Frammenti d'una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte
 9788897806288

Table of contents :
Introduzione
Il pensiero onesto di Giuseppe Rensi
di Marco Fortunato
Il pensiero breve: il senso di una scelta
Il “sistema” dell’assurdo
Una speranza: Dio e/è l’uomo
Nota del curatore
Frammenti d’una filosofia dell’errore
e del dolore, del male e della morte
INDICE DEI NOMI

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Giuseppe Rensi

Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte a cura di Marco Fortunato

Un ringraziamento ad Agostino Giordano per la collaborazione nelle varie fasi del lavoro.

Tutti i diritti riservati Edizione e-book: febbraio 2013 Copyright © 2011 Orthotes Editrice Via Palermo 22/B 80010 Napoli www.orthotes.com ISBN 978-88-97806-28-8

INDICE Introduzione Il pensiero onesto di Giuseppe Rensi di Marco Fortunato Il pensiero breve: il senso di una scelta Il “sistema” dell’assurdo Una speranza: Dio e/è l’uomo

Nota del curatore Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte INDICE DEI NOMI

INTRODUZIONE IL PENSIERO ONESTO DI GIUSEPPE RENSI DI MARCO FORTUNATO

MARCO FORTUNATO IL PENSIERO ONESTO DI GIUSEPPE RENSI

Con Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, Rensi pubblica nel 1937, a quattro anni dalla morte, l’ultimo, e probabilmente anche il più riuscito letterariamente e il più incisivo teoreticamente, di sei “volumetti”, di cui solo gli altri cinque erano stati esplicitamente presentati fin nel titolo come raccolte di pagine di un diario intimo o del diario d’un filosofo,1 ma che finiscono comunque per essere tutti accomunati essenzialmente dalla scelta rensiana, non meno profondamente rilevante sul piano speculativo che su quello stilistico-formale, di costruirli-strutturarli per aforismi, o forse sarebbe meglio dire per frammenti (come suggerisce esplicitamente il titolo di quest’ultimo libro della serie), o forse sarebbe ancora più corretto dire per pensieri brevi. Con questi testi, che potrebbero essere ridimensionati come “minori” solo da una concezione sclerotica della produzione di pensiero a favore del cui superamento pochi autori hanno spinto prima e più di lui, Rensi non “scherza” affatto. Essi (e Frammenti nella forma più dispiegata e matura) presentano anzi due caratteristiche – il frequente, sistematico ricorso a richiami e citazioni desunti da opere letterarie e, appunto, l’opzione per la frantumazione in pensieri più o meno brevi – dalle quali idealmente si dipartono frecce che portano in modo molto diretto ad assunti teorici assolutamente fondamentali del suo pensiero. Se Rensi, in Frammenti come e ancor più che in tutti gli altri libri della sua cospicua produzione, “duetta”, lasciando loro di continuo la

parola, con più o meno grandi voci della letteratura e in generale dell’extrafilosofico – da un classico “eccentrico” della letteratura religiosa come l’Imitazione di Cristo a un mistico come Angelus Silesius, dai tragici greci e dai poemi di Omero e di Virgilio alla poesia dello stimatissimo e amatissimo Leopardi –, non è solo né principalmente perché è uomo dalle infinite letture, da cui trae le moltissime citazioni di cui costella le sue opere, e scrittore magistrale (caso rarissimo nella corporazione dei filosofi, e non solo di quelli italiani), che, in quanto tale, avverte un’affinità elettiva, e in fin dei conti ama anche competere, con i “luoghi” della grande tradizione artistico-letteraria. E non è nemmeno solo perché sente insieme il dovere e il piacere di prestare ascolto alla linea di pensiero incarnata da quella tradizione che, su questioni anche di primaria importanza, può divergere piuttosto nettamente da quella “ufficiale” della tradizione filosofica, come risulta ad esempio dalle pagine in cui Rensi segnala che, circa il problema così cruciale per l’uomo della scelta di una condotta etica cui improntare il proprio soggiorno terreno, la filosofia si è prevalentemente espressa a favore della morigeratezza e della virtù, se non addirittura esplicitamente a favore di quella rinuncia che Nietzsche denomina “ideale ascetico” e fa oggetto di violentissimi attacchi, mentre la poesia di ogni tempo ha di preferenza esposto e difeso le ragioni di un’interpretazione dell’esistenza più “sanguigna” e più aperta al piacere dei sensi.2 Ci si approssima già di più al motivo fondamentale per cui Rensi si pone tanto spesso in ascolto delle testimonianze del letterario e dell’extrafilosofico, se si dice che, decenni prima di loro, la pensava sostanzialmente come alcuni dei più vivaci pensatori nostri contemporanei, ad esempio Clément Rosset, che denuncia i testi filosofici di sola e tutta filosofia, impermeabili a qualunque contaminatio con l’altro dal philosophicum, come ammorbati dall’aria viziata e dall’odore di naftalina emanati dal puro esercizio mentale di una “testa senza mondo” che gira esclusivamente su se stessa e attorno a se stessa.3 La spiegazione ultima del protendersi di Rensi all’ascolto dell’extrafilosofico sta infatti nella sua piena convinzione che, proprio

ai fini della ricerca della verità ovvero dell’effettuazione di quello che si è sempre autoassegnata come il proprio compito costitutivo,4 la filosofia è ben lungi dal bastare a se stessa, non può rivendicare, non solo l’autosufficienza, ma neppure un primato nei confronti delle altre forme del tentativo umano/dell’umano essay di addivenire alla verità e alla Soluzione.5 E questo perché, secondo un’idea tanto affascinante quanto perturbante che Rensi in buona misura mutua da quel Simmel6 di cui fu il primo a introdurre la conoscenza in Italia e che tanta influenza esercita sul suo pensiero, il filosofo non è uno che sa, bensì uno che vede e canta ciò che ha visto, uno cioè che, in fondo non diversamente dall’artista, ha ed esprime una sua personale e in qualche modo impartecipabile visione del mondo, che provvede sì, in questo modo differenziandosi almeno in parte dall’artista, ad argomentare e a dotare della migliore stringenza concettuale possibile, ma che cionondimeno resta una visione e, al tempo stesso, una visione, ossia solo una delle numerose visioni, tutte identicamente valide e proprio per questo tutte identicamente non risolutive, quindi in definitiva tutte identicamente prive di valore assoluto.7

Il pensiero breve: il senso di una scelta

La seconda, decisiva caratteristica di Frammenti e del ciclo di sei libri di cui è la culminatio, ovvero il passaggio alla “misura” del pensiero breve, ha in primo luogo a che fare con una convinzione di Rensi che è parente abbastanza stretta dell’idea che Cioran esprime, scherzosamente ma non troppo, dicendo che ha scelto di scrivere aforisticamente perché ciò gli consente di abbracciare una posizione diversa o anche opposta a quella che ha fatto propria in un aforisma precedente: la convinzione, cioè, che il tempo, il divenire, il mutamento siano signori assoluti di questo mondo, e che registrare i cambiamenti di opinione – non di rado occasionati da rivolgimenti nella storia personale o collettiva, quando non da semplici sbalzi

umorali – che possono sopravvenire nell’arco della composizione di un libro come anche di una sola giornata non sia affatto un segno di superficialità e di inconsistenza teoretica da parte di un pensatore, bensì una delle migliori prove di serietà e di onestà che possa offrire. È ferma rivendicazione di Rensi che l’autentico pensiero sia e debba essere un fine barometro, sensibile anche ai più lievi mutamenti di pressione, di scena e di tono di cui il reale è continuamente foriero, che anzi letteralmente sono la realtà.8 L’idea che a mancare di serietà sia proprio il pensatore che quasi sempre viene lodato come coerente e solido, ovvero quello che svolge un’unica e permanente linea di pensiero solo perché forzosamente si chiude all’ascolto e allo sviluppo delle molte altre anche nettamente divergenti da quella che pure non possono non attraversare la sua mente,9 è pienamente presente in Rensi già nel primo decennio del Novecento, quando pubblica sulla rivista «Coenobium» contributi nei quali, con felice invenzione lessicale, scrive che quella, non solo del pensatore, ma dell’uomo in generale è e non può non essere un’“anima multipla”,10 capace di accogliere in sé in momenti diversi tesi e dottrine fra loro anche apertamente contrastanti. E anzi Rensi lascia intendere che il pensatore “perfetto” è quello che sa “sentire” e apprezzare in uno stesso momento la paritetica validità degli argomenti addotti da dottrine e scuole antitetiche (ad esempio spiritualismo e materialismo, o teismo e ateismo11), ovvero quello che nemmeno ha bisogno che scorra tempo per “sentire” – e che ha l’onestà di riconoscere – la costitutiva articolazione-scissione della propria mente/del proprio sé. Ma l’opzione per il pensiero breve, che frantuma-spezzetta continuamente il testo trasformandolo anche visivamente in uno “spazio” intermittente e quasi singhiozzante, rinvia anche e soprattutto ad un’altra, centralissima, persuasione di Rensi, che è insieme assunto teorico e doloroso precipitato della sua esperienza esistenziale: la persuasione, amarissima e al tempo stesso sbandierata e assaporata con acido compiacimento, che il mondo e la realtà siano intrinsecamente dis-ordinati, costitutivamente sconvolti e stravolti,

infettati radicitus da un male che è anzitutto irrazionalità e quasi derisoria assurdità, e che quindi ad essi – a rispecchiarli e a “dirli” – nessuna forma di pensiero e di scrittura si attagli meglio di quella asistematica, non trattatistica e non consequenziaria, che fa delle pagine un campo e, quasi, un coacervo di frammenti e di brandelli. Quando pubblica Frammenti, nel 1937, Rensi ha, per così dire, inappellabilmente passato in giudicato quell’amarissima persuasione. A imporgliela come definitiva è proprio il fatto che si sia nel 1937, cioè che egli abbia ormai vissuto e visto molto, in quanto ha sessantasei anni ed è perciò un uomo che, in quel periodo della storia umana e in particolare europea da cui noi distiamo ormai tre quarti di secolo, andava senz’altro considerato vecchio, e che è consapevole, come scrive esplicitamente, di avere vissuto già molti anni in più di quelli che mediamente sono toccati in sorte agli uomini delle innumerevoli generazioni vissute prima di lui.12 Che, fra le età dell’uomo, sia più di ogni altra quella finale a patire il negativo, il drammatico, il terribile e ad avvertire la lancinante esigenza di tentarne l’emendazione anche nella forma estrema e disperata di un “colpo di mano” che tolga tout court l’essere per togliere il male, non è certo un’idea pacificamente onnicondivisa che si sottragga alla discussione. Basti ricordare che mostrano di pensare sostanzialmente il contrario due grandi come Freud e Nietzsche: il primo nella lettera a Rachel Berdach in cui esprime il parere che la morte venga eretta a problema e come tale ansiosamente tematizzata e respinta come l’inconcepibile e l’inaccettabile soprattutto-soltanto dal giovane,13 il secondo nel punto dello Zarathustra in cui scommette che, se Cristo non fosse stato solo giovane e avesse potuto inoltrarsi nelle successive fasi della vita, avrebbe ridimensionato e forse apertamente ritrattato quella posizione esistenziale di cui lo ricordiamo come l’insuperato paradigma, contraddistinta da altissima tensione, da profonda insoddisfazione per l’insufficienza e peccaminosità dell’esistente e da attiva, fremente anticipazione-preparazione di una condizione “altra”.14 E non appare irriverente né improprio “tradurre” la provocazione nietzscheana nell’osservazione comune, tutt’altro che

priva di fondamento nella realtà, secondo cui la lunga esperienza dell’anziano lo inclina ad accettare con un lieve sorriso di appena un po’ mesta condiscendenza quei tratti di più o meno radicale imperfectio delle cose e degli uomini contro cui invece si scaglia inflessibile l’assolutismo del giovane. Ma Rensi è fedele all’idea, che in parte mutua da Julien Benda – non tanto dal Benda del fortunatissimo Tradimento dei chierici, quanto piuttosto da quello del quasi sconosciuto ma filosoficamente assai notevole Saggio di un discorso coerente sui rapporti tra Dio e il mondo15 – e in parte elabora e “costruisce” personalmente, secondo cui è il vecchio il tipo d’uomo nel cui irato disgusto per l’esistente, maturato appunto grazie alla sua lunga esperienza che gli ha consentito di accertarne l’irredimibilità, sono riposte le residue speranze che possa venire attivato un moto d’inversione del presuntuoso e pernicioso processo con cui il mondo si è autocreato staccandosi-autonomizzandosi da Dio e insorgendogli contro, ovvero insorgendo contro la pace dell’infinito, per conformarsi sempre più nettamente come ciò che tutti lo vediamo essere, ovvero il grandiosomostruoso fenomeno della finitezza e dell’individuazione in cui innumerevoli individui sono relazionati essenzialmente dal conflitto e dalla vicendevole sopraffazione.16 Rensi sa, sperimenta sulla propria pelle che avere vissuto a lungo significa avere potuto e dovuto prendere atto che la svolta, il cambio di rotta nelle vicende umane e cosmiche, la salvezza, insomma il miracolo tanto atteso molto semplicemente non avviene affatto; significa avere potuto e dovuto constatare che nulla sopravviene ad attenuare l’enigmatica, tragica irresolubilità dei due quesiti “se l’uomo nasce, perché muore? se l’uomo muore, perché nasce?”;17 significa essere costretti a riconoscere che la lapidaria e folgorante battuta pronunciata nel Caligola di Camus dallo straniante imperatore – «Gli uomini muoiono e non sono felici»18 – va considerata la “fotografia” permanente e definitiva della nostra condizione; significa avere visto i figli propri e altrui involgersi nella stessa, inesorabile spirale di abbacinamenti, errori, miserie, scacchi e dolori provocati e subiti dei loro padri;19

significa insomma non potersi fare più alcuna illusione circa un presunto potere di rinnovamento o addirittura di rivoluzionamento delle cose di cui siano portatori i nuovi individui che nascono, i giovani o i bambini, di cui non si può che pensare del tutto smagatamente ciò che, in un breve ma intensissimo dialogo di Professione reporter, dice di pensarne ormai, quando li vede giocare, un uomo casualmente incontrato dal protagonista in un parco di Barcellona, ovvero che saranno-vivranno in tutto e per tutto come ricominciamento e ripetizione della deplorevole, desolante vicenda che va in scena da migliaia e migliaia di anni. Ma, nella vita di Rensi già lunga nel 1937, a contribuire in misura rilevante a convincerlo che la realtà e la storia siano l’alveo dell’assurdo e del male, è stata anche la profondissima delusione causatagli dalle vicende politiche nazionali e internazionali, che ha costantemente fatto oggetto della sua attenzione interpretante e alle quali, per non pochi anni, non ha fatto mancare anche la sua personale partecipazione. Questa viva sensibilità di Rensi per la sfera del politico è tutt’altro che un dato accessorio o addirittura un fattore di incoerenza della sua figura: l’uomo che, come già si è detto, ritiene doveroso per il filosofo e consustanziale al pensiero seguire i moti del tempo fino a farsene impregnare-improntare, non può infatti dimenticare che – malgrado la sua bassezza, o piuttosto proprio nella e per la sua bassezza – la politica è ciò che Leopardi, in un pensiero deludente ma purtroppo difficilmente oppugnabile dello Zibaldone, si piega ad ammettere che sia, ossia la vera e propria intelaiatura della realtà, l’armatura stessa e la spina dorsale del mondo umano, della quale quindi non è possibile disinteressarsi e che, anzi, rivendica una sua ossessionante onnipresenza e quindi, in un certo senso, un primato nei confronti di ogni altra manifestazione dell’umano e categoria dello spirito.20 Non a caso, sia di tale bassezza che di tale primato noi troviamo a tutt’oggi piena conferma nel fatto che, per un verso, la politica, sebbene sempre più fortemente insidiata dallo sport in fatto di onnipervasività, resta il tema dominante della conversazione media e occupa quasi immancabilmente la pagina d’apertura dei nostri

quotidiani e telegiornali, e, per altro verso, proprio in quanto di continuo ne sentiamo esporre i temi e parlare i protagonisti, di continuo e senza possibilità di equivoco tocchiamo con mano il modesto spessore, la pochezza, la limitatezza e la nauseante ripetitività, quando non l’aperta volgarità, degli uni e degli altri. Ebbene, ciò con cui le vicende politiche ripagano Rensi del generoso investimento di attenzione e partecipazione da lui ad esse riservato, sono essenzialmente tre tragedie: a livello insieme nazionale e internazionale, prima l’orrore del massacro senza precedenti della prima guerra mondiale – l’evento devastante che è ritenuto un autentico punto di non ritorno dopo il quale nulla, e tantomeno il filosofare, può rimanere immutato non solo da Rensi,21 ma anche da un altro fine saggista e pensatore italiano a lui legato da viva stima reciproca, Adriano Tilgher, che non a caso decide di intitolare Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra22 una raccolta di testi da lui curata e pubblicata proprio nel 1937 –, poi il rinnovato scatenamento in Europa di fanatici nazionalismi che preparano con una massiccia mobilitazione generale e con un’indiscriminata corsa agli armamenti, e poi puntualmente innescano, la mostruosa deflagrazione della seconda guerra mondiale; e, a livello più propriamente nazionale, la sciagurata parabola del fascismo, il quale per un breve periodo desta speranze in Rensi, inizialmente legato da amicizia a Mussolini di cui subisce una certa quale fascinazione, ma poi ben presto svela il suo vero volto dittatoriale insieme criminale e grottesco, e allora trova in Rensi un fermo e coraggioso oppositore, tanto fastidioso e temuto da venire prima sospeso e poi, nel 1934, definitivamente allontanato dalla cattedra di Filosofia morale all’università di Genova e “degradato” a semplice bibliotecario. Non va assolutamente sottovalutato il fatto che, morendo nel 1941, Rensi muore mentre Mussolini è ancora al potere e vincente e mentre è in pieno svolgimento la seconda guerra mondiale; l’“ultima parola” del/per il pensatore che aveva irriso la pretesa hegeliana che il vero e allo stesso tempo il meglio stiano nel risultato/nella conclusione, osservando che la certa e vera conclusione è senza eccezioni la

morte23 (il che equivale a dire che l’esito è invariabilmente quel che i latini intendevano con la parola exitus), è doppiamente segnata dal dramma e dalla sconfitta, in quanto non solo coincide, come per tutti, con la morte, ma è anche un abbandono del mondo che avviene mentre in esso e su di esso dominano e splendono come un funesto sole nero, dando per di più una sinistra impressione di intramontabilità, forme cospicue del negativo che aveva cercato di scongiurare e contro cui si era – vanamente – battuto. Difficilmente Rensi morente avrà mancato di meditare su come stesse confermando la validità di ciò che scrive proprio in un bellissimo e tristissimo pensiero di Frammenti, ossia che l’uomo il quale si è sforzato per tutta la vita di conservare un livello il più possibile decoroso di rettitudine, mentre intanto vedeva pullulare attorno a sé le iniquità ed era stretto d’assedio dalle più varie manifestazioni della cattiveria e del male, non può uscire dal mondo diversamente da come Virgilio ne fa uscire Turno – il perdente, lo sconfitto – nell’ultimo verso dell’Eneide, cui consegna l’espressione della propria effettiva posizione filosoficoesistenziale, ovvero afflitto e sdegnato.24

Il “sistema” dell’assurdo

Va ora precisato e sottolineato che la rivolta di Rensi contro il reale non ha nulla di impressionistico e di scoordinato, né viene espressa anche stilisticamente con accenti scomposti e confusi, bensì si presenta come sostenuta dalla fitta, minuziosa tessitura di un argomentare lucido e stringente; e proprio per questo, tanto più inesorabile e, in certo modo, impressionante è il “no” che se ne sprigiona. Non è una gratuita forzatura asserire che proprio Rensi, il nemico della sistematicità e della sua tronfia pretesa di tappare ogni fessura e di spiegare tutto, costruisce un suo “sistema” della negazione e del rifiuto. Del resto, anche il titolo dell’opera qui riproposta testimonia di una concessione ad un’organicità che non è esagerato

avvicinare alla sistematicità: infatti esso, se si apre con quel termine “frammenti” che evoca subito potentemente l’“atmosfera” del saggistico e dell’asistematico, schiera poi però quattro grandi e classiche parole – “errore”, “morte”, ma soprattutto “dolore” e “male” – che richiamano il gesto sistematizzante in quanto hanno quasi la forza di categorie evocanti ampie o amplissime campiture tematicoconcettuali. Insomma, se il modello ideale del titolo di un saggio può essere rinvenuto in quello di uno dei più riusciti esemplari italiani della categoria – L’anello di Clarisse di Claudio Magris25 – in quanto “mette in scena” e punta incondizionatamente i riflettori su un particolare, per quanto significativo e non riducibile a mero dettaglio marginale possa essere, anzi più precisamente su un particolare di un particolare di un particolare – un oggetto di un personaggio dell’Uomo senza qualità di Musil, cioè di uno dei grandi autori di cui Magris analizza le opere nei vari sottosaggi che compongono il suo saggio –, allora dal titolo di Frammenti non traspare affatto una completa osservanza del canone, o forse sarebbe più giusto dire dell’anticanone, saggistico. C’è un libro – La filosofia dell’assurdo, anch’esso significativamente pubblicato nel 1937, ancorché riprenda e rielabori ampliandole le riflessioni già proposte in un libro di tredici anni prima, Interiora rerum26 – in cui maggiormente rifulgono la componente sistematica e il gusto architettonico-ordinativo di cui Rensi non era affatto privo. In esso, infatti, egli dà compiuta esposizione e motivazione della propria visuale scettica e pessimistica – pessimistica perché scettica27 – in quanto vi mostra-dimostra che il reale/il mondo è il regno dell’irrazionale, dell’incomprensibile, del caso, del dolore e della violenza e della loro ineluttabile ripetizione. Irrazionale, e in quanto tale atroce e marchiato di disvalore, è il mondo, sia quello naturale e – per così dire – globale, sia quello più propriamente umano costituito dalla e intorno alla mente dell’uomo. Per spiegare perché il reale sia fin nelle sue fondamenta l’irrazionale, Rensi riprende, con perfidia non inferiore alla finezza, un suggestivo motivo hegeliano, ossia l’attacco alla ragione illuministica, al mero e

velleitario Räsonnieren, alla ragione angustamente soggettiva che pretende, sulla base di ubbie e idiosincrasie puramente individuali, di assegnare pagelle di bontà o di cattiveria, di positività o di negatività alle cose, agli eventi, a intere epoche storiche, magari scomunicando l’intero medioevo come brancolante nell’errore e nella barbarie.28Nietzsche, il pensatore che definisce se stesso dinamite, in definitiva non inventa nulla e non fa esplodere alcuna dinamite – perché, nell’essenza, non va neppure oltre Hegel – quando, in Socrate, irride tutti coloro che, sulla base dei deboli e arbitrari ragionamenti contenuti nelle loro testoline, condannano l’esistente e vorrebbero “rifare” il mondo;29 e Nietzsche – nell’essenza – “ripete” Hegel e riconferma che il proprium del tedesco è la vocazione all’ubbidienza quando, scosso da un’ebbrezza quasi maniacale, approda come all’“ultima parola” della sua meditazione all’accettazione-benedizione incondizionata di tutto ciò che è così come è. Già Hegel, infatti, aveva ammonito che esiste una ragione oggettiva, ben superiore a quella soggettiva incarnata esemplarmente dalla presunzione degli illuministi; che, in quanto oggettiva, è indiscutibile e sottratta a qualunque obiezione da parte della soggettiva; e che di tale ragione oggettiva è letteralmente materiata la realtà, al punto che si può dire che il mondo sia la creazione, o meglio l’estrinsecazione e il dispiegamento, del germe di quella ragione radicalmente transsoggettiva, trans-umana.30 Ma Rensi prende Hegel alla lettera e ribatte: poiché la ragione e il suo stesso concetto nascono inconfondibilmente e inequivocabilmente nell’“atmosfera” dell’umano, poiché noi conosciamo una sola ragione – quella umana –, allora dire che la realtà è materiata di una presunta ragione diversa dalla nostra e fornita di sue “ragioni” a noi incomprensibili e da noi incontestabili, significa né più né meno che ammettere che la realtà non è materiata di ragione, è cresciuta, si è formata e vive nell’aperta ir-razionalità.31 All’assurdità del “sistema” della realtà Rensi non fatica certo a trovare i riscontri, che vanno dal ributtante spettacolo per cui il mondo naturale si presenta come un mattatoio a cielo aperto e a ciclo

continuo, ove i viventi si divorano gli uni gli altri non metaforicamente ma letteralmente32 e – come aveva già denunciato Schopenhauer33 – la vita affonda impietosamente i denti nella propria stessa carne, al già ricordato tragico e scandaloso enigma per cui un essere ricco e complesso e desideroso di felicità come l’uomo è chiamato (in vita) per morire/per essere ucciso e distrutto, fino a un particolare paradossale come quello per cui stanno uno accanto all’altro due condotti, l’esofago e la trachea, il funzionamento del primo dei quali mette mortalmente a rischio l’altro.34 Se poi Rensi rivolge lo sguardo più specificamente all’arena dell’umano, incontra quello che gli appare lo scandalo forse più inaccettabile: la radicale impossibilità di conoscere la verità, ossia proprio quell’inestimabile bene, di cui si può ben dire che non ci sia quasi filosofia che non abbia presentato la sua ricerca e il suo conseguimento come la propria stessa ragion d’essere. Dal momento che, per appurare quali fra le diverse proposizioni e tesi asserite dagli uomini corrispondano a verità, non è possibile confrontarle con una pietra di paragone extramentale inequivocabilmente dirimente analoga a quella che per tutte le misure rappresenta il metro di platino conservato nei pressi di Parigi o per orologi divergenti il moto degli astri che stabilisce l’ora che è, l’unico indicatore certo e veramente soddisfacente della verità sarebbe il consensus omnium, il convergere universale delle menti su una stessa posizione a proposito di una certa questione.35 Ma quanto invece constatiamo è che – come Rensi ripete con Hume – solo su elementari questioni di accertamento empirico o astratte questioni matematiche può essere raggiunta l’unanimità, per cui, ad esempio, lì dove sta un tavolo chiunque in ogni tempo può essere condotto a toccarlo e a riconoscerne la presenza, così come tutti si trovano concordi nel decretare che 2+2 è uguale a 4.36 Al contrario, a proposito praticamente di tutte le questioni davvero cruciali per la nostra vita culturale, spirituale, socio-politica, morale e religiosa, assistiamo all’imperversare di una discussione interminabile, all’impazzare di una vera e propria babele delle lingue, al contrasto

permanente e perpetuo fra “soluzioni” fra loro incompatibili e spesso diametralmente antitetiche, che si tratti della radicale incomprensione fra chi come Pascal reputa pura follia non credere nell’eucaristia e chi trova inconcepibile credere che un intervento da fattucchiere sul pane azzimo lo trasformi nel corpo di Cristo, oppure dell’irriconciliabilità fra chi in filosofia abbraccia la tesi idealistica e chi sposa invece l’istanza materialistica, o dell’ostilità fra i sostenitori della causa dell’aristocrazia o della monarchia assoluta e i fautori di quella liberale o democratica.37 Né la gravità di simili clamorose spaccature può essere palliata bollando come insincera qualcuna delle parti confliggenti: il fatto che, per l’una o l’altra di queste posizioni e dottrine, un numero ragguardevole di uomini in ogni tempo abbia affrontato la morte, attesta fin troppo chiaramente che nessuno può permettersi di sospettare nessuno di posare e di “recitare”, che nessuno si limita a “scherzare”, e che anzi in ciascuno degli opposti pronunciamenti è la ragione a parlare.38 Ma lo scandalo è proprio questo, il fatto cioè che sia la ragione a propugnare come vera ogni singola posizione e a rinfacciare alla posizione opposta di essere falsa, che sia la ragione a decretare quindi di fatto che ciascuna delle posizioni in cui si esprime è al tempo stesso vera e falsa, che sia la ragione/la Mente a essere intimamente e drammaticamente scissa e fratta come la mente di un folle, che insomma la ragione/la Mente non si distingua in definitiva dalla pazzia.39 Certo, a cospetto della selva delle differenze/delle contrapposizioni/delle contraddizioni Rensi potrebbe imboccare la direzione di Hegel. In un importantissimo pensiero di Cicute,40 a Hegel viene riconosciuto – indubbiamente un altissimo riconoscimento – di avere un fondo scettico in quanto non chiude affatto gli occhi davanti a quella selva, non minimizza per niente la sua esistenza né cela il problema che rappresenta, bensì ne fa il centro e la sostanza stessa della sua filosofia; ma poi Hegel indebitamente semplifica e crede di ri-solvere la complessità, l’infinita complicazione della selva nella misura in cui stabilisce che quell’intrico, il quale

solleva il dubbio più disperante circa la possibilità di raggiungere e conoscere la verità, è esso stesso la verità se preso nel suo insieme/nella sua totalità,41 che cioè la totalità delle erranze/degli errori è la verità, che il complesso dei dis-livelli/degli sfalsamenti/degli squilibri è la quiete perfetta e in se stessa appagata della giustizia. Non è certamente un caso che Hegel capovolga il motto attribuito a Ferdinando I d’Asburgo – fiat iustitia et pereat mundus – in un ben altrimenti rassicurante fiat iustitia ne pereat mundus; per lui infatti il mondo e la giustizia non si escludono necessariamente a vicenda, anzi proprio il mondo come κóσμος e őλον, ovvero la totalità assolutamente indiminuita di ciò che è, è il vero, l’indiscutibile, e quindi in ultima analisi anche la giustizia e il bene. Questo gesto quasi prestidigitatorio di Hegel che rovescia il dramma in soddisfazione – e che è già sostanzialmente operante nel giovanile Rapporto dello scetticismo con la filosofia ove viene riconosciuto che non c’è isolata e unilaterale determinazione dell’intelletto (e quindi, siamo senz’altro autorizzati a dire, non c’è momento logico-reale) che non sia incalzata e problematizzatarelativizzata da una determinazione ad essa contraria, ma la ragione non conosce contrapposizioni e non ha nulla fuori e contro di sé42 – è un τóπος ricorrente nella tradizione filosofica, in quanto lo ritroviamo in azione ovunque venga cercato, con tono più o meno trionfalistico, riparo in una zona franca e neutra sottratta al tarlo del dubbio e all’umiliazione della limitatezza, che si tratti dell’evento come controparte del significato, della sintesi a priori o del soggetto trascendentale dell’idealismo come controparti del soggetto empiricoindividuale, oppure di quel non-concetto (si tratta di un non-concetto in quanto è esso semmai a “contenere” il concetto e i concetti) che è, in certo pensiero orientale, il Luogo, incondizionatamente ospitale e onniabbracciante. Ma queste zone franche sono appunto, come si è detto, neutre, cioè pagano l’esenzione dal coinvolgimento nell’estenuante circuito della critica con un’assoluta, desolante vuotezza di contenuti, sono mero e

insulsamente translucido involucro privo di ogni concreto spessore, sono l’apoteosi stessa dell’impersonale la cui “splendida” e vittoriosa solitudine non rassicura affatto, perché non ha nessuna parola “calda” da dire all’uomo, ovvero alle persone.43 Non a caso Rensi ha buon gioco ad irriderne letteralmente una, che i loro escogitatori hanno particolarmente rivestito di prosopopea, ossia il Vero degli idealisti e in primo luogo dei due dittatori delle patrie lettere – Croce e Gentile – nei cui confronti la polemica di Rensi è costante e acuminatissima, quel Vero di cui essi proclamano l’assoluta intramontabilità ricorrendo allo stratagemma di almanaccare che ciò che in una certa fase temporale è ritenuto vero, tale è e rimane nel presente su cui impera anche se in un momento successivo sarà riconosciuto come falso, né tale riconoscimento compromette minimamente il persistere di un eterno presente di Verità, perché il riconosciuto come falso è in quanto tale eo ipso superato e respinto nel passato, ovvero nel non-essere, e rimpiazzato da un nuovo vero imperante nel nuovo presente fino al nuovo contrordine che reinnescherà la stessa radiosa dinamica. A questi penosi illusionismi Rensi contrappone la convincente obiezione secondo cui c’è ben poco da compiacersi e pascersi di quel presunto eterno presente di Verità, perché, se si va a cercare di distinguerne un contenuto, si vede che esso consta di tutte le posizioni e di tutti gli asserti più diversi e inconciliabili che si susseguono “al comando”, ovvero che contiene e “benedice” via via come vero tutto e il contrario di tutto, il che equivale in definitiva a dire che non sancisce né contiene la verità di alcunché, e quindi non è in grado di offrire la minima indicazione a chi voglia pervenire a una seria e inequivocabile identificazione della verità.44 Agli occhi di Rensi, Hegel appare in definitiva come il vertice di quella tradizione di accomodanti “pompieri” che hanno gettato acqua sul fuoco dello scandalo rappresentato da quella che abbiamo chiamato la selva delle differenze e delle contraddizioni, lo scandalo che i sofisti, tanto lodati e ammirati per questo da Rensi, furono i primi ad additare allorché richiamarono l’attenzione sul fatto che il semplice spostarsi nello spazio abbandonando una città greca per

mettere piede in un’altra comportava il passaggio da determinati costumi, leggi e opinioni ad altri più o meno nettamente divergenti.45 Di quella tradizione di “pompieri”, che si inaugura nientemeno che con Platone e Aristotele immediatamente incaricatisi di cercare di smussare la portata dell’inquietante intuizione dei sofisti e che – nell’affascinante ricostruzione/requisitoria rensiana – annovera buona parte di quello che viene generalmente considerato il Gotha della filosofia occidentale,46 Hegel appare a Rensi il vertice, nel duplice senso che il suo tentativo di normalizzazione è il più grandioso e insieme il più colpevole: il più grandioso perché in lui il confronto di tesi e antitesi, della prima e della seconda proposizione, è elevato al nucleo stesso della sua filosofia; il più colpevole e il più deludente perché sul groviglio delle due contendenti fa calare l’artificio di quello che può ritenersi il suo primo e principale dispositivo sdrammatizzante (l’altro, di cui ci siamo già occupati, ovvero la fictio che la totalità finale dei drammi appiani il dramma, non ne è in fondo che la ripetizione “monumentale” e gloriosa), cioè la confezione della sintesi, della terza proposizione, proposta come il “luogo” in cui verrebbe pariteticamente resa giustizia ad entrambe le parti in collisione, che ne risulterebbero quindi in qualche modo “affratellate”.47 Ma Rensi si aggrega alla linea degli interpreti hegeliani che scorgono e dicono con chiarezza come la sintesi non sia affatto il carismatico standard del livellamento e della perfetta equitàequanimità, ma incarni piuttosto il ritorno e la (ri)affermazione della tesi,48 sia pure passata attraverso il crogiuolo della dura contesa con l’antitesi; in quanto tale, la sintesi si configura addirittura come la cellula stessa della sopraffazione dell’uno sul due, come il punto di estrema e definitiva applicazione della forza – che è di per se stessa violenza – in cui il pensiero (di Hegel) decide, in primo luogo decide di debordare nell’altro-dal-logos/nel fatto/nell’atto. Hegel è davvero il genio perturbante delle due irrisioni, diciamo pure della doppia presa in giro. Una delle due è il gesto sbalorditivo – così inconfondibilmente caratteristico del lavoro della sua dialettica – con cui di-mostra l’identità degli opposti; è il gesto con cui di-mostra,

ad esempio, che padrone e servo o illuminismo e fede convertuntur, così facendo per sempre echeggiare un cachinno sulla retorica della scelta che pretende di esercitarsi fra due poli divisi da un’infinita differenza qualitativa, ma anche sull’habitus, così centrale nella psicologia umana, di costruire il proprio autoriconoscimento e la tenuta della propria stessa identità sullo schema del distinguersi-da e dell’opporsi-a, che si tratti dell’aggressività con cui l’uomo di destra enfatizza di non avere nulla da spartire col militante di sinistra (e viceversa) o dello zelo con cui il credente prende le distanze dall’ateo (e viceversa). Ebbene, questa presa in giro è, se così si può dire, una presa in giro seria, ha un suo fondamento nella realtà, è una valida operazione demistificante che getta una sonda preziosa nelle regioni profonde della verità. Questa buona presa in giro implicitamente insegna che, se ad una pace/ad una unione fra gli opposti si può addivenire, essa può scaturire solo dalla pazienza con cui non si aggiunga niente ad essi, ma ci si arresti al semplice squadernamento/alla pura es-posizione di loro due soltanto e, lungamente fissandoli e quasi penetrandoli da parte a parte, si giunga a vedere che trascolorano e si fondono l’uno nell’altro. Nell’alveo della sapienza suggerita da questa presa in giro si pone, con ben altro rigore rispetto a Hegel stesso, Adorno con la sua dialettica diadica che non approda alla terza proposizione/che non sfocia nell’in-giustizia e nella violenza della decisione, e in particolare l’Adorno di quelle frasi in cui la sua scrittura si fa così convulsa e sincopata che esse iniziano con un semplice attacco della tesi, quasi con un suo breve o brevissimo assaggio, cui viene poi immediatamente impedito di continuare/di insistere, cui viene immediatamente “tolta la parola” per aprire un inciso in cui irrompe l’antitesi, che così, intercalata ancor prima che la tesi si sia compiutamente dispiegata, è condotta a una sorta d’inclusione in essa, a una contiguità ad essa tanto spinta da potersi ben dire accavallamento, sovrapposizione che però non è sopraffazione, reciproco soffocamento che però è amoroso abbraccio della fusione in cui, se ciascuno degli opposti si perde (nell’altro) e quindi ne sortisce

un risultato a somma zero, è ricordata la verità insieme inquietante e profondamente pacificante per cui solo il nulla darebbe/sarebbe la giustizia.49 Ma l’altra presa in giro di Hegel, quella consistente nella giravolta con cui egli, dopo avere inscenato in tutta la sua lacerante virulenza il contrasto di A e B/di tesi e antitesi, va oltre loro due introducendo la sintesi e pretende che questa apporti la ricomposizione/la riconciliazione (mentre, come si è detto, essa è invece il definitivo fissarsi della violenza con cui la tesi soggioga l’antitesi), questa presa in giro Rensi non se la “beve” e la respinge. La respinge perché questa cattiva presa in giro vuole disonestamente celare il destino drammatico e irreparabilmente volgare per cui, dopo che i rivali hanno più o meno lungamente parlato esponendo i rispettivi argomenti senza che nessuno dei due abbia prevalso convincendo l’altro perché ciascuno ha ragioni altrettanto buone dalla sua parte50 (anche un pensatore come Jaspers, certamente meno ricco di pathos rispetto a Rensi, riconosce l’esistenza dell’esasperante sortilegio per cui nella discussione e nel confronto degli argomenti non c’è verso per nessuno di addivenire a un superamento dell’altro contendente51), l’unico modo per sbrogliare il nodo, per andare avanti e per concludere, è, per così dire, cedere la parola alla non-parola, lasciare intervenire e scatenarsi quel sinistro extraverbale che è la forza/la violenza, da cui verrà emesso il verdetto di vittoria per l’uno e di assoggettamento per l’altro.52 Smagata consapevolezza di tale drammatico e volgarissimo destino, Rensi la scopre, con finissima intuizione, in Eschilo, in quel verso dei Sette contro Tebe – ’Ἔρις περαίνει μῦθον ὑστάτη θεῶν – di cui giustamente afferma che sprigiona tutto il suo significato proprio se lo si traduce alla lettera, se cioè si ammette che vuole dire esattamente «la lotta, ultima dea, pon fine alle parole», ossia appunto che esprime né più né meno quel tremendo destino.53 E Rensi stesso non è forse mai tanto memore di quel destino quanto lo è nelle sulfuree pagine in cui decreta che lo scettico, in politica, deve fare proprio un atteggiamento conservatore che si dispone ad accettare quel qualunque

ordine e governo costituito sotto cui si trova a vivere, non certo per rispetto della sua bontà, ma perché non nasconde a se stesso la verità che, esattamente come quello, anche uno alternativo che gli volesse far subentrare sarebbe fondato sulla forza/sulla violenza;54 e questo perché assolutamente tutti lo sono, assolutamente tutti sono e non possono che essere figure del male, anche quella democrazia parlamentare che si vanta di avere superato la violenza grazie all’istituto del voto, fingendo di non vedere che, una volta snodatasi senza frutto alcuno la discussione, il voto può superare lo stallo solo nella misura in cui consente di individuare una maggioranza, ovvero un corpo sociale più numeroso e membruto della minoranza (e quindi capace di schiacciarla come di fatto implicitamente minaccia permanentemente di fare), il quale, solo in quanto – appunto – più forte, può passare a decidere.55 Insomma, si potrebbe dire, resta di nuovo sbugiardata l’enfasi con cui Hegel celebra il risultato-la conclusione come l’apparire del vero e del buono. Ecco – è come se Rensi gli dicesse – che cosa dirime e dirimendo conclude e suggella, ecco che cosa in realtà c’è alla fine/che cos’è veramente la fine: la nuda brutalità di Βία.56 Di fronte alla selva delle differenze e delle contraddizioni, Rensi ne riconosce appieno le sconvolgenti implicazioni. Poiché non concepisce la possibilità di approdare a una (pseudo)soluzione come quella di Hegel che prende in blocco l’insieme infinitamente complesso e tormentoso delle discrepanze e sentenzia che appunto la ridda di tutti i dis-sensi compone il Senso e la totalità degli azzardi con cui ognuno ha detto la sua verità costituisce la Verità; poiché insomma non gli passa per la testa l’idea di una ragione/di una verità internamente articolata e multi- o addirittura onni-comprensiva, e pensa invece che la ragione/la verità possa e debba essere solo una, quella, come conferma la circostanza rivelatrice che parla del «punto centrico inesteso della ragione»;57 è perfettamente logico che, a cospetto della selva delle dissimiglianze, tragga la seguente, accorata conclusione: al massimo una, forse una delle tante posizioni espresse circa ciascuna questione è la verità, e comunque, anche se una di esse

effettivamente lo fosse, in nessun modo potremmo acclarare quale di esse lo sia.58 Anzi, Rensi si spinge anche oltre questa già conturbante ammissione della inconoscibilità della verità: amaramente osserva che, qualora la Verità ci fosse, essa non potrebbe non avere una forza d’attrazione-costrizione e, per così dire, un prestigio tali che tutti, in maniera del tutto spontanea e quasi automatica, convergerebbero su di Essa e in Essa, e quindi il fatto che invece assistiamo alla confusa diaspora delle infinite posizioni differenti deve inclinarci a ritenere che la Verità non è solo-non è tanto inconoscibile, quanto piuttosto inesistente, che questo è un mondo disertato dalla Verità.59 E poiché Rensi non può dimenticare che Gorgia non si limitò a decretare che, se qualcosa esistesse, non potremmo conoscerlo, ma formulò il più radicale ed enigmatico assunto secondo cui nulla esiste, ecco allora che il grande estimatore dei sofisti, per dimostrare quanto si sbaglino i non pochi interpreti e storici della filosofia che ritengono di poter liquidare quell’assunto all’incirca come un disimpegnato calembour, osa ancor di più ed effettua una spericolata quanto affascinante traslazione delle sue considerazioni dal piano più propriamente gnoseologico a quello ontologico – o piuttosto meontologico, come sarebbe più corretto dire alla luce di quanto subito si vedrà –, una traslazione che lo porterà a dare ragione a Gorgia, che gli consentirà di confermare-ripetere il suo detto. Rensi ragiona così: un mondo inabitato dalla Verità e dalla sua chiarezza, un mondo in cui e su cui tutt’al più si possono dire le cose più disparate/si può dire tutto e il contrario di tutto, insomma un mondo di cui non si può dire assolutamente nulla di definito e di preciso, un mondo di questa fatta non può che essere esso stesso privo di una struttura definita, non può che essere un informe fagotto, una sorta di fantoccio infinitamente deformabile, una mera insostanziale parvenza, ma una parvenza cui non è sottesa alcuna sostanza, un’apparenza di niente, dunque insomma un in-esistente, un niente esso stesso.60 Questo Rensi anticipa il corrosivo Baudrillard secondo cui non si vede quale consistenza ontologica si possa riconoscere a un mondo come questo, che ha concesso almeno un brandello di incoraggiante

