Fenomenologia e genealogia della verità 88-16-40479-5

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Fenomenologia e genealogia della verità
 88-16-40479-5

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Andrea Zhok

FENOMENOLOGIA E GENEALOGIA DELLA VERITÀ

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Jaca Book

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© 1998 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati

INDICE

Prima edizione settembre 1998 Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book In copertina Morfogramma cinese primitivo: tre alberi, che significano . Da K. Foldes-Papp, Dai graffiti all'alfabeto. Storia della scrittura, Jaca Book, Milano 1985.

In basso: schizzo di Henri Gaudier Brzeska, da una lettera del3 giugno 1911 a Sophie Brzeska.

Questo volume viene pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano.

Programma

13 Sezione A SIGNIFICAZIONE

l. 2. 3. 4.

5. 6. 7. 8. . 9. l O.

Il dialogo muto Voce e prossimità La voce e l'altro Voce e significazione Gesto, linguaggio e mondo Mimesis Della superstizione L'indice e l'oggetto Riconoscimento ed articolazione Revisione e sintesi

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Sezione B VERITÀ Finito di stampare nel mese di luglio 1998 dalla Ingraf s.r.l. (Milano)

ISBN 88-16-40479-5 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma

ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA- Servizio Lettori Via V. Gioberti 7, 20123 Milano, te!. 02/48561520-29, fax 02/48193361

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l. Sulla verità di fatto 2. Sulla verità di ragione 3. Percezione come interpretazione e disgiunzione 3 .l. Sensazioni versus percezioni 3.2. Imparare e percepire 3.3. Rilevazione di differenze 3.4. Le differenze operative come significati operativi 3.5. La percezione come verifica

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«Stava lavorando, da solo, nella stanza da pranzo. Un rumore alle sue spalle lo fece trasalire: Lisbeth, la sua allieva, aveva tirato col suo piccolo arco una freccia contro il vetro. Jim le spiegò con calma che avrebbe potuto rompere il vetro e che non bisognava tirare verso la finestra. Lei lo ascoltò con uno sguardo candi~ do e sembrò convinta. Soltanto, la freccia tornò tre volte a colpire il vetro-e Jim le diede tre spiegazioni diverse. In quella arrivò Kathe, guardò sua figlia sor~ ridendo e le disse: "Non si fa". E la cosa finl n. Jim si stupl di non essere riuscito a farsi capire. Kathe gli disse: "Si è certamente inventata una bella storia e una buona ragione per tirare contro la finestra"». Dafules e Jim, di H.P. Roché

«"Cosl, dunque, tu dici che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso!"-Vero e falso" è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita». Da Ricerche filosofiche, di L. Wittgenstein

; per fare ciò ci si concentra su concetti e questioni fondamentali di quella che ci si mostra come l'incarnazione esemplare della scientificità occidentale, cioè la fisica. Ora, a fronte di una discontinuità tra le parti che questa presentazione può forse mitigare, ve n'è una che non possiamo far altro che consegnare al lettore. La domanda che guida lo sviluppo del testo ci pone necessariament~ u~a questione: quale verità, quale validità possono avere le argomentaZI~ru stesse che ~saminano le condizioni di verità in generale? Oppure, in un altra prospettiva, come si può già solo porre una domanda come «che cos'è la verità?», ~ist~ che o già si sa cos'è ciò di cui si sta chiedendo ragione (e allora, perche chiederselo), oppure come chiedere ragione di qualcosa di scono:cmto? Dt fatto il percorso che ci apprestiamo a svolgere non potrà av_ere il carattere della ricerca di un generico «qualcosa» in un'area ben delim~t~:a, ma al contrario dell'esibizione di molti «qualcosa>> per esplorare i limiti mapparenti dell'area in cui essi appaiono; in altri termini, si tratta di 14

Programma

praticare la verità in una pluralità di direzioni e moduli argomentativi, di esporre in una moltitudine di rivoli esplorativi delle >. «Con la bocca>}. La risposta di Mont è rappresentativa della quasi totalità dei bambini interrogati da Piaget; taluni inoltre integravano tale giudizio dicendo di sia per «comprendere>> che per «udì-· re», ci suggerisce un'affinità, e tale affinità è anche tutto ciò che al momento ci permettiamo di notare. Tutto ciò ci suggerisce una considerazione comune per il dell'oggetto ideale sta tutta nel fatto che il linguaggio come vocalità se ne è appropriato, e che l'introiezione del modo di agire del segno vocale informa la natura dell'oggetto designato. Derrida dice troppo, o forse troppo poco. Egli ha come oggetti polemici le nozioni di , di «presenza immediata», e ha buon gioco a ricondurne i presupposti al «fattm> della voce. Tuttavia l'analisi della vocalità da lui svolta può lasciare alcune perplessità, e precisamente nella misura in cui, come egli nota, ''un oggetto ideale è un oggetto la cui mostrazione può essere indefinitamente ripetuta"6. Finché «ideale~> significa solo «trascendente» o «immateriale» l'atto vocale ne può costituire, nei modi in cui è stato descritto, illegittimo apriori materiale, essendo chiaro come la voce eviti la contaminazione del mondo mediato ed esteriore. Ma cosa significa che l'oggetto "può essere indefinitamente ripetuto"? Significa in primo luogo che lo stesso oggetto può essere prodotto infinitamente, cioè che esso è universale e non particolare; in secondo luogo che esso è un oggetto, cioè che vi è distanza, distinzione tra un soggetto ed un oggetto; in terzo luogo che è un oggetto, cioè che esso si distingue dall'indefinitezza del «rimanente», essendo unitario e permanente. Dunque una compiuta considerazione dell'oggettualità (husserliana o cartesiana) ne isola tre caratteristiche definitorie: ad essa competono l'unità, la distanza, e l'universalità. Vi sono, nella descrizione concretamente data da Derrida, elementi adeguati a sostenere la riconduzione dell' oggettualità ideale nella complessità delle sue caratteristiche all'atto vocale? Non sembra. Egli descrive perfettamente la voce come «interiorità», come «unità di significante e significato» e dunque come «trascendente ed immateriale», ma con ciò non si

esprime ancora l'oggettività: chi giudica l'identità dell'oggetto, la sua medesimezza in ognuna delle repliche? e per chi la mostrazione infinitamente ripetibile avviene? Derrida intuisce l'unità dell'atto vocale e del sé, ma non la mostra, e parimenti fa con l' oggettualità. A ben vedere si potrebbe obiettare alla sua descrizione della voce come auto-affezione che la differenza tra l'esperienza del «toccante-toccato» e quella sonora del «dire-ascoltare>> non è poi cosl chiara, giacché, in fondo, dove starebbe la differenza tra la prossimità della propriocezione muscolare del «toccante-toccato» e quella sonora del «dire-ascoltare»? In entrambi i casi, si può dire, c'è una ''auto-affezione assolutamente pura", che non passa per il "non-proprio". Derrida sembra pensare che la voce esca da noi per rientrarvi immediatamente dalle orecchie, e che cosl facendo chiuda il circolo dell'autocoscienza. Ma la voce, se, come Derrida ci insegna, fonda l'interiorità come tale, non esce affat,to, per noi stessi, da noi, ed anzi di per sé rimane in una assoluta prossimità sensibile. Non si può pensare, nell'atto primigenio della vocalizzazione, alla bocca e alle orecchie come ~ [Piaget, La formazione del simbolo ne/fanciullo, Nuova Italia, Firenze 1972, p. 15 e p. 17].

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Adesso ha senso parlare di indefinita ripetibilità dell'oggetto, giacché abbiamo una costituzione molteplice di giudicanti originariamente in grado di intendersi, e che perciò possono dire e ascoltare il medesimo. Derrida, non cogliendo la costituzione coessenziale del sé e delPaltro, dà all'intersoggettività vocale una collocazione distorta: Nel colloquio, la propagazione dei significanti sembra non incontrare alcun ostacolo perché mette in rapporto due origini fenomenologiche dell'auto-affezione pura. Parlare a qualcuno è senz' altro sentirsi parlare, essere sentiti da sé, ma è anche e nello stesso tempo, se si è sentiti dall'altro, fare che questi ripeta immediatamente in sé il sentirsi-parlare nella forma stessa in cui io l'ho prodotto 11 •

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Il problema è che non esistono dapprima svariate "origini fenomenologiche dell'auto-affezione pura", che poi accidentalmente possono "fare sl . che l'altro ripeta in sé il sentirsi parlare". Prima della cor-rispondenza con l'altro non c'è alcun autòs, alcun ego che senta sé, e tantomeno che senta sé parlare. In precedenza abbiamo citato l'espressione piagetiana «linguaggio egocentrico», con riferimento alla verbalizzazione che accompagna l'attività del bambino, ma tale espressione è singolarmente traviante proprio se si segue con rigore il fenomeno che Piaget osserva. Nella sua critica a quest'ultimo, Vigotsky notava che togliendo al bambino l'illusione di essere :ompreso dagli altri attorno, ad esempio inserendolo in un gruppo di bambini sordomuti, stranieri o semplicemente sconosciuti, il coefficiente di lO

Mead, op. cit., p. 110. Derrida, op. cit., p. 120.

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Fenomenologia e genealogia della verità «linguaggio egocentrico» si riduceva drasticamente fino a scomparire 12 • Vi~ gotsky esprime quanto Piaget chiamava linguaggio egocentrico come «mo~ nologo collettivo», intendendo con ciò una verbalizzazione che, lungi dal negare un rapporto intersoggettivo, Io assume come ovvio, come costituti~ vo del linguaggio e del mondo in cui il bambino opera. Il mondo è illuogoper~tutti, il luogo universale in cui si ha a che fare con una realtà «oggettiva>>, la quale, come abbiamo visto, viene affrontata nella sua problematica alterità proprio con un'intensificazione del ricorso al monologo. L'io, in questa situazione, esiste già in quanto autoreferenza, ma è un' autoreferen~ za coincidente col linguaggio in generale e dunque non identifica compiuta~ mente un e dell' .-Questo esperimento (ed altri simili; cfr. Sartre J.P., Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1960, pp. 119-133) richiama l'esperienza comune, per cui la comprensione implica un «ricompimento abbozzato>> di atti che «mimano» il significato del segno da comprendere.

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segno verbale corrispondente. Nell'attività «mimicm> di richiamo si manife~ sta il significato della parola, si producono cioè, abbozzate in piccoli moti reali, le (alcune) prassi che lo definiscono, mentre il segno verbale è atteso «associativamente>>. Naturalmente, essendo le parole stesse anche prassi d'uso, gesti, il loro richiamo può avvenire riproducendo il loro uso verbale: si possono formare frasi in cui la parola cercata è usata ricorrentemente ed attendere parimenti l'emergere di essa. Ciò che ci preme sottolineare è il ruolo di mediazione tra linguaggio e mondo che riveste il ri~compimento delle prassi: se il recupero della parola avviene attraverso l'attività mimetica, allora non può che essere questa mimesis stessa a costituire il medio nella traduzione tra due lingue e nell'apprendimento di una lingua nuova. Questo è il luogo cui guardare per esibire un fenomeno adeguato a soddisfare il concetto wittgensteiniano di «forma logica»: il medio della traducibilità da ogni codice in ogni altro 27 • Questo ruolo di mediazione è proprio il ruolo che la tradizione assegna all'immagine mentale. La schematica classificazione degli stati immaginativi in «moti interpretativi» e «moti oggettivi» sembra poter ora collassare in una sostanziale identità genealogica, infatti i «moti oggettivh> dell'immaginazione (ad esempio immaginare le infinite traiettorie di un punto nello spazio) possono essere ricondotti facilmente a prassi elementari (spostamento ottico-manuale di oggetti); tale riconduzione beninteso non è una riduzione esplicativa, ma si mostra immediatamente: ad esempio, se immagino ad occhi chiusi una serie di traiettorie nello spazio, non è soltanto un'impressione «metaforica» quella di una lieve partecipazione fisica a questi moti, ma basta posare le dita sulle palpebre per 8 notare che si svolge concordemente una rotazione dei globi ocularF • In quest'ottica la comprensione mimetico-partecipativa, come medio di traduzione, è per ciò stesso anche la condizione di possibilità del metaforizzare. La metafora è possibile in quanto una medesima «comprensione mimetica» può essere la radice di infinite combinazioni verbali, e questo è possibile perché le parole stesse sono intrecci di prassi mimetiche, e non esistono come quanti isolati: l'infinita metaforizzabilità è data dalla discrasia irriducibile tra la continuità e mobilità pratica dei campi semantici, cioè delle comEd è proprio questo, in certo qual modo, il passaggio svolto da Wittgenstein dal Tractatus alle Ricerche filosofiche; la «forma logicm> scompare come momento privilegiato della determinazione del significato e viene sostituita dallo studio delle pratiche linguistiche, dove «linguaggio» implica anche il riferimento a gesti, campioni, esempi. 28 È notevole osservare come in alcune patologie psichiatriche, in cui si ha la perdita dell'orientamento fisico nello spazio, si perda contemporaneamente il senso della prospettiva nel disegno.-Sul rapporto tra moto ed immaginazione ritorneremo nella prossima sezione.

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Fenomenologia e genealogia della verità prensioni mimetiche, e la definitezza dei quanti linguistici (parole, unità grammaticali). Da ciò segue che, nella misura in cui il segno è «mimetico», la parola può essere «poetica>>, e il linguaggio «creativo>>, in quanto può co~ municare il nuovo, riproducendone la comprensione nel destinatario. Ciò che è riprodotto è primariamente ciò che è alla base dello stesso accesso al mondo, la synsomat6tes come appropriazione mimetico~partecipativa, che è originariamente il fondo su cui l'alterità può divenire tale, e che per ciò stesso media quell'alterità per sempre.

7. Della superstizione La synsomat6tes mostra la sua fondamentalità in maniera egualmente evidente nell'ambito dell'accesso alle cose e in quello della comprensione delle relazioni. Per il bambino che deve trovare posto nel mondo (cioè per noi stessi qui ed ora, se astraiamo dalla volizione intenzionale) un evento come il movimento delle proprie mani non è dissimile da quello degli astri: il piacere di far accadere il movimento di queste mani è quasi quello di un dio che, senza mediazioni, muova i pianeti con il pensiero; la corresponsio~ ne motoria è infatti un evento assoluto, in~esplicabile, inesponibile. n bam~ bino non ha ancora uno schema corporeo perché ogni cosa è synsomat6tes, e finché non corrisponde come synsomat6tes non è nulla; questo significa che ogni relazione si dà come corrispondenza «vivente», dotata di senso in rela~ zione al «mio» essere~nel~mondo come «risposta interessatm>. Le tecniche magiche e superstiziose che Piaget ha cosl ben identificato nei fanciullF 9 , si mostrano in maniera ancora più vigorosa ed interessante nelle culture «pri~ miti ve}>. Accostando alcune osservazioni antropologiche di Levy~ Bruhl e Levi~Strauss possiamo ottenere un'interessante accesso al fenomeno della «superstizione».

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In linea generale [per la mentalità primitiva, ndr], quando un uomo muore, è perché è stato condannato (doomecl) da uno stregone. [. .. ] Un uomo può così essere , si guarda frequentemente l'orologio (perché cosl , di queste ipotesi e fantasie l'autobus non potrebbe arrivare mai «per noi>>, esattamente come, nell'attendere l' au~ tobus non può arrivare nessun taxi, anche se possono passarne cento: essi possono ,. immagina~ tivamente a noi; nel fare questo con-compiamo l'atto dell'afferrare, stilizzato nell'indicare. Che l'indicazione sia connessa originariamente all'afferramento è rintracciabile in questa semplice osservazione: pur potendo qualunque ente costituire, di diritto, un mezzo di indicazione, poiché non sirichiede, palesemente, una somiglianza tra l'indicatore e l'indicato, si può constatare altresl un'estrema ristrettezza dei mezzi e modi dell'indicazione. Questa, nella sua forma tipica, è costituita da un gesto della mano, perlopiù del dito indice appunto, che, ad esempio, accenna un breve movimento «avanti-indietrm,. sulla linea congiungente sé e l'indicato. Pur essendo idealmente irrilevante la natura e l'apparenza dell'indice si nota facilmente come, ad esempio, sia pressoché impossibile indicare con un piede, in assenza di un accompagnamento della parola e dello sguardo, e questo proprio nella misura in cui non è sedimentato nel gesto del piede l'afferramento, laricezione manipolativa, che dunque stenta ad essere con-compiuta immaginativamente (il moto del piede richiama piuttosto l'allontanamento di qualcosa, che l'avvicinamento). In seconda istanza si deve notare come nell'indicazione dell'indice sia sempre implicito il riferimento alla cosalità circoscritta dell'indicato, laddove l'indicazione tramite gli occhi, pur essendo altrettanto efficace, fa riferimento ad una direzione generica più che ad una cosa specifica: un tramonto o il cielo si indicano con lo sguardo, non con un dito, il dito infatti richiama la cosa definita, potenzialmente circoscrivibile dalla mano. Già Wilhelm Wundt aveva cercato di ricondurre l'indicare ad un abbreviamento stilizzato dell'afferramento, ma tale riconduzione restava sterile, non essendo in grado, in assenza di un'adeguata comprensione dell'istituirsi della mediazione, di spiegare quanto voleva spiegare, cioè la modalità fondamentale della connessione segnica. Non esiste nessun «abbreviamento>> possibile di un gesto, se non nella forma di un differimento significante: la mano indica, nei suoi modi peculiari, perché, in primo luogo, vi sono segni, cioè vi sono cose che «stanno per» altre cose, u più precisamente,

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Significazione

Fenomenologia e genealogia della verità per quanto abbiamo visto, vi sono dei «qualcosm> che chiamano «a qualco. s'altro» (cioè vi è rimando tra entità differenti, ma non necessariamente dotate di unità cosale). L'unità di gesto vocale ed afferramento manipolante fonda l'atto indicativo, in quanto atto che isola ed appropria. Tuttavia, guardando più dappresso questo intreccio gestuale, troviamo alcune singolari inadeguatezze rispetto al problema fondamentale dell'articolazione oggettuale. Se è vero che l'indicazione cosale lascia scorgere le proprie radici nell'afferramento, questa prospettiva, da un lato fa vedere chiaramente i caratteri dell'indicato in quanto indicato (circoscrizione, differimento cosa-sfondo, appropriazione immaginativa, concretezza cosale), dall'altro tuttavia mostra come l'afferramento possa indicare ed articolare solo facendo riferimento a sua volta all'articolazione vocale. In altri termini l'afferramento spiega il modo dell'indicazione, ma deve incontrare già, in certo modo, la cosa come indicata, intenzionata, detta, per poterla articolare dallo sfondo; l'afferrarsi ad un ramo è altra cosa dall'afferrare un.ramo: posto che il ramo oggetto possa essere afferrato, ed indicato come tale, sulla base della precomprensione del ramo come afferrabile, ciò non spiega ancora come tale afferramento possa articolare la generica attenzione del gesto vocale in specifica in-dicazione.

9. Riconoscimento ed articolazione La questione dell'articolazione linguistica, che vogliamo problematizzare, costituisce forse il punto centrale dell'elaborazione di Derrida nella Grammatologia, ed è, crediamo, opportuno e produttivo affrontarlo in un breve confronto con l'impostazione propria di quel testo. Derrida che, come abbiamo visto, ritrova nella «pienezza vocale» la matrice dell'oggettualità ideale e della presenza assoluta dell'oggetto, vuole mostrare nella Grammatologia l'affezione originaria della voce da parte della ~ è la scrittura, intesa come segno della voce, che .>4

3~ 36

Derrida J., Della grammatologia, Jaca. Book, Milano 19982 , pp. 93.4. Derrida J., ibidem, p. 86. Derrida ]., ibidem, p. 68.

