Fenomenologia e genealogia della verità 8816404795, 9788816404793

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Fenomenologia e genealogia della verità
 8816404795,  9788816404793

Table of contents :
Programma ..............13
Voce e prossimità ..............23
Voce e significazione ..............29
Della superstizione ..............40
Riconoscimento ed articolazione ..............46
Sezione ..............52
Sulla verità di fatto ..............59
Sulla verità di ragione ..............65

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FENOMENOLOGIA E GENEALOGIA DELLA VERITÀ La domanda-guida del testo, antica quanto la H.losofia e parte della sua nascita, suona senz'altro: «Che cos'è la verità?». La prima sezione del volume fa emer­ gere i presupposti della verità attraverso la genesi della soggettività e della corri­ spondente oggettività. Nella seconda vengono analizzate le interdipendenze fra linguaggio, percezione ed immaginazione, onde esibire l'unità tra verità di ra­ gione e verità di fatto. La terza sezione segue le sorti del linguaggio e della sua scrittura nell'istituzione del concetto di verità, rilevandone il legame genealogi­ co con la nascita della scienza occidentale. Nella quarta sezione d si concentra su concetti fondanti e paradossi inerenti alla scienza fisica, presa come modo esemplare della scientificità occidentale. n risultato del percorso svolto lascia emergere la verità, per differenza dalla verificazione scientifica, come esercizio di produzione del senso che definisce l'attività H.losofica in quanto tale. ANDREAZHOK Nato a Trieste nel1967, ha studiato a Tneste e Milano, dove si è laureato nel 1991. Successivamente ha svolto un'attività di ricerca biennale presso l'Università di Vienna e recentemente ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca presso l'Università degli Studi di Milano. Oltre ad aver pubblicato saggi e articoli apparsi in Italia e Austria, ha curato scritti di Simmel (11 segreto e la società segreta, 1992) e di Sche/er (Amore ed odio, 1993) ed è autore di lntersoggettività e fondamento in Max Scheler (Nuova Italia, Firenze 1997).

Lire 30.000

Andrea Zhok

FENOMENOLOGIA E GENEALOGIA DELLA VERITÀ

Il Jaca Book Il

© 1998 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione settembre 1998 Copertina e grafica Ufficio graficoJaca Book In copertina Morfogramma cinese primitivo: tre alberi, che significano «foresta». Da K. Foldes-Papp,

Dai graffiti all'alfabeto. Storia della scrittura, Jaca Book, Milano 1985. In basso: schizzo di Henri Gaudier Brzeska, da una lettera del3 giugno 1 9 11 a Sophie Brzeska.

Questo volume viene pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano.

Finito di stampare nel mese di luglio 1998 dalla Ingraf s.r.l. (Milano)

ISBN 88- 16-40479-5 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a EditorialeJaca Book SpA- Servizio Lettori Via V. Gioberti 7, 20123 Milano, te!. 02/48561520-29, fax 02/48193361

«Stava lavorando, da solo, nella stanza da pranzo. Un rumore alle sue spalle lo fece trasalire: Lisbeth, la sua allieva, aveva tirato col suo piccolo arco una freccia contro il vetro. Jim le spiegò con calma che avrebbe potuto rompere il vetro

e

che non bisognava tirare

verso la finestra. Lei lo ascoltò con uno sguardo candi­ do e sembrò convinta. Soltanto, la freccia tornò tre volte a colpire il vetro-e Jim le diede tre spiegazioni diverse. In quella arrivò Kathe, guardò sua figlia sor· ridendo e le disse: "Non si fa" E la cosa finlll. Jim si stupl di non essere riuscito a farsi capire. Kathe gli disse: "Si è certamente inventata una bella storia e una buona ragione per tirare contro la finestra"». Da ]ules e ]im, di H.P. Roché

«"Cosl, dunque, tu dici che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è fal­ so!"- Vero e falso" è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita». Da Ricerche filosofiche, di L. Wittgenstein

«Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte [ . ] non avremmo bisogno della ..

scienza della natura». Dalle Massime Capitali, di Epicuro

INDICE

13

Programma Sezione A SIGNIFICAZIONE

17

l. Il dialogo muto

21

2. Voce e prossimità

23 25 29 32 34 40 43 46 51

3 . La voce e l'altro

4. Voce e significazione 5. Gesto, linguaggio e mondo 6. Mimesis 7. Della superstizione

8. L'indice e l'oggetto 9. Riconoscimento ed articolazione

10. Revisione e sintesi Sezione B VERITÀ l. Sulla verità di fatto

2. Sulla verità di ragione 3 . Percezione come interpretazione e disgiunzione

3 .l. Sensazioni versus percezioni 3 .2. Imparare e percepire 3 . 3 . Rilevazione di differenze 3.4. Le differenze operative come significati operativi 3 .5. La percezione come verifica

7

57

59 65 71 72 74 80 85 86

Indice

4. Linguaggio e differenza 4 . 1 . La disgiunzione ed il valore semantico della differenza 4.2. Linguaggio e pensiero 5. Linguaggio ed immaginazione: l'unità d'azione 6 . Revisione e sintesi

90 91 100 110 125

Sezione C SCRITTURA E LOGICA

l. Logica e scrittura in Grecia: un'ipotesi guida 2. Breve storia ragionata della scrittura 2. 1. La scrittura di cose 2.2. Grafi puri 2 . 3 . Pittogrammi 2 .4. Logogrammi 2.5. Sillabari 2.6. L'alfabeto 2. 7 . La pratica alfabetica 3. La scrittura del numero 4. Sostanza e predicazione: la nascita della forma 5. S ostanza ed identità 6. Deduzione, quantificazione e sillogismo 7. Non-contraddizione e connettivi 8. Qualità primarie e qualità secondarie 9. Etica della scrittura e nascita della scienza 1 0 . Revisione e sintesi Sezione D ETICA DELLA FISICA

l. Spazio, tempo e movimento 1 . 1 . Principi di selezione 1 . 2. Spazio, dimensioni, campi 1.3 . Tempo e velocità 2. Materia ed energia 2. 1 . Corpi ed azione reciproca 2. 2 Masse e forze 2.3 Onde e particelle 3. Caso, individuo e legge 3 .l. Individuazione 3.2. Caso e probabilità 3 . 3 . Totalità e infinito

1 33 136 1 40 140 141 142 14 3 148 1 52 15 3 157 164 1 68 1 69 17 3 1 77 1 82 189

197 1 99 199 202 214 229 229 232 240 246 246 250 258

Indice 268

4. Revisione e sintesi 4 . 1. Tautologie materiali

270 274 278

4.2 . Unità di misura 4 . 3 . Ipotesi e modelli 4.4. Leggi e determinismo

285 Sezione E TESI

Fenomenologia e genealogia: gli ordini di fondazione Descrizione di apriori materiali versus descrizioni storico-fattuali Metodo di illustrazione e verità Ethos versus methodos L'Ethos scientifico e la sua emancipazione dalla verità Liturgia e peccati della confessione obiettivista Tautologie materiali versus «premesse metafisiche» Teorie della verità La verità della verità è etica

287 289 291 293 294 296 299 303 3 04 3 08

Bibliografia

311

Indice dei nomi

317

Ringraziamenti Non presagivo né le fatiche, né le soddisfazioni che ne sarebbero segui­ te quando, sei anni fa, sottoposi alcune idee in forma di breve saggio al prof. Carlo Sini.

È integralmente al suo consiglio e alla sua fiducia, umana e

teoretica, che devo l'impulso per il quale quell'incerto abbozzo ha potuto svilupparsi fino al presente approdo. Durante la lunga elaborazione del testo ho avuto l' ulteriore fortuna di poterne discutere reiteratamente i progressi con il prof. Carlo Montaleone, cui va la mia viva gratitudine per la sollecitudine e la franchezza delle sue iniezioni di lucidità. Sono inoltre grato debitore di numerose idee alle intense discussioni avute con il dott. Federico Ziberna, e, nell'ultima fase di elaborazione, al­ l' ampio confronto teoretico avuto con il prof. Rolf Kiihn presso il Diparti­ mento di Filosofia dell'Università di Vienna. Un ringraziamento particolare va infine alla dott.ssa Elena Zezlina che più di chiunque altro ha seguito gli accidentati sviluppi di questo lavoro, aiutandomi più volte con il suo acume e con la sua pazienza: non ho voluto che nessuno sopportasse l'onere di una dedica, ma, se cosl non fosse stato, sarebbe stata lei a farne le spese.

PROGRAMMA

Come ogni scrittura filosofica anche la presente ha il carattere di una risposta. La domanda cui queste pagine vogliono tentar di rispondere è an­ tica quanto la filosofia, ed è anzi parte costitutiva della sua nascita; essa chiede che cos'è la verità . Tale questione non è qualcosa cui l'esibizione di un fatto potrebbe dare risposta, perché ciò cui la domanda stessa ci spinge è proprio capire cos'è che in effetti stiamo chiedendo. Questo genere di do­ mande inaugurate dal socratico ti esti, «che cos'è», non si rivolge al mondo dei fatti, dunque, in certo modo, non pretende che gli si risponda con una verità. E tuttavia, si vorrebbe dire, cos'altro ci si potrebbe aspettare se non una verità o, peggio, una falsità? La tradizione filosofica ha consegnato al­ lora la seguente risposta a questa domanda sulle domande che suonano «che cos'è ... ?», ha detto che si trattava di dire la verità sull'essenza e non sull'e­ sistenza, sulla possibilità e non sulla realtà, sull'idea e non sull'empiria, e che in questo modo si sarebbe detta anche la verità sulla verità stessa. Salvo poi concludere ricorsivamente che, in fin dei conti, l'Essenza non esisteva, la Possibilità non era reale, le Idee non erano esperibili, e che dunque non c'era alcuna verità. Che l'interrogativo intorno alla verità non rappresenti un lusso speculativo, un bene voluttuario dello spirito è salda convinzione di chi scrive, ma un'argomentazione di questa credenza non potrebbe esse­ re meno onerosa del confronto integrale con la questione stessa; dunque ri­ nunciamo ad «introdurre» il tema, e ci limitiamo ad illustrare il programma dell'escursione cui la scrittura seguente invita. Il lavoro si compone di quattro sezioni principali, variamente articolate al loro interno, e ciascuna conclusa da un capitolo di «revisione e sintesi», oltre che di una quinta sezione di sintesi generale. L'andamento complessi13

Fenomenologia e genealogia della verità vo è per cosl dire un andamento «a fisarmonica», con un alternarsi di parti analitiche e sintetiche; queste ultime non sono raddoppiamenti riassuntivi, ma ripetizioni riflesse che intendono creare· una tensione con l'analisi cui si riferiscono. Tra le varie sezioni, ed in particolare tra le prime due e le se· conde due, si dà a vedere una discontinuità rilevante, in quanto le prime tentano di esibire gli elementi costitutivi della nozione di verità in generale (soggetto ed oggetto, linguaggio e percezione, immaginazione e realtà), mentre le sezioni successive cercano di esaminare più partitamente il modo di manifestarsi storico della verità, rispettivamente nelle sue dimensioni «logiche» ed «empiriche». La prima sezione affronta la questione della veri­ tà partendo dalla sua condizione preliminare più generale nella funzione

se­

gnica, che viene sviluppata come relazione di accordo o disaccordo tra un soggetto (pensiero o parola) ed un oggetto (fatto o cosa); in questa sezione si trovano impianto e cornice degli sviluppi successivi. La seconda sezione, presupponendo le analisi della prima, circoscrive maggiormente il campo d'indagine concentrandosi sulla distinzione tra verità di ragione e di fatto; il rimando reciproco che ci si mostra tra queste modalità veritative conduce l'analisi ad esaminare le interrelazioni tra linguaggio, percezione ed immagi­ nazione. La terza sezione chiede ragione della separazione che pone le verità logiche come distinte da quelle fattuali, avviando l'esame delle condizioni per il sorgere delle prime, e ritrovandosi, come prevedibile, a dissotterrare anche l'origine delle seconde; in quest'opera di scavo emerge il legame ge­ nealogico tra il concetto di verità e la

nascita della scienza occidentale. La

quarta sezione si concentra sull'analisi delle condizioni per l'attribuzione di un valore di verità ad una proposizione «verificata>>; per fare ciò ci si con­ centra su concetti e questioni fondamentali di quella che ci si mostra come l'incarnazione esemplare della scientificità occidentale, cioè la fisica. Ora, a fronte di una discontinuità tra le parti che questa presentazione può forse mitigare, ve n'è una che non possiamo far altro che consegnare al lettore. La domanda che guida lo sviluppo del testo ci pone necessariamen­ te una questione: quale verità, quale validità possono avere le argomenta­ zioni stesse che esaminano le condizioni di verità in generale? Oppure, in un'altra prospettiva, come si può già solo porre una domanda come «che co­ s'è la verità?», visto che o già si sa cos'è ciò di cui si sta chiedendo ragione (e allora, percM chiederselo), oppure come chiedere ragione di qualcosa di sconosciuto? Di fatto il percorso che ci apprestiamo a svolgere non potrà avere il carattere della ricerca di un generico «qualcosa» in un'area ben deli­ mitata, ma al contrario dell'esibizione di molti «qualcosa» per esplorare i li­ miti inapparenti dell'area in cui essi appaiono; in altri termini, si tratta di 14

Programma

praticare la veritiz in una pluralità di direzioni e moduli argomentativi, di esporre in una moltitudine di rivoli esplorativi delle «verità» che appaiono prelinùnari alle condizioni di verità o conseguenti ad esse, e poi di far reagi­ re tali verità sulle condizioni di verità delle singole verità esposte. Un'ultima osservazione, più propriamente pro-grammatica, sulla natu­ ra della pratica di lettura cui ogni testo, e questo testo in particolare richia­ ma. Il presente lavoro, per il carattere dell'indagine, per la radicalità che es­ sa pretende, non può appellarsi ad un metodo predefinito, un metodo che si tratti semplicemente di applicare per porre le proprie verità. Per questa ra­ gione sono qui vive in modo enùnente le insufficienze, e le conseguenti av­ vertenze, che valgono per ogni scrittura. Ad un testo mancano sempre ne­ cessariamente tutte le specificazioni ed integrazioni che ciascun interlocu­ tore potrebbe esigere in

un

dialogo; il testo non dice, se non molto somma­

riamente, con quale tono e ritmo esso deve essere di volta in volta letto, e l'autore non sa quali argomenti siano per il lettore di volta in volta ovvi o bizzarri, nuovi o notori. A ciò si può normalmente far fronte affidandosi ad una specifica tradizione presupposta ed esplicitata come comune; ma ciò fa­ rebbe di un'indagine come la presente una ricerca di scuola, il che non vuo­ le né deve essere: di volta in volta nel testo emergeranno affinità di tono e di ternùni con la tradizione fenomenologica di Husserl e Merleau-Ponty, con concetti di Peirce, argomenti di Wittgenstein, nozioni di Hegel, ma tali riferimenti hanno valore locale e non presuppongono mai una condivisione dei lineamenti teoretici di fondo di uno o più di questi maggiori. Un testo, in generale, sembrerebbe quasi non possa fare altro se non su­ scitare contenuti che sono già tutti «dentro» chi legge: in fondo, si vorrebbe quasi dire, non può certo essere una bigia sequenza di segni sulla carta a creare in me idee, immagini, concetti. L'alternativa sembrerebbe cosl esse­ re quella, invero deprecabilmente frequente, tra l'incomunicabilità da una parte, e dall'altra la gradita conferma di ciò che chi legge già saldamente pensa. Ma in effetti la scrittura consente un uso che non è meramente ri­ dondante, e lo fa nella nùsura in cui le sequenze di parole, frasi, paragrafi, vengono costrette, nell'atto della lettura, in interi, in unità, formando così grazie a questa capacità del lettore, andamenti che possono essere più di mere repliche del noto, che possono comporre singoli vissuti in percorsi inesplorati; dunque, il presupposto per una lettura che sia anche concettual­ mente, e non solo «informativamente», produttiva è quella che si potrebbe chiamare l'istanza dell'unitarietà del testo, in cui lo sforzo di sintesi nella lettura compensa la tendenza naturalmente analitica della scrittura. Per la natura della cosa, (oltre che per le insufficienze di chi scrive), questo sforzo 15

Fenomenologia e genealogia della verità è ampiamente richiesto nelle pagine a seguire. Alla fine questa, come ogni

scrittura, non potrà che parlare con la voce di chi legge; ciò che questo testo spera di saper offrire è un avvicendarsi di percorsi in verità particolari e di prospettive che ne consentano una visione d'insieme, ciò che il lettore, fa­ cendosi carico di passare per le strettoie e gli ostacoli del testo può forse ot­ tenere è una nuova capacità di orientamento nei territori della teoria.

16

Sezione A SIGNIFICAZIONE

La questione della verità, nel suo senso più generale, si presenta come la questione dell'unità e della differenza tra pensiero ed essere . Ogni teoria della verità pone una relazione peculiare tra pensiero ed essere, tra soggetto ed oggetto, pone un'antologia. Ma prima ancora che ad una

teoria della ve­

rità dobbiamo guardare al fenomeno della verità: il semplice sussistere di qualcosa come una verità, o come una pretesa di verità, ci dice che tra pen­ siero ed essere (realtà) ci deve essere una qualche forma di congenerità, di comunanza. Noi quantomeno tendiamo a o pretendiamo di dire cose su ciò che giudichiamo essere il mondo, pensiamo di sapere cbe una realtà vi è e, almeno in qualche misura,

come essa

è. Questa pretesa non può essere di­

smessa a piacimento, ma coincide con il nostro essere coscienti: anche chi supponga di avere un rapporto «allentato», disimpegnato, con la realtà e le proprie credenze su di essa, non può che assumere di

sapere che la realtà

non accondiscende al nostro sapere. D' altro canto, per assumere una conge­ nerità, un'unità, tra pensiero ed essere, dobbiamo presupporre anche il sus­ sistere di una qualche differenza tra di essi, perciò quanto dobbiamo mette­ re a fuoco è un'unità-differenza tra pensiero ed essere, una mediazione. Un approccio radicale ed esemplare alla distinzione pensiero-realtà è quella del

cogito cartesiano. L'intento di Cartesio era quello di "cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta"' ed il metodo coerentemente adottato è quello del dubbio sistematico, del dubbio che, nelle intenzioni di Cartesio, non lascia sussistere nùlla che non sia assolutamente certo. Le celebri argomentazioni della prima e seconda

Meditazione Metafisica conducono all'identificazione

Cartesio R., Discorso sul metodo c meditazioni cartesiane, Laterza, Bari 1 978, p. 77. 19

Fenomenologia e genealogia della verità di un pri.mum antologico nell'esistenza dell'io, del soggetto come "cosa che pensa": dubito di ogni cosa, dubito persino della mia esistenza, ma se dubi­ to allora penso, e se penso allora esisto, dunque esiste qualcosa che pensa. Per Cartesio il cogito è il sospirato fulcro intorno a cui far ruotare un'anto­ logia scientifica, è il fondamento, l'assioma, che, una volta raggiunto, spin­ ge l'ingegno oltre a sé, ad esercitarsi nella costruzione delle mediazioni ca­ paci di estenderne la portata, di condurre l'io al mondo. Come noto, però, buona parte della vicenda filosofica degli ultimi tre secoli verte proprio sul­ le aporie sollevate intorno alla natura e alle possibilità di questa mediazione tra soggetto ed oggetto, e questo ci induce ad un esame più attento del pri­ mo atto della fondazione cartesiana. Un fulcro è tale in presenza di una le­ va, un assioma in presenza di una logica: se la solida terra cui approda il dubbio avesse la natura di

un'evidenza,

cioè di qualcosa di semplice, imme­

diato, incondizionato, allora dalla sua certezza non potremmo trarre alcuna deduzione; infatti, da un'esistenza immediata non discende nulla, neppure l'impossibilità che essa contemporanemente non esista, giacché questa in­ compatibilità presuppone una logica, e tale modalità inferenziale non può essere implicita in un esistente semplice, in un'intuizione priva di articola­ zioni e parti. Eppure, si vorrebbe forse dire, se il procedimento che risale alle condizioni di possibilità di un fenomeno non perviene ad un incondi­ zionato, dove mai potrà approdare? E d'altra parte, se qualcosa è incondi­ zionato, deve essere indipendente da altro, non relativo ad altro, ma da un orizzonte ultimo semplice ed irrelato non c'è nulla da far discendere; dob­ biamo allora dire che il procedimento regressivo (trascendentale) inaugura­ to da Cartesio, non ci può in verità mai condurre ad una fondazione? Prima di trarre una tale radicale conclusione potremmo però chiederci: cosa acca­ de se, ingenuamente, chiediamo ancora la condizione di possibilità della condizione di possibilità, cioè, qui, dell'esistenza della res cogitans? L' autoe­ videnza del pensiero viene definita cartesianamente attraverso un preciso fenomeno, cioè l'autoreferenza nella.forma privilegiata del dubbio. Il mo­ dello del

cogito identificato da C artesio è I' atto del dubitare, atto che pre­

suppone una dualità nella coscienza in grado di asserire e porre obiezioni, di rispondere e di approvare; un differente atto di pensiero come, ad esem­ pio, il semplice descrivere, o il narrare, non avrebbe presupposto una tale dualità. Potremmo dire che è l'impossibilità dia-bolica (dovuta al demone che impone il dubbio iperbolico) di affidarsi ad una descrizione immediata, all'enunciazione, ad esigere una fondazione dia-lettica della certezza. II procedimento cartesiano, per come è concepito, pone l'orizzonte fondativo ultimo nel pensiero, ma in un

particolare modo del pensiero, che prima di 20

Significazione essere una «cosa», o l'oggetto semplice di un'intuizione immanente, è un processo, sia pure autoreferente, autonomo. Già, ma allora è legittimo chie­ dere: come si dà a vedere I' ego cartesiano in quanto fondamento, come si dà a vedere la cellula indipendente, ma non incomposta, dell'autoreferenza?

l. Il dialogo muto Quanto Cartesio ha di fronte nel

cogito è un preciso fenomeno: il pen­

sare nella forma bipolare, la �>, ma quanto alla sostanza dell'atto, esso non diffe­ risce in modo rilevante, e sovente, un uomo che sappia di essere del tutto solo, si coglierà a fare commenti o domande ad alta voce. Osservazioni par­ ticolarmente rilevanti sul nesso tra linguaggio vocalizzato e linguaggio inte­ riore si trovano in un classico lavoro di L. S. Vygotsky. Criticando la nozio­ ne piagetiana di «linguaggio egocentrico» (verbalizzazioni del bambino du­ rante l'esecuzione di compiti o giochi) egli scrive: I dati ottenuti suggeriscono in modo evidente l'ipotesi che il linguaggio egocentrico

è uno stadio di transizione nell'evoluzione dal linguaggio vocale a quello interiore. Nei nostri esperimenti i bambini più grandicelli si comportavano in maniera diversa da quelli più piccoli quando erano di fronte a degli ostacoli. Sovente il bambino esa­ minava la situazione in silenzio, poi trovava una soluzione. Quando gli si chiedeva a Piaget J., La Rappresentazione del mondo nelfanciullo, Boringhieri, Torino 1966, p. 45.

21

Fenomenologia e genealogia della verità che cosa pensasse, egli dava delle risposte molto simili ai pensieri-ad-alta-voce del bambino di età prescolare. Ciò indicherebbe che le stesse operazioni mentali che il bambino di età prescolare fa attraverso il linguaggio egocentrico sono già relegate nel bambino di età scolare nel linguaggio interiore senza suono'

Il , compiutamente esplicata). La metaforizzazione del pensiero come ascolto, presente anche nell'uso di sia per che per >, ci suggerisce un'affinità, e tale affinità è anche tutto ciò che al momen­ to ci permettiamo di notare. Tutto ciò ci suggerisce una considerazione co­ mune per il ) dell'oggetto ideale sta tutta nel fatto che il linguaggio come vocalità se ne è appropriato, e che l'introiezione del modo di agire del segno vocale informa la natura dell'oggetto designato. Derrida dice troppo, o forse troppo poco. Egli ha come oggetti polemi­ ci le nozioni di ), di «trascendenza della coscienza>), di «pre­ senza immediata>), e ha buon gioco a ricondurne i presupposti al «fattO>) della voce. Tuttavia l'analisi della vocalità da lui svolta può lasciare alcune perplessità, e precisamente nella misura in cui, come egli nota, "un oggetto ideale è un oggetto la cui mostrazione può essere indefinitamente ripetu­ ta"6. Finché «ideale>) significa solo «trascendente>) o «immateriale>) l'atto vocale ne può costituire, nei modi in cui è stato descritto, il legittimo aprio­ ri materiale, essendo chiaro come la voce eviti la contaminazione del mon­

do mediato ed esteriore. Ma cosa significa che l'oggetto "può essere indefi­ nitamente ripetuto"? Significa in primo luogo che lo s tesso oggetto può es­ sere prodotto infinitamente, cioè che esso è secondo luogo che esso è un

oggetto,

universale e

non particolare; in

cioè che vi è distanza, distinzione tra

un soggetto ed un oggetto; in terzo luogo che è

un oggetto, cioè che esso si

distingue dall'indefinitezza del «rimanente>), essendo unitario e permanen­ te. Dunque una compiuta considerazione dell'oggettualità (husserliana o cartesiana) ne isola tre caratteristiche definitorie: ad essa competono l tà, la

distanza,

e

'

un i­

l'universalità .

Vi sono, nella descrizione concretamente data da Derrida, elementi adeguati a sos tenere la riconduzione dell' oggettualità ideale nella comples­ sità delle sue caratteristiche all'atto vocale? Non sembra. Egli descrive per­ fettamente la voce come «interiorità>), come «unità di significante e signifi­ cato» e dunque come «trascendente ed immateriale», ma con ciò non si Derrida J., ibidem,

p. 115.

24

Significazione esprime ancora l'oggettività:

chi giudica l'identità dell'oggetto, la sua me­ desimezza in ognuna delle repliche? e per chi la mostrazione infinitamente ripetibile avviene? Derrida intuisce l'unità dell'atto vocale e del sé, ma non

la mostra, e parimenti fa con l'oggettualità. A ben vedere si potrebbe obiet­ tare alla sua descrizione della voce come auto-affezione che la differenza tra l'esperienza del «toccante-toccato» e quella sonora del «dire-ascoltare>> non è poi così chiara, giacché, in fondo, dove starebbe la differenza tra la pros­ simità della propriocezione muscolare del «toccante-toccato» e quella sono­ ra del «dire-ascoltare»? In entrambi i casi, si può dire, c'è una "auto-affe­ zione assolutamente pura", che non passa per il "non-proprio"

Derrida

sembra pensare che la voce esca da noi per rientrarvi immediatamente dalle orecchie, e che cosl facendo chiuda il circolo dell'autocoscienza. Ma la vo­ ce, se, come Derrida ci insegna, fonda l'interiorità come tale,

non esce affat­

, to, per noi stessi, da noi, ed anzi di per sé rimane in una assoluta prossimità

sensibile . Non si può pensare, nell'atto primigenio della vocalizzazione, alla bocca e alle orecchie come «due>>, perché io posso sentirmi vocalizzare an­ che come vibrazione tattile nella gola e nella nuca, e questa sensazione non si distingue affatto dall'ingresso della mia voce dalle orecchie.

È

d ' altronde abbastanza trasparente il luogo in cui D errida compie il

salto indebito: egli argomenta intorno al «sentirsi-parlare», cioè pensa sin dall'inizio la

phoné come logos. Egli scivola dall'ideale-immateriale all'uni­

versale, perché passa senz'altro dalla voce al linguaggio, pensato come co­ stitutivo dell'oggettualità e dell'universalità. Ma la voce non è ancora un voler-dire, non esce dalla prossimità verso il mondo, e dunque non rientra identificandosi come , l' esistente in sé sarebbe soltanto ciò che si dà agli aditi di senso, ovvero

ciò che si dà a «prove» poste come immediate.