conferma praticamente a tutte le numerosissime e diversissime teorie con cui nei secoli, anzi nei millenni, si è cercato di spiegarlo.61 Questo Rensi si pone nella scia della dottrina devastante (aggettivo, questo, da intendersi in un senso che in qualche misura trascende la semplice metafora) di Nāgārjuna secondo la quale a quello su cui si possono pronunciare giudizi contraddittori/a quello cui si possono riferire attributi contraddittori non può essere riconosciuta alcuna effettiva esistenza.62 Questo Rensi è guidato dalla stessa sensibilità che, in Frammenti, gli consente di offrire un’insolita e altamente partecipe interpretazione del roccioso e apparentemente astrattissimo detto di Parmenide “L’Essere è”, un’interpretazione che ne fa insieme la palpitante protesta e il disperato tentativo di autorassicurazione dell’uomo che, trovandosi calato nel mondo in cui tutto è irridentemente relativo e insopportabilmente indefinito e mutevole, proclama, quasi nel commovente tentativo di autoconvincersi che lo sia davvero, quello che il mondo dovrebbe essere/quello che vorrebbe intensissimamente che fosse ma che sventuratamente è lontanissimo dall’essere, ovvero il luogo della perfetta incontraddittorietà e della totale affidabilità, il baluardo della più piena stabilità ontologica.63 Ma il Rensi che equipara il mondo al nulla va effettivamente un po’ troppo in là, in quanto, emettendo una sentenza circa la costituzione del reale – foss’anche appunto la sentenza secondo cui non ha una costituzione –, vìola la consegna scettica di non pretendere di dire la verità. Il Rensi più genuino resta quello che dice con Leopardi «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor».64 Ma appunto, poiché le nebbie del mistero sono “bucate” dalla sola certezza del dolore e quindi il mondo innegabilmente c’è almeno nella misura in cui si fa sentire arrecando dolore – precisamente come, secondo la solo apparentemente banale annotazione di Rensi, si muore perché si vive, perché ci si ap-passiona e ci si consuma vivendo la vita, che è quindi essa stessa a uccidere65 –, Rensi si adopera a descrivere ulteriormente i disgraziati tratti distintivi del mondo, che, sotto la sua lente osservativa-interpretativa, si conferma il reame dell’assurdo anche perché ciò che vi accade è posto sotto il segno del caso ed è

impaginato spazio-temporalmente. Che il mondo non soddisfi minimamente l’esigenza di chi vi voglia trovare – come Rensi dice citando Mill – justice and benevolence e di chi dal nobile punto di vista di justice and benevolence lo voglia giudicare;66 che in esso si possa al massimo rinvenire solo la razionalità bassa per cui di tutto è possibile indicare una spiegazione, così come ad esempio è possibile additare la causa della malaria, ma cionondimeno essa – ed è questo ciò che veramente conta – resta una malattia/un male che non ci dovrebbe essere;67 tutto questo va, per così dire, tristemente da sé. Ma il fatto è che, secondo Rensi, l’accadere del mondo non soddisfa neppure una richiesta meno severa che è in definitiva una richiesta di ordine, di stile e, quasi, di serietà, ovvero la richiesta che gli accadimenti si concatenino almeno secondo la “bella”, meccanica causalità di un’impeccabile necessitazione. O meglio: i fatti si concatenano sì tutti causalmente – nel senso che, ad esempio, se un uomo sale di notte su un treno quasi deserto e lì subisce un’aggressione magari mortale, non c’è dubbio che quel suo esservi salito sia stata la causa della sua disavventura – ma al tempo stesso casualmente – perché, per restare allo stesso esempio, è solo per via dell’illusione ottica data dallo sguardo retrospettivo che ci si lascia andare a dire che quel suo salire doveva provocare la sua disavventura, mentre la verità è che la causa “salire su quel treno”, come fa del resto qualunque altra causa, vagava (Rensi riprende da Platone la suggestiva definizione di causa πλανωμένη) alla ricerca della concatenazione con un effetto purchessia, e fino al momento in cui l’aggressione, avvenendo, si è imposta de facto come il suo effetto, è rimasta aperta la possibilità che si concatenasse con altri, anche molto diversi effetti.68 Secondo Rensi,69 nessuno ha “letto” il mondo meglio del Leopardi che lo consegna al dominio del caso, allo scatenamento incondizionato e il-limitato dei possibili e, quindi, alla libertà decretando che alle cose e ai fatti nulla preesiste, quindi neppure una ragione qualsiasi che li possa incanalare-limitare-predeterminare; non esiste perciò alcuna ragione per cui qualcosa debba essere e non possa non essere, né alcuna ragione per cui qualcosa debba non essere e non

possa essere, né infine alcuna ragione per cui una cosa debba essere in un certo modo e non possa essere in un certo altro. Nel mondo disertato dalla ragione, a chi chieda perché le cose sono si può dare solo la (non) risposta – quasi una tautologia, anzi un’ecolalia – che le cose sono perché sono, esattamente come, a chi chieda perché le cose sono come sono, si può rispondere solo che sono come sono perché sono come sono.70 Quanto poi a tempo e spazio, ovvero alle forme in cui si manifesta tutto ciò che esiste, Rensi le bolla senza mezzi termini come le categorie dell’assurdo.71 Se Bergson, il fanatico riabilitatore del tempo, amava dire, tra spensierato e compiaciuto, che ciò a cui il tempo “serve” è impedire che tutto accada simultaneamente/che tutto si concentri in uno stesso momento, ebbene in questo proprium del tempo – essere l’agente dello scaglionamento e della disseminazione – Rensi ravvisa i tratti del terribile, perché al tempo, proprio in quanto di-stacca e distribuisce, spetta la gravissima responsabilità di disgregare, di squarciare la placida, serena, “rotonda” quiete dell’Uno. E proprio questa natura di “moltiplicatore” che affetta il tempo sta all’origine di quello che in Frammenti Rensi chiama – “rubando” questa locuzione a Omero e facendone uno dei motivi principali del libro – l’οὖλος ὄνειρος,72 il funesto abbaglio cui ogni uomo soggiace proprio in quanto molteplici sono i momenti e i periodi della sua esistenza, ciascuno dei quali viene da lui vissuto all’insegna di un intento, di un progetto, di una passione che lo assorbe e si “appropria” di lui totalmente, che gli appare con fortissima evidenza il fulcro, lo scopo stesso della sua vita, ma che in un momento o in una fase successiva puntualmente perderà ai suoi occhi ogni smalto, cadrà in un’obsolescenza assoluta, passerà a destargli perfetta indifferenza, se non addirittura imbarazzo e vergogna al ripensarci. È così che l’adulto non si capacita di come da bambino abbia potuto far consistere il suo sogno di felicità nell’avere la stanza piena di dolci, ma allo stesso modo più tardi, da vecchio ormai confrontato con la suprema serietà dell’incombere della morte, guarderà come ad un fatuo bamboccio al se stesso adulto completamente perso nelle mene della carriera o del

potere politico.73 Rensi ha solo pietà e disgusto per questa beffarda parabola di un’autocontraddizione e di un autorinnegamento continui, da cui via via ogni momento e periodo resta di fatto ridimensionato a più o meno ridicolo errore, e a cui solo la morte pone fine. Eppure, è innegabile che qualcosa di miracoloso, qualcosa di molto simile a una grazia possa ravvisarsi nel fenomeno che la rende possibile, ossia nel fatto che ogni singolo momento del tempo, che in quanto tale è un’infinitesima particella dell’immenso tempo totale e per questo motivo si immaginerebbe destinato a offrirsi stemperato in un’evasiva e s-figurante opacità che lo umilî segnalandone l’assoluta minimalità già mentre viene vissuto, si presenta invece “in alta definizione” e dotato di quella forza e, quasi, di quell’avvolgente petulanza la cui idea risuona in uno dei significati della parola latina instans. Per convincere che ci troviamo di fronte a un fenomeno che ha qualcosa della grazia, basterà dire che la forte evidenza con cui gli si impone ogni momento della vita ha sull’uomo un effetto distogliente da tutto quanto non è appunto la vita che si offre nel presente, un effetto di distrazione che basta già a dare ragione di quello che destava in Schopenhauer stupore, cioè del fatto che l’uomo tanto di rado e tanto blandamente pensi-immagini la morte74 (vale a dire quel suo sempre futuro che non sarà mai un suo presente/una sua esperienza). E tuttavia è altrettanto innegabile che quella grazia secerna anche la disgrazia, così come comprende chi colga quanto sia debole la critica postuma rivolta al gesto di un famoso cantante suicida (Kurt Cobain) dall’amico che ebbe ad obiettargli di avere adottato una misura definitiva per ovviare a un dolore e a dei tormenti temporanei. Quella critica è debole proprio perché l’effetto-alta definizione di cui si è detto, ovvero il fatto che ogni momento si presenti nell’enfasi di una sorta di autosottolineatura che lo rende totalizzante per chi lo sta vivendo, avrà ovviamente fatto sì che a quel suicida, come a ogni suicida, l’oggettivamente minimale si sia presentato come (la montagna insuperabile del) tutto, che cioè abbia sentito e vissuto non come temporaneo e relativo, ma come definitivo e assoluto il

momento/il periodo del suo mal-essere e si sia comportato di conseguenza; quindi nulla gli si può in verità rimproverare, in quanto è stato preso nella morsa di una dinamica ineluttabile – l’effetto-alta definizione – che è sempre la stessa per tutti e che in nessun modo potrebbe essere diversa da quella che è. Solo l’esperienza e una lunga fatica di autoaddestramento conducono l’adulto – o meglio: qualche adulto e in qualche occasione – a non restare completamente soggiogato dall’effetto-alta definizione e a godere di un qualche distacco dall’instans: ma che quell’effetto rappresenti l’assoluta, trionfale normalità, lo attesta eloquentemente la circostanza ben nota che il bambino, ovvero la figura dell’originario e dell’autentico, gode di un’insuperabile e tutto sommato irripetibile intensità del sentire in quanto vive ogni gioia e ogni dolore come definitivi – destino in cui ritroviamo inestricabilmente fuse suprema grazia e somma disgrazia. Nemmeno lo spazio sfugge alla definizione di categoria dell’assurdo. È vero che si è sempre detto che, mentre il tempo è escludenteestromettente, lo spazio è accogliente e inclusivo, in quanto nella sua apertura e “distesa” assolutamente tutto trova, appunto, spazio. Ma il fatto è che ogni qualcosa o qualcuno vi trova posto occupandovi però un punto diverso, esterno, estraneo a quello occupato da tutti gli infiniti altri. Dunque anche lo spazio – irragionevolmente, follemente – dis-perde e lacera la quieta perfectio dell’Uno, e per questo motivo porta la tremenda responsabilità di essere la scaturigine della violenza, perché quella reciproca esternitàestraneità è necessariamente e ineluttabilmente reciproca inimicizia, come Rensi riconosce senza esitazioni,75 facendo splendidamente giustizia della stucchevole retorica – soprattutto cristiana – secondo cui l’essere in tanti e ciascuno staccato da tutti gli altri sarebbe una prova cui siamo sottoposti e, se la nostra reciproca esternità assume i caratteri di una più o meno aggressiva ostilità, ciò accade solo perché siamo colpevolmente cattivi e falliamo quella prova.76 Negli stessi anni in cui Rensi scrive, del resto, Freud rincara ulteriormente la dose in quanto, descrivendo la psiche come scissa in istanze fra cui strutturalmente intercorre la tensione di una lotta senza quartiere, offre

una veste scientificamente più composta all’intuizione già chiara in Nietzsche che il singolo individuo stesso in realtà non è affatto individuo ma dividuo, in quanto ospita in sé molteplici forze e Triebe che, lanciate in un incessante conflitto in cui ognuna cerca di prendere il sopravvento sulle altre, lo trasformano letteralmente in campo di battaglia. In definitiva, Rensi vede che il mondo-il reale è il luogo del dominio assoluto e dell’onnipresenza della differenza e dell’individuazione e quindi della molteplicità;77 e, in barba alle filosofie pullulanti soprattutto nel Novecento che sciolgono inni a differenza e molteplicità, dice apertis verbis che esse, ben più di quanto siano ricchezza e positiva stimolazione, sono l’esiziale e la disgrazia. E se facciamo un passo indietro che ci riporti per un momento alle pagine in cui Rensi discute la tematica della casualità dell’accadere, troveremo anche lì l’orma della feralità del molteplice. In esse, infatti, Rensi mostra di apprezzare e attribuisce rilevante peso allo spunto – che, come quasi ogni cosa che sia stata detta e si possa dire sull’abissalmente misteriosa questione se domini il caso o viga la necessità, è un’immagine e una “divinazione” più che un argomento – addotto da Ardigò quando dice che ad ogni momento in ogni punto del flusso evenemenziale si produce lo sforzo di inaugurare un corso ordinato e necessario dell’accadere, ma questo tentativo dopo poche battute fallisce perché troppi, infinitamente numerosi, sono i punti e le “linee” dell’accadere che interferiscono con quel punto, contraddicendolo e “smentendolo”, e con quel corso, complicandoloconfondendolo e deviandolo.78

Una speranza: Dio e/è l’uomo

Non sbaglierebbe chi ipotizzasse – e sperasse – che, anche in Rensi, qualche sollievo alla morsa del negativo – che in lui ha essenzialmente

i nomi e i “volti” di assurdo, violenza e caso – venga da un territorio che ha per insegna e riepilogo il carismatico nome “Dio”. È appunto dei modi altamente originali con cui Rensi “dissoda” tale territorio che ora bisogna dire qualcosa, il che equivarrà ad occuparsi di quel versante della meditazione di Rensi che una consolidata κοινή storiografico-interpretativa, peraltro in certo modo anticipatamente avallata da lui stesso,79 chiama mistico-religioso, e che trova la sua espressione più intensa nelle stupende Lettere spirituali, opera postuma pubblicata nel 1943 che però consta pressoché integralmente di scritti già apparsi in varie riviste negli ultimi quattro anni della sua vita. In prima approssimazione, a dire il vero, da Dio sembra non poter venire consolazione alcuna, in quanto Rensi – in uno dei suoi libri più genialmente provocatorî, Apologia dell’ateismo – ne argomenta l’inesistenza;80 l’ateismo, vi sostiene Rensi, va difeso e perorato come la corretta soluzione del dilemma riguardante Dio, è giusto ritenere che siamo senza Dio – una condizione di privazione cui allude la alfa privativa con cui inizia appunto la parola “ateismo” – per il semplice e tranciante motivo che Dio deve essere considerato l’in-esistente per definizione. Infatti, osserva Rensi, l’idea di Dio – dopo avere conosciuto esordi piuttosto rozzi e ingenui, come ai tempi della pur grandiosa civiltà ellenica, che agli dei olimpici ascriveva una forte e abbastanza indecorosa propensione a ingerirsi negli affari degli uomini, a mescolarsi a loro, persino a misurarsi con loro, certo uscendone sempre vincenti ma al tempo stesso abbassandosi in certa misura al loro stesso livello – del tutto giustamente e logicamente è stata sottoposta a un processo di sempre più spinta dis-incarnazione e rarefazione, inteso proprio a salvaguardarne la maestà e l’elevatezza. Questo processo, che ha conosciuto una delle sue tappe decisive nel rifiuto di concepire Dio come una persona cui magari l’uomo pretenda di rapportarsi come un io a un Tu sia pur “monumentale”, è culminato e non poteva non culminare nell’esenzione di Dio da qualsiasi coinvolgimento con le dimensioni spaziale e temporale/con il riconoscimento della sua necessaria e radicale extraspazialità ed

extratemporalità. Ma poiché – come Rensi sancisce riprendendo e al tempo stesso ampliando e “blindando” ulteriormente la lezione di Kant – tutto ciò che si dà nella realtà ci si dà “impaginato” nello spazio e nel tempo, non solo e non tanto perché quelli sono le forme che caliamo sulle cose quanto piuttosto perché di essi si rivestono le cose stesse per potere apparire/se e quando “vogliono” apparire,81 allora un ente come Dio, che per sua definizione e natura se ne tiene al riparo, non solo non appare di fatto (come tutto sommato ammettono anche i credenti), ma nemmeno potrebbe mai apparire, in quanto è escluso dalle stesse condizioni di possibilità della manifestazione, che peraltro sono eo ipso le condizioni di possibilità dell’esistenza. “Notizie” di Dio dalle quali la possibilità che ce ne venga, se non salvezza, almeno conforto resta esclusa, se possibile, ancor più inesorabilmente che dall’annuncio della sua inesistenza, ci vengono trasmesse dalla pagina di Lettere spirituali in cui Dio, sprezzante e terribile, si affaccia esplicitamente come il Nemico. È la pagina in cui Rensi, rivolgendosi all’interlocutore immaginario e costantemente muto col quale “dialoga” fingendo appunto di inviargli le missive che danno il titolo al libro, gli fa notare quanto vi sia, oltreché di assolutamente vano, anche di penosamente patetico nell’ostinazione con cui quello (che mai come in questo caso è rappresentativo di tutti gli uomini) tenta di persistere, di continuare la sua abitazione terrena, insomma di sfuggire alla morte differendola ad oltranza. Quell’ostinata impuntatura, gli spiega Rensi, è insieme vana e patetica perché è una resistenza letteralmente insensata alla chiarissima volontà di Dio – che qui di fatto è il nome che Rensi dà al Moloch cieco, sordo e implacabile della Totalità –, per la quale l’individuo asserragliato nel suo bunker, ogni individuo, non conta niente e non può rivendicare alcun diritto, che non sia quello di colare a picco; è insomma fin troppo palese che quel che vuole Dio/quel che vuole il Tutto è toglierlo di mezzo/è togliere di mezzo vorticosamente una dopo l’altra – assolutamente nessuna esclusa – tutte le sue stesse parti/tutti i suoi “figli”.82 E che questa sia la sua fermissima volontà nei loro confronti, lo attesta fin troppo chiaramente – direbbe Leopardi – lo zelo con cui

s’incarica di incalzarli e di tormentarli senza posa fin dal momento stesso in cui vengono al mondo.83 Un terzo “volto” di Dio, ancor più radicalmente sconfortante, emerge da un pensiero di Frammenti, nel quale Dio appare come il principe stesso del Male. Rensi lo apre osservando che non c’è alcun bisogno di accanirsi nella ricerca e nella fustigazione di peccati particolari e “speciali” dell’uomo, perché, in questo mondo orribile e intrinsecamente viziato e vizioso in cui è legge per tutti i suoi disgraziati abitatori un inesausto bramare appropriativo-competitivo e un campare fondato sulla distruzione e assimilazione-digestione degli altri, il puro e semplice vivere/esserci è colpa grave e delitto permanente. Ebbene, incalza Rensi con un ragionamento di sapore sadiano gelidamente cinico ma perfettamente filante, in quanto è stato Dio a volere e creare questo mondo e le sue sordide regole, noi uomini, stando sistematicamente nel male e compiendo il male, facciamo esattamente la Sua volontà.84 Davvero a questo Dio, come Rensi nota in un pensiero di Frammenti quasi immediatamente successivo, nessuna definizione si attaglia meglio della leopardiana «il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera».85 Di questo DioGrande Canaglia possiamo, anzi dobbiamo pensare che siamo tanto più in armonia con Lui, tanto più ci modelliamo a Sua immagine e tanto maggiore favore e tanto più abbondanti premi abbiamo motivo di attenderci da Lui, quanto peggio viviamo e ci comportiamo: il più sinistro e radicale caso di adempimento del motto “tanto peggio, tanto meglio”. E tuttavia va sottolineato che, a dispetto di questi primi riscontri poco incoraggianti, Rensi svolge una riflessione non solo assai raffinata, ma anche simpatetica a proposito della religione, che, nella sua non convenzionale interpretazione, viene ad assumere tre valenze, una più alta e nevralgica dell’altra. In primo luogo, veramente e profondamente religioso può essere considerato non certo l’uomo che proclama la sua fede e magari ostenta la sua inappuntabile partecipazione a tutti i riti ed esecuzione di tutti gli atti del culto, bensì quello che ha l’assennatezza di porsi a

distanza da se stesso, di guardarsi quasi da lontano e con quietamente scettica noncuranza, perché sa e riconosce di essere poco, anzi quasi niente,86 ovvero – per ricollegarsi all’ultima pagina di Lettere spirituali analizzata – sa che in definitiva è giusto che il grande Tutto si accinga a spazzarlo via.87 Quest’uomo sta agli antipodi di quello – al tempo stesso cretino, volgare e cattivo – che si ritiene centrale, che ascrive speciale importanza alle sue vicende individuali, che dà sbalzo e nettezza di contorni a se stesso e a ciò che lo riguarda;88 con grande acutezza, Rensi intuisce che Platone, quando attribuisce il peccato di πλεονεξία ai personaggi più prepotenti e prevaricatori che incontriamo nei suoi dialoghi, vuole intendere che alla radice della cattiveria c’è proprio la goffa, grossolana volgarità dello stare costantemente “sopra le righe”, dello sbracciare, dello sgomitare, dell’“allargarsi” e del fare a tutti i costi “il di più”, anzi che quella penosa mancanza di stile e di contenutezza è già essa stessa malvagità e sopraffazione.89 Se la prima valenza assegnata da Rensi alla religione è funzionale a innervare l’istanza di un secco ridimensionamento della ridicola prosopopea del soggetto-uomo perso nella rivendicazione e nell’adorazione di una sua in verità inesistente centralità, istanza sì sacrosanta ma in qualche misura esposta al rischio di venire intesa come un invito alla spenta abdicazione ad ogni impegno e ad ogni combattività, le altre due valenze che Rensi ritiene peculiari del religioso, ciascuna delle quali è strettamente complementare all’altra, riportano in auge l’immagine del Rensi maestro assoluto della polemica più pugnace. Religiosità, dice Rensi, è amara e risentita insoddisfazione per il (nostro) mondo, è vigorosa denuncia del suo essere basso e sbagliato, è ferma formulazione del giudizio secondo cui esso, così com’è, è ciò che non avrebbe dovuto e non dovrebbe essere.90 Questa concezione rensiana è molto vicina all’idea di chi pensa che la dignitas e l’altezza dell’homo religiosus, ad esempio del sacerdote cristiano, non risieda certo nel suo arrivare ad essere-nel suo costringersi ad essere, come e ancor più dei credenti laici, una figura della magari un po’ eccitata semiebetudine laudante e ringraziante la divinità, bensì piuttosto nel suo iniziale moto di protesta e, quasi, di

disgusto nei confronti del mondo che lo ha spinto a imboccare la strada di una simbolica, certo non totale ma comunque rilevante, secessione da esso. Religiosità è infine, nell’analisi di Rensi, costruire l’alternativa al mondo che non dovrebbe esser(ci), in primissimo luogo pensando e venerando, ma anche cercando di attuare, i grandi valori/le grandi idee – giustizia, lealtà, dignità spirituale, veracità, solidarietà, amore – che letteralmente sono il regno di Dio, perché, se si vuole dare un significato attendibile all’usata e abusata espressione “regno di Dio”, quest’ultimo deve essere fatto consistere in quelle eccelse idee e non certo feticisticamente identificato con un luogo più o meno reale o iperreale.91 Ma nella misura in cui a potere e a dovere concepire, salvaguardare, inalberare e onorare quelle eccelse idee sono con tutta evidenza gli uomini, ecco che Rensi ci conduce nell’immediata prossimità dell’estremamente impegnativa affermazione secondo cui l’uomo è l’araldo e, in certo modo, il portatore e la personificazione stessa del regno di Dio/del divino. Esiste in effetti una ben individuabile componente umanistica del pensiero di Rensi, il quale anche in questo rivela quanto sia profonda la consonanza della sua sensibilità con quella di Leopardi, il grandissimo che, in un punto capitale dello Zibaldone, respinge l’accusa di misantropia rivoltagli da alcuni e chiarisce che, semmai, il suo lamento e la sua protesta investono un obiettivo che sta ben più in alto dell’uomo.92 Denotativo di risentito orgoglio umanistico è, in Frammenti, il rammarico che, a fronte della constatazione dei tanti gravi fattori di fragilità e di disfunzionalità da cui è minato il corpo umano che solo un’ingenua retorica ha potuto magnificare come la macchina meravigliosa, Rensi esprime per il fatto che esso non possa venire riprogettato e “ricreato” dall’uomo stesso, che sicuramente saprebbe migliorarlo moltissimo perché nell’operazione profonderebbe lo stesso ingegno che gli ha consentito, ad esempio, di rendere sempre più perfetta la bicicletta e di passare dalla bicicletta all’automobile.93 Si giudicherebbe erroneamente il Rensi che così, in certo modo, pone l’uomo inventore al di sopra della natura e del suo eventuale creatore, se gli si rimproverasse di essere affetto dalla

perversione che Günther Anders imputerà all’uomo dell’epoca novecentesca del più impressionante dispiegamento delle forze tecnologiche, la perversione cioè di considerare ormai se stesso antiquato al confronto delle smaglianti macchine da lui stesso prodotte, di vergognarsi quasi di essere lontano dal poter vantare la perfezione dei propri prodotti tecnici e di vagheggiare l’impossibile trionfo di divenire il costruttore di se stesso.94 Quel Rensi merita piuttosto di essere apparentato all’Adorno, in particolare all’Adorno di Dialettica negativa, che, pur avversando strenuamente la violenta distorsione che la ratio filosofica e scientifica perpetra ai danni dell’oggetto/dell’extraconcettuale sussumendolo sotto il concetto fino a ricondurlo-ridurlo ad esso, ritiene tuttavia che mantenga legittimità e nobiltà l’esigenza dell’uomo che il mondo giunga a corrispondere al (suo) concetto e denuncia come disgrazia e scandalo che esso sia ancora ben lungi dal soddisfarla.95 Ma il trasporto rensiano per l’uomo tocca indiscutibilmente il suo culmine nelle indimenticabili pagine di Lettere spirituali in cui viene spasmodicamente inseguita una possibile soluzione al tormentoso problema dell’inconciliabilità delle due immagini predominanti e “canoniche” di Dio, quella del Dio creatore e quella del Dio redentore. Si tratta di un’inconciliabilità così netta che davvero non si vede come allo stesso Dio possano essere attribuite entrambe quelle funzioni. Se Dio è stato il creatore del mondo, delle sue geometrie e corrispondenze in certo senso perfette; se ha posto e garantisce gli impeccabili schemi e le leggi permanenti e insfuggibili che dal principio e per sempre lo reggono; se insomma è stato ed è un simile architetto, anzi un matematico indubbiamente impareggiabile, che però per la sua stessa natura sconta la quasi macchinale precisione del suo operare con una freddezza amorale e con un’anaffettività che gli consente – forse – di provare la sola emozione dell’arcigno compiacimento per le sue realizzazioni; allora appare inconcepibile che sia poi anche giunto a considerare la sua creazione come un male da cui gli incomba il compito di liberare le sue creature e gli uomini specialmente, perché nessuno saprebbe spiegarsi come il suo cuore di

ghiaccio possa avergli consentito anche solo di scorgere il male come tale e di ammetterne l’esistenza, di provare compassione per le sue creature che ne sono vessate, e di progettare per amore nei loro confronti la perigliosa impresa di affrancarli dalla sua stretta. Ma dall’altro lato, se Dio è invece il compassionevole e soccorrevole redentore, non si comprende neppure come possa essere stato anche creatore, cioè come possa essere stato Lui stesso a calare i viventi e in particolare gli uomini nelle drammatiche angustie da cui intende riscattarli.96 Ebbene, per questa apparentemente insuperabile aporia Rensi suggerisce un’affascinante soluzione, che si risolve in un encomio dell’uomo. Propone di pensare che Dio abbia percorso una vera e propria traiettoria evolutiva, che inizialmente sia sì stato il tetragono, indifferente creatore, ma che poi, dal momento in cui la sua creazione ha prodotto quella sua singolarissima efflorescenza e culminatio che è appunto l’uomo, si sia trasfigurato nel pietoso e amorevole redentore letteralmente continuandosi/passando/trasfondendosi nell’uomo; e questo perché l’apparizione dell’uomo è stata l’apparizione stessa della ragione nel mondo, e l’irruzione della ragione ha fatto sì che il dolore e il male non fossero più quel che erano stati anteriormente ad essa – un dato nudo e bruto, una cosa che semplicemente c’è e circa la quale nulla v’è da dire e tanto meno da obiettare –, ma venissero per la primissima volta sottoposti al commento, al giudizio, alla contestazione e ricusati come inaccettabili in quanto arrecanti cocente frustrazione all’esigenza di bene che la ragione adduce.97 Questa infatti compie l’inaudito passo di guardare al mondo dal punto di vista di justice and benevolence e di richiedergli di essere alla loro altezza. Certo, come emerge chiaramente dalla pagina di La filosofia dell’assurdo in cui viene immaginosamente descritto come l’effetto del-la degenerazione di una cellula cerebrale di un pitecoide,98 l’avvento della ragione/dell’uomo merita di essere riguardato con sacro orrore, sia perché costituisce l’ennesima e forse la più clamorosa e “mostruosa” affermazione della più assoluta casualità (per Rensi, esattamente come per Tilgher,99 è legge la convinzione leopardiana

che la ragione produttrice di quella sua fatale “figlia” che è la civiltà sia entrata nel mondo per caso, che la sua apparizione non abbia obbedito ad alcun piano, che dunque la ragione non abbia affatto previsto se stessa), sia perché è sostanzialmente una disgrazia già solo in quanto produceaggiunge molteplicità, dal momento che non lascia più semplicemente essere e riposare nella loro in-discussa solitudine le cose e i fatti, ma li “sdoppia” affiancando loro la complicazione e, in ultima analisi, il tormento della valutazione e della critica. Ed è chiaro che, quando è sul dolore e sul male/sul negativo che la ragione porta il suo giudizio (che del resto è già tutto contenuto nel suo puro chiamarli per la prima volta appunto dolore e male), essa in definitiva addiziona dolore a dolore, sventura a sventura. E tuttavia quel dolore supplementare che è il dire di no al dolore è anche e – forse – soprattutto stile, decoro, altezza, bontà, anche perché, per un verso, tale diniego si alimenta di viva compassione verso il mondo e i viventi esposti alle continue ingiurie del male e, per altro verso, cerca di dilatarsi fino a pensare-auspicare-progettare l’alternativa al male, il suo toglimento. È in omaggio a questo diniego compatente e progettante, a questa assoluta novità introdotta dalla ragione/dall’uomo, che Rensi, come abbiamo già visto, non ha paura di associare-identificare Dio all’uomo, o, più precisamente, di dichiarare che, se esiste una figura reale in cui si incarni il “volto” più luminoso di Dio – quello del Dio redentore –, essa non può essere rintracciata che nell’uomo. A chi poi chiedesse verso quale genere di alternativa al male possa protendersi secondo Rensi la speranza o l’impegno dell’uomo, si dovrebbe rispondere che la riflessione rensiana ne configura essenzialmente tre forme, anche molto diverse fra loro. Tra esse, a presentare le fattezze più “ottimistiche” è quella che Rensi addita con maggiore compiutezza appunto nelle pagine di Lettere spirituali che discutono nei termini ricordati l’aporia relativa all’idea di Dio. Rensi vi esprime l’auspicio e formula la scommessa che la caparbietà degli uomini che reagiscono allo strapotere del male mantenendosi fedeli a una condotta retta, coltivando e praticando

quelle virtù – dalla giustizia alla compassione, dalla sincerità alla fraternità – che sono esse stesse autentiche forze, possa sortire un effetto di purificazione-sublimazione del carattere e dell’“anima” dell’Uomo, intendendo con questo nome – scritto così, con l’iniziale maiuscola – quella sorta di formazione sovraindividuale in continuo sviluppo e rimodulazione che aggrega e compendia le esperienze e i contributi degli innumerevoli singoli delle innumerevoli generazioni della nostra specie avvicendantisi sulla terra. Se la speranza, inculcata dalle religioni tradizionali, in una sopravvivenza individuale appare fin troppo chiaramente vana e irragionevole fin quasi al grottesco, può forse invece non essere peregrina la speranza che ad eternarsi sia la grande “linea”-Uomo, a patto che essa, grazie alla progressiva crescita del numero di coloro che fanno la scelta di sposare la causa della virtù, si abbeveri sempre più alla fonte salutifera di quelle forze, fino quasi a compenetrarsi ad esse/a trasformarsi in esse che, proprio in quanto forze del bene, sono – forse – destinate a una tenuta e a una durata infinitamente superiori a quelle concesse alle energie del male, che sono condannate a sbranarsi a vicenda e a consumarsi come vili scorie trascinando con sé nel proprio sfacelo i malvagi che si sono ad esse consacrati, ma anche quelle “parti” dei buoni che questi stessi non hanno saputo né voluto strappare al male e hanno così sottomesso alla maledizione della deperibilità e della definitiva corruzione.100 La seconda possibile alternativa al male suggerita da Rensi è la più drastica e inquietante. In nessun punto, probabilmente, Rensi la “spinge in scena” più risolutamente che nel passo in cui lascia intendere come la sola lettura sensata che si possa dare del grandioso racconto di Berdjaev secondo cui il mondo sarebbe destinato conclusivamente a rifluire/ri-solversi in Dio e, appunto facendosene riassorbire-inghiottire, ritornerebbe finalmente a casa propria, sia quella che consiste nell’accettare-confermare tutti i termini di questo mito cosmico, tranne uno: al termine “Dio” va sostituito “nulla”.101 Se, secondo la lezione di Leopardi che Rensi accoglie pienamente e – come si è visto – articola e dettaglia ulteriormente, «il male è nell’ordine»,102 se insomma il mondo è sostanziato di male non

contingentemente e parzialmente ma normalmente e intrinsecamente, allora l’alternativa al male-il suo toglimento potrà essere soltanto il toglimento del mondo/ il passaggio-ritorno al niente.103 Se la prima “proposta” rensiana di superamento del male giunge a evocare l’eterno e la seconda coincide con l’assoluta spoliazione del niente, la terza – che è anche la più interessante e la più rivelatrice dell’indole profonda di Rensi filosofo e uomo – si colloca in una posizione in certo modo intermedia, in quanto rinvia a un ir-reale che tuttavia resta un qualcosa, a un quasi-niente che però, appunto in quanto è tale, si distingue dal niente assoluto: l’immagine mentale. Ci si incamminerà verso la comprensione di quest’ultima “proposta”, se si prenderà atto che, almeno in prima battuta, anch’essa fa perno sull’esercizio della virtù, di una moralità da cui però stavolta non si spera alcun effetto eternizzante, ma che si riconosce perfettamente e si ama con dolorosa fierezza nella sua natura di azzardo insanamente autolesionistico e proprio per questo grandioso, di vera e propria pazzia implicante con quasi matematica certezza un destino di sconfitta e fallimento per chi ne è invaso.104 Dopo avere mostrato con analisi molto raffinate e caustiche come la morale che intende fondarsi sulla ragione – e che ha nelle costruzioni etiche dello stoicismo, di Spinoza e di Kant i suoi episodi di punta – resti ben lontana dall’attingere gli esiti di vincolante universalità e di inequivocabilità che si ripromette dal fondamento che si è scelta, e origini invece insolubili ambiguità (nei casi di Spinoza e di Kant105) o addirittura sfocî nella legittimazione di un indifferentismo oscillante verso l’aperta immoralità (nel caso degli stoici106), Rensi – l’innamorato delle cause perse, l’integerrimo bastian contrario sulla cui tomba sta scritto Etsi omnes, non ego – teorizza con lucida disperazione che, se e quando condotta morale si dà, essa non può essere se non un impulso irragionato, che dà sì altissimo lustro a chi vi si abbandona ma nel contempo pone le premesse certe della sua rovina. E questo del tutto logicamente, perché il mondo, nella sua bassezza e perversità, non può non castigare quei pochi/quelle eccezioni che, invece di sintonizzarsi comodamente e

vantaggiosamente sulla sua turpe “lunghezza d’onda”, hanno la gloriosa avventatezza di optare per l’indipendenza spirituale nel rifiuto di qualunque servile adulazione, di negarsi ad ogni compromesso e tradimento, di perseguire la giustizia e difendere la libertà propria e altrui, di impegnarsi a diffondere lo stile della non violenza e dell’amore.107 Questi folli sublimi sperano e credono fino all’istante del definitivo scacco che vinceranno l’opaca e stolida resistenza del reale,108 ma al tempo stesso sanno in fondo con lucida amarezza che il loro tentativo abortirà perché pretende l’impossibile, ossia di andare impunemente, anzi vittoriosamente, in controtendenza rispetto alle ferree leggi della realtà facendo risuonare quella corda del Bene che essa dà la fin troppo chiara impressione di non avere fra i propri “mattoni” costitutivi. Di questa eccelsa categoria di pazzi della morale fanno parte figure come Bruto e Gesù,109 le cui ultime frasi dette o gridate nel momento in cui, l’uno a Filippi poco prima di uccidersi e l’altro sulla croce poco prima di spirare, assistono al franare di tutto – rispettivamente «O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguivo come tu fossi una cosa» e «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» – recano impresse su di sé i segni della sbigottita incredulità di chi fino alla fine ha potentemente voluto e anche creduto di vincere e dell’infinita tristezza di chi sa che ha perso e che di lui si farà o si sta già facendo mattanza (e certo, fra i due, è Gesù a sapere e pre-vedere con la più inesorabile certezza la sua sconfitta, anzi forse addirittura a volerla). Se si considera che l’esistenza di questi martiri della morale induce Rensi a completare il suo testamento filosofico – aperto con le raggelanti parole «Atomi e Vuoto», in cui si esprime l’inorridita costernazione dinanzi all’in-umanità del cosmo e al “funzionamento” della materia e delle leggi che la governano, tanto inappuntabili quanto acefale e intatte da qualunque preoccupazione morale110 – con le solenni parole «Il Divino in me», che, immediatamente “doppiate” dalla citazione del passo della Prima lettera di S. Giovanni che sancisce la superiorità dell’uomo sul mondo che lo

circonda/dell’interno sull’esterno – Μείζων ἐστὶν ὁ ἐν ὑμῖν ἢ ὁ ἐν τῷ κóσμῳ, Quello che è in voi è più grande di quello che è nel mondo –, segnano il punto di massimo dispiegamento dell’umanismo di Rensi;111 se si tiene presente inoltre che Rensi trova l’indizio della propria tendenziale appartenenza all’eletto novero di quei martiri in un impulso dentro di lui più forte di lui che, di fronte ai frequenti e rivoltanti spettacoli dell’ingiustizia e della prepotenza, gli ordina di battersi contro di esse sovrastando la voce della ragione, che gli ricorda le considerazioni di convenienza personale e gli predice che finirà per fare il proprio male;112 se infine si assegna l’importanza che merita al fatto che, nella sua frase riportata poco fa, Bruto parla della virtù, di cui ha voluto-dovuto essere paladino, come di un fantasma; allora non si faticherà a individuare i tratti davvero caratterizzanti di quella che abbiamo chiamato la terza e più interessante figura di alternativa al male additata da Rensi. Essa è un patrimonio così profondamente intimo al soggetto da quasi trascenderlo e dominarlo, è un baluginio tanto confuso e in-determinato quanto imperiosamente trascinante per il soggetto, che vi impegna e spesso vi immola la vita pur conoscendone, anzi proprio perché ne conosce, l’inanità, l’intraducibilità in atto e nella realtà, l’ineffettualità (la quale, com’è noto, per Hegel è la più spregevole vergogna); è insomma una fragilissima quanto indistruttibile, inappariscente quanto ammaliante immagine mentale, diciamo pure un sogno. È in definitiva un sogno, insieme alla dolorosa insoddisfazione che lo origina, a muovere nientemeno che la storia secondo la spiegazione che ne offre Rensi. Poiché, come recita un noto proverbio, «chi sta bene non si muove», Rensi ne conclude che il volersi sempre muovere dell’uomo, il suo continuo trascorrere di fase in fase, insomma il suo non essere stabile e avere una storia dipende-non può che dipendere dalla sua perpetua insoddisfazione, dal fatto che qualunque assetto socio-politico-esistenziale in cui si venga a trovare gli risulta doloroso e insopportabile e lo spinge ogni volta a fuggirne via.113 È già interessante rilevare che a Rensi andrebbe obiettato che l’uomo, più che volersi muovere, lo deve fare/che l’uomo, più che non

volere sostare nell’invarianza o almeno nella ripetizione, non può farlo, e che tale impossibilità è probabilmente la più ferale delle modalità con cui si esercita su di lui quella tirannia di Ananke della quale Rensi – il cantore del caso – anche qui, occupandosi del problema della storia, non tiene adeguatamente conto. Ma ciò che maggiormente conta, nel contesto della nostra discussione sulla terza figura di alternativa al male, è sottolineare che, se l’uomo si muove/fa storia, lo fa – secondo la suggestiva ricostruzione rensiana – non solo in quanto è diuturnamente incalzato dalla miseria e dal dolore del presente, ma anche in quanto “vede” e accarezza un’immagine di trasformazione della sua condizione, un sogno di futuro ben-essere verso la cui realizzazione si protende. Malauguratamente, però, tale sogno soggiace al sortilegio per cui, nel momento in egli lo tra-duce (o piuttosto crede di tradurlo) in realtà e lo rende (o piuttosto crede di renderlo) presente/il proprio presente storico, si sfalda-delude-slitta in male, quel nuovo, ennesimo male che riaccende il conato di fuga dell’uomo perpetuando appunto la penosa, inarrestabile dinamica della storia.114 Quando Rensi compie l’affondo più devastante nei confronti di Hegel, rovesciandone la celeberrima e incautissima formula “tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale” in un non meno tassativo “tutto ciò che è reale è irrazionale, tutto ciò che è razionale è e resta irreale”,115 non c’è dubbio che i sentimenti che prevalgono in lui e lo conducono a questa inversione sono il disgusto e la disperazione. Ma Rensi lascia anche intendere che la seconda metà del nuovo apoftegma – tutto ciò che è razionale è e resta irreale – cela in sé l’entusiasmante invito a creare e coltivare un mito, quello dell’irrealtà/dell’inesistenza, la sola “atmosfera”, la sola condizione (o forse si dovrebbe dire piuttosto: la non-condizione) in cui il buono può vivere e respirare, in cui anzi deve assolutamente permanere;116 gli è infatti fatale qualunque “incarnazione”, qualunque compromissione con la pregiudicata, volgare, intrinsecamente cattiva area della realtà/della presenza, come ci ha insegnato appunto il fatto che gli assetti buoni via via progettati e perseguiti dall’uomo nella sua

vicenda storica rimangono tali solo ed esclusivamente finché restano pure, impalpabili, in-definite imagines anticipatorie. Impossibile non cogliere in questa tematica di Rensi gli echi di un motivo decisivo dell’autore che una volta di più conferma di essere quello che ha esercitato su di lui l’attrazione di gran lunga maggiore, ovvero del motivo leopardiano dell’incanto della distanza, della bellezza del lontano e dell’assente, di ciò che sarà e che quindi in definitiva non è (ancora), ma soprattutto di quel che fu e che perciò in definitiva non è (più); è chiaro che la necessaria interfaccia di tale motivo è la condanna per irrimediabile mancanza di charme del vicino e del presente, che sono volgari e hanno torto/che sono comunque “maledetti” già semplicemente in quanto sono vicini e presenti. Ma impossibile anche non rivolgere a Rensi due rilevanti critiche. In primo luogo, quelle che abbiamo chiamato “pure, impalpabili, indefinite imagines anticipatorie” non possono essere considerate un nulla, ma semmai un quasi-niente, e dunque “adorarle” non coincide esattamente col celebrare quel culto del tout court in-esistente e irreale che Rensi sembra propugnare. In secondo luogo, un sospetto di insincerità ricade su ciò che Rensi confessa in un cruciale pensiero di Frammenti, ovvero che a distinguerlo dagli homines religiosi non è una sua presunta, e tante volte contestatagli, mancanza di rispetto e di sim-patia per il mondo che quelli danno per esistente-per vero e venerano – un mondo sostenuto dal Fondamento e garantito dal Fine, un mondo tenuto in equilibrio dall’asse di Verità-Bontà-Bellezza, un mondo guidato e protetto da una benefica direzione provvidenziale –, bensì la rigorosa onestà che gli impone di dire apertamente che il nostro non è affatto un tale mondo/che quel mondo sic et simpliciter non esiste e che la religione mente raccontando la zuccherosa favoletta che invece c’è, fermo restando però che lui sarebbe il primo a compiacersi se ci fosse/che nessuno più di lui vorrebbe che ci fosse e sarebbe pronto a decantarne la bellezza.117 Su quest’assicurazione – con la quale Rensi sostanzialmente si include in quella categoria di uomini di cui Nietzsche “fotografò” la posizione, con geniale sintesi, dicendo che pensano che il mondo che

