansiti leoni: di loro è rimasta in me la fame leonina: sono qui nel mio cranio, agitano i magri fianchi di fiere fameliche: (Ivi, p. 23)

L’ossessione qui è nella ripetizione delle lettere «f», «l», «m» e «n», che ricorrono in questi versi e che sembrano imitare il verso aggressivo, minaccioso delle belve. Scrive Palmery nella IV delle Antagonie: lascialo fuori il pensiero cane, al freddo della notte novembrina, con la sua fame fuori – che non si affacci alla cucina del cranio a crapulare: inedia e freddo lo conceranno – e addio alla sua smania canina: fiato e denti e zampe: sempre a zomparmi addosso! altro che cane: cuore e zanne di lupo che miravano al gozzo e fare il morto non era di aiuto (Ivi, p. 73)

Qui la posa, il «fare il morto», non è d’aiuto a questa zuffa, «la gran / baraonda della mente» tutta simbolica, ma non per questo meno disperata, e maledettamente zitta, fra il poeta e la sua ossessione. Lo scrittore novecentesco persiano Sadègh Hedayàt citato in epigrafe, insieme con Rimbaud e Wittgenstein, dal poeta, fu anche l’autore di un romanzo intitolato La civetta cieca. Forse aveva un’idea simile a quella di Palmery, come dimostra l’epigrafe: immaginava anche lui animali acquattati nell’ombra, nei quali si rispecchiava la sua immagine deformata di Narciso.

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In Meridiana: Buona, mia belva, ritira gli artigli: lasciami quieto e illeso al sole – allontanati (Ivi, p. 27)

In Il folle del diavolo: […] sono al giornaliero servizio in veste di buffone folle nano – il folle del diavolo, l’idiota che si volta e rivolta come un calzino il cervello per far ridere il suo assassino, disarmargli la mano (Ivi, p. 44)

Palmery sta descrivendo un gioco masochista con se stesso: perché quel «dis-» prima di andare accapo? È troppo classico, il suo stile, per compiacersi delle scomposizioni di parole sul finire del verso. Nell’enjambement finale è riprodotta graficamente l’immagine del rivoltarsi il cervello/calzino. Ho appena detto che Palmery ha gambe lunghe, e molto esercitate nel camminare. Qui ne usa la lunghezza per andare accapo. Immagino voglia sfilare l’arma al nemico, e nasconderla nel calzino, ottundendone così le asperità. E poi gettarla via, al vento o nel profondo del mare, e salvarsi, seppure scalzo e scervellato. E per questo usa il verso. (2011)

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Tradurre Tolstoj

Chi traduce dal russo compie un viaggio da molto lontano. Nel russo, infatti, non esistono gli articoli, non esiste il verbo essere né il verbo avere nella nostra accezione, l’alfabeto è cirillico, e si compone di 33 lettere invece delle nostre 21; i sostantivi e gli aggettivi hanno sei declinazioni, la frase è costruita in modo flessibile, sostanzialmente diverso dall’italiano. Il traduttore italiano, quindi, si trova costretto a muovere un ingranaggio pesante, a spostare molto, a compiere una delicata operazione per adattare alla propria la materia linguistica che gli si offre. Anna Karenina è un romanzo della maturità di Tolstoj; nato nel 1828, e morto nel 1910, Tolstoj lo scrisse in quattro anni: fra il 1873 e il 1877, quindi fra i 45 e i 49 anni. Oggi sarebbe considerato giovane, visto che l’età dell’esordio si è molto allungata, ma allora, in Russia, le ragazze venivano considerate zitelle a 24 anni, e lui, sposo a 34 anni, si riteneva già vecchio. Nel 1873 Tolstoj, a 45 anni, aveva già scritto capolavori come Infanzia, Adolescenza e Giovinezza (1852-1856), i Racconti di Sebastopoli (1855-1856), I cosacchi (1863), Guerra e pace (1863-1869). Dopo aver letto la sua Confessione, oggi lo si definirebbe una creatura tormentata, con un gigantesco senso del dovere, un super-io che governava ogni suo gesto, ogni sua attività, o studio; aveva perso la madre a due anni, e il padre a nove; fu cresciuto da due zie lontane parenti. Era stato solo, aveva studiato in casa con i precettori, come si usava allora nelle famiglie russe aristocratiche, e poi aveva cercato faticosamente, confusamente la sua strada: iscrivendosi prima alla facoltà degli studi orientali, poi a giurisprudenza, poi partendo come ufficiale per il Caucaso, all’inizio degli anni ’50. Fra i venti e i trent’anni si conso-

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lidò come scrittore, ed ebbe successo; a noi sembra presto, ma a lui sembrava tardi. Molto della vita entrava, naturalmente, nei suoi romanzi, e Anna Karenina è, fra questi, il più autobiografico. Così autobiografico che Tolstoj, per scriverlo, interruppe il diario, da lui tenuto in modo più o meno regolare per tutta la vita. Fin da quando comincia a tenere un diario, dal 1847, cioè dai suoi diciannove anni, appunta nel diario quel che lui chiama le norme, cioè delle regole di comportamento alle quali vuole attenersi. Ne citerò qualcuna1: Regola prima: ogni mattina stabilisci tutto quel che devi fare nel corso della giornata, e esegui tutto ciò che hai stabilito. […] Regola seconda: dormi il meno possibile. […] Regola terza: sopporta tutti i fastidi fisici, senza mai darli a vedere. Regola quarta: sii fedele alla parola data.

E così via. Tolstoj combatteva attraverso il diario, nel quale appuntava le sue regole, contro la sregolatezza della propria esistenza da giovin signore: contro il gioco, dal quale spesso si lasciava tentare; contro la lussuria, contro la pigrizia, contro una tendenza alla distruttività tipicamente russa. Chiedeva al diario, lui orfano, di fargli da genitore; si rendeva autoritario a se stesso; voleva, tramite il diario, confessarsi, sgridarsi, perfezionarsi, appianare i suoi difetti. All’interno della vasta opera tolstoiana la posizione di Anna Karenina è in qualche modo simile a quella di Delitto e castigo all’interno dell’opera dostoevskiana. Anche Delitto e castigo fu scritto da Dostoevskij dopo i quarant’anni, sono dunque entrambe opere della maturità, e entrambi gli scrittori scrissero romanzi più voluminosi di questi: Tolstoj – Guerra e pace, Dostoevskij – I fratelli Karamazov, che però non furono mai riconosciuti dalla critica come i loro capolavori. Delitto e castigo fu scritto circa dieci anni prima di Anna Karenina, negli anni Sessanta dell’Ottocento. Anna Karenina si può vedere come la trasposizione del romanzo 1 Lev N. Tolstoj, I diari, introduzione di Serena Vitale, scelta dei testi, prefazione, traduzione e note di Silvio Bernardini, Garzanti, Milano 1997, p. 8.

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tradurre tolstoj

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dostoevskiano in una sfera familiare e aristocratica. Tratta infatti di una colpa: il delitto di Anna, che tradisce suo marito Karenin con un giovane ufficiale, Vronskij; e del suo castigo: Anna, a causa della sua infedeltà, viene ripudiata dalla società, e finirà col suicidarsi. Il suo cognome da sposata, Karénina, deriva da kàra, che in russo significa castigo, punizione. Il romanzo Anna Karenina ruota intorno a un numero dispari di personaggi, ed è proprio quella disparità a crearne il conflitto: Anna e l’amante Vronskij; Kitty e Levin, che diventano moglie e marito dopo l’amore infelice di Kitty per Vronskij; Dolly e Stiva Oblonskij, un’altra coppia sposata, rispettivamente lei sorella di Kitty, lui fratello di Anna, e Karenin, il marito tradito, il personaggio più solo del romanzo insieme a Anna. Le coppie sono create da Tolstoj per essere contrapposte fra loro, come le note all’interno del fraseggio musicale: Anna e Vronskij formano una coppia illegittima, votata all’infelicità; Kitty e Levin, non senza un loro rovello interiore, sono votati a salire, a crescere, a vivere formando una famiglia; Dolly e Stiva rappresentano la coppia priva di tragicità, ma anche di grandezza: Stiva Oblonskij tradisce continuamente sua moglie, e lei, Dolly, detesta le sue scappatelle, ma resiste per tenere salda la famiglia; infine Karenin, l’uomo dal prestigioso incarico statale pronto a perdonare, il «gosudarstvennyj muž», il marito di stato, nobile senza essere eroico; il personaggio detestabile per eccellenza, perché noioso, prevedibile, che però Tolstoj riscatta genialmente dal suo ruolo di eroe negativo. Tolstoj impiegò quattro anni a scrivere Anna Karenina, e io ho impiegato poco meno tempo di lui a tradurlo. Il confronto mi fa rabbrividire soprattutto da quando ho scoperto che impiegò quattro anni, perché in mezzo vi furono molti dubbi, intervalli, ripensamenti, altre attività. Ho lavorato alla traduzione del romanzo per tre anni, dal giugno 1994 al giugno 1997. Sono stati tre anni di lavoro intenso. La cosa più lunga e difficoltosa, oltre alla traduzione vera e propria del romanzo, è stata il suo perfezionamento, il limare la lingua, controllando, revisionando il testo tante e tante volte. Tolstoj voleva scrivere allo stesso modo in cui si viveva e si parlava nelle classi alte; cioè in modo puro, invisibile, impercet-

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tibile, trasparente; desiderava che al lettore le pagine scorressero, così come scorrono i torrenti in primavera; che la sua opera crescesse, così come crescono i bambini. Coltivava un sogno di naturalezza, a lui particolarmente congeniale, perché aveva trascorso la maggior parte della sua vita in campagna, e sua moglie, Sof’ja Andreevna, aveva dato alla luce tredici figli. Ho impiegato circa un anno e mezzo a tradurre, ma poi c’erano le note, la postfazione, le infinite riletture, le revisioni che non finivano mai, perché la traduzione non mi convinceva mai del tutto, e quindi la modificavo e ristampavo, e ogni volta mi diventava più familiare, e più difficile si presentava il compito di ritoccarne le imperfezioni. Ci si abitua, infatti, anche a una traduzione che non va completamente; ci può sembrare conclusa, definitiva, cristallina, anche una che non lo è, solo per il fatto che ci diventa consueta. Non ebbi un attimo di esitazione quando una certa mattina Aldo Busi, direttore della collana «I classici classici» di Frassinelli, mi propose telefonicamente di tradurre Anna Karenina2. Avevo letto il romanzo in russo, all’incirca venti anni prima, a vent’anni. Conservavo i due volumi con l’annotazione a margine a matita in italiano dei vocaboli che non conoscevo e che avevo cercato sul dizionario. Mentre Busi mi parlava, risfogliai per un istante le pagine più difficili, quelle in cui Tolstoj descrive il lavoro nei campi, la semina, la falciatura. Dissi comunque di sì. La prima difficoltà, nel tradurlo, forse nasce proprio da questo: dalla sua conoscenza della vita dei campi, con i suoi cicli naturali, la semina, il raccolto. Tolstoj conosceva a fondo questa vita, essendo un proprietario terriero, ma un traduttore di questi tempi è difficile che la conosca, non dico bene quanto lui, ma neppure un poco. Quando viene descritta la falciatura, e non si è mai visto falciare nessuno, bisogna trovare qualcuno che la conosca, e che ce 2 Il romanzo Anna Karenina, in questa traduzione, ha avuto due edizioni: la prima nel 1997, presso Frassinelli; la seconda nel 2009 negli Oscar Mondadori.

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tradurre tolstoj

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la spieghi: che ci spieghi, magari con un disegno, il modo in cui procedevano i contadini spartendosi il terreno da falciare. Altrimenti sicuramente si traduce male, si sbaglia, perché è difficile far capire agli altri quello che non si è capito noi. L’amica Ljuda Greco, che mi ha aiutato in questo lavoro, mi ha anche spiegato quel che non avevo capito chiaramente leggendo il romanzo: che i servitori, in casa, quando comunicavano con i padroni, entrando e uscendo dalla stanza non dovevano mai dare loro le spalle. Tolstoj non ce lo spiega, perché i lettori dell’epoca conoscevano quest’abitudine, ma noi dobbiamo saperlo, dobbiamo cercare di vedere la scena così come la immaginava Tolstoj mentre ce la descrive, per restituirla al lettore straniero moderno. Quasi sempre le persone, dal di fuori, commentavano con entusiasmo il mio lavoro: «Bellissimo! Dev’essere straordinario tradurre questo, che non è un romanzo, ma il romanzo per eccellenza». Sì, pensavo anch’io che per me fosse un grande onore tradurlo, anche perché illustri predecessori lo avevano fatto prima di me. Ma anche una grande fatica. Tolstoj è uno scrittore apparentemente facile. La sua lingua classica, colta, piana della seconda metà dell’Ottocento è ancora oggi, fondamentalmente, il russo parlato dalla classe colta. Tolstoj ci descrive quello che conosceva bene, e non era poco: la vita del gran mondo cittadino, i suoi balli, le corse, i pettegolezzi; la conversazione fra proprietari terrieri, la lingua dei contadini, il lavoro nei campi, la caccia, gli animali. Tolstoj descrive il rapporto fra servi e padroni, la classe emergente dei mercanti, le piccole prepotenze e debolezze della vecchia tata, il parto di una mucca, la morte di una cavalla. Ma è soprattutto un conoscitore dell’animo umano, e ce lo rivela attraverso una fisionomia, un atteggiamento, un gesto. Vuole restituirci la vita così com’è, questo è lo scopo che si prefigge, ma dietro il romanzo, o sotto di questo, sotto il conte contadino Tolstoj, sotto il pedagogo, l’asceta, c’è il letterato, l’allievo di Puškin, l’architetto di una perfetta costruzione tutta letteraria.

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Di questo mi sono resa conto poco alla volta, mentre traducevo. All’inizio non capivo bene – traducevo infatti Tolstoj per la prima volta – se la sua scrittura peccasse in qualche punto di sciatteria, o fosse tutta intenzionale, premeditata. Non avevo letto molti testi di critica sul romanzo, e le mie letture universitarie erano ormai lontane. Del resto mi piaceva proprio questo: avere un approccio mio, spontaneo, diretto, non mediato da niente e da nessuno al testo; scoprirlo a poco a poco. Conoscevo bene Puškin, perché avevo tradotto nell’88-89 la sua prosa. Ebbi subito la sensazione che Anna Karenina fosse un romanzo fortemente puškiniano, ma temevo di essere influenzata nel mio giudizio dal fatto di aver tradotto tutta la sua prosa, cento sue poesie, e studiato molto Puškin. Le letture critiche, invece, me lo confermarono. Come Puškin, Tolstoj lancia messaggi ripetendo la stessa parola tante volte quando vuole annunciare l’argomento di un capitolo; come Puškin, Tolstoj usa le parole in modo simbolico, a doppio senso, costruendo mediante le parole segreti legami fra i personaggi. Solo che mentre Puškin esalta la propria letterarietà settecentesca, mentale, Tolstoj se ne vergogna. Tolstoj, se potesse fare a meno della letteratura, si occuperebbe solo dei problemi universali. Fui contenta che le mie prime impressioni trovassero conferma, e anche che Tolstoj mi si rivelasse un padrone perfettamente consapevole di ogni parola, pagina, di ogni finale di capitolo, che doveva essere a effetto, perché il romanzo veniva pubblicato via via a puntate su «Il Messaggero russo», una rivista dell’epoca. Tolstoj, con l’aiuto della moglie Sof’ja Andreevna, che gli copiava le diverse stesure, limò il romanzo fino a renderlo una trasparente geometria fatta di rime d’intreccio, similitudini, metafore, allegorie, proprio come avviene in poesia. Come si fa a diventare traduttore? È difficile rispondere a questa domanda, non so io stessa se sono una traduttrice. Ho dedicato parte del mio tempo a questo lavoro, e basta. Non sono andata a scuola, nessuno me lo ha insegnato. Ho avuto solo critiche, rimproveri, consensi, consigli. Mi sono mossa sulla falsariga di questi. Spinta dall’amore per la scrittura, trattenuta dalla paura di sbagliare. La mia scuola è stata la lettura.

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Quello del traduttore è un lavoro poco conveniente, perché non esiste una proporzione neppure lontanamente adeguata fra la fatica e il compenso; perché poco sicuro, perché ti espone a molte critiche, perché il risultato è imperfetto per forza, e, anche se hai successo, è un successo subordinato alle fortune dell’autore. E poi le traduzioni invecchiano, e quindi dopo un certo numero di anni vengono sostituite, si esauriscono, è il loro destino. I vantaggi. Il primo, indubitabile privilegio del traduttore è quello di stare a stretto contatto con l’autore, di poterne scoprire i segreti. Quanto più grande l’autore, tanto maggiore il privilegio di essere al suo servizio. Il secondo privilegio è l’esercizio dello scrivere. Chi traduce ha un suo equipaggiamento pronto per scrivere. Si muove all’interno di una gabbia, di una griglia rappresentata dal testo originale, come uno sportivo che si alleni in palestra. Se ne sta a rimuginare fra sé sinonimi, a spostare mentalmente le parole per capire, in ogni frase, quale sia l’ordine che gli suona meglio nella testa, proprio come fa la padrona di casa quando assegna i posti a tavola prima dell’arrivo dei commensali. Tradurre è forse il più puro esercizio dello stile, perché chi lo fa, pur se afflitto dalla noia, da rabbia, preoccupazioni, non può riversarli da nessuna altra parte che non sia lo stile. Nessuna trama autobiografica, nessun guizzo inventivo che non risieda in questo. Chi traduce è pura voce, una voce che lascia trasparire il messaggio di un forestiero. Il terzo privilegio è quello della formazione del carattere. Chi traduce lavora da solo, quasi sempre in casa, e non incontra quasi nessuno per lavoro, se non qualcuno che gli dà una mano. Chi traduce deve avere una forte autodisciplina nel lavoro, perché non c’è nessuno che lo controlli, se non, al momento della consegna, i funzionari della casa editrice, e poi i lettori. Nessuno lo vede lavorare, a eccezione dei propri familiari. Chi traduce di solito non conosce i propri colleghi. Ha davanti solo il proprio computer, un libro che si sfoglia assai lentamente, e tanti vocabolari. È il lettore più lento, ma può essere anche il più attento. Tradurre insegna a combattere le proprie indecisioni. Col tempo si diventa più riflessivi e allo stesso tempo più sicuri nella scelta del lessico, ma ci si deve districare in mezzo a un numero mag-

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giore di possibili varianti. Chi traduce non sfoglia il dizionario, ma lo studia e lo conosce, lo consuma. Chi traduce ha bisogno – per lavorare bene – di un tempo infinito avanti a sé, di un tempo fuori dal tempo. Di un tempo antico, generoso, contemplativo, affascinante, direi eterno, che è lo stesso tempo della scrittura. Un tempo che ognuno di noi dovrebbe conoscere, scoprire dentro di sé. (2011)

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Lo spettacolo della memoria e la memoria dello spettacolo (sul Racconto di Sonečka di Marina Cvetaeva)

La traduzione in italiano del Racconto di Sonečka è particolarmente difficile, perché la prosa di Marina Cvetaeva è rigorosamente poetica. Ogni parola nella sua opera pesa e non andrebbe fisicamente spostata. Arduo con il russo, che è costruito in modo diverso dall’italiano (per esempio l’aggettivo in russo precede il sostantivo, mentre in italiano, di solito, l’aggettivo lo segue). Non c’è niente di piano, scorrevole, pleonastico nella sua prosa; al contrario: tutto è preciso, secco. È il risultato di quello che fa dentro di noi la memoria, scartando impietosamente tutto il superfluo. Ho un rapporto particolare con questo racconto, perché l’ho tradotto due volte: la prima nel 1981, quando in Italia si cominciava a tradurre tutta la prosa di Marina Cvetaeva, e poco tempo fa, di nuovo, nel 20031. Ho conservato gelosamente la prima traduzione, che era la mia prima traduzione importante, come un tesoro, e la carta, col tempo, poco a poco s’è ingiallita. Lo stile ispirato, da eterna adolescente, e allo stesso tempo consapevolissimo della poetessa russa, faceva molto presa sulla mia giovane età, si combinava bene con il mio stato d’animo e con il mio temperamento. Per me è stato estremamente interessante confrontare le mie due traduzioni dello stesso testo, lontane più di vent’anni una dall’altra: la prima, vecchia traduzione era frutto di un lavoro fatto da una traduttrice meno esperta, ma le prime soluzioni, più istin1 Entrambe le traduzioni sono rimaste inedite. La versione italiana di questo racconto è stata pubblicata nel 1982 da Il Saggiatore, Milano, e poi nel 1992 da La Tartaruga edizioni, Milano, sempre nella traduzione di Giovanna Spendel e sempre con il titolo Il racconto di Sonečka.

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tive, a volte mi sembrano più fresche, naturali, più immediate. La seconda traduzione è più matura, meditata. Ho tradotto nuovamente il racconto per intero, senza copiare la prima traduzione, ma solo andando a guardare per curiosità di tanto in tanto il vecchio testo. Nel frattempo ho imparato a essere più cauta, più attenta; consulto le parole sul dizionario in modo più accurato e paziente, e non solo quelle che non conosco, ma anche quelle che conosco a metà, e anche quelle di cui, apparentemente, conosco bene il significato nella mia lingua. Ho imparato a cercare sul dizionario non solo il primo, ma anche il secondo, il terzo e qualche volta perfino il quarto significato di ogni parola. Ho imparato a riflettere, traduco senza fretta. E quando mi è capitato di confrontarmi con altri traduttori, mi hanno detto la stessa cosa: più passa il tempo, più si cerca ogni cosa, si approfondisce ogni parola, e invece si potrebbe pensare, di questo mestiere, il contrario. Cioè che col tempo, acquistando sicurezza, conoscendo meglio la lingua, conoscendo già quasi a memoria il dizionario, si faccia più in fretta. Ma non è così. Evidentemente ho acquistato qualcosa, ma allo stesso tempo, da qualche parte, ho sicuramente anche perso. Ai tempi della prima traduzione di questo racconto lungo, all’inizio degli anni Ottanta, Marina Cvetaeva mi aveva così affascinato da arrivare quasi a plagiarmi, e io vivevo seguendo alla lettera le sue parole. Non lo avevo deciso io, mi era capitato. In me c’era solo una certa predisposizione naturale, una disposizione all’ascolto totale. In particolare le parole della protagonista del racconto, Sonečka2: – Ah, Marina! Quanto amo – amare! Quanto amo follemente – amare io! […]

s’impressero come un imperativo nella mia coscienza. Fra l’inizio degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Duemila corrono vent’anni, nel corso dei quali, per reazione, ho rifiutato e tralasciato l’opera di Marina Cvetaeva con la sua enfasi, il suo 2 Marina Cvetaeva, Povest’ o Sonečke [Racconto di Sonečka], in Ead., Sočinenija v dvuch tomach, Proza i pis’ma [Opere in due volumi, Prosa e lettere], vol. 2, Chud-aja Literatura, Moskva 1988, p. 150.

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estremismo, la sua esaltazione, la sua posa eternamente ispirata, così come si rifiuta un primo amore che ti ha assorbito troppo. In questo intervallo di tempo mi sono limitata a vivere. * L’amicizia di Marina Cvetaeva con la giovane attrice Sonja Gollidej si riferisce al 1919, ma l’autrice scrive il suo racconto durante l’estate del 1937, a Lacanau-Océan in Francia, diciotto anni dopo questi avvenimenti, quindici dopo la sua emigrazione dalla Russia, due anni dopo la morte di Sonečka, quattro prima d’impiccarsi a Elabuga, settantasei anni fa. Il periodo del nostro racconto è quello terribile della guerra civile, a Mosca. Marina incontra il giovane poeta Pavel Antokol’skij, e questi le presenta gli attori del Terzo Studio: i tre Jurij – Zavadskij, Nikol’skij e Serov – e Volodja Alekseev. Usa spesso il verbo «essere», ma anche, altrettanto spesso, lo evita, sostituendolo con il suo amato tiré, il trattino. Il verbo «essere» è il punto preciso in cui si raccordano passato e presente. Il movimento della memoria di Marina è diretto verso il passato, a ritroso, come la nostalgia. Prendiamo, per esempio, il dialogo fra Marina e Sonečka3: Marina, non si può far tornare tutto indietro, prendere e girare – con le mani – come un fiume? Mandarlo – al contrario? Perché sia di nuovo inverno – e quella scena – e voi leggete «La tormenta». Perché non sia l’ultima volta, ma – la prima?

Nel tentativo affascinante di ricreare il passato, fra l’altro nella stessa terra dell’amato Proust, sullo stesso oceano, presa da una passione saffica retrospettiva, Marina, con la tecnica della ripetizione, dell’economia, e allo stesso tempo dell’accumulo della lingua, scompone i piani narrativi. Descrivendo il miracolo delle visite di allora di Volodja Alekseev, miracolo che la trovava sempre a casa e sempre da sola, Cvetaeva 3

M. Cvetaeva, Povest’ o Sonečke, cit., p. 236.

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immagina che l’interlocutore la interroghi, rivolgendosi a lei con il «voi», e che lei gli risponda rapidamente, quasi trafelatamente4: – Quindi, siete stata sempre a casa e sempre da sola? – – No, uscivo. No, capitavano.

A due domande seguono subito due risposte. L’accumulo sintetizza e rafforza l’effetto. Marina rompe l’ordine del dialogo. Nel racconto ci sono slittamenti temporali, coincidenze mancate: alcuni avvenimenti riguardano la Marina del presente, del 1937, mentre lei li ascrive al tempo della narrazione, il 19195: Sì, sì, sì, io tutti loro, di così poco più giovani di me o proprio coetanei, li sentivo – figli, poiché ormai ero sposata da tanto, e avevo già due figlie, e due libri di versi – e tanti di quei quaderni di versi! – e tanti di quei paesi abbandonati!

La poetessa accumula i dati, li elenca, e non può fare a meno di aggiungere, in fondo all’elenco, i paesi che ha perso. La sua tecnica dell’enumerazione spesso si serve di un grappolo di sostantivi, che, tutti, si appoggiano e riferiscono al verbo «essere». Al tempo in cui aveva conosciuto Sonečka, infatti, Marina Cvetaeva non aveva ancora abbandonato la Russia. Una volta la memoria di Marina viene meno, e allora esce lei stessa improvvisamente sulla scena6: Oh, Signore, ho dimenticato! dimenticato! dimenticato! dimenticato come comincia, ricordo solo – come finisce!

* Si potrebbe dire che tutto il racconto è uno spettacolo della memoria, perché la memoria di Marina è portentosa. Sappiamo dal racconto che all’epoca teneva un libretto di appunti7: Un giorno gli stavo leggendo dal mio taccuino –

4

Ivi, p. 176. Ivi, p. 187. 6 Ivi, p. 204. 7 Ivi, p. 226. 5

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Altrimenti come avrebbe potuto riportare tanti dialoghi, descrivere i gesti, le intonazioni di ogni singolo personaggio? Non lo sappiamo. Tutto viene riportato in un libro.

scrive di lei suo marito Sergej Efron in una lettera a Maksimilian Vološin del gennaio 19248. Marina ha una memoria visiva, fotografica, fortemente sviluppata. Di una fotografia di gruppo in cui è presente anche Sonečka, perfettamente integrata in esso, scrive9: … E così sono rimasti per me – un gruppo. Come se fosse stato già allora – uno scatto.

Marina ha una memoria cristallina e cristallizzata. In lei è ancora vivo il ricordo dei fatti di quel periodo, ma in quell’intervallo di tempo sono successe tante cose: è morta la sua figlia minore Irina, lei è emigrata in Germania, in Cecoslovacchia e poi in Francia. Rievocare per lei significa fermare, fissare le immagini del passato, ma Marina si sente pietrificata da quel doloroso passato, che l’aveva pretesa e resa dura10: Ma non era il matrimonio, non i figli, non i quaderni, e neppure i paesi – io a ricordare avevo cominciato quando avevo cominciato a vivere, ma ricordare è – invecchiare, e io, nonostante la mia giovinezza dirompente, ero vecchia, vecchia, come una roccia, che non ricorda quando è cominciata –

Cvetaeva scrive che l’atto stesso del ricordare non deriva – come si ritiene di solito – dall’invecchiamento, ma che, al contrario, il suo stesso vivere ha comportato in lei il ricordo, che è, a sua volta, causa d’invecchiamento. Forse per marcare la sua ori8 Marina Cvetaeva, Neizdannoe. Sem’ja. Istorija v pis’mach [Inedito. La famiglia. La storia nelle lettere], a cura di E. B. Korkina, Ellis Lak, Moskva 1999, lettera di Sergej Efron a Maksimilian Volosˇin, dicembre 1923, p. 306. Efron scrive: «Tutto viene riportato in un libro. Tutto viene riversato tranquillamente, matematicamente in una formula. Una stufa enorme, per attizzare la quale serve legna, legna, e ancora legna». 9 M. Cvetaeva, Povest’ o Sonečke, cit., p. 162. 10 Ivi, p. 187.

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gine remota, e in genere la sua vecchiezza, Marina non mette il punto alla fine della frase. * In questo racconto Marina è come se aprisse il teatro della sua vita personale non dalla parte della scena, ma da dietro, dalle quinte della sua straordinaria memoria orale e visiva. Il racconto consiste soprattutto dei dialoghi di quell’epoca, che si svolgevano spesso nella casa-teatro della poetessa a Mosca, nel vicolo di Boris e Gleb, che oggi si può visitare, perché è diventata una casa-museo. Marina è come se riascoltasse questi vecchi discorsi degli amici attori, delle figlie, della tata di Jurij Zavadskij, dei passanti, su un immaginario boccascena vuoto, attraverso la buca del suggeritore-coscienza. E li ripetesse, li appuntasse sull’Oceano Atlantico, su una vastissima scena, in totale solitudine, in un silenzio totale, rotto solo dal rumore delle onde. Subito, nell’appuntarle automaticamente, le parole assumono la sua alta, solitaria, disperata, estraniata, assai fiera intonazione. Anche il modo di discorrere paradossale, diversamente primitivo della tata e della figlia piccola Irina, assomiglia al discorso extragrammaticale, estremamente sintetico e inventivo dell’autrice. La figlia maggiore di Marina, Alja, è una bambina mostruosamente matura, con un raziocinare terribilmente analitico e ipertrofico rispetto alla sua giovane età. Come il leitmotiv di Anna Karenina è il treno, così Marina Cvetaeva qui rievoca spesso il teatro. Si può dire che il teatro sia il protagonista astratto del Racconto di Sonečka. L’espressività del discorso è accentuata dall’uso particolare dei segni d’interpunzione. I segni sono in rapporto con la recitazione teatrale, e la poetessa è come se creasse attraverso di loro un certo estraniamento, usandone tanti. Per esempio qui, quando riporta il discorso di Sonečka11: Marina, perché parto? Ammazzo forse qualcuno – se non parto? Muore forse qualcuno? Marina, potete capirmi? Ora parto da voi, che per me – siete tutto – perché ho dato la mia parola di essere alle quattro alla stazione. Ma alla stazione – per che cosa? Chi ha fatto tutto questo? 11

Ivi, pp. 236-237.

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Sonečka pone a Marina molte domande, non sa perché parte. Il punto interrogativo rende lo spaesamento della giovane amica. La separazione è uno dei temi principali nell’opera di Marina Cvetaeva. Dietro questa drammaticità possiamo leggere il presentimento di Sonečka e di Marina di non incontrarsi più. Sonečka domanda a Marina e contemporaneamente alla sorte se ne valga la pena. L’insistenza del punto interrogativo prende l’intonazione del pianto, del lamento, della preghiera, di una mite protesta a mezzavoce, che diventa disperazione. Cvetaeva separa anche le diverse parti del discorso, creando un effetto di attesa. Quando descrive l’ingresso di Sonečka nel suo appartamento, per esempio, si esprime così12: Un giorno un picchio alla porta. Apro. Nero, dagli occhi, il viso – e già dalla soglia.

L’aggettivo «nero» e il sostantivo «viso» sono separati dall’inciso «dagli occhi». Immaginiamo il picchiare alla porta con due nocche, e subito dopo due occhi, e perdipiù neri. Quel che si sente e quel che si vede è simile e, soprattutto, succede improvvisamente. Marina Cvetaeva smonta la frase da costruttivista; accelera, rallenta il racconto, sovrappone le parole, le confonde cambiandone l’ordine, le fa scontrare – da futurista. * In questo racconto lungo vi sono molti elementi teatrali, che hanno, cioè, una specifica, o traslata attinenza con il teatro. Marina Cvetaeva parla di una maschera greca, e la maschera è un simbolo del teatro antico, nel brano che segue. Per Capodanno, infatti, regala a tutto il Terzo Studio13 la mia antica maschera d’argento di un imperatore greco, di scavo. La maschera – è sempre una tragedia, ma la maschera di un imperatore – è la tragedia. 12 13

Ivi, p. 170. Ivi, p. 187.

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Poco prima, parlando di Jurij Zavadskij, Marina aveva inventato uno straordinario gioco di parole, foneticamente pressoché intraducibile. In quel caso la maschera è indicata con un’altra parola. Questa antica in russo è maska, e indica l’oggetto che si pone sul viso; l’altra è ličina, e ha una valenza metaforica. Ho provato a usare il latino per mantenere una comunanza di senso e l’assonanza presente in russo fra lico, ličina, obličie e oblicovka14. Dissi: in un certo senso lui non aveva faccia. Ma non aveva neanche – una facies. Aveva – una facciata. La sfaccettatura angelica di un edificio ordinario (e disabitato).

Diverse volte appare nel contesto del racconto, come in un testo teatrale, la parola «pausa». Questa coincide con l’apparizione sulla scena-pagina del personaggio dell’attrice, primadonna in mezzo a tanti attori uomini. Per esempio, parlando della sua giovane amica, Marina scrive15: E resta in piedi così. (Pausa.) – Io comunque, forse, un giorno mi affezionerò – a lui?

Sonečka domanda, e noi immaginiamo il silenzio teso del pubblico in risposta – davanti a lei in realtà c’è esclusivamente Marina che le dà vita un’altra volta, e, in seguito, noi, lettori del racconto. Sonečka teneva in casa – anche in questo particolare c’è una punta di tragicità e di paradosso tipico di quegli anni in Russia – una bara, che le era capitata per uno strano caso. È un’allusione alla sua morte imminente, alla sua sorte ingiusta. La bara appare qui come un oggetto teatrale significativo, e personaggio nella casa dell’amica. Non ci dimentichiamo che Čechov sosteneva che se sulla scena appare un fucile attaccato a una parete, presto o tardi quel fucile servirà a qualcuno16: Il quarto personaggio della stanza di Sonečka era – una bara. 14

Ivi, p. 168. Ivi, p. 171. 16 Ibid. 15

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Marina scrive ancora indirettamente di teatro quando riferisce il discorso di Volodja, attore, che, dissertando sulla donna delle pulizie dello studio innamorata di lui, dice17: Per le donne gioca un ruolo secondario la nascita e la categoria sociale. Hanno solo due categorie: giovinezza – e vecchiaia.

Qui l’espressione «giocare un ruolo» ha un altro significato, ma già in senso traslato. Fuori dal suo contesto l’espressione dell’autrice allude all’interpretazione teatrale. Nel frammento successivo la parola «visione» è associata all’apparizione di Sonečka sulla scena, come se la prima fosse metafora della seconda18: Questa fu la prima visione di lei, e dopo, sulla scena, alla lettura della “Tormenta”, il primo incontro con lei dopo la mia “Tormenta” […]

Il regista Vachtang Mčedelov se la prende con Sonečka, che lo ha preso in giro, e la chiama con disprezzo «commediante»19: Lui allora, Marina, si offese terribilmente, mi chiamò commediante e qualcos’altro […]

Marina per Capodanno compone per tre dei suoi amici una poesia, che legge in quell’occasione. Quando arriva la strofa dedicata a Volodja Alekseev, definisce «guitti», in russo licedei, altro sostantivo derivato da lico, faccia, la categoria degli attori20: E infine – eroe fra i guitti – Per la parola essere Alekseev! – che ha dimenticato i nomi, tutti, Anche il suo stesso!

Il sostantivo licedej in russo definisce l’«attore comico»; qui è tradotto come «guitto», ma significa anche «ipocrita».

17

Ivi, p. 178. Ivi, p. 183. 19 Ivi, p. 184. 20 Ivi, p. 187. 18

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Quando descrive la sua passeggiata con l’amico attore Volodja durante la notte di Pasqua, Marina Cvetaeva, forse, nominando l’«atto», allude anche all’atto teatrale, e invece usa il sostantivo apparentemente nel suo primo significato di “azione”21: Tutta quella notte fu – un gesto: suo verso di me. Atto – suo verso di me.

Un’altra parola polisemantica è vyzov «chiamata», che significa “sfida”, ma che è anche l’invito, con un applauso prolungato, da parte degli spettatori, a richiamare sulla scena uno o più attori dopo la fine di uno spettacolo. Cvetaeva la usa quando il suo testo diventa gradualmente sempre più teatrale. L’autrice precisa fra parentesi, con una didascalia, l’intonazione di Sonečka22: Ma devo andarmene? (Sonečka, con sfida.)

Nel testo appaiono le didascalie, che precisano pose, intonazioni dei personaggi come nei testi di teatro23: Potete amare me, così? Perché questi sono i miei versi preferiti. Perché questa è proprio (occhi chiusi) – una beatitudine. (In un recitativo, come addormentata) […]

Iosif Brodskij apprezzava, fra «la molteplicità di piani del pensiero cvetaeviano», anche la trascrizione fonetica all’interno della sua opera. Riferendosi alla poesia Novogodnee [Per l’anno nuovo] scrive24: Sono molti gli enunciati di questo tipo in Novogodnee, ma ancora più numerose sono le soluzioni espressive – stratagemmi metrici, rime, enjambements, esperimenti di fonografia, eccetera – che a proposito di un poeta ci dicono di più della più sincera e chiassosa delle sue dichiarazioni.

La fonografia contribuisce a rendere il testo orale, recitato. Nel brano seguente Cvetaeva descrive la sua giovane amica attraverso tutte le sfumature della pronuncia del suo nome «Marina»25: 21

Ivi, p. 191. Ivi, p. 192. 23 Ivi, p. 206. 24 Iosif Brodskij, Nota in calce a una poesia, traduzione dal russo di Serena Vitale, in Id., Il canto del pendolo, trad. it. dall’inglese degli altri saggi di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, p. 214. 25 M. Cvetaeva, Povest’ o Sonečke, cit., p. 219. 22

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Molte volte ho riportato il suo prolungato – Marina… (Oh, Marina… Ah, Mari-ina!) Ma aveva un altro Marina, spezzato, con un certo tremolio del labbro superiore, e che inevitabilmente preludeva a qualcosa di spiritoso: «M’r’n’a (simile al francese Marne) – avete notato che lui, quando avete detto…

Il racconto è un’avventura, un esperimento. Marina Cvetaeva crea un estraniamento temporale. Riascolta i suoi personaggi dopo la morte della figlia Irina e dopo la notizia della morte della stessa Sonečka. Rievoca i tempi difficilissimi dopo la Rivoluzione, quando si chiudeva nel suo appartamento moscovita insieme coi suoi amici. Il Racconto di Sonečka è una lunga elegia sull’amica scomparsa. Quando Marina scrive che dopo la morte l’amica è rimasta senza tomba, sembra prefigurare la sua propria sepoltura in una fossa comune qui a Elabuga. E in fondo al racconto svela la funzione acceleratrice del suo amato tiré26: Adesso – un lungo tiré. Un tiré – lungo tremila verste e sette anni: di duemilacinquecentocinquantacinque giorni. (2010)

26

Ivi, p. 246.

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La sutura (la pubblicazione in italiano dell’opera completa di Sylvia Plath)

È appena uscito un Meridiano dedicato alla poetessa americana Sylvia Plath1. Oggi, infatti, se non avesse deciso di suicidarsi nel 1963, a soli trentun anni, avrebbe più di settant’anni. Una schiera di appassionate studiose ne ha curato la traduzione dei versi (Anna Ravano, anche curatrice del volume), delle prose (Adriana Bottini), dei diari (già pubblicati di recente e qui in parte ripubblicati nella stessa traduzione di Simona Fefé, su licenza della casa editrice Adelphi), e la bella introduzione è stata affidata a Nadia Fusini. Sylvia Plath è diventata mito, leggenda, e anche la sua morte: la mattina dell’11 febbraio, dopo aver messo accanto ai lettini dei figli pane e latte, si preoccupò di sigillare col nastro adesivo le fessure della porta, e, scesa in cucina, si sdraiò con la testa nel forno e aprì il gas. Se la poesia nasce sempre da un conflitto, da una sfasatura con la realtà, la poesia di Sylvia Plath descrive appunto questo forte disagio, questa insofferenza, questa sutura imperfetta. È urlo2: I’m inhabited by a cry. Sono abitata da un grido.

È una poesia mai morbida, ma estrema, acida di reazione, scalciante, recalcitrante, scioccante come può essere quella di chi è stato a sua volta scioccato, di chi vede sempre al negativo, come se guardasse attraverso le creature3: There is a snake in swans. C’è un serpente nei cigni. 1

Sylvia Plath, Opere, Mondadori, Milano 2002. S. Plath, Olmo, in Opere, cit., p. 566. 3 S. Plath, Tre donne, in Opere, cit., p. 526. 2

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Roland Barthes scriveva che «la fotografia è come la vecchiaia: anche se radiosa, essa scarnisce il volto, mette in evidenza la sua essenza genetica»4. Sylvia Plath in questo senso fotografa mentre scrive, e il suo cogliere l’aspetto mostruoso delle cose ricorda la geniale fotografa americana Diane Arbus, morta anche lei suicida, che cercava fra la gente i «freaks», i gemelli, le coppie stranamente assortite, gli uomini giganteschi. Anche Sylvia cerca per sé uomini alti il più possibile, forti, giganteschi, perché lei stessa è grande, alta un metro e settantacinque. Nel 1953 incontra W. H. Auden5: «È la mia idea del perfetto poeta: alto, con una gran testa leonina, una folta chioma rossiccia e una falcata gigantesca e lirica». Nel 1956 incontra a Cambridge il futuro marito Ted Hughes, che definisce: «quel ragazzone bruno, l’unico lì in mezzo che mi tenesse testa per statura»6. Nel 1959 Robert Powell, di cui seguì un corso di poesia alla Boston University, e che ricorda sarcasticamente nel romanzo La campana di vetro col soprannome di Cal, Caligola. Sylvia Plath cresce negli anni Cinquanta in America – un paese che offre alle ragazze dotate la possibilità di collezionare borse di studio, e una vasta scelta di corsi universitari – con l’intento di risarcire la madre Aurelia Schober, amante delle lettere che non si era potuta permettere il lusso degli studi superiori. Pur essendo spregiudicata, Sylvia avverte il peso di una società che la vuole per forza, alla fine, moglie e madre. Refrattaria, ribelle, lei rifiuta di adattarsi alle costrizioni borghesi, al conformismo che le imporrebbe di uscire coi ragazzi il sabato sera, di avere un boyfriend fisso. Non vuole sentirsi «il punto da cui scocca la freccia dell’uomo»7. La madre insiste perché Sylvia segua un corso di stenografia dopo la laurea, che le assicurerà un lavoro; Sylvia non vuole scrivere lettere per gli uomini, vuole scrivere lei stessa. La madre insegna stenografia; i caratteri stenografici, simili a uncini, entreranno nella mente di Sylvia: l’un4

Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 104. Sylvia Plath, Opere, cit., dalla Cronologia di Anna Ravano, p. LXXXIII. 6 Ivi, p. C. 7 Ivi, p. 931. 5

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cino, hook, è uno dei simboli ricorrenti del suo armamentario magico. Chi stenografa abbrevia, in un certo senso deforma nell’atto stesso di registrare. Sylvia Plath scrive con frasi brevi, lucide e abbaglianti come flash, e è difficile nello spazio di ogni singola pagina isolare i suoi versi più incisivi. Sono tutti incisivi, tutti addentano8. I am all mouth. Io sono solo bocca.

Quella di Sylvia Plath è una poesia squartatrice, da sala operatoria. Sylvia era stata ricoverata più volte in ospedali e cliniche psichiatriche, aveva subito l’elettroshock. Scrive9: Mi sentivo purgata e sorprendentemente in pace.

Ingredienti della sua poesia sono il cordone ombelicale che rimanda al parto, le vene, il plasma, le bende, i disinfettanti, i dottori, l’infermiera10. The moon’s concern is more personal: She passes and repasses, luminous as a nurse. L’interesse della luna è più personale: passa e ripassa, luminosa come un’infermiera.

Nel mondo di Sylvia Plath prevale il bianco e nero, e le foto di Diane Arbus sono in bianco e nero. Bianco è il mondo ospedaliero, della malattia. Bianchi sono gli occhi dei bambini, bende, fasce, lenzuola. Il mondo femminile, lunare, che accudisce. Il suo bianco è impalpabile, mentale11. White: it is a complexion of the mind. Bianco: è una colorazione della mente.

8

S. Plath, Poemetto per un compleanno, in Opere, cit., p. 374. S. Plath, La campana di vetro, in Opere, cit., p. 1062. 10 S. Plath, Tre donne, in Opere, cit., p. 522. 11 S. Plath, Il sorgere della luna, in Opere, cit., p. 258. 9

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Nero invece è il padre12: I see your voice Black and leafy, as in my childhood, Vedo la tua voce nera e frondosa, come nella mia infanzia,

oppure nella famosa poesia Daddy13: You do not, you do not do Any more, black shoe In which I have lived like a foot For thirty years, poor and white, Barely daring to breathe or Achoo. Non mi vai più, no, non mi vai più, scarpa nera, in cui per trent’anni ho vissuto come un piede, povera e bianca, senza osare respiro o starnuto.

Il motivo delle scarpe spaiate aveva sempre ossessionato Sylvia Plath, perché a suo padre era stata amputata una gamba poco prima che morisse, e lei da bambina ne era rimasta traumatizzata. Più avanti, nella stessa poesia14: Not God but a swastika So black no sky could squeak through. Non Dio, una svastica piuttosto, così nera che il cielo si arresta.

Il padre di Sylvia, Otto Plath, era tedesco, e si era imbarcato da solo a sedici anni per New York. Qui l’alterità del padre, sottolineata dall’insistenza del nero, è sessuale, linguistica, politica15. […] Any less the black man who Bit my pretty red heart in two. 12

S. Plath, Piccola fuga, in Opere, cit., p. 550. S. Plath, Papà, in Opere, cit., p. 650. 14 Ivi, p. 652. 15 Ivi, pp. 652-654. 13

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[…] Sei sempre l’uomo nero che azzannò e squarciò in due il mio cuore rosso.

Nel bianco e nero, predominanti, irrompe il rosso, colore della passione, della verginità perduta, dell’emorragia, dell’incontrollabile in eccedenza, del rossetto che lei amava ripassarsi sulle labbra quando voleva sentirsi a posto, dei papaveri, del suicidio. Sylvia Plath, con quel padre programmato che le comunica un’esigenza di perfezionismo, lotta per esistere, per affermarsi. L’ich balbettato da bambina in una lingua profondamente straniera, quasi un singulto inarticolato16: Ich, ich, ich, ich, I could hardly speak. Ich, ich, ich, ich, e sempre mi bloccavo lì.

nel romanzo autobiografico La campana di vetro diventa I am17: Decisi di spingermi al largo finché sarei stata troppo stanca per tornare a riva. Mentre nuotavo, il battito del cuore mi rimbombava nelle orecchie ossessivo come uno stupido motore. Io sono io sono io sono.

Sylvia Plath, vera e vorace, è sdoppiata fra una carriera brillante, costellata di successi, e un angoscioso vuoto interiore. Le sue poesie sono spesso popolate da creature silenziose, piatte, annuenti, dalla testa priva di lineamenti come i manichini di de Chirico, pittore che lei amava. Nella celebre poesia Le muse inquietanti, il cui titolo è ripreso da un noto quadro di de Chirico del 1917, scrive, indirizzandosi alla madre18: […] I wonder Whether you saw them, whether you said Words to rid me of those three ladies Nodding by night around my bed, Mouthless, eyeless, with stitched bald head. 16

Ivi, p. 652. S. Plath, La campana di vetro, in Opere, cit., p. 1006. 18 S. Plath, Le muse inquietanti, in Opere, cit., p. 188. 17

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[…] Chissà se le hai viste, se hai detto parole per liberarmi da quelle tre signore che annuivano di notte intorno al letto, senza bocca, senz’occhi, la testa calva tutta toppe?

Oppure19: […] The faces have no features. […] Le facce non hanno lineamenti. […] And then there were other faces. The faces of nations, Governments, parliaments, societies, The faceless faces of important men. E poi c’erano altre facce. Le facce delle nazioni, dei governi, dei parlamenti, delle società, i volti senza volto degli uomini importanti20.

Il motivo dell’assenza della faccia è legato all’incorporeità, alla non vita, al bianco, al cieco21: I like black statements. The featurelessness of that cloud, now! White as an eye all over! The eye of the blind pianist […] A me piacciono le affermazioni nere. Lo scialbore di quella nuvola, invece! Tutta bianca come un occhio! L’occhio del pianista cieco […]

La cecità è il contrario della critica, della coscienza. La dedizione di una donna, il suo amore, il suo senso del dovere è cieco22: I have tried to be blind in love, like other women, Ho cercato di essere cieca in amore, come altre donne,

19

S. Plath, Tre donne, in Opere, cit., p. 526. Ivi, p. 528. 21 S. Plath, Piccola fuga, in Opere, cit., p. 550. 22 S. Plath, Tre donne, in Opere, cit., p. 528. 20

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la sutura

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Ciechi rischiano di diventare coloro che assumono sonniferi in dosi massicce nel tentativo di suicidarsi. Sylvia Plath aveva tentato il suicidio una prima volta nel 1953, il 24 agosto, ingerendo una cinquantina di pillole di sonnifero. Dopo, per quasi dieci anni, aveva vissuto da sopravvissuta a se stessa, da Lady Lazarus. Il suo armamentario si era nel frattempo assottigliato, l’intensità poetica era proporzionalmente cresciuta. L’ultima poesia, Edge, Limite, che porta la data del 5 febbraio 1963, e che fu scritta sei giorni prima della morte, si chiude con l’immagine della luna e dei suoi neri, che sembrano tirare come punti su una ferita. Impazienti di rompersi, scoppiare23: The moon has nothing to be sad about, Staring from her hood of bone. She is used to this sort of thing. Her blacks crackle and drag. La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso, non ha motivo di esser triste. È abituata a queste cose. I suoi neri crepitano e tirano. (2003)

23

S. Plath, Limite, in Opere, cit., p. 808.

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Angeli, poeti, dèi, manichini: figure di riflesso nei versi di Boris Ryžij

Andare in giro fra verità e finzione sopra le foglie cadute di settembre. Boris Ryžij, Restare un ragazzino con il berretto grigio

Nella poesia di Ryžij – nato a Ekaterinburg nel 1974 e morto suicida nel 2001 – le regole sono molto severe, esclusive. Non è la realtà a invitare il poeta a sedersi al tavolo da lavoro, ma esattamente il contrario: il poeta si crea un proprio mondo e in esso entra e vive fisicamente sempre più intensamente fino alla fine, sostituendo quello suo vecchio con questo nuovo. L’autore s’identifica totalmente con il suo eroe cartaceo, con le sue rime, le lettere che le compongono, le sue pagine, e in questo modo diventa rispetto a se stesso un’altra persona, estranea, non vera. Il personaggio di Boris diventa progressivamente un sosia letterario autonomo, che esclude, annulla il suo creatore. Nella poesia «Nevicava» del 1996 scrive1: E mi sembrava perfino che non c’ero. Probabilmente m’ero trasformato in zero. A vivere in una mia poesia me n’ero andato – spento sulla cenere con bagliore infuocato.

Si può notare dai versi disposti cronologicamente che nella prima metà degli anni ’90 Ryžij – che allora era un ragazzo molto giovane, ventenne, più vicino alla tradizione poetica russa ottocentesca, e imi1 Boris Ryžij, Padal sneg [Nevicava], in Id., Stichi [Versi], Puškinskij Fond, SanktPeterburg 2003, p. 52.

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tava con una certa ironia un cliché di epoca romantica – si rivolge spesso ai suoi migliori amici e all’amata con i seguenti appellativi2: amicone (8) amichetto (10, 33, 76, 87) mia tenera (14) amico mio (rivolto ora a una donna, ora a un amico: 14, 15, 27, 32, 98) mio angelo (17, 25) angelo mio (22, 128) amore (34) amico del cuore (40) caro amico (44, 50) amici (64, 92, 104, 118) amico (15, 75,) persona a me cara (84) amico caro (98) amico mio caro (111, 215) mio caro (128) amici miei (144)

Subito, fin dai primi versi, Boris contempla lucidamente la propria solitudine e allo stesso tempo cerca la compagnia degli amici. Nella poesia seguente, scritta nel maggio del 1996, Robinson, Boris ricorda i libri preferiti della sua infanzia, e fra questi Robinson Crusoe. Si descrive in una posa ricorrente nei suoi versi: dietro i vetri della sua finestra, e da lì racconta le imprese dell’eroe del romanzo confidando nel fatto che questi, presto o tardi, si trovi una compagnia sull’isola. Immerso nelle sue riflessioni, Boris si appella agli amici3: E così, guardiamo alla finestra. Ardono le luci sulla prigione. Leggevo da bambino il racconto di robinson: viveva, amici, su un’isola da solo. Testimone di tempeste marine, scampato al fondo, viveva, si era costruito una casa, gli animali cresceva, trionfando così sulla sorte cattiva. Ma pur sempre, pensavo, robinson morrà, 2 Cfr. B. Ryžij, Stichi cit. La cifra fra parentesi corrisponde al numero della pagina. 3 B. Ryžij, Čto volja dlja byka, Jupiteru – tjur’ma [Quello che per il toro è libertà, per Giove è cattività], in Stichi, cit., p. 64.

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e la casa andrà in rovina, e il bestiame si disperderà, davvero, com’è spaventoso vivere senza un amico e senza dio. E mi faceva paura, perché è crudele l’idea, eppure, amici, con tutto il cuore desideravo che naufragasse contro quelle rocce un’altra nave.

L’appello agli amici, come una pausa digressiva all’interno del verso, col tempo si riscontra più raramente, e a questo si sostituisce lo stesso Boris, che, in lotta con l’eroe di sua invenzione, dichiara4: Dai, forza ragazzi, colpite! L’anima da adesso avrà il filo diretto con qualcuno nel deserto solo per mezzo della matita.

Boris racconta di sé come vedendosi dal di fuori, ora come un ubriaco, ora come un signore insignificante, ora come l’eroe futuro di un mito. Nella poesia Ode del 1997 scrive5: Sulle spalline il sangue del tramonto. «Ah, non è niente, – si limitano a dire, spegnendo le luci di posizione, – quello là è il solito ubriacone Bor’ka Ryžij, il primo poeta della città».

Oppure, in un’altra poesia dello stesso anno senza titolo, si guarda come da un’altra vita, postuma6: Viveva un signore al mondo: né ragioniere, né spazzino, così, un nessuno, uno un po’ orbo, un ingegnerino 4 B. Ryžij, Moj geroj uskol’zaet vo t’mu [Il mio eroe scivola nella tenebra], in Stichi, cit., p. 208. 5 Boris Ryžij, Oda [Ode], in Id., Na cholodnom vetru [Al vento freddo], Puškinskij Fond, Sankt-Peterburg 2001, p. 21. Questa poesia è presente nella sezione dedicata a Ryžij dell’antologia La nuovissima poesia russa, a cura di Mauro Martini, traduzione di Valeria Ferraro, Einaudi, Torino 2005, p. 11. 6 B. Ryžij, Žil na svete gospodin [Viveva un signore al mondo], in Id., Na cholodnom vetru, cit., p. 42.

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in una cittadina brutta che cominciava con la lettera E.

Ancora, ricordando l’incontro con i poeti amici pietroburghesi in una birreria sulla via Mochovaja, che si trova accanto alla redazione della rivista «Zvezda»7: Sono seduto e sto pensando quanto voglio bene agli amici miei. E che, cavolo, magari chissà quando, qui ci sarà un museo.

Boris è sospinto verso la sua infanzia, che gli impedisce di vivere al presente, e allo stesso tempo è proiettato nel futuro, che gli erigerà un monumento. Nella poesia seguente, del 1998, scritta come una prosa, tutta di seguito, ma con un suo ritmo interno molto preciso8: […] Io, invece, sono un incrocio di ebreo e ucraino, ma sulle rive della Neva nessuno di voi sapeva, conoscendomi, chi conosceva. […]

Oppure9: siamo tutti a terra sulla piazza di Sverdlovsk, dove il monumento lo faranno solo a me.

Ancora10: Il giardinetto porterà il mio nome.

L’autore in parte posa, certo, ma sembra che effettivamente si alternino in lui la ferma sicurezza della sua futura gloria e la consapevolezza di essere una nullità. In qualche modo questi due approcci opposti verso se stesso sono legati. E uno, paradossalmente, non esclude l’altro. 7 B. Ryžij, Brega Nevy. Portvejn s zakuskoju [Rive della Nevà. Porto con antipasto], in Id., Stichi, cit., p. 251. 8 B. Ryžij, A. Purinu pri vručenii bjustika Apollona i v svjazi s dnem roždenija [A A. Purin in occasione della consegna di un piccolo busto di Apollo e del compleanno], in Id., Stichi, cit., p. 253. 9 B. Ryžij, Ja pomnju vse, chot’ mnogoe zabyl [Io ricordo tutto, anche se molto l’ho dimenticato], in Id., Stichi, cit., p. 273. 10 B. Ryžij, Kogda v pod’ezdach zakryvajut dveri [Quando negli ingressi chiudono le porte], in Id., Stichi, cit., p. 287.

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* Il sogno è spesso presente nella poesia di Boris, e nel sogno avviene lo sdoppiamento della sua coscienza. Sogna da sveglio, per esempio di tornare nel passato, oppure in sonno. Nel caso seguente la visione notturna è un idillio dopo una rissa di strada. Qui la realtà, come sempre nei versi di Ryžij, non sparisce del tutto: il poeta in sogno ha lo stesso aspetto di quella notte, quando era tornato tardi a casa tremante «di rabbia». Scrive nella poesia del 199611: Io, come un dio, mi addormentavo, e sognavo i campi d’oro. Cammino coi calzari e la lira, colgo i fiori… E a un tratto mi viene incontro Apollo, dio della poesia: «Scrivi bene, ma come sei conciato male, figlio mio».

Qui è interessante l’identificazione, addirittura lo scambio dell’autore-poeta con la figura del dio della poesia. Lui, Boris, cammina «coi calzari e la lira», mentre il vero Apollo gli si rivolge come un padre, con una lingua russa viva e allo stesso tempo fiabesca, colloquiale: «Scrivi bene, ma come sei conciato male, figlio mio». Nel raccontare il proprio sogno-idillio Boris scrive: «colgo i fiori…», ma questo è in contraddizione con la realtà di un giovane che vive in una cittadina industriale e che pensa a tutt’altro. Al contrario, Boris rimpiangeva il fatto di non saper vivere, apprezzare come si deve il mondo circostante, e si sentiva in colpa per questo12: Oh, non ho mai notato – in tutti gli anni che ho vissuto – né i fili d’erba, né le foglie, né un ramoscello, Io, venuto con me stesso a duello, di fronte a me ero debole e minuto.

In un altro sogno dalla struttura molto interessante il figlio finisce i sogni del padre sulla caccia all’anatra, anche se la caccia 11 B. Ryžij, Čerez park po nočam ja odin vozvraščalsja domoj [Attraverso il parco di notte tornavo solo a casa], in Id., Stichi, cit., p. 89. 12 B. Ryžij, da Net, glavnoe, požaluj, ne vospet’ [No, l’importante, forse, non è decantare], in Id., Stichi, cit., p. 61.

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non lo interessa affatto. Il padre racconta a tavola i sogni al figlio, Boris si annoia e si alza13: Annoiato, mi alzavo da tavola e andavo a leggermi Kafka, a compatirmi e a comporre versi alla maniera di Brodskij […]

Qui avviene uno sdoppiamento: Boris, oltre al padre naturale, ha un padre letterario, il poeta Iosif Brodskij, ma imparenta a questi e a se stesso anche Franz Kafka. Nella scelta di Kafka c’è forse un’allusione segreta, indiretta, alla Lettera al padre di Kafka, e anche a una comune origine ebraica con quest’ultimo e con Brodskij. Qui è presente un intero albero genealogico, che si ramifica secondo una linea di sangue e la linea dell’affinità spirituale. Le associazioni mentali di Boris si propagano lentamente, verso dopo verso, come piccole onde su un lago tranquillo intorno a una barca, e proprio il lago è il teatro di questo sogno: Io finisco i sogni al posto di mio padre: su questo lago trasparente vago su una barchetta d’alluminio con la doppietta,

La poesia del 1999 si conclude così: E ogni volta, se non incontro mio padre, mi sveglio, perché piango.

Boris, raccontano, amava molto suo padre, e piange nella realtà, pur avendolo perso in sogno. Questa fine è invisibilmente legata alla fine commovente di un’altra poesia, scritta tre anni prima, nel gennaio 1996, quando a Pietroburgo, città che Boris aveva fatto sua, e Brodskij abbandonato, apprese di aver perso Brodskij14: Non trovo le parole e fisso la Nevà, come un bambino mi sono morso il labbro, e singhiozzo. 13 Boris Ryžij, A inogda otec mne govoril [A volte invece mio padre mi diceva], in Id., I vsë takoe [E così via], Puškinskij Fond, Sankt-Peterburg 2000, p. 41. 14 B. Ryžij, Proščaj, olimpiec, proščaj navsegda [Addio, olimpico, addio per sempre], in Id., Stichi, cit., p. 48.

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Addolorato dalla notizia della morte di Brodskij, Ryžij singhiozza mordendosi il labbro, «come un bambino». E anche un po’ come un figlio. * Spesso Boris, nella realtà come in sogno, si confronta con i personaggi più diversi, prevalentemente con gli scrittori, per esempio con Puškin («Come Puškin, ho fumato davanti alla siepe coi contadini,»15), e riscrive Il profeta alla maniera di Puškin, facendone la parodia in una poesia senza titolo del 200016: Va’, disse, parla e brucia con la parola i cuori della gente, delle semplici Marusje e dei Vas’, una volta al mese riempiti d’alcool, e una alla settimana di kvas.

Oppure con James Joyce17: Passerò, come per Dublino Joyce, inspirando tabacco fino a farmi male. Here I am not loved for my voice, I am loved for my existence only.

Nella pagina successiva si confronta con il cosmonauta Jurij Gagarin18: Sorriderò, agiterò la mano come Jurij Gagarin, dalla fronte mi asciugherò il sudore della sbornia e avanzerò barcollando.

Questa peregrinazione in altri personaggi può essere considerata una fantasia dell’autore, un’autoproiezione, ma il trasformi15 B.

Ryžij, Za Obvoju – Kama, za Kamoju – Volga [Oltre l’Obva – c’è il Kama, oltre il Kama – il Volga], in Id., Stichi, cit., p. 182. 16 B. Ryžij, Zelenyj zmij mne pregradil dorogu [Un serpente verde mi sbarrò la strada], in Id., Stichi, cit., p. 328. 17 B. Ryžij, Ja projdu, kak po Dublinu Joyce, [Passerò, come per Dublino Joyce,] in Id., Stichi, cit., p. 178. 18 B. Ryžij, Ja ulybnus’, machnu rukoj [Sorriderò, agiterò la mano], in Id., Stichi, cit., p. 179.

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smo è certamente legato alla giovinezza del poeta, alla sua naturale esigenza di farsi un proprio gusto, stile, carattere, una sua personalità, sia poetica che esistenziale, giocando a migrare da un’anima all’altra. A volte il trasformismo riguarda anche il vestiario. Nella poesia Il manichino Boris, passeggiando con una ragazza, vede un manichino nella vetrina di un negozio19: attraverso il vetro ci sorrideva gentile un manichino inglese.

E più avanti, in fondo: Ricordati il vestito: così voglio morire…

Boris non si misura solo con i poeti, con gli scrittori del passato, con gli amici – si appella il più spesso delle volte al miglior amico e poeta Oleg Dozmorov, e a lui sono dedicati molti suoi versi – ma anche con i manichini, con le bambole, con le creature meccaniche. Nella poesia seguente la situazione è invertita: la bambola si veste con «i cenci» di Boris e continua la sua vita, incespicando «per il giardino» come Boris, e fumando le sue sigarette preferite. La poesia Il manichino fu scritta nel 1995, mentre quest’ultima – nel 1999: nel corso di questi quattro anni il poeta e le sue bambole-sosia è come se si fossero scambiati i ruoli20: Fa’ in modo che quando picchierò con la nuca sul fondo della bara e sprofonderò sottoterra, gli abitanti piangenti di Sverdlovsk agghindino una bambola meccanica dei miei cenci, imprimendo tristezza ai movimenti. […] E che si trascini per il giardino, che si fumi una «Prima» o una «Belomor». Ma due volte all’anno la mettano in ghingheri, e con Luzin Serëga beva pure un bravo attore in declino. 19 B.

Ryžij, Maneken [Il manichino], in Id., Stichi, cit., p. 22. Ryžij, Kogda v pod’ezdach zakryvajut dveri [Quando negli ingressi chiudono le porte], in Id., Stichi, cit., p. 287. 20 B.

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La bambola è presente anche in un sogno del poeta, raccontato nella poesia La bambina con la bambola del 1995. Boris vede in sogno una bambina morta con una bambolina in braccio. Se la bambola meccanica precedente ci ricorda i racconti di E.T.A. Hoffmann, la bambola seguente e tutta la scena in cui si trova sembrano usciti da un quadro espressionista. La poesia in effetti parla della guerra, e qui è riportata per intero21: Con una bambolina morta un bambino defunto si siede sul mio letto di notte. Alla mia finestra un bianco frammento per rompersi, staccarsi fa di tutto. «Chi sei, bambino?» – «Sono una bambina, zio. Guarda, sono diventata come una bambolina…» – «Ehi, ma che vuoi, bambina, pensi che io non ne abbia abbastanza per conto mio di pena?» «Dov’eri mentre ci uccidevano? Gli aerei vorticavano sopra di noi…» – «Scrivevo. Pubblicavo sui quotidiani. Perché la gente diventasse più buona…» Si contorce il livido labbruccio, e mi vola addosso la bambola morta. Mi sveglio – offeso e pieno di raccapriccio. Dietro la mia finestra la luna è smorta. Niente al mondo è più umano dell’inferno, niente è più banale e elementare. Ci sono posti dove dalla scuola materna il passo è breve al boschetto del cimitero.