L'assolutezza

dell'esistente mondano non sta nel fatto di «non essere relativo a nulla>> (il che lo porrebbe come impensabile ed insignificante) , ma nell'esser relativo a ciò che è posto come immediato. Tale immediatezza ha la funzione di ga­ rantire l'indipendenza dall a soggettività idiosincratica, pur conservando l'i­ dea del contatto con la soggettività >, le soglie che distinguono l'esistente dal soggetti­ vo ed opinato. La mediatezza dei sensi è un fattore di fondamentale impor­ tanza per intendere I'istituirsi dei concetti empirici e della realtà in genera­ le, e su di essa dovremo ritornare per una migliore comprensione; come ve­ dremo meglio i sensi non si limitano ad eseguire operazioni semplici e co­ stanti, al contrario essi

imparano a percepire; cosl, l'occhio impara a mette­

re a fuoco, a vedere la profondità, a riconoscere linee, chiaro-scw;i, ecc., al­ trettanto la mano impara a distinguere le forme dei corpi, a discernere rilie­ vi prossimi, a riconoscere testure differenti, ecc. L'immediatezza è conferita ai sensi dall'assenza di un metodo consape­ vole di insegnamento relativo alla sensibilità: i sensi imparano a percepire in maniera irriflessa, come condizionamento di una tradizione e di un'am­ biente (imitazione, comportamento ambientale, ordinamento assiologico, ecc.). Perciò i sensi non sono riducibili a semplici strumenti dell'azione e non possono mai diventare un possesso puramente individuale, donde la lo­ ro attitudine a porsi come spartiacque tra meramente «soggettivo>> e «real­ mente esistente». Di fatto, come abbiamo già visto, l'oggettività nomina anche la possibilità di valere come un medesimo per una molteplicità di sog­ getti empirici, e l' assenza di un metodo, di una grammatica, dei sensi, ne rende indipendenti i modi d'operare da decisioni coscienti, dall'arbitrio in­ dividuale, da volontà di innovazione o conservazione, li rende in questo senso «oggettivi». L'esistenza è senz' altro l'esser verificato dell' as-soluto, l'esser provato come indipendente. L'essere esistente è "ciò che risponde" , ma sulla base di

un

interpellare aspecifico, di una pura richiesta di risposta

da parte di una «soggettività» assolutamente generica. I caratteri di questo «interpellare» sono estremamente scarni: deve trattarsi di un'azione, non può cioè trattarsi di una condizione meramente reattiva, ma deve aver vigo­ re quella del famoso Mgomento di Fichte intorno al principio di identità è ben com­ prensibile nell'ottica qui assunta: che

un

evento sia posto come identico

a

se stesso, significa

che esso è stato «sdoppiato» e òe poi i due elementi così sorti sono posti come identici. Que­ sto «sdoppi:unento>> presuppone un soggetto che ponga un principio di distinzione tra il «dato» e

il «posto>>, e tale principio

è

il medesimo dell'autocoscienza, dell'identità nella riflessione di

due elementi distinguibili. Nel soggetto l'io come segno attivo suscita ed obiettiva l'io come compimento d' :ltto (immaginativo o r>: l' esistenza i:

dunque «l'essenza dell'essenza», il rimando costitutivo tra .

65

Fenomenologia e genealogia della verità pensiero filosofico, e l'oggetto primo di tale discussione è quasi obbligato. Il principio primo della conoscenza razionale è stato sempre identificato con il principio di non-contraddizione. Leibniz, cui risale l'opposizione ter­ minologica tra verità di ragione e verità di fatto, concepisce le verità di ra­ gione come la possibilità totale delle verità di fatto, in quanto ogni verità di fatto è l'unione di un soggetto con un predicato e l'insieme delle verità non­ contraddittorie offre tutte le possibili congiunzioni tra soggetti e predicati. Da ciò discende anche che "nulla è senza ragione" : in quanto ogni verità di fatto sarebbe stata potenzialmente dimostrabile a priori, essendo il suo si­ gnificato già presente come verità di ragione . Il legame che Leibniz esibisce è quello tra possibilità ed esistenza: il principio di non-contraddizione è la possibilità dell'esistenza. Per intendere questo nesso si può riflettere sul fatto, non ovvio, che nulla può accadere che già non sia immaginabile: se andiamo con la mente ad uno dei quadri paradossali di Escher (ad esempio "Relatività"), possiamo notare come esso sia immaginabile per parti, sia ri­ producibile nei tratti, ma non sia mai immaginabile come intero articolato, come evento: esso non è comprensibile ed una condizione come quella dise­ gnata non può mai essere verificata nella realtà; possiamo dire che l'imma­ gine empirica è possibile, mentre l' immagine logica non può istituirsi. Proviamoci ad affrontare brevemente il significato del principio di non-contraddizione; nella sua formulazione classica nel rv libro della Meta­ fisica di Aristotele esso recita: È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo Io stesso rispetto'

tale enunciazione Aristotele fa seguire una celebre ed insuperata dife­ sa del principio, la complessità della quale è indice ad un tempo dell'impor­ tanza che Aristotele attribuisce al principio stesso e della «non-ovvietà» del medesimo. La difesa aristotelica consta dell'analisi esplicativa in otto punti, e relative articolazioni, di un breve ragionamento iniziale; egli scrive: A

n punto di partenza, [ . . ], non consiste nell'esigere che l'avversario dica che qualco­ sa o è oppure non è (egli, infatti, potrebbe subito obiettare che questo � già un am­ mettere ciò che si vuole provare), ma che dica qualcosa che abbia un significato e per .

non fa­ né con sé medesimo né

lui e per gli altri; e questo � pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se cesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere,

con gli altri; se, invece, l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimo­ strazione. Watti, in tal caso, ci sarà già qualcosa di determinato. E responsabile delAristotele, op. cit. ,

p . 184,

(1005 b). 66

Verità la petizione di principio non sarà colui che dimostra, ma colui che provoca la dimo­ strazione; e in effetti, proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento. Inoltre , chi ha concesso questo, ha concesso che c'è qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione' (Sottolineature nostre) .

L 'ambito della discussione è quello di un dialogo, di una discussione in­ tersogge::tiva, in cui il filosofo vuole rendere consapevole l'interlocutore della necessità di ammettere il principio di non contraddizione. La difesa del principio non può essere svolta nei termini di una dimostrazione, giac­ ché è proprio il fondamento di ogni possibile dimostrazione che dovrebbe essere qui dimostrato, dunque è necessario seguire un' altra strada: bisogna mostrare come nelle pratiche dell'interlocutore sia tacitamente implicito il principio che egli esplicitamente vorrebbe negare. Per fare ciò è necessario che l'altro sia di fatto un interlocutore, cioè che dica qualcosa e che lo dica in modo da instaurare una comunicazione con il filosofo. Se egli fa questo, dice Aristotele, allora esercita, anche se inconsapevolmente, il principio di non contraddizione, lo vive nell'atto stesso della significazione in quanto significazione, che, per essere tale, deve comunicare per tempi, luoghi e uo­ mini diversi il medesimo contenuto. n sussistere stesso dell'espressione si­ gnificativa implica che un medesimo riferimento appartenga al medesimo discorso in uno stesso tempo e sotto uno stesso rispetto. Il riferimento in questione non necessariamente deve avere un unico significato, ma è suffi­ ciente che "i significati siano in numero limitato"7• Nel passo citato abbiamo sottolineato alcuni termini, che riguardano la struttura più interna dell'argomento aristotelico e che mostrano come l) il principio di non-contraddizione sia sostenibile come "principio di determi­ nazione significativa"; 2) come esso sia implicato nella costituzione del sog­ getto; 3) come esso fissi il limite tra verità di ragione e verità di fatto. l. n principio di non-contraddizione vale ben al di là di qualunque for­ malizzazione logica, perché esso trascende la numerabilità dei significati e la loro definizione; la non-contraddizione nomina formalmente ciò che è il fenomeno del linguaggio in quanto articolazione. L'interlocutore aristotelico dice qualcosa, cioè qualcosa di determinato, qualcosa che non è qualcos'al­ tro; egli non squaderna l' intero vocabolario e non emette un grido, compor­ tamenti questi che hanno il medesimo (nullo) valore logico, ma dice una o più proposizioni. Tali proposizioni hanno articolazioni interne e sono arti­ colazioni esse stesse, per così dire, ritagliate tra le infinite proposizioni posAristotele, op. cit., pp. 186-7, (1006 al . Aristotele, op. cit. , p. 188, (1006 b).

67

Fenomenologia e genealogia della verità sibili. Le proposizioni dell'interlocutore possono essere anche false, o ap­ prossimative, ma ciò presuppone la loro determinatezza.

E parimenti esse

possono non essere proposizioni apofantiche , bensì preghiere od ordini, ma anche in tal caso deve trattarsi di espressioni determinate . Non

è perciò il

riferimento all'oggetto a determinare la proposizione, ma il riferimento ad un significato, di cui non è necessario (né possibile) definire le «parti» costi­ tutive, o i referenti oggettuali od immaginativi, ma di cui è necessario quantomeno che

«escluda qualcosa da sé». Detto in altri termini, è indispen­

sabile perché una proposizione abbia significato, dica «qualcosa>>, che essa ponga almeno

una differenza nel mondo, cioè che ponga I'interlocutore , o scelta.

in generale chi intende la proposizione, nella condizione di fare una

Poniamo il mio interlocutore dica > («agisci, non subire! ») , ed allora la sua espressione, per quanto generica, per quanto priva di referenti ogget­ tuali od immaginativi precisi, ha un significato determinato; come tale essa esibisce la necessità della non-contraddizione, non come principio formaliz­ zato, ma come pratica che Aristotele rintraccia anche nell'interlocutore ignaro, e che fonda la significazione, non la presuppone; in questo senso il principio di non-contraddizione si dà a vedere come principio

di disgiunzio­

ne che crea i significati. La determinatezza della disgiunzione pretende per sussistere un contesto semiotico generale, pragmatico, extralinguistico: il «fa» dell'esempio non sarebbe la stessa disgiunzione se gridata durante una prova d'orchestra (nota) od una predica (imperativo) .

2 . Per Aristotele un uomo per cui non valesse il principio di non-con­ traddizione non potrebbe discorrere "né con sé medesimo, né con altri" ; nel «discorrere con sé medesimo» ovviamente non si indica una pratica biz­ zarra o patologica, ma, come abbiamo già avuto modo di vedere, l'attività dell' autoreferenza in generale. Nell'atto di «riflessione» il soggetto inten­ ziona i suoi propri vissuti, li «richiama» alla mente

e

li fa interagire con

eventi presenti. La riflessione ricostruisce sempre una coordinazione di esperienze, che fanno riferimento ad un ) con la configurazione simmetrica di un evento percetti­ vo, come una goccia d'olio nell' acqua, e questo sia perché la forma unitaria della goccia d'olio (astraendo, ad esempio dalle differenze di luminosità)

è

un fenomeno percettivo gestaltico come quelli che si vogliono giustificare, sia perché la sfericità della goccia d'olio, come corrispettivo della costanza delle forze agenti su di essa, è un' idealizzazione, vera solo approssimativa­ mente, e svolta proprio in nome della semplicità del concetto. In questo sen­ so il lavoro svolto dai gestaltisti non perde nulla del suo valore, purché eviti di credere che i fenomeni esibiti siano «compresi>) con la mera applicazione di etichette come «buona forma>) od «economicità». La

Gestalttheorie sembra dunque indicare l' esistenza di nessi universali

e necessari tra le sensazioni e la loro interpretazione percettiva; questa posi­ zione, non pretendendo comunque di risolvere in nessi di questo genere tutte le relazioni tra evento sensibile e significato percettivo, non costitui­ rebbe una confutazione di principio della natura «Storica» dei significati

75

Fenomenologia e genealogia della verità percettivi, tuttavia ne limiterebbe sensibilmente la portata. Vogliamo per­ ciò mettere alla prova la nostra valutazione della percezione discutendo la plausibilità di alcune tesi gestaltiste. Innanzitutto, nei soggetti sottoposti a valutazione dagli psicologi della Gestalt i «completamenti percettivh> nel senso della buona forma, e le «illusioni ottiche» relative erano la norma; ci si può chiedere se questo risultato non sia legato ad un «errore di selezio­ ne», cioè ad una scelta particolare dei campioni da sottoporre ad esame. I soggetti erano tutti adulti dell'occidente alfabetizzato, il che lascia fuori principalmente due orientamenti possibili: la considerazione dei fanciulli ancora in fase di sviluppo, e la considerazione di soggetti estranei alla cultu­ ra ed agli usi occidentali. Per quanto concerne la psicologia infantile ci sono pochissime ricerche che si siano poste il problema, ma i pochi risultati vanno nel senso di un ri­ conoscimento del ruolo dell'esperienza nella costituzione delle forme per­ cettive; così Piaget e von Albertini hanno mostrato che al di sotto dei sei anni di età, dunque in un periodo in cui la maturazione del sistema visivo

è

da lungo tempo perfetta, i bambini mostrano grande difficoltà nel ricono­ scere unitariamente contorni punteggiati, come appartenenti ad una figu­ ra17. Anche in età relativamente avanzata si presentano segni di un'evolu­ zione nel riconoscimento di unità figurali: "il tempo richiesto perché i fan­ ciulli trovino una figura semplice «Camuffata» da un disegno di maggiore complessità

è più o meno dell'ordine di centocinquanta secondi per disegno

all'età di dieci anni e di circa cinquanta secondi cinque anni dopo"18, e ciò sembra suggerire una scarsa «economicità» figurale nella percezione prima della fissazione educativa della rilevanza di certe «figure» rispetto ad altre. Osservazioni più numerose ci confortano nella considerazione delle differenze tra soggetti legati al mondo occidentale ed altri ad esso estranei. Notazioni interessanti a questo proposito si trovano nel classico lavoro di A. R. Luria sull a Storia sociale dei processi cognitivi. Luria ebbe modo di svol­ gere la sua ricerca in una situazione particolarmente favorevole, ovvero nel periodo di transizione delle popolazioni dell'Uzbekistan dalla cultura tradi­ zionale a quella alfabetizzata, negli anni '30. Egli effettuò una serie di espe­ rimenti proponendo di nominare e unificare per affinità diverse figure geo­ metriche. Tali figure erano compiute o incompiute, chiare o scure, a linea Piaget J.,

von

sur 14 perception

Albertini B., Recherches sur le développement des perceptions. Obseroations

des bonnes formes che::: l'en/ant par actualization des lignes virtuelks, Arch. Psy­

chol., Genève 1954, 34, pp. 203-43. '8 Bruner J.S. e al., Studi sullo sviluppo cognitivo, Armando, Roma 1968,

76

p.

JS.

Verità continua o tratteggiata, costituite di puntini o crocette, ecc. I soggetti che avevano maggiore affinità con la cultura occidentale davano descrizioni fa­ centi capo a figure geometriche ("qualcosa come un cerchio"), mentre le donne ickari, e gli uomini dekhani, analfabeti e legati alla cultura tradizio­ nale, menzionavano le figure come oggetti: piatto, setaccio, orologio luna, ecc. La conseguenza più rilevante è che anche la riunione delle figure in ca­ tegorie di somiglianza seguiva la categorizzazione oggettuale: perciò il qua­ drato-finestra ed il rettangolo-carrozz'ino non capitavano nello stesso grup­

po, mentre quadrato e triangolo tronco, visti come intelaiature, capitavano

nella stessa categoria19 L'esperienza descritta da Luria ci dà alcune indicazioni preziose, al di là delle incertezze interpretative che l'autore, suo malgrado, manifesta. La descrizione in termini di «unità figurale» gestaltica può essere sostituita, con guadagno di fedeltà al fenomeno, da una descrizione in termini di �, speculare, manterrebbe costanti le proprie caratteristiche al variare dell'esercizio.

3 . 3. Rilevazione di differenze Abbiamo già notato, di passaggio, come la strutturazione percettiva orVon Senden M., Space and Sight, Free Press, Glencoe, ID. 1960. M.D. Vernon, op.cit., p. 149.

80

Verità ganizzi l' informazione in un sistema di distinzioni molto variabile : lo spet­ tro dei colori può essere ripartito in modo mutevole, a seconda delle esigen­ ze operative e culturali dei soggetti percipienti. La percezione in generale, come abbiamo iniziato a vedere, è descrivibile come una rilevazione di dif­ ferenze. Di uno stimolo compiutamente omogeneo non vi è percezione. Un'esperienza che può illustrare questa asserzione si dà nel caso del cosid­ detto

Ganzfeld visivo, cioè nell'osservazione, mono- o bi-oculare dell'inter­

no di un diffusore perfetto (la cavità di una sfera di materiale omogeneo, come una pallina da ping-pong) : Scompaiono così, tutte le proprietà del mondo visivo: non soltanto svaniscono og· getti e superfici ma anche tendono a diventare sempre più vaghe, dopo breve osser· vazione, le stesse impressioni di luminosità e colore. Ampie variazioni dell'illumina­ zione disrribuita all'interno delh sfera, sia quamitative che qualitative, risultano appena discernibili. Una «nebbia» si estende all'intorno, infittendo a distanza. Ci si sente immersi in una sostanza torbida, lattiginosa [. . .]. Ben presto, la stessa localiz. zazione dell'ego al centro di uri ambiente esteso può venir sostituita dall'introiezio· ne della nebbia, la quale va a situarsi

dentro alla testa: in verità, il confine tra il

«dentro» e il «fuori» della testa smette di esistere. Infine, accade che si verifichi la sensazione, alquanto sgradevole e per alcuni ansiogena, di perdita della vista>'.

Nel caso del

Ganzfeld abbiamo la completa elisione di ogni differenza

ambientale, che porta con sé anche la separazione tra soggetto e ambiente. L'impressione di «perdita della vista» mostra come la perdita della funzione discernente della vista implichi la perdita della consapevolezza dell'adito sensibile, cioè del confine tra soggetto e realtà esterna, della sensibilità stes· sa come soglia di richiamo della realtà al soggetto. Ora, una considerazione della percezione in termini di funzione differenziante si scontra diretta­ mente con la considerazione classica dei colori, che istituisce un'equivalen­ za tra di essi ed alcuni parametri fisici obiettivi (frequenza o lunghezza d'onda) . Di principio si postula una corrispondenza biunivoca tra tali para­ metri ed ogni sfumatura soggettiva di ogni possibile colore . Vi sono rutta­ via osservazioni ed esperimenti che mettono seriamente in dubbio il senso di tale equivalenz�; ad esempio il seguente: In una stanza buia, uno schermo tappezzato con carte variopinte-cioè ciascuna di· stinta da una specifica riflettanza" spettrale-viene illuminato da una miscela di tre

Gerbino W., op.cit. , p. 62. Si dice «riflettanza» la proporzione

in cui una superficie riflette le componenti della luce

incidente.

81

Fenomenologia e genealogia della verità radiazioni a banda ristretta, in corrispondenza di una lunghezza d'onda corta, di una media e di una lunga. Di conseguenza, da ogni carta dello schermo provengono tre radiazioni monocromatiche, l'intensità di ciascuna delle quali è una frazione del­ la corrispettiva intensità incidente, filtrata dalla funzione di riflettanza spettrale che caratterizza quella particolare carta. In momenti successivi dell'esperimento l'intensità delle radiazioni corta, media, lunga viene regolata secondo proporzioni differenti: si ottiene così che una carta rossa rimandi all'occhio, nella prima fase del­ l' esperimento, la stessa miscela di radiazioni che viene invece rimandata, nella se­ conda fase, da una carta blu oppure ancora, nella terza fase, da una carta verde. Se a determinare il colore veduto fosse la miscela di radiazioni riflesse, nelle tre fasi del­ l' esperimento lo stesso colore dovrebbe provenire da carte diverse: cioè dalla rossa

nella prima fase, dalla blu nella seconda e dalla verde nella terza. [ . . ] Ma le cose .

vanno altrimenti. Ogni carta mantiene la sua tinta-per così dire-in ciascuna delle fasi in cui si articola la dimostrazione: rosso, blu e verde stanno sempre al loro posto sullo schermo variopinto, e lo stesso vale per tutti gli altri colori. [ . . ] L'illuminazio­ .

ne, pur essendo cosl particolare, è comune a tutto lo schermo. [ . . ] Quando cambia .

l'illuminazione comune, tutto cambia nelle miscele di radiazioni provenienti da ogni zona isolata; ma restano invariati i rapporti spettratf-•.

La forza di questo esperimento sta proprio nel fatto di operare sul me­ desimo piano astratto della teoria fisica dominante; esso ci dice che colore e lunghezza d'onda non sono concetti interscambiabili, in quanto la variabile determinante nel processo di percezione cromatica è la

collocazione

di un

colore in un determinato rapporto differenziale con altri colori; meglio an­ cora si dovrebbe dire che il colore in sé è propriamente un ambito differen­ ziale nello spettro visivo e nient' altro>0• Ciò si può vedere,

cum grano salis,

nell'efficacia della visione nella trasmissione televisiva in bianco e nero: chi scrive ricorda ancora lo stupore che lo colse quando da bambino sentì che esistevano televisori a colori, e che il televisore in cui aveva sempre ricono­ sciuto senza difficoltà il rosso dei pomodori e l'azzurro del cielo era «in ve­ rità» nient'altro che una gamma di grigi. Di fatto, nonostante l' ambiente circostante doni senza difficoltà ogni varietà di colori, collocando il proprio ambiente visivo

all 'interno dello schermo,

si scorgono

colori e non variazio­

ni di grigio. Ovviamente questo esempio vale con certe limitazioni, giacché le sfumature dello spettro completo, cui siamo abituati nella visione con29

Gerbino W., op. cit., p. 126. Non nbbiamo riportato, per l':unpiezl:a di particobri tecnici in cui avremmo dovuto addentrarci, numerosi esperimenti che dimostr:mo in modo straordinariamente perspicuo l'at· tività differenziatrice della perce1:ione, consigli:uno, chi desider:JSse prendere visione di ulte­ riori argomentazioni in questo senso, di consultare il testo citato di Gerbino, che riporta con :unpiezz!l e rigore numerosi esperimenti di grande interesse (vedi in particolare pp. 70-8). Jo

82

Verità sueta, ha una varietà di gradazioni di molto superiore a quella dei grigi e per una eguale resa nella rilevazione differenziale ci vuole una particolare fun­ zionalità dei «bastoncelli» oppure una estrema definizione dei contrasti (as­ sente in un normale televisore in bianco e nero) . Siamo legittimati ad ipo­ tizzare che un mondo compiutamente in bianco e nero non mancherebbe di alcun �olore:

il sangue sarebbe , e tra «azioni>> e «verbi>>: dire che ogni oggetto della percezione è nominato da un sostantivo, non vuoi dire affatto che si può intendere b natura del sostantivo a partire d:ill 'esperienza di cose materi:ili; piuttosto è h colloc:lZione logico-operativa dell'oggetto (di cui abbiamo gih parlato nella prima sezione) a poter dare ragione dei nomi gr::unmaric::ili e delle cose materiali. �·

Bruner J.S., The Ontogenesis of Speech Act, in Joumal of Chi/d Language, 1975, vol. 2, pp.

1-19.

99

Fenomenologia e genealogia della verità tagmi nominali della classe A. Le parole della classe P non compaiono mai da sole, né mai abbinate tra di loro, e ciò risulta chiaro proprio pensando al loro ruolo di specificazioni; inoltre ciò aiuta anche a comprendere la loro maggiore frequenza d'uso, giacché i termini specificativi sono più generali, più estesi dei termini che devono specificare: parole come «mio» o o «Mc Neill>>. Rias­ sumendo, non solo nelle distinzioni a livello olofrastico, ma anche per quanto concerne il primo livello di strutturazione sintattica, il momento qualificante è costituito da un atto di differenziazione, atto certamente non puramente formale e gratuito, ma coincidente con l' aumento d'informazio­ ne cui il soggetto va incontro : una volta determinatasi, nei modi descritti nella prima sezione, l'alterità in generale, l' ob dell' ob-jectum , la pratica lin­ guistica la articola per differenziazioni progressive, di cui I' aumento del les­ sico e l'istituzione delle relazioni tra i termini sono i due primi gradini. 4 . 2 . Linguaggio e pensiero Cerchiamo ora di valutare se e quanto le strutture linguistiche inter­ vengano sulle operazioni di pensiero e su quelle percettive. L 'ipotesi che so­ stiene la dipendenza delle operazioni mentali, nel loro senso più ampio, dal linguaggio porta il nome di ipotesi Sapir-Whorf, dai nomi dei suoi due più noti sostenitori, i linguisti statunitensi E. Sapir, e B . L . Whorf (allievo del primo). Questa ipotesi, nella sua radicalità, risulta tanto imprecisa da essere difficilmente utilizzabile, in quanto i diversi livelli del linguaggio (lessicale, sintattico, fonologico, ecc.) sono trattati spesso indistintamente, e l'intera­ zione tra strutture linguistiche ed eventi «mentali» è, frequentemen te, più affermata, sulla base di evidenti differenze linguistiche, che mostrata anali­ ticamente. Tuttavia, sulla scorta di questa ipotesi, di volta in volta psicolo­ gi ed antropologi diversi hanno esaminato partitamente singoli nessi, tanto con riferimento a differenze linguistiche tra culrure, che, più spesso, con ri­ ferimento a differenti livelli di competenza linguistica tra soggetti della me­ desima cultura. Un esperimento classico, e frequentemente discusso, è quello condotto da Heider (Rosch) ne1 1972: vennero selezionati due grup­ pi di parlanti, uno di lingua inglese e I' altro D ani (una popolazione che pos­ siede soltanto due categorie linguistiche di colore: Mili per i colori caldi, e Mola per i colori freddi); a questi due gruppi vennero poi sottoposti per 5 secondi dei campioni di colore, e dopo 30 secondi venne chiesto loro di ri­ conoscere in un nuovo campione percettivo la loro coincidenza o meno con i campioni precedentemente visti. Dall'esperimento emerse che il ricono­ scimento nei parlanti inglesi era nettamente superiore a quello dei Dani, 100

Verità mostrando come la categorialità linguistica incidesse sulla ritenzione anche nella memoria a breve termine11• Di questo esperimento, la cui interpreta­ zione sembra piuttosto semplice, conosciamo invece una critica decisa, che prendiamo in �onsiderazione a titolo di rappresentanza tipica di un indiriz­ zo generale di critiche ad ogni dipendenza delle funzioni cognitive dal lin­ guaggio. Nel lavoro su

Linguaggio e pensiero

di Job e Rumiati56, dopo aver

preso atto dei risultati dell'esperimento appena citato si afferma che tali ri­ sultati sono secondari rispetto al fatto che tanto i Dani che gli Americani avevano maggiore facilità nel riconoscere i colori focali rispetto a quelli non focali . Da ciò si trae addirittura la diretta conclusione per cui "il fatto che la lingua che uno parla contenga molti nomi che si riferiscono ai colori o ne contenga pochi non ha alcuna importanza per quanto riguarda le prestazio­ ni cogntive con i colori stessi" L' argomentazione critica portante sostiene che la diversità del rendimento tra i Dani e gli Americani può essere ritenu­ ta inconferente perché "probabilmente spiegabile in base alla familiarità del compito"

Questo argomento getta immediatamente luce sull'ipotesi

che qui si crede di dover verificare. Contestando la «familiarità col compi­ to» non si sta certo indicando lo specifico compito sperimentale cui i sog­ getti sono stati sottoposti, perché nessuno dei soggetti occidentali era già stato sottoposto ad esso, dunque si vuole intendere in generale il compito di riconoscere i colori nel proprio mondo sociale, cioè di distinguerli sensibil­ mente e sussumerli sotto categorie diverse. Ma allora, se si ritiene la fami­ liarità di principio estranea al linguaggio, ciò cui si guarda, e che si pensa di verificare è se

gli apparati percettivi dei Dani e degli Americani siano diver­

si a causa della diversità di linguaggio. Concependo il linguaggio e la fami­ liarità col compito come reciprocamente estranei si pensa il linguaggio come un sistema morto di etichette, e non come una prassi vivente. Ma, come ab­ biamo veduto, il linguaggio è una pratica, una pratica che si impossessa di altre pratiche rendendole attive ed intenzionali, dunque è strettamente di­ pendente dall'effettivo impratichirsi con il proprio oggetto: possiamo men­ zionare a questo proposito la «clàssificazione parallela» che utilizzavano le donne ickari, uzbeke, sottoposte ad esame sperimentale d a Luria'7: la loro disgiunzione cognitiva dei colori era es tremamente minuziosa, molto più di quanto l'uzbeko ufficiale facesse preventivare, ma, come nota Luria, le Heider E . , Universals in Colour Naming and Memory, in Joumal of Experimt:ntal Psycho­ logy, 1972, 93, pp. 10-20. 16 ]ob R., Rurni:1ti R., Linguaggio e pt:nsiero, Mulino, Bologna 1984, pp. 162-4. Luri:J A.R. , op. cit., pp. 54-7.