c’è non dovrebbe essere e quello che dovrebbe essere non c’è118 – ricade il sospetto per due grandi motivi: perché, in quanto grande scettico dal pensiero ad altissimo tasso di drammaticità, Rensi è lo spirito che nega, acremente compiaciuto e orgoglioso di esserlo, e come tale è il più lontano dal potere accettare o addirittura incensare alcunché (e se si dirà che in questi suoi tratti è contenuto un quid di mefistofelico, ebbene esso fa parte integrante della sua grandezza e del suo fascino); e perché (secondo motivo che in fondo è di nuovo il primo) il sacerdote del culto del perdente e dell’ir-reale è e non può che essere anche il nemico e lo spregiatore di qualunque datità presente-esistente e già solo in quanto tale vincente, e quindi, persino qualora fosse il mondo buono (della religione e della metafisica) a darsi effettivamente – così rientrando ipso facto nella suddetta categoria del presente-esistente-vincente –, egli gli darebbe comunque contro, se ne lagnerebbe, lo sottoporrebbe al fuoco di fila della propria critica insonne, come qualunque cosa rientri nel volgare cono d’ombra di quella categoria. A suggerire e confermare queste due obiezioni a Rensi è anche, infine, il notevolissimo primo pensiero di Frammenti, in cui il tema del sogno si riaffaccia con particolare energia, tant’è vero che vi figura espressamente la parola «sogno». Esso si apre riportando e smantellando la vieta, mille volte ripetuta critica antiscettica secondo cui lo scettico avrebbe l’incoerenza di dichiarare la falsità di tutti i giudizi ma la verità del suo che afferma appunto la falsità di ogni giudizio, critica cui Rensi oppone proprio l’avvertenza che lo scettico è in realtà colui che sempre e soltanto nega, e in quanto tale non va al di là dell’elenco con cui dice che quel che Platone afferma essere la verità in realtà non è vero, che allo stesso modo ciò che Aristotele dice che sia la verità non è vero, che quel che Kant presenta come la verità ugualmente non è vero, eccetera eccetera.119 Ma questo pensiero d’apertura di Frammenti tocca la massima acutezza quando respinge l’immancabilmente rispuntante argomento secondo cui chi bolla tutto e tutti, come fa lo scettico, di falsità e, come fa Rensi, anche di assurdità e perciò stesso di radicale disvalore,

lo fa e non può che farlo dallo Standpunkt-dalla piattaforma del Vero e del Bene, e quindi deve ammettere che Essi effettivamente ci sono e dovrebbe deporre o almeno smorzare il suo atteggiamento di contestazione e di non-adesione al reale. A questo argomento-ricatto assetato di positività – il quale trova la sua versione forse più molesta nel cliché del credente che presume di disarmare il non credente rinfacciandogli che può avvertire e denunciare l’esistenza del male proprio e soltanto per contrasto con Dio e con il Bene, dei quali dunque deve riconoscere l’esistenza – Rensi oppone che, se ad esempio si percepiscono e si lamentano il dolore e l’infelicità, lo si fa non certo dal termine di paragone e dall’altezza della felicità e del bene realmente esistenti, che purtroppo sono ben lungi dal darsi, ma dall’angolo visuale di una «idea, o ideale, o immaginazione, o fantasma, o speranza e sogno del bene, che è (basta che sia) nella mia mente, anche come una mera fantasticheria, senza essere nella realtà».120 Appunto qui non possono non tornare a scattare le due obiezioni già formulate. In primo luogo, non è accettabile che si dica che il sogno/l’immagine mentale del bene sia tout court fuori dalla realtà/irreale. Infatti, noi tutti sappiamo per esperienza che è, in misura non irrilevante, il ritorno-l’elaborazione-la generalizzazione dell’immagine e soprattutto dello stato psicofisico di qualcuno dei momenti, certamente rari ma esistenti per tutti, di esatta calibratura e di euritmia, di ben-essere e di autosoddisfatta pienezza. Quindi quel sogno è, né si vede del resto come potrebbe non essere, compromesso con la realtà, anche perché quei magic moments sono compromettenti fino a sfiorare la colpevolezza. È a tal punto compromesso col reale, che non si può non dare ragione a due provocazioni di Nietzsche, una più perfida e sgradevole dell’altra: l’insinuazione che l’uomo dimostri tutto sommato una modesta forza immaginativa, dato che, se si va a verificare in che cosa fa consistere quello che nel lessico nietzscheano si chiama il mondo vero e nel nostro il sogno del bene, si trova che dopo tutto è caratterizzato da una somiglianza molto accentuata con il mondo effettivamente esistente, anzi in sostanza è questo stesso

mondo, solo “alleggerito” di due-tre fattori sgraditi, in primis del mutamento e del divenire;121 e la provocazione – di cui non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione un imbonitore sovreccitato come Nietzsche dell’incondizionato dire di sì – secondo cui ciascuno di noi di fatto vive in quei magic moments un accordo totale con il reale, e quindi ha, almeno una volta e almeno implicitamente, approvato e “benedetto” assolutamente ogni cosa e ogni evento122 (dunque anche l’enorme, ininterrottamente operante componente di male e di radicale in-giustizia del mondo; e appunto qui sta l’elemento di volgarità e di criptocolpevolezza di quei momenti). La seconda obiezione, quella che mette in dubbio che Rensi – lo spirito che sempre nega – possa amare e onorare checchessia di dato/ di presente/di reale, viene confermata nella sua validità dal tono del punto del primo pensiero di Frammenti che andiamo esaminando, e specialmente delle precise parole che abbiamo riportato testualmente. Noi infatti sentiamo che Rensi in effetti non vuole e cerca quasi di allontanare l’avvento reale del bene, che non tollererebbe il bene reale/il bene presente in quanto squadernato nella realtà. E poiché il Bene realizzato e presente sarebbe la più pura figura dell’Inequivocabile e dell’Indiscutibile, asserire che Rensi non lo potrebbe sopportare equivale ad obiettargli anche che – lui, l’uomo che più di chiunque altro ha lamentato e maledetto il destino per cui c’è infinita discussione senza approdo ad alcuna certezza e verità – non ha forse tenuto abbastanza conto della saggezza racchiusa nell’idea di Lessing che, qualora gli fosse concesso scegliere fra il saldo possesso della definitiva verità e la ricerca e quindi il dubbio interminabili, opterebbe per questi ultimi; equivale cioè ad obiettargli di non avere sufficientemente preso in considerazione l’elemento di “respirabilità” e, quasi, di fortuna che secerne, per lui come per ogni uomo, proprio quel destino di implacabile oscillazione e incertezza per cui geme e s’indigna. Ciò che Rensi può tollerare, ciò che anzi assapora, è l’immagine mentale del bene, cioè un magnetico quasiniente, una finissima e quasi in-apparente filigrana, un atto dello spirito quasi impercettibile e al tempo stesso intensissimo, con il quale

non vede pressoché nulla ma sente profondamente; e l’assapora perché l’avverte come sua e come alonata di mistero, in quanto sta – inafferrabile, illocalizzabile, anzi persino tale da non dare, come si è detto, quasi nulla da vedere – immersa nel profondo incasso della sua interiorità, che è in-verificabile per lui stesso quasi quanto per gli altri.

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I cinque antecedenti di Frammenti sono Scheggie. Pagine d’un diario intimo, Bibliotheca editrice, Rieti 1930; Impronte. Pagine di diario, Libreria editrice Italia, Genova 1931; Cicute. Dal diario d’un filosofo, Atanor, Todi 1931 (ripubblicato da Editrice La Mandragora, Imola 1998); Sguardi. Pagine di diario, La Laziale, Roma 1932; Scolii. Pagine di diario, Montes, Torino 1934. 2 G. RENSI, Critica della morale, Etna, Catania 1935, pp. 49-51. 3 N. ROUSSEAU, Entretien avec Clément Rosset: autour de L’école du réel, 9 maggio 2009. Il colloquio-intervista si può leggere in internet all’indirizzo: http://www.actu-philosophia.com/spip.php? article122. 4 G. RENSI, L’irrazionale, in Id., L’irrazionale/Il lavoro/L’amore, Unitas, Milano 1923, p. 102. 5 ID., Critica della morale, cit., pp. 50-52 (in particolare la nota 2 di p. 50 e la nota 2 di p. 51). 6 G. SIMMEL, I problemi fondamentali della filosofia, a cura di F. Andolfi, tr. it. di A. Banfi rivista da P. Costa, Laterza, Roma-Bari 199 , pp. 8, 1 . 7 G. RENSI, Lettere spirituali, Adelphi, Milano 1987, p. 18; Id., Lineamenti di filosofia scettica, Zanichelli, Bologna 1921, pp. 335346; Id., La filosofia dell’assurdo, Adelphi, Milano 1991, pp. 29-30; Infra, pp. 56-57. 8 G. RENSI, Cicute, Editrice La Mandragora, Imola 1998, p. 17; Id., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 26. 9 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 24-28. 10 Cfr. A. MONTANO, La morale nel pensiero di Giuseppe Rensi,

«Rivista di storia della filosofia», 2005, n. 4, pp. 690-691. 11 G. RENSI, Sic et non, Libreria Editrice Romana, Roma 1910, pp. 9-13; ID., Lineamenti di filosofia scettica, cit., p. 341. 12Infra, p. 127. 13 S. FREUD, Lettere 1873-1939, a cura di E. L. Freud, tr. it. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1960, p. 420. 14 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1979, vol. I, p. 86 (“Della libera morte”). 15 J. BENDA, Saggio di un discorso coerente sui rapporti tra Dio e il mondo, a cura di M. Sgalambro, tr. it. di L. Fiorello, De Martinis & C., Catania 1993. 16 G. RENSI, Raffigurazioni. Schizzi di uomini e di dottrine, Guanda, Modena 1934, pp. 17-24; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 14-16. 17 ID., L’irrazionale, cit., p. 19. 18 A. CAMUS, Caligola, tr. it. di F. Cuomo, Bompiani, Milano 1990, p. 5. 19 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 107-110. 20 G. LEOPARDI, Zibaldone, 309-312. 21 G. RENSI, Autobiografia intellettuale, in Id., Autobiografia intellettuale/La mia filosofia (Lo scetticismo)/Testamento filosofico, dall’Oglio, Milano 1989, pp. 24-26. 22 A. TILGHER, Antologia dei filosofi italiani del dopoguerra, Guanda, Modena 1937 (contiene testi di Antonio Aliotta, Ernesto Buonaiuti, Giulio Evola, Piero Martinetti, Costanzo Mignone, Emilia Nobile, Giuseppe Rensi e dello stesso Tilgher). 23 G. RENSI, L’irrazionale, cit., pp. 19-20. 24Infra, p. 153. 25 C. MAGRIS, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Einaudi, Torino 1984. 26 G. RENSI, Interiora rerum, Unitas, Milano 1924. 27 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 13. 28 ID., L’irrazionale, cit., pp. 10-11, 111-112; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 59.

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F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, a cura di V. Vitiello ed E. Fagiuoli, tr. it. di U. Fadini, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 162-163. 30 G. RENSI, L’irrazionale, cit., pp. 11-16, 112; Id., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 59-60. 31 ID., L’irrazionale, cit., pp. 111-113; Id., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 60. 32 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 93-97. 33 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 1979, vol. II, p. 465 (Libro IV, §63). 34 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., p. 92; ID., L’irrazionale, cit., p. 19. 35 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 73-77; ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), in Id., Autobiografia intellettuale/La mia filosofia (Lo scetticismo)/Testamento filosofico, cit., pp. 57-59, 61, 82, 86; Id., L’irrazionale, cit., pp. 79-80. 36 ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 62-65, 95, 99; ID., La filosofia dell’autorità, De Martinis & C., Catania 1993, pp. 201202. 37 ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 63, 65-66; ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 202-203, 206, 207; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 63-72. 38 ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 73-75, 95-96; ID., L’irrazionale, cit., pp. 27, 87, 99; ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 44-50. 39 ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 201, 203-204; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 71-72; ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 78-95; ID., L’irrazionale, cit., pp. 77-95. 40 ID., Cicute, cit., p. 42. 41 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 55-56; ID., L’irrazionale, cit., pp. 128, 92. 42 G.W.F. HEGEL, Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura

di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 98-99. 43 G. RENSI, La filosofia dell’autorità, cit., pp. 40-43, 193-195; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 45-55. 44 ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 66-68; ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 195-199; ID., L’irrazionale, cit., pp. 9395. 45 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 43-45; ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 184-186. 46 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 45-50. 47Ivi, p. 56. 48 G. RENSI, Le ragioni dell’irrazionalismo, Guida, Napoli 1933, pp. 26-27. 49 Elio Matassi, soprattutto in due punti di un suo notevole saggio nel quale evidenzia il considerevole peso che hanno avuto nell’ispirare ad Adorno il modello della dialettica negativa la teoria musicale di cui era raffinato conoscitore e la pratica compositiva cui si dedicò con non trascurabili risultati (E. MATASSI, Il pentagramma e la dialettica, «MicroMega» 5/2003, pp. 221-222, 227), ricorda e sottolinea che in ambito musicale il contrappunto dà effettiva realizzazione a quella simultaneità del-l’uno e del due che per la scrittura filosofica rimane invece l’impossibile, in quanto la av-vererebbe solo se mai potesse scrivere-vergare la posizione e la negazione/la tesi e l’antitesi letteralmente una dentro-sopra l’altra. Ma, appunto, a realizzare questo impossibile la scrittura non musicale non si avvicina mai tanto quanto nelle descritte frasi di Adorno in cui serpeggia la massima concitazione del pensiero. Certo, nessuno può dimenticare che ciò che principalmente preme ad Adorno è enfatizzare lo stile di una dialettica in cui tesi e antitesi, nemiche fino in fondo, si dispiegano pienamente e liberamente senza concedersi alcun margine di conciliazione e di intersezione reciproca. Ma, se in questa dialettica-“teatro della crudeltà” si esalta il sale dell’irriducibile spirito critico che però è anche – e forse soprattutto – scontentezza e dolore dello stare da solo e di contro, in quelle frasi supremamente vibranti Adorno, probabilmente a dispetto delle sue stesse volontà teoretiche,

suggerisce-sperimenta il segreto di una fusione/di un diventare uno con l’altro/di un divenire lo stesso dell’altro che, proprio perché è in fondo deposizione della propria distinzione in primis intellettuale, è anche riposo, pace, pienezza. 50 G. RENSI, La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., p. 65. 51 K. JASPERS, Piccola scuola del pensiero filosofico, tr. it. di C. Mainoldi, SE, Milano 1998, pp. 85-87. Ma si vedano anche i primi due periodi di p. 70. 52 G. RENSI, La filosofia dell’autorità, cit., pp. 149-152, 164-165. 53Infra, pp. 69-70. 54 G. RENSI, L’irrazionale, cit., pp. 138-145; ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 218-221. 55 ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 109-116. 56 Se c’è un qualche senso in cui la dialettica è effettivamente la verità, essa lo è proprio in quanto resti fino in fondo in-conclusiva/inconcludente, in quanto si limiti ad ostendere il contrasto di tesi e antitesi quale veramente è – bloccato e indecidibile – senza pretendere-fingere di ri-solverlo nella terza proposizione. Inoltre, la dialettica in-conclusiva (quella cui Hegel non si è mostrato fedele) è il dire vero/il dire la verità anche nella misura in cui elaborare fino all’estenuazione gli argomenti ugualmente validi dell’uno e del due per ostenderne il contrasto bloccato e irresolubile (si può dire che Rensi, dalla prima all’ultima pagina della sua opera, abbia la profonda onestà di non fare altro) è, a dispetto delle oltremodo diffuse e convenzionali lamentazioni (anche rensiane) circa la debolezza e i limiti della ragione e del pensiero dell’uomo, un altissimo risultato del nostro pensiero, certamente la sua più grande prestazione, la sua grandezza. E arrestarsi alla motivazione ed esibizione di quel contrasto bloccato ha un ulteriore altissimo pregio: implica la rinuncia alla forza/il non approdo alla violenza della quale è segno e incarnazione il sopravvenire sparigliante della terza proposizione. E infatti, se la dialettica hegeliana le dà in qualche misura ragione, quella autentica denuncia invece come una clamorosa cantonata la frase di Nietzsche «Bisogna aver da ottenere a forza la propria ragione: altrimenti non si

fa alcun uso della dialettica» (F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di M. Ulivieri, in ID., L’Anticristo/Crepuscolo degli idoli/Ecce homo/La volontà di potenza, Newton Compton, Roma 1989, p. 126). 57 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 63, 64, 68; ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 81, 89. 58 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 76-78; ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 81-82, 86, 92. 59 ID., L’irrazionale, cit., pp. 89-90. 60Ivi, pp. 95-96, 100-104. 61 J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 7. 62 Cfr. F. CORDELLI, Carifi: oltre il tetto del pensiero. Tra filosofia e misticismo, verso una redenzione che non verrà, «Corriere della Sera», 29 maggio 2011, p. 36. 63Infra, pp. 57-61. 64 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., p. 152. 65 ID., Lettere spirituali, cit., pp. 20-22. 66 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 92. 67 ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 165-173; Infra, pp. 122123. 68 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 168-172, 185-188; ID., Le aporie della religione, Etna, Catania 1932, pp. 153-154, 158. 69 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 61-62; ID., L’irrazionale, cit., pp. 108-111. 70 G. LEOPARDI, Zibaldone, 1341-1342, 1613, 1616. 71 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 137-140, 165-166. 72Infra, p. 76. 73Ivi, pp. 76-78, 131; G. RENSI, Lettere spirituali, cit., pp. 185-188; ID., Critica della morale, cit., pp. 27-28, 116-117; ID., La filosofia dell’assurdo, cit., p. 122; ID., Le antinomie dello spirito, Società Libraria Editrice Pontremolese, Piacenza 1910, pp. 152-153. 74 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., vol. II, p. 374 (Libro IV, §54).

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G. RENSI, Lettere spirituali, cit., p. 100. Una schietta espressione di questa retorica si può leggere ad esempio in M. GENTILE, I grandi moralisti, ERI-Edizioni Rai, Torino 1961, pp. 36-37. 77 A questo proposito, ha perfettamente ragione Badiou a insinuare come l’enfatica insistenza delle varie etiche della differenza, tutte in qualche modo ispirate dal pensiero di Lévinas, sul dovere di scoprire e di valorizzare il più possibile l’altro e l’alterità risulti sottilmente ridicola qui, ovvero nel mondo in cui già nella più assoluta normalità la differenza regna sovrana e assolutamente nulla è semplice (A. BADIOU, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male, tr. it. di C. Pozzana, Pratiche, Parma 1994, pp. 26-28) perché tutto è «infinitamente molteplice» come quell’«oggetto visto in un sogno notturno» che «istantaneamente appare molteplice da uno che pareva, da piccolissimo enorme, nel suo frangersi illimitato» (Platone, Parmenide, tr. it. di A. Zadro, in Id., Opere complete. Volume terzo, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 56 [XXVId]). 78 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 167-168; ID., Le aporie della religione, cit., pp. 156-158. 79 ID., Autobiografia intellettuale, cit., p. 23. 80 ID., Apologia dell’ateismo, Formiggini, Roma 1925 (poi ripubblicato da La Vita Felice, Milano 2009). Ma si vedano anche il capitolo II (La volatilizzazione di Dio) di ID., Le aporie della religione, cit., pp. 25-54; ID., Le antinomie dello spirito, cit., pp. 3644; Infra, pp. 65-66. 81 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 154-164. 82 ID., Lettere spirituali, cit., pp. 153-154. 83 G. LEOPARDI, Zibaldone, 4485-4486. 84Infra, pp. 127-128. 85Ivi, p. 129. 86Ivi, p. 155; G. RENSI, Lettere spirituali, cit., pp. 51-53, 152-154, 203; ID., Le antinomie dello spirito, cit., pp. 57-61. 87Infra, pp. 128, 155; G. RENSI, Lettere spirituali, cit., pp. 145-146; 76

ID., Le antinomie dello spirito, cit., pp. 61-74. 88 ID., Lettere spirituali, cit., p. 152. 89 ID., Motivi spirituali platonici, Gilardi e Noto, Milano 1933, pp. 182-185. 90 ID., La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 20, 219-223, 169; Infra, p. 61. 91 ID., Lettere spirituali, cit., pp. 48, 102-104, 147-152, 159, 166167, 206-207, 209. 92 G. LEOPARDI, Zibaldone, 4428. 93Infra, p. 139. 94 Il riferimento va alle tesi sviluppate nella Parte prima (Della vergogna prometeica) di G. ANDERS, L’uomo è antiquato, I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 29-94. 95 TH.W. ADORNO, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, tr. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, pp. 132-133, 135-137. 96 G. RENSI, Lettere spirituali, cit., pp. 196-201. 97Ivi, pp. 202-203, 212-213. 98 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 98-103. 99 A. TILGHER, La filosofia di Leopardi, a cura di M. Boni, Massimiliano Boni Editore, Bologna 1985, pp. 116, 125-135. 100 G. RENSI, Lettere spirituali, cit., pp. 203-209, 9-10, 49, 161; ID., Le aporie della religione, cit., pp. 233-236. 101 ID., Lettere spirituali, cit., pp. 97-98. 102 G. LEOPARDI, Zibaldone, 4511. 103 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 129-135. 104 ID., La morale come pazzia, Guanda, Modena 1942, pp. 223232; ID., Lettere spirituali, cit., p. 72. 105 ID., La mia filosofia (Lo scetticismo), cit., pp. 120-140. 106Ivi, pp. 100-120. 107Infra, pp. 144-145, 147-148; G. Rensi, Lettere spirituali, cit., pp.

158-160; ID., Testamento filosofico, in Id., Autobiografia intellettuale/La mia filosofia (Lo scetticismo)/Testamento filosofico, cit., p. 222. 108 ID., Testamento filosofico, cit., pp. 215, 216, 217, 219. 109Ivi, pp. 214-220. 110Ivi, p. 222. 111Ivi, pp. 224-225. 112Ivi, pp. 222-223. 113 G. RENSI, La filosofia dell’autorità, cit., pp. 107, 118-121; ID., L’irrazionale, cit., pp. 40-41. 114 ID., La filosofia dell’autorità, cit., pp. 119-120. 115Ivi, p. 120; G. RENSI, L’irrazionale, cit., pp. 20-35. 116 ID., Lettere spirituali, cit., p. 168. 117Infra, pp. 155-156. 118 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, nuova edizione italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, tr. it. di A. Treves riveduta da P. Kobau, Milano, Bompiani 1994, p. 325 (fr. 585). 119Infra, pp. 55, 56. 120Ivi, p. 55 (corsivo mio). 121 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, cit., pp. 311 (fr. 566), 316 (fr. 576), 324 (fr. 585). 122 ID., Così parlò Zarathustra, cit., vol. II, p. 392 (Parte quarta, “Il canto del nottambulo”, 10).

Nota del curatore

Il lavoro di curatela sul testo di Rensi è consistito, in primo luogo, nell’emendare le inesattezze che, nell’edizione Guanda del 1937, “sfigurano” moltissime parole greche e qualche parola tedesca o latina nei numerosissimi passi di testi filosofici e letterari citati da Rensi, e, in secondo luogo, nel fornire al lettore in nota a piè di pagina la traduzione italiana di quelli fra quei passi di cui non provvede Rensi stesso ad inserire la traduzione nel corpo dei suoi frammenti. Dunque le note a piè di pagina sono tutte del curatore, anche perché il testo di Rensi ne è completamente privo. Nei casi in cui è appunto Rensi ad offrire la sua traduzione del passo che cita – sia che la espliciti negli immediati paraggi della citazione stessa, sia che (come qualche volta accade) la faccia “sospirare” fino al termine o quasi del suo frammento nel quale la citazione appare –, il curatore non ha mai preteso di “migliorare” la traduzione rensiana, anche nelle non rarissime occasioni in cui il pensatore italiano si discosta in modo più o meno netto dalla “ideale” traduzione letterale. Due sono i motivi di questa scelta di nonintervento: da un lato, Rensi è uno scrittore finissimo dotato di una squisita sensibilità letteraria e quindi delle sue traduzioni ci si può e ci si deve fidare, e, d’altro lato, il quando e il come si allontana dalla traduzione strettamente letterale o da quella più comune non è casuale ma sottintende specifiche ragioni teoretico-speculative.

FRAMMENTI D’UNA FILOSOFIA DELL’ERRORE E DEL DOLORE, DEL MALE E DELLA MORTE

Πάντα γέλως καὶ πάντα κόνις καὶ πάντα τὸ μηδέν· πάντα γὰρ ἐξ ἀλόγων ἐστὶ τὰ γιγνόμενα 1 Glycone (Anth. Pal., X, 124)

Al Dott. Paolo Perantoni

La posizione scettica è questa: «Io non so che cosa sia l’essenza dell’universo, ma l’interpretazione che ne danno Platone o Aristotele, Kant o Hegel ecc. ecc., è falsa». Posizione meramente negativa. Nessuna verità è affermata. «Lo scettico si contraddice perché afferma la verità che non c’è verità». Questa è l’acuta trovata di cui i dogmatici vanni superbi. Non s’accorgono che quella proposizione è negativa, non affermativa; che cioè con essa lo scettico non afferma nulla; non fa che porre il segno di negazione davanti a tutte le pretese «verità», cioè davanti a tutte le tesi o soluzioni filosofiche che si asseriscono verità, senza punto affermarne come vera una per conto suo. Ma contro quella posizione si ricorre spesso e volentieri anche alla seguente obbiezione: «Ciò non si può dire se non commisurando o raffrontando questa falsità asserita di tutti i sistemi alla Verità che si sa esistente, sebbene non conosciuta. Non si può asserire il falso se non in contrapposto col Vero esistente, come non ha nessun senso il male se non in raffronto al bene esistente. Se non esiste il bene non esiste nemmeno il suo contrapposto, il male; e precisamente così se non esiste il Vero non esiste nemmeno il falso, e voi quindi, affermando il falso di tutti i sistemi, fate capo implicitamente al Vero, visto dal quale soltanto quel falso si può affermare». Questa obbiezione è, come al solito, un mero verbalismo, la cui apparenza di ferrea logicità si dissipa facilmente.

Quando si afferma il male, o si dichiara che tutto è male, l’affermazione sta e regge, non di fronte a un bene esistente, ma semplicemente di fronte all’idea, o ideale, o immaginazione, o fantasma, o speranza e sogno del bene, che è (e basta che sia) nella mia mente, anche come una mera fantasticheria, senza essere nella realtà. Se si dice: «male è morire, bene vivere eternamente sulla terra», forse che quel male si afferma solo in raffronto all’esistenza reale di questo bene, o non piuttosto ad una solo immaginata? Così per la verità. Ecco la quadratura del cerchio. Tutti i tentativi di soluzione sono confutati, dimostrati falsi. Si dovrà dire che tale falsità sta ed è affermabile solo rispetto ad una verità, esistente nel mondo delle Idee, della quadratura del cerchio? Tutti i sistemi filosofici sono falsi, falsi tutti i tentativi di interpretazione o spiegazione dell’universo. Ciò, del pari, sta ed è affermabile, non in raffronto ad una Verità esistente, ma a una semplice idea o ideale di verità, a un’ipotesi o sogno o immaginazione di verità, alla verità meramente immaginata. Senza contare che quand’anche l’obbiezione provasse l’esistenza della Verità, la posizione scettica dianzi enunciata ne dimostra l’inconoscibilità: il che è sufficiente perché quella posizione resti suffragata.

*** Filosofo e farmacista. Un filosofo maturo ed esperto a chi gli chiede consiglio sui libri di filosofia da studiare, dovrebbe rispondere: che filosofia vuoi? Perché io so già che tu ne vuoi una: ossia che tu vuoi una dottrina filosofica che ti dimostri ciò che previamente e già sin d’ora credi e vuoi credere. Che vuoi adunque? Dio o gli atomi? La libertà o il determinismo? Dimmelo. Io ho qui nella mia farmacia i barattoli che contengono ciascuna di queste cose. Ti posso dare dell’una o dell’altra a seconda dei tuoi desideri o bisogni.

*** L’unico sapere per l’uomo è di ciò che egli può vedere e toccare, per quanto non soltanto con le mani e gli occhi nudi, bensì muniti degli stromenti dell’indagine scientifica. Solo entro quest’ambito arriva la sua certezza, ossia il suo sapere. Il resto è incerto, e perciò variamente e divergentemente pensato. Ma circa questo insieme di fatti che si vedono e si toccano e che formano l’unica certezza, l’unico sapere dell’uomo, si può fare una domanda. Si può chiedere ad uno: «Tu non sai che quello che vedi e che tocchi; sin qui arriva il tuo sapere, la tua certezza; ma come valuti, come apprezzi, come interpreti questo insieme di fatti che vedi e che tocchi, e oltre dei quali tu non sai altro? che impressione ti fanno?». Si badi; non si può chiedere: «intorno ed oltre ai fatti che vedi e che tocchi, che cosa sai?». Non c’è sapere qui, non c’è certezza, e quindi non c’è unanimità delle menti; ma ipotesi, opinioni, e quindi divergenza. Si può perciò solo chiedere: «Come valuti questi fatti? Che impressione ti fanno? Che cosa ti pare, che cosa pare a te personalmente che vogliano dire?». O la filosofia è il primo di questi due momenti, cioè il sapere dei fatti, e allora essa è positivismo, comtismo, filosofia intesa non più come metafisica, ma come sistemazione dei risultati sommi delle scienze. O la filosofia è il secondo di questi due momenti, l’impressione che mi fanno i fatti, ciò che mi pare vogliano in ultimo significare (a me – e non posso dir che così, dal momento che vedo parer diversamente ad altri); e allora essa è espressione d’impressione, descrizione, riproduzione di stati di animo: cioè arte, come la lirica o il romanzo.

*** Che ogni metafisica e ogni religione, quanto più è vera metafisica e vera religione, implichi una visuale radicalmente pessimistica della realtà; che il profondo unico motivo propulsore delle sue costruzioni

non sia se non il riconoscimento, più o meno esplicito, del totale assurdo, etico e logico, del mondo; lo dimostra già, svelando così tale occulto motore pessimistico di tutte le successive metafisiche, la prima grande di queste, per chi sa penetrarne il movente intimo: l’Eleatismo. «L’Essere è». Che cosa si può pensare di apparentemente più astratto dalla vita, d’una più pacifica e indifferente, anzi insignificante, tesi, che questa proposizione fondamentale degli Eleati? L’uomo di mondo che la legge si stringe nelle spalle. Essa non gli dice assolutamente nulla. Egli sta davanti ad essa con un «si capisce!» o con un sorriso d’interiore stupefazione pel fatto che si possa darsi la pena di mettere in piedi una proposizione così sterile o meglio così tautologica. Eppure in quella proposizione dall’apparenza sterilmente dottrinaria è condensato, racchiuso, nascosto, un terribile grido d’angoscia, un ansioso gemito d’orrore, un tentativo spasmodico di uscire dall’angoscia e dall’orrore. Appunto l’angoscia e l’orrore per l’assurdo del mondo, e il tentativo di toglierlo via o meglio di non pensarvi, di non vederlo, di calare su di esso davanti ai nostri occhi il sipario. Ecco il mondo. Mondo in cui ogni cosa nasce oggi per morire domani, resta a galla, alla superficie, alla luce solo un istante, per dissiparsi tosto nelle tenebre e nel nulla. Mondo ove tutto trapassa, tutto perisce; ove non possiamo contare sulla permanenza di nulla; ove ciò in cui abbiamo riposto il nostro affetto o il nostro cuore, un attimo dopo non è più. Mondo di cose, di eventi, di enti, che, solo pel fatto di essere ciascuno diverso dall’altro, di non essere l’altro, di non essere fuso e unificato con l’altro, si urtano tra loro, si contraddicono a vicenda, o lottano, si combattono, si uccidono. Mondo, cioè, il quale muta di continuo, ossia appunto di continuo perisce, ché questo vuol dire mutare; mondo che è preso in un incessante scorrimento o movimento, che è scorrimento o movimento verso una progressiva morte. Mondo che è costituito di Più, di Molti, di io e tu, diversi, contrastanti, contradittori, nemici. Mondo quindi che non si può capire, cioè che è illogico e assurdo, perché la Pluralità, il Mutamento, il Movimento, chiamati davanti al tribunale della ragione, non possono

logicamente giustificare sé stessi: ed essendo lo spazio infinitamente divisibile, la freccia che parte dall’arco, poiché deve passare per un numero infinito di parti, non passa mai, e non può riuscire mai, secondo la ragione, a toccare il bersaglio. Questo mondo, ove tutto è assurdo e contradittorio, ove tutto è caduco, muta, trapassa, muore, ove in siffatto universale mutamento e scorrimento noi sentiamo veramente il suolo sfuggirci sotto i piedi e non possiamo posarli su nulla di solido e fermo, questo mondo manca dunque in verità di Essere. Questa è la sua piaga cancerosa, la sua iattura mortale. È solo Divenire, ossia scorrimento e morte, senza Essere, ossia stabilità e permanenza. In questo mondo noi ci sentiamo abbandonati nel vuoto, in un abisso che non ha fondo, in cui tutto, e noi insieme, senza fine irresistibilmente precipita. Pensiero terribile, che stringe alla gola, che fa mancare il respiro, che dà le vertigini… Ah, non può essere così, non deve essere così; sarebbe cosa troppo orrenda, troppo terrificante. Non può essere che non ci sia se non il vuoto e il precipizio d’un mutamento universale, d’un eterno divenire, senza un sostegno, senza la permanenza, la consistenza, la terra ferma dell’Essere. Ah, no! L’Essere ci deve essere, l’Essere c’è, l’Essere è. Questo mondo è un eterno cadere, precipitare, morire nel Divenire; è dunque in realtà Non-Essere, Nulla. Ma come può la nostra mente, che pensa, e per pensare deve pensar qualcosa, pensare il vacuo buio uniforme del Nulla, senza diventar essa stessa unx vacuo uniforme buio, un Nulla, senza quindi svellere le sue stesse radici, e con esse le radici della nostra vita, senza far di sé stessa una mente che non pensa più, una mente non più mente, senza cadere quindi nella contradizione di rendersi, mentre pure esiste e pensa, inesistente e non pensante? Ah, no! Τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι: se (cioè) non si può a meno di pensar l’Essere, questo necessariamente è. Come possiamo, del resto, asserire che il NonEssere è quando con ciò allo stesso Non-Essere attribuiamo l’Essere, lo facciamo cioè diventar, esso, la cosa che è, l’Essere? Impossibile a venir pensato, impossibile a venir espresso, senza, con la medesima parola con cui si cerca di esprimerlo, esprimere l’opposto, il Non-

Essere non è. Rassicuriamoci. Siamo salvi dall’incubo inaccettabile, intollerabile, angoscioso, che l’Essere non ci sia. Siamo salvi dalla vertigine che ci dava il precipitare nel vuoto d’un eterno Divenire solo esistente. L’Essere ci deve essere. L’Essere c’è. L’Essere è. E nei versi di Parmenide non si manifesta quindi l’inerte e impassibile tentativo concettuale di imbastire un’astratta costruzione filosofica, ma (e non per nulla egli scelse il verso come mezzo d’espressione) si sprigiona un impeto di passione e risuona un grido di angoscia e di speranza insieme. Il grido del naufrago, che, ancora sbattuto dalle onde, tende le mani allo scoglio a cui vede di poter aggrapparsi: grido che Parmenide rivolge al compagno di naufragio, d’angoscia e di speranza, a cui i suoi versi sono diretti. È impossibile sottoporsi all’amarissimo giogo (δαμῆι) di concludere che il Non-Essere sia. Deh, se vuoi salvarti, precludi al tuo spirito il cammino di morte di questa direzione del pensiero indagatore, ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα. È un’esigenza insormontabile dell’anima nostra, è indispensabile alla nostra vita (χρή) dire e pensare che l’Essere è. Questa idea, dunque, io ti comando (ἄνωγα) di coltivare nel tuo cuore (φράζεσϑαι). – Siffatto linguaggio non è quello del freddo dottrinario architetto d’un sistema da lui maneggiato come materia morta, che gli sta davanti esterna, ma è il linguaggio vibrante e appassionato del direttore spirituale, che vuol sentire salva l’anima o la vita propria ed altrui. L’Essere dunque c’è. Siamo salvi. Abbiamo afferrata la tavola di salute che ci impedisce di naufragare nell’eterno Divenire. Ma il mondo in cui viviamo è appunto eterno Divenire e Non-Essere. Eppure l’Essere c’è. C’è, dunque, e non è questo mondo. C’è, ed è, dunque qualcosa di assolutamente diverso da questo mondo. Se, ineluttabilmente, l’Essere è, se l’ipotesi contraria è ripugnante e desolante, bisogna che quell’Essere che è, sia davvero: cioè permanga nell’Essere, continui ad essere, sia non già oggi per non essere più domani, ma sia oggi, domani e sempre («sempre»: come l’amore quando vuol manifestare che è, che veramente è, si esprime appunto con questa parola «sempre», significando con ciò che essere vuol dire perdurare, essere come oggi anche nel più remoto avvenire; così in

filosofia quella medesima parola «sempre» è solo adeguata indicatrice dell’Essere). L’Essere esclude quindi il Divenire, ossia il cambiamento, il quale vuol dire che una parte di ciò che oggi è domani non è più, e il giorno dopo un’altra parte cessa essa pure di essere, e così via sino alla fine; esclude il moto che è cangiamento almeno di spazio; esclude il tempo che è una cosa sola con la serie dei mutamenti; esclude la molteplicità, l’io e il tu, che è anch’essa effetto del cangiamento, perché, onde si producessero i Molti, i Più, le cose o gli eventi molteplici, occorse un divenire, cioè un mutare. Ed eccolo l’Essere, l’Essere che è. Esso è immobile, eternamente uguale in ogni sua parte ad ogni sua altra parte, senza spigoli, angoli, anfratti, sporgenze, cioè molteplicità e diversità, in perfetto equilibrio, figura assolutamente uniforme nella sua perfetta sfericità. Il nostro mondo, assurdo e contradittorio fino alla più insopportabile angoscia non è Essere. Ma l’Essere ci dev’essere, o l’angoscia di vivere precipitanti eternamente nel vuoto del Non-Essere ci soffocherebbe. Dunque l’Essere che ci deve pur essere è siffatto Essere totalmente diverso dal nostro mondo, scevro da tutti gli assurdi e le contradizioni che questo nostro contiene e che lo fanno NonEssere. Quel vero Essere noi l’abbiamo quindi configurato unicamente perché sospintivi dalla straziante constatazione dell’immedicabile e terrificante assurdo di questo mondo, del solo mondo cioè che alla nostra constatazione sia offerto. Questo mondo (così si può riassumere il pensiero degli Eleati, da un angolo appena leggermente diverso) questo mondo, il mondo del cangiamento, del trapasso, della molteplicità, del divenire, non può dar giustificazione di sé davanti al tribunale della ragione: la freccia che giunge al bersaglio costituisce, per la ragione, un fatto illogico, assurdo. Questo mondo, dunque, è assurdo. Ma un mondo che razionalmente non si giustifica, che è illogico, assurdo, non può essere il solo Essere, il vero Essere. Come pensare che l’assurdo sia ciò che solamente e veramente è? Dunque oltre o sotto questo mondo ci deve essere un altro mondo, un’altra realtà, la vera realtà, quella che solamente si può dire realtà, in cui l’assurdo, l’irrazionalità, la

contraddizione, il moto, il trapasso, la molteplicità non ci siano: – il vero Essere, l’Assoluto, Dio. È il procedimento sostanzialmente identico a quello del pensiero di Platone, e, nell’epoca contemporanea, del Bradley. È la stessa posizione radicalmente pessimistica della più profonda visuale religiosa: il mondo è totalmente falso, male, assurdo; esso ha quindi un’esistenza fallace e menzognera, una parvenza d’esistenza; è (con l’espressione eleatica) Non-Essere; come vero Essere si deve pensar qualcosa (in religione: Dio) di radicalmente diverso dal mondo. La confessione della necessità di pensare come vero Essere alcunché di totalmente diverso dal mondo, perché questo non è che un complesso di illogicità, inconcepibilità, assurdi; lo sforzo di raffigurare, di fronte all’assurdo del mondo e sospinti dall’ansia di liberarsi da esso, un Essere in cui questo assurdo non vi sia, Essere che sta però fuori d’ogni constatazione, e che è il riflesso o la proiezione o la cristallizzazione appunto della nostra ansia di liberarci dall’assurdo, del nostro vitale bisogno di sentirci salvi dalla illogicità, dalla contradittorietà, dalla incomprensibilità, dalla caducità; codesta confessione non è la prova che siffatto vero Essere sia, ma è soltanto la prova, offerta dalla stessa nostra configurazione di esso come il non-Mondo, come l’Antimondo, che si tocca con mano l’assurdo di questo mondo e la insopportabilità di tale assurdo.

*** Il pessimismo radicale di Eraclito non emerge tanto da questo o quel pensiero frammentariamente espresso nell’uno o nell’altro dei suoi aforismi, quanto dalla sua concezione fondamentale: il Fuoco. Poiché è in questa stessa che si esprime una delle visuali più totalmente pessimistiche che mai siano state formulate. Flusso in cui tutto perennemente è travolto e scompare, il Divenire solo v’è; senza Essere. Poiché ogni cosa perisce, trapassa, si muta: e mutarsi significa ancora perire, progressivamente perire; significa che ogni parte della cosa successivamente perisce, e che, continuando il

mutamento, ciò che in essa viene a sostituire le parti perite a sua volta perisce. L’insieme stesso d’ogni cosa, adunque, continua incessantemente a scorrere su questo piano inclinato che è il mutare, ossia in ininterrotta successione perire. Anche il nucleo più essenziale e centrale d’ogni cosa muta, e se non c’è più nemmeno questo nucleo centrale di qualsiasi cosa che permanga nel mutarsi del resto, se anch’esso muta, se (ché questo vuol dire mutare) successivamente ogni elemento anche di esso perisce e perisce ogni nuovo elemento che venga a sostituirsi a quello perito, non c’è più assolutamente nulla che è: è non potendo significare se non persiste, permane, continua ad essere, è non soltanto oggi, ma anche domani e poi. D’un siffatto Divenire puro, il quale è la sola cosa che eternamente sia (come soltanto per un’imperfezione del linguaggio si è costretti a dire, perché in realtà esso non è, non è Essere e non ha Essere, ma consiste, all’incontro, nella continua eliminazione e distruzione dell’Essere) d’un siffatto Divenire è simbolo ed espressione il Fuoco; esso è Fuoco. Non già Fuoco come, ancora, un Essere; bensì Fuoco come mero processo o atto di consunzione, combustione e distruzione di tutto; Fiamma, che divora e distrugge tutto ciò che prende in sé, e che permane, essa sola, pura funzione di distruzione e di annientamento, eternamente vivente, πῦρ ἀείζων, nel continuo distruggersi ed annientarsi di tutto quello che essa continuamente ingoia, distrugge ed annienta. Ma questo Fuoco, questa distruzione d’ogni cosa, questa pura distruzione, il distruggersi di tutto e non rimanere che la pura attività di distruzione, questo precisamente è lo stato di perfezione, la situazione eccelsa, luminosa, raggiante: per ciò appunto avviene che, quanto più un elemento (compresa l’anima nostra) accoglie in sé del Fuoco, del fattore incenerente, del Distruttore, della potenza di Distruzione, tanto più quell’elemento è nobile. Solo per un disgraziato attenuarsi dell’ardore della Fiamma, per l’affievolirsi e il rallentarsi del suo impeto, cioè per una sua condizione di deficienza, sorgono ed esistono le cose, i mondi, l’Essere – parvenza di Essere, tosto travolto. La via che dalla Fiamma, pura attività di incenerimento e

nullificazione di tutte le cose e dell’Essere, sola esistente, conduce, mediante tale suo infiacchimento, a dar adito all’esistenza delle cose ossia all’Essere, è la ὁδὸς κάτω, la via che va all’ingiù, al basso, al decadimento, al male, alla rovina; e ὁδὸς ἄνω, via che va verso l’alto, lo splendore, il cielo, il bene, è la via che dalle cose esistenti e dall’Essere riconduce ancora al Fuoco, potenza pura di annientamento, nella sua assoluta unicità: allo stato di inesistenza di checchessia. Χρησμοσύνη, bisogno, mancanza, penuria, è la parola che designa la situazione in cui, per l’attenuarsi del Fuoco, compaiono le cose, i mondi, l’Essere; κόρος, ripienezza, contentezza, appagamento, abbondanza, benessere, è la parola che qualifica la situazione in cui, per il trionfale riprendere della completa potenza distruggitrice del Fuoco, cose, mondi, Essere sono totalmente inceneriti in esso, ed esso, il Distruttore dell’Essere, rimane solo a dispiegare, oramai pienamente vittorioso, la sua Fiamma divoratrice che ha già tutto incenerito. Questa soltanto, cioè l’Annientamento ed il Nulla, è la situazione razionale, e perciò appunto il Fuoco, il Distruttore dell’Essere, la Nullificazione ed il Nulla, è Λόγος. Il nostro mondo di nascita e di morte, in cui non si nasce che per morire, in cui la nascita d’una cosa è la morte d’un’altra e la morte di questa la nascita di quella, mondo la cui compagine risulta solo da un insieme di scoordinazioni, urti e conflitti, ove tutto per originarsi ha bisogno della guerra e del sangue, tale mondo non merita di essere. Lo merita tanto poco che in realtà non è, perché sempre incalzato alle reni dal Divenire, dal Fuoco, dalla Distruzione, dal suo proprio annientamento. Il suo Essere, effimero, ogni volta che, per il malaugurato indebolirsi del Fuoco, ritorna, è decadimento ed errore. Solo merita di essere la totale combustione di tutto questo mondo, l’inesistenza di qualsiasi cosa, l’incenerimento e l’eliminazione dell’Essere: il Fuoco, il Distruttore, la pura impalpabile eterea trasparenza fiammea, senza che più nulla di consistente esista. Anche la momentaneità e apparenza di Essere, proprio delle cose costituenti l’universo, venuta alla luce solo per lo sfortunato affievolirsi del Fuoco, deve completamente e sino in fine andare in fiamme, risolversi

e svanire nella pura Fiamma, dar luogo solo a questa, ormai vincitrice d’ogni ostacolo. Tutto dev’essere consumato, incenerito, annientato dal Fuoco, che solo quando domina totalmente nella sua unicità, effettua la vera condizione divina; poiché non le cose esistenti eternamente distrutte, ma l’eterno Distruttore di esse costituisce l’essenza suprema. Tutto deve andare radicalmente in fiamme, e tutto vi andrà. Verrà il Fuoco, verrà, in periodica ricorrenza, nel massimo della sua potenza, ad assalire tutte le cose, a giudicarle, a condannarle, a investirle, a divorarle; perché il «giusto giudicio» su di esse è la loro condanna e il loro annientamento. Πάντα τὸ πῦρ ἐπελϑὸν κρινεῖ καὶ καταλῆψει. Per un’intuizione davvero profonda la tarda antichità denominava Eraclito il filosofo che piange. Ora, si rappresentano Eraclito e gli Eleati come i poli opposti del pensiero filosofico greco. Ma nella negazione e nella condanna di questo mondo essi sono concordi. Il Fuoco di Eraclito e il (vero) Essere degli Eleati significano assolutamente la stessa cosa: che questo mondo è male, errore ed assurdo, che questo mondo non va. In tale concetto, che è il concetto essenziale di ciascuna delle due filosofie, esse esattamente combaciano.