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Significazione

si pretenderebbe come segno più originario, più vicino all'autenticità del si~ gnificato. Per Derrida dire che la scrittura è da sempre implicita nel linguaggio, nella voce, significa negare una «gerarchia dell'autenticità» ai se~ gni ed affermare che il significato sta sempre solo in una deriva di segni che rimandano ad altri segni; in altri termini la voce è slluogo costitutivo del si~ gnificato ideale, ma non è con ciò momento originario di ogni altro segno, perché è affetta sin dal principio dall'archi·scrittura. Come già nell'analisi della voce, ed in parziale conseguenza da quella, Derrida dice o troppo o troppo poco. Da un lato una rappresentazione fenomenica della «scrittura» in quanto articolazione è sostanzialmente assente o al più accennata con la mediazione di analisi saussurriane37 • Dall'altro concepire la traccia come archi~scrittura è, nel migliore dei casi, un'improprietà pericolosa. Derrida pen· sa la voce come una sorta di armonico costante ed inarticolato che dice la semplice presenza, cui poi accade l'assenza articolante, la traccia. Questa articolazione, anche se non·vocale, è in certo modo congenere del gesto vo· cale, perché altrimenti sarebbe impossibile la «notazione}> derivata della pa· rola nella scrittura. Tutto ciò potrebbe suggerire di ricondurre l' articolazione della voce ad altri gesti muti (indicare, afferrare, ecc.), cosl come aveva~ mo ipotizzato più sopra, anche se Derrida non si impegna in una afferma· zione del genere (né in una diversa). Ad ogni modo per noi è determinante notare come sulla base di una non chiara fenomenologia della voce ed una decisamente oscura fenomenologia dell'articolazione, Derrida possa giun· gere a gettare nel calderone dei concetti metafisici la «presenza», l' «origi·

ne» e l' >. Non ci interessa qui criticare il pen· siero derridiano, ma piuttosto vogliamo chiarire, «per differenza)), il senso della dif.ferenza. La voce mono~tona ed inarticolata concepita da Derrida è una pura astrazione e non è affatto gesto vocale. Il gesto vocale è la vocalità come corrispondenza. Ma allora, già qui, scorgiamo un momento differen· ziante essenziale: la voce (come tutti i gesti «rnimetici») corrisponde agli at~ ti che ~iconosce. Un'osservazione semplice della vocalizzazione infantile, non incontra emissioni continue ed inarticolate, ma al contrario una sillaba· zione iterata e compiaciuta, e ch:iaramente imitativa dei suoni vocali più frequenti nell'ambiente. Corrispondenza e riconoscimento coincidono nel· la synsomat6tes: non c'è ancora un ente riconoscente ed uno riconosciuto, ma la corrispondenza limita e corregge l'atto vocale replicandolo o lascian· dolo cadere, o rispondendo diversamente. n riconoscimento dell'atto è la possibilità di con-compierlo. L'alterità che Derrida pensa di trovare nell'esteriorità della archi·scrittura è sempre la stessa alterità che egli non ha scorto nel descrivere l'atto vocale: è la risposta dell'altro, il riconoscimento originario. Ed è solo tale risposta che può originariamente «fare differenza». Per articolare la voce (la significazione), non è sufficiente l'intervento e l'intreccio di altre gestualità, (es.: l'afferrare) proprio perché queste non so· no «altre» se non nella misura in cui rispondono alle «proprie»: è solo nel gioco del riconoscimento cor·rispondente che si forma '1una traccia che ritiene l'altro come altro nel medesimo". Se ora guardiamo con cura la nozione di e l'alterità «oggettiva)>. Non prendendo coscienza del primo senso di «alterità» egli deve ricondurre l'alterità riconoscibile nella parola ad una qualche «scrittura», un'archi-scrittura, o alrpeno alla «possibilità generale della scrittura»: è la «scrittura>> per Derrida a far uscire la voce dalla sua assoluta prossimità. Ma la scrittura non è una oggettivo può pro-vocare e modificare il linguaggio: tutto ciò è possibile sulla base comune delle gestualità e della synsomat6tes come luogo unitario di tutte le gestualità interpretanti. 10. Revisione e sintesi

:>a «l primi suoni pronunciati nel contesto di direzionalità verso gli oggetti, si manifestano come ingredienti dei movimenti coi quali il bambino si tende verso gli oggetti dell'ambiente che sono al di là della sua portata immediata. Questi suoni possono essere definiti come suoni di richiamo. [... ] Mentre i balbettii hanno un tono tipicamente "rilassato" e si diffondono su una vasta gamma di qualità sonore, i suoni di richiamo sono sequenze brevi, scarsamente modulate, formate entro una gamma molto ristretta di qualità sonore. È caratteristico il fatto che la prime configurazioni di suoni di richiamo consistano nella ripetizione, per giorni e per settimane, di uno stesso suono per una particolare situazione». (Werner H., Kaplan B., op. cit., p. 88).

Le analisi finora svolte dovrebbero avèr identificato in modo sufficiente gli estremi della significazione. Tali estremi, rintracciati a partire dall'impostazione metafisica di Cartesio, sono stati nominati come soggetto, oggetto e relazione. Nel corso dell'analisi, abbiamo però osservato che, rispetto al significato implicito nell'uso cartesiano dei termini, ciascuna di queste entità ha mutato in modo rilevante il proprio carattere, e tale mutamento ha avuto luogo proprio seguendo fino in fondo i fenomeni che delle entità in questione venivano predicati. Il soggetto innanzitutto si presentava cartesianamente come la cosa pensante, in cui pensante significava riflettente; l'atto della riflessione, che garantisce l'identità e la realtà del soggetto, è però un atto specifico del pensiero e non il pensiero tout court, perciò si richiedeva un evento specificante, rintracciato nel dialogo, ovvero, nella corrispondenza all'atto vocale. Ci trovavamo cosl di fronte ad un duplice fenomeno circoscrivente l'attività del soggetto: da un lato il soggetto è l'elemento semplice in cui, per così dire, il mondo si specchia, è la fonte delle gestualità primordiali, il luogo potenziale dell'esperienza, dall'altro esso è l'atto dia-lettico introiettato, l'autoidentificazione riflessa. Inteso nel pri-

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Significazione

mo senso il soggetto è realmente uno degli estremi della significazione: se, come abbiamo parafrasato, segno è, originariamente, «qualcosa che per qualcuno chiama qualcun altro sotto qualche rispetto e capacità», il sogget~ to come luogo potenziale dell'esperienza è il «per qualcunm> di questa defi~ nizione. Il soggetto riflettente, cartesiano è invece non uno ma, ad un tem~ po, due degli estremi della significazione: è il «per qualcuno>> ed è il «qual~ cun altro», è il soggetto come specchio del mondo e l'alterità mediante (il linguaggio). In questo senso il soggetto cosciente, vigile e consapevole è il soggetto dia~lettico per il quale la mediazione non è un evento, bensl un'a~ zio ne, egli agisce l'altro che è in sé, attiva la mediazione e cosl/a esperienza, rende gli eventi esperienze per sé. · L'oggetto segue il soggetto nella sua caratterizzazione; immanentemen~ te esso è pensabile semplicemente come l'evento dell'anonimo «qualcosa>> che accade, l'evento~stimolo che provoca il soggetto. Con l'insorgere della mediazione esso diviene innanzitutto «altro», distante dal soggetto, diviene cioè ob-jectum in senso proprio. In un secondo momento esso diviene anche uno ed universale: l'oggetto «cresce}> intorno al primordiale stimolo, cresce nell'essere incontrato e circoscritto dalle gestualità corporee del soggetto, e cresce soprattutto in quanto diviene il punto d'accumulazione di queste prassi, unificato da una parola, da un abito di risposta che raccoglie abiti di risposta. In quanto parola (in senso ampio: anche i monosillabi della lallazione sono parole39 ) l'oggetto diventa significato comune, universale, infini~ tamente replicabile tanto per sé, nel dialogo interiore, quanto per gli altri. Né il soggetto, né l'oggetto che abbiamo identificato pongono la relazione che vige tra di essi, ma sono essi a venir posti dalla relazione segnica. Il momento più originario della relazione segnica è il gesto, l'atto costitutivo della synsomat6tes, che non è per sua natura più psichico che fisico, più na· turale che artificiale, più materiale che spirituale, essendo il luogo di costi~ tuzione di tutte queste distinzioni. Ogni gesto sorge come ricerca di una risposta; la comprensiqne mimetica nell'ambito del gesto auto~etero·affettivo (in primis, la voce) pone le basi per il sorgere della mediazione e dunque della significazione, laddove la comprensione mimetica nell'ambito delle altre, differenti, gestualità fornisce quel saper~ fare che è il vero e proprio saperedel-mondo. Tutto l'essenziale della presente analisi s'impernia sulla colloca~ zione irriducibile e primigenia della relazione rispetto ai relati; cosl, il legame immaginativo non è figlio del mondo degli oggetti percepiti, ma è la geIl rema. del senso della parola. come unità verbale verrà approfondito nel paragrafo 4 della sezione B.

stualità originaria stessa, sia pure in una forma «interiorizzata», >, e proprio queste due nozioni di verità costituiranno nell'ordine il punto di partenza della presente discussione. Questa analisi preliminare è indispensabile per chiarire il significato di tale distinzione concettuale classica e per sottoporre ad esame la sua legittimità ed i suoi limiti. l. Sulla verità di fatto

Si dicono «verità di fatto>> proposizioni che riguardano relazioni tra enti esistenti, e che dicono "di ciò che è, che è, di ciò che non è, che non è" 1 • Dunque la verità di fatto è una relazione che concerne l'esistenza (il mondo degli enti esistenti), e che la presuppone per poter essere. Da ciò bisogna trarre una prima conseguenza, puramente logica: l'esistenza non è, e non può mai essere una verità di fatto, essendo la condizione di possibilità dell'istituirsi di verità di fatto in generale. Ma allora, ci si può chiedere con legittima perplessità, cosa è la realtà, l'esistenza in sé, se non è una verità di fatto? Quando giudichiamo vero che un mondo esistente vi sia, cos'è questa verità? Arretrando dal concetto di verità a quello di evidenza non otterremmo sensibili vantaggi, perché, come vedremo ampiamente più oltre, la natura- immediata dell'evidenza, che la distinguerebbe dalla nozione di verità, «Falso è dire che l'essere non è o che il non-essere è, vero, invece, è dire che l'essere è e che il non-essere non è. Di conseguenza, colui che dice di una cosa che è, oppure che non è, o dirà il vero o diril. il blso». (Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano 1992, p. 206, lOllb).

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Verità

è immotivata e immotivabile: qualcosa è evidente per qualcuno che cerca qualcosa. Se, dunque, l'esistenza è una verità, e se non è una verità di fatto, la risposta, ancorché tutta da comprendere, non sembra poter essere che una: l'esistenza è una verità di ragione. Per chiarire la natura della verità di fatto e la sua relazione con l'esi~ stenza po.ssiamo analizzare brevemente un qualunque concetto empirico, cioè un concetto che ha l'intrinseca pretesa di identificare veridicamente una realtà; anticipando un po' le analisi che seguiranno nella parte conclusi~ va del lavoro, riteniamo opportuno confrontarci da subito con un cOncetto scientifico, appartenente al novero delle «scienze forti>>, cioè a quei saperi che intendono garantire rigorosamente alcune verità intorno all'esistente. Il concetto empirico Che eleggiamo qui ad oggetto dell'analisi è il concetto di «baricentro» (avremmo potuto scegliere analogamente concetti come «al~ bero>> o «libro», senza mutare natura e senso dell'analisi, come vedremo strada facendo). Per la nostra questione l'interrogativo cruciale deve chiedere ingenua~ mente, di un qualunque concetto empirico, se esso sia reale o teorico (idea~ le). Il concetto di baricentro può venir definito fisicamente come il di sé il baricentro «reale», non si può che ottenere (secondo un procedimento frequente) la dissolvenza della contraddizione nel caos immaginativo, senza alcuna riso- luzione concettuale. n carattere teorico del baricentro può risultare ancora più chiaro se pensiamo ad un anello, dove il baricentro non appartiene all'anello stesso: esso appare «immateriale». Dovendo ora dare una formulazione rigorosa, anche se necessariamen~ te paradossale, di quanto vistO dobbiamo esprimerci in questi termini: il ba~ ricentro non esiste, ma la sua esistenza si può provare. L'accento risolutivo di questa frase va posto su «provare>>, nei due sensi di «mettere alla prova>>, «dimostrare», e di «sentire», «percepire». Questa coincidenza di significati non è contingente ma essenziale. n baricentro non esiste in-sé: quando penso di poterlo concepire come I'in-sé assoluto, cioè come la «materia reale», esso si dimostra irrintracciabile. Con l'espressione, vagamente pleonastica, di «materia reale» intendiamo l'idea della massima concretezza, di qualcosa che non è meramente opinato o fuggevolmente sentito, che non è dunque una semplice immagine, né una parola, e neppure un profumo. Ora, è evi~ dente che il baricentro non esiste sensibilmente, non può essere né toccato, né visto, né annusato, dunque non esiste in-sé (cioè indipendentemente da come lo si accosti); possiamo allora forse dire che "esiste per me''? Certa~ mente esiste anche per me, se lo vivo guidando una bicicletta o lanciando un coltello, ma non è un per~me limitativo, non si tratta di un'opinione in~ dividuale, giacché posso altrettanto bene dimostrarne ad altri l'esistenza. Dunque, quando abbiamo detto che il baricentro non esiste, ci stavamo difendendo implicitamente dall'assolutezza contenuta analiticamente nel pre~ dicato di esistenza. Se l'esistente, come risulta al senso comune, è l'in~sé, l'assoluto, l'essere che non dipende da altro, allora è necessario affermare che del baricentro, come di ogni concetto reale, non si può predicare l'esistenza.

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trico, dunque un entità priva di forma e dimensione; nel caso della trottola

il baricentro sarebbe costituito dalla linea geometrica formata dai punti che

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Potremmo allora dire che l'esistenza è semplicemente l'efficacia, la ca~ pacità di farci sentire il suo effetto. In tal caso il baricentro esiste, ma il suo modo di esistere è complesso: esso ha esistenza come parola che mostra l'efficacia nell'uso scientifico, ha esistenza come risultato previsto di una situazione sperimentale, ha esistenza come vissuto di esperienze riflesse, non ha invece esistenza come immediato oggetto dei sensi. Ora, forse, ci sono elementi sufficienti ad un primo chiarimento. Esiste > o «inter~ no»: così un suono troppo basso o troppo acuto, proprio come un inconscio impertinente, possono turbarmi gravemente, senza che io sia in grado di giudicarli esistenti. Lo stesso fatto che i sensi siano distinti e classificati testimonia del loro carattere di «metodO>>, di «mezzo» in quanto la classificazione ha cura di renderli enti (in antitesi col loro carattere fenomenologico di eventi), ed in particolare enti distinti reciprocamente, negando l'unità significativa dell'evento, indifferente a sensibilità, sentimento o pensiero, e tacendo i «casi limite» della percezione. Parliamo di casi limite, ovviamente

con riferimento ad una partizione dei sensi già vigente, ma tali casi sono eventi percettivi legittimi quanto gli altri: la pressione su di un'occhio è tatto o vista? il sapore della maggior parte dei cibi è olfatto o gusto? la rilevazione di un ostacolo da parte di un cieco in quanto «zona sorda», che non riecheggia le vibrazioni ambientali è tatto o udito? I sensi, posti come entità distin~e, possono verificarsi reciprocamente e possono fissare, in quanto «aditi» di senso, «accessi», le soglie che distinguono l'esistente dal soggettivo ed opinato. La mediatezza dei sensi è un fattore di fondamentale importanza per intendere l'istituirsi dei concetti empirici e della realtà in generale, e su di essa dovremo ritornare per una migliore comprensione; come vedremo meglio i sensi non si limitano ad eseguire operazioni semplici e costanti, al contrario essi imparano a percepire; cosl, l'occhio impara a mettere a fuoco, a vedere la profondità, a riconoscere linee, chiaro-scuri, ecc., altrettanto la mano impara a distinguere le forme dei corpi, a discernere rilievi prossimi, a riconoscere testure differenti, ecc. L'immediatezza è conferita ai sensi dall'assenza di un metodo consapevole di insegnamento relativo alla sensibilità: i sensi imparano a percepire in maniera irriflessa, come condizionamento di una tradizione e di un' ambiente (imitazione, comportamento ambientale, ordinamento assiologico, ecc.). Perciò i sensi non sono riducibili a semplici strumenti dell'azione e non possono mai diventare un possesso puramente individuale, donde la lo~ ro attitudine a porsi come spartiacque tra meramente «soggettivo>> e «realmente esistente». Di fatto, come abbiamo già visto, l'oggettività nomina anche la possibilità di valere come un medesimo per una molteplicità di soggetti empirici, e l'assenza di un metodo, di una grammatica, dei sensi, ne rende indipendenti i modi d'operare da decisioni coscienti, dall'arbitrio individuale, da volontà di innovazione o conservazione, li rende in questo senso «oggettivi». L'esistenza è senz'altro l'esser verificato dell'as-soluto, l'esser provato come indipendente. L'essere esistente è "ciò che risponde", ma sulla base di un interpellare aspecifico, di una pura richiesta di risposta da parte di una «soggettività» assolutamente generica. I caratteri di questo «interpellare>> sono estremamente scarni: deve trattarsi di un'azione, non può cioè trattarsi di una condizione meramente reattiva, ma deve aver vigore quella , dunque, indichiamo una estensione del «richiamo alla risposta», di cui si è discusso più sopra, ad ogni comportamento in quanto attivo, cosciente, cioè entrato nel linguaggio. (Notiamo, a scanso di equivoci, che il segno attivo non necessariamente precede il fenomeno reale che gli risponde: posso rivolgermi alla nota di violino che da tempo urgeva sullo sfondo della mia coscienza sensibile, e riconoscerla come ciò che «ora» corrisponde al segno attivo corrispondente). Ricordiamo, rifacendoci all'analisi svolta, che l'io, in quanto «distanza» della coscienza, od autocoscienza, pone correlativamente la totalità esistente del mondo (anche quando in un sogno si riflette, si pone la realtà di un mondo su cui si riflette, e non si provano sensazioni solipsistiche). n segno attivo in generale, ovvero l'autocoscienza, di cui la posizione d'esistenza è un risultato, presuppone l'esistenza di «altri giudizi», o almeno il giudizio di un Altro in generale (non è infatti detto, nel porre l'esistenza, né che Cfr. il paragrafo 4 della sezione A.