101

Fenomenologia e genealogia della verità donne ickari avevano una grande consuetudine con la pratica del ricamo ed utilizzavano di fatto circa 2 1 denominazioni concreto-figurate di colori (ti­ po «tabacco», «pesca>}, ecc.), mostrando in questo modo di aver elaborato un sistema parallelo a quello ufficiale, funzionale alla loro pratica di ricamo, e perfettamente efficace nel riconoscimento cognitivo. Il tipo di obiezioni riportate nel testo di ] ob e Rurniati tende in sostanza a confutare una ver­ sione meccanica dell'influenza del linguaggio sulle attività cognitive, che schiaccia la percezione sulla sensazione. Esistono comunque anche numerosi esperimenti volti a dimostrare l'in­ cidenza del linguaggio sulle attività cognitive, e condotti, in condizioni spe­ rimentali controllate, su soggetti del medesimo alveo culturale; in tali casi, pur se meno suggestivi, non possono proporsi obiezioni che chiamino in causa fr.aintendimenti, o diversa familiarità col compito, da parte dei sog­ getti sperimentali. Un'esperienza nota, che ha già una storia sperimentale piuttosto 1Wlga e consolidata, è quella legata al recupero nella memoria di immagini cui sono state apposte differenti «etichette»: qui si può verificare come, in un sùccessivo richiamo alla memoria delle immagini, queste veni­ vano riprodotte con distorsioni dipendenti dalla parola con cui erano state categorizzate. Ad esempio, un disegno con due cerchi uniti da una linea ve­ niva etichettato rispettivamente come «pesi» e come �> identificante, verificando

un'ipotesi pronta, ma si può svolgere anche nei termini di un'indagine pro· gressiva, in cui differenti ipotesi vengono messe alla prova, fino a tracciare un percorso di risposte considerate adeguate. La nozione di «ipotesi», già sollecitata ad un chiarimento, appare come elemento chiave per intendere la pratica percettiva, sia essa semplice o progressiva. L'ipotesi, avevamo detto, richiama tanto l'uso del linguaggio nella costituzione della «verifica», che la «rappresentazione», l'immaginazione, nella fase dell'accostamento alla realtà; vogliamo ora cercare di scorgere l'unità di questi due elementi. Discutendo la percezione ed i fenomeni connessi avevamo avuto modo di concludere che l'atto percettivo ha il carattere di una pratica, in cui il ri­ sultato ultimo (il «riconoscimento» oggettuale) è il frutto di un processo di apprendimento, e manifesta una differenza rilevante per il comportamento ambientale. Ciò che la discussione finora svolta non chiarisce abbastanza è l'unità costitutiva dell'atto percettivo, quell'unità che consente di dire che profumo, colore e sapore di una mela sono quello che sono proprio in quan­ to qualità

della mela;

abbiamo visto come il percetto sia il precipitato di un

processo di «apprendimento», ma non abbiamo chiarito quale sia l' unità che guida questo processo. Ribadiamo innanzitutto che l'immagine mentale non è cosa che pertenga al senso della vista (ed in questo senso l'uso delia stessa espressione «immagine» per la rappresentazione mentale è discutibi­ le) ; piuttosro ogni atto di comprensione dà come risultato una «immagine mentale»: facendo svolgere a dei soggetti alcuni compiti manuali complessi, senza che essi possano seguire visivamente quanto fanno, questi, gradual­ mente raggiungono la capacità pratica desiderata, e quando la raggiungono, sostengono di avere ora un'immagine del vero procedimento, e non sempli-

1 13

Fenomenologia e genealogia della verità cemente una serie connessa di movimenti70• In realtà ogni singolo movi­ mento occorrente nella costruzione della rappresentazione conclusiva è a sua volta un possesso in forma di rappresentazione, risalente a precedenti esperienze ambientali, e riducibile, alla fin fine, all'immagine originaria, cioè allo schema corporeo. Osservazioni istruttive per comprendere la natu­ ra della rappresentazione sono riportate da R . Gregory attraverso il caso di

S.B., cieco dall'infanzia, che, recuperata la vista verso i quarant'anni, esibi­ va singolari procedimenti di riconoscimento percettivo del mondo. I dise­ gni di S.B. mostravano come egli fosse incapace di rappresentare ciò che non gli era già noto attraverso il tatto: le finestre vi apparivano sempre ri­ prodotte dall'interno, l' autobus mancava sempre della parte frontale, che

S . B . non aveva mai potuto esplorare con le mani, ecc. Inoltre di fronte ad un oggetto nuovo, come un tornio, visto senza esplorazione tattile, egli non era in grado di darsene un'immagine>>, e di descriverlo, prima di averlo esa­ minato maualmente (ad occhi chiusi?'. Vedere significa

comprendere con

l'ausilio dell'adito della vista, perciò

non si vede nulla finché la stimolazione sensoriale non è interpretata alla lu­ ce di un comportamento ambientale, di una correlazione attiva tra lo sche­ ma corporeo del soggetto e le risposte del mondo oggettuale. La percezione, come avevamo già osservato, dà un risultato (un percetto) come risposta ad un'ipotesi ambientale, e questa ipotesi sembrerebbe essere quanto tradizio­ nalmente chiamiamo «rappresentazione», che è il sapere vissuto di compor­ tamenti ambientali precedenti. La rappresentazione, tuttavia, non appar­ tiene neppure al senso del tatto, come potrebbe apparire dall'esempio ri­ portato, ma risale ad un'unità più originaria di ciascun senso preso per sé, ed anzi, vogliamo dire, è solo tale unità a permettere la specializzazione del­ le risposte percettive dei singoli aditi di senso. Prendiamo nuovamente spunto da un esempio sperimentale per illustrare meglio quanto diciamo. In un

noto esperimento di A. Ames un soggetto, dopo aver osservato esterna­

mente uno scatolone trapezoidale di circa un metro cubo, viene posto a guardare dentro lo scatolone attraverso uno spioncino e con un paio di oc­ chiali che sottraggono l'informazione di profondità data dalla parallasse bi­ noculare; la visione che si presenta all'interno dello scatolone è quella di una stanza perfettamente rettangolare con finestre rettangolari, il che con­ traddice, con un'illusione prospettica, le dimensioni reali e la forma trape­ zoidale, di cui il soggetto è informato. A questo punto il soggetto, che ha Mandler J., From Asrocilltion to Structure,

in

Psychol. Rev., 69, 1962, pp. 415-426.

Gregory R.L . , Occhio e cervella , Saggiatore, Milano 1966, pp. 229-30.

1 14

Verità accesso manuale alla scatola, viene richiesto di colpire con una stecca un fo­ glio di carta sulla «parete>>, partendo dalla «parete» opposta; il colpo sferra­ to arresta la sua corsa dopo pochi centimetri, urtando contro il fondo della «stanza»; nonostante l' informazione cosciente espliciti le reali dimensioni di ciò che si vede, l' azione guidata dalla visione continua a fallire; ma, ciò

che è più notevole, con il migliorare dell'indirizzo dato all' azione di colpire, la stanza visiva si trasforma, più o meno gradualmente, nella scatola trape­ zoidale che in effetti è" . Questo esperimento mostra, al di là delle sue in­ tenzioni relative alla percezione della profondità, come visione e comporta­ mento ambientale costituiscano una struttura unitaria, la cui unità si attua nella con/erma di un comportamento. Se non ottengo una conferma recipro­ ca di visione ed operazione manuale, so immediatamente di essere di fronte ad una situazione di illusione, di irrealtà, e lo so anche se non so ancora co­

me sia di fatto la «realtà»; questo proprio in quanto la realtà è data soltanto dalla conferma dell' azione come unità. L'unitarietà di un comportamento ambientale è il presupposto di ogni percezione, e dunque di ogni realtà sen­ sibile: i sensi si costruiscono intorno ad un modello che non è l'evidenza sensibile, ma la coerenza reciproca nel corrispondere al comportamento vitale. L'informazione cosciente che il soggetto dell'esperimento ha intorno alla forma e alle dimensioni della «stanza» non interviene direttamente nell 'a­ zione quando il comportamento verifica una rappresentazione ambientale dettata dalle risposte percettive consolidate (qui illusorie) ; l'immagine che ho dell'ambiente coincide con il mio saper fare in quell' ambiente, infatti > soltanto in un senso limitato, definibile a posteriori: il mio cane riconosce oggetti e situazioni, ricorda sequenze e percorsi, e tutto ciò compone, in un certo senso, il «mondo» del cane, ma l' unità rappresentativa che fa di questo «mondo» un mondo in senso pro­

prio, gli viene attribuita da altri (nessun animale «cambia idea sul mondo», cioè: nessun animale ha comportamenti che chiameremmo «cambiare idea sul mondo»)'J. Se, come pretendiamo, la realtà è data soltanto dall a confer­ ma di un' azione, dobbiamo chiederci, più precisamente, come è da intende­ re questa «conferma».

È

ormai chiaro che la ) da parte di al­ cuni animali soffre della medesima accidentalità: il sasso che i gabbiani usa­ no per rompere le uova di cui si nutrono, la frutta che l' orango lancia sugli intrusi, il bastone degli scimpanzé di Kohler sono tutti «mezzi momenta­ nei», sono piuttosto occorrenze di oggetti in un comportamento, che non strumenti di cui ci si sia appropriati definitivamente e che si sia disposti a sostituire o produrre, se assenti, in quanto se ne è isolata la funzione: il «mezzo>) non è qui presente se non in senso improprio, è presente per l'os­ servatore che lo concepisce come un elemento mediatore tra l'animale ed il suo fine, ma non è in effetti più mediato della consapevolezza immanente dei moti possibili del mio braccio. Nel pensiero immaginativo un ostacolo, un problema che non possa es­ sere affrontato con pratiche abituali, diviene oggetto della riflessione, il che significa che le molteplici pratiche immanenti che costituiscono il significa­ to reale del contesto problematico vengono distinte, e messe alla prova par­ titamente, tentando di ricostituire con elementi nuovi l'intero del significa­ to iniziale. Senza il sussistere di unità d'azione, cioè senza l'unità di imma­ ginazione impulso-motoria ed articolazione linguistica, non sussiste la pos­ sibilità di risoluzione mentale di problemi nuovi: per risolvere tali situazio­ ni anche l'animale più intelligente ricorre ad un comportamento «per prove

ed errori» (ovviamente tale comportamento non è un «meccanismo»; vi

oc­

corrono, in misura variabile, memoria ed immaginazione) . Sussiste, in veri­ tà una tipologia, non rarissima, di casi che sembrano costituire un controe­ sempio per il ruolo che assegniamo all 'unità d'azione; essa consta di quelle occasioni (che anche chi scrive ha vissuto) in cui in stato di sonno vengono

120

Verità raggiunte soluzioni di problemi di cui ci si è occupati nello stato di veglia. Esistono casi famosi di tali soluzioni nel caso di problemi matematici o logi­ ci, e ciò s::mbra collidere con le ipotesi che abbiamo fatto, in quanto il son­ no è in generale quella condizione in cui la «voce della coscienza» tace, e la mediazione oggettivante nei confronti dell' attività immaginativa si sospen­ de abbandonando il pensiero (attivo) a favore del sogno. A prescindere dal fatto che questa descrizione del sonno sia piuttosto idealizzata, e valga sol­ tanto per alcune delle sue fasi, dobbiamo rispondere con un'osservazione derivata dall ' esame di alcuni casi famosi di tali «soluzioni oniriche>�: tutti i problemi in questione, lungamente meditati durante il giorno , erano cono­

tutti una ridisposizione semplice degli elementi

sciuti perfett.amente in tutte le loro articolazioni e potenzialità; ora in questi casi la soluzione consta di

precedentemente isolati che non si era vista in stato di veglia, un singolo spostamento che, come una lampadina natalizia, una volta funzionante consente all'intero filo di illuminarsi (infatti un carattere tipico di queste soluzioni è dato dal successivo stupore di fronte all a semplicità della solu­ zione cui si era rimasti ciechi) . Ora, questi casi risultano facilmente com­ prensibili anche nel caso di un sonno profondo (con sospensione del lin­ guaggioF' proprio in quanto si tratta di pura attività immaginativa, priva di autocontrollo, ma perfettamente funzionante anche nella condizione di de­ realizzazione onirica. n linguaggio dunque non coincide con il pensiero, ma senza linguaggio non c'è pensiero . Una conseguenza curiosa di questa pro­ spettiva è che, nella misura in cui il linguaggio è la matrice dell'azione, sem­ brerebbe di dover dire che la fabulazione spontanea non può essere un'a­ zione, ma piuttosto un'espressione immediata; e in effetti, parlando, non sappiamo da dove viene il linguaggio, e non possiamo decidere «se» poter parlare, né «Come» parlare. Quando affermo di decidere «come» parlare, di fatto decido di indurre in me una disposizione conveniente alla situazione che devo interpretare, e parlo di conseguenza, ma ciò non garantisce di ciò che dirò

(lapsus e gaffes sono

sempre in agguato) . Il vero punto, però, è che

l'azione non può essere caratterizzata da una rigida contrapposizione tra prefigurazione ed esecuzione: ciò che è essenziale per la natura attiva del linguaggio non è che io predecido cosa produrrò linguisticamente, ma che sorveglio e correggo l'esecuzione, e che

ne ho sempre la possibilità:

nel caso

Notiamo tra l'altro la p:micobr:it!! del linguaggio onirico, El dove appare: si tratta infatti in generale di parole o frasi che sembrano chiarissime quando le si sogna, ed :1ppaiono strana­ mente deformi, od insignificanti per il soggetto risvegliato: ciò ì: particolarmente significativo, in quanto mostra come il lingu:J.ggio onirico non sia un segno attivo, non controlli unità d'azio­ ne, ma comp!l.Ìa qui nella veste di

un

segno tra gli altri, alla stregua di un'imm:1gine.

121

Fenomenologia e genealogia della verità della pratica linguistica il linguaggio la «attiva», nel senso che ha sempre la competenza di selezionare e correggere l'esecuzione. Lo scarto che c'è tra pensiero (comportamento mediato) e linguaggio giustifica il fenomeno che corrisponde alle espressioni «traduco in parole il pensiero», o «non mi ven­ gono le parole», poiché le unità rappresent ative in cui si deposita il mio sa­ pere non sono verbali, ma comportamentali («mimiche», dicevamo in pre­ cedenza), e la loro estrinsecazione implica un' attività «poietica>>. Le unità rappresentative che cerco di verbalizzare possono essere sia conglomerati di unità prassiche, istituitesi come unità d' azione, e riproducibili riarticolando il conglomerato nei suoi significati costitutivi, sia situazioni prive di catego­ rizzazione preliminare («illuminazioni») , per verbalizzare le quali devo cir­ coscrivere l'area semantica con perifrasi e metafore; perciò più lontano è ciò che voglio descrivere dalle unità d'azione consuete, più mi devo sforza­ re «poeticamente» di trovare le parole, e più instabile sarà il mio afferra­ mento di questa esperienza. Se ritorniamo ora ai problemi lasciati aperti nei due precedenti para­ grafi, troviamo la strada spianata per una piena comprensione. La compo­ nente «ipotetica» che avevamo identificato quale presupposto del riconosci­ mento percettivo, si manifesta al pensiero come unità d 'azione. Nell' unità d'azione si fondono due ordini di pratiche con caratteri differenti, accomu­ nati da un'origine comune e da una struttura analoga: con qualche approssi­ mazione essi possono essere nominati come linguaggio (la pratica vocale) e immaginazione (pratiche corporee «mimetiche») . Questi due ordini di pra­ tiche sono accomunati in primo luogo proprio dal semplice fatto di essere entrambi prassi del corpo vivente (non dunque separate da_ uno iato tra ma­ teriale e spirituale) . Genealogicamente, entrambe sorgono dalla sysnsomat6-

tes, cioè da un gioco di risposte «imitative», che creano il «doppio» linguisti­ co, così come creano la «figurazione» corporea: l'autonomizzazione dell'im­ magine e della parola dalla pratica attuale ha le sue radici nel fatto di essere, in entrambi i casi, pratiche rispecchiare dalle risposte ed apprese (non «in­

nate») . L' attenzione alla corrispondenza dell'Altro, la costituzione del cor­ po proprio e dei suoi limiti in un'interazione-riconoscimento con l'Altro, l'attitudine a leggere noi stessi nei moti e nelle risposte dell'Altro, tutto ciò sembra essere premessa della capacità di «immaginare», di combinare pre­ dittivamente figure percettive e traiettorie nello spazio (così fa una scim­ mia, così non fa una lucertolaF6• Infine, tanto il linguaggio , che il comporta-

Questo punto, vogli:1mo sottolineare, è un punto an.:ilicico la cui base è puramente empi·

122

Verità mento percettivo si articolano secondo unità differenziali (il che è quanto dire che si articolano

tout court) .

Va ribadito, onde evitare equivoci, che la matrice prima dell'immagine è il comportamento ambientale, la prassi corporea (di cui la percezione è co­ stituente essenziale) , ma che non vale l'equazione tra comportamento am­

bientale e � immagine in senso stretto, poiché soltanto una parte delle prassi viventi di cui siamo costituiti sono esperibili «in immagine», cioè hanno un «doppio» trascendente, mentre una ·parte maggioritaria resta immanente al comportamento reattivo. Questo appare comprensibile a partire dalla gene­ si dell'immagine rappresentativa, legata al raddoppiamento corporeo della replica, che ovviamente non costituisce l'unica pratica di adeguazione ed orientamento comportamentale. Se non facesse a pugni con l'uso corrente si potrebbe parlare legittimamente del comportamento corporeo

tout court

come di «immaginazione» in un senso ampio, o forse meglio, dell'immagi­ nazione come comportamento «abbreviato». Nell'immagine mentale il rad­ doppiamento dato dalla «comprensione mimetica» consente di vedere «con l'occhio della mente» quei vissuti che sono il frutto degli aggiustamenti am­ bientali; così, posso immaginare (o ricordare) spostamenti, così come perce­ zioni, posso avere l'immagine della «ruvidità» riprendendo mentalmente l'azione dello strofinio su di un pezzo di carta vetrata, proprio come posso dispiegare progressivamente la strada di casa. Il linguaggio, che con le sue partizioni differenziali è l'elemento qualifi­ cante dell'unità d' azione, si impossessa di

ogni

comportamento corporeo,

sia esso un comportamento legato alla coordinazione ambientale (dunque � che permane sempre sul fondo dell' azione. Qualcosa è una mia azione non perché io I' abbia già pensata tutta prima di farla, ma in quanto

non

ho avuto remore, dubbi, inibizioni a svolgerla; la

differenza con la medesima operazione sul piano incosciente sta nel fatto che qui

avrei potuto

muovere un dubbio, fare un passo indietro, riflettere:

in certo senso io ho dato il via libera a quell'operazione, anche senza un'i­ spezione interiore, e così facendo mi sono affidato ad un saper fare consoli­ dato che ora riconosco come

mia intenzione.

Riconosco un comportamento

come mia azione in quanto non ne vedo la contraddizione con l'impianto del mio mondo, dunque lo riconosco e lo colloco in esso. La collocazione pa­ radossale dell'unità d' azione può essere compresa ripensando a come la cor­ rispondenza ambientale reattiva diviene significato cosciente: tutto rimane come era, nulla cambia

nel mondo,

ma è l'intero mondo a trasformarsi, di­

venendo il mondo cosciente, il mondo della differenza tra realtà ed irrealtà, il mondo dove esistono anche il tempo passato e quello a venire, dove coac­ cadono lo spazio finito che vedo e quello infinito inorno ad esso. Se abbia­ mo compreso come il significato di un segno (di un «qualcosa») sia sempre determinato dal semplice qualcos' altro cui è immediatamente rinviato, de­ ve essere chiaro come

l'apertura di una nuova possibilità di rinvio

tramite la

mediazione, anche se la mediazione stessa non ha alcun carattere sensibile proprio, modifica completamente la natura di ciascun significato e del loro insieme. La mediazione istituisce, rispetto al piano della differenziazione sensibile, una dimensione nuova in cui percorsi impensabili nel livello di­ mensionale precedente si aprono, anche se l'estensione delle dimensioni precedenti continua a sussistere immutata. In questo senso, dobbiamo dire che non c'è intima sensazione, perce­ zione privata che non sia modificabile dall ' unità d' azione e che non sia af­ fetta dall' insieme articolato di tutte le unità d' azione, ma anche che la p er­ cezione non è una sovraimposizione attiva dell' «atteso» sul pre-dato (salvo il caso limite, definito come illusione percettiva) . Questo è quanto dire che la volontà non può produrre direttamente sensazioni; tuttavia può influen­ zare la percezione passando attraverso una modifica attiva dei comporta­ menti reattivi, e di fatto partecipa sempre, tramite la codifica dei compor-

126

Verità tamenti reattivi, alla determinazione del percepito. Va osservato, a questo punto, che l'uso del termine «ipotesi» nella descrizione dei processi di per­ cezione ed azione, la cui problematicità abbiamo più volte sottolineato, può trovare ora una collocazione più stabile: abbiamo parlato di ipotesi per sot­ tolineare la disponibilità del contenuto di una corrispondenza con la realtà prima dell'evento, della corrispondenza sopravveniente, ed indipendente­ mente da essa. Ma è essenziale alla comprensione di questo momento che esso non sia inteso come un momento primariamente obiettivo, come prefi­ gurazione o rappresentazione, ma soltanto come qualcosa che può di diritto essere portato alla coscienza rappresentante, e la cui rappresentazione è sempre un

momento secondario,

dipendente dalla costituzione operativa se­

dimentata.

n linguaggio, ritrovato come momento costitutivo della verità di ragio­ ne, e forte del ruolo ad esso riconosciuto nella costituzione della significa­ zione in generale, consente di gettare un ponte tra il pensiero linguistico e l'articolazione dei vissuti in generale. La nozione fondamentale di non-con­ traddizione ha trovato una radice non formalizzata in ciò che chiamavamo «principio di disgiunzione», cioè nella natura articolante del linguaggio: i quanti linguistici costituiscono determinazioni significative che vanno a comporre un sistema dei vissuti; tali articolazioni fondano il primo senso di >. Perciò un'indagine genetica intorno alla logica deve confrontarsi con un'esame della scrittura, e della sua capacità di rendere il lin­ guaggio oggetto della riflessione. l . Logica e scrittura in Grecia: un 'ipotesi guida

Uno sguardo storico che postuli una qualche relazione tra logica e scritPer il concetto fenomenologico di

«:l

priori materi:J.!e,, che noi utilizziamo nell'accezione

schderima, rinvio :ù gi:ì citato In�oggettività e fondamento in Max Scheler, capitolo A. 4. 136

Scrittura e logica tura si imbatte in una coincidenza evidente: la logica così come noi oggi la conosciamo nasce in Grecia verso il v secolo, nel momento in cui l' alfabeto, che compare in Grecia intorno all'vm secolo, inizia la sua diffusione �>J . Come guida ad una valutazione di questo nesso, e seguendo sugge­ rimenti che ci vengono dal lavoro di Sini, scegliamo l'ipotesi formulata dal grande grecista Eric Havelock, che descrive con acume e chiarezza la di­ pendenza

di alcuni caratteri fondamentali della cultura greca dalla pratica

della scrittura alfabetica':

La civiltà creata dai Greci e dai Romani è stata la prima a disporre di mezzi adatti a rendere espressivamente adeguata la parola scritta; la prima in grado di farla circola­ re ad ampio raggio; la prima, in ultima analisi, a diventare alfabetizzata nel vero senso della parola'. Leggere, Io ripetiamo, è un atto di riconoscimento per mezzo dei quale forme scritte sono asdociate ai loro corrispettivi contenuti. [. . .] Se [. . .] il procedimento diventa semplice e rapido, non richiedendo un'attenzione e un tempo particolare, da specia­ listi, allora non dovrà più essere considerata un'abilità professionale, divenendo an­ zi una pratica accessibile al comune lettore. Quali sono le condizioni necessarie per­ ché un sistema di scrittura possa produrre questo risultato? Idealmente tre, ciascuna ben distinta dall'altra. In primo luogo, il sistema dovrebbe essere in grado di dare una forma a ogni tipo di suono linguistico. I segni visibili [. . .] devono essere suffi. cienti per numero e capaci per natura di evocare nella memoria dci lettore tutti i suoni del linguaggio che hanno una funzione ben distinta. [ . ..] In secondo luogo, questa f=ione dovrebbe essere compiuta senza lasciare spazio ad una qualsiasi am­ biguità. In altre parole, ogni segno o combinazione di segni non deve evocare che un unico fonema. Parlando sempre da un punto di vista teorico, il lettore non dovrebbe mai essere obbligato a operare delle scelte nel tentativo di riconoscere i suoni rap­ presentati. Terzo, il numero complessivo dci segni dovrebbe essere mantenuto en­ tro un limite preciso per evitare di sovraccaricare la memoria, registrandone una lunga serie prima ancora che il processo di riconoscimento, cioè la lettura, abbia ini­ zio". Havelock dunque riassume le caratteristiche ideali di una scrittura «efSi vedano , le tesi, analoghe a quelle che considereremo, di Jack Goody, in particolare in

Il suono e i segni, Saggiatore, Milano 1987, p. 84; e in Literacy in traditional societies, Cambrid­ ge University Press, C;1mbridge 1968, pp. 44-5 3 . Diamo conto dell 'ipotesi di Havelock partendo dal testo, estremamente compatto, di quattro conferenze tenute nel 1974, in quanto rappresentano in =n.iera sintetic::a e definita le tesi elaborate dall'autore a questo proposito durante rutta b sua c:rrriera di srudioso. Havelock E., Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, Melangolo, Genov:1 1987. Ibidem, pp. 27-8.

137

Fenomenologia e genealogia della verità ficace» nei tre punti della

completezza, dell'univocità,

e

dell'economicità.