*** Pitagorismo. Che l’essenza delle cose sia il numero, è un concetto il quale, sebbene, così formulato, sembri lontanissimo dalla nostra mente di oggi, non solo, invece, vi è assai vicino, ma diventa anzi, ogni giorno più, elemento costitutivo di essa. La natura è costrutta geometricamente e i rapporti matematici esprimono ciò che vi è in essa di veramente reale; è questo un principio che con Descartes si afferma sulla soglia della filosofia moderna. Ciò che nella natura possiamo conoscere è quel tanto che in essa si può ridurre a matematica; è questo un canone che, dopo Leonardo (Scritti, Ist. Edit. It., pp. 41-42), ha proclamato Kant (Met. Anfangsgr. d. Naturwiss.,

Vorr.), e, dopo Kant, Nietzsche (W. z. Macht, 565). Con Einstein e seguaci, poi, la concezione pitagorica è diventata, quasi a dire, un luogo comune della scienza contemporanea: «la natura opera secondo le leggi della matematica pura»; «il grande Architetto dell’universo comincia ad apparirci un matematico puro» (Jeans). Questo – cioè: la costituzione della natura, fisica, chimica, astronomica ecc., trova la sua esatta espressione in formule matematiche – è dire, appena con altre parole, la stessa cosa dei Pitagorici: il numero è l’essenza delle cose. Fin qui dunque è pacifico che la dottrina pitagorica costituisce il nostro stesso pensiero attuale. Ma i Pitagorici, con la loro proposizione che il numero è l’essenza delle cose, avrebbero forse voluto dire anche dell’altro? Il numero è l’essenza di tutte le cose. Anche dell’uomo; anche della vita umana; anche della società umana. L’essenza dell’esistenza nostra (come di quella di checchessia) è unicamente la numerabilità. Ciò che la nostra esistenza significa e conta è dato puramente dalla statistica. Non le particolarità dell’individuo, quelle per le quali egli sente d’esser lui e di possedere un inconfondibile io, ben distinto, caratterizzato, diverso da ogni altro – la sua mentalità, i suoi affetti, i suoi gusti, le sue passioni, i suoi rapporti, le sue attività – non queste particolarità hanno importanza. Esse anzi non posseggono alcun significato. Il solo essenziale significato dell’uomo è di essere un’unità, di contare per uno. Non vale per altro titolo tranne questo suo contare per uno, come i capi d’un gregge. Vale solo come un capo del gregge umano, come un indifferente esemplare della specie, intercangiabile con qualunque altro. Vale come semplice unità da contare. Vale quello che egli risulta essere nelle tabelle statistiche, nella cifra che esprime il numero degli abitanti d’una grande città. È, cioè, puro numero, cifra muta. Nome, vita, opera, tutto di lui trapassa, sconosciuto, inutile, senza traccia, tranne per il solo fatto d’aver servito ad accrescere d’un’unità una cifra statistica. Del suo nome, della sua opera, della sua vita, questo solo è il risultato, il succo, l’essenza.

Forse il pensiero che stava nello sfondo della concezione pitagorica era anche questo; cioè l’oraziano «nos numerus sumus»2 (Ep., I, II, 27). Pitagora avrebbe allora con la sua proposizione fondamentale voluto anche dire quello che disse il suo contemporaneo Pindaro: σκιᾶς ὄναρ ἄνϑρωπος3 (Pit.,VIII, VIII, 95), e quello che disse subito dopo il grande poeta della generazione successiva, nato nello stesso anno della morte di Pitagora, Sofocle: ἄνϑρωπός ἐστι πνεῦμα καὶ σκιὰ μόνον. Σκιαῖς ἐοικότες, βάρος περισσὸν γῆς4 (Fr., 12, 859 N.).

*** La fusione operata dai Megarici del socratismo con l’eleatismo li portò all’identificazione del Bene con l’Uno e quindi alla conclusione che l’Uno è il Bene e Dio. Che cosa di più naturale che riscontrare nell’Essere Uno degli Eleati il Bene sommo e completo, quel Bene la cui indagine era stata la principale preoccupazione di Socrate? Che cosa di più ovvio che pensare che il Bene supremo e assoluto non può trovarsi che nell’Essere sempre e totalmente uguale a sé stesso, senza diversità, disparità e contrasti, senza cose molteplici e in conflitto, senza mutazione, fluttuazione, trapasso, nascita e morte? È il medesimo pensiero che, sulle tracce di Platone, sviluppò poi definitivamente Plotino. Il primo e vero Essere, l’origine di tutto, è un’assoluta Unità, un Uno. Esso è la potenza di tutte le cose, δύναμις τῶν πάντων, pur senza esser nessuna delle cose, οὐδὲν τῶν πάντων, perché è anteriore a tutte (Enn. III, vii, 10, 9). Esso, dunque, quest’Uno, che è insieme Bene e Dio, è l’Indistinto, l’Indifferenziato, senza Più, senza parti, senza coscienza (che è divisione tra soggetto ed oggetto) senza vita, anzi, a rigor di termini, senza Essere, senza ciò che noi chiamiamo Essere: non solo μὴ ψυχή, μὴ νοῦς (Enn. VI, ii, 9) ma μὴ ὄντος, μὴ οὐσίας, μὴ ζωῆς (Enn. III, viii, 10). Ecco ora che cosa significa questo profondo pensiero; ecco qual è il «segreto» dei Megarici, di Plotino, di tutte le filosofie improntate a questo tipo, di tutte le teologie «negative». Dio, il Bene, è l’assolutamente Uno, il Fondo primo, ancora libero

dalla Molteplicità delle cose, dalle cose molteplici e diverse, fondo da cui queste scaturiscono; il Primo, in cui quindi non ci può essere nemmeno coscienza, pensiero, vita, perché ciò implica pluralità, diversità, distinzione, divisione, processo da uno stadio ad un altro, mutamento, moto, perturbazione; il Primo, l’Uno, in cui non ci può nemmeno essere l’Essere (μὴ ὄντος) perché l’Essere, ciò che, soltanto, noi possiamo chiamar Essere, consta appunto di cose, di Più, di vita, di coscienza. Ma poiché dunque cose, Più, coscienza, vita, sono appunto l’Essere, sono ciò che, soltanto, noi possiamo intendere come Essere, se esse non ci sono non c’è più nulla, c’è il Nulla. Dove non ci sono non c’è che il Nulla. Poiché Più, Parti, Distinzioni, Diversità sono appunto le cose, le esistenze, così l’Uno, senza Più, senza Parti ecc. è il Nonesistente, il Nulla. Dio, scriveva un mistico di questa tendenza, Angelus Silesius, è «kein Ding, kein Unding, kein Wesen, kein Gemüte; Gott ist wahrhaftig nichts»5 (Cher. Wand., IV, 21; I, 200). Se Bene o Dio = Uno, Bene o Dio = Nulla. Cioè: che cos’è che è Dio? che cos’è che è Bene? Il Nulla. Nell’Essere, nella Vita, niente va bene, niente può definitivamente appagare, niente appaga: c’è sempre urto, disagio, dolore. Solo nel Nulla è il Bene, solo nel Nulla è la situazione divina. «Il cammino per giungere a quell’alto stato dell’animo riformato, per cui si attinge immediatamente il sommo bene, la nostra prima origine e somma pace, è il Niente. Dio non si trova che nel Niente» (Molinos, Guida Spirituale, §§ 187, 188). Il Bene è la Pace, la pace assoluta e immutabile. «Requiescat in pace». Ma lo può solo ciò che non si muove verso alcunché e non è mosso da alcunché, che non desidera e non teme, quindi non sente, non pensa, non vive – cioè il Nulla.

*** Sviluppo del platonismo. Platone. – La conoscenza delle cose visibili e tangibili, caduche, periture, imperfette, non ha alcun pregio. Occuparsi di queste cose è

vanità, anzi, quasi, immoralità. Bisogna stornarsi da esse, e dirigere la propria mente solo ai paradigmi ideali, eterni, perfetti, conoscere essi, immedesimarsi con essi; il che, poiché li contempla o li ha in sé anche Dio, è un rendersi simili a Lui. Io. – Se le cose del mondo, le cose sensibili, imperfette e transeunti non hanno alcun pregio, né alcuna importanza ha la loro conoscenza, quale pregio possono avere i paradigmi ideali eterni, le «idee», che non hanno altra funzione se non di servire di «modello», sia pure perfetto, a cose effimere e insignificanti? Se la conoscenza di queste non ha alcun valore, che valore può avere la conoscenza di ciò che è «forma» eterna e perfetta di cose spregevoli e vane? Come si può prendere sul serio un Dio la cui vita ed essenza consiste nel contemplare o avere in sé le «forme» perfette delle imperfette coserelle senza importanza che formicolano sulla crosta d’un infimo pianeta, o, sia pure, su quella di astri in suo confronto alquanto maggiori, smisurati solo a petto della microscopica piccolezza di quello? Quindi, non vale la conoscenza sensibile, non la conoscenza intellettuale; non quella delle cose, non quella delle «idee». Nulla.

*** Il conflitto Callicle-Socrate nel Gorgia, non è il conflitto tra due individui, ma è un conflitto che si presenta nell’interno di una stessa anima (Callicle e Socrate, cioè, sono due tendenze o visuali del medesimo spirito); ed è un conflitto insolubile e ineliminabile. Callicle dice: «Vuoi vivere? Devi aver desideri e passioni e poter soddisfarle». Socrate risponde: «Ti pare che sia piacevole aver l’anima costituita di vasi che perdono sempre e che bisogna di continuo affaticarsi a riempire? Conviene, invece, che una volta riempito il vaso dell’anima, esso rimanga in tale stato, e non ci sia altro da desiderare». Callicle replica: «Ma non capisci che vivere così senza più desideri è vivere come una pietra o un cadavere?». È il conflitto che si sprigiona in ciascuna delle nostre anime e pel quale non c’è soluzione. L’alternativa è questa. Vuoi l’appagamento e

la pace? L’hai, se rinunci ad ogni passione e desiderio. Ma insieme hai la sensazione che una simile vita, scolorita, senza nulla per cui appassionarsi, da bramare, da cercar di conseguire, è una non-vita. Vuoi le passioni, le agitazioni, il turbine vitale, la sensazione che vivi, desideri, consegui, ti soddisfi, desideri ancora, ancora godi conseguendo, e via così? Se hai passioni e desidèri, se hai la vita (ché la vita è questa; vedi: «viveur»), hai il tormento, l’ansia, l’insaziabilità, l’inappagamento continui. Vuoi la pace? L’hai, ma con la morte. Vuoi la «vita» (cioè l’agitazione e la passionalità vitale)? L’hai, ma con l’irrequietezza, la fluttuazione continua tra mancanza e sazietà, tra contento e malcontento, tra gioia e dolore: l’hai, cioè, col tormento. La pace è la morte. La vita è il tormento.

*** Per Socrate l’uomo felice è colui che ha l’animo paragonabile ad un vaso pieno di una buona bevanda, il quale, non avendo fessure, non lascia sfuggire una sola goccia del contenuto e in cui quindi non si sente il bisogno di introdurre nuovamente del liquido (Gorgia, 493 E e s). L’uomo felice, cioè, è l’uomo appagato di quel che ha, del momento presente. Se in qualunque occupazione, situazione, impiego del tempo, pensi a quello che farai dopo, quel momento di vita è distrutto; non vivi in esso, ma nell’avvenire verso cui ti protendi (e che non c’è); e se ancora in questo avvenire pensi ad un momento successivo, accade di nuovo la medesima cosa. Si vive solo quando il momento in cui si è, perfettamente appaga. «Arrestati, sei bello!». Questo è il lato, dal quale vedendo la questione, ha ragione Socrate. Ma la tragedia della nostra vita è che siamo costretti a un siffatto continuo protenderci verso l’avvenire. Anche in un momento di piacere, non è mai il puntuale momento quello in cui vogliamo arrestarci, ma il momento successivo dello stesso piacere, e ad esso pensiamo, ci protendiamo, ci porgiamo in ogni puntuale momento

presente. Ed ecco quindi il lato, dal quale vedendo la questione, ha ragione Callicle. L’immobilità, di pensiero e di appagamento, nel momento presente, questa immobilità di chi non vuole, non desidera più, equivale per noi, come dice Callicle, ad essere morti, ad essere pietre: οἱ λίϑοι… καὶ οἱ νεκροὶ εὐδαιμονέστατοι εἶεν6 (492 E.); τὸ ὥσπερ λίϑον ζῆν7 (494 A.). In Dio dovrebbe aver luogo questa immobilità nel momento presente, senza alcun protendersi verso l’avvenire, o pensiero e desiderio di cosa avvenire. E questo fatto (che implica anche di necessità la soppressione totale del pensiero) costituisce appunto uno dei massimi ostacoli a concepire Dio. Dio, non potendo non avere questa eterna fissità del pensiero, non può che essere senza pensiero, senza alcun moto psichico, come pietra, ὥσπερ λίϑον.

*** ῎Αρης ῎Αρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα (Esch., Coe., 459) Giustizia urterà e confliggerà con giustizia, come un esercito urta e confligge con un altro. Non vi è una giustizia sola, la giustizia, come tale da tutti vista e riconosciuta; ma due giustizie, ma più giustizie, ma, cioè, due o più irriducibili concezioni o visioni o interpretazioni della giustizia, le quali, appunto perché non si coordinano ed appaciano in un’unica giustizia che dal di sopra entrambe le abbracci e le fonda insieme, non possono che urtarsi con la forza materiale, con le armi, l’esito delle quali, e non una decisione di ragione, impossibile, perché entrambe sono giustizie, è quello che stabilisce quale delle due, entrambe giustizie, debba trionfare. Quel verso illumina l’altro, così variamente interpretato:

῎Ερις περαίνει μῦϑον ὑστάτη ϑεῶν

(Esch., Septem, 1056) e dimostra che esso va inteso proprio nel senso letterale: la lotta, ultima dea, pon fine alle parole. Dopo aver lungamente discusso, e constatato che lo scambio delle ragioni non approda e non può approdare ad alcuna conclusione comune, non resta che l’ἔρις, la lotta, la guerra. Con questi due versi, adunque, Eschilo assume, prima di Euripide, la posizione sofistico-scettica. Quei due versi esprimono precisamente due delle proposizioni fondamentali di Protagora, cioè che su ogni questione vi sono due ordini di ragioni i quali si oppongono l’un l’altro (Diog., IX, 51), che quali le cose appaiano a me sono per me, quali appaiano a te sono per te, e uomo sei tu, uomo son io (Plat., Teet., 152 A), cioè né la tua (idea di) giustizia può legittimamente pretendere di sentenziare e imporsi sulla mia né la mia sulla tua, perché tanto la mia che la tua, pure opposte, sono ugualmente δίκη. Quei due versi prevengono esattamente quanto Euripide (al quale soltanto per solito si attribuisce il carattere di poeta della sofistica) enuncia nelle Fenicie: se a tutti la stessa cosa risultasse per natura buona e saggia non vi sarebbe tra gli uomini contesa che ammette d’ambo le parti ragioni (ἀμφίλεκτος); ma nulla invece v’è per essi di simile od uguale se non nelle parole, mentre nel contenuto (ἔργον) niente è tale (499 e s.). Per questo sorge necessariamente l’ἔρις, l’urto, la lotta, la guerra. E per questo ogni urto, ogni lotta, ogni guerra, ogni ῎Αρης che ξυμβαλεῖ ῎Αρει, è una Δίκη che ξυμβαλεῖ Δίκῃ.

*** Profondissima tra le sentenze di Eschilo è la seguente:

Τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώσαντα, τὸν πάϑει μάϑος ϑέντα κυρίως ἔχειν

(Agam., 176) «(Zeus) che istrada i mortali alla sapienza statuendo che la conoscenza abbia luogo solo mediante il dolore». Sentenza che è illuminata dall’altra:

Δίκα δὲ τοῖς μὲν παϑοῦσιν μαϑεῖν ἐπιρρέπει (Ib., 249) Letteralmente: «La giustizia concede la conoscenza soltanto a coloro che soffrono». E nella traduzione più diffusa, occorrente nelle nostre lingue languide a rendere il senso delle pregnanti e concentrate parole eschilee: «A quelli che soffrono, la giustizia dà almeno questo compenso, di accordare ad essi soli la comprensione del mondo». «Ti ho raffinato nel fornello dell’afflizione»; è la forma con cui il medesimo pensiero esprime Isaia (XLVIII, 10). Come conosce quale sia veramente la civiltà d’un paese non chi rimanga per così dire alla superficie di esso, a galla, nell’atmosfera della ricchezza, delle aderenze, del favore, della società influente, dell’autorità, ma chi precipiti al fondo e ne esperimenti, nel sottosuolo non visibile e non apparente, il trattamento che subisce il povero, l’abbandonato, l’uomo senza soccorsi ed appoggi, e ne conosca, p. e., i ricoveri e sopratutto le prigioni; così la natura dell’universo la conosce non l’uomo sano, ricco, fortunato, felice, ma l’uomo percosso dalle malattie, dalle sventure, dalla povertà, dalle persecuzioni. Solo costui sa veramente che cos’è il mondo. Solo egli lo vede. Solo a lui i dolori che subisce danno la vista. Il compenso (amaro compenso) delle sue sofferenze, è questa vista nel più profondo interno della realtà che esse gli danno, e danno solo a lui. Egli sente che la profondità della sua intuizione dell’universo è cresciuta appunto nella misura delle sue sofferenze, e per opera di esse; e veramente in tale profondità di visuale che avverte avere il suo sguardo acquistato, prova una

soddisfazione che lo compensa delle sofferenze. Esse hanno pure fruttato, se gli hanno dato quello sguardo; e avergli dato quello sguardo è la loro giustificazione. Perciò, misero in ogni senso è veramente solo quegli per cui le sofferenze scorrono senza nemmeno dargli questo frutto, senza fargli vedere e toccare con mano che cos’è il mondo, senza che gli squarcino il velo di Maia, senza che egli sappia costruirsi col suo dolore quella sola vera visuale della realtà che di dolore è materiata. Questo è il significato completo delle parole di Eschilo.

*** ῾Ο κόσμος ὅλος ἐν τῷ πονηρῷ κεῖται (I, Giov., V, 19) Cercare di formulare una metafisica è cosa perfettamente legittima. È perfettamente legittimo, cioè, cercar di salire dal mondo visibile all’affermazione d’un mondo invisibile che costituisca l’essenza e la spiegazione del primo. Ma cosa del tutto insensata è quella di voler formulare una metafisica la quale, anziché stare in coordinazione col mondo visibile, il solo offerto alla nostra esperienza, sia con esso in perfetta contraddizione, si opponga, cioè, in pieno, come la luce alle tenebre, ai dati dell’esperienza stessa. Il mondo visibile ci si presenta come dominato, in modo di gran lunga prevalente, dal male. Dal mondo della natura, selva selvaggia di malattia e di morte, mano cieca che getta tutto intorno casualmente torture e disgrazie, accidenti e sofferenze, mondo assolutamente indifferente e sordo ai valori spirituali, in cui una tegola o un cancro uccidono indifferentemente l’uomo di genio o lo scemo, il buono o il malvagio; al mondo sociale e storico umano, il quale anziché contrastare al male naturale, ve ne aggiunge di suo una mole ben maggiore, sopratutto per la fatale allucinazione, a cui cadono in preda

gli uomini, di scambiare le loro ubbie, idee fisse, ambizioni, per forme di felicità dei loro simili, mentre costituiscono, esse appunto, le più vaste e lunghe forme di tormento che vengano a gravare sugli individui e sui popoli; – dal mondo della natura a quello umano, un ente di capacità soprannaturali, che sapesse avvertire anche i gemiti silenziosi, avrebbe sempre sentito e sentirebbe elevarsi un più volte millenario urlo di dolore, nel quale si disperderebbero, come una goccia nel mare, le rare e fievoli voci di contentezza. Tale mostrandocisi il mondo visibile, offerto alla nostra esperienza, un’interpretazione metafisica di esso la quale dall’enorme predominanza di Male in esso presente induca l’esistenza nel mondo invisibile d’un Bene Sommo; la quale argomenti che, perché il mondo dato alla nostra esperienza è iniquo ed assurdo, così nel mondo invisibile, che ne forma il fondo o l’essenza e che deve spiegarlo, ci deve essere il Bene; la quale, insomma, precisamente dall’esistenza del Male nel mondo visibile ricavi l’esistenza del Bene nel mondo invisibile: – una siffatta interpretazione metafisica, in diretta scoordinazione anzi antitesi con l’esperienza, è il tipo stesso dell’incongruenza: come sarebbe l’indurre dal color nero d’una facciata d’un foglio, la quale solo, per ipotesi, si possa vedere, che l’altra facciata, sottratta alla constatazione sensibile, dev’essere di color bianco. Un’interpretazione metafisica del mondo, quindi, che sia coordinata ai dati dell’esperienza (e solo se è tale, una metafisica è ammissibile e sensata); un passaggio dal mondo visibile al mondo invisibile che costruisca questo in forma induttivamente coordinata con quello (e solo così il passaggio è logico e non meramente fantastico); non può che aver per motivo fondamentale le parole di S. Giovanni: «tutto il mondo giace nel male», o, forse meglio, «nel Maligno». Tutto il mondo. Checché S. Giovanni abbia inteso per κόσμος, un’interpretazione metafisica coordinata ai dati dell’esperienza deve intenderlo così: tutto l’universo, tutto ciò che c’è, tutto ciò che è, l’Essere. L’Essere giace nel Maligno. Il fondo metafisico dell’Essere è il Maligno. E l’unica interpretazione metafisica, che logicamente si

regga, dell’Essere visibile, e del male che lo costituisce, è che l’Essere invisibile stesso, la Forza o il Principio o l’Entità misteriosa da cui quello visibile scaturì è il Πονηρός dell’Apostolo.

*** ᾽Εκ γὰρ τοῦ καρποῦ τὸ δένδρον γιγνώσκεται (Mat., XII, 33) Spesso l’uomo d’animo buono resta stupefatto, come davanti a una incomprensibilità, leggendo nelle storie atti di iniquità, di durezza, di crudeltà, commessi da grandi (nel senso di Labruyère), da potenti, da monarchi, da principi, mentre sembrerebbe che la possibilità della piena soddisfazione d’ogni loro desiderio e l’appagamento ricavato dall’ampia, ricca, felice esistenza toccata loro in sorte, avrebbe dovuto disporli a bontà verso i loro simili; atti commessi anche quando la crudeltà e la durezza non erano necessarie ai loro fini, ed anzi questi si sarebbero con la mitezza più scorrevolmente raggiunti. Ma, se si osserva bene la cosa, si trova che essa è nell’ordine. I potenti volutamente iniqui, crudeli di proposito, gratuitamente duri, un Falaride, un Dionigi, un Caligola, un Domiziano, un Caracalla, un Galeazzo Visconti, hanno avuto ragione. Così agendo, agirono in conformità con la Natura Naturans seu Deus.8 V’è un’intima affinità di costituzione tra quelli e il fondo o Principio primo dell’Essere. Qui come là sono le stesse iniquità trionfanti, operate da un potere superiore e irresistibile a cui è impossibile e assurdo chiedere ragione. Quei potenti malvagi lo furono veramente per diritto divino. Essi furono malvagi come lo è il fondo metafisico o Principio sommo dell’Essere. Lo furono perché lo è questo. Perché cioè dall’Essere anch’essi sono scaturiti, anzi rappresentano, nello splendore della loro grandezza, nella travalicante pienezza e formidabilità della loro potenza sulla terra, come per una pianta il fiore o il frutto, l’efflorescenza più ricca e il prodotto più completo dell’Essere stesso;

perché, insomma del potere dell’Essere furono, nella società umana, la massima espressione. Vuoi dunque sapere se nel fondo metafisico o Principio primo dell’Essere predomina il bene o il male e quale è in esso la proporzione tra l’uno e l’altro? Guarda all’indole che ebbero i grandi, i potenti, i principi, i signori della terra. Se ti pare che la storia in tutto il suo corso ne presenti in maggior numero di buoni anziché di tristi, concludi che nel Principio dell’Essere c’è più bene che male. Se ti pare che ne presenti in maggior numero di tristi anziché di buoni, concludi che nel fondo metafisico dell’Essere c’è più male che bene. E se ti pare che il numero dei buoni sia infinitamente esiguo rispetto a quello dei tristi (un Marco Aurelio, e due o tre altri soltanto simili a lui, per tutta una serie sterminata di imperatori pessimi) concludi che nello stesso fondo ultimo dell’Essere, nell’Assoluto, c’è rispetto al male solo un’altrettanta debole e infinitamente piccola traccia di bene. Veramente l’Evangelista dice giusto: dal frutto (l’indole dell’enorme maggioranza dei «grandi», dei signori della terra, dei dominatori delle genti) si conosce l’albero (l’Invisibile Radice prima dell’Essere).

*** Per il pensiero greco (e specialmente dei tragici) elemento essenziale della religiosità è questo: il senso di incertezza circa il proprio avvenire. Anzi, credenza in Dio e timore del futuro pei pensatori greci in sostanza si identificano. La religiosità infatti sta essenzialmente nell’essere dominati dall’intuito che forze sopraindividuali (sia pure che si denominino «caso») incombono sull’individuo e ne dispongono; che l’individuo è in balia di esse; che l’individuo non è padrone di nulla e sicuro di nulla; che il nostro avvenire, quindi, non dipende da noi e dal nostro beneplacito, ma dal beneplacito di fattori più grandi e potenti di noi e che sfuggono totalmente al nostro controllo – e veramente che il futuro sta sulle ginocchia di Giove. Perciò segno sicuro di irreligiosità pei pensatori greci, segno che

costituisce la prova incontrovertibile di questa, anche quando sia accompagnato da esteriori dichiarazioni di fede religiosa, segno di quell’ὕβρις che è la somma offesa alla divinità e suscita quindi il suo φϑόνος,9 è quello di sentirsi sicuri di poter disporre dell’avvenire e del tempo. Chi, invero, ostenta tale sicurezza nega di fatto l’esistenza di forze a noi superiori e da noi incontrollabili; si ritiene più forte di Dio, si erige contro Dio, o, più esattamente, pensa soppresso Dio e sostituitavi la propria personalità. La sicurezza dell’avvenire è dunque l’espressione tipica dell’irriverenza religiosa. Per contro, il senso di reverenza verso gli Dei si esprime formulando ogni asserzione intorno a ciò che uno farà o sarà nell’avvenire μέϑ᾽ ὑπεξαιρέσεως, «cum exceptione» (come dicevano i pensatori più ricchi di senso religioso che l’antichità abbia avuto, gli Stoici), con la riserva cioè «se gli eventi lo concederanno», con la riserva che questi (da cui e non da noi la cosa dipende) potrebbero benissimo non concederlo; riserva che è poi fondamentalmente la stessa di quella con cui Socrate accompagnava consuetamente le sue affermazioni circa il futuro: «se Dio vorrà», ἐὰν ϑεὸς ἐϑέλῃ. Il senso di reverenza per la divinità si esprime come costantemente avviene nella tragedia greca, dove il tragico esplode sempre pel fatto che il protagonista, pienamente e tranquillamente sicuro di sé e del proprio avvenire, si vede improvvisamente travolto dal Dio, pel quale già solo quella sicurezza è offesa e peccato, il peccato capitale contro lo spirito religioso, l’arroganza e l’oltracotanza, l’ὕβρις: e dove quindi l’estrinsecazione principale o piuttosto unica della religiosità è il riconoscimento dell’opera e della potenza degli Dei nella produzione dell’inaspettato, e perciò la trepidante attesa dell’inaspettato, operato dalla divinità a suo assoluto beneplacito; questo è il pensiero giusto e profondo che coll’accennato concetto del ϑεῶν φϑόνος10 (p. e. Esch., Pers. 362; Pind., Pit. X, 20, Ist. VI, 39) intendevano esprimere i greci e che già anche Solone presso Erodoto (I, 32) enunciava così: τὸ ϑεῖον πᾶν… φϑονερόν τε καὶ ταραχῶδες.11 Il senso di reverenza pel Divino si esprime dunque col pensiero di Eschilo che è vano pretendere di

conoscere la mente di Zeus, perché essa ci presenta una prospettiva senza fondo, ὄψιν ἄβυσσον (Suppl.,1058). Si esprime col pensiero di Sofocle che non c’è indovino che possa dire quanto durerà lo stato presente, μάντις οὐδεὶς τῶν καϑεστώτων βροτοῖς (Antig., 1160). Si esprime col pensiero di Pindaro che nessun sicuro indizio ci viene dagli Dei circa gli eventi futuri, e che dell’avvenire la conoscenza è cieca, τῶν δὲ μελλόντων τετύφλωνται φραδαί (Olimp. XII, 7 e s.). Si esprime col pensiero con cui Euripide termina cinque delle sue tragedie (Alcesti, Andromaca, Elena, Medea, Baccanti), cioè che gli Dei effettuano l’impreveduto facendo svanire ciò che era aspettato e avverarsi invece ciò che non lo era punto:

πολλὰ δ᾽ ἀέλπτως κραίνουσι ϑεοί· καὶ τὰ δοκηϑέντ᾽ οὐκ ἐτελέσϑη, τῶν δ᾽ ἀδοκήτων πόρον ηὗρε ϑεός12 E da ultimo perciò il senso di venerazione verso gli Dei culmina nella tragedia greca con l’impressione terrificante e annichilatrice che si genera nell’animo umano dall’aver constatato appunto questa loro potenza di produrre l’inaspettato, il «casuale», cioè di disporre dell’avvenire contrariamente ad ogni nostro piano, previsione, sicurezza: vale a dire nel sentimento d’umiltà, anzi della propria nullità, che afferra e prostra l’uomo in seguito a quella constatazione. E sempre nella tragedia greca, subito dopo che gli Dei hanno fatto scoppiare sul capo del protagonista l’impreveduto, il sentimento che l’uomo è nulla, τὸ μηδέν (Edipo Re, 1187), che egli non è se non fantasma e vacua ombra, εἴδωλα ἢ κούφην σκιάν (Aiace, 126), si affaccia e si afferma in tutta la sua sconsolata cupezza e desolazione. Sapersi in balia dell’imprevisto, sotto la mano dell’impensato, in potere del «caso»; titubanza e trepidanza circa il futuro della propria vita; paura del futuro; dubbio, timore e tremore per le proprie vicende avvenire; tali sono le caratteristiche essenziali della religiosità. Poiché le vicende avvenire, avvertite nella loro imprevedibilità e incontrollabilità, il Futuro, il Ciò Che Sarà, nella sua assoluta

indipendenza da noi, è, per chi non crede nel Dio delle religioni, esso stesso Dio, e, per chi vi crede, la manifestazione della potenza imperscrutabile e irresistibile di Dio. «Primus in orbe Deos fecit timor».13 In questo verso di Stazio (Teb. III, 661) o di Petronio (Fragm.27), congiunto col pensiero di Servio (Aen. II, 715): «connexa enim sunt timor et religio»14 e con la sua derivazione di deus da δέος15 (ib. XII, 139), si riassume bene la filosofia religiosa degli antichi. Esso è ancora interamente giusto se lo si interpreta dunque nel senso che timore (del futuro) e Dio sono una cosa sola.

*** L’οὖλος ὄνειρος16 (Iliade, II, 6). La nostra vita è un continuo inganno. Noi siamo incessantemente durante tutta essa presi nel laccio dell’inganno. Siamo ingannati dalle nostre brame, passioni, desideri, giudizi di valutazione, cioè dall’Essere in noi e attorno a noi, cioè dagli Dei o da Dio. Qualunque oggetto, fatto o conseguimento (un podere o una casa, un libro o una donna) nel momento in cui vi aspiriamo ardentemente, risulta alla nostra ragione, con evidenza insuperabile, meridiana, matematica, quale la meta che bisogna raggiungere, che è doveroso raggiungere, spesso ad ogni costo, e spesso essa ci risulta la sola meta che dia pregio alla vita. Dopo anni, quando abbiamo realizzato l’aspirazione, e quando la sua realizzazione ci ha impigliati e racchiusi in una sistemazione di vita che non possiamo ormai più dissolvere e mutare, noi constatiamo con altrettanto insormontabile evidenza che l’oggetto, il fatto, il conseguimento, non solo non hanno nessun valore, ma non sono che fonte di noia e dolori. Ci accorgiamo di «aver sbagliato», «apriamo gli occhi». Ma li apriamo sempre troppo tardi, ad anni di distanza dal momento in cui vedevamo la cosa come sommamente bella, degna, desiderabile, apportatrice di felicità. E quando abbiamo «aperto gli occhi» circa la cosa per cui tanto ci siamo appassionati e pel cui

conseguimento tanto abbiamo lavorato, c’è sempre un’altra cosa che costituisce in quel momento per noi l’identico miraggio e circa la quale solo ad anni di distanza dalla nostra passione per essa e dall’opera che effettuiamo per ottenerla, «apriamo gli occhi».

Οὐδεὶς ξύνοιδεν ἐξαμαρτάνων πόσον ἁμαρτάνει τὸ μέγεϑος, ὕστερον δ᾿ ὁρᾷ17 (MENANDRO, I soldati, 448 K) Tutto quello che si fa, nel periodo in cui lo si fa – acquistare un podere o una villa, sposarsi o prendere un’amante, abbracciare una determinata carriera o pronunciare dei voti religiosi, impiegare anni a imparare il cinese o a suonare il violino – è ciò che v’è di più ragionevole da farsi, la sola cosa ragionevole, quella che sarebbe un grosso sproposito non fare, spesso quella non facendo la quale si mancherebbe lo scopo della vita e questa perderebbe ogni significato e valore. È solo dopo anni che si affaccia e si fa chiaro il «cos’ho mai fatto!». La tragedia è questa, che sempre e necessariamente il senno è tale senno del poi, o, meglio, che il senno del periodo in cui si compiva l’azione sparisce sgretolato e sostituito da un senno del poi, da un diverso senno; o che noi non riusciamo mai a vedere le nostre azioni presenti con quello che sarà lo stesso nostro giudizio, posteriore e a distanza, su di esse. Ὧν ἐγὼ μεϑύστερον, ὅτ᾿ οὐκέτ᾿ ἀρκεῖ, τὴν μάϑησιν ἄρνυμαι18 (Sof., Trach., 710). Siamo presi in un οὖλος ὄνειρος dopo l’altro. Tutta la nostra vita non è che un οὖλος ὄνειρος. Zeus ci trascina lungo essa di inganno in inganno. Questo fatto che solo dopo dieci o vent’anni ci si accorga che fu un errore quell’atto decisivo della nostra vita che abbiamo allora compiuto con l’evidenza che era una cosa ottima, è l’inganno degli Dei di cui parla Eschilo: δολόμητιν δ᾿ ἀπάταν ϑεοῦ τίς ἀνὴρ ϑνατὸς ἀλύξει;19 (Pers., 93). Avvenimenti come quelli narrati da Zweig in Ventiquattr’ore della vita d’una donna o da Tolstoi nell’episodio

Anatol-Natasa in Guerra e Pace (Parte VIII, c. X e s.), dimostrano come improvvisamente la ragione scorga un determinato atto quale alcunché che si deve assolutamente fare e senza cui la vita non merita più d’essere vissuta. Un determinato atto che poco dopo appare una pazzia. E sappiamo forse se fu una pazzia quell’atto, o è una pazzia il giudizio che dopo portiamo su di esso?

*** Perché nel mondo fenomenico si manifesta tanto dolore, guerre, lotte, malattie, morte, contrarietà, dispiaceri (e per di più i dolori immaginari, a nobis ipsis facti,20 come l’amore e le sue delusioni), perché soffriamo tanto, perché tutta questa produzione di dolore nel mondo, se non perché nel germe o nell’essenza di questo, nel principio da cui scaturisce, nel suo Essere in sé (in Dio), c’è un fondo di dolore infinito? È, espressa a mio modo, la tesi di E. v. Hartmann.

*** Chi si pone dal punto di vista di E. v. Hartmann, e riconosce come morale assoluta quella che deve mirare (attraverso lo sviluppo etico e culturale) a liberare Dio o il Soggetto assoluto, che vive o si è incarnato nel mondo ed in noi, ed è questo mondo e noi (l’essenza di esso e di noi), a liberarlo dal dolore del mondo medesimo e dall’infelicità trascendentale che l’ha spinto a esteriorizzarsi in esso, a liberarlo con l’annientamento del mondo fenomenico (cose e coscienza) e col riassorbimento di tutto nell’Assoluto – non può non convenire che colui che si sforza di persuadere la gente che la felicità è inafferrabile, il dolore continuo e prevalente, l’assurdo sempre presente nella natura e nella vita umana privata e sociale, la conoscenza impossibile, la verità inesistente; costui, sospingendo le coscienze, il pensiero, all’idea della vanità del mondo e all’annientamento di questo, è l’unico che cooperi al fine morale più

alto. «Das reale Dasein ist die Incarnation der Gottheit, der Weltprozess die Passionsgeschichte des fleischgewordenen Gottes, und zugleich der Weg zur Erlösung des im Fleische Gekreuzigten; die Sittlichkeit aber ist die Mitarbeit an der Abkürzung dieses Leidens- und Erlösungsweges»21 (E. v. HARTMANN, Das sittliche Bewusstsein, ult. righe).

*** Sembra talvolta che la Vita sia come il fanciullo crudele che si diverte a prendere una mosca e a gettarla nella tela d’un ragno, o un topo e ad immergerlo in un vaso d’acqua dalle pareti lisce, o a circondare una formica d’una corona di bracie, e poi si mette ad osservare con un maligno sorriso, dicendo fra sé: «stiamo un po’ a vedere che cosa farai, godiamo lo spettacolo degli sforzi molteplici e inauditi e necessariamente vani che eseguirai per salvarti, alla fine dei quali dovrai pure arrenderti; dare gli ultimi spasmodici, convulsi, ciechi, disperati movimenti e poi morire tra gli spasimi». Così la Vita. Eccoti un cruccio, eccoti una nuova inattesa traversia, eccoti un gruppo di molestie e di noie, eccoti un disastro finanziario, la povertà, le persecuzioni, la malattia, la vecchiaia, la morte delle persone a te più care o il loro abbandono. Adesso sei circondato. Ora potrò assistere con giulivo interesse ai dibattiti inutili che farai per cercare, senza possibilità, di salvarti, e godere dell’attrattiva spettacolare di vederti a poco a poco irreparabilmente affondare sempre più sino alla fine. E avviene che l’uomo stesso, che si trova in queste circostanze, fa suo talora questo atteggiamento meramente spettacolare, che sembra essere quello della Vita, e, come se osservasse un altro, con un senso di distacco da sé e di sdoppiamento, sta curiosamente a vedere che cosa egli, chiuso così tutto intorno, farà.

***

Godere, gustare, momento per momento, il piacere che quel momento dà, prendere il sole, guardare le piante e le montagne, passare orazianamente le horae inertes? Ovvero sacrificare questi momenti di godimento puntuale a un’opera o a un risultato più complessivo e lontano? All’ultimo momento della tua vita pensando alle ore che hai impiegato oziando beatamente, bighellonando, guardando piante e montagne, esclamerai «quanto tempo ho perduto!». Pensando alle ore in cui ti sei privato di questi momentanei piaceri per scrivere un libro, per studiare lungamente un sistema filosofico, per apprendere una lingua morta o simili, esclamerai «quanto tempo ho sacrificato invano!». E qualunque cosa si faccia ce se ne pentirà sempre…

*** Il circolo vizioso della vita. Si finisce per avvertire con invincibile evidenza, che, essendo qualsiasi opera a cui si dedichi la vita assolutamente inutile perché entro brevissimo tempo (cinque o cinquemila, o cinquantamila anni) non ne resta più la menoma traccia, così la vita non ha e non può avere altro fine che sé stessa, cioè non serve, non può e non deve servire che a vivere. Ma immediatamente avvertito ciò, si avverte che il vivere ridotto a non servir che a vivere, la vita ridotta a non aver altro scopo che sé stessa, viene, allora, essa medesima, colpita di inutilità. Vivere per vivere, senza nessun risultato o scopo: che c’è di più inutile? Se facciamo qualcosa, è l’inutilità di quel che facciamo che ci si fa evidente; e concludiamo: siamo in vita, non per operare alcunché, tutto quel che si opera essendo inutile, ma soltanto per vivere. Se, conseguentemente, non facciamo più nulla e viviamo soltanto, ciò che ci diviene evidente è l’inutilità della vita stessa. Questo venir afferrata, come da tenaglie mortali, dall’alternativa di tale doppia inutilità, è la pena che subisce la vita per essere trapassata

dallo stadio meramente animale allo stadio umano, e per essere stata, in seguito a ciò, e in grazia della presenza dell’intelligenza, costretta a proporsi un qualche scopo della vita (opere da effettuare o simili) all’infuori della vita stessa. Laddove il problema è risolto, o meglio non sorge, nello stadio animale, dove la vita ha veramente per iscopo solo sé stessa, il vivere, solo il vivere, e questo scopo non è vanificato dalla presentazione per opera dell’intelligenza alla vita di scopi che siano altri dal puro e semplice vivere.

*** Quando si è assorbiti in un lavoro che prende tutto lo spirito, non si vive più, non ci si accorge più di vivere. Viene la sera e si constata: non ho vissuto in questa giornata; il mio lavoro soltanto ha vissuto in me e di me. Il mio lavoro, il mio pensiero che in esso si svolge, ha adoperato me, esattamente come io ho adoperato la penna. Sono vissuto in mano del lavoro e del pensiero, esattamente come la penna si è mossa nella mia mano. Ma se si dice: voglio vivere, e quindi non si fa nulla, giunta la sera si constata: ma che faccio? perdo tutto il mio tempo, cioè tutta la mia vita. È una vita questa che non ha per iscopo se non di sfuggire, e che non si realizza e concreta in qualche azione e in qualche risultato? Tanto seguendo l’una, quanto seguendo l’altra via, ci sentiamo del pari annullati. L’annullamento avvertito giorno per giorno, minuto per minuto. Questo – si lavori, si giuochi, si ozi – è l’unico frutto della vita.