Spesso, come si è visto, nei versi di Ryžij ci sono figure di riflesso, nelle quali lui si specchia come Narciso nella propria immagine: possono essere dèi, poeti realmente esistiti, eroi libreschi, o bambole. Fra questi c’è un personaggio Leitmotiv, che all’inizio nasce come appellativo, «mio angelo», e che poi poco a poco s’incarna e prende un aspetto umano, addirittura da teppista caravaggesco, conservando le ali. 21

B. Ryžij, Devočka s kukloj [La bambina con la bambola], in Id., Stichi, cit.,

p. 42.

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Ecco come si presenta a Boris l’angelo nella poesia Elegia del 1997, nella quale il poeta ricorda un giorno in cui ha marinato la scuola insieme con i compagni22: […] E uscì dalla nebbia un angelo enorme, che trascinava le ali sulla ghiaia, in scarpe da vecchietto. In una mano aveva la fionda, nell’altra un malavitoso casse-tête. Accesa una sigaretta, fece cadere un anello dalle labbra dure e bestemmiò senza furore. Il suo viso asimmetrico non esprimeva né ira, né amore.

Ancora, in una poesia del 199823: In un incredibile giorno nero sarò abbattuto da un angelo enorme,

Ancora un esempio della figura dell’angelo, ma questa volta non del tipo angelo-teppista, ma dell’angelo custode, infermiere. Sono due, una coppia24: Nell’umida prigione per tossicomani, dove m’hanno rinchiuso perché vaneggiavo, vicino ai compagni che al buio si accalcavano, hanno portato in barella una tela greggia due angeli – Serëga e Andrej, – senza voltarsi, tipi di poche parole, con piume arruffate ma candide e i timbri sulle ali.

Gli angeli di Ryžij sono teppisti, o sterminatori, oppure, a volte, angeli-infermieri, e allora agiscono in due, in accordo. 22 B.

Ryžij, Elegija [Elegia], in Id., Stichi, cit., p. 109. Ryžij, Ja ulybnus’, machnu rukoj [Sorriderò, agiterò la mano], in Id., Stichi, cit., p. 179. 24 B. Ryžij, V syroj, narkologičeskoj tjur’me [Nell’umida prigione per tossicomani], in Id., Stichi, cit., p. 267. 23 B.

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* A volte, al contrario, Ryžij ci pone a raffronto due soggetti che si specchiano. Nella poesia seguente, Giardino d’estate, divisa in 5 parti, e scritta nel 1995, trovano posto diversi temi preferiti del poeta. Il primo è il colloquio del poeta nel pietroburghese Giardino d’Estate con la statua di Euterpe, che sembra piangere a causa della pioggia. Il secondo tema sono gli angeli, che cantano all’unisono. Il terzo è quello del sogno. Il quarto tema sono le figure specchianti di due cigni, che vivono in simbiosi, legati uno all’altro al punto che il volo di uno determina la fine dell’altro25: 3 … come se vedessi in sogno una giornata nuvolosa, ghiaccia. Ecco sopra l’acqua nera un cigno e un cigno sott’acqua: due gemelli bianchi, come la neve incantevoli, di fatto – uno solo… Diresti: «Staranno sempre insieme». Vorrebbero, ma basta che uno spicchi il volo e il secondo, che non può superare il vetro, andrà, come una pietra, a picco, lacerandosi l’ala sulle pietre.

L’autore descrive lo sdoppiamento dei cigni, rimanendo lui stesso fuori da questo processo. Il riflesso del cigno in volo prende le sembianze di un vero cigno. Come nei versi in cui si riferisce a se stesso, Ryžij non vede nello sdoppiamento alcuna possibilità di vita comune: una delle due parti è destinata alla rovina. In un’altra poesia il soggetto sono due città, due città dello stesso tipo, due città da «minatori degli Urali». La poesia è stata scritta nel 1997. Qui Boris usa il passato e il presente, parallelamente, e noi immaginiamo che anche questo sia un sogno. Il tema è sentimentale. Deve incontrarsi con la donna amata, ma l’incon25 B.

Ryžij, Letnij sad [Il Giardino d’Estate], in Id., Stichi, cit., p. 28.

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tro non avviene, così come nel sogno sulla caccia non riesce a trovare suo padre26: Come se il mondo esistente si fosse sdoppiato e la distanza fra noi fosse infinita, come se esistessimo parallelamente: niente fessure, cavità, aperture, solo l’autunno, il cui sguardo è folle e importuno. Ecco la casa, ecco la stessa strada, fino all’indecenza somigliante, e hanno gli stessi ceffi i passanti – che nella stessa città altra – io non piango, ma mi rendo conto che con te non ci sarà più incontro.

Dicono che chi beve veda doppio. Eppure qui non si tratta di ubriachezza, ma di uno stato di angosciosa, allucinata visionarietà, di non coincidenza, di inadeguatezza alla vita. Allo sdoppiamento della città contribuisce la monotonia, l’anonimato dell’architettura della cittadina costruita in epoca sovietica: caseggiati tutti uguali, chruščëvki, da Chruščëv, perché costruiti all’epoca del suo governo, in uno dei quali vive Boris. Come mi ha scritto Oleg Dozmorov «Boris abitava al quarto piano di una casa a nove piani. L’appartamento dei suoi genitori si trova al decimo piano di una casa a sedici piani poco distante. Boris passava ogni giorno diverse volte da un appartamento all’altro, da un caseggiato all’altro». Questa architettura uniforme si presenta in netto contrasto con la natura che cambia continuamente, e che non finisce mai di stupirci. Nella poesia del 1996 Boris scrive osservando la neve27: … Mi accosterò alla finestra – come segretamente, come se fossi un altro, finto: oh, com’è caduta casuale, imprudente dal cielo, bianca e scricchiolante. 26 B. Ryžij, Byl gorodok predel’no mal, [C’era una cittadina piuttosto piccola,] in Id., Stichi, cit., pp. 169-170. 27 B. Ryžij, Ja podojdu k okošku – kak by tajno, [... Mi accosterò alla finestra – come segretamente,] in Id., Stichi, cit., p. 91.

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Portato prima dal regime, poi dalla globalizzazione, a avere un aspetto uguale a quello di tutti gli altri, Boris sembra comunque nutrire nostalgia per il passato, anche perché quello stato di cose coincideva con la sua infanzia. Durante l’infanzia era per strada, sulle spalle dei manifestanti, mentre ora è dietro la finestra. Nella poesia 7 novembre del 1996 scrive28: Lo spazio bianco fuori la finestra: da bambino v’irrompevo dentro nel pellicciotto messo in tutta fretta. Con la sciarpetta blu tarlata gonfiavo i palloncini colorati, tuonavano slogan e interventi…

Tre anni più tardi, nel 1999, scrive29: Devi muoverti in treno verso il nord, su un razzo trapassare il cosmo, perché una persona ti creda, ti scaldi e ti dia anche un soldo. Se invece sei nato buono a niente e sai mettere le parole bene in mostra, devi volare su un aereo d’argento fino alla città di Mosca.

I verbi «irrompere» e «trapassare» hanno molto in comune. In questa frazione di tempo la strada dietro l’angolo non basta più a Boris. Il pellicciotto e «la sciarpetta blu tarlata» dell’infanzia sono diventati piccoli, e al loro posto, in una poesia del 1998, irrompe il vestiario giovanile di moda in quegli anni30: E poi ci sono io col vestito «Baltman», gli stivali «Salamander» – bello, giovane, stanco, come un transatlantico.

28 B.

Ryžij, 7 nojabrja [7 novembre], in Id., Stichi, cit., p. 93. B. Ryžij, Nužno dvinut’ poezdom na severe, [Devi muoverti in treno verso il nord,] in Id., Stichi, cit., p. 283. 30 B. Ryžij, Brega Nevy. Portvejn s zakuskoj [Rive della Nevà. Porto con antipasto], in Id., Stichi, cit., p. 250. 29

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saggi

Anche qui sdoppiato, come se descrivesse se stesso riguardando una fotografia, Boris va fiero di sé alla Majakovskij. È lui stesso una nave di linea, così come nella poesia precedente era lui stesso il treno o l’aereo, anche se non veniva detto così esplicitamente. Ecco il privilegio e la tragedia: essere lui stesso il mezzo di trasporto di un intero mondo provinciale e non provinciale. Essere lui a trapassare questa distanza. Questo tentativo estremo è riuscito: Boris oggi è diventato un mito. Boris Ryžij si è impiccato nella casa dei genitori nel maggio 2001, a 27 anni. Quindici giorni dopo sarebbe dovuto andare a ritirare un premio letterario importante a San Pietroburgo, il premio Palmira del Nord, che ha ritirato il padre al suo posto. Era figlio del direttore dell’Istituto Accademico di Mineralogia della sua città negli Urali, Ekaterinburg, e di una dottoressa. Ha lasciato una moglie, Irina, e un figlio, Artëm. Aveva studiato e si era laureato in ingegneria, ma soprattutto scriveva. Beveva troppo, e aveva cercato di superare il vizio del bere accettando un’ampolla sottocutanea, che provocava rigetto all’alcool. Di Boris Ryžij sono uscite in Russia sei raccolte di versi, di cui solo la prima mentre era in vita: I vsë takoe, (E così via, SPb. 2000), Na cholodnom vetru, (Al vento freddo, SPb. 2001) Stichi, (Versi, SPb. 2003), Opravdanie žizni (La giustificazione di una vita, Ekaterinburg 2004, comprendente versi, prosa e lettere), la scelta di versi Tipa pesnja (Tipo canzone, M. 2006), V kvartalach dal’nich i pečal’nych (Nei quartieri lontani e tristi, M. 2012). Nella presentazione al secondo volume, uscito postumo, il poeta Sergej Gandlevskij, che lo aveva conosciuto, lo descrive come un ragazzo «magrolino, elegante, amante di sé pur con diffidenza, una specie di giovane D’Artagnan, affabile e attraente»31. Boris Ryžij è stato tradotto in italiano, inglese, francese, olandese, ceco. Alcune delle poesie qui citate sono presenti nell’antologia Poeti russi oggi, a cura di Annelisa Alleva, Libri Scheiwiller, Milano 2008. (2008)

31 Sergej Gandlevskij, Pamjati Borisa Ryžego [In ricordo di Boris Ryžij], in B. Ryžij, Na cholodnom vetru [Al vento freddo], cit., pp. 5-6.

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Odio la neve, le àgavi, i cervi (sulla poesia di Angelo Maria Ripellino)

Lei è poeta? Allora non è scrittore. Ma se è critico, come può esser poeta? E se è poeta, sarà pure astròlogo e gran bevitore1. Slavista! mi gridano donne con frappe sul capo e con fettucce e colombe e fleurettes e cràuti e baubau2.

La poesia di Ripellino colpisce subito, anche visivamente. Aprendo una pagina a caso dell’ultima raccolta, colpisce l’accentazione delle parole: «brontolìo», «dèmoni», «Loplòp», «àgavi», «acròbati», «capigliarìa». Siamo immersi nella neve che circonda la Fortezza di Alvernia. Siamo messi a contatto immediato con una poesia recitata con forza, anche con enfasi, non scritta solo per essere letta a bassa voce, o con gli occhi. Il fatto che le parole siano accentate mette in luce la voce recitante, la ridondanza anche segnica della parola. Ripellino è barocco anche in questo, perché accenta parole che un lettore italiano sa o dovrebbe sapere come leggere. Non è un aiuto, perciò, il suo, ma un espediente, un gioco, un artificio in più. Un artificio che Ripellino adotta fin da giovane, dalle poesie degli anni Quaranta, e che segue le tracce di un’intera generazione di scrittori italiani che usavano accentare, e quindi accentuare le parole: da Carlo Dossi, a Imbriani, a Gadda.

1

Angelo Maria Ripellino, Lei è poeta? Allora non è scrittore, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, a cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela, Einaudi, Torino 2007, p. 256. 2 A. M. Ripellino, Slavista! Mi gridano donne con frappe sul capo, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 16.

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saggi

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Inoltre ha un debole per le sdrucciole, in quanto rare, preziose. Il pensiero, essi dicono, è un vizio che annebbia i cervelli: e perciò liste di rèprobi, cíngoli, trappole, kàtorghe, carceri3. non voglio essere ancora murato, non voglio piegarmi come un sassòfono dentro una nicchia, precipitare nel bàratro come una tròttola4. Eppure non mi rassegno. Aborrisco il rotondo ridicolo, i gonfi guanciali, le sformate pantòfole, i paffuti batúffoli […]5 Ma ancora col gotico incendio delle sue cúspidi la mia Gelmeroda mi chiama, la mia giovinezza ogivale, col prisma delle sue luci funàmbole. Non mi rassegno. Aborrisco i molluschi, le prugne globose, la cascàggine apàtica, la gelatina di flàccide bambole, la morbidità disossata6. Ah, Catruòpolo, cànchero, coi tuoi lettovari tu stai spegnendo il mio fuoco di incantatore, tutta la mia demonía7. Faccendieri pettégoli, pennivéndoli pieni di vento, opportunisti con greppia e marmitta8,

Salta subito agli occhi, in ogni pagina, la presenza di parole straniere, non messe in corsivo, ma mimetizzate all’interno della lingua madre, della quale Ripellino si sente ospite9. 3 A. M. Ripellino, Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 84. 4 A. M. Ripellino, Il mio smeraldo mi ha narrato storie verdi, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 143. 5 A. M. Ripellino, Ancora la giovinezza mi chiama, trampoliera e beccuta, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 171. 6 Ivi, p. 172. 7 A. M. Ripellino, Devo curarmi per bene, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 179. 8 A. M. Ripellino, Alla Rosa Nera si è uccisa, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 181. 9 A. M. Ripellino, Non riesco a finire il ritratto dell’Arcivescovo, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 105.

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odio la neve, le àgavi, i cervi

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Io sono ospite della mia lingua, un invitato che stenta ad esprimersi, io la forzo come una parlata straniera, ed essa mi indiavola con mille inganni, mi alletta, accende in fiamma il mio umore collerico, mi volta il podice e fugge la paludata scimmietta, e se l’afferro si spegne tra le mie mani di cera, come candela di incantatore.

Ripellino mette in risalto i nomi, ama i nomi propri come se fossero i prìncipi, le vette, che si distinguono, emergono più alti, con la loro maiuscola che li nobilita. Un pubblico eterogeneo, fatto di Louise Brooks, Kandinskij, Živago, Janáček, Picasso, Kafka, Mascagni, Esenin, Bruegel irrompe nei suoi versi e rompe visivamente la pianura della pagina scritta10. Carezzare i miei libri la sera, guardare i quadri di Klee, perché non so ancora il finale di molte sue storie, ripensare una sferica infanzia, un maneggio di sogni, cercare su un comodino deserto bugiarde conchiglie, e udire la voce di Dio nei fili di pioggia, che grondano come gli urlanti capelli dei Beatles.

Qui i nomi propri sono tre: il nome di un pittore svizzero, di Dio, il Maiuscolo supremo, e il nome di un complesso musicale inglese. Ripellino dà meno risalto a Dio che a Klee e ai Beatles, perché mette Klee in finale di verso, dà ai Beatles il posto privilegiatissimo dell’ultima parola della poesia, e a Dio una collocazione mediana, al centro del penultimo verso. I nomi esotici, oltre a essere puro suono, pura musicalità, sono anche un prolungamento del verso, sono parole-grida, parole-eco, dotate di una valenza evocativa. Soprattutto dal letto di un malato rinchiuso in un sanatorio, che ci descrive, desolato, il proprio comodino, e la 10 Angelo Maria Ripellino, Da questa spenta città minerale vi mando notizie, da La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, in Id., Poesie 1952-1978, a cura di Alessandro Fo, Antonio Pane e Claudio Vela, Einaudi, Torino 1990, p. 33. Questa antologia comprende poesie dalle raccolte Non un giorno ma adesso, La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Quanti colori ha la notte, Autunnale barocco, oltre che dalle raccolte Notizie dal diluvio, Sinfonietta e Lo splendido violino verde. Cito questo volume solo per le poesie comprese nelle raccolte escluse dall’edizione più recente del 2007.

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vista dalla finestra. La citazione serve a Ripellino per scampare alla noia, all’immobilità. Manifesta l’impazienza del degente, costretto all’ozio, che freme dalla voglia di tornare alle sue abituali occupazioni. Mai antico come in questo bellissimo ciclo di poesie giovanili, La fortezza di Alvernia, Ripellino scrive nella nota Congedo di essersi rifatto «all’acerbità lessicale della nostra poesia del Due e del Trecento», ma è anche capace di tornare a essere improvvisamente attuale, e quando nomina i Beatles, o Kennedy, l’effetto che provoca su di noi è spaesante, estraniante. Niente, infatti, sembra tanto lontano dai Beatles quanto la Fortezza di Alvernia. E lui vuole creare esattamente quest’effetto. Le poesie di questa raccolta – che i curatori hanno scelto con intelligenza di riportare per intero, senza operare alcuna selezione sui singoli testi – ruotano tutte intorno allo stesso tema, che è quello della malattia, e hanno il fascino di assomigliarsi tutte, cellette di un alveare, di sfiorarsi anche cronologicamente, pur mantenendo ognuna la sua ricchezza e novità individuale. Qui Ripellino è più narrativo che mai, ci racconta da vicino la sua pena come in un diario. Qui, qui, in queste foreste ho udito l’urlo di Munch11, Scardanelli a volte le fa visita, e parlano dei tempi in cui lavorava alla posta, e ogni giorno veniva a prenderla Max Brod12.

Qui Max Brod esce fuori nel finale della poesia come un colombo bianco dal cappello del prestidigitatore. Max Brod evoca Kafka, quanto di più letterario vi sia, e il fatto che l’anziana signora, che Ripellino ci descrive nei versi precedenti, possa essere stata in relazione con l’amico di Kafka, e che adesso venga visitata da Scardanelli – eteronimo dell’autore e citazione di Hölderlin –, stabilisce un lungo, saldo legame fra tutti questi personaggi. 11 A. M. Ripellino, Qui, qui, in queste foreste ho udito l’urlo di Munch, da La Fortezza d’Alvernia, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 33. 12 A. M. Ripellino, Ora che ormai anche l’ultimo figlio, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 46.

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Ripellino riprende da Mandel’štam il gusto per l’onomastica. In una poesia del 1937 Mandel’štam scrive13: Adesso a Parigi, a Chartres, ad Arles domina il buon Chaplin Charlie.

Qui l’inversione del nome col cognome crea un effetto estraniante, e una forte assonanza, quasi una rima, con «Arles», ultima parola del verso precedente. Allo stesso modo Mandel’štam mette in finale di verso Lenin, Stalin, la Nevà, Arzrum, e anche se stesso. In una poesia del 1935 scrive14: Questa, che via è? Via Mandel’štam. Che diavolo di cognome è! Comunque lo rigiri Suona sempre storto, e non dritto.

Prima di lui, in Italia, Guido Gozzano aveva fatto risuonare spesso il suo nome, per esempio in questa famosa poesia15: Ma dunque esisto! O strano! vive tra il Tutto e il Niente questa cosa vivente detta guidogozzano!

Sente dentro di sé le parole struggenti di una donna16: O Guido! Che cosa t’ho fatto di male per farmi così?

13 Osip Mandel’štam, Sobranie sočinenij v trech tomach [Opere complete in 3 volumi], introduced by C. Brown, G.P. Struve and E.M. Rais, Inter-Language Literary Associates, Washington-New York 1967, vol. I, p. 255. 14 Ivi, p. 212. 15 Guido Gozzano, La via del rifugio, in Id., Poesie e prose, Garzanti, Milano 1966, p. 26. 16 G. Gozzano, Un rimorso, in Id., Poesie e prose, cit., p. 84.

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Oppure17: Mi è strano l’odore d’incenso: ma pur ti perdono l’aiuto che non mi desti, se penso che avresti anche potuto, invece che farmi gozzano un po’ scimunito, ma greggio, farmi gabrieldannunziano: sarebbe stato ben peggio!

Dice Ripellino, proprio nel corso monografico su Mandel’štam, che «nella poesia russa la citazione del proprio nome è frequentissima». Anche lui, sulle orme della poesia russa, e forse in particolare dell’amore per l’onomastica di Mandel’štam, chiama se stesso con infiniti nomi, come se avesse infiniti sosia, doppi: Vanellino, Rinaldini, Pantalone, Scardanelli, Gobelino, Abellino, Solferino, e poi, infine, anche con il proprio18: Quante cose scompaiono, Ripellino. E quanto fracasso si fa nel nascondere le posate in credenza dopo il festino.

Ripellino cambia spesso identità, ama travestirsi. In altri casi arriva a scrivere in prima persona al femminile, come nelle poesie ricavate dalla corrispondenza con l’amica Zora Jiřáková. Scrive: Mi chiudo in me stessa, rimesto il mio malumore, il mio affanno, imparo a tacere, mi rodo, nemmeno gli scaltri sanno ciò che avverrà tra sei giorni, tra un anno19. Anch’io sto gettando il superfluo, e mi sento più libera, benché resti il fumo di troppe illusioni funeste20.

17

G. Gozzano, L’altro, in Id., Poesie e prose, cit., p. 235. A. M. Ripellino, Quante cose scompaiono, Ripellino, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 283. 19 A. M. Ripellino, Il cerchio degli amici si va restringendo, ciascuno, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 147. 20 A. M. Ripellino, Cerco invano il terreno sotto i piedi, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 169. 18

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odio la neve, le àgavi, i cervi

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Ma soprattutto ama prendere a soggetto delle proprie poesie i prìncipi, i re, le regine, nei quali spesso s’identifica. Così i bambini si appassionano quando gli si racconta di mondi lontani, di regni, reami e corti nelle fiabe. Così amano la parola sire, lontana dal linguaggio quotidiano. Non esiste quasi fiaba senza re. Non esiste quasi poesia di Ripellino senza re. Ripellino amava la sontuosità pittorica, la ritualità che si accompagna ai re; il loro paganesimo. A Ripellino piacciono i prìncipi dell’antichità, che ci fanno pensare ai film del regista georgiano Paradžanov, i prìncipi letterari, oppure i prìncipi simbolici. Spesso s’identifica con loro: Il principe Abchazi toccò il mappamondo, fermando il dito sui monti di Georgia21. Viaggia Amleto, viaggia ricoprendo con l’urlo dei bisticci e dei monologhi il rotolío e il rantolo dei treni22, Non resisto agli occhi verdi che mi amano, io, principe carpatico in rovina23. Come il padre di Amleto, l’angoscia riappare, impiegato postale accanito su un unico timbro24. Quel muro vischioso e vorace, più sbrodolato della tovaglia di un oste taccagno, su cui faccia nido lo zar moscovita con la sua corte ronzante25, Quando se ne va per sempre la regina, pochi hanno gli occhi imperlati di foglioline di lacrime e le guance sbiancate dalla candeggina del lutto. Ma poi col tempo come cresce la sua immagine, come ci manca, com’è ingorda, come luccica da ogni bottiglia, da ogni piatto, da ogni frangia, 21 A. M. Ripellino, Il principe Abchazi, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 18. 22 Ivi, da Amleto, p. 19. 23 A. M. Ripellino, Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 173. 24 A. M. Ripellino, Guardando la pelle di pachiderma del mare, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 218. 25 A. M. Ripellino, A ciascuno il suo muro, da Quanti colori ha la notte, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 50.

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da ogni cibo che amava, dalle croste di uno Strudel, dai grumi di agrumi, da ogni nastro di bucce con cui preparava dolcini di arancia26. Tutto ciò non è stato e sii felice se è diversa, se non vuole andare a Corintho, se finge di non commuoversi alle tue ciarle e omelíe, ai tuoi versucoli di mirliton, al tuo sussiego da Re di Cartagine, se dal loggione non sale sul palcoscenico e si rannicchia in un angolo delle immense Ninfee27. Grande era in me l’invidia per i liberi, quando non sfioravo la terra, perché mi portavano come un re malato in un palanchino28, Il numero, il numero: mi gridò incollerito un barbiere di provincia, come se io fossi un cavallo da strigliare o un sovrano smarrito della dinastia merovingia29. Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi, guai a chi resta solo come un re disperato fra neri ceffi di lupi digrignanti30.

Questo barocco inzeppare i versi di nomi propri, di personaggi e di maestà viene a Ripellino anche da Vladimír Holan, l’amatissimo poeta novecentesco praghese che lui tradusse, e al quale dedicò, durante gli anni del suo insegnamento, un corso monografico. Anche Holan cita con passione i personaggi delle fiabe, mutuati dal mondo infantile: Ho visto già questo film un mese addietro, ma debbo vederlo ancora una volta, 26 A. M. Ripellino, Quando se ne va per sempre la regina, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 282. 27 A. M. Ripellino, Volevi che ti fosse uguale, che ripetesse, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 30. 28 A. M. Ripellino, Grande era in me l’invidia per i liberi, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 43. 29 A. M. Ripellino, Il numero, il numero: mi gridò incollerito un barbiere, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 124. 30 A. M. Ripellino, Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 202.

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perché non so se la principessa che vi recita se ne sia andata o no dal balcone…31 Odio del peso? Ma quando re Sargón saltò di sella per andare a piedi, i soldati alzarono e portarono il suo cavallo32. Più volte al mese si muta il sole e più volte in un anno si insinua con tutti i raggi nella vecchia chiesa e allegramente vi illumina le statue dei re33, Solo ora spennano chissà dove un fagiano, che doveva venire sulla tavola di re Sargón34. Ella esiste. E solamente grazie a lei anche gli uomini esistono, il più delle volte assassini, che si dividono spesso come sovrani i diamanti della corona del suo mistero…35

Ai Re, ai Maiuscoli, fanno da contrappeso i minuscoli. Qualche volta Ripellino, che ama forzare la parola, renderla elastica, tenderla fino a farla spezzare, scoppiare in puro suono, scrive anche con la minuscola i nomi propri. era icariana la vita, ma pronta a dissolversi, la vita-mozart dei due che ruzzavano36. Slavista! mi zufola un gazzelloni sul flauto37.

31 Vladimír Holan, Incontro VIII, in Id., Una notte con Amleto e altre poesie, a cura di Angelo Maria Ripellino, Einaudi, Torino 1966, p. 81. 32 V. Holan, Il cigno, in Id., Una notte con Amleto e altre poesie, cit., p. 86. 33 V. Holan, Testimonianza, in Id., Una notte con Amleto e altre poesie, cit., p. 89. 34 V. Holan, Ascoltando un disco, in Id., Una notte con Amleto e altre poesie, cit., p. 91. 35 V. Holan, Canzone d’un guardiano notturno, in Id., Una notte con Amleto e altre poesie, cit., p. 152. 36 A. M. Ripellino, Una donna, un triangolo, entrò a puntini d’oro, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 87. 37 A. M. Ripellino, Slavista! Mi gridano donne con frappe sul capo, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 16.

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Soprattutto se si tratta di omuncoli che disprezza, che tratta da tumescenze maligne, la cui grandezza pubblica lui non riconosce38. Come illudersi nella poesia, se quest’epoca pròspera barrientos, gomúlkoli, scigaliòv, papadòpuli,

Il lancio più alto, il giocoliere Ripellino lo fa con i superlativi assoluti, i prìncipi dell’aggettivo, che gli consentono di fare mostra della sua perizia trasformistica nel campo della parola. Citerò tre diversi esempi: Scalzo, le mani in tasca, incollato al ricordo, vi porgo il mio desolato, derisibilissimo assolo39. Non c’è Nescafé che consoli. Non puoi arrampicarti ai mustacchi ferini della lontananza. Illudersi sui dopo che non esistono, e intanto catalogare scorregge, come un Simplicissimus40. Sono uno zolfanello, ardo di botto, in un prestissimo consumo il mio dappoco41.

Nel primo esempio «derisibilissimo» è un superlativo; nel secondo esempio «Simplicissimus» è il nome proprio del protagonista del racconto L’avventuroso Simplicissimus dello scrittore tedesco Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen42 (16211676), nonché il titolo di un settimanale tedesco satirico fondato a Monaco nel 1896, e che a quel personaggio, una specie di Bertoldo, si riferisce. Nel terzo esempio «prestissimo» è un tempo musicale. Negli ultimi due esempi l’originario aggettivo è diventato sostantivo, ma credo che Ripellino amasse in questi proprio l’elemento posticcio. 38 A. M. Ripellino, Come illudersi nella poesia, quando alcuni governi, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 84. 39 A. M. Ripellino, Non sono, signori, un Mascagni che s’inchini a ringraziare, da La Fortezza d’Alvernia, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 27. 40 A. M. Ripellino, Palle di piombo, cinghiali si buttano contro, da La Fortezza d’Alvernia, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 38. 41 A. M. Ripellino, Sono uno zolfanello, ardo di botto, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 224. 42 Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, L’avventuroso Simplicissimus, trad. it. di Ugo Dettore e Bianca Ugo, Mondadori, Milano 1992.

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Nel suo culto estremo per l’allitterazione, arriva allo scioglilingua, anche questo una forma di acrobazia: Trucioli truci di tralci intrecciano croci43. Odio la neve, le àgavi, i cervi, le àgavi, i cervi, la neve. Confido nell’apoplessía di quei pesci, nella Pompei dell’acquario44.

Mai più, come ne La Fortezza d’Alvernia, Ripellino si abbandonerà a versi tanto lunghi. L’acrobazia confina con lo sbaglio, con la caduta; li evita solo per magia. Allo stesso modo lo scioglilingua sfiora il lapsus. Questo è il motivo per cui Ripellino aveva bisogno della bidella dell’istituto, la signora Marcella, spalla nei suoi numeri all’Ateneo, e delle dispense che lei trascriveva liberamente dalla registrazione delle lezioni di lui. I due si trovavano agli estremi della stessa fune45. Sere muffite come feti morti. Scilinguagnolo implacabile. Chi è Xagàll? E Mahler è forse un malheur?

Delle parole, dei suoni, che sono i suoi strumenti di esibizione, e delle orecchie, che sono il loro ricettacolo, parla apertamente46: E sgusciando di mano ai barbieri spauriti, si drizzano ansiose di sillabe e suoni, perché nulla sfugga del vano, del futile, disperato chiacchierío degli uomini.

Qualche altro esempio di versi riferiti al tema della parola: Le parole sparute che io scrivo non hanno virtú di salvarmi come i talismani e i pentàcoli47. 43 A.

M. Ripellino, Banalità dal cinese. Gozzi con zampe di giunco, da La Fortezza d’Alvernia, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 42. 44 A. M. Ripellino, da La Fortezza d’Alvernia, Calvo e occhialuto, Loplòp, inerpicato su duplici suole, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 37. 45 A. M. Ripellino, Sere muffite come feti morti. Scilinguagnolo implacabile, da La Fortezza d’Alvernia, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 39. 46 A. M. Ripellino, Come biscotti secchi, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 10. 47 A. M. Ripellino, Le parole sparute che io scrivo, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 140.

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Spero che il desiderio del successo mi spinga a continuare la partita. Non per posticci feticci. Ma per le radici, che bisogna salvare. Non per le parole: parole, parole da meretrici48. Grato dei suoi giudiziosi consigli, signora, le invierò una grassoccia scatola di cotognate, tutta piena dei miei mortaretti, delle mie cigolanti ferrovie di fonemi49,

E nomina cose prese a prestito da manuali di grammatica, o di metrica: È un giorno sdrucciolevole come un gerundio, un fosco giorno con trecce di pioggia stremata50. Ho gli occhi pieni del bianco delle vele, confitte nella còncava conca del mare, le dita intrise del verde miele delle metafore, i capelli blu come nuvole51.

Piega con la sua inventiva, rinnovandoli, dando loro aria, vocaboli grammaticali, a un uso improprio52: Tramonti, e ti prende rabbia, e maledici la tua declinazione, il tuo sfacelo che ti stringe in una gabbia, l’autunno che infuria nei tuoi sgangherati castelli, come le volpi ardenti di Sansone nelle messi dei filistei.

Fa questo anche con le parole prese dai dizionari di altri paesi53: 48 A. M. Ripellino, Cerco invano il terreno sotto i piedi, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 169. 49 A. M. Ripellino, Lei è poeta? Allora non è scrittore, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 256. 50 A. M. Ripellino, A ciascuno il suo muro, da Quanti colori ha la notte, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 50. 51 A. M. Ripellino, Ha gli occhi pieni del bianco delle vele, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 167. 52 A. M. Ripellino, È uno schianto con quelle dolcissime gambe, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 184. 53 A. M. Ripellino, Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 202.

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odio la neve, le àgavi, i cervi

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Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo. Devi associarti a una consorteria di violinisti guerci, di furbi larifari, di nani del Veronese, di aiuole militari, di impiegati al catasto, di accòliti della Schickería.

Qui la parola «Schickería» deriva dal tedesco Schick, che significa «abilità, grazia, eleganza, garbo» nel suo primo significato, ma negli aggettivi e sostantivi che ne derivano, «schicklich» e «Schicklichkeit», indica ciò che è conveniente, decente, decoroso, opportuno. Quando parla «di accòliti della Schickería», Ripellino ce l’ha con i borghesi, o borghesucci che siano; con gli opportunisti, coloro che badano alle convenienze. Allo stesso tempo, però, questa parola non può non evocare in noi lo «chic» francese, che è insieme aggettivo e sostantivo, e che indica come aggettivo ciò che è elegante, di buon gusto, raffinato, e poi anche, come sostantivo, l’eleganza e l’abilità, la capacità, il dono. Deriva, invece, dall’aggettivo francese la parola «sciccheria», che in italiano, nel linguaggio volgare, è stata coniata proprio da quella consorteria di cui scrive Ripellino, e sta per «eleganza». Ripellino opera un lungo slittamento semantico: «Schick», «chic», «sciccheria», «Schickería». Dai futuristi, e in particolare da Majakovskij, Ripellino riprende alcuni temi, e alcune tecniche stilistiche. L’odio per il borghese, che in Majakovskij si esprime con il suo disprezzo per i canarini, per le sdolcinature a basso prezzo, per il triviale in genere, è un tema caro a Ripellino e ricorrente anche nella sua poesia. Da trenta finestre si affacciano trenta assennatissime Alici, feticci di sugna con sulla boccuccia la bolla di un sorrisetto triviale. Appaiono coi loro fidanzatini sciocchini e felici, che ne accarezzano le anse di pasta frolla54; Basta un po’ di speranza, si può esser felici con un giardinetto a colori di zucchero, 54 A. M. Ripellino, Da trenta finestre si affacciano trenta assennatissime Alici, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 203.

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con un piccolo hobby, con una vegetale gloriola. Sì, con un nanerottolo, con una minuscola grotta di nome Gemüt, con le azalee in una pentola di falsa Cina55. Pian piano anche tu ti sfilerai dalla stretta cruna della rivolta, per diventare un vecchietto benpensante che sgretola croste di massime ottuse, la stolta avena del fastidioso Buon Senso56. Nella gioia del paesaggio com’era triviale lo sfrigolío di bignè della ricca befana, bramosa di avere nei suoi territori qualche esemplare della famiglia balzana dei miserelli scrittori57.

Anche il violino, la «skripka», è un tema che Ripellino riprende da Majakovskij. Il violino è legato al sogno, al lirismo solitario, e alla festa. Penso a Viola e un poco nervosamente, una poesia di Majakovskij del 1913. Il titolo di una delle raccolte di versi di Ripellino, Lo splendido violino verde, è un omaggio alla cultura russa, alla cultura ebraica, al celebre violinista verde di Chagall; verde è il colore più ricorrente nella sua poesia. La paronomasia, cioè l’avvicinamento di due parole che hanno suono simile, ma distanza semantica, è molto usata dai futuristi, molto spesso da Majakovskij, e ancora più spesso da Chlebnikov, di cui Majakovskij è coevo. Ripellino eredita dal futurismo russo il gusto e il gioco della paronomasia. In Di me, delle mie sinfoniette, scrive58: Al sottovoce, al sommesso, al da camera di altri poeti contrappongo un ardente ordito fonetico, agganci ed incastri di suoni, l’attività dei bisticci, delle omofonie, l’arroganza della Paronomasia.

55 A. M. Ripellino, Il croco arrivò puntualmente, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 226. 56 A. M. Ripellino, Pian piano anche tu ti sfilerai dalla stretta, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 251. 57 A. M. Ripellino, Quella è la villa di Romolo Valli, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 222. 58 Ivi, p. 250.

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Ripellino, pur avendo un timbro personalissimo di voce, per la sua poesia capta con una grande capacità di mimetismo i procedimenti, le predilezioni dei poeti che studia e traduce; e addirittura è mimetico anche quando scrive di loro in qualità di critico59. Fantasm’istrioni spruzzati dalle fetide mani di un frustapennelli, il giallo largo è un violino e l’altro stretto un archetto:

Visivamente, con tutti quegli accenti, quelle che Guido Ceronetti in un suo articolo di tanti anni fa chiamò «cavallette tipografiche»60, le poesie di Ripellino sembrano un viso truccato o marcato naturalmente dalle rughe, segnato, crucciato, accigliato, aggrottato, rannuvolato, aggrondato. Lui, enfatico sciorinatore di sinonimi, amava molto questo aggettivo: aggrondato. A leggere le sue poesie, a entrarvi dentro, lui vi figura proprio così, in posa aggrondata. L’aria che si respira nei suoi versi è cupa, sa di chiuso. La luce vi scarseggia, come nel guardaroba di un teatro; vi brilla il fioco, tremolante bagliore di una candela. Non ci si ritrova inondati di sole, mai; si penetra nell’universo mentale, umido, uterino, allucinato, di un luogo disabitato, senza tempo, dove proliferano pulci, pidocchi, topi; dove, come nel racconto Il falco di Arturo Loria, uccelli vivi si ritrovano, atterriti, insieme a uccelli impagliati: gufi, civette. Un sottoscala, una soffitta, o una bottega praghese, dalle assi scricchiolanti. Polveroso, lo immaginiamo, ma stracolmo di vecchi strumenti scordati, di bambole hoffmanniane, di libri ammuffiti, manichini dechirichiani, maschere shakespeariane, tessuti sontuosi, vecchi sipari, parrucche e vestiti con cui ci si può camuffare, e sognare di andare avanti e indietro nel tempo, e in giro per il mondo; ci ritroviamo improv59 A. M. Ripellino, Giallo su giallo a febbraio, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 119. 60 Guido Ceronetti, Ripellino poeta, «Paragone», XXII, n. 252, febbraio 1971, p. 22: «E gli accenti? Messi senza risparmio, nei luoghi più inaspettati (fanàtico, garòfano), per non so quale bisogno ardente di superfluità musicali, o morbosità e abitudine slavistica, o paura che il lettore si travii… In certi testi, come l’introduzione a Chlebnikov, trovi dappertutto queste cavallette tipografiche, accenti che succhiano vocaboli, e anche accenti digiuni, che non hanno dove posarsi. Nei tempi più recenti, la malattia sembra essersi placata».

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visamente in un mondo interiore, notturno, diviso per via di un cruccio dal mondo di fuori, in mezzo a un trovarobato di parole. Non esistono cose lontane: basta alzare una fila di sipari, di drappi, di tende, di coltri, di veli. Poi sul tuo palmo apparirà il teatro di giorni lontani, di paesi remoti, di antichi affetti che ti fanno piangere61. Dietro le quinte incrostate di muffa, come nel guercio cavallo di Troia, si nascondono turbe di parole, bambole e larve vocali che un giorno, rinchiuse in globi di fiamma, volarono dal grido degli attori62. L’opera schiude i battenti in autunno. Ho atteso a lungo la luce gialla, e ora che tutto il mio alone risplende d’un giallo tremulo, il giallo mi infastidisce, come la vecchiezza63. Nascondersi in questo groviglio di stoffe, in questa tessile Tebe, in questa favola soffice, in questa inebriante nebbia64. Ho paura qui dentro, in questa caverna, in questo Pertusocupo, ripostiglio di sorci, in questa quaresima pregna del fumo dei treni. C’è sempre un Polonio nascosto dietro una tenda, e senza colpa potrei colpirlo alle reni. Dalla finestra mi burlano orridi uccelli. Ho paura di vivere, non faccio che scrivere appunti su scatole di zolfanelli65. 61

A. M. Ripellino, Il principe Abchazi, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 18. 62 A. M. Ripellino, Apologo, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 19521978, cit., p. 20. 63 A. M. Ripellino, L’Opera schiude i battenti in autunno, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 19. 64 A. M. Ripellino, Armadio blu nella spelacchiata mansarda, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 232. 65 A. M. Ripellino, Mi ha consegnato una chiave dal pomo pesante, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 126.

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Annichilito dal raccapriccio, «raggricciato» – come avrebbe detto Ripellino con un altro aggettivo sonante dei suoi –, solo, l’abitante di questa caverna, di questo ventre, confessa la sua inermità, la sua paura: Ho paura di andare da solo, ho paura dei venditori di elisiri e di baròmetri, degli uomini in càmice. Ho paura, mio Dio, di muovermi in mezzo a cataste di uccisi; di udire il delirio di gente scampata ai massacri di Scio. Ho paura di attraversare villaggi distrutti dalle spallate demoniche della Terra66, Leggere un libro di spettri e poi aver paura del cigolío di una porta di legno, maneggiare pistole senza sicura e poi tremare al bancone di un tirassegno67. Ti chiedi se si odono ancora le fioche parole, che emetti di malavoglia, Trastullo dalla piuma di papero, birillo inutile, sempre pieno di paura, nemico del sole, brontolone fasullo68. Cerco un bar che mi scaldi. Ho freddo. Ho paura nelle umide straduzze di Trastevere69.

Questi «ho paura», «ho paura», rimbombano inermi, all’interno delle poesie, come il grido in cella di un condannato a morte la notte prima dell’esecuzione. L’orpello di Ripellino, l’artificiosità del comporre è il suo modo naturale di tornare alle origini, alla sua viscerale barocca sicilianità, incrostata delle sue molteplici avventure culturali. A 66 A. M. Ripellino, E poiché siete stato così malaccorto, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 64. 67 A. M. Ripellino, Leggere un libro di spettri e poi aver paura, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 122. 68 A. M. Ripellino, Quando parli coi morti, ti chiedi, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 219. 69 A. M. Ripellino, Nelle oblique nottate d’inverno, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 223.

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questo gioco esasperato, connaturato alla sua natura teatrale, è strettamente legata l’angoscia esistenziale, la paura di morire, il senso di precarietà. Ripellino si rifà probabilmente anche a un certo Montale, anche lui recensore teatrale, ma del teatro musicale; anche lui amante del meraviglioso, della maestosità connessa al teatro, così come dell’elemento fasullo, di cartapesta, cencioso, inconsistente. La stessa Maria Callas, recensita due volte, appare a Montale nel primo atto della Traviata, al Teatro della Scala nel 1964, «una tigre, una demi-mondaine d’alto bordo», e dieci anni dopo, nei panni di Violetta all’ultimo atto, «uno straccio»70. C’è una foto piuttosto conosciuta di Montale ormai anziano accanto alla giovane amica, Annalisa Cima, in pelliccia di leopardo, probabilmente a una prima teatrale. Lei alta, imponente rispetto a lui, che ne appare quasi schiacciato. C’è del Montale nei versi di Ripellino. In Caffè a Rapallo71: […] È passata di fuori l’indicibile musica delle trombe di lama e dei piattini arguti dei fanciulli: è passata la musica innocente. Un mondo gnomo ne andava con strepere di muletti e di carriole, tra un lagno di montoni di cartapesta e un bagliare di sciabole fasciate di stagnole. Passarono i Generali con le feluche di cartone e impugnavano aste di torroni; poi furono i gregari con moccoli e lampioni, e le tinnanti scatole ch’ànno il suono più trito, tenue rivo che incanta l’animo dubitoso: (meraviglioso udivo). […] 70 Riprendo le citazioni delle recensioni di Montale dal saggio L’altra madre nel volume di Gilberto Lonardi Winston Churchill e il bulldog, Marsilio, Venezia, 2011 p. 103. 71 E. Montale, Poesie per Camillo Sbarbaro, da Ossi di seppia, in Id., L’opera in versi, Einaudi, Torino 1975, pp. 15-16.

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Oppure ne La mia Musa72: […] La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica e con quella dirige un suo quartetto di cannucce. È la sola musica che sopporto.

Gilberto Lonardi ravvisa nella poesia di Montale, in comune con la lingua di Leopardi, «almeno fino agli Xenia», l’elemento «pellegrino»73 senza il «vago» leopardiano. Nella poesia di Ripellino l’elemento «pellegrino» è presente nella doppia accezione di «raro, desueto», e di «straniero». Qualche volta Ripellino si spoglia dei suoi giochi di prestigio, delle sue giocolerie, del suo trucco, quasi del tutto, e mette a nudo la sua anima nelle poesie familiari: Lungo i campi polacchi ti ho pensato nella luce rossiccia di Roma, come una snella tromba avviluppata di fragili asparagi biondi. Ho sognato le tue camicie sghembe, lunghe fino agli antìpodi, i tuoi verdi occhi socchiusi tra le pagliuzze delle ciglia. 72 E. Montale, La mia Musa, da Diario del ’71, in Diario del ’71 e del ’72, Id., L’opera in versi, cit., p. 429. Gilberto Lonardi, in Winston Churchill e il bulldog, cit., mette in luce questa qualità d’impromptus, d’improvviso nella poesia di Montale. Scrive a p. 21: «Molto Montale cerca l’orizzonte della forma per disattendere più o meno sottilmente ogni attesa di compiutezza appunto della forma, con una premeditata gaucherie, quella che lui riconosceva in Saba. (Un aspetto, questo dell’improvviso, e della gaucherie – della goffaggine – diventato poi, con il vecchio Montale, dileggio della forma, o cauta sintonizzazione sull’informale)». Ripellino si rifà a questa linea della poesia italiana, e anche a un certo minimalismo della poesia montaliana. 73 «E allora viene voglia di cercarli, alcuni sommari esempi di un nuovo pellegrino montaliano, nuovo perché radicalmente spostato rispetto a quella che l’interessato dice essere la radice aulica leopardiana» (Gilberto Lonardi, La lunga scia della cometa: il Leopardi di Montale, «Resine», n.s., XXII, 84, aprile-giugno 2000, p. 33).

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C’era una spenta tristezza negli alberi, spauracchi bagnati di colla, l’erba saltava dal freddo sui nastri mobili di oziosi sentieri. Ed io pensavo al tictac della tua voce, che cinguetta come una grondaia, ai tuoi denti, minuscole lampade nel grigiore funesto dei miei giorni74. Volevi che ti fosse uguale, che ripetesse i tuoi gesti come una bambola ammaestrata, che continuasse la tua stolta vita, come un baràttolo appeso ad uno storpio, volevi calcarle la tua nera parrucca, costringerla a leggere le tue inutilezze, credevi che fosse un tuo cióndolo. Come ti illudevi, Scardanelli75.

In queste poesie, dedicate rispettivamente alla moglie Elisa, e alla figlia Milena, la voce recitante, orale di Ripellino si abbassa, si fa più sommessa; anche se l’autore non rinuncia a rendersi riconoscibile ovunque attraverso il suo armamentario: «sghembo», «verde», «spauracchio», «tic tac»; e poi «bambola ammaestrata», «parrucca», «cióndolo», «Re di Cartagine», «piuma del cimiero» sono i suoi trucchi, le sue maschere, le sue pose, i suoi tic, la sua firma. Ancora, in una poesia dedicata al figlio Alessandro, e una alla nipotina Daria: Saskia non vuole che io muoia. Sorride sotto il suo largo cappello rosso. Vuole ridarmi un filino di gioia, e non di quella all’ingrosso. Devo ancora lottare col Signore, che mi volta sempre le spalle. 74 A. M. Ripellino, Lungo i campi polacchi, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 15. 75 A. M. Ripellino, Volevi che ti fosse uguale, che ripetesse, da Notizie dal diluvio, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 30.

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Destarmi da questo violaceo malore, da queste ore squallide. Piccioncello, luna in quintadecima, tutta vezzi di perle e merletti, trascinami via da questa quaresima, ma non correre troppo. Sono zoppo. Aspettami76. Daria, una folla di pupattole ti aspetta nel sole e nel vento. Si lagnano delle tue matte azioni di scorticamento. Prive di testa e di gambe, sacchetti sventrati, viluppi di trucioli, ah, povere, povere bambole sotto le tue mani truci77.

In questo ciclo di poesie per la nipotina Daria, e in altre, soprattutto nelle ultime raccolte, Ripellino tira fuori la sua vena occasionale. Nei versi di Ripellino, come nel repertorio di un grande attore, la cura dell’impostazione della voce, dello studio di una parte, coesiste accanto alla naturalezza dell’improvvisazione. La voce iperrecitante, con un oplà si tramuta in un infinito, che suona come un programma, un sogno accorato, o un semplice desiderio di fuga: Vivere è stare svegli e concedersi agli altri, dare di sé sempre il meglio e non essere scaltri78. bere il luppolo nero degli occhi di una fanciulla, andar dietro a un barbaglio di giovinezza, come caproni attirati da un pugno di sale, sfogarsi a parole e non stringere nulla79. 76 A. M. Ripellino, Saskia non vuole che io muoia, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 225. 77 Angelo Maria Ripellino, Stenolux per la bambina Daria, in Id., Autunnale barocco, Guanda, Milano 1977, p. 108. 78 A. M. Ripellino, Vivere è stare svegli, da Non un giorno ma adesso, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 21. 79 A. M. Ripellino, Leggere un libro di spettri e poi aver paura, da Sinfonietta, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 122.

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entrare nella specchiera di un livido schermo e, aprendosi un varco tra chicchi di sale, trèmula melma di lacrime, ciocche di ciglia, infilarsi a spallate nella fluttuante pellicola, stringer le mani di vasellina di Kitty, carezzare il suo viso che è spuma di fragole80, Volare via da me stesso come un uccello migratore, da questo roveto, da questo malessere, da questo perenne dolore81.

L’infinito sognante delle poesie di Ripellino fa tornare alla mente l’indimenticabile Discepolo di Marina Cvetaeva, del 1921, che lui scelse e tradusse per l’antologia Poesia russa del Novecento82: Essere tuo ragazzo dalla testa bionda, – oh, per tutti i secoli – dietro la porpora tua polverosa trascinarsi in un austero mantello di discepolo. Cogliere attraverso tutta la folla umana il tuo sospiro vivificante con l’anima che vive del tuo àlito come il mantello d’un soffio di vento. Più vittorioso del re Davide fendere con le spalle la plebaglia. Contro tutte le offese, contro tutta l’offesa terrena servirti di mantello. Essere fra i discepoli dormienti, colui che nel sonno non dorme. Alla prima pietra alzata dalla plebaglia, non più mantello, ma scudo!

80

A. M. Ripellino, Uscire dalla malferma cabina di proiezione, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 225. 81 A. M. Ripellino, Volare via da me stesso, da Autunnale barocco, in Id., Poesie 1952-1978, cit., p. 230. 82 Marina Cvetaeva, Discepolo, in Poesia russa del Novecento, a cura di Angelo Maria Ripellino, Guanda, Milano 1973, p. 326.

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(Oh, questo verso non è interrotto ad arbitrio! Il coltello è troppo tagliente!) E con un sorriso ispirato, per primo salire sul tuo rogo.

La presenza del circo nella poesia di Ripellino rimanda a tanti pittori che presero il circo a soggetto dei loro quadri: Seurat, Toulouse-Lautrec, Picasso. La sua malinconia è vicina a Friedrich, il gusto dell’arabesco ricorda Klimt, e lo Jugend; le maschere ossessive e ironiche che inseguono l’immagine della morte ricordano Ensor; le pose attonite degli stambecchi – le opere del geniale pittore georgiano Pirosmanisˇvili, da lui spesso nominato durante le lezioni; il montaggio da collage dei suoi versi – l’opera dell’artista ceco Kolář. Coetaneo di Ensor, nato nel 1860 come lui, il poeta Laforgue è, forse, fra i francesi, colui che ha più influenzato la tematica ripelliniana. Infiniti sono i motivi laforguiani ereditati da Ripellino, e primo fra tutti il mito del circo. Nello straordinario racconto Stéphane Wassiliew (1883) di Laforgue83, il protagonista, internato in un collegio, dopo aver assistito a uno spettacolo del circo, resta incantato da una bellezza gitana, che si esibisce in un numero di danza con gli anelli, e decide di fuggire dal collegio per seguirla. Muore, dopo aver trascorso una notte intera sotto la pioggia nel tentativo di raggiungerla. I personaggi del circo sono coloro che evadono dal grigiore quotidiano, rinunciando a una fissa dimora. Negli anni in cui scrive Ripellino, il mito del circo non esiste più, ma bastano alcune parole-guida per rianimarlo, rievocarlo. Ripellino è attratto dai feticci del circo, dalle parrucche, la paglia, il crine, gli stracci, da tutto quello che è posticcio, finto, pronto a sostituire, camuffandole, le fattezze umane. A lui ormai è sufficiente evocare un accessorio del travestimento di un clown per ricostruire, come in una metonimia, d’incanto, tutto un carrozzone, e la letteratura a lui legata. Motivo opposto a quello del circo, in comune presso i due autori, è la ferialità, e l’uggia che ne consegue, della domenica, l’ever-spleen day. E poi l’orientamento decadentistico come ricerca del nuovo e fuga dalla mediocrità borghese, la magnificenza 83

Jules Laforgue, Stéphane Wassiliew, Ombres, Toulouse 1996.

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delle maiuscole, la proiezione del Domestico nell’Esotico, la paura disperata della morte, l’orrore per la mollezza in tutte le sue manifestazioni, l’ossessione dei panni – che in Laforgue è orrore per le secrezioni dei malati, per le pile di biancheria che ricorda negli armadi del collegio –, e la predilezione del verde. In Ripellino il verde è acerbità e marciume; infanzia e putrescenza; verde, tutto verde, è il vodník, lo spirito delle acque del folclore cèco di cui lui si è occupato. Laforgue è anche in epigrafe a una sua poesia84: Astres! Je ne veux pas mourir! J’ai du génie! Jules Laforgue, Éclair de gouffre.

Chi scrive di Ripellino, a trentacinque anni dalla sua morte, vorrebbe convincere proprio di questo: che lui, il suo personalissimo timbro di voce, vive. (1999-2013)

84 A. M. Ripellino, Sonare su un violino in fiamme, da Lo splendido violino verde, in Id., Notizie dal diluvio…, cit., p. 292.

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Il treno e il mužik (su Anna Karenina)

Lo stile di Tolstoj è facile solo all’apparenza. C’è un brano nella seconda parte della sua trilogia autobiografica Infanzia, Adolescenza, Giovinezza (1852-1857), dove definisce il proprio stile letterario per contrasto. In quegli anni Tolstoj era preso dall’aspirazione alle buone maniere, comme il faut, e ricorda due compagni di scuola, dei quali scrive con riprovazione1: «Per esempio, usavano la parola idiota invece di cretino, letteralmente invece di precisamente, meraviglioso invece di bello, ecc., cosa che mi sembrava pedantesca e di cattivo gusto». Evidentemente Tolstoj vuole mostrarci la vita così com’è, questo è il suo scopo, e rappresentarla con uno stile sobrio, piano. Vladimir Nabokov scrisse che lo scrittore aveva scoperto «un metodo di raffigurare la vita che corrisponde, in maniera estremamente piacevole e precisa, alla nostra concezione del tempo»2. Boris Ejchenbaum scrisse che «i suoi personaggi sono fluidi»3. Per esempio, all’inizio del romanzo Vronskij ha sempre «denti forti e regolari»4. Ma più tardi, dopo la morte di Anna, verso la fine del romanzo, quando è in procinto di partire per il fronte, i denti gli fanno male5. 1 Lev N. Tolstoj, Polnoe sobranie sočinenij v 90 tomach [Opere complete in 90 volumi], Gosudarstvennoe Izdatel’stvo Chudožestvennaja literatura, Moskva 1935, vol. 2, Detstvo, Otročestvo, Junost’, cap. 43, p. 215; trad. it. Infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Barion, Milano 1931, pp. 385-386. 2 Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura russa, traduzione di Ettore Capriolo, introduzione di F. Bowers, Garzanti, Milano 1994, p. 173. 3 Boris Ejchenbaum, Lev Tolstoj, semidesjatye gody [Lev Tolstoj, gli anni Settanta], Chudožestvennaja literatura, Leningrad 1974, p. 151. 4 Lev N. Tolstoj, Anna Karenina, trad. it. di Annelisa Alleva, Oscar Mondadori, Milano 2009, prima parte, cap. 34, p. 145. 5 Ivi, ottava parte, cap. 5, p. 977: «E fece un movimento impaziente con lo zigomo per un sordo e prolungato mal di denti, che gli impediva perfino di parlare con l’espressione che avrebbe voluto».

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* Il romanzo Anna Karenina nasce dall’intersezione di due frammenti puškiniani: Gli invitati affluivano nella villa e Nell’angolo di una piccola piazza, scritti fra il 1828 e il 18306. Tolstoj, come Puškin, ha un sottotesto. Nasconde il sottotesto, a volte, anche nelle parole straniere del suo romanzo. * Come appare evidente dalla precedente citazione tratta da Adolescenza, Tolstoj palesemente non ama gli estremismi, né il linguaggio colorito degli adolescenti, né il tono falso, pedante. La sua prosa non cerca mai di sorprendere, o di destare un’esclamazione, o di essere spiritosa, ma, al contrario, persegue un ideale di naturalezza. La parola più frequente all’interno del romanzo è l’aggettivo spokojnyj, «tranquillo», e viene ripetuto spesso il sostantivo spokojstvie «tranquillità», o «quiete». La stessa tranquillità è una qualità comme il faut delle classi alte, ma quando l’autore ci ripete la stessa parola molte volte, all’infinito, l’effetto che produce è opposto. Sebbene l’autore si sforzi a questo fine, non riesce a essere completamente comme il faut. Nel romanzo Anna Karenina Tolstoj parla dell’amore passionale e coniugale; del pericolo, che riguarda la meccanizzazione dell’esistenza; del treno, simbolo incalzante di tale meccanizzazione. Il sottotesto del romanzo Anna Karenina si trova principalmente nell’insistenza delle più diverse ripetizioni e nelle improvvise variazioni, come avviene nella musica e nelle fiabe. * Certo, Tolstoj parla spesso del treno in forma diretta. Anna e Vronskij, per esempio, la prima volta s’incontrano in una sta6 I frammenti citati sono presenti nell’edizione di Aleksandr S. Puškin, Romanzi e racconti, prefazione di A.M. Ripellino, trad. it. di L. Ginzburg, A. Polledro e A. Villa, Mondadori, Milano 1963, pp. 93-113.

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il treno e il muzˇik

zione7, in un vagone del treno. Anna ha viaggiato con la madre di Vronskij, la contessa Vronskaja, e vengono entrambe da San Pietroburgo. Anna aspetta suo fratello, Stepan Arkad’ič Oblonskij; Vronskij va a prendere sua madre. La seconda volta8 Anna, al contrario, sta per risalire sul treno, dopo una piccola sosta in una stazione, quando incontra Vronskij, che viaggia insieme con lei. Anna sta facendo il viaggio contrario: da Mosca a San Pietroburgo, dove vive col marito e il figlio. Alla fine del romanzo, Anna si suicida gettandosi sotto il treno9. E Vronskij partirà sul treno per il fronte. Ma il primo testo, quello più diretto – sebbene le scene più indimenticabili siano legate al treno – interessa meno chi penetra nel testo molto lentamente, parola per parola. * Considero il secondo livello di lettura quello in cui il «treno» non è più il treno alla stazione, non è un mezzo di trasporto, ma un treno concettuale, molto semplificato e rimpicciolito, ricreato nel gioco dai bambini. I bambini di Stiva Oblonskij e di Dolly giocano al treno in casa10; Sereža Karenin, figlio di Anna, gioca a scuola anche lui al treno, e lo racconta allo zio, Stiva Oblonskij, quando questi lo interroga su «come passi il tempo a scuola nell’intervallo fra una lezione e l’altra»11. 7 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., prima parte, cap. 18, p. 76: «Vronskij seguì il capotreno nella carrozza, e prima di entrare nello scompartimento si fermò per cedere il passo a una signora che stava uscendo». 8 Ivi, prima parte, cap. 30, p. 128: «Lei respirò un’altra volta, per riempirsi d’aria i polmoni, e aveva già tirato una mano fuori dal manicotto, per attaccarsi alla maniglia e salire sul treno, quando un uomo in cappotto militare, proprio accanto a lei, le offuscò la luce vacillante della lanterna. Lei si voltò e riconobbe all’istante il viso di Vronskij». 9 Ivi, settima parte, cap. 31, pp. 961-962: «Avrebbe voluto cadere sotto il primo vagone, arrivato con la parte centrale alla sua altezza. Ma il sacchetto rosso che provò a sfilarsi la trattenne, e ormai era tardi: il centro era passato. Bisognava aspettare il vagone successivo». 10 Ivi, prima parte, cap. 3, p. 10: «Loro gettarono a terra la cassetta che rappresentava il treno, e entrarono dal padre». 11 Ivi, parte settima, cap. 19, pp. 911-912: «“Delle volte giochiamo alla ferrovia”, disse, rispondendo alla domanda dello zio. “Vedete, è così. Due si siedono sul

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* Il terzo livello è quando il treno non è più neppure l’imitazione di un vero treno, non un semplice gioco inventato dai bambini, ma la parola francese «train», «treno» nel suo primo significato, usata dalla classe russa colta, però in senso traslato, metaforico. Nel dizionario francese sono riportati tutti i significati di questa parola, e sono molti12. Fra le altre cose, «train» significa «tenore di vita», «livello di vita». «Train» indica la monotonia della vita, un certo regime, assetto, «ménage». In francese esiste un’altra parola, molto comune, che definisce la vita come la ripetizione meccanica, quotidiana, delle stesse azioni: «routine», che deriva da «route», strada. Molte espressioni comuni si riferiscono alla strada in tante lingue. In inglese, per esempio, si dice «by the way», fra l’altro. Anna è preoccupata del fatto che Vronskij sia impegnato tutto il tempo nei suoi incarichi pubblici e, durante una conversazione a tavola, dice: «Du train que cela va tutto il tempo andrà via in queste cose»13. Anche Stiva Oblonskij, immerso nelle sue riflessioni, usa la stessa espressione14. Il «train» appartiene a Anna, a suo fratello e alla sua sorte. Il treno è un turbine inventato dall’uomo, ma di fronte al quale lui stesso, in fin dei conti, è impotente, come Anna è impotente di fronte alla sua passione. Si può guardare il treno del romanzo anche come un simbolo di noia; infatti procedeva lentamente, e produceva un rumore forte e uniforme, assordante e soporifero.

banco. Sono i passeggeri. Uno invece si mette in piedi sempre sul banco. E tutti vi si aggrappano. Si può farlo con le mani, o anche con le cinture, e ci si mette a correre per tutte le aule. Prima si aprono le porte. Certo, la cosa più difficile è fare il conducente!”». 12 Gaspard Bovier-Lapierre, Nouveau Dictionnaire Universel Illustré, Maison Alfred Mame e Fils, Tours 1905, p. 825: «Genre de vie: mener un grand train. // Mettre une chose en train // la commencer, // Menér qqn bon train, ne pas le ménager». 13 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., parte sesta, cap. 22, p. 796. 14 Ivi, parte settima, cap. 20, p. 914: «Un’altra cosa che aveva un effetto tranquillizzante su Stepan Arkad’ič era la mentalità pietroburghese in fatto di soldi. Bartnjanskij, che spendeva almeno cinquantamila rubli per il train che conduceva, il giorno prima gli aveva detto una cosa straordinaria».

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il treno e il muzˇik

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* Il quarto livello di lettura della stessa parola è il sostantivo «line». Vronskij è il personaggio legato a quest’espressione, che lo caratterizza. È un uomo elegante, giovane, di mondo, e allora l’inglese e la cultura inglese nel suo complesso erano di moda presso i giovani aristocratici. Le governanti, per esempio, di solito erano inglesi. I diminutivi delle due sorelle Kitty e Dolly sono inglesi, ecc. Vronskij lo usa quando dà un giudizio su Aleksej Karenin15: «Come dire, lo conosco di fama e di vista. So che è intelligente, uno studioso, un uomo di chiesa… Ma sai che questo non è nel mio… not in my line», disse Vronskij.

Vronskij cerca, ma non riesce a trovare in russo un’espressione precisa come in inglese. «Line» in inglese ha molti significati, come in russo «linija», e come anche in italiano «linea». Alcuni significati coincidono, e diversi fra questi riguardano il nostro romanzo. Nel dizionario inglese-italiano e italiano-inglese16 troviamo che «line» può riferirsi alla linea ferroviaria, «railway line», al fronte militare, «front line», a una sfera di interessi, per esempio «sport is not in his line», o al comportamento, «line of line». Nella seconda metà del romanzo, un governatore di provincia invita Vronskij a un ballo, e questi17: «Not in my line», rispose Vronskij, che amava quest’espressione, ma sorrise e promise di parteciparvi.

«Line» in inglese significa anche «rotaie». Vronskij, all’inizio del romanzo, è deciso, sicuro di sé, come un treno che conosca il proprio percorso, di ferro come le sue rotaie. «Line» significa ancora «confine», «barriera», «limite». Vronskij, attraverso una lingua straniera, in questo caso l’in15 Ivi,

parte prima, cap. 17, p. 73. AA.VV., Il nuovo dizionario Hazon, Garzanti, Milano 1990, pp. 564-565. 17 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., parte sesta, cap. 31, p. 835. 16

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glese, conosciuto solo da una piccola, eletta cerchia di persone, traccia una linea invisibile, una certa distanza che lo separa dal mondo. Quando scompare nel treno, e fa sacrificio di sé in guerra, è come se annientasse questa sua distanza dalla vita e dalla morte. La parola inglese «line», che appartiene a lui e alla sua cultura, alla sua generazione e alla sua città, alla sua sorte, circonda idealmente Vronskij. * Il treno attraversava la proprietà di Tolstoj, e questo gli dispiaceva fortemente. Lo considerava una presenza estranea, che rompeva l’armonia del paesaggio. Anche il suo destino era legato al treno: lui stesso morì nella piccola stazione di Astapovo il 7 novembre 1910, dopo essere fuggito di casa. Secondo questo stesso principio non amava le lingue straniere, perché le considerava importate, forzate nel contesto russo. Se ne serve quando vuole esprimere pensieri ambivalenti. Tolstoj raggiunse un virtuosismo tale da confondere nei sogni di Anna la figura del mužik – forse incattivito per essere stato trasformato in così breve tempo da contadino in operaio – con la lingua francese, nella quale questi si esprime. La contraddizione intrinseca fra l’aspetto esteriore del mužik e il suo modo di parlare inquieta fortemente Anna e, di conseguenza, il lettore. * Lo stesso Tolstoj, probabilmente, si sentiva allo stesso tempo un conte, che parlava il francese e, in quanto all’aspetto, un contadino, che si sentiva a disagio in società, proprio come Levin, suo alter ego nel romanzo. L’aspetto del contadino, la sua barba lunga, arruffata, erano un tormento per il giovane Tolstoj. Merežkovskij lo ricorda18, e anche Lukács, citando Gor’kij, quando ricorda quello che diceva Lenin di Tolstoj, scrive19: 18 Dmitrij S. Merežkovskij, Tolstoj e Dostoevskij, trad. it. di Alfredo Polledro, Giuseppe Laterza & figli, Bari 1947, p. 40: «In gioventù egli si affliggeva che il suo viso fosse proprio come quello di un semplice contadino». 19 György Lukács, Tolstoj e l’evoluzione del realismo, in Id., Saggi sul realismo, trad. it. di M. e A. Brelich, Einaudi, Torino 1976, p. 171.