Si

potrebbe aprire qui una discussione circa l'opportunità di considerare «ideale» questo modello di scrittura7, ma rinviamo queste valutazioni per­ ché dobbiamo innanzitutto esporre la funzione e collocazione della scrittu­ ra nel contesto del fenomeno culturale gteco. Havelock mostra come l' alfa­ beto greco sia, a suo avviso, il primo (ed insuperato) sistema di scrittura a soddisfare tutte e tre le esigenze esposte. Completezza, univocità ed econo­ micità possono essere considerate in maniera separata dal punto di vista ideale, ma di fatto sono categorie concorrenti e relative nell'ottica di un' a­ deguata riproduzione del linguaggio: la scrittura «ideale» dovrebbe dar con­ to di ogni evento linguistico con un segno differente, così come un linguag ­ gio «ideale», nello stesso senso, dovrebbe avere una parola per ogni evento particolare; l'economicità dei segni si presenta come una funzione, in linea di massim-a, inversamente proporzionale alla loro univocità e completezza: una moltiplicazione dei segni permette una maggior precisione nell'isola­ mento dei significati, mentre un' economizzazione, necessaria a fini mne­ monici, tende ad aumentarne l' ambiguità e l'incompletezza. Ma cosa acca­ de quando

una

scrittura risulta ambigua od incompleta? Accade che il lin­

guaggio verbale deve tradursi in un codice più semplice, e la sua conseguen­ te lettura risulta impoverita, stereotipata, imprecisa; in generale viene in­ dotta una crescita della quantità d'informazione che dipende dall ' atto in­ terpretativo al momento della lettura, e dalle competenze ad esso connesse. Con l' avvento, al contrario, di una scrittura come quella alfabetica, capace di ottimizzare il rapporto tra completezza, univocità ed economicità si dà, per la prima volta nella storia, la possibilità di registrare il linguaggio parla­ to con tutta la sua ricchezza semantica, con evidenti ricadute sulla trasmis­ sione della conoscenza e sul suo accumulo: n progredire delle conoscenze, sia di tipo umanistico che di carattere scientifico, di­ pende dalla capacità dell'intelligenza umana di pensare l'inatteso, di concepire una «nuova idea», come si dice di solito in modo un po' approssimativo ma efficace. Un simile concetto originale si realizza completamente solo quando diviene un enuncia­ to originale, e questo non riesce ad estrinsecare le proprie potenzialità se non può essere conservato per un'utilizzazione ulteriore e successiva. Le trascrizioni prece­ denti [all'alfabeto, ndr}, a causa delle ambiguità del sistema di scrittura, scoraggia­ rono qualunque tentativo di registrare enunciati originali. n che, indirettamente, vanificò ogni sforzo per una formulazione anche solo orale; perché quale poteva es­ sere la loro utilità o quale influenza potevano esercitare, confinati nell'ambito effiUna attenta prospettiva critica che denuncia l'imposizione rerroattiva di tale si trova

in La scrittura della verità di R. Ronchi, J3Ca Book, Milano 1996. 138

Scrittura e logica mero delle conversazioni occasionali in dialetto? L'alfabeto, favorendo la produzio­ ne di enunciati insoliti, ha suscitato l'elaborazione di idee originali, che potevano restare nella loro forma scritta, a portata di mano, per essere in un qualunque mo­ mento riconosciute, lette e rilette; e che potevano così estendere la loro influenza tra i lettori'. Ciò che Havelock ci sta dicendo è che il segreto della ricchezza scienti­ fica e letteraria dell' Occidente sta tutto nella capacità dell'alfabeto di regi­ strare con elasticità e precisione qualunque ) indipendentemente dall' immediata assimilazione nella comunità cominciò a dare senso ad un lavoro intellettua­ le indipendente, ed in generale ad aumentare il riconoscimento sociale nei confronti di chi proponeva un'idea originale, avviando un circolo virtuoso nella produzione intellettuale. La tesi di Havelock risulta estremamente convincente, ed una sua espo­ sizione più attenta ci arricchirebbe di argomenti ed osservazioni a suo so­ stegno; vi sono tuttavia dei problemi, particolarmente rilevanti proprio quanto al nostro tema, che né questo né altri testi del grande studioso af­ frontano in modo soddisfacente. In primo luogo non si vede con chiarezza quale nesso intercorra tra la nascita della logica greca e la scrittura alfabeti­ ca, giacché il sapere logico parrebbe non dipendere molto dall ' accumulo di saperi particolari. Inoltre non dobbiamo dimenticare che si dà almeno

un

altro sviluppo storico di un sapere logico, del tutto indipendente da quello greco, in India, senza che qui vi sia un alfabeto. Infine, per quanto riguarda la nascita della scienza (e della verità di fatto) in senso moderno lo stesso Havelock nota come l'alfabeto greco non sia un elemento esplicativo suffiHavclock E., op. cit. ,

p . 54.

Ibidem. 139

Fenomenologia e genealogia della verità ciente, formulando però un'ipotesi estremamente interessante: "A mio av­ viso, questo avvenimento [nascita della scienza moderna, ndr] è senza dub­ bio dipeso, in buona misura, dagli effetti congiunti della tecnica del sistema di numerazione indo-arabo e della tecnica dell'alfabeto greco, moltiplicati dall 'introduzione della stampa " 10 _ Purtroppo questa ipotesi rimane tale, senza che i nessi tra le tecniche citate vengano esplicitati, e ciò lascia aperto lo spazio a molte obiezioni: ad esempio non si comprende come la stampa, vista come semplice «moltiplicatore» dell'effetto delle altre tecniche non si sia limitata ad accelerare un processo di scoperte scientifiche già di per sé in atto (i numeri indiani, ricorda Havelock, entrano in Europa già nel

XJJ

seco­

lo) , e parimenti non si comprende cosa mancasse in India all ' emergere di una scienza di tipo occidentale, avendo la disponibilità sia di un' elaborazio­ ne logica, sia della numerazione posizionale.

È perciò opportuno

tener fer­

me le ipotesi di Havelock, come quadro di riferimento, cercando però di vedere più da vicino come si caratterizzano le peculiarità dell'alfabeto gre­ co e le sue conseguenze per la costituzione della forma occidentale dei sa­ peri.

2.

Breve storia ragionata della scrittura 2 _ L La scrittura di cose

n punto di partenza per una considerazione teorica della scrittura deve essere rappresentato da quello che per noi è stato il punto d' arrivo nella rappresentazione genetica del concetto. Perché si dia scrittura, qualunque genere di scrittura, un linguaggio deve già esistere_ Questo non perché la scrittura sia di per sé la traduzione del linguaggio parlato, ma perché un se­ gno grafico in quanto segno, con i suoi caratteri di stabilità ed alterità ri­ spetto al soggetto, presuppone l' attività mediatrice del linguaggio_ La me­ diazione non può istituirsi primariamente in forma grafica perché al grafo manca la capacità di corrispondere in modo vivente con il «soggetto» pre­ linguistico, con la fonte espressiva: il grafo, preso isolatamente, non può es­ sere «segno di me e dell'altro», e rion può esserlo proprio per quelle caratte­ ristiche che ne costituiscono il pregio di segno grafico, cioè l'oggettiva sta­ bilità indipendente dalla disposizione interattiva del soggetto. n segno gra­ fico è in primo luogo un te, come oggetto,

oggetto, è il mediato del linguaggio, ed ulteriormen­ dev'essere una «cosa», cioè un'entità «distante dal sogget-

Ibidem, p. 8 1 .

140

Scrittura e logica to», stabile, replicabile, manipolabile. Prima della scrittura e della lettura di cose intese come un «voler dire» dobbiamo presupporre la semplice «lettu­ ra)) delle cose, così come si danno in sé. Le traccie lasciate sul terreno da cn animale sono lette dal cacciatore che ne ricostruisce immaginativamente i movimenti: un uomo «legge)> le traccie, «vede)> cosa ha fatto 1' animale, si rappresenta quali e quanti animali sono passati, un cane non segue le traccie nello stesso modo, perché segue l' odore, cioè sente sempre la chiama ad intendere, non a fare. 2.2. Grafi puri

Un livello ulteriore è costituito dai segni tracciati, ed in primo luogo dai segni «puri», privi di ogni riferimento descrittivo o rappresentativo, co­ me le tacche nel legno, le barrette segnate sulla roccia, i nodi (come i

qipu

degli Inca) o le perline del rosario'�. Questi come tacche e nodi e la «scrittura di oggetti»: >, legata lizzati; cfr. Gdb,

op. cit. , p. 144.

143

Fenomenologia e genealogia della verità termine '. il sis-.ema fonetico elaborato dagli Egizi come supporto alla scrittura Gelb, op. at., p. 340. Cfr. Gelb, op. cit., p. 94. Février, op. cit. , pp. 130-2.

147

Fenomenologia e genealogia della verità geroglifica fu ereditato dai Fenici, il cui (>, od «ogni», e negativamente >, «almeno uno») , mentre i terrnini individuali (Socrate) non hanno bisogno di quantificazione, avendo un'estensione determinata a priori. Classico esem­ pio di sillogismo della prima figura è il seguente: Tutti gli uomini sono mortali Socrate è un uomo Dunque, Socrate è mortale Il primo giudizio asserisce che l'esser mortale contiene, come caso par­ ticolare, tutti gli uomini (insieme a tutti gli altri viventi) . Il secondo giudi­ zio dice che Socrate è un uomo, cioè appartiene all'insieme di tutti gli uo­ mini. La conclusione può dunque affermare che Socrate, in quanto conte­ nuto del contenuto degli esseri mortali, è contenuto negli esseri mortali. La forma verbale in cui compaiono i termini è importante solo in quanto iden­ tifica l'oggetto e lo quantifica: in luogo del secondo giudizio potremmo dire che «alcuni angeli sono uomini», per concludere che «almeno un angelo è mortale»; in questo caso il fatto di aver espresso il rapporto al medio con «sono uomini» piuttosto che con «è un uomm>, oppure il soggetto della con­ clusione con «almeno uno» piuttosto che «alcuni» è logicamente irrilevante, anche se importante nel linguaggio corrente: tutto ciò che conta è l'identifi­ cazione categoriale e la quantificazione . Dire «uomini» piuttosto che «esse­ ri umani» o «animali razionali» non ha alcuna importanza, e questo mostra proprio come il sillogismo aristotelico rivendichi, per una esatta formalizza­ zione, ciò da cui è generato, cioè l'uso di lettere o simboli e non del linguag­ gio comune, che dà informazioni supplementari inutili e latrici di confusio­ ne. La lettera al posto del termine , unita ad un simbolo di quantificazione, rappresenta esattamente proprio la quantità d'informazione che la forma­ lizzazione esige, dice cioè che vi sono cose identiche ad altre, e cose diver­ se, e che tra queste cose intercorrono rapporti di identità o appartenenza. La quantificazione, sia essa implicita od esplicita, è indispensabile al pro­ cesso deduttivo , ne è l' anima e la ragione sufficiente; notiamo, ora, che nel­ la quantificazione logica non si fa questione di quantità in senso numerico: le determinazioni della quantificazione formale indicano soltanto l'infor­ mazione necessaria a discriminare il rapporto di contenente e contenuto, dunque l'individualità, la totalità e la parzialità. La logica, dunque, con la certezza della deduzione, con la possibilità di un procedimento esaustivo a

1 70

Scrittura e logica partire da un numero finito di premesse (assiomatizzazione), con l'istituzio­ ne di identità perfette come modello, pone i termini per una rigorizzazione del ragionamento, dunque per una compiuta scientificità sul piano delle in­ ferenze. Il numero invece di per sé non ha valore logico, e l'unica cosa che lo avvicina alla natura della logica è la sua semplicità, l'indifferenza ai signi­ ficati del linguaggio naturale. In assenza o di una logica, o di una compiuta autonomizzazione, il numero può assumere un' individualità qualitativa (co­ me nella scuola pitagorica, o presso i Cinesi), oppure può essere considerato come un'espediente empirico di misurazione. Se ritorniamo per un attimo alla questione lasciata in sospeso circa la natura della matematica indiana, possiamo ora chiarire proficuamente il ca­ rattere del rapporto tra logica e numero. In India, avevamo detto, esiste una logica, e almeno a partire dall'viii secolo esiste la numerazione che noi utilizziamo, tuttavia la matematica indiana, estremamente avanzata quanto a procedimenti di calcolo, manca di rigore nella trattazione di molti proble­ mi, tratta gli argomenti non in modo sistematico, ma in forma casistica, non distingue tra soluzioni perfette ed approssimate (talvolta anche rozza­ mente approssimate): tutto ciò sembrerebbe indicare l'assenza di una logi­ cizzazione del numero. Se guardiamo adesso all' effettiva natura della logica indiana vediamo che alcuni caratteri la distinguono da quella greca; pren­ diamo in considerazione la teoria del sillogismo, cosl come appare nel

ya-sutra (II secolo

Nya­

a.C .): il sillogismo indiano consta di cinque termini, che

possono essere chiariti utilizzando un tipico esempio scolastico:

l) asserzione: sulla montagna c'è fuoco .

2) motivazione: perché lassù c'è del fumo. 3) esempio: infatti dove c'è il fumo c'è il fuoco, come in cucina. 4) applicazione: ora, la montagna ha tale fumo.

5) conclusione: dunque c'è del fuoco su di essa74• I cinque punti del sillogismo indiano possono essere ridotti a tre punti, in modo affine a quello greco, e non è qui che si gioca la loro diversità: essa si mostra osservando il carattere delle singole affermazioni e del medio in particolare. Ciò che qui chiamiamo sillogismo, ha piuttosto il carattere di semplice

teorizzazione di un nesso argomentativo, è la forma esemplare di

un'inferenza. Il medio, ciò che permette di passare dalla prima proposizio­ ne alla seconda, è costituito da un

nesso empirico, da un esempio, e non da

un termine semplicemente contenuto in una delle premesse e contenente Glasenapp H., La

filosofia dell'India,

SEI,

171

Torino 1962,

p. 2 1 6.

Fenomenologia e genealogia della verità nell' altra, e questo si vede bene se osserviamo come sia impossibile sostitui­ re i termini connessi con vuote lettere: dire «dove c'è A, c'è B, come in cu­ cina» non ha un grande valore argomentativo . Nel sillogismo indiano, dun­ que non ha luogo un processo deduttivo, ma soltanto una formalizzazione dell'inferenza segnica. La differenza non sta neppure, come potrebbe appa­ rire, nel fatto che il sill ogismo indiano fa riferimento a «fenomeni empirici» (il fatto contingente che sulla montagna ci sia il fumo) , perché anche i giudi­ zi posti alla base del sillogismo categorico sono giudizi empirici: dire che «tutti gli uomini sono mortali>>, fatto salvo per la forma di quantificazione , non è meno empirico di dire che sulla montagna c'è il fuoco. II punto vera­ mente critico sembra dunque essere l' assenza di una netta separazione tra unità formali ed unità di contenuto, con la conseguente assenza di un'infe­ renza che faccia riferimento soltanto ai rapporti quantitativi tra soggetti e predicati. Questo fatto può essere scorto anche prendendo in considerazio­ ne la definizione di contraddizione che troviamo esemplificata nella scuola

faina (a partire d al v secolo a . C . ) : questa definizione afferma che è possibile esprimere una cosa come esistente da un punto di vista e come non esisten­ te da un altro, ma solo una dopo l'altra, e non contemporaneamente" Ri­ spetto alla definizione aristotelica quella indiana non fa riferimento al rap­ porto di appartenenza di un soggetto ed un predicato, non colloca dunque la non contraddizione sul piano logico dei rapporti tra i termini, ma su quel­ Io dell'esistenza16• Siamo da ciò indotti ad una notazione generale circa il senso del termine «logica». La riflessione sul linguaggio che gli indiani com­ piono, e che li porta, ad esempio, ad elaborare una grammatica (già nel rv secolo, con Pànini) , una retorica ed una teoria dell'argomentazione (di cui ii sillogismo indiano è parte) può essere chiamata «logica» seguendo il riferi­ mento etimologico: si tratta in effetti di una analisi, consentita dalla scrit­ tura, dell'operare del linguaggio e del pensiero. Ma allora, seguendo questa dicitura, dovremmo dire che nella logica greca sono sedimentati , cioè una

teoria del linguaggio (come in India) ed

due livelli unaformali:aazio­

ne del linguaggio, peculiare dell'esperienza greca e della scientificità occi­ dentale. Sarà questa seconda a dare i parametri di univocità, esattezza e riIbidem, p. 264 .

Tra i motivi che potrebbero, a nostro avviso, essere addotti quali morivazioni della man­ il livello di astrazione del­

cata formalizzazione della logica indiana c'è la differenza netta tra

l'alfabeto e quello di un sillabatio, ancorché perfetto come quello indiano: i segni sillabici non sono

uno schema astratto, dalla cui composizione emerge un pronuncia concreta, ma sono essi

stessi direttamente segni di un'emissione sonora, dunque concepirli come pure forme, indi­ pendenti dal contenuto risulta sicuramente più arduo. Vedi inoltre

1 72

infra, pp. 1 86-8.

Scrittura e logica gore su cui si edificherà il metodo scientifico che contraddistingue il pensie­ ro greco-ellenistico e soprattutto quello europeo moderno.

7. Nan-contraddizione e connettivi Nella seconda parte di questo lavoro abbiamo già incontrato la matrice prelogica del principio di non-contraddizione, e I' abbiamo nominata con l'espressione di «principio di disgiunzione», con la consapevolezza che il termine «principio» ha in questo secondo caso più il senso di , ed è genealogicamente preceduto solo dalla di­

sgiunzione vivente, dalla pre-dif-ferenza assiologica. il Nulla appare ogni qual volta il soggetto si sottrae al mondo, in termini heideggeriani, sospende il progetto ontico; tale manifestazione può, senza dubbio avere il carattere dell' angoscia di cui Heidegger parla, ma tale caratterizzazione non è neces­ saria: possiamo concepirla almeno anche come la pura attenzione, l'attenzio­ ne priva di intenzionalità, quell'attenzione descritta nella speculazione yo­ gica e buddhistica come la «mente vuota>>, il lasciar scorrere i pensieri e gli eventi senza tenere dietro a nessuno di essi, limitandosi a «rispecchiarli». II Nulla corrisponde alla possibilità del soggetto di autonomizzarsi dal mon­ do, e questo in quanto il soggetto porta la mediazione in sé, come possibili­ tà della riflessione e della libertà, come quella «decompressione» del Sé di cui parlava Sartre, che è propriamente l' aver già sempre in sé lo sguardo dell'Altro. Sempre al secondo livello si pone la negazione nel linguaggio naturale, che segue la disgiunzione tra le unità d' azione; essa non annichila ciò cui si riferisce, ma semplicemente riorienta l' azione e il discorso, permanendo nell'essere, come necessaria contiguità di altre unità d' azione. Mentre il Nulla heideggeriano è l'esperienza del linguaggio tutto, nella sua identità con il soggetto ed il mondo, il «non» del linguaggio naturale è atto linguisti­ co tra atti linguistici, ed incarna semplicemente in modo eccellente l'essen­ za articolatoria del linguaggio: negare qui significa predisporre l' aspettativa di qualcos'altro; ogni «non» richiama un «bensl». All' articolazione, alla di­ sgiunzione precategoriale {ma non prelinguistica) si dà sempre un universo di gesti ed eventi denso, privo di vuoti, in cui è già sempre vigente, per cosl Vedi sopra il paragrafo 6 della seconda parte.

1 75

Fenomenologia e genealogia della verità dire, come un infinito «quantificatore universale» la mediazione linguistica come tale, che copre di diritto ogni possibile evenire: come avevamo detto molto sopra, non c'è negazione che possa farci cadere nel nulla dell'assenza di significato, ogni negazione, ogni falsificazione ci darà pur sempre una realtà. Alla negazione come annullamento del significato, ed in generale come negazione isolata si giunge invece soltanto con il «non» logico. Esso non è a rigore un «connettivo» perché non connette (o disgiunge) nulla: la negazio­ ne formale, operando con «termini», con singole unità astratte, non può più fungere da riorientamento del discorso, perché sul piano formale non vi so­ no più «discorsi», e dunque il separarsi da un'unità di significato è interpre­ tato necessariamente come semplice annullamento di questa unità (salvo poi farla rientrare negando la negazione) . La negazione formale, come la sottrazione numerica, è possibile solo in presenza di «oggetti», di un lin­ guaggio trasformato in unità cosali, cioè scritto'9• Notiamo di passaggio co­ me storicamente la formalizzazione della negazione passa inizialmente per

scrittura del dialogo, compiuta da Platone, che si presenta co­ me obiettiva:àone della disgiunzione: la disgiunzione propria del linguaggio una semplice

naturale , già traviata dalla forma del dialogo come ricerca dell' essenza80 , di­ viene schema definitorio, organizzazione dei significati in «interni» od «esterni» al soggetto su cui si indaga8 t. Un cenno va infine fatto alla natura del «condizionale» ( --> ) che, nato per indicare qualcosa di analogo ad una conseguenza, si trovò sin dall' anti­ chità in gravi angustie, per la difficoltà ad accoglierne il senso formale-de­ duttivo e quello del linguaggio naturale. Senza poter qui ripercorrere le amSarebbe interessante analizz:J.re, alla luce di quanto detto, la discussione che Platone fa nel

So/ìsta intorno al nulla :J.Ssoluto di Parmenide, dando per la prima volta legi ttimazione teo­

rica al nulla come negazione determinata. Notiamo soltanto che il «nulla>> parmenideo sembra configurarsi come la prima intuizione dell a negazione formale d a parte della mente greca, in tuizione applicata all'essere, concepito come ente, come

oggetto. La posizione platonica

ritorna ad una concezione più vicina al linguaggio naturale, ma contemporaneamente apre ad una teoria della definizione.

so

Sembra plausibile che il dialogo platonico, rispecchiando una pratica «agonistica>> tipica

della grecità a lui contemporanea, rispecchiasse una pratica già affetta dalla scrittura alfabeti· ca: in effetti l' unica civiltà in cui ci è nota una pratica agonistica del dialogo simile a quella gre­ ca è l'India, e d'altra parte una discussione sul significato delle parole appare poco sensata in cultura orale. Cfr. sulla formalizzazione del dibattito orale Leszl W . , Linguaggio e discorso, Introdu::::ione alle culture antiche, op. cit. , pp. 32-J. 81 Per un'analisi più ricca a questo proposito si veda di Sini, Etica della scrittura, Saggiatore, Milano 1992, in particolare i paragrafi 8ì-9J della prima parte. una

in

1 76

Scrittura e logica pie discussioni sulla natura del condizionale sorte almeno a partire dalle ar­ gomentazioni di Diodoro Crono e Filone, cerchiamo invece di esplicitare il contenuto essenziale del problema. Un condizionale verofunzionale viene detto vero o se la premessa è falsa, o se la conseguenza è vera, indipenden­ temente dai significati dei termini in causa: cosl la proposizione «Se Elena è un uomo, allora la luna è fatta di formaggio» è vera ammettendo che Elena non sia un uomo. Ovviamente questo modo di intendere il «Se . . . allora . . . » non è affatto quello del linguaggio naturale, tuttavia esso viene adottato perché incarna perfettamente la struttura formale della deduzione. Infatti nel rapporto tra contenente e contenuto, tra predicato e soggetto non c'è alcun riferimento ad un'azione di un fattore sull'altro, ma semplicemente alla compresenza, in relazione di appartenenza, dei termini in questione. La discorsività del linguaggio naturale è temporale, e fa riferimento ad una re­ lazione semantica, mentre la descrizione formale attribuisce importanza al significato solo in quanto aiuta a tracciare i confini tra i termini in questio­ ne. Questo tuttavia non deve renderei propensi a credere che la causalità reale sia il predecessore concreto della deduzione formale. La causalità, nel­ la misura in cui viene concepita non come «influenza>), o «unità di senso» (cfr. par. 7), ma come connessione univoca tra causa ed effetto, non è con­ cepibile se non sulla base del modello deduttivo. Una volta ridotti gli enti a sostanze, e concepita la sostanza come identificata dalla sua forma, la so­ vrapposizione della catena deduttiva formale alla sequenza descrittiva lin­ guistica si presenta come una possibilità ovvia (vedremo nell'ultima parte del lavoro come questa possibilità si realizza nella scienza moderna) . La causalità come causa efficiente assume gradualmente priorità sul piano epi­ stemologico proprio in quanto causa costruita sul modello del nesso dedut­ tivo: il determinismo nella sua formulazione classica in Laplace è nient'al­ tro che l' idea della deduzione trasposta sul piano della sostanza naturale, è il compimento della formalizzazione delle sostanze.

8. Qualità primarie e qualità secondarie Il processo di formalizzazione della natura, il cui primo passo è già l'i­

stituzione della natura in quanto unità separata, è un processo lungo ed in­ tricato, i cui momenti iniziali furono costituiti da due elaborazioni teoriche compiute nell'antica Grecia: la nozione aris totelica di sostanza, come unità di materia e di una forma passibile di definizione, e l' atomismo di Leucippo e Democrito, con l'implicita distinzione tra qualità primarie e secondarie. Il concetto fondamentale dell'atomismo è la distinzione tra un livello 177

Fenomenologia e genealogia della verità autentico della realtà, raggiunto speculativamente e costituito da sostanze piene ed indivisibili separate dal vuoto, ed un livello apparente, costituito dalle percezioni sensibili. Gli atomi democritei variano soltanto per forma, grandezza, ordine e posizione reciproca, ed è interessante notare come an­ che tali qualità degli atomi siano attribuite su di un piano puramente specu­ lativo; esse, com'è evidente, sono una prima definizione di quelle che agli inizi della scienza moderna verranno chiamate qualità primarie (figura, estensione, movimento, ecc.). Ora, cos'è che accomuna l' atomo democriteo e le sue qualità, con le qualità primarie di Locke e Galileo? Quale idea sta alla base della nozione di atomo, cosl come delle nozioni di figura, grandez­ za, ordine, movimento, ecc.? Teniamo conto innanzi tutto che anche le qua­ lità primarie, per quanto attribuite sul piano speculativo, sono qualità sen­ sibili, e le qualità sensibili, le percezioni, come abbiamo avuto già modo di mostrare, sono comportamento ambientale obiettivato, sono risposte ad unità d' azione. Le qu alità primarie hanno un corrispettivo, sul piano delle qualità secondarie soltanto per quanto riguarda me qualità secondaria ci dà il liscio,

U tatto e la vista: il tatto co­

U ruvido, ecc. , mentre come qualità pri­

maria ci dà i limiti di una cosa; parimenti la vista come qualità secondaria si manifesta in colori e luci, mentre come primaria definisce i limiti visivi di una cosa. Le qualità primarie sono dunque un particolare sottoinsieme delle qualità secondarie, selezionato in modo da porre in evidenza i

cose,

limiti

delle

i confini che le definiscono. Sapori, suoni, dolori ed odori mancano

della permanenza casale, mentre il ruvido od il verde mancano di unitarietà casale. La nella realtà, ma non se ne possono contare le colonne perché il contare è a sua volta un'unità d' azione rivolta alla realtà, non al «mondo» (

=

unità delle unità d'azione) . Le qualità pri­

marie colgono, in certo senso, la verità delle qualità secondarie. Tuttavia la colgono con alcune grosse limitazioni, in quanto preselezionano l ' ambito di validità nel solo regno deile «cose>>, ed irrigidiscono le disgiunzioni annul­ landone il senso proprio, e attribuendo il peso antologico dalla disgiunzione alla positività sos tanziale delle «cose>>. Il passaggio dalle percezioni alle qua­ lità primarie è il passaggio dal principio di disgiunzione al principio di non­ contraddizione, ed è per questa sovrapposizione tra il concetto astratto e la realtà concreta che l' astrazione delle qualità primarie può «funzionare>>, senza essere corretta dalla realtà percettiva. L'atto di sostanzializzazione delle disgiunzioni è anche l'atto di nascita dell 'universale

logico, e della sua opposizione al particolare e all'individuale.