*** Si dice: se vuoi essere felice abbandona i pensieri delle cose terrene e riempi la tua mente delle cose eterne. Così Spinoza, così Fichte: «die Sehnsucht nach dem Ewigen»,22 ecco la vita beata. Così Aristotele: l’εὐδαιμονία23 è il βίος ϑεωρητικός.24 Ma, pur troppo, lo stesso pensiero delle cose eterne rende

specialmente infelici, qualora, approfondendolo, vi si trovi la constatazione che il Tutto, l’Eterno, l’Essere, è assurdo, cattivo, vano, e l’«ordine morale» del mondo una menzogna. E contro Spinoza, Fichte, Aristotele, contro tutti gli allucinati dalla fissazione intellettualistica che la vita di pensiero dia la felicità, ha ragione l’Ecclesiaste (1, 18): «chi accresce la scienza, accresce il dolore».

*** «Chi accresce la scienza, accresce il dolore » (Eccles., I, 18). Anche in questo senso. Quanto meno uno è intelligente, tanto meno avverte e riconosce le proprie disgrazie. La fanciulla dal cervellino superficiale e leggero assiste alla malattia e alla morte della madre, senza avere la sensazione diretta e precisa della portata e del significato dell’avvenimento sia per la persona che muore sia per coloro che restano; non ne afferra il tragico valore né ne scorge la conseguenza, e dopo un po’ se n’è dimenticata. In sostanza per lei è passata la morte come se nulla fosse: che cosa sia la morte, infatti, col suo cervellino non lo sa e non lo può sapere. Al limite, il vero e proprio scemo non si accorge nemmeno se uno della sua famiglia muore; non lo distingue morto da vivo; non distingue se sia trasportato nella bara al cimitero o in un veicolo singolare a prendere addormentato dell’aria. Viceversa, quanto più si è intelligenti, tanto più si capisce, si vede: tutte le ripercussioni, le ramificazioni vicine e lontane d’una disgrazia sono presenti; questa si percepisce in tutta la sua vera portata ed estensione. La si gusta in tutti i suoi particolari. Si vedono, insomma, le proprie disgrazie con la lente della propria intelligenza, e questa è una lente che, come il microscopio che usa lo scienziato per le sue indagini, fa vedere con ogni precisione tutte le minuzie. «Certamente di nessuno… si può dire con verità, se non fosse di qualche stupido, ch’egli non abbia esperienza di sventure» (Leopardi, Pensieri, XLII).

*** L’infinità del dolore. Come un dolore per quanto grande diventa nullo se lo si lascia scorrere su di sé senza pensarvi, cioè senza approfondirlo col pensiero, così qualsiasi anche mediocre dolore diventa smisurato se vi si pensa, se vi si scava dentro, se lo si scruta e fruga in ogni angolo, se lo si me dita e rimedita spremendone tutto il senso e comprendendone tutte le ripercussioni; se così, alla fine, si giunge anche ad avvertire il significato cosmico che ogni dolore, eziandio soltanto individuale, possiede. Diventa smisurato. Ciò vuol dire che ogni dolore è già smisurato. Che lo diventi è possibile solo perché e quando la sua smisuratezza si dispieghi tutta davanti alla mente; e non può dispiegarvisi se non c’è già. Si tratta di saper osservare o no, pensare o no. Se non si osserva e non si pensa, gli elementi, che pur vi sono, non si avvertono. Si avvertono solo se si osserva e si pensa. Come un ciottolo per l’ignaro di scienza non è che un oggetto insignificante e che nulla gli dice, mentre per il mineralogista, per il chimico, per il geologo è un mondo inesauribile di fatti e di elementi, che per il primo non esistono solo perché non li vede, ma che in realtà ci sono e si dispiegano soltanto davanti alla mente che pensa e sa; così il pensiero, che non si contenta di passar sopra distrattamente, ma penetra, s’addentra, rimugina, scorge in ogni dolore tutto quello che c’è, e che chi non pensa non vede; ed ogni dolore quindi diventa infinito per il pensiero perché lo è già, perché l’infinità che vi è già in esso, implicita, potenziale, racchiusa, si espande davanti al pensiero in tutta la sua completezza.

*** Avviene del dolore come del rumore nelle grandi città. Un grande rumore, p. e. quello del passaggio d’un’automobile, non cessa se non per farti sentire un rumore minore, p. e. quello della radio nell’appartamento di fronte, che quel primo rumore più forte

semplicemente copriva. Così del dolore. Sottostiamo, non a un solo dolore, ma a una stratificazione di dolori. Uno, intenso, vivissimo, ti assorbe tutto. Ti pare che sia il solo che incombe su di te. Ma la sua cessazione ha il solo effetto di farti sentire la presenza d’un altro, che esisteva sotto il primo, e che dianzi, per l’intensità di questo, era semplicemente non avvertito. Viviamo sotto strati di dolore, uno soggiacente all’altro e che per la presenza di quest’altro non viene percepito, ma che è pronto a far sentire la sua punta appena quest’altro scompare.

*** Per consolarmi di questo dolore, tu mi dici: sia il tuo animo superiore al rovescio di cui ti affliggi; rifletti che l’oggetto che ti stava a cuore e che il rovescio ha travolto, non è, se lo consideri dall’alto, che un insignificante episodio umano, vanità. Se mi colpisse un altro dolore perché un altro rovescio travolgesse un altro oggetto che mi sta a cuore, tu mi consoleresti al medesimo modo: sii superiore, ravvisa, con sguardo elevato e largo, come cosa di menoma entità, quale veramente è nel corso totale delle cose, la distruzione dell’oggetto che amavi. È la consolazione «classica»; quella il cui motivo incontriamo ad ogni momento nel pensiero greco-romano. «Contemnendae sunt res humanae»25 (Cic., Tusc. Disp., IV, xxiii, 51). Ma bada a che cosa ciò mette capo. Per non disperarmi, per consolarmi, io devo essere superiore a questo, a quello: a tutto; devo considerare come insignificante vanità questo, quello: tutto. Tutto ciò che costituisce il mio più profondo interesse, tutto ciò per cui vivo, devo essere pronto e disposto a considerarlo come nulla, e quindi potenzialmente considerarlo già sin d’ora come nulla, se voglio esser suscettibile di consolarmi d’un rovescio che può colpire a capriccio qualunque sfera di quei miei più profondi interessi per cui vivo. Questo vuol dire annullare tutti i miei interessi più vitali, tutto ciò per cui vivo, dunque me stesso. La logica interna della tua consolazione

porta a questa conclusione, che per consolarmi io devo annullarmi; in sostanza: morire. La tua consolazione suona: sradicamento del mio interesse per questa cosa, per quest’altra cosa, per ogni cosa; sradicamento di ogni mio interesse, quindi di tutto il contenuto del mio io; perciò sradicamento di me stesso: morte.

*** Si finisce per avvertire nettamente che non si può reggere alla vita e salvarsi dall’essere divorato dai dolori, se non facendo risolutamente e definitivamente proprio il principio: «non me ne importa più nulla di nessuna cosa»; né dei genitori, né dei figli, né degli amici, né del pubblico, né della cosa pubblica, né dell’umanità, né della mia professione, attività, arte, riputazione, né del mio patrimonio e benessere, né della mia salute, né della mia vita. Tanto dall’aver a cuore queste cose, dal preoccuparsi di ciò, sorgono ad ogni momento ansie, crucci, strazi, disperazioni. «Non me ne importa nulla!». E bisogna essere capaci di scorgere che il sentimento che tale triviale frase esprime è proprio quello stesso che professarono i pensatori più nobili che l’umanità abbia avuto: gli Stoici, Budda, i mistici cristiani (atarassia, santa indifferenza). Non cercare che le cose avvengano come vuoi, ma volere che avvengano come avvengono (Epit., Ench., 8); abbandonare tutto al «demone», alla sorte, τὸ παραδοῦναι πάντα τῷ δαιμονίῳ, τῇ τύχῃ (Id., Diatr. IV, iv, 39); offrirsi volonterosamente a Cloto lasciando che contessi la tua vita di quegli eventi che vuole (Marco Aur., IV, 34). Flaubert (Pensieri, ed. it., p. 31) esprimeva l’atteggiamento buddistico così: «Colui (dice Sakia Monni) il quale ha compreso che il dolore deriva dall’affetto, si ritira in solitudine come i rinoceronti». Questo vuol dire «non me ne importa nulla»; questo si può fare quando «non me ne importa nulla». Qualunque cosa ti interessi, essa ti dà preoccupazioni, inquietudini, lagrime, dolori. Non c’è che un mezzo per essere in pace: ed è di non

interessarti di nulla. Per riuscire a non interessarti di nulla devi scorgere che nulla val la pena che tu te ne interessi, che tutto è vano. Quando hai così raggiunta la pace, senti che l’hai raggiunta piombando senza appoggio e resistenza nel vuoto, o veramente buttandoti, come in un buio abisso, nel Nulla.

*** Ho imparato cinque o sei lingue. Ho radunato nel mio cervello una vasta cultura. Con che frutto? Ora muoio. Tutto ciò che ho imparato e che ho raccolto nella mia mente, si disperde come nebbia ad un soffio di vento. Forse il frutto fu che ciò ha servito a sviluppare le mie idee, ad arricchirmi di idee, e quindi a scrivere, a pubblicare? Anche ciò fra pochi anni è dimenticato e scomparso, è esattamente come non fosse stato. Tutto si riduce in nulla. Quando questi pensieri vengono a galla, si è maturi per la fine, per la morte, per il ritiro nella foresta come gli indiani, per il Nirvana. Non importa più di nulla: genitori, figli, parenti, amici, patria, umanità, politica, arte, letteratura, cultura, fama. Più di nulla d’umano. Si ha il senso che tutto ciò che è umano sia distaccato, vanificato, lontano. Se ne è visto, se ne sente, il nulla. La sentenza di Terenzio si rovescia: «omnia humana a me aliena puto».26

*** La speranza è in proporzione diretta dell’infelicità. Si spera tanto più quanto più si è sfortunati. L’uomo fortunato e felice non ha bisogno di sperare perché ha già, e se pure (poiché nessuno è contento) spera ulteriormente, spera però senza eccessivo ardore e senza cocente intensità. È l’uomo infelice che mette nella speranza tutta la sua passione e la sua vita, che spera freneticamente, che, quasi a dire, spera disperatamente, appunto perché, nulla avendo egli al presente, anzi avendo meno di nulla, cioè il fatto negativo male e

dolore, egli non possiede di positivo che la speranza e non può vivere che di speranza. I sogni di speranza sono quindi tanto più fiammeggianti e fantasiosi nei colpiti dalla sorte, nei caduti in basso, nei perseguitati, nelle persone finanziariamente rovinate, nei poveri, nei mendicanti. Probabilmente la più insensatamente miracolosa speranza – una del tutto inverosimile catastrofe interna o internazionale che faccia crollare il potentissimo Stato in cui vive – risplende davanti agli occhi del condannato a morte; probabilmente un’ancora più insensatamente miracolosa speranza – un delfino che si presti a trasportarlo a riva o l’uccello di Zeus che discenda ad afferrarlo – brilla nell’animo del naufrago che sente di star per affogare. Infine l’eccesso dell’infelicità acuisce la speranza sino all’aspettazione del vero e proprio miracolo: Giovanni da Giscala e Simone Bar Gioras, gli eroi della resistenza ebrea ai romani, ridotti a ripararsi nelle fogne di Gerusalemme di fronte all’irrompere delle legioni vittoriose di Tito, sperano fermamente nell’intervento di Jahvé, che si manifesterà solo a chi resisterà sino all’ultimo e al momento estremo della resistenza; ed è quando uno è disperatamente afflitto per la perdita d’una persona cara o disperatamente terrorizzato dalla paura della propria morte che gli si colora di certezza la speranza d’una vita futura. Più vera dell’affermazione socratica che piacere e dolore sono attaccati ad un unico capo, è quella che lo sono infelicità e speranza. Lo sono perché la speranza è la List27 della natura, o la «funzione fabulistica», che, nell’economia della vita, serve a tener testa all’effetto micidiale dell’infelicità, della sfortuna, del dolore e quindi a questi si accompagna, in uguale misura di essi, come al veleno il contravveleno.

*** Il dolore fa passare il tempo. Cioè affretta il corso del tempo. Mentre l’uomo felice è in situazione psichica statica, sta e vuol stare dov’è, riposa nel presente, e

quindi per lui il presente, ch’egli piacevolmente assapora, si sgomitola con lentezza, e, quasi a dire, gli rimane tenacemente e vischiosamente aderente e non vuole andarsene; all’incontro all’infelice il presente brucia sotto i piedi ed egli corre via quanto più può velocemente da esso appunto come uno che camminasse sui carboni ardenti. Egli fugge, con tutta l’ansia del suo spirito, rapidamente e incessantemente dall’oggi e si precipita di continuo con la maggior possibile celerità in un domani in cui la presente infelicità o il presente dolore, come spera, non ci sia, la disgrazia che presentemente incombe sia sanata, la pena attuale cessata, la distretta odierna scomparsa o sollevata. Perciò il dolore è tanto più micidiale. Se la rovina della nostra vita sta sopratutto in ciò che noi, non potendo mai posare nel presente, pencoliamo e ci protendiamo col pensiero di continuo nell’avvenire, e con ciò ci facciamo fuggir di mano sempre più rapidamente il presente, ossia il solo tempo che effettivamente si vive; e se il dolore accentua grandemente questa attitudine, appunto perché è nei periodi di dolore che tanto più febbrilmente ci slanciamo col pensiero dal presente doloroso ad un futuro che speriamo esente dal cruccio attuale, e non viviamo più che in tale futuro; allora ne consegue che il dolore uccide non solo per la sua azione fisica che rode gli organi vitali, ma altresì per questa sua azione spirituale che ci fa fuggire dinanzi con velocità fulminea il presente. E quando siamo sul letto di morte vediamo d’un tratto che il dolore ci ha fatto sfuggire tutta la vita presente precipitandola senza posa nell’aspettativa d’un avvenire in cui la pena non incombesse, avvenire che ora non fa più in tempo a giungere e che quindi non giunse mai.

*** Si dice (argomento stoico, che spesso anche oggi in altra forma si sente assai spesso ripetere): ciò che all’uomo comune, ed anche al saggio, produce il tempo – vale a dire la guarigione da un dolore – produca al saggio la ragione. Il saggio sappia vincer tosto con la sua ragione il dolore, dal momento che sa che il tempo ne lo guarirà fra

non molto. Poiché tu sai che fra un anno o due o dieci ti dimenticherai di questa afflizione e del fatto che vi ha dato causa, perché non sopirla immediatamente? Viceversa la saggezza – la nobiltà dello spirito – sta forse nello sforzarsi che il tempo non produca anche nel caso d’un dolore e del fatto che ha generato il dolore (morte di persona amata, ecc.) il suo effetto consueto, quello della cancellazione e dell’annientamento. La saggezza – l’eccellenza spirituale – sta forse nel tener vivo e costante il proprio dolore, nell’operare, non conforme, ma contro il tempo, nell’impedire che almeno il dolore, il ricordo doloroso, il tempo distrugga. Hanno ragione gli Stoici di dire che, volendo, facendosi capaci di padroneggiare le φαντασίαι,28 si può rendersi indifferente un fatto qualsiasi, dalla rottura d’un vaso alla morte d’un figlio. Ma, appunto, non si vuole. Non si vuole perché si ha vergogna, come d’un’ottusità spirituale, d’una siffatta apatia (parola che, significantemente, ha assunto nel linguaggio comune un significato biasimevole); e contro di essa si vuole invece proteggere e salvare in sé il dolore. L’ostinazione nel dolore, risoluta e deliberata, di Marcia, a lei rimproverata da Seneca, è in realtà un fatto che attira l’ammirazione, e che quindi si riconosce essere frutto di altezza spirituale o superiore saggezza.

*** Ricetta di felicità. Comprare una cartella d’una lotteria di miliardi, coltivare caldamente la speranza e la quasi certezza di vincere, predisporre già nel pensiero come si vivrà quando si avrà vinto. Poi quando l’estrazione viene, e non si ha vinto, comprare una cartella della nuova lotteria e comportarsi nel medesimo modo. Quindi acquistare la cartella d’una terza e via così. In tal modo si vive felici, d’una felicità rosea, piena: precisamente

come e perché vivono felici coloro che credono fermamente nell’immortalità dell’anima. Questo è il grande beneficio umano arrecato dalle lotterie. Come, insomma, avviene nel campo dell’amore che talvolta si sogna di tenere in braccio la donna che si desidera, e, pur non tenendola, la soddisfazione è quasi uguale a quella che si ricaverebbe dal tenervela realmente, così in generale uno dei migliori mezzi per passare il tempo, anzi per essere felici, è quello di supporre, fantasticare, sognare esistente e conseguito ciò che ardentemente si desidera, di immergersi tutto in questa fantasticheria e in questo sogno, e di svolgerlo lungamente ad occhi aperti in tutti i suoi particolari. Poiché tra vita di sogno e vita di realtà c’è la differenza d’un filo.

*** In tutte le tue aspettazioni – dal pranzo imminente o dal prossimo ritrovo tra amici, sino all’andamento politico del tuo paese, ai destini dell’umanità, al fato che ti attende dopo morte – la soluzione spiacevole, dolorosa, disperante, è la vera. L’altra è quella che si vuole, che si desidera. E appunto perciò è falsa: perché, cioè, è il tuo desiderio che essa si avveri, la tua volontà, che te la fa apparire probabile, verosimile, certa; e l’elemento «desiderio», «volontà», perturba la tua previsione e il tuo giudizio e vi toglie la precisione e l’esattezza. Tu vuoi convertirmi, e mi dici: «se sapessi quale pace dell’animo la fede ti darebbe!». Appunto questo è, al contrario, un argomento che mi fa dubitare maggiormente della verità delle credenze che tu vorresti darmi, e una ragione per cui non le posso accogliere. È appunto perché so che la fede mi darebbe la pace dell’animo e mi farebbe felice, che debbo respingerla. Per questo, cioè, che so che essa si introdurrebbe in me, non perché la mia ragione ne abbia, con la fredda spassionatezza con cui controlla la esattezza d’un’operazione aritmetica, riconosciuta la verità, non perché sia vera, ma perché mi fa felice.

Proprio perché la tua convinzione religiosa ti appaga, è grandemente probabile che sia erronea: vale a dire appunto perché il fatto che ti appaghi dimostra che la tieni e la credi non perché sia obbiettivamente vera ma perché ti appaga, perché la vuoi vera in grazia dell’appagamento che ti dà. «Sicut nobis res cordi est, sic de ea frequenter iudicamus: nam verum iudicium, propter privatum amorem, faciliter perdimus»29 (De Imit. Chr., I, XIV, 1). Per le opposte ragioni la mia convinzione irreligiosa è probabilmente vera appunto perché mi rattrista. Per quale ragione infatti, si potrebbe mantenere e professare una convinzione che rattrista, se non perché è vera, se non perché si è costretti dolorosamente a riconoscerla come vera? Se una convinzione dà pace, appagamento, felicità (come la fede) c’è sempre almeno la possibilità che il desiderio di questi vantaggi abbia offuscata la chiarezza dell’intendimento, che cioè si sia trascorsi a crederla, non per la sua verità, ma per la delizia che ci dà. Ma se una convinzione è dolorosa e sconfortante (come lo è quella che nessuna direzione divina presieda al corso degli eventi e che con la morte del corpo si chiuda per sempre la vita e la coscienza) per quale insensatezza la si crederebbe se non per la forza ineluttabile con cui ci si impone la sua pura e nuda verità? La forza d’intelligenza sta nel tenere fissa davanti a sé la soluzione spiacevole, dolorosa, disperante, perché, sebbene disperante, anzi appunto per questo che è disperante, è la vera.

*** - Sei felice credendo? - Certo. È la credenza che mi dà la felicità. - Saresti infelice se non avessi più la fede? - Sarei disperatissimo. - E io, che non credo, sarei felice credendo e sono disperato non credendo… - E allora? - Allora, di qui puoi vedere quale sia delle nostre due opinioni

quella che, non già è fondata sulla logica e sulla spassionata riflessione e considerazione del mondo e della vita, ma è formata falsamente dagli elementi volitivi, sentimentali, emozionali della nostra natura… - Ma io ti lascio alla tua logica mortifera e mi attengo alla pace, serenità e beatitudine che mi dà la fede. - Non te le invidio, e non le vorrei. È una felicità da deboli e vili. Il coraggioso ed il forte è solo colui che sa fissare con gli occhi chiari la realtà com’è, cioè l’assurdo, l’illogicità, l’ateità (tutti sinonimi) dell’universo, e riconoscere ed accettare questa situazione disperante. E non sai che il più profondo dei tuoi libri religiosi dà la palma alla mia visuale in confronto della tua? - Ma via! - Sì. L’Imitazione di Cristo.«Non est grave humanum contemnere solatium cum adest divinum. Magnum est et valde magnum tam humano quam divino posse carere solatio»30 (II, IX, 1).

*** Se ad uno importa immensamente, se gli sta vivissimamente a cuore, come una cosa sia o come proceda, egli è nella pessima delle condizioni mentali per fare indagini scientifiche e spassionate intorno a quella cosa e approdare circa essa alla verità. I risultati che raggiunge sono certamente inquinati dall’errore che vi apporta il suo desiderio che la cosa sia in un certo senso. E si potrà dunque con certezza dire che una cosa non è come importa grandemente che sia a colui che ne disserta. A. Brofferio aveva perduta la madre e Lodge un figlio, quando si posero a fare esperienze spiritiche e conclusero per la verità dello spiritismo. Proprio il fatto che a loro stava immensamente a cuore poter trovare prove che la madre o il figlio vivessero ancora, inquina irreparabilmente l’attendibilità dei loro risultati e ci costringe a concludere che questi non sono com’essi ritenevano per certo. Lo stesso si dica di tutte le credenze religiose.

*** Le credenze e le preoccupazioni morali e religiose rovinano irreparabilmente la concezione filosofica e la conoscenza della realtà. Dal momento che tu vuoi che le cose siano (religione) o debbano essere (morale) in un certo modo, non riesci più a vedere come effettivamente sono.

*** Non c’è modo di sceverare il senso della frase: «come le cose devono andare», dal senso di quest’altra: «come desidero, voglio, bramo ardentemente che vadano». Ed è in un certo senso interessante, per l’impressione di incredibilità e di stupore che suscita, il vederle implacabilmente andare come non devono.

*** Vi sono molti, che si ritengono o passano per filosofi, i quali costruiscono la loro filosofia così: «Ah! l’uomo non può assolutamente reggere alla vita senza… (senza Dio, l’esistenza futura, il Logos, la razionalità dell’universo, la giustizia definitivamente imperante nei rapporti umani e simili)». E qui una emozionante e oratoriamente intonata rappresentazione dell’infelicità, della disperazione, dell’abisso spirituale, in cui l’uomo crollerebbe senza quelle cose. Ciò si presta a sviluppi e variazioni toccanti ed eloquenti, che fanno grande impressione sulle donne e anche sugli uomini dalle menti vaghe e fumose. Quindi – essi concludono trionfalmente – quelle cose di cui l’uomo ha spiritualmente assoluto bisogno per poter reggere alla vita, per questa ragione appunto certamente esistono. Una tale «filosofia» seria com’è, è infallibilmente destinata al successo, perché la gente ama e vuole ciò che tocca le sue corde emotive e dà la beata sicurezza, che, da bambini, cullati nelle braccia della madre, sentivamo di non cadere.

È una «filosofia» da retori e declamatori non da filosofi, perché come ognuno avverte che circa la previsione del cammino che prenderanno gli avvenimenti politici l’anno venturo, il desiderio o il bisogno profondo che vadano in un senso piuttosto che in un altro, è un elemento di perturbazione del giudizio circa il come effettivamente andranno, così ogni mente capace di pensare filosoficamente deve avvertire che del pari circa l’esistenza degli x senza cui l’uomo sarebbe disperato (il Logos, Dio ecc.), uguale elemento perturbatore del giudizio è appunto questo fatto che l’uomo si dispererebbe se non esistessero.

*** Rifugiarsi nel «mistero», nell’«imperscrutabilità», è una vecchia e vana cantafera. Bisogna saper comprendere che dire «mistero», «imperscrutabilità», è porre la negazione di ciò che (soltanto) noi conosciamo come ragione, di ciò che ci risulta l’unica ragione esistente, ossia riconoscere appunto che si tratta di assurdo o di caso, che per debolezza mentale mascheriamo con le parole: ragione nonnostra, superiore, divina.

*** «Imperscrutabile». Perché alcunché (il mondo, il male nel mondo, le sventure che colpiscono i buoni ecc.) risulta assurdo alla ragione umana, così ci deve essere un’altra ragione davanti alla quale l’assurdo si spiega, sparisce, e quindi diventa per noi, non assurdo, ma «imperscrutabile». Perché il mondo, l’unico mondo che si conosce, è iniquo e assurdo, così ci deve essere il Bene Sommo o Dio. Dalla constatazione del male, cioè, si ricava l’esistenza del bene! È un pretto sragionamento. E non si capisce che, poiché noi non conosciamo che una sola ragione, la nostra, dire: «ci dev’essere un’altra ragione», equivale a

mettere un segno negativo davanti a ragione (all’unica data, la nostra); ossia quella cosiddetta altra ragione, risulta non-ragione, puro caso o meccanismo.

*** Non so come; non lo posso dimostrare; la mia ragione anzi mi direbbe che la cosa è impossibile; ma la mia ragione è forse tutto? abbraccia tutto? non può forse essere anche ciò che alla nostra meschina ragione sembra impossibile? non è, invece, tutto possibile? Mi permane dunque l’oscura intuizione che una fede così radicata ed antica nell’umanità come quella che il numero tredici porti disgrazia e il cornetto di corallo serva a tenerla lontana, possa avere il suo fondamento. Non so come; non lo posso dimostrare; ma ho l’intuizione che, quantunque la nostra ragione veda chiaramente il mondo sorto e dominato soltanto dal caso e dal male, pure quella nostra ragione e le sue conclusioni non siano competenti a giudicare, ed esista un’altra Suprema Ragione nei cui decreti, a noi imperscrutabili, tutto si illumina e si giustifica. I due ragionamenti si equivalgono.

*** Da venticinque o trenta secoli se ne discute. Esiste? Non esiste? Avrà questa natura? Avrà quest’altra? Si chiama meglio con questo nome o con quello? È tutto nel mondo o anche fuori di esso? È persona o no? E come e quale se persona, e come e quale se no? Che ha fatto? Che fa? Ha creato? O solo ordinato? O nemmeno questo? Regge, provvede, o vive la sua vita senza occuparsi del mondo? Che cosa vuole? Che cosa vuole che noi facciamo? Che cosa vuol fare di noi? Annientarci? Immortalarci? Salvarci? Dannarci? E il supposto esistente, padre che assiste a tale interminabile discussione dei suoi figli, la quale toccherebbe nientemeno che la loro

vita eterna e la loro salvezza, tace, e li lascia dilaniarsi, spesso anche fisicamente, per queste diverse interpretazioni di lui, senza manifestarsi e dichiararsi in modo incontrovertibile! È possibile pensare che tale discussione sia intorno a un Esistente? È possibile pensare che l’Esistente non si sia indiscutibilmente e incontrovertibilmente rivelato, come il sole o un umile sasso? Già l’antico grande critico del Cristianesimo, Celso, moveva l’insuperabile obbiezione: «Come il sole, illuminando tutte le altre cose, anzitutto manifesta sé stesso, così occorreva che facesse il figlio di Dio. Essendo Dio non fu certo mandato anzitutto proprio per restare nascosto. Chi mai, mandando un annunciatore, e volendo annunciare i suoi precetti, si mantiene occulto?» (Disc. Vero, II, 30, 67, 70; ed. Glöckner). Se quel fantasma mentale umano, prendesse, per assurda ipotesi, consistenza e coscienza, sempre rimanendo quel fantasma mentale che è, riderebbe a crepapelle degli uomini: «Da venticinque o trenta secoli discutono accapigliandosi intorno a ciò che io sono e voglio, alla mia essenza, alla mia mente, alla mia opera; e non sono che un fantasma della loro mente».

*** Hai disgrazie d’ogni sorta, economiche, pubbliche, familiari, ecc.? Non crucciartene! Anche quando tutte le tue disgrazie fossero tolte e sciolte tutte le difficoltà e i problemi ad esse inerenti, ti resta l’altra disgrazia ineliminabile, l’altra difficoltà insolubile, la morte. Questa è la disgrazia totale e finale, a cui, anche risolte e tolte tutte le altre, dai di cozzo in modo irreparabile. Perché angustiarti di quelle e cercar di levartele da dosso? Che cosa, riuscendovi, avresti ottenuto, poiché ti rimane questa? Se riuscissi a liberarti da quelle, non otterresti che di far giganteggiare questa. La presenza di quelle ti serve perché getta su questa un velo.

***

Un senso di sostanzialità puoi averlo forse sintanto che il piccolo villaggio in cui vivi, o l’ambiente sociale della città in cui dimori, che conosci e che ti è proprio, viene da te concepito come il centro del mondo, e te centro di questo centro. Dal momento che il tuo sguardo s’allarga e vedi che l’ambiente in cui vivi (qualunque sia), in cui hai affondato le radici della tua vita e tessuta questa stessa vita, è, nell’enorme vastità dello spazio e del tempo, perduto in una lontananza infinita e smarrito come in un pelago senza fondo e senza confini, anche tu perdi ai tuoi stessi occhi ogni sostanzialità ed ogni ombra di permanente valore, e ti senti veramente come colui «mortua cui vita est prope iam vivo atque videnti»31 (Lucr., III, 1044).

*** Quando l’uomo è giunto alla consapevolezza che «la circonferenza non è in nessuna parte e il centro in ogni luogo», è giunto insieme alla dimostrazione della propria nullità e alla necessità della disperazione. Il centro è in ogni luogo. Vuol dire: non c’è centro. Ma non c’è centro vuol dire non c’è io. Poiché l’io è appunto un centro, il centro che più mi sta a cuore, il centro perduto o soppresso il quale, io mi sento precipitato nel vuoto e nel nulla. Se per l’universo intero il centro è in ogni luogo e ciò significa che non c’è centro, anche quel centro che è l’io (il quale, infatti, esso pure si trova in ogni luogo) non è più centro, è centro solo apparente, in realtà si dissipa e scompare anch’esso come l’illusione che uno o l’altro punto (la terra) sia il centro dell’universo. E così io stesso (che sono appunto questo centro) ai miei stessi occhi, mi dissipo e scompaio come un’illusione.

*** «Voluptatibus vanis et ideo infinitis»32 (Sen., Ep.78, § 27). Sono vane, non foss’altro perché non hanno nulla di permanente, che si possa afferrare con le mani e tenere; ma tutto è in esse effimero e transeunte.

E appunto perciò («ideo») infinite. Ci sentiamo sospinti incessantemente, infinitamente dall’una all’altra, appunto perché sentiamo l’effimerità e quindi la vanità di ciascuna, e speriamo nella successiva, e via così, senza poter mai, per la vanità d’ogni momento, dire «arrestati». E poiché non è possibile l’«arrestati», così il processo va all’infinito. Questo in fondo è il senso della critica che Platone muove al piacere come Sommo Bene quando dice (Filebo, 53 B e s.) che non lo può essere perché è sempre γένεσις, ossia processo e divenire, e mai οὐσία, cioè stato permanente, situazione di appagamento stabilmente fermo e riposante definitivamente nel presente.

*** Perché essere «moderati in tutto», «temperanti»? Per rinunciare a una parte di quello che avrei voglia di fare mi occorre sforzo e sacrificio. Se devo impiegare sforzo e sacrificio, tant’è che lo impieghi per astenermi del tutto. La pena è uguale; è uguale nel rinunciare alla decima sigaretta, che pure avrei voglia di fumare, come a rinunciare a tutte; è sempre sentita come quel medesimo sforzo e sacrificio; se c’è la forza per sopportare la pena dell’astensione dalla decima, c’è anche per sopportare la pena dell’astensione da tutte. – O la libertà da ogni freno o l’astensione totale, l’ascesi. «Quaedam absciduntur facilius animo quam temperantur»33 (Sen., Ep. 108, § 16).

*** «Bevi e ubbriacati, o Melanippo, con me. Giacché credi forse che quando, dopo lungo cammino, sarai pervenuto al vorticoso Acheronte, potrai vedere ancora la pura luce del sole?» (Alceo, 73). «Ancora un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che fo ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e isonomo a Dio, che cerco io di più?» (Marco Aur., VIII, 2; e cfr. V, 33; X, 31).

Dall’istesso punto di partenza, cioè la brevità, l’effimerità, l’insignificanza, la nullità della vita, uno trae la conseguenza «godi», l’altro trae la conseguenza «sii virtuoso». E ha ragione tanto l’uno quanto l’altro.

*** Quando si vede avvicinarsi la fine della vita, il pensiero: «afferriamo senza scrupolo i godimenti, non moriamo senza aver provato anche questo», è, se non si crede nella vita futura (e chi vi crede sul serio, cioè così come crede alla vita presente?), insopprimibile.

*** «Sii temperante se vuoi vivere a lungo». Dei mille accidenti che ogni giorno possono insidiare e effettivamente insidiano la mia vita, l’intemperanza conta per uno, cioè per un millesimo. Val la pena di tanta fatica per evitare un millesimo di pericolo?

*** Chi ha un vizio o una passione radicati, sente che abbandonarli, quand’anche gli fosse possibile, renderebbe scolorita, vuota, senza scopo e senso la sua vita: sarebbe, cioè, per lui, la morte (esattamente il «morire a sé stessi», ingiunto dallo spirito religioso). Questo è appunto il motivo per cui egli, generalmente (a meno che, appunto, non salga definitivamente al livello della piena religiosità, ossia della «santità») non può vincere quel vizio o quella passione. Non può, perché non vuole, perché non può volere; non può volere essere spoglio di quel vizio o di quella passione, che è la sua vita, precisamente come e perché non può volere essere spoglio della vita. «Vitia nostra, quia amamus, defendimus»34 (Sen., Ep.,116, § 8).

Rimanendo sul piano della vita comune, vincere quel vizio o quella passione radicati si può se mai solo sostituendoli con un altro vizio o passione, come profondamente scorse Spinoza (Eth., IV, Prop. VII). Occorre un’altra passione, affinché questa, come la precedente, occupi e domini l’animo e sia mezzo di vivere la vita senza accorgersi di viverla. La ragione per cui molti moralisti (e anche Zola nel famoso discorso pronunciato nel 1893 al banchetto dell’Associazione generale degli studenti) raccomandano il lavoro come il più efficace stromento di condotta etica e l’unico conforto dell’esistenza, non è altro che questa. Il lavoro diventa la nostra passione o il nostro vizio, che permette di dimenticare o agevolmente reprimere gli altri vizi e le altre passioni e di procedere, inebbriati e rapiti da questa passione che riempie la vita, senza più nemmeno avvertire o star a pensare che si vive. Ma che si tratti d’un vizio, e d’un vizio che ha lo scopo e l’effetto ora detto, bene lo avvertì Tolstoi nella sua critica al citato discorso di Zola. «Mi stupì sempre (egli dice) l’opinione, prevalente soprattutto nell’Europa occidentale, che il lavoro sia una specie di virtù. Secondo me, non solo il lavoro non è una virtù, ma nella nostra male organizzata società esso è spesso un anestetico morale, come il tabacco, il vino ed altri mezzi di narcotizzare il proprio io e accecarlo al disordine e alla vacuità delle nostre vite» (Non-acting, in Essays and Letters, trad. A. Maude, Oxf., p. 107-108).

*** Non c’è più grande sciocchezza di quella che dice Kant, per provare che la forma etica è universale, che cioè anche il peggiore delinquente vorrebbe esser liberato dalle sue passioni (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, III, Ab.). Il delinquente, forse, sì, ma noi no. Dicono che sia stata inventata una pasticca o una polvere che rende nauseante, e perciò impossibile, il fumare ed il bere.

Domandate ora ad un fumatore o ad un bevitore se prenderebbe questa pasticca. La sua risposta sarà: – Ma nemmen per sogno! Io voglio appunto che il fumare o il bere (cioè il mio vizio) mi piaccia. Se avessi la volontà di prendere la pasticca, avrei anche quella di non fumare e non bere. I nostri vizi (scrisse una volta il Lubbock) ci arrecano più male di quelli degli altri. «And yet how we love them! We will give up almost anything else. We let ourselves be reprimented, despised, punished; we will suffer much, lose much, if we can only keep those precious treasures»35 (On peace and Happiness, Tauchnitz, 1909, pag. 118). E Seneca: «Vitia nostra amamus» (Ad Luc., Ep. 116, 8). «Nec minus turpes dedecus suum, quam honestos egregia delectant»36 (De Vita Beata, VIII).

*** Il pensiero come vizio. Se proprio del vizio è anche di essere dannoso, non c’è nulla che sia così vizio come il pensiero. Esso ha anche una seconda caratteristica del vizio: come questo assorbe in sé tutte le energie dello spirito e spegne ogni attrattiva per qualsiasi altra cosa, sicché vediamo chi è posseduto da un vizio, quale il vino, le donne, il giuoco, non poter trovare più nulla al mondo che gli desti un qualche interesse tranne l’atto di quel particolare vizio da cui egli è allucinato, così a lungo andare il pensiero si impadronisce di ogni attività spirituale e rende impossibile il trovare interesse in altro, gli spettacoli naturali, la musica, affezioni, amicizie, amore, la conversazione, qualunque forma di passatempo. Per chi è posseduto dal demone o dal vizio del pensiero tutto ciò diventa scolorito, annoia, anzi dà, con la sensazione irresistibile di sottrarre e di distrarre dall’unica cosa che importa, un’impressione di cenere e di tempo miseramente gettato.

***

Spesso chi è profondamente assorbito in qualche attività intellettuale, lascia che il corpo faccia ciò che vuole, fumi, beva, ami, si abbandoni a questo o a quell’eccesso. Non se ne occupa. È un’altra cosa. Lo sente come un’altra cosa. Io sono l’intelletto, questa mia attività intellettuale. Che cosa faccia il corpo non mi riguarda, non ho voglia di badarvi, non è il caso che sprechi dell’energia per badarvi, per trattenerlo da questa o fargli fare quest’altra azione. Si ha in tali casi la sensazione che lo spirito va da una parte, il corpo dall’altra; e, quasi proprio, che spirito e corpo sono due cose diverse, che il corpo è materia e sta da sé, e che lo spirito è attività intellettuale pura e non ha a che fare col corpo. Si trova psicologicamente esatta la constatazione di Plotino (I, iv, 4), comune, del resto, a molti altri mistici, che cioè l’uomo dà al corpo quanto il corpo domanda senza che ciò intacchi menomamente quella che è la vita propria di esso uomo (οὐδὲν τῆς αὐτοῦ παραιρούμενος ζωῆς). Proprio, dunque, questa situazione, in fondo immoralistica, è quella che riveste d’una qualche verosimiglianza lo spiritualismo.

*** Vizio e idealismo. È curioso notare che se c’è un fatto da cui l’idealismo potrebbe ricavare la sua illustrazione e conferma esso è il vizio. Se si guarda bene, infatti, il vizio è essenzialmente idealistico, e la sua ragion d’essere è unicamente l’idealismo, un’idealistica raffigurazione della realtà. Poiché, come nasce e come si radica il vizio? Per ciò, che si oblitera l’esperienza del disgusto o del danno che ci ha arrecato l’ultimo atto di vizio, p. e. il mal di capo o il disturbo di stomaco che ci ha prodotto l’ultimo sigaro, per fissare unicamente l’idea del piacere, ricavabile dal fatto concettualmente considerato, il piacere che la configurazione mentale del fatto ci dice che in questo deve esserci, il piacere che idealmente c’è. L’essere extramentale si cancella e si volatilizza in elementi di pensiero. All’ empirica constatazione del mal di capo di

ier l’altro si sostituisce l’idea: «ma non è forse proprio l’espressiva incarnazione del piacere, della serenità, della pace, l’immagine di me stesso nell’atto di fumare tranquillamente, in una poltrona a sdraio, una sigaretta dopo l’altra, e di seguire con lo sguardo, le capricciose volute del fumo verso il soffitto?». Alla vile empiria, insomma, si sostituisce il concetto puro.

*** Etica scettica. Cura scrupolosamente la tua salute e il tuo corpo, cercando così di prolungare il più possibile la tua vita, ché potrebbe non esserci altro. Metti in pratica i precetti morali comandati dalla religione, ché la vita corporea potrebbe non essere tutto.

*** La fortuna delle parole. Quella che è sempre la medesima cosa appare spregevole o pregevole secondo le parole con cui la si designa. Per esempio, se si dice: «vogliono il piede di casa», viene facilmente sulle labbra un ghigno di commiserazione e di scherno per un simile «filisteismo» o «borghesismo» egoistico e terra terra. Se si dice: «vogliono la tranquillità della vita e la sicurezza dell’avvenire», si esprime la medesima cosa, ma la si enuncia sotto la veste d’un principio universalmente riconosciuto come sensato, sano, onesto, e che costituisce la legittima aspirazione di tutte le persone assennate. Tanto che vi si può dare anche il paludamento d’una sentenza della saggezza classica. Dicendo, poniamo, che è quell’aspirazione che i latini indicavano con la parola otium, al quale riconoscevano che si dirige il palpito di tutti i cuori («otium divos rogat»…37 Or., Od. II, 16); che è quell’aspirazione che Cicerone formulava così: «Id quod est praestantissimum maximeque optabile omnibus sanis et bonis et beatis, cum dignitate otium»38 (Pro Sestio, XLV, 98).

Rendere la medesima cosa disprezzabile o rispettabile e nobile chiamandola con una parola diversa: questa è la potenza della parola. E perciò chi è padrone delle parole è padrone delle cose. È questo anche un esempio appropriato di ciò che Bacone chiama idola fori.39

*** Quando si vuole annunciare ad altri la morte di taluno, non bisogna mai dire «è morto il tale», bensì «il tale è morto». Nell’attimo che intercorre tra le parole «è morto» e l’enunciazione del nome, nel cervello umano, nel cervello dell’ascoltatore, fa a tempo a vibrare fulminea una costellazione di trepidanze. Fulminea: «chi? mio figlio? mio padre? quale dei miei amici?». In quell’attimo tutta questa raggiera di dolori fa a tempo a balenare. Lo constatiamo chiaramente quando è a noi che l’annuncio d’una morte vien dato e vien dato in quella prima forma. Se si vuol evitare all’interlocutore questa brevissima, sì, ma ansiosa e penosa vibrazione di tremori, bisogna usare nell’annuncio la seconda forma, e cominciare col nome di colui che è morto.

*** Se io, mentre al ristorante aspetto che mi servano, faccio tintinnare lungamente il coltello sul piatto, in quel tintinnio trovo un ritmo che mi soddisfa (tanto è vero che continuo) e che mi aiuta a passare meno noiosamente il tempo durante cui mi tocca attendere la portata. Se fosse il mio vicino a far tintinnare lungamente il coltello sul piatto, quel medesimo tintinnio, quell’identico suono, mi darebbe un fastidio tale da doverlo pregare di smettere o da essere costretto ad andarmene. Questa apparentemente puerile osservazione è di grande portata filosofica, tanto psicologica, quanto morale. È la radice dell’«evidenzismo» di Descartes e di tutti i filosofi dogmatici. La

radice dell’illusione per cui tutto quello che ai nostri occhi appare evidentemente vero, lo erigiamo a vero assoluto e tale fermamente lo riteniamo; e per cui erigiamo a morale assoluta il nostro costume. Quel fatto (che si potrebbe suffragare con un altro, il quale coglie la cosa ancor più alla radice e mena alla stessa conclusione, e cioè che gli odori delle nostre secrezioni non ci sono mai così ributtanti e nauseanti come ci sono gli odori delle stesse secrezioni altrui) quel fatto vuol dire che il pensiero, ovvio, istintivo, quasi invincibile e insopprimibile, è: come può essere fastidioso, come può essere male, ciò che io compio col senso di fare una cosa perfettamente naturale? Come può non essere gradevole, come può non essere giusto, come può non essere vero ciò che io sento tale con perfetta evidenza? Quell’insignificante fatto del mio tintinnio che mi piace e del tintinnio del mio vicino che mi annoia è la radice prima dell’idealismo assoluto, e, contro di esso, fornisce la prova della verità del relativismo.