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vi sia un'articolata molteplicità di giudizi, né che tali giudizi appartengano a «soggetti come-me»). Ora siamo in grado di trarre una prima conclusione: l'esistenza in generale, non l'esistenza di questa cosa o di quella situazione, è non una ma la verità di ragione. L'esistenza, in quanto realtà in sé, o mondo-per-tutti, deve esserci se c'è un segno attivo (un io); altra questione è poi lo stabilire cosa esiste e ·cosa no. L'esistenza è la prima verità di ragione, in quanto è l'unica asserzione cb? non ha bisogno di alcuna conferma particolare; persino il principio di identità (A ~ A) presuppone il/atto dell'esistenza di A', mentre l'esistenza è l'essenza dell'essere assoluto, è l'essenza del "quod maius cogitari non possit" 4 , del cogitare stesso (il segno attivo, l'io). La natura del: l'esistenza è l'essere come verificato, come delimitato; ciò che esiste è es~ senzialmente risultato di una prova che ne esibisce il limite, cioè l'efficacia su altro. Questa verifica particolare è il fatto. L'esistenza in generale, inve· ce, è la possibilità della possibilità, l'essenza dell'essenza, la condizione a priori di ogni a priori: che l'a posteriori si dia. In breve: la verità di fatto presuppone l'esistenza, ma l'esistenza non è l'in-sé assoluto, bensì la verità di ragione in sé: che l'esistenza sia è la verità presuppone un soggetto che ponga un principio di distinzione tra il «datOl> e il «postm>, e tale principio è il medesimo dell':mtocoscienza, dell'identità nelb riflessione di due elementi distinguibili. Nel soggetto l'io come segno attivo suscita ed obiettiva l'io come compimento d'::ttto (immaginativo o re:lie), e tale distinzione, nell'identità dell'io, si traspone tale quale nella consider:lZione dell'oggetto, in cui è distinguibile il concetto (segno attivo) e la sua rispost:1 come evento (il «dato»), pur essendo necessariamente coincidenti. Nell'argomento antologico di S. Anselmo il passaggio dall'essenza all'esistenza viene legittimato col fatto che l'essenza stess:1, concepit:1 come tot:ilità ::t.Ssolut:l delle qu::ilità, deve esistere, e ciò è necessario perché l'esistenza è una qu::ilità, un predicato. Ora, contestare contro Anselmo che l'esistenza sia un predicato significa sdoppiare l'esistenza in '! e «liquido>" non è né indispensabile, né utile sapere «Cosa c'è di comune» tra tali entità (il fatto di essere entrambe materia atomica, di essere «cose>'t, o quant'altro), ma è fondamentale sapere ad esempio che con il solido posso dare forma al liquido, ma non con il liquido al solido, oppure che i materiali porosi assorbono i liquidi e non i solidi, ecc. Una volta date tali pratiche di disgiunzione e data la capacità di «richiamarle» efficacemente, non vi è bisogno d'altro per porre qualsivoglia «relazione tra elementi>, (immaginativa o reale). D'altra parte senza l'efficienza di un principio di disgiunzione, di una «regola>'! che permetta di richiamare unità d'azione disgiunte, il soggetto si ritrova nel migliore dei casi in una condizione di reattività animale, in cui vige la determinazione dell'apprendimento e del comportamento irriflessi, e nel peggiore in una condizione di «dissociazione mentale>'!, caratteristica delle schizofrenie acute, in cui unità d'azione e di percezione vanno perdute. In altri termini I' assenza del principio di non-contraddizione, in quanto principio di disgiunzione, toglie le condizioni d'esistenza dell'io, non si danno più cioè le condizioni perché qualcuno recuperi vissuti trascorsi in vista di azioni future, perché rifletta e decida orientandosi in un medesimo mondo articolato. C'è un io perché c'è un mondo, e viceversa. Ciò che caratterizza l'io è proprio la possibilità di riconoscere come afferente alla propria complessiva unità d'azione ogni evento del mondo, e di possedere un mondo come ambito di percorsi alternativi, di

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Fenomenologia e genealogia della verità prospettive obiettive, ed è questo ambito di operazioni potenziali che pone i limiti al mondo, che lo circoscrive come referente del termine «mondo» (a prescindere da quali possano essere i limiti «materiali» del mondo). Si può notare che lo stesso Aristotele espone il principio di non~contraddizione co~ me il più fondamentale degli assiomi, cioè delle norme che riguardano l'es~ sere in quanto essere, e l'essere e l'uno sono una medesima cosa ed una realtà unica, in quanto si implicano reciprocamente l'un l'altro[ ... ]. Infatti, significano la medesima cosa le espressioni "uomo" e "un uomo", e così pure "uomo" e "è uomo''; e non si dice nulla di diverso raddoppiando l'espressione "un uomo" in quest'altra "è un uomo">>8 •

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L'esempio portato da Aristotele potrebbe venir analizzato così: le articolazioni linguistiche in generale (non solo i nomi) richiamano unità delr essere, e ogni autodatità è sempre un'unità circoscritta, una determinazione limitata da determinazioni. Ma ciò significa che l'essere in generale, ovvero ciò che chiamavamo «mondo», è «uno», è l'unità per eccellenza (è il «con~ cetto») 9 • II mondo è unità non in quanto determinazione circoscritta, ma in quanto campo di gioco di determinazioni contigue, conservate nel loro va~ lore relazionale reciproco dal mondo come unità di senso, unità d'azione primitiva. Non c'è nulla di pensabile, dicibile che non si dia come un'unità (più o meno articolabile), e d'altra parte è proprio il confronto tra l'unità del detto (pensato) e l'unità dell'essere che dà la verità, ed essa non sarebbe possibile se il detto e l'essere non fossero entrambi unità. Ma come si rapporta la non~contraddizione alla verità in generale? Com'è possibile la natu~ ra congenere dei due poli della verità di fatto? E che cos'è in generale la ve~ rità di ragione? 3. Aristotele diceva nella conclusione del passo fondamentale citato, che l'interlocutore è infine costretto ad ammettere che vi è "qualcosa di vero anche indipendentemente dalla dimostrazione". Questa nozione di verità non coincide con la definizione di «vero» e «falso», che seguirà poco dopo, come corrispondenza del dire e dell'essere, e non coincide, ovviamente, con la dimostrazione logica, che sarà una possibilità successiva ·a questo "qualcosa di vero". Riassumendo: col dire che l'esistenza è la verità di ragione abbiamo detto che il riferimento in generale del pensiero alla realtà, del dire all'essere è verità di ragione, ma ogni verità di ragione presuppone la non-contraddizione, che dunque appare come un primum assoluto. D'alAristotele, op.cit., pp. 177-8, (1003 b). Vedi sopra il paragrafo 5 della sezione A.

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Verità tro canto, però, per dimostrare il principio di non-contraddizione si~ ricorsi ad un'interlocuzione di fatto, dove l'intenzionalità linguistica di un altro soggetto manifesta il sussistere di un mondo di disgiunzioni comune, 'cioè di una ragione comune. Dunque, possiamo dire che se l'esistenza è verità di ragione, parimenti la ragione è verità di fatto (è il legame di fatto tra il detto ed i.suoi significati ciò che fonda la "realtà" dal principio di non-contraddizione). Questa circolarità era in effetti qualcosa di prevedibile sin dall'inizio. Era, infatti, a priori impossibile che il nodo tra verità di ragione e verità di fatto si sciogliesse in u~a verità, di ragione o di fatto. Chi, come Leibniz, ha tentato di dissolvere una nozione di verità nell'altra lo ha fatto negando la natura della verità subordinata: Leibniz può dire a buon diritto che di principio la verità di fatto è riducibile alla verità logica, ma questo è appunto un'asserto di forma e di principio, ma non «vero» perché mai dimostrabile né di diritto, né di fatto. Se non si risolve in qualche modo l'eterogeneità del mondo logico e di quello reale, ogni subordinazione forzata di un mon~ do all'altro non può che essere un vano incremento di postulati. Dunque la . coordinazione tra i due mondi, esposta nella forma precaria di questo fon~ dazione circolare, ci invita a proseguire per questa strada, approfondendone i momenti, sapendo sin d'ora che ciò che potremo ottenere non è una proposizione vera in cui I' argomentazione si risolva, ma I' esibizione di una operazione come quelle che pongono le disgiunzioni del mondo, di una pratica (o di un intreccio di pratiche) che riveli il senso della nozione di verità. Proseguiremo perciò il lavoro rianalizzando gli snodi cruciali del rimando circolare in cui ci siamo imbattuti, e sottoponendo, in seguito, ad una «prova>> sul campo i risultati dell'analisi.

3. La percezione come interpretazione e disgiunzione Seguendo l'ordine delle questioni poste dall'analisi della nozione di ve~ rità dobbiamo prendere in considerazione il primo livello di costituzione delle verità di fatto, cioè l'incontro con il mondo sotto la specie della «per~ cezione sensoriale». Le considerazioni svolte nell'analisi della verità di fatto ci inducono a mettere alla prova cinque tesi, che andiamo ad enunciare: l) è epistemologicamente necessario distinguere nettamente un piano im~ mediato della ricezione (sensazione) da un piano mediato (percezione); 2) nella percezione è sempre implicito un processo di apprendimento; .3) ogni percezione è una rilevazione di differenze; 4) le differenze percettive sono

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Fenomenologia e genealogia della verità differenze di significato operativo; 5) ogni percezione ha la forma generale di un'inferenza, di una verifica. 3 .l. Sensazioni versus percezioni La distinzione tra sensazione e percezione è indispensabile per evitar di cadere in pregiudizi e semplificazioni, non infrequenti nei testi di psicologia e fisiologia della percezione. Con «percezione» intendiamo la ricezione effettiva di un evento sensoriale da parte di un organismo, dunque la percezione implica un comportamento reattivo nei confronti di qualcosa, e tale reazione è il «significato» o «contenuto» della percezione. Possiamo concordare con la seguente valutazione del rapporto tra sensazioni e percezioni, per cui: "le sensazioni sono semplicemente quelle percezioni che, grazie al mantenimento di condizioni di misurazione omogenee, risultano ordinabili e quantificabili"'0 • Le sensazioni sono cioè, andando oltre quanto si vuole qui sopra esplicitamente dire, astrazioni dalle percezioni (che sono l'unica cosa che effettivamente si dia) fatte sulla base del presupposto che debba esistere una corrispondenza stabile tra stimolo e percezione. Di fatto la sensazione è un concetto che ha senso per un'esigenza logica, in quanto «condizione di possibilità» organica della percezione: è certo che senza un apparato sensoriale efficiente non si danno percezioni sensoriali (poiché dichiariamo inefficiente l'apparato sensoriale che non consente ciò che aiudichia"' mo essere percezione sensoriale). Tuttavia spesso tende a valere la conversa, per cui la percezione viene ricondotta allo stimolo distale, cioè tende ad essere ridotta al suo corrispettivo sensoriale periferico. Il modello di questo assunto è la sensazione di dolore, cioè il caso di una sensazione che «obbliga» ad una percezione. È rilevante osservare che tale caso, solo parzialmente vero, costituisce comunque una situazione unica: nessun altro tipo di stimolo è legato cogentemente ad uno specifico comportamento reattivo, cioè ad un significato percettivo. La collocazione degli stimoli dolorosi nel mondo di un'organismo vivente è unica: il dolore è una risposta caotica, aspecifica e priva di valore cognitivo". Ogni sensazione, sonora, luminosa, tattile, una volta superata una certa soglia di intensità, entro la quale vi è ancora identificazione percettiva della natura dello stimolo, si trasforma nella ri10

Gerbino W., La perce::ione, Mulino, Bologna 1983, p. 38. 11 Per un·:lll:ÙÌSi metodologic:tmente più rifinita del concetto di «dolore» ci permetti:tmo di rinviare il lettore :ùla terza parte del nostro saggio Drei Perspektiven zur Bestimmung des Sinnes, nel volume collettaneo Sprache und Pathos, a cura di R. Kiihn, Wiener-Passagen Verlag, Vien· na 1998.

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sposta aspecifica del dolore, cioè in un comportamento volto genericamente a sottrarsi a quelli situazione. Un colpetto sul palmo della mano può darmi un' informazione, una forte pressione può darmi un dolore contenuto, ma in cui vi è ancora spazio per il riconoscimento dell'evento sensibile, ma un'improvvisa trafittura non è distinguibile, al momento, da un'ustione, o da un qualsiasi altro trauma acutamente doloroso: il suo significato organico è che bisogna evitare quanto si sta verificando, ad esempio ritraendo la mano; una volta ritratta posso anche dedicarmi a capire «cos'era>>il dolore sentito12 • Non possiamo soffermarci sulla nozione di «dolore» quanto meriterebbe, ma è opportuno ricordare che anche la cogenza assoluta del legame tra stimolo doloroso e sofferenza effettiva può essere violata, come dimostrano l' autoanalgesizzazione di cui sono capaci gli Yogi, o quella cui si può venire indotti ipnoticamente, o come indicano gli studi sulle «analgognosie» traumatiche!). I sensi dunque possono essere intesi come sistemi di rilevazione di differenze ambientali al servizio del comportamento ambientale, mentre le sensazioni possono essere considerate analogamente alla «materia» aristotelica, come pura privazione che non è ancora in-formazione. Soltanto nell' ambito dei colori si valuta vi siano qualcosa come sette milioni e mezzo di differenze discriminabili (ad esempio per accostamento diretto di campioni), mentre quelle riconosciute percettivamente oscillano da due a circa duecento (a livello di specialisti nella lavorazione di stoffe). La sensazione si mostra come ritenzione di un'urgenza sensibile che il soggetto riconosce percettivamente come pre-data; questo fenomeno è ciò che la psicologia studia come «memoria iconica», in cui un numero limitato di informazioni (7 ± 2) può venire conservato senza elaborazione per un breve periodo di tempo (8-15 secondi); se in questo lasso di tempo l'informazione non viene elaborata in forma significativa essa decade senza possibilità di recupero. A rigore, l'unico significato attribuibile alla sensazione come tale è quello di «attrarre l'attenzione»; in altri termini tra la materialità dello stimolo e la 12 È interessante notare che la legge di Weber-Fecbner (che· stabilisce la «compressione» dell'intensit~ soggettiva di uno stimolo al crescere della sua intensità oggettiv:~) vale in m::Jniera nettamente inferiore per il dolore che per tutte le altre sensazioni, e questo risulta chiaro

pens:llldo al ruolo specifico dell:1 percezione di dolore: essa non deve distinguere qualcos:1 «attraverso» Io stimolo doloroso per s:~per come comportarsi di conseguenza, non è dunque !imit::Jta d:ùle sue intenzioni cognitive, ma può esercitarsi sempre in modo immediato, direttamente proporzionale allo stimolo. ll Piaget J., Piéron H ., Michotte A., Psicologia della percezione, Newton Compton, Rom:~ 1973, p. 34.

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Fenomenologia e genealogia della verità sensazione passa una sola differenza, che rende la sensazione portatrice di un significato proprio, e tale differenza è costituita da una reazione attenti~ va, da una serie di movimenti di aggiustamento organico che dispongono gli aditi di senso alla percezione. Per illustrare tale significato di «sensazione» si può pensare al risveglio dal sonno profondo a causa di un rumore secco: se ci si trova in sonno R.EM: la memoria iconica in generale non funziona e ci si sveglia sapendo che qualcosa è accaduto, ma senza sapere assolutamente che cosa, neppure se si tratti di un rumore o di un'altro stimolo sensoriale (ad esempio uno scossone del letto). 3 .2. Imparare a percepire Dunque con «percezione» si intende la mediazione dell'evento anonimo «sensazione». Tale mediazione non è uniforme ed atemporale, ma può essere intesa come un processo di apprendimento. Dalla neurofisiologia possiamo lasciarci insegnare che le informazioni genetiche di cui dispone un mammifero sono valutabili nell'ordine di grandezza di 10' geni, dunque largamente insufficienti a spiegare tutte le interconnessioni neuronali , stimate intorno a 10 1 14 • Per quanto concerne specificamente l'uomo, "sappiamo che, al momento della nascita, tutte le cellule della corteccia sono già esi~ stenti, ma esse, nel neonato, non presentano alcuna relazione tra loro. Negli otto anni successivi, più o meno, si sviluppano le vie di connessione" 15 • Ciò che porta il sistema percettivo alla maturazione è il suo utilizzo in ope~ razioni concrete, possiamo così vedere come la densità dei recettori tattili del palmo della mano è soltanto quattro volte superiore a quella dei polpastrelli, ma in una mano nofmale, cioè normalmente utilizzata, la capacità discriminativa della superficie dei polpastrelli è circa dieci volte superiore a quella del palmo della mano, il che è facilmente spiegabile proprio grazie all' allenamento alla discriminazione delle superfici nettamente superiore per i polpastrelli rispetto al palmo". La teoria psicologica che si oppone con maggiore plausibilità al concepimento della percezione come frutto di un processo «storico» di apprendimento è la teoria della Gestalt, che ha dimostrato con dovizia di esemplificazioni la costanza di numerose forme di organizzazione percettiva delle sensazioni. La Gestaltpsychologie è stata protagonista di un Progresso fondamentale nella considerazione del rapporto tra stimoli sensoriali e percej

K:mdel E.R., Schw::trtz JH., Principi di neuroscienze, Piaget J., Piéron H., Michotte A., op cit., p. 33. Kandel e Schwartz, op. cit., p. 307.

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CEA,

Milano 1988, p. 767.

Verità zione, combattendo efficacemente la considerazione «atomistica» della per~ cezione, e dimostrando come la percezione di strutture, di totalità 1 è fenomenologicamente prioritaria rispetto alla considerazione delle sensazioni particolari che le compongono. Così, punti o trattini disposti in modo circolare vengono immediatamente percepiti come un cerchio discontinuo, e non come una collezione di punti distinti. Per giustificare questo modo di darsi dei fenomeni i gestaltisti hanno formulato diverse ipotesi di principi che opererebbero in modo primario sulla percezione: principi di somiglianza, vicinanza, buona continuazione, chiusura, pregnanza, ecc. Tutti questi principi furono sintetizzati da Wertheimer nel «principio di buona forma», secondo cui l'organizzazione percettiva tende a disporre gli elementi sensibili nella struttura più semplice ed economica. Ora, un concetto come qu~llo di economicità è invero piuttosto problematico: in base a quale criterio possiamo giudicare la maggiore di un'organizzazione rispetto ad un'altra? Noi comprendiamo ciò che si intende con «maggiore economicità» di una forma rispetto ad un'altra, ed in generale diamo il nostro assenso a tale valutazione, ma in base a quale esperienza siamo d'accordo? Una posizione metodologicamente più rigorosa, anche se non molto fertile, sarebbe quella di limitare la considerazione delle strutture percettive alla loro esibizione, senza pretendere di ricomprenderle in nome di principi sovraordinati. Se però cerchiamo una spiegazione complessiva di questi fenomeni, allora non possiamo giustifica~ re i fenomeni in base ad un principio e poi definire tale principio in base a quei fenomeni: per riprendere un celebre esempio, non possiamo esemplificare la «semplicità» con la configurazione simmetrica di un evento percetti~ vo, come una goccia d'olio nell'acqua, e questo sia perché la forma unitaria della goccia d'olio (astraendo, ad esempio dalle differenze di luminosità) è un fenomeno percettivo gestaltico come quelli che si vogliono giustificare, sia perché la sfericità della goccia d'olio, come corrispettivo della costanza delle forze agenti su di essa, è un'idealizzazione, vera solo approssimativamente, e svolta proprio in nome della semplicità del concetto. In questo senso il lavoro svolto dai gestaltisti non perde nulla del suo valore, purché eviti di credere che i fenomeni esibiti siano «compresi» con la mera applicazione di etichette come «buona forma» od «economicità». La Gestalttheorie sembra dunque indicare l'esistenza di nessi universali e necessari tra le sensazioni e la loro interpretazione percettiva; questa posizione, non pretendendo comunque di risolvere in nessi di questo genere tutte le relazioni tra evento sensibile e significato percettivo, non costituì~ rebbe una confutazione di principio della natura «Storica» dei significati

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Fenomenologia e genealogia della verità percettivi, tuttavia ne limiterebbe sensibilmente la portata. Vogliamo per· ciò mettere alla prova la nostra valutazione della percezione discutendo la plausibilità di alcune tesi gestaltiste. Innanzitutto, nei soggetti sottoposti a valutazione dagli psicologi della Gestalt i >, allora l'unità della figura risulta secondaria, e non viene notata. Luria, quando deve discutere questi risultati, si trova in qualche imbarazzo, facilmente comprensibile. Dapprima afferma che "i soaoetti non manifestano nella loro percezione nessun segno di 00 conformità con le leggi della percezione strutturale descritte dalla psicologia della Gestalt"::o, per scrivere, poco dopo, che "le leggi della percezione delle forme restano le stesse, ma mentre in alcuni soggetti (culturalmente avanzati) queste leggi dominano [... ], per gli altri [... ] esse non hanno alcun significato essenziale e sono respinte da una concreta percezione oggettua-

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Luria A.R., Storia sociale dello sviluppo cognitivo, Giunti-Barbera, Firenze 1976, pp.