Seguendo la stratificazione esposta Dossiamo distinguere schematicamente tre livelli di universalità: in primo luogo ogni risposta reattiva è, in certo modo «universale», in quanto risposta ad un segno rilevato, cioè ad un am­ bito differenziale (un pesce maschio di fronte ad un modello colorato come la femmina in periodo riproduttivo, attua un comportamento riproduttivo). In seconda istanza, però, dobbiamo dire che chi legge l'universalità nel comportamento del pesce è il nostro linguaggio, che istituisce l' universalità in un primo senso proprio. L'universale è allora l'evento analizzabile, cioè il fenomeno che in quanto obiettivato ed identificato dal linguaggio può esse­ re ispezionato

nei particolari

senza scomparire dall 'orizzonte ontologico. II

particolare è il particolare del suo universale, esso è la molteplicità interna allo spazio differenziale esposto d a un'unità d ' azione, ed esiste come parti­ colare soltanto perché è consaputa la sua appartenenza a quell' ambito. A questo livello la singolarità individuale è un concetto che non ha alcun si­ gnificato. II problema dell'individuazione e della gerarchizzazione tra uni­ versali e particolari emerge ad un livello ulteriore, con la scrittura e la so­ stanzi-alizzazione dell' «universale»; infatti il concepimento delle categorie

180

Scrittura e logica come contenitori universali porta a vedere una gerarchia delle entità con universalità decrescente, e ciò spinge a concepire da una parte singolarità individuali esistenti e dall'altra predicati universali, senza possibilità di me­ diazione in quanto di nature diverse. Ovviamente l' annoso problema di ca­ pire come si possa passare dalla percezione di individui alla coscienza di ca­ tegorie, oppure dall'esistenza ideale di forme universali alla loro terrena in­ dividuazione si scioglie come neve al sole una volta che si delegittimi l'atto di sostanzializzazione delle disgiunzioni. Infatti ogni individuo è già sem­ pre un'universale, giacché ogni cosa o è identificata, e allora ha un signifi­ ·Cato che accomuna tutte le sue ripresentazioni (altrimenti, per dire, non po­ trebbero mai nascere aggettivi come «kantiano»), oppure non è identifica­ ta, ma allora non è neppure una determinata individualità. D'altra parte gli universali sono sempre solo universali dei loro particolari, correlati di un'a­ nalisi, antecedenti dei loro successori nel decorso analitico; ed inversamen­ te un particolare è particolare del suo universale e può essere universale per particolari ulteriori. L'ille gittimità introdotta con la formalizzazione e l'ir­ rigidimento categoriale dipende dal fatto che sostanzializzare ), perché ogni unità d' azione si «verifica>), si fa verità ponendo una realtà) ; qui la sog­ gettività è il linguaggio-per-tutti, non vi è distinzione tra un momento di rappresentazione (manifestazione) ed un momento di verificazione, e la fal­ sità è piuttosto l'irrappresentabilità che l'inesatta corrispondenza. 2) Il li­ vello logico, in cui tramite I' afferramento alfabetico dei significati si trac­ ciano «aree>) semantiche e si giudica valida l 'inferenza in cui la forma verba­ le coincide con o contiene il suo contenuto. 3) Il livello empirico, in cui la Si pensi ille osservazioni registrate sistematicamente dai medici ippocratei, che seguiva· no il decorso della malattia

in certi casi fino :ù centoventesimo giorno dall'inizio delb malat­

tia; registrazioni simili non vi saranno fino al greci, Laterza, Bari

1978,

XVI

pp. 54- 7.)

182

secolo. (Vedi Lloyd G.E.R., La scienza dei

Scrittura e logica registrazione alfabetica dei fatti consente il ripetuto controllo di ciò che è de­ scritto, l 'adeguazione corrispondentista di parole e cose. La sistemazione tas­ sonomica di Aristotele, con la gerarchia degli enti per generi e specie, rappre­ senta la prima grande sintesi del secondo e del terzo livello, e con ciò la nasci­ ta della scienza occidentale8}. Con l'esplicitazione del modello della verità sul piano logico le spiegazioni morali, volontaristiche, mitiche vengono espulse

dal discorso valido, e la realtà diviene «natura» in senso moderno8\ cioè eli­ viene una totalità finita di cose, in modo che le descrizioni e le spiegazioni che la riguardano devono tendere all 'unica forma di quest'unico contenuto (concorrenza delle teorie, ed idea dell'infinita approssimazione al Vero)85• La separazione tra livello logico e livello empirico nell'istituzione della verità non è soltanto un passaggio teorico, ma si rispecchia nello sviluppo della scienza antica: l'astronomia eudossiana, assumendo la concezione del model­ lo platonico come norma ideale, rispetto a cui la realtà è sempre solo una de­ terminazione imperfetta, spiegava i moti celesti con consapevoli approssima­ zioni, facendo riferimento esclusivamente a/onne perfette, cioè a sfere e cer­ chi86 (esempio eccellente è il modo di costruire l'ippopeda) . Come abbiamo accennato la tappa che porta ad un' adeguatezza nella registrazione della realtà è più accidentata delle altre, e non si porta a com­ pimento con l'alfabetizzazione.

È un fatto noto che la sperimentazione non

ebbe nella scienza antica un ruolo comparabile a quello che avrà in epoca moderna, e parimenti si nota nell'antichità un progresso tecnico molto len­

to se confrontato con quello moderno. Lloyd dà un'analisi molto acuta di questi fatti; egli nota in primo luogo che per la scienza antica l'esperimento era spesso irrilevante: da un lato perché le scienze che avevano già una soli­ da tradizione, come l' astronomia, non permettevano alcun intervento che modificasse sperimentalmente i fattori osservativi, mentre ciò che contava era la semplice registrazione delle regolarità; d' altro canto, e per noi più im­ portante, i problemi scientifici fondamentali dovevano allora appena essere fissati, discutendo su quali fossero gli elementi, le variabili essenziali di ogni problema: "la principale controversia fra I' atomismo e la teoria qualitativa

È interessante notare come già Teofrasto riconoscesse una grave difficoltà nel sovrappor· re una grata di generi e specie unitari

e

distinti alla realtà, nella fattispecie botanic�, ma come

ciò non scuotesse il principio della sistemazione in classi, principio che non derivava dalla natura, ma istituiva la natura. Vedi Lloyd G .E.R., Animali e piante, in Introduzione alle culture antiche, Boringhieri, Torino 1992, p. 25 7 . M Cfr. Lloyd G . E R , La scienza dei greci, Laterza, Bari 1978, p. 11. .

s,

86

.

Cfr. ibidem, pp. 13-4. Repellini F.F., Cielo e terra, in Introduzione alle culture antiche (n), op. cit., pp. 128·9.

1 83

Fenomenologia e genealogia della verità di Aristotele, per esempio, non era di quelle che avrebbero potuto essere ri­ solte facendo ricorso all'osservazione o all'esperienza, poiché essa verteva sulla questione di sapere quale tipo di spiegazione conveniva tentare di da­ re""7 Questo fatto è in generale estremamente sottovalutato: perché una sperimentazione sistematica potesse nascere era necessario elaborare una rete di concetti e teorie fitta e complessiva, capace di porre le fondamentali alternative ipotetiche da sottoporre alla prova sperimentale . Su ciò ritorne­ remo ampiamente nell'ultima parte del lavoro; basti per ora rammentare, a titolo illustrativo, quanta fatica costò l'elaborazione dei concetti fonda­ mentali (fulcro , punti di applicazione, pesi) perché nel

m

secolo A rchimede

potesse enunciare la legge della leva (utensile il cui uso, in varie forme, si perde nella notte dei tempi) , mentre ad esempio i peripatetici scorgevano nella leva ancora essenzialmente solo il problema di quale fosse il moto na­ turale sulla terra (il braccio della leva, muovendosi traccia una circonferen­ za, non un moto rettilineo) ; o ancora si può guardare ai fatto che soltanto nel

XIII

secolo, con Giordano Nemorario, si comprenderà come impostare e

risolvere il problema dei moto su un piano inclinato (1' accelerazione inver­ samente proporzionale all' obliquità), problema che gli antichi avevano af­ frontato invano, e che una volta compreso quali siano gli elementi in gioco (inclinazione, accelerazione, attriti) diviene di una semplicità irrisoria. AI­ l' elaborazione sistematica dei concetti portanti, e alla loro standardizzazio­ ne (pensiamo soprattutto al problema dell 'istituzione di unità di misura co­ muni) si opponevano i limiti della registrazione manoscritta, antica e so­ prattutto medievale. Con la stampa a caratteri mobili si porranno le pre­ messe per due passi decisivi nell'ottica di una scientificità sperimentale con massiccie ricadute tecniche: l'istituzione di ciò che W.]. Ong chiama un

grafoletto,

e la replicazione esatta di diagrammi e disegni. Con «grafoletto»

si intende il parco di concetti e termini (tecnici e non) che sono a disposizio­ ne di una cultura scritta, ed in particolare stampata: "Il grafoletto porta il segno dei milioni d'intelletti che Io hanno usato per condividere le loro co­ noscenze. In esso è stata inserita una quantità di vocaboli impossibile per una lingua orale"88• La disponibilità di termini, ipotesi, obiezioni e modelli Lloyd, La scienza dei greci, op. cit. , p. 1 3 7 . Ong W.]., Oralitil

e scrittura,

Mulino, Bologna 1986. p. 152. Egli ricorda, poco dopo, che

i curatori di un dizionario inglese "avevano a disposizione qualcosa come un milione e mezzo di parole usate nell 'inglese stampato. Le lingue ed i dialetti orali possono sopravvivere con for­

se soltanto dnquemila parole, o anche meno" (Ibidem, p . 153).

1 84

Scrittura e logica propria del grafoletto stampato poneva le premesse per un uso sistematico della sperimentazione, sia perché divenivano chiare le prospettive in cui la collettività degli studiosi poneva la discussione scientifica, sia perché i ri­ sultati della sperimentazione diventavano registrabili con sicurezza, e dun· que valeva la pena di sperimentare89 Alla registrabilità dei saperi, poi, die­ de un (sottoyalutato) contributo la riproducibilità a stampa di disegni, dia­ grammi, mappe, e simili: per averne un'idea della portata si provi a pensare soltanto a cosa noi effettivamente sapremmo se dovessimo eliminare tutto ciò che abbiamo visto raffigurato nei libri (quanti di noi immaginerebbero un canguro, il sistema circolatorio o una pagoda?)90• Ma prima della ripro­ duzione a stampa la corruzione delle espressioni illustrate, delle serie nume· riche, dei disegni tecnici era la norma, e la possibilità di registrare gli estre­ mi delle condizioni di un esperimento, o le informazioni tecniche capaci di

riprodurre s trumenti complessi erano estremamente carenti, impedendo di fatto I' accrescimento del sapere in intere branche dello scibile. Abbiamo esaminato, sia pure in modo sintetico, le pratiche che hanno posto le condizioni per lo sviluppo della scientificità occidentale; esse fanno capo alla scrittura in generale, e alla scrittura alfabetica in particolare, da cui emergono i due capi della formalizzazione logica, con l' istituzione del concetto «corispondentista» di verità, e della registrazione sistematica delle esperienze. Dobbiamo ora gettare un rapido sguardo al contenuto etico im­ plicito in queste genealogie. Con il termine «etica» non menzioniamo alcu· na determinazione morale e normativa, ma utilizziamo questa espressione come sinonimo di «pratica», «prassi», s alvo che per l' implicita sottolinea tu· ra per cui ogni pratica incarna un senso, un orientamento «interpretativo» teleologicamente indirizzato (senza che per forza vi sia qualcosa come un «fine>} al di fuori o al di là della pratica) . In quest'o ttica vogliamo riconosce· re, nella genealogia della scienza finora portata alla luce, un'essenziale nodo etico. Dobbiamo allora chiederci innanzitutto: perché la logica nella scrit­ tura? cosa rende dotata di senso l' introduzione della logica nell'ambito del linguaggio scritto? Con l'introduzione della scrittura alfabetica il linguaggio parlato poteva passare senza sostanziali residui nella scrittura, questo ha di Si rifletta sul fatto che nell'antichità greco-ellenistic:l, gli stessi esperimenti, ad esempio 89 quelli di Stratone, Erasistrato o Galeno, davano con grande frequenza risultati opposti a diversi sperimentatori, proprio in quanto la descrizione delle condizioni dell ' esperimento era­ no affette costitutivamente da estrema imprecisione. (Cfr. Lloyd, La scienza dei greci. op. cit . , p . 23 1 e p. 234). 90 Su questo tema si ved:1 l'amplissima e preziosa analisi svolta dalla Eiscnstein, nel già citato lavoro sulla rivoluzione dovuta alla stampa.

185

Fenomenologia e genealogia della verità fatto comportato un'evoluzione della pratica linguistica in tre punti: l) si è sviluppata un' analisi del linguaggio (una «grammatica») a partire dalla quale 2) si distinguono nel linguaggio stesso, formalizzandone la pratica, usi legit­ timi, meno legittimi ed errati (logica come teoria dell' argomentazione) ed inoltre .3) si pongono gli usi legittimi, come facenti capo ad un metodo uni­ co, rigidamente escludente tutti gli altri (logica, come unità del Vero) . La «grammatica» è normativa solo in quanto, registrando il linguaggio, immobilizza tendenzialmente degli usi e pone dei modelli in forma di tradi­ zione «letteraria»; di per sé, però tale tradizione è una conseguenza implici­ ta in ogni scrittura, ed assume la forma «grammatic ale>> solo perché l' alfabe­ to offre il modo analitico di manipolare lo scritto. li senso dell' analisi gram­ maticale, presa a sé, è il senso inerente ad ogni scrittura, ovvero alla scrittu­ ra, e al linguaggio umano in generale: l' autoc011servarsi nelk:z tradizione, nel linguaggio come soggetto e come intersoggettività. n linguaggio scritto ap­ partiene ad una tradizione e contribuisce a mantenerla; la regolazione scrit­ ta, grammaticata, funziona come supporto per la conservazione del sogget­ to-mondo, dell'insieme disgiuntivo di unità d' azione in cui ci orientiamo e che presupponiamo per poter sussistere come soggetti. La scrittura si collo­ ca al livello delle attività che possono incidere sulla mediazione, e dunque sulla conservazione della natura di soggetto del soggetto: il senso della scrit­ tura come tale è perciò coestensivo del senso del soggetto, ed il senso del soggetto è l'esistenza del soggetto. Questo significa che non c'è alt�a fondazio­ ne di senso cui potremmo attingere: non sappiamo come sia non essere sog­ getti, né potremmo di diritto immaginarlo, né potremmo mai pensare ad una giustificazione più profonda di quella che fa appello alla conservazione della nostra propria natura e del (suo) senso. Gli altri due punti mirano rispettivamente a distinguere il valore dei di­ scorsi ed a unificare i discorsi validi. Il primo di questi due passi sta a caval­ lo tra l' oralità e la scrittura: distinguere il valore dei discorsi significa rico­ noscere il valore di alcuni soggetti, di alcuni modi del linguaggio anziché di altri. Il «riconoscimento», come sappiamo, è primariamente cor-risponden­ za, con-compimento d'atti, dunque il soggetto riconosciuto come dotato di valore è propriamente l'incarnazione dell'unità intersoggettiva, e quindi dell'unità del mondo di quel linguaggio. La scrittura alfabetica incrementa le possibilità del riconoscimento intersoggettivo con una possibilità negati­ va, ed una positiva: la scrittura permette con più facilità I' apprendimento dei discorsi, il linguaggio può divenire una tecnica esterna, la cui matura­ zione non coincide con la maturazione del soggetto che Io incarna, la scrit­ tura è uno strumento di gestione del linguaggio la cui potenza supera di 186

Scrittura e logica gran lunga quella della memoria vivente, ed il sapere apparente ottenuto so­ Io per via scritta può confondere il riconoscimento. Ad opporsi a questo pe­ ricolo per l'equilibrio intersoggettivo (che è equilibrio antologico) deve es­ sere un utilizzo simmetrico ed opposto delle potenzialità alfabetiche, cioè, appunto una teoria dell' argomentazione che ponga dei criteri di controllo potenti quanto ciò che permette l' apparenza del sapere. Questo momento di passaggio è storicamente visibile tanto in Grecia che in India: in Grecia esso è particolarmente evidente nel paradossale atteggiamento di Platone verso la scrittura, egli denuncia, come noto, la scrittura in quanto portatri­ ce

di un sapere apparente, incapace di trasmettere il Bene, mette alla berli­

na- personaggi come Fedro, che vogliono ben figurare con l' ausilio a buon mercato del supporto scritto, cerca di contrapporre Socrate, il vero sapien­ te, a Protagora o Gorgia, i sofis ti; d'altra parte egli, diversamente da Socra­ te, accetta di scrivere, ed elabora un metodo analitico pensabile soltanto nell' ambito del discorso scritto91 (pensiamo al

Fedro, e al Sofista) . Il proble­

ma affrontato dal metodo platonico è quello della necessità di delegittimare i falsi sapienti, e, per differenza, di istituire Io spazio proprio del filosofo, la cui funzione, in tutta evidenza, non è concepita primariamente come quella

di uno studioso, ma come quello di guida politica, di filosofo-re, cioè, ap­ punto, di incarnazione legittimata del riconoscimento intersoggettivo. Un analogo processo ebbe luogo in India, nel secolo che precedette la nascita di Buddha92: l'unità culturale costituita dalla tradizione delle Upani­ shad più antiche si disgregò, dando vita ad un ricco dibattito filosofico e contemporaneamente alla progressiva elaborazione di una teoria dell'argo­ mentazione (ai cui caratteri abbiamo già fatto cenno) . Ma, come sappiamo, la logica greca non si limita ad esporre una teoria dell'argomentazione, essa intende imporre l'unità metodologica del Vero: in India l'idea di una rigida ortodossia, dipendente dall'unicità della verità,

è·assente, "all'induismo è estraneo il pensiero che tutti i propri seguaci deb­ bano avere obbligatoriamente una sola e stessa fede"9' . Ora il senso dell'u­ nicità del metodo veritativo, e del concetto di Verità in generale, si manife­ sta come contrappeso ad un elemento di disgregazione che nella Grecia so­ cratico-platonica si presenta per la prima volta come una minaccia assoluta. Cfr. Goody ]., Literacy in traditional JocietieJ, op. cit., p. 53. Vedi Oliver R. T., Communication and Culture in Ancient India and China, Syracuse Uni­ versity Press, New York 19il, p. 5 2 . Questo lavoro nel suo complesso mostra articolatamente la vivacità e complessità dell'agonismo dialettico indiano, su cui, nei presenti limiti, non pos­ siamo soffermarci. 9'

Glasenapp, op. cit. , p. 79.

187

Fenomenologia e genealogia della verità Avevamo già osservato, con Havelock, come la possibilità di conservare le idee originali, determinata dall 'alfabeto, rendeva indipendente la sopravvi­ venza delle nuove idee dall'immediato riconoscimento del gruppo, ed in que­ sto modo le idee «valide» non avevano come loro unico modo di sussistenza la metabolizzazione sociale, ma potevano mantenere un'esistenza individua­ le, legata al soggetto da cui erano originate. In questo mutamento del modo dd riconoscimento emerge niente di meno che la valorizzazione dell' indivi­

duo in quanto tale, cioè la nascita vera e propria della soggettività individua­ le94. L'originalità di Socrate farà ancora scandalo, la sua richiesta di >6, elaborato dalle geometrie non euclidee. Più in generale il valore di invarianza misurativa che la fisica classica attri­ buiva alla distanza s paziale viene sostituito (vedremo in seguito perché) dal­ la nozione di «separazione spaziotemporale» tra eventi, cioè da una misura­ Zione che si mantiene invariante al mutare della posizione e della condizio­ ne ; di moto del misuratore9• filosofiche connesse consigliamo il lettore privo di consuetudine con questi temi di rivolgersi all'eccellen te volume a cura di Boniolo G . , Filosofia della fisica, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 5-163 . In generale questo volume può essere consigliato come introduzione, ma anche come discussione critica, in rapporto



tutti i temi che toccheremo di seguito, i quali,

pur non presupponendo particolari conoscenze tecniche, sottintendono talora questioni pre­ senti nel dibattito contemporaneo.

A. S. Eddington, Spazio , tempo e gravitazione, Boringhicri, Torino 1963 , p. 98. Ovviamente l' innovazione einsteiniana non appare dal nulla, basti qui ricordare I ' ampia (e drammatica) discussione avvenuta negli ultimi decenni del XL'\: secolo intOrno ai fondamenti della matematica, con particolare riferimento proprio alle geometrie non euclidee. Non i: pos­ sibile, né sarà possibile nel prosicguo dar conto in modo rigoroso dell'evoluzione storica di determinati concetti; ci affidiamo alla benevolenza del lettore, cui forniremo in bibliografia . alcune indicazioni utili ad un inquadramento storico. Per «separ::tzione» si intende la determinazione spaziotemporale: -J.1.x2 + .1.y' + .1.z2 -.1.t', dove .1.x, .1.y e .1.z sono distanze tra punti nello spazio tridimensionale e .1.t possiamo inten­ derlo approssim::ttivamente come il tempo necess::trio per passare con lo sguardo da un punto all'altro. È facile vedere come la retta euclidea sia un caso particolare della separazione, cioè: il caso in cui la separazione è massima: se pensiamo ad un segmento di retta individuato sull'asse

209

Fenomenologia e genealogia della verità Nella teoria della relatività si fanno i conti in maniera abbastanza radi­ cale con la natura pragmatica del concetto di spazio. Lo spazio newtoniano, come luogo dell'inerzia, che aveva avuto la meglio sullo spazio puramente relazionale di Leibniz, era uno spazio che, per la natura stessa del concetto, possedeva qualità fisiche regolanti i rapporti tra punti materiali; tali rap­ porti si ritrovarono alla fine dell'800 ad essere classificati come essenzial­ mente di tipo gravitazionale o elettromagnetico. Sotto la spinta della critica machiana allo spazio assoluto newtoniano come qualcosa di inesperibile ed ininfluenzabile, che però esercita un influsso sui corpi (come inerzia) , alcu­ ni studiosi come "Drude e Abraham [. . . ] proposero che l'etere, il portatore delle onde elettromagnetiche, venisse identificato con lo spazio assoluto" '0 Nella concezione newtoniana Io spazio, che pure risultava fondamentale per dar ragione, ad esempio, delle forze centrifughe, non aveva alcun carat­ tere materialmente distintivo, cioè conservava il suo aspetto sostanzialmen­ te «euclideo»; l' attrazione gravitazionale newtoniana si esercitava come un'immediata azione a distanza tra due corpi, e ciò implicava un conflitto frontale con quell'esigenza logica ereditata dal Medioevo, e fatta propria ad esempio da Leibniz, per cui «qualcosa non può agire dove non è»". Ritorne­ remo nel paragrafo successivo sul problema logico dell'azione a distanza; ciò che conta in ordine alla questione attuale è che lo spazio fisico, per giu­ stificare i moti e le azioni reciproche che in esso avevano luogo, doveva ve­ nire caratterizzato in un qualche modo che ne manifestasse la natura conge­ nere con gli eventi materiali. La strada presa tradizionalmente dalla scienza fisica è stata quella, concettualmente simile alla teorizzazione cartesiana della ghiandola pineale'\ di porre come medio tra cose una cosa terza: que­ sto processo trovò incarnazione nell' abbandono dell'efficacia del «vuoto» (horror vacui) nel '600, e poi nell'SOO nell'introduzione dell'etere. Ancora Galileo parlava della ) è l'obiettivazione, la cosalizzazione di ciò che fenomenologicamente non è al­ tro che il comportamento carica di prova in 16

un

relativo tra corpi,

ad esempio l' accelerazione di una

campo magnetico, o d i una massa in un campo gravita-

Ritorneremo più volte su questo concetto, ed in particolare vi ritorneremo, in modo ere·

diamo chlarificatore, discutendo nel prossimo paragrafo il problema dell'azione a

213

distanza.

Fenomenologia e genealogia della verità zionale . In ques t'ottica bisogna anche dire che il progresso einsteiniano è, da un punto di vista filosofico, indipendente dalla validità di alcune sue premesse fisiche: se, ad esempio, dovesse venire alla luce la possibilità di trasmettere segnali ad una velocità superiore a c, ciò comporterebbe un crollo della forma attuale delle equazioni, ma nient'affatto un arretramento concettuale su posizioni newtoniane, poiché la riduzione dello spazio (e del tempo) alla loro misura è un progresso nella logica della fisica, molto prima che nella sua capacità predittiva. II problema dello spazio assoluto, dello spazio come oggetto, come ete­

re, è, alla radice, quello dell'obiettivazione del medio : quando dico o scrivo la parola «spazio» io, soggetto, rendo oggetto del linguaggio una pratica di commisurazione, ma se voglio fare un discorso che accolga soltanto le me­ diazioni fisicamente formalizzabili, cioè appunto le misurazioni, allora non posso pensare di obiettivare l'oggetto > in un'equazione fisica possiamo giungere a chiederci per quale ragione non possa esservi di fatto una realtà che corrisponda sen­ z'altro a -t; possiamo cioè chiederci per quale motivo il tempo dovrebbe sempre andarsene proprio da una parte. Ora, la forma di questa domanda è analoga a quella di chi chiedesse, di fronte al disegno di un capriolo, donde il capriolo vivente tragga la terza dimensione. Ci si dimentica cioè il proces­ so che ha condotto dal fenomeno alla sua scrittura, e di fronte alla scrittura si chiede una ragion sufficiente per una differenza specifica che riguarda la traduzione scritta e non il fenomeno. La ragione di un fatto può essere in­ trodotta solo dove è possibile un fatto differente, ma, a fronte della mani­ polazione di «t>> non abbiamo automaticamente corrispettivi oggettivi pos­ sibili; cosa sarebbe infatti un tempo che va a ritroso? Noi possiamo immagi­ nare una sequenza che inverte il suo senso, e questa inversione la possiamo pensare proprio soltanto in quanto riconosciamo in essa comunque un pri­ ma ed un dopo , dunque soltanto sull a scorta del tempo primario. L' enigma dell' anisotropia del tempo si fonda su di una posizione di domanda impro­ pria, cui qualunque risposta non può che rendere il cattivo servigio di con­ servarla in vita. Il tempo puro, il tempo in sé e per sé, posto come diverso dal suo ricor­ do e dal suo racconto, viene al mondo soltanto nella sua pubblica schema­ tizzazione. Se guardiamo al suo pubblico modo di darsi , vediamo che una compiuta istituzione del tempo si ha soltanto con l'istituzione di una classe di eventi «temporizzanti», di «orologi», che possono andare dai cicli lunari, e stagionali, allo spostamento del sole nel cielo, a qualunque processo si svolga in modo «regolare». La «periodicità» non è un attributo fondamenta­ le de gli eventi «temporizzanti>>, anche se un periodo uniforme dà delle «unità naturali» atte ad essere tradotte in segni discreti. Possiamo cosl rie­ sumare la definizione aristotelica di tempo, in quanto «misura, numero del movimento», a patto di tener conto sia dell'ineludibile rapporto con la co­ scienza di ogni moto, sia del passo astrattivo compiuto nel ridurre ogni for­ ma di «mutamento» a «movimento» puntualmente descrivibile . Chiediamo­ ci ora: ha senso parlare di «misurazione del tempo»? come ci si garantisce

dell'adeguatezza di un «misuratore di tempo», di un orologio? Appare subito chiaro che «misurare il tempo» significa «misurare la misura del movimen­ to»,

e che quindi dovremmo ricorrere ad un'unità di misura sovraordinata

alle nostre unità di misura temporali, ad un su per-tempo per valutare la cor­ rettezza della loro misurazione, ma per sapere che tale unità sovraordinata è stabile dovremmo ricorrere ad un parametro ulteriore, e cosl ad infinitum. Dunque parlare di «misurazione del tempo» è a rigore insensato: il tempo

2 18

E tica della fisica non si misura, perché è un misurante sempre in atto. Ma allora dovremmo ammettere che, se il tempo non è rnisurabile, se non possiamo esporre la correttezza di un modello, ne segue che la cos truzione degli «oggetti tempo­ rizzanti», degli orologi avviene secondo un metodo arbitrario? Evidente­ mente questo non risponde a verità, giacché l'accordo collettivo sempre più preciso in ordine alle misure temporali mostra di per sé che un qualche fon­ damento unitario, e non arbitrario, deve esserci. Questo fondamento, però, non è un fondamento scientifico, ma «etico», cioè legato ad un abito com­ portamentale dotato di senso. Il modello del «tempo» è la «regolarità», la quale non può essere misurata, ma soltanto «posta». La «regolarità» è il no­ me della coordinazione, di quella coordinazione che, come uniformità della natura, è alla base dell'esistenza del soggetto, e che, come «ricerca della leg­ g�», sta alla radice della pratica scientifica. Di fatto per «misurare la corret­ tezza» degli orologi si pongono alcuni «oggetti temporizzanti» gli uni accan­ to agli altri e li si tiene sotto osservazione per un certo periodo : la «precisio­ ne» degli orologi è valutata in termini di maggiore o minore coordinazione tra i rispettivi moti; gli odierni orologi atomici differiscono reciprocamente dopo un anno, di un intervallo valutato, secondo le nostre tradizionali uni­ tà di misura, in 6 x 1 0·6 sec. Possiamo dunque dire che la «verità>) degli oro­ logi è garantita dalla loro efficacia nel porre e ritrovare delle «costanze>), cioè nel soddisfare l' esigenza etica, l'istanza comportamentale e valoriale di possedere uniformità assolute; ciò non toglie che altre esigenze etiche, altre pratiche collettive, possano istituire «tempi>) diversi (pensiamo al tempo stagionale dell' agricoltura, legato al tempo atmosferico, e dotato di proprie regolarità). In ambito fisico l' assolutezza del tempo è stata, molto più di quella del­ lo spazio , un capisaldo teorie� indiscusso sostanzialmente fino all ' esposizio­ ne einsteiniana del 1905 . L'impostazione del problema da parte di Einstein coglie perfettamente il nocciolo essenziale della natura del tempo, cioè la coordinazione, assumendo come compito primario per la definizione fisica di «tempo» la de terminazionè delle condizioni di «sincronizzazione>) tra orologi: per asserire che due processi sono misurati dallo stesso tempo biso­ gna che i rispettivi «oggetti temporizzanti>) siano sincronizzati. La sincro­ nizzazione, in quanto correlazione tra punti materiali, deve essere posta da una relazione spaziale , intesa, nell'idealità geometrica, come «intempora­ le>). Ma per calare tale relazione dalla pratica geometrica a quella fisica biso­ gna prendere in considerazione il modo concreto in cui tale relazione si isti­ tuisce, e dunque la velocità con cui un'informazione relativa ad un punto materiale giunge all'altro punto; nella pratica di sincronizzazione comune 219

Fenomenologia e genealogia della verità l'informazione «simultanea>) è data esemplarmente dallo sguardo che ab­ braccia in un medesimo colpo d'occhio più elementi, più in generale dun­ que dalla vista, e quindi dalla luce . Quest'ultima, tuttavia ha, fisicamente, una velocità finita, e, secondo le premesse della teoria della relatività, essa è anche la massima velocità raggiungibile da un segnale, dunque il medio ideale per la sincronizzazione. La velocità di trasmissione del segnale è una variabile trascurabile per distanze e velocità reciproche modeste, ma divie­ ne fondamentale quando si tratta di sincronizzare orologi distanti e/o velo­ ci. La teoria della relatività ristretta in sostanza rovescia il rapporto classico di gerarchia tra «velocità>) da una parte e spazio e tempo dall'altra: la veloci­ tà non è più il rapporto tra determinazioni spaziali e temporali assolute, ma sono lo spazio ed il tempo ad essere misurati tramite un campione assoluto di vel ocità. A rigore non si può più neppure parlare di «velocità della luce» nel sistema relativistico, giacché la luce è il metro e non il risultato di una misura: la luce, relativisticamente, non misura affatto 299. 792 ,458 km/sec, né alcuna altra velocità'\ perché queste misure sono ottenute in un modo che la teoria della relatività stessa delegittima, cioè facendo riferimento a parametri di spazio e tempo assoluti2 0• Per la luce, come per tutti i moti «misurativi>), dovremmo utilizzare piuttosto che > della dilatazione temporale, giacché, se è vero che il prin­ cipio di relatività vale soltanto per sistemi inerziali, è anche vero che nelle trasformazioni di Lorentz si fa riferimento esclusivamente alla velocità re­ lativa tra i sistemi e alla costante

c: in altri termini, se è ben vero che sul si·

stema «razzo>> si può rilevare una variazione di moto che rivela 1' accelera­ zione del sistema, e si può dunque ammettere di non essere un sistema iner­ ziale, ciò non toglie che l'osservatore posto sul razzo, e collegato con segnali viaggianti a velocità

c

con l'orologio terrestre, «vede» a sua volta un rallen­

tamento degli orologi terrestri, anche se poi noi possiamo sempre dire che il suo punto di vista è «illegittimo». A rendere problematica un'interpretazio22

De Broglie L., I quanti e la fisica moderna, Einaudi, Torino 1942, p. 91. Vedi anche Rei­

chenbach H., Il significato filosofico della teoria della relatività, in Einstein, Autobiografia filo­ sofica , Einaudi, Torino 1979, p. 181 . 1l

Vedi ad esempio Sexl R. e Schmidt K., Spaziolempo, Boringhieri , Torino 198 0 , p. 87;

oppure Born M., op. cit., p. 3 1 1 .