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In lui si è incarnato il contadino autentico. Prima che questo conte venisse, non esisteva un vero contadino in letteratura… Il faut le battre le fer, le broyer, le pétrir20

è un minaccioso messaggio impersonale del mužik del sogno di Anna, e suona come un ordine ripetuto da un automa. Il mužik ha «la barba arruffata», «l’erre moscia» e «si è curvato e con le braccia si è messo a rovistare lì dentro». Alla stazione, poco prima di morire, Anna vede il mužik nella realtà, e dice tra sé21: «C’è qualcosa di noto in questo mužik deforme», pensò Anna. E, ricordando il suo sogno, tremante di terrore, si allontanò verso la porta opposta.

* Un dettaglio interessante è che Anna ha «un sacchetto rosso»22 in mano alla stazione. I dettagli nell’opera di Tolstoj sono osmotici, contagiosi, passano da un personaggio all’altro. Anche in questo senso i suoi personaggi sono «fluidi», come li descrive Ejchenbaum. «Fer» in francese è il ferro, e «chemin de fer» è la ferrovia. La traduzione della frase del mužik in italiano suona approssimativamente così23: Bisogna battere il ferro, tritarlo, lavorarlo.

20 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., parte quarta, cap. 3, p. 456: «“E questo qualcosa si è voltato, e vedo che è un mužik piccolo dalla barba arruffata, e tremendo. Volevo scappare, ma lui si è curvato e con le braccia si è messo a rovistare lì dentro…”. Rifece il modo in cui lui rovistava nel sacco. Aveva il terrore in faccia. E Vronskij, ricordando il proprio sogno, si sentì l’anima invasa dallo stesso identico terrore. “Rovistava intercalando delle parole in francese, svelto svelto, sai, parlando con l’erre moscia: ‘Il faut le battre le fer, le broyer, le pétrir…’. E dalla paura volevo svegliarmi, mi sono svegliata… ma mi sono svegliata nel sogno. Mi chiedevo che cosa significasse. E Kornej mi dice: ‘Di parto, di parto morrete, di parto, mammina…’. E mi sono svegliata”». 21 Ivi, settima parte, cap. 31, p. 958. 22 Cfr. nota 9. 23 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., nota a p. 1029.

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Il contadino borbotta parole, che sembrano conservare nella sua mente il ricordo della trebbiatura. «Broyer» in francese significa «spezzettare, tritare, triturare», ma anche, nella forma passiva, «essere stritolato». In francese esiste proprio quest’espressione: «Il a été broyer par une locomotive»24, che significa «È stato stritolato da una locomotiva». Tolstoj doveva conoscere, molto probabilmente, quest’espressione. Questo doppio significato del verbo «broyer» conferma il ruolo malefico del mužik e del treno nei confronti di Anna. Poi Anna si sveglia, ma si sveglia ancora in sonno, come in un gioco di scatole cinesi. E il servo Kornej le dice25: Di parto, di parto morrete, di parto, mammina…

La frase, pronunciata dal mužik nel sogno di Anna, preannuncia la sua rovina, la sua fine. Solo, Anna non morrà di parto, ma sotto il treno: la dichiarazione di Kornej nasconde comunque qualcosa, inganna il lettore, lo devia, portandolo in un’altra direzione; lo allontana dalla fine imminente. * Il mužik del sogno-incubo ricorrente di Anna – è il punto narrativo di unione fra il delitto e castigo di Anna e il tema ferroviario. Lui, il mužik, rappresenta il rovescio incattivito della medaglia del vecchio, saggio uomo di natura. Tolstoj descrive la figura del vecchio saggio quasi in ogni sua opera, a partire dal frammento La mattinata di un proprietario terriero (1856)26, dove ci presenta Karp Duplov, un vecchio mužik abituato a convivere con il ronzio delle api nell’apiario. Oppure lo zio Eroška, descritto ne I cosacchi (1852-1860)27. 24 AA.VV., Dizionario Garzanti Francese-Italiano Italiano-Francese, Garzanti, Milano 1980, p. 127 25 Cfr. nota 20. 26 L. N. Tolstoj, La mattinata di un proprietario terriero, in Id., Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 1998, p. 511. 27 L. N. Tolstoj, I Cosacchi e altri racconti, introduzione di Serena Vitale, prefazione di Fausto Malcovati, traduzione di Luisa de Nardis, Garzanti, Milano 1996.

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il treno e il muzˇik

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* Ho notato questi dettagli, e molti altri ancora, perché ho tradotto questo romanzo. Dopo un certo periodo lo scrittore che traduci è come se ti scorresse nelle vene, ti sembra di conoscere lui, la sua casa. Adesso posso davvero visitare la sua casa e la sua proprietà, qui, a Jasnaja Poljana, dove Tolstoj trascorse quasi tutta la vita e dove è seppellito su questi campi, accanto al suo cane. (2010)

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I tre circoli magici (scene circolari in Anna Karenina)

In Anna Karenina si alternano, ben dosate, scene mondane e scene private. Le scene mondane rappresentano quello che nei romanzi storici sono le battaglie. Sono i perni, attorno ai quali ruota il romanzo. Ho scelto tre scene collettive, mondane, perché Tolstoj eccelle nella descrizione dell’insieme, senza mai tralasciare il dettaglio. In queste scene si decide la sorte dei personaggi. Tolstoj è cinetico; i suoi romanzi è come se fossero pronti a essere girati, pronti per il regista; o, piuttosto, potrebbe esserne lo stesso Tolstoj il regista. Angelo Maria Ripellino scriveva a proposito del romanzo nei suoi appunti: «Romanzo inquieto, pieno di pessimismo e disperazione (lo è anche nelle idee di Levin), e perciò così pieno di immagini inquiete, cinetiche»1. Trovo interessante che Ripellino associ il movimento con l’inquietudine. In tutt’e tre le scene, il movimento che vi predomina è circolare, rotatorio; si potrebbe dire ciclico, come la vita naturale. La prima scena si svolge su una pista di pattinaggio; la seconda in una sala da ballo; la terza in un ippodromo. al pattinaggio Prima scena. Levin, l’assai timido Levin, all’inizio del romanzo fa la corte a Kitty, e le si presenta all’improvviso sulla pista di pattinaggio. Il loro incontro è annunciato da una bella giornata invernale di sole2: 1 Lev N. Tolstoj - Angelo Maria Ripellino, Per Anna Karenina, a cura di Rita Giuliani, Voland, Roma 1995, p. 44. 2 Lev N. Tolstoj, Anna Karenina, introduzione, cronologia e bibliografia di Igor Sibaldi, con uno scritto di Vladimir Nabokov, trad. it. di Annelisa Alleva, Oscar Mondadori, Milano 2009, parte prima, cap. 9, p. 35.

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Era una limpida giornata di gelo. All’ingresso c’erano file di carrozze, di slitte, di vetturini poveri e gendarmi. Gente vestita a festa, coi cappelli che luccicavano al sole forte, brulicava all’ingresso e per i sentieri spazzati, fra le casette russe dai frontoni di legno decorato; […]

La scena è descritta attraverso gli occhi di Levin e del suo progressivo avvicinarsi a Kitty. La pista di pattinaggio si trova all’interno del Giardino Zoologico, dove Kitty va ogni giovedì con la governante. La scena si svolge all’aperto, ma ha un carattere intimo. L’amore di Levin per Kitty è confermato qui dal fatto che lui la vede e riconosce immediatamente in mezzo alla folla. In questo e nei capitoli successivi Tolstoj gioca con i verbi che descrivono il processo della visione volontaria e involontaria in tutte le sue sfumature. Questa la prima impressione di Kitty su Levin, la sua focalizzazione: Si accorse che era lì dalla gioia e dal terrore che gli avevano afferrato il cuore. Lei era in piedi, che chiacchierava con una signora all’altra estremità del campo di pattinaggio. Apparentemente non aveva niente di particolare, né nell’abbigliamento, né nella posa; ma per Levin riconoscerla in mezzo a quella folla era stato facile come riconoscere una rosa fra le ortiche. Tutto risplendeva di lei. Lei era il sorriso che illumina tutto attorno a sé. […] Scese evitando a lungo di guardarla, come il sole; ma la vedeva, come si vede il sole, anche senza guardare3. «Non ce li ho neppure, i pattini», rispose Levin, sorpreso dal proprio coraggio e dalla propria disinvoltura in sua presenza, senza perderla d’occhio un istante anche facendo a meno di guardarla. Lui sentiva che il sole gli si stava avvicinando4.

Levin la seleziona, isolandola dagli altri pattinatori; ne è abbagliato, e si meraviglia che non succeda lo stesso anche agli altri. Levin/Tolstoj la paragona al sole, e questa similitudine accompagna tutto il capitolo. La citazione in cui si descrive l’atto di vedere Kitty da parte di Levin richiama alla mente, mi pare, quella che Losev definisce come «metafora dispiegata»5 nel suo volume sulla biografia let3 Ivi,

pp. 35-36. p. 36. 5 Lev V. Losev, Iosif Brodskij. Opyt literaturnoj biografii [Iosif Brodskij. Un esperimento di biografia letteraria], Molodaja Gvardija, Moskva 2006, p. 110. 4 Ivi,

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i tre circoli magici

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teraria di Iosif Brodskij, cioè della metafora, secondo le parole di Brodskij stesso, come «composizione in miniatura»6. Il viso di Kitty qui raffigura il cielo intero. Il movimento rotatorio dei pattinatori sulla pista di pattinaggio si fonde in questo caso con un movimento infinitamente più grande, di dimensioni cosmiche. Nonostante che Kitty pattini, effettivamente è una stella immobile. La sua luce è il suo stesso sorriso, e con il sorriso incanta Levin. Tolstoj ritorna più volte sul sorriso della nostra eroina. Il sorriso di Kitty trasporta Levin nel tempo remoto della sua infanzia, e ammorbidisce il tono secco, adulto, mondano di sua madre. Accompagna le parole di Kitty, aiuta lei stessa a superare la sua paura, e allo stesso tempo tranquillizza Levin. Al viso sorridente di Kitty, lui reagisce arrossendo. E, ancora, arrossisce per via della corsa sui pattini. L’arrossire è un effetto fisico e emozionale. Comunemente si arrossisce a causa dei raggi solari e dell’emozione. L’abilità sui pattini e il corteggiamento di Kitty da parte di Levin sono strettamente correlati in questa scena. Lo sport del pattinaggio qui fa pensare alla danza del corteggiamento nella tradizione tribale. Tolstoj scrive: L’espressione infantile del viso, unitamente alla delicata bellezza del busto, componevano il suo particolare incanto, che lui ben ricordava; ma quello che in lei lo coglieva sempre di sorpresa era l’espressione degli occhi, miti, tranquilli e sinceri, e in particolare il suo sorriso, che trasportava sempre Levin in un mondo incantato, dove lui si sentiva ingentilito e intenerito, come poteva ricordare di essere stato lui stesso in rari giorni della sua prima infanzia. […] «Volevo venire da voi», disse lui, e poi si confuse e arrossì immediatamente, quando ricordò con quale intenzione l’aveva cercata. «Non sapevo che pattinaste, e così magnificamente»7. Lei gli porse il braccio, e si avviarono l’uno accanto all’altra, prendendo velocità, e quanto più andavano veloci, tanto più forte lei gli stringeva il braccio. «Con voi imparerei più in fretta, non so perché, mi date sicurezza», lei gli disse. «Anch’io mi sento sicuro, quando vi appoggiate a me», disse lui, ma si spaventò subito di quel che aveva detto, e arrossì. Ed effettivamente, non 6 Ivi, da una lettera di Iosif Brodskij a Jakov Gordin dal confino del 13 giugno 1965, p. 109. 7 L. N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., p. 37.

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appena ebbe pronunciato queste parole, all’improvviso, così come il sole sparì dietro le nuvole, il viso di lei perse tutta la sua amorevolezza, e Levin riconobbe il ben noto gioco del suo viso, che tradiva uno sforzo del pensiero: sulla sua fronte liscia era spuntata una piccola ruga8.

Ancora: Lei non era del tutto sicura sui pattini; sfilate le mani dal piccolo manicotto appeso a un cordoncino, le teneva pronte per ogni evenienza e, guardando Levin, che aveva riconosciuto, sorrideva a lui e alla propria paura. Quando la curva finì, si diede una spinta con l’agile piedino e pattinò dirigendosi direttamente verso Ščerbackij; dopo essersi aggrappata a lui, sorridente, fece un cenno col capo a Levin. Era più bella di quanto avesse immaginato9.

Più avanti: «Sembra che voi facciate tutto con passione, – disse lei, sorridendo. – Sono impaziente di vedere come pattinate. Calzate dunque i pattini, e andiamo a pattinare insieme»10. Levin si alzò in piedi, si sfilò il cappotto e, preso lo slancio sul ghiaccio ruvido che stava intorno alla casetta, uscì di corsa sul ghiaccio levigato e scivolò senza sforzo, come se con la sola volontà potesse accelerare, rallentare e indirizzare la corsa. Si avvicinò timidamente a lei, ma ancora una volta il suo sorriso lo rincuorò11. «Bravo, caro» pensò Kitty in quel momento, uscendo dalla casetta con Mademoiselle Linon e guardandolo con un sorriso di quieta dolcezza, come se fosse stato il suo fratello prediletto. […] Vedendo Kitty che se ne stava andando e la madre che le veniva incontro sui gradini, Levin, arrossato dopo quella corsa veloce, si fermò e si fece pensieroso12. Kitty rimase dispiaciuta di quel tono, e non poté frenare il desiderio di mitigare la freddezza della madre. Voltò la testa e proclamò con un sorriso: «Arrivederci»13. 8

Ivi, p. 38. Ivi, p. 36. 10 Ivi, p. 37. 11 Ivi, p. 38. 12 Ivi, p. 40. 13 Ibid. 9

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Il sorriso di Kitty è semicircolare, come la luna quando è sottile. Tolstoj, quando si riferisce a una cerchia, allude a un ambiente chiuso, circoscritto, esclusivo, che è quello di Levin e Kitty14: In quel giorno della settimana e a quell’ora del giorno s’incontravano sul ghiaccio persone della stessa cerchia, che si conoscevano tutte fra loro.

Più avanti Levin si dichiara indirettamente a Kitty, e lei, facendo finta di non aver sentito, si avvia verso la casetta dove le signore affittano i pattini. Levin è confuso se ripensa al suo ardire15: «Dio mio, che cosa ho fatto! Signore Dio mio! Aiutami, guidami», diceva Levin, pregando e allo stesso tempo sentendo la necessità di uno sfogo fisico, prendendo a correre e tracciando circoli larghi e stretti.

In questo caso il sostantivo «circolo», in russo «kružok», è usato alla lettera da Tolstoj. Nel capitolo sono presenti anche altre rotondità, simboli dell’armonia della vita futura di Levin e Kitty: le foglie ricciute degli alberi, e i boccoli canuti della governante. […] le vecchie betulle ricciute del giardino, con i rami appesantiti dalla neve, sembravano agghindate in nuovi solenni paramenti16. «Che cosa sarà? L’ho rattristata. Signore, aiutami», pensò Levin, e corse dalla vecchia francese con i boccoli bianchi che stava seduta su una panchina. Sorridendo e mettendo in mostra i denti finti, lei lo accolse come un vecchio amico17.

Il sorriso smagliante di Kitty passa, per la proprietà osmotica della quale sono dotati i personaggi di Tolstoj, alla sua vecchia governante Mademoiselle Linon. Questo sorriso anticipa l’accoglienza di Levin in casa Ščerbackij come una persona di casa.

14

Ivi, p. 36. Ivi, p. 40. 16 Ivi, p. 35. 17 Ivi, pp. 38-39. 15

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un ballo magnifico Solo poche parole per introdurre il lettore alla seconda scena circolare del romanzo. Ci troviamo ancora nella prima parte, poco più avanti. Kitty è innamorata del giovane, attraente ufficiale Vronskij, che visita costantemente la sua casa, ma che, a quanto pare, non ha intenzioni serie nei suoi confronti. Il ballo si svolge nello spazio di due capitoli: il capitolo 22 e il 2318 della prima parte del romanzo. Kitty entra insieme con la madre nelle sale da ballo, dopo aver salito una scala, lungo la quale ha potuto rimirare allo specchio la sua toilette. Come il regista della scena precedente era stato Levin, così la regista di questa è Kitty. Tutto viene descritto attraverso i suoi occhi. Nuovamente i sentimenti dei protagonisti sono espressi dai loro sorrisi, ma ogni volta il sorriso ha una valenza diversa. Comincia Kitty19: Il nastrino di velluto nero del medaglione le cingeva il collo in modo particolarmente tenero. Il nastrino di velluto era incantevole, e a casa, guardandosi allo specchio il collo, Kitty aveva sentito che quel nastrino parlava. Su tutto il resto vi poteva essere ancora qualche dubbio, ma il nastrino di velluto era un incanto. Kitty sorrise anche lì al ballo, guardandosi allo specchio. […] Gli occhi rilucevano, e le labbre rosse non potevano fare a meno di sorridere per la consapevolezza del loro fascino.

Il suo sorriso iniziale è un sorriso di soddisfazione di sé. Poco più avanti sorride un’altra volta, in risposta ai complimenti del direttore dei balli Korsunskij20: Lei sorrise al suo complimento e continuò a perlustrare la sala oltre la sua spalla.

Kitty arrossisce, perché Korsunskij, ballando, vuole condurla nell’angolo sinistro della sala, dove si è raggruppato il fior fiore della società; dove si trova Anna, e dove si trova lui, ma senza volere lo strascico del suo vestito si sparge a ventaglio sulle ginocchia di un altro invitato, Krivin21: 18

Ivi, pp. 95-100; 100-105. Ivi, p. 96. 20 Ivi, p. 97. 21 Ivi, p. 98. 19

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Kitty, tutta rossa, tolse lo strascico dalle ginocchia di Krivin e, con la testa che le girava un po’, si guardò attorno alla ricerca di Anna. Anna era in piedi e stava chiacchierando, circondata dalle signore e dagli uomini. Non era in lilla, come Kitty avrebbe voluto assolutamente, ma in un abito di velluto nero, profondamente scollato […]

In questo piccolo frammento sono concentrati molti motivi. Kitty arrossisce completamente come Levin al pattinaggio. Il rossore è un segno di sforzo, in genere di disagio. Kitty, «con la testa che le girava un po’, si guardò attorno». Questi due verbi alludono entrambi a un movimento circolare: il primo – interno, un giramento di testa; il secondo – esterno, con gli occhi. La lettera «o» di «ogljanulas’» (si guardò attorno) descrive un cerchio anche fisicamente. Anna era circondata, in russo «okružennaja», dalle signore e dagli uomini. Di nuovo appare il suffisso verbale «o», che indica appunto la circolarità. Ma quanto è cambiato in questo breve intervallo di tempo – un giorno in tutto – l’equilibrio «cosmico» di Kitty! Sulla pista di pattinaggio, rispetto a Levin, Kitty era il sole. Qui Kitty si guarda attorno, mentre la stella immaginaria – in nero, per la verità – è Anna, circondata da persone di entrambi i sessi. Ha tutti intorno, compreso Vronskij. Anna indossa un vestito di velluto nero; Kitty, invece, per osmosi, ha un medaglione di velluto nero attorno al collo. Boris Ejchenbaum parla della fluidità22 dei personaggi di Tolstoj. E questi diventano particolarmente fluidi nelle scene fluenti, scorrevoli, come al ballo. In comune, Kitty e Anna, hanno i merletti, in russo «kruževa», da «kruževo», che deriva nuovamente da «krug», cerchio23. 22 Boris M. Ejchenbaum, Lev Tolstoj, semidesjatye gody (Lev Tolstoj, gli anni Settanta), Chudozˇestvennaja literatura, Leningrad 1974, p. 151: «In Tolstoj è tutto diverso: i suoi personaggi non sono tipi, e neppure del tutto caratteristici: sono ‘fluidi’ e volubili, presentati intimamente – come individualità, dotate di caratteristiche universali e leggermente contigue. Perciò per gli eroi di Tolstoj non sono tanto significativi i cognomi (che perlopiù sono insignificanti o addirittura mal trovati), quanto i nomi: non Bezuchov, ma Pierre, non Bolkonskij, ma il principe Andrej, non Rostova, ma Nataša, non tanto Karenina, quanto Anna». 23 Max Fasmer, Etimologičeskij slovar’ russkogo jazyka v 4 tomach [Dizionario etimologico di lingua russa in 4 volumi], vol. II, Progress, Moskva 1986, p. 385: « “kruževo”: a giudicare dall’antichità delle fonti, piuttosto da “krug”, che da un prestito».

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Nonostante che la toilette, l’acconciatura e tutti i preparativi per il ballo fossero costati a Kitty innumerevoli fatiche e lambiccamenti, adesso, nel suo sofisticato abito di tulle dalla sottogonna rosa, faceva ingresso al ballo semplice e disinvolta, come se tutte quelle rose di guarnizioni, quei merletti, tutti i particolari della toilette non fossero costati né a lei né ai suoi famigliari neanche un attimo di attenzione, come se fosse nata in quel tulle, in quei merletti, con quella pettinatura alta, che sulla cima recava una rosa e due foglioline24. Adesso capì che Anna non poteva vestirsi in lilla, e che il suo incanto consisteva proprio nel fatto che balzava sempre fuori dalla propria toilette, che una toilette su di lei non riusciva mai a prendere risalto. Anche il vestito nero dai merletti sontuosi addosso a lei non lo si notava; era esclusivamente una cornice, dentro la quale si vedeva solo lei, semplice, naturale, elegante, e insieme allegra e vivace25.

Kitty e Anna si scambiano in parte le caratteristiche, ma con delle variazioni, come succede nella musica. E queste variazioni parlano esattamente del carattere del personaggio, cioè di un destino genetico al quale Tolstoj crede. Nella toilette di Kitty il cerchio del sontuoso vestito rosa si sposa con l’ovale del medaglione di velluto nero e, soprattutto, con la rosa sulla sua acconciatura. Pettinatura e orpelli di Anna sono del tutto diversi, e si confanno di più a una donna matura, sposata. Nella capigliatura di Anna si configura già un certo eccesso26: Si notavano solamente, e la abbellivano, gli anellini corti e ribelli dei capelli ricci, che le sfuggivano sempre sulla nuca e sulle tempie. Sul collo ben modellato e forte aveva un filo di perle.

Il filo che le unisce è Vronskij. Tolstoj ce lo descrive così attraverso gli occhi di Kitty27: Aspettava che lui la invitasse a un valzer, ma lui non la invitò, e lei lo fissò sorpresa. Lui arrossì e si affrettò a invitarla a ballare un valzer, ma non fece in tempo a cingerle la vita sottile e a fare il primo passo che a un tratto la musica si fermò. 24

Lev N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., p. 96. Ivi, p. 99. 26 Ivi, p. 98. 27 Ivi, p. 100. 25

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In questo caso il motivo per cui Vronskij arrossisce al ballo è opposto a quello per cui Levin è arrossito al pattinaggio. Levin arrossisce ripensando a come abbia potuto dichiararsi a Kitty; Vronskij arrossisce perché è imbarazzato del suo rifiutare Kitty, di non invitarla a ballare. Poco più avanti Kitty guarda Anna e Vronskij che ballano insieme28: Vedeva che si sentivano soli in quella sala piena di gente. E sul viso di Vronskij, sempre tanto fermo e fiero, vedeva quell’espressione di smarrimento e di sottomissione che l’aveva stupefatta, simile all’espressione di un cane intelligente quando si sente in colpa. Anna sorrideva, e il sorriso si trasmetteva a lui. Lei si faceva pensosa, e lui diventava serio. Una specie di forza soprannaturale attirava gli occhi di Kitty al viso di Anna.

Vronskij è prigioniero di Anna. Kitty non riesce a distogliere lo sguardo da Anna. Kitty è prigioniera del proprio sguardo. alle corse La terza scena circolare si svolge alle corse. Anna ha dichiarato a Vronskij di essere incinta29. Vronskij partecipa alle corse militari e cade, rompendo la schiena dell’amata cavalla Frou-Frou. Lei morrà. Il punto di vista delle corse da parte di Vronskij è descritta nel capitolo 2530, e da parte degli spettatori nel capitolo 2831. Rispetto alle altre scene circolari, qui l’orizzonte si apre notevolmente, il pubblico è molto più numeroso, anche lo zar assiste32, e la presenza animale dei cavalli, che corrono e saltano gli ostacoli, scatena nel pubblico le reazioni più diverse. In questa scena il ruolo del regista, dell’osservatore è di Anna33: 28

Ivi, p. 103. Ivi, parte seconda, cap. 22, p. 236: «“Sono incinta”, disse lei a bassa voce e lentamente». 30 Ivi, parte seconda, cap. 25, pp. 248-253. 31 Ivi, parte seconda, cap. 28, pp. 261-265. 32 Ivi, p. 265: «Alla fine della corsa tutti erano in agitazione, tanto più che l’imperatore era rimasto scontento». 33 Ivi, p. 261. 29

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Aveva scorto il marito da lontano. Due uomini, il marito e l’amante, erano i due centri della sua vita, e lei ne avvertiva la vicinanza senza l’aiuto dei sensi.

Basta questa frase per capire che Tolstoj ha un’idea non solo cinetica, ma anche geometrica, direi addirittura fisica del romanzo. Questi due centri muovono Anna e allo stesso tempo la dilaniano. I cavalli corrono in circolo e sono inseguiti dallo sguardo circolare degli spettatori. Ogni spettatore rappresenta un centro immaginario, una punta di compasso intorno alla quale ruotano le corse, e per ognuno da una diversa angolazione, per ognuno in modo diverso. Tondi sono gli ombrellini delle signore34; tonde le lenti del binocolo di Anna35, semicircolare il suo ventaglio36. Circolare – il circo37, che il pubblico paragona alle corse: «Mette agitazione, ma non ci si può staccare», disse un’altra signora, «Se fossi stata una romana, non mi sarei persa un solo spettacolo del circo»38. Tutti esprimevano a voce alta la loro disapprovazione, tutti ripetevano la frase pronunciata da qualcuno: «Ci manca solo il circo coi leoni», […]39.

Tolstoj allude allo spettacolo selvaggio, barbaro, crudele del circo, antico – e questo è confermato anche dalla scelta del nome Gladiator per un cavallo partecipante alle corse –, ma aldifuori di una logica temporale. A tratti descrive i fatti con la precisione di un cronista40:

34 Ivi, pp. 261-262: «A giudicare dai suoi sguardi alla tribuna delle signore (guardava dritto verso di lei, ma non riconosceva la moglie nel mare di mussolina, di tulle, di nastri, cappelli e ombrellini), lei capì che lui la stava cercando; ma lei lo ignorava di proposito». 35 Ivi, p. 266: «Anna, senza rispondere al marito, sollevò il binocolo e guardò nel punto in cui era caduto Vronskij». 36 Ivi, p. 264: «La sua mano stringeva febbrilmente il ventaglio, e lei non respirava. Lui la guardò e distolse immediatamente lo sguardo per soffermarsi su altri visi». 37 Max Fasmer, Etimologičeskij slovar’ russkogo jazyka v 4 tomach, cit., p. 302: «“cirk”, dal tedesco Zirkus, dal latino circus, cerchio». 38 Ivi, p. 263. 39 Ivi, p. 265. 40 Ivi, p. 248.

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Di tutti gli ufficiali ne concorrevano diciassette. La corsa doveva svolgersi su una grande pista a forma ellittica di quattro chilometri, che si apriva davanti alla tribuna.

I giochi di sguardo sono assai complessi in questo capitolo. Anna osserva il marito, fintanto che lui non la vede. Karenin si distingue per il suo grande cappello tondo41: Lo aveva visto avvicinarsi alla tribuna, ora a rispondere con condiscendenza agli inchini adulatori, ora a salutare in modo amichevolmente distratto i suoi pari, ora a ricercare assiduamente lo sguardo dei potenti e a sfilarsi il grande cappello tondo, che gli comprimeva la punta degli orecchi.

Karenin è così occupato dalla sua vanità da non scorgere Anna, sua moglie. Lui, fra tutti, più di chiunque altro rifiuta la sua natura animale. E questo lo rende ridicolo e rivoltante agli occhi di Anna42. È come se avesse un istinto deformato, e tale deformazione si manifesta nel fatto che non identifica sua moglie all’interno della folla43: «Aleksej Aleksandrovič» gli gridò la principessa Betsy, «forse non vedete vostra moglie: eccola!». Lui sorrise col suo sorriso freddo.

Mentre Anna44: […] si sporse in avanti e, senza distogliere gli occhi, guardava Vronskij che si avvicinava al cavallo e vi montava sopra, […]

Karenin fa mostra di una particolare loquacità. Tolstoj trova su questo motivo una straordinaria similitudine45: […] Come un bambino che si è fatto male, saltando, mette in moto i muscoli per soffocare il dolore, così per Aleksej Aleksandrovič era indispensabile esercitare la mente […]. E come per un bambino era naturale saltare, così per lui era naturale parlar bene e in modo intelligente. 41

Ivi, p. 261. Ivi, p. 269. Anna si sfogherà poco più avanti: «Lo amo, sono la sua amante, non ne posso più, ho paura, vi odio… Fate di me quel che volete». 43 Ivi, p. 262. 44 Ibid. 45 Ivi, p. 263. 42

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L’unico movimento possibile per Karenin è il movimento incessante della lingua. Mette in moto la macchina del controllo sociale. È così, su questo terreno, che il marito si batte col rivale, l’amante di sua moglie. Così facendo tenta disperatamente di distogliere l’attenzione di Anna dalle corse, dalla sua apprensione per Vronskij, ma non gli riesce46. «Voi non correte?» gli domandò per scherzo il militare. «La mia corsa è più difficile», rispose Aleksej Aleksandrovič con deferenza.

Quando la corsa ha inizio, Karenin è incatenato con lo sguardo ad Anna: In quel momento, però, diedero il via ai cavalieri, e tutte le conversazioni s’interruppero. Aleksej Aleksandrovič tacque, e tutti si alzarono e si voltarono verso la riviera. Aleksej Aleksandrovič non s’interessava alle corse, per cui non guardava quelli che correvano, ma si mise a scorrere gli spettatori con occhi stanchi. Il suo sguardo si fermò su Anna. Il viso di lei era pallido e severo. Evidentemente non vedeva niente e nessuno, a eccezione di uno solo. La sua mano stringeva febbrilmente il ventaglio, e lei non respirava. Lui la guardò e distolse immediatamente lo sguardo per soffermarsi su altri visi. «Certo anche questa signora e le altre sono molto agitate; ma è assolutamente naturale», disse fra sé Aleksej Aleksandrovič. Avrebbe voluto fare a meno di guardarla, ma il suo sguardo senza volerlo ne era attratto. Si fissò di nuovo su quel viso cercando di non leggervi quello che vi era scritto così chiaramente, e contro il proprio volere vi lesse con orrore quello che non avrebbe voluto sapere47. Ma lui continuava a fissarla sempre più spesso, e con maggiore ostinazione48.

Non è l’amore a attirare lo sguardo di Karenin in direzione di Anna, ma la gelosia. Levin guarda Kitty abbagliato, come se fosse il sole. Kitty, al ballo, fissa Anna, incatenata dalla gelosia, ma anche dall’ammirazione. Kitty non è innamorata solo di Vronskij, ma in qualche modo anche di Anna. Kitty vorrebbe essere al posto di 46

Ivi, p. 264. Ibid. 48 Ivi, p. 265. 47

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Anna, vorrebbe essere seducente quanto lei. Karenin vorrebbe avere lo sguardo di Anna su di sé. E invece Anna, quando lo guarda, scopre in lui particolari fisici che la respingono. All’inizio Karenin non la vede, perché rifiuta l’idea del tradimento e il rischio di sofferenza a questo legato. Poi spia Anna con lo sguardo, mentre lei, a sua volta, segue col binocolo Vronskij che partecipa alle corse. Karenin diventa involontariamente un voyeur. Anna è allo stesso tempo un arbitro immaginario di queste corse, e la loro posta in gioco. Le corse sono trasferite da Tolstoj in un luogo totalmente simbolico. Karenin rifiuta l’idea scherzosa del militare di partecipare alle corse, cioè, in senso traslato, di battersi a duello con Vronskij, il rivale, perché è un Ulisse senza avventura, senza coraggio; è solo un alto burocrate. Il loro duello è simbolico, virtuale. Si potrebbe definire Anna Karenina un romanzo presimbolista. Quando Karenin disserta sui giochi e sui loro pericoli, ci si rende conto che il terreno della competizione è prettamente maschile, sessuale. Questa è la conversazione fra la principessa Betsy e Stepan Arkad’ič, fratello di Anna, alla presenza di Aleksej Aleksandrovič Karenin. Qui Stepan punta su Vronskij per un’affinità genetica con Anna, svelando in tal modo la bugia di Betsy che dice di puntare, in accordo con Anna, su un altro cavaliere49: «Principessa, scommettete!» si udì dal basso la voce di Stepan Arkad’ič, che si rivolgeva a Betsy. «Su chi puntate?» «Io e Anna sul principe Kuzovlev», rispose Betsy. «Io su Vronskij. Un paio di guanti». «Accetto!» «Bello, vero?» Aleksej Aleksandrovič tacque un momento, mentre gli parlavano accanto, ma riprese subito dopo. «Sono d’accordo, ma i giochi maschili…» continuò.

La scena alle corse procede parallelamente alla scena romantica di Levin e Kitty al pattinaggio: la scoperta della persona che stai cercando in mezzo alla folla, la competizione, la conquista. Due coppie – Kitty e Levin, Anna e Vronskij procedono con alcune coincidenze e divergenze per tutto il romanzo. Allo stesso 49

Ivi, p. 264.

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modo in cui Kitty porge il braccio a Levin al pattinaggio50, per pattinare insieme con lui, così Karenin offre il suo braccio ad Anna tre volte51: Aleksej Aleksandrovič si accostò ad Anna e le porse premurosamente il braccio. […] «Vi offro ancora una volta il mio braccio, se volete andare», disse Aleksej Aleksandrovič, arrivando a toccarle il braccio. […] «Vi offro per la terza volta il mio braccio», disse, rivolgendosi nuovamente a lei dopo un po’ di tempo. […] Anna si voltò spaventata, si alzò docilmente e pose la mano sul braccio del marito.

Karenin offre coniugalmente il braccio a Anna per salvare le apparenze, per portarla via dalle corse, dalle sue emozioni eccessive e poco decorose. Alla fine, dopo un ripetuto rifiuto, lei gli si arrende. In questa scena Karenin ripete il gesto di Kitty al pattinaggio, quando porge il suo braccio a Levin, ma qui il significato del gesto di Karenin è opposto: lui vuole semplicemente confermare davanti alla gente la sua posizione sociale di marito di Anna. Il gesto di Kitty è una gentile proposta femminile, proiettata nel futuro: rappresenta simbolicamente il loro futuro percorso insieme. Anche nell’Evgenij Onegin, nella scena cruciale dell’incontro con Tat’jana, dopo aver letto la lettera in cui lei gli si dichiara, Onegin «le offrì il braccio»52 al fine di consolarla. Ma con questo gesto Onegin le offre solo un po’ di conforto, perché si sta rifiutando a lei.

50

Cfr. nota 8. Ivi, pp. 266-267. 52 Aleksandr S. Puškin, Evgenij Onegin, in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], Izd. Ak. Nauk SSSR, 1937, vol. 6, cap. IV, strofa XVII, p. 80: «On podal ruku ej. Pečal’no / (Kak govoritsja, mašinal’no) / Tat’jana molča operlas’, / Golovkoj tomnoju sklonjas’» [«Lui le porse il braccio. Tristemente / (Come si dice, macchinalmente) / Tat’jana gli si appoggiò in silenzio, / Inclinando la languida testolina»]. 51

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i tre circoli magici

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Descrivendoci moglie, marito e amante fuori dalle pareti domestiche, Tolstoj ce li mostra come parti della folla e, allo stesso tempo, come se fossero segnati e uniti dall’invisibile filo triangolare del loro dramma. Tolstoj, in qualità di fotografo, si avvicina e si allontana da loro con il suo obiettivo. «Circolare» è diventato sinonimo di movimento. L’ossessione è circolare. Anna ha appena confessato a Vronskij di essere incinta: l’ossessione circolare della relazione extraconiugale e delle corse si ripete nella forma tonda del ventre femminile durante la gravidanza. Il movimento circolare ci riporta alla tesi iniziale di Ripellino, secondo la quale Tolstoj sviluppa il romanzo con immagini cinetiche, puramente cinematografiche. I capitoli delle corse sono i più cinetici del romanzo, costruiti con un grande sforzo sui raccordi, che ci restituiscono il punto di vista di Vronskij in sella, di Anna, di Karenin, e del pubblico in massa. Il diverso punto di vista di Anna e di Karenin conferma la loro inevitabile separazione. I tempi narrativi si susseguono molto ravvicinati, come i cavalli alle corse. Immaginiamo il conte Tolstoj seguire la gara correndo incessantemente da un angolo all’altro della tribuna e in prossimità del bordo della pista. Il romanzo Anna Karenina opera una metamorfosi, una simbolizzazione della realtà, ma allo stesso tempo presenta il fenomeno così com’è. E nello stile piano che gli è proprio, in questo romanzo particolarmente oggettivo, Tolstoj lascia trasparire la disarmonia dei personaggi, che è quella del nostro tempo. (2011)

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L’istante indifeso (la poesia di Giovanna Sicari)

Qualche volta ci cercavamo a telefono. Se chiamava lei, pronunciava subito il mio nome in un certo modo tutto suo, appena rallentato, con la «s» non addolcita. La riconoscevo subito, e lei mi dimostrava per questo la sua felicità. Così era, Giovanna: triste e festosa. La sua scomparsa prematura il 30 dicembre 2003, dopo una lunga malattia, a meno di cinquant’anni, e il suo libro tutto bianco che mi arriva da Milano, Epoca immobile, appena pubblicato dalla Jaca Book, fanno sì che questa volta sia io a cercarla, qui fra le sue belle pagine intense. Seguo la poesia di Giovanna da anni. Abitavamo nella stessa città, Roma. Prima che si trasferisse negli ultimi tempi a Milano, e la perdessi di vista, la nostra amicizia era fatta soprattutto di chiacchierate al telefono. Parlavamo anche di poesia. Giovanna era fiera di scrivere con immediatezza, di getto, senza sforzo. «Si può dire che quasi non mi segga a tavolino». Questa felice facilità si può intuire dai suoi versi, affinati, certamente, dalle letture e dal dolore, ma fondamentalmente spontanei, naturali come il suo talento. Negli anni ho imparato a leggere la sua scrittura, ne sono stata catturata a poco a poco. Lapidari lapilli in mezzo a parole magmatiche, di cui è difficile decifrare il senso. Un fuoco, però, tutto di terra, che viene dalle sue viscerali profondità. Provo a darne qualche esempio tratto dall’ultima raccolta. Un incipit1: La faccia si trasfigurerà in uccello bianco 1 Giovanna Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, II, in Ead., Epoca immobile, Jaca Book, Milano 2004, p. 58.

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saggi

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Una chiusa2: i bimbi nuotano forte, i bimbi dentro la nostra pace.

Ha continuato, fedele a se stessa, fino alla fine, con i guizzi incandescendenti, che sono anche armi, frecce, e le ombre, la massa oscura, ma forse sempre meno, della sua poesia3: Ma è l’amore che chiama nel suo cratere, nel suo precipizio!

Da medium scrive4: dappertutto preme l’onda in quello stato di trance

Il sostantivo trance deriva dall’inglese: «In metapsichica», si legge sul dizionario5 «la condizione psicofisiologica affine allo stato ipnotico, per cui soggetti particolarmente predisposti (medium) presentano dissociazioni psichiche vistose, con manifestazioni di alternanza di personalità e di altri fenomeni paranormali»; per estensione transe, invece, nel senso di estasi, rapimento, deriva dal francese. Entrambi derivano dalla più antica preposizione latina trans, aldilà di, oltre. Anche «transessuale» ha la stessa origine, e significa «colui che è andato oltre il proprio sesso»6. Il transessuale viene anche chiamato con un’abbreviazione «trans». Nell’atteggiamento di Giovanna di fronte alla vita era l’abbandono all’irrazionale e allo stesso tempo l’attrazione e la condivisione per la marginalità, entrambi racchiusi nella preposizione latina. Giovanna si era trasferita bambina da Taranto a Roma, insieme con la famiglia. E in seguito aveva cambiato più, tante volte indirizzo7: io guardavo andare via le case passate ruvide, lontane, infrante. 2 G.

Sicari, Bimbi nuotano forte, in Epoca immobile, cit., p. 27. Sicari, Lasciate libero il campo, affinché la visione si manifesti, in Epoca immobile, cit., p. 97. 4 G. Sicari, Pista silenziosa, in Epoca immobile, cit., p. 113. 5 Giacomo Devoto - Gian Carlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Milano 2001, p. 2008. 6 Ivi, p. 2010. 7 G. Sicari, Lontano amori!, in Epoca immobile, cit., p. 87. 3 G.

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l’istante indifeso

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Si sentiva più a suo agio fuori8: non badarmi se solo nella strada sono viva

Giovanna s’identificava con tutti i transfughi, poveri, senzacasa, mendicanti, prostitute, con tutto l’esercito degli umiliati e offesi che popola la città e i suoi versi9: Fuori, dopo, i poveri, poveri e neve, derelitti e realtà.

Amava anche la gente comune, gli sconosciuti, i passanti10: […] adorare ogni passante e riuscire a cospargerlo di acqua e di calore

Ne sentiva nostalgia anche quando era ricoverata, grave, perché per lei erano simbolo della vita stessa11: Dove sono quei ragazzi che adoravo che mi adoravano, anche i guerrieri, gli afflitti, i notturni, i girovaghi con quell’odore spontaneo della vita che arde

Oppure12: ogni giorno una prostituta mi guarda ha come me una fascetta sul braccio anch’io della sua razza randagia irosa in cammino mi mescolo al suo sonno alle sue albe

Da sposata, Giovanna era andata a vivere col marito, il poeta Milo De Angelis, in una casa di Via Giolitti, dietro la Stazione Termini di Roma. In una casa così, rifugio accanto a un luogo di transito per eccellenza, simbolo quasi fin troppo ovvio della tran8

G. Sicari, Vorrei un abbraccio d’abbaino, in Epoca immobile, cit., p. 34. Sicari, Un regolamento di conti, in Epoca immobile, cit., p. 47. 10 G. Sicari, Quaresima, in Epoca immobile, cit., p. 95. 11 G. Sicari, Ancora dentro i vetri, in Epoca immobile, cit., p. 107. 12 G. Sicari, Di lutto indescrivibile amore, in Epoca immobile, cit., p. 18. 9 G.

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saggi

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sitorietà umana, il «fuori» era preponderante, prosecuzione naturale del dentro13: Pochi resti in una ciotola di Via Giolitti

La sua vita si divideva fra Via Giolitti e il carcere di Rebibbia, dove ha insegnato per dodici anni. La popolazione del carcere, luogo chiuso per eccellenza, le era congeniale quanto quella della strada, luogo, in un certo senso, per chi soffre, di detenzione all’aperto. Non c’era distanza fra lei, insegnante, e gli allievi. Si sentiva per questo quasi protetta, vaccinata contro il male. E non era per forza la più ingenua14: Le detenute hanno volti pallidi di guerra

Dei reclusi, qualche volta, s’innamorava15: […] Allora Sergio uscì dalla galera, il destino in una chance: parlava parlava con quell’aria signorile, era giovane, io no.

Non si trattava solo di un atteggiamento trasgressivo, ma del riconoscere – nei derelitti, detenuti – il dolore universale. Che cos’è il malato se non un prigioniero impotente, un condannato a morte?16 A volte non mangio ma sono sempre tonda e me ne sto al mio posto con questo corpo legato e sempre nella chiesa vicina suonano campane.

Oppure17: oh routine di mille idee, routine insolita e bestiale martirio dei prigionieri! Nulla. Strada. Orari muti del mattino.

13 G.

Sicari, Breve sogno, in Epoca immobile, cit., p. 19. Sicari, Speranza speranza, in Epoca immobile, cit., p. 24. 15 G. Sicari, Scuola media, in Epoca immobile, cit., p. 26. 16 G. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, VI, in Epoca immobile, cit., p. 63. 17 G. Sicari, Fate pulito lo specchio, in Epoca immobile, cit., p. 84. 14 G.

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l’istante indifeso

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In questa condizione di prigionia, torna spesso nei suoi versi il muro, unico panorama, unico orizzonte del detenuto18: Fuori fuori da questo muro capire dove è stato il danno.

Il muro nella sua sostanza calcarea, quindi ancora una volta terrestre, le entra dentro. È come se lo incorporasse interiorizzando la propria condizione di condannata. Il muro è limite, compiutezza del proprio sguardo sul passato. Lei stessa «sa» di muro19: – Ho il capo chino dei canarini e sa di muro tutta la mutilazione –

Nel muro Giovanna intravede la morte20: quel luogo bianco terribilmente abbagliante appena scorto nel bianco del muro che avvicina una crepa a un cedimento nel soprassalto ci ruberà le vene gli amori, il pianto, i battiti sfrenati.

Giovanna, completamente lucida e terrestre, priva di qualsiasi indugio o autocompiacimento nella commiserazione di sé, non dà alla morte nessuna prefigurazione drammatica, macabra, barocca. La morte è definita piuttosto dal titolo del libro, Epoca immobile. Le appare un’attesa lenta, interminabile quanto inesorabile21: Gli scoppi non sono di Natale e ogni pietismo vola via in una morte anche quella superflua tiepida, uguale

Oppure22: i giorni sono avari di labbra, ruotano congelati in un’epoca immobile pieni di sangue. 18 G.

Sicari, La ripetizione di un errore, in Epoca immobile, cit., p. 88. Sicari, Nel tuo corpo, in Epoca immobile, cit., p. 93. 20 G. Sicari, 29 settembre, in Epoca immobile, cit., p. 73. 21 G. Sicari, Osanna della distanza, in Epoca immobile, cit., p. 16. 22 G. Sicari, Non parlo con gli inquilini, in Epoca immobile, cit., p. 17. 19 G.

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saggi

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Più avanti23: In quell’unione abbiamo dato nel fuoco nuotato con forza in quel tremendo lago della malattia: specchi, vizi dell’anima.

Oppure, anche24: e non si spegne il corpo come non dovesse mai spegnersi.

La sua unica forma di resistenza contro la morte, schivata anche stilisticamente attraverso un accapo, un enjambement, è l’amore25: fino a tardi il nostro amore sarà faro folle contro la morte, […]

L’amore è inteso come compassione, pietà26: In questo vuoto è compassione, in questa zona fuori legge ci si può salvare.

Anche27: […] Per questo ho disceso piano le scale per vedere il viso di tua madre come il tuo, sembrava morta mentre dormiva con il transistor fra le mani, pregava forse, così devi vederla la gente, in quel momento placato vedi la pietà.

Un’altra difesa contro la morte è la realtà. In questo ultimo volume abbondano i «realia», che lo rendono un diario caparbio, estremo, con l’irruzione delle cooordinate spazio-temporali. Sono tanti i nomi propri di persona, tirati fuori con audacia, quasi con vitalistica prepotenza28: 23 G.

Sicari, La ripetizione di un errore, in Epoca immobile, cit., p. 88. Sicari, Pista silenziosa, in Epoca immobile, cit., p. 113. 25 G. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, IV, in Epoca immobile, cit., p. 61. 26 G. Sicari, Quando arriva l’inverno, in Epoca immobile, cit., p. 20. 27 G. Sicari, Uscita di sicurezza, in Epoca immobile, cit., p. 53. 28 G. Sicari, Breve sogno, in Epoca immobile, cit., p. 19. 24 G.

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l’istante indifeso

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la compagna di classe Raffaella Boccia col viso di bambina truccata alla fermata di ottobre.

Sono tanti i mesi29: mi mescolo al suo sonno alle sue albe di cagna che vede giorno dopo giorno l’aprile nel petto

Sono tanti gli anni30: 1971, Ospedale Regina Margherita con lo stupore di me giovane con un cappotto troppo puro. Lo annuso con tutto l’ardore che ho per i perduti.

Sono tanti i luoghi, i nomi delle strade31: […] come oggi che la Tiburtina non ha macchie e risplende di radi colori

In tanta memoria, tanto preciso desiderio di trasporre quel che si vede, è il fermo intento di vivere, stare, risiedere in se stessi come unica forma possibile di adesione al passato e al presente32: Sono le undici il sonno è piccolo non voglio salutarti, entriamo stretti nel nostro sangue, nelle nostre stesse lacrime nei nostri corpi perfettamente.

Oppure33: ed ero giovane, rigida e fredda e occupavo interamente la mia sensualità goffa e perbene.

29 G.

Sicari, Di lutto indescrivibile amore, in Epoca immobile, cit., p. 18. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, VI, in Epoca immobile, cit., p. 63. 31 G. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, VIII, in Epoca immobile, cit., p. 64. 32 G. Sicari, Una situazione ordinaria, in Epoca immobile, cit., p. 78. 33 G. Sicari, Tutti speriamo in un soffio di sonno, in Epoca immobile, cit., p. 83. 30 G.

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saggi

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E34: Io ripeto – sono con me stessa – – sono dentro di me – chiara, sensata, riservata per la gioia, sono nella poesia

E ancora35: abitiamolo tutto questo rintocco, questo vocio che squarcia il ricordo, lo annuncia, che si ammanta di quella luce

Desiderio opposto quello di aggrapparsi all’altro, per averne conforto, sostegno, da creatura smarrita, sola, impaurita36: fammi stringere il tuo braccio fino a mattina.

Nella poesia intitolata Nel tuo corpo, che comincia così37: Nel tuo corpo qualcuno respira quell’aria violetta portami là dentro nel tuo corpo che non è malato, dentro quel cuore che non è inquieto,

Preparandosi a abbandonare il mondo, Giovanna si abbandonava al proprio dettato poetico, al proprio essere disarmata, pur consapevole che l’abbandono in un poeta sia l’arma estrema, la prova ultima, la più valorosa e dolorosa38: Vorrei avvolta in un mantello non fingere mai e poter pregare, chiamare – mamma! – mamma incisa e designata, mamma del ricordo come fosse lei sola a guarire le ferite mentre fuori tutto è fermo e pioviggina ed è inverno, è inverno a Monteverde dietro i vetri nulla fa male, soltanto sogno non importa cosa; ho tredici anni e piango per nulla con vero dolore ma dentro in un attimo divampa la gioia. 34 G.

Sicari, Ancora in me cercate parole d’amore, in Epoca immobile, cit., p. 98. Sicari, Canto della riparazione, in Epoca immobile, cit., p. 104. 36 G. Sicari, Una situazione ordinaria, in Epoca immobile, cit., p. 78. 37 G. Sicari, Nel tuo corpo, in Epoca immobile, cit., p. 93. 38 G. Sicari, Pioviggina ed è inverno a Monteverde, in Epoca immobile, cit., p. 45. 35 G.

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l’istante indifeso

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Si descrive avida di vita, guerriera della vita, e allo stesso tempo desiderosa di perdersi nell’universo, abbandonando i propri connotati per diventare parte del tutto. Testimonianza di questa perdita è il suo parlare di se stessa al passato39: Volevo essere solo una cosa fra tante non più separata da Dio, da voi, volevo essere un osso, un’ala che fervida e buona volteggia. Volevo qui tutti gli amori possibili, tutti i segnalibri dei boschi, volevo conoscere e vincere tutti gli alberi lontani!

Gli alberi profondamente radicati alla terra, da Giovanna prediletti, saranno anche nell’altra vita. Nella poesia finale40: ci sarà la nuova vita, il canto buio degli alberi il canto disperato degli uccelli, l’ombra degli alberi santi, né miseria, né carni, né questioni private

C’è un senso di abbandono alle parole anche nella loro ricorrente ripetizione. Un senso di culla41: Qualcosa sarà dentro la memoria: culla e croce

Qualcosa d’incalzante come un ritornello musicale42: tu che assomigli a mio padre – dagli dagli un bacio vero che lui se lo possa ricordare.

La fatica nella chiusa43: Io lavoro lavoro in tre spazi divisa. 39 G.

Sicari, Lontano amori!, in Epoca immobile, cit., p. 87. Sicari, Trova il nuovo, in Epoca immobile, cit., p. 116. 41 G. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, III, in Epoca immobile, cit., p. 59. 42 G. Sicari, Ho bisogno di questo dolore per raccontartelo, in Epoca immobile, cit., p. 30. 43 G. Sicari, Il parlatoio tace, in Epoca immobile, cit., p. 23. 40 G.

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saggi

Non è con spirito di possesso, ma con uno sguardo di struggente tenerezza e nostalgia che guarda suo figlio Daniele, non chiamato figlio, e non chiamato mio44: […] – Quali argomenti scriverai sul primo tema di scuola? – Bambino, bambino felice cosa dirai? –

A questa immagine di felicità pura, infantile, in contrapposizione con la sua felicità perduta, fa pendant quella del padre infelice, colpito dal lutto per la madre morta45: Lì ho visto mio padre per sempre: villa Sciarra 1962, inverno segreto sole velato o pioggia di maggio verdi panchine care sciupate lì eravamo uniti uguali ai mendicanti, lì mio padre piangeva già la morte di sua madre, […]

Non c’è tanto contrapposizione, fra padre e figlio, quanto uguaglianza. Rappresentavano entrambi, suo padre e suo figlio, quello che le era più caro al mondo: l’infanzia. L’infanzia è la palla che rimbalza più spesso in questo volume di versi46: lì in quella stanza abbiamo lasciato la fine e l’inizio, abbiamo occupato le due stanzette come fossero lampioni e muschio fatica e infanzia, sangue e luce, ci siamo rialzati, ed era infanzia!

Infanzia è la scoperta di aver amato da sempre e per sempre il padre, e di aver amato in lui proprio l’infanzia, il desiderio di protezione, la freschezza47: Oh padre assoluto fresco di stampa quanto ti cercavo negli uomini che ho amato per non confessare lo stupore di volere te soltanto. 44 G.

Sicari, Uscita di sicurezza, in Epoca immobile, cit., p. 52. Sicari, Avevamo meno di nulla, in Epoca immobile, cit., p. 48. 46 G. Sicari, 5 novembre 1999, via Varesina, in Epoca immobile, cit., p. 74. 47 G. Sicari, Padre fresco di stampa, in Epoca immobile, cit., p. 85. 45 G.

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l’istante indifeso

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E tu piccolo amante da proteggere per risposta mi davi tutte le attenzioni oh padre inedito, paradiso dei miei anni inquisiti addormentata nello specchio e nel livore del mio furor poetico, piccola venere arrogante qual’ero desiderosa solo d’infanzia, frapponendo questo al resto del mondo, e prima che tu possa andare continuo a chiedere per trattenerti in vita nel mio spazio solitario d’arresto, e mi farei murare per distillare piano tutto per scantonare, per perdere forza e darla a te.

Questa è una poesia-chiave, particolarmente rivelatoria, pur nei suoi misteri. Qui il padre è accostato due volte a un libro, quanto di più caro per chi scrive. Io immagino, e naturalmente provo solo a immaginare, che il libro a cui si riferisce Giovanna sia il suo libro, il Libro da lei scritto, la sua opera, il suo parto. Fra Giovanna e il padre esisteva perciò, come lei scrive, un fortissimo legame di complicità infantile, all’interno del quale i ruoli tradizionali di padre/figlia erano parzialmente rovesciati. Non un superpadre, ma un «piccolo amante» abbandonato alla propria emotività, fragilità, inermità, che Giovanna prediligeva e preservava in lui e in tutte le altre creature. Due sono i personaggi di questa poesia, non riportata qui per intero; due volte è presente la metafora del padre/libro; due volte quella del muro. Il muro/infanzia, muro/fortezza, muro/autoprotezione non nominato, ma metaforizzato dal verbo «frapponendo» che lo richiama, e il muro/autopunizione («e mi farei murare»), il muro/prigione, il muro/sacrificio di se stessa che, se avesse potuto, Giovanna avrebbe offerto al padre al fine di salvarlo, di rinvigorirlo. L’infanzia era per lei difesa strenua contro il mondo, eretta con la caparbietà dei bambini, e allo stesso tempo ostacolo. Può la palla, con cui si gioca da bambini, trasformarsi nella palla al piede del prigioniero, del condannato? Non è anche una forma di condanna per i bambini il loro essere bambini, più piccoli, impotenti, in balia degli adulti? E ancora di più il restare bambini in età adulta? Si può morire d’infanzia?48

48 G.

Sicari, Non sono né carne né volo, in Epoca immobile, cit., p. 14.

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saggi

[…] vedi questo seno di donna non è sessuale, è una cosa di bambini.

E49: Vedo dappertutto il mio povero torace adesso il mio bel pettino come il capino di un pettirosso, un bambino.

Questa ossessione per l’infanzia, – che nella poesia di Giovanna è tornare bambini anche fisicamente, a causa della malattia –, mi fa venire in mente un poeta russo che molto probabilmente lei non conosceva, Boris Ryžij, morto suicida a meno di ventisette anni nel 2001, nella città natale di Ekaterinburg. A differenza di Boris, però, che mitizzava la propria infanzia, perché vezzeggiato in famiglia dalle sorelle maggiori e dai genitori, qui, in Epoca immobile, l’infanzia diventa un concetto più esteso, astratto. Uno stato mentale di grazia50: noi cercavamo come cani, come angeli come bambini affamati la nostra anima: quel senso criminale e divino della vita quando si dicono cose stupide e care.

La poesia di Giovanna fa pensare anche a quella di altri poeti suicidi. La seconda: Amelia Rosselli, che, al contrario, lei aveva conosciuto, e della quale ricordava alcune frasi. È di Amelia Rosselli quella particolarissima oscurità vaticinante, e poi i famosi lapsus linguistici, scardinatori del linguaggio51: il mio babbo di sabbia e roccia nella sera pura dei secoli nei secoli e poi prolifera il disordine con tutte le ouvertures

Oppure52: In silenzio, nel bilico scrive lettere d’amore 49 G.

Sicari, Ancora dentro i vetri, in Epoca immobile, cit., p. 107. Sicari, 13 giugno 1999, le ville senza di noi, in Epoca immobile, cit., p. 72. 51 G. Sicari, Dal lutto è nato il giorno, in Epoca immobile, cit., p. 33. 52 G. Sicari, Che non sia tutto già stabilito, in Epoca immobile, cit., p. 114. 50 G.

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l’istante indifeso

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La combinazione inaspettata di sostantivi e aggettivi53: […] a tentoni ora in un buio spartano – oggetti questi

Oppure54: osserviamo dal vetro secchi camioncini, portano soccorsi.

Una terza suicida a lei nota per averla letta almeno in parte: Marina Cvetaeva. Soprattutto nella sua naturale avversione per la vita tranquilla borghese, per tutti i simboli della comodità in genere55: Se qualcuno odia, di lui ho pietà per gli altri, reati per eccesso di quiete, irrealtà!

Oppure con la stessa enfasi esclamativa56: Ritorneresti fuori di ogni cosa felice vittorioso per la sostanza di quel cielo medio. Via le panchine! Queste vie parallele di lacrime e pietre solitarie!

Oppure, ancora, per la carica dolce e dirompente con cui stabilisce un rapporto diretto, in questo caso con la parte malata del suo corpo e con il resto del mondo di fuori57: Buongiorno al mio seno nuovo alle tegole del buio al cane Achille, al cielo, al mercato, alla vita dietro il vetro agli alberi, agli adorati alberi.

E penso anche alla poesia dell’americana Sylvia Plath, quarta suicida. Soprattutto per l’ossessione del bianco, in Sylvia infer53 G.

Sicari, Oggetti rubati, in Epoca immobile, cit., p. 49. Sicari, L’epoca sarà matura, in Epoca immobile, cit., p. 91. 55 G. Sicari, Vorrei un abbraccio d’abbaino, in Epoca immobile, cit., p. 34. 56 G. Sicari, La ripetizione di un errore, in Epoca immobile, cit., p. 89. 57 G. Sicari, Ancora dentro i vetri, in Epoca immobile, cit., p. 107. 54 G.

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saggi

mieristico e lunare, in Giovanna a tratti simbolo di luce abbacinante, di morte, e a tratti, come per esempio qui, d’innocenza e salvezza58: Mi soccorreva in una stanza bianca, qualcuno!

Oppure59: Che tutto sia risanato, che sia bianco e puro come l’estate più pura: facciamo una piccola buca

Si avverte anche, in lei, l’influenza della poesia di suo marito, Milo De Angelis, per la massima stringatezza delle immagini, ridotte a pochi tratti essenziali, per la passione della toponomastica, il nominare per nome e cognome le compagne di scuola, i personaggi del proprio passato, la presenza ricorrente dello sport – nella poesia di lei in particolare del nuoto –, e l’insistenza con cui si parla dell’elemento metallico, del ferro, qui simbolo delle operazioni chirurgiche e in generale, in entrambi, simbolo di freddezza60: Proteggimi dal nero metallico dei rami e dalle trame proteggimi, […]

E quella degli scrittori scelti per le ultime epigrafi: Fedor Dostoevskij, Eugenio Montale, Paul Eluard. Nella poesia di Giovanna non c’era solo l’elemento realista, ma anche quello fantastico61: come se non avessimo camminato, raso, arso, spianato, seminato con le nostre forbici appese al cielo della vista!

Concludo queste righe con il frammento da un suo autoritratto62: 58 G.

Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, VI, in Epoca immobile, cit., p. 63. Sicari, Canto della riparazione, in Epoca immobile, cit., p. 105. 60 G. Sicari, Nudo e misero trionfi l’umano, VII, in Epoca immobile, cit., p. 64. 61 G. Sicari, Nel tuo corpo, in Epoca immobile, cit., p. 93. 62 G. Sicari, Non sono niente, in Epoca immobile, cit., p. 37. 59 G.

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l’istante indifeso

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Non sono niente solo vorrei il volto più affilato sotto il mio piccolo colbacco

Nessuno di noi vedrà mai Giovanna invecchiare. La ricorderemo con il taglio degli occhi appena piegato all’ingiù, un neo sulla guancia come una piccola lacrima castana, le labbra sorridenti intrise d’ironia. E continueremo a leggere i suoi versi.

Giovanna Sicari è nata a Taranto nel 1954 e morta a Roma nel dicembre 2003. Ha insegnato per dodici anni nel penitenziario di Rebibbia. Tra le sue raccolte di poesia: Decisioni (Barbablu, Siena 1986); Ponte d’ingresso (Rossi e Spera, Roma 1988); Sigillo (Crocetti, Milano 1989); Uno stadio del respiro (Scheiwiller, Milano 1995); Roma della vigilia (Il Labirinto, Roma 1999), Epoca immobile (Jaca Book, Milano 2003), Poesie 19842003 (Empiria, Roma 2006, a cura di Roberto Deidier). Ha pubblicato inoltre La moneta di Caronte. Lettere e poesie per il terzo millennio (Spirali, Milano 1993); La legge e l’estasi (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1999); Milano nei passi di Franco Loi (Unicopli, Milano 2002). (2004)

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La luce. Il monumento e la statua. La cosa (la poesia di Iosif Brodskij)

La luce* Ves’ bal, ves’ svet, vsë zakrylos’ tumanom v duše Kiti. Tutto il ballo, tutto il mondo si offuscò di nebbia nell’animo di Kitty1. Lev Tolstoj, da Anna Karenina

Sul contrasto fra luce e buio, bianco e nero, Brodskij gioca, fra le altre, in una poesia, Notte, ossessionata dal bianco della pelle2, che risale probabilmente al 1984. Qui la pianta della reseda, «che graffia l’imposta», fa pensare a un brano di Properzio che Brodskij amava particolarmente, in cui il poeta latino, appena tornato dai funerali di Cinzia, la vede in sogno e la sente così parlare3: *Questo saggio, qui rivisto e ampliato, è uscito con lo stesso titolo sulla rivista «Smerilliana», nn. 7/8, 2007, insieme con la mia traduzione di alcune poesie di Iosif Brodskij, in parte edite, in parte inedite in italiano, col testo a fronte, delle quali qui, in appendice al saggio, è presente una scelta solo nella versione italiana. 1 Lev N. Tolstoj, Anna Karenina, in Polnoe sobranie sočinenij v 90 tomach [Opere complete in 90 volumi], Gosudarstvennoe Izdatel’stvo Chudožestvennaja Literatura, Moskva-Leningrad 1934, vol. 18, p. 87; trad. it. Anna Karenina, Mondadori, Milano 2009, con uno scritto di Vladimir Nabokov, introduzione, cronologia e bibliografia di Igor Sibaldi, traduzione di Annelisa Alleva, parte prima, cap. 23, p. 102. 2 Iosif Brodskij, Noč’, oderžimaja beliznoj [Notte, ossessionata dal bianco della pelle], da Id. Uranija [Urania], in Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], izd-vo Puškinskogo Doma – izd-vo «Vita Nova», in due volumi, a cura di Lev Losev, Sankt-Peterburg 2011, vol. 2, p. 94. Questa poesia, qui tradotta da me, è stata già pubblicata in italiano in Iosif Brodskij, Poesie italiane, cura e traduzione di Serena Vitale, Adelphi, Milano 1996, pp. 82-83. È mia la traduzione di tutti i brani poetici di Brodskij citati in questo saggio, e anche le citazioni tratte dall’opera di altri poeti e scrittori russi, e dai saggi critici dedicati a Brodskij. La poesia è presente, tradotta per intero, a p. 283. 3 Properzio, Elegie, Libro quarto, capitolo VII, traduzione di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1987, p. 445. La traduzione suona così: «Perfido, e tale che nessuna fan-

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saggi

Perfide nec cuiquam melior sperande puellae, / in te iam vires somnus habere potest? / iamne tibi exciderant vigilacis furta Suburae / et mea nocturnis trita fenestra dolis, / per quam demisso quotiens tibi fune pependi, / alterna veniens in tua colla manu? […]

Più avanti, l’insetto che vibra «in tutte le fibre» sembra una citazione molto più recente, novecentesca, da La metamorfosi di Kafka4. Tutta la poesia è fondata sul contrasto fra la notte, paragonata a un insetto, e una donna-lume. La preposizione vo del verso Spi. Vo vse dvadcat’ pjat’ svečej, Dormi. Con le tue candele, venticinque,

in russo indica anche una misura di potenza, di velocità; le candele, sveči, fanno parte dell’ingranaggio del motore come in italiano. Qui stanno a indicare gli anni, festeggiati con le candeline. A conclusione della lirica, quando Brodskij scrive: ja, točno knigu čitaja pri tebe, sezam po skladam šepču. io, come se leggessi un libro davanti a te, sesamo sussurro scandendo.

usa la preposizione pri, che traduco «davanti a te». Questa preposizione in russo indica la presenza di qualcosa. Della presenza di luce si dice: pri lunnom svete, pri svete luny, cioè «al chiaro di luna», «alla luce della luna». Come spesso accade nella poesia di Brodskij, la donna è rappresentata da un oggetto, che si anima e assume sembianze umane. Capiamo che si tratta di una metafora dal fatto che della lampada nella stessa poesia viene detto: ciulla può sperarti migliore, / già il sonno può impadronirsi di te. / Hai già dimenticato i nostri incontri furtivi nella insonne Subura, / e la finestra logorata dai miei notturni espedienti di fuga, / quando per raggiungerti scivolai tante volte lungo la fune, / avvinghiandomi al tuo collo ora con l’una, ora con l’altra mano?». 4 Franz Kafka, La metamorfosi, traduzione di Rodolfo Paoli, nei Racconti, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1970.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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[…] č’ja vypuklost’ gorjača, chotja absoljutno otključena. […] la cui convessità scotta, anche se è del tutto staccata.