62-4. 20

Ibidem, p. 63.

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Fenomenologia e genealogia della verità le" 21 • Luria comprende che , · h essere consl eratl m definito tanto da elementi «complanari», c e posson0 d' . anta da elementi che concorrono lamodo sincronico come «biscotto», qu r . /li . . nte (ed o rativamente) alla sua costituzione, come~ l~vlto e_vl~ cro~came 46 Ed~nche questi sicrnificati diacronici, operativi, materiali tazlone>>, ecc. · t~

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. , . . d Il' alisi differenziale del contenuto Eco nota due ostacoA propos1to dell esposlZlOne e an . l . rch fatte non ci d:mno che una · t olo è che smora e nce e li di valore generale: «n prlmo os ac. . · quello dei colori, delle classifi. . . · lto ostrettl come per esemp1o .'. S indi costretti per ora a fare 1 strutturazione d 1 sottomsleffil mo · h d · · · metereologtcl ecc aremo qu cazioni botarruc e, el terrruru . . - , ·-d l s· ma Semantico, che chiameremo . · d delle porz10ru nstrette e lSte b , al f che la vita dei campi semantici è: più reve nostri esemp1 esarrunan o "campi". Il secondo ostacolo[ ...] e dovuto atto B - . Mib.no 19ì1, P· f l - . (E 0 U Le forme del contenuto, omp1aru, di quella dei sistemi ono oglCl»· c _'' d :ili . diff iale non è comunque un accidente 43).-La parzialità dei sistemi sottopostl a w sl erenz

che concorrono al significato di un segno linguistico vi concorrono solo se sono già articolati, se sono già linguaggio (per distinguere il pane lievitato, da quello azimo, devo saperne nominare la differenza). Infine bisogna osservare che queste precisazioni sono rilevanti soltanto per alcuni significati linguistici, giacché il significato della maggior parte dei segni linguistici non ha nulla di «estensivo», e si struttura in modo puramente grammaticale-sintattico: per restare agli esempi fatti il morfema «-issim-» in «grandissimi» indica un valore di superlativo assoluto ·che non ha alcun senso estensivo, e può essere determinato solo come valore logico-linguistico («più» + «assolutO>>, ovvero, nell'area semantica di «più e meno», ciò che non ha limitazione nel senso del «piÙ>>). Dunque è piuttosto la definizione estensiva che risulta essere condizionata dalle partizioni grammaticali-sintattiche, che non viceversa: per definire estensivamente una «cosa» abbiamo bisogno della funzione linguistica del sostantivo, mentre non potremmo mai definire la natura sostantivale con l'indicazione di «Cose», quantomeno giacché un sostantivo può essere indice tanto di una cosa materiale, che di un'essenza astratta, tanto di un'entità statica («pane>>), che di una situazione dinamica («corsa»), e ciò vale naturalmente a maggior ragione per tutte le altre «parti del discorso»47 • L'affermazione di Hjelmslev, per cui il carattere definitorio proprio del contesto può ridurre il dualismo tra contesto materiale e linguistico apre la strada alla considerazione della linguistica come una semiotica generale; il potere di sintesi di questa valutazione teorica è enormemente rilevante, e come già accennato, anche temibile: non bisogna infatti mai dimenticare che l'equivalenza di contesto linguistico e contesto semiotico in generale può essere proposto a partire dal fondamentale assunto che tutto dò che conta nel significato è l'ambito differenziale, e tale assunto è dimostrato valido nella sua versione più radicale solo per il sistema specifico dei segni linguistici. Inoltre nella prima sezione di questo lavoro ci siamo già imbattuti nella «materialità del segno>>, cioè nella rilevanza specifica del : dire che ogni oggetto della percezione è nominato da un sostantivo, non vuoi dire affatto che si può intendere la natura del sostantivo a partire d::ùl'esperienza di cose materiali; piuttosto è la collocazione logico-operativa dell'oggetto (di cui abbiamo gib. parlato nella prima sezione) a poter dare ragione dei nomi gr:unmaticali e delle cose materiali.

n

Mc Neill D., op. cit., p. 65.

54

51

Ibidem, pp. 121-123.

1-19.

98

Bruner }.S., The Ontogenesis of Speech Act, in]ournal of Child Language, 1975, vol. 2, pp.

99

Fenomenologia e genealogia della verità

Verità

taomi nominali della classe A. Le parole della classe P non compaiono mai sole, né mai abbinate tra di loro, e ciò risulta chiaro proprio pensando al loro ruolo di specificazioni; inoltre ciò aiuta anche a comprendere la loro maggiore frequenza d'uso, giacché i termini specificativi sono più generali, più estesi dei termini che devono specificare: parole come «mio» o ~dà» s~no meno legate a situazioni determinate. rispetto a «calza» o «Mc Neill». Riassumendo, non solo nelle distinzioni a livello olofrastico, ma anche per quanto concerne il primo livello di strutturazione sintattica, il momento qualificante è costituito da un atto di differenziazione, atto certamente non puramente formale e gratuito, ma coincidente co~ l'au~ent~ d'in~ormaz.io~ ne cui il socrcretto va incontro: una volta determinatasi, nel modi descrrttl nella primal:>s:zione, l'alterità in generale, l' ob dell' ob-jectum, la pratica lincruistica la articola per differenziazioni progressive, di cui l'aumento delles:ico e l'istituzione delle relazioni tra i termini sono i due primi gradini.

mostrando come la categorialità linguistica incidesse sulla ritenzione anche nella memoria a breve termine~'. Di questo esperimento, la cui interpretazione sembra piuttosto semplice, conosciamo invece una critica decisa, che prendiamo in :--onsiderazione a titolo di rappresentanza tipica di un indiriz~ zo generale di critiche ad ogni dipendenza delle funzioni cognitive dal linguaggio. Nel lavoro su Linguaggio e pensiero di Job e Rurniati56 , dopo aver preso atto dei risultati dell'esperimento appena citato si afferma che tali risultati sono secondari rispetto al fatto che tanto i Dani che gli Americani avevano maggiore facilità nel riconoscere i colori focali rispetto a quelli non focali. Da ciò si trae addirittura la diretta conclusione per cui "il fatto che la lingua che uno parla contenga molti nomi che si riferiscono ai colori o ne contenga pochi non ha alcuna importanza per quanto riguarda le prestazioni cogntive con i colori stessi". L'argomentazione critica portante sostiene che la diversità del rendimento tra i D ani e gli Americani può essere ritenuta inconferente perché ''probabilmente spiegabile in base alla familiarità del compito". Questo argomento getta immediatamente luce sull'ipotesi che qui si crede di dover verificare. Contestando la «familiarità col compito» non si sta certo indicando lo specifico compito sperimentale cui i soggetti sono stati sottoposti, perché nessuno dei soggetti occidentali era già stato sottoposto ad esso, dunque si vuole intendere in generale il compito di riconoscere i colori nel proprio mondo sociale, cioè di distinguerli sensibilmente e sussumerli sotto categorie diverse. Ma allora, se si ritiene la familiarità di principio estranea al linguaggio, ciò cui si guarda, e che si pensa di verificare è se gli apparati percettivi dei D ani e degli Americani siano diversi a causa della diversità di linguaggio. Concependo il linguaggio e la familiarità col compito come reciprocamente estranei si pensa il linguaggio come un sistema morto di etichette, e non come una prassi vivente. Ma, come abbiamo veduto, il linguaggio è una pratica, una pratica che si impossessa di altre pratiche rendendole attive ed intenzionali, dunque è strettamente dipendente dall'effettivo impratichirsi con il proprio oggetto: possiamo menzionare a questo proposito la egli sovrappone il proprio strumento esplicativo alla realtà fenomenica. È infatti vero che gli atti della visione hanno potenzialità diverse da quelli del tatto o dell'udito, ma il bambino non può inferire l'indipendenza delle cose dal fatto che esse rispondono a diversi sensi (meglio: a diversi schemi operativi), giacché l'uso «sperimentale» di essi come mezzi diversi di verifica reciproca presuppone comunque sempre la disgiunzione tra gli schemi. Piaget si rende parzialmente conto di ciò, ed infatti nota che fino a quando gli schemi rimangono globali e indifferenziati non si può giungere ad una permanenza sostanziale dell'oggetto (e più in generale della realtà). Tuttavia egli non evita una sorta di petitio 59

60

... 1. l-l'

6t

Piaget J., La costruzione del reale nel bambino, Nuov:1 It:ili:1, Firenze 1973, p. 6. Ibidem, pp. 103-4. Ibidem, p. 104.

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Verità

principii: gli schemi secondari si dissociano, divengono mobili grazie a un'assimilazione reciproca che permette loro di combinarsi in tutti i modi·, questo ragionamento presuppone già che gli schemi siano indipendenti, per potersi assimilare «reciprocamente» al fine di autonomizzarsi. In questa spiegazione manca la rilevazione di un evento che faccia fare il salto dall' assimila;;ione (passiva) all'azione e rappresentazione, manca cioè quella censi~ derazione sul linguaggio che ne nota il ruolo nella costituzione dell'azione e dell'articolazione di unità d'azione. La rappresentazione degli oggetti assenti e dei loro spostamenti (es.: se una caramella è messa in una scatola e la scatola sotto un tappeto, dove la caramella viene lasciata cadere, il ba:nbino, vista la scatola vuota va a cercare la caramella sotto il tappeto) richiede un'atto inferenziale del tutto distinto da un semplice legame associativo (giacchi! non c'è associazione diretta tra caramella e tappeto, ma solo con la mediazione della scatola e del movimento di essa). Si richiede dunque un'azione che renda presenti all'occhio della mente tutti gli elementi del problema, si richiede cioè una rappresent-azione. Questa attività di connessione di elementi in una rappresentazione inizia a verificarsi in perfetta coincidenza con Io sviluppo delle prime connessioni sintattiche62 • Questa coincidenza temporale potrebbe però essere spiegata in senso inverso, ammettendo che sia l'evoluzione dell'intelligenza impulso~motoria raggiunta a quest'età a permettere l'istituzione dei nessi sintattici. È perciò opportuno operare dei confronti atti a discriminare tra queste due possibilità. I casi più rilevanti in quest'ottica sono dati dallo studio delle capacità cognitive dei sordomuti. Abbiamo già accennato al fatto che il linguaggio gestuale dei sordomuti può, di diritto, istituirsi come lino-uao-oio nel pieno e b bb compiuto senso del termine, e come la peculiare capacità di costituzione della mediazione possa essere ottenuta anche dal linguaggio dei gesti. Tut~ tavia -l'apprendimento del linguaggio gestuale è più lento e difficoltoso di quello verbale, e ciò comporta usualmente dei ritardi nell'acquisizione di determinate nozioni verbali da parte dei bambini sordomuti, inoltre l'ambito di tale handicap rappresenta un campo di studio particolarmente favorevole perché si può escludere l'intervento di nozioni «orecchiate», apprese al di fuori di un insegnamento esplicito, e quindi le condizioni sperimentali sono molto più controllate del normale. Nei lavori di P. Oléron troviamo una ricca messe di ricerche relative alle capacità cognitive dei sordomuti, ed un confronto con i suoi dati sperimentali è per noi particolarmente interes~ sante, proprio perché la tesi generale da cui Oléron parte non è favorevole a Mc Neill D., op. cit., p. 136.

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Fenomenologia e genealogia della verità

Verità

concedere un ruolo dominante al linguaggio nei processi di pensiero (come invece accade per Luria, i cui risultati citeremo più avanti). Discutiamo perciò di seguito due esperimenti, il primo contrario ed il secondo favorevole alla dipendenza del pensiero dal linguaggio, e le conclusioni che Oléron ne

perta. Infatti, se il «compito» fosse riducibile all'immediato ritrovamento di cibo, a puri fini alimentari, la strategia più semplice (che ad esempio una scimmia adotta) sarebbe quella di provare rapidamente tutte le scatole. Se esaminiamo il compito assegnato notiamo che il linguaggio sufficiente all'esecuzione è elementare (tipo: "prima di qua, dopo di là"), giacché, come menzionato più sopra, il numero di 8 elementi rientra nel numero di chunks che la ID.emoria a breve termine riesce a considerare contemporaneamente; se il compito fosse stato identico, ma con 80 scatole, e partendo dalla ventesima e dalla sessantesima, la numerazione sarebbe stata necessaria. Un secondo esperimento ci permette di chiarire meglio il tipo di procedimento cui il linguaggio è indispensabile; esso avviene in un labirinto:

trae: Sono stati confrontati bambini sordi e udenti in una prova in cui si trattava di scoprire una legge di successione[ .. .]. Otto scatole identiche sono poste da_vanti al soggetto, tutte chiuse con un chiavistello, salvo una. n soggetto deve scoprire la scatola che non è chiusa, in cui troverà una caramella. n posto della scatola «giusta>> cambia a ogni prova. All'inizio è la prima, poi la seconda, la terza, ecc .. In un'altra parte dell'esperimento la legge da scoprire è più complicata: la «SCatola giusta» è successivamente la prima, l'ottava, la seconda, la settima, ecc. Chi non penserà, davanti alla descrizione di una situazione come questa, che la conoscenza dei numeri facilita notevolment~ il compito assegnato al soggetto, ammesso che questa non appaia come la condizione necessaria per la sua esecuzione? I bambini sordi sottoposti a tale esperimento non si dimostrano sensibilmente inferiori agli udenti.-La parità_non dipende dal fatto che i sordi presi in esame avessero acquisito la conoscenza d~1 nu~ meri. I soggetti sordi da 5 a 7 anni l'avevano in realtà acquisita nel momento m CW erano stati sottoposti alle prove, ma quelli di 4 anni non l'avevano ancora acquisita, il che non impediva loro di riuscire bene quanto gli udenti della stessa età.[ ... ] La _si: tuazione offre punti di riferimento sul piano spaziale [ .. .]. Questi non sono esaustlv~ e lasciano sussistere alcune possibilità d'errore e di confusione, soprattutto per gli elementi centrali, ma la ripetizione consente di raggiungere una sufficiente prec~sio­ ne nell'individuarli [. ..] correlativamente, i bambini che conoscono la numerazwne non la utilizzano o se ne servono molto poco (due terzi degli udenti, per esempio, 0 6 non erano capaci, finita la prova, di indicare il numero delle scatole) ' .

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Tra quelli che pensano che la conoscenza dei numeri non faciliti nell'esecuzione di questo compito c'è senza dubbio chi scrive. Peraltro l'inconferenza delle operazioni di numerazione si lascia scorgere già nel resoconto osservativo dell'esperimento: la confusione relativa agli elementi centrali della serie di scatole è evidentemente dovuta allo scarso rilievo della simmetria, rispetto ai casi periferici, mentre, laddove intervenisse un'attività di numerazione, il quarto posto sarebbe distinto dal quinto, esattamente come il primo è distinto dall'ottavo. Questo dunque significa non che illinguago-io non o-iochi alcun ruolo nel presente caso, bensì che si tratta di un ruolo ~omune: sordi e udenti, indifferente alla nozione di numero. L'utilizzazione del linguaggio appare qui semplicemente nell'atto di intendere che lo sperimentatore vuole qualcosa dal soggetto, vuole che egli compia una sco-

Grazie al bloccaggio, mediante chiavistelli, di porte, operato dallo sperimentatore all'insaputa del soggetto, questi può uscire, una volta entrato, solo dopo aver percorso i corridoi, girando prima due volte a destra e poi due volte a sinistra. A questo punto riacquista la libertà.-Da parte nostra abbiamo confermato il ruolo del linguaggio confrontando bambini sordi e udenti in una prova di doppia alternanza: il soggetto deve imparare che ottiene la ricompensa solo se apre le imposte mobili nell' ordine della serie ss DD ss DD. I bambini sordi sono ritardati rispetto agli udenti. È solo a 6 anni che 9 soggetti su IO riescono nei limiti fissati nelle prove (48 serie al massimo), mentre gli udenti raggiungono questo risultato a 4 anni. [... ] TI successo ottenuto dai sordi nella nostra ricerca coincide con l'acquisizione del numero, che avviene più tardi rispetto agli udenti. È a 6 anni che i nostri soggetti arrivano infatti, attraverso l'apprendimento scolastico, alla sua conoscenza. Si aggiunga che dall'età di 4 anni i nostri soggetti udenti erano capaci di esprimere il principio della doppia alternanza, il che rappresenta un argomento supplementare, benché indiretto, favorevole alla tesi dell'utilizzazione del numero come simbolo per la scoperta della legge in questioné".

In questo caso anche se la molteplicità logica implicata nel compito è sempre di otto elementi, come nel primo esempio, tuttavia qui interviene un mutamento essenziale: il soggetto non può «dominare con lo sguardo» la situazione, perché è interno ad essa; ne segue la necessità dell'intervento di una capacità di gestione mediata dei dati, che di primo acchito saremmo propensi a nominare come «immaginazione>>. In effetti, tanto nella soluzione del primo problema, in cui intervenivano cOnsiderazioni di simmetria, quanto in quella del secondo c'è bisogno di un'attività immaginativa, ma in quest'ultimo non si tratta soltanto di immaginare degli spostamenti simmetrici, ma anche di conservare in disponibilità tutti gli elementi via via esperiti, per.una gestione dilazionata nel tempo: il ruolo dell'immaginazione è

!

61

Oléron P., Linguaggio e sviluppo mentale, Giunti-Barbera, Firenze 1975, pp. 131-2-.

106

64

Ibidem, p. 144.