22 1

Fenomenologia e genealogia della verità ne realistica della dilatazione temporale vi sono diverse considerazioni; in· nanzitutto, bisogna riconoscere che se un tale rallentamento del tempo vi fosse realmente, ciò sarebbe da considerare un puro accidente, quanto al modo in cui è predetto, giacché l'argomentazione relativistica non fa alcun riferimento ad un nesso causale tra variazioni di moto ed effetti materiali sul sistema accelerato, effetti tali da giustificare, ad esempio, un rallenta· mento del metabolismo del gemello viaggiante. L'effetto di rallentamento dipende esclusivamente dalla differenza di velocità complessiva, e non dal­ l' accelerazione, dunque, per ipotesi, un' accelerazione costante quasi-statica ed un' accelerazione violentissima non avrebbero effetti differenti sui pro­ cessi del sistema, ai fini della considerazione temporale. Inoltre la misura in cui avviene il rallentamento temporale dipende dalla costante c, che quindi ci appare, nonostante storicamente la sua scelta fosse consapevolmente «convenzionale»2', come una costante di natura dotata di particolari qualità occulte influenzanti gli altri moti materiali. Sarebbe inoltre interessante sa­ pere, in quest'ottica, cioè ammesso che la velocità in sé, relativa all a veloci­ tà della luce, abbia effetti causali sul tempo, quale sarebbe la «temporalità» autenticamente regolare in un universo supposto in moto di espansione; nessun sistema noto sarebbe in condizioni diverse da quelle del > segnali con una certa frequenza e di averne ricevuti con frequenza minore, ovvero, di avere spedito, nel tempo intercorso, più segnali di quanti ne siano stati ricevuti; ed entrambi hanno ragione, ed entrambi torto, perché stanno confrontando due sistemi di eventi diversi ed incommensurabili, associati dall'apparenza che sia trascor­ so «lo stesso tempo» per i due sistemi (nel frattempo) . Ma una cosa è la fre­ quenza di oscillazione locale , misurata con tempo locale, del trasmettitore, un'altra cosa è la frequenza del codice per un'osservatore in moto rispetto alla sorgente: si tratta di eventi differenti, misurati con parametri di coordi­ nazione differenti. Il riferimento alla variazione di frt:: quenza non deve pe­ rò lasciare spazio ad una lettura che assimili questo effetto a quello Dop­ pler. Proviamo ad illustrare il tutto ulteriormente: supponiamo di guardare una gara di corsa dalla tribuna, di essere dotati di una vista s traordinaria­ mente acuta e che la pista, a nostra insaputa, possa muoversi rispetto a noi. Se la pista si muove da destra a sinistra Ia sua velocità e quella dei corridori si sommano, ed io vedo una gara che dura quanto la stessa sulla pista ferma ed in cui ogni corridore fa il medesimo numero di passi, ma in cui ho l'im­ pressione di vedere passi più veloci coprire distanze più grandi. Cosa acca­ de però se siamo prossimi alla velocità delia luce? Poniamo di legare alla ca­ viglia di un corridore una minitorcia, che essa produca esattamente lO uni­ tà luminose irriducibili («fotoni>> sui generis) per ogni millimetro del percor­ so svolto, e che ciò mi consenta senza difficoltà di vedere tale percorso con continuità. Ora, se i «fotoni» si comportano come onde, quando il corrido­ re arriva dalia destra le onde aumentano di frequenza, mentre quando si al­ lontana alla mia sinistra le onde diminuiscono di frequenza; questo perché l'aumento di velocità della caviglia non aumenta proporzionalmente l' im­ pulso dei «fotoni», dunque, conservandosi la velocità di trasmissione delle onde, esse si accumulano quando mi vengono incontro e diradano quando si Non i: difficile, per quanto ci interessa, aggiornare eventualmente questo modello «di passaggio» verso la teoria dei quanti con modelli quantistici più recenti.

224

Etica della fisica allontanano (effetto Doppler) . Se invece i > di percorso visto, vedrei che esso si è ridotto, in quanto al millimetro corso rispetto alla pista si è sommato un tratto addizionale dovuto al moto della pista stessa. Ora, però, se i fotoni sono onde-particelle che si muovono nel vuoto a velocità costante c, allora ad un aumento della rapidità relativa a me della caviglia del corridore deve corrispondere un rallentamento del moto veduto; infat­ �i, se poniamo, per dire, che ad ogni cinquantesimo fotone percepito si dia il limite che identifica un'unità significativa osservata (un passo, o lo spo­ stamento della lancetta sul quadrante, ecc.) , allora quei fotone mi perverrà dopo che, rispetto a me, il piede del corridore ha svolto un percorso supe­ riore, che però non è registrato dal mezzo di trasmissione, se non come una «diluizione» del numero dei fotoni giunti per millimetro di percorso visto. Invece di vedere passi più lunghi a velocità maggiori, come sarebbe se le ve­ locità si sommassero linearmente, vedo una pista più corta e un tempo dila­ tato, perché di quell 'eccedenza di percorso «in sè» svolto dal piede non pos­ so venir a sapere nulla, e dunque attribuisco il rallentamento del ritmo os­ servato alla dilatazione temporale. (L 'effetto Doppler si conserva, ma è del tutto separato dall'effetto relativistico, cioè dall'effetto di traduzione nel medio) . S tiamo allora dicendo che la dilatazione temporale relativistica è una questione del percorso, di una quantità proporzionale a (l

·

if/c1Y12, parimenti lo spazio, misurato in secondi-luce da un rag­

gio che ha la stessa velocità, è equivalente ad un tempo che scorre più lentamente, ed è dunque necessariamente più corto in modo direttamente proporzionale :ùla dilatazione temporale. La stessa cosa si può concepire considerando che per la misura di una distanza (che è una differen­ za) c"ì:: bisogno di una valutazione simultanea degli estremi, e la simultaneità propria di una misura locale è sfasata per un sistema in moto.

27

Le verifiche sperimentali di effetti relativistici di cui siamo a conoscenza possono essere

ricompresi nei termini della spiegazione qui esposta. Il caso della presenza dei muoni ad un livello dell'atmosfera più basso di quanto compatibile con i tempi di esistenza dei muoni stessi, come provato in laboratorio, può essere compreso se non ci si lascia ipnotizzare dal valore limi­ te

dell a vdocità della l uce :

il

fatto che noi non possiamo trasmettere messaggi a velocità supe­

riore a c, implica che non possiamo verificare fisicamente velocità superiori, ma non che esse non possano sussistere. Se ai muoni che giungono nell'atmosfera, qualunque sia la loro veloci­ tà, e qualunque sia il moto relativo della terra, viene vietato di superare c, allora l'interpreta­ zio ne relativistica si impone; ma della loro velocità in sé non sappiamo, né possiamo sapere assolutamente nulla. È il caso di non dimenticare che il senso, correttamente operazionale, della velocità relativistica ha valore in quanto vieta una moltiplicazione di enti immotivabile, un'infrazione del rasoio di Ockham, ma che è un nonsenso verificare una conseguenza dell'as­ sunto metodologico della velocità limite (la dilatazione temporale) passando per un'inferenza che presuppone quel limite con valore antologico.-Trascuriamo di discutere un'altra molto citata verifica sperimentale, cioè quella dci cosiddetti «orologi aviotrasportati», svolta da

226

Etica della fisica Svolgiamo, in conclusione di questo paragrafo, alcune brevi considera­ zioni sul problema della costanza della velocità della luce, e su quello con­ nesso delle {welocità limite». Il nesso istituito da Einstein tra velocità della luce e principio di relatività consta di un ragionamento di questa sorta: la costante c è parte essenziale della fisica contemporanea; cioè delle equazio­ ni di Maxwell, e perché valga il principio di relatività, cioè perché in siste­ mi equivalenti valgano le stesse leggi, è necessario che la velocità della luce nel vuoto, da qualunque osservatore sia misurata, valga come una costante assoluta. Ora il passaggio dalle premesse alla conclusione non è del tutto chiaro, giacché il valore di c, in quanto risultato sperimentale che determi­ na il rapporto tra intensità del campo elettrico e magnetico, ottenuto in condizioni controllate, può essere trasposto legittimamente, per il principio di relatività, soltanto ad un sistema inerziale analogo, che lo può riottenere come oggetto dell'indagine, ma non può essere automaticamente imposto come medio tra sistemi; in altri termini Einstein estende il senso del valore c dalla sua costanza nei differenti sistemi inerziali, alla sua costanza nei e tra

i suddetti sistemi. Per sostenere questo passaggio c'è bisogno, del tutto in­ dipendentemente dal principio di relatività, di un sostegno empirico ester­ no, che testimoni della costanza di c come velocità di propagazione della lu­ ce nel vuoto. L'esperimento di Michelson-Morley poteva in qualche misura costituire un argomento empirico per questa imposizione dello statuto della luce, tenendo però conto del fatto che esso si limitava a sostenere l' assenza di un mezzo fisso da cui la velocità della luce dovesse dipendere, senza dire nulla, ad esempio, sulla velocità con cui un osservatore in moto avrebbe po­ tuto ricevere l' informazione luminosa28• Quel che è chiaro è che una volta collocata la velocità della luce nella sua posizione strategica di parametro di misurazione non è più possibile, all'interno della teoria, trovare argomenti teorici o empirici che smentiscano l'assunto, e le argomentazioni che si muovono per «dimostrare» la natura di «limite» della velocità della luce soHafele e Keating nel 197 1 , giacché tutte le descrizioni che conosciamo dell'esperimento sono troppo lacunose per consentire una sensata discussione di un effetto che implica misurazioni dell'ordine dei nano secondi e che è infine risultato corretto soltanto per uno dei due orologi. 2B

Notiamo di passaggio che esperimenti come quello di Arago, che sembrano dimostrare la

cost:ll1Za della velocità della luce per osservatori dotati di velocità relative alla sorgente diver­ se,

non dimostrano nulla nella prospettiva delle attuali conoscenze sul comportamento della

luce. L'esperimento in questione si basa sulla dipendenza della posizione dei fuochi in un tele­ scopio dalla velocità della luce. Ora, i fotoni che provengono dalla prima lente incontrata dal raggio non sono gli «stessi» fotoni del raggio iniziale, ma sono nuovi fotoni liberati per diffu­ sione dalla lente, dW1que, per così dire, sono fotoni che ripartono di bel nuovo con velocità e per cui la distanza focale deve rimanere costante.

227

c,

Fenomenologia e genealogia della verità no strutture puramente tautologiche. Prendiamo ad esempio il seguente brano di Eddington: Ci si potrebbe domandare se è possibile che qualche cosa abbia una velocità superio­ re a quella della luce. Certamente la materia non può raggiungere una velocità supe­ riore; ma potrebbero esserci altre cose in natura capaci di farlo. Qualsiasi entità con una

veloci tà superiore a quella della luce potrebbe essere in due luoghi nello s tesso

tempo. Si può appena notare che è di per sé contraddittorio essere in due luoghi nel­ Io stesso tempo".

È chiaro come una volta defini ta la simultaneità per mezzo della velocità della luce, e trasponendo tale concetto di contemporaneità nella definizione aristotelica della «contraddizione», parlare di «entità» più veloci della luce è a priori contraddittorio. Questa contraddittorietà non può in nessun modo es­ sere confutata per via empirica, tino a che si utilizzano gli strumenti pratico­ teorici elaborati dalla teoria. Se usiamo la velocità c come metro di misurazio­ ne possiamo misurare soltanto frazioni di c, mentre una supposta entità viag­ giante a velocità superiore potrebbe essere soltanto «inferita» (come si fa in fisica quantistica) , ma non mai «misurata>>, e dunque non potrebbe mai avere «esistenza fisica»)". Quante alle presunte «verifiche» dell'impossibilità di rag­ giungere velocità superiori a c effettuate nei sincrotroni è appena il caso di notare come le particelle di prova vengano accelerate con impulsi provenienti da serie sincronizzate di magneti, con impulsi dunque che producono i loro effetti con una velocità finita ben determinata, e precisamente

c! Pensare che

una particella in un sincrotrone possa raggiungere una velocità superiore a quella della luce semplicemente aumentando le forze magnetiche in causa è come pensare di muovere un auto ad una velocità superiore a quella massima di un essere umano aumentando il numero di uomini che la spingono. Il problema della costanza della velocità della luce riemerge in occasio­ ne della considerazione gravitazionale di essa. Non possiamo qui approfon­ dire questo punto, ci limitiamo dunque ad alcune osservazioni essenziali, per mostrare l' unità dei temi del moto e del tempo anche negli sviluppi del­

la relatività generale; in questa elaborazione

c viene conservata come co­

stante, anche in presenza di fenomeni come la distorsione gravitazionale del raggio. Come noto, il fatto che la luce subisca un effetto di curvatura gravitazionale implicherebbe, adottando una concettualità classica, una vaEddington, op. cit. , p. 83. Questa è appunto la «verità» racchiusa nd cosiddetto «teorema dell'addizione delle velo­ cità>>, che i: immediatamente deducibile dai valori del tempo e della lunghezza ottenuti con le trasformazioni di Lorentz.

228

Etica della fisica riazione del vettore velocità, un'accelerazione, ma adottando la struttura­ zione dello spazio propria della relatività generale, cioè considerando unita­ riamente il moto inerziale e quello gravitazionale, si può mantenere il valo­ re costante di c, che rimane il prototipo dell' inerzialità (moto «rettilineo uniforme») . Quando però si vuole utilizzare la costanza di c per sostenere tesi fondative della teoria, come il rallentamento temporale in presenza di campi gravitazionali, bisogna mantenere una certa diffidenza; ad ogni mo­ do, il fatto che in presenza di certe forze, come la gravità, si possa dare l'ef­ fetto di un «rallentamento>> dei moti (non del «tempo») è, da un punto di vi­ sta strettamente fisico, molto meno bizzarro di quanto non sia il «rallenta­ mento» della relatività ristretta. Resta ovviamente ferma l'osservazione che quanto viene «misurato» non è il «tempo locale>} del sistema osservato, con i suoi ritmi esperibili, ma la sua traduzione nel codice del medio, e che dun­ que è ipotizzabile l'attribuzione dell'effetto di «rallentamentO>} int egral­ mente all 'effetto di traduzionell. Ciò che ci preme tener presente, in conclusione, è lo spostamento, av­ venuto con la teoria della relatività, dalla priorità dei concetti formali di spazio e tempo alla priorità del movimento come azione misurativa. Lo spa­ zio ed il tempo, che per loro genesi non sono «cose», ma pratiche che pro­ ducono «Cose», ritornano, con la teoria einsteiniana, ad una collocazione prossima alla loro origine, sintetizzandosi (almeno parzialmente) nel con­ cetto dei movimento, di cui sono astrazioni. La ridiscussione dei concetti dello spazio e del temp_o è particolarmente utile per intendere il carattere «tautoiogico-materiale» implicito in ogni teoria fisica generale: qualunque messa in discussione delle pratiche con cui i concetti si costituiscono, cioè, nelle > anonima, tipica dell' approccio Jl

Il fatto che i segnali provenienti da una sorgente posta in un campo gravitazionale più

forte manifestino un rallent:unento della frequenza è interpretato come un «rallentamento»

del tempo nel luogo ove è posta la sorgente, rispetto al luogo ove è posto il ricevitore. Se però ammettiamo che la luce, dotata di inerzia e sensibile alla gravità, possa essere «rallentata�> dal campo gravitazionale, allora la diminuzione di frequenza risulta spiegata senza rallentamento delle >, come sappiamo dalle precedenti analisi, è un oggetto cui la percezione attribuisce una natura co­ stante, definita e manipolabile . Le qualità che intenzioniamo negli oggetti per trovarvi corpi, «cose» emergono dall'istituzione logica degli ), e cioè in ultima istanza da derivazioni dalle prati­ che dell'identificazione scritta. In quest'ottica diventa chiaro il valore «pas­ sivo» della cosa corporea: essa è innanzi tutto il non-soggetto, privo di quali­ tà proprie perché la sua unità proviene da un atto di identificazione astrat­ to, è un puro «essere-per-altro», sempre disponibile e replicabile; cosl, la res

exste11sa, in senso cartesiano, è la semplice trasposizione delle pratiche di identificazione geometrica (puntualizzazione) sul piano fisico. D ' altro can­ to l'identificazione dell'unità cosale è legata non soltanto all'identificazio­ ne spaziotemporale, ma anche alla «sostanzialità» della cosa, cioè alla sua ideale permanenza al mutare degli accidenti «empirici». Tuttavia, da un punto di vista formale, geometrico, non c'è modo di distinguere tra un'e ­ stensione (una figura) , e il mero spazio che essa occupa, dunque, per dar conto della «sostanzialità» casale, è necessario far riferimento a qualcosa che oltrepassa le pratiche di identificazione geometrica, e questo qualcosa è Si può osservare che, in assenza di una concettualit� astratta, come quella greca, o, par­ zialmente, quelle semitiche, le necessità pratiche dello scambio economico non erano in grado di imporre neppure una nozione

di peso,

fiche dci singoli corpi. Cfr. Jammer M.,

ad uso commerciale, che trascendesse le qualità speci­

Storia del concetto di massa,

p . 26.

JJ

Fcltrinelli, Milano 1974,

' Per un panorama storico completo circa la nozione di «corpo», rinviamo all'opera citata

di Max Jammer sulla

Storia del concetto di

massa .

230

Etica della fisica

il lato «attivo» della materia, la sua capacità di resistere alla sovrapposizio­ ne geometrica, che, fisicamente, ne sopprimerebbe la permanenza sostan­ ziale . Ora, il modello archetipico dell'unione tra lato �} dell'azione a di­ stanza, così come si configura soprattutto tra '600 e ' 700. Esso può essere riassunto nei seguenti termini: posti due atomi meccanici distinti, le intera­ zioni tra di essi, repulsive come attrattive, o vengono concepite come «azio­ ne trasmessa

dal vuotO>}, ma ciò è per definizione impossibile perché nel

vuoto non c'è nulla che possa trasmettere un' impulso, oppure vengono tra­ smesse da un mezzo materiale (ad esempio l' etere) che però dovrebbe avere a sua volta, in quanto materiale, una composizione atomica, e dunque ti­ proporrebbe il problema all'interno del mezzo, esigendo un mezzo che co­ munichi tra le parti del mezzoH. Questa aporia mostra chiaramente l'inade­ guatezza del concetto di materia postulato.

Non si tratta, beninteso, di una «falsificazione>> empirica del concetto di «materia», né, peraltro, di una pu­ ra contraddizione logica; l' incongruenza sta tra la pratica di identificazione formale-geometrica e la pratica di identificazione fisico-percettiva. Nel pri­ mo caso ciò che disgiunge, che media e dunque identifica i punti (pre-mate­ riali) sono le pratiche della misurazione spaziale astratta, assunte come etero­ genee ed estranee alle entità misurate (il triangolo geometrico non è modifi­ cabile nella sua idealità da un atto di misurazione); nel secondo caso ciò che media ed identifica è

l'azione reciproca tra i punti, il loro essere identificati

tramite il modo in cui reagiscono ad un' entità mediatrice (ad es. : l' applicaCfr. a questo proposito M.B. Hesse, op. cit., pp. 238-9, ed il testo nel suo complesso per

una trattazione storica del problema dell'azione

23 1

a

distanza.

Fenomenologia e genealogia della verità zio ne di un regolo, di una sonda, ecc. ) . Vista a parte subjecti la differenza passa tra l'identificazione come misurazione spaziale, e l'identificazione co­ me «misura di una reazione», cioè come >. L'entità misurata con la seconda pratica deve avere una «reazione>>, nominata fisicamente come «elasticità», ed essa non si concilia con la passività assoluta richiesta dalla misura nello spazio assoluto. Per sintetizzare le due esigenze identificative, tenendo fermo il fine di «descrizione della realtà», bisogna sacrificare alcu­ ni presupposti della prima pratica, e precisamente bisogna ammettere la non-formalità dello spazio (vedi paragrafo precedente), ovvero, dal punto di vista della materia, bisogna introdurre lo > tra enti (non «atomi»). Un' azione o è a distan­ za o non è, nel senso che è l ' azione a porre «distanze», e d'altra parte non vi sono «parti» di materia

al

di fuori delle reazioni ad interazioni.

2 . 2 . Masse e forze Con l'esposizione newtoniana dei principi della dinamica si giunge ad una grande sistemazione concettuale dei rapporti tra «corpi» e «azionil> . Nonostante la convinzione di Newton, nell'elaborare le >, e che dunque l'uniformità del moto inerziale è in defini­ tiva la misura di se stessa. L'evidente struttura �>, né «mentali», né a priori, né a posteriori. Guardando al secondo principio della dinamica facciamo un passo avanti nelle operazioni di codefinizione, cioè diamo rappresentazione alla «misura» dei rapporti tra i concetti. Questo principio afferma che una forza applicata ad un corpo imprime ad esso un'accelerazione direttamente pro­ porzionale alla forza s tessa e inversamente proporzionale alla massa del cor­ po36 . Sappiamo già che con «forza» si intende un'entità che modifica il mo­ to inerziale dei corpi, ma qui «misuriamO>> questa entità ponendola come equivalente al prodotto della massa per l'accelerazione. Ora, con «massa» si intende qualcosa di più specifico dell'informale concetto di corpo utilizzato in precedenza; se il corpo era semplicemente un'unità «casale» priva di au­ tomovimento, adesso la massa nomina la misura della caratteristica domi­ nante, cioè l'inerzia, la «resistenza», in assenza di vincoli ed attriti, ad esse­ re messo in movimento, oppure ad essere arrestato o deviato se già in moto. Ju

In simboli, astraendo dai segni di differenziale, il principio è trascrivibile come F

m · a,

=

k

dove b costante di proporzionalità > si sviluppa già con Berkeley, per essere poi approfondito in Maupertuis, in Kant. fino ai lavori di Mach, Kirchoff e Hertz. Nella fisica contemporanea il concetto di «forza>> non è abbandonato, viene utilizzato consuetamente,

ma

non compare praticamente più nelle «conclusioni ontologiche», non gli viene cioè attribuito > ed «azione a distanza». Dall'opposizione tra corpi ed azioni, tra masse e forze è emersa la necessità di un assorbimento della forza nella massa, inte­ sa come «quanto di forza», «energia potenziale», ed in seconda battuta l' as­ similazione della massa e dell 'energia48• Proviamo ora ad estendere il nostro Su un .:> agente in direzione oppo· sta all'accelerazione non varia secondo l'inverso del qu:�drato della distanza dal «pavimento»; in secondo luogo se ponessimo un corpo nel centro

di una sfera cava di grande massa la «forza il corpo fosse

di gravità» agente non agirebbe nella direzione del «centro di massa>>, inoltre se

posto sulla superficie della sfera, allora la direzione della forza non produrrebbe accelerazioni secondo linee parallele, come per l'ascensore accelerato, ma secondo direzioni convergenti verso il centro della sfera. 48

Ai lettori di Hegcl non sfuggirà l'analogia di questo movimento con quello dialettico clas·

sico, in cui la verità di due concetti opposti sta nella mediazione che li ha posti. Ritorneremo

$U] ser.,ù di questo movimento nelle conclusioni.