Metafore poetiche di luce e calore vengono usate spesso in riferimento ai sentimenti; Brodskij preferisce qui usare l’immagine moderna, meno abusata, visiva, della lampada, e quella della corrente elettrica, alla quale allude il participio passato otključena, staccata. In russo svet significa «luce», o «mondo». Anche in italiano si dice «venuto alla luce», cioè nato, venuto al mondo. Il Grande Dizionario della Lingua Russa5 suddivide il sostantivo svet in due voci, numerate con 1 e 2, che si riferiscono al suo primo, e al suo secondo significato. Cito solo la prima accezione di svet intesa come luce: 1) L’energia luminosa […] recepita dall’occhio, che rende visibile il mondo circostante.

La seconda voce è suddivisa a sua volta in tre parti: 1) La terra con tutto l’esistente sopra di essa, mondo, universo. 2) Le persone circostanti, la società. 3) Nella società borghese e nobile: gruppo selezionato di persone appartenenti alle classi privilegiate.

Svet significa infatti anche gran mondo, e svetskij, l’aggettivo che ne deriva, mondano. La notte è paragonata a un insetto, perché sono entrambi neri, e perché entrambi vibrano, palpitano – l’insetto con tutto il corpo, la notte con tutte le stelle. L’accostamento di tanti contrasti e somiglianze, obliqui come raggi di luce, si conclude con la formula magica: 5 AA.VV., Bol’šoj tolkovyj slovar’ russkogo jazyka (Grande dizionario interpretativo della lingua russa), Accademia Russa delle Scienze, Norint, Sankt-Peterburg 2004, pp. 1157-1158.

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saggi

[…] sezam po skladam šepču Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 05/12/2018

[…] sesamo sussurro scandendo.

L’assonanza fatta di tante «s» ripetute accentua l’abracadabra sussurrato di Brodskij, in contrapposizione con quello gridato nella fiaba Storia di Alì Baba e dei quaranta ladri sterminati da una schiava: «Apriti, Sesamo!»6. In questo caso l’autore non usa le virgolette, cioè non sottolinea, come invece fa altre volte, il discorso diretto, staccandolo in qualche modo dal resto. A proposito della formula magica, la parola sezam, questa volta fra virgolette, è presente – e crea un pendant con la poesia Notte, ossessionata dal bianco della pelle – anche in Fiori7. Scrive qui a proposito dei fiori: […] eščë pogloščënnye pamjat’ju o «sezame», smotrjat oni na nas nevidjaščimi glazami. […] ancora assorti nel ricordo di «sesamo», ci guardano con occhi che non vedono.

In questo caso «sesamo» è scritto fra virgolette, e sembra indicare una chiusura, che si contrappone all’apertura provocata dalla formula magica. Anche in Elegia8, le due parole «zavyvatel’» (plorante) e «zabyvatel’» (obliante) sono poste fra virgolette, ma per metterne in luce la deviazione dal testo, la diversa inclinazione rispetto alla scritta ufficiale: Zavoevatel’ (Comandante), che è quella visibile a tutti sul monumento, e che nella poesia non è posta fra virgolette. […] I na nëm načertano: Zavoevatel’. No čitaetsja kak «zavyvatel’». A v polden’ – kak «zabyvatel’».

6 Le mille e una notte, a cura di Massimo Jevolella, Mondadori, Milano 1984, p. 1074. 7 I. Brodskij, Cvety [Fiori], in Pejzaž s navodneniem [Paesaggio con inondazione], cit., vol. 2, p. 162. La poesia è presente, tradotta per intero, a p. 284. 8 I. Brodskij, Elegija [Elegia], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 110.

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[…] E su questo è tracciato: Comandante. Ma si legge come «plorante». E a mezzogiorno come – «obliante ».

Nella I delle Elegie romane9: […] Krikni sejčas «zamri» – ja by totčas zamer, kak etot gorod sdelal ot sčast’ja v detstve. […] Grida ora «stella» – e io mi fermerei subito, come questa città fece dalla felicità nell’infanzia.

Anche qui è presente una formula magica, e si riferisce al gioco delle belle statuine, a «Uno, due, tre – stella», in cui chi dà le spalle a chi gioca si gira improvvisamente gridando «stella», e i giocatori, che avanzano mentre lui conta, al suo sguardo devono improvvisamente immobilizzarsi, pena l’esclusione dal gioco, proprio come statue. Nella VIII delle Elegie romane10: […] na ischode tysjačiletija v Rime ja vyvožu slova «fakel», «fitil’», «svetil’nik», […] sul volgere del millennio a Roma, io traccio le parole «fiaccola», «lucignolo», «lucerna»,

Come in Elegia, anche qui le tre parole sono metamorfiche, ognuna si modifica trasformandosi nella seguente. Con questi tre oggetti evocatori di luce, e messi in luce dalle virgolette: «fiaccola», «lucignolo», «lucerna», dal sapore antico, il poeta vorrebbe evocare come per miracolo la luce, ma la stanza «ha lo stesso aspetto di prima», cioè non è cambiata. Allora, sembra dedurne il poeta, la luce non viene evocata dalla parola scritta, ma dallo stesso inchiostro. Sempre nella stessa strofa: O, skol’ko sveta dajut nočami slivajuščiesja s temnotoj černila! 9 I. Brodskij, Rimskie elegii [Elegie romane], I, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 67. Il ciclo poetico Elegie romane è presente, tradotto per intero, alle pp. 271-276. 10 I. Brodskij, Rimskie elegii, VIII, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 70.

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saggi

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Oh quanta luce dà nelle notti fondendosi con l’oscurità l’inchiostro!

Questa lirica è un esempio di quello che Lev Losev chiama «vyraženie v razvërnutoj (teleskopičeskoj) metafore»11, cioè «espressione in una metafora dispiegata (telescopica)», a indicare il metodo compositivo dell’amico. Lo fa appellandosi a una lettera in cui Brodskij scrive a un altro amico pietroburghese, Jakov Gordin, nel 1965, dal confino russo di Norenskaja: La metafora stessa è – una composizione in miniatura.

Sempre Losev ci racconta che l’esilio a Norenskaja fu fondamentale per la sua crescita, perché a lume di candela Brodskij ebbe modo di leggere lentamente, con l’aiuto di un buon dizionario, la poesia inglese del periodo barocco. Un’altra poesia, tratta da Paesaggio con inondazione, comincia con il tema della variazione di luce al crepuscolo, che si sviluppa in tre passaggi12: Snaruži temneet, vernej – sineet, točnej – černeet. Fuori si fa scuro, anzi – blu, o meglio – nero.

Nella poesia di Brodskij a volte è presente la metafora sviluppata, cioè articolata, dispiegata, in un certo senso sezionata, a volte la parola avvolta, allusiva, «l’abisso di spazio» puškiniano, quella che da sola è metafora dei suoi vari significati. Così la luce – svet, intorno alla quale ruotano infinite variazioni e similitudini. Così, anche, l’aggettivo – sukonnyj, di panno, intorno al quale sono fioriti in russo, come in italiano, molti modi di dire. In italiano: «mettersi nei panni di qualcuno», «i panni sporchi si lavano in famiglia», e così via. Alla fine della prima parte delle Stro11 Lev Losev, Iosif Brodskij. Opyt literaturnoj biografii [Iosif Brodskij. Un esperimento di biografia letteraria], Molodaja Gvardija, Moskva 2006, p. 110. La citazione successiva è a p. 112: «Metafora – kompozicija v minjature». 12 I. Brodskij, Snaruži temneet, vernej – sineet, točnej – černeet [Fuori si fa scuro, anzi – blu, o meglio – nero], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 169.

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fe veneziane13, Brodskij fa coincidere naturalmente la conclusione della giornata con l’inizio della strofa finale: Tjanet razdet’sja, skinut’ sukonnyj pancir’, ruchnut’ v krovat’, prižat’sja k živoj kosti, Viene da spogliarsi, sfilarsi la corazza dei panni, crollare a letto, stringersi a ossa vive,

Qui Brodskij costruisce un ossimoro, perché la corazza, in russo pancir’, è quella dura del guerriero, mentre i panni sono morbidi. In russo sukonnyj, aggettivo derivato da suknó, tela, panno, si usa, come dice il Grande Dizionario della Lingua Russa14, in senso negativo nelle forme «sukonnyj jazyk», linguaggio fasullo, stereotipato, o «s sukonnym rylom (lezt’, sovat’sja, i t.p.) v kalačnyj rjad», letteralmente «farsi largo con un muso di panno nello scomparto delle focacce», cioè avere la faccia tosta – noi diciamo anche «la faccia di bronzo» – di cercare di conquistarsi una posizione alta senza meritarla. Brodskij da giovane era stato vessato dalle autorità. Un certo Ivaščenko aveva scritto che Brodskij era «un pigmeo, che si arrampicava presuntuosamente sul Parnaso»15. Nella «corazza dei panni», in questo caso, Brodskij forse vedeva non solo i vestiti, ma tutta quella scorza di sovrastrutture che assumiamo nella vita di ogni giorno per difenderci dagli altri. L’espressione «sukonnyj pancir’», «corazza di panno», richiama «bronzoj zagorelych dospechov», «le armature abbronzate» di Elegia.

13 I. Brodskij, Venecianskie strofy (1) [Strofe veneziane], VIII strofa, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 63. Il ciclo poetico Strofe veneziane è presente, tradotto per intero, alle pp. 277-281. 14 AA.VV., Bol’šoj tolkovyj slovar’ russkogo jazyka, cit., p. 1288. 15 L’articolo s’intitolava Bezdel’niki karabkajutsja na Parnas [Fannulloni s’arrampicano sul Parnaso], e fu pubblicato sul quotidiano «Izvestija» il 2 settembre 1960. Lo ricorda il poeta, recentemente scomparso, Lev Losev, nel saggio Ščit Perseja. (Literaturnaja biografija Iosifa Brodskogo) [Lo scudo di Perseo. (Biografia letteraria di Iosif Brodskij)], in AA.VV., Peterburgskaja poezija v licach [La poesia pietroburghese attraverso i suoi personaggi], Novoe literaturnoe obozrenie, Moskva 2011, p. 245.

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saggi

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* Il padre del poeta, Aleksandr Ivanovič Brodskij, era fotoreporter, e anche Iosif Brodskij, negli anni in cui, ancora in Russia, si arrangiava per guadagnare come poteva, aveva lavorato per un anno come fotografo professionale. Le fotografie erano una sua idea fissa, perché incarnavano un microscopico monumento all’istante vissuto, al ricordo. Dalla vita di Iosif Brodskij è stato tratto un film, finito di girare proprio sui suoi luoghi, nella sua casa, nell’ottobre 2005, circa dieci anni dopo la sua morte: il regista Andrej Chržanovskij lo ha intitolato: Una stanza e mezzo16. In una recensione che ho letto prima che venisse pubblicata, e che fu scritta in occasione dell’uscita del secondo libro di interviste della slavista Valentina Poluchina17, il regista ricorda «che Brodskij era vicino al genere della fotografia non solo in senso tecnico, ma anche all’idea stessa di questa, e lo dimostra il fatto che firmasse alcuni dei suoi riusciti e numerosi disegni col titolo “Vecchio dagherrotipo”, o “Dagherrotipo ancora più vecchio”». Brodskij era molto sensibile ai raggi solari; lo testimonia Anatolij Najman nel racconto-ricordo Hava Nagila18: A Jalta, in mezzo alla nuda banchina di calcestruzzo, c’era Brodskij, che soffriva per una scottatura. Tutta la superficie del corpo esposta al sole scottava, e era di un rossore insopportabile. Si era bruciato come un rosso dalla pelle chiara, come un cittadino arrischiato e come uno che viva fra il «me ne frego» e il «tanto passerà».

Sapeva capire che ora fosse senza orologio, semplicemente osservando la posizione del sole. Lo aveva imparato da ragazzo, 16 Il titolo completo del film di Andrej Chržanovskij è Poltory komnaty ili sentimental’noe putešestvie na rodinu [Una stanza e mezzo o un viaggio sentimentale in patria], 2008. 17 Valentina Poluchina, Iosif Brodskij glazami sovremennikov [Brodskij attraverso gli occhi dei contemporanei], Zvezda, Sankt-Peterburg 2004. 18 Anatolij Najman, Hava Naghila, dal volume Slavnyj konec besslavnych pokolenij [Fine gloriosa di generazioni ingloriose], Vagrius, Moskva 1999, tradotto nell’antologia di racconti russi contemporanei Metamorfosi, a cura di Annelisa Alleva, Avagliano, Cava de’ Tirreni 2004, p. 113.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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durante le sue famose spedizioni geologiche, fra il 1957 e il 1959 circa, e quando un giorno, nel corso delle ricerche, gli era capitato di vedere nella vetrina della libreria di una cittadina il primo libro di versi di un compagno di viaggio, Vladimir Britanišskij19, aveva deciso di tornare immediatamente a Leningrado a scrivere, perché anche lui voleva pubblicare un libro di versi, e aveva percorso centinaia di chilometri da solo, affidandosi, per orientarsi, solo alla luce del sole. Anche la sensibilità ha a che fare con la fotografia, e di Brodskij fotografo ci racconta ugualmente Najman a chiusura dello stesso racconto20: Alle cinque e mezza di mattina a Feodosia era già afoso. Ci trascinammo con i nostri sacchi attraverso un giardino polveroso verso la stazione degli autobus. Nel bel mezzo di questa c’era la statua scura di bronzo di una bambina nuda, in atto probabilmente di attraversare un abisso in equilibrio su un’asse. Qualcuno, evidentemente i pionieri locali, le aveva annodato al collo una cravatta rossa. «Oh, questo fa al caso mio!», esclamò il mio compagno. «È proprio quello che ci vuole per Il falò». Gettò a terra il sacco, ci frugò dentro, estrasse un apparecchio fotografico FED, e scattò varie foto da diverse angolazioni. Quando ormai l’autobus ci stava sballottando sulla strada per Koktebel’, a un tratto cacciò un urlo selvaggio: «Dentro non c’era la pellicola, dovevo montarla!».

Brodskij, con l’aiuto dei segni grafici, trasforma la fotografia in poesia, ma è come se restassero nella seconda alcune tracce della prima. Il suo uso del tiré assomiglia a uno scatto fotografico, a un eureka, a uno schiocco di dita. E tutto il discorso diretto fra virgolette, o il nominare oggetti come in una formula magica, o il proferire maledizioni, sempre incorniciate fra virgolette, diventa un primo piano, cioè il balzare in avanti di alcune parole rispetto a altre, che restano sullo sfondo. Spesso sono spezzoni di frasi che ancora pungono, bruciano, fanno male. Per esempio nella lirica Postilla alle previsioni del tempo, riferendosi a un viale di statue, Brodskij scrive21: 19

Vladimir Britanišskij, Poiski [Ricerche], Sov. pisatel’, Leningrad 1958. A. Najman, Hava Naghila, cit., pp. 116-117. 21 I. Brodskij, Primečanie k prognozam pogody [Postilla alle previsioni del tempo], in Pejzaž s navodneniem, cit., p. 116. 20

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saggi

Zagovori ljuboe iz nich, i ty skorej vzdochnul by, čem sodrognulsja, uslyšav znakomye golosa, uslyšav čto-nibud’ vrode «Rebënok ne ot tebja» ili «Ja pokazal na nego, no ot stracha, a ne iz revnosti» – melkie, dvadcatiletnej davnosti tajny slepych serdec, […] Se una qualunque si mettesse a parlare, tu sospireresti, più che sussultare, sentendo voci conosciute, sentendo qualcosa come «Il bambino non è tuo» oppure «L’ho indicato, ma per paura, non per premura» – piccoli segreti vecchi di vent’anni, di cuori ciechi, […]

Tolstoj usa lo stesso procedimento quando descrive i suoi personaggi attraverso i vestiti che indossano. A proposito di Anna, la sua eroina, osservata da Kitty, scrive in Anna Karenina22: Teper’ ona ponjala, čto Anna ne mogla byt’ v lilovom i čto eë prelest’ sostojala imenno v tom, čto ona vystupala iz svoego tualeta, čto tualet nikogda ne mog byt’ viden na nej. Adesso capì che Anna non poteva vestirsi in lilla, e che il suo incanto consisteva proprio nel fatto che balzava sempre fuori dalla propria toilette, che una toilette su di lei non riusciva mai a prendere risalto.

In russo questo «balzava fuori» è «vystupala». Tolstoj indica due piani diversi: quello dell’abito, e quello di chi lo porta, che invece di esserne contenuto – viene fuori, spicca. Nella poesia di Brodskij, invece, quello che viene fuori è mentale: parole, che, a distanza di vent’anni, feriscono ancora. Si crea un legame naturale fra la fotografia e la statua, o il monumento. Sono due modi di immortalare, eternare qualcosa: scatto o scultura, istante o persona, oppure entrambe le cose. In russo per il monumento esiste la parola monument, che deriva dal latino monumentum, da monēre, ammonire, ricordare, ma si usa 22 L.N. Tolstoj, Anna Karenina, cit., prima parte, cap. XXII, p. 85 (trad. it. cit., p. 99).

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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più spesso pamjatnik, il suo calco slavo, che deriva da pamjat’, memoria, ricordo. Pamjatnik, al pari di monumentum, è anche il monumento funebre. Quel che attira Brodskij in questo ricordo dell’amico Najman è la cravatta rossa della bambina di bronzo, cioè l’oggetto vivo, mobile, su quello fermo. Ma l’abitudine di farsi fotografare accanto ai monumenti esiste dappertutto, anche in Russia. Per esempio a Pietroburgo, accanto alla statua del cavaliere di bronzo Pietro il Grande, opera dello scultore Falconet, usano farsi fotografare gli sposi, gli innamorati, i turisti. Accanto a un monumento si ha la sensazione che l’effetto della foto sia esaltato, e noi stessi costituiamo quel che per Brodskij rappresentava la cravatta rossa annodata trasgressivamente attorno al collo della bambina nuda. Trasgressiva tre volte, perché la cravatta è un capo di abbigliamento maschile e non femminile; perché di solito è il coronamento dell’abbigliamento di un uomo o di un ragazzo vestito, e non nudo, e perché, rossa, era simbolo di appartenenza a una fede politica. La fotografia e il monumento. Lo scatto, l’impressione sulla pellicola, lo sviluppo fotografico. La fusione del metallo che viene colato bollente dentro il calco. Brodskij aveva, sul lato destro della sua stanza, una porticina, che conduceva nella piccola camera oscura in cui il padre sviluppava le fotografie.

Il monumento e la statua Abitava un modesto appartamento al disopra dei portici che inquadravano la piazza principale della città. Dalla sua finestra poteva vedere il lato posteriore della statua raffigurante suo padre e che sorgeva sopra uno zoccolo basso, in mezzo alla piazza. Giorgio de Chirico, da Ebdòmero23 Cher Monsieur, vous devriez voir ce monument d’architecture […] F. Nietzsche, da Lettre à un professeur24

23 24

Giorgio de Chirico, Ebdòmero, Longanesi, Milano 1971, p. 71. Friedrich Nietzsche, Dernières lettres, Rivage, Paris 1989, p. 56.

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saggi

La poesia, come un quadro, o una fotografia, è fatta di una giustapposizione di piani immobilizzati e immortalati. Di una impressione e di un fissaggio. In Elegia25, il cui titolo spicca per essere in contraddizione con il contenuto della lirica, si parla nella seconda strofa di: ottiskom mnogich tel na vystirannych znamënach. l’impressione di molti corpi su stendardi candidi.

Si viene a creare un gemellaggio fra l’oggetto e l’impronta che lascia impressa: là dove ogni concavità corrisponde alla convessità dell’altro, là dove vi è una precisa coincidenza fra getto e calco, fra stampa e negativo. A proposito di pieni e di vuoti penso al quadro di de Chirico La mattinata angosciosa26, del 1912, nel quale, allo spazio pieno dei neri fumaioli frontali di un treno in primo piano, sono contrapposti i vuoti, sempre neri perché in ombra, dei portici in fuga su una piazza. La poesia è una forma d’impronta lasciata dalla realtà, la sua impronta scritta. Brodskij sembra preferire sempre l’impronta, l’impressione, il riflesso, all’oggetto che la genera. La fotografia è immagine in un’epoca in cui l’immagine che gli altri hanno di te è quasi più importante di quello che sei veramente. Scrive il poeta Sergej Gandlevskij in un saggio del 1997 dedicato a Brodskij27: La dura necessità di vivere «come scrivi» e di scrivere «come vivi» impone all’autore il dovere di osservare un equilibrio mobile fra il se stesso-prototipo e la propria immagine impressa.

Nella poesia Scende la neve, lasciando tutto il mondo in minoranza28: 25

I. Brodskij, Elegija [Elegia], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 110. Paolo Baldacci (a cura di), La matinée angoissante, in De Chirico, Leonardo Arte, Milano 1997, p. 136. 27 S. Gandlevskij, Olimpijskaja igra [Il gioco olimpico], in Id., Najti ochotnika [Trovare il cacciatore], Puškinskij Fond, Sankt-Peterburg 2002, p. 110. 28 I. Brodskij, Sneg idët, ostavljaja ves’ mir v menšinstve [Scende la neve, lasciando tutto il mondo in minoranza], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 94. 26

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Sneg idët, ostavljaja ves’ mir v men’šinstve. V etu poru – razgul Pinkertonam, i sebja nastigaeš’ v ljubom estestve po nebrežnosti ottiska v onom. Scende la neve, lasciando tutto il mondo in minoranza. Questo periodo – per i Pinkerton è una festa, e raggiungi te stesso in ogni essenza per la casualità dell’impronta in essa.

In ottisk è il doppio movimento del calcare, pigiare dentro (tiskat’, tisknut’) e quello del ritirare, del ritrarre, nella preposizione ot, da. Nella lirica Elegia, già citata più volte, è presente il monumento, di cui Brodskij scrive: Po utram, kogda v lico vam nikto ne smotrit, ja otpravljajus’ peškom k monumentu, kotoryj otlit iz tjažëlogo sna. […] La mattina, quando non ti guarda in faccia nessuno, io mi avvio a piedi verso il monumento, venuto fuori da un sonno pesante. […]

Qui Brodskij crea una metafora fra il monumento e il sonno, perché il monumento, immobile, sembra immerso nel sonno. Per fare questo usa il doppio significato di otlit’, fondere, ma anche rinvenire, riprendere i sensi. Brodskij torna a usare questo verbo con il significato di «fondere» anche altrove, per esempio nella sua ultima poesia, Agosto29, scritta nel mese di gennaio del 1996: [...] Zapertye v žaru, stavni uvity spletneju ili prosto pljuščom, čtob ne popast’ vprosak. Zagorelyj podrostok, vybežavšij v perednjuju, u vas otbiraet buduščee, stoja v odnich trusach. Poetomu dolgo smerkaetsja. Večer obyčno otlit v formu vokzal’noj ploščadi, so statuej i t.p., 29

I. Brodskij, Avgust [Agosto], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 226.

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gde vzgljad, v kotorom čitaetsja «Bud’ ty prokljat», prjamo proporcionalen otsutstvujuščej tolpe. [...] Serrate nell’afa, le imposte sono avvinte da un intrigo o solo dall’edera, per non prendere una cantonata. Un adolescente abbronzato, che accorre all’ingresso, ti sfila il futuro, stando lì in mutande e basta. Per questo imbrunisce a lungo. La sera di solito è colata in una forma di piazza di stazione, con la statua ecc., dove lo sguardo, nel quale si legge «Maledetto te», è direttamente proporzionale alla folla che non c’è.

Qui è la sera che si fonde con una piazza intera, con la statua, come se fosse la sera stessa a generarle entrambe. Come se l’immobilità fosse legata a una determinata ora, e fosse contagiosa. La sera ha il suo sosia nella piazza intera, desolata, con una statua al centro, che immaginiamo essere la statua di un Capo nell’atto di arringare, con aria minacciosa, una folla, che però è assente. E’ come se in quest’ultima poesia Brodskij tornasse a casa, nella Russia anni Sessanta della sua giovinezza, e si ritrovasse improvvisamente in un interno italiano dei film che vedeva allora al cinema. L’adolescente che accorre alla porta d’ingresso «in mutande e basta» sembra preso da un film neorealista italiano di Vittorio De Sica, e questa potrebbe esserne la scena iniziale. Il ragazzo semisvestito, – perché fa caldo, è agosto –, immaginiamo venga a aprire la porta a qualcuno che ha suonato il campanello, un ospite al quale toglie, sottrae il futuro, nello stesso modo in cui a un ospite, nell’atto di entrare, si prende, sfilandoglielo, il soprabito, o un pacchetto. Questa è una bella immagine finale di staffetta della vita, il calco finale vita/morte. Nelle già citate Elegie romane30: […] Krikni sejčas «zamri» – ja by totčas zamer, kak etot gorod sdelal ot sčast’ja v detstve. […] Grida ora «stella» – e io mi fermerei subito, come questa città fece dalla felicità nell’infanzia. 30 I. Brodskij, Rimskie elegii, I, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 67. Vladislav F. Chodasevič usa quest’espressione nella poesia Bol’šie flagi nad estradoj [Grandi bandiere sul proscenio], che fa parte della raccolta Tjaželaja lira [La pesante lira], del 1922:

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Come nell’ultima poesia, Agosto, a un’immagine d’immobilità – la piazza – si contrappone quella dell’adolescente in movimento – l’irruzione dell’adolescente all’ingresso –, qui, alla piena, astratta felicità della giovane città di Roma si contrappone un arresto improvviso. Il mese che domina nelle Elegie romane, come sottolinea Losev, è proprio agosto31. Anche in Elegia, all’autore, che cammina in direzione del monumento, si contrappone l’immobilità di questo. Brodskij è sempre attento al riflesso, e tende a dargli corpo. In Strofe veneziane32: VI Šljupki, motornye lodki, barkasy, barki, kak neparnaja obuv’ s nogi Tvorca, revnostno topčut špili, piljastry, arki, vyražen’e lica. Vsë pomnoženo na dva, krome sud’by i krome samoej H2O. No, kak vsjakoe v mire «za», v men’šinstve ostavljaet eë i krovli prazdnaja birjuza. VI Scialuppe, motoscafi, pescherecci, barche, come scarpe spaiate dai piedi del Creatore, pestano con cura guglie, pilastri, archi, della faccia l’espressione. Viene moltiplicato per due tutto, tranne sorte e H2O. Ma, come ogni «per» dell’universo, «[…] Zamri – ili umri otsjuda, / V davno zabytoe rodis’». I versi, tradotti da Caterina Graziadei nel volume a sua cura La notte europea, Guanda, Parma 1992, p. 140, suonano così: «[…] ferma il respiro o muori lontano da qui, / per nascere in cosa da tempo obliata». L’effetto dell’imperativo «zamri» (muori per finta, férmati), accanto a «umri», muori, dà un effetto complessivamente giocoso al verso. 31 L. Losev, nel suo commentario alle poesie di Iosif Brodskij, Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], cit., vol. 2, a p. 373 scrive che «nelle Elegie romane il caldo è legato al cronotopo preferito della “non stagione” […], nella città dalla quale per via del caldo estivo gli abitanti sono partiti. Indubbiamente conta anche il fatto che eponimo del mese dominante nelle Elegie romane sia l’imperatore Augusto, gli anni del regno del quale coincidono con l’età d’oro della poesia romana». 32 I. Brodskij, Venecianskie strofy (2), VI, in Id., Uranija, cit., p. 65.

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lascia in minoranza lei e i tetti il vuoto turchese.

Qui il riflesso della città monumentale viene pestato dalle imbarcazioni che navigano sulla laguna, come scarpe spaiate del Creatore. Il riflesso crea una realtà raddoppiata. Come scrivevo prima, nelle Elegie romane33 regna agosto, il mese in cui tutto è sospeso: Mesjac spuščënnych štor i začechlënnych stul’ev, potnogo dvojnika v zerkale nad komodom, Mese di tende abbassate e di sedie ricoperte di teli, del sosia sudato allo specchio sul canterale,

L’immagine delle sedie ricoperte di teli richiama alla memoria l’atmosfera del teatro cechoviano34, in particolare la commedia Il giardino dei ciliegi (1903), in cui l’ultimo atto si apre così35: Dekoracija pervogo akta. Net ni zanavesej na oknach, ni kartin, ostalos’ nemnogo mebeli, kotoraja složena v odin ugol, točno dlja prodaži. Čuvstvuetsja pustota. Okolo vychodnoj dveri i v glubine sceny složeny čemodany, dorožnye uzly i t.p. Nalevo dver’ otkryta, ottuda slyšny golosa Vari i Ani. Lopachin stoit, ždët. Jaša deržit podnos so stakančikami, nalitymi šampanskim. V perednej Epichodov uvjazyvaet jaščik. Za scenoj v glubine gul. Eto prišli proščat’sja mužiki. Golos Gaeva: «Spasibo, bratcy, spasimo vam». Scenografia del primo atto. Non ci sono né tende alle finestre, né quadri, sono rimasti solo un po’ di mobili, che sono accatastati in un angolo, come per essere venduti. Si sente il vuoto. Accanto all’uscio e in fondo alla scena le valigie pronte, sacchi da viaggio ecc. A sinistra la porta aperta, da cui si sentono echeggiare le voci di Varja e di Anja. Lopachin è in piedi, aspetta. Jaša regge un vassoio coi calici, in cui è versato lo champagne. Nell’anticamera Epichodov imballa una cassa. Dietro la scena, in fondo, un rimbombo. Sono i contadini venuti a congedarsi. La voce di Gaev: «Grazie, amici, vi ringrazio». 33

I. Brodskij, Rimskie elegii, II, in Id., Uranija, cit., p. 68. Brodskij scrisse una poesia, Posvjaščaetsja Čechovu [Dedicata a Čechov], in Id., Pejzaž s navodneniem [Paesaggio con inondazione], cit., pp. 181-182, analizzata da Andrej Rančin nel volume Na piru Mnemoziny [Al banchetto di Mnemosine], Novoe literaturnoe obozrenie, Moskva 2001, pp. 428-442. 35 Anton Čechov, Polnoe sobranie sočinenij i pisem v tridcati tomach [Opere complete in 30 volumi], izd-vo Nauka, Moskva 1978, volume 13, p. 242. 34

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Čechov descrive così la casa della proprietaria Ljubov’ Andreevna Ranevskaja in via di sgombero, e, nel descrivere il senso di vuoto e d’indaffaramento che prelude al commiato, usa due volte il verbo složit’, che significa formare, sommare, riunire, piegare, fare, preparare, ma anche comporre, in senso mortuario: «složit’ ruki na grudi», incrociare le mani sul petto. C’è anche un’espressione precisa: «složit’ golovu», che significa morire. Il senso di morte legato al trasloco fa pensare al significato di pamjatnik, monumento, inteso anche come monumento funebre. Il tempo sospeso, il senso di precarietà, le sedie ricoperte, di cui Brodskij scrive nelle Elegie romane, ricordano «la stanza e mezzo» dei suoi genitori rimasti soli a Leningrado, senza il figlio, in un tempo sospeso di esilio, di stacco, eterno agosto, lontani da lui, daleko ot nego. Ot, «da», è la preposizione dell’assenza, otsutstvie; della separazione, otdelenie; della distinzione, otličie; del distacco, otryv; del rifiuto, otkaz; della repulsione, ottalkivanie; del rutto, otryžka; del diniego, otklonenie; della replica, otklik; della reazione, otzyv; dell’apertura, otverstie; dell’impronta, ottisk; del riflesso, otraženie; del marchio, otpečatok; della disperazione, otčajanie. I genitori Aleksandr Ivanovič e Marija Moiseevna avevano ricoperto di plastica trasparente la seduta e lo schienale delle sedie del tavolo dove si mangiava, nella loro stanza, e nell’altra, la mezza stanza di Iosif, un altro grande telo opaco di plastica ricopriva i suoi libri fino a terra, affinché non si ricoprissero di polvere. Anche lì c’era sentore di precarietà, di un imminente trasloco che non avvenne mai. Solo qualche esempio della presenza insistente della preposizione ot in russo, «da», «a causa di», da sola o come prefisso nominale o verbale, nella poesia di Brodskij e perfino nella critica che di questa si è occupata. Dalla VII delle Strofe veneziane (2)36: Tak obdajut vas bryzgami. Te, kto bessmerten, pachnut vodorosljami, otličajas’ ot voobšče ljudej, golubej otryvaja ot sumašedšich šachmat na torcach ploščadej. 36 I. Brodskij, Venecianskie strofy (2), VII, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 65. L’evidenziazione di alcune parole nei testi in russo è mia.

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saggi

Così vi inondano di schizzi. Quelle immortali, con distacco dalla gente comune, olezzano di alghe, e staccano i piccioni dallo scacco matto sul lastrico delle piazze.

Oppure nel Busto di Tiberio37: […] Golova otrublennaja skul’ptorom pri žizni, est’, v suščnosti, proročestvo o vlasti. […] La testa troncata dallo scultore in vita, è, in sostanza, una profezia sul potere.

Oppure, in Notte, ossessionata dal bianco della pelle38: […] noč’, vsemi fibrami trepešča kak nasekomoe, l’nët, černa, k lampe, č’ja vypuklost’ gorjača, chotja absoljutno otključena. […] la notte, vibrando come un insetto in tutte le fibre, nera, si attacca alla lampada, la cui convessità scotta, anche se è del tutto staccata.

Ancora, in Sera. Rovine di geometria39: Čelovek otličaetsja tol’ko stepen’ju otčajan’ja ot samogo sebja. L’uomo si distingue solo per il grado di disperazione da se stesso.

Scrive di lui il critico pietroburghese Samuil Lur’e40: 37

I. Brodskij, Bjust Tiberija [Busto di Tiberio], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 84. I. Brodskij, Noč, oderžimaja beliznoj, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 94. 39 I. Brodskij, Večer. Razvaliny geometrii [Sera. Rovine di geometria], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 101. 40 Samuil Lur’e, Svoboda poslednego slova [La libertà dell’ultima parola] nel volume Razgovory v pol’zu mërtvych [Discorsi in favore dei morti], AO «Žurnal “Zvezda”», Sankt-Peterburg 1997, p. 235. 38

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Brodskij s samogo načala vybral osobennuju, očen’ redkuju poziciju. V ego rannich stichotvorenijach, kak pravilo, soveršaetsja, podobnyj vychodu v otkrytyj kozmos, proryv za predely dannoj, ischodnoj dejstvitel’nosti; pečal’nyj vostorg, pylajuščij v tekste, svjazan s rezul’tatom, kotorogo on dobivaetsja; etot rezul’tat – sostojanie otresënnosti, otčuždenija ot zavisimostej i privjazannostej, ot konečnych i, sledovatel’no, obrečënnych veščej i čuvstv. Otkaz ot častnostej radi prjamogo kontakta s čem-to neizmerimo bolee važnym. Brodskij fin dall’inizio ha scelto una posizione particolare, molto rara. Nelle sue prime poesie, di regola, avviene, simile a un’uscita nel cosmo aperto, uno sfondamento oltre i confini di una certa realtà di partenza; l’estasi triste, che pervade il testo, è legata al risultato che raggiunge; tale risultato è uno stato di distacco, di estraniamento dalle dipendenze e dagli affetti, da cose e sentimenti finali e, di conseguenza, fatali. Il rifiuto delle cose private per un contatto diretto con qualcosa di incomparabilmente più importante.

Il tema del mobilio ricoperto innalzato a simbolo di instabilità rimanda anche al periodo in cui si faceva un gran parlare di Christo (pseudonimo di Christo Javacheff), nato a Gabrovo nel 1935, l’artista bulgaro esponente del Nouveau réalisme, che dal 1958 in poi diede inizio alla sua produzione più caratteristica, l’impacchettamento dapprima di oggetti piccoli, (Tavolo con oggetto impacchettato, del 1964, Milano, Gall. Apollinaire) e poi via via sempre più grandi, fino a statue, edifici, parti di paesaggio e isole, con veri e propri interventi di land art (Costa impacchettata, 1969, Little Bay, Sidney). Christo aveva pensato di ricoprire i monumenti, come se i monumenti, che non si muovono per definizione, potessero essere imballati e, chissà, magari essere spostati altrove. Oggi questo – che un monumento venga ricoperto, fino a non vederlo più – avviene spesso, per ragioni pubblicitarie, di restauro, o di conservazione. E ripenso anche a statue che sono velate fin dal loro nascere, come quella famosa, considerata il capolavoro dello scultore Stefano Maderno, della martire cristiana Santa Cecilia, che si trova nella Basilica di Santa Cecilia a Trastevere, a Roma, e il cui viso è velato, il corpo riverso e alcune dita rattrappite, perché così, con i segni della sofferenza patita, pare sia stata ritrovata la santa, e lì, proprio nel punto del suo ritrovamento, venne eretta la Basilica che porta il suo nome.

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Brodskij amava del monumento la storia, l’imponenza e la forma. Il Colosseo sembra nascere architettonicamente da un capriccio ossessivo, circolare. La sua immagine nella III delle Elegie romane41 è: I Kolizej – točno čerep Argusa, v č’ich glaznicach oblaka proplyvajut, kak pamjat’ o byvšem stade. E il Colosseo sembra il teschio di Argo, nelle cui orbite scorrono le nuvole, come il ricordo di un gregge passato.

Qui di nuovo viene in mente la pittura di Giorgio de Chirico, con le nuvole fluttuanti, a volte scie di fumo che escono da una locomotiva a vapore sullo sfondo, o che si prolungano da un portico all’altro: La récompense du dévin, Piazza con Arianna, Le voyage émouvant, tutti del 191342. Brodskij diminuisce notevolmente la grandezza delle gallerie del Colosseo, fino a dare loro la dimensione delle orbite del teschio di Argo43. Un altro monumento storico, la Tour Eiffel, non è il punto di partenza di una metafora, ma quello d’arrivo: Brodskij, scrivendo la poesia di ventuno strofe simmetriche La mosca44, simbolo di caducità – che fa pensare a un’altra lirica in quattordici strofe scritte a forma di farfalla, con brevi versi simmetrici, La farfalla45, scritta nel 1972, cioè circa 15 anni prima –, nella V strofa, probabilmente osservando da dietro la silhouette della mosca, esclama: Kak staromodny tvoi kryl’ja, lapki! V nich čuditsja vual’ probabki, 41

I. Brodskij, Rimskie elegii, III, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 67. P. Baldacci (a cura di), De Chirico, Leonardo Arte, Milano 1997, pp. 169; 171; 181. 43 AA.VV., Enciclopedia della Mitologia, Garzanti, Milano 2007, pp. 60-61: «Più celebre pronipote di un altro Argo, che era figlio di Zeus e Niobe, […] Argo aveva secondo alcuni un solo occhio, secondo altri ne aveva quattro, un paio che guardavano in avanti, e l’altro paio indietro. Altre versioni gli attribuiscono, infine, un’infinità di occhi ripartiti su tutto il corpo […]. Ermes uccise Argo. Era, per immortalare colui che l’aveva servita, trasportò i suoi occhi sulle piume dell’uccello che le era consacrato, il pavone». 44 I. Brodskij, Mucha [La mosca], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 96. 45 I. Brodskij, Babočka [La farfalla], in Id., Čast’ reči, cit., vol. 1, pp. 338-342. 42

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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smešavšajasja s pozavčerašnej francuzskoj bašnej – Come sono antiquate le tue zampette, ali! In esse balugina il voile della bisnonna, che si confonde con la torre francese dell’altroieri –

Con un sorprendente virtuosismo immaginativo Brodskij intravede nelle zampette divaricate della mosca, viste dal di dietro, una Torre Eiffel, e il procedimento è opposto a quello del teschio di Argo nel Colosseo: qui, nella poesia La mosca, si parte da un piccolo insetto per arrivare a un monumento storico, che è diventato il simbolo di Parigi. L’elemento francese è già introdotto dal «voile della bisnonna». Entrambi i monumenti sono paragonati a esseri viventi o mitologici, o al loro scheletro, alla loro struttura geometrica. Scrive Losev46 a questo proposito: La farfalla è un simbolo tradizionale dell’anima, che rinasce alla vita. Ne La mosca viene cantato qualcosa d’impossibile nella lirica tradizionale […].

L’attenzione della letteratura russa per il motivo della statua e del monumento ha origini antiche, che risalgono almeno a Puškin, il quale vedeva nella statua il rancore dell’essere umano tenuto in prigionia contro il proprio volere, e il suo desiderio covato a lungo di rompere l’incantesimo dell’immobilità statuaria per vendicarsi coi vivi. Fra i poeti contemporanei, il pietroburghese Aleksandr Kušner ha scritto spesso di monumenti, anche perché San Pietroburgo ne abbonda, ma mettendone in luce un altro aspetto. Kušner, infatti, è polemico con l’assegnazione dei monumenti cittadini, perché trova che molti poeti importanti, troppi, non l’abbiano avuto, mentre la maggior parte sia stata dedicata a personaggi poco significativi, o sconosciuti. In una lirica del 1984, tratta da Nočnoj parad47, scrive: Kak ljubit pamjatniki malen’kij narod! Vse skvery bronzoju ustavleny, granitom. 46

L. Losev, Ščit Perseja, cit., p. 282. Aleksandr Kušner, Kak ljubit pamjatniki malen’kij narod! [Quanto ama i monumenti il popolino!], in Nočnoj parad [Parata notturna], Izd. Aleksandr Kiselev, 47

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Kak blagodaren on! Kakuju vozdaët On čest’ botanikam svoim neznamenitym, Mikrobiologam, pisateljam, vračam! […] Quanto ama il popolino i monumenti! Tutti i giardinetti ingombri di bronzo, di granito. Com’è riconoscente! Quanto rende Onore ai suoi botanici sconosciuti, Ai microbiologi, agli scrittori, ai dottori! […]

Brodskij guarda al monumento in senso oraziano, come il monumento che pochi individui meritevoli si costruiscono da soli in vita attraverso le opere. Scrive Orazio48: Exegi monumentum aere perennius regalique situ piramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo inpotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. […] Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo, più alto del regale squallore delle piramidi, tale da resistere all’erosione delle tempeste e alla furia dei venti, alla fila degli anni senza numero e alla fuga delle stagioni. […]

Ho utilizzato la traduzione interlineare di Traina, nell’introduzione, in cui il vocabolo si˘tu˘s, ūs viene tradotto con «squallore», che forma un ossimoro con l’aggettivo regalis, «regale». Mandruzzato invece lo traduce in versi con «riposo», perché il vocabolo latino può significare questo e quello. Sul Vocabolario della lingua latina49 viene data una terza possibile interpretazione: «situs pyramidum, la mole delle piramidi, Hor., Carm., 3, 30, 2». Brodskij, probabilmente mutuandola da Orazio, sembra fare propria la tesi dell’ossimoro «regale squallore», e cita anche lui New York 2003, p. 62. La poesia è presente nell’antologia Poeti russi oggi, a cura di Annelisa Alleva, Libri Scheiwiller, Milano 2008, p. 174. 48 Orazio, Odi ed epodi, introduzione di A. Traina, traduzione e note di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1985, pp. 336-337. 49 Luigi Castiglioni, Scevola Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Loescher, Milano 2006, p. 1196.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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la piramide in senso negativo, come simbolo di un potere grandioso e nefasto, per descrivere il potere da cui lui stesso era stato perseguitato con la «sekira faraona», la scure del faraone, nell’invettiva del 1991 Lettera per l’oasi50: […] S čego by eto vdrug? Serebrjanyj visok? Oskomina vo rtu ot sladostej vostočnych? Potustoronnij zvuk? No to šuršit pesok, pustyni talisman, v moich časach pesočnych. Pomol ego žestok, krupicy – tjažely, I kosti v nëm belej, čem prosto peremyty. No lučše gryzt’ ego, čem guby ot žary oblizyvat’ v teni osevšej piramidy. […] Che è successo a un tratto? La tempia d’argento? I dolci orientali ti allegano i denti? Il richiamo dell’aldilà? Fruscia la sabbia adesso nella mia clessidra, talismano del deserto. La sua tritatura è crudele, i granelli pesanti, e le ossa dentro più bianche che se fossero state lavate. Meglio comunque morderla, che leccarsi le labbra per l’afa all’ombra della piramide precipitata.

L’espressione «krupicy tjažely», i granelli pesanti, riecheggia la lirica Ricordo51 del 1995, in cui si parla di «krupnozernistyj gravij», ciottoli grossi, consistenti. Aere perennius, «più duraturo del bronzo», è il comparativo usato nel primo verso del carme oraziano riferito al monumento, e anche il titolo di una delle ultime liriche di Brodskij52: Priključilas’ na tvërduju vešč’ napast’: budto lišnich dnej ciferblata past’ otrygnula nazad, do brovej syta krupnym buduščim, čtoby sčitat’ do sta. 50 I. Brodskij, Pis’mo v oazis [Lettera per l’oasi], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 182. 51 I. Brodskij, Vospominanie [Ricordo], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 222. 52 I. Brodskij, Aere perennius, in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 226.

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saggi

Alla cosa dura un guaio è capitato: come se le fauci avessero ruttato i giorni in più del quadrante, piene fino al mento di un grande futuro, per contare fino a cento.

Exegi monumentum53 è anche l’epigrafe di una famosa lirica puškiniana del 1836, che precedette di un anno la morte del poeta: Ja pamjatnik sebe vozdvig nerukotvornyj, K nemu ne zarastët narodnaja tropa, Voznëssja vyše on glavoju nepokornoj Aleksandrijskogo stolpa. [...] Un monumento non fatto con le mani mi sono innalzato, Il sentiero della folla che va a visitarlo resterà arido, Con la testa indomita s’è levato più alto Della colonna di Alessandro. […]

Anche Gogol’, proprio riferendosi all’opera di Puškin e di Žukovskij, e alla poesia russa in genere, crea una similitudine fra opera e monumento in una lettera a Žukovskij del 183154. Brodskij scrive nelle Elegie romane55: Ja ne vozdvig uchodjaščej k tučam kamennoj vešči dlja ich ostrastki. 53 Aleksandr S. Puškin, Ja pamjatnik sebe vozdvig nerukotvornyj [Un monumento non fatto con le mani mi sono innalzato], da Stichotvorenija [Poesie], in Polnoe sobranie sočinenij v 17 tomach [Opere complete in 17 volumi], Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR, Moskva 1948, vol. 3, p. 424. 54 Nikolaj V. Gogol’, Pis’ma 1820-1835 [Lettere 1820-1835], in Polnoe sobranie sočinenij v 11 tomach [Opere complete in 11 volumi], Izdatel’stvo Akademii Nauk SSSR (Puškinskij dom), Moskva 1940, vol. 10, pp. 207-208. Gogol’ scrive: «[…] È rimasto il ricordo, e molto altro ancora, che addolcisce abbastanza la mia solitudine qui: la notizia che la vostra Fiaba sia finita e ne sia iniziata un’altra, il cui solo inizio incantevole mi ha già fatto quasi impazzire. Anche Puškin ha finito la sua fiaba! Dio mio, e che cosa verrà dopo? Ho l’impressione che si stia erigendo un enorme monumento alla poesia russa, terribili graniti sono stati posti alle sue fondamenta, e quegli stessi architetti tirano su sia i muri che la cupola a gloria dei secoli, affinché i posteri s’inchinino e abbiano un luogo dove innalzare le loro preghiere commosse. Quale meravigliosa sorte è la vostra, Grandi Architetti! Quale paradiso preparate ai veri cristiani! E quanto tremendo è l’inferno, preparato per i pagani, i rinnegati e altra gentaglia: loro non vi capiscono, e non sanno pregare. Un giorno mi sarà dato ricevere questa fiaba divina?». 55 I. Brodskij, Rimskie elegii, V, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 69.

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Io non ho eretto una cosa di pietra che si allunghi fino ai nembi per ammonirli.

I due versi, centrali all’interno della strofa, sembrano riferirsi a qualcosa di molto lontano nel tempo, come a Orazio, sicuramente a Puškin – che a sua volta si rifaceva a Orazio – e, insieme, a qualcosa di vicino a Brodskij, come lo erano dal suo appartamento del Greenwich Village le Twin Towers del World Trade Center, abbattute poco meno di vent’anni dopo la stesura di questi versi, quasi sei anni dopo la sua morte, l’11 settembre 2001. La cosa di pietra che sale in alto fa pensare a un grattacielo, cioè a una costruzione moderna, ma anche a una ciminiera industriale come quelle che si ergono a San Pietroburgo – e Brodskij le conosceva, perché, lasciata la scuola a 15 anni, aveva lavorato anche come operaio in fabbrica – oppure a un’antica torre. Scrive Brodskij nella III e nella IV strofa di Aria56: III Rozovyj istukan zdes’ ja sebe postavil. V dvuch šagach – okean, mesto vody bez pravil. Vrjad li tam kto-nibud’, krome solnca, saditsja, kak uspela šepnut’ aeroplanu ptica. IV Čto-nibud’ pro spiral’ v bašne. I pro araba i pro ego seral’. […] III Un idolo rosa mi sono posto qua. 56 I. Brodskij, Arija [Aria], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 66. L. Losev, nelle note, a p. 372 dello stesso volume, scrive che nella IV strofa di questa lirica c’è «un rimando al soggetto dell’opera di Mozart “Il ratto del serraglio” (1782)». La poesia è presente, tradotta per intero, alle pp. 281-282.

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saggi

A due passi – l’oceano, dove non ha regole l’acqua. Difficile che là, a parte il sole, cali qualcuno, com’è riuscito a sussurrare l’uccello all’aeroplano. IV Qualcosa su una spirale in una torre. E su un arabo e il suo serraglio. […]

Questa lirica è un insieme di simboli antichi e moderni, e contiene profeticamente diversi elementi della tragedia del World Trade Center: l’aereo, l’arabo, la torre. Nella III strofa Brodskij parla di istukan, in russo «idolo», meno usato di kumir, che indica un’immagine, di fronte alla quale i pagani s’inchinavano come davanti a una divinità. L’immagine dell’idolo è legata in qualche modo a quella della torre, che segue nella strofa successiva. C’è anche Verdi, nominato precedentemente, nella I strofa. Arija in russo significa solo «aria musicale». E poi una voce da uccellino, il sole, l’ape. La torre fa pensare a un monumento antico. Oppure a un simbolo sessuale. Scrive W.H. Auden nel sonetto La torre57: Questa è un’architettura per gente bizzarra; in questo modo il cielo fu attaccato dai timorosi, così una volta, inconsapevole, una vergine fece la sua verginità palese a un dio.

E anche a una novella: quella tedesca, probabilmente di origine medievale, che in italiano è stata tradotta come Raperonzola58, in cui una strega tiene prigioniera una fanciulla nella sua 57

La strofa di Auden, che qui allude al mito di Danae, in inglese suona così: «This is an architecture for the odd; / Thus heaven was attacked by the afraid, / So once, unconsciously, a virgin made / Her maidenhead conspicuous to a god.» (da W.H. Auden, Opere poetiche, in 2 volumi, traduzione di Aurora Ciliberti, Lerici, Milano 1966, vol. 1, pp. 50-51). 58 AA.VV., Le Grandi Novelle, Salani Editore, Milano 1956, pp. 5-11.

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torre, e chiede ogni sera che questa cali le trecce per consentirle di arrampicarsi fino in cima. L’idea della torre è legata a quella della prigionia, e quindi alla scala, della quale di solito si serve il salvatore. La scala può avere la forma di una spirale, a chiocciola, quando è stretta, o delle trecce, che possono avere la stessa funzione di salvataggio della scala e che, sciolte, hanno la forma della spirale. Inoltre c’è qualcosa, nello stile del poeta, che ricorda la spirale, e questo è stato individuato sempre dal critico Samuil Lur’e59: La poesia del giovane Brodskij si avvolge, accelerando, lungo una spirale che si allarga; una forza centrifuga porta via gli esigui realia individuabili all’inizio; la voce cresce, rimpiangendo un amore appena confessato per la prima volta, e prendendo congedo dalla vita, che è ancora tutta davanti.

Il girare in tondo della spirale in questo caso coincide con il girare intorno all’idolo, quello che Brodskij chiama v krugoverti60, in tondo in tondo, tracciando un programma di stile nella prima strofa di Aria. Così scrive Torquato Tasso a Alfonso d’Este, duca di Ferrara, nel 157761: Se dunque non vuol che le parli, non mi neghi ch’io le scriva, perché questa grazia la dimando per giustizia; e non trovando ch’io le dica il vero, mi faccia tenagliare in un fondo di torre.

Brodskij pensa a questa simbologia, perché scrive subito dopo: «E su un arabo / e il suo serraglio». Il serraglio, seral’, da cui ha origine anche il vocabolo saraj, deposito, granaio, in russo ha due significati62: 59

S. Lur’e, Svoboda poslednego slova [La libertà dell’ultima parola], in Razgovory v pol’zu mertvych [Discorsi in favore dei morti], cit., p. 235. 60 I. Brodskij, Arija [Aria], I strofa, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 66. 61 Torquato Tasso, Le lettere di Torquato Tasso, ordinate da Cesare Guasti, in 5 volumi, Felice Le Monnier, Firenze 1854, volume I, p. 260. 62 AA.VV., Bol’ šoj tolkovyj slovar’ russkogo jazyka, cit., p. 1176.

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1) nei paesi orientali: il palazzo e le sue stanze interne; 2) la parte femminile all’interno del palazzo: l’harem.

In italiano il serraglio è anche la raccolta di animali feroci o selvatici in gabbia, spesso addestrati a compiere vari esercizi, quindi ha in sé ancora di più il senso della prigionia. Yeats dedicò una raccolta, La Torre, a questo tema, e vedeva nella torre il proprio edificio monumentale. Disse a T. S. Moore63: Mi piace pensare a questo edificio come al simbolo permanente della mia opera, facilmente visibile da chiunque vi passi non lontano. Come sai, tutte le mie teorie artistiche dipendono proprio da questo: dalla mitologia radicata nella terra.

* Brodskij aveva un senso monumentale di sé. Aveva sempre parlato di statue, perché di statue è piena la sua città d’origine, la settecentesca neoclassica San Pietroburgo; perché le statue spesso rappresentano figure femminili64, seriali, e perché ne parla spesso Puškin: basta pensare alle statue nel giardino del suo liceo a Carskoe selo, da lui cantate tante volte. Più tardi Puškin, maturo, aveva visto la malia nella statua, e nella sua immobilità – una minaccia, un potenziale guardiano, una spia, un paradossale inseguitore, o semplicemente un insofferentissimo prigioniero. 63 William Butler Yeats, nell’introduzione alle Poesie, Mondadori, Milano 1974, a cura di Roberto Sanesi, p. 47. Il volume presenta una scelta antologica dalle sue varie raccolte, fra le quali The Tower (1928) e The Winding Stair and Other Poems [La scala a chiocciola e altre poesie] (1933). Nella II strofa della poesia Blood and the Moon, tratta da quest’ultima raccolta, a p. 245 scrive: «La torre di Alessandria era un faro, quella di Babilonia / Un’immagine dei cieli in movimento, un giornale di bordo del viaggio del sole e della luna; / E Shelley aveva le sue torri, che egli una volta chiamò le coronate potenze del pensiero. / Dichiaro che questa torre è il mio simbolo; dichiaro / Che la sequenza di questa scala a chiocciola che si leva a spirale e s’avvita è la mia scala ancestrale; / Vi son saliti quel Goldsmith e il Decano, Berkeley e Burke». 64 L. Losev, all’interno del saggio già citato Ščit Perseja [Lo scudo di Perseo], a p. 240 ricorda che a Brodskij «le prime impressioni sulla nudità femminile venivano dalle statue di marmo nel Giardino d’Estate».

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Nella lirica Ricordo del 199565 Brodskij usa un’epigrafe tratta da I fiori del male di Baudelaire, che deve avergli suscitato un ricordo66: Je n’ai pas oublié, voisine de la ville Notre blanche maison, petite mais tranquille.

Tutta la poesia Ricordo di Brodskij si muove sulla falsariga di quella, citata, di Baudelaire, ma allo stesso tempo ne prende le distanze. Come Baudelaire è materico, grondante, sensuale e domestico, preimpressionistico, nel ricordare una casa in cui è stato, così Brodskij, proprio da fotografo, o da grafico, vicino allo stile di Saul Steinberg quando descrive la villa, o a quello di Roland Topor quando descrive il cielo, vede soprattutto le linee, i contorni fisici e mentali degli oggetti del paesaggio e della casa, restandone sempre rigorosamente al di fuori (le tende calate, la luce del lampadario), da osservatore «privo di indirizzo». Centocinquanta anni circa separano le due liriche; la prima, di Baudelaire, descrive un mondo ancora con un residuo di decoro borghese, case piccole e tranquille, dove gli esterni somigliano agli interni, e le statue ereditano dai corpi vivi femminili la vergogna di mostrarsi nude: Je n’ai pas oublié, voisine de la ville, Notre blanche maison, petite mais tranquille; Sa Pomone de plâtre et sa vieille Vénus Dans un bosquet chétif cachant leurs membres nus, Non ho dimenticato, vicino alla città, La nostra casa bianca, piccola ma quieta; La sua Pomona di gesso e la sua Venere vetusta Che in un boschetto stento celavano le loro nudità,

Nella lirica brodskiana, invece, la vita resta fuori della casa, come pura immaginazione/sogno di un istante, che ne sostituisce 65 I. Brodskij, Vospominanie [Ricordo], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 222. La poesia è presente, tradotta per intero, a p. 285. 66 Charles Baudelaire, «Je n’ai pas oublié, voisine de la ville», ne I fiori del male, a cura di Luigi de Nardis, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 190-191.

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saggi

la realizzazione. Le statue di Brodskij appartengono a un mondo scoppiato, senza coordinate che non siano quelle della luce del giorno, e delle linee; basta pensare alle fronde dell’albero, che il poeta vede come scarabocchi, cioè riprodotte, stampate, tracciate in fretta, con approssimazione67: Dom byl pryžkom geometrii v gluchonemuju zelen’ parka, č’i prazdnye statui, kak brosivšie ključi žil’cy, slonjalis’ v allejach, ostavšichsja ot izvilin; kogda zagoralis’ okna, bylo nejasno – č’i. La casa era un salto della geometria nel verde sordomuto del parco, le cui statue oziose, come inquilini che avessero gettato via le chiavi, giravano nei viali resistiti alle volute, e quando si accendevano le finestre, non era chiaro di chi fossero. […]

Le statue qui sono animate per vagabondare senza scopo, come se si fossero trasformate in flâneurs, e avessero letto il saggio di Walter Benjamin Baudelaire e Parigi68: «[…] lo sguardo dell’allegorico, che colpisce la città, è lo sguardo dello straniato. È lo sguardo del flâneur, il cui modo di vivere avvolge ancora di un’aura conciliante quello futuro, sconsolato, dell’abitante della grande città. Il flâneur è ancora alle soglie, sia della grande città che della borghesia. L’una e l’altra non l’hanno ancora travolto. Non si sente a suo agio in nessuna delle due, e cerca asilo in mezzo alla folla». Nella poesia di Brodskij le statue sono sfacciatamente «oziose», contaminate dallo straniamento di chi le osserva, «come inquilini che / avessero gettato via le chiavi», perché hanno cambiato indirizzo, o addirittura rinunciato a cercare qualsivoglia asilo. L’unico tratto da statue classiche che si rispettino, degne di una lunga prospettiva, è quello di preferire i viali dritti alle circonvoluzioni – e qui Brodskij si riferisce proprio alle circonvoluzioni cerebrali, alle tortuosità che rappresentano l’anticlassico per 67

I. Brodskij, cfr. nota 60. Walter Benjamin, Angelus Novus, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1976, p. 149. 68

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eccellenza, – così da essere avvistate da lontano, in fila, come nel primo verso della lirica Postilla alle previsioni del tempo69: Alleja so statujami iz zatverdevšej grjazi, Un viale con statue di fango indurito,

Le statue sono fatte di fango, come la strada. Solo le nuvole in cielo suggeriscono al poeta novecentesco un’immagine domestica70: I zapolnoč’ oblaka, vospitany vysšej školoj rasplyvčatosti ili prosto zadrannosti golov, otečeski prikryvali rychloj perinoj golyj kosmos ot odičavšej summy prjamych uglov. E oltre la mezzanotte nuvole, educate alla scuola della dissolvenza o anche solo delle teste ritte, coprivano paternamente con un piumino molle il cosmo nudo dalla somma impazzita degli angoli retti.

Brodskij qui descrive un cosmo tondeggiante e impalpabile, salvo dall’impazzimento della città tutta costruita, tutta «angoli retti», spigolosa, grazie al tocco paterno e ancora morbido, armonioso delle nuvole «oltre la mezzanotte», dopo, cioè, che quasi ogni rumore nella grande città si è spento. All’interno di una civiltà già follemente deteriorata, sembra dire Brodskij con questa lirica, l’unica cosa bambina e improtetta, bisognosa di una copertura e salvabile, è il cosmo. La poesia appare come una statua, la cui testa staccata parla un’altra lingua, il francese, per bocca di Baudelaire. Risiede tutta in quella testa/epigrafe, che deve aver suscitato in Brodskij, durante la lettura dei Fiori del male, il fugace ricordo di una situazione simile. Insieme con la testa è stato decapitato l’aggettivo notre, nostro, perché qui non esiste più alcun senso di proprietà, neppure quello lirico, di un sogno, neppure all’epoca del sogno. La testa francese ha generato il corpo della poesia, anche 69 I. Brodskij, Primečanie k prognozam pogody [Postilla alle previsioni del tempo], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, pp. 116-117. 70 Iosif Brodskij, cfr. nota 60.

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perché la testa, come il parco, al suo interno è piena di izviliny, di circonvoluzioni cerebrali, cioè, in senso figurato, di tortuosità. Le statue senza casa, prive di chiavi, sono rimaste le sole padrone della scena. * Nel saggio sopra citato Sergej Gandlevskij avvicina il senso della monumentalità di Brodskij a quello di Anna Achmatova, che, altrove, definisce «imperiale»71: Anna Achmatova appariva, oltre a tutto il resto, la sacerdotessa del rituale culturale. Poco tempo fa sulla stampa è stato rilevato un fatto sconcertante: i libri su Anna Achmatova sono più richiesti dei libri della stessa Achmatova – Achmatova è leggendaria. Come è noto, anche Brodskij apprezzava soprattutto l’Achmatova-personalità.

Più avanti di seguito, sempre su Anna Achmatova in riferimento a Brodskij, vessato in gioventù dalle autorità72: Achmatovu otličala skul’pturnaja stat’ i skul’pturnye bytovye reakcii. «Kakuju biografiju delajut našemu ryžemu!» – eto ne otklik staroj ženščiny na nesčast’e, strjasšeesja s molodym čelovekom, a otzyv opytnogo olimpijca na sobytie v žizni olimpijca načinajuščego. Anna Achmatova si distingueva per il portamento scultoreo e per le reazioni scultoree nella vita. «Che biografia stanno facendo al nostro rosso!» – questa non è la reazione di una vecchia donna a una disgrazia occorsa a un giovane, ma l’eco di un olimpionico esperto a un evento nella vita di un olimpionico principiante.

Scrive Brodskij in Il pensiero di te s’allontana, come una cameriera licenziata73: […] Vidimo, nikomu iz nas ne sdelat’sja pamjatnikom. Vidimo, v našich venach nedostatočno izvesti. […] 71

S. Gandlevskij, Najti ochotnika [Trovare il cacciatore], cit., p. 111. Ibid. Cito il passo anche in russo, perché ne sottolineo i sostantivi con il suffisso ot già menzionato in precedenza, che indica una reazione, e allo stesso tempo un distacco. 73 I. Brodskij, Mysl’ o tebe udaljaetsja, kak razžalovannaja prisluga [Il pensiero di te s’allontana, come una cameriera licenziata], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 110. 72

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[…] Evidentemente nessuno di noi diventerà un monumento. Evidentemente nelle nostre vene non c’è abbastanza calce.[…]

Così Brodskij conclude una delle sue ultime poesie, scritta a Roma, all’Hotel Quirinale, nel 1995, A Cornelio Dolabella74: I mramor sužaet moju aortu. E il marmo comprime la mia aorta.