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Fenomenologia e genealogia della verità

Verità

qui molto più evidente, e di pari passo l'intervento di categorie linguistiche diventa dominante. L'esempio dei sordomuti può efficacemente discrimi· nare il ruolo cognitivo del linguaggio dalla mera maturazione degli schemi sensomotori, su cui si sofferma Piaget, poiché nel caso dei sordomuti i ritar· di, o le incapacità, non possono che dipendere dalla componente linguisti· ca, visto che la maturazione dell'intelligenza sensomotoria non manifesta qui alcuno handicap rispetto ai bambini normali. Ritorneremo tra breve sul nesso tra immaginazione e linguaggio, ma è prima necessario chiudere il cerchio delle analisi strettamente linguistico· cognitive, e lo facciamo, come anticipato, ricordando il caso sperimentale più esplicito (ed autorevole) di cui siamo a conoscenza; in un lavoro pubbli· cato nel1959 Luria ed il suo collaboratore Yodovich descrivono lo sviluppo parallelo di due gemelli monozigoti culturalmente deprivati. I due gemelli vennero sottoposti, separatamente, ad esperienze con giocattoli ed altre stimolazioni ambientali, mostrando miglioramenti paralleli nella qualità e complessità del loro gioco costruttivo ed immaginativo. Ma, quando ad un certo punto venne iniziato un addestramento linguistico per uno solo dei due gemelli, in brevissimo tempo si poterono notare in questo dei veri e propri salti nelle competenze cognitive, rispetto ai lenti progressi dell'al· tro 6 ~. n caso dei gemelli costituisce un complemento rilevante in quanto parte da due situazioni perfettamente controllate, in cui il patrimonio genetico è il medesimo, e la deprivazione sensoriale di cui sono entrambi vittime rende pressoché nulla la possibilità di alterazioni comportamentali dovute a variabili differenti da quella linguistica, sperimentalmente introdotta con diverse scansioni temporali. Analisi precedenti, che comparavano i progressi dell'intelligenza di uno scimpanzé e di un bambino, fino all'acquisizione del linguaggio, oppure che mostravano gli scompensi intellettivi dei «ragazzi selvaggi», privi di educazione linguistica, tendevano sì ad indicare un legame tra prestazione linguistica e capacità cognitive, ma potevano cadere vittima di obiezioni radicali sia relativamente alle inverificabili differenze di ordine genetico, sia per l'impossibilità di distinguere nettamente appren· dimento linguistico ed esperienze sensomotorie. L'analisi sul linguaggio svolta fin qui dovrebbe aver chiarito l'irriducibilità delle funzioni linguistiche a quelle sensomotorie, tuttavia questo ri-

sultato non deve essere letto come una la stanza in un determinato modo significa contemporaneamente saper come agire in essa. Ci è utile ora ricollegarci alla distinzione, più sopra compiuta, tra il mondo come realtà, e la semplice presenza degli stimoli sensibili: per comportamenti ambientali privi di mediazione (come quelli animali, infantili, oppure fortemente abitudinari, automatici) il mondo come realtà, in quanto distinto dall'apparenza e dall'illusione, non compare, e tutto si svolge in una dimensione che potremmo dire a-reale, priva di attribuzioni di signifi~ cato, senziente ma non percipiente (come la miriade di aggiustamenti sulla n Riportiamo l'esperimento secondo il racconto che ne fa G. Bateson, in Mente e nat. Se il pensiero è definito dall'attività rappresentativa, sia essa chiusa in se stessa o sia finalizzata all'azione esterna, allora con «pensiero)> dobbiamo intendere l'unità delle unità d'azione, che è quanto a dire il mondo nella sua identità con il linguaggio. Come abbiamo già avuto modo di dire, il mondo è il significato del linguaggio, ed è uno perché (e finché) il linguaggio è uno; l'unità del linguaggio non indica, ovviamente, l'identità storica o formale di una lingua empirica, ma un comportamento di coerentizzazione continuata tra le singole unità d'azione (su ciò torneremo). Abbiamo potuto qui definire, in qualche modo, il «pensiero», in quanto il pensiero-mondo cosl identificato è la «totalità>>, ma non è «tutto», nel senso di ogni datità, ogni evenire, anzi a ben vedere, la totalità pensieromondo investe solo un'estensione minoritaria delle nostre pratiche vitali. Quando compiamo attività abituali non abbiamo alcun bisogno di pensarle, cosl come, quando uso uno strumento per un fine, penso al fine e non allo strumento. Un comportamento ambientale complesso come il mantenersi in equilibrio in un autobus in corsa è certamente, visto dall'esterno, una pratica intelligente, composta di raffinate variazioni nella disposizione del 74

Vi.gotsky L.S., op. cit., p. 35.

118

Verità peso corporeo, dall'ascolto delle variazioni di moto del mezzo, da prensioni

agli appositi sostegni, ecc., ma per lo più non implica tematizzazione riflessa, e forse non ne ha mai implicata (anche se ciò è più difficile). Questo vale ovviamente per numerose pratiche quotidiane, dal mangiare al camminare, ecc. Tuttavia quando affrontiamo un problema nuovo, per quanto esso possa essere _«manuale» o «pratico», il linguaggio interiore si attiva, e quanto più il problema è composito, tanto più «parliamo» con noi stessi. È sì vero che tale «discorso» ha caratteristiche sue proprie; è, in primo luogo, fortemente ellittico: il lettore può provare ad analizzarsi mentre costruisce un puzzle: si troveranno espressioni come .:> corporea: l'autonomizzazione dell'im~ ma crine e della parola dalla pratica attuale ha le sue radici nel fatto di essere, . in entrambi i casi, pratiche rispecchiare dalle risposte ed apprese (non «ID~ nate»). L'attenzione alla corrispondenza dell'Altro, la costituzione del cor~ po proprio e dei suoi limiti in un'interazione~riconoscimento con I' Altro, l'attitudine a leggere noi stessi nei moti e nelle risposte dell'Altro, tutto ciò sembra essere premessa della capacità di «immaginare», di combinare pre~ dittivamente figure percettive e traiettorie nello spazio (così fa una scim~ mia, così non fa ~ma lucertola)76 • Infine, tanto il linguaggio, che il comporta~

mento percettivo si articolano secondo unità differenziali (il che è quanto dire che si articolano tout court).

.

Va ribadito, onde evitare equivoci, che la matrice prima dell'immagine è il comportamento ambientale, la prassi corporea (di cui la percezione è co~ stituente essenziale), ma che non vale l'equazione tra comportamento ambientale e~ immagine in senso stretto, poiché soltanto una parte delle prassi viventi di cui siamo costituiti sono esperibili «in immagine», cioè hanno un «doppio» trascendente, mentre una ·parte maggioritaria resta immanente al comportamento reattivo. Questo appare comprensibile a partire dalla gene~ si dell'immagine rappresentativa, legata al raddoppiamento corporeo della replica, che ovviamente non costituisce l'unica pratica di adeguazione ed orientamento comportamentale. Se non facesse a pugni con l'uso corrente si potrebbe parlare legittimamente del comportamento corporeo tout court come di «immaginazione» in un senso ampio, o forse meglio, dell'immagi~ nazione come comportamento «abbreviato». Nell'immagine mentale il rad~ doppiamente dato dalla «comprensione mimetica~> consente di vedere «con l'occhio della mente» quei vissuti che sono il frutto degli aggiustamenti ambientali; così, posso immaginare (o ricordare) spostamenti, così come percezioni, posso avere l'immagine della «ruvidità» riprendendo mentalmente I' azione dello strofinio su di un pezzo di carta vetrata, proprio come posso dispiegare progressivamente la strada di casa. II linguaggio, che con le sue partizioni differenziali è l'elemento qualifi~ cante dell'unità d'azione, si impossessa di ogni comportamento corporeo, sia esso un comportamento legato alla coordinazione ambientale (dunque . II soggetto (o Io) viene cosÌ ad indicare la stessa cosa che si in~ dica con «mondo», giacché l'unirà delle unità d'azione è sempre il sistema articolato di saperi immanente alla corporeità vivente. Quest'equivalenza tra soggetto e mondo non comporta istanze solipsistiche, né «soggettivismi» di varia natura: come ampiamente visto il soggetto è ciò che è in quanto originariamente «intersoggettivo>>, ed inoltre l'unità d'azione ha sempre a che fare con l'alterità irriducibile dell'evento corrispondente, della «realtà sensibile» (il segno reattivo, la passività originaria, che resta sempre implicata nella vita del soggetto, è l'indice della realtà). In effetti l'unità d'azione porta in sé la realtà, essendo un conglomerato di segni reattivi, dunque di risposte alla realtà, e perciò si può dire, come abbia:rÌlo fatto, che la «conferma» dell'azione altro non è che la sua compiutezza, la perfezione di ciò che in essa è implicato (mentre la sua falsificazione è la rottura della sua unità). A questo livello si colloca la «Verità» comune alle verità di ragione ed alle verità di fatto.

È peraltro ben vero che cosl bcendo Hegel non si dibatte nell'ambiguità metodologica che affligge b nostra analisi, e che abbiamo denunciato nel concludere h prima parte: per Hegel t:ili problemi non possono sorgere in quanto egli si pone già dentro la mediazione, la dà per scontata, ed in questo modo può evitare l'apparente aporia metodologica di descrivere lin* guisticamente il prelinguistico, o di dar ragione della ragione ragionando sull'irrazionale.

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Con la sintesi definitoria appena esposta si conclude l'analisi fenomenologica e genalogica degli elementi della verità. Questa piattaforma di riferimenti teorici dovrebbe ora sostenerci ~ell'affrontare l'ostico campo dei concetti che fanno concretamente parte dei nostri «saperi». Tali concetti sono le concrezioni della verità, di ragione e di fatto. Premessa essenziale per questo sviluppo è la comprensione del valore dell'unità d'azione e della mediazione linguistica nella costituzione del mondo, della realtà e di noi stessi, cosl come eSso ci si è presentato. Di fatto, il passo successivo della nostra indagine intende seguire le sorti della mediazione e la parallela affezione di verità ed antologia. Entrando in questo campo lasciamo, non accidentalmente, I' analisi dell' «universalmente umano», per avventurarci in percorsi storici e saperi consolidati, legati alla tradizione di pensiero occidentale, di cui il lettore di queste pagine (in quanto lettore) fa parte.

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Sezione C

SCRITTURA E LOGICA

Alla radice del sapere occidentale, del sapere come «scienza», sta la Io~ gica, intesa come la disposizione teorica alla distinzione delle argomentazioni «vere» o «valide>> da quelle false o apparenti. La logica nasce, tra il Sofista di Platone e l'Organon aristotelico, come teoria dell'argomentazione volta a distinguere il vero sapiente, il filosofo, dal detentore di sapere apparente, retore, sofista o semplice mentitore. Nelle pagine che seguono noi vogliamo interrogarci sulla genesi dei concetti logici, come premessa dell' argomentazione vera; e, nella misura in cui il concetto logico in senso proprio, è un elemento che appare in luoghi e momenti precisi del corso storico, vogliamo affrontarne lo studio in termini di storia comparata. Bisogna osservare che l'indagine «genetica» di cui parliamo non è volta ad identificare «cause determinanti» dei loro «effetti», quanto piuttosto «Condizioni di possibilità>> operative: senza alcune pratiche altre pratiche non possono emergere, ma non è detto che in presenza delle prime le seconde compaiano - di necessità; crediamo che I' emergere di fatti operanti per fatti successivi come condizioni necessarie, ma non sufficienti (come «apriori materiali>>) sia, anche intuitivamente, la modalità di fondazione e comprensione più appropriata per i processi temporali. Che il momento successivo sia univocamente determinato dal momento precedente è assunzione troppo forte per trovare applicazione, anche limitata, in processi reali1 • Che il momento successivo sia del hitto indipendente dal momento precedente implica il contingentismo assoluto e la distruzione di ogni causalità, di ogni «superstiUn'argomentazione dettagliata a questo proposito viene da me svolta in Per un concetto formale di libertà, in ATQUE, 14/15, Nov. '96-Apr. '97, pp. 209-230.

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Fenomenologia e genealogia della verità

Scrittura e logica

ziosa» fiducia nella connessione degli eventi: anche tale assunzione è troppo forte per poter essere sensatamente sostenuta (chi la sostiene ha l'onere di giustificare il significato delle proprie stesse parole, come nell' argomentazione aristotelica sulla non-contraddizione). Nell'enorme spazio tra questi due estremi sta ogni considerazione in termini di condizioni di possibilità (e per le sue versioni più forti, di «apriorità materiale»2 ). Per affrontare una genalogia della logica dobbiamo innanzitutto tener ferme alctme delle cose risultate dalle precedenti analisi, ed in particolare il nesso tra linguaggio e mediazione. Il linguaggio è ciò che istituisce la mediazione, e dunque è attraverso di esso che il soggetto autoreferente e r oggetto in quanto tale possono sussistere. Ma tma logica è primariamente tma teoria del pensiero, ed una teoria del pensiero, nella misura in cui i pensieri esigono tm ~ouaggio, implica una considerazione teorica del linguaggio. Ora, perché si dia la possibilità di uno sguardo teorico sul ~ouaggio è necessario che il ~ouaggio possa passare dallo statuto di fattore mediante a quello di fattore mediato, cioè dev' essere possibile rendere oggetto ciò che oggettiva. Quando parlo in prima persona od .interagisco dialogicamente il mio atteggiamento è rivolto ad intendere ciò cui il linguaggio indirizza, passo cioè oltre la parola per andare al suo significato; se provo ad opporm.i a questa disposizione naturale verso il linguaggio parlato, e cerco di fermarmi sui segni e non di seguirne gli oggetti perdo rapidamente la capacità di comprendere il senso di ciò che è detto, di interagire dialetticamente, e, in breve, i limiti della memoria condannano la mia volontà analitica allo scacco. Dunque, perché sia possibile una riflessione sul ~ouaggio io ho bisogno di separare nettamente il pi'ano dell'uso ~ouistico, in cui il linguaggio è soggetto, da un piano del/atto linguistico, in cui il ~ouaggio è oggetto. Il ~ouaggio diviene oggetto quando diviene una , e n:on può esserlo proprio per quelle caratteristiche che ne costituiscono il pregio di segno grafico, cioè l'oggettiva stabilità indipendente dalla disposizione interattiva del soggetto. II segno grafico è in primo luogo un oggetto, è il mediato del linguaggio, ed ulteriormente, come oggetto, dev'essere una «cosa», cioè un'entità >, stabile, replicabile, manipolabile. Prima della scrittura e della lettura di cose intese come un «voler dire» dobbiamo presupporre la semplice «lettura» delle cose, così come si danno in sé. Le traccie lasciate sul terreno da un animale sono lette dal cacciatore che ne ricostruisce immaginativamente i movimenti: un uomo «legge» le traccie, «vede» cosa ha fatto l'animale, si rappresenta quali e quanti animali sono passati, un cane non segue le traccie nello steSso modo, perché segue l'odore, cioè sente sempre la «presenza>> in quelle traccie: se l'animale seguito attraversa un corso d'acqua il cacciatore ne cercherà le impronte sull'altra sponda, mentre il cane perderà definitivamente la traccia. Tuttavia, perché si possa parlare di lettura in senso proprio le «cose» devono essere lette come rappresentanti di una soggettività assente. Questo accade con ciò che è stato chiamato Sachschrift, «scrittura di cose», cioè nella trasmissione di un messaggio tramite la consegna materiale di.oggetti simbolici; ad esempio tra gli indigeni di Sumatra grani di sale, pepe e betel comunicano il significato simbolico di amore, gelosia ed odio, oppure la piuma di un uccello rappresenta la velocità, come un pesce rappresenta l' annegamento 11 • In generale, pur essendovi una tradizione interpretativa di questi oggetti, che può essere intesa come una convenzione, tali oggetti mantengono un legame immanente, non convenzionale, con il proprio significato. Va osservato come sia essenziale, affinché una cosa assuma il rango di «comunicazione~>, che la cosa in questione perda il suo statuto di utilizzabile, per poter liberare il suo senso ed essere inteso come qualcosa che «vuol dire»: è perciò che tradizionalmente si spediscono fiori, e non utensili domestici perché l'altro intenda la comunicazione di un sentimento: una cosa «inutile» chiama ad intendere, non a fare. 2.2. Grafi puri Un livello ulteriore è costituito dai segni tracciati, ed in primo luogo dai segni «puri», privi di ogni riferimento descrittivo o rappresentativo, come le tacche nel legno, le barrette segnate sulla roccia, i nodi (come i qipu degli Inca) o le perline del rosario 1:!. Questi «grafi puri» costituiscono un Février J.G., Storia universale della scrittura, ECIG, Genova 1992, p. 26. LJ. Gelb, nel suo fondamentale lavoro di studio della scrittura, considera in modo indistinto, i «grafi puri» come tacche e nodi e la perché, nell'atto della lettura, chiave ed 17 Va peraltro ricordato che i sistemi protoelamita, protoindiano, la Lineare A cretese, e le sdtture dell'America precolombiana rimangono ancora in parte o del tutto indecifrate. 18 Février, op. cit., p. 48.

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Scrittura e logica elemento fonetico vengono intesi sinteticamente come il segno di una parola, e non come una- giustapposizione estrinseca, in cui gli elementi vengono valutati separatamente. I logogramrni cinesi non vanno concepiti come prima della stampa. (Eisenstein E., La rivoluzione inavvertita, Mulino, Bologna 1986). 50 Vedi Southern R. W., The Making of the Middk Ages, New Haven 1967, p. 188. 51 Eisenstein, op. cit., p. 125. 49

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Scrittura e logica

Ma accanto, ed al di sopra, di tutti questi elementi sta la semplice rarità dei libri, rarità quasi impensabile per noi, se pensiamo che in pieno xrv se~ colo "la Biblioteca della Sorbona, la più ricca della cristianità, comprendeva solo 338libri d'uso incatenati e 1278 opere registrate, di cui 300 perdu~ te, che erano destinate al prestito. Alla medesima epoca le collezioni degli altri collegi non superavano i 300 libri" 52 • Questa rarità modificava interamente I' atteggiamento nei confronti del testo, che non si presentava come un oggetto di cultura su cui era possibile ritornare a piacere, ma come un contatto, forse unico nella vita dello studioso, con il sapere degli antichi; perciò le tecniche di lettura nel Medioevo erano profondamente diverse da quelle odierne: la lettura silenziosa era quasi assente, mentre per lo più si trattava o di leggere il testo vocalizzandolo a bassa voce (ruminatio) per mandarlo a mente, oppure di una letrura ad alta voce, rivolta ad altri uditori, ed affine alla recitazione liturgica'3 • La vocalizzazione era opportuna non soltanto come aiuto alla memorizzazione, ma in quanto la stessa natura del testo, scritto con scriptura continua, o con una punteggiatura retorico-musi~ cale e non logico-grammaticale, esigeva, per essere inteso, la sua espressio~ ne sonora~ 4 • A rendere ancora più arduo l'uso semplicemente consultativo dei testi stavano la difficoltà, per quasi tutto il Medioevo di prendere appunti estesi (per le carenze endemiche di materiali di scrittura), I' assenza di indici e sommari (difficili da mantenere in copie diverse, con diverso nume~ ro di pagine), e I' arbitrarietà delle catalogazioni bibliotecarie, che non utilizzavano fino al tardo Medioevo un ordine alfabetico, ma ordinamenti dipendenti dalle preferenze dei bibliotecari. Questa breve considerazione della testualità medievale mostra come la scoperta di un sistema di scrittura pienamente fonetico non garantisce di per sé affatto lo sviluppo di un sistema di registrazione delle «idee nuove>> capace di fondare l'accumulo di saperi tipico della scienza occidentale. La pratica di lettura medievale è, per certi versi più affine alla lettura dei lagogrammi cinesi, con la sua rigidità ed ambiguità, che alla lettura dell'alfabeto stampato, e l'atteggiamento conseguente dello studioso verso il sapere non è quello critico, distaccato, del lettore moderno, ma più spesso quello ade~ rente ed empatico proprio delle culture orali. Nel trattare i «grafi semplici» avevamo sospeso la discussione intorno alla scrittura numerica, ma per intendere, come vogliamo, la nascita e la

-strutturazione della concettualità scientifica occidentale è indispensabile un esame, sia pure sommario, del modo di operare dei segni numerici, ed anzi, più radicalmente, è necessario affrontare il problema della costituzione stessa del numero, così come noi oggi lo intendiamo.

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Martin, op. cit., p. 163. Martin, op. cit., pp. 72-3. Martin, op. cit., p. 61.