240

Etica della fisica sguardo al mondo inquieto della fisica quantistica, con particolare riferi­ mento all'annoso problema del rapporto tra il concetto di onda e quello di particella. In prima battuta mette conto evidenziare come i due concetti in questione ricalchino, in una versione più «tecnica>>, i ruoli classici della «Co­ sa materiale» e della «forza agente». L'onda tuttavia ha un valore più speci­ fico della generica «forza» newtoniana, in quanto descrive un' azione fisica fortemente caratterizzata: un'onda agisce su di un punto materiale portan­ do una certa quantità di energia in modo discontinuo rispetto al tempo. Se prendiamo il modello di un'onda longitudinale, come quelle che si diffon­ dono nell'acqua, possiamo concepirla come la trasmissione di una compres­ sione iniziale delle «particelle» del fluido alle particelle contigue, il cui ca­ rattere «ondulatorie>> è dato dalla velocità finita di propagazione, che è quanto a dire dall'inerzia delle particelle. Se fossimo in presenza di un «mezzo» perfettamente rigido non si darebbe un'onda, ma uno spostamen­ to in blocco della cosa-mezzo; ed anche in assenza di inerzia, cioè di resi­ stenza all ' applicazione di una forza, non si produrrebbe un'onda. Ora, pos­ siamo chiederci da dove provenga l'energia trasportata dall ' onda; la prima risposta sembrerebbe indicare la «causa» dell'onda nella sorgente, ad esem­ pio in un sasso gettato nell'acqua: maggiore l' energia proveniente dalla sor­ gente, maggiore l' energia trasmessa dal mezzo. Questo però non è rigorosa­ mente vero, giacché, fornendo un' energi::t superiore ad una certa soglia si ha «disgregazione» del mezzo, che non trasporta più tutta l'energia prove­ niente dalla sorgente, e al limite non ne trasmette più affatto. Tale conside­ razione non è accidentale, ma mostra come il mezzo, il fluido, le particelle elastiche, abbiano un limite interno nel trasportare energia, e come dunque l'energia trasportata dall' onda dipenda anche dal mezzo: oltre una certa so­ glia energetica l'acqua evapora, il ferro battuto si ammorbidisce, l'aria com­ pressa si scalda e disperde energia termica. Se prendiamo una particella del mezzo, concepita come un corpo elastico , possiamo concepire il «trasporto» di energia come segue: l'urto non fornisce alla particella qualcosa che essa prima non aveva, ma produce un'asimmetria nella distribuzione dell'energia interna alla particella, ed è tale «direzione» che viene trasmessa in forma di onda. D'altra parte già sappiamo che una particella, un corpo, o è un quan­ to di forza, di energia potenziale, oppure non è nulla di concepibile. Venia­ mo dunque a concludere che l'onda è semplicemente la forma identificabi­ le, evidenziabile con l' azione di una «sorgente», di fattori tutti impliciti nella natura del mezzo, delle «particelle». Guardiamo ora al modello della particella, concependolo macroscopica­ mente come un corpo elastico (cioè un corpo

24 1

tout court) . La particella, ln

Fenomenologia e genealogia della verità quanto dotata di massa inerziale, reagisce ad azioni fisiche ad essa applica­ te, e tale reazione è necessariamente «elastica» in ogni suo momento, nel senso, già chiarito, che non si possono dare a nessun livello «atomi» perfet­ tamente rigidi ed impenetrabili: se anche qualcosa come un atomo rigido ed impenetrabile «esistesse», di esso non potremmo sapere nulla, non potrem­ mo né toccarlo, né rilevarlo in alcun modo, perché, non essendo portatore di , cioè non contrastata nel suo estrinsecarsi, e pienamente attuale, è energia priva di energia, è energia completamente «degradata». Dunque l'e­ nergia, in quanto sempre vincolata per la sua rilevazione e misurazione a corpi, a entità discrete, è anche sempre distribuita in modo discontinuo. Dalla rappresentazione della «particella» che è emersa deriva anche, co­ me conseguenza immediata, che l'energia identificante una particella è sempre concentrata in modo dipendente dalla frequenza con cui essa «Oscil­ la», in uno dei punti dell'oscillazione, e che quindi, a priori, senza conosce­ re esattamente la «fase» con cui la particella è partita, non si può determi­ nare la «posizione» della particella (della sua energia in atto), ma soltanto la

n

Cfr.

Planck M . ,

La

conoscenza del mondo fzsico, Einaudi, Torino 1949, pp. 148·9.

Da ciò segue anche una giustificazione al senso delle velocità «limite» per la trasmissione

di una forza: se esistessero forze, azioni, applicabili in modo assolutamente continuo, allora vi sarebbero azioni immediate, il che, in senso temporale, significa azioni istantanee. Se, come abbiamo visto, non sono concepibili azioni immediate, allora i problemi legati alla composizio· ne di moti per velocità prossime a c, come la trasmissione di impulso magnetico accelerate, sono tutti confermati. Notiamo ragionamento alla

di sfuggita che non

a

particelle

è possibile applicare questo

«forza» di gravità, non essendo concepibile come un'azione che provoca un

impulso: la gravità non ha una sorgente ed una destinazione, ma ogni massa è ad un tempo sor­ gente e destinazione, dunque non

è necessario concettualmente

modo ondubtorio, né che si trasmetta a velocità

244

finita.

che la gravi t� si trasmetta in

Etica della fisica probabilità che essa si trovi su una delle possibili traiettorie dell'oscillazio­ ne53 : questo è l' essenza concettuale di ciò che a partire dalla teoria di Jacobi viene chiamato «onda di probabilità», e che viene associato alla funzione ljf .

n problema della duplice descrizione «ondulatoria» e «particellare» del­ l' energia emerge in chiara dipendenza dalle pratiche di rilevazione: per esperimenti che predispongono alla rilevazione, in una radiazione, di feno­ meni di interferenza o diffrazione si è imposto il modello ondulatorio, men­ tre negli esperimenti che evidenziano, per la stessa radiazione, l'emissione e l' assorbimento si è imposto il modello particellare. Una volta misurato un effetto di interferenza, ad esempio facendo attraversare a delle radiazioni un reticolo rigato, non è possibile conoscere puntualmente le posizioni sin­ golarmente prese delle «particelle radioattive»; e d'altra parte, identifican­ do con una camera a nebbia (traiettoria) , od un contatore Geiger (istante), od una lastra fotografica (posizione), le particelle di una radiazione, non è possibile evidenziare parallelamente figure di interferenza. Va osservato, tra l'altro, che il sussistere di una distribuzione «quantizzata» negli eventi naturali, può essere visto non solo in modo «deduttivo», a partire dall a co­ stituzione pragmatica d-yi concetti, ma anche nella forma «ascendente» del­ la ) il valore del limite h: po­ trebbe, cioè, essere falsificata l'espressione data da Heisenberg al principio di indeterminazione, senza che ciò comporti una rinuncia al suo valore con­ cettuale di principio)> (= sostanza universale) . Gli estremi della determinazione, cioè il punto

materiale e l'universo, si rivelano, ad una osservazione attenta,

come immagini ideali del processo di obiettivazione: sono rispettivamente

l'infinita riduzione dell'oggetto, fino alla sua ultima «perfezione», fino alla determinazione assoluta, e l'infinita riduzione del soggetto, fino alla sua spa­ rizione di fronte all'oggetto universale, al cosmo. Ciò che accomuna queste riduzioni, ciò che traccia Io sfondo del sapere assoluto è il concetto della mediazione del medio, dell' obiettivazione dell' obiettivante, che è quanto a Potremmo. per amor di ipotesi, concepire i buchi neri come «fucine di mnteria», da cui non sfugge neppure radiazione ternùca. Ipotesi che ammettono in generale un meccanismo di creazione spaziotcmporalmente determinata di materia sono state prese in considerazione in cosmologia ad esempio da Bondi e Gol d.

267

Fenomenologia e genealogia della verità dire l'infinito. Ma l'infinito non è più, in nessun senso, un dato fisico; l' infi­ nito è sempre processo di sistematica soppressione del finito, è il concetto della negazione determinata, l' abito del superamento che tende ad appro­ priarsi di ogni superato. Non esistono, né possono esistere «infiniti attua­ li»: l'infinito è rappresentabile sempre soltanto come negazione della rap­ presentazione che in un determinato momento incarna meglio una direzio­ ne operativa, e qualunque sua determinazione è soltanto la definizione di un

procedimento di determinazione?) L'infinito, come istanza della deter­

minazione fisica, come dover-essere implicito nella pratica fisica di produ­ zione dell'ente, rivela i confini della verità scientifica e risospinge lo sguar­ do verso le pratiche che istituiscono la verità in quarito tale.

4. Revisione e sintesi L'analisi del concetto fisico condotta in questa sezione ci ha condotto ad un confronto con alcuni dei passaggi fondamentali nella concettualità della fisica moderna. Questi passaggi non sono, né mirano ad essere, rap­ presentativi del concreto e quotidiano lavoro scientifico, che opera sempre all'interno di paradigmi concettuali definiti, ma piuttosto di quella terra di confine che è la costituzione dei concetti fisici, cioè la definizione del cam­ po all'interno di cui la «fisica reale» si muove. Abbiamo osservato, nei pri­ mi due paragrafi, come dentro i più «empirici>) risultati sperimentali si ri­ trovino gli estremi logici della fondazione concettuale, e in particolare co­ me la tendenza all'estensione onnicomprensiva delle determinazioni con­ cettuali metta in campo un'operazione di obiettivazione del medio: cosl è accaduto per la trasformazione dello spazio assoluto e del tempo assoluto in uno spaziotempo relazionale, definito tramite un'unità di movimento; lo stesso è accaduto per la trasformazione dei concetti di forza e massa in «for­ me» dell'energia; e parimenti per la traduzione delle onde e delle particelle in

«wavicles>), in onde-particelle. Nel terzo paragrafo, e, quanto alla teoria

della relatività, anche nei primi due, abbiamo invece visto come il passaggio «ascendente>) verso un'obietti vazione del medio, cosl come si presenta nel­ l'ipostatizzazione relativistica di

c,

nell'uso della predizione probabilistica,

o nella valutazione del concetto universale di «energia», sia affetto da una Non è qui possibile analizzare, come sarebbe opportuno, le vicende del concetto matema­ tico di infinito, quamomeno da Cantor a Dedekind, onde esibire il carattere particolare di tale concetto. Come riferimento di massima può tuttavia essere presa la dimostrazione della con· traddittorietà del concetto

di infinito attuale in C:mtor

268

E tic a della fisica costitutiva «non-fisicità», come cioè l'ipostatizzazione del medio ampli il potere di comprensione della concettualità fisica, ma contemporaneamente porti la stessa ad uscire dalla verificabilità scientifica (ad esempio: la veloci­ tà della luce non è relativisticamente misurabile, i sistemi chiusi non posso­ no per definizione esistere, ecc .). A partire da queste osservazioni cerchere­ mo ora di fissare, nel modo più chiaro possibile, alcune prime conclusioni parziali, più strettamente legate alla riflessione sulla scienza. Preliminar­ mente però dobbiamo fare ammenda di una particolare trascuratezza, con­ sapevolmente commessa, di cui il lettore di filosofia della scienza avrà già preso nota: in tutta la sezione non abbiamo fatto cenno , se non di sfuggita, a quell'indirizzo, apparentemente molto prossimo alle nostre tesi, conosciu­ to come «operazionismo», e legato in modo particolare al nome di P W. Bridgman. Il motivo principale per cui abbiamo scelto di non confrontarci con Bridgman, o con posizioni a lui affini, è un disaccordo di fondo su alcu­ ni punti che noi consideriamo essenziali e che sarebbero potuti apparire co­ me semplici «variazioni» delle tesi «operazioniste>>. L'approccio operazioni­ sta è pregiudizialmente limitato, e privo di radicalità: non si fa cenno, in Bridgman, del problema del rapporto tra verità e realtà, né della natura del­ l'oggettività fisica. L'operazionismo è debole perché si mette in gioco sol­ tanto sul piano fisico, lasciando inindagati i punti che mettono in questione

a) il valore di realtà che può essere attribuito ad un sapere fisico elaborato «operazionisticamente», matematiche;

b)

il nesso tra verità fisiche ed elaborazioni logico­

c) il ruolo «metodologico» dell' operazionismo in relazione al­

la genesi delle verità scientifiche. Quanto al primo punto, l'operazionismo pu9 scadere facilmente o nel «Convenzionalismo», dimenticando che l'ope­ razione scientifica ha comunque l' ambizione e, quantomeno, l ' apparenza di dar conto della realtà, oppure nell'utilitarismo strumentalista, lasciando aperto il problema della differenza specifica tra «artigianato», o ) nella forma di una caduta rovi­ nosa: assenza di orientamento, di riferimenti, di cose afferrabili ed osserva­ bili, sensazioni senza percezioni. Il concetto di caos è la negazione della soggettività (e dell'oggettività) e dunque non è genealogicamente compati­ bile con l'esistenza di un soggetto; inversamente, l' uniformit à è definita dall 'esistenza di enti permanenti, ed essendo gli enti nessi di correlazioni, essa implica l' esistenza di relazioni permanenti. Enti e relazioni, in quanto disgiunzioni permanenti, si danno soltanto per un linguaggio, e d' altro can­ to il funzionamento del linguaggio e l'esistenza del soggetto presuppongono strutture di pratiche sensibili permanenti. Chiedere ragione ulteriormente di questo nesso tra linguaggio e mondo, tra soggetto ed oggetto, senza ac­ contentarsi della descrizione di «come>) questo nesso si manifesta, significa fare pura metafisica, e non nel vago senso di «teoria oscura>) (o magari di teoria con cui non siamo d' accordo) , ma di teoria che postula la sussistenza di relazioni o qualità (come la causalità o l'individualità) al di là dell a sussi­ stenza di fenomeni da correlare o qualificare: dire che il nesso linguaggioMolte delle analisi svolte da Bridgman possono comunque essere «recupera te>> nell'ottica qui esposta,

c

lette utilmente come argomentazioni integrative di quelle qui prese in conside­

razione.

270

Etica della fisica mondo venga da Dio, o dall' evoluzione, o dagli extraterrestri ha lo stesso (nullo) significato. Metafisica è in generale assegnare ad un concetto un va­ lore di realtà improprio, incompatibile con la propria modalità di esistere: possiamo dire che un sogno è reale, purché non lo poniamo al medesimo li­ vello dell'esistenza di veglia; possiamo dire che l'universo esiste, purché non lo consideriamo sul medesimo piano di un oggetto localizzato; possia­ mo dire che la soggettività e il linguaggio e le sensazioni, che l'infinito, il tempo e lo spazio, le onde di probabilità e i quanti, ecc. esistono, ma non nello stesso modo in cui esiste la carta su cui sto scrivendo. La realtà come totalità di enti e relazioni permanenti76, che è il corrispondente del mondo, come sussistenza, vigenza del principio di disgiunzione17, implica da una parte l'utilizzabilità del principio di non-contraddizione nel mondo reale, e dall'altra ciò che possiamo chiamare «monismo naturale», cioè la necessità di concepire il mondo come un sistema (universo) . Il «monismo naturale» è il concetto complementare del principio di non-contraddizione; essi sono

rispettivamente il momento unificante e il momento differenziante della disgiunzione. Sul piano fisico tale monismo naturale si manifesta come

) sono contraddizioni materiali, in quanto violano la collocazione concettuale delle nozioni usate, e cosl facen­ do pongono il pensiero in una posizione di stalla, dove ogni possibilità di Per una deternùnazione più precisa del concetto di «contraddizione materiale>>, con par­

ticolare riferimento alla

sua

valenza etica, ci permettiamo di rinviare al nostro breve saggio

Passione e contraddizione materiale:

un

modeUo , in ATQUE, 1 7, mag.-nov. 1998, pp. 163-196.

273

Fenomenologia e genealogia della verità orientamento e decisione viene meno. Perché un caso del genere si presenti è necessario che si dia una discordanza tra piani del discorso, cioè che alcu­ ne regole fondate si pongano sul livello delle regole che le fondano. Ad esempio: se sospendo il concetto di tempo tolgo anche il presente, ma la presenza è proprio quella corrispondenza che pone la determinazione di esi­ s tenza, dunque «il tempo non esiste» è una contraddizione materiale; o al­ trettanto: perché si possa dire che qualcosa esiste, la sua esistenza deve es­ sere rilevata, ma se qualcosa può essere rilevato, allora appartiene allo stes­ so mondo del soggetto rilevante, dunque se vi è qualcosa come un Universo parallelo, di esso non possiamo comunque predicare l'esistenza. Una con­ traddizione materiale può in generale verificarsi tanto tra soggetti diversi che per un medesimo soggetto; ciò che avviene è un'infrazione della pro­ pria unità d' azione, delle pratiche apprese e delle loro articolazioni, indotta dal tentativo di far reagire singole articolazioni intese come unità semanti­ che astratte, i mmemori od inconsapevoli delle operazioni che a quelle con­ feriscono senso. L' infrazione dell'unità linguaggio-mondo, della «tradizio­ ne», che abbiamo riscontrato tra le conseguenze della pratica alfabetica, ha proprio la natura di un catalizzatore di contraddizioni materiali: infatti, unitamente all'incentivo al pensare autonomo, proveniente dalle potenzia­ lità della scrittura, si dà la generale tendenza alla sostanzializzazione dei si­ gnificati, al loro trattamento come unità indipendenti, autonome rispetto al contesto materiale e temporale, e dunque anche indifferenti agli ordini di fondazione concettuale. Quel fondo disgiuntivo di unità d'azione che è il nostro mondo, condizione ad un tempo per l'orientamento del soggetto in­ dividuale e per la comunicazione intersoggettiva, emerge ad un' analisi re­ gressiva come intreccio di tautologie materiali; esse hanno un'informatività di natura vogliamo risuoni il sostrato etimologico del «preve­ dere». Ciò che, se visto come abduzione da pratiche circoscritte, appare co­ me un azzardo conoscitivo, appare nella sua forma pura come modello ma­ tematico, in cui delle pratiche identificative non rimane che la generale struttura disgiuntiva. Quel che sembra essenziale in un modello è proprio soltanto la sua capacità di connettere in una singola «immagine» entità dif­ ferenti, indipendentemente dal modo in cui tale connessione si è istituita: posso utilizzare come modello per comprendere un nuovo insieme di eventi tanto un'immagine di origine percettiva, come quella di un urto, che un'im­ magine del tutto estranea ad esperienze percettive, come quella di un moto casuale, che, ancora, una relazione astrat ta, come una corrispondenza nu­ merica tra un valore e l'inverso del quadrato di un altro valore. Un modello è un modo di concepire, di «prendere assieme)> e non si rivolge a percetti, ma a misurazioni. In un senso molto generale possiamo dire che ogni mo­ dello è un'immagine, cioè un'unità relazionale fondata su pratiche derealiz­ zate84; se poi la derealizzazione giunge fino all'irrilevanza delle modalità di incontro con la realtà, allora abbiamo un modello propriamente matemati­ co, dove il nesso che viene immaginato può non essere niente di più che il mero «se . . . allora . . . )> . In un caso come quello dell'utilizzo nella comprensione fisica della geo­ metria riemanniana o, ancora più, dell 'algebra non commutativa, il modello matematico preesiste all'osservazione che deve spiegare, ed in presenza di ricorrenze misurative queste possono venir unificate sovrapponendo lo schema matematico. Questi schemi matematici, anche in assenza di conte­ nuto reale, hanno valore immaginativo, esattamente nello stesso modo in cui posso immaginare (esprimere interiormente) una proposizione insensa­ ta, ma dall'andamento grammaticale corretto: ogni connessione è un'immaVedi i paragrafi

5

1.: della sezione B.

281

Fenomenologia e genealogia della verità ginazione. Se mi trovo di fronte ad una serie di numeri come (5 ; 1 ) , (4;2) , (3 ;3), (2;4) posso «vedere» la relazione che li lega come un'immagine «mate­ riale>>, del tipo «più uno cresce, più l'altro cala, come tra vasi comunicanti», ma posso anche «vedere>> un' espressione matematica come

x +

y =

k (se

ne ho consuetudine), che è a tutti gli effetti un'immagine matematica, una connessione generale, indipendente dalle singole determinazioni percettive o numeriche, ma verificabile in tali determinazioni. Ora, come noto, il ruolo dei modelli nella scienza è fondamentale, ma non privo di ambiguità. Senza i modelli, come possibilità di connettere qua­ lunque entità in qualunque ordinamento relazionale, non è possibile esten­ dere la prensione scientifica al di là delle pratiche misurative «dirette», dunque non è di fatto possibile la costruzione dell'edificio scientifico. Ma i modelli, anche quelli più utili e «Verificati», possono venire prima o poi so­ stituiti, e la storia della scienza testimonia ampiamente questo processo; dunque si deve concludere che, in qualche modo, i modelli sono necessari all'istituzione della verità scientifica, ma che essi in se stessi (come tipolo­ gia del darsi degli enti) sono «falsi», sono altro dalla realtà8'. Senza modelli non è possibile ricomporre in un'immagine scientifica unitaria le differenti disgiunzioni della realtà, ma una volta ottenuta una formulazione matema­ tica unitaria, capace di connettere pratiche misurative dirette ed indirette, tutto ciò che conta è il risultato, mentre la natura del modello (percettivo, biologico , meccanico, ecc.) può essere trascurata. Tutto dò sembra parlare, in definitiva, in favore di un solo genere di modelli, cioè dei modelli mate­ matici che in certo modo, come tipo, permangono al mutare degli altri: pos­ so utilizzare per concettualizzare gli eventi un modello «antropomorfico» o «animale», come nell'antica scienza greca, oppure un modello meccanico, come nella fisica ottocentesca, ed in entrambi i casi, se ottengo un rapporto condizionale tra misurazioni (un «se . . . allora . . . ») il modello ha assolto legit­ timamente il suo compito, ed il risultato scientifico, in termini di capacità di previsione matematica degli eventi, può essere messo agli atti. La specifi­ ca natura del modello ha significato soltanto in relazione a due aspetti: l) per il senso comune, e per la psicologia dello scienziato, è rilevante aderire o meno ad un genere di modelli piuttosto che ad un altro, in quanto il moLa storia della scienza è ricca di modelli funzionanti poi climostratisi «falsi>>: come esem· pio si può pensare alle scoperte di Sacli-Carnot, che si fondavano su di un modello, il «fluido calorico», in

cui la differenza di temperatura tra caldaia e condensatore veniva concepita sul il lavoro mec­

modello della differenza di altezza da cui cadev:1 l'acqua in un mulino ad a cq u a : canico era compiuto perché una certa quantità di calore «cadeva» dalla regione maggiore verso quella

a

temperatura inferiore.

282

a

temperatura

E tic a della fisica dello incarna l' intero contenuto di senso dei risultati scientifici: i modelli rappresentano l'antologia della scienza . 2) Per la pratica scientifica l' ade­ sione ad un tipo di modelli deve essere tendenzialmente totalizzante, per­ ché l'essenziale per il successo nell'utilizzo di un modello sta nella sua coe­ renza: non posso usare di volta in volta modelli diversi, come un modello animale ed uno meccanico, perché essi metterebbero capo a sis temi incom­ mensurabili di disgiunzione tra i dati, e dunque potrebbero soltanto servire a «classificare>> per uso mnemotecnico gli eventi, senza consentire il calcolo e l'inferenza tra di essi. Ma questo significa, ancora una volta, che è solo l' aspetto logico-matematico nei modelli ad essere rilevante sul piano della verità scientifica, mentre le particolari connotazioni dei singoli modelli so­ no scientificamente inconferenti, e rilevanti solo come «stimolo» psicologi­ co per lo scienziato, o come «ideologia» scientifica per usi extrascientifici. Per tirare le fila del discorso diamo ora uno sguardo al caso esemplare (e per molti versi, come abbiamo visto, fondativo) dd concetto di «atomo»g6• Esso incarna il limite tra valori essenziali e contingenti dei modelli. Cosa acco­ muna l'atomo di Leucippo e Democrito con l'atomo di Rutherford, o con quello di Bohr? Potremmo dire che si tratta di un modello comune? In sen­ so stretto questi «atomi» sono modelli incommensurabili: tra l'idea di «ele­ mento pieno» di Democrito, visualizzato magari nel pulviscolo atmosferico, ed il modello «planetario», inferito dalle reazioni di una lamina d'oro ad un bombardamento di elettroni, non sembra davvero esserci niente di comu­ ne. Eppure il concetto di atomo, ancorché mai propriamente riscontrato nella realtà, ha continuato ad essere usato nei secoli, dun que si è comporta­ to proprio come un modello unitario; e in effetti I' atomo è niente meno che il modello primario della matematizzabilità del reale, (o, come abbiamo an­ che detto, della «scrivibilità dell'essere») dunque, in certo senso, è il model­ lo di tutti i modelli fisici. L 'atomo sopravvive come progetto originario del­ la scienza, cioè come ricerca dell'elementarità cui poter ridurre di diritto ogni ente dell'universo, dunque, ancora, come ricerca della «riduzione ad unità numerica» della realtà. In questo senso l' atomismo sta a cavallo tra l'i­ deologia della scienza e la sua più profonda natura, nel senso che è uno dei modi di indicare il senso antologico della scienza nel suo complesso, al di là dei modelli che storicamente (o psicologicamente) possono essere adottati. La superiorità dei modelli matematici sugli altri, la loro «sostanzialità» è in­ scritta nelle volontà inaugurali della scienza, ed è insita nel modo di istituir­ si della verità scientifica, nelle sue pratiche costitutive. Vedi

p� in senso plastico , capa­ ci di tradurre osservazioni e misurazioni in strutture unitarie e coerenti, matematizzabili: non si dà mai direttamente la possibilità di applicare mo­ delli matematici ad una «realtà non interpretata>>, perché nella real tà non si danno immediatamente enti matematici. La pratica scientifica utilizza per­ ciò i modelli non-matematici come ponti dal mondo alla scienza, e Io fa nel­ la forma di una sorta di inversione del rasoio di Ockham:

canda praeter necessitatem.

entia sunt multipli­

I modelli «immaginativi» nascono infatti come

eccedenze, veritativamente inconferenti, ma essenziali per l'estensione dei­ le con oscenze; essi danno alla scienza la sua componente teorica, che le con­ sente di essere una struttura aperta all'universalizzazione (con buona pace dell 'operazionismo normativo) : si può dire che porre la

vis do1mitiva

come

essenza dell'oppio, anche se sul momento non fa aumentare in nessun modo la conoscenza, costituisce un'eccedenza concettuale che, in quanto si inseri­ sce in un'indagine scientifica, apre una casella causale che potrà magari consentire la scoperta della morfina, o degli elementi chimici sonniferi. La

vis donnitiva,

come l'atomo, possono ben essere indicazioni vuote, ma la lo­

ro funzione euristica è essenziale al sorgere di una scienza. In questo senso, quando si chiama in causa una presunta «essenza matematica» della natura, ad esempio in un caso come la scoperta di Nettuno da parte di Le Verrier

(1846), ottenuta calcolando la posizione di un corpo celeste ignoto sulla ba­ se delle perturbazioni orbitali di Urano, si fraintende completamente il sen­ so della pratica scientifica. Dato un mondo di articolazioni dotate di unifor­ mità qualunque sequenza di articolazioni segniche, di disgiunzioni vuote, può trovare infinite concrezioni cui applicarsi; dunque il mondo è sempre disponibile per la matematizzazione, senza che dò consenta di conferire al­ cun valore ontologico alia matematica e più in generale ai modelli che isti­ tuiscono i condizionali fisici; tutto ciò che accade con un «reticolo» mate­ matico è che, data una certa interpretazione, una maglia della rete determi­ na un' aspettativa misurati va (o in generale osservativa) , e dunque l'occorre­ re di una smentita o produce un posto vuoto per una variabile inosservata, o nega la validità di quell'interpretazione tutta; il primo caso può portare o alla scoperta della variabile inosservata, o all'inserzione provvisoria di ciò

2 84

Etica della fisica che viene chiamata «ipotesi p retazione;

ad boe», e che consente di conservare l'inter­

il secondo caso si attiva solo quando una nuova interpretazione

più comprensiva sopravviene87

4.4. Leggi e determinismo Dal perc.orso svolto dovrebbe risultare ormai evidente che in natura non vi sono «leggi», ma che leggi si possono cos truire. Parlare di leggi in sé

è, anche nelle sue origini storiche, un'ipostatizzazione di carattere teologi­ co. Non è però un'ipostatizzazione accidentale, perché incarna, come il progetto atomico, l'idea della «scrittura dell'essere». Una legge di natura è una regola che gli eventi sono

tenuti a rispettare,

una regola rispetto a cui i

'fenomeni e le ricorrenze sono da considerare soltanto realizzazioni. Lo scienziato pone come indirizzo generale della sua attività quello di riscrive­ re le leggi cosl come un Dio od un C aso legislatori hanno disposto. Ed

è

in

fondo proprio questo presupposto che giustifica lo scienziato a formulare , ipotesi, ad usare modelli, a moltiplicare le teorie senza una necessità che esuli da quella interna della scienza. In quest'ottica risulta però anche chia­

·ro come attendersi che la scienza possa scoprire in sé la libertà, o i valori, o la vita è assolutamente privo di senso: la scienza è per costituzione e genea­ logia >, può benissimo non essere meccanicistica, ma non può evitare di porre «leggi» (chiamandole magari diversamente) . Le varie forme di , all'attività continua di confronto e raffronto intersoggettivo che mi colloca, alla duplicità riflessiva che costitutivamente mi abita e su cui gli al­ tri possono intervenire cosl come io intervengo, ecc. Parimenti, non è rile­ vante per un uomo di scienza occidentale né che sia consapevole del proprio uso della scrittura, e neanche che sia proprio l'oggetto «alfabeto» che gli consenta di trascrivere ed analizzare le proprie idee, infatti empiricamente vi sono più alfabeti, identificati da una funzione operativa comune, e può ben darsi che tale funzione operativa sia rilevata da una pratica dall'aspetto differente; ad ogni modo, quest'ultima, nella misura in cui dovesse conser­ vare la funzione, che definisce la scrittura, di obiettivazione della media­ zione linguistica primaria, rimarrà condizione imprescindibile per il sorgere di tutte quelle attività che hanno bisogno di poter trattare i pensieri come oggetti (tra queste, tutte le scienze occidentali) . Il modo di esistenza dell'a290

Tesi priori materiale, del rapporto di fondazione tra pratiche, non è né causale, h é legata al ricordo, ma è la stessa dipendenza per cui non può giocare a cal­ �io chi non abbia imparato a camminare, o non può svolgere una moltiplica­ zione chi non abbia imparato a contare. Possiamo descrivere questo ordina­ mento in modo trascendentale, e dire che il concetto di «camminare» è ana­ liticamen!e contenuto in «giocare a calcio», o inversamente possiamo de­ scriverlo genealogicamente, e dire che la prassi dei camminare è preliminare

al giocare a calcio: entrambe le descrizioni sono perfettamente adeguate, purché non siano intese come alternative, ma come indicanti Io stesso (hon-)oggetto. Gli apriori materiali sono latenze presenti, sono spazi che �onsentono certi atti senza comparire come fatti.