Brodskij sente, alla fine della vita, di trasformarsi progressivamente in statua75. In questo caso la statua coincide simbolicamente con il monumento; ma l’uomo, nell’avvertire l’irrigidimento del marmo dentro le fibre vive del corpo, sente messa a repentaglio la propria vita. Il poeta desidera diventare statua, cioè essere immortalato e diventare immortale, ma allo stesso tempo lo teme. La statua, nella sua poesia, ha un significato simile a quello della stella, e qualche volta compaiono insieme, fin dalle sue prime poesie. * Verso la statua Brodskij aveva sempre avuto un atteggiamento allo stesso tempo deferente e dissacrante, fin da giovanissimo, quando scrisse, circa nel 1962, una lirica dedicata alla morte di Puškin e al suo monumento pietroburghese, Il monumento di Puškin76. In epigrafe cita, scomponendone l’ordine originale, il 74 I. Brodskij, Korneliju Dolabelle [A Cornelio Dolabella], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 224. 75 Roman Jakobson, La statua nella simbologia di Puškin, in Id., Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, traduzione di Caterina Graziadei, Einaudi, Torino 1985, p. 101: «L’epoca in cui Puškin è ossessionato dal tema della statua coincide nella sua opera col periodo in cui il poeta è vistosamente attratto dalla tematica della vita che si spegne, che si estingue, che si frantuma […]». Negli ultimi tempi della sua vita, Brodskij si riavvicinò a Puškin e lo rileggeva. 76 Iosif Brodskij, Pamjatnik Puškinu [Il monumento di Puškin], Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], Inter-Language Literary Associates, Washington-New York 1965, pp. 33-34. Brodskij non riconosceva questo volume, perché era stato pubblicato senza il suo consenso, e giudicava immaturi questi versi, che, infatti, non rientrano nel corpus poetico ufficiale della sua opera. Li cito qui, traslitterati dal russo e in traduzione, solo perché sono indispensabili per completare il mio discorso sul monumento.

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primo verso e mezzo di una poesia di Eduard Bagrickij77 del 1924, dedicata al tema del duello puškiniano. I versi scomposti sembrano riprodurre la caduta del corpo colpito di Puškin sulla neve. Il richiamo letterario crea naturalmente un effetto di eco, simile all’eco del colpo di pistola del rivale d’Anthès: Eduard Bagrickij. koljučij sneg… … I Puškin padaet v golubovatyj Eduard Bagrickij neve pungente… … E Puškin cade nell’azzurrina

Subito dopo inizia la poesia di Brodskij, in cui non si nomina più direttamente la neve, perché ne ha già parlato Bagrickij. L’epigrafe di Bagrickij viene inglobata nella poesia di Brodskij, ne diventa parte integrante; prova ne è il fatto che il nome e cognome del poeta sovietico vengono posti sopra, e non sotto l’epigrafe, come si fa di solito per indicare l’autore. Questi sono i primi versi di raccordo di Brodskij: … I tišina. I bolee ni slova. I echo. Da ešče ustalost’. … Svoi stichi dokančivaja krov’ju, oni na zemlju glucho opuskalis’. Potom gljadeli medlenno i nežno. Im bylo diko, cholodno i stranno. Nad nimi naklonjalis’ beznadežno sedye doktora i sekundanty. Nad nimi zvezdy, vzdragivaja, peli, nad nimi ostanavlivalis’ vetry… Pustoj bul’var. I penie meteli. 77 Eduard Bagrickij, O Puškine [Su Puškin], da Stichi i poemy [Versi e poemi], Chud. Lit., Moskva 1963, pp. 336-337.

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Pustoj bul’var. I pamjatnik poetu. Pustoj bul’var. I penie meteli. I golova opuščena ustalo. … E il silenzio. E non una parola. E l’eco. E poi la stanchezza. … I loro versi finendo con il sangue, si lasciavano cadere a terra sordi. Poi guardavano lenti e inteneriti. Erano sconvolti, freddi, e strani. Sopra di loro si chinavano disperati i dottori grigi e i padrini. Sopra di loro le stelle, frementi, cantavano, sopra di loro si fermavano i venti… Il viale vuoto. E il canto della tormenta. Il viale vuoto. E il monumento al poeta. Il viale vuoto. E il canto della tormenta. E la testa abbandonata stanca.

Qui il sangue scorre e finisce di scrivere i versi del poeta. Dopo aver descritto la caduta di Puškin con l’avverbio glucho, «sordamente» – ricorrente nella poesia giovanile di Brodskij –, e i dottori e i padrini che accorrono a assistere il poeta colpito a morte, Brodskij sposta la sua attenzione sul luogo delle sue fantasticherie: un viale vuoto della sua città, di notte, durante una tempesta di neve; probabilmente quello che conduce al monumento. E conclude: …V takuju noč’ voročat’sja v posteli

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prijatnej, čem stojat’ na p’edestaljach. … In una notte così rivoltarsi nel letto è più piacevole che stare sui piedistalli.

Manca completamente in questa poesia la condanna di Brodskij all’assassino di Puškin, d’Anthès, che è invece comune a quasi tutte le liriche, tante, e canzoni anche recenti, dedicate a questo tema, e che fa parte del cliché sull’argomento: la difesa del poeta contro il male del mondo, che lo schiaccia. Anche Anna Achmatova aveva un atteggiamento simile, neutrale, anticonformista, nei confronti della morte di Puškin78. Qui la posizione umana e quanto mai mortale, creaturale, orizzontale, del riposo al caldo sotto le coperte – che non può non evocare quella di Puškin morente sulla neve – vince sulla visione verticale e impassibile del monumento a Puškin, ma è interessante il movimento mentale di Brodskij, che assomiglia a quello di una cinepresa interna – immaginarsi a letto in una notte di tormenta – ed esterna – camminare in un viale vuoto della città avvicinandosi al monumento di Puškin. In questa poesia è anticipata di tanti anni la visione geometrica del mondo presente anche nella lirica Ricordo, che si fonda sulla contrapposizione orizzontale/verticale. Orizzontale è l’uomo in stato di riposo, o ferito a morte; verticale è la statua. Ma nel tempo la visione geometrica è diventata sempre più essenziale, spigolosa e astratta. Nella chiusa dissacrante si avverte il rifiuto dell’ufficialità, a chiunque questa si riferisca, compreso Puškin, che comunque la incarna. E una sottile identificazione di Brodskij con Puškin, e di Brodskij con la statua in genere79. 78

Anna Achmatova, prefazione al saggio Gibel’ Puškina [La morte di Puškin], in Ead., O Puškine [Su Puškin], Sovetskij pisatel’, Leningrad 1977, p. 110: «Per quanto possa sembrare strano, appartengo a quelli fra i puškinisti che ritengono che il tema della tragedia familiare di Puškin non debba essere dibattuto». 79 Scrive L. Losev nel saggio già citato Ščit Perseja [Lo scudo di Perseo], quando parla del tema della trasformazione dell’animato in inanimato nella poesia Natjurmort [Natu-

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Puškin era il poeta per eccellenza, ma qui Brodskij parla solo del poeta colpito, che cade. Forse Brodskij alludeva qui anche alle sue proprie ferite, alle sue amare vicissitudini personali80. Di Puškin si parla al plurale, a un «essi» si riferiscono i verbi imperfettivi «opuskalis’» (si lasciavano cadere), «gljadeli» (fissavano)81. Come se Puškin fosse incarnato dai suoi versi al punto da diventare, questi ultimi, il soggetto animato. E anche i piedistalli in chiusura sono usati al plurale, come se Brodskij parlasse a un tratto di tutti i monumenti della città, oppure se si riferisse ai tanti monumenti dedicati a Puškin sparsi per la Russia e nel mondo. La cosa I play at Riches – to appease The Clamoring for Gold – It kept me from a Thief, I think, For often, overbold With Want, and Opportunity – I could have done a Sin And been Myself that easy Thing An independent Man – […]82 Emily Dickinson

Iosif Brodskij aveva attaccato sopra la scrivania la fotografia scattata da un suo studente, che ritraeva l’isola della laguna di ra morta] del 1971, (in I. Brodskij, in Id., Konec prekrasnoj epochi [Fine di una bellissima epoca], cit., vol. 1, p. 316), a p. 275: «La collisione drammatica di questa poesia è la trasformazione dell’animato nell’inanimato, della carne in marmo, dell’uomo in cosa». 80 Il tema del sangue e della neve è presente anche in Pesni sčastlivoj zimy [Canzoni di un inverno felice] del 1963, in Ostanovka v pustyne, [Fermata nel deserto], cit., vol. 1, p. 156; Brodskij tentò di tagliarsi le vene per motivi sentimentali nel gennaio del 1964, quindi due anni dopo aver scritto la lirica dedicata alla morte di Puškin. 81 R. Jakobson, nel saggio La statua nella simbologia di Puškin già citato in precedenza nella nota 70, sottolinea, a proposito del racconto pietroburghese in versi Il cavaliere di bronzo (1833) di Puškin, l’idea di vita e l’idea di durata, che sono comunicate proprio dai numerosi verbi imperfettivi riferiti alla statua di Pietro il Grande del Falconet, soggetto del racconto. A p. 103 scrive: «[…] si tratti del Pietro storico o di quello di bronzo, si tratti di una statua immobile o animata, la narrazione non gli attribuisce neppure un solo verbo perfettivo: stojal, gljadel, dumal; stoit, sidel, vozvyšalsja, obraščalos’, nesetsja, skakal (stava, guardava, pensava; sta, sedeva, si levava, si rivolgeva, corre, galoppava)». 82 Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Marisa Bulgheroni, Mondadori, coll. «I Meridiani», Milano 1998, p. 896. La traduzione

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Venezia dove viene scaricata l’immondizia, e sulla quale si accumulano anche i gabbiani da questa attratti. La fotografia è diventata la copertina del suo ultimo libro di versi, So forth83, e l’autore della foto, menzionato sul retro, ha un nome: Stephen White. La foto è in bianco e nero. Probabilmente Brodskij era attratto da quest’immagine di rovina, in mezzo alla quale troneggia una scatola di cartone, carta scritta, strappata, e gabbiani dalle ali spiegate o posati sullo sfacelo nella loro posa impettita, come se niente fosse. La vita sopra la morte, sopra i resti, che cerca cibo in mezzo a questa apocalisse. Anche i gabbiani sembrano di carta, le ali simili a pagine di quotidiani; la fotografia contribuisce a mettere tutto sullo stesso piano, a mimetizzare e a stratificare animali e cose. Viene da pensare a tanti versi di Brodskij, per esempio a questi seguenti, che chiudono Strofe veneziane (2)84, in cui proprio Venezia fa da sfondo alle notazioni dell’autore: Stynet kofe. Pleščet laguna, sotnej melkich blikov tusklyj zračok kaznja za stremlen’e zapomnit’ pejzaž, sposobnyj obojtis’ bez menja. Il caffè si raffredda. La laguna sciaborda, tormentando con una miriade di piccole gibigiane la pupilla offuscata dall’ansia di fissare il ricordo di questo paesaggio, capace di fare a meno di me.

La copertina illustra il «so forth», così via, il bla bla del dopo, i suoi resti. E parla anche di quel gioco continuo alla metamorfosi dei versi di Brodskij: di quell’eterno passaggio dall’animato all’inanimato e viceversa. Dal regno minerale a quello animale, a quello vegetale, a quello scritto. Infatti, come nelle Metamorfosi di Ovidio, proprio la penna, l’inchiostro, l’atto di scrivere o di pronunciare una parola ha il potere di trasformare ogni oggetto italiana di questi versi è: «Io gioco alla ricchezza – per placare / la bramosia dell’oro – / Ciò mi trattiene dal mutarmi in ladro, / perché spesso, sfrontata / con indigenza e caso favorevoli / avrei potuto peccare / ed essere io stessa quella cosa / così semplice, un uomo indipendente –». 83 Joseph Brodskij, So forth [Così via], Farrar Straus Giroux, New York 1996. 84 I. Brodskij, da Venecianskie strofy (2), VIII, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 65.

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in qualcosa d’altro. Nei versi già sopra citati di Venecianskie strofy (2)85, il poeta scrive: Vsë pomnoženo na dva, krome sud’by i krome samoej H2O. No, kak vsjakoe v mire «za», v men’šinstve ostavljaet eë i krovli prazdnaja birjuza. Viene moltiplicato per due tutto, tranne sorte e H2O. Ma, come ogni «per» dell’universo, lascia in minoranza lei e i tetti il vuoto turchese.

Qui l’aria, che è color turchese, si trasforma in turchese, pietra molto diffusa a Oriente, indicato in russo con il sostantivo birjuza, e Venezia aveva un fiorente rapporto commerciale con l’Oriente. La poesia di Brodskij tende a solidificare anche l’aria, a oggettivarsi, a dare sempre alle cose una loro coseità, una loro consistenza. Scrive Valentina Poluchina86: […] the process of reification of all aspects of human activity has in Brodsky the character of a poetic dominanta. Things are not so much opposed to man as directly identified with him. This is realized first of all by a whole variety of semantic transformations in the tropes: the deanimation of the animate and the personification of the inanimate world.

Nella poesia di Brodsky sono ricorrenti le cose in genere, e in modo particolare la scarpa, la suola, il piede, che è l’avanguardia di noi stessi, simbolo dell’inizio di un’azione, d’intraprendenza, con il suo senso del procedere, del passo, ma anche una spia di solitudine. La sua forma verbale preferita sembra l’imperativo, che incarna il comando, l’imposizione, l’autodisciplina, e rimanda alla volontà di potenza, al progetto, in opposizione alla pigrizia, all’inerzia; oppure il gerundio, che indica la simultaneità dell’azione. 85

I. Brodskij, da Venecianskie strofy (2), VI, ibid. Valentina Polukhina, Joseph Brodsky, A poet for our time, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 243. 86

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Spesso è proprio la cosa a dare l’attacco ai versi, la nuda cosa, il dettaglio. Per esempio nelle Elegie romane87: Plennoe krasnoe derevo častnoj kvartiry v Rime. Mogano prigioniero di un appartamento a Roma.

O ancora88: Čerepica cholmov, raskalënnaja letnim poldnëm. Tegola dei colli, arroventata dal mezzogiorno estivo.

La cosa è anche espressa attraverso la sua anatomia, con freddezza scientifica, come abbiamo visto poco fa nel caso dell’acqua, che viene nominata attraverso la sua formula chimica: H2O. Il poeta non teme la fisiologia nel nominare il «leucocito», in russo lejkocit89, la «pupilla» e il «cristallino», zračok e chrustalik90, il «cervello», mozg91, che appare molto spesso nella sua opera, più spesso del sostantivo serdce, «cuore». La cosa è anche intesa come merce, con un modello e una marca. Per esempio il motoscooter Vespa92, simbolo italiano fin dai tempi del dopoguerra; la Lejka93, macchina fotografica di epoca sovietica; la Kodak94, la marca The Gramophone & co.95, che fabbricava i dischi in vinile «His Master’s Voice», non nominata come tale, ma indirettamente, attraverso il simbolo del cane che guarda dentro la tromba di un vecchio grammofono. Il cane, girando insieme col disco, sembra scappare, e l’effetto centrifugo è lo stesso di cui parlava sopra Lur’e a proposito della poesia di Brodskij: 87

I. Brodskij, Rimskie elegii, I, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 67. I. Brodskij, Rimskie elegii, III, in Id., Uranija, cit., p. 68. 89 I. Brodskij, Venecianskie strofy (1), II, in Id., Uranija, cit., p. 62. 90 I. Brodskij, Rimskie elegii, I, in Id., Uranija, cit., p. 68. 91 I. Brodskij, Rimskie elegii, VII, in Id., Uranija, cit., p. 70. 92 I. Brodskij, Rimskie elegii, III, in Id., Uranija, cit., p. 68. 93 I. Brodskij, Rimskie elegii, V, in Id., Uranija, cit., p. 69. 94 I. Brodskij, My žili v gorode cveta okamenevšej vodki [Vivevamo nella città del colore della vodka impietrita], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., p. 212. 95 I. Brodskij, Rimskie elegii, VII, in Id., Uranija, cit., p. 70. 88

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[…] Eto i est’ Karuzo dlja sobaki, sbežavšej ot grammofona. […] Quel che è Caruso per il cane in fuga dal grammofono.

La parola vešč’, cosa, in russo è meno usata di quanto faccia Brodskij nella sua poesia, forse perché la mutuava dall’inglese: thing. Poor thing, poveretto, è un’espressione usata in inglese anche per le persone. Nelle Strofe veneziane96: Za zolotoj češuëj vsplyvšich v kanale okon – maslo v bronzovych ramach, ugol rojalja, vešč’. Dietro le scaglie d’oro delle finestre che nel canale emergono – un olio in cornice di bronzo, uno spigolo di pianoforte, una cosa.

Davanti alla vetrina illuminata di un negozio di antiquariato nel centro di Roma, di notte, Brodskij amava osservare per un istante gli oggetti preziosi, importanti, le cose come puro ornamento, e le apprezzava fino a desiderarle, fino a rimpiangere di non averne. Diceva che non le avrebbe mai avute, perché dietro una cosa c’è un intero stile di vita, una stabilità che a lui mancava. Amava anche i vestiti, che comprava in fretta, anche di seconda mano, e spesso regalava, nuovi o suoi, con generosità, a amiche e amici. L’attributo più ricorrente nella sua poesia per i vestiti – trjap’ë, trjapki, in russo, letteralmente, «stracci» – con un vocabolo un po’ spregiativo preso in prestito dal linguaggio parlato, è smjatoe, cioè spiegazzato, sgualcito, o skomkannoe, ammassato, oppure pomjatoe, sciupato. Per esempio nelle Strofe veneziane97: Iz raspachnutych stavnej v nozdri vam b’ët cikorij, krepkij kofe, skomkannoe trjap’ë. Dalle imposte spalancate ti colpisce le narici la cicoria, il caffè forte, gli ammassati cenci.

96 97

I. Brodskij, Venecianskie strofy (1), IV, in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 62. I. Brodskij, Venecianskie strofy (2), IV, in Id., Uranija, cit., p. 64.

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Oppure, in senso traslato98: Smjatoe za noč’ oblako raspravljaet mučnistyj parus. La nube sgualcita nella notte si distende in una vela di farina.

Quando dà l’aggettivo a una cosa, Brodskij lo attribuisce indirettamente anche a un’altra nominata accanto, o subito sotto. Per esempio in Fiori99 l’aggettivo pomjatyj, sgualcito, sciupato, afflosciato, cadente è riferito all’aria, contagiata dall’aspetto sfatto dei fiori. Qui è presente anche un’altra metafora, forse ancora più interessante, e cioè: i fiori già aperti, nella loro posa, sembrano pronunciare la lettera A. La terza: i fiori, nell’appassire, sembrano urlare, contorcendosi nelle fiamme. Cvety s ich s uma svodjaščim principom očertanij, pridajuščie vozduchu za steklom pomjatyj vid, s vospalënnym «A», […] I fiori con il loro dissennante principio dei contorni, che conferiscono all’aria oltre il vetro un aspetto sfatto, con una «A» bruciante, […]

In Postilla alle previsioni del tempo100, riferendosi ancora alle nuvole: I po nebu razbrosany, kak vešči cholostjaka, tuči, vyvernutye naiznanku i razglažennye. […] E disseminati in cielo, come le cose di uno scapolo, i nembi, rivoltati e stirati. […]

Le cose possono assumere anche un’altra valenza. Possono crescere, diventare monumentali nell’immaginazione. Per esempio in Natura morta101: 98

I. Brodskij, Venecianskie strofy (2), I, in Id., Uranija, cit., p. 64. I. Brodskij, Cvety, in Id., Pejzaž s novodneniem, cit., vol. 2, p. 162. 100 I. Brodskij, Primečan’e k prognozam pogody [Postilla alle previsioni del tempo], in Id., Pejzaž s novodneniem, cit., vol. 2, p. 116. 101 I. Brodskij, Natjurmort [Natura morta], in Id., Konec prekrasnoj epochi, cit., vol. 1, p. 316. 99

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Staryj bufet izvne tak že, kak iznutri, napominaet mne Notre-Dame de Paris. Il vecchio buffet di fuori, e dentro pure, mi fa pensare a Notre-Dame de Paris.

Questi versi risalgono al 1971, e sono stati scritti a Leningrado, quando Brodskij aveva 31 anni e non era ancora mai stato a Parigi, mai in Occidente. Prendiamo una poesia dedicata alla figlia, To My Daughter102 del 1994, che sembra continuare Natura morta, scritta tanti anni prima. La similitudine precedente, fra il vecchio buffet e la Cattedrale di Notre-Dame, diventa qui similitudine fra se stesso e un mobile: Give me another life, and I’ll be singing in Caffè Rafaella. Or simply sitting there. Or standing there, as furniture in the corner, in case that life is a bit less generous than the former.

Oppure, ancora tornando indietro, nel suo personale Exegi monumentum, la V Elegia romana, che risale all’81103: Ja ne vozdvig uchodjaščej k tučam kamennoj vešči dlja ich ostrastki. Io non ho eretto una cosa di pietra che si allunghi fino ai nembi per ammonirli.

Qui «cosa di pietra» sta per il monumento alla propria postumità, ma è anche, semplicemente, uno stadio di trasformazione dell’uomo in qualcos’altro da sé, che continua a rappresentarlo. 102 I. Brodskij, So forth, cit., p. 127. «Dammi un’altra vita, e canterò / nel Caffè Rafaella. O starò / seduto. O in piedi lì, come un mobile nell’angolo, / in caso che la vita sia un po’ meno generosa della precedente». 103 I. Brodskij, Rimskie elegii, V, in Id., Uranija, cit., p. 69.

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Un dito cresciuto a dismisura, come un gigantesco super-io che ammonisce, e che metonimicamente incarna l’uomo stesso, e il suo delirio di onnipotenza. La cosa è l’uomo, quando si guarda dall’esterno; e anche l’oggetto, l’edificio senza nome, il mobile. Siccome l’oggetto, in russo predmet, si trasforma continuamente – sia perché è sottoposto a deperimento, sia perché sottoposto alla visione dei nostri occhi, che lo trasformano come mani al lavoro con l’immaginazione, con la nostalgia, con il ricordo – Brodskij lo chiama cosa. Cosa è la larva, il bozzolo, il rimpasto dell’identità. Scrive in una lirica del 1994104: O esli b prozračnye vešči v gustoj lazuri umeli svoju nezrimost’ deržat’ v uzde i skopom odnaždy sgustit’sja – v zvezdu, v slëzu li – v drugom konce stratosfery, potom – vezde. Oh se le cose trasparenti nell’azzurra densità sapessero tenere la loro invisibilità imbrigliata e tutte rapprendersi un giorno – in una stella, in una lacrima, chissà – dall’altra parte della stratosfera, e poi – dappertutto.

La parola «cosa» fa parte del sogno pervasivo, simultaneo di Brodskij, che tutto equipara e predispone. Con il passare del tempo si sente ancora più proiettato nel futuro, già «di pietra». In A Cornelio Dolabella105, scritta nel 1995: Ja i sam iz kamnja i ne imeju prava žit’. Massa obščego čerez dve tyšči let. Io stesso sono di pietra e non ho diritto di vivere. Una massa di tutto fra duemila anni.

È particolarmente difficile tradurre in italiano questo «massa obščego», letteralmente «massa di cosa comune», massa di tante 104 I. Brodskij, O esli by pticy peli i oblaka skučali [Oh, se gli uccelli cantassero e le nuvole sospirassero], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 210. 105 I. Brodskij, Korneliju Dolabelle [A Cornelio Dolabella], in Id., Pejzaž s navodneniem, cit., vol. 2, p. 224.

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cose comuni. Si ha l’impressione che in questo sogno da stella, da asteroide proiettato in un infinito spaziale e temporale, Brodskij si senta una cosa rappresa dall’insieme di tante minutissime altre, che compongono il materiale comune. Nel sogno sembra esservi un desiderio di fusione universale con la materia stessa, al di là dell’identità, e aldilà del distacco. Otto anni prima, nel 1987, aveva già scritto nella III strofa di Postfazione106: Eto, vidimo, značit, čto my teper’ zaodno s žizn’ju. Čto ja sdelalsja tože čast’ju šelestjaščej materii, č’ë sukno zaražaet kožu bescvetnoj mast’ju. Questo, perciò, vuol dire che ora siamo tutt’uno con la vita. Che sono diventato parte io pure della materia frusciante, il cui tessuto contagia la pelle con un manto incolore.

Viene di nuovo in mente Čechov, quel bellissimo monologo di Nina nel primo atto del Gabbiano107: […] I corpi delle creature viventi sono spariti nella polvere, la materia eterna li ha trasformati in pietre, in acqua, in nuvole, e tutte le loro anime si sono fuse in una sola. L’anima universale sono io… io… In me c’è l’anima di Alessandro Magno, e anche di Cesare, di Shakespeare, di Napoleone, e dell’ultima sanguisuga. In me le coscienze umane si sono fuse agli istinti animali: io ricordo tutto, tutto, tutto, e rivivo in me stessa ogni vita.

106

I. Brodskij, Posleslovie [Postfazione], in Id., Uranija, cit., vol. 2, p. 109. A.P. Čechov, Polnoe sobranie sočinenij i pisem v tridcati tomach [Opere complete in 30 volumi], cit., vol.12-13, p.13. Cito il monologo dall’inizio: «Nina. Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici, i cervi, le oche, i ragni, i pesci silenziosi, che abitano nell’acqua, le stelle di mare, e quelle che non si potevano vedere con gli occhi, – in una parola tutte le vite, tutte le vite, compiuto il loro triste ciclo, si sono spente… Da migliaia di secoli ormai la terra non porta più sopra di sé alcuna creatura vivente, e questa povera luna accende invano la sua lanterna. Sul prato non si svegliano più con un grido le cicogne, e non si sentono i maggiolini nei boschetti di tigli. Fa freddo, freddo, freddo. È vuoto, vuoto, vuoto. Terribile, terribile, terribile». 107

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Nel catalogo della mostra Lo studio americano di Iosif Brodskij è riportata la domanda di un intervistatore su questo argomento108: Intervistatore: «Si può dire che il confino le abbia instillato il sentimento di comunione con la natura?». Brodskij: «Amo la vita di campagna. E non si tratta solo di comunione con la natura. Quando ti alzi la mattina in campagna – e tra l’altro ovunque –, e vai al lavoro, incedi con gli stivali attraverso il campo… e sai che quasi tutta la popolazione del paese a quell’ora sta facendo la stessa cosa… sorge in te il sentimento incoraggiante di essere insieme con gli altri. Il volo di un uccello, l’altezza del volo di un colombo o di uno sparviere, il quadro sarà ovunque lo stesso. In questo senso l’esperienza del confino per me non fu inutile. Mi si rivelarono i fondamenti della vita».

Corrono quasi quindici anni fra la «cosa» intravista dietro la finestra di una casa patrizia, che si rispecchia sul Canal Grande, a Venezia, di cui scrive nelle Strofe veneziane, e la «cosa» delle ultime poesie. Vešč’ è un sostantivo metaforico, che acquista nel tempo, all’interno della poesia di Brodskij, una valenza metafisica. Il poeta contrapponeva la cosa all’horror vacui che lo affliggeva, e al quale reagiva con una sigaretta fra le dita, una locuzione avverbiale nel discorso, una specie di ruggito con la voce nelle pause di silenzio. Nella stessa poesia appena citata, A Cornelio Dolabella, poco oltre: No ničego ne nabrat’, čtob zvonkom izvleč oduševlënnuju vešč’ iz nedr kamenolomni. Ma non c’è numero, per estrarre con una chiamata una cosa animata dalle viscere di una cava di pietra. 2007-2013

108 Katalog ekspozicii «Amerikanskij kabinet Iosifa Brodskogo» [Catalogo dell’esposizione «Lo studio americano di Iosif Brodskij»], Muzej Anny Achmatovoj v Fontannom Dome [Museo di Anna Achmatova nella casa sulla Fontanka], SanktPeterburg 2006, p. 9. L’intervistatore di Brodskij è Sven Birkerts, e l’intervista, fatta nel dicembre 1979 nella casa del poeta a New York, è uscita col titolo L’art de la poésie su «Paris Review», n. 83, 1982; è entrata poi a far parte del volume Bol’šaja kniga interv’ju [Il grande libro delle interviste], col titolo Iskusstvo poezii [L’arte della poesia], pp. 78-113, a cura di V. Poluchina, traduzione dall’inglese di Irina Komarova, Zacharov, Moskva 2007, 5° edizione, cit. a p. 91. È uscita anche in italiano col titolo Intervista a Josif Brodskij, traduzione di Lilla Maione, introduzione di Paolo Mattei, minimum fax, Roma 1996. Qui traduco il brano dal catalogo pietroburghese.

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Poesie di Iosif Brodskij1 a cura di Annelisa Alleva

Elegie romane2 a Benedetta Craveri

I Mogano prigioniero di un appartamento a Roma. Al soffitto un’isola polverosa di cristallo. Le gelosie all’ora del tramonto sono come un pesce, che ha confuso lisca e scaglie. Poggiando sul marmo rosso un piede nudo, il corpo compie un passo nel futuro: vèstiti, forza. Grida ora «stella» – e io mi fermerei subito, come questa città fece dalla felicità nell’infanzia. Il mondo è fatto di nudità e di rughe. In queste ultime vi è più amore che nei visi. Così il tenore all’opera piace anche perché scompare per sempre oltre le quinte. Mentre fissi la notte, con una lacrima la pupilla azzurra risciacqua il cristallino, fino a farlo brillare. E la luna al capezzale sembra una piazza vuota: senza fontana. Ma della stessa pietra. II Mese di pendole ferme (a agosto è scattante solo la mosca nella laringe della brocca secca). I numeri s’incrociano sul quadrante come fari antiaerei che di un serafino vanno a caccia. 1 A eccezione delle Tre Elegie Romane, III, XI e XII, uscite su «Nuovi Argomenti», n. 9, gennaio-marzo 1984, nella mia traduzione (e integralmente nel volume Poesie, Adelphi, Milano 1986, traduzione di Giovanni Buttafava), delle Strofe veneziane uscite su «Nuovi Argomenti», n. 16, ottobre-dicembre 1985, nella mia traduzione (e poi uscite nel volume sopra citato Poesie), della poesia Notte, ossessionata dal bianco della pelle (già uscita nel volume Poesie italiane, Adelphi, Milano 1996, a cura di Serena Vitale), tutte le altre poesie di I. Brodskij qui pubblicate sono uscite sulla rivista «Smerilliana», nn.7/8, 2007, e erano inedite in italiano. 2 I. Brodskij, Rimskie elegii [Elegie romane], in Id., Uranija [Urania], cit., pp. 67-72.

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saggi

Mese di tende abbassate e di sedie ricoperte di teli, del sosia sudato allo specchio sul canterale, delle api, che hanno scordato l’ubicazione delle celle e sono volate al mare a coprirsi di miele. Scendi, rivolo, sul muscolo niveo, cadente, gioca con la stoppa arsa e canuta. A un busto randagio e a ruspe inerti niente è più vicino che un panorama di ruderi. Si riconoscono anche loro del resto nella «r» rotta dell’ebreo; i frantumi li rincolli solo con la saliva, mentre il Tempo con barbaro sguardo abbraccia il forum. III Tegola dei colli, arroventata dal mezzogiorno estivo. Nuvole come angeli – in virtù dell’ombra volante. Così il sampietrino pecca felice con la mutandina celeste dell’amica gambalunga. Io, cantore dell’insignificante, di idee superflue, linee spezzate, mi riparo nelle viscere della città eterna dall’astro che ridusse alla cecità i Cesari (raggi così basterebbero dietro gli occhi per un secondo universo). Piazza gialla; torpore meridiano. Tormenta l’accensione il proprietario di una Vespa. Aggrappandomi con una mano al petto, un po’ in disparte, conto della vita trascorsa il resto. Come un libro, di colpo in tutte le pagine aperto, il lauro stormisce sul parapetto arso. E il Colosseo sembra il teschio di Argo, nelle cui orbite scorrono le nuvole, come il ricordo di un gregge passato. IV Due giovani brune nella biblioteca del marito di quella che fra loro è la più bella. Due giovani ovali si scontrano al crepuscolo su un libro, come se la Musa spiegasse alla Sorte quel che ella ha dettato. Fruscio di carta vecchia, di rosso crêpe de Chine, l’aria è impregnata di ciclamino e lavanda. Cambia la pettinatura; e il gomito – per un istante – è la cima abituata ai cambiamenti di vento. Oh, l’occhio marrone assorbe senza sforzo il frutto del melograno, il mobilio di quel colore, le tende.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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È più tenero e più penetrante dell’azzurro. Ma all’azzurro – non serve niente! L’azzurro è sempre pronto a distinguere il proprietario dalle merci gettate alla rinfusa, (cioè il tempo – dalla vita), per penetrarlo. Così la testa sulla croce si fissa. V Suoni di pianoforte all’ora di pranzo nell’intervallo. Il silenzio del vicolo assopito si cosparge di bemolle, come il pesce delle scaglie, l’intonaco brunito respira, sbattendo le branchie, l’aria fradicia di agosto, e nel cavo bollente della gola, come una perla fredda, rotola Orazio. Io non ho eretto una cosa di pietra che si allunghi fino ai nembi per ammonirli. Il mio futuro, e quello di tutti l’ho appreso dalle lettere, dal colore nero. Così ci si assopisce stretti a una «lejka», affinché, rifrangendo in una lente i sogni, ci si possa riconoscere da uno scatto, al risveglio in una vita più lunga. VI Abbraccia l’aria pura, alla maniera dei rami dei pini: fra le dita – non ce n’è di più che sul vetro, sul tulle. Non torna giù dalle nuvole più blu neppure l’uccellino, e anche noi mica siamo dèi in miniatura. Felici proprio in quanto nullità. Lontananze, vette, ecc., disprezzano la pelle liscia. Il corpo è opposto allo spazio, per quanto tu ce la metta. E sempre per questo, forse, siamo infelici. Appòggiati piuttosto al portico, sfìlati gli stivali, il muro rinfresca l’avambraccio attraverso la camicia; e guarda come tramonta il sole nei giardini e nelle ville, come l’acqua, d’eloquenza precettrice, scorre da fessure rugginose, senza ripetere mai niente, tranne una ninfa, che soffia nell’ocarina, tranne il fatto che è umida e che trasforma il viso in rovina.

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saggi

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VII In queste strade strette, dov’è un ingombro anche il pensiero di sé, in questo groviglio di anse di un cervello che ha smesso di pensare al mondo, dove ora esaltato, ora esausto, fai avanzare a stento nelle piazze le scarpe di fontana in fontana, di chiostro in chiostro – – così la puntina si trascina sul disco, dimenticando di fermarsi al centro, – ci si può rassegnare a una frazione inappariscente di vita, all’attrazione che il passato suole avere per la compiutezza, a una parvenza d’intero. Il suono estratto dalla terra con la suola – è un’aria della loro fusione, una serenata che il tempo intona al futuro. Quello che è Caruso per il cane in fuga dal grammofono. VIII Lambìccati, lingua di candela, sulla pagina vuota, trepida, piegata dalla carbonica emissione, segui – ma senza avvicinarti ! – delle lettere a ruota, in fila dietro un senso, la successione. Rischiari un muro, l’armadio, il satiro nella nicchia tu – più spazio di quel che copre la scrittura! E il tuo nerofumo vola più su delle intenzioni di chi è di queste righe l’autore. Del resto è nel loro accumulo che acquisti un nome; sempre con la penna, a memoria eterna delle tue virgole sottili, sul volgere del millennio a Roma, io traccio le parole «fiaccola», «lucignolo», «lucerna», ma non il punto – e la stanza ha lo stesso aspetto di prima. (Ci prova la penna, ma poco ha composto). Oh, quanta luce dà nelle notti fondendosi con l’oscurità l’inchiostro! IX Guscio di cupole, vertebre di campanili. Le membra di un colonnato sparso, quiete e piacere. Uno sparviero sopra la testa, come la radice quadrata da un cielo senza fondo, come prima della preghiera.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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La luce raccoglie più di quanto abbia seminato: un corpo è capace di celarsi, ma un’ombra non la nascondi. A queste latitudini tutte le finestre sono rivolte a Nord, dove tanto più bevi, quanto meno conti. Nord! Pianoforte che si raggela in un enorme iceberg, vaiolo minuto del quarzo in un vaso di granito, pianura incapace di fermare lo sguardo, le dieci dita in fuga del caro Ashkenazy. Non riesci a far avanzare lo sbarramento. Solo lettere in coorti schiera la penna a Sud. Un sopracciglio dorato si solleva come il tramonto sul cornicione di una casa, e gli occhi dell’amica brillano scuri. X Vita privata. Pensieri laceri, paure. Un piumino d’ovatta più informe dell’Europa. Grazie a un giubbotto sgualcito e a una camicia azzurra qualcosa si riflette ancora nello specchio del guardaroba. Beviamoci un tè, faccia, per schiudere le labbra. L’aria è circondata dalla camera, come da un onere. Le gazze, spiccato il volo, abbandonano la macchia dei pini per uno sguardo gettato alla finestra senza volere. Roma, uomo, carta; la coda di una lettera conclusa come se fosse guizzato un ratto. Così rimpiccoliscono le cose in prospettiva, e qui è impeccabile. Così sul ghiaccio del Tanai, alla vista spariti, tremanti in tutto il corpo, cinta d’alloro secco la tempia, vagano in un tempo aldilà di ogni limite di una grande potenza. XI Lesbia, Giulia, Cinzia, Livia, Michelina. Busto, punto originario, riccioli di pelo, fianchi. Cotta dal cielo, docile alle dita, l’argilla – è carne, che acquista eternità come l’anonimia di un tronco. Voi siete fonte d’immortalità: chi vi ha conosciute nude è diventato catullo, statue, traiano, augusto e altri. Temporanee dee! È più piacevole credere a voi che alle eterne. Gloria a te, ventre tondo, coscia dalla morbida pelle! Bianco su bianco, come di Kazimìr il sogno,

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saggi

una sera d’estate io, il passante più mortale fra le rovine, che affiorano come le costole del mondo, con avida bocca bevo vino da una clavicola; il cielo è più pallido di una gota con un neo dorato. E le cupole guardano in su, come i capezzoli della lupa, che, sfamati Romolo e Remo, s’è addormentata. XII Chìnati, che Ti sussurro all’orecchio una cosa: io sono grato di tutto; della cartilagine di pollo e dello stridio delle forbici, che già mi modellano il vuoto, visto che è – Tuo. Non fa niente se è nero. Non fa niente se in esso non vi sia mano, né faccia, né il suo ovale. Quanto più è invisibile una cosa, tanto più è certo che un giorno sia stata reale sulla terra, e tanto più è – in ogni luogo. È vero che sei stato il primo a cui è successo? Si regge attaccato al chiodo solo quel che non è divisibile per due senza resto. Sono stato a Roma. Inondato di luce. Ero come può solo sognare un relitto! Sulla mia retina – una monetina d’oro. Basterà per tutto il tempo del buio fitto. 1981

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Strofe veneziane (1)3 a Susan Sontag

I Palo bagnato del pontile. La china cavalla da tiro al crepuscolo scrolla la criniera, resistendo al sonno. Le cordiere di violino delle gondole dondolano, tirando fuori silenzio a turno. Quanto più fiducioso è il moro, tanto più nera di parole è la carta, e la mano, per allungarsi a un collo di bottiglia troppo corta, stringe al viso i merletti del fazzoletto di pietra che Jago ha sgualcito fra le dita. II La piazza è deserta, le rive desolate. Più facce alle pareti, che dentro il caffè: una fanciulla in pantaloni alla turca suona qualche nota sul liuto a un Mustafà. Oh, diciannovesimo secolo! Nostalgia d’oriente! La posa dell’esule sulla roccia! Come i leucociti nel sangue, ricorre la luna nelle opere dei cantori, consumati dalla tubercolosi, che scrivevano fosse per amore. III Di notte qui non c’è niente da fare. Né la dolce Duse, né arie. Batte contro la diabase un solitario tacco. Sotto il fanale la vostra ombra, come uno spaurito carbonaro da voi si stacca e espira vapore. Di notte chiacchieriamo con la nostra eco, che investe di caldo l’acquario risonante, vuoto, di marmo, dal vetro appannato. IV Dietro le scaglie d’oro delle finestre che nel canale emergono – un olio in cornice di bronzo, uno spigolo di pianoforte, una cosa. 3 I. Brodskij, Venecianskie strofy [Strofe veneziane], in Id., Uranija [Urania], cit., pp. 62-65.

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saggi

Ecco quel che nascondono all’interno, tirata la tenda: un sarago! Un cefalo, che sbatte le branchie senza posa! L’incontro imprevisto sul soffitto con una divina che si è tolta tutto di dosso ti fa girare la testa, e gli ingressi, dal palato infiammato per l’angina di una lampadina, scandiscono «a». V Come agitavano la coda qui! Come si dimenavano! Come, volteggiando, in fregola, avanzavano obliqui nell’ovale dello specchio! La scollatura bianca, profonda sotto il domino, come turbava! Come lo scirocco – la laguna. Come si mischiavano gonnelle e pantaloni qui, in mezzo alla strada, in zuppe! Dove sono tutti loro adesso – queste maschere, pulcinella, saltimbanchi, cappe? VI Così si oscurano all’opera i lampadari; così calano a notte di volume da sembrar meduse le cupole. Così si restringe la strada, come viscida anguilla, e la piazza somiglia a una sogliola. Così raccoglie i pettini, scivolati da pettinature alte femminili, per le figlie, Nereo, senza toccare nelle calli la perla gialla delle lanterne. VII Così tacciono le orchestre. La città è abituata al tentativo dell’aria di trattenere la nota del silenzio, e i palazzi stanno come leggii spostati, illuminati a stento. Solo il falsetto di una stella fra le linee telegrafiche è là, dove dorme profondamente il cittadino di Perm’*. Ma l’acqua applaude, e la riva è – come brina, posata su un do-re-mi. VIII E un allievo di Lorrain, piegato il ginocchio, spingendo le lettere in fin di riga a mare, *

S. Djagilev [N.d.A.].

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

si sforza di preservare la mente dal beccheggio nonostante il bere. Viene da spogliarsi, sfilarsi la corazza dei panni, crollare a letto, stringersi a ossa vive, come a uno specchio infuocato, dal cui amalgama la tenerezza con un dito tu non puoi raschiare via. *

Strofe veneziane (2) a Gennadij Šmakov

I La nube sgualcita nella notte si distende in una vela di farina. Per uno schiaffo del fornaio la guancia opaca acquista colorito, e divampano le collane nella bottega dell’usuraio. Vanno le barche della spazzatura. Bastoni lungo le palizzate di scolari in corsa, i raggi del mattino battono a turno su ciocche di alghe, arcate, colonne, mattoni. II Albeggia a lungo. Il marmo nudo, freddo, dei fianchi della nuova Susanna, durante l’immersione sott’acqua è accompagnato dallo stridio delle cineprese dei nuovi vecchioni. Due-tre colombi pesanti, staccati da un capitello, in volo si trasformano in gabbiani: è il fio per volare sull’acqua, o – la calunnia di un letto, assonnato, al soffitto. III L’umidità striscia in camera da letto, stiracchia le braccia la bella addormentata, sorda a tutto. Così per lo scricchiolio di un ramo le pernici si rannicchiano, e gli angeli – per un peccato. Ogni respiro fa oscillare la tela sottile alla finestra. Una schiuma di seta pallida avvolge, leggera, le sedie e lo specchio, locale via d’uscita di vetro della cosa dal suo essere prigioniera.

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saggi

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IV La luce vi dischiude l’occhio, come conchiglia; quella auricolare è inondata da uno scampanare di campane. Mandrie di cupole s’avviano all’abbeveratoio a sorseggiare l’increspatura fluviale. Dalle imposte spalancate ti colpisce le narici la cicoria, il caffè forte, gli ammassati cenci. Nella gola del drago un San Giorgio d’oro affonda, come nell’inchiostro, la lancia. V Giorno. La massa imponderabile di azzurro stretto in un quadrato, lasciando nelle retrovie tutto il mondo – tutta l’azzurità! –, si protende con tutto il petto al vetro, come alla feritoia di un cingolato, e per vinta si dà. La muta arruffata delle nubi si scalmana a inseguire il ladro col colbacco di fuoco, e da nord-est promette vento. La città ha l’aspetto di un mucchio di porcellana e di cristallo infranto. VI Scialuppe, motoscafi, pescherecci, barche, come scarpe spaiate dai piedi del Creatore, pestano con cura guglie, pilastri, archi, della faccia l’espressione. Viene moltiplicato per due tutto, tranne sorte e H2O. Ma come ogni «per» dell’universo, lascia in minoranza lei e i tetti il vuoto turchese. VII Così escono dalle acque, stordendo con la levigatezza della pelle la riva scabrosa, con un fiorellino in mano, scordando il vestito, lasciando che sguazzi lontano. Così vi inondano di schizzi. Quelle immortali, con distacco dalla gente comune, olezzano di alghe, e staccano i piccioni dallo scacco matto sul lastrico delle piazze.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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VIII Scrivo queste righe seduto su una sedia bianca a cielo aperto, in giacca e basta, d’inverno, brillo, contraendo i muscoli facciali con frasi in lingua materna. Il caffè si raffredda. La laguna sciaborda, tormentando con una miriade di piccole gibigiane la pupilla offuscata dall’ansia di fissare il ricordo di questo paesaggio, capace di fare a meno di me. 1982

Aria4 I Qualcosa da un’altra opera, tipo Verdi. Ce l’hai a portata? Deve girare in circolo. Su chi non importa. In una lingua da uccelletto difficile da imitare. E che sia senza concetto. II Presto ne farò cinquanta. Fuori si agita la spazzola del cespuglio rapato. Fuori cambia aspetto, come i tratti dei ghiacciai, la garza delle cliniche celesti. Allora, sono in solitudine? O beato fra le donne? III Un idolo rosa mi sono posto qua. 4

I. Brodskij, Arija [Aria], in Id., Uranija, cit., vol. 2, pp. 66-67.

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saggi

A due passi – l’oceano, dove non ha regole l’acqua. Difficile che là, a parte il sole, cali qualcuno, com’è riuscito a sussurrare l’uccello all’aeroplano. IV Qualcosa su una spirale in una torre. E su un arabo e il suo serraglio. È una donna rara se non farà peccato. L’idea non dev’essere chiara. Se in gola hai il raschio, puoi arrischiarti in una danza. V Il giorno è volato. L’ape bisbiglia in polacco «zbrodnia»5. Meglio gridare ieri, che oggi. Oggi gridiamo di protesta perché, dato alle suole il passo, la sorte, senza pietà per i pretesti, pesta nel nostro passato. VI Ah, quando ha perso il filo, la tela dice «tarlo». Non far cadere lo sguardo più giù di un’orma di scarpa. Il paesaggio ha i confini di una tasca a rovescio. Il canto di un orfano fa contento il melomane. 1983-1987 5

«Zbrodnia» in polacco significa delitto.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

Notte, ossessionata dal bianco della pelle6. Dalla sventata reseda, che graffia l’imposta, fino alla stella intagliata che palpita appena, la notte, vibrando come un insetto in tutte le fibre, nera, si attacca alla lampada, la cui convessità scotta, anche se è del tutto staccata. Dormi. Con le tue candele, venticinque, preda di un sonnolento balbettio, riuscendo a non estinguere i raggi, rifranti contro i tuoi tratti, tu fioca t’illumini da dentro, mentre, con le labbra alla spalla scendendo, io, come se leggessi un libro davanti a te, sesamo sussurro scandendo. 1984

Elegia7 È passato circa un anno. Sono tornato sul luogo della tenzone, da quelli che hanno imparato a vedersela col temperino senza protezione oppure – quando va ancora bene – col sopracciglio sorpreso dei tipi di colore simile all’imbrunire, o al sangue rappreso. Qui ora trafficano spoglie delle tue caviglie, armature abbronzate, il sorriso spento, il terribile pensiero delle riserve fresche, il ricordo degli inganni, l’impressione di molti corpi su stendardi candidi. La folla va crescendo. Le rovine sono un tipo di architettura tosta e la differenza fra cuore e fossa non è grande – non al punto da aver paura che un giorno, come uova cieche, ci scontreremo ancora.

6 I. Brodskij, Noč’, oderžimaja beliznoj [Notte, ossessionata dal bianco della pelle], da Id. Uranija [Urania], cit., vol. 2, p. 94. 7 I. Brodskij, Elegija [Elegia], da Id. Uranija [Urania], cit., vol. 2, p. 110.

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saggi

La mattina, quando non ti guarda in faccia nessuno, io mi dirigo a piedi verso il monumento, venuto fuori da un sonno pesante. E su questo è tracciato: Comandante. Ma si legge come: «plorante». E a mezzogiorno come «obliante». 1985

Fiori8 I fiori con il loro dissennante principio dei contorni, che conferiscono all’aria oltre il vetro un aspetto sfatto, con la «A» bruciante, che appare ora più gutturale, ora più sibilante, ora solo tinta di rossetto, – fiori che vi catturano l’anima ora avidi e apertamente, ora come labbra sbiadite, che sussurrano «probabilmente». Quanto più si avvicina il corpo alla terra, tanto più gli interessa come sono fatte queste cose, da chi in un tessuto dell’altro mondo sono state ritagliate senza lame con avvedutezza – quanto più incorporee, tanto più animate, certo, come la variante di un viso, libero da una smorfia di sincerità, o di una stella che si è staccata dall’amorfo. Stanno avanti a noi, fuoriuscite da lì, dove non c’è niente, tranne la possibilità d’incarnarsi in non importa che – nella goccia sul fondo di un recipiente, nei fiammiferi, nel segnale di un marconista, in uno scampolo di picchè, nei fiori; ancora assorti nel ricordo di «sesamo», ci guardano con occhi che non vedono. Fiori! Siete finalmente a casa. Nel vostro futuro privo di falsità, nel vetro insipido dei vasi corpulenti, dove bisogna rosseggiare al tempo dovuto, perché oltre è solo il disfacimento delle molecole, l’odore, detto altrimenti, o – sbiancare, sussurrando «pistillo, stame, stelo», facendo impazzire l’intonaco, oltrepassando il mobilio. 1990

8

I. Brodskij, Cvety [Fiori], da Id. Uranija [Urania], cit., vol. 2, p. 162.

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la luce. il monumento e la statua. la cosa

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Dedica su un libro9 Quando cade il vento e le foglie della borsa da pastore frusciano ancora per inerzia o grazie alla quiete – proprietà del verde – e l’occhio indugia sull’arabesco di una carta da parati, su una data del calendario, su un’obbligazione, cosparsa di colossei di piccoli zeri, tu – se sei stato concepito sotto le urla nemiche, una canzone di marinai, il timoniere che impreca – distinguerai nel silenzio la penna che fruscia, aiutando l’erba verde a scandire «tutto finito». 1991

Ricordo10 Je n’ai pas oublié, voisine de la ville Notre blanche maison, petite mais tranquille. Charles Baudelaire

La casa era un salto della geometria nel verde sordomuto del parco, le cui statue oziose, come inquilini che avessero gettato via le chiavi, giravano nei viali, resistiti alle volute, e quando si accendevano le finestre, non era chiaro di chi fossero. Evidentemente il fruscio del fogliame, sommando le varianti del movimento dato dal caso (di solito la sera), tracciava scarabocchi, e, a giudicare dal lume, bastava per arroventare il tungsteno. Le tende erano calate. La ghiaia consistente, scricchiolando con cautela, confermava non la presenza di un estraneo, ma il trionfo di una cronica assenza d’indirizzo, passata da lui al circondario. E oltre la mezzanotte nuvole, educate alla scuola della dissolvenza o anche solo delle teste ritte, coprivano paternamente con un piumino molle il cosmo nudo dalla somma impazzita degli angoli retti. 1995 9 I. Brodskij, Nadpis’ nad knigoj [Dedica su un libro], da Id. Uranija [Urania], cit., vol. 2, p. 154. 10 I. Brodskij, Vospominanie [Ricordo], da Id. Uranija [Urania], cit., vol. 2, pp. 222-223.

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Annelisa Alleva fotografata nella stanza di Iosif Brodskij, a Leningrado, dal padre del poeta, Aleksandr Ivanovič Brodskij, durante l’inverno 1981-1982.

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Ricordi e un’intervista

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Proust e Cvetaeva (ricordo di Iosif Brodskij)

Non avevo mai letto i suoi versi, ma ne conoscevo il nome. Era un assolato pomeriggio di aprile del 1981. Entrai dal cancello di Villa Mirafiori, nuova sede delle Facoltà di Lingue e Filosofia, incedendo a fatica sulla ghiaia con la mia vecchia Bianchi nera da uomo. Portavo stivaletti bassi alla Peter Pan, jeans celesti, camicetta rosa dal collo tondo, giacca di lana grigia spigata. Mi sedetti a un banco. Dopo un po’ lui entrò. Gli studenti erano già tutti seduti, in attesa. Al primo banco sedeva la bella lettrice pietroburghese, Galja, che aveva portato con sé la figlia piccola per l’occasione. Iosif Brodskij entrò con decisione: portava una giacca jeans stretta dietro, all’altezza della vita, da un elastico; pantaloni jeans, e un paio di scarpe robuste. La piccola aula sembrò riempirsi di lui. Il professore lo introdusse, raccontando chi era l’ospite e dove insegnava: lui recalcitrava, aveva da ridire su tutto, si mostrava infastidito. A un certo punto il professore, citando i poeti preferiti di Brodskij, si fece vanto di aver appena fatto un corso monografico su Baratynskij. E Brodskij, di rimando, se ne uscì con un: «Bisognava farlo prima!», che ai miei orecchi suonò assai screanzato, ma suggestivo. Stava screditando il professore, nel pieno esercizio dei suoi poteri, agli occhi dei suoi stessi studenti. Non era mai capitato niente di simile, ma io fui istintivamente dalla sua parte. Il professore a quel punto abbreviò la presentazione; Brodskij si sedette in cattedra per leggere un saggio che aveva scritto per una nuova edizione dell’opera di Marina Cvetaeva1. Prima di 1

Iosif Brodskij, Ob odnom stichotvorenii (Vmesto predislovija) [Su una poesia (Al posto di un’introduzione)], in Marina Cvetaeva, Stichotvorenija i poemy v pjati tomach [Poesie e poemi in cinque volumi], Russica Publishers, Inc., New York 1980, vol. 1, pp. 39-80. Il saggio, tradotto da Serena Vitale, venne poi pubblicato in italiano col titolo Nota in calce a una poesia nel volume di saggi Il canto del pendolo, trad. it. dei saggi in inglese di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1986, pp. 197-263.

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ricordi e un’intervista

cominciare, aveva proposto di rivolgersi a noi in inglese, ma il professore lo pregò di leggere in russo. Mi colpì la sua erre dura, ebraica, quando cominciò a parlare in russo. Quella erre aveva qualcosa di duro e allo stesso tempo sofisticato, ma lui non la esibiva volentieri. Mi colpivano i suoi lineamenti affilati, gli occhi azzurri. Lo fissavo attenta. A metà articolo gli fu chiesto di smettere: leggeva in fretta, in un linguaggio piuttosto difficile. Finita la lettura, venne il turno delle domande. Lui ripeté in tono benevolo, camminando su e giù davanti a noi con le braccia agganciate dietro la schiena: «Domande. Forza con le domande. Basta che non siano stupide». Io morivo dalla voglia di fargliene una, che in quel momento mi premeva più delle altre: come aveva fatto Marina Cvetaeva a rinunciare alla vita, o meglio, come fa un poeta a rinunciare alla vita, cioè, in sostanza: come si fa a diventare poeta. Ma non osai. Una compagna, seduta accanto a me, gli domandò qualcosa sulla prosa di Marina Cvetaeva, e lui giudicò quella domanda straordinaria. Citò Proust, il suo ritorno all’infanzia attraverso la scrittura, proprio come nel caso della poetessa. Disse che da giovane, intorno ai ventitré anni, aveva letto il suo Poema della montagna e ne era rimasto folgorato, convinto di trovarsi davanti a un gigante della letteratura. Raccontò anche di aver letto la poesia Novogodnee (Per l’anno nuovo), da lei scritta in occasione della morte di Rilke, e di averle invidiato il fatto che avesse un interlocutore morto sul quale scrivere: lui all’epoca non ne aveva ancora nessuno. Poi disse che quando un poeta gli piaceva molto, sempre da giovane, provava a scrivere alla sua maniera, nel tentativo di superarlo. Il pubblico si mostrava attento, e si era creato un clima familiare. Brodskij ogni tanto incespicava nel parlare, e nei momenti d’incertezza emetteva un prolungato «ahhh», come fanno gli americani, e come succedeva con le vecchie radio, quando si cambiava stazione, e si creava un interregno sonoro fra un canale e l’altro. A un certo punto la bella lettrice esclamò: «Stichi», i versi! E lui l’accontentò. Lesse dei versi scritti in Italia, dei quali riuscii a distinguere poco. Si capiva che era nervoso. A un tratto gettò istintivamente a terra il mozzicone della sigaretta appena fumata, la pestò, e si guardò attorno con aria circospetta, come se temesse di essere rimproverato.

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proust e cvetaeva

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La lezione finì. Più di uno si avvicinò al tavolo con il suo libro di versi pubblicato di recente in italiano, per avere un autografo. Io avevo con me, al momento, solo un’edizione sovietica delle poesie di Marina Cvetaeva in due volumi. Lui era intento a firmare le copie che gli porgevano del suo libro. L’altissimo lettore polacco gli rivolse una domanda, mentre si avvicinava a lui col volume aperto. Anch’io ero vicina alla cattedra, ma il mio turno sembrava non arrivare mai. Notai che aveva fatto passare avanti qualcuno in fila dopo di me, e feci avvertire la mia presenza con un gesto. Lui fece con la mano cenno di aspettare, dandomi a intendere di avermi vista. Scrisse in russo sul libro, con un certo sprezzo: «A Annelisa Alleva da Iosif Brodskij, che non ha niente a che fare con questo libro». Gli domandai qualcosa sul rapporto fra Proust e Cvetaeva, al quale aveva accennato. Del rapporto fra Proust e Cvetaeva era scritto tutto nell’articolo che lui aveva appena letto in parte; di quest’ultimo aveva una sola copia a casa, ma me l’avrebbe data volentieri. Avrei potuto chiamarlo a casa, ma dove appuntare il numero? Gli suggerii di farlo sul libro; ve lo appuntò per lungo, sul bordo esterno di una pagina, con l’inchiostro nero. Il volume sovietico aveva una carta molto assorbente, che bevve dal pennino rapido, ma premuto con forza, di una Pelikan economica, verde col cappuccio nero. Gli domandai a che ora l’avrei trovato a casa: «La sera, la mattina, il pomeriggio, sempre», mi rispose. In seguito scoprii che nel saggio non si parlava del rapporto fra Proust e Marina Cvetaeva. Ma era troppo tardi. (2010)

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Ulica Pestelja, dom 27, kvartira 28 (ricordo dei genitori di Iosif Brodskij)

I esli prizrak zdes’ kogda-to žil, to on pokinul etot dom. Pokinul. E se un fantasma qui un tempo ha abitato, ora ha abbandonato questa casa. Abbandonato.1 Iosif Brodskij

Era una domenica pomeriggio dei primi di ottobre, una bella giornata, quella del mio arrivo a Leningrado. Mi ero informata di un autobus che arrivasse fino al Litejnyj Prospekt. Vidi per la prima volta la Nevà, la piazza Dvorcovaja, la colonna di Alessandro, la Prospettiva Nevskij. Percorsi a piedi tutto il Litejnyj. Di lì, subito dopo il ristorante Volchov e una lavanderia, sulla destra, arrivata all’angolo con la via dedicata al colonnello decabrista Pestel’, scorto il numero ventisette – bianco sul nero delle targhette di ferro smaltato appena in rilievo di Leningrado –, e l’elenco, in alto a sinistra, dei numeri degli appartamenti interni, avevo fatto cigolare, nell’atto di entrare, la porta a molla del portoncino, che mi si era richiusa alle spalle sbattendo impietosamente rauca come molte altre porte d’ingresso. A Leningrado le porte a molla latravano in modo particolarmente lamentoso, e poi sbattevano ricongiungendosi senza grazia. Dopo due rampe di una scala stretta lungo la quale i piedi producevano uno strano scalpiccio, come se da tempo immemo1I

due versi qui da me tradotti sono tratti dalla poesia Ja obnjal eti pleči i vzgljanul [Quelle spalle ho abbracciato e ho visto il mondo], nella raccolta Ostanovka v pustyne [Fermata nel deserto], ora in Iosif Brodskij, Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi], izd-vo Puškinskogo Doma, Sankt-Peterburg 2011, vol. I, p. 153; la poesia è stata tradotta in italiano, col testo a fronte, in Id., Fermata nel deserto, a cura di Giovanni Buttafava, Mondadori, Milano 1979, pp. 18-20.

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ricordi e un’intervista

rabile vi fosse rimasto qualche calcinaccio, si arrivava, sulla destra, davanti a una grande porta di legno dipinta di verde chiaro, colore anche di qualche facciata sul lungonevà, che ben si addice alla caligine pietroburghese. I campanelli vi erano distribuiti sopra in modo disuguale, improvvisato, pazze mammelle scure dal capezzolo bianco. Sopra ogni campanello un cognome. Sulla destra un cartellino scritto a mano indicava “K Brodskim”, dai Brodskij. Era al tempo stesso un campanello e una freccia, l’invito a una deviazione. Sottintendeva il labirinto? Il dativo plurale addolciva il nome ebreo? Nella dualità volevano difendersi dalla pluralità? Suonai; venne ad aprirmi una donna. «I Brodskij sono in casa? – No, sono usciti a fare una passeggiata. –Verso che ora posso trovarli? – Provi a ripassare fra un’ora. Che cosa devo dire? – Sono un’italiana, ma loro non mi conoscono. – Va bene». Primo imperdonabile errore: dire che ero italiana. Era vietato, per gli stranieri, mettere piede in una casa in coabitazione, una kommunal’naja kvartira, detta anche, più familiarmente, kommunalka. Ai russi era proibito frequentare gli stranieri. Ma io non lo sapevo. Girovagai per un’ora. Entrai nella chiesa Preobraženskaja, che chiudeva la via da quel lato. La chiesa era aperta e vi si celebravano le funzioni. Dall’altro lato della via, dalla parte del Giardino d’Estate, faceva capolino un’altra chiesa, a forma di nave, la Pantelejmonovskaja, allora trasformata in museo. Avevo paura di perdermi, non mi orientavo. Già guardavo con ammirazione questa vecchia coppia che, invece di trascorrere la domenica, come ogni giornata della loro vita, a strapparsi i capelli dalla disperazione – così li avevo immaginati io, all’italiana – era uscita approfittando del bel tempo per fare una passeggiata. Il loro unico figlio espulso dall’Unione Sovietica nel giugno del ’72, e si era nell’autunno del 1981. Nove anni trascorsi nell’impossibilità di rivedersi. E loro che tentavano di vivere. Tornai davanti all’edificio tardo Ottocento rosa scuro in stile moresco, che più tardi scoprii chiamarsi Casa Muruzi. Stesse scale, stesso campanello, l’emozione placata dalla ripetizione. Mi aprì la porta un vecchio signore di cui mi chiesi subito: «Chi è? Il padre o lui stesso?», tanto padre e figlio si somigliavano. Mi salutò con un sorriso cordiale facendomi segno di tacere con un

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dito sulle labbra, e, bisbigliato un «presto, presto», aperta una porta, la prima a sinistra per chi entrava, protese le braccia per farmi strada con un gesto ampio quanto muto. Richiusa con cura la porta dietro di sé, sempre in silenzio, mi aiutò a sfilare la giacca, che attaccò lui stesso all’attaccapanni sulla sinistra; con un gesto mi invitò a sedere su una sedia, e si sedette di fronte. Continuava a tacere; allora parlai io: «Sono una conoscente di vostro figlio», e lui, con gioia: «Non poteva essere altrimenti». Così cominciò la nostra amicizia. Nella loro stanza, come in tutte le stanze degli appartamenti in coabitazione, si entrava in modo violento; per i preamboli non c’era posto. Il mondo di ogni famiglia veniva improvvisamente spalancato, tutto concentrato in pochi metri quadri. Tutto, quindi, fu subito terribilmente brodskiano, a cominciare dall’odore forte di cui era impregnata la stanza, e che sembrava vivere una vita sua propria, del tutto indipendente dai suoi abitanti; non cattivo ma acre, d’impronta femminile. Uno spazio caldo in un paese freddo; una promiscuità di mangiare e di dormire; un luogo dove si mangiava bene, ma si aprivano troppo poco le finestre. Dunque niente dell’ambientazione neorealista come l’avevo immaginata io: lei a letto, discinta, capelli neri ingrigiti, borse sotto gli occhi. Niente Anna Magnani. Nessun grido, nessuna esibizione. Solo quel «presto, presto» bisbigliato sulla porta di casa, perché non mi trattenessi un attimo di più in un posto visibile a tutti. Allo stesso modo veniva trattenuto, nascosto il dolore, perché chi aveva cacciato il figlio fuori dal suo paese forse avrebbe potuto continuare a infierire. Lui, il figlio, dall’altro capo del mondo, all’aggressività che aveva subito e di cui continuava ad avere sentore, replicava con un «hallo», per tutti, che somigliava a un ruggito. Poco dopo entrò lei, Marija Moiseevna, una piccola signora tonda con gli occhiali, dal petto abbondante e le spalle strette e un po’ curve, che camminava a fatica, dondolandosi sulle gambe, i capelli lisci color arancio fino agli orecchi, la testa piuttosto grande dalla fronte bombata, a bauletto. La fine trama delle rughe, come quella della mela renetta, testimoniava la bellezza

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ricordi e un’intervista

antica dell’incarnato; un filo di rossetto rosso a cuore accompagnava la forma delle labbra, aumentando appena lo spessore del labbro superiore, troppo sottile rispetto a quello inferiore. Quando dissi che ero italiana ebbero entrambi un sussulto di gioia. Erano convinti fossi americana, e di americani ne avevano già visti tanti in casa loro. Spesso gli studenti del dipartimento di russo dell’Università di New York andavano a trovarli grazie all’indirizzo dato loro dal figlio: li fotografavano, portavano loro regali. Lei mi chiese per quanto tempo mi sarei fermata, e quando dissi nove mesi, si mise a trillare di felicità. Mi disse che parlavo bene, e che si sentiva appena appena – indicando la misura col pollice e l’indice riuniti sulla punta – che non ero russa. Volle imbandirmi a tutti i costi una cena, ma precisò che avrei dovuto accontentarmi di una da tutti i giorni, visto che non mi aspettavano. Avevo con me la copia di un numero uscito in quel periodo della rivista «Stern», con un’intervista e varie fotografie del figlio. Non appena ne vide una, ebbe uno scatto di rabbia: «Non deve fumare, e questo disgraziato continua a farlo. Gli fa male!» Marija Moiseevna era in preda a uno stato di sovreccitazione che non riusciva a controllare. Lui, al contrario, era controllato, galante, ironico. Alto, e con l’imponenza delle persone d’età, il ventre largo, la papalina nera calata fin quasi sugli occhi a coprirgli la calvizie e a conferire un tono giocoso, quasi di maschera, al viso magro e allungato dagli occhi azzurri sporgenti, il naso ricurvo, la mascella un po’ prominente, la pelle trasparente, e soprattutto un modo particolare di rivolgere lo sguardo rovesciando la testa all’indietro e socchiudendo gli occhi sornioni. Aveva mani bianche arcuate, non grandi, e l’unghia del mignolo destro lunghissima. La voce desiderosa di raccontare e stridula, sempre l’ultima parola, e gli stessi difetti di pronuncia che aveva trasmesso al figlio: la erre moscia, ma in realtà dura, e la elle tagliata, come quella polacca. Mi invitarono a cena la settimana successiva. Prima che mi congedassi mi dissero qual era l’autobus col quale potevo tornare a casa: il 47, e mi spiegarono dove si trovasse la fermata: proprio a pochi passi da lì, sul Litejnyj. Ora quell’autobus non esiste più, ma aveva un lungo, affascinante tragitto: da Finljandskij Vokzal attra-

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versava la Nevà, spuntava sul Litejnyj, svoltava costeggiando il Giardino d’Estate, riattraversava la Nevà, e arrivava a Vasil’evskij Ostrov, dove scendevo. Al ricordo di quelle serate è legato l’autobus che avanzava traballante, si fermava senza fretta, e attraversava silenzioso una città fin troppo silenziosa. Ci si accordava con una settimana di anticipo. Il loro numero di telefono non lo avevo neppure, del resto preferivano che non lo usassi. Tornavo sempre, dominata dalla medesima curiosità. Qualcosa mi spingeva in quella casa carica di attesa, della quale il catalizzatore elettrico era il terzo abitante, una gatta nera dagli stivaletti bianchi, come li chiamava Aleksandr Ivanovič, che Iosif aveva sottratto alla morte per annegamento lasciandola in eredità ai genitori quando era partito. «Questa gatta è molto discreta, e anche ben educata», ripeteva il padre. La gatta, battezzata alla svelta dall’antico padrone Kisa, micia, amava correre avanti e indietro lungo un’intera parete della stanza, dove un cornicione sopra le porte sembrava aver creato un ballatoio naturale apposta per lei. Amava le sporgenze, i baratri, il rischio. L’avevo già vista in una fotografia sulla scrivania di Ljalja, vecchissima amica di Iosif, una slavista georgiana che si era trasferita a Londra da tempo: Kisa spuntava col muso e due stivaletti bianchi da una giacca jeans di Iosif, ragazzo dalla faccia spaventosamente matura e il berretto in testa. Avevo rifotografato a mia volta, in segreto, quella foto. Ora la gatta, rimasta sola, non si lasciava accarezzare da nessuno. La seconda volta che li vidi, la mia presenza era diventata un fatto acquisito. Marija Moseevna aveva sostituito l’esaltazione con una perfetta padronanza di sé. Dovevano essersi interrogati fra loro e, consultandosi, dovevano aver formulato mentalmente le domande da rivolgermi. Voleva capire, soprattutto la madre, che conoscenza avessi del figlio, e per arrivare a questo mi chiedeva chi mi avesse presentato dei suoi amici, sapendo quanto lui fosse selettivo. «Siete stata a New York? Allora avete conosciuto Leša?» No, Leša non l’avevo conosciuto. «E Ljalja, a Londra?» Sì, Ljalja l’avevo conosciuta. Tirammo tutti un sospiro di sollievo, forse anche la gatta.