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3. La scrittura del numero

n primo passo verso la costituzione del numero è la scrittura. nella for~ . ma dei 5 :~. Prima di questo livello troviamo sistemi di , od «ogni», e negativamente >, >), mentre i termini individuali (Socrate) non hanno bisogno di quantificazione, avendo un'estensione determinata a priori. Classico esempio di sillogismo della prima figura è il seguente: Tutti gli uomini sono mortali Socrate è un uomo Dunque, Socrate è mortale

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Il primo giudizio asserisce che I' esser mortale contiene, come caso particolare, tutti gli uomini (insieme a tutti gli altri viventi). II secondo giudizio dice che Socrate è un uomo, cioè appartiene all'insieme di tutti gli uomini. La conclusione può dunque affermare che Socrate, in quanto contenuto del contenuto degli esseri mortali, è contenuto negli esseri mortali. La forma verbale in cui compaiono i termini è importante solo in quanto identifica l'oggetto e lo quaritifica: in luogo del secondo giudizio potremmo dire che «alcuni angeli sono uomini», per concludere che , oppure il soggetto della conclusione con «almeno uno» piuttosto che «alcuni» è logicamente irrilevante, anche se importante nel linguaggio corrente: tutto ciò che conta è l'identificazione categoriale e la quantificazione. Dire «uomini» piuttosto che «esseri umani» o «animali razionali» non ha alcuna importanza, e questo mostra proprio come il sillogismo aristotelico rivendichi, per una esatta formalizzazione, ciò da cui è generato, cioè l'uso di lettere o simboli e non del linguaggio comune, che dà informazioni supplementari inutili e latrici di confusione. La lettera al posto del termine, unita ad un simbolo di quantificazione, rappresenta esattamente proprio la quantità d'informazione che la formalizzazione esige, dice cioè che vi sono cose identiche ad altre, e cose diverse, e che tra queste cose intercorrono rapporti di identità o appartenenza. La quantificazione, sia essa implicita od esplicita, è indispensabile al processo deduttivo 1 ne è l'anima e la ragione sufficiente; notiamo, ora, che nella quantificazione logica non si fa questione di quantità in senso numerico: le determinazioni della quantificazione formale indicano soltanto l'informazione necessaria a discriminare il rapporto di contenente e contenuto, dunque l'individualità, la totalità e la parzialità. La logica, dunque, con la certezza della deduZione, con la possibilità di un procedimento esaustivo a 170 ··~~--·

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partire da un numero finito di premesse (assiomatizzazione), con l'istituzione di identità perfette come modello, pone i termini per una rigorizzazione del ragionamento, dunque per una compiuta scientificità sul piano delle inferenze. Il numero invece di per sé non ha valore logico, e l'unica cosa che lo avvicina alla natura della logica è la sua semplicità, l'indifferenza ai sianificati ~el linguaggio naturale. In assenza o di una logica, o di una compiuta autonomizzazione, il numero può assumere un'individualità qualitativa (come nella scuola pitagorica, o presso i Cinesi), oppure può essere considerato come un'espediente empirico di misurazione. Se ritornia~o per un attimo alla questione lasciata in sospeso circa la natura della matematica indiana, possiamo ora chiarire proficuamente il carattere del rapporto tra logica e numero. In India, avevamo detto esiste una- logica, e almeno a partire dall'vm secolo esiste la numerazione ~he noi utilizziamo, tuttavia la matematica indiana, estremamente avanzata quanto a ~rocedime~ti di calcolo, manca di rigore nella trattazione di molti problemi, tratta gh argomenti non in modo sistematico, ma in forma casistica non distingue tra soluzioni perfette ed approssimate (talvolta anche rozza: mente approssimate): tutto ciò sembrerebbe indicare l'assenza di una loai~iz~azione del numero. Se guardiamo adesso all'effettiva natura della logi~a ~dian~ vedia~o eh~ alcuni caratteri la distinguono da quella greca; pren~lamo 1n considerazione la teoria del sillogismo, cosl come appare nel Nyaya-sutra (u secolo a.C.): il sillogismo indiano consta di cinque termini, che possono essere chiariti utilizzando un tipico esempio scolastico: l) 2) 3) 4)

asserzione: sulla montagna c'è fuoco. motivazione: perché lassù c'è del fumo. esempio: infatti dove c'è il fumo c'è il fuoco come in cucina. applicazione: ora, la montagna ha tale fumo. ' 5) conclusione: dunque c'è del fuoco su di essa74 • . I cinqu: punti del sillogismo indiano possono essere ridotti a tre punti, 1~ modo affme a quello greco, e non è qui che si gioca la loro diversità: essa SI mostra osservando il carattere delle singole affermazioni e del medio in particolare. Ciò che qui chiamiamo sillogismo, ha piuttosto il carattere di semplice teorizzazione di un nesso argomentativo, è la forma esemplare di un'inferenza. II medio, ciò che permette di passare dalla prima proposizione alla seconda, è costituito da un nesso empirico, da un esempio, e non da un termine semplicemente contenuto in una delle premesse e contenente Glasenapp H., La filosofia dell'India,

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Torino 1962, p. 216.

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Scrittura e logica

nell'altra, e questo si vede bene se osserviamo come sia impossibile sostituire i termini connessi con vuote lettere: dire «dove c'è A, c'è B, come in cucina» non ha un grande valore argomentativo. Nel sillogismo indiano, dunque non ha luogo un processo deduttivo, ma soltanto una formalizzazione dell'inferenza segnica. La differenza non sta neppure, come potrebbe apparire, nel fatto che il sillogismo indiano fa riferimento a «fenomeni empirici» (il fatto contingente che sulla montagna ci sia il fumo), perché anche i giudizi posti alla base del sillogismo categorico sono giudizi empirici: dire che «tutti gli uomini sono mortali>>, fatto salvo per la forma di quantificazione, non è meno empirico di dire che sulla montagna c'è il fuoco. Il punto veramente critico sembra dunque essere l'assenza di una netta separazione tra unità formali ed unità di contenuto, con la conseguente assenza di un'inferenza che faccia riferimento soltanto ai rapporti quantitativi tra soggetti e predicati. Questo fatto può essere scorto anche prendendo in considerazione la definizione di contraddizione che troviamo esemplificata nella scuola faina (a partire dal v secolo a.C.): questa definizione afferma che è possibile esprimere una cosa come esistente da un punto di vista e come non esistente da un altro, ma solo una dopo l'altra, e non contemporaneamente7' . Rispetto alla definizione aristotelica quella indiana non fa riferimento al rapporto di appartenenza di un soggetto ed un predicato, non colloca dunque la non contraddizione sul piano logico dei rapporti tra i termini, ma su quello dell'esistenza76 • Siamo da ciò indotti ad una notazione generale circa il senso del termine «logica». La riflessione sul linguaggio che gli indiani compiono, e che li porta, ad esempio, ad elaborare una grammatica (già nel IV secolo, con Pànini), una retorica ed una teoria dell'argomentazione (di cui il sillogismo indiano è parte) può essere chiamata dogica» seguendo il riferimento etimologico: si tratta in effetti di una analisi, consentita dalla scrittura, dell'operare del linguaggio e del pensiero. Ma allora, seguendo questa dicitura, dovremmo dire che nella logica greca sono sedimentati due livelli «logici>>, cioè una teoria del linguaggio (come in India) ed una formalizzazione del linguaggio, peculiare dell'esperienza greca e della scientificità occidentale. Sarà questa seconda a dare i parametri di univocità, esattezza eri-

gore su cui si edificherà il metodo scientifico che contraddistingue il pensiero greco-ellenistico e soprattutto quello europeo moderno.

7. Non-contraddizione e connettivi

Tra i motivi che potrebbero, a nostro avviso, essere addotti quali motivazioni della mancata formalizzazione della logica indiana c'è la differenza netta tra il livello di astrazione dell'alfabeto e quello di un sillabario, ancorché perfetto come quello indiano: i segni sillabici non sono uno schema astratto, dalla cui composizione emerge un pronuncia concreta, ma sono essi stessi direttamente segni di un'emissione sonora, dunque concepirli come pure forme, indipendenti dal contenuto risulta sicuramente più arduo. Vedi inoltre in/ra, pp. 186-8.

NeUa seconda parte di questo lavoro abbiamo già incontrato la matrice prelogica dei principio di non-contraddizione, e l'abbiamo nominata con I' espressione di «principio di disgiunzione», con la consapevolezza che il termine «principio» ha in questo secondo caso più il senso di «inizio» che di «proposizione fondamentale». Ciò che dobbiamo rimarcare a questo punto è la distanza che intercorre tra la disgiunzione e la sua versione formalizzata come principio di non-contraddizione: mentre la prima è la p reco n dizione perché vi sia significazione in generale, e dunque il suo modo di operare è la discriminazione tra i segni, tra rimandi, nel secondo la semplice discriminazione diviene identificazione sostanziale; mentre la disgiunzione tra segni ha nel contesto, nell'intero dei rimandi, la sua realtà, il principio di non-contraddizione pone il centro di gravità e la realtà prima in unità finite e separate dall'intero del mondo. In altri termini la traduzione >. Il passaggio dalle percezioni alle qualità primarie è il passaggio dal principio di disgiunzione al principio di noncontraddizione, ed è per questa sovrapposizione tra il concetto astratto e la realtà concreta che l'astrazione delle qualità primarie può «funzionare>>, senza essere corretta dalla realtà percettiva. L'atto di sostanzializzazione delle disgiunzioni è anche l'atto di nascita dell'universale logico, e della sua opposizione al particolare e all'individuale. Seguendo la stratificazione esposta ~essiamo distinguere schematicamente tre livelli di universalità: in primo luogo ogni risposta reattiva è, in certo modo «universale>>, in quanto risposta ad un segno rilevato, cioè ad un ambito differenziale (un pesce maschio di fronte ad un modello colorato come la femmina in periodo riproduttivo, attua un comportamento riproduttivo). In seconda istanza, però, dobbiamo dire che chi legge l'universalità nel comportamento del pesce è il nostro linguaggio, che istituisce l'universalità in un primo senso proprio. L'universale è allora l'evento analizzabile, cioè il fenomeno che in quanto obiettivato ed identificato dal linguaggio può essere ispezionato nei particolari senza scomparire dall'orizzonte antologico. Il particolare è il particolare del suo univers:ale, esso è la molteplicità interna allo spazio differenziale esposto da un'unità d'azione, ed esiste come particolare soltanto perché è consaputa la sua appartenenza a quell'ambito. A questo livello la singolarità individuale è un concetto che non ha alcun significato. n problema dell'individuazione e della gerarchizzazione tra universali e particolari emerge ad un livello ulteriore, con la scrittura e la sostanzh:r.lizzazione dell' «universale»; infatti il concepimento delle categorie 180

Scrittura e logica come contenitori universali porta a vedere una gerarchia delle entità con universalità decrescente, e ciò spinge a concepire da una parte singolarità individuali esistenti e dall'altra predicati universali, senza possibilità di mediazione in quanto di nature diverse. Ovviamente l'annoso problema di capire come si possa passare dalla percezione di individui alla coscienza di categorie, ?PPUre dall'esistenza ideale di forme universali alla loro terrena individuazione si scioglie come neve al sole una volta che si delegittimi l'atto di sostanzializzazione delle disgiunzioni. Infatti ogni individuo è già sem~ pre un'universale, giacché ogni cosa o è identificata, e allora ha un signifi·Cato che accomuna tutte le sue ripresentazioni (altrimenti, per dire, non potrebbero mai nascere aggettivi come «kantiano»), oppure non è identificata, ma allora non è neppure una determinata individualità. D'altra parte oli universali sono sempre solo universali dei loro particolari, correlati di un~a­ nalisi, antecedenti dei loro successori nel decorso analitico; ed inversamen~e un particolare è particolare del suo universale e può essere universale per particolari ulteriori. L'illegittimità introdotta con la formalizzazione e l'ir~igiclimento categoriale dipende dal fatto che sostanzializzare si intende il parco di concetti e termini (tecnici e non) che sono a disposizione di una cultura scritta, ed in particolare stampata: ''Il grafoletto porta il segno dei milioni d'intelletti che lo hanno usato per condividere le loro conoscenze. In esso è stata inserita una quantità di vocaboli impossibile per una lingua orale" 88 , La disponibilità di termini, ipotesi, obiezioni e modelli Lloyd, La scienza dei greci, op.cit., p. 137. Ong W.]., Oralità e scrittura, Mulino, Bologna 1986. p. 152. Egli ricorda, poco dopo, che i curatori di un dizionario inglese "avevano a disposizione qualcosa come un milione e mezzo di parole usate nell'inglese stampato. Le lingue ed i dialetti orali possono sopravvivere con forse soltanto cinquemila parole, o anche meno". (Ibidem, p. 153). 87

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Scrittura e logica propria del grafoletto stampato poneva le premesse per un uso sistematico della sperimentazione, sia perché divenivano chiare le prospettive in cui la collettività degli studiosi poneva la discussione scientifica, sia perché i risultati della sperimentazione diventavano registrabili con sicurezza, e dunque valeva la pena di sperimentare89 • Alla registrabilità dei saperi, poi, diede un (sottovalutato) contributo la riproducibilità a stampa di disegni, diagrammi, mappe, e simili: per averne un'idea della portata si provi a pensare soltanto a cosa noi effettivamente sapremmo se dovessimo eliminare tutto ciò che abbiamo visto raffigurato nei libri (quanti di noi immaginerebbero un canguro, il sistema circolatorio o una pagoda?) 90 • Ma prima della riproduzione a stampa la corruzione delle espressioni illustrate, delle serie nume~ riche, dei disegni tecnici era la norma, e la possibilità di registrare gli estremi delle condizioni di un esperimento, o le informazioni tecniche capaci di riprodurre strumenti complessi erano estremamente carenti, impedendo di fatto l'accrescimento del sapere in intere branche dello scibile. Abbiamo esaminato, sia pure in modo sintetico, le pratiche che hanno posto le condizioni per lo sviluppo della scientificità occidentale; esse fanno capo. alla scrittura in generale, e alla scrittura alfabetica in particolare, da cui emergono i due capi della formalizzazione logica, con l'istituzione del concetto «corispondentista» di verità, e della registrazione sistematica delle esperienze. Dobbiamo ora gettare un rapido sguardo al contenuto etico implicito in queste genealogie. Con il termine «etica» non menzioniamo alcuna determinazione morale e normativa, ma utilizziamo questa espressione come sinonimo di «pratica», «prassi», salvo che per l'implicita sottolinea tura per cui ogni pratica incarna un senso, un orientamento «interpretativo» te1eo1ogicamente indirizzato (senza che per forza vi ~ia qualcosa come un «fine» al di fuori o al di là della pratica). In quest'ottica vogliamo riconoscere, nella genealogia della scienza finora portata alla luce, un'essenziale nodo etico. Dobbiamo allora chiederci innanzitutto: perché la logica nella scrittura? cosa rende dotata di senso l'introduzione della logica nell'ambito del linguaggio scritto? Con l'introduzione della scrittura alfabetica illinuuaguio b b parlato poteva passare senza sostanziali residui nella scrittura, questo ha di 89 Si rifletta sul fatto che nell'antichità greco-ellenistica, gli stessi esperimenti, ad esempio quelli di Stratone, Erasistrato o Galeno, davano con grande frequenza risultati opposti a diversi sperimentatori, proprio in quanto la descrizione delle condizioni dell'esperimento erano affette costitutivamente da estrema imprecisione. (Cfr. Lloyd, La scienza dei greci, op. ci t., p. 231 e p. 234). 90

Su questo tema si veda l'amplissima e preziosa analisi svolta dalla Eisenstein, nel già citato lavoro sulla rivoluzione dovuta alla stampa.

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Fenomenologia e genealogia della verità fatto comportato un'evoluzione della pratica linguistica in tre punti: l) si è sviluppata un'analisi del linguaggio (una «grammatica») a partire dalla quale 2) si distinguono nel linguaggio stesso, formalizzandone la pratica, usi legit~ timi, meno legittimi ed errati (logica come teoria dell'argomentazione} ed inoltre 3) si pongono gli usi legittimi, come facenti capo ad un metodo uni~ co, rigidamente escludente tutti gli altri (logica, come unità del Vero). La «grammatica» è normativa solo in quanto, registrando il linguaggio, immobilizza tendenzialmente degli usi e pone dei modelli in forma di tradizione «letteraria~>; di per sé, però tale tradizione è una conseguenza implici~ ta in ogni scrittura, ed assume la forma «grammaticale>> solo perché l' alfabeto offre il modo analitico di manipolare lo scritto. Il senso dell'analisi grammaticale, presa a sé, è il senso inerente ad ogni scrittura, ovvero alla scrittu~ ra, e al linguaggio umano in generale: l'autoco1tservarsi nella tradizione, nel linguaggio come soggetto e come intersoggettività. Il linguaggio scritto appartiene ad una tradizione e contribuisce a mantenerla; la regolazione scrit~ ta, grammaticata, funziona come supporto per la conservazione del sogget~ to~mondo, dell'insieme disgiuntivo di unità d'azione in cui ci orientiamo e che presupponiamo per poter sussistere come soggetti. La scrittura si collo~ ca allivello delle attività che possono incidere sulla mediazione, e dunque sulla conservazione della natura di soggetto del soggetto: il senso della scrittura come tale è perciò coestensivo del senso del soggetto, ed il senso del soggetto è l'esistenza del soggetto. Questo significa che non c'è alt~a fondazione di senso cui potremmo attingere: non sappiamo come sia non essere soggetti, né potremmo di diritto immaginarlo, né potremmo mai pensare ad una giustificazione più profonda di quella che fa appello alla conservazione della nostra propria natura e del (suo) senso. Gli altri due punti mirano rispettivamente a distinguere il valore dei discorsi ed a unificare i discorsi validi. Il primo di questi due passi sta a cavallo tra l' oralità e la scrittura: distinguere il valore dei discorsi significa riconoscere il valore di alcuni soggetti, di alcuni modi del linguaggio anziché di altri. Il >, scientifica96 e non97 • Perciò il problema della rottura dell'unità inter9~

Cfr., Havelock E., Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Bari 1973, pp. 161-4.

Oliver R. T., op. cit., p. 51. «Non può essere messo in dubbio che Pànini usava la scrittura per addivenire alla formulazione delle ''regole" della grammatica. Ciononostante, l'istruzione del discepolo cominciava con la memorizzazione di sutra che solo più tardi gli venivano spiegati; il procedimento non è inusuale in talune forme della cultura islamica alletterata ed è presente anche nella nostra, sia pure in forma meno evidente. Per Oliver un buon grammatico imparava e tuttora imp~ra_le opere classiche fondamentali "a memoria, direttamente dal maestro, senza usare manosctlttl o libri". Cionondimeno, un libro esisteva; se necessario vi si poteva fare riferimentm>. (Goody

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soggettiva non si pose mai, se non perifericamente nel mondo indiano, e la necessità di imporre l'assoluta unicità del Vero non fece la sua comparsa. 10. Revisione e sintesi Dalle prime due parti del lavoro abbiamo ereditato la definizione genealogica di alcuni concetti, e precisamente di «soggetto», «oggetto>> e «me· diazione», e poi su questa base, di «realtà» come risposta al linguaggio nel· l'unità d'azione, e di «mondo» come totalità delle unità d'azione (linguaggio). In questa sezione ci siamo mossi alla luce di un evento peculiare, cioè ·la scrittura fonetica e quella alfabetica in particolare, che trasformando in oggetto _il linguaggio vocale, cioè l' obiettivante per eccellenza, si impone coine mediazione di mediazione. Quella alfabetica è però una mediazione ~. con caratteristiche specifiche rispetto alla mediazione linguistica, caratteri· ~ stiche che, orientate dalle condizioni pragmatiche della prima mediazione, , fanno capo ad un genere di concetti qualitativamente diverso rispetto a quelli analizzati in precedenza: i concetti della logica e della scienza. Assumendo come esemplare e determinante dello sviluppo logico ccci· dentale la trattazione aristotelica, abbiamo visto come il nocciolo specifico della logica occidentale stia nel nodo tra sostanza (soggetto), forma e conte· l?_uto. La parola, come sappiamo, governa unità d'azione, o meglio rende azioni le disgiunzioni pragmariche, e così facendo se ne appropria trasfor· mando le pratiche in «significati» (immaginabilità). La scrittura alfabetica delle parole (meglio, delle unità di significato) ne modifica la qualità segnica rendendole facilmente obiettivabili, e la struttura astratta dei segni alfabetici, del tutto privi di significato in sé, ma portatori del significato linguistico, crea l'archetipo della nozione di . {lntplications of Literacy in Traditional China and India, di K. Gough, p. 74; in Goody, Literacy in Traditional Societies, op. cit.). Vedi anche nello stesso saggio pp. 141-2.