Descrizione di apriori materiali versus descrizioni storico-fattuali Gli apriori logici, come categorie universali, sussumenti articolazioni per genere prossimo e differenza specifica, oppure gli apriori trascendenta­ li, come condizioni di possibilità dell'esperienza, sussumenti il reale tramite schemi trascendentali od intenzionalità produttive, costituiscono modalità

di descrizione sub specie aeternitatis degli ordini di fondazione tra pratiche . .La descrizione per apriori materiali è più radicale di esse ndla misura in cui può descrivere le medesime relazioni che quelle descrivono, ed anche le connessioni che a quelle necessariamente sfuggono, come la mediazione tra contingenza esperienziale ed eternità delle idee, tra individualità delle so­ stanze ed universalità delle categorie, tra soggettività trascendentale e sog· gettività empiriche. Come abbiamo visto vi sono pratiche che producono la differenza specifica tra logica ed empiria, tra soggettività ed oggettività, tra temporalità ed intemporalità. D' altro canto deve essere tenuto fermo che l'ordinamento prassico

non

è un ordinamento empirico; il che significa sia

che le prassi non sono fatti, oggetti nel tempo, sia che i rapporti di fonda­ zione tra prassi non hanno carattere contingente, accidentalmente modifi­ cabile, sia ancora, e soprattutto, che l'intero delle disgiunzioni prassiche ha la medesima estensione dei mondi possibili, cioè non lascia spazio all'imma­ ginazione di una diversa empiria, che ne potrebbe modificare la natura. Ogni qualvolta una tale ipotetica empiria si propone , una sua riconduzione alle tautologie materiali che ne consentono di pensare le parti mostrerà che essa non consente di trarre conclusioni, ovvero che le conclusioni tolgono

il

terreno che consente a quell'esperienza di essere compresa (contraddizione materiale) . In questo senso un' analisi attenta all'ordinamento pragmatico­ concettuale non è riconducibile né ad una genealogia in senso «archeologi­ co», né ad un'ermeneutica di natura storica. In entrambi questi casi è la na-

291

Fenomenologia e genealogia della verità tura di orizzonte di esplicazione data all'ordinamento fattuale storico a non essere adeguato, o meglio, ad essere legittimo ad un determinato livello di indagine, ma a non potersi porre come sufficientemente comprensivo; (che talune pratiche di identificazione della soglia tra «pazzia» e «normalità» mutino nella storia presuppone che sia possibile disgiungere tra pazzia e normalità prima di guardare all'obiettività storica, e tale pratica disgiuntiva non è né un' idea trascendentale, né una pratica nella storia) . Altrettanto poco è possibile ricondurre l'ordinamento per apriori materiali alla dialetti­ ca storica, anche se l'identità hegeliana di logica e storia offre una prospet­ tiva affine a quella della sedimentazione pragmatico-concettuale. Di fatto, come abbiamo notato di passaggio, nella dialettica hegeliana il problema della natura della mediazione rimane inevaso, e ciò conduce alle note diffi­ coltà concernenti l'inizio, la fine e dunque il senso del movimento del con­ cetto; non è chiara I' origine dell'andamento dialettico, la negatività, non è poi chiaro nell' andamento dialettico in quale forma i passaggi antecedenti, o la storia passata, siano conservati in quello attuale, e dunque non appare chiaro neppure quale forma debba avere la conciliazione conclusiva, la disa­ lienazione. Ma ogni azione è mediazione, e, come abbiamo visto, la media­ zione più fondamentale, tra soggetto ed oggetto, non è la stessa mediazione che conserva il passato in forma di storia, o che obiettiva il pensiero in for­ ma di logica. Le pratiche che noi stessi siamo, come soggetti, non sono og­ getti, neppure «oggetti ideali». La fenomenologia di Husserl, come eserci­ zio descrittivo, subisce uno scacco proprio in quanto si sottrae costante­ mente il riferimento a quell'oggettività che il linguaggio naturale è predi­ sposto a manifestare. Tale autolimitazione è motivata internamente dalla necessità di evitare l'empirismo o l 'antropologismo, di evitare la mancanza, propria delle sustruzioni scientifiche, di radicalità fondativa. Ma cosl fa­ cendo Husserl, in rimarchevole prossimità col primo Wittgenstein, si dibat­ te in un conflitto permanente col linguaggio naturale, che non può fare a meno di usare, ma che usa sempre con ritrosia e quasi con cattiva coscienza di fronte all a sua costitutiva empiricità: Husserl (come il Wittgenstein del Tractatus) si esprime sempre trattando l'empiria emergente come accidenta­ le esemplificazione da cui ritrarsi quanto prima (o, per Wittgenstein, come insensatezza delle proposizioni da autodenunciare) . La «noesis», cosl come la «forma logica>} possono sussistere sl soltanto come prassi sedimentate, ma come prassi disponibili per il linguaggio mediante, concresciuto con esse, dunque come unità d' azione; una illustrazione pragmatico-conce ttuale deve l) partire da singole «verità» o pretese di verità (fatti, empiria), 2) deve tra­ durle e coordinarle con altre verità in un'estensione di principio onnicom292

Tesi prensiva (con l'essenza del «sistema», senza però pretendere un dispiega­ mento > in un'indagine sulla verità in gene­ rale. Il punto essenziale è che una pratica, in quanto non è un oggetto, non può essere rappresentata come tale, ma soltanto attraverso fatti e cose obiettivi. Le immagini che mi possono balenare all'occorrere di parole desi­ gnanti un'unità d'azione non sono rappresentazioni dell' oggetto > della duplice descrizio­ ne ondulatoria e particellare, nel problema degli «effetti oss erv ativi >> nel

principio di indeterminazione, nella questione dell'isolamento del sistema per le considerazioni probabilistiche, così come nell'estensione cosmologica del secondo principio della termodinamica. In tutti questi casi, quando l'o­ biettivazione fisica cerca di forzare i propri limiti, estendendosi verso l'in­ finitamente piccolo o l'infinitamente grande, o cercando di afferrare come misura nel sistema anche l 'atto di misurazione del sistema, la scienza fisica si trova di fronte all' inverificabilità o al paradosso. In quest'ottica l' ambito della scienza fisica in cui necessariamente tale genere di procedimenti com299

Fenomenologia e genealogia della verità paiono come costitutivi, cioè la cosmologia scientifica (in quanto distinta dall' astronomia e dall' astrofisica) , rappresenta nella sua interezza un non­ senso. Spesso si è detto che la cosmologia deve far fronte alla difficol tà in­ trinseca di aver a che fare con un oggetto singolo, l'universo, senza vedere che, più propriamente, la cosmologia per essenza non ha alcun oggetto, giacché l'universo, la totalità onnicomprensiva, non è un oggetto in nessun senso possibile. La cosmologia è qualcosa come la mitologia di una casta sa­ cerdotale: le sue tesi sono per essenza inverificabili e prive di valore opera­ tivo, ma a sorregger! e sta il principio d' autorità nella figura di appartenenti alla classe degli uomini di scienza, la cui buona fede non toglie che proprio

di fede si tratti. Il valore di realtà di tesi per cui l'universo è omogeneo ed isotropo nello spazio e nel tempo, o invece no, per cui l'universo è chiuso o aperto, per cui l'universo all 'origine aveva determinate condizioni iniziali piuttosto che altre, ecc. è nullo. Al contrario il loro impatto «ideologico» è deprecabilmente alto, in quanto vengono ad incrementare l'ipertrofia mito­ logica e «virtuale» che caratterizza il nostro tempo, camuffata però da veri­ tà obiettiva «Cui ci si approssima asintoticamente». In un mondo in cui po­ chi sanno piantare una patata o riparare un lavandino, moltissimi hanno una qualche immagine «scientifica» del cosmo (molto meno impegnativa per l'ingegno), dunque un'immagine dello spazio che si curva, del tempo che rallenta o torna indietro, dell' universo che esplode o si contrae, ecc. Queste immagini sono come specchi o dipinti, dietro a cui non c'è nulla, ed hanno l'unica (involontaria) funzione di acquietare turbamenti dall'aspetto sgradevolmente «profondo», di arrestare la percezione di un limite costitu­ tivo, di un

ignommus et ignorabimus la cui rilevazione, ed accoglimento, è

essenziale alla propria collocazione di soggetti nel mondo . Di fatto la comu­ nicazione ideologica che, certo inintenzionalmente, proviene dalla cosmo­ logia scientifica (come da altri momenti analoghi dell'intrapresa scientifica, quali la psicofisiologia) suona più o meno cosl: «SU questi temi (ricchi di im­ plicazioni per le attribuzioni di senso al mondo) la scienza non ha forse ri­ sposte perfe ttamente tornite, anzi, magari non ne ha proprio, tuttavia non c'è bisogno di farsene carico, perché vi sono già specialisti che vi si stanno dedicando, e perché comunque sappiamo in anticipo che la verità di queste domande, qualunque sia la risposta particolare cui si perverrà, avrà caratte­ re scientifico» (ergo, avrà la natura di una sequenza causale oggettiva) . Per riuscire a cogliere l'eventuale valore di realtà dietro ad un'immagi­ ne, ad una «verità astratta», bisogna ripercorrere le pratiche, linguistiche e non, che la sos tengono, fino a giungere ad un livello di cui non è possibile pensare che sia diversamente. Di fronte ad un'immagine come quella del

3 00

Tesi tempo che si inverte, o dell'universo che inizia ad esistere, il processo di il­ lustrazione si arresta subito nel vicolo cieco di una contraddizione materia­ le: posso immaginare che un movimento si inverta, che un processo rallenti, ma per immaginarlo ho bisogno di collocarlo in un tempo, cioè di pensarlo '

�o.me sequenza di eventi disgiunti secondo la relazione prima-dopo, che non è im m aginabile altrimenti più di quanto sia possibile immaginare la de­ �tra a sinistra della sinistra o l' alto in assenza dd basso; parimenti posso ben vedere «con gli occhi della mente» una concentrazione di materia im­ mobile in uno spazio vuoto, e poi vederla esplodere o espandersi, ma non posso immaginare che prima di quel primo fotogramma non c'era alcun pri­ ma,

o che lo sfondo su cui si staglia quella concentrazione di materia non sia

urio spazio nell'universo; e se qualcuno mi dice che egli invece ha un'imma­

ginazione tanto forte da esserne capace, dopo essermi complimentato con lui, devo privatamente concludere che parliamo lingue diverse . Tuttavia, di fronte a verità scientifiche come, ad esempio, quella per cui un aumento della temperatura produce una dilatazione dei corpi è perfettamente possi­ bile comprenderla ed attribuirle un adeguato valore di real tà, applicandone le conseguenze in molte situazioni, e questo nella misura in cui possiediamo le pratiche identificative delle parti di quella proposizione, che sono indi­ pendenti da quale modello termodinamico si possa poi essere inclini ad adottare. II fatto di essersi concentrati sulla rappresentazione del mondo propria

della scienza fisica, e sui suoi limiti nel produrre connessioni con valore di realtà, è motivato dalla sua collocazione storicamente e concettualmente esemplare, ma non implica né che tale modello di approccio alla verità sia scarsamente presente in altre scienze, né che il processo di illustrazione pragmatico-con cettuale del valore di realtà abbia applicazione limitata alla scienza fisica, o ai soli saperi scientifici.

È altresì vero che in altre scienze,

come la medicina, dove l'antologia fisico-matematica si trova a confronto continuativo con i limiti delle pratiche di astrazione, di isolamento obietti­ vante, la possibilità di un accoglimento senza remore della visione fisicali­ sta del mondo è molto minore. Per quanto gli oggetti della scienza medica siano per definizione pazienti lo sono certo meno degli enti inanimati, e dunque anche la disponibilità a fungere da luogo di verifica di un'antologia da sovraimporre è molto minore; ciò si è manifestato, anche in tempi recen­ ti, in forma di presa di distanza dalla scienza medica ufficiale, il cui peccato originale, di derivazione fisicalista, di reificare la corporeità in una somma di parti di diritto iso! abili, ha I ' effetto tendenziale di ridurre all'estremo la pratica diagnostica rivolta all'intero organismo, e di mirare piuttosto alla

301

Fenomenologia e genealogia dell a verità soppressione della malattia che alla guarigione del malato. Un campo, pros­ simo a quello medico, dove invece il fattore reificante della fisicalizzazione trova minore resistenza è quello psicofisiologico . La sua collocazione, che è quella delia «psicologia razionale» cosl come denunciata nella Dialettica kantiana, fa sl che anche in questo caso il senso di questa pratica scientifica sia predeciso nella forma dell' obiettivismo deterministico: se una relazione psicofisiologica è trovata, questa ha il carattere di una causa determinante a base materiale, altri fenomeni non hanno valore di verità per questa prati­ ca. Cosl, asserzioni psicofisiologiche che pretendono di avere valore di real­ tà, senza un'illustrazione delle pratiche preselettive e della loro collocazio­ ne nel mondo, rappresentano nient'altro che manifesti di un' ideologia più grigia delia materia suo oggetto. Parlare della possibilità di scoprire le mole­ cole della «forza di volontà», o della «felicità», è come dire che si può condi­ re la minestra con un'equazione di secondo grado. Una descrizione fisiolo­ gica ed una psicologica non possono essere tradotte senz' altro l'una nell'al­ tra, ma, per essere comprese nel loro valore di realtà, devono passare, re­ gressivamente, per le pratiche che le pongono, fino al medio universale di traduzione, verbalizzato in forma di tautologia materiale. Una volta proce­ duto in questo modo si può vedere I' adeguata dimensione di realtà della connessione, e qui la dopamina produce felicità esattamente come il Chian­ ti produce sincerità. L a riflessione filosofica non è affatto estranea ai procedimenti di ipo­ statizzazione ed as trazione che ritroviamo all'interno dell 'attività scientifi­ ca (o meglio, della sua versione in prosa ad uso antologico). Procedimenti del genere sono quelli presenti nelle metafisiche classiche, in forma di giu­ dizi circa l'origine causale del mondo, o come riconduzione dell' essenza del mondo ad uno dei suoi predicati (il mondo come volontà, o materia, o spiri­ to, o illusione, ecc.). Questo modo di procedere ha una delle sue propaggini più influenti, e misconosciute quanto alla loro natura, in quei genere di

ar­

gomentazione «filosofica» che si basa su premesse condizionali ponentisi come semplici controfa ttuali, ma aventi in realtà carattere di contraddizio­ ne materiale . Tipici esempi del genere sono questioni quali, come appari­ rebbe il mondo ad un cervello posto in una vasca (Quine) , o s e manterrei la mia identità nel caso fossi trasformato in un tronco d 'albero (Davidson) . Ovviamente, come parte di un esercizio riflessivo, tali ragionamenti posso­ no trovare una loro collocazione; tuttavia deve essere chiaro che essi non possono costituire la base di nessun ragionamento, e quindi che tramite tali «esperimenti mentali>) non si può trarre alcuna conclusione di qualsivoglia natura. Di fatto io posso farmi l'immagine di un cervello pensante con tanti

302

Tesi cav� che lo collegano a recettori, e posso persino immaginarmi di sapere co­ sa sto immaginando; tuttavia se mi chiedo come faccio a sapere ciò che so,

�evo indietreggiare alle lettura di qualche fabulazione psicofisiologica per cui «cerebrum

est quodammodo omnia»,

e se mi chiedo ulteriormente come

h psicofisiologia sappia ciò, devo guardare a come sono state istituite le connessi�ni tra significati del mondo e correlativi oggettivi misurati nel cer­ vell o ; e a questo punto vedo che tali connessioni sono necessariamente con­ dizionali e mai bicondizionali, se non come sovrapposizione ipotetica; cioè: .può ben darsi che ogni qual volta penso alla Divina Commedia un punto del ·mio cervello trasmetta uno specifico segnale, ma saremmo disposti a dire :che quel segnale è l'equivalente cerebrale della Divina Commedia? Anche ise lo ritrovassimo identico nel cervello di un analfabeta o di un tapiro? Un

icervello non percepisce, un essere vivente percepisce. Un cervello non pen­ :sa, ma è una persona a pensare . E questo vuoi dire: non saprei identificare

.quali comportamenti l

del cervello

sono comportamenti che manifestano la

'percezione di qualcosa o il pensiero di qualcos' altro, ed un'inferenza che as:suma il cervello come cosa pensante semplicemente compita pratiche scien­ tifiche prive di valore veritativo generale, ed inconsapevolmente assunte. Questo stesso genere di modalità riflessive sono tipiche delle forme ideologiche in senso più tradizionale: idee come l' «Al di là», o la «Società perfetta>� possono facilmente avere soltanto un uso-immagine, cioè essere espressioni evocanti immagini prive di un contenuto chè da esse può essere sviluppato, e che quindi non potremmo neppure «riconoscete>� se ci fossimo .dentrq, o tantomeno «realizzare» se non ci siamo. Anche in questo caso dobbiamo chiederci come facciamo a sapere ciò che riteniamo di sapere, at­ traverso quali pratiche, quali esperienze abbiamo attribuito un contenuto a questi segni. Chiaramente risposte che si rifugino nell'ineffabile, od irrap­ presentabile non hanno senso: possiamo perfettamente chiarirci qual è il contenuto di «amore» o ) che la «tolleranza» non sono che sbocchi, distinti, ma parimenti

30 5

Fenomenologia e genealogia della verità insensati, di un medesimo processo di soppressione della soggettività altrui in ciò che ha di essenziale, cioè nella sua capacità d i dare riconoscimento, di produrre un'affezione su di me cosl come io posso produrla. La verità come unità di una pretesa intenzionale (asserzione «vera») e di un processo re­ gressivo (dispiegamento fenomenologico e genealogico degli apriori mate­ riali) è l'operazione teorica rivolta all'unificazione intersoggettiva. Ma non bisogna credere che in questa prospettiva sia giustificabile una sorta di «so­ lipsismo collettivo», in cui qualunque sogno e qualunque metafisica possano diventare verità, o in cui il vero sia l'opinione dei più. Infatti l'emergere di contraddizioni materiali, cioè di unità d' azione le cui conseguenze invalida­ no le premesse dell'azione in quanto tale, priva di valore di realtà persino le mie stesse credenze di fronte a me stesso, indipendentemente, per dire, dal­ Ia mia benevola disponibilità a «pervenire ad un accordo con me stesso». La verità ha esigenze che vanno al di là della mente individuale e della sua au­ todeterminazione . Da questo lato si mostra un punto di contatto con le teorie coerentiste della verità: ciascuna pretesa di verità trova in definitiva conferma soltanto attraverso la sua conciliazione con altre unità d'azione ed in definitiva con l'intero sistema di disgiunzioni pragmatico-concettuali che il mondo è. Prendiamo la costituzione di due giudizi. Quando dobbiamo porre per la prima volta il giudizio «6 x 7 = . . . » o di fatto co­ stituiamo tanto il soggetto quanto il predicato del giudizio, in quanto alla loro costituzione appartiene anche la manifestazione di proprietà inerenti a quell'occorrenza di disgiunzioni operative. Se si tratta della prima espres­ sione, manifestativa, del giudizio, il bianco è «dedotto» dalla neve cosl co­ me 42 da 6 x 7: la «neve» si rivela l'unità d'azione pragmatico-percettiva che è in quanto il bianco si mostra ad essa inerente, parimenti le componen­ ti di «6

x

7» acquistano il loro valore in quanto consentono di manifestare

in questa combinazione questo risultato. Questa è la funzione disvelativa, manifestativa, del linguaggio, sia per uso privato 7he rivolto ad altri, ed è la base di ogni «evidenza», da cui sarà poi possibile trarre eventuali inferenze proprio in quanto tale evidenza è sin dall 'inizio niente più dell'assimilazio­ ne di una nuova operazione: vedere per la prima volta la neve sotto la spe­ cie del bianco è un' «evidenza>>, un'apprensione immediata, in quanto code­ terminando parzialmente la neve e il bianco si porta alla luce una nuova unità d'azione, che, essendo mediazione in atto, non è mediata. (Quando capisco qualcosa, ciò che capisco, in quanto l'ho capito, diviene un mio po­ tere, un saper-fare immanente) . In questo senso è possibile rispondere alla questione iniziale circa la natura dell' «evidenza»: è possibile che si diano .306

Tesi «evidenze» (magari «assiomi»} che anche se immediate (come intuizione di un saper-fare} consentono deduzioni articolate. Tali evidenze, tuttavia, non sono affini ad impressioni sensibili, ma all'istituzione in re di unità-dif­ ferenze (disgiunzioni}. L'evidenza tuttavia non è verità. Di verità si parla quando abbiamo un giudizio compiuto: «6 x 7 42>>, «la neve è bianca>>. Per avere una verifica noi ripercorriamo le operazioni costitutive, dunque, a un primo livello, rifacciamo 6 x 7 o ci rivolgiamo percettivamente alla neve. Limitandoci a questo primo passo, cui generalmente guardano tutte le teo­ rie della verità, ci appare una radicale discrasia tra la verità del primo giudi­ zio e quella del secondo, tra l' unico ideale «42» e le molteplici occorrenze del bianco nella neve. Si è inclini a dire che il risultato «52» sarà scartato come errore, tenendo fermo il giudizio dimostrativo �} abb.amo vol·�to suggerire l'idea 308

Tesi che la veri t& determinata dall'avere valore, o meglio, onde evitare la conce­ zione del valore come «cosa» normante, che la verità è concrezione di sen­ 'so. La verità, dunque, non come un bene contrapposto ad un male, ma piut­ tosto collocata all ' altezza della condizione di possibilità perché vi siano be­ ne.e male. La verità mira alla realtà, e la realtà è la «risposta» al mondo , al­ l'unità d eli� unità d'azione, i cui caratteri essenziali sono l' onnicomprensi­ vità e la coerenza disgiuntiva delle articolazioni medianti. Tali caratteri consentono l'orientamento dell'azione in quanto azione e dunque il senso. Nella misura in cui le articolazioni medianti sono «significanti», quanti di comportamento guidati da unità linguistiche, e, tenendo presente che il momento primigenio della mediazione è il linguaggio come auto-etero-affe­ zione, cioè la costituzione della soggettività come polo di un'intersoggetti­ vità, ne segue che

il mondo come condizione del senso è anche onnicom­

prensività e coerenza disgiuntiva dell'intersoggettività. In altri termini, perché io, singolo soggetto, abbia un mondo in cui dispiegare l'azione ed esperirne il senso, è necessario che le soggettività che mi danno collocazio­ ne come il soggetto che sono, che mi danno riconoscimento, parlino, in un senso forte, Io

stesso linguaggio (non semplicemente la stessa «lingua», la

stessa grammatica empirica). Se cosl avviene (e nella misura in cui ciò av­ viene) il soggetto è «conciliato» con la realtà, può essere sofferente in di­ pendenza dalla realtà, ma non è alienato rispetto ad essa. In tal caso le con­ dizioni che genealogicamente stanno alla radice della costituzione del sog­ getto, e che fenomenologicamente si mostrano come condizioni di possibili­ tà della relazione soggetto-oggetto, sono conservate o reistituite: il soggetto individuale ha un mondo. Questo mondo, va osservato, non può avere il ca­ rattere di un «Sapere Assoluto», inteso come verità obiettiva perfetta: il soggetto non rientra in possesso del suo mondo in forma di compiuta cono­ scenza di tutti gli enti oggettivi e delle relazioni reali tra di essi; anche se questa prospettiva è stata ed è uno dei motivi di fascinazione non secondari del sapere scientifico. Pensare di poter dirimere i conflitti sedendosi

e

cal­

colando ragioni e torti, di poter cacciare il pregiudizio con I ' esperimento, la chiacchiera con i fatti, e di tacitare la propria coscienza infelice giungendo finalmente ad avere scienza dell'universo in cui viviamo, questo tipo di re­ tropensieri è stato ed è frequentemente lo sfondo dell'impegno scientifico. Ma ogni scienza, in quanto sapere di cause e di oggetti, è costituzionalmen­ te parziale, e non può per essenza, a prescindere dalla potenza intellettiva impiegata, ottenere risultati che abbiano natura antologica; come sappia­ mo, non vi sono, se no" come strumenti concettuali ad uso tecnico, né og­ getti perfettamente analizzati, né seque'1ze causali perfettamente ispezio-

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Fenomenologia e genealogia della verità nate. Se una rappresentazione oggettiva assolutamente adeguata avesse mai dovuto essere premessa per l' orientamento di un' azione umana, nessun uo­ mo avrebbe mai potuto compiere un' azione dotata di senso. In quest' ottica l'istanza della conoscenza scientifica perfetta ha una paradossale affinità con le varie istanze «scettiche», con gli irrazionalismi di tutte le epoche, con le lamentazioni di fronte alla verità impossibile: in questa stessa ottica diviene chiaro come nelle società e nei singoli, i picchi di scientismo siano contornati, o seguiti, o persino internamente abitati da picchi di mistici­ smo. Ma la verità adeguativa è una struttura di disgiunzioni comportamen­ tali che, se considerate obiettivamente, come contenitori del proprio conte­ nuto, si mostrano come scatole nere, come finestre su di una notte imper­ scrutabile. Possedere il proprio mondo, poter orientare sensatamente le proprie speranze, aspettative, ricordi, significa poter

fare affidamento su

quella «passività originaria» che già sempre di necessità abita ogni azione. Tale passività è tenuta ferma dallo sguardo di tutti, dal linguaggio comune che, dopo averci introdotti al mondo dall ' assoluta nescienza, ci consente di scivolare su di esso come su qualcosa di ancor sempre ignoto, ma di fami­ liarmente ignoto , su di un mistero con cui ci è stato insegnato ad avere con­ fidenza. Ogni singolo soggetto coglie e dice la verità, nel senso che ciascuno di noi, parlando,

intende qualcosa, una realtà: l'intenzione non può mai fal­ lire. Soltanto, si tratta di capire quale verità abbiamo detto. Ciascuna «veri­ tà parziale» colta in un'intenzione individuale, se non esce dalla sua parzia­ lità, è una «falsità», o un' «ideologia», o forse un'