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ricordi e un’intervista

Andavo dai Brodskij ogni giovedì, alle cinque, e non parlai mai con nessuno di queste visite. Al ritorno, nella stanza sull’Isola di Vasilij dell’obščežitie, meglio definito con un’abbreviazione kapstran, cioè casa dello studente dei paesi capitalisti, dove più di una generazione di borsisti italiani era già passata, mi aspettava Valja, la compagna che per indagare senza parole che cosa avessi fatto si limitava a osservare il mio passo: voleva capire, infatti, dal mio grado di stabilità, quanto avessi bevuto, e se avessi passato la serata in compagnia. L’insistenza del suo sguardo mi rendeva senza volere più malferma. Tornavo, puntuale, portando ogni settimana un omaggio dal Berezka, la catena di negozi sparsi in giro per la città, dove si potevano acquistare cose solo con valuta straniera. Avevo avuto da Iosif una piccola somma da spendere per loro. I genitori mi sfamavano, io gli tenevo compagnia. Quando arrivavo, mentre mi sfilavo gli stivali per indossare le tapočki, le ciabatte, esaminavano il mio abbigliamento; più spesso giudicavano i miei vestiti insufficienti a proteggermi dal freddo, e si raccomandavano di vestirmi più pesante. «È leggera, ecco cosa è!», sintetizzava Marija Moiseevna, senza preamboli come il suo appartamento e svelta nelle metafore quanto il figlio. Era sempre lui, Aleksandr Ivanovič, a aprirmi la porta e a farmi rapidamente strada fino all’altra porta. Una volta dentro, ci si ritrovava nell’atmosfera di sempre: dolente ma dignitosa, non disperata. Poco a poco studiai e conobbi la loro frazione di appartamento. La stanza principale era grande. Aveva due ampie finestre che davano su via Pestel’, di cui una col balcone, sul quale, però, non uscii mai. Il soffitto era molto alto, ornato di stucchi. Sulla destra della porta da cui si aveva accesso troneggiava un immenso lettone matrimoniale. Fra le finestre e il lettone – il tavolo da pranzo con quattro sedie, di cui veniva apparecchiata solo la parte che serviva, cioè, di solito, una metà. Sull’altra metà balzava di tanto in tanto la gatta, mentre si mangiava, e veniva prontamente invitata a scendere. Sulla parete sinistra una cristalliera col servizio di piatti; sulla destra un armadio chiuso, e poi la televisione, e poi una mensola accanto al letto con un’enorme bottiglia di Chanel numero 5, finito o quasi, e qualche altro profumo. Sulla menso-

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la dall’altra parte del letto una fotografia di Iosif a Venezia, con un cappello a tesa larga alla Borsalino. I mobili non erano né belli né brutti, né antichi né nuovi. Semplicemente grandi, mastodontici. Si notava una certa cura e un certo gusto nella scelta del copriletto rossoscuro, nei bicchieri dal sottobicchiere d’argento per il tè, e in genere non si aveva il sentore della casa contadina riprodotta in città, comune a tanti altri appartamenti russi: nessun pizzo di nylon, nessun fronzolo. In fondo, a un certo punto la parete destra veniva interrotta da una tenda scura, e dietro la tenda si apriva una stanza di passaggio, quella che era stata la stanza di Iosif. I sogni, o piuttosto gli incubi, che più tardi Iosif mi raccontò di aver fatto a proposito della sua stanza, erano perfettamente giustificati. Nella stanza c’era un letto addossato alla finestra, alto e duro, sotto il quale il padre, che nel frattempo ne aveva preso possesso, lasciava sempre due scarpe. Il suo busto in divisa da ufficiale di marina, in una fotografia in bianco e nero, vigilava sul capezzale del figlio, ma il letto era rimasto vuoto. Avendo saputo, però, dal figlio, che il padre era stato bravo ma tirannico, e non aveva mai indugiato a cavarsi la cintura dai pantaloni fustigando il figlio da bambino, adesso, nell’immaginazione, a distanza di tempo, rivedo l’uniforme come se fosse quella a tante fibbie di un domatore di leoni. Il viso lì era più pieno di ora. Eppure quasi niente trapelava di quel passato. Forse un certo autoritarismo. Sulla sinistra scaffali con libri e cartoline, una anche di Roma. Di fronte a chi entrava uno scrittoio piuttosto piccolo, il suo, ricoperto da un vetro, e sovrastato dai libri. Gli scaffali erano stati ricoperti da un telo di plastica, a impedire che la polvere vi penetrasse. Oltre la nebbia del telo si potevano intravedere a fatica molti dizionari tascabili: russo-inglese, russo-italiano, russosvedese, russo-greco, russo-non so più che cosa. Di fronte ai libri fotografie di amici e amiche, sue proprie, una con la barba, e una serie con la cravatta, scattata alla vigilia della partenza. In cima agli scaffali vecchie bottiglie vuote, dall’etichetta straniera, che i ragazzi russi amavano conservare come trofei di altri mondi. A destra della tenda scura un manifesto del colore della carta da pacchi, di quelli molto diffusi fra la fine degli

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ricordi e un’intervista

anni Sessanta e i primissimi Settanta: «Wanted, dead or alive», col suo nome profeticamente impresso in inglese, e sotto la somma in dollari del compenso offerto. Iosif raccontava che un giorno aveva portato a casa una ragazza inglese, e che lei, alla vista della sua stanza, aveva esclamato: «Joseph, here you don’t have any privacy!», e lui, di rimando: «What is it?», ignorando che cosa significasse questa parola. Nella stanza erano visibili ovunque le tracce di Iosif adolescente, come succede spesso nelle stanze abbandonate dai ragazzi e conservate intatte dai genitori. È nel periodo dell’adolescenza, infatti, che i ragazzi aspirano a crearsi la propria stanza; e poi, quando sentono che non gli corrisponde più, la abbandonano come fosse una pelle. Sul suo vecchio orsacchiotto, adesso, la madre appuntava gli spilli. Passando attraverso quella piccola stanza-ginocchio si poteva entrare sulla destra in una stanzetta che a me, forse perché buia, sembrava ancora più piccola, interna all’appartamento, quindi senza finestre, con una porta, anche dall’altra parte, sempre chiusa, che si ricongiungeva al corridoio comune. Questa era il gabinetto del padre, la camera oscura nella quale aveva sviluppato centinaia di fotografie, quando era stato fotoreporter. Possedeva anche una scrivania, dove aveva scritto gli articoli che accompagnavano le foto. Un lavandino, dove, all’occorrenza, qualche volta potevo lavarmi le mani. E una piccolissima saponetta. Parlando a bassa voce, come faceva sempre, il padre un giorno mi spiegò che aveva lavorato tutta la vita in quella stanza, e che non avrebbe potuto lavorare, scrivere, in nessun’altra stanza al mondo. Il resto della casa non lo vidi mai, anche se tornai per nove mesi ogni settimana, di solito il giovedì alle cinque. All’entrata intravedevo un corridoio piuttosto lungo, in fondo al quale immaginavo il bagno, e, sulla sinistra, la grande cucina comune. Non osai mai chiedere di visitarla, neppure una domenica d’estate in cui mi dissero che erano andati tutti fuori. Temevo che loro non lo avrebbero gradito, così cercavo di mettere a freno la mia curiosità da venticinquenne. Nel caso fosse entrato qualcuno nella stanza, io, mi raccomando, dovevo essere una lituana. Io lituana? Sì, voi, dall’accento,

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potreste essere lituana, mi aveva detto Marija Moiseevna. Ma questa necessità, per fortuna, non si presentò mai. Ogni giovedì sera mi congedavo nello stesso identico modo, dopo aver salutato Aleksandr Ivanovič sul pianerottolo. Non incontrai mai nessuno per le scale. Salivo sul mio sgangherato quanto rassicurante 47 giallo, che si addentrava nel cuore della città seguendo sempre il medesimo, bellissimo percorso. Nel frattempo sulla città era caduta la neve, e questa rendeva ancora più silenzioso e lento il mio breve viaggio, più prudenti le curve, più bonario il rumore del motore. A un tratto, come per miracolo, appariva il grande vaso di granito all’ingresso del Giardino d’Estate; più in là lo stagno ghiacciato, e, ancora più in là, in lontananza, attraverso i rami spogli, s’intravedevano le statue, protette per l’inverno in cassette di legno, e ricoperte di neve. In casa Brodskij il tempo sembrava essersi fermato al momento in cui il figlio se n’era andato via di casa, che coincideva con la sua espulsione dalla Russia. Era successo, moltiplicato all’ennesima potenza, quello che succede in forma edulcorata a quasi tutti i genitori quando i figli crescono e si allontanano dal nido. Iosif aveva sbraitato contro le imposizioni del regime e della famiglia; aveva abitato a Via Herzen, sull’Isola di Vasilij, ma poi, negli ultimi anni, era tornato a casa. Poco tempo prima, passeggiando un tardo pomeriggio sul Gianicolo, nel rispondere a una sua domanda, gli avevo detto esitante che avevo già provato a vivere fuori casa, ma poi ero sempre tornata in famiglia. Temevo da parte sua una reazione di rimprovero o di disprezzo; invece no, lui aveva assentito con la testa in segno di rimpianto: «Perché a casa propria si sta sempre meglio, vero? È più confortevole, vero?», «Sì», avevo risposto sorpresa, con un fil di voce. In Aleksandr Ivanovič e Marija Moiseevna la nostalgia per la giovinezza perduta si sommava a quella per uno stato di cose bruscamente interrotto; la nostalgia per l’infanzia del figlio al ricordo della sua espulsione una volta per tutte dal suo paese. In effetti l’esilio non era soltanto quello del figlio, ma anche il loro; l’esilio non è soltanto di chi parte, ma anche di chi resta, di chi resta senza; non solo l’allontanamento di uno da tutti, ma anche quello di tutti da uno. L’esiliato automaticamente esilia gli altri.

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ricordi e un’intervista

L’esilio è contagioso; l’esilio è separazione, morte artificiale. L’esilio è assenza, mancanza; l’esilio è il regno della nostalgia. Lei era inasprita da tutti quei traumi, il marito sembrava aver trovato un escamotage per continuare a vivere; entrambi, per istinto di difesa, non perdevano d’occhio il presente e la realtà. In mezzo a questi bruschi o naturali rivolgimenti, loro, come tutti e più di tutti, si aggrappavano alle fotografie, uniche in grado di arrestare ogni processo di trasformazione. Ognuno aveva il proprio album personale, e ci teneva. Aleksandr Ivanovič mi mostrò il suo per primo; lei, che gli rinfacciava sempre di essere egoista, sottolineò polemicamente: «E guarda se le fa vedere il mio!» Così vidi quello di entrambi, ma non ricordo molte fotografie di loro due insieme. Lei era stata una bella donna dal sorriso forte, che da giovane aveva preso lezioni di canto da un’italiana e parlava perfettamente il tedesco; aveva anche tradotto Zola, Il ventre di Parigi. Però il suo destino era stato quello di essere una perfetta evrejskaja mat’, una madre ebrea, cioè una donna protettiva e orgogliosa fino al fanatismo del suo unico figlio, chiamata come da una forza superiore a coltivare in lui il genio. Guai a chi glielo toccava. Lo aveva nutrito cercando d’infondergli le doti che le stavano più a cuore: il pesce, anche se non gli piaceva, per l’intelligenza; le carote, sempre a portata di mano nel frigorifero, per la vista. Ora, per ogni compleanno del figlio, il 24 maggio, continuava a invitare i suoi amici in memoria delle grandi cene che preparava quando lui era ancora lì, e poi raccoglieva in un sacchetto i petali secchi dei fiori che gli ospiti le portavano in omaggio, segnandovi sopra la data. Quell’anno si accingeva a riempire il decimo sacchetto. Poi venne il turno delle fotografie del figlio. «Questa giacca gliel’aveva portata Madame Achmatova da Siracusa. Lei lo capiva al volo, da una mezza parola», mi disse il padre. «Le vedevo passeggiare chiacchierando qui sul Litejnyj, lei e Marina Cvetaeva, con le gonne troppo lunghe, un po’ sgualcite; sembravano due insegnanti», gli fece eco la madre. Una fotografia da bambino, con un completo alla marinara: «Questo completo gliel’avevo cucito io», disse il padre, abile a destreggiarsi in mille mestieri. «Questa era la sua prima casa nel Michigan», e si vedeva una stanza vuota, con la televisione poggiata per terra. «Lui quando ricevette il diploma», un

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ragazzo-uomo smagrito dai capelli troppo lunghi con il berretto inglese a quattro punte e le nappine. Le fotografie di lui, quasi per scaramanzia, erano sparse, non raccolte in album, né in ordine cronologico. «Osja mangia la kaša», la didascalia sotto una foto, vergata da mano infantile. «Alla mamma prometto che studierò bene», sotto una fotografia scolastica. A un certo punto comparve una fotografia in cui Iosif appariva più accigliato del solito. «Questa è stata fatta in Germania, a Monaco, mi pare, ma doveva essergli successo qualcosa che non ha mai voluto raccontarmi». Aveva passato una notte dentro, in seguito a una rissa scoppiata in un locale, dove un ubriaco aveva maltrattato un vecchio. Lui aveva difeso il vecchio. Non glielo dissi. Una del figlio con la madre sulla soglia del portone: «Questa è una fotografia storica», is-to-ri-českaja, scandì sillabando Marija Moiseevna, con le mani nelle tasche del grembiule e un’aria vagamente minacciosa. Vedevo farsi fermo e granitico, bianco e nero come tutte le fotografie, un passato che avevo conosciuto nel presente e vivo, e allo stesso tempo si liquefaceva facendosi realtà, ai miei occhi, quello che avevo visto rappreso alle pareti, ibernato, nel piccolo appartamento-bunker di lui al Village. La gatta, Kisa, era saltata giù, piccola, dalla giacca jeans della foto sullo scrittoio londinese di Ljalja, e era tornata a vivere e a arrampicarsi su per gli amati stucchi. Sembrava un salto a ritroso nella macchina del tempo. La vita di Iosif si poteva vedere tutta intera come un film in bianco e nero, che improvvisamente, col trasferimento in America, fosse diventato a colori; la pellicola, però, continuava a essere graffiata, e soffriva sempre degli stessi sussulti, abbagli, scoppiettii, perché il proiettore era rimasto lo stesso. Questo svelavano e celavano i suoi versi. «Iosif tornava la sera tardi, e poi componeva di notte, tenendo molto bassa la musica di Haydn, o di Bach», diceva il padre, ormai fiero di una vocazione che lui all’inizio non aveva incoraggiato. Tornavo a Ulica Pestelja 27, kvartira 28, pensando ogni volta a quei numeri come agli anni che non avevo ancora, ma che pre-

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ricordi e un’intervista

sto sarebbero arrivati. Le scale producevano sempre lo stesso scalpiccio, anche la neve sporca ricordava le macerie, e quegli agglomerati indistinti di vecchie cornici di porte, vetri, nei cortili dell’università, facevano pensare a un mondo che si era fermato a metà strada fra la distruzione e la ricostruzione. Il clima contribuiva a assecondare la paralisi. Quando tornai dopo le vacanze di Natale, loro erano lì come ogni giovedì, ma per la prima volta venne a aprirmi la madre. Lui era seduto sul letto, il viso insolitamente incorniciato dalla brina trasparente della barba quel giorno non fatta: «Sapete», cominciò, come amava sempre cominciare, «mentre eravate via ho avuto un infarto», disse sgranando gli occhi, che si fecero ancora più sporgenti, «però ce l’ho fatta, ed eccomi qua», e sorrise. Fra la madre e il padre era un continuo battibecco. Si erano sposati piuttosto tardi, e i loro caratteri non si erano mai fusi. Lei gli rimproverava di avere qualcosa di misterioso nel carattere, di non averla mai più portata al ristorante dopo il matrimonio, di non fare niente tutto il giorno. «Avanti, oggi che cosa hai fatto?», lo incalzava. «Ho pulito il forno», rispondeva lui spiritoso, ma con un fondo di timore. «E poi?», «E poi ti ho aiutato a tappare le finestre per l’inverno». Lei allora gli faceva un gesto dall’alto in basso col polso molle, come a dire, nell’aria: «Ma lascia perdere!» Lui allora si rivolgeva con un risolino verso di me, in cerca di conforto. Lei d’abitudine provvedeva alla cena, lui al tè che la concludeva; poi lei andava in cucina a lavare i piatti, e lui, sgranocchiando un biscotto, mi conduceva nella stanza del figlio dove, dopo avermi fatto accomodare sul letto duro col copriletto bordeaux, si metteva a raccontare… «Sapete», e ricostruiva il racconto di sue imprese giovanili, o ricordi di viaggio del periodo in cui era stato ufficiale di marina. Avevo l’impressione che quando pronunciava la parola «sapete» ancora non sapesse di che cosa avrebbe parlato. Quello era il suo modo d’imporre il silenzio prendendo tempo, e solo allora nella sua mente cominciava a profilarsi una narrazione, forse vera solo in parte. Io lo rispettavo, mi limitavo a sorridere se proponeva di ballare un valzer tirando fuori dischi e giradischi impolverati da sotto lo scrittoio

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del figlio. Poi arrivava lei, che aveva sentito l’eco di risate amichevoli dalla cucina, e fissava severa il marito. Credo che se si chiedesse a un russo di esprimere il suo ultimo desiderio prima di morire, quello risponderebbe: scattatemi una fotografia. Noi le maneggiavamo continuamente: io regalai loro una fotografia di Iosif che avevo scattato a Roma in primavera, e lui l’apprezzò molto e la mise sotto il vetro del tavolo da pranzo, accanto a due disegnini di Iosif: un gatto in papillon, e una fruttiera ricolma colorata a matita su un foglio bianco a quadretti. Mostravo loro le fotografie dei miei familiari. Aleksandr Ivanovič mi scattò qualche fotografia nella stanza-ginocchio di Iosif e la sviluppò nella sua camera oscura, anche se aveva smesso da anni di fotografare e di sviluppare, e la moglie lo rimproverava sempre anche di questo; una la conservo tuttora. Mi mostrò anche le foto che aveva scattato in giovinezza: la tempesta sul ponte di una nave, l’interno di un bar, visto attraverso il motivo ossessivo di un pavimento a piccoli rombi bianchi e neri, i ritratti di una giovane donna sul balcone. Io invece, per scaramanzia, non scattai mai loro fotografie. La stessa circospezione con cui poi Iosif avrebbe sfogliato a Roma le pagine del mio album fotografico pietroburghese di velluto rosso scuro, col monumento dorato a Pietro il Grande in rilievo sulla copertina, come se da ogni angolo fosse potuta sbucar fuori una lancia, una trafittura, un dolore acuto, quella stessa circospezione era usata nei discorsi fra i suoi genitori e me. Niente domande, questo il patto. Altrimenti c’era da trasalire, come faceva la gatta quando sentiva squillare il telefono. Venne la primavera, e con la primavera arrivò sotto le finestre di Ulica Pestelja, come ogni anno – ma io non lo sapevo – il venditore di kvas, e con lui la coda. Anche questa era la liquefazione in realtà di quello che avevo già visto immortalato da qualche parte, ma ne avevo solo una vaga coscienza. Ma sì, nel bagno microscopico dell’appartamento del Village era attaccata una locandina che annunciava una lettura di versi di Iosif. Lì, sopra i caratteri stampati, era tracciato il disegno color seppia di quel punto di via Pestel’ col venditore di kvas che vi sostava puntual-

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ricordi e un’intervista

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mente. Me ne resi conto qualche tempo poco, quando rividi la stessa locandina dopo il mio soggiorno a Leningrado. Aleksandr Ivanovič era sempre molto premuroso, e sapeva manifestarlo in mille modi; Marija Moiseevna restava burbera nei modi, ma in fondo buona: i due, senza volerlo, si compensavano. «Mio figlio sì che è buono, mica un egoista come lui», lo rimbrottava lei, «quand’era piccolo gli caricavo il sacco sulle spalle, e lui mi aiutava a portare la legna su dalla cantina». E mi raccontava di come fosse rimasta incinta in tempo di guerra, e in quel periodo andava sempre a mangiare alla mensa, e poi era nato lui, grande, con grandi piedi, e lei doveva andare al lavoro, e lo lasciava sempre solo a casa, e che quando aveva tre anni lo trovò col Così parlò Zarathustra in mano, dal verso giusto, allora aveva provato a capovolgere il libro, e lui lo aveva raddrizzato immediatamente. Che voleva sempre la matita, karandaš, e urlava: Ka-ra-ra. Qualche volta veniva accesa la televisione in bianco e nero, e si guardavano insieme programmi interessanti. Marija Moiseevna aveva un suo modo particolare di trascinare la sedia dietro di sé sul parquet afferrandola dallo schienale, per prendere posto davanti allo schermo, come di chi vuole guadagnarsi la prima fila; poi si metteva a guardarla in una posa da bambino, coi gomiti appoggiati sullo schienale. E di tanto in tanto si voltava a richiamare l’attenzione del marito: «Saša, guarda! Saša!» Seguimmo insieme una gara di pattinaggio sul ghiaccio, e lei vi si appassionò, parteggiando spudoratamente per gli americani. Nell’America ammirava la grande potenza. Di ogni coppia giudicava se era agile, trovava il suo punto debole, e condiva tutto con aggettivi molto precisi. Lui commentava ridacchiando: «Sentitela, stasera abbiamo l’esperta». Alla fine non vinsero gli americani e lei ne fu fortemente indispettita, e diede un pugno sulla sedia. Era intelligente; brusca ma sincera. Guardammo anche un bel programma sulla ballerina Anna Pavlova, un altro sullo scrittore Kornej Čukovskij, e uno su David Ojstrach, nel quale era riportata la famosa telefonata fra lui e Pasternak. Il padre alla fine mi disse: «Sapete, sono felice che l’abbiamo visto insieme». Anch’io lo ero.

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Venne l’estate, e il 47 si fece più sicuro sulle strade, ma non lo esibiva più di tanto. La sua era un’andatura studiata perché risultasse sempre uniforme, estate e inverno. Ormai lo stagno del Giardino d’Estate aveva perso da un pezzo la sua immobilità, le statue s’intravedevano finalmente svestite, fuori dal loro boudoir invernale, attraverso il fogliame degli alberi, in tutto il loro biancore. La penombra delle notti bianche mi appariva irreale e inquietante. I leningradesi usavano dire: «Abbiamo le notti bianche e i giorni neri». Si avvicinava il momento di partire. E anche questa vecchia coppia avrebbe desiderato partire. Soprattutto lei, Marija Moiseevna. Non vedeva l’ora di raggiungere il figlio. Aleksandr Ivanovič, malato di cuore, era stato sconsigliato dal medico di muoversi, e si era messo l’anima in pace. «Saša», lo incalzava lei, «tu che cosa prenderesti con te?», «L’ombrello», rispondeva lui ironicamente. «Io niente». Partii, e prima di partire avvenne la cerimonia dello scambio di regali. Io ricevetti una confezione di profumi di marca Leningrad, col cavallo impennato di Pietro sull’etichetta arancio, un fazzoletto di cotone a fiori rossi col bordo azzurro, e un tagliere a forma di gatto. Conservo tuttora questi regali per me preziosissimi, anche se il tappo di vetro di un profumo si è rotto e non posso più aprirlo, e il piccolo tagliere in cucina a forma di gatto ha perso una zampa. Ripartii con un piccolo bagaglio di segreti da non ripetere e di segreti non svelati, e un grande bagaglio di conoscenza, proverbi, detti, insegnamenti e consigli di cucina che non avrei mai dimenticato. L’indirizzo al quale mi conduceva puntualmente il 47, adesso lo scrivevo su una busta. Compivo gli anni ai quali faceva riferimento l’indirizzo dei genitori di Iosif. Presto, però, dei due destinatari ne sarebbe rimasto solo uno, perché Marija Moiseevna morì l’anno seguente, nella primavera del 1983. Poi, l’anno successivo, il primo maggio del 1984, morì lui, Aleksandr Ivanovič, che amava la pompa, l’ufficialità, le feste, e che vantava la fortuna di essere nato il sette novembre, anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Lo cremarono con un po’ di ritardo per via di quella data. Un anno dopo, nel 1985, il loro figlio scrisse il ricordo In una stanza e mezzo, che fece piangere mezzo mondo, e che lui

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ricordi e un’intervista

diceva essergli costato «molto sangue». Due anni dopo, nel 1987, Iosif vinse il Premio Nobel, e l’unico suo cruccio nella gioia era che sua madre non fosse più viva. Poi, a dodici anni di distanza dal padre, nel gennaio 1996 anche lui, il figlio, scomparve. Lui, che diceva di amare l’Italia perché vi si potevano vedere donne che somigliavano a sua madre, donne con gli occhi in cui si poteva riposare. Da allora mi sono guardata in giro a cercare una donna che somigliasse a Marija Moiseevna, e infine credo proprio di averla trovata. L’ho vista più di una volta, nei pressi di un grande mercato qui a Roma, dove vado ogni settimana a fare la spesa. Non ha mai grandi sporte, forse perché abita nelle vicinanze e può tornare spesso, o forse perché la strada è lunga per risalire lassù, e preferisce essere leggera. (1997)

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Un amor inrealizado (incontro con Evgenij Evtušenko)

Riprendo in mano dopo tanto tempo un vecchio libro di poesie di Evtušenko, La centrale idroelettrica di Bratsk, stampato da Rizzoli nel 1965. Aveva una patina trasparente di cellofan un po’ staccata, che chissà quanti anni fa ho tirato via dalla copertina bianca attraversata da grandi caratteri neri, per godermi la sensazione del libro finalmente opaco, reale, appena ruvido, denudato della sua maschera tesa e lucente. Dentro, sulla seconda pagina ingiallita, la dedica che il poeta v’impresse nel 1976: «A Anna-Liza con un amor inrealizado per colpa dei amichi de sua madre». La dedica è già un piccolo romanzo sgrammaticato vagamente ispanico, e questo lo rende più avvincente. Lavoravo a quell’epoca per l’Associazione Italia-Urss. Ero redattrice di una rivista tutta rossa che usciva bimestralmente, dal titolo «Rassegna sovietica». Andavo all’Associazione – che si trovava nell’appartamento alto, ampio, antico, affrescato, di un palazzo dall’ampio portone che s’affaccia su Piazza Campitelli, sovietizzato da un arredo moderno, da ufficio, con grandi lampadari di madreperla, dal taglio moderno, vagamente cubista – per metà giornata, cinque giorni alla settimana. Per il resto del tempo ero studentessa universitaria. Evtušenko veniva in Italia piuttosto spesso, perlopiù ospite dell’Associazione. Qualcuno gli diede il mio numero di telefono, così, perché potessi accompagnarlo un po’ in giro per Roma facendogli da interprete. Poi ci sarebbe stata una tournée a Firenze, con una sua lettura pubblica e un concerto per pianoforte. Sarebbe arrivato da Mosca un giovane pianista emergente, accompagnato dalla sua manager. E io li avrei seguiti anche lì.

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ricordi e un’intervista

I miei ricordi sono spezzati, come le linee del lampadario madreperlaceo e un po’ cubista, tutto giallo, dell’Associazione. Camminavano su e giù per il corridoio, nervosamente, sui tacchi, le impiegate sovietiche, i cui matrimoni andavano spesso a rotoli. I loro compagni italiani, baldanzosi all’inizio, spesso toscani, portavano addirittura impresse sulla faccia, qualche volta, le tracce di zuffe notturne. Non ricordo il momento in cui lo vidi per la prima volta: lesse lì i suoi versi una sera. Ricordo nettamente che un’altra sera volle andare al cinema, e io lo accompagnai. Al Barberini, se non sbaglio. Volle uscirne poco dopo, inquieto. Il film non gli piaceva. Prendemmo un taxi, e mi pregò di dire al tassista che aveva scritto un poema sui tassisti, che a Mosca erano una categoria molto importante. Lì in taxi stappò una bottiglia di champagne. Ero imbarazzata: lo trovavo capriccioso, incongruo, eccessivamente istrione, maledettamente pesante. All’epoca aveva all’incirca quarant’anni. Alto molto, siberiano, dall’andatura un po’ legnosa, la riga da una parte a coprire una piccola calvizie, le labbra sottili e il naso russo un po’ a punta; chiaro. Negli occhi una forza indifferente nei confronti degli altri, che non gli dava limiti. Un Pinocchio ubbidiente che si finge Lucignolo, un Pierino feroce. Mi raccontò che aveva una moglie inglese, e che voleva regalarle una pelliccia. Andammo in un negozio in una strada nei pressi di una piazza con fontana: Barberini, Pantheon, o Trevi? Mi sembra fosse dietro il Pantheon, ma non so come lo trovammo, perché non ero mai entrata in un negozio del genere. Voleva una pelliccia nera di Astrachan, la fece provare alla commessa, che trovava avesse una taglia simile a quella di sua moglie. Ricordo che pretendeva uno sconto, e pretendeva che io parlassi per lui, e raccontassi che lui era un poeta famoso di Russia, il più famoso. Ma il negozio era deserto, come i negozi di lusso sono molto spesso. La proprietaria non si commoveva di fronte a queste dichiarazioni; restò, da romana, imperturbabile. E Evtušenko dovette pagare la pelliccia per intero.

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un amor inrealizado

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Partimmo con lui per la tournée a Firenze. Mi disse che io ero la prima donna che gli resisteva, e si lamentò di essere invecchiato. «Sai qual è la prima cosa che invecchia?», mi domandò. No, non lo sapevo. «Il collo», e si toccò il collo sottile, appena segnato dalle prime rughe affilate. A Firenze ci raggiunse il pianista Andrej Gavrilov con la maestra, che era una baba con lo scialle: impietosa, severa, scostante, lo controllava a ogni passo. Evtušenko mi regalò il mazzo di rose che gli era stato offerto durante l’esibizione a teatro. Al ritorno a Roma, di notte, in macchina, sedeva davanti, accanto all’autista. Noi dietro dormivamo, o inseguivamo il sonno senza riuscire veramente a dormire. A un tratto disse un po’ ingelosito che aveva sentito «i nostri gemiti», come se con Gavrilov avessimo avuto effusioni amorose, e invece non era successo niente. L’artista era giovane e sentimentale, ma non proprio attraente. Aveva un carattere dolce, remissivo e lasciava che lei, la maestra, lo dominasse completamente. Il poeta non poteva sopportarla, e non perse l’occasione per dirlo chiaro e tondo al pianista, che invece la difese. Le era devoto. Gavrilov, allora agli albori del successo, diceva di non studiare troppo, cioè, probabilmente, diminuiva la sua strenua applicazione allo studio del pianoforte. A Roma Evtušenko avrebbe desiderato rivedermi, ma io ero stanca e preoccupata dei suoi numeri. Una sera mi chiamò per invitarmi a uscire, ma io rifiutai l’invito: m’inventai che a casa avevamo ospiti, e mia madre ci teneva che restassi a cena con loro. Non era vero, e io dicevo raramente bugie, ma quella volta mi sembrò necessario trovare un argomento plausibile. Dovetti rivederlo per forza, perché quella bugia restò impressa sul frontespizio del suo libro di versi, chiusa per sempre nel libro stipato fra altri libri. Lo rividi circa cinque anni dopo a Leningrado, in occasione di una lettura poetica. C’era anche Kušner, quella sera, e il teatro era grande, ma non ricordo quale fosse. Si trovava su uno spiazzo gelato. Lo ascoltai e lo guardai di nuovo muoversi sulla scena da guitto un po’ legnoso e dominatore. Era in posa e cambiava

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ricordi e un’intervista

continuamente posa, come le figurine colorate, cangianti, che da piccola trovavo in omaggio dentro la scatola di cartone del sapone da bucato in polvere, e dovevo pulirle bene per scoprire la figura, che restava profumata. Un microscopico cartone animato in poche sequenze. Una stele egizia. Su e giù per il palcoscenico, ma sempre di profilo, obliquo. Ero laureata, lo guardavo in incognito nella sua terra, fra la sua gente, con occhi più consapevoli. Non ricordo se gli regalarono dei fiori, ma sono sicura di sì. In Russia si offrono sempre mazzi di fiori alla fine di uno spettacolo. Ero dietro, il teatro era grande, lui non mi vide. (2013)

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Il re (ricordo di Rita Levi Montalcini)

Negli ultimi anni capitava che passassi da Roma quando non c’era nessuno, a agosto. I miei genitori si erano fatti anziani. Un giorno, appena uscite dal portone con mia madre e il suo bassotto nero, in questa Roma deserta e scremata incontrammo Rita Levi Montalcini. Era l’estate del 2002. Abitava nella via perpendicolare: Viale di Villa Massimo. Ebbe un sorriso a metà, come se tutto ormai le costasse sforzo. Anche le palpebre teneva sollevate a metà, e aveva un colorito che doveva restare uguale estate e inverno. S’informò sulla salute di mio padre, che chiamava per nome, suo medico curante fino a poco tempo prima, per tanti anni, e per il quale provava una simpatia speciale, perché veniva anche lui da Torino… Mia madre mi presentò a lei: non l’avevo mai incontrata prima, così, per la strada, e non abitavo più da tanto nella casa paterna, nella quale tornavo solo per le visite. Incuriosita, fissò un incontro con me a casa sua. Mi aspettava in salotto con la sua pettinatura perfetta, i capelli con la nota onda artificiale e come percorsa da due correnti opposte. Una camicia di seta bianca e nera. Sedevamo una accanto all’altra sul divano davanti a un tavolo tondo e prendemmo insieme il tè. Ricordo intorno a lei la presenza di un factotum. Mi pregò quasi subito di darle del tu. Passammo a parlare di mio padre, del quale lei voleva conoscere le debolezze per sconfiggerle. Come mai non parlava più? Come aveva vissuto? Come viveva? Mentre parlavo, mi ascoltava attentamente, come se questa fosse stata per lei una questione di vita o di morte. Mio padre, a sua volta, negli ultimi anni aveva acuito la sua sensibilità verso gli anziani, verso la geriatria, forse anche come antidoto all’avanzare della sua vecchiaia. Lei era nata

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ricordi e un’intervista

qualche anno prima di lui e sembrava fissata in una perfezione da nordica novantenne. Amava la poesia, e mi chiese della mia. Le raccontai che stavo per andare a Viareggio, perché quell’anno ero arrivata finalista al Premio Viareggio con la raccolta L’oro ereditato. Mi disse che forse ci sarebbe andata anche lei, e, se sua nipote Piera l’avesse accompagnata, avrebbe partecipato volentieri alla mia lettura, che, come di consuetudine per i finalisti, si teneva ogni sabato d’agosto sulla spiaggia. Le avevo portato il mio libro. Mi chiese di leggerle una poesia a mia scelta. Le siedo accanto, perché non sente bene. Apprezza la poesia, e mi chiede di leggergliene un’altra. Chiama il suo braccio destro, e gli chiede di darmi i suoi libri, che sono spessi e lucidi, una valanga, tenuti su uno scaffale subito fuori del salotto. Me ne dedica uno, Tempo di mutamenti: «Ad Annelisa con viva amicizia, affetto e infiniti auguri. Rita». Dice: «Cara», e comincia a farmi domande a raffica: una dopo l’altra, senza aspettare che io finisca di parlare. Come sta la mamma, come mai ho studiato il russo, se Brodskij era bello, se io ho desiderato di sposarlo, se Ruggero fa mostre, che tipo è, che quadri fa, che cosa rappresentano i figli nella mia vita, condendo questo con domande sugli altri miei familiari. Mi racconta che sogna Paola, la sua gemella, ogni notte da quando è morta, e che il risveglio è duro. Dice che sono una donna che ha avuto una bella vita. Il giorno dopo sul diario la definii «una simpatica impicciona», ma il nostro incontro ebbe un’intensità che rende del tutto insufficiente questa buffa espressione. Sembrava avere, impresso sul viso, qualcosa di tragico che avrebbe voluto fermarla, e qualcosa che, invece, la spingeva incessantemente in avanti. Questo contrasto ne rendeva l’aspetto solenne, guerriero, nonostante la sua figura fosse assai minuta, e viva la contraddizione fra la potenza del carattere e l’impotenza di fronte al tempo. Mi disse che aveva perso quasi del tutto la vista, e la vista è la regina, ma aveva salva la mente, che è il re! Poco dopo accennò il gesto di alzarsi, per lasciarmi intendere che il tempo della visita era scaduto. E io poco dopo mi alzai, ma sarei rimasta volentieri ancora un po’ in sua compagnia.

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il re

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Quando arrivai a Viareggio con la mia famiglia, sbarcammo in albergo, e poco dopo venne a prenderci una macchina. A un tratto il cellulare dell’autista prese a squillare, e questi dopo un momento ci riferì che dovevamo affrettarci, perché era arrivata Rita Levi Montalcini. Non potevo crederci: che sorpresa mi aveva fatto! Che gioia! Non avevo osato sperarci troppo, ma segretamente mi auguravo che venisse; non avevo dimenticato, infatti, la sua promessa. Sedeva tranquilla fra gli spettatori, ovviamente in prima fila, con la nipote Piera accanto, a proteggerla. Durante la lettura un uomo, seduto nelle file posteriori, si alza per rivolgermi delle critiche; tre donne intervengono a difendermi. Lei taglia la testa al toro chiedendomi di leggere ancora, perché le poesie che avevo letto erano incantevoli. Alla fine dell’incontro stento a ritrovarla, perché circondata da giornalisti, che muoiono dalla voglia d’intervistarla. L’uomo, anziano, viene a stringermi la mano, dice che non aveva ancora ascoltato le ultime poesie. Molte dediche, molte donne. Vinsi un premio, senza vincerlo effettivamente. E lei fu grande come viene descritta da molti. Mi aggiungo anch’io al coro: sì, una grande donna. (2013)

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Il plebeo schiaccia (ricordo di Idolina Landolfi)

[…] Nell’alba triste s’affacciano dai loro sportelli tagliati negli usci i molli soriani e un cane lionato s’allunga nell’umido orto tra i frutti caduti all’ombra del melangolo. Eugenio Montale, da Elegia di Pico Farnese

Ripenso a lei come a una donna infelice, forse la più infelice che abbia mai conosciuto. E che ho conosciuto bene, frequentato intensamente per nove anni. So quello che lei penserebbe di ogni mio gesto, di ogni persona che incontro, di ogni mio sentimento o comportamento, di ogni mia frase. Una donna severa, piccola e bruna, sottile, intransigente. Ricordo le sue stanze d’albergo, perché mai mi fece vedere una sua casa, e questo era per me motivo di dispiacere, ma non glielo dissi mai. Mai vista la sua casa di Roma a Via della Scala, a Trastevere. La vendette, anche, sotto i miei occhi, senza consultarsi con me sul da farsi, perché immaginava che avrei tentato d’impedirglielo. Mai vista la sua casa in affitto a Montespertoli, nei pressi di Firenze. So che aveva dei vicini gentili, ma coi quali cercava in tutti i modi di non avere a che fare. Vista, invece, da me e da tutta la mia famiglia, la sua casa di famiglia affascinante e decadente a Pico. Ci regalò delle arance prendendole dagli alberi del giardino, e io a casa le separai da quelle che erano già nella fruttiera, perché le seconde venivano da un casato antico e illustre quanto dissipatore. Le stanze d’albergo erano quelle dell’Albergo Italia di Salerno, dove viveva per lunghi periodi, quando organizzava lì il Festival di Poesia a Vietri, a Villa Guariglia sul Mare. Lì portava con

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ricordi e un’intervista

sé il gatto preferito, grande, maschio e nero, che le teneva compagnia. In camera, accanto al comodino, si affiancavano bottiglie e bottiglie d’acqua, che doveva bere; sopra il comodino blister argentati, un po’ schiacciati dall’uso; al muro, accanto al letto, un manifesto con l’immagine di suo padre. Quando si preparava per la serata usciva dalla sua stanza e si affacciava sul corridoio chiedendo che qualcuno di noi finisse di tirarle su la lampo del vestito dietro, perché non aveva nessuno che potesse farglielo nell’intimità. Una volta, sempre per questa solitudine, si tinse i capelli d’henné solo davanti, lasciando intere ciocche intatte dietro, perché, intenta nell’operazione, non era riuscita a vedersi. Era sola anche quando dava in lettura i suoi libri agli editori. Il suo ultimo romanzo a me era piaciuto, ma pochi altri lo avevano apprezzato: ruvido, implacabile come tutta la materia della sua vita. Vi erano descritti i rapporti con suo padre, amorosi fino all’eccesso. La sua infanzia nella casa di Pico, i primi amori a Sanremo, la giovinezza povera in una camera d’affitto a Firenze, il ritorno, più che nella casa, nella cappella di famiglia, dove si chiudeva a piangere sulla tomba degli avi, e che provvedeva a riempire di fiori cambiando l’acqua dei vasi dopo averli puliti con cura.

Una volta un’amica di amici, a sentirla nominare, mi disse di essere stata sua amica da adolescente, ai tempi del liceo, a Roma. La chiamai per dirglielo, ma lei disse di non ricordarla, e so che era vero. Le persone infelici a volte preferiscono rimuovere il passato. Era strana, complicata, gelosa e generosa, possessiva. Voleva bene ai nostri figli, le piaceva la nostra gattina, e stava volentieri con noi. Ma era chiusa, maledettamente chiusa, e non mi parlò mai direttamente della sua malattia. Io ne ero indirettamente al corrente. Passava lunghi periodi in ospedale, dai quali usciva spossata, magra, con qualche ecchimosi nell’incavo delle braccia, ma sempre dignitosa fino all’orgoglio, piena di coraggio. Preferiva ascoltare che parlare; le sue sentenze erano acute, lapidarie. Ne cito solo una, detta al telefono: «Il plebeo schiaccia». Una volta scrisse che le mie poesie erano pervase di malinconia, e io lì per lì lo negai, ma in un secondo momento dovetti

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il plebeo schiaccia

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ammetterlo: sì, erano malinconiche. Riconosceva la malinconia negli altri, perché era cosa sua. Aveva una scrittura minuta e regolare. Non amava gli sfoghi, non voleva sentire le parolacce, né, tantomeno, leggerle; né sentir parlare di litigi fra marito e moglie: aveva un’idea sacra del matrimonio, del quale non capiva i compromessi. Ma matrimonio e maternità erano lontani da lei. Semmai, tendeva a avere una o più coppie di amici di riferimento, dalle quali potesse sentirsi in qualche modo protetta. Era diffidente nei confronti dello psicanalista, dell’avvocato, dell’agente immobiliare, e in genere di tutti quelli che avrebbero potuto aiutarla. Non riusciva, proprio per un’istintiva insicurezza, a affidarsi a nessuno. Neppure in politica riusciva a salvare qualcuno. Di due parti, non aveva nessuna simpatia e nessuna preferenza per nessuno. Amava solo le persone semplici, delle quali tendeva a diventare amica, e i gatti, per i quali nutriva una vera e propria passione. Potrei continuare a lungo a descriverla, descrivere il suo carattere bizzarro, diretto, provocatorio, dispettoso, e anche l’unica casa che vidi, con i disegni a carboncino incisi sui muri da suo padre, le massime giacobine del nonno in francese, il grande camino di pietra in cucina, e gli utensili di rame tutt’intorno. Quello che ci univa, oltre all’essere donne, e coetanee, era l’amore per la scrittura. «Io sto dalla parte dello scrittore», usava dire. E la sua vita era dedicata a questo, al suo amore per la scrittura e per lo scrittore in genere, e in modo particolare per suo padre. La sua vita era illuminata da questo amore fino all’accecamento, pur in una donna lucidissima. Suo padre era il suo metro, gli altri le apparivano quasi sempre mediocri, ma non sbagliava nel giudicarli con questo parametro, perché era pur sempre un buon parametro. Non aveva la televisione in casa, trascorreva le serate a leggere. Idolina era una vestale dall’incarnato antico, che amava regalare candele: un giorno ce ne portò una tutta colorata da Firenze, a forma di albero di Natale. Un altro - un portacandele argentato, che ne conteneva una grande e bianca. Amava le cene a lume di candela e gli amici. Diceva che gli affetti sono la cosa più importante nella vita. Reagiva alle difficoltà senza scomporsi, come chi conosce i guai più seri della vita e è abituato a fronteg-

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ricordi e un’intervista

giarli da solo. Girava tutta l’Italia in lungo e in largo sulla sua piccola Panda, senza mai perdersi d’animo. E poi viaggiava per inquietudine, viveva nelle case di amici, era un po’ ubiqua e postuma. Faceva commenti impietosi a voce alta in pubblico; era imprevedibile, insofferente, curiosa. Smaniosa di libertà, ribelle, imprendibile, irriducibile. Pratica, concreta, lavoratrice, collaborativa quando si tratteneva come ospite. Colta. Ripenso spesso a lei, e oggi sono venuta a Firenze per rivedere i suoi amici: Ernestina, Giovanni, Paolo, e anche altri, e ricordarla tutti insieme. Firenze era la sua città d’adozione e nella quale si orientava bene, perché è più a misura d’uomo di Roma. Anche la sua parlata aveva una cadenza fiorentina. E a tratti sapeva mostrare improvvisamente un sorriso arreso, disarmato, e esclamava con la sua voce bassa e melodiosa: «Oddio, che bello!». (2010)

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Il maestro e la bidella (ricordo di Angelo Maria Ripellino)

A vent’anni non si ha il senso del tramonto, e è giusto che sia così. Invece, quando m’iscrissi alla Facoltà di Lettere nel 1975, con l’indirizzo linguistico, e scelsi il corso di laurea in lingua e letteratura russa senza nessuna indecisione, perché avevo cominciato a studiare il russo a sette anni, e la letteratura era sempre stata la mia passione, un’epoca stava finendo. Il professor Ripellino, di cui tutti favoleggiavano ancor prima che ascoltassi le sue lezioni, era malato. Malato da sempre, ma ora anche di più. Ripeteva, in quegli anni, i corsi monografici già fatti negli anni precedenti: Puškin; Majakovskij; Pasternak, che non finì. Faceva lezione nell’aula d’ingresso dell’istituto, ricavata dalla parte finale di un lungo corridoio al primo piano, che s’imboccava sulla sinistra dopo le scale. Sopra la porta a vetri, la scritta dorata annunciava in stampatello a caratteri romani: Istituto di Filologia slava. In attesa che la grande porta a vetri si richiudesse alle loro spalle con un tonfo calcolato, grazie a una molla lunga e cigolante, gli studenti facevano in tempo a dare il buongiorno alla signora Marcella, la vecchia bidella burbera e benefica, che dominava la scena dell’istituto. Il ricordo del professor Ripellino è inscindibile da quello di lei. La signora Marcella fumava come una ciminiera, sollevando il mento per gettare fuori il fumo. E passava continuamente la mano sinistra sulla piccola cattedra alla quale sedeva di solito, facendovi scivolare sopra la fede. Buttava per terra, ai suoi piedi, e spiava, colpevole per un solo istante, i piccoli cilindri di cenere che crollavano silenziosi dalla sua sigaretta. Al buongiorno

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ricordi e un’intervista

rispondeva con voce roca: «Ciao, bella». Tossiva spesso, e, quando si metteva a ridere, l’aria, nei polmoni, era ostruita dal catarro. Da vecchia Custode, che tutto vede e tutto tiene sotto controllo, la signora Marcella, che conosceva a fondo i professori, perché li aveva visti studenti, aveva imparato a tenere a freno la lingua, finendo per assumere l’aria serafica e imperturbabile della Baronessa. Camminava con rigidezza, a piccoli passi: una gamba immobile, e l’altra a farle da sostegno. Prima che iniziasse la lezione, Marcella, con fare sicuro, come obbedendo a un cenno muto, di cui non aveva più bisogno, da attrice che conosce a menadito la sua parte, percorreva tutta l’aula lungo il lato stretto che rimaneva sgombro dalle sedie, arrivava in fondo fino alla cattedra, accendeva il registratore, e poi, facendo una piccola piroetta su se stessa, sempre a piccoli passi, si riavviava al suo posto presso l’ingresso. Finita la lezione, Marcella, questa volta facendosi largo fra gli studenti che si alzavano, veniva a riprendersi, con i suoi stivali eterni fino al ginocchio, il maglione a collo alto color senape, e una gonna svasata color polvere, che le copriva gli stivali, la bobina registrata, che a casa avrebbe trascritto a macchina. Nel suo fiero, seppure umile, trascinarsi sfiorando le vetrine delle scaffalature traboccanti di riviste bulgare, ucraine, serbocroate, svolgeva alla perfezione la propria missione, e allo stesso tempo alimentava la leggenda di lui. Lei, con i capelli tinti color della stoppa e il suo meccanico procedere, sembrava una creatura sbucata fuori dai versi di lui, un’invalida entraîneuse. Il loro era un numero a due. Quel passo, rigido come una cesura metrica, scandiva il ritmo dell’istituto. Cominciava intorno alle tre del pomeriggio, la lezione. Tre volte alla settimana. Alcune studentesse – non so come – occupavano i posti in prima fila fin dal mattino, con una borsa, spesso quella di Tolfa che allora andava di moda, di pelle chiara, da cacciatore, messa sopra come pegno. E avevano le physique della studentessa che si piazza in prima fila per guardare bene in faccia il professore, e essere vista da lui: slanciate quanto la loro penna stilografica e i tacchi dei loro mocassini, vergavano con parole abbreviate, puntate, quasi stenografate, le parole del professore; il foglio di sbieco sulle ginocchia, l’inchiostro che scivolava da un

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il maestro e la bidella

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pennino panciuto. Il viso concentrato e allo stesso tempo abbandonato, come in trance. Se il professore doveva fare una comunicazione agli studenti, ne approfittavano per tirare fuori il panno custodito nell’astuccio degli occhiali, e per pulire le lenti dopo averle annebbiate con il fiato. Nel momento in cui il professore domandava: «A che punto eravamo arrivati, l’ultima volta?» erano pronte a rispondere, puntuali al punto da suscitare un sospetto di complicità fra loro e lui, come fra lui e la signora Marcella. Nel mio ricordo si somigliavano tutte, in fila, sincronizzate come se fossero state caricate da un orologiaio svizzero. Per chi sfidava il quarto d’ora accademico e si ritrovava puntualmente nelle ultime file, cercando una collocazione fra due teste, Ripellino era pura voce, pura recitazione. Tiravo in fretta dispensa e matita fuori dalla borsa. La lezione partiva sempre dalla lettura dei versi, che lui leggeva magistralmente. La voce bassa impostata, profonda, ebbra, tonante, c’imponeva subito di abbassare lo sguardo sulla dispensa, per seguire la lettura sulla pagina scritta. «Era l’inverno con la sua voce uterina / spietato per le nostre orecchie fredde», dice Ripellino in una poesia del 1947. Ecco, definirei uterina anche la voce di Ripellino, perché arrivava dal fondo dell’aula-corridoio, come dal fondo di una caverna, riscaldando, al contrario, le nostre orecchie. Non era possibile abbandonarsi realmente alla lezione come se ci si trovasse davvero di fronte a uno spettacolo, perché dovevamo fare tesoro di quel che lui diceva. Lui assecondava ed esaltava i suoni, le vocali, le labiali, le gutturali. Era straordinario sentirlo passare dal tono recitativo, teatrale, a quello professorale. Il cigolio della porta a vetri provocato dai ritardatari, e il tonfo che ne seguiva, restavano fuori, sommesso sottofondo. Quando traduceva, e poi spiegava, era come se cambiasse abito: la voce si abbassava, riprendeva il tono abituale, e immaginavo che anche il colorito del viso subisse una variazione. Anche a lui doveva piacere quel contrasto, quel passaggio, quella recitazione in un teatro accademico. Leggeva su innumerevoli foglietti bianchi, incisi con precisione da un pennarello nero a caratteri grandi, quasi senza potercisi raccapezzare, come in mezzo alle piume di un cuscino lacerato. Aveva la scrittura tonda, ben formata, di chi ha riempito pagi-

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ricordi e un’intervista

ne e pagine: le effe piegate come un arco teso interrotto a metà dalla freccia del taglietto, gli accenti sempre corretti, gravi o acuti, le emme gonfie, panciute, come se avessero preso fiato, vele tese al vento. Ripellino metteva in scena, da mattatore per pochi, il nudo spettacolo della letteratura. Tutto s’intrideva di letteratura, al suo tocco: l’infanzia di Mandel’štam nella bottega del padre conciatore di pelli diventava una fiaba di Ripellino, e così l’adolescenza di Puškin trascorsa fra le statue nei giardini del suo liceo, a Carskoe Selò; il farsi piccolo del gigante Majakovskij di fronte alla sua Lili. Ricreando i miti del passato, trasmetteva agli studenti quel che aveva animato lui nel corso della sua ricerca, delle sue letture, studi: la passione. Una volta contagiati, dopo la lezione ci capitava di ripetere agli amici, magari seduti dietro, sul sellino di una Vespa, i versi da lui letti, e di contagiare a nostra volta qualcun altro. Qualche volta portavo gli amici alle sue lezioni, e loro me ne erano grati come di un regalo. Ogni anno Ripellino pretendeva che gli studenti imparassero per l’esame, dal corso monografico, una certa quantità di versi a memoria, ogni anno qualche strofa, e poi qualche volta ce li faceva recitare. Io, l’anno dedicato a Puškin, avevo scelto il monologo finale di Tat’jana, che si nega a Onegin dichiarando la propria fedeltà al marito «vek», per sempre, per un secolo, per l’eternità. Per fortuna non me lo chiese: sarei stata imbarazzata a recitarlo davanti a lui. Un giorno, entrando in fretta poco dopo le tre nell’androne della facoltà, lo scorsi di spalle in fondo al corridoio, che si accingeva a salire su per le scale. In una mano reggeva la borsa, nell’altra un ombrello nero; doveva essere una giornata di pioggia. Portava un impermeabile chiaro. Virò per imboccare la scala, e notai i baffi ingrigiti, il piccolo cranio tondo, la fronte aggrottata. Si moveva con rigidezza e lentezza. Mi venne in mente il racconto di Čechov L’uomo nell’astuccio. Sapevo che il suo astuccio era la malattia. Vagheggiavo il passato dell’istituto, quel piccolo istituto dove tutti si conoscevano e dove vigeva un regime familiare. Il vecchio

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il maestro e la bidella

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professor Lo Gatto, patriarca; le lettrici, fatine bionde dagli occhi verdi; la signora Marcella, governante; le studentesse, nipotine amate. Avevo sentito parlare dei tempi in cui, in quello stesso istituto, le ragazze in tutù avevano recitato Blok, Čechov, sotto la guida di Ripellino. Chissà dove si cambiavano, quelle fanciulle plagiate di cui avevo sfogliato le tesi di laurea, infarcite del vocabolario inconfondibile di lui. Forse in biblioteca. Dovevano essersi divertite, emozionate; mi sembrava di sentire i loro gridolini. Dovevano aver cantato, recitato e riso, e dovevano aver ricevuto gli applausi anche da lui. Ora diventavano professoresse col fanatismo del seguace, credendoci. La signora Marcella si dava l’importanza del bardo, e sembrava aver letto le sue poesie, quando attaccava a raccontare di quei tempi. Mormorava: «Era un principe, qui dentro. Tutte le ragazze se ne innamoravano». Una studentessa fuori corso, Luisa Capo, aveva replicato con me a tu per tu: «Perché Marcella non parla piuttosto delle ragazze di cui lui s’innamorava?» Aveva anche questo: il fascino dell’uomo che s’innamora. Amavo il clima da sauna femminile, da collegio, che si respirava nell’istituto. Avevo trovato in questo, l’unico che frequentavo nella facoltà, un’intimità maggiore che a scuola. Lo amavo come un concerto di sera, o l’interno di una chiesa dopo una manifestazione studentesca. Somigliava a una piccola scuola con quattro classi, che corrispondevano ai quattro anni accademici. Le ragazze si conoscevano tutte fra loro; si prestavano gli appunti, spesso preparavano gli esami insieme. I ragazzi erano pochi, con una facoltà di apprendimento delle lingue un po’ più lenta rispetto alle ragazze. Supplivano a questo ritardo col desiderio ansioso di farle ridere; più di loro, mi facevano rabbia le ragazze che si arrendevano a questo gioco, compiacenti; che mantenevano nella voce, quando toccava a loro completare l’esercizio, l’alterazione di chi ha appena riso, e si dichiara pronto in anticipo a cedere alla prossima battuta. All’inizio di ogni anno le studentesse si disponevano a corona intorno alla signora Marcella, per comprare le dispense del nuovo anno accademico. Le dispense erano ricoperte da un pallido cartoncino Bristol variamente colorato, e emanavano un fascino

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ricordi e un’intervista

manuale. Ogni anno ne venivano confezionate due: una riportava i versi in russo di un certo autore scelti dal professore, e l’altra – la sua traduzione e il suo commento ai testi. La signora Marcella, per devozione verso il professor Ripellino, senza sapere una parola di russo, compilava la dispensa coi testi in originale trascrivendo a macchina in caratteri cirillici, lettera dopo lettera, le poesie dell’autore. Per compilare la seconda dispensa, che veniva distribuita solo a fine anno, alla vigilia degli esami, Marcella ascoltava la registrazione delle lezioni, e le trascriveva come poteva. Lui leggeva dai suoi foglietti sparsi, ma le digressioni piene di rimandi dovevano almeno raddoppiare gli appunti. Le dispense della signora Marcella, dai caratteri un po’ sbiaditi perché ciclostilate, e sui bordi delle quali spesso dovevamo completare con l’immaginazione le ultime lettere, perché totalmente illeggibili, costituivano un meraviglioso garbuglio d’ignoranza e di sofisticata cultura. Aprendo la seconda dispensa, quella in italiano, si restava sorpresi dalla quantità di barrette oblique che segnavano i confini fra un verso e l’altro, evitando l’obbligo di andare accapo. Sembrava una pioggerella sui versi. Marcella faceva i salti mortali per scrivere correttamente la dispensa, e poi la moltiplicava stampandola eroicamente al ciclostile. Quando proprio non riusciva a decifrare una parola, lasciava un vuoto, un laghetto in mezzo alla pagina. I suoi stessi errori di ortografia denotavano lo sforzo. Scriveva «Ort nouveau», Gocol’, Valtruščatič; «nera e lacerata» diventava «nera tela cerata». In una poesia di Majakovskij il «broccato su una bara» era diventato «il braccato su una bara». Marcella aveva imparato a usare i segni diacritici, necessari per traslitterare le parole russe, ma non aveva nessuna memoria di pagine scritte, perché non le aveva mai lette; dunque inventava. «Inisprimibile», «giravago», «condole», «compagne militari». Era il clown di Ripellino: non si capiva chi fosse lo zimbello di chi. Il divario fra l’erudizione di lui e l’immaginazione della bidella-acrobata accresceva il mito di Ripellino, conferiva ai suoi corsi qualcosa di ulteriormente creativo, comico e misterioso. Le dispense andavano decifrate, come un antico geroglifico. La signora Marcella non le esibiva mai, come un tesoro, ma se qualcuno gliele chiedeva, apriva, tenendo la sigaretta in bocca, il cassetto della sua piccola cattedra, dove

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il maestro e la bidella

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custodiva anche le preziose chiavi delle vetrine scorrevoli della biblioteca; ne estraeva una copia, e la sbatteva sulla cattedra, dicendo con sufficienza bonaria allo studente: «Teh». All’inizio del ’78 Ripellino si ammalò gravemente. Tutte noi sapevamo che era malato da sempre, attaccato alla vita come una marionetta al suo filo. Di malattie e sanatori erano colmi i suoi versi; di morte era intessuta tutta la sua poesia. Aveva avuto la tubercolosi intorno ai trent’anni; gli avevano asportato un polmone; soffriva di diabete e mal di cuore. In aprile morì, e la messa funebre fu celebrata nella Cappella dell’Università. La vedova salì su per le scale con la testa coperta da un velo, sostenuta dal genero. La grande chiesa era gremita. Tremavo. Intervennero in molti, professori e amici. Sull’automobile che trasportava il feretro caricarono in silenzio anche le corone di fiori, in mezzo alle quali, chissà per quale sorte, spiccava in oro, su nastro viola, il commiato della bidella: «Addio, professore. Marcella». Molti giovani seguirono il carro funebre fino al cimitero. Il figlio Alessandro posò sulla bara un’ultima rosa rossa, e scomparve. Quel giorno su tutto regnava il silenzio; il silenzio dello sgomento, il silenzio che segue a una grande perdita. Il maestro era morto. Seguirono i discorsi per ricordarlo. Un pomeriggio, all’Università, parlarono in tanti. Ricordo un intervento che mi colpì, l’intervento di un’ex allieva, Caterina Graziadei. Diceva che Ripellino, la sua esistenza, la sua influenza, anche adesso, nella memoria, era stato e continuava a essere un antidoto contro l’assalto della prosa. Anche nei momenti più prosastici della giornata: sulla panchina di un giardino pubblico mentre si accudisce un bambino, quando si lavano i piatti, si è in tram, Ripellino le aveva insegnato a combattere contro l’ottundimento del quotidiano. Una sera andai a ascoltare i suoi versi in un piccolo teatro. L’attrice, Rosa Di Lucia, amorosa come la signora Marcella, li aveva imparati tutti a memoria. Poi nulla. Oggi, quasi trentacinque anni dopo, rileggo i suoi versi, quelli raccolti in un volume recente di Einaudi. Ripellino,

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ricordi e un’intervista

senza dubbio, è stato il primo a guidarmi nel territorio della poesia. Ho pensato a lui tante, innumerevoli volte. Il suo cruccio era che la sua attività di studioso facesse ombra a quella di poeta. Un cruccio giustificato. La gente vuole darti solo un’etichetta. E lui ne aveva tante. La sua identità più profonda, a cui teneva di più, era proprio quella di poeta, e proprio questa tendeva a essere ingiustamente considerata accessoria. Oggi, quando ci si riferisce all’insegnamento della letteratura russa qui a Roma, l’epoca in cui insegnava Ripellino è diventata uno spartiacque: gli anni prima, e gli anni dopo di lui. Io rientro nel novero degli studenti sul crinale della sua fine. L’ho rimpianto moltissimo negli anni, e lo rimpiango anche oggi. Ora, però, vedo anche la grande fortuna, il privilegio che ho avuto. (1999)

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La professoressa (ricordo di Anjuta Maver Lo Gatto)