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come sinolo di materia e forma, pone il significato tutto dalla parte della forma e riduce il contenuto alla mera esistenza, alla materia come privazio~ ne; la sostanzializzazione dei significati dà una garanzia metafisica alla tra~ ducibilità della realtà nella scrittura: la sostanza è dunque, si può dire, il della scienza occidentale, come programma di trascrivibilità for~ male del mondo. Concepire la realtà ed i suoi significati in modo sostanziale comporta una «quantizzazione» generalizzata, cioè l'istituzione sistematica di unità costanti ogni qualvolta si dia qualcosa di identificabile. Ciò che precategorialmente si dà come differenziazione vivente (prassi dotata di senso), viene afferrato in unità categoriali (con rapporti regolati dalla quantificazione) separate dalla disgiunzione che le pone; in questa traduzione la disgiunzione stessa, ciò che ad un tempo disgiunge e, determinando, fa apparire al mondo, viene scomposta in copula e negazione formali. Copula e negazione sono la trascrizione della disgiunzione: la copula è la pura compresenza sostan~ ziale di soggetto e predicato, mentre la negazione formale è la separazione dell'unità sostanziale dalla presenza, con il conseguente annullamento ditale unità astratta; l'annichilamento è in effetti concepibile solo in un mondo composto da entità irrelate, in cui la separazione dalla relazione d'essere diviene sottrazione di un'unità d'essere. La sostanzializzazione delle relazioni identifica i cosiddetti «principi» del pensiero: il principio d'identità, quello del terzo escluso e quello di non-contraddizione. Il principio d'identità esprime l'essenza della sostanza in generale: in ogni cosa la forma è identica al contenuto, il pensiero è identico all'esistente, in altri termini ogni cosa è più che individuale e può essere definita, tradotta e trascritta. Il principio del «terzo escluso» ribadisce il contenuto del principio d'identità, ma lo fa avendo di vista il modello della verità: non si danno alternative al fatto che due cose siano identiche o non lo siano, perché l'identità non ammette approssimazioni, il contenuto si risolve nella sua definizione, nella sua forma. Il principio di non-contraddizione è poi la sintesi perfetta dell'intero processo di formalizzazione, essendo la formalizzazione della disgiunzione in sé, cioè della differenziazione che fa essere ogni oggettualità. Con la trascrivibilità delle unità d'azione nasce la verità logica, come istituzione di possibilità oggettive. La possibilità passa dallo statuto di operazione possibilizzante, di apertura manifestativa e determinante, a quello di «contenitore assoluto». Notiamo di passaggio come il progetto implicito nella nozione di sostanza si sia sviluppato in epoca moderna nella costruzione metafisica di Descartes, che pone come sostanza non solo la materia, ma anche il pensie-

ro nella sua totalità, rendendolo un predicato della res cogitans: la riduzione . del pensiero che pensa il mondo ad un «peZZO>> di mondo (ad esempio, al . cervello) è l'espulsione dell'infinito, dell'assoluto dalla realtà (l'infinito, co·: me vedremo meglio, si ritrova trasposto nella volontà soggettiva, come mo.. vimento di infinita approssimazione ad una realtà in sé); la volontà che guida questo P,rogetto si mostra chiaramente come tale quando si cerca, contro _ogni sensatezza logica, ancor prima che fenomenica, di trovare un'ulteriore «cosa» che connetta le due sostanze; la teoria della «ghiandola pineale» mostra proprio come la coincidenza tra l'essere e la «cosalità~> venga assunta a priori: se una relazione deve esistere, allora questa relazione tra cose dev'essete a sua volta una cosa.

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Il superamento del progetto metafisica cartesiano è tentato in modo radicale nella concezione dialettica di Hegel. Il principio della dialettica è il principio di contraddizione, esso non è il semplice opposto del principio di non-contraddizione, ma è qualcosa di molto più profondo, che tocca la na..tura originaria della contraddizione logica: il principio hegeliano di contraddizione è in effetti il tentativo di una sintesi della disgiunzione e del principio di non-contraddizione. Respingere la non-contraddizione significherebbe rinunciare all'intelletto (Verstanà), cioè rinunciare all'analisi, alla .scienza, al metodo, ma d'altra parte accettare la sostanzializzazione general~ implicita nella non-contraddizione significa rinunciare al pensiero della totalità, conservando ogni sapere nella sua astrattezza rispetto agli altri saperi ed al mondo: il principio di contraddizione hegeliano cerca di ricond~rr_e tutte le negazioni formali, che definiscono le unità di significato, alla disgiUnzione da cui derivano, la negazione dialettica è dunque il tentativo di scrivere la disgiunzione. Hegel tuttavia non fa alcuna genealogia della mediazione, e ciò comporta un problema strutturale nell'idea di dialettica· infatti ogni passaggio dialettico mette capo ad una sintesi in cui gli op~osti vengono conservati (Au/hebung), ma la conservazione degli elementi nella loro mediatezza da un lato, e la sintesi mediatrice dall'altro fanno riferimento a due modi distinti della mediazione: nel primo caso si tratta delia mediazione astraente della scrittura, mentre la seconda è la mediazione antologica dell'unità d'azione (del linguaggio). Il presupposto della conservazione nel superamento dialettico è -la tradizione scritta, senza di cui ogni sintesi, logica o storica, è semplicemente un terzo elemento qualitativamente nuovo, perciò la dialettica può valere pienamente solo dove c'è storia (histori'a), cioè scrittura: non c'è dialettica nel mondo orientale, non c'è dialettica nel medioevo, non c'è dialettica nel mondo dell' oralità, e, forse, potremmo azzardare che non ci può essere dialettica nel mondo dei mass-me-

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Fenomenologia e genealogia della verità dia, con la sistematica cancellazione del passato nell' «attualità». Non è qui opportuno tentar di approfondire le potenzialità ed i limiti dell'idea di dialettica, va però almeno ricordato un problema capitale implicito nel proget~ to dialettico di Hegel, e che dal nostro punto d'osservazione possiamo valu~ tare al meglio: il progetto hegeliano è quello del superamento di ogni astra~ zione, di ogni alienazione, ma come questo superamento si debba ultimati~ vainente configurare risulta decisamente oscuro, infatti esso da una parte sembrerebbe indicare la necessità di un annullamento dell'oggettività in quanto tale, giacché l'oggetto è la prima è fondamentale alterità, d'altra parte tale annullamento è esplicitamente respinto, costituendo di per sé r annullamento del soggetto e della coscienza. Questa ambiguità è la stessa che si trova nel punto d'arrivo del processo dialettico: esso dovrebbe essere la conciliazione assoluta del pensiero e della realtà, ma tale conciliazione è rappresentata come «sapere assoluto», o come «filosofia», cioè con espres~ sioni che (nonostante l'ambiguità della descrizione del «Sapere assoluto» nella Fenomenologia) rimandano a determinazioni del pensiero. Tale oscuri~ tà è il necessario corrispettivo delr oscurità iniziale nella determinazione della mediazione: infatti, senza aver distinto tra la mediazione che istituì~ sce la coscienza, il soggetto e l'intersoggettività, e la mediazione formale che istituisce la sostanza~cosa e la storia, l'esigenza di sopprimere l'astrazio~ ne (cioè di superare la mediazione formale) diviene assimilabile alla volontà di sopprimere la distanza soggetto~oggetto, cioè la coscienza. In questo senso il superamento ultimo dell'alienazione non può collocarsi sul piano del sapere scritto (filosofia), ma su quello del sapere praticato, cioè dell'azione vitale: Hegel, che pure è tutt'altro che inconsapevole della vera natura della disalienazione (e lo testimoniano tutte le tematiche giovanili, dall'idea di «religione popolate>>, a quella schilleriana di «educazione estetica») non rie~ sce a districarsi tra i due sensi di > e non viene cosl mai in chiaro quanto alla valutazione dell'alterità. L'analisi genetica delle categorie logiche ci ha condotto oltre la soglia che introduce alla scienza occidentale: abbiamo osservato come la trascrivibilità del mondo costituisca il «progetto occulto» implicito nella nc::-ic ìe di «qualità primaria», nel modello atomistico a questa connesso, e nella nozio~ ne di «misura»; contemporaneamente abbiamo visto che la trascrivibilità del mondo con l'ausilio della scrittura alfabetica, della matematica ( = logi~ cizzazione della manipolazione numerica), e dei disegni, il tutto rigorizzato dalla stampa, è la specifica condizione di possibilità dello sviluppo scientifico e tecnico. In un certo senso il fatto di aver limitato .i.a valutazione essen~ zialmente a questi fattori sembra legato ad un assunto storiografico contin-

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Scrittura e logica .. gente, cioè la concomitanza dell'intervento della stampa con quella che generalmente viene nominata come «rivoluzione scientifica» nell'Occidente moderno; perciò non abbiamo preso in considerazione ad esempio tecniche , che stanno a monte della stampa, come la lavorazione dei metalli, o tecni~ che sviluppate in seguito, come la fotografia. Questa trascuratezza non è però arbitra~ia: la so~tolineatura di queste pratiche è legittimata dal loro carattere di «differenza specifica» che definisce l'essenza della tecno~scienza occidentale, e la soglia segnata dalla stampa non è solo empiricamente fon~ , damentale, ma rappresenta anche il vero compimento della formalizzazione alfabetica. La stampa, infatti, idealizza la scrittura alfabetica (in maniera definitiva) ed idealizza anche le tecniche di analisi e misura che ulterior. mente si aggiungeranno: l'alfabeto diviene effettivamente forma infinita~ mente replicabile dei più mutevoli contenuti solo con la stampa, cosl ogni nuova tecnica di registrazione diventerà poi scientifica solo nella misura in cui verrà legata alla stampa, cioè alla scrittura (la fotografia o il filmato sono scientifici solo in quanto analizzati dal testo). Il senso immanente all'evento della scrittura alfabetica e al compimen~ to delle sue potenzialità presenta un doppio volto: l'alfabeto pone l'individualità e la contingenza, l'alfabeto pone la Verità come correttivo dell'individualità e della contingenza. Tali manifestazioni sono opposte e simmetric~e per interna necessità, non sarebbe cioè possibile, che l'alfabeto permet~ tesse l'esibizione «fittizia» di sapere, ma non permettesse una teoria dell' argomentazione: si tratta del recto e del verso di quella pratica unitaria che è la lettura~scrittura (questo, detto di passaggio, non è vero, ad esempio, per il medium televisivo, dove chi produce e chi fruisce non coincidono). Come abbiamo visto il soggetto nasce dal riconoscimento espressivo, che si pone come fonte di senso antologico, e nasce appunto come soggetto, cioè come unità ed identità archetipa, come introiezione dell'Altro, dunque come Linguaggio. L'individualità, il riconoscimento dell'iniziativa e dell'originalità, che viene alla luce grazie alla trasformazione che la pratica alfabetica porta nella pratica originaria, nel linguaggio, produce un'infrazione nell'unità del linguaggio-mondo, nella «tradizione», ma al contempo la medesima «lotta per il riconoscimento» genera le pratiche dipendenti dall'alfabeto (la logica in primis) volte a conservare l'unità di senso, l'unità antologica del ri~ conoscimento. Concludendo questa sezione dobbiamo iniziare a chiarire la nostra stes~ sa collocazione a partire dai risultati raggiunti. La nostra indagine, rivolta ad esporre le condizioni di possibilità della verità, qui della verità logica, è giunta a mostrare come la verità logica nasca proprio come esposizione di

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possibilità, istituzionalizzazione nella scrittura del possibile come verità del reale. La nostra operazione di scavo è dunque pervenuta alle proprie radici e scorge davanti a sé tutta se stessa. La filosofia, in quanto ricerca del Vero, si mostra come da sempre «trascendentale», ben prima di Kant o Husserl: essa è atto di fondazione per cui la possibilità sta sempre più in alto della realtà, e per cui la vera garanzia del reale si ha nel confermarlo come coerente con la sua possibilità. Già, ma come abbiamo fatto ora a dire la verità di questa verità, a dire la condizione di possibilità della possibilità? Il nostro problema sin dall'inizio era: come attingere in modo veritativo alla radice della verità. Non potevamo possederne il criterio in forma di enunciato prima di iniziare l'indagine, perché tale enunciato nient'altro avrebbe potuto essere se non una verità, e ciò avrebbe differito all'infinito l'inizio. Eppure dovevamo in qualche modo sapere come è produrre verità, altrimenti non avremmo potuto neppure farne questione. Ora, con i primi risultati alla mano, possiamo fare un enunciato del nostro praticare la verità. Abbiamo visto, in qualche modo, che la possibilità categoriale e la coerenza logica traggono la loro ragione ultima da un fondo disgiuntivo di operazioni che consente ad un tempo l'orientamento del soggetto nel mondo e la comunicazione tra soggetti. Tale fondo rappresenta l'orizzonte di senso che la verità logica non può trascendere: nessuna logica può essere più scaltra delle operazioni su cui riposa. Ora, questa connessione tra la realtà della logica e la sua possibilità materiale è stata da noi illustrata intrecciando proprio inferenze logiche e verità di fatto. Non si tratta forse di una mostruosità, visto che pretendevamo di andare alla radice di entrambe? Già, ma questo intreccio non è la somma delle sue parti. Infatti noi volevamo attingere ad uno strato più profondo di quello oggettivo (per cui un linguaggio consolidato, logico ed empirico, è già sempre al lavoro), ma dovevamo anche attingervi conservando il riferimento essenziale a tale oggettività e al (nostro) linguaggio-mondo. E un'illustrazione di questo livello non può che constare di una traduzione tra termini oggettivi del nostro mondo, tale da esibire nel passaggio, e attraverso la loro diversità, quell'essenza comune preoggettiva (operativa) per cui necessariamente non esiste una designazione consolidata. In altri termini: 'l'unico modo di esibire quanto ci costituisce come soggetti, su di un piano che non ne riduca la natura a quella degli oggetti risultanti, sta nel ripercorrere le articolazioni oggettive del mondo in quanto nostro ri:tondo unitario, in quanto correlazione universale dell'intersoggettività e della realtà. Se prendiamo ad esempio le argomentazioni di carattere prevalentemente storico dell'ultima sezione troviamo che esse vanno intese come illustrazioni diacroniche, schemi sinottici volti a rendere perspicue

pratiche che noi stessi incarniamo e che ci sono troppo prossime per essere per~epite come tali. Tuttavia esse non sono illustrazioni nel senso di meri supporti rappresentativi, didascalici, ma hanno il loro precipuo valore: l) in quanto pretendono di essere singole «verità», 2) in quanto sono tradotte in e coordinate con altre singole . Tuttavia, perché un fenomeno possa essere considerato puramente empirico esso deve lasciare alternative, deve cioè essere pensabile che le cose stiano diversamente. Il fenomeno dell'uniformità della natura sta al limite estremo dell'empiria, ma non è coglibile nella sua isolatezza incondizionata. Infatti perché si ponga il problema di osservare la natura, di chiedere ragione degli eventi, in generale perché possa esercitarsi un pensiero linguistico con le sue articolazioni è preliminarmente necessario che la relazione tra il soggetto, che vive ed osserva, ed il mondo, sia uniforme e non caotica. E tale uniformità non nomina proprio niente di più di quella necessaria coordinazione che consente ad un soggetto di orientarsi rispetto alla realtà, di avere un mondo, in definitiva di esistere come soggetto. Un mondo che non si trovasse in una situazione di coordinazione con il soggetto non sarebbe affatto un mondo, non sarebbe nulla di pensabile: l' > pratica. Se guardiamo infatti al nostro spazio ambientalmente determinato troviamo che esso possiede un'orientazione precisa, possiede un alto ed un basso, un dietro ed un davanti, una destra ed una sinistra. Queste nozioni non sono affatto uniformi tra di loro, ma sono condizionate da precise 202

Etica della fisica relazicmi pratiche. Per illustrare il carattere di queste difformità possiamo a rispondere alla seguente questione paradossale: perché allo spec·•' !""'u.,.adestra e la sinistra si danno a vedere come invertite, ma non cosll'al·. ,to ed il basso? Senza scomodare, come talvolta si è fatto, misteri celati nella .---·hatura della riflessione, basta comprendere l'essenza dei concetti in causa: \ c1escra e sinistra, come davanti e dietro, sono nozioni propriocettive, menI' alto ~d il basso sono nozioni percettive~ cioè relative non solo alla pra~ica. imrnaJneJnte del soggetto, ma anche alle risposte ambientali a tale pratiCosl, nel guardarsi allo specchio, il carattere dell'immagine viene verifiin due modi differenti per i due ordini di nozioni: l'alto ed il basso soriconosciuti immediatamente nel rapporto soggetto-ambiente (il rasoio :>ca, che è una vis insita) 3 e, nel caso ·..di moti rotatori, forze centrifughe. Lo spazio assoluto perciò considerato neCessario per identificare i moti tt•a, assumendo uno spazio curvato dalla presenza di masse gravitazioal concetto di «geodetica}>8 , elaborato dalle geometrie non euclidee. ' in generale il valore di invarianza misurativa che la fisica classica attrialla distanza spaziale viene sostituito (vedremo in seguito perché) dal,li .ç.ozione di > si intende la determinazione spaziotemporale: .J dx 2 + b.y 2 + b.z 2 -b.t2 , dove b.x, dy e b.z sono distanze tra punti nello spazio tridimensionale e b. t possiamo intenderlo approssimativamente come il tempo necessario per passare con lo sguardo da un punto all'altro. È facile vedere come la retta euclidea sia un caso particolare della separazione, cioè il caso in cui la separazione è massima: se pensiamo ad un segmento di retta individuato sull'asse