*** L’intelletto è un prodotto del processo naturale nell’uomo unicamente in servizio della vita, né più né meno delle zanne nell’elefante, degli artigli nel leone, delle ali negli uccelli. O, come direbbe Schopenhauer, in servizio d’una volontà individuale. «Perciò esso è destinato soltanto a conoscere le cose in quanto queste costituiscono i motivi di tale volontà, ma non a perscrutarne il fondo o ad afferrare il loro essere in sé» (W. a. W. u. V., II, c. X) «Esso è destinato al conoscimento dei fini sul cui raggiungimento si fonda la vita individuale e la sua propagazione, ma per nulla affatto a riprodurre l’essere in sé delle cose e del mondo, che è indipendente dall’individuo conoscente. Ciò che è nella pianta la sensibilità per la luce, in seguito alla quale essa cresce nella direzione di questa, è, a seconda della specie, la conoscenza nell’animale, ed anche nell’uomo, pur di grado in grado elevantesi nella misura che i bisogni di questi esseri richiedono. In tutti essi, la percezione permane semplicemente

la conoscenza (Innewerden) delle loro relazioni con le altre cose, e non è affatto destinata a manifestare nella coscienza dell’individuo conoscente l’essere proprio ed assolutamente reale di esse cose» (ib., cap. XXII). Tale essendo lo scopo dell’intelletto, il dirigerlo a voler conoscere l’essere in sé delle cose (come dice Schopenhauer) o, come io preferirei dire, ad escogitare un essere in sé sotto ed oltre le cose fenomeniche e a fantasticarvi attorno – il dirigerlo, insomma, a fare della metafisica – è un pervertimento del tutto pari a quello di usare a scopo di soddisfazione della gola lo stomaco destinato semplicemente a conservare la vita mediante l’assimilazione del nutrimento. Poiché, in una parola, l’intelletto esiste solo per scopi pratici e serve solo a questi, la metafisica è una malattia mentale, come il giuoco, l’alcoolismo, la cocainomania. Essa va presa in considerazione da una futura «medicina delle passioni». Questo era, in tutto e per tutto, il pensiero del Leopardi. «La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale e di cui partecipano gli altri animali, parimenti liberi e per ciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo che è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo» (Pensieri di varia filosofia, I, 427 e s.).

*** Spirito e corpo. La musica accarezza l’orecchio o soddisfa lo spirito? V’è in essa passaggio ininterrotto, senza soluzione di continuità e senza possibilità di discernere, dal primo fatto al secondo, anzi fusione indissolubile e indiscernibile dei due fatti in uno.

*** Spirito e corpo. Quel naso! Quel naso o vanitoso, o prepotente, o sensuale, o acuito a frugare, intrigare, odorare il vento fido od infido! Quel naso corrisponde a una piega del cervello, ha quella forma perché ha una forma correlativa un qualche lobo cerebrale; corrisponde quindi a una fattezza dello spirito. Poiché ha quel naso, egli ha un certo cervello e un certo spirito. Vede le cose in un certo modo e opera in un certo modo necessariamente, perché ha quel naso. Pretendere che pensi od operi diversamente sarebbe pretendere che possa cambiarsi il naso.

*** Spirito e corpo. Il cancro, il tumore, il cardiopalma, l’arteriosclerosi e simili sono (quasi sempre) una massa a lungo persistente di dispiaceri e di crucci che ha fatto come l’Idea di Hegel: si è «esteriorizzata» ed è diventata «natura». Per questo avviene che oggidì i casi dell’uno o dell’altro di quei mali sono così frequenti.

*** Nessun medico può avere una conoscenza delle malattie altrui. Ne ha solo una conoscenza esteriore, anche quando ne coglie sintomi interni. Esteriore, perché il modo con cui si presenta e si svolge il processo del male nel vero interno è sentito solo dal malato. Questi soltanto avverte i veri suoi particolari sintomi del male, i quali, appunto perché sono suoi, particolari, individuali, singoli, non sono comunicabili a parole, ché queste non rendono e non sono capaci di esprimere se non ciò che è generale e comune. Il medico sa di un malato solo quel che è generale e comune, non quel che è suo proprio. Egli è nella condizione di colui che dei corpi non potesse conoscere

che l’estensione, le determinazioni geometriche comuni a tutti i corpi; press’a poco nella condizione di colui che del mio corpo conoscesse solo ciò che a quelle determinazioni geometriche si riduce. L’anatomia, la fisiologia, la «materia medica» sono nozioni esteriori, generali, comuni, quasi come queste determinazioni geometriche, non il vero intimo senso del mio proprio male. Di qui la profonda osservazione di Platone, Rep.408 E, che i medici non sono valenti se essi stessi non soffrono d’ogni specie di malattia e non sono malsani per natura.

*** Dopo. Ciò che ci rovina la vita è l’avverbio dopo. Si vivrebbe relativamente felici se si potesse cancellarlo, non solo dal vocabolario, ma dallo spirito. «Dopo farò…» «Che cosa farò dopo?». Il pensare sempre al dopo, a un continuamente ripresentantesi dopo, l’incessante proiettarsi dal momento attuale in un dopo, nel sempre nuovo dopo (ciò che tutti perpetuamente facciamo, anzi siamo costretti a fare, ogni giorno, anzi ogni minuto) ossia il continuo proiettare la vita fuor del presente, nell’avvenire – non vivere: questo significa dopo. Non vivere per sete di vita. Nel significato di dopo c’è tutto il buddismo e tutto lo schopenhauerismo.

*** Dopo. Ci si alza e si fa toilette colla mente al lavoro a cui si deve recarsi. Ci si mette alle nove al lavoro aspettando l’ora del pranzo e guardando ogni tanto l’orologio per vedere se essa si avvicina. Si pranza col pensiero più o meno esplicito al lavoro a cui bisognerà fra poco ritornare, e spesso si trangugia per la fretta di ritornarvi. Ci si rimette al lavoro pomeridiano e si vagheggia intanto l’ora dell’uscita e poi

della cena; e durante questa ci si prospetta l’attesa del teatro o del letto. Non solo nelle intraprese maggiori della nostra vita, ma nei piccoli e consueti eventi della giornata e di ogni giornata, si vive aspettando il dopo. Ma il dopo di tutti gli altri dopo, il dopo a cui essi mettono necessariamente capo, è la morte. È dunque un continuo propendere verso la morte e affrettare col pensiero e col desiderio la morte.

*** Schopenhauer negli Aforismi descrive l’inapprezzabile elemento di felicità che sta nel possedere, non grandi ricchezze, ma quel tanto che basti a vivere con indipendenza. Ciò dà (dice) «l’emancipazione dalla schiavitù universale del lavoro»; soltanto con ciò un uomo è veramente sui juris, padrone del suo tempo, e può dire ogni mattina: il giorno è mio. E in una specie di indirizzo «piis patris manibus»,40 trovato nel Nachlass, egli ripete lo stesso pensiero: dirige un inno di riconoscenza alla memoria del padre che lo ha lasciato in condizioni tali da aver potuto avere «il libero possesso di sé stesso» e d’aver potuto dire «ad ogni giorno che gli spuntò: il giorno è mio». Padrone del proprio tempo! Quando mai lo si è? Il tempo, se non ci è rubato dal lavoro per vivere, ci è rubato dal lavoro per la scienza, per l’arte, per il pensiero, sicché alla fine d’una giornata dedicata a questo volontario lavoro l’uomo spesso constata di non essersi nemmeno accorto d’aver vissuto. O ci è rubato dal divertimento, che ci attrae, ci rapisce, sicché dopo una giornata dedicata ad esso facciamo la medesima constatazione. Tutto ci ruba il nostro tempo, ci ruba a noi, sottraendoci all’immobilità che sarebbe il solo noi che permane; e fa che noi perdiamo di continuo noi stessi.

*** Il pensiero distrugge l’uomo a suo vantaggio. Quando si vede il pensiero, l’arte, la scienza, che si impadroniscono

dell’uomo sino a farlo morire (il medico che muore per provare su sé stesso l’effetto d’un’iniezione microbica, lo scienziato che perde la vista per esperimentare il radio, ecc.) bisogna concludere che noi siamo in balia di forze sopraindividuali – anzi che esse sole esistono, non noi, e noi siamo solo i loro mezzi o veicoli. Così si dica di ogni altra passione. Si tratta veramente degli Dei greci. E spesso avviene anche che la psiche d’un solo individuo è terreno contestato o campo di battaglia di parecchie di queste forze sopraindividuali o divinità (Atena, Afrodite) in conflitto le une con le altre.

*** La storia, processo dello spirito… È la distruzione dello spirito, di tutte le sue effettuazioni, di tutti i suoi valori: di ogni sua verità, di ogni sua forma d’arte o concetto di bellezza, di ogni suo principio di morale ossia di ogni suo concetto di bene. È la distruzione di sé stessa. Serpente che ingoia tutto e ci ingoia tutti; che polverizza e fa sparire tutto; e la cui ragion d’essere è solo questa distruzione di tutto. Il sepolcro ed il tempo seppelliscono ugualmente sotto una sabbia uniforme la cortigiana e la santa, il martire e il carnefice, il tiranno e la sua vittima. Tutto è indifferente. Vedute le cose con questa latitudine di sguardo, virtù o vizio, santità o brutalità, tutte del pari insignificanti sciocchezzuole umane, si equivalgono; tutto è uguale; tutto è uguagliato nell’annullamento, tutto è ugualmente senza importanza e nullo.

*** Dà un senso veramente di definitivo sconforto il constatare come il progresso sia concatenato strettamente alla distruzione, sia quasi una cosa sola con questa. Ciò non è mai apparso più chiaro che nel momento presente. Le strade, lavorate e curate per tanti secoli, che costarono tanta fatica e danaro, sono oramai del tutto incompatibili con la civiltà automobilistica. E con le strade l’ordine di costruzione

delle case. Bisogna buttar giù tutto, allargare, espropriare, sventrare, costruire autostrade, toglier via gli angoli, le case, i cascinali che impediscono il rettilineo. Buttar giù tutto; far tutto a nuovo in conformità alle esigenze dei nuovi motori… per poi fra poco dover buttar giù tutto un’altra volta per corrispondere alle nuove impellenti esigenze degli altri diversi che fra poco si inventeranno ed entreranno in azione.

*** Chi è colui che, solo, riesce a compiangere adeguatamente chi muore? Soltanto colui medesimo che muore. Per gli altri «muore» è una parola senza rappresentazione viva della cosa, o, tutt’al più, significa un periodo di dolore fisico della persona che muore, dolore, pel quale l’altro, colui che dice di essa «muore», può anche provare compassione. Ma questo è tutto. È solo colui che muore quegli che riesce a sentire a quale fatto di immensa, unica e disperata gravità, perdendo la vita, cioè sé stesso, cioè tutto, egli sia in presenza.

*** Nel potente dramma di Zweig, Jeremias (VIII Bild), quando Gerusalemme sta per essere messa a ferro e a fuoco dai Caldei, a una donna che le aveva chiesto: «vuoi vivere ancora per diventare una concubina degli stranieri?», una fanciulla risponde: «tutto, tutto… solo vivere, solo vivere». E un ferito, quasi moribondo, riecheggia: «Sì, solo vivere, solo sentire ancora tra le dita un grano di sabbia del tempo… Oh, non più godere, essere storpiato, ammutito, ma vedere ancora le divine cose del mondo e attirare l’aria nella bocca. Avere solo la percezione del proprio cuore, sentire come esso batte e come la vena scorre calda nelle mani! Vivere, oh, vivere, solo vivere!». Seneca riferisce (Ad Luc.101, 10-11) questo, che egli chiama «turpissimum votum»41 di Mecenate, il quale, anche come scrittore è

da lui altrove (Ep.114, 4) criticato, perché «oratio eius aeque soluta est quam ipse discinctus»:42 Debilem facito manu, debilem pede coxo, Tuber adstrue gibberum, lubricos quate dentes; Vita dum superest, benest; hanc mihi, vel acuta Si sedeam cruce, sustine43 «Leben, nur leben!». «Vel acuta cruce, sustine mihi vitam!». E di questa che è l’invocazione più spasimante e il bisogno più incoercibile e ardente di tutti; di questa brama spasmodica per aver appagata la quale tutti darebbero tutto, tutti accetterebbero tutto; la costituzione del Creato, l’Essere o Dio, rifiuta implacabilmente a tutti l’adempimento.

*** Perché nasce, dura, cresce tra gli individui (e anche tra i popoli) la discordia? Perché quando è una volta nata non è più possibile o è difficilissimo ritornare in pace? Per la viva coscienza del bene. Cioè, perché non avviene già che uno dei due individui tra i quali è nata la discordia abbia la coscienza di essere nel male e nel torto (in tal caso il ritorno alla pace sarebbe facilissimo); ma avviene che ciascuno dei due è sicuro che egli è nella ragione e nel bene, e l’altro nel torto e nel male. È, vale a dire, perché il bene, la ragione, il giusto è ravvisato dai due con vivissima sicurezza in modo opposto, che non può tornar la pace, nessuno volendo e potendo chiudere gli occhi al bene, alla ragione, al giusto (a quello che egli vede come tale) e rinunciarvi. Proprio dalla viva, irriducibile, tenace coscienza del bene, nasce la discordia, ossia il male. Come pensare a un ordinamento morale o a un reggimento spirituale del mondo?

***

Italia preromana. Etruria, Sannio, Liguria, Gallia Cisalpina, Lazio, Magna Grecia. Guerre, sangue. Finalmente unità italiana; e poco dopo quasi europea e più che europea. Poi sfasciamento. La Spagna, la Francia, l’Africa settentrionale, l’Asia occidentale, si staccano, procedono a parte. Non solo, ma si sfascia anche l’unità italiana: Venezia, Genova, Firenze, Due Sicilie ecc. Condizione preromana o peggio. Lotte, guerre, sangue. Nuova unità d’Italia. Forse, tra poco, europea. E poi? Ibis redibis. Corsi e ricorsi. Un continuo fare, disfare, rifare. – Questa è la storia umana.

*** Appena si mettono inizialmente uniti in comunità politiche, gli uomini cominciano a dissentire e continuano a dissentire sempre più violentemente sulla costituzione, sulla forma, sulla direzione da dare allo Stato. Il dissenso non riesce a stare nella sfera della libertà, cioè del ragionamento, della persuasione, della tolleranza reciproca delle idee contrastanti; e scoppia nella rivoluzione e nella guerra civile. Atene, i Trenta e Trasibulo; Roma, i Gracchi, Silla e Mario, Catilina, i Triumviri, le proscrizioni; i Comuni e le espulsioni dei partiti vinti; il Terrore del 1793 ed altri successivi. Insieme si presenta il necessario urto con gli Stati esteri. Necessario; per patriottismo. Atene deve, per dovere ed eticità patriottica, far la guerra a Sparta; Venezia a Genova; la Germania alla Francia. È questione di patriottismo, di esistenza, dell’adempimento del proprio destino storico. L’urto, la confusione, l’inquietudine, l’incertezza, l’assenza di ogni stabilità esterna ed interna raggiungono il colmo: Grecia dopo Alessandro, Italia dopo Carlo VIII, mondo attuale. Ed ecco sorgere un potere (Roma, la Spagna) che frantuma tutto, diritti, torti, opposizioni, patriottismi particolaristi, rivoluzioni, e tutto adegua e compone in pace sepolcrale sotto di sé. Anche questo è l’eterno cliché della storia.

***

Chi possiede il senso della realtà riguardo alla vita umana resta esterrefatto leggendo quello che scrive Tucidide, II, 53. È il famoso paragrafo dov’egli racconta gli effetti morali della peste d’Atene. Vedendo (dice) le improvvise mutazioni arrecate dalla pestilenza, gente ricca che moriva, poveri che ereditando diventavano improvvisamente ricchi, gli uomini si diedero a tutti i godimenti del momento, avendo l’impressione che tanto gli averi quanto i corpi fossero effimeri, che non valeva la pena di intraprendere alcun onesto lavoro poiché non si poteva sapere se non si morisse prima d’averne realizzato i risultati, che la religione era vana giacché erano colpiti del pari credenti e non credenti, che si poteva violare ogni legge perché tanto si sarebbe morti prima di subire la pena, mentre un’altra pena, quella della morte di peste, sovrastava, avanti di incorrere nella quale l’unica cosa sensata era di godersi la vita. Bisogna proprio essere inguaribilmente ciechi perché ci sia bisogno della peste per accorgersi che la vita umana è effimera; perché non si sappia scorgere che, peste o non peste, la condizione della vita umana è sempre quella da Tucidide in quel paragrafo descritta; perché non si sia capaci di vedere che tale la rende la semplice presenza della morte comune, sempre pressoché altrettanto accidentale e impensata quanto quella che avviene in un contagio; e perché quindi non si capisca che tutte le constatazioni e le conseguenze messe qui in luce da Tucidide sono quelle che valgono, non solo in caso di peste, ma costantemente e regolarmente.

*** Vi è tra i cervelli umani della medesima epoca una distanza e una differenza di secoli. Sotto il medesimo aspetto corporeo d’un uomo del XX secolo, sotto le medesime vesti, col medesimo linguaggio, taluni di questi cervelli sono dell’età della pietra, altri sono forse del XL secolo. Molte tragedie della storia, guerre, conflitti religiosi, dissensi di pensiero filosofico e politico, tutte queste cose che fanno della società umana un complesso così multiforme e diseguale, anzi un

groviglio inestricabile, si spiegano da ciò.

*** Quanto più si procede col pensiero, tanto più si tocca con mano l’assurdo di cose che prima, poiché si erano aperti gli occhi in mezzo ad esse, apparivano naturali e normali. Quando ero bambino mi pareva del tutto ovvio che si dovesse per alcuni mesi, durante l’inverno, gelare, e poi progressivamente passare a soffocare dal caldo per alcuni altri mesi. In questo ritmo avevo aperto gli occhi; veniva atteso come una cosa che va da sé, col senso di aspettazione che non chiede ragioni, come d’un fatto consueto e quindi giusto e quasi piacevole («Oh! ecco l’inverno! oh! ecco l’estate!»). Ora, la cosa mi appare d’una tale mostruosità e d’un tale assurdo da bastar a dimostrare l’inesistenza di qualsiasi Logos o di qualsiasi direzione provvidenziale e divina, e il sorgere e il procedere del mondo in balia del puro caso. Come, se non per puri casi, può essersi costituito così qual è un mondo, in cui gli esseri vivono nell’alternativa continua di tremare di freddo e di soffocare pel caldo? Come, se non per puri casi, la vita può essersi così quale è stentatamente insinuata tra i due opposti estremi di temperatura adattandosi alla bell’e meglio ad essi, ma non in modo da non aver da soffrire e dall’uno e dall’altro? Come, se non per un accidente singolare ed effimero, può essere venuta a prodursi e a reggere la vita, tra questi due estremi di cui pure soffre, quasi cogliendo il momento che essi non erano eccessivi, e sempre pendendo su di essa la sorte di venire del tutto estinta solo per opera del piccolissimo evento dell’aumento o della diminuzione di alcuni gradi di temperatura?

La presenza dell’inverno e dell’estate, il senso di pena che l’uno e l’altro ci dà, l’impressione chiara che ne sorge che il farsi l’uno e l’altro solo un po’ più intensi basterebbe a distruggerci, è veramente sufficiente per farci toccar con mano i nostri ristrettissimi limiti. Ciò stante, è incredibile che menti grandissime, p. e. Platone, non siano riuscite a svincolarsi dall’idea d’un mondo costruito perfettamente o quasi, ottimamente ordinato, e il cui buon ordine sarebbe appunto la prova dell’esistenza di Dio o del Demiurgo, ἄριστος, κάλλιστός τε καὶ τελεώτατος44 (Tim. 92 C). Veramente! Nel mondo invece tutto va, non in perfetto ordine (mentre pure procede in perfetto ordine un meccanismo costruito da noi), ma press’a poco; e noi troviamo il mondo press’a poco ordinato e ci possiamo vivere, unicamente perché siamo nati da esso, siamo stati prodotti dalle sue condizioni: qualunque più caotica situazione essendo ordine per una specie da essa e in essa generata e la cui vita sia stata prodotta appunto da essa. La bellezza della natura! Come non comprendere che quella frastagliata catena montana, quel sinuoso golfo marino, quelle bellezze naturali che tanto ammiriamo e che costituiscono, per i religiosi, una delle prove dell’esistenza di Dio, apparirebbero ad altri occhi, ad occhi di abitanti di altri astri lontani, irregolarità e anomalie mostruose, brutture orrende, come forse a noi la superficie della luna irta di picchi e scogli di ghiaccio, e che ci appaiono belle solo per assuefazione a vederle, solo cioè, ancora, semplicemente perché in esse siamo sorti noi e le specie viventi del nostro globo? Ci apparirebbero belli i fiori se sapessimo vederli come organi genitali delle piante, quali sono? La temperanza delle stagioni! Altra prova della sapienza e bontà a nostro riguardo della Provvidenza! E non era meglio che ci fosse una stagione sola perfettamente e permanentemente adeguata alla sensibilità dei viventi? Ma allora non sarebbero potute crescere le messi! E non si poteva far senza messi, frutta, carni, stomaco, intestino, e il nutrimento dei viventi ottenersi con altri mezzi, p. e. con l’assorbimento dell’aria, come con questo otteniamo l’ossigenazione del sangue? Che bell’ordine! Regno minerale; esso serve al regno vegetale, questo al regno animale, tutti e tre all’uomo. Tutto è

perfettamente sistemato! Non si è capaci, cioè, di cogliere l’assurdo d’un tale preteso ordine, perché il nostro pensiero si è su esso improntato e ad esso abituato, perché già nelle scuole elementari abbiamo imparato «i tre regni della natura». Ma bisogna saper vedere le cose con occhi non consuetudinari, non umani. E allora quale assurdo ci risulta tale «ordine», nel quale la vita, questa cosa sacra, e, come si vuole, divina, anzi espressione diretta di Dio, per reggere e svilupparsi debba aver bisogno, da un lato, proprio di piccole superfici, o strisce, o filamenti d’una speciale materia verde, e di granelli, o simili, le foglie, l’erba, il frumento, e, dall’altro lato, d’esseri con un’apertura munita d’una specie di molino per triturare, la bocca, e di cacciar dentro in un sacco, nel ventricolo, materia triturata! Chi non ha occhio e cervello «umano, troppo umano», vede tosto che ciò non è ordine e costruzione razionale, ma caso. La questione è che chi trova il mondo ordinato, lo trova così perché resta col pensiero vincolato ai dati esistenti, cioè prende senza accorgersene già previamente questi come l’ordine, e poi fornisce la dimostrazione che lo sono. Ma i dati esistenti (stagioni, messi, stomaco ecc.) non sono punto e non devono essere vincolanti di fronte a un’idea di ordine. Questa deve procedere cavando unicamente dalla ragione, e senza essere legata ai dati esistenti, l’immagine d’un universo, il quale, alla ragione che lo potesse costruire interamente a suo beneplacito, risultasse veramente ordinato in modo pienamente soddisfacente. E se si procede così, se ci si mette da questo punto di vista, allora si avverte quale ordine veramente sia quello che domina in questo nostro universo reale.

*** Se noi fossimo privi di qualcuno degli organi di senso che ci sembrano più essenziali, p. e. degli occhi, del senso tattile diffuso e specialmente di quello delle mani, avverrebbe probabilmente che urtan do in oggetti, di cui non avremmo la percezione esterna, e sentendo da ciò dolore, fossimo costretti a venire alla conclusione che questo

dolore deriva da cause interne, cioè da «malattie». Non potrebbe darsi che ciò che noi chiamiamo «malattia» fosse nient’altro che un oggetto esterno che ci lede, che noi non possiamo percepire per difetto d’un organo di senso corrispondente, e la cui azione su di noi quindi, appunto perché non possiamo percepirlo, siamo costretti, come nell’ipotesi precedente, ad attribuire a cause interne, a «malattie»?

*** «Maledetto colui… Che contrista uno spirto immortal!» No. Anzi quando e perché si tratta d’uno spirito mortale. Se è immortale, ciò che gli tocca o gli vien fatto soffrire quaggiù non ha la menoma importanza. Quindi un Dionigi, un Falaride, un Policrate, un Galeazzo, che uccisero, torturarono, imprigionarono, non credendo nell’immortalità, mostrarono d’avere un animo assai più malvagio dell’inquisitore medioevale. Poiché questi sapeva (= credeva) che mandava al rogo dei corpi dai quali lo «spirto immortale» si sottraeva, reso appunto dal rogo più probabilmente atto a passare ad un’immortalità felice; ma coloro, calando per diecine d’anni o per tutta la vita, un uomo nelle Latomie, nelle segrete, negli in-pace, sapevano che privavano della libertà, dell’aria, della luce, della visione della natura, uno spirito che è mortale; ossia sapevano di privarlo di tutto ciò per la massima parte di quella che era per esso la sola vita, per la massima parte del già brevissimo tempo in cui esso di tutto ciò poteva godere.

*** Prendiamo la storia di Venezia, nella fase della sua decadenza. Le ragioni di questa – impossibilità che il ceto governante si risanguasse con nuovi elementi, esclusione dalla vita pubblica delle famiglie di

terraferma, neutralità disarmata ecc. – erano enunciate. I rimedi erano indicati. Scipione Maffei aveva scritto un Suggerimento per la preservazione della Repubblica. Angelo Querini, Giorgio Pisani, Carlo Contarini ed altri, avevano formulate riforme. Noi, che consideriamo quell’epoca a distanza di tempo e post factum, scorgiamo chiarissimamente e in modo non dubbio che quelli erano i mali, questi i rimedi. Ma tutti coloro che, presenti allora, denunciarono quelli e proposero questi, rimasero inascoltati o furono perseguitati. E quindi Venezia proseguì a scorrere passivamente lungo la china del decadimento fino alla sua fatale definitiva caduta. Del pari, i moniti che, con così nobili accenti, Fénelon diresse a Luigi XIV, indirettamente in Télémaque e direttamente con la sua elevatissima Lettre à Louis XIV, non ebbero altro frutto che di farlo cadere in disgrazia, e la situazione che nell’ultimo decennio del secolo XVIII produsse il crollo continuò implacabilmente e incorreggibilmente a maturarsi. Le catastrofi finali che prima o poi colpiscono tutti gli Stati e che derivano sempre da mali in tempo denunciati e dalla mancata applicazione ad essi di rimedi in tempo proposti, provano che avevano sempre ragione quelli che non venivano ascoltati, e solo essi e precisamente essi; quelli che ammonivano indicando i fatti che non avrebbero potuto a meno di produrre la catastrofe e la necessità di eliminarli – non quelli che approvavano, lodavano, applaudivano, incielavano tutto. Sempre, in tutte le epoche, in tutti gli Stati, accanto alla letteratura politica officiale, che tutto loda, approva, sostiene, troviamo questa degli inascoltati; e se ogni Stato cade, e cade precisamente per le deficienze e le colpe indicate dagli inascoltati e per la trascuranza dei rimedi da essi suggeriti, ciò vuol dire che l’immancabile futuro, cioè appunto siffatta caduta che prima o poi colpisce tutti gli Stati, dimostra che erano soltanto gli inascoltati quelli che avevano ragione. E dimostra altresì che la ragione, sempre inascoltata, travolta, battuta, confutata, non ha alcuna influenza sul corso della storia umana.

*** Il «caso Galba». Racconta Epitteto (Diatr. III, xv, 14) che quando Galba fu assassinato, qualcuno disse a Musonio Rufo: «si sostenga ora che l’universo è governato dalla provvidenza»; e che Rufo rispose: «non mi sono mai fondato su Galba per sostenere che la provvidenza governi l’universo». Ma su che cosa d’altro mai si poteva e si può fondarsi? Non, si capisce, su di un solo Galba, ma su più Galba, su di una serie di Galba. Cioè: la prova che l’universo e la storia umana siano guidati dalla provvidenza non potrebbe evidentemente aversi se non qualora si vedessero i popoli e specialmente l’umanità unificata (come era allora) governati e retti da persone oneste, assennate, sapienti, che li dirigessero costantemente verso una sistemazione sempre più sana e buona, capace di assicurare una convivenza relativamente felice. Ma se dopo anni dacché il mondo era stato in mano di imperatori pazzi e criminali, venuto finalmente un uomo onesto al suo timone, questi è dopo brevissimo tempo sgozzato e il mondo riprecipita in potere dei ribaldi, come dar torto a colui che, in presenza d’un simile fatto, domandava: νῦν προνοίᾳ ὁ κόσμος διοικεῖται;45 Qual prova più sicura, cioè, che tutto va a caso, che nessuna razionalità governa il corso della storia umana? E ciò tanto più in quanto, ben lungi che si vegga una serie di Galba o di Antonini essere costantemente alla direzione delle cose umane, il contrario è vero: è vero, cioè, che quasi tutta la storia è essenzialmente costituita da «casi Galba», ossia dal fallire e precipitare dell’uomo di Stato o del politico onesto e retto a beneficio dei Vitelli, degli Ottoni, dei malvagi che lo sostituiscono trionfalmente. Questo, che accadde allora, accadde poi, accade sempre; ed ogni volta che torna ad accadere il sentimento immediato dell’uomo che vi assiste è sempre il medesimo, cioè che, davanti a tali fatti, bisogna concludere che non v’è direzione razionale o divina nel mondo. Così la sconfitta di Pompeo a Farsaglia, strappava a Lucano l’esclamazione: «sunt nobis nulla profecto numina: cum caeco

rapiantur saecula casu, mentimur regnare Iovem… mortalia nulli sunt curata deo»46 (VII, 445 e s., 4545). E come Lucano al suo tempo, così al suo Dante, e per la medesima ragione, cioè vedendo le cose politiche e sociali andare a rovescio, si chiedeva (Purg. VI, 118): E, se licito m’è, o sommo Giove, Che fosti in terra per noi crocifisso, Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? Questo, che chiedeva Lucano, che chiedeva l’interlocutore di Musonio, che un millennio dopo chiedeva Dante, ripete pressoché ogni generazione. Che vuol dire se non che l’amara negativa interrogazione: νῦν προνοίᾳ ὁ κόσμος διοικεῖται; è pienamente giustificata? Ed oggi anzi, come al tempo in cui si riferisce l’aneddoto di Epitteto, siamo in un’epoca in cui più che mai chi ha occhi per vedere scorge veramente se la Ragione, il Logos, il Bene o Giove ottimo massimo, governi le cose umane, ovvero se tutto sia in balia del caso più cieco. Come l’interlocutore di Rufo, e anzi con maggior fondamento, è pienamente legittimo quindi che noi, uomini di oggi, formuliamo il dubbio o la negazione contenuta in quella domanda. Ma l’atteggiamento mentale di coloro che, non ostante le brutali e continue smentite dei fatti, conservano una credenza tenace che la Ragione, il Logos, o Dio guidi l’universo, è veramente curioso. La loro fede è ostinata. Ad ogni fatto che la contraddice essi dicono: «ma aspettiamo, pazientiamo; verrà certo il momento in cui il Logos mostrerà di essere al timone, e tutto ciò che ora sembra confutarlo sarà tolto di mezzo e troverà condanna e punizione». Aspettano dei secoli; finalmente, poiché tutto trapassa e cade, cade anche quell’ingiustizia, quella iniquità, quell’assurdo che veniva ai credenti del Logos opposto come la negazione di questo; Roma di cui, come della mala bestia, lo scrittore dell’Apocalisse esigeva e proclamava e preannunciava, in nome del Logos e della morale, la fine, cade, sì, ma cinquecent’anni dopo. Allora, i sostenitori del Logos dicono: «avete visto?». E

trionfano. Cioè, perché, dopo secoli nei quali l’umanità o una frazione di questa vive sotto l’oppressione, l’iniquità, l’ingiustizia, questa infine cade, come tutto cade al mondo; per questo baleno in cui un’ingiustizia durata trionfalmente per secoli alfine perisce, forse di vecchiezza e di morte naturale (e, del resto, sempre per dar origine a nuove ingiustizie e iniquità) i credenti nel Logos reggitore del mondo, s’illudono che la loro credenza sia vera. È proprio come se, vedendo l’iniquo, il malvagio, il prepotente trionfare, si dicesse: «non accoratevi: morirà». E quando egli muore (poiché tutti moriamo) carico d’anni e trionfatore sino in fondo, si esclamasse: «avete visto! lo dicevo io che il suo trionfo sarebbe stato effimero e che egli sarebbe morto».

*** Ciò che è significante in Guicciardini è che egli vede il male che conviene fare e lo fa; ma lo fa con profonda amarezza interiore, con un senso di dolorosa ironia su sé e sul mondo, con un’imprecazione contro l’ambiente che determina o sospinge a farlo. L’uomo di animo meschino e malvagio prende le parole di Guicciardini come precetti per ciò che egli deve fare, e l’«uomo» di Guicciardini come modello per la propria condotta. All’uomo di animo retto e nobile le parole di Guicciardini suonano invece come monito che occorre mutare un ambiente ed un mondo, i quali, poiché in quel mondo e in quell’ambiente è utile o necessario fare il male, sospingono o determinano a farlo.

*** Anestizzazione. Non crediate che l’anestizzazione sopprima il dolore. Si sente tutto. Essa produce una coscienza torbida e ubbriaca, la quale avverte per conto suo perfettamente il dolore, che poi la coscienza sveglia semplicemente non ricorda più. I chirurghi di Grecia e Roma antiche

non anestizzavano forse anch’essi, appunto ubbriacando? Ma credete forse che l’uomo il quale in istato di totale ubbriachezza ha avuto sensazioni disgustose o dolorose, e che, cessata l’ubbriachezza, dichiara di non aver nulla provato – cioè non ricorda più – credete che egli quelle sensazioni dolorose o disgustose non le abbia sentite, che esse non siano esistite per la sua coscienza d’allora? Credere che l’anestizzazione tolga il dolore è come credere che l’ubbriaco il quale cadendo ha percosso la fronte e ha strillato per la fitta del male, ma che il giorno dopo non sa più nulla nemmeno della sua caduta, quella fitta del male, che lo fece strillare, non l’abbia avvertita, perché ora afferma di non aver sentito nulla; o è come credere che se da bambini siamo precipitati da un albero e ci siamo lussati un piede, quel dolore non l’abbiamo allora sentito, perché ora non lo ricordiamo più, cioè perché non esiste nella nostra coscienza di ora.

*** Profetismo. I fatti che avverranno ci sono già adesso, nell’avvenire; si tratta solo di poterli vedere. Come Parigi, sebbene non percepita in questo momento da me, c’è, esiste, è solo lontana nello spazio, e questo spazio è = tempo, il tempo che occorre ad andarvi; così, data la interpermeabilità e l’interpermutabilità einsteiniana di tempo e spazio, i fatti avvenire ci sono già ora, sebbene lontani da noi di quel tempo che è = spazio, come lo spazio che mi distanzia da Parigi è = tempo. Se io avessi una vista prodigiosamente acuta potrei vedere Parigi di qui, cioè superare lo spazio-tempo. Così chi avesse una vista altrettanto prodigiosamente acuta vedrebbe i fatti avvenire, perché questi sono già là e per vederli fin d’ora si tratta solo di superare il tempo-spazio che ci separa da essi: e forse, con qualche nuova macchina, ci si arriverà. Perciò le disgrazie che ci coglieranno nell’avvenire, sono là, ci sono già. Ci sono già come c’è già lo scoglio contro cui darà di cozzo la nave, ma che ora è tuttavia fuori del suo orizzonte e quindi

apparentemente non c’è ma ci sarà. Non è già che quelle disgrazie si possano o no casualmente formare nell’atto che avanziamo; esse sono là, già esistenti, che ci aspettano, come lo scoglio aspetta la nave; e, come la nave avanza verso lo scoglio che c’è già, così noi moviamo verso la loro già attuale presenza ed esistenza.

*** La fine del mondo. I filosofi radicalmente pessimisti, come Schopenhauer e Hartmann, auspicano la fine del Male, e quindi dell’universo e dell’Essere in cui esso domina, mediante l’estinzione della Volontà di vivere spontaneamente deliberata dagli uomini dietro l’esperienza definitiva che solo così il Male può essere vinto. Estinguere, distruggere volontariamente il mondo! Quale immane sciocchezza, quale impossibile cosa, secondo l’uomo «pratico»! Eppure è forse l’uomo pratico che opererà, sebbene per altra via, il risultato voluto da Schopenhauer e Hartmann. Il risultato si opererà, non, come questi pensavano, per effetto della pietà che il Male e il Dolore incombenti sull’universo inspirano; ma si opererà probabilmente per effetto dell’odio dell’uomo contro l’uomo. Quando l’uomo «pratico» progredendo incessantemente nelle sue invenzioni di istrumenti micidiali dirette a massacrare su sempre più larga scala i suoi fratelli, avrà scoperto (e ci arriverà) il mezzo per far esplodere tutto il tratto di crosta terrestre dove abita il popolo nemico, e infine quello di far saltare in aria l’intero pianeta, la tentazione sarà irresistibile: alla prima guerra mondiale, vi sarà il popolo che, piuttosto che esser vinto, lo farà, come Sansone, saltare. E così «il mal seme d’Adamo» perirà, come merita, d’un sol tratto totalmente per opera dei suoi stessi odi reciproci.

*** Ad un accadimento di natura che ci cagiona rovina o morte

(grandine, incendio, inondazione, terremoto) si può ancora rassegnarsi. Si è di fronte ad un fatto generato da una forza cieca e ciecamente casuale, che non comprende, non sente, non vede, nella quale non ci sono elementi di ragione o sensibilità a cui fare appello, e in cospetto della quale non resta se non la rassegnazione che davanti ai fatti bruti scorgiamo come l’unica cosa possibile. Ma non così quando danni, rovine, morte ci vengono da contingenze od azioni di carattere politico o sociale. Qui non è più la natura cieca, è l’uomo che ce le procura. È vero che l’uomo il quale esercita in tal campo un’azione sconvolgitrice è spesso da considerarsi appunto quale una forza naturale che semina ciecamente intorno a sé rovine e stragi, ossia, come dei «saevi principes»47 dice Ceriale presso Tacito (Hist. IV, 74), «quomodo sterilitatem aut nimios imbres et cetera naturae mala».48 Ma pure, poiché si tratta qui d’una ragione, che dovrebbe capire, d’una coscienza, che dovrebbe sentire, di un’anima umana, che dovrebbe possedere sentimenti d’umanità, non ci sappiamo rassegnare, come nel primo caso. Forse che la forza che è qui in azione – l’uomo – non può, non deve, vedere che cosa fa, avvertire il male che cagiona? E questo fatto che egli può e deve veder ciò, e non ostante ci arreca il male, è quello che ci rende la rassegnazione impossibile, e lo sdegno e la protesta insopprimibili.

*** Psicologia della schiavitù. È interessante vedere dagli antichi ai contemporanei approfondirsi l’analisi psicologica della schiavitù e campeggiare, in tale approfondimento, sempre più nettamente il concetto che vi può essere schiavitù del corpo senza schiavitù dello spirito e che vera schiavitù si ha solo quando è il secondo che alla schiavitù si arrende. Sofocle esprime questo concetto ancora elementarmente così:

εἰ σῶμα δοῦλον, ἀλλ᾽ ὁ νοῦς ἐλεύθερος49

(fr. 854) Seneca lo enuncia in forma più particolareggiata: «Errat, si quis existimat servitutem in totum hominem descendere. Pars melior eius excepta est: corpora obnoxia sunt et adscripta dominis, mens quidem sui iuris»50 (De Benef. III, XX, 1). Fra i moderni in modo più impressivo e penetrante lo enuncia Grillparzer: Es binden Sklavenfesseln nur die Hände, Der Sinn, er macht den Freien und den Knecht51 (SAPPHO, II, IV) Ma è nel dramma, veramente d’alto pensiero, Jeremias, di St. Zweig, che questo medesimo concetto assume un’espressione particolarmente profonda. Uno degli Ebrei che stanno per essere trasportati in schiavitù nella Caldea, a Geremia, che li conforta, chiede: «ma rivedremo noi ancora Gerusalemme?». E Geremia risponde: Ewig wird inwendig es schauen Wes Seele nicht Knecht seiner Kneschaft ist (IX BILD) Lo schiavo, cioè, può aderire interiormente alla sua schiavitù, accettarla nell’intimo, e, più, trovarla buona, ammirarla, gloriarsene, compiacersene, amarla. Questo è ciò che costituisce l’allontanamento da Gerusalemme, l’irreparabile rovina spirituale prodotta dalla schiavitù, e che avvera quanto dice Omero, che cioè Zeus toglie all’uomo metà della sua virtù quando il giorno della schiavitù lo afferra:

ἥμισυ γάρ τ᾽ ἀρετῆς ἀποαίνυται εὐρύοπα Ζεὺς ἀνέρος, εὖτ᾽ ἄν μιν κατὰ δούλιον ἦμαρ ἕλῃσιν

(Od. XVII, 322) Ma (vuol dire Zweig), lo schiavo può anche, pur non possedendo la forza per liberarsi esternamente dalla schiavitù, non accoglierla interiormente, non acquiescervi, respingerla e rinnegarla dentro di sé, nel suo intimo non transigere con essa, condannarla, e ribellarvisi. A costui, anche schiavo esternamente, la Gerusalemme celeste continua a risplendere nel cuore, perché, con le parole di Zweig, «la contempla in eterno interiormente colui la cui anima non si fa schiava della sua schiavitù».

*** Il mio «credo quia absurdum».52 Si sente spesso qualcuno, di fronte a questa o quella delle costituzioni o legislazioni o singole disposizioni legislative, che si vanno ora qua o là attuando nei vari paesi, esclamare: «È impossibile che perduri. Implica un assurdo troppo grande e palmare. Urta la logica, la ragione, la morale. Non può certo prendere radici». È questo l’errore tipico dei razionalisti. Quello cioè di credere che perché alcunché urta contro la ragione (in senso lato: dalla logica all’etica) perciò non possa reggere o resistere. Costoro che cadono in questo errore sono hegeliani anche senza saperlo: credono che possa affermarsi nella realtà solo ciò che è razionale. Ma è un errore; errore enorme, da cui lo spettacolo, al riguardo d’un’evidenza meridiana, che il mondo oggi ci offre, dovrebbe bastare a guarirli. Che influenza ha mai la circostanza che alcunché sia illogico, assurdo, immorale sulla sua possibilità di radicarsi e perdurare? Che ragione d’impossibilità a resistere e perpetuarsi offre mai il fatto che alcunché sia in contrasto con la ragione, con l’etica, col buon senso? La risposta che gli eventi del mondo odierno danno, è: nessuna. La sentenza che essi pronunciano è nettamente antihegeliana: ciò che è irrazionale diventa benissimo reale. Perciò, quando sento ripetere: «è impossibile che questo o

quest’altra pratica o sistemazione duri, è troppo illogica, troppo assurda», la mia risposta è: «credo quia absurdum». O meglio, la mia risposta è, piuttosto che queste parole inesattamente attribuite a Tertulliano, quelle che sono veramente le sue, e che calzano a capello col tempo nostro: «non pudet, quia pudendum est; prorsus credibile est, quia ineptum est; certum est, quia impossibile»53 (De Carne Christi, 5).