Un tardo pomeriggio con l’ora legale appena entrata in vigore; il cielo rosato è percorso da un aereo che si attarda a sparire; i camionisti, all’angolo di piazza Annibaliano, giocano a dadi dopo aver improvvisato un tavolino, e la sagoma di Anjuta, tutt’uno con questo paesaggio di quartiere, esce da via di Sant’Agnese per imboccare via Bressanone con gli immancabili cani al fianco: un bastardo dal pelo sbiadito e una giovane Dobermann. Il trio risale costeggiando la cinta del mausoleo di Santa Costanza. Anjuta indossa un giaccone scuro, e assicura al polso i guinzagli stretti nella mano. A tratti tira con decisione. Trascina i cani, e ne viene trascinata. Oppure sulla porta di casa. Mentre il visitatore sale su per le scale, Anjuta schiude la porta, ma in modo da controllare che i cani non escano. Azay e Dusja abbaiano, sporgono i musi, agitano la coda, e Anjuta si scusa di non poter aprire bene la porta, getta un urlo per tenerli a bada, li tiene fermi per il collare. Nel frattempo il visitatore s’insinua, e lei domanda con grande civiltà: «Non mi ricordo più se hai paura dei cani. Ecco, si sono calmati; forse ti hanno riconosciuto». E loro guaiscono, inutile trattenere i loro impulsi gioiosi: i musi saltano all’altezza del viso, le zampe si aggrappano ai vestiti. È un approccio a quattro. Anjuta va fiera di loro, creature raccolte dalla strada, che qualche volta, come nelle fiabe, si rivelano di razza pregiata, a ricompensare la loro benefattrice. Con il ticchettio delle unghie sulle mattonelle del corridoio, gli sbadigli, le zuffe, il grattarsi, i cani accompagnano e rompono il silenzio dell’appartamento di Anjuta, che era quello di suo padre, Ettore Lo Gatto. È possibile incontrare Anjuta anche in motorino, di fretta sulla Nomentana, o all’imbocco di Castro Pretorio. In una posi-

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ricordi e un’intervista

zione leggermente tesa, Anjuta rende animato il motorino, come se lei lo guidasse, ma ne fosse allo stesso tempo guidata, alla stregua dei cani al guinzaglio. Il manubrio – le redini, il sellino – la sella, i pedali – le staffe. È facile immaginarla a cavallo, lontana dai libri, i dizionari, le tesi; libera dalla sua materia, la letteratura russa, e comunque immersa in essa perché ne è parte, eroina romantica che esce dalla carta stampata e incarna alla lettera quel che ha letto. Gli esterni si sovrappongono agli interni. Le stesse mani nodose, screpolate dal freddo, segate dalle redini e i guinzagli, sfogliano un librone con la massima delicatezza e destrezza. Quando cerca un vocabolo o una voce, l’indice accompagna il movimento dell’occhio, verticalmente, e dopo aver proferito un: ecco!, seguito da un pacato: allora…, scandisce la dicitura, e l’indice accompagna orizzontalmente la sua voce. Da sacerdotessa del proprio tempio-biblioteca, seduta alla scrivania, fa trotterellare avanti e indietro i fogli degli schedari per segnare un prestito, o cancellarne un altro. La voce di Anjuta. Profonda, affettuosa, musicale, tagliata per adattarsi a tante lingue, tutte pronunciate bene e parlate con disinvoltura. Difesa quando la sua proprietaria risponde al telefono, oppure pronta a piegarsi in una risata, a dire la verità senza abbellimenti, ma allo stesso tempo ricca di pietas, ponderata, mai saccente. Ripete spesso in tono pensoso: non saprei. Questa voce, l’orecchio fino, le mani nodose, gli occhi «da gatto», come dice lei stessa, il nome conferma, e rivela anche un suo ritratto attaccato sulla parete di fronte alla scrivania, nello studio, mi hanno molto aiutato quando lavoravo alla traduzione della prosa di Puškin. Anjuta ha messo a mia disposizione i suoi libri, parte del suo tempo, il suo sapere, e la sua autorità di figlia, che qualche volta le faceva anche ammettere: «Qui papà non aveva ragione». E anche la sedia alta, la scrivania ampia con la lampada in ferro battuto dall’abat-jour di cuoio, e le fotografie incorniciate dei figli e dei nipoti. La casa di Anjuta è una biblioteca, dove tutto quello che non è libro, o ripiano, o scaffale, vi appare come un oggetto profano. La cucina, per esempio, in fondo al corridoio, non è un luogo vissuto, ma frugale. La stanza da letto sarebbe uno studio se non

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la professoressa

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fosse per la presenza di un letto. È invece lo studio vero e proprio il centro della casa, l’osservatorio; tutto ti dice che lì si trascorrono molte ore; è il luogo dove, su una brandina bassa, vengono a stendersi i cani; dove arriva il suono del citofono, la filodiffusione e lo squillare del telefono. Per il resto, ovunque regnano i libri, dal dorso duro come quello dei coleotteri – i libri russi di solito hanno rilegature in finta pelle. L’opera completa di ogni autore viene riassunta da un colore che lo immortalerà, se non per sempre, almeno per qualche decennio, finché una nuova edizione non deciderà di cambiarlo: Čechov color castagna, e poi carta da zucchero; Dostoevskij grigio perla, e poi verde oliva; Puškin di un bellissimo avorio. Sempre lì, visti di schiena, folle numerate. Anjuta li apre e ne sfoglia le pagine ingiallite, segnate dalle matite colorate del padre, dal lapis rosso e blu che usava per sottolineare. Gli oggetti vengono spostati raramente, a meno che non si crei qualche vuoto imbarazzante, lasciato dalla visita di un ladro. Altrimenti se ne stanno immobili: il gruppo ovale di bronzo, pesante quasi quanto un forziere, i caldi lampadari veneziani anni Quaranta, e quel quadro di cui non ricordo l’autore, dove la neve, in piena luce e in ombra, è riprodotta con tanta bravura quanta ne può avere solo un maestro nordico, per il quale la neve ha posato da modella paziente. Non ricordo quando, né come conobbi Anjuta. So per certo che nessuno ci presentò. Bussai, e mi fu aperto. Abitavamo molto vicino, e Anjuta mi prestava volentieri i libri, perché sapeva che all’occorrenza avrei potuto restituirglieli in cinque minuti di bicicletta. Le nostre case si somigliavano; erano state costruite nella stessa epoca, magari dallo stesso costruttore. Solidi, freddi passamano di marmo accompagnavano le scale, si arrotondavano a ogni pianerottolo. Anche gli appartamenti avevano una struttura simile: un corridoio centrale e le due stanze del soggiorno comunicanti. A un certo punto venne fuori che mio padre, in tempo di guerra, aveva curato Anjuta, e che lei, durante un bombardamento, non aveva esitato a farsi fare un’iniezione senza aspettare che cessasse il fuoco. Ma la scoperta di questo vecchio legame avvenne successivamente. Ho visto Anjuta in tutte le stagioni, e so che può essere a Roma nei periodi più strani dell’anno, anche in agosto, quando

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ricordi e un’intervista

non c’è nessuno. Allora vivevo sola anch’io, e anch’io potevo essere a Roma nei periodi in cui non vi rimane quasi nessuno. Diradati i rumori, in agosto avremmo potuto addirittura contare i rimbalzi della stessa palla da tennis dalle nostre rispettive abitazioni. Un secondo pomeriggio in piena estate. Rivedo la lampada accesa sulla scrivania di Anjuta, le serrande abbassate per il caldo, e un’espressione gergale da risolvere nel racconto La tormenta. Un’altra volta una visita senza alcun libro nella borsa, mi pare fosse il giorno di Natale. Entrando le diedi un bacio come a un’amica, e solo dopo mi resi conto che Anjuta è una professoressa. Le fui grata, però, di non aver mostrato alcuna sorpresa. (1993)

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Peggio delle sofferenze d’amore (ricordo di Titina Maselli)

Quando muore una persona cara, io chiedo all’aria una reazione, un segno di sconvolgimento, di lutto. E i giorni intorno alla morte di Titina furono folli: ventosi, piovosi, di grandine e sole, giorni estremamente mutevoli, capricciosi. Era un lunedì, lunedì 21 febbraio, e non lo apprendemmo subito. Il martedì pomeriggio qualcuno ce lo comunicò. Con Ruggero andammo subito a Trastevere, a casa sua. Era una giornata di pioggia, anche se in quel momento non pioveva. Le macchine ci sfrecciavano accanto come lame, rasentandoci. Percorremmo il Lungotevere sul marciapiedi lungo il fiume, e dall’alto lo vidi scorrere scuro, agitato e increspato, con le ombre dei rami di platano che lo attraversavano ancora più nere. I fari dal muraglione illuminavano con un raggio forte quella massa buia in fermento. Titina giudicava brutto Trastevere in tempo di pioggia. Arrivammo davanti al portoncino di Via di San Calisto dietro Piazza Santa Maria in Trastevere, percorso da graffiti tracciati frettolosamente con uno spruzzatore. Il portoncino era aperto. Saliamo lungo le scale che abbiamo salito insieme con Ruggero tante volte. Il finestrone al centro delle scale è aperto come sempre e porta freddo. Anche la porta di casa è aperta. In cucina siedono alcuni giovani affranti, che hanno l’aria di essere attori. Di là, in salotto, è Citto, Marisa Volpi, la nipote di questa Caterina, Lorenza Trucchi, e qualche donna giovane che non so chi sia. Salutiamo i presenti. Ruggero chiede di vedere Titina, già distesa nella bara, appoggiata lungo il muro, con le colonne che affiorano dalla parete creando l’effetto di scavo antico bizantino che lei aveva voluto. Citto alza il primo coperchio della bara, metallico, sagomato, che non avevo mai visto prima. Titina è di

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ricordi e un’intervista

cera, la mandibola inferiore appena rientrante. Le braccia poggiate in grembo: la destra ha una piccola contrazione, un piccolo spasimo. Indossa un bel vestito di lana verde scuro, con intarsi orientali, forse cinesi, sul petto, che le avevo visto indossare diverse volte in vita. Intorno alla bara è qualche piantina di violette. Ruggero e Citto s’intrattengono a parlare intorno alla bara. Citto, commosso, si rammarica che Titina non potrà vedere la sua grande mostra antologica, che si sarebbe dovuta inaugurare nel dicembre 2005: «piccoletta», si commuove. Immagino di sentire Titina che mi scongiura, per carità, di allontanarmi da lì. In cucina un’attrice, credo Iaia Forte, ascolta da un registratore portatile l’ultimo messaggio di Titina. Fa piacere riascoltare la sua voce bella, calorosa, sensuale. Titina lascia un messaggio umano. Dice che le è rimasto il bisogno di dare un po’ di calore, dare calore, ripete, e in cambio riceverne un poco, come degli spiccioli. Le sembra un lusso avere il tempo di rivedere la sua vita, di ripensarla aldilà degli umori del momento. Racconta di addormentarsi la sera per un’ora, e poi di risvegliarsi. Parla, appunto, in quelle ore notturne. Confessa di voler fare un piccolissimo spettacolo, «ecco, un piccolissimo spettacolo». Spiega che questo bisogno di dare e ricevere calore «non ha niente a che fare con l’arte», è l’opposto dell’arte, perché questa è un atto di estrema sintetizzazione, è un’altra cosa, non c’entra con l’autobiografia, «come dice giustamente Brodskij, più che giustamente», continua Titina, «in un saggio su Frost: l’autore deve tenere lontana la propria biografia». Racconto a Citto che l’ultima volta che ci siamo sentite al telefono era martedì grasso, la sera dell’8 febbraio. Io le avevo raccontato di una maschera preparata per nostra figlia Gemma, e lei mi aveva raccontato le maschere della sua vita. La nostra era stata una lunga chiacchierata, ma non lunghissima. Un’amica l’aveva chiamata da Parigi, e tenuta al telefono per un’ora. Mi disse: «Si può tenere una persona al telefono per un’ora?» Mi domandò se avevo trovato occupato. Le risposi di sì. Avevo appena portato Gemma a una festa. Volevo raccontarle come l’avevo mascherata con l’aiuto di Andrea, il fratello, e lei aveva lasciato che glielo raccontassi per filo e per segno, anche se era stanca. Poi mi raccontò le sue maschere, cioè le maschere che

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peggio delle sofferenze d’amore

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aveva inventato nel corso della sua vita. Si era mascherata da acquaforte di Goya, tutta marrone e bianca. Bianca in faccia, marroni finanche le gengive, in occasione di una festa organizzata da Balthus a Villa Medici. Un’altra volta, aiutata da Toti Scialoja, si era mascherata da Pinocchio. Un Pinocchio fatto con un abito ritagliato di crespo turchese, ornato di fiorellini rossi. Aveva consultato un vecchio libro – «quelli belli, sai, li conosci?» – per ispirarsi. E poi ancora si era mascherata da Colombina, trillando una canzone come se la suonasse al piffero: «ti-ri-tì, ta-ra-tà». Avrei voluto vederla. E poi da Arlecchino, non senza fatica. Aveva ritagliato per l’occasione rombi di fotografie dai rotocalchi, e li aveva cuciti insieme con un filo nero. Il giornale, alla fine della festa, si era ridotto a brandelli. Mi raccontò delle feste che usava organizzare a casa propria la moglie di Capogrossi, e poi a un tratto aveva esclamato: «Disgraziata!», con accento di pianto. Aveva perso due figli in poco tempo, morti di leucemia, e poi se n’era andata anche lei – dopo tante feste, maschere inventive e quadri –, in quattro e quattr’otto. Lei, ideatrice di maschere fantasiosissime: da cavallo bianco con una tuta bianca, applicando alle mani e ai piedi delle scatole di latta con cui riusciva a imitare perfettamente il rumore degli zoccoli del cavallo; lei, che un Carnevale si era riempita la bocca di borotalco, per spruzzarlo in faccia al bombo, Toti Scialoja, a imitazione del getto di polline di un fiore. Fece anche a tempo, quella volta, a lanciarmi una profezia, formulata come un rimprovero, su Gemma. Disse: «Non prendete abbastanza sul serio il suo talento musicale. Suona il pianoforte con un impeto che ha avuto fin da subito. Dovrebbe fare quasi solo quello». Mi disse anche che voleva organizzare una cena per gli amici. Poi ci salutammo, senza sapere che sarebbe stato per sempre. Ma quella fu la nostra ultima, festosa, bellissima telefonata. Vorrei ora soffermarmi un momento sul telefono. La nostra comunicazione era soprattutto telefonica, da Roma, da Parigi, o da qualche altra parte dove si trovava di passaggio in albergo. Ci vedevamo anche, veniva da noi, andavamo da lei, ma soprattutto chiacchieravamo al telefono. Titina amava le lunghe chiacchierate, proprio come me. Ci sentivamo la sera tardi, intorno

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ricordi e un’intervista

alle undici. Se squillava il telefono a quell’ora, Ruggero diceva piano: «Sarà Titina», e era sempre lei. Si mostrava contenta se le riferivo che avevamo intuito fosse lei. Non si annunciava mai col suo nome. Entrava subito in medias res, magari domandando se eravamo già a letto. Io le parlavo, e Ruggero ascoltava la nostra chiacchierata disegnando. Alla fine domandava: «Che dice Titina?» Per lei quelle erano le ore in cui cominciava a temere la notte, portatrice d’insonnia; per me l’ultima propaggine del giorno, quando ero stanca, ma libera da altri impegni. Quando ci sentivamo, gli ultimi tempi Titina parlava stando sdraiata. Parlava con la cornetta storta, e io facevo un po’ fatica a decifrare le sue parole. Titina sapeva conversare: aveva una voce cantante, suadente, che conosceva impennate, esclamazioni, risate sonanti; tendeva a appassionarsi e a schernire; sapeva sempre rendere interessanti i suoi racconti di vita vissuta. In questo, nel conoscere l’arte della conversazione, Titina era antica, e nel suo amore per la conversazione telefonica – addirittura anacronistica. Di sé raccontava tutto, parlava senza quello che Anna Achmatova chiamava «il punto nero», cioè il punto oltre il quale non si va per pudore. Anche in questo era artista, perché l’artista è abituato a un perenne gioco della verità, a un continuo mettersi in gioco. L’avevo conosciuta a Roma, nella nostra casa di Via San Cipriano, poco dopo la nascita di Andrea. Doveva essere il 1991, credo. Ruggero me ne aveva parlato fin dai tempi dei nostri primi incontri. La citava spesso, mi aveva raccontato dei suoi amori. La ricordo seduta sul divano: mi chiese da quale parte dell’Italia provenisse la mia famiglia. Le risposi che il mio cognome è di origine abruzzese. «Anche tu», fu il suo commento. Apprezzò le tazze fiorate da tè. Un’altra volta le bianche. Un’altra volta venne a cena. La ricordo sorniona, ironica: si volgeva spesso verso di me per spiare le mie reazioni alle sue battute. Io mi sentivo vagamente imbarazzata dalle sue attenzioni, un po’ intimidita. Ruggero dopo mi disse che Titina aveva un doppio aspetto: quello di artista, teatrale, e quello di brava ragazza. Io avevo visto subito il primo, perché saltava agli occhi; il secondo lo conobbi in lei poco a poco. Quando nacque Gemma, nel ’92, eravamo già amiche. La prese in braccio e ne sentì la corposa consistenza. «Che pupa!»,

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esclamò. Titina conosceva Ruggero fin da quando lei era una ragazza, lui un bambino, perché i genitori di lei, Ercole e Elena, erano amici dei genitori di lui, Alberto e Maria. Si erano persi di vista per un lungo periodo, ma avevano cominciato a frequentarsi di nuovo all’inizio degli anni Ottanta, quando lui era tornato a vivere a Roma. Continuò a essergli amica. S’informava da me su che cosa stesse facendo in quel periodo, ne prendeva sempre le parti, me ne parlava con una stima e un’amicizia totali. «Non c’è nessuno, guarda, che io stimi quanto lui», mi diceva. Io sapevo che in lui apprezzava la rettitudine – «e questo per una donna è molto importante» –, e poi l’arte, l’operosità – «com’è fresco, e quante cose fa!». Ci vedevamo quasi sempre tutti e tre insieme. In fondo alla telefonata mi pregava sempre di salutarle Ruggero. Nel 1994 ci sposammo, e Titina pensò di vestirmi, per il ricevimento, con un vestito di lamé d’oro. Andò a cercare, a Parigi, il negozio che vendeva il lamé, visto che ne era rimasto uno solo, e poco dopo sarebbe sparito anche quello. Mi raccontò che era andata avanti e indietro più volte lungo la via, perché non ricordava esattamente dove si trovasse. Poi l’aveva finalmente trovato, e in uno dei suoi viaggi mi portò due campioni di lamé d’oro: io scelsi, anche su consiglio degli altri, il più prezioso. La volta successiva arrivò con un rotolo di questa stoffa, che aveva portato eroicamente in treno, sul Palatino, avvolto in un rotolo. Un’amica stilista, Mata, decise tutto quello che riguardava l’abito da cerimonia, Titina ideò quello del ricevimento. Mata li fece confezionare entrambi da una brava sarta. Titina coordinò l’abbigliamento di noi due, quello dei figli, e quello nostro con quello dei figli: siccome avrei portato per l’occasione degli orecchini di turchese, pensò che avrei dovuto farmi confezionare scarpe di seta turchesi col fiocco di raso allacciato dello stesso colore; poiché la mattina avrei indossato un abito di velluto color tortora con le maniche interne e una parte del corpetto di raso color panna, Titina pensò che per Andrea si dovesse confezionare una cravatta di raso dello stesso colore del corpetto, per Gemma un abito di velluto color tortora come il mio vestito. «Certo Titina deve proprio mettere bocca su tutto!», fu il commento di Mata. Alla cerimonia Titina non venne, alla festa sì. Approvò la fattura del vestito, che non apparteneva a nessuna epoca. Era lungo

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ricordi e un’intervista

oltre il polpaccio, e diritto, con una bella scollatura larga, ovale: lei lo aveva concepito rigido, spaziale, a forma di parallelepipedo, visto che aveva due applicazioni cucite esternamente lungo i lati. È difficile descriverlo, ma meno che descrivere Titina. Per il matrimonio ci fece il regalo più bello di tutti. Oltre all’idea del vestito e alla premura di portarmi il lamé da Parigi, che era comunque già un dono prezioso, pensò di dedicarci un quadretto che rappresentava tutti e quattro noi di famiglia, immaginati nel giorno del matrimonio, e ci regalò anche sei cucchiaini da tè, che aveva comprato a un mercatino, e poi fatto dorare. Quest’ultimo regalo lo trovai il più commovente di tutti: Titina considerava insufficiente il quadretto da lei dipinto con amore, e continuava a mettere le mani avanti, ripetendo che non sapeva disegnare. In realtà ricostruì perfettamente come saremmo stati vestiti prima che ci sposassimo, e non tralasciò neppure la cuffietta di velluto blu che avrebbe indossato Gemma. Se c’era stato un tempo di conquista, con questi doni Titina mi vinse completamente. Ero commossa dalla sua generosità, dalla dedizione che aveva dimostrato. Forse sapeva che il segreto della vita è proprio questo. Sì, era una brava ragazza, e anche di più. Per me c’era tutto il mondo, e poi Titina. Provavo per lei una sorta d’infatuazione. Quello che Tolstoj sa descrivere così bene, quando in Anna Karenina scrive, riferendosi a Anna: «Kitty non aveva fatto in tempo a riaversi che già si sentiva non solo sotto la sua influenza, ma addirittura innamorata di lei, come sono capaci di innamorarsi le ragazze giovani delle signore sposate e più mature». Seguirono cene, chiacchiere, intervallate dai lunghi periodi in cui era assente, a Parigi. Ma anche da lì si faceva sentire, sempre la sera tardi, e poteva stare al telefono anche tre quarti d’ora. Poi arrivava, rendendo felici tante persone che l’avevano aspettata. E poi ripartiva, lamentandosi del freddo a Parigi, e di quell’alloggio affascinante ma scomodo, perché lontano dal centro, che la obbligava a prendere sempre il taxi. A proposito dei taxi, che Titina aveva preso in abbondanza tutta la vita, sua madre era solita dire: «Con i soldi che spendi per i taxi avresti potuto comprarti un castello!». In quel periodo, forse nell’estate del 1995, trascorse qualche giorno al mare da noi, a Capalbio.

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Nel gennaio del 1996 morì Iosif Brodskij, per il quale Titina provava una grandissima ammirazione e curiosità. A New York era andata addirittura in pellegrinaggio a cercare il suo appartamento nel Village. Titina sapeva che avevo avuto una relazione con lui, ma non era mai capitato che ne parlassimo. Chiamò uno o due giorni dopo la sua morte, e mi disse senza preamboli, alla sua maniera: «Un grande dolore, vero?» Le parlai per la prima volta di lui, e poi in seguito ci tornammo spesso sopra. Una volta mi cercò, perché aveva visto una vecchia amica di lui, che le aveva raccontato qualcosa che riguardava i tempi in cui lui tornava ancora a Roma, ma noi non ci vedevamo più, e che lei pensava potesse farmi piacere sapere. Con fare complice mi domandò se potevo parlare. La richiamai poco dopo. Un’altra volta andai a casa sua, le scattai delle fotografie, mi chiese di raccontarle questa storia fin dall’inizio. Gliela raccontai. Voleva sapere quale fosse stato il primo approccio di lui. Le raccontai che mi aveva pregato di preparargli un caffè, e che quando mi ero girata dal fornello, lui mi aveva baciata. Arrossii nel raccontarglielo, e lei lo notò ridendo. Io le raccontavo il mio punto di vista, ma mi accorsi che lei era attratta da quello di lui. «Capisco bene il tuo stato d’animo, ma vorrei capire quello di lui». A lei, mi resi conto, interessava di più il punto di vista del seduttore. Nell’essere seduttiva, diventava in qualche modo maschile. La considerai una doppiezza. Questa doppiezza in lei effettivamente esisteva, anche nella sua arte, nei suoi mestieri, nella sua doppia residenza. Era una doppiezza, una mercurialità che aveva a che fare con l’astrologia, visto che era nata sotto il segno dei Gemelli. La sua casa era stata concepita da una mente femminile. Femminile la scelta di mobili tondi e armoniosi, sedie flessuose, accenni di mosaico, le aste in ferro battuto delle tende con una testolina di toro ai due estremi, e soprattutto i bicchieri di cristallo rosso, le tazze d’oro. La conchiglia portasapone poggiata con negligenza parigina sul lavandino in bagno, la coperta di pelliccia in camera da letto. Femminile la sua frivolezza, la sua cipria, il suo trucco, l’allungamento nero degli occhi. Femminile, ancora e soprattutto,

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ricordi e un’intervista

l’amore per i mercatini delle pulci, per il pescare fra le cianfrusaglie, per gli abiti, che comprava sempre usati, e faceva ritagliare e montare da una sarta che abitava vicino casa sua, a Trastevere. Anche le scarpe comprava usate, perché fossero più comode. Portava sempre stivaletti corti da pioggia, con la chiusura lampo laterale, che trovava straordinari per l’inverno. Femminile era il suo lavoro di scenografa teatrale, nel quale metteva tutto il suo genio italiano improvvisatore, il suo talento. Sembrava un personaggio uscito da La principessa Brambilla di Hoffmann. Così italiana da sembrare l’invenzione di uno straniero, di un nordico. Il sogno di un nordico, che doveva per forza invidiare la facilità delle sue trovate: «Titinà, Titinà!», la chiamavano nei teatri di Parigi. Lei guardava orgogliosa le locandine da lei dipinte a mano ogni mese per il teatro di Genvilliers, riprodotte in formato grande dentro le stazioni della metropolitana parigina. Invece, quando saliva sul palco, alla fine dello spettacolo – una volta mi capitò di vederla – era timida. E anche in questo era maledettamente femminile. Un po’ maschile, invece, ma in fondo neanche tanto, era la sua pittura. Nerboruta, appuntita, geometrica. Fatta di colori accesi: il verde smeraldo combinato con il rosso scarlatto, il blu notte con il nero, verde e blu cobalto, o verde e nero. Una pittura astratteggiante popolata di boxeur, di camion, di giocatori di basket, di stadi di città moderne – fondamentalmente New York – riprese di notte con foglie cadenti, lettere d’insegne e finestre. Una volta mi scappò detto al telefono che sembrava Anna Achmatova che volesse fare Majakovskij. «L’Achmatova? Per carità! Quella sfatta degli ultimi anni!», replicò di rimando. Mi disse che il futurismo le era sempre piaciuto molto, fin da giovane. A volte avevo l’impressione che Titina non avesse un buon rapporto con se stessa, che non si amasse sul serio, non si piacesse, nonostante il suo narcisismo, e i suoi ritratti fatti da Guttuso, Vespignani e tanti altri, di cui si circondava nella sua alcova. Me lo faceva pensare il fatto che non avesse sufficiente cura per la sua persona fisica, né per quello che aveva fatto. Dov’erano andate a finire le maquettes delle sue tante scene inventate? Non era una buona conservatrice di sé, una buona archivista, né avrebbe mai delegato completamente a qualcun altro quella cura di sé e delle sue cose.

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peggio delle sofferenze d’amore

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La madre l’aveva adorata, portata alle stelle, considerandola la ragazza più bella di tutte le famose belle ragazze dell’epoca. A confronto con la sua Titina, anche Palma Bucarelli era niente. Quell’esagerazione l’aveva resa insicura, perché non corrispondeva al vero. «Hai capito, siccome t’hanno fatto loro, devi essere per forza un capolavoro. Ma quando mai!», esclamava indispettita. Titina scriveva, e una volta mi aveva letto, sia al telefono, che a casa sua, quelli che lei chiamava «i poemetti in prosa». I poemetti in prosa parlavano della sua vita da ragazza, e di quella adulta: di sua madre sofferente, del suo ultimo amore. Mi diceva che scrivere è la cosa più bella che si possa fare, più del dipingere, molto di più, ma che lei non riusciva a scrivere, perché sentiva innaturale la propria voce. La sua memoria prodigiosa, al contrario, mi faceva pensare che avesse un buon rapporto con se stessa, pieno, addirittura innamorato, da figlia maggiore. Custodiva teneramente le memorie familiari, anche se aveva preferito liberarsi dei mobili. La sua memoria era soprattutto di tipo teatrale: acustica e visiva. Ricordava anche dai tempi scolastici brani a memoria in latino dell’Eneide e di Lucrezio. Da ragazzina i suoi modi per niente svenevoli, per niente languidi, piacevano ai ragazzi. Diceva di Gemma: «Vedrai che il fatto che gioca a pallone costituirà un punto in più per lei». Mi raccontava della fodera giallo limone, «bellissima», di un cappottino, di cui andava molto fiera. Il suo modo irruento da bambina di salire sul tavolo per ghermire una torta di compleanno a casa di amici. Sua madre se ne vergognava e disperava. Qui devo fare una notazione sul cibo. Titina amava invitare gli amici a mangiare a casa sua, ma diceva che niente la metteva in crisi quanto organizzare una cena. L’inaugurazione di una mostra per lei era un evento consueto, che non la metteva in agitazione; organizzare una cena, al contrario, le impediva di dormire la notte prima. Amava i cibi semplici, anche perché non sapeva cucinare: la ricotta, il prosciutto, le olive. Cibi succulenti, ma a lei proibiti: fritti, frutta esotica, la panna dei dolci, i gelati. Non il bere. Era generosa nel lodare i piatti preparati dagli altri. Titina aveva avuto una vita amorosa intensa, e lunghi periodi di solitudine. Amava l’amore pur nel suo strazio, anzi, soprattutto nello strazio, quando fa sfiorare la perdita della ragione,

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ricordi e un’intervista

l’impazzimento. In Anna Karenina l’aveva colpita questo brano, in cui Tolstoj descrive la disperazione di Anna, che non si sente più amata da Vronskij: «Si tastò la testa con la mano. “Sì, mi sono pettinata, ma quando proprio non lo ricordo”. Non credeva neppure alla propria mano, e si avvicinò alla specchiera per vedere: era effettivamente pettinata o no? Era pettinata, ma non riusciva a ricordarsi quando l’aveva fatto. “Chi è?” pensava, guardando allo specchio il viso in fiamme con gli occhi dallo strano luccichio che la guardavano spaventati. “Ma sono io”, capì a un tratto, e, mentre si esaminava tutta, sentì i baci di lui su di sé, e rabbrividendo scrollò le spalle. Poi alzò una mano alle labbra e la baciò». Una volta andai a trovarla a Parigi per un finesettimana. Doveva essere l’inverno del 1997. Un’amica americana era di passaggio in Europa, a Parigi, col marito e le figlie. Ne approfittai per una brevissima fuga dalla famiglia, la prima da quando avevo avuto i figli. Con Titina andammo in giro per mercatini, in taxi, ci prendemmo un cioccolato in uno dei caffè più belli della città, passeggiammo sul Lungosenna, a Saint-Germain. In un mercatino ci facemmo un piccolo scambio di regali: lei a me un fazzoletto, e io uno a lei. In un altro lei scelse un vasetto di ceramica, rimasto senza coperchio, con la scritta dorata TABAC, e lo destinò ai miei figli come portapenne. Ha sopra due tronchi in rilievo, con rami da cui pendono voluminose ghiande. In quell’occasione vidi il suo piccolo studio a La Ruche, e pranzammo lì assieme la domenica. Ricordo che cosa mangiammo per dessert: due grandi paste, nelle quali prevaleva il gusto del limone. Il suo studio riaffermava il gusto titiniano del suo appartamento di Trastevere. Era fatto di due stanze comunicanti: una d’ingresso, dove, anche, mangiava e cucinava, e l’altra, che costituiva lo studio vero e proprio, nel quale, anche, dormiva. Le stanze erano gremite di oggetti, di quadri. Vi spiccava un suo grande ritratto dell’amico Gilles Aillaud. Grappoli d’uva d’argento o verdi, di vetro, il senso di un’opulenza ricercata. C’era anche tutto il resto, ma in piccole dimensioni. Il tavolo sul quale mangiammo somigliava al tavolino di un caffè. Il bagno non aveva finestre, e di questo Titina si lamentava. A Parigi Titina aveva una coppia di portieri, che badavano a tutto l’edificio. Erano antifa-

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peggio delle sofferenze d’amore

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scisti portoghesi. La moglie per un certo periodo provvedeva alla spesa e le rimetteva in po’ in ordine lo studio, rifacendole il letto ogni mattina. Titina le era grata di questo aiuto, ma mal sopportava l’odore delle sue mani da massaia, che entrava nella sua casa. Una volta le lenzuola del suo letto appena rifatto si erano impregnate di un forte odore di sedano. Aveva dovuto riportare le lenzuola candide di bucato indietro in lavanderia. Il marito della portiera era critico nei confronti degli oggetti lucenti di Titina. Un giorno li aveva liquidati con un: «C’est bourgeois». Titina si lamentava di stare stretta, di non poter mai cucinare il pesce per questo, ma allo stesso tempo amava il piccolo, e sosteneva che le stanze piccole sono più belle. Nel 1998 Titina subì un delicato intervento chirurgico al cuore a Parigi, e per l’occasione fu sottoposta a una potente anestesia. Al suo ritorno andai a trovarla. Viveva temporaneamente dal fratello Citto nei pressi di Piazza Mancini. Titina riposava sul letto. Mi raccontò del forte senso di freddo che si prova al risveglio da una potente anestesia. Si lamentava del dolore alla ferita, ma senza mai fare la lagna, senza mai essere noiosa. Disse: «Certo, peggio delle sofferenze d’amore non c’è niente…» Questo mi stupì: Titina convalescente stava anteponendo i mali sentimentali ai mali fisici, il cuore che soffre d’amore al cuore clinicamente malato e operato. Aveva sofferto d’amore a New York, per un uomo sposato, lontano, e del quale lei si era perdutamente innamorata. Mi raccontava al telefono che non appena si svegliava, sentiva quella morsa al cuore che non la lasciava più. Anch’io avevo conosciuto per anni quella morsa al cuore al risveglio ogni mattina. Titina ripassava delle sensazioni del mio passato, le risfogliava, ci tornava su. Tornata da Parigi a settembre, mi aveva trovato con i capelli corti, e non sapeva capacitarsi di questa mia decisione repentina. Non poteva guardarmi: «Che cosa hai fatto? Perché?» Il suo sentimento era un misto di dispetto e di disperazione. Trovava che, col taglio dei capelli, avessi cambiato anche il modo di vestire. Un po’ era vero. Disapprovava entrambi. Ogni volta che mi vedeva, mi faceva un esame: lo sapevo dal suo sguardo, anche se non diceva niente. E spesso avevo la sensazione che avrebbe voluto ritoccarmi, e non solo nell’aspetto.

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ricordi e un’intervista

Un giorno andai a trovarla a casa sua, e era a letto. Ricordo che non stava bene. Mi domandò: «Perché ti metti la camicetta?» Io non sapevo che cosa rispondere, dissi che non la mettevo quasi mai. Mugulò storcendo leggermente la testa, e poi disse: «È la seconda volta che te la vedo». Certo era difficile sfuggirle. Un’altra volta, a teatro, lodò un mio vestito indiano lungo fino ai piedi, dalla scollatura tonda. Lo aveva approvato completamente. Poco tempo dopo c’incontrammo al Teatro dell’Opera, ma questa volta non mi approvò: «Tu non devi vestirti da sorella čechoviana, ti devi mettere come l’altra sera, perché ti viene fuori…», e dipinse in aria l’ovale del viso. Le mostrai delle fotografie scattate l’estate del taglio di capelli, il 1998, a Pistoia. Gliene piacque una di Ruggero. Di Gemma lodò il modo in cui la testa le poggiava sul collo. Titina aveva un’idea molto precisa delle facce, dei difetti fisici, dei caratteri. Ne aveva visti tanti. Li studiava come se avesse potuto modificarli. Per descrivere corpi e caratteri usava le forme accrescitive, o dispregiative, come adesso non si usa più. «Stai attenta a quella, eh, che è una linguaccia». Oppure: «Quello s’è messo con una bruttona». Oppure commentava i commensali: «Quella violenta sguaiatona». Sapeva scovare il borghesismo dentro minuziosi particolari espressivi: «Dice “casa di mare”». Titina non infarciva mai di parole francesi, come avrebbe fatto quasi chiunque vivendo un po’ a Roma, un po’ a Parigi, il suo discorso. Usava solo, con un neologismo, «flattato», per dire lusingato. Era, e si sentiva, totalmente italiana. Quando un giorno le descrissi dei galleristi meridionali che mi era capitato d’incontrare, dall’aspetto un po’ rustico, lei aveva esclamato con partecipe avvilimento: «Come siamo provinciali!» Titina sapeva cantare, e gli amici la chiamavano apposta da Parigi per farle cantare una certa aria da un’opera. Sapeva imitare, e caricaturizzare, e quando si parlava di qualcuno, era capace di riassumere l’intera persona con la risata che la contraddistingueva, oppure con il suo particolare tic linguistico: «Ah sì?», era Ruggero; «È vero», incollato a ogni frase, suo padre Alberto. Mi descriveva la posa acciambellata sul divano di Isabella Far, la seconda moglie di de Chirico, «come un gatto, sai»; sapeva ricreare intere scene del passato, della sua casa di famiglia a Via Sardegna, del loro menage domestico, reso turbolento dal carat-

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peggio delle sofferenze d’amore

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tere nervoso del padre, che, quando perdeva la testa, poteva tirar via la tovaglia dalla tavola con tutto quello che vi era sopra. Ricordava se stessa bambina al mare, a Castiglioncello, con le cugine Pirandello, al cui confronto non si sentiva abbastanza bella; la sera in cui il padre si era messo a piangere di commozione, di nascosto, dopo aver visto i suoi quadri in fila contro il muro, raccolti alla vigilia della sua prima mostra. Titina aveva cominciato a dipingere ritraendo i parenti da ragazzina: sua madre, il suo adorato fratello Citto, che convinceva a star fermo perché le posasse, e di notte – così mi raccontava il cugino Puccio –, poco più grande, andava a Piazza Fiume, vicino casa sua, col cavalletto, a dipingere nel bel mezzo della piazza il tram con le foglie gialle depositate sopra e incollate dalla pioggia. Aveva i capelli neri sparsi sulle spalle, a quel tempo. E il nero dei capelli non lo perse mai del tutto. I suoi capelli restarono neri e bianchi fino all’ultimo. Un giorno andai al suo studio e ci mettemmo a chiacchierare. Lei mi dava le spalle continuando a dipingere la locandina per il teatro di Parigi: doveva farlo ogni mese. Portava una gonna, dipingeva contro il muro, con la disinvoltura di chi ha fatto tutta la vita lo stesso mestiere. Mi resi conto che vedevo per la prima volta dipingere una pittrice italiana donna. Era critica come lo sono gli esseri scanzonati, che hanno un occhio sornione, ironico sugli altri. Si abbandonava però anche volentieri a commenti entusiastici sulla bellezza di qualcuno, su un balletto, un libro, e guai a chi cercava per snobismo di sminuire qualcosa che secondo lei aveva un vero valore. Era fervida, appassionata. Di fronte a personaggi di potere qualche volta era cieca. Aveva l’insicurezza delle persone sole, che hanno solo se stesse per poter essere apprezzate. Era affettuosa, faceva sempre le feste, esclamava: «Annalisa cara», quando la chiamavo. Per mesi, dopo il mio repentino taglio di capelli, continuò a guardarmi con lo sguardo impietosito che si rivolge a un essere che si è rovinato con le sue mani. Infine dovette convenire che i capelli cominciavano a ricrescermi, e continuava a ripetere: «Non ci riprovare più, eh?». Poco tempo dopo l’infatuazione, Anna sottrarrà Vronskij a Kitty, e le procurerà un doppio dolore. Titina non fece mai nien-

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ricordi e un’intervista

te di simile a me, né lo avrebbe fatto, ma era capace di piccole infedeltà, piccoli pettegolezzi fra signore. Purtroppo chiacchierava anche con altri, soprattutto con altre, e non ne faceva mistero. Piccole cose, perché in lei grande era il senso dell’amicizia, e perché lei, in genere, era grande. Ma a chi è infatuato possono sembrare gigantesche. Ruggero chiamava ironicamente questa fase della nostra amicizia «il crepuscolo degli dei». Del resto abbiamo bisogno di mitizzare qualcuno: a che cosa si ridurrebbe altrimenti la nostra vita? Titina si era presto stancata dell’Olimpo in cui l’avevo collocata con il suo aiuto. L’altezza le dava le vertigini: se ne era voluta sbarazzare e si era lasciata scivolare giù fra i mortali. Era una brava ragazza con un tocco di delinquenza. Negli ultimi anni Titina si lamentava quando doveva andare in Francia, perché il lavoro ve la portava. Ma di lavorare aveva bisogno. Fu costretta anche a vendersi la casa per necessità. Mi dispiaceva che dovessse continuare a lavorare per forza. Era fiera di sé, perché sapeva di essere stimata, e questo le bastava. Non decantava la sua vita, che non trovava fosse stata drammatica, o particolarmente avventurosa, ma malinconica. Mi diceva che l’essenziale nella vita non è il guadagno, né il successo, ma fare quello che ti piace. Nel 2003 dipinse tre gouaches per la copertina di un mio libro di poesie, L’oro ereditato, e me le ragalò. Poi venne alla presentazione, si mise a sedere in incognito in mezzo alla gente. La ringraziai pubblicamente. Era la prima volta che Titina assisteva a una mia lettura. Ero un po’ intimorita dal suo giudizio. La serata le piacque, soprattutto l’amico russo che mi presentò, Gleb Smirnov. Lo trovava bravo, irresistibile. Come aveva letto bene una mia poesia! Titina aveva un debole per i russi. Leggeva spesso libri russi, e poi si divertiva a commentarli, e cercava una conferma a questa sua passione, che da me le arrivava puntualmente. Dei russi le piaceva l’indolenza, la scarsa affidabilità, una certa dissipazione che era nelle sue corde, e in generale la trasgressività. Si divertiva quando le raccontavo della loro attrazione per il precipizio, sempre accompagnata dal desiderio di redenzione. «Molto Dostoevskij», era il suo commento ai miei racconti sui poeti russi che incontravo.

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peggio delle sofferenze d’amore

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Un giorno la invitammo a cena con amici russi. La mattina dopo mi raccontò al telefono che aveva domandato a un’ospite come mai il socialismo non avesse funzionato in Russia, e quella le aveva risposto che il socialismo non poteva funzionare, perché era proprio sbagliata la teoria, le premesse erano sbagliate. Titina era rimasta un po’ male, tra il serio e il faceto come al solito. Buttare tutto in burla era la sua passione, ma su quest’argomento meno di tutto. Per quanto riguardava la politica, Titina s’inchinava alle idee di Citto, che erano le sue stesse. Chiedeva a Citto per chi votare, e le piaceva avere in lui un sicuro punto di riferimento ideologico. Diventava sorella minore, ubbidiente. Quasi pedissequa. Negli ultimi tempi accennava spesso al tema della morte. Mi diceva che non le importava tanto di morire. Ma che avrebbe desiderato farlo a Roma, e in casa sua. E così è stato. Titina sentiva che non avrebbe vissuto ancora per molto. Rifletteva sulla propria vita, la ripassava, era impegnata in un lungo sogno retrospettivo, che doveva dilatare il suo tempo. Viveva rispetto agli altri, indaffarati nelle piccole faccende di ogni giorno, uno sfasamento solitario tutto suo. Chissà perché non le ho mai detto che avrebbe lasciato un grande vuoto dentro di me. Il tema della morte, anche con un moribondo, anzi, soprattutto con lui, si evita, si sfugge, si differisce. Dopo sembra improvvisamente di afferrare tutto meglio. Dopo c’è la nostalgia. (2006)

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Questo qui è bellissimo (su Ruggero Savinio)

Mi piacerebbe sapere che cosa distingue un artista da un uomo comune, anche per poterlo comunicare agli altri. Naturalmente il poter creare qualcosa di bello legato all’arte, che comunichi al mondo la sua unicità nell’immediatezza. E questo ricordo di averlo sentito subito nei cataloghi degli anni Ottanta, quelli legati con la spirale, che Ruggero mi offrì quando cominciammo a frequentarci alla fine degli anni Ottanta. Colori sontuosi, cuciti da contorni armoniosi e originali di figure immerse nella natura, grandi figure protagoniste sulla tela. Poi da un modo particolare, reinventato, di muoversi dentro la vita. Una sensibilità profonda e notturna, un modo inappariscente e introspettivo di stare al mondo, nemico di ogni facile eccentricità. L’artista, anche nei gesti, è uomo più privo di sovrastrutture, di sovraimmagini: più nudo degli altri. Non teme le pose fetali quando si sdraia, non teme di non essere tutto d’un pezzo, anzi, accetta e vive dei mille pezzi di cui è composta la sua vita. E poi poggia gli oggetti allo stesso modo, imprevedibile, in giro per la casa. Non riesce a usarli in modo razionale, non sa e non vuole essere previdente: impensabile uscire sotto la pioggia con le scarpe da pioggia, tenere da conto quelle più nuove, vestirsi da spiaggia quando si va in spiaggia, eccetera. Ruggero è più disarmato degli altri nel senso del buon senso comune, ma più agguerrito nella lungimiranza, nel coraggio, in una saggezza fatta di vita e di cultura, che però non è mai esibita, mai noiosa, mai impositiva. Queste doti sono come una rete larga attraverso la quale passano i fatti della vita quotidiana, le relazioni con gli altri, i rapporti di lavoro, gli affetti. Ruggero lascia correre, apparentemen-

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ricordi e un’intervista

te, ma in realtà la sua griglia esiste. Una griglia etica di ferro. Giudizi acuti e severi, critici, anche ipercritici. Commenti espressi in forma di freddure. Un’incertezza e inadeguatezza cronica non mascherata da niente. Uno stoicismo cronico, fatto di incontri e abbandoni, di sogni ricorrenti, di angosce molto umane, di adattamento a tanti luoghi diversi, ogni volta più facile. A tanti traslochi, carichi, pacchi, stoffe avvolgenti, scotch, forbici, vecchi colori secchi, sacchi neri, acquaragie e trementine a metà che tremano su un piano di lavoro accanto al cavalletto, pennelli lunghi e corti, sedie incrostate, quadri che manovra con decisione esperta, vecchie chiavi inutilizzabili, libri. Non conosco nessuno che imponga se stesso con tanta dolcezza come Ruggero. Ma sarebbe ingenuo considerare questo un difetto della volontà. Al contrario. Semplicemente, quello che vuole e quello che non vuole è diverso dalla maggioranza degli altri, e lo distingue dagli altri. Senza renderlo diverso, perché l’artista è anche più uomo degli altri, perché ha meno bisogno di mascherarsi, anzi, ha bisogno di smascherarsi. C’è un episodio della sua infanzia più remota, in cui Ruggero mi sembra racchiuso. Andava all’asilo dalle suore, ai Parioli, e la mamma gli dava per merenda un ovetto fresco, che lui doveva bucare e bere a ricreazione. E lui vi si attaccava ogni giorno, con la voluttà arresa con cui il bambino piccolo si attacca al seno materno. Un bambino, suo compagno, prese a prenderlo in giro e a gironzolargli attorno, finché Ruggero glielo ruppe in testa. La suora gli fece una ramanzina e lo mise in castigo. Oggi credo che, messo nella stessa situazione, Ruggero si comporterebbe allo stesso modo. Romperebbe l’uovo in testa a chi lo disturba mentre si accinge a berlo. In Ruggero è molto vivo l’elemento creaturale. Attingere da un uovo nutrimento è risalire alle origini della vita e delle sue energie. L’uovo è chiuso e misterioso, tutto interno, come lo è Ruggero. L’uovo, anche, è usato in pittura per macinare i colori. La tempera all’uovo era la tecnica che il padre usava, e che insegnò a usare al figlio. Ruggero, da piccolo, accudiva un piccolo criceto, che teneva sul balcone della cucina, e una coppia di topolini bianchi in cantina. Le oscurità, i luoghi proibiti e misteriosi di preghiera, umidi, si confanno alla sua natura saturnina.

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questo qui è bellissimo

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Ho una speciale nostalgia per gli anni in cui Ruggero era bambino, poi trentenne, quarantenne, e io non lo conoscevo. Quando fumava, aveva un’aria svagata ancora da adolescente, e un inconscio molto scoperto e affascinante nel dipingere. I disegni grigi a matita di figure alte e magrissime, le nature morte con i cestini monocromi o fatte di pochi colori. Quelle chiare escrescenze astratte che sembrano, sfondo nelle foto, la concretizzazione in materia del fumo della sua sigaretta. E poi la serie di Hölderlin in viaggio: una figura onirica e stregonesca, sempre ossuta e imponente, coi capelli lunghi, disegnata e dipinta più volte. Riguardo con nostalgia anche le sue fotografie. Da bambino, ripreso dalla zia Raisa – che a quel tempo era già separata da de Chirico e era diventata la moglie dell’archeologo Guido Calza, direttore degli scavi a Ostia Antica – dietro una colonna romana, in grembo a una statua, o nell’atto di leggere su una scaletta da biblioteca nella casa della zia. Oppure seduto a dipingere accanto al padre, intento a scrivere i suoi articoli alla macchina da scrivere. C’è, in nuce, l’amante dei libri, già dedito a quel tempo alla lettura; l’amante dei luoghi carichi di memoria. Un ragazzino, anche accanto a un padre ingombrante, con una sua fiera individualità, un suo microcosmo a sé stante, una sua esistenza mitologica. Le fotografie, e anche i ritratti, ci riportano vive persone che non ci sono più: suo padre, perso a diciassette anni; sua madre, che gli sopravvisse a lungo e ricamò con maestria i quadri del marito; Lorenzo Tornabuoni, col quale andava fuori, sul fiume, a dipingere; il poeta Edoardo Cacciatore, al quale aveva fatto un piccolo ritratto da bambino, che Edoardo tenne tutta la vita attaccato in casa; Titina Maselli, grande e stimata pittrice, amica e confidente. E altri, qui non presenti. Oppure riportano indietro a situazioni che non ci sono più: case d’affitto, luoghi anche provvisori come lo studio della Città Universitaria a Parigi, lunghi amori finiti, passeggiate legate a posti che non si frequentano più. Guardo con nostalgia anche alle fotografie che ci riportano insieme indietro negli anni, all’epoca in cui i nostri figli erano appena nati, o bambini; in cui facevamo piccoli viaggi tutti insieme. Anche questo periodo è finito. Il filo

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ricordi e un’intervista

unico che lega l’infanzia di Ruggero all’infanzia dei figli, peraltro avuti tardivamente, è la monumentalità dello sfondo in cui si muovono, trascorrono il loro tempo libero, e quel modo solitario, autonomo e interiore di vivere, che ha trasmesso anche a loro. C’è anche, sì, una malinconia legata a questo. La malinconia per quanto si è perduto, una malinconia apriori. Ma a questa si unisce la gioia che si prova, che Ruggero prova, e io la conosco bene, quando ritrova a volte il perduto. Nei musei, per esempio. Abbiamo visitato più volte i musei di Roma e di tante città italiane, e anche di Atene, Parigi, Londra, Berlino, San Pietroburgo, New York, Washington, Dublino, e altre. Nei musei Ruggero è preso da un’animazione diversa, direi da una vera e propria eccitazione, da un furore estetico tutto suo. Non passa le ore davanti a un quadro, come possono fare i russi in viaggio. Ma, entrando in una sala, li vuole afferrare subito tutti in uno sguardo, e li riconosce da lontano. Ne riconosce l’autore, li nomina, li ama, li guarda per la prima volta o li riguarda, felice di poterli ammirare dal vivo dopo averli apprezzati sfogliando i libri d’arte. Dal centro della sala, dove li coglie, si sposta a raggera rendendo omaggio a tutti con gli occhi e con le parole, uno dopo l’altro. Come gli scrittori vengono ispirati da quello che leggono allo stesso modo in cui vengono ispirati dalla vita, così gli artisti vengono ispirati dai maestri del passato e del presente. Ruggero ha una bella collezione di libri d’arte, ulteriormente colorati dalle sue dita ancora sporche. Sono libri particolarmente vissuti. «Questo qui è bellissimo!» esclama rapito. E è anche felice di poter condividere la gioia con qualcun altro, di poterlo contagiare. Di poterlo condurre dentro il suo mondo felice, popolato di quadri sacri e profani, di manti dai colori lussureggianti, di eremiti, di ombre, di meravigliosi sfondi paesaggistici inventati, sognanti, ma immaginati sempre con un riferimento al luogo in cui si vive. Il Trasimeno riconoscibile sugli sfondi del Perugino, per esempio. Ruggero è attratto dai paesaggi sullo sfondo, da quello che è raffigurato in lontananza, una lontananza nebbiosa, e da quello che è piccolo, dipinto a piccoli tratti. È anche attratto dalla taglia piccola, misurata, dei quadri. Dall’equilibrio compositivo, che racchiude in sé l’armonia cosmica. L’uomo dipinto accanto alla donna, come Adamo accanto a

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questo qui è bellissimo

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Eva nel Giardino Terrestre. Un uomo che da tanto tempo ha già peccato, che da tanto tempo è stato cacciato dall’Eden. Negli ultimi anni Ruggero si è stancato delle malinconie, che nei suoi quadri sono allegorizzate da figure femminili. Non ha liquidato un certo stato d’animo, ma dice di essere stanco dell’elemento mitologico presente nei suoi quadri, cioè di tutto quello che è evocativo, messaggero di altro. I suoi quadri più recenti riproducono la realtà dei suoi viaggi, anche dell’ultimo in Cina. Le pennellate sono più veloci, immediate, sicure, meno trattenute. Così i ritratti, ricchi di colori e di una sapienza pittorica maturata negli anni. (2012)

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I No di Nika (ricordo di Niccolò Tucci)

L’altroieri è arrivato Nika, alle 15.09, e siamo andati a prenderlo a Chiusi in tre: Ruggero, Andrea e io. Ruggero si è avviato al binario due, che era quello del treno che arrivava da Milano; io e Andrea siamo rimasti all’ingresso della stazione, davanti alla scala che porta ai binari. Dopo un po’ è emerso il color crema che caratterizza l’abito estivo di Ruggero, con due borse di plastica poco voluminose e poco pesanti in mano, e Nika accanto, uno zaino sulle spalle, blu, di quelli con cui si aggira per Manhattan. È salito su per le scale con un’aria interrogativa e qualche tic alla mandibola accentuato dal nervosismo del viaggio, vestito di chiaro, come sempre d’estate. Pantaloni chiari un po’ pesanti, scarpe solide chiuse, di cuoio rossiccio, gran cravatta di seta ocra allacciata a fiocco, e una giacca a righine sottili bianche e celesti. I capelli bianchi un po’ secchi, lunghi, da gentiluomo, Nika si è fermato davanti al passeggino verdechiaro dal quale Andrea, il piccolo di casa, lo stava scrutando interrogativamente. I due si sono squadrati in modo identico: Nika col timore di non essere accettato, Andrea col sospetto che nutre verso gli sconosciuti. Non appena seduti in macchina abbiamo chiesto a Nika se fosse stato bene in Piemonte, dagli A., dov’era andato anche l’altr’anno prima di venire qui. Lui ci ha risposto con un no deciso, di quelli a cui non siamo più abituati. Ci ha detto che c’era un’atmosfera grave, tetra, e che lui non ce la faceva più, e aveva finto di star male per partire. Non aveva quindi mangiato niente né a cena né per la prima colazione, una specie di sciopero della fame perché lo lasciassero andare. Nika è il secondo anno che viene da noi a Cetona; la prima volta era venuto l’8 settembre scorso, il giorno dell’inaugu-

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ricordi e un’intervista

razione della mostra di Ruggero, e poi si era fermato all’incirca per una settimana. Tutto di lui quest’anno: la sua figura fisica, le sue espressioni, sono una conferma che Nika è sempre uguale al se stesso dell’altr’anno, di sempre, e che vederlo è come conoscerlo da sempre, da quando era bambino fino a oggi. Il no è uno dei suoi tratti principali: un no deciso, infantile, forte. Ha narici a cuneo, pronte all’indignazione, e sopracciglia che si accigliano; un po’ di barba bianca sotto l’orecchio, dove lui non arriva a vedersi e a radersi. Ha 82 o 83 anni, e sale le scale senza appoggiarsi al passamano. È gentiluomo, fa complimenti anche se non è complimentoso, ha buona memoria, e apprezza molto tutto quanto lo circonda: che si tratti di paesaggio, cibo, o persone. Dà soddisfazione averlo come ospite, e questo è raro. Ha mani rese un po’ piatte dall’età, come se fossero slogate. Appena arrivato a casa ha rifiutato di mangiare dicendo che avrebbe mangiato con più appetito la sera, è sprofondato nel divano attaccato al muro, e si è assopito così, in presenza del bambino nel box, e di un altro ospite, Gianluca. Ieri mattina ha pregato Rita di non rifargli il letto, dicendo che lui in America vive da solo, ogni mattina si rifà il letto, e non vuole abituarsi diversamente qui. Rita me lo ha raccontato tutta allegra, e con me lo chiama il signor Nika, o semplicemente Nika. Voleva consultarsi con me per sapere che cosa dovesse fare, e io le ho detto di non contrastarlo. Nika ha chiesto di rivedere alcuni posti dov’era stato l’anno scorso: per esempio il bar dei Boni a San Casciano, che si affaccia sulla Val d’Orcia. Mi ha fatto piacere, perché significa che lo aveva colpito, mandato a mente e ripetuto a New York – dove vive da quand’era giovane –, come una visione. Il secondo giorno è uscito alle tre con un berretto avorio di cotone in testa, simile a quelli che portano i bambini al mare, alla volta di San Casciano dei Bagni. Gli avevo spiegato che non potevo uscire prima di aver dato la merenda a Andrea, alle quattro. Dopo la merenda ho caricato Andrea sul seggiolino posteriore, e ci siamo diretti alla ricerca di Nika sulla strada tutta curve che porta a San Casciano. Nika non si vedeva, non si vedeva, ma a un tratto: eccolo, che avanza a passo spedito, senza badare a niente, dalla parte opposta a quella di marcia, per avvistare meglio le automobili. Suono piano il clacson, ripetutamente, e lui alla fine si volta un po’ seccato, e non mi ricono-

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i no di nika

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sce subito: non mi aspettava. Gli offro di salire in macchina, stretta fra due curve. Lui, con la sua erre moscia e il tono garbato da uomo di mondo, replica con fermezza: «No, ti ringrazio, preferisco continuare». Aveva già percorso sette chilometri, e gliene mancavano quattro. Fissiamo un appuntamento in piazza, naturalmente al bar dei Boni, che ha un ottimo gelato. Nika ha un sorriso che può essere anche pieno, e in cui viene fuori un mento infantile, a triangolo. Quest’inverno trovai su una bancarella di libri fuori catalogo il suo Gli Atlantici a Piazza Esedra, e mi sembrò un colpo del destino; lo comprai e ritornai soddisfatta a casa, pensando: you made my day. Sul retro della copertina c’è lui in posa un po’ da Bonaparte, con un giaccone che posso immaginare solo blu – visto che la fotografia è in bianco e nero – sul ponte di Brooklyn. È scattata da una sua vecchia amica, all’epoca molto giovane e in assoluto molto più giovane di lui: lui vi appare un po’ corrucciato, un po’ tiranno, virile, ma sempre giocoso. Forse oggi, in vecchiaia, si arrende di più a essere il bambino che è rimasto. Mi ha subito dato da leggere un capitolo che vuole aggiungere a una nuova edizione de Le confessioni involontarie. È un po’ pasticciato ma riesco a leggerlo ugualmente, a fatica, in una radura vicino casa, anche se Andrea vuole sostituirsi a quelle pagine, pretende la mia attenzione su di sé. Nika riesce a riprodurre perfettamente i dialoghi di se stesso bambino con i suoi fratelli, i litigi, le monellerie, i sensi di colpa che viveva allora. Gli ho chiesto come fa a ricordare e a ricreare episodi tanto lontani, e lui, sulla ghiaia che conduce a casa, mi ha risposto: «Evidentemente sono rimasto lo stesso». Lo stesso tono di ultimatum, il senso del dramma ereditato dalla madre russa, si ripeteva in un biglietto che Nika si accingeva a portare a mano alla pricipessa V., al podere La Corticella. Quando le ha telefonato la sera dell’arrivo, lei si è precipitata a dirgli: «Domani non venire, per carità, semmai vieni dopodomani». Nika ha finito per dimenticare l’invito, e la principessa l’ha chiamato furibonda a colazione. Lui si è scusato: «Scusami, cara», proponendo di passare nel pomeriggio. Lei, risentita: «No, ci vediamo domenica». Domenica è il giorno del battesimo della nipote, e lei aveva rifiutato di vederlo il giorno prima, perché quel

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ricordi e un’intervista

giorno avrebbero portato i tavoli per il pranzo. Nika, seccato del tono offensivo di lei, dopo pranzo, invece di riposare, è uscito pallido, con la barba sfatta, dalla sua stanza da letto, annunciando che sarebbe andato a casa V. a piedi, a consegnare a mano il biglietto, e me lo ha porto. Era la sua carta da lettere intestata color crema pallido, sottile, col suo indirizzo di New York in celeste sul retro. Alla fine della pagina, con scrittura malferma ma fascinosa, c’era un postscriptum che seguitava sul retro di un altro foglio intestato. Il suo inchiostro nero aveva ornato di una o due sottolineature le parole, come se fossero note musicali da leggere cantando. C’era un «peccato» sottolineato due volte, un «addio» finale, e «Nika», con una enne che cominciava da lontano. Nika è molto preso da se stesso, e gli scambi con lui sono mediati da quel suo essere eternamente sovrappensiero, pronto a tramutarsi repentinamente in spettacolo. Può fare spettacolo anche solo per me e Ruggero, seduto al tavolo di marmo in cucina, e è divertentissimo. Oppure dice le cose in modo brusco, schietto: può ricordare che è ora di andare, quando sono passati i cinque minuti che avevo chiesto di aspettare. Può essere garbatissimo: quando dice «grazie, cara», perché lo hai cercato, o perché gli hai offerto qualcosa che ama. Ha una gentilezza ricercata, e la erre moscia in quel caso diventa il corollario di un vetusto saper fare consolidato da una lunga vita vissuta in società. Uscito dalla stazione, appena sale in macchina i suoi giudizi ti fanno sentire a casa: «El’cin è una merda», «Dagli A. sono stato malissimo», e così via. Ti senti a casa dopo un lungo pellegrinare fra persone che mediano, camuffano, tentano di plasmarsi senza riuscirvi, fingono, tendono al conformismo e si sentono in pace stendendo col mattarello uno strascicato «poveretto». Nika: «Ma che poveretto! A calci nel sedere!» L’anno scorso ricamavo un cuscino mentre aspettavo Andrea, e lui, appena visto il ricamo, ha scandito in modo indimenticabile: «Non ti rincoglionire». Tante volte quest’inverno mi è tornata in mente l’esortazione perentoria di Nika. Se una signora commenta positivamente l’incontro con uno sconosciuto, un avventuriero all’aspetto, col quale ha appena scambiato le prime parole, lui si punta i pollici nel panciotto, e al suo di lei: «Simpatico», replica seccamente: «No».

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i no di nika

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Nika era il figlio prediletto, quello che si prendeva tutti i ceffoni che gli altri, stupidi, non avrebbero potuto sostenere. In chiesa, durante il battesimo, scruta le donne. Se mi volto a guardarlo mentre le guarda, ritrae lo sguardo come una tartaruga la testa, neanche fossi sua moglie. Nika è un cortigiano ribelle. Frequenta volentieri i titolati, ma poi ne parla male. E, congedandosi dal famoso battesimo, mi dice, di nuovo come se fossi una moglie appena trascurata: «Di tutte le invitate, l’unica bella donna eri tu». Gentile, però. Quando mi sento inappellabile nei giudizi e mi faccio rabbia per i miei no che proprio non riesco a mitigare, penso a Nika, al suo modo provocatorio, ai suoi no decisi, istintivi, rimasti gli stessi da quando ha imparato a parlare. No. Ha voluto raggiungere San Casciano a piedi, perché l’anno scorso ci eravamo arrivati in macchina, e lui tutto l’anno, a New York, aveva ripensato a questo luogo, ma senza averne il senso preciso della distanza. Adesso, dopo la piccola maratona intrapresa quest’anno a piedi, potrà rivedere ogni curva, ogni scorcio improvviso. (1991)

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Intervista su Iosif Brodskij di Valentina Poluchina

valentina poluchina Quando e in quali circostanze ha conosciuto Brodskij? annelisa alleva Ho conosciuto Brodskij nell’aprile del 1981. A Roma, nell’antica Villa Mirafiori, fu organizzato un ciclo di conferenze per un corso di perfezionamento di giovani neolaureati in Lingua e Letteratura russa. Brodskij a quel tempo si trovava a Roma come borsista, ospite dell’Accademia Americana, e viveva al Gianicolo, in una casetta a due piani col giardino accanto all’Accademia. Fece per un piccolo gruppo di studenti una conferenza sulla poesia russa, in particolare ci lesse un suo commento sulla poesia Novogodnee [Per l’anno nuovo] di Marina Cvetaeva, che era stato appena pubblicato in forma di prefazione a un’edizione americana dell’opera della poetessa, in russo, in cinque volumi, dal titolo Stichotvorenija i poemy v pjati tomach [Poesie e poemi in cinque volumi]. v. p. E in che modo l’affascinò? a. a. Mi affascinò fin da subito il modo in cui entrò nell’aula, il passo ampio e deciso, in solide scarpe maschili. Mi affascinò la sua giacca jeans, la sua lingua russa, e soprattutto la sua erre moscia. E poi quel suo modo sprezzante di trattare il nostro professore, che non poteva letteralmente aprire bocca senza sentirsi rispondere da Brodskij in modo villano. Allora avevo 24 anni, lui quasi 41. v. p. Come si svilupparono i vostri rapporti? a. a. Mi piaceva. Lo guardavo, e mi sembrava che anche lui guardasse me, quando alzava gli occhi durante la lettura o duran-

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ricordi e un’intervista

te le domande. E poi scoprii che era così. Verso la fine della conferenza mi avvicinai alla cattedra insieme con altri per un autografo: avevo con me un’opera in due volumi di Marina Cvetaeva. A quel tempo non avevo ancora letto i versi di Brodskij. Notai che firmava i libri di quelli che stavano in fila dopo di me, e con un gesto mi chiese di aspettare. Poi mi scrisse una dedica, aggiungendo il suo numero di telefono. Quella sera stessa lo chiamai. Mi diminuì improvvisamente l’appetito e il sonno. Poi lui partì per l’Inghilterra, e io pure dovetti andare a Londra, a studiare l’inglese. In piena estate tornò negli Stati Uniti, e io pure dovetti organizzare un viaggio negli Stati Uniti con miei amici italiani. Fu un errore ingenuo. Lì capii che non permetteva a nessuno di entrare nella sua tana. Dopo l’America decisi che non l’avrei più cercato. Nel frattempo partii per Leningrado con una borsa di studio di nove mesi. Brodskij in America mi aveva dato l’indirizzo dei suoi genitori. Durante il mio soggiorno in Russia non gli scrissi mai. E anche quando tornai in Italia, non gli telefonai, né gli scrissi. Fu lui a chiamarmi il giorno di Natale del 1982 da Venezia e m’invitò. Brodskij non amava affatto perdere le persone. I nostri rapporti diventarono simili a una partita a scacchi. Mi aveva fatto capire che doveva essere lui a decidere quando, dove e in quale occasione ci saremmo incontrati. Ci vedevamo in modo più o meno regolare un paio di volte l’anno, ci telefonavamo una volta alla settimana, e ci scrivevamo. Raramente abbiamo vissuto insieme, ma succedeva anche questo – a Ischia, nel Maine, a New York, a Amsterdam, a Brighton, a Londra, a Firenze. Una volta facemmo un viaggio in macchina in giro per l’Italia centrale, in Umbria e in Toscana; spesso c’incontravamo a Venezia. Durò così fino alla fine di gennaio del 1989. v. p. Ha scritto che nell’autunno del 1981 lei arrivò a Leningrado con una borsa di studio e che nel corso dell’anno andava a trovare ogni giovedì i genitori di Brodskij. Aveva l’impressione che loro si rendessero conto del talento del figlio? Era già stato candidato nel 1980 per il Premio Nobel. a. a. Sì, andavo a trovare i genitori di Iosif ogni giovedì alle cinque. Sì, certo, si rendevano conto di essere i genitori di Brod-

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intervista su iosif brodskij

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skij, ne erano molto fieri, soprattutto la madre. Ma per loro, in particolare per Marija Moiseevna, era una tortura, un punto estremamente dolente. Avevo l’impresione, anche se non me lo disse mai, che per lei fosse insopportabile pensare che io avrei potuto rivedere teoricamente suo figlio in qualsiasi momento, mentre lei, che era la madre, non avrebbe potuto farlo. Perciò, per quanto possa sembrare strano, non parlavamo così spesso di lui. Ma era comunque nell’aria di quell’appartamento. Tutto lì era imbevuto di nostalgia. E io li ammiravo molto per la fermezza, la dignità con cui affrontavano un giorno dopo l’altro l’assenza del figlio, per il modo in cui cercavano di sopravvivere a questo dolore. v. p. Le raccontavano qualche storia interessante sull’infanzia e la giovinezza di Iosif? a. a. Mi raccontavano, certo. Marija Moiseevna difendeva sempre il figlio, lo considerava buono. E aveva anche ragione. Iosif era il loro unico figlio. Era cresciuto in tempo di guerra, la madre lavorava, e a lui toccava stare solo in casa anche da piccolo. Raccontava con fierezza che un giorno, di ritorno dal lavoro, vide il figlio di tre anni tenere in mano il Così parlò Zarathustra, come se lo stesse leggendo. Glielo prese e glielo restituì rovesciato, e Iosif lo raddrizzò subito. Con Iosif andavamo spesso a mangiare al ristorante, e io andavo a cena dai Brodskij ogni giovedì, per cui nei gesti della madre a tavola riconoscevo i gesti di Iosif; lui, per esempio, spezzava il pane nello stesso modo. Lo aveva imparato da lei, e in genere aveva imparato quasi tutto da lei. Dopo la guerra Iosif spesso la aiutava a portare su nell’appartamento la legna dalla cantina. Un quadro di rara tenerezza. Effettivamente Iosif era buono, aiutava sempre gli amici, regalava in giro i suoi vestiti nuovi, salvava i gattini. Ma allo stesso tempo era capace d’invitare i suoi amici il giorno del suo compleanno, e poi di andarsene a fare una passeggiata da solo sulla Neva nel bel mezzo della serata piantandoli tutti in asso. Scriveva i versi ascoltando la musica di Bach. A Cambridge comprò una cravatta e la spedì al padre; Aleksandr Ivanovič la portava con eleganza.