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Nella teoria della relatività si fanno i conti in maniera abbastanza radicale con la natura pragmatica del concetto di spazio. Lo spazio newtoniano, come luogo dell'inerzia, che aveva avuto la meglio sullo spazio puramente relazionale di Leibniz, era uno spazio che, per la natura stessa del concetto, possedeva qualità fisiche regolanti i rapporti tra punti materiali; tali rapporti si ritrovarono alla fine dell'SOO ad essere classificati come essenzialmente di tipo gravitazionale o dettromagnetico. Sotto la spinta della critica machiana allo spazio assoluto newtoniano come qualcosa di inesperibile ed ininfluenzabile, che però esercita un influsso sui corpi (come inerzia), alcuni studiosi come "Drude e Abraham [... ]proposero che l'etere, il portatore delle onde elettromagnetiche, venisse identificato con lo spazio assoluto" 10 • Nella concezione newtoniana lo spazio, che pure risultava fondamentale per dar ragione, ad esempio, delle forze centrifughe, non aveva alcun carattere materialmente distintivo, cioè conservava il suo aspetto sostanzialmente «euclidem>; l'attrazione gravitazionale newtoniana si esercitava come un'immediata azione a distanza tra due corpi, e ciò implicava un conflitto frontale con quell'esigenza logica ereditata dal Medioevo, e fatta propria ad esempio da Leibniz, per cui «qualcosa non può agire dove non è» 11 • Ritorneremo nel paragrafo successivo sul problema logico dell'azione a distanza; ciò che conta in ordine alla questione attuale è che lo spazio fisico, per giustificare i moti e le azioni reciproche che in esso avevano luogo, doveva venire caratterizzato in un qualche modo che ne manifestasse la natura congenere con gli eventi materiali. La strada presa tradizionalmente dalla scienza fisica è stata quella, concettualmente simile alla teorizzazione cartesiana della ghiandola pineale 12 , di porre come medio tra cose una cosa terza: questo processo trovò incarnazione nell'abbandono dell'efficacia del «vuoto» (horror vacui) nel '600, e poi nell'SOO nell'introduzione dell'etere. Ancora Galileo parlava della , che fosse perciò plausibile ipotizzare una struttura atomica dell'etere. Lo spazio concepito come etere elastico è precisamente l'incar· nazione della volontà di ridurre l'ambito delle relazioni tra punti materiali ad una modalità dei punti materiali stessi; inoltre esso include in sé il carattere newtoniano di «spazio assoluto», come luogo immoto in rapporto a cui valutare le leggi del movimento, estendendone la validità dai soli moti meccanici a quelli elettromagnetici. Il superamento dell'idea di etere elastico non è, se non per accidente, frutto di «esperimenti cruciali» come quello di Michelson-Morley; esso è, più essenzialmente, il tentativo di risoluzione di un'inconsistenza logica: la vera tenzone ha infatti luogo tra il concetto di spazio assoluto (etere) ed il principio di relatività, o meglio ancora, tra 1' esigenza di universalità, che Einstein traduce come «principio di relatività», ed il concetto di spazio cosl come si era venuto storicamente configurando. Da Newton a Maxwell il processo di fisicizzazione dello spazio euclideo era avvenuto in forma di accumulo accidentale di qualità; lo spazio euclideo puro, sorto come parametro di misurazione dei moti naturali (inerzia), ed attra· verso essi di ogni forma di mutamento fisico, era divenuto gradatamente il «mezzo>> misterioso delle azioni gravitazionali, ed il medio fondamentale dei fenomeni elettromagnetici. Tra queste differenti proprietà non vi era connessione logica, esse erano sorte da differenti pratiche teoriche e dove· vano essere «aggiustate» ogni qualvolta si trovavano ad interagire. Questo processo di «aggiustamento», lungi dal costituire uno scandalo, è un procedime,nto del tutto normale in campo fisico, ma l'esito finale di decenni di critiche ed aggiustamenti fu l'abbandono del concetto di «etere». Se guardiamo alle obiezioni mosse di volta in volta al concetto di etere troviamo difficile ammettere che vi fu qualcosa come una «confutazione» dell'etere; prendiamo ad esempio una delle obiezioni più note e forti: se l'etere fosse un mezzo atto a trasportare onde trasversali alla velocità della luce dovrebbe avere una consistenza sufficientemente elevata da essere rilevabile in

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Fenomenologia e genealogia della verità forma di resistenza al moto dei corpi celesti. Ora quest'obiezione, che già risulta problematica nella misura in cui assume l'onda trasversale elettromagnetica in un'analogia meccanica immotivata con la trasmissione di impulsi laterali in un mezzo materiale resistente, diventa ancora più debole se si guarda non al modello immaginativo, ma alla sua formulazione fisica: la velocità nel mezzo dipende dal rapporto tra la costante elastica e la densità, ora, si è pensato che per ottenere un rapporto sufficientemente elevato da giustificare la velocità della luce bisognasse aumentare il valore della costante elastica, cioè la rigidità del mezzo, ma, ovviamente è altrettanto legittimo pensare di ridurre la densità fino a tendere a zero 13 • Diminuire la densità significherebbe diminuire il rapporto tra la massa e il volume, giungendo a zero per un'unità di volume praticamente privo di massa, ma il volume di cui si parla non è proprio nient'altro che lo spazio di cui dobbiamo discutere le qualità, è il vuoto, o, se ci piace, l'etere. Dunque se l'etere ha la caratteristica di trasmettere le onde alla velocità della luce c, ce l'ha e tanto basta, senza che debbano insorgere problemi di attrito o consistenza o simili. Discorsi analoghi si potrebbero fare (e invero si sono fatti) per le altre obiezioni; pensiamo soltanto all'esperimento «cruciale» di Michelson e Morley (1881, ripetuto nel1887): esso divenne cruciale soltanto due decenni più tardi, con la proposta teorica di Einstein, ma quando fu effettuato venne variamente interpretato, conservando il concetto di etere, ad esempio affermando che la terra trascina con sé l'etere (Michelson) 14 , o che, se l'etere influiva sulle onde elettromagnetiche, doveva influire anche sui rapporti intermolecolari, e dunque era possibile ipotizzare una contrazione delle lunghezze materiali, nella direzione del moto relativo all'etere, proporzionale alla variazione di velocità della luce (Fitzgerald)". L'operazione teorica einsteiniana trae la su~ forza dall'aver compreso (in forma peraltro non perfettamente trasparente) il ruolo comune ai concetti di «parametro di misurazione» e «mezzo». Lo spazio newtoniano traeva la necessità della propria esistenza dall'essere, insieme al tempo, il fondamentale parametro di misurazione dei fenomeni meccanici; il legame sot-

E tic a della fisica terraneo che corre tra questo ruolo dello spazio assoluto e la sua funzione di «mezzo» (della gravità, o dell'elettromagnetismo), è l'essere semplicemente diverse incarnazioni del «medio>> che correla punti materiali. Come abbiamo visto lo spazio, nel suo senso più primitivo, sorge come ambito dell'a~ zione orientata, cioè della disgiunzione ambientale, e si traduce in forma di scrittura logica come ambito di correlazione tra punti materiali; ma il solo ed unico significato dei punti materiali è quello che emerge dai «modi» della loro correlazione, ovvero, nei termini qui elaborati, l'unico significato delle «Cose>> sta nella mediazione che le unisce e distingue ad un tempo 16 • E d'altra parte per i . La «memorim> non costituisce di per sé alcun passato, il quale invece viene definito dal ricordo, cioè dalla memoria «attivata». Il ricordo è «presentificato>> sempre «in-vista·di» qualcosa, mentre la memoria può attivarsi anche in modo «reattivo», come in un «deja vu». Ora, la successione di «stati di coscienza» che pone il tempo dipende sempre da un'azione, da un momento attivo, e si costituisce come >, c'è bisogno che quell'esposizione sia pubblica nella forma dell'obiettivazione scritta. Il nesso tra scrittura e concetto di tempo è profondo (basterebbe pensare al fatto che la storia si costituisce primariamente come historìa, scrittura) e andrebbe esaminato con attenzione ben superiore a quanto possiamo qui fare; notiamo ad ogni modo almeno un fattore essenziale: prendendo, per marcare la differenza, soltanto gli estremi 'della «Storia della scrittura» che abbiamo abbozzato, cioè i «grafi puri» e le scritture fonetiche, vediamo che i primi abbisognano, per scrivere il tempo, di eventi già uni-formati, dunque periodi, o cicli, cui rinviare come ad unità in sé compiute, mentre con le seconde si può accedere ad una scrittura del tempo che segue qualunque successione di stati di coscienza, e dunque ~Ji­ nearizza» nel moto «inerziale» della scrittura stati di coscienza o eventi reali che di per sé sono del tutto privi di un «Carattere lineare» 18 • La linearizzazione verbale è matrice della linearizzazione geometrica, non solo, come visto, sul piano spaziale, ma anche su quello temporale: l'atomicità dell'articolazione alfabetica, che sta a monte della puntualità spaziale in quanto obiettivazione della differenza nel «limite>>, produce la puntualità istantanea del tempo. L'istante infatti è un concetto che acquista un qualche senso soltanto facendo compiutamente astrazione da ogni senso fenomenologico; come più volte notato nella storia del pensiero, alla coscienza non si dà mai nulla come un istante privo di durata, e tale concetto si giustifica proprio soltanto se si guarda alla linearizzazione grafica del processo obiettivante (dellogos), là dove il presente dell'atto di coscienza, disponibile per ogni contenuto, è fermato in un atomo formale privo di caratteri propri, come punto su una linea. Questa considerazione dovrebbe già essere sufficiente a sgombrare il campo da un problema frequentemente discusso nella filosofia della fisica, ovvero la cosiddetta questione della ~~freccia del tempo», che, nelle sue più ragionevoli versioni, suona come una richiesta di spiegazione circa le ragioni dell'anisotropia del tempo. In sostanza, se ci lasciamo ipno-

17 Sul ruolo del senso immanente alle pratiche come si rivela nell'obiettivazione percettiva vedi paragrafo 3, sez. B.

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Vedi a questo proposito le articolate analisi svolte da Sini, in Il tempo e l'esperienza, Unicapii, Milano 1978.

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tizzare dalla lettera «f>> in un'equazione fisica possiamo giungere a chiederci per quale ragione non possa esservi di fatto una realtà che corrisponda senz' altro a -t; possiamo cioè chiederci per quale motivo il tempo dovrebbe sempre andarsene proprio da una parte. Ora, la forma di questa domanda è analoga a quella di chi chiedesse, di fronte al disegno di un capriolo, donde il capriolo vivente tragga la terza dimensione. Ci si dimentica cioè il processo che ha condotto dal fenomeno alla sua scrittura, e di fronte alla scrittura si chiede una ragion sufficiente per una differenza specifica che riguarda la traduzione scritta e non il fenomeno. La ragione di un fatto può essere introdotta solo dove è possibile un fatto differente, ma, a fronte della manipolazione di «t» non abbiamo automaticamente corrispettivi oggettivi possibili; cosa sarebbe infatti un tempo che va a ritroso? Noi possiamo immaginare una sequenza che inverte il suo senso, e questa inversione la possiamo pensare proprio soltanto in quanto riconosciamo in essa comunque un prima ed un dopo, dunque soltanto sulla scorta del tempo primario. L'enigma dell'anisotropia del tempo si fonda su di una posizione di domanda impropria, cui qualunque risposta non può che rendere il cattivo servigio di conservarla in vita. II tempo puro, il tempo in sé e per sé, posto come diverso dal suo ricordo e dal suo racconto, viene al mondo soltanto nella sua pubblica schematizzazione. Se guardiamo al suo pubblico modo di darsi, vediamo che una compiuta istituzione del tempo si ha soltanto con l'istituzione di una classe di eventi «temporizzanti», di «orologi», che possono andare dai cicli lunari, e stagionali, allo spostamento del sole nel cielo, a qualunque processo si svolga in modo «regolare~>. La «periodicità» non è un attributo fondamentale degli eventi «temporizzanti», anche se un periodo uniforme dà delle «unità naturali~> atte ad essere tradotte in segni discreti. Possiamo cosl riesumare la definizione aristotelica di tempo, in quanto «misura, numero del movimento», a patto di tener conto sia dell'ineludibile rapporto con la coscienza di ogni moto, sia del passo astrattivo compiuto nel ridurre ogni forma di «mutamento» a «movimento>> puntualmente descrivibile. Chiediamoci ora: ha senso parlare di «misurazione del tempo»? come ci si garantisce dell'adeguatezza di un «misuratore di tempm>, di un orologio? Appare subito chiaro che , e che quindi dovremmo ricorrere ad un'unità di misura sovraordinata alle nostre unità di misura temporali, ad un super-tempo per valutare la correttezza della loro misurazione, ma per sapere che tale unità sovraordinata è stabile dovremmo ricorrere ad un parametro ulteriore, e cosl ad infinitum. Dunque parlare di «misurazione del tempo» è a rigore insensato: il tempo

non si misura, perché è un misurante sempre in atto. Ma allora dovremmo ammettere che, se il tempo non è misurabile, se non possiamo esporre la correttezza di un modello, ne segue che la costruzione degli «oggetti temporizzanti», degli orologi avviene secondo un metodo arbitrario? Evidentemente questo non risponde a verità, giacché l'accordo collettivo sempre più preciso in ordine alle misure temporali mostra di per sé che un qualche fondamento unitario, e non arbitrario, deve esserci. Questo fondamento, però, non è un fondamento scientifico, ma «etico», cioè legato ad un abito comportamentale dotato di senso. Il modello del «tempo>> è la «regolarità», la , quale non può essere misurata, ma soltanto «posta». La «regolarità» è il nome dèlla coordinazione, di quella coordinazione che, come uniformità della natura, è alla base dell'esistenza del soggetto, e che, come «ricerca della legg~», sta alla radice della Pratica scientifica. Di fatto per «misurare la correttezza» degli orologi si pongono alcuni «oggetti temporizzanti» gli uni accanto agli altri e li si tiene sotto osservazione per un certo periodo: la «precisione» degli orologi è valutata in termini di maggiore o minore coordinazione · tra i rispettivi moti; gli odierni orologi atomici differiscono reciprocamente dopo un anno, di un intervallo valutato, secondo le nostre tradizionali unità di misura, in 6 x l Q· 6 sec. Possiamo dunque dire che la «verità» degli orologi è garantita dalla loro efficacia nel porre e ritrovare delle «costanze», cioè nel soddisfare l'esigenza etica, l'istanza comportamentale e valoriale di possedere uniformità assolute; ciò non toglie che altre esigenze etiche, altre pratiche collettive, possano istituire «tempi» diversi (pensiamo al tempo stagionale dell'agricoltura, legato al tempo atmosferico, e dotato di proprie regolarità). In ambito fisico l'assolutezza del tempo è stata, molto più di quella dello spazio, un capisaldo teorie~ indiscusso sostanzialmente fino all'esposizione einsteiniana del1905. L'impostazione del problema da parte di Einstein coglie perfettamente il noccio_lo essenziale della natura del tempo, cioè la coordinazione, assumendo come compito primario per la definizione fisica di «tempo» la determinazione delle condizioni di «sincronizzazione» tra orologi: per asserire che due processi sono misurati dallo stesso tempo bisogna che i rispettivi «oggetti temporizzanti~> siano sincronizzati. La sincronizzazione, in quanto correlazione tra punti materiali, deve essere posta da una relazione spaziale, intesa, nell'idealità geometrica, come «intemporale». Ma per calare tale relazione dalla pratica geometrica a quella fisica bisogna prendere in considerazione il modo concreto in cui tale relazione si istituisce, e dunque la velocità con cui un'informazione relativa ad un punto materiale giunge all'altro punto; nella pratica di sincronizzazione comune

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l'informazione «simultanea» è data esemplarmente dallo sguardo che abbraccia in un medesimo colpo d'occhio più elementi, più in generale dunque dalla vista, e quindi dalla luce. Quest'ultima, tuttavia ha , fisicamente , una velocità finita, e, secondo le premesse della teoria della relatività, essa è anche la massima velocità raggiungibile da un segnale, dunque il medio ideale per la sincronizzazione. La velocità di trasmissione del segnale è una variabile trascurabile per distanze e velocità reciproche modeste, ma diviene fondamentale quando si tratta di sincronizzare orologi distanti e/o veloci. La teoria della relatività ristretta in sostanza rovescia il rapporto classico di gerarchia tra «velocità» da una parte e spazio e tempo dall'altra: la velocità non è più il rapporto tra determinazioni spaziali e temporali assolute, ma sono lo spazio ed il tempo ad essere misurati tramite un campione assoluto di velocità. A rigore non si può più neppure parlare di «velocità della luce» nel sistema relativistico, giacché la luce è il metro e non il risultato di una misura: la luce, relativisticamente, non misura affatto 299.792,458 km/sec, né alcuna altra velocità 19 , perché queste misure sono ottenute in un modo che la teoria della relatività stessa delegittima, cioè facendo riferimento a parametri di spazio e tempo assolutF0 • Per la luce, come per tutti i moti «misurativi», dovremmo utilizzare piuttosto che > un'espressione di valore soggettivo come . Come noto, dalle trasformazioni di Lorentz adottate nella relatività ristretta, emerge la dipendenza del parametro temporale dalla velocità relativa dei punti tra i quali avviene la sincronizzazione, con una «dilatazione» del «tempo in moto» nella proporzione t0 = t ..J 1 - v 2/è. L'interpretazione, come realistica o come apparente, di questo «rallentamento» degli orologi in moto ad alte velocità è oscillante, e, vista rimportanza per il nostro giudizio antologico di una valutazione della natura del tempo, questa problematicità non può che turbarci. In diversi scienziati, parimenti prestigiosi e dotati di consapevolezza teorica, incontriamo interpretazioni contrastanti; per un Max Born che accoglie un'interpretazione realistica del cosiddetto «paradosso» degli orologi21 , c'è un De

Broglie Per cui il rallentamento temporale è un fenomeno «apparente»22 • Il paradosso degli orologi, reinterpretato anche come «paradosso dei gemelli», può essere riassunto in questi termini: poniamo di far partire un razzo dalla terra con accelerazione sufficiente a fargli raggiungere una velocità sensibilmente prossima alla velocità della luce, poniamo 9/10 c; se sul razzo ed a terra abbiamo due orologi gemelli, sincronizzati prima della partenza, durante il viaggio avremo una perdita della sincronizzazione, tale per cui 1 secondo dell'orologio in moto verrebbe a valere circa 1,38 secondi dell'orologio «fermo» a terra. Se ora il nostro razzo si arresta e ritorna, poniamo sempre alla medesima velocità, il ritardo dell'orologio in moto continua ad accumularsi in modo costante, cosicché, una volta ritornato a terra, esso deve apparire in ritardo, anche se adesso marcia nuovamente con il medesimo ritmo dell'orologio terrestre; se invece di orologi gemelli avessimo avuto fratelli gemelli, il ritardo temporale avrebbe il significato di un maggiore invecchiamento del gemello fermo rispetto a quello in moto. Il paradosso starebbe nel fatto che ambedue i sistemi potrebbero considerare se stessi «fermi» e l'altro in moto, per cui entrambi dovrebbero risultare in anticipo l'uno rispetto all'altro, il che è palesemente contraddittorio. A questo argomento si risponde generalmente che non è alla fin fine legittimo che entrambi si considerino «fermi», perché le trasformazioni di Lorentz, nell'interpretazione di Einstein, valgono solo per sistemi in moto inerziale, e dunque il razzo, che subisce una violenta accelerazione, non può considerare se stesso «fermo»n. Questa controobiezione non coglie però il segno, e non è adatta, come invece si vuole far credere, per mantenere in vita l'interpretazione della dilatazione temporale, giacché, se è vero che il principio di relatività vale soltanto per sistemi inerziali, è anche vero che nelle trasformazioni di Lorentz si fa riferimento esclusivamente alla velocità relativa tra i sistemi e alla costante c: in altri termini, se è ben vero che sul sistema «razzm> si può rilevare una variazione di moto che rivela l'accelerazione del sistema, e si può dunque ammettere di non essere un sistema inerziale, ciò non toglie che l'osservatore posto sul razzo, e collegato con segnali viaggianti a velocità c con l'orologio terrestre, «vede>> a sua volta un rallentamento degli orologi terrestri, anche se poi noi possiamo sempre dire che il suo punto di vista è «illegittimm>. A rendere problematica un'interpretazio-

Cfr., Bridgman P. W., La logica della fisica moderna, Boringhieri, Torino 1984, p. 160. Un sistema per misurare la velocità della luce è ad esempio quello di far passare un raggio di luce attraverso fori equidistanti presenti su di un disco rotante, facendolo riflettere su di uno specchio posto a una distanza fissa, e ritornare verso il disco: la velocità della luce può essere calcolata (non ~) osservando a quale velocità di rotazione corrisponde