*** Perché si può dire senza contraddizione tanto che la realtà è razionale, quanto che è irrazionale, tanto che reale è solamente ciò che può essere afferrato dal pensiero, ossia che quadra con la ragione, quanto che il reale è assurdo? Per questo, che tutto dipende dal senso che si dà alle parole «ragione», «razionalità». Se si prendono nel senso di mera, astratta e possibile conoscibilità, e questa nel senso di semplice attitudine di un fatto od un oggetto a entrare nelle categorie (cioè ad esser visto nel tempo e nello spazio, come causa ed effetto, ecc.), tutta la realtà è conoscibile e razionale. Se si prendono nel senso di comprensione intima e di giustificazione di fronte alle esigenze valutative della ragione (effettuazione, conservazione, permanenza e riconoscimento dei valori di ordine, di disposizione armonica e con piena opportunità inserviente ad un fine, di giustizia, di bontà), tutta la realtà è incomprensibile e irrazionale. – L’equivoco del razionalismo idealista poggia sulla voluta confusione di questi due sensi. La realtà è razionale nel senso che non vi sono in essa cose per essenza e radicalmente incomprensibili, quando questa parola significhi sfuggenti alle categorie, soprasensibili, soprannaturali. O come si può questo dire altrimenti? Ebbene, così. Non c’è miracolo, non esiste il prodigio: cose che si operino fuori e contro le leggi della natura; l’essenzialmente misterioso, l’occulto per indole nativa – un Dio che si fa uomo, le disgrazie causate dal sale rovesciato o dalla mummia scoperchiata, i sortilegi, l’esistenza metempirica di uno

Spirito sia sostanza, sia atto. Questo è quel che significa in un senso la proposizione che la realtà è razionale, afferrabile dal pensiero (e perciò percepibile). Ma la realtà è irrazionale in quest’altro senso. Tutto quadra con la conoscibilità, nulla con la razionalità, quando con ciò s’intenda: nulla è conforme a quel che la razionalità esigerebbe. Tutto si può conoscere. Nulla si può trovare dal punto di vista razionale congruo e degno d’approvazione. Nulla richiama l’idea d’una costruzione, di un’opera, d’una direzione razionale. Nulla è come la ragione scorge che dovrebbe essere. Nulla realizza i «valori» veri, sicuri, eterni, inconcussi, che per la razionalità la ragione richiede. Tutto si può conoscere, nulla si può capire. (E ciò è in piena conformità col pensiero di Kant, il quale nella Kritik der Urteilskraft§ 75, dice in sostanza che mediante le categorie – la legge di causalità – conosciamo tutto, ossia scorgiamo come tutto avviene, e non capiamo nulla, cioè non possiamo renderci conto di nulla). Ossia: l’insieme di cose, pur percepibili, comprensibili, conoscibili, che formano la realtà, questo tutto che è e che, poiché è, può essere visto, toccato, conosciuto, è un insieme o un corso di eventi, un complesso di leggi (di cui il fatto o l’individuo singolo è la stanchevolmente e inutilmente ripetuta e perpetua esemplificazione) che non ha nessun significato, nessuno scopo, nessuna meta, e che quindi nella sua stessa regolarità conoscibile è l’espressione dell’assurdo.

*** La sapienza antica e moderna, così del filosofo come dell’uomo d’esperienza pratica, concordemente ammonisce di non angosciarsi per i mali futuri, posto che non si sa con assoluta sicurezza se accadranno o no. Perché lasciarsi andare a preoccuparsene e a soffrirne? Possono non avverarsi. E allora hai sofferto invano. Perché voler essere «ante miserias miser»,54 come esprime efficacemente questo ammonimento Seneca? (Ep. 98, § 6). Il quale assai spesso vi torna ad insistere. Non è un palese assurdo «mala accersere»,

«praesens tempus futuri metu perdere», «quia quandoque sis futurus miser, esse iam miserum»?55 (Ep.24, § 1). Che demenza è questa, «malum suum antecedere»?56 (Ep. 98, § 7). «Quid iuvat dolori suo occurrere?»57 (Ep. 13, § 10). «Quid dementius quam angi futuris, nec se tormento reservare, sed arcessere sibi miserias?»58 (Ep.74, § 33). La stessa raccomandazione fa Euripide: μὴ πρόμαντις ἀλγέων προλάμβαν᾽, ὦ φίλα, γόους59 (Elena, 339). Il medesimo monito impartisce l’Imitazione di Cristo: «Quid importat sollicitudo de futuris contingentibus, nisi ut tristitiam super tristitiam habeas? Vanum est de futuris conturbari vel gratulari, quae forte numquam evenient»60 (III, XXX, 2; e v. anche III, XXXIX, 2). E il Guicciardini, nella Storia d’Italia (Lib. 16), parlando di Clemente VII, dice che questi non sapeva, «per la memoria di avere molte volte vanamente temuto», prendere «esperienza di non si lasciar soprafare al timore», e nei Ricordi (59) racconta che a quel papa, il quale «si spaventava d’ogni pericolo» egli aveva detto «che buona medicina a non temere così di leggieri era ricordarsi di quante cose simili aveva temuto invano». Nonostante, però, l’assennatezza e la verità palmare di queste esortazioni, si continua a trepidare e angustiarsi per la prospettiva di mali futuri, e forse tanto più è esposto all’ansia e alla sofferenza di tale specie uno spirito quanto più è alacre, intelligente, riflessivo, atto a spingere lo sguardo innanzi. Perché? Se si fa un’attenta introspezione si scorge che la ragione fondamentale ne è questa: che si ha fastidio sopratutto ad essere gonzi, che disturba particolarmente il pensiero di rimanere giuocati. Non si vuole rimanere giuocati dal destino, o, in altre parole, venir fatti dupes dall’Essere o Dio. Non si vuole, cioè, far la parte del credenzone, che una storiella ben architettata raccontatagli da un uomo dall’apparenza onesta, induce tosto a fidarsi, e che resta così ingannato e truffato. Non si vuole rivestire l’aspetto del semplicione, il quale nutre sempre fiducia che tutto corra liscio, e, giacché ciò non accade, resta poi a bocca aperta, sconcertato e dolente, ed esposto alle risa per la sua dabbenaggine. Abbandonarsi banalmente a credere che questa volta la disgrazia non capiterà, è un esporsi a fare, se poi capita,

almeno ai propri stessi occhi, la figura del minchione. E questa figura è specialmente quella che, anche solo davanti a sé stessi, secca di fare. Non si vuole, essendosi questa volta fidati a riposare nella previsione d’un esito buono, rimanere poi gabbati e delusi. Non si vuole aver poi da dire: «ma guarda! proprio questa volta che avevo allentato la mia trepidanza, il mio timore, il mio sospetto, e mi ero lasciato andare a sperar bene, mi capita un tale disinganno!». È la delusione che non si vuole: perché cadere, poi, nella delusione, significa essersi lasciati, prima, turlupinare, e questo è ciò che cuoce ancor più che l’evento doloroso in sé; quindi, piuttosto della delusione e per evitare la delusione, si accetta di prospettarsi un avvenire di mali, e di preoccuparsi e soffrire per mali avvenire, che pure forse non verranno. Ciò che non si vuole è mostrarsi così inesperti e «provinciali» da farsi prendere in giro dal destino o Essere o Dio, credendo questa volta alle sue apparenze inoffensive o benefiche e lasciandosi da esse ingannare, diventando così suo zimbello. Per questo si prova timore ed angoscia per l’avvenire e si vuole provarli; si vuole, cioè, tener svegli in sé questo timore e questa angoscia, anche se tendono a lasciarsi cullare ed assopire dalla fiducia. Perché, vale a dire, ciò significa possedere, al contrario, accortezza, prudenza, diffidenza, saper stare in guardia, attestare che si conoscono e si sanno prevedere i tranelli, le insidie, i casi impensati, le catastrofi improvvise che opera il destino o Essere o Dio; e mantenere verso di questo la sospettosa circospezione che, chi non è un allocco, conserva verso le persone che si sono esperimentate infide e fedifraghe e di cui sarebbe quindi buaggine questa volta fidarsi. O in una parola: si sta in apprensione dell’avvenire (ed anzi quindi non si crede fiduciosamente nemmeno in una buona fortuna che sia capitata) per ambizione intellettuale: perché si vuol risultare a sé stessi cauti, accorti, perspicaci, uomini che non rimangono facilmente nella pania. E pare anzi quasi che il rappresentarsi la possibilità d’un male futuro e il preoccuparsene, sia una maniera di stornarlo. Appunto perché le disgrazie arrivano per lo più improvvisamente e loro caratteristica è il cogliere all’impensata, così spesso appare che lo sforzarsi di prevederle e di anticiparle, il cercar a

tal uopo di prospettarsi ogni disgrazia futura possibile, sia un mezzo per tenerle lontane e renderle impossibili. Posso restar schiacciato da un automobile quando non l’ho previsto. Ma se, uscendo alla mattina, mi dico: «può darsi che tu resti sotto un automobile», pare meno verosimile che tale disgrazia (la quale necessiterebbe la combinazione del fatto con la mia previsione) mi accada, e, se mai, più verosimile che me ne accada un’altra, che non ho previsto, non quella. Se io, salendo su di un treno, penso: «accadrà certo uno scontro», come è verosimile che avvenga la coincidenza del mio pensiero dello scontro e dello scontro effettivo? Il calcolo delle probabilità ci insegna che è assai più probabile che due eventi qualsiasi, come ad es. il tre e il cinque segnati sulle facce di due dadi, si presentino ciascuno da sé che non insieme. Sarà dunque assai più probabile che lo scontro avvenga non accompagnato dal mio previo pensiero di esso, e il mio pensiero dello scontro non accompagnato dallo scontro reale; che, insomma, lo scontro avvenga quando non ci ho pensato neppure e il mio pensiero dello scontro ci sia quando lo scontro non avviene. La mia previsione dello scontro rende quindi lo scontro meno probabile. Il mio prevedere mali futuri, il mio impensierirmi di essi, diminuisce dunque la probabilità del loro accadimento. Ma è essenzialmente proprio perché non si abbia a diventare zimbello del destino e fare così la parte dell’ingenuo il quale si lascia agevolmente raggirare, che anche chi raccomanda di non «angi futuris», dà assai spesso la raccomandazione contraria, quella cioè d’aver sempre presente la possibilità d’ogni male avvenire. «Id agendum est, ne quid nobis inopinatum sit… Cogitatio adsidua praestabit, ut nulli sis malo tiro»61 (Ep.107, § 4). «Praecogitati mali mollis ictus venit… Sapiens adsuescit futuris malis… levia facit diu cogitando… Sapiens scit omnia sibi restare. Quidquid factum est dicit: sciebam»62 (Ep.76, § 34-35). «Quidquid expectatum est diu levius accedit»63 (Ep. 78, § 29). «Inexpectata plus adgravant; novitas adicit calamitatibus pondus… Ideo nihil nobis improvisum esse debet. In omnia praemittendus est animus cogitandumque non quidquid solet, sed quidquid potest fieri… Cogitanda sunt omnia et animus adversus

ea quae possunt evenire firmandus… Nec quantum frequenter evenit, sed quantum plurimum potest evenire, praesumamus animo, si nolumus opprimi nec illis inusitatis velut novis obstupefieri»64 (Ep.91, § 3-8). «Quidquid fieri potest, quasi futurum cogitemus»65 (Ep.24, § 15). «Quicquid fieri potest quasi futurum prospiciendo malorum omnium impetus molliet»66 (De Tranq. An., XI, § 6). E bisogna saper vedere innanzi i dardi della fortuna «non tamquam possent venire, sed tamquam utique essent ventura»67 (Ep.99, § 32). Che la ragione essenziale per cui si lascia incombere su di sé il pensiero di possibili mali futuri sia quella appunto che non si vuole essere colti in flagrante di grulleria; che non si vuole cioè essere «malo tiro», vale a dire scolaretti principianti di fronte alle disgrazie; che non si vuole «opprimi» e «stupefieri», ossia restare inebetiti «illis inusitatis et novis», vale a dire prendere, come il «villicus» oraziano, quali cose che accadono per la prima volta, e che quindi era impossibile che accadessero, quelle che non sono del tutto comuni; che si vuole, al contrario, mostrarsi accorto, capace di capire e indovinare, penetrante, «sapiens» – che tale sia la ragione fondamentale per cui ci si lascia assillare dal pensiero di eventuali disgrazie avvenire, era cosa che (a costo di cadere in palese contraddizione con l’altro suo consiglio di non «angi futuris») non poteva sfuggire alla finezza psicologica di Seneca.

*** La maggior parte degli uomini alla mia età erano già morti. Sembra, adunque, che si possa dire che per essi la vita, a questa età, era finita. Ma, se io morissi ora, sentirei, non già che la mia vita è finita, ma che è interrotta; cioè rotta, infranta, spezzata; – che è stato tagliato il filo, il quale potrebbe e dovrebbe ancora continuare a svolgersi. Se, dunque, morendo a questa età, si ha tale sensazione, e se a questa età la maggior parte degli uomini è già morta, vuol dire che per la maggior parte degli uomini la vita è, non finita, ma troncata, spezzata, mutilata.

Senonché, probabilmente, a qualunque età si muoia si ha sempre la medesima sensazione: d’un corso, non già finito e completato, ma arrestato e rotto, d’un filo che, pur potendo e dovendo continuar a sgomitolarsi, è stato tagliato. Dunque, non solo per la maggior parte degli uomini, ma per tutti, la vita è, non finita, ma rotta e spezzata.

*** Non v’è già qualcosa che sia specificatamente peccato. Tutto è peccato. Ogni desiderio, ogni aspirazione, ogni sospiro, ogni respiro. Tutto ciò ha insito in sé il peccato, perché è brama per alcunché, e la brama è per sua essenza sempre crescente, insaziabile, quindi peccaminosa. È il fatto stesso del desiderare o volere alcunché che è potenzialmente peccaminoso. Ma questa è la vita; la vita non può esistere senza desiderio, la vita è desiderio. Noi siamo dunque nel peccato già pel fatto del vivere (che implica, del resto, il mangiare e quindi l’uccidere). È inutile preoccuparsi dei cosiddetti specificatamente «peccati», dal momento che già nel fatto di vivere siamo necessariamente nel peccato. E poiché è l’Essere, il Tutto o Dio che ci ha dato la vita, ossia il peccato, così peccando eseguiamo la sua volontà, siamo ciò che Egli ha voluto che fossimo. Si ricordino le profonde parole con cui Euripide nell’Ippolito fa che la nutrice persuada Fedra che non ha ragione di inorridire del suo amore: χρῆν σὲ πατέρα φυτεύειν ἐπὶ δεσπόταις ϑεοῖς ἄλλοισιν, εἰ μὴ τούσδε γε στέργεις νόμους68 (459 e s.). L’Essere; questo è ciò che senz’altro e per sé stesso è il male e il delitto. Esso non può reggersi se non mediante l’uccisione, la distruzione, l’incorporazione di altro Essere, cioè di altri esseri (il nutrirsi, il crescere). Giusto è perciò morire. La morte è la giusta e meritata pena inflitta a quel delitto che è l’essere – e nell’istesso tempo l’uscita da esso, cioè la liberazione e la purgazione da esso. Il vero e unico Σωτήρ,69 la vera e unica Σωτηρία.70

*** Noi vediamo nella natura che la vita si regge sulla reciproca distruzione; le specie viventi non possono vivere che nutrendosi l’una dell’altra; tutto è in natura organizzato e fondato sulla necessità di questo mutuo divoramento. Non è diversamente nel campo umano, spirituale e sociale. La proiezione in questo di quella situazione è la concorrenza; le industrie, le case commerciali, le banche (e i popoli e gli Stati) che si erigono le une sulla rovina delle altre; la notorietà, la fama che si fonda oscurando un’altra notorietà, un’altra fama.

Credette Cimabue nella pittura... L’Essere; questo è, ipso facto, il Male.

*** Quando si riflette che il mondo è costruito in guisa che gli esseri viventi, tanto animali quanto vegetali (e così probabilmente anche i minerali) non possono persistere nell’esistenza se non nutrendosi gli uni degli altri, cioè uccidendosi a vicenda; quando si scorge da ciò che quindi il mondo è costruito sulla necessità di farsi male, sulla necessità del male; quando si pensa che da questo carattere dell’Essere totale deriva inevitabile a quella parte di esso che è l’umanità un’esistenza del pari necessariamente fondata sulla gara, sulla concorrenza, sulla lotta, sulla rivalità reciproca, e spesso sulla guerra vera e propria; bisogna concludere che, se si vuol parlare di Dio, colui che ne ha dato la più esatta definizione è il Leopardi:

. . . . . il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera71

*** Capire. Molta gente non capisce che cosa vuol dire capire e perciò si offende quando le si dice che non capisce. C’è taluno che comprende perfettamente la concatenazione del ragionamento d’un pensatore, poniamo di Spinoza, e sa anche spiegarlo agli altri senza commettere nessun errore, od esporne la dottrina in un libro a cui non si può obbiettare nessun fraintendimento. Eppure non ne capisce nulla. Capire un pensatore, un filosofo, un Eraclito, uno Spinoza, un Hegel, vuol dire vedere. Vedere nel proprio interno il loro mondo, con la stessa evidenza e precisione con cui si vede in piena luce un oggetto materiale. Vedere veramente il loro universo enormemente multiforme nel suo continuo immenso gettito di cose ed eventi disparatissimi dal suo seno infinito. Vuol dire sentirsi vivere non in una casa, in una città, in uno Stato, ma in tale universo che sconfina gigantescamente da ogni nostro compasso mentale, sentirsi perduti nel suo abisso. Chi, p. e., legge o ripete «tutto scorre», ma nell’istesso tempo ha interiormente un piccolo risolino che dice: «eh! ma questo tavolo su cui poso le mani non scorre»; chi cioè non vede e non sente che nel tempo che occorre a chiudere e aprire le palpebre (alcuni secoli o millenni) anche il tavolo è scorso, e la casa in cui esso è, e la città in cui è la casa, e la regione della terra in cui si trova la città, e il pianeta in cui si trova la regione, capisce Eraclito senza capirlo. Capire. Non vuol dire essere pronti ad afferrare il significato d’una frase, d’un periodo, d’un libro, d’una dimostrazione filosofica o matematica. Vuol dire poter vedere. Vedere con gli occhi della mente nel fondo della realtà, così come si vede una cosa materiale. Perciò, in che cosa sta la differenza tra le intelligenze, e il grado di queste? Unicamente nel fatto di essere capaci di vedere così, o no. Non sta tale differenza nel capire o meno un teorema di matematica o una deduzione filosofica difficile. Sta nel modo con cui si guarda, si penetra, si valuta il corso della vita umana, le cose umane, il destino,

l’universo. Solo in questo sguardo, nella maggiore o minore profondità di tale percezione, sta la differenza di profondità delle menti, la differenza tra l’intelligenza vera e quella apparente. Capire, possedere la vera intelligenza, la comprensione profonda delle cose significherebbe forse avere l’apprensione immediata che la vita individuale e collettiva è inutile e assurda e che attribuire un pregio, un valore, un fine alla vita è la prova tipica che si possiede un cervello inguaribilmente infantile? Cicerone pensava: «qui rerum naturam, qui vitae varietatem, qui imbecillitatem generis humani cogitat... tum vel maxime sapientiae fungitur munere»72 (Tusc. III, XVI, 34).

*** Non vi è certo maggior distanza tra il cervello d’un animale e quello d’un uomo, che tra la mente di coloro che vivono tutti nelle cose esterne che li attorniano, siano questi i loro affari o i loro divertimenti, e la mente che possiede la visuale che io ho della vita, della morte, dell’umanità, della storia umana. Visuale terrificante e raccapricciante, piena d’indescrivibile angoscia, che dà un senso di spaventosa e abissale vanità ultima e di assurdo fondamentale, e della quale l’uomo comune, che (come chi camminasse senza saperlo su di un suolo vulcanico, o come il pazzo che «della veste che gli brucia addosso folleggia e ride») passa senza accorgersene tra questa vanità e questo assurdo di tutto, è tanto lontano dall’aver la menoma idea, quanto è lontano dall’averla del significato, non solo dei nostri libri, ma dei nostri mobili, il gatto che pure ci vive in mezzo. Schopenhauer e Bergson (in Les Deux Sources) s’incontrano nel riconoscere che l’intelligenza pura vede la verità dell’universo in tutto il suo aspetto spaventosamente orrendo, cosicché, come dice il secondo, essa è il vero e proprio ostacolo alla serenità (p. 221). È l’acquisizione di siffatta intelligenza pura, libera da ogni «fabulistica», che, nell’evoluzione delle specie viventi, costituisce un passo altrettanto nuovo quanto lo fu la mente umana in confronto di quella

degli animali. Chi possiede tale intelligenza ha legittimamente di sé stesso rispetto agli altri uomini quella medesima sensazione di diversità radicale che gli altri uomini hanno di sé stessi rispetto agli animali.

*** Scuola di rinuncia o nolontà. Pensa come ogni tuo desiderio dopo soddisfatto ti sia risultato vano. Anzi come nessun tuo desiderio od affetto – per la politica, per l’arte, per questo o quell’altro ramo del sapere, per questo o quel libro od autore, per questo o quello ordine di vita o luogo e forma d’abitazione o modo di vestire, per questa o quella dieta – sia mai durato. A che scopo dunque desiderare checchessia, se ogni tuo desiderio od affetto, scolorendosi e soggiacendo alla critica che ad un certo punto sorge contro di esso irresistibilmente e involontariamente da te medesimo, si dimostra vano e senza senso? Proietta il tuo desiderio presente nell’avvenire, e il suo scolorirsi e la sua vanità ti risultano tosto palmari. Proietta il tuo desiderio nell’avvenire. Ciò significa: vedilo con gli occhi d’una fase avvenire della tua vita. Ma questa fase avvenire della tua vita ne ha un’altra ancora ulteriore. E questa un’altra; e quest’altra una terza e così via. Il precetto implica dunque che tu debba vedere i tuoi desideri con gli occhi della fase futura estrema della tua vita. Guardare la propria vita e i suoi desideri con gli occhi della decrepitezza, anzi della morte: questa è perciò la definitiva saggezza.

*** Istruzione per il rifiuto. Tu dici che, essendo io miliardario e tu povero, è giusto che io ti dia almeno una piccola parte dei miei danari. Hai ragione. Sono d’accordo. Però lasciami prima accertarmi che tu sia l’uomo di tutta la terra che ha maggiore bisogno dei miei danari, perché tu converrai che

se c’è uno che ne abbia un bisogno ancor più grande del tuo, io dovrò dare i miei danari non a te, ma a quello. Che se c’è poi un terzo che ne abbia bisogno ancora più di quello, non a quello, ma a questo sarà giusto che li dia. E se c’è un quarto... Sono pronto, com’è giusto, ad elargire i miei danari al bisognoso di essi. Lascia solo che, prima, tale mia ricerca sia approdata al risultato conclusivo.

*** Ho questa notte fatto il sogno bizzarro che un mio amico defunto aveva ottenuto la resurrezione per poter andare a caccia della volpe col suo cane favorito. Fra la veglia e il sonno mi venne fatta l’osservazione: «valeva davvero la pena di essere fatto rinascere per un simile scopo!». Ma quando il sonno fu del tutto dissipato, feci quest’altra: «indica, se puoi, una cosa che valga veramente di più, che non possa essere soggetta, come quella, a una critica che ne dimostri l’inanità, e allora solo troverai la giustificazione della risurrezione e dell’immortalità».

*** La donnetta prega Dio perché venga il sole ad asciugare il suo bucato. E se viene pensa che Dio sia intervenuto a dissipare le nubi a beneficio della sua biancheria. Il grande storico, p. e. un Ranke, riderebbe della donnetta. Però egli pensa che Dio provveda a guidare la storia umana: «die Gottheit... die ganze geschichtliche Menscheit in ihrer Gesamtheit überschaut» (Die Epochen d. neueren Gesch.). Non vede il grande storico che la storia d’un formicaio d’un infimo pianeta vale quanto il bucato della donnicciuola; e che quindi la sua mentalità è esattamente quella di questa. Ciò risulterebbe forse evidente all’astronomo che dirige il suo pensiero a cose più vaste, gli astri, le vie lattee. Ma se l’astronomo pensasse che, non già di far asciugare il bucato della donnetta, e nemmeno di dirigere la storia degli omunculi, ma di far muovere armonicamente i globi infiniti che si aggirano nello

spazio si occupa Dio, per uno sguardo che s’allargasse ancor oltre e che scorgesse, p. e., come rispetto all’Eterno, al Senza-Tempo e Senza-Spazio, all’Essere raccolto nella sua pienezza e totalità perfetta o al Nulla, anche l’esistenza degli astri e delle vie lattee è esistenza effimera di granelli di sabbia e il loro moto un giuoco da bambini, il pensiero dell’astronomo che scorge nel moto del Tutto cosmico la mano di Dio, apparirebbe così puerile come quello della donnetta che scorge la mano di Dio nel sole che viene ad asciugare il suo bucato.

*** In un romanzo di trecentocinquanta o quattrocento pagine stanno ampiamente tutti gli eventi e gli episodi che contano della vita del protagonista. In quelle quattrocento pagine, che si leggono in due ore, è largamente contenuta tutta l’esistenza d’un uomo, dalla culla alla tomba. Dopo aver letto un romanzo di quattrocento pagine che racconta la vita d’un uomo, si scorge subito che è detto tutto, che non c’è altro da aggiungere, che quelle quattrocento pagine sono più che sufficienti, che una sola pagina in più sarebbe inutile, che forse anzi alcune di esse sono superflue. Dopo ciò rifletti che anche la tua vita potrebbe essere assai comodamente raccontata in un libro non più lungo di trecentocinquanta o quattrocento pagine. Conseguenza? Il batter d’occhio, la fulminea rapidità – tre o quattro ore – con cui si arriva alla parola che sta sotto alle trecentocinquanta o quattrocento pagine che sono bastate a narrare oramai in lungo e in largo una vita. Fine.

*** Avviene talvolta che nella vita d’un uomo vi sono dei periodi – e per quanti uomini forse l’intera vita! – in cui alla fine di ogni giornata, riepilogando questa nel pensiero, egli non riesce a trovare una cosa,

un’opera, un’azione, un’attività, un’occupazione, fra quelle a cui la giornata ha dovuto da lui essere destinata, della quale abbia potuto dire: l’eseguirla mi procura gioia, godo nel farla; – circa la quale abbia potuto affermare: in grazia di questa cosa o di questa occupazione per me è un bene che il giorno sia spuntato. Se, quindi, è inutile per lui che il giorno sia spuntato, e se ciò egli avverte alla fine d’ogni giorno, con quale terribile chiarezza la conclusione si presenta!

*** Dice Marco Aurelio: se tutto va a caso, almeno tu conduciti e reggiti non a caso; τὸ δὲ ὅλον… εἴτε τὸ εἰκῆ, μὴ καὶ σὺ εἰκῆ (IX, 28). Quale superbia e presunzione! Voler sottrarsi ed ostare alle forze cosmiche o Dio (il Tutto che va a caso), stare in attitudine di indipendenza, di contrasto e quindi di ribellione contro esse, pretendere orgogliosamente di procedere in esse con volontà e direzione propria, invece che cedervi, obbedirvi e abbandonarsi totalmente ad esse, cioè, se il Tutto va a caso, al caso in cui esse consistono o a cui vogliono che l’universo sia dato in balia! Quanto più giusta, quindi, e più religiosa la sentenza di Sofocle: a che angustiarsi se siamo dominati dall’accidente e non c’è previsione sicura di nulla? Meglio vivere a caso, come si può, εἰκῇ κράτιστον ζῆν, ὅπως δύναιτό τις (Ed. re,977 e s.).

*** In tutti i campi, il puro e semplice fatto dell’incremento, dello sviluppo, della piena fioritura d’una data situazione, produce automaticamente la rovina della situazione stessa. Si gustava la musica, quando si andava a teatro tre o quattro volte durante un carnevale e l’andarvi era un avvenimento. Ora che coi grammofoni e la radio si ascolta la musica con ogni comodità e facilità a tutte le ore di tutti i giorni e di tutte le notti, la musica comincia a

dare veramente un senso di nausea.

*** In ogni sua fase l’umanità ha creduto di essere sulla vetta più alta dello sviluppo civile, nello stadio definitivo, oltre il quale non ci potesse essere che un progresso di dettaglio, ma non la totale caduta di esso e il formarsi d’una costruzione interamente diversa. In parecchi periodi, poi, essa ritenne raggiunta la fase permanente di razionalità sociale che eliminava per sempre le guerre. Virgilio fa predire a Giove che al tempo in cui egli viveva, con l’impero romano cioè,

Aspera tum positis mitescent saecula bellis73 (Aen., I, 291) Come la storia ha mantenuto la promessa che Virgilio poneva in bocca a Giove perché era la sua certezza! Questa è l’illusione eterna a cui gli uomini cadono in preda, la fata morgana da cui sono sempre allucinati.

*** Che cos’è che avviene? Tu leggi sui giornali una serie d’eventi, e dici che sono avvenuti. Gli eventi sono veri, i giornali non hanno mentito. Ma forse ciò che leggi sui giornali è quello che si può chiamare ciò che avviene? Ma forse gli eventi narrati sono ciò che si può chiamare fatti avvenuti? L’essere essi avvenuti, l’essere essi esistenti, ti è forse attestato dalla circostanza che semplicemente li leggi, dalla circostanza che essi ti toccano semplicemente mediante la lettura che di essi fai? È troppo poco il leggere un fatto come attestazione dell’esistenza di esso. Fatti ne leggi anche in un romanzo, ma il leggerne (e l’interessartene e il commuovertene) non ti è attestazione della loro esistenza. Una cosa ti attesta la sua esistenza quando ti diventa visibile e tangibile, quando entra nella tua vita e

agisce su di essa e la modifica in bene o in male. Aspetta che le cose che leggi sui giornali ti tocchino, entrino nella tua vita, operino su di essa, ti attestino in tal guisa, e non per averle lette, la loro esistenza, così che di questa tu possa accorgerti anche se non le avessi lette – aspetta ciò per dirle esistenti. Così fanno i contadini dispersi in campagne isolate o montagne remote, che non leggono i giornali. Una guerra per essi esiste, avviene, non quando ne è stampata sui giornali la narrazione, che essi neppure hanno letta; ma quando vedono gente armata, che parla una lingua incomprensibile invadere e devastare il loro campo o la loro casa; quando la guerra entra nella loro vita, diventa visibile e tangibile; quando si attesta esistente alla immediata sensazione. E saggio è fare così, come i contadini lontani da ogni centro. Ossia fare che ciò che avviene sia solo quel che si avverte immediatamente e direttamente, non attraverso la lettura dei giornali.

*** Ritorno all’antico. Plutarco, Livio e in generale tutti gli storici antichi concepivano la storia come storia di individui, di grandi personalità. La «massa», il «popolo», è completamente assente dai loro libri. Cosa pensi, cosa voglia, cosa soffra, come viva, che bisogni abbia, non si sa, non si dice, non conta. Sembra che non esista. Sembra che i grandi personaggi, che unicamente quegli storici portano sulla scena, operino da soli, quasi a dire senza sfondo e nel vuoto. Questa concezione della storia è apparsa infantile alla storiografia del secolo XIX, la quale l’ha rovesciata e ha rappresentato la storia come storia di «masse», di «popolo», dei grandi fattori anonimi nascenti dai bisogni economici di questa o quella fase della vita collettiva, dalle necessità o dagli impulsi che genera la situazione agricola o industriale o commerciale, dalle grandi correnti intellettuali e spirituali diffondentisi largamente in un paese, e così via: fattori di cui i grandi uomini furono soltanto veicoli e che, quasi a dire, li suscitarono a loro servizio. Bisogna tornare a quella antica concezione contro questa moderna.

«Mitridate cercava di estendere ad oriente i confini del suo Stato». Proprio così: Mitridate, non il «popolo», la «massa». Mitridate, di sua volontà, operando quasi a dire da solo, come se il «popolo», la «massa», non ci fossero, o fossero solo uno strumento assolutamente obbediente e passivo in sua mano, di cui è inutile fermarsi a dar particolareggiato conto. La vita politica contemporanea ci mostra all’evidenza che la storia è veramente fatta, come la concepivano Plutarco e Livio, soltanto da alcuni individui, dai loro disegni, dalle loro volontà; che la «massa», il «popolo», le idee, le opinioni, le correnti, i bisogni in esso dominanti non contano veramente nulla, possono essere mutati, plasmati a nuovo, capovolti, soppressi, fatti tacere dall’azione del grand’uomo, e sono quindi cose che possono benissimo venir trascurate nella narrazione; che la volontà di quei pochi individui o grandi uomini che fanno la storia è quella che diventa, spontaneamente o per forza, passiva volontà della massa o del popolo; che sono anzi essi che creano in questo la volontà o l’apparenza di volontà che vogliono, ben lungi che essi siano gli esponenti o i veicoli di preesistenti coscienti o incoscienti volontà, bisogni, correnti ideali del «popolo» o della «massa», di cui sia quindi importante per lo storico dar conto. «Ac mihi multa agitanti constabat paucorum civium egregiam virtutem cuncta patravisse»74 (Sall., Cat., 53, 4). Gli avvenimenti contemporanei ci impongono di concludere esattamente come Sallustio, intendendo, si capisce, egregia virtus nel senso grecoromano, o del nostro Rinascimento, cioè doti eccezionali, a prescindere dalla qualifica etica, o, come dice Nietzsche, «virtù» libera da «moralina». Così la vita politica modernissima ci dimostra luminosamente che anche in ciò, anche nella concezione della storia, bisogna tornare all’antico.

*** Si finisce per constatare che tra la vita della prigione e la vita

«libera» non c’è nessuna differenza essenziale. Sempre (solo in numero maggiore o minore) restrizioni, ceppi e inceppamenti, sempre ripetizione monotona delle stesse cose; sempre le ore della giornata grigemente segnate dal ritornare dei medesimi piccoli insignificanti fatti o delle medesime esigenze. Quando uno è in prigione si chiede: a che serve una vita come questa? E ci si accorge che in «libertà» si ripresenta ad ogni istante la medesima domanda. Sempre la medesima sensazione di quando uno è in prigione. Ci si sente sempre in prigione. Nella prigione di questa vita, cioè della forma e del destino di vita che è toccato in sorte. Che cos’è, infatti, «prigione»? La risposta, stupenda, è quella che dà Epitteto: il luogo o la situazione in cui si sta contro voglia o malvolentieri; ὅπου δέ τις ἄκων ἐστίν, ἐκεῖνο φυλακὴ αὐτῷ ἐστιν (Diatr. I, xii, 23).

*** Bisogna che tu ti senta trionfare nell’ideale di giustizia, di diritto, di moralità, di bene, di religione che trionferà tra sessant’anni, tra un secolo, tra un millennio. Cioè che riponga il tuo io non nella tua vita temporale individuale, ma nell’idea per cui sei appassionato e che trionferà in un lontano avvenire. La lezione è sempre quella: che la vita individuale non conta e contano solo i valori eterni. Senonché, vi sono valori eterni? Non solo nessun valore dura eterno nella vita dell’umanità (che significato ha per noi uomini d’oggi e per l’umanità nel suo corso il «valore» per cui morì Antigone, il seppellimento d’un cadavere, o quello per cui morirono i patriotti di Atene contro Siracusa o Sparta, del Sannio contro Roma, di Pisa contro Firenze, di Firenze contro Carlo V?). Ma inoltre l’umanità stessa, come l’individuo, scompare, anche la sua vita è temporale e individuale. Tu devi quindi concludere che bisogna che tu riponga o dissolva il tuo io in un Tutto o in un Essere ancora molto più vasto, che sorpassi nella sua permanenza la transitorietà dei valori umani, un Tutto o un Essere quindi pel quale nemmeno questi esistono più; ché solo così ti appoggerai e identificherai al veramente permanente. Ma

ciò è un abisso di notte e di nulla in cui tutto quello che forma la sostanza del tuo io va sommerso e interamente scompare. Quanto più quindi il pensiero diventa alto, tanto più scorge con perfetta chiarezza che tutto è inutile. Tutto è travolto dallo scorrimento universale, proprio da un χειμάρρους, come diceva Marco Aurelio (χειμάρρους ἡ τῶν ὅλων αἰτία,75 IX, 29). Quelli che ci appaiono come supremi valori spirituali, sono essenzialmente effimeri: domani diventano cose incomprese, o ridicole o superstiziose. L’umanità, nei suoi vizi, nei suoi errori, nell’incapacità di raggiungere una sistemazione ragionevole, è assolutamente inguaribile. Lo stesso pensiero più alto, adunque, appunto perché arriva alla netta percezione di tutto questo, è spinto a concludere che non resta se non vivere come un animale: dormire al sole, mangiare, bere, fare all’amore; che è dal gatto che bisogna prendere il modello della vita. E chi quindi più di tutti si avvicinò alla verità nella questione della condotta che da ultimo risulta la sola logica, fu Epicuro.

*** Una delle principali ragioni per cui ci facciamo reciprocamente del male (tanto nella vita pubblica quanto nella privata) è che non siamo abbastanza miscredenti e abbastanza fedeli a quell’integrale pessimismo che solo è adeguato alla realtà. Se tenessimo sempre vivamente presente quale completa e pronta fine di tutto è la morte, quanto maggiormente ci sentiremmo in dovere di lasciare che il breve attimo di coscienza che ci sta davanti sotto la specie dell’Altro (di questa o quella persona altra da noi) non abbia tormenti o noie, e viva secondo quelli che sono i bisogni fondamentali della sua natura particolare!

*** Tutto ciò che facciamo, scrivere dei libri, fare all’amore ecc., è in fondo, in senso largo, un passatempo: un modo di vivere senza

pensare alla vita. Ora forse il più interessante e drammatico di tutti questi passatempi è quello di essere in miseria assoluta, di dibattersi per procurarsi giorno per giorno da vivere, e di star a vedere, con l’istessa intensità d’aspettativa con cui il giuocatore attende di constatare se il numero su cui la roulette si ferma è quello sul quale egli ha puntato, se i vari tentativi che per ciò si fanno riescono o no. Perché è per moltissimi così interessante la caccia? Per atavismo. Perché era il mezzo con cui gli antichissimi nostri progenitori si procacciavano il cibo. Se quella forma di procurarsi il cibo è rimasta nel sangue degli uomini come alcunché di interessante e divertente per sé, anche quando non ce n’è più bisogno per il cibo, vuol dire che ogni forma di «caccia» giornaliera al cibo può presentare lo stesso interesse e divertimento.

*** Ciò che non può fare nelle piante e negli animali, la vita, raggiunto il pensiero, lo fa in me: deplorare di dovere, per reggersi, usare questa pessima macchina, complicata inutilmente, pesante e pericolosa come una bicicletta vecchio tipo: cuore, polmoni, stomaco, ecc. Oh, se si potesse perfezionarla, come si è perfezionata la bicicletta! Se noi, che abbiamo creati automobili e veicoli, fossimo stati coloro che l’hanno costrutta! Quanto l’avremmo saputa far meglio, più semplice, più agile, più aderente al suo fine!

*** Un giorno in cui non avvenga in te nessun cangiamento fisiologico, né alcun cangiamento esterno. Una notte di sonno profondo dopo la quale la tua coscienza sveglia, saltando via, per così dire, la notte, si ricongiunge con sé stessa qual era all’atto dell’addormentarsi. In questi casi non c’è più tempo. Che cos’è dunque il tempo? Il cangiamento; ciò che distrugge.

Epperò, il tempo esiste perché lo vuoi far passare. Pensi al tempo con impazienza: «che cosa farò in questo tempo, in quel tempo?». E così lo fai essere. Se giacessi e riposassi immobilmente nel presente senza pensare a un passato o a un avvenire, dove sarebbe il tempo e il suo scorrere? Se nulla in te si muovesse e cangiasse, il tempo non scorrerebbe più, non ci sarebbe. La concezione dell’uomo comune che identifica il tempo all’orologio, è proprio quella esatta. Il tempo non è che un orologio. Se l’orologio si ferma, si ferma e cessa di scorrere anche il tempo.

*** L’uomo che ha una lunga esperienza del dolore e nel quale il dolore si riflette profondamente sul pensiero, ha talvolta la sensazione che le sue sofferenze gli abbiano aperto dinanzi una visuale profonda della realtà, che gli permette di cogliere questa fin nelle più riposte radici, visuale che prima gli era nascosta quasi da un sipario, e che il dolore gli ha dischiuso poco a poco dinanzi, come il telescopio o il microscopio rivelano agli occhi meravigliati dell’osservatore un mondo di cose, che, con suo stupore, egli scorge ora che esistevano già nella realtà, ma fino allora erano sfuggite al suo sguardo. Ancora un approfondimento mentale della sua esperienza, un allargamento di questa ad indagare il senso della sua vita svoltasi sotto l’impero del dolore, e gli sorge il pensiero, sia intuizione più penetrante, sia allucinazione più grave, che il dolore abbia avuto per lui una ragione e uno scopo; quello appunto di procurargli siffatta vera visuale della realtà; di dargli la conoscenza. E tanto questo pensiero è talvolta in lui vivo che egli sente quasi una soddisfazione e una gratitudine pel suo dolore che gli ha assicurato questa nuova penetrante vista, a cui senza il dolore egli non sarebbe arrivato. Ma a questo punto gli si affaccia un ulteriore problema. Che bisogno o che ragione c’era che venissero all’esistenza esseri a cui col dolore far capire che esso costituisce l’intima natura stessa della realtà,

esseri cioè che dovessero mediante il dolore comprendere che l’Essere stesso è male? E la soluzione di questo problema gli appare immediatamente esclusa, se si fa capo all’ipotesi d’un Ente Supremo, supremamente buono, onnipotente, in sé perfettamente beato, e distinto dal mondo, perché esso, anziché commettere l’insensatezza di creare degli esseri allo scopo di far loro apprendere mediante il dolore che l’Essere è male, avrebbe risparmiato l’inutile sofferenza di questa lezione, attuando immediatamente quello che deve formare il risultato di essa, cioè che è preferibile che l’Essere non sia, col non mettere nell’Essere o far venire all’Essere nessuna cosa. E allora all’uomo che, dalla meditazione sulla propria vita di dolore, giunge a questo stadio di riflessione, sembra quasi di toccare in sé sperimentalmente la verità di intuizioni del tipo di quelle di Schopenhauer, E. v. Hartmann o Julien Benda. Non è che un Ente supremo abbia, inutilmente, creato questo mondo di dolore, che sembra aver solo lo scopo assurdo di far apprendere che l’Essere stesso è dolore e male; e l’abbia creato rimanendo distinto e separato da esso nella sua eterna beatitudine. Ma è invece che lo stesso Principio Primo ha commesso lo scarto e l’errore «originale» di travasare se stesso nell’Essere, in questo universo di mondi, di cose, di viventi, tra cui noi stessi, universo che non è distinto da lui, ma è lui; ed è egli stesso che ora in noi, mediante il dolore inerente essenzialmente all’Essere, sconta la pena del suo errore iniziale; ed è egli stesso che apprende in noi col dolore che l’Essere è dolore e male, e fu quindi uno scarto e un errore, ed apre con ciò a sé stesso la via dell’uscita dall’Essere e del ritorno nell’inalterabile pace del Nulla.

*** «È colpa sua. Ha voluto rovinarsi. Col vino, con le donne, con questo o quest’altro vizio micidiale. È lui che se l’è voluto. Chi è causa del suo mal…». È veramente – dal punto di vista della malignità demoniaca – una cosa interessante impiantare in un vivente una tendenza o un istinto

pel quale egli è condotto a distruggersi da sé stesso, per sua volontà, per sua libera volontà, facendo quello che vuole, senza che nessuna coazione esterna ve lo costringa. Uno spettacolo davvero meraviglioso – per un demonio. Prendere un uomo, un uomo che, per legge normale di sua natura, vorrebbe vivere, andare in fondo alla vita, prolungare questa più che sia possibile, e cacciargli dentro un impulso per cui egli distrugge in sé quella vita che vorrebbe sopra ogni altra cosa conservare, e, quel che è più bello, la distrugge di sua volontà, per colpa sua. Far sì che egli si distrugga e che si distrugga liberamente, per colpa sua; quest’è proprio una trovata da maestro – per un demonio. Così fa con gli uomini l’Essere o il Potere Supremo. Esattamente come in un romanzo di A. Vivanti quel gruppo di degenerati che trovano la loro soddisfazione nel cocainizzare le fanciulle e persino i gatti.

*** La volpe e le galline. Stamane hai trovato devastato dalla volpe il tuo pollaio. Non c’erano più che le penne. Quale collera non provi contro quella volpe! Perderai delle notti per stare in agguato col fucile in mano, e che soddisfazione se potrai finalmente vederla rotolarsi nella polvere crivellata di pallini! Ce l’hai con la volpe, non perché essa ha conficcato i denti nelle carni d’un essere vivo, lo ha dilaniato, ha visto senza orrore davanti a sé e per opera sua quell’essere tremare, soffrire disperatamente, morire. Ce l’hai con la volpe, perché, avendo compiuto quest’atto, ti ha prevenuto e ha impedito a te di fare la stessa cosa.