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ricordi e un’intervista

v. p. La memoria ci trae tutti in inganno. Così, Marija Moiseevna le racconta di aver visto diverse volte sul Litejnyj Prospekt Anna Achmatova con Marina Cvetaeva dopo il ritorno di quest’ultima in Unione Sovietica. Ma noi sappiamo che s’incontrarono solo due volte a Mosca, il 7 e l’8 giugno del 1941. Oppure il padre, mostrandole le fotografie di Iosif, dice: «Questa fu fatta dopo la laurea». Brodskij non ottenne mai nessuna laurea, anche se ricevette diverse nomine ad honorem in diversi paesi e città, fra cui Oxford nel 1991. Come interpretava queste storie? a. a. Ricordo che Marija Moiseevna mi raccontò l’episodio di Achmatova e Cvetaeva incontrate a pochi passi da casa, con le gonne lunghe, che sembravano insegnanti, perché la cosa mi colpì. Anna Achmatova abitava poco lontano, forse l’altra non era Marina Cvetaeva, ma una vera insegnante. O forse erano entrambe insegnanti, e una delle due somigliava a Anna Achmatova. Peccato, io le ho creduto e le credo tuttora. Mi piace l’idea che le due grandi poetesse russe passeggiassero insieme alla vista di tutti, e che sembrassero due insegnanti, perché succede proprio così. Per quanto riguarda la laurea di Iosif, ricordo una foto in bianco e nero degli anni Settanta, sembrava scattata in Inghilterra, nella quale Iosif appariva smagrito, triste, coi capelli lunghi, il cappello con le nappine e, mi pare, un mantello scuro – l’uniforme anglosassone dei laureandi. Forse si trattava del conseguimento di un titolo onorifico, come dice lei. v. p. In che misura quest’amicizia fu importante per lei e per loro? a. a. Per me fu molto importante. Non solo lì, ma per sempre. Nella casa dello studente dei paesi capitalisti di Leningrado, che è ancora lì, sull’Isola di Vasilij, solo con un altro nome, a Ulica Ševčenko 2, custodivo in segreto una foto in bianco e nero di Iosif, forse anche perché il suo nome era proibito. Era molto pericoloso dire che tu lo conoscevi e che vedevi i suoi genitori, tanto più in una casa in coabitazione. Alla ragazza che ero allora, tutto questo appariva molto attraente. Mi è rimasta tuttora una cicatrice sulla mano sinistra – e io sono mancina – che risa-

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intervista su iosif brodskij

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le ai tempi in cui la porta pesante di una cabina su via Pestel’ mi si richiuse improvvisamente contro mentre ero al suo interno, e non riuscii a tirar fuori la mano a tempo. I genitori di Iosif mi tenevano compagnia, e io ero sola. Mi davano da mangiare, in una città sguarnita di cibo. Io li distraevo un po’, loro dicevano di preoccuparsi di me durante la settimana anche se non comunicavamo, soprattutto quando faceva più freddo. Regalavo loro piccoli oggetti che potevano essergli utili, e qualcosa di speciale che riuscivo a trovare nei magazzini Berezka, dove si poteva comprare solo in valuta straniera: vino, cioccolata. Iosif mi aveva dato dei soldi destinati a questo. Per Natale tornai in Italia, e da lì portai un golfino a Marija Moiseevna, delle scarpe comode coi lacci che mi aveva chiesto, un vestito per Aleksandr Ivanovič, un calendario con le riproduzioni di Botticelli e qualcos’altro ancora. Alla mamma comprai un colbacco dall’altra parte di Leningrado. Ma non è questo l’essenziale. Ricordo tuttora i loro detti e proverbi, i consigli di cucina di lei, le massime di vita di lui, per esempio che quando ti presenti a un superiore devi essere sazio. Aggiugerei: anche prima di andare dal dentista, cioè quando ti prepari a soffrire. v. p. Lei ha notato che Iosif somigliava a suo padre. La somiglianza era solo esteriore, oppure era più profonda? a. a. Iosif assomigliava indubbiamente a suo padre, ma in parte anche alla madre. Lei con la sua bellezza addolciva i tratti che lui aveva ereditato dal padre. Gli occhi azzurri sporgenti del padre e solo un accenno di sporgenza negli occhi di Iosif. Lo stesso si può dire del naso aquilino: il naso di Iosif assomigliava piuttosto a quello materno. Lo stesso vale per la calvizie, meno accentuata in Iosif. Ma Iosif era giovane, e morì molto prima di suo padre. Dopo la morte della madre, nel 1983, Iosif mi pregava di scrivere una letterina al padre, «tenera come quella precedente, che gli era piaciuta tanto». Padre e figlio avevano un’altra cosa in comune: le mani veloci, piccole, bianche. Sì, Aleksandr Ivanovič aveva l’unghia del mignolo destro molto lunga. E poi avevano in comune l’insofferenza per la vita di coppia: il padre dopo le nozze non era anda-

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ricordi e un’intervista

to a vivere insieme con la moglie, ma era rimasto nel suo vecchio appartamento. E solo di tanto in tanto andava a trovare la moglie e il figlio. Lei era molto critica nei suoi confronti, e a volte diceva: «Ha qualcosa di misterioso», – e aggiungeva – «è un egoista, mentre mio figlio non lo è». E lo rimproverava del fatto che dopo il matrimonio non l’aveva più portata al ristorante. Entrambi, padre e figlio, ritenevano che la vita sociale riguardasse gli uomini, e che le donne dovessero restarsene a casa. Entrambi amavano avere l’ultima parola. Entrambi ragionavano rapidamente, reagivano rapidamente e se la sapevano sbrigare nella vita pratica. Li distingueva anche l’amore per l’eleganza, per tutto quel che brilla – più il padre, però – e l’attrazione per le donne. Marija Moiseevna guardava il marito in tralice mentre eravamo a tavola e diceva: «Gli piaceva solo infilarsi nelle camere da letto altrui». Aleksandr Ivanovič amava la pompa, l’ufficialità. Anche Iosif in una certa misura. v. p. Strano, a me sembra che Iosif non amasse i ricevimenti ufficiali e evitasse le cerimonie solenni. Rifiutò di andare in Giappone, anche se era stato invitato dall’imperatore; rifiutò di andare a San Pietroburgo alla cerimonia in cui sarebbe stato nominato cittadino onorifico. Quando lei tornò in Italia, Iosif era interessato a conoscere i particolari della vita dei suoi genitori? a. a. Iosif, come i suoi genitori, soffriva dei ricordi. Ricordo che eravamo in cucina, seduti a prendere il tè a casa di una mia amica che vive a Venezia, e lui mi domandò: «Ti ha invitato a pranzo, vero? È vero che cucina bene?» Aveva una forte nostalgia di casa sua. Ricordo che una volta, a Roma, gli mostrai il mio album fotografico di velluto. Iosif ne voltava le pagine con lentezza, come se temesse di guardare dietro l’angolo di ogni pagina. Mi diceva e scriveva che da giovane voleva andarsene di casa, voleva starsene per conto suo. Ma dopo aveva capito che la sua unica vita vera era stata quella lì. I suoi genitori a casa litigavano tutto il tempo, in modo non serio, ma costantemente. Per cui anche Iosif amava i battibecchi, perché lo riportavano alla sua vita familiare.

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intervista su iosif brodskij

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v. p. La sua amicizia con Iosif andò avanti per diversi anni. Ci furono in questo percorso fosse e burroni? a. a. È interessante la sua definizione dei nostri rapporti come amicizia. Non era amicizia quella mia con Iosif, semmai una guerra. Lo chiedevo a me stessa nel diario e a lui per lettera: «Chi sei? Un amico o un nemico?» Fra noi c’erano lunghe pause di silenzio, quando eravamo insieme. Era più grande di me, almeno fisicamente, per età, lingua, cultura. Io, come un piccolo Davide di sesso femminile, lo ascoltavo attentamente, seguivo i suoi consigli-rimproveri in fatto di lettura. E allo stesso tempo studiavo il suo comportamento, volevo capirlo, scoprirlo e resistergli, difendermi in qualche modo, salvarmi, liberarmi di lui. Iosif lo sapeva e definiva questa mia intenzione mettergli una croce sopra. Ma a lungo non mi riuscì. Leggevo intensamente, perché Iosif diceva che la letteratura, specialmente la poesia, sviluppa la persona. Dovevo crescere in fretta. Ero sola davanti a lui, nessuno poteva spiegarmi chi fosse Brodskij. Se ci furono fra noi fosse e burroni? A me che sono straniera la fossa fa pensare a un luogo dove riposano i morti. Io invece ardevo, e il processo di combustione richiede ossigeno. Io, che ero coinvolta nel cuore, dovevo restare lucida di mente. Dovevo afferrarlo psicologicamente, ma lui evitava che si formulasse una definizione sulla sua persona, mandava tutto il tempo segnali contraddittori, creando diverse immagini di sé. Dietro tutta questa nebbia mi sembrava ci fosse una certa insicurezza. Lui attirava a sé e si allontanava. Era come se rubasse amore e lo nascondesse in un involucro che non mostrava. Si allontanava in nome dell’autonomia, dell’indipendenza. Che fatica, no? A volte mi rivelava i suoi dubbi su di sé con sincerità sconcertante, ma era difficile credergli, perché lanciava messaggi troppo contrastanti. A te chiedeva costanza e rifugio; come tutti i senzacasa voleva poter contare su di te come su un punto fisso, ma in cambio dava troppo poco, e con questo senso di negazione, di mancanza, di assenza t’indeboliva e ti teneva. Come se questo potesse essere il suo unico mezzo per averti. C’è qualcosa d’infantile in questo. In breve, io non potevo permettermi d’inciampare in una fossa. Al contrario, ero molto vigile, viva.

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ricordi e un’intervista

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v. p. Che cosa significava la presenza di Iosif nella sua vita? a. a. La presenza di Iosif nella mia vita in effetti era la sua costante assenza. Giocava proprio con questo: appariva e spariva, ma mai del tutto; mi teneva con la corda lenta. La corda era il telefono. Andò a finire che un certo giorno andai in bicicletta nella sede della mia compagnia telefonica e chiesi che mi fosse cambiato il numero di telefono. Poi partii per un periodo da Roma, e andai in campagna, dove mi aveva invitato Ruggero Savinio, l’artista col quale cominciai a vivere e che in seguito diventò mio marito. La mia desolazione non era provocata dall’assenza di Iosif: quando lui era assente potevo sognare. Era la sua presenza a causarmi disperazione: allora, finalmente accanto a lui, atteso così a lungo, la mia solitudine s’ingigantiva. Era quasi sempre di fretta, aveva un appuntamento per un’intervista, una cena, un party. Ho descritto più volte questo stato d’animo nei miei versi. v. p. I gatti sono il totem di Brodskij. A Leningrado lei ha conosciuto il «gatto dagli stivaletti bianchi». Ha conosciuto anche l’ultimo gatto di Iosif, Mississippi? a. a. È vero che i gatti erano il totem di Brodskij. Li amava molto. A Leningrado conobbi il «gatto dagli stivaletti bianchi». No, non conobbi il suo ultimo gatto, Mississippi, ma conoscevo quello precedente, rosso, Dio mio, ho dimenticato come si chiamava, qualcosa con la erre, BR, si chiamava BR, Big Red. Lo portava con sé in macchina in Massachusetts, avanti e indietro da New York. Calzava ai piedi delle pantofole di velluto verde scuro che gli avevo regalato a Venezia e che teneva sempre in macchina, e si poggiava il gatto sulle ginocchia. BR dormiva tutto il tempo del viaggio. Una volta Iosif uscì di strada per via del ghiaccio, e la sua Matador marrone si capovolse. Me lo raccontò poco dopo al telefono, ma non si era fatto niente. Dopo la morte di questo gatto Iosif incorniciò una sua foto e la mise sullo scrittoio del suo appartamento del Village, a Morton street. Per lettera io lo chiamavo Giuseppe Gatti, e mi firmavo Anna Gatti. Nelle sue lettere a me e sui libri che mi dedicava è spesso raffigurato un

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intervista su iosif brodskij

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gatto. Adesso anch’io ho una gatta in casa, una vera gatta, che si chiama Argentina. Nostra figlia Gemma la desiderava molto. Sono incantata dalla sua grazia, e quando la guardo ripenso alle parole di Iosif sulla graziosità dei gatti in qualsiasi posa. Lui amava moltissimo osservarli. v. p. Evgenij Rejn nel suo saggio-racconto Il mio esemplare di Uranija1 scrive che Brodskij inserì il suo nome su alcune poesie legate a lei: Notte, dominata dal biancore della pelle (1983), Aria (1986) e Elegia (1986). Perché non ci sono le sue iniziali nelle versioni pubblicate? a. a. Ženja ha descritto in modo straordinario il nostro incontro a Mosca. Non so perché Iosif non abbia apposto le mie iniziali quando ha pubblicato i versi che mi erano dedicati. Bisognerebbe domandarlo a lui. Certo non ero io a chiederglielo. Una delle sue ultime poesie, pubblicata già postuma, Ricordo, si riferisce molto probabilmente a una nostra passeggiata in un parco di Roma. Mi sono anche riconosciuta nella ragazza dagli occhi senape e miele di Fondamenta degli incurabili, nella figura femminile presente nel capitolo Lettera a Orazio di Dolore e ragione. Avevo l’impressione che Iosif a volte tendesse a confondere il lettore. Usava tutto a questo scopo: date, titoli, dediche, a volte modificava i versi stessi, ora per lusingare qualcuno, ora per indispettire qualcun altro, o semplicemente per giocare a nascondino con il lettore. Tutto, dediche e omissioni, fanno parte di un suo dialogo con i vivi e con i morti. Sono i suoi sottotesti o retrotesti. Diceva che alle donne bisogna sempre mostrare meno di quello che si prova. v. p. In Fondamenta degli incurabili c’è, mi pare, un’altra frase sui vostri rapporti: «non ero lì per una luna di miele (c’ero stato vicino soprattutto molti anni prima, a Ischia e a Siena…»). Stan1 Evgenij Borisovič Rejn, Moj ekzempljar ‘Uranii’, in Id., Mne skučno bez Dovlatova [Mi annoio senza Dovlatov], Limbus Press, Sankt-Peterburg 1997, pp. 188-206, e anche in Id., Zametki marafonca: nekanoničeskie memuary [Note di un maratoneta: memorie non canoniche], U-Faktorija, Ekaterinburg 2005, pp. 390-410.

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ricordi e un’intervista

do alle informazioni di Rejn, sotto la dedica col suo nome a penna sulla pagina della poesia Notte, dominata dal biancore della pelle, Iosif scrisse: «… con la quale mi dovrei sposare, cosa che, forse, dovrà ancora succedere». Perché non è successo? a. a. Una volta a Piazza Navona, nei pressi della Fontana dei Fiumi, si rivolse a me chiedendomi: «Guardami, ti sembro un padre di famiglia?» v. p. Lei è un poeta e, a giudicare dalle traduzioni in russo e in inglese, un poeta straordinario. Brodskij aveva visto i suoi versi e che giudizio ne aveva dato? a. a. Grazie, Valentina. Iosif vide alcuni miei versi pubblicati e li apprezzò. Un giorno mi disse, durante una nostra conversazione telefonica, che aveva letto una delle mie prime pubblicazioni in italiano con l’aiuto dell’amica vicina di casa Marija, Maša Vorob’eva, e che questa era stata la sua gioia più grande dopo il conferimento del Nobel. Lodava anche le mie lettere, diceva che quando scrivevo mi succedeva qualcosa, come se mi trasformassi. Diceva che le mie lettere erano il suo capitale. E ne teneva una nel portafogli. Mi scriveva che gli piaceva la dirittezza dei miei pensieri, che dovevo continuare a scrivere. Iosif fu il primo a apprezzare i miei versi, e questo suo incoraggiamento per me fu estremamente importante. Una volta, a Brighton, mi disse anche che sicuramente scrivevo meglio di tutti nel mio ambiente, nella mia città. Che questa consapevolezza è la cosa più importante per cominciare. Addirittura che potevo scrivere come Anna Achmatova. Difficile che io dimentichi parole simili. Apprezzava la mia immaginazione, che, a suo parere, era presente sul mio viso come una nuvola in cielo. Le mie similitudini. A volte mi chiedeva a che cosa avrei paragonato un certo oggetto. Gli piacevano le mie traduzioni delle sue poesie, il gioco di assonanze e la precisione nella ricerca di ogni vocabolo. Me lo scrisse anche. A volte mi consultavo con lui al telefono ai tempi della mia traduzione della prosa di Puškin, e lui mi suggeriva come fare a risolvere alcuni problemi. Una volta lavorammo insieme a Brighton. Creavo continuamente rime, sia in italiano che in russo, e le appuntavo. Quando ci incontravamo, qualche volta

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intervista su iosif brodskij

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me ne venivano in mente alcune in russo mentre eravamo in giro, magari in taxi. Alcune non le approvava: «Questa, – tagliava corto, – non è una rima». Non parlava molto, perché pesava le parole, ma quel poco che seppe dirmi in fatto di scrittura e di traduzione mi è rimasto impresso per sempre. Mi diceva che dovevo cominciare dalle cose più semplici. Mi suggerì anche più di una volta di scrivere in russo, perché sosteneva che scrivere in un’altra lingua ti rende più libero, ti fa pensare e formulare un pensiero diversamente. Questo suo consiglio, invece, non l’ho ancora mai ascoltato, non perché non sia d’accordo con lui, ma forse perché il russo è una lingua troppo difficile. Ho scritto solo una volta una poesia in inglese. Adorava l’inglese, e mi comunicò questa passione per la lingua, e per la poesia scritta in questa lingua. v. p. Mi ha commosso in particolare la sua poesia Chi varca questa porta2, tradotta in russo da Lev Losev. Sembra scritta a nome di tutte le donne innamorate di Iosif e da lui lasciate. Ha mai sentito pronunciare dalla bocca di Iosif le parole: «ti amo»? a. a. Chi varca questa porta non è solo un invito alla solidarietà rivolto a tutte le donne che hanno avuto a che fare con Iosif, ma a tutte le donne in generale. E le donne lo sentono. Una volta una poetessa mi disse che le mie poesie sono scritte per le donne. Io non ci avevo mai pensato, ma effettivamente, quando mi capita di leggere i miei versi in pubblico, sono più spesso loro, le donne, a avvicinarsi dopo per dirmi qualcosa. L’effetto dei miei versi sulle donne mi ha dato una consapevolezza diversa, e mi ha avvicinato a tutte loro in modo nuovo. Sì, per rispondere alla sua domanda, gliel’ho sentito dire, anche se raramente. Solo non diceva: «ti amo», ma «vi amiamo». In effetti erano tanti. Un mosaico. v. p. Le è mai capitato di essere presente a una sua lezione, conferenza, o a una sua lettura? Che impressione le è rimasta nella memoria degli interventi pubblici di Brodskij? 2

Annelisa Alleva, Chi varca questa porta e altre poesie, Il Bulino, Roma 1998.

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ricordi e un’intervista

a. a. Capitava, ma non spesso. Ricordo la conferenza che tenne la prima volta che lo incontrai, a Roma, della quale ho parlato prima. Una volta ero in Massachusetts, e lui doveva andare a fare una lezione su Puškin, perché quell’anno parlava della poesia russa. Gli proposi di venire a ascoltarlo, ma lui sorrise, come quando era tentato dal fare qualcosa, ma non ne aveva la convinzione. Io non stetti a insistere. Ricordo quando lesse le sue poesie al Festival dei Poeti a Villa Borghese, a Roma, l’estate del 1983. Mi propose anche di leggere le mie traduzioni accanto a lui, ma io ero terrorizzata. Chiamò Gianni Buttafava, che non era ancora arrivato, da un telefono pubblico. E poco dopo Buttafava arrivò. Brodskij recitava i suoi versi a memoria, producendo una forte impressione sul pubblico. Aveva un timbro di grande personalità, coraggioso, sonoro, ma sotto questo timbro si avvertiva anche una forte emozione. Per questo lo amavo. v. p. Naturalmente avrà letto molte interviste di Brodskij, in particolare quelle uscite sulle riviste italiane e americane. Ammetterà che tendeva a dare ammaestramenti a tutti. Si atteneva alle regole di vita e ai criteri che formulava tanto spesso nei suoi saggi e nelle interviste? a. a. Sì, certo, ho letto molte sue interviste. Penso addirittura che dopo così tante interviste lo stile da intervista fosse in qualche modo entrato nel sangue-inchiostro di Brodskij, oppure, forse, lo stile letterario di Brodskij era naturalmente vicino al discorso parlato, che è quello delle interviste. Un giorno assistetti a casa di Carlo Caracciolo, presso il quale era ospite in quel periodo, a una sua intervista per il quotidiano «La Repubblica», e non facevo altro che pensare che l’indomani mia madre avrebbe aperto il giornale, che leggeva tutti i giorni, e scoperto che Iosif era a Roma. Allora glielo nascondevo. Per lei il suo nome era tabù, non voleva neppure che lo pronunciassi. Certo che lui non seguiva in vita le regole che andava predicando. A quel tempo le dichiarazioni di Iosif mi sviavano dal capirlo. Mi disorientavano. Oggi di tutto questo mi è rimasta una grande forza e ricchezza. Sia allora che adesso la cosa più interessante e importante per me era l’uomo Iosif: che cosa pensava della vita,

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intervista su iosif brodskij

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delle cose più elementari; mi interessavano la sua esperienza, i suoi ricordi. In virtù di questo sopportavo più o meno tutto il resto. Hegel nell’Estetica dice che ogni uomo dovrebbe ripercorrere il cammino di Cristo, rivivendone tutte le tappe. Ecco, Brodskij è stato il mio calvario. Puškin scriveva che la sofferenza è una buona scuola, ma la felicità è la migliore università. Ecco, Brodskij è stato la mia scuola. Per quanto riguarda il fatto che tendeva a ammaestrare tutti, è vero. Io gli dicevo scherzando che voleva agitarmi. Siccome in patria aveva protestato tutto il tempo, dopo in un certo senso desiderava essere d’accordo con qualcuno su qualcosa, ma lo faceva solo per rafforzare la sua protesta. Mi piaceva il suo approccio con gli studenti, da vecchio maestro, da saggio: tutti i suoi famosi ragionamenti astratti si basavano sulla viva esperienza. Iosif era molto popolare fra gli studenti; alla fine dell’anno gli facevano dei regali: un anno ricevette una maglietta che aveva riprodotta, sopra, una sua fotografia. Essendo generoso con i suoi allievi e in genere con tutti i suoi conoscenti, finiva col dare loro in mano gli strumenti utili per contrastarlo. Negli ultimi anni in cui lo conobbi, quando già portava gli occhiali tondi, – i primi, ricordo, avevano una sottile montatura rossa – assomigliava molto a un professore. E questo conferma il racconto di Marija Moiseevna sulle due poetesse, Achmatova e Cvetaeva, simili a due insegnanti. Poeti e professori, però, sono solo simili. v. p. Avrà osservato i rapporti di Brodskij con gli amici italiani e con gli amici russi. In che misura il suo non voler appartenere a nessun gruppo, organizzazione, paese, perfino a una donna, era determinato dalla sua paura di essere catturato? a. a. Sì, ho osservato Brodskij a lungo. Era allergico ai gruppi, agli ambienti, alle organizzazioni. Odiava sottoscrivere le lettere. Diceva di firmare solo le lettere che aveva scritto lui. Non sarebbe potuto entrare in un gruppo fatto da altri, e invece ne aveva creato uno suo, un proprio mondo. Ovviamente lui se ne considerava il leader. Gli amici gli volevano bene in modo sincero e fedele. Mi diceva che lui sceglieva molto bene i suoi amici.

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ricordi e un’intervista

v. p. Ricorda? Scriveva: sono un cattivo ebreo, un cattivo russo, un cattivo americano, un cattivo cristiano, ma un buon poeta. È d’accordo con questo autogiudizio? a. a. Certo che era un poeta straordinario. Io sono cresciuta sui versi di Iosif: quando ricevevo un suo nuovo libro, lo aprivo con l’emozione con cui ne avrei aperto uno mio, che non avevo ancora scritto. Non direi che leggessi, piuttosto divoravo le sue parole. Nei suoi versi amo l’atmosfera scolastica, leningradese, stradale, nevosa, natalizia, melanconica, boschiva, da camera, sentimentale. Preferisco i suoi versi piani, a mezza voce, rispetto a quelli più tesi, che sembrano richiedere un applauso immediato, un dieci e lode. Soprattutto ne amo le similitudini, l’immaginazione audace, il ritmo. Iosif diceva che un poeta ha bisogno d’inerzia, deve vivere nella sua città, ripetere ogni giorno le stesse azioni, e mi consigliava di non cambiare il luogo in cui abitavo. Anche nella lingua prediligeva, mi sembra, la parte più inerte e ritardante, pleonastica del discorso – le congiunzioni. «Ora sono così pochi i greci a Leningrado…» è un inizio bello e interessante proprio dal punto di vista di quell’inerzia di cui parlava. Ricordo che qualche anno fa mi è capitato di parlare sulla riva di una spiaggia irlandese con una brava pittrice russa, Varvara Šavrova. Mi raccontava che aveva letto Brodskij quando viveva ancora in Russia, in samizdat, da ragazza, in autobus, e che aveva subito avuto la sensazione di leggere qualcosa di totalmente nuovo, proprio nel senso della lingua: qualcosa di più immediatamente vicino. v. p. Il fatto di conoscere Brodskij-uomo la aiuta a capire meglio i suoi versi? a. a. Penso proprio di sì. In generale una persona che conosca un autore è in una posizione privilegiata, sia come lettore che come traduttore, in particolare se è lui stesso scrittore o poeta. Dopo Brodskij ho conosciuto, anche se non così da vicino, molti poeti russi, e sono convinta che la conoscenza diretta, o, ancora meglio, l’averne visitato la casa, sia molto utile per chi si accosta a un poeta. Perfino averlo sentito una volta al telefono può

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intervista su iosif brodskij

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essere importante, averne sentito la voce, che è il suo strumento principale. Mi è capitato di essere presente, nella stessa stanza di albergo, quando Iosif componeva i suoi versi. Una volta ci trovavamo al Nerva, che allora era un alberghetto dietro i Fori. Era sera, e Iosif andava su e più per la stanza ripetendo a bocca chiusa una musichetta, come se avesse dentro di sé un ritmo nel quale dovesse inserire parole. Un’altra volta eravamo a Ischia, in una bellissima casa a picco sul mare, e Iosif, nella stanzetta più remota della casa, aveva davanti a sé un foglio, sul quale, in basso, aveva appuntato qualcosa, delle rime. Aveva una forte capacità di concentrarsi, e diceva di essere felice solo dopo aver scritto una poesia. E che quando era giovane gli riusciva più facilmente, senza alcuno sforzo. v. p. Ritiene Brodskij un poeta religioso? a. a. Direi di no. Si avvertiva in lui un certo distacco dalle piccole cose, da uomo superiore. E poi era gravemente malato. Era una persona provata, vissuta, che aveva sofferto e perso molto. Di se stesso diceva: «Sono un uomo navigato», oppure: «Sono ben lontano dall’essere un santo». Non lo definirei un poeta religioso e credo che non lo avrebbe fatto neanche lui. v. p. Lei ha tradotto tutta la prosa di Puškin in italiano. E conosce bene la sua visione del mondo e la sua importanza per la cultura russa. Si può definire Brodskij il Puškin contemporaneo? a. a. Questa è una domanda particolarmente impegnativa. Brodskij il Puškin dei nostri giorni? Effettivamente nella lapide sopra la sua casa pietroburghese, sul Litejnyj Prospekt, lo hanno ritratto simile a Puškin, romantico, con i favoriti, e questo, credo, lo avrebbe fatto sorridere, e lo avrebbe in qualche modo sicuramente lusingato. Trovo un po’ imbarazzante questo accostamento. Puškin è Puškin, non gli avvicinerei nessun altro. La società in genere, e quella russa in particolare, si è modificata troppo nel frattempo perché qualcun altro gli possa essere accostato. Di conseguenza

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ricordi e un’intervista

è cambiato il rapporto della gente verso la poesia, e, viceversa, quello del poeta verso il lettore. Puškin dette voce alla tradizione orale, e non uscì mai dai confini della sua terra. Fu più facile per lui essere un classico. Brodskij appartiene a un periodo di rottura, e visse in due mondi. Puškin è nuovo, ma il mondo che descrive è vecchio. Brodskij è più vecchio nel senso della tradizione poetica russa alle spalle, ma il mondo che descrive è nuovo. Puškin parlava e scriveva le lettere in francese, Brodskij imparò l’inglese, soprattutto la lingua parlata, già in America, leggendo versi e anche guardando la televisione. Puškin andava in campagna per isolarsi e scrivere in pace, anche se a volte era costretto a starvi come vigilato speciale; Brodskij, quando si allontanava da New York, andava in Massachusetts a insegnare nel Mount Holyoke College per guadagnarsi da vivere. In Brodskij non c’era galanteria, almeno quella intesa in modo più superficiale. Non c’erano i famosi “piedini” femminili danzanti, un mondo, quello aristocratico, che aveva l’abitudine di frequentarsi collettivamente. Non amava la Francia. Ricordo che un giorno sollevò un piede scalzo poggiandolo su un mio volume di Puškin per terra, e poi ridacchiò perché sentiva di aver commesso un atto oltraggioso. So che alla fine della vita, però, tornò proprio a Puškin, come si torna alle origini, rileggendolo. Altro discorso per il carattere, ammesso che io possa dire di conoscere Puškin avendolo letto, studiato e tradotto. Brodskij ha una data di nascita e di morte quasi identica a quella puškiniana: 26 maggio la nascita di Puškin, 24 maggio – di Brodskij; 29 gennaio la morte del primo, 28 gennaio la morte del secondo. Hanno in comune una viva immaginazione, una certa inafferrabilità mercuriale, doppiezza, dongiovanneria, arguzia e cupezza, estroversione e allo stesso tempo misantropia. Puškin scrive nell’Onegin: «Chi ha vissuto e ragionato, non può / In cuor suo non odiare la gente», e Brodskij, provocatoriamente, in Natura morta: «Io non amo la gente». Oltre a un atteggiamento sprezzante che è posa, tributo a un certo cliché letterario, c’è fra i due poeti una vera e propria somiglianza. Se dovessi accostare però Brodskij a un grande altro scrittore russo del passato, penserei piuttosto a Dostoevskij, perché socialmente gli somigliava di più. L’esperienza su cui si è formato

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intervista su iosif brodskij

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Brodskij da giovane: fabbrica, prigione, manicomio, obitorio, è più vicina all’ambientazione dei romanzi di Dostoevskij che a quella delle poesie di Puškin. Anche l’esperienza comunque traumatica dell’emigrazione rese drammatica la sua esistenza. Brodskij ci teneva a dire che dal Litejnyj, cioè da casa sua, la strada era diritta fino alla casa-museo di Dostoevskij. Di più, in occasione di una escursione che feci per Pietroburgo tanti anni fa sui luoghi di Dostoevskij, fu mostrata a me e a altri studenti la casa dove era cresciuto Brodskij, Dom Muruzi, dall’intonaco rosa antico in stile moresco, come quella in cui Dostoevskij aveva immaginato abitasse un generale del romanzo L’idiota, Epančin. Ma i fatti lo smentiscono, perché la casa fu costruita nel 187477 dall’architetto Serebrjakov per il principe Muruzi, e L’idiota uscì diversi anni prima, nel 1866. Vi abitarono, invece, nel tempo, Leskov, e Merežkovskij con Zinaida Gippius. Dostoevskij una volta fu graziato pochi minuti prima di essere fucilato, e era epilettico. Brodskij era malato di cuore, e fu più volte sul punto di morire. A un certo punto, nella seconda metà degli anni Ottanta, intraprese con Kundera una lunghissima, feroce polemica sui giornali a proposito di Dostoevskij. Anna Achmatova paragonava la crisi vissuta da Brodskij al confino con quella vissuta da Dostoevskij nella «casa dei morti». Credo sia comunque una forzatura avvicinare un poeta a un altro, in genere uno scrittore a un altro, soprattutto se nati in epoche così distanti. Vedo così la possibile genealogia di alcuni grandi scrittori: Tolstoj discende direttamente da Puškin, e in misura minore da Gogol’; Achmatova – da Puškin, Tolstoj e Dostoevskij; Brodskij da Achmatova, Dostoevskij, con Gogol’ in più, ma senza Tolstoj; molti poeti contemporanei discendono da Brodskij, come Boris Ryžij, per fare solo un esempio. Vivono, scrivono, soffrono e muoiono già i discendenti di Brodskij. v. p. Quando legge, o dà un’occhiata a tutti i numerosi studi sull’opera di Brodskij in Russia e in Occidente, che impressione ne ricava? Che si sta assimilando attivamente la sua eredità? Che è avvenuta una canonizzazione di Brodskij? Che la brodskologia è un ramo dell’industria letteraria, in via di rapido sviluppo?

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ricordi e un’intervista

a. a. Certo, anche Brodskij oggi è stato canonizzato in Russia. Ho sentito nella sua città, con grande commozione, le sue poesie recitate da liceali a volte molto bene, e ho sentito, devo dire non proprio con lo stesso entusiasmo, suonare i suoi versi alla chitarra dentro la Facoltà di Lettere di San Pietroburgo, nella bellissima Sala di Pietro, e in giro per la Russia. Sempre a Pietroburgo ho partecipato a un’escursione sui luoghi di Brodskij, e il pullman si è fermato davanti alla casa dove viveva coi suoi genitori, mentre la guida ci raccontava tutto della sua infanzia, dei suoi amici e dei suoi amori. Per me è impressionante, mi sembra di vivere in un’epoca postuma. È impressionante, infatti, assistere alla canonizzazione di una persona che hai conosciuto da vicino, che hai visto tante volte fumare, radersi, andare dal barbiere. Questo appare ancora più strano, perché Brodskij era stato vessato in gioventù. In più, vengo da un paese dove non si fanno pellegrinaggi per nessun poeta, neppure per Dante. Oggi sono curiosa di vedere che cosa sanno fare gli altri. Lo stesso Brodskij era un sostenitore del passo successivo.

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Note ai testi

Biro seccate in un barattolo di plastica (la poesia di Wisława Szymborska). Edito sulla rivista «Semicerchio», XXIV-XXV, 2001, pp. 67-74. La nostalgia del dolore (i Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning). Edito come postfazione al volume Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning, traduzione di Francesco Dalessandro, Il Labirinto, Roma 2000, pp. 99-103. Anni d’infanzia di Bagrov nipote di Sergej Aksakov. Edito come introduzione a Sergej Aksakov, Anni d’infanzia, traduzione di Paola Giuriati, Arcana Editrice, Milano 1990, pp. IX-XVI. La poesia Elegia di Iosif Brodskij. Intervento al convegno Iosif Brodskij v XXI veke [Iosif Brodskij nel XXI secolo], tenuto presso la Facoltà di Lettere dell’Università di San Pietroburgo dal 20 al 23 maggio 2010, è stato pubblicato nel volume Iosif Brodskij v XXI veke. Materialy meždunarodnoj naučno-issledovatel’skoj konferencii [Iosif Brodskij nel XXI secolo. Materiali della conferenza di ricerca scientifica internazionale], a cura della Facoltà di Lettere dell’Università statale di San Pietroburgo, 2010, pp. 198-204. La traduzione di questa poesia è presente per intero, in appendice al saggio su I. Brodskij La luce. Il monumento e la statua. La cosa, nella versione italiana. Tommaso Landolfi e Aleksandr Puškin. Intervento al convegno Alexander S. Puschkin und das europäische Geistes und Kulturleben, organizzato dall’Österreichischen Ost- und Südosteuropa- Institut a Vienna, al Palais Lobkowitz, il 7-8 giugno 1999, in occasione del bicentenario della nascita di Puškin, è stato pubblicato: in inglese negli atti «Alexander S. Puschkin und das europäische Geistes und Kulturleben», Peter Lang, Europäischer Verlag der Wissenschaft, Frankfurt am Main 2003, a cura di Elizabeth Vyslonzil, con il titolo: The influence of A. S. Pushkin on two Italian writers: Tommaso Landolfi and Angelo Maria Ripellino, pp. 61-72, e in italiano, solo la parte dedicata a Tommaso Landolfi, con il titolo Tom-

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note ai testi

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maso Landolfi e Aleksandr Puškin, nel «Bollettino del Centro studi Landolfiani», IV, 4, 1999, pp. 9-23. Il conscio letto (su Giacomo Leopardi). Intervento all’incontro Leopardi e i poeti, tenutosi l’11 maggio a Frascati, alle Scuderie Aldobrandini, all’interno delle giornate di studio dedicate a Leopardi La forza della Poesia, Frascati-Roma, 9-13 maggio 2011, è stato pubblicato in russo col titolo Bditel’naja krovat’, pp. 56-63, nel volume Materialy VII Meždunarodnogo seminara perevodčikov [Materiali del VII Seminario internazionale dei traduttori], Muzej-usad’ba L.N.Tolstogo «Jasnaja Poljana» 2013, a cura di Galina Alekseeva, a seguito del Seminario Internazionale, svoltosi a Jasnaja Poljana dal 25 al 29 agosto 2012. Il mago gentile e il pupillo delle chiare muse (su Orest Kiprenskij). Edito parzialmente in russo con il titolo Volšebnik milyj i pitomec čistych muz [Il mago gentile e il pupillo delle chiare muse], nel catalogo della mostra Orest Kiprenskij v Fontannom Dome [Orest Kiprenskij nella Casa sulla Fontanka], che si è svolta dal 19 dicembre 2011 al 19 febbraio 2012 nella Sala d’Armi e nella Biblioteca della Casa sulla Fontanka dei conti Šeremetev a San Pietroburgo, a cura del Muzej Teatral’nogo i muzykal’nogo iskusstva [Museo dell’Arte teatrale e musicale], Sankt-Peterburg 2011, pp. 10-11. Degli idoli miei mi vergogno (l’Evgenij Onegin di Puškin). Il saggio, qui rivisto e ampliato, è uscito col titolo La digressione nell’Evgenij Onegin, «Europa Orientalis», IV, 1984, pp. 97-111. GFP (Compassioni della mente di Gianfranco Palmery). La recensione è uscita sulla rivista online «Fili d’aquilone», n. 23, luglio-settembre 2011. Tradurre Tolstoj è stato letto alla Casa delle Traduzioni, a Roma, il 28 settembre 2011, in occasione della presentazione della nuova edizione di Anna Karenina negli Oscar Mondadori. Nella sua versione russa, Perevodit’ Tolstogo, è stato letto a Mosca il 7 settembre 2012 in occasione del II Congresso Internazionale dei Traduttori, tenutosi a Mosca il 7-8 settembre 2012 nella Biblioteca della letteratura straniera. Il saggio è inedito. Lo spettacolo della memoria e la memoria dello spettacolo (il Racconto di Sonečka di Marina Cvetaeva). È stato letto in russo, con il titolo Spektakl’ pamjati i pamjat’ spektakli v Povesti o Sonečke Mariny Cvetaevoj, il 24 agosto, a Elabuga – la cittadina della Repubblica Tartara dove Marina Cvetaeva si suicidò nel 1941 –, in occasione delle Giornate internazionali cvetaeviane, 24-25 agosto 2010, e pubblicato nel volume Čerez sotni raz’edinjajuščich let… Issledovanija. Populjarizacija tvorčeskogo

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nasledija. Materialy Pjatych Meždunarodnych Cvetaevskich čtenij [Fra centinaia d’anni che separano… Ricerche. Divulgazione di un’eredità artistica. Materiali della Quinta edizione delle Giornate Internazionali Cvetaeviane], izd-vo EGPU, izd-vo EGMZ, Elabuga 2011, pp. 369-377. La sutura (su Sylvia Plath). Edito nella «Rivista dei Libri», maggio 2003, pp. 33-34. Angeli, poeti, dèi, manichini: figure di riflesso nei versi di Boris Ryžij. Letto in occasione del convegno Boris Ryžij «Vsë zoloto berëz» [Boris Ryžij «Tutto l’oro delle betulle»], tenutosi presso il Dipartimento di Letterature Slave dell’Università di Amsterdam il 29-30 gennaio 2008, con il titolo Angely, poety, bogi, manekeny: figury otraženija v stichach Borisa Ryžego, è stato pubblicato in italiano nell’antologia Poeti russi oggi, a cura di Annelisa Alleva, Libri Scheiwiller, Milano 2008, pp. 559-576 (che comprende anche una scelta di poesie di Ryžij, pp. 305-333), e in russo su «Russian Literature», LXVII, n. 1, 2010, pp. 1-12. Odio la neve, le àgavi, i cervi (la poesia di Angelo Maria Ripellino). Il saggio fa parte di Ricordi e appunti su Angelo Maria Ripellino, pubblicato negli «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», XX, 1999, pp. 219-238, che comprende anche l’intervista radiofonica di Guido Ceronetti a Angelo Maria Ripellino La malattia, la scrittura e Dio: una testimonianza inedita di Angelo Maria Ripellino, a cura di Annelisa Alleva e Alessandro Fo, pp. 238-41. Il treno e il mužik (su Anna Karenina). Intervento al V Seminario internazionale dei traduttori, che si è svolto a Jasnaja Poljana dal 27 al 30 agosto 2010, è stato pubblicato col titolo Poezd i mužik [Il treno e il mužik] in forma più concisa sulla «Literaturnaja Gazeta», n. 38, 2010, p. 4, e integralmente, col titolo Poezd i mužik v romane Anna Karenina L’va Tolstogo [Il treno e il mužik nel romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj], nel volume Materialy V Meždunarodnogo seminara perevodčikov [Materiali del V Seminario internazionale dei traduttori], Muzej-usad’ba L.N. Tolstogo «Jasnaja Poljana» 2013, a cura di Galina Alekseeva, pp. 15-21. È inedito in italiano. I tre circoli magici (scene circolari in Anna Karenina). Intervento dal titolo Tri kol’cevych sceny v romane Anna Karenina L’va Tolstogo [Tre scene circolari nel romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj], è stato letto nel corso del VI Seminario internazionale dei traduttori, che si è svolto a Jasnaja Poljana nel Museo-proprietà di Lev Tolstoj dal 23 al 25 agosto 2011. È inedito.

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L’istante indifeso (sulla poesia di Giovanna Sicari). Edito in «Pagine», XV, n. 41, maggio-agosto 2004, pp. 20-22. La luce. Il monumento e la statua. La cosa (sulla poesia di Iosif Brodskij). Edito in una prima versione su «Smerilliana», n. 7/8, 2007, insieme con la traduzione di alcune poesie di Brodskij, in parte edite, in parte inedite in italiano, col testo a fronte, delle quali è qui presente una scelta, in appendice al saggio, solo nella versione italiana. Proust e Cvetaeva (ricordo di Iosif Brodskij). Letto a Roma, alla Casa delle Letterature, in occasione della presentazione della mostra di fotografie L’anima russa di Iosif Brodskij di Sergej Bermeniev, il 30 novembre 2010. Il saggio è inedito. Ulica Pestelja, dom 27, kvartira 28 (ricordo dei genitori di Iosif Brodskij). Edito in italiano con lo stesso titolo, Ulica Pestelja, dom 27, kvartira 28 [Via Pestel’, casa 27, appartamento 28] sulla rivista «Europa Orientalis. Studi e ricerche sui paesi e le culture dell’est europeo», XVI, 1997, pp. 193-206; in russo sulla rivista «Neva», San Pietroburgo, dicembre 1999, pp. 162-168, traduzione di Denis Datešidze, e su «Novoe literaturnoe obozrenie», Mosca 2001, n. 1, traduzione di Irina Michajlova; è presente in russo sul sito dedicato a Iosif Brodskij (www.josephbrodsky.org). Il plebeo schiaccia (ricordo di Idolina Landolfi). Letto a Firenze, all’Archivio di Stato, il 6 maggio 2010, in occasione della presentazione del libro di poesie di Idolina Landolfi, Non mi destare, amore, con Ernestina Pellegrini, Giovanni Maccari, Renzo Gherardini e Giuseppe Salvatori. Il ricordo è inedito. Il maestro e la bidella (ricordo di Angelo Maria Ripellino). Edito insieme col saggio Odio la neve, le àgavi, i cervi (la poesia di Angelo Maria Ripellino) dal titolo Ricordi e appunti su Angelo Maria Ripellino, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», vol. XX, 1999, pp. 213-219. La professoressa (ricordo di Anjuta Maver Lo Gatto). Edito in Studi in onore di Anjuta Maver Lo Gatto su «Europa Orientalis», XII, 1993, pp. 9-11. Questo qui è bellissimo (su Ruggero Savinio). Profilo edito nel catalogo Ruggero Savinio. Percorsi della figura, Il Cigno GG Edizioni, Roma, 2012, pp. 47-52, stampato in occasione della mostra dell’artista alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (23 marzo-27maggio 2012).

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I No di Nika (ricordo di Niccolò Tucci). Edito in «Storie», n. 40, 2000, pp. 80-83, con fotografie inedite dello scrittore. Tutti gli altri ricordi sono inediti. Intervista su Iosif Brodskij di Valentina Poluchina. L’intervista, che viene pubblicata in italiano per gentile concessione di Valentina Poluchina, è uscita in russo col titolo Anneliza Alleva, maj 2004, Venecija [Annelisa Alleva, maggio 2004, Venezia] nel secondo volume d’interviste a cura di V. Poluchina Iosif Brodskij glazami sovremennikov [Iosif Brodskij attraverso gli occhi dei contemporanei], Zvezda, Sankt-Peterburg 2006, pp. 306-320, e include la poesia Chi varca questa porta di Annelisa Alleva tradotta in russo da Lev Losev, pp. 320-323; nella versione inglese, col titolo There was a Lot of him, a Whole Mosaic [C’erano tanti lui, un intero mosaico], dello stesso volume Brodsky through the eyes of his contemporaries, II, traduzione dal russo di Tatiana Retivov, Chris Jones, Daniel Weissbort, Academic Studies Press, Boston 2008, pp. 333-352; e in bulgaro, con il titolo Toj beše mojata Golgota [Era il mio calvario], traduzione di Ljubov Kroneva, sulla rivista «Fakel», n. 2, 2009, pp. 287-296.

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Vorrei ringraziare chi mi ha stimolato a scrivere questo libro: Alfonso Berardinelli, Ippolito Pizzetti, Antonella D’Amelia, Alessandro Fo, Elizabeth Vyslonzil, Gianfranco Palmery, Idolina Landolfi, Kees Verheul, Enrico D’Angelo, Valentina Poluchina, Galina Alekseeva, Selma Ancira, Gul’zada Rudenko, Rimma Ščipina, Alina Starinec; gli amici che mi hanno aiutato nella traduzione dei testi: Anjuta Maver Lo Gatto, Ljudmila Grieco, Oleg Dozmorov, Andrej Novikov-Lanskoj. Ringrazio anche Ruggero Savinio in modo molto speciale. È a tutti loro che voglio dedicarlo.

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Indice dei nomi

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Achmatova, Anna A. 10, 72, 256, 260, 270, 302, 336, 340, 364, 370, 373, 377 Agamben, Giorgio 66 Aillaud, Gilles 342 Aksakov, Ivan S. 33 Aksakov, Sergej T. 31-38 Aksakova, Ol’ga G. 32 Aksakova, Vera S. 32 Albisani, Sauro 109 Alekseev, Michail P. 71 Alekseev, Vladimir 127, 133, 134 Alekseeva, Galina V. 380, 381, 384 Alleva, Annelisa 15, 25, 31, 39, 40, 60, 80, 158, 183, 193, 225, 232, 246, 286, 291, 371 Anacreonte 80 Antokol’skij, Pavel G. 127 Arbus, Diane 138, 139 Auden, Wystan Hugh 63, 138, 250 Augusto 239 Bach, Johann Sebastian 303 Bachtin, Michail M. 84, 89, 90 Bagrickij, Eduard G. 258 Baldacci, Paolo 43, 236, 244 Balthus, 335 Baltrušajtis, Jurgis K. 326 Baratynskij, Evgenij A. 80, 289 Barrett Browning, Elizabeth 25-29 Barthes, Roland 138 Batjuškov, Konstantin N. 80 Baudelaire, Charles 253, 255

Beccaria, Gian Luigi 83 Benjamin, Walter 254 Benkendorf, Aleksandr Ch. 81, 82 Benkendorf, Konstantin K. 81 Bernardini, Silvio 118 Bernetti, Tommaso 75 Bestužev, Aleksandr A. 86, Birkerts, Sven 270 Blagden, Isa 28 Blok, Aleksandr A. 325 Botticelli, Sandro 365 Bottini, Adriana 137 Bowers, Fredson 183 Brelich, Angelo 188 Brelich, Mario 188 Brik, Lili 324 Britanišskij, Vladimir L. 233 Brod, Max 162 Brodskaja, Marija M. 241, 293308, 363-366, 373 Brodskij, Aleksandr I. 232, 241, 286, 293-308, 363, 365, 366 Brodskij, Iosif A. 22, 39-45, 68, 134, 150, 151, 195, 225-285, 286, 289, 290, 291, 293-308, 314, 334, 339, 361-378 Brodskij, Nikolaj A. 99 Brooks, Louise 161 Browning, Robert 25, 26, 28 Bruegel, Pieter il Vecchio 161 Bucarelli, Palma 341 Bukalov, Aleksej M. 72 Bulgheroni, Marisa 261

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Bunin, Ivan A. 37 Busi, Aldo 120 Buttafava, Giovanni 68, 271, 293, 372 Byron, George Gordon 84, 95, 96 Cacciatore, Edoardo 351 Callas, Maria 176 Calza, Guido 351 Canali, Luca 225 Capo, Luisa 325 Capogrossi, Costanza 335 Capriolo, Ettore 183 Caracciolo, Carlo 372 Carle, Barbara 110 Čechov, Anton P. 36, 132, 240, 269, 324, 325, 331 Ceronetti, Guido 173 Chagall, Marc 172 Cheraskov, Michail M. 38 Chlebnikov, Velimir 172, 173 Chodasevič, Vladislav F. 238 Christo, (Christo Javacheff) 243 Chruščev, Nikita S. 156 Chržanovskij, Andrej Ju. 232 Ciliberti, Aurora 250 Cima, Annalisa 176 Citati, Pietro 66 Colleoni, Bartolomeo 39, 40 Contini, Gianfranco 63 Cortellessa, Andrea 54 Craveri, Benedetta 271 Čukovskij, Kornej I. 306 Čvanov, Michail A. 32 Cvetaeva, Marina I. 125-135, 180, 221, 289-291, 302, 361, 362, 364, 373 Dalessandro, Francesco 25 Damiani, Rolando 67 D’Annunzio, Gabriele 51, 60 Dante, 378 d’Anthès, Georges C. 258, 260 De Angelis, Milo 211, 222

indice dei nomi

de Chirico, Giorgio 43, 141, 235, 236, 244, 344, 351 de Chirico, Isabella 344 Deidier, Roberto 223 Del’vig, Anton A. 92 Del’vig, S. M. 77 De Michelis, Cesare G. 93, de Nardis Luigi 253 de Nardis, Luisa 190 De Sica, Vittorio 238 d’Este, Alfonso 251 Dettore, Ugo 168 Djagilev, Sergej P. 278 Dickens, Charles 37 Dickinson, Emily 29, 261 Di Lucia, Rosa 327 Disney, Walt 44 Dossi, Carlo 159 Dostoevskij, Fedor M. 47, 118, 222, 331, 346, 376, 377 Dozmorov, Oleg V. 152, 156 Duncan, Isadora 12 Efron, Arjadna S. 130 Efron, Irina S. 129 Efron, Sergej Ja. 129 Ejchenbaum, Boris M. 183, 189, 199 El’cin, Boris N. 358 Eluard, Paul 222 Ensor, James 181 Esenin, Sergej A. 161 Evtušenko, Evgenij A. 309-312 Falconet, Étienne-Maurice 235, 261 Falcucci, Anna Maria (Mariuccia) 75, 80, 81 Fefé, Simona 137 Ferraro, Valeria 147 Fo, Alessandro 159, 161 Fonvizin, Denis I. 94 Formichi, Carlo 51 Forte, Iaia 334

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indice dei nomi

Forti, Gilberto 39, 44, 68, 134, 289 Friedrich, Caspar D. 181 Frost, Robert 334 Fusini, Nadia 137 Gadda, Carlo Emilio 159 Gagarin, Jurij A. 151 Gal’berg, Samuil I. 80 Galimberti, Cesare 69, 87 Galuško, T. K. 77 Gandlevskij, Sergej M. 158, 236, 256 Gavrilov, Andrej V. 311 Giartosio de Courten, Maria Luisa 26, 28 Ginzburg, Leone 184 Gippius, Zinaida N. 377 Giuliani, Rita 193 Giuriati, Paola 31, 38 Goethe, Johann Wolfgang 81 Gofman, Michail L. 103 Gogol’, Nikolaj V. 37, 38, 47, 70, 80, 93, 248, 326, 377 Gollidej, Sof’ja E. (Sonečka) 125135 Gončarov, Ivan A. 34, 36 Gončarova, Natal’ja N. 79, 81, 83 Gordin, Jakov A. 195, 230 Gor’kij, Maksim 188 Goya, Francisco 335 Gozzano, Guido 163 Graziadei, Caterina 54, 239, 257, 327 Grevedon, Henri 81 Grieco, Ljudmila 121 Grimmelshausen, Hans J. C. von 168 Guasti, Cesare 251 Gukovskij, Grigorij A. 96 Gurevič, Raisa 351 Guttuso, Renato 340 Haydn, Franz Joseph 303 Hedayàt, Sadègh 111, 114

Hegel, Georg W.F. 373 Hitler, Adolf 12 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 153, 340 Holan, Vladimír 166 Hölderlin, Friedrich 162, 351 Hughes, Ted 138 Imbriani, Vittorio 159 Iordan, Fedor I. 80 Irving, Washington 72 Ivan il Terribile 42 Ivaščenko, Jurij 231 Jakobson, Roman 54, 257, 261 Jakovič, Elena 41 Janáček, Leoš 161 Jevolella, Massimo 228 Jiřáková, Zora 164 Joyce, James 151 Kafka, Franz 150, 161, 162, 226 Kalczyńska, Alina 9 Kandinskij, Vasilij 161 Kennedy, John 162 Kiprenskij, Orest A. 75-82 Kjuchel’beker, Vil’gel’m K. 101 Klee, Paul 161 Klimt, Gustav 181 Kolář, Jiří 181 Komarova, Irina 270 Korkina, E. B. 129 Kundera, Milan 49, 377 Kušner, Aleksandr S. 245, 311 Kuznecov, Ivan S. 72 Laforgue, Jules 181 Landolfi, Idolina 48, 49, 317-320 Landolfi, Tommaso 47-62 Langley, Henry J. 28 Lenin, Vladimir I. 163, 188 Lenzi, Federico 159 Leonardo da Vinci 77 Leone, Sergio 85

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indice dei nomi

Leopardi, Giacomo 63-74, 87 Leopardi, Monaldo 66 Leopardi, Paolina 67 Lermontov, Michail Ju. 47 Leskov, Nikolaj S. 47, 49, 377 Levi Montalcini, Paola 314 Levi Montalcini, Piera 314 Levi Montalcini, Rita 313-315 Lo Gatto Maver, Anjuta 329-332 Lo Gatto, Ettore 34, 86, 87, 98, 325, 329 Lonardi, Gilberto 67, 176, 177 Loria, Arturo 173 Lorrain, Claude 80 Losev, Lev V. 194, 225, 230, 231, 239, 245, 249, 252, 260, 261, 371 Lotman, Jurij M. 91 Lowry, Malcolm 113 Lucrezio 341 Lukács, György 188 Lur’e, Samuil A. 251, 264

Masucci, Giovanni 80 Mattei, Paolo 270 Mčedelov, Vachtang L. 133 Merežkovskij, Dmitrij S. 188, 377 Miłosz, Czesław 19 Mirskij, Dmitrij P. 36 Modzalevskij, Boris L. 77 Montale, Eugenio 39, 67, 68, 176, 222, 317 Moore, Thomas S. 252 Mozart, Wolfgang Amadeus 249 Mukařovský, Jan 93 Myers, Diana (Ljalja) 297

Maccari, Giovanni 55, 320 Maccari, Paolo 320 Maderno, Stefano 243 Magnani, Anna 295 Maione, Lilla 270 Majakovskij, Vladimir V. 158, 171, 172, 321, 324, 326, 340 Malcovati, Fausto 190 Mandel’štam, Osip E. 85, 163, 164, 324 Mandruzzato, Enzo 246 Manica, Raffaele 55 Marchesani, Pietro 9 Marchi, Ena 49 Martini, Mauro 147 Mascagni, Pietro 161 Maselli, Elena 337 Maselli, Ercole 337 Maselli, Francesco 333, 334, 342, 345, 347 Maselli, Titina 333-347, 351

Ojstrach, David F. 306 Oliva, Renzo 93 Omero 64 Orazio 246, 249 Osipova, Praskov’ja A. 88 Ovidio 262 Ovsjaniko-Kulikovskij, Dmitrij N. 95

Nabokov, Vladimir V. 15, 183, 193, 225 Najman, Anatolij G. 232, 233, 235 Nicola I, 75 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 235 Nikol’skij, Jurij 127 Novalis 31

Palmery, Gianfranco 109-115 Pane, Antonio 159, 161 Paoli, Rodolfo 226 Paradžanov, Sergej I. 165 Pasternak, Boris L. 36, 306, 321 Pàstina, Giuseppe (Puccio) 345 Pavese, Cesare 60 Pavlova, Anna P. 306 Pellegrini, Ernestina 320 Perugino 352 Petrarca, Francesco 63, 64 Petrova, Evgenija N. 80,

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indice dei nomi

Picasso, Pablo 161, 181 Pietro il Grande 53, 235, 261, 305 Pirandello, Lietta 345 Pirandello, Maria Luisa 345 Pirandello, Ninì 345 Pirosmanišvili, Niko 181 Plath, Aurelia 138 Plath, Otto 140 Plath, Sylvia 137-143, 221 Platone, Rossana 84 Pocar, Ervino 226 Polledro, Alfredo 184, 188 Polovcov, A. A. 80 Poluchina, Valentina P. 232, 263, 270, 361-378 Powell, Robert 138 Prina, Serena 70, Properzio 225 Proust, Marcel 36, 127, 289, 290, 291 Puškin, Aleksandr A. 83 Puškin, Aleksandr S. 37, 38, 4762, 70-73, 75-82, 83-107, 121, 122, 151, 184, 206, 248, 249, 252, 257-260, 321, 324, 330, 331, 370, 372, 375-377 Puškin, Sergej L. 76 Raevskij, Nikolaj N. 101 Rančin, Andrej M. 240 Ravano, Anna 137 Rejn, Evgenij B. 41, 369, 370 Rilke, Rainer Maria 290 Rimbaud, Arthur 114 Ripellino, Alessandro 178 Ripellino, Angelo Maria 31, 49, 52, 58, 159-182, 184, 193, 321-328 Ripellino, Elisa 178 Ripellino, Milena 178 Rosselli, Amelia 220 Rozanov, Vasilij V. 93 Ryžaja Knjazeva, Irina 158 Ryžij, Boris B. 145-158, 220, 377 Ryžij, Artem B. 158

Saba, Umberto 177 Sanesi, Roberto 252 Sarab’janov, Dmitrij V. 77, 80 Savinio, Alberto 337, 344 Savinio, Maria 337 Savinio, Ruggero 314, 333, 336, 344, 346, 349-353, 355, 356, 358, 368 Šavrova, Varvara 374 Scialoja, Toti 335 Semenova, A. N. 77 Serebrjakov, Aleksej K. 377 Serov, Jurij 127 Seurat, Georges 181 Sibaldi, Igor 15, 190, 193, 225 Sicari, Giovanna 209-223 Šiškov, Aleksandr S. 98 Šišov, Aleksej 41 Šklovskij, Viktor B. 85, 93, 96 Šmakov, Gennadij G. 279 Smirnov, Gleb 346 Smirnova, Galina 289 Sofocle 29 Solmi, Raffaella 64 Solmi, Renato 254 Solmi, Sergio 64 Sontag, Susan 277 Spano, Chiara 77 Spendel, Giovanna 125 Spinola, Mata 387 Stalin, Iosif V. 163 Steinberg, Saul 253 Sterne, Laurence 52, 84 Strada Ianovič, Clara 84, 91 Strada, Vittorio 77, 91 Sumarokov, Aleksandr P. 38 Suvorin, Aleksej S. 93 Swift, Jonathan 51 Szymborska, Wisława 9-24 Tarkovskij, Andrej A. 37 Tasso, Torquato 251 Teocrito 29 Tjutčev, Fedor I. 47, 51, 52

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392

indice dei nomi

Tolstoj, Lev N. 15, 27, 31, 117124, 183-207, 225, 234, 338, 342, 377 Tomaševskij, Boris V. 85, 95, 96 Topor, Roland 253 Tornabuoni, Lorenzo 351 Toulouse-Lautrec, Henri de 181 Traina, Alfonso 246 Trevi, Emanuele 55 Trucchi, Lorenza 333 Tucci, Niccolò 355-359 Turgenev, Aleksandr I. 92 Turgenev, Ivan S. 38 Tynjanov, Jurij N. 85, 86, 101

Vespignani, Lorenzo 340 Villa, Agostino 184 Vitale, Serena 31, 60, 118, 134, 190, 225, 271, 289 Vjazemskij, Petr A. 84, 85, 95, 98 Vološin, Maksimilian A. 129, Volpi, Caterina 333 Volpi, Marisa 333 Vorob’eva, Marija 370

Ugo, Bianca 168 Utkin, Nikolaj I. 76

Yeats, William Butler 252

Van Dyck, Antonie 76, Vapcarov, Nikola 13 Vela, Claudio 159, 161 Verdi, Giuseppe 250

Watkins, Nancy 109, 113 Wedgwood, Julia 26 White, Stephen 262 Wittgenstein, Ludwig 114

Zavadskij, Jurij A. 127, 130, 132 Žirmunskij, Viktor M. 95 Zola, Émile 302 Žukovskij, Vasilij A. 248

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Quodlibet Studio

analisi filosofiche Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine

campi della psiche Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere

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Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi

campi della psiche. lacaniana Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicoanalisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di JacquesAlain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici

discipline filosofiche Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psico-analisi

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Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo

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Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762

estetica e critica Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani

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Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione

filosofia e politica Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umananel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine.Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea

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filosofia e psicoanalisi Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi

letterature omeoglotte Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere = Incontrare. Mi-grazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità Matteo Baraldi, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf

lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea

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Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del XX secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi lettere. ultracontemporanea Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese lingua, didattica, società Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina scienze del linguaggio John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio scienze della cultura Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni

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Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture

teoria delle arti e cultura visuale Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento

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