*** La morte del gatto. Ecco il gatto che muore. Guardalo morire. Vedilo cercare la pietra

fredda per posarvi il suo corpo febbrile, fare sforzi disperati per conservare a sé la vita, poi racchiudersi in sé stesso, appartarsi, nascondersi, cercare l’isolamento quasi per sottrarre ad ogni occhio la sua fine, e da ultimo in quell’isolamento spegnersi… Se tutto andasse perfettamente bene nell’universo, se gli uomini e tutti i senzienti fossero felici e immortali in un paradiso terrestre e solo accadesse che morisse un gatto, moltissimi direbbero: che cosa conta un così piccolo neo in un universo perfetto? Chi, però, dicesse così sarebbe un cieco morale; perché incapace di trasportarsi col proprio sentimento in quello dell’insignificante (per gli altri) essere che muore; perché non vede come basterebbe quel piccolo neo per condannare irremissibilmente una Natura, una Forza, un Potere Supremo, che ha dato la vita ad un essere, sia pure umile, irragionevole, incosciente, allo scopo di ucciderlo. Ma a chi non è moralmente cieco basta veder morire soltanto un gatto per condannare gli Dei.

*** La morte sarebbe ancora tollerabile se non ci fosse altresì la morte nella morte. Se l’uomo che muore, affettuosamente rimpianto, nelle braccia dei suoi, continuasse a vivere nella memoria entro il loro cuore. Se i suoi non se ne andassero progressivamente dimenticando, e se nella seconda generazione di lui non rimanesse già più che il vago nome, e nella terza o nella quarta anche questo non venisse obliterato. Se non ci stesse dinanzi il senso di questa nostra totale estinzione e disparizione, di questo nostro contare nell’eternità, ossia nella realtà, nell’Essere, quanto una leggera nebbia momentaneamente apparsa e tosto dispersa senza lasciar più nemmeno l’ombra di una traccia. Prima la morte propriamente detta, poi la seconda e definitiva morte, cioè la dimenticanza. Siamo veramente tutti, per usare la bella espressione omerica, δισϑανέες (Od. XII, 21), soggetti ad una doppia morte; o, conforme l’altra, pur bella, espressione di Boezio, sottoposti ad una seconda morte:

Quodsi putatis longius vitam trahi Mortalis aura nominis, Cum sera vobis rapiet hoc etiam dies, Jam vos secunda mors manet76 (De Cons. Philos. II, 7) *** Non è vero che i morti requiescant in pace, al di fuori e al riposo dalle nostre gare, lotte, agitazioni. Vi è una lotta per la vita anche tra i morti: una lotta per la vita nel ricordo, nella storia. I meno dotati (i meno «adatti») sono sopraffatti da coloro che lo sono di più. Progressivamente quelli soccombono e scompaiono e questi restano, finché siano anch’essi sopraffatti in tale lotta per l’esistenza nel ricordo che si fa sempre più aspra, man mano che la storia procede e che quindi i partecipanti alla lotta crescono di numero. Nella migliore condizione, da questo rispetto, furono i primi: i greci e i romani. I partecipanti alla lotta per la vita nel ricordo erano ancora pochi. Un buon numero dei gareggianti poté così sopravvivere, e, per essere rimasti allora, continuano e forse continueranno a rimanere. Ma se si pensa al processo della storia umana e al fatto che questa non solo si svolge oggi su di una estensione di gran lunga più vasta, ma si svolgerà nell’avvenire durante un tempo immensamente più lungo di quello in cui si è svolta sino ad ora, si tocca con mano che il conquistare la vita nel ricordo è ormai impossibile. Ognuno dei morti aspiranti a questa conquista resta a galla solo un momento e poi perisce sommerso dal flutto senza posa irrompente dei morti rivali che lo sbalzano di seggio e lo travolgono nell’oblio e nel nulla per subire anch’essi fra poco lo stesso destino. Così l’epoca moderna è quella che ha introdotto la vera, completa, definitiva morte. Nessun morto può ora più riuscire a vivere. L’età nostra fa veramente morire i morti, ed attua per la prima volta con

assoluta universalità la morte nella morte.

*** Non parrebbe che vita nel ricordo potesse esserci più ampia e salda di quella che raggiunge un pontefice. Eppure i pontefici finiscono per diventare mere sillabe seguite da numeri romani: l’individuo non c’è più, è scomparso, è definitivamente morto della doppia morte. Chi sa chi sia Benedetto IX o Pio IV?

*** Si crede di poter fondare, estendere o assicurare ad un uomo la vita nel ricordo dedicando al suo nome una strada o una piazza. Invece, dopo qualche tempo, il nome è conosciuto e resta nel pubblico come il nome della strada e della piazza, e non più come il nome dell’uomo. Questo, nessuno sa più chi sia; perché la piazza o la strada abbia quel nome, nessuno lo sa più. Il nome dell’uomo, cui doveva in tal guisa essere assicurata la vita nel ricordo, non è conosciuto e ripetuto che come denominazione d’un luogo. È il luogo, a cui («perché mai?») si è dato quel nome («che cosa significa?»), e non l’uomo, che tiene vivo il nome nella memoria della gente. Il nome rimane nel ricordo non già congiunto con l’uomo e proprio dell’uomo, ma congiunto col luogo e proprio soltanto del luogo.

*** Quando nel 1586 Sisto V fece trasportare e innalzare in Piazza S. Pietro l’obelisco che oggi vi figura, egli ordinò con editto che nessuno di coloro che assistevano all’operazione potesse, pena la morte, emettere la menoma voce; e nel recinto stava già rizzata la forca. A un certo momento, le corde, che innalzavano l’obelisco, non reggendo al peso, cominciarono ad allentarsi e la catastrofe sembrava inevitabile. Uno degli spettatori, Bresca, capitano di mare, il quale, per sua

professione, conosceva qual era il rimedio da usare, non curando l’editto papale, uscì nel famoso grido «acqua alle corde!». Gli operatori applicarono immediatamente il suggerimento e l’obelisco poté essere felicemente collocato a posto. Invece della forca, il Bresca ebbe dal papa ricchezza, onori e favori. Questa conclusione però si avvera assai di rado. Come un individuo di cuore sensibile vedendo per istrada un uomo brutale e nerboruto che picchia un bambino, o anche solo un animale, è spinto, per un moto di cieco istinto, alla protesta e alla difesa, senza calcolare se con ciò possa attirare su sé stesso la brutalità dell’altro, sicché quando poi ciò sia accaduto, se qualcuno gli dice: «perché, invece di proseguire per la tua via, ti sei intromesso in una faccenda che non ti riguardava?», la sua risposta è: «tu hai perfettamente ragione, ma è stato un impulso istantaneo e irragionato; non ho potuto a meno» – così spesso avviene che un uomo vedendo attorno a sé commettere ingiustizie, malefatte, iniquità, errori, quand’anche nulla di ciò lo tocchi personalmente, non può tacere, e, come il Bresca, o come la persona dell’esempio, mosso dallo stesso irragionato e irresistibile impulso, non riesce a trattenere la sua protesta, il suo monito, il suo «acqua alle corde». La nobiltà del suo animo, anzi, è misurata appunto dal grado di irresistibilità di questo impulso. Di solito però a costui non avviene come al Bresca. Di solito la sua manifestazione di riprovazione per il male o l’errore che vede commettere nella società attorno a sé, e il grido con cui egli invoca il rimedio, incorrono nella sanzione dell’isolamento, dell’abbandono, del disfavore, della miseria, della persecuzione; e invece il silenzio davanti al male e all’errore, o l’adesione al male e all’errore, incontrano la sanzione del gradimento, della prosperità, degli agi, del facile e felice scorrimento della vita (εὔροια). Un esito come quello del caso Bresca è eccezionale; alla direzione dell’istinto morale che non lascia tacere in presenza del male e dell’errore, la sanzione del mondo opera in senso diametralmente opposto.

*** Spesso all’uomo che si espone o si compromette per opporsi a mali, ingiustizie ed errori, che, senza che lo tocchino personalmente, egli vede compiuti nella società in cui vive, e che in seguito a ciò incontra dispiaceri o traversie, la sapienza mondana dirige il rimprovero: «se l’è voluta; non poteva star tranquillo?». È precisamente il rimprovero che, come Platone attesta nell’Apologia (28 B e s., 37 E e s.), veniva rivolto a Socrate. Coloro però che muovono questo biasimo all’uomo vivente al loro tempo e sotto i loro occhi, il quale si comporta nella guisa ora detta, quando considerano lo stesso fatto compiuto nel passato, dove lo si può osservare solo spettacolarmente e senza essere urtati o seccati dalla vista effettiva delle conseguenze dannose che l’«imprudenza» di un tale comportamento trae seco; quando, p. e., considerano lo stesso fatto appunto in un Socrate, in un Mazzini, in un Pellico, in un Tazzoli, in un Confalonieri; allora, neppure essi, hanno per quello che è pure lo stesso fatto, alcuna parola di biasimo; allora, neppure essi, dicono, come dicono riguardo all’uomo ora vivente: «fu una stoltezza e una imprudenza; doveva star tranquillo»; e, allora, anch’essi, non hanno più se non ammirazione. Che cosa vuol dire ciò? Se non si vuole concludere che l’uomo sia così cieco da non saper vedere l’identità d’un fatto quando esso è presente e quando è passato (sebbene, specie per opera della «sofistica naturale» degl’interessi, anche questo avvenga), ciò vuol dire che, nel momento stesso che si biasima l’atto, pur se ne confessa tacitamente la nobiltà, posto che lo si ammira nel passato. Vuol dire che, poiché si biasima, quando accade sotto gli occhi, lo stesso fatto che si ammira nel passato, lo si biasima per i danni che esso arreca, danni che dà fastidio vedere nella realtà, e che, per coloro che biasimano, sono il solo elemento saliente del fatto. Vuol dunque implicitamente dire che è l’unione del fatto coi danni ciò che attira il biasimo. Ossia vuole implicitamente dire che, se non ci fossero i danni vissuti che fastidiscono lo sguardo, si loderebbe il

fatto, come si loda nel passato, dove lo si contempla quasi a dire «purificato» (nel senso della catarsi aristotelica) dalla presenza uggiosa di danni effettuantisi sotto i nostri occhi nella vita reale; vuol dire dunque che si desidererebbe veder quello senza questi; vuol dire cioè che si riconosce, per quanto in modo indistinto, che l’atto di opporsi a mali ed errori non dovrebbe, come pure avviene, essere accompagnato dalla sanzione del danno. E questo è precisamente il sentimento eziandio di colui che compie il fatto. «Se tu vuoi fare il Socrate, devi volere anche la cicuta». È ciò che spesso gli si obbietta per dimostrargli che non ha diritto di lamentarsi delle conseguenze dannose che incontra e che egli «si è volute». Ora, che il fare il Socrate importi la cicuta, è, nell’ordine del mondo, in linea di fatto, vero. Ma poiché non è in linea etica giustificabile, così ognuno che si ritrova nelle analoghe circostanze pensa e richiede che il calice gli debba essere allontanato, riafferma cioè il diritto ideale, e, più propriamente, il diritto etico, di ἑκάστης ἡμέρας περὶ ἀρετῆς τοὺς λόγους ποιεῖσθαι,77 come Platone fa dire a Socrate nell’Apologia (38 A), ossia (ché così queste parole vanno tradotte in pensiero moderno) di propugnare nella vita sociale la causa del bene, della giustizia, dell’eticità, contro quella del male, dell’iniquità, del torto; e ciò senza aver da incorrere in danni di sorta. Le conseguenze, i danni del suo atto gli dispiacciono, lo addolorano, ne sente tutto il dolore, non li vorrebbe, non li vuole. Non li vuole perché ha l’insopprimibile coscienza del diritto etico di compiere l’atto moralmente giusto senza soffrirne male. Questo fatto, che cioè si vuole compiere l’azione moralmente nobile, e per compierla si affrontano i danni che essa arreca, ma però tali danni non si vorrebbero subire, è precisamente ciò che, circa il coraggio, mette acutamente in rilievo Aristotele. L’uomo che compie un’azione coraggiosa (egli dice) la compie perché trova desiderabile il fine di essa e vuole questo fine. Le circostanze (ferite, morte) gli possono essere così dolorose da oscurargli anche la desiderabilità del fine. Egli le affronta e le sopporta per questa sola antiutilitaria ragione, che ciò è doveroso e nobile (ὅτι καλόν, unicamente perché è bello, che

è, insieme con le due o tre precedenti, καλοῦ ἕνεκα, διὰ τὸ καλόν, l’espressione tipicamente greca per ciò che kantianamente si direbbe il dovere per il solo motivo del dovere); ma ne sentirà tutto il peso e il tormento e le soffrirà contro sua volontà e volendo che non ci siano, λυπηρὰ τῷ ἀνδρείῳ καὶ ἄκοντι ἔσται (Eth. Nic. 1117 B, 1-10). Siffatte osservazioni costituiscono la più sicura e palpabile confutazione dell’utilitarismo. L’esigenza di poter opporsi al male senza riceverne danno implica, infatti, la tesi utilitaria, la quale afferma appunto che la virtù è, non già dannosa, ma vantaggiosa. Essa è una tesi razionalista: da gente bonaria e ottimista, convinta che le cose del mondo procedono in definitiva conforme alla ragione, convinta cioè che la realtà sia razionale. Razionalmente, l’utilitarismo dovrebbe essere vero; lo sarebbe, se la realtà fosse razionale, se le cose del mondo procedessero anche approssimativamente sul binario della ragione etica. Esso, infatti, sorge, si diffonde (cioè risulta vero) solo nelle epoche in cui l’eticità pubblica è più elevata e più salda, perché queste sono le epoche in cui all’azione compiuta a pro del bene contro il male, s’accompagna una sanzione favorevole, o almeno non vi si accompagna una sanzione dannosa. Ma queste epoche sono eccezionalmente rare. Quasi sempre, in linea di fatto, l’utilitarismo vero non è; περὶ ἀρετῆς τοὺς λόγους ποιεῖσϑαι, parlare per il bene contro il male, porta generalmente alla cicuta, o a sanzioni analoghe. «Allontana da me questo calice». Tali parole di Gesù; – con cui anch’egli mostra di sentire incoercibilmente che, pur essendosi attirato l’ira dei potenti per aver operato secondo la sua coscienza morale, è cosa ragionevole e giusta volere che siffatta sua condotta non gli apporti sofferenze – esprimono la profonda legittima esigenza etica che si possa prendere le parti del bene contro il male operantesi nella società, senza patirne danno. Esigenza eterna che la realtà eternamente respinge e conculca.

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Che Socrate, dopo una vita di povertà, debba finire bevendo il veleno, e che Gnatone (cfr. TERENZIO, L’Eunuco), il quale, fattosi filosofo o poeta o letterato, falsifica la sua coscienza al servizio della Spada (che ha vinto), della Feluca, della Porpora, dell’Ermellino, del Diadema, trascorra tutta la sua esistenza nell’opulenza e nel lusso, tra gli onori e i favori, è perfettamente nell’ordine – nell’ordine del mondo. Rispetto a quello che è l’ordine del mondo, disordine sarebbe che accadesse l’opposto.

*** Morire per mano dei carnefici, per opera di stromenti di tortura, delle tenaglie, del cavalletto, della croce, del palo, del rogo: che orrore! Morire invece nel proprio letto... Ma sempre si muore per mano di carnefici e per opera di stromenti di tortura. Quelli che si chiamano cancro, emottisi, angina pectoris, cardiopalma, tubercolosi, emorragia cerebrale e simili, sono carnefici e stromenti di tortura ugualmente o più crudeli e dolorosamente strazianti degli altri, che, soli, il linguaggio comune chiama «carnefici»; ed hanno questo di peggio che non c’è invocazione, supplica, preghiera, amnistia, indulto che ci possa ottenere di non essere dilacerati sino alla morte dall’uno o dall’altro di essi.

*** Non c’è differenza tra morte naturale e morte violenta. Si tratta sempre d’un attacco mosso dal di fuori al centro della mia vita, che insidia la radice stessa di questa, che io non voglio, che mi si fa sopra violentemente, che violenta tutto il mio essere. Si tratta sempre di violenza e di morte violenta.

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Tu hai bisogno ardente, essenziale d’una cosa. La sospiri, perciò, la invochi con tutta l’anima. Ebbene: è meno verosimile che la sorte te l’accordi appunto perché ne hai bisogno e la brami. Poniamo che tu stia discorrendo d’una terza persona con un amico, e, mentre discorri di essa, la incontri. «Che combinazione!» tu dici. Cioè: che caso singolare, raro ad avvenire, questa coincidenza del tuo discorso con l’amico intorno ad una terza persona e dell’incontro di questa. Combinazione la quale avviene assai più di rado, la quale è assai più difficile che avvenga, che non il tuo incontro con quella persona quando non ne parli e non vi pensi. Nel primo caso, infatti, a differenza che in questo secondo, occorre una coincidenza di due eventi, che evidentemente non può aver luogo se non assai più di rado che il presentarsi d’uno solo dei due eventi. È chiaro che in un numero determinato di gettate di dadi, sarà assai più raro e difficile che si presentino il tre e il sei insieme che non il tre e il sei da sé. Allo stesso modo è molto difficile e pressoché impossibile che si presenti la combinazione dei due eventi «tuo bisogno e brama d’una cosa» e «tua acquisizione di questa cosa», ed è molto più probabile che si presentino ciascuno dei due eventi isolati; tua brama per una cosa che non ottieni, tuo ottenimento d’una cosa a cui non pensavi neppure. Quello che brami, adunque, non lo ottieni appunto perché lo brami. Appunto col tuo bramarlo, cioè con la più complessa combinazione che il tuo bramarlo rende necessaria, ne fai diventare difficilissimo, inverosimile, praticamente impossibile l’ottenimento. Ma quanta è maggiore l’intensità con cui si spera una cosa o un evento, tanto più la speranza si avvicina (psicologicamente) alla fiducia e alla certezza. Per conseguenza, all’intensità della speranza – ossia, quindi, alla fiducia e alla certezza – di conseguire un oggetto o veder accadere un evento, è direttamente proporzionale l’impossibilità che quello si ottenga o questo si avveri.

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Εἰ ταῖς τῶν ἀνϑρώπων εὐχαῖς ὁ ϑεὸς κατηκολούϑει, ϑᾶττον ἂν ἀπώλλυντο πάντες ἄνϑρωποι, συνεχῶς πολλὰ καὶ χαλεπὰ κατ᾽ ἀλλήλων εὐχόμενοι (Epicuro, Fr. 58 Bailey). Muore un uomo che occupa un posto a cui tu aspiri. Tu sei buono e non vorresti – con la tua volontà in quanto si realizza all’esterno – cagionare la morte neppure d’una mosca. Pure ti sorge inevitabilmente il pensiero: ora il posto è libero per me. Subito tu condanni tale pensiero, ne senti aborrimento. Ma non puoi fare che esso – questo pensiero malvagio, questo male – non esista o sia esistito e si sia formato in te, buono. Quel cattivo pensiero, ossia quel male si è formato ed esiste o è esistito in te indipendentemente dalla tua volontà buona, ed anche mentre questa lo condanna e sotto la sua condanna. Esiste nello stesso tempo che essa lo condanna, e la sua esistenza sfida la sua condanna: ché il condannarlo non lo cancella. Lo stesso si dica del desiderio, spesso balenanteci ineluttabilmente, da sé, con nostro orrore, che, anche per piccoli interessi nostri, taluno muoia. Esso sorge come un rapido lampo, tenuto bensì lontano, su cui non fermiamo il pensiero, che respingiamo e condanniamo con indignazione, ma nondimeno sorge. Qualora in quel momento ci si chiedesse: «vuoi la morte della persona in questione?», risponderemmo, rabbrividendo, di no; e in realtà, con la nostra volontà realizzantesi all’esterno, anziché toglierle la vita, faremmo di tutto per salvargliela se fosse in pericolo. Ciò non ostante, accanto a questa volontà, si è, senza nostro proposito e quasi senza nostra consapevolezza, formata in noi l’altra. Si è formata in noi indipendentemente da noi, in noi, senza di noi; ma si è formata. Ora, Epicuro esagera forse dicendo che se Dio ascoltasse i voti degli uomini, la specie si estinguerebbe tosto, tanto è il male che ci auguriamo l’un l’altro; perché Epicuro pensava certo, così scrivendo, ai voti consapevoli, deliberati ed espliciti, e la specie umana non è per avventura tanto trista che i reciproci voti malvagi deliberatamente formulati siano tanti da distruggerla interamente. Ma il grave è che, oltre i voti formulati di proposito, vi sono quei voti che vengono su da sé, involontari e incontrollabili, di cui abbiamo parlato. E allora è del

tutto vero che perché la specie umana si estinguesse istantaneamente, basterebbe che, per un’operazione magica, ogni desiderio che involontariamente spunta della morte d’un altro si realizzasse ipso facto. Il male si forma e si presenta come un fatto obbiettivo, ineluttabile e ineliminabile, e ciò anche nell’animo buono; né contro l’esistenza di esso c’è bontà d’animo e di volere che valga.

*** L’argomento consolatorio epicureo contro la morte, riprodotto nel pseudo platonico Assioco: «finché tu ci sei, la morte non c’è, quando la morte c’è, non ci sei tu», e ripreso in forma efficace da Seneca: «cum in illa (la morte) nihil sit mali, nisi quod ante ipsam est, timeri»78 (Ep.104, § 10) – tale argomento è falso. È falso, perché invece la morte c’è già mentre c’è l’uomo. Io mi sento ora già morto, già fuori della vita, mi sento già ora, già essendo ancora in vita, quel nulla che sarò per tutti e per me quando sarò morto, e sento già ora quel nulla che sarà allora tutto per me. Mi sento, vale a dire, già ora come sono; e questo «come sono» significa come sono permanentemente, definitivamente, per sempre, non cioè nel momento effimero della vita, ma nell’eternità immutabile della morte: poiché è nello stato di eternità immutabile che si è veramente come si è, ossia è quello stato che è il vero Essere di qualsiasi cosa. Quindi l’asserzione che forma la base del famoso argomento consolatorio ricordato è falsa. La morte è presente già mentre si è in vita ed è già in vita che la si sente e la si soffre.

*** Anche chi scorge il nessun valore della vita continua a volerla. La vuole appunto per poter stabilire, dimostrare e mettere in luce la constatazione del suo nessun valore; perché questa constatazione e la visione di questa verità abbia luogo, ci sia, non sia soppressa; perché

ci sia l’occhio che tale non valore avverte e riconosce; perché il non valore della vita sia non soltanto ciecamente esistente, ma anche chiaramente riconosciuto; perché, se la vita manca di valore, l’interessante è almeno che tale mancanza sia vista e denunciata; unica punizione quasi e giusta vendetta che di siffatto mancar di valore della vita possiamo trarre. Vuole cioè che sia presente questo fatto: che la mente (la quale si spegnerebbe insieme con la vita se colui che vede il nessun valore di questa per ciò a questa rinunciasse) avverta e rinfacci alla vita la verità del suo non valore. Vuole condannare la vita: e quindi aver la vita allo scopo di poterlo fare, allo scopo che questa condanna non taccia. Vuole accusare l’esistenza; e quindi esistere come accusatore dell’esistenza. Così, poiché è indispensabile essere in vita affinché la sentenza sulla vita sia pronunciata, il valore e l’interesse della vita finisce per ritrovarsi precisamente nel fatto che occorre pure la vita per stabilire ed affermare la verità del non valore della vita.

*** Anche quando sia diventato, a poco a poco, di un’evidenza trasparente che la vita dell’uomo è inutile, assolutamente al pari di quella d’una mosca, pure non si vuol perderla. Perché? Perché si ha l’impressione che sia veramente un peccato che, con la perdita della mia vita, si perda appunto questa visuale, che la vita è inutile. Sembra che la vita nella sua inutilità finisca proprio in questa sola cosa, come importante, il riconoscimento della sua inutilità. E quest’unica cosa importante della vita che si è operata qui (in me) si vorrebbe che non si distruggesse, ma che continuasse a vedere e affermare se stessa.

*** L’importanza della tua vita non è quale la vedi e la senti tu, ma quale la vede e la sente l’altro. Questo dell’altro infatti è il giudizio

obbiettivo, spassionato, svincolato dalla visuale interessata soggettiva. – Sei insegnante? Hai un metro eccellente per giudicare il valore della tua vita e della vita umana in generale. Il tuo studente che sorriderà con soddisfazione perché la tua morte gli procurerà un giorno di vacanza, e che ventiquattr’ore dopo se n’è già dimenticato: questa è la veduta dell’Altro, la veduta obbiettiva, dunque veramente la valutazione esatta di che cosa sia e che cosa conti la tua vita.

*** Anche per me i miei stessi libri «passano», sono «sorpassati», «superati», mi diventano indifferenti, li dimentico, man mano che ne scrivo uno nuovo. Come potrebbero non «passare», diventare indifferenti, cadere nella dimenticanza per gli altri?

*** Del definitivamente cattivo andamento del mondo un uomo d’età avanzata riesce a consolarsi efficacemente con l’unico pensiero capace di dare in ciò consolazione; quello stesso di chi, trovandosi a disagio in una città, può dire: domani prendo il treno e non ci ritorno più. «Sunt istic hostes cruenti, cives superbi: sed video istic et mortem. Caram te, vita, beneficio mortis habeo»79 (SENECA, Ad Marciam Consol., XX, 3).

*** L’ultimo verso dell’Eneide descrive, non solo quella che fu la fine di Turno, ma quella che è la fine d’ogni uomo; di ogni uomo che, in mezzo a tutti i suoi vizi umani, abbia pur conservato qualche facella di rettitudine e senso morale. Ogni uomo siffatto si diparte dalla vita con cruccio, orrore, sdegno e disperazione per tutte le iniquità che, proprio a cagione di quel tanto di moralità che è rimasta in lui, egli ha dovuto subire, e per tutte le malvagità e le bassezze che ha visto accadere

intorno a sé. D’ogni uomo, che non sia del tutto spiritualmente guasto, si può letteralmente dire quando muore: vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras80

*** Viene un momento in cui l’inguaribilità e l’ineliminabilità della perversione, malvagità e bassezza degli uomini diventa così evidentemente sicura, che ogni persona di viva sensibilità morale sente la brama e la necessità di lasciare per sempre tutto questo e di uscire dalla vita. «Non disprezzare la morte, ma accettala di buon grado... Ti gioverà considerare quali siano le cose onde t’hai a dipartire, e gli umori degli uomini, tra i quali l’anima tua non sarà più impigliata» (MARCO AURELIO, IX, 3).

*** Si dice che le donne dimenticano i dolori del parto, e che questa è la ragione per cui non si arretrano spaventate davanti ad una nuova gravidanza. Lo stesso accade agli uomini. Essi dimenticano il dolore della morte, che pure hanno visto dinanzi a sé parecchie volte e sanno che toccherà anche a loro: lo sanno non sapendolo, precisamente come le donne sanno non sapendo i dolori che hanno sofferto partorendo. Questo dimenticare la morte, questo saperla senza saperla, è l’unica ragione per cui si continua a generare e la specie umana continua.

*** Quando la vita è infelice è inutile viverla; quando è felice è disperante doverla perdere. Muori quando le cose ti sono avverse; che sconforto morire col fiele in bocca! Muori quando ti sono favorevoli; che strazio lasciarle!

*** Ogni padre desidera e cerca di procurare a suo figlio quello che egli non è riuscito a conseguire nella sua vita e di cui sentì la mancanza: la ricchezza, se fu colto e povero; la cultura, se fu ricco e ignorante; l’alta posizione sociale se visse in un rango inferiore; la celebrità, se rimase oscuro. «Che almeno tu!»... E siffatto «almeno tu!», che, riguardo a questo o quell’oggetto, ogni padre ripeté per suo figlio, ogni figlio, diventato padre, deve alla sua volta, riguardo a quello od a questo, ripeterlo per il figlio suo; e così via senza approdo.

*** Alla «funzione fabulistica» del Bergson, che l’istinto crea per velare all’intelligenza l’orrore della morte e in generale il male del mondo, v’è un surrogato che è prodotto dalla stessa intelligenza. È quella visuale dell’universo, definitivamente disperante, che il Bergson riconosce essere propria dell’intelligenza pura. Siffatta visuale, che a questa si apre, concilia con la morte; la presenta come una necessità, e una necessità benefica, onde poter uscire da un mondo inguaribilmente tristo; per tale via toglie ogni orrore e riluttanza di fronte alla morte; genera anzi spesso quella che Seneca chiamava «libido moriendi».81

*** Il nucleo vero e puro della religione, d’ogni religione, non sta nella credenza in questo o quell’ente e nell’adorazione di esso; ma nella persuasione, nel sentimento profondo (spesso raggiunto, sì, precisamente con l’adorazione di questo o di quell’ente – ma ciò è cosa secondaria) che nulla è mio, che nulla è l’io. Chi riesce a sollevarsi a questa persuasione è religioso; ed è religioso solo chi si solleva ad essa e per il fatto che si solleva ad essa. È talvolta religioso, se vi si solleva talvolta: cioè lo è nei momenti in cui scorge e sente

così. È permanentemente religioso (santo) se tale visuale diviene in lui permanente. La viva e vissuta intuizione che io, mio, sono nulla; che io è nulla in vita e in morte, che ciò che ho, ciò che sono, ciò che amo, ciò che faccio, ciò che ho fatto, la mia vita, la mia morte, è nulla; che solo qualche cosa che non è il mio io, qualcosa di ben più vasto e grande del mio io, è e va; che nel flusso del suo Essere e Andare sta bene che il mio e l’io si disperda – questa è la vera e pura essenza della religione. La speranza o la convinzione d’essere in qualsiasi forma, immortali, è quindi l’estrema negazione della religiosità. Poiché questa consiste, al contrario, unicamente nel riconoscere ed accettare la nullità dell’io e del mio e quindi la loro totale dissipazione di fronte od entro all’alcunché di più grande che è e va. Non c’è però ragione di ricavare da questa visuale, come fa sopratutto il buddismo, la necessità di pratiche ascetiche dirette ad estinguere la sete di vita, onde cooperare volontariamente a quella dissipazione dell’io in cui consiste l’essenza della religiosità. Non si abbia paura: non occorre darsi pene, sagrificarsi, rinnegarsi, mortificarsi, annientarsi, morire a sé stessi. Senza bisogno di ciò, anche dopo una vita di piaceri, di senso, di voluttà, di orgia, l’estinzione della sete di vivere, la dissipazione dell’io, viene infallibile e completa da sé. La Morte.

*** La mia religione. In quasi tutti i miei libri ci sono attacchi contro la religione. Chi li leggesse, direbbe: costui è un irreligioso fanatico. Eppure io so di essere assai più profondamente religioso della massima parte di coloro che si professano tali. Non sono indifferente alla cosa (come lo sono più di tre quarti dei religiosi per consuetudine o conformismo). Tutt’altro. Essa mi sta

immensamente a cuore. Mi occupa tenacemente e ardentemente. Anzi mi preoccupa e mi tormenta. Potrei forse usare un paragone analogo a quello che Kant fece rispetto alla metafisica. Sono di fronte alla religione come un uomo, che, contro una donna che ama e che gli è crudele o insincera, è vivamente irritato, appunto perché, amandola, la vorrebbe arrendevole e fedele. Amo calorosamente nella religione ciò che dovrebbe essere e che con tutto il mio animo vorrei che fosse. E appunto, perché non vedo che sia¸ perché non è, mi arrovello e m’indigno. Mi arrovello e m’indigno appunto perché sento quanto sarebbe necessario, santo, sublime, bello il fatto d’una direzione spirituale e divina dell’universo; e questo fatto, che la religione afferma, non c’è. Il mio arrovellarmi, imprecare o bestemmiare per la mancanza e inesistenza di quello che la religione afferma, che vorrei che fosse, a cui va la mia aspirazione più calda, ma vana; questo fatto è la mia religione. La sola possibile. La vera.

*** - Sono stanco di portarmi attorno... - Che cosa sei stanco di portare? - Di portarmi. Non capisci? Di portare attorno me stesso.

*** Talvolta si vorrebbe poter sputar fuori la propria vita come un boccone troppo disgustoso; o scrollarla giù dalle spalle come un carico troppo pesante; o stracciarla e gettarla nel cestino come un romanzo che annoia o non piace o disgusta.

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Tutto è farsa, tutto è polvere, tutto è nulla; tutto infatti nasce

dall’irrazionale. 2 «noi non siamo che numero». 3 sogno di un’ombra è l’uomo. 4 l’uomo non è che soffio e ombra. Simili alle ombre, trascurabile peso della terra. 5 «non è cosa, non è non-cosa, non è essere, non è affetto; Dio è propriamente nulla». 6 le pietre e i cadaveri sarebbero i più felici. 7 il vivere come una pietra. 8Natura naturante ossia Dio. 9 malevolenza, astio. 10 malevolenza degli Dei. 11 la divinità è piena d’invidia e ama provocare sconvolgimenti. 12 molti eventi inattesi portano a compimento gli Dei: e quello che si attendeva non è accaduto, mentre il Dio ha trovato un varco per l’imprevedibile. 13 «Fu la paura che per prima creò gli Dei nel mondo». 14 «la paura e il sentimento religioso sono collegati». 15 timore. 16 abbaglio funesto. 17 Nessuno, mentre sbaglia, è conscio della gravità del suo errore, se ne avvede solo dopo. 18 L’ho compreso troppo tardi, quando non c’è più rimedio. 19 ma chi fra i mortali potrà sfuggire al fraudolento inganno di un Dio? 20 creati da noi stessi. 21 «La realtà è l’incarnazione della divinità, il corso del mondo è la storia della passione del Dio che si è fatto carne, e allo stesso tempo la via alla liberazione del crocifisso nella carne; la morale dunque consiste nel cooperare all’abbreviazione di questo percorso di dolore e di liberazione». 22 «l’anelito per l’eterno».

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felicità. vita speculativa. 25 «Le cose umane sono da disprezzare». 26 «considero tutte le cose umane a me estranee». 27astuzia. 28 rappresentazioni. 29 «Spesso giudichiamo delle cose secondo che ci stanno a cuore: infatti, a causa dell’amor proprio, facilmente perdiamo la facoltà di giudicare correttamente». 30 «È facile disdegnare il conforto degli uomini quando si ha quello divino. È invece grande, altissima perfezione saper fare a meno del conforto sia umano che divino». 31 «che ha una vita quasi morta già mentre è vivo e vegeto». 32 «Piaceri vani e perciò senza fine». 33 «Certe abitudini è più facile sradicarle dall’animo che moderarle». 34 «Difendiamo i nostri vizi perché li amiamo». 35 «E tuttavia come li amiamo! Accettiamo di rinunciare quasi a qualunque altra cosa. Ci facciamo rimproverare duramente, disprezzare, punire; siamo disposti a soffrire molto, a perdere molto, pur di potere conservare quei tesori preziosi». 36 «Gli svergognati godono della loro ignominia non meno che gli onesti della loro egregia condotta». 37 «pace implora dagli dei». Nell’ode oraziana, soggetti di tale implorazione sono «chi è sorpreso in mare aperto, quando una nube oscura nasconde la luna, e a guidare i marinai più in cielo non splendono le stelle», «la Tracia furibonda in guerra» e «i Medi che si adornano di faretra». 38 «Ciò che è la cosa migliore e più auspicabile per tutti gli assennati e retti e agiati, la tranquillità unita a un ruolo sociale prestigioso». 39idoli della piazza, pubblici (nel senso di errori, pregiudizi ingenerati dall’uso del linguaggio inteso come fonte di equivoci e 24

inganni). 40 «alla venerabile anima del padre». 41 «vergognosissima preghiera». 42 «la sua eloquenza è tanto senza nerbo quanto egli fiacco». 43Rendimi inferma la mano, inferma una gamba, fammi crescere la gobba, fammi cadere i denti; purché mi resti la vita, tutto va bene; anche se sono infisso su una croce appuntita, conservami la vita. 44 ottimo, bellissimo e perfettissimo. 45 e adesso, il mondo è governato dalla provvidenza? 46 «per noi di certo Dei non ce ne sono: dato che le generazioni umane sono in balia del cieco caso, affermiamo il falso dicendo che Giove regna... non c’è alcun Dio che si curi delle cose mortali». 47 «principi perversi». 48 «come la siccità o le alluvioni e le altre calamità naturali». 49 se il corpo è schiavo, l’animo almeno è libero. 50 «Sbaglia chi ritiene che la schiavitù penetri nell’uomo nella sua totalità. La sua parte migliore ne resta esente: i corpi sono sottomessi e assegnati come possesso ai padroni, ma la mente è indipendente». 51I ceppi degli schiavi avvincono solo le mani, ma è lo spirito che rende liberi o schiavi. 52 «ci credo perché è assurdo». 53 «non desta vergogna, perché c’è da vergognarsi; è assolutamente credibile, poiché è assurdo; è certo, perché è impossibile». 54 «sventurato prima delle sventure». 55 «tirarsi addosso i mali», «guastarsi il tempo presente col timore del futuro», «essere infelice già oggi solo perché un giorno o l’altro potrai essere infelice». 56 «prevenire il proprio male». 57 «A che serve correre incontro al proprio dolore?». 58 «Che cosa c’è di più insensato dell’angustiarsi per il futuro e non risparmiarsi i patimenti, ma anzi richiamare anzitempo su di sé le disgrazie?».

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non vaticinare tormenti prima del tempo, mia cara, non anticipare i lamenti. 60 «A che serve la preoccupazione per l’avvenire, se non ad aggiungere tristezza a tristezza? È vano turbarsi o rallegrarsi per cose future, che forse non accadranno mai». 61 «Bisogna fare in modo che nulla ci giunga inaspettato... Una meditazione continua farà sì che nessun male ti colga alla sprovvista». 62 «Il colpo di un male previsto giunge attutito... Il saggio si abitua ai mali che verranno... pensandovi a lungo li allevia... Il saggio sa che gli può capitare tutto. Qualsiasi cosa accada, dice: me l’aspettavo». 63 «Qualunque evento atteso da tempo giunge più sopportabile». 64 «Gli imprevisti riescono più gravosi; l’essere inattese rende più pesanti le sciagure... Perciò non ci deve essere per noi niente di imprevisto. Dobbiamo preparare l’animo a tutto e pensare non a quello che accade solitamente, ma a ciò che potrebbe accadere... Bisogna considerare tutte le eventualità e premunire l’animo contro ciò che può avvenire... Prefiguriamoci non quanto avviene di frequente, bensì quanto può avvenire nelle diverse forme, se non vogliamo restare schiacciati e sbalorditi da avvenimenti insoliti come se fossero straordinari». 65 «Tutto quello che può accadere, pensiamolo come se fosse certo che avverrà». 66 «Prevedendo tutto il possibile come se gli dovesse accadere, smorzerà l’assalto di ogni sventura». 67 «non come se semplicemente potessero sopravvenire, ma come se dovessero sopravvenire senz’altro». 68 tuo padre avrebbe dovuto farti nascere sotto il dominio di altri Dei, se rifiuti di accettare queste leggi. 69 Salvatore. 70 Salvezza. 71A se stesso, vv. 14-15. 72 «chi riflette sulla natura, sulle varie vicende della vita, sulla debolezza del genere umano... allora più che mai adempie al compito

del sapiente». 73Allora, placate le guerre, si addolciranno i secoli feroci. 74 «E, dopo lunga meditazione, giungevo alla conclusione che furono le doti eccezionali di pochi cittadini a realizzare tutto». 75 la causa di tutte le cose è un torrente che scorre impetuoso. 76E se contate di prolungare la vita sulle ali dell’umana rinomanza, quando il passare del tempo vi sottrarrà anche questa, allora vi toccherà una seconda morte. 77 ragionare quotidianamente sulla virtù. 78 «in realtà in essa (la morte) non c’è nulla di male, tranne la paura che la precede». 79 «Qui ci sono nemici sanguinari, concittadini prepotenti: ma qui vedo anche la morte. Ti ho cara, o vita, grazie alla morte». 80e la vita con un gemito fugge sdegnata fra le ombre. 81 «desiderio di morte».

INDICE DEI NOMI

Adamo, 118 Adorno Th. W., 23, 38 Alessandro Magno, 109 Anders G., 38 Antigone, 137 Aristotele, 21, 47, 55, 81-82, 147 Bacone F., 101 Badiou A., 32 Baudrillard J., 27 Benda J., 12, 140 Benedetto IX, 144 Berdach R., 11 Berdjaev N.A., 41 Bergson H., 29, 131, 154 Boezio, 143 Bradley F.H., 61 Bresca B., 144-145 Brofferio A., 91 Budda, 85 Caligola, 12, 73 Callicle, 67-68 Camus A., 12 Caracalla, 73

Carlo V, 137 Carlo VIII, 109 Catilina, 109 Celso, 94 Cicerone, 101, 130 Cioran E., 9 Clemente VII, 124 Cloto, 85 Confalonieri F., 146 Contarini C., 113-114 Cordelli F., 27 Croce B., 20 Dante, 115 Descartes R., 64, 102 Dionigi, 73, 113 Domiziano, 73 Einstein A., 64 Epicuro, 138, 149-150 Epitteto, 114, 116, 137 Eraclito, 61, 63, 129-130 Erodoto, 75 Eschilo, 24, 69-71, 75, 78 Euripide, 69-70, 75, 123, 128 Falaride, 73, 113 Fedra, 128 Fénelon F., 114 Ferdinando I d’Asburgo, 19 Fichte J.G., 81-82 Flaubert G., 85 Fortunato M., 3, 5, 7-8, 10, 12, 14, 16, 18, 20, 22, 24, 26, 28, 30, 32, 34, 36, 38, 40, 42, 44, 46, 48

Freud S., 11, 32 Gaio Musonio Rufo, 114, 116 Galba, 114-115 Gentile G., 20 Gentile M., 32 Geremia, 120 Gesù, 148 Giovanni San, 43, 72 Giovanni da Giscala, 86 Gnatone, 148 Gorgia, 26, 67-68 Gracchi, 109 Grillparzer F., 120 Guicciardini F., 116-117, 124 Hartmann K.R.E. von, 78-79, 118, 140 Hegel G.W.F., 16-17, 19-25, 44-45, 55, 104, 129 Hume D., 18 Isaia, 70 Jaspers K., 24 Kant I., 34, 42, 47, 55, 64, 98, 122, 156 Leonardo, 64 Leopardi G., 8, 13, 28-29, 35, 37, 40-41, 82, 103, 129 Lessing G.E., 49 Livio, 135-136 Lodge O.J., 91 Lubbock J., 98 Lucano, 115 Luigi XIV, 114

Maffei S., 113 Magris C., 16 Marco Aurelio, 74, 134, 138 Mario, 109 Matassi E., 23 Mazzini G., 146 Mecenate, 107 Medea, 75 Melanippo, 96 Menandro, 77 Montano A., 10 Musil R., 16 Mussolini B., 14 Nietzsche F., 8, 11, 16-17, 25, 32, 46, 48, 64, 136 Omero, 8, 29, 120 Parmenide, 27, 32, 59 Pascal B., 18 Pellico S., 146 Perantoni P., 53 Petronio, 76 Pindaro, 65, 75 Pio IV, 144 Pisani G., 113 Pitagora, 65 Platone, 21, 28, 32, 36, 47, 55, 61, 65-66, 69, 95, 104, 111, 145-146 Plutarco, 135-136 Policrate, 113 Pompeo, 115 Querini A., 113 Rensi G., 3, 5, 7, 8-17, 19-31, 33-39, 41-45, 47, 49, 56, 58, 60, 62, 64,

66, 68, 70, 72, 74, 76, 78, 80, 82, 84, 86, 88, 90, 92, 94, 96, 98, 100, 102, 104, 106, 108, 110, 112, 114, 116, 118, 120, 122, 124, 126, 128, 130, 132, 134, 136, 138, 140, 142, 144, 146, 148, 150, 152, 154, 156 Rosset C., 8 Rousseau N., 8 Sakia Monni, 85 Sallustio, 136 Sansone, 118 Saffo, 120 Schopenhauer A., 17, 30, 102-103, 105, 118, 131, 140 Seneca, 88, 98, 107, 120, 123, 127, 151, 153-154 Servio, 76 Silesius A., 7, 66 Silla, 109 Simmel G., 9 Simone Bar Gioras, 86 Sisto V, 144 Socrate, 16, 65, 67-68, 75, 145-146, 148 Sofocle, 65, 75, 119, 134 Solone, 75 Spinoza B., 42, 81-82, 97, 129 Stazio, 76 Tacito, 119 Tazzoli E., 146 Terenzio, 85, 148 Tertulliano, 121 Tilgher A., 14, 40 Tito, 86 Tolstoi L., 78, 97 Trasibulo, 109 Tucidide, 109-110 Turno, 15, 153

Virgilio, 8, 15, 134-135 Visconti G., 73, 113 Vivanti A., 141 Zarathustra, 11, 48 Zeus, 70, 75, 78, 86, 120 Zola É., 97 Zweig S., 107, 120-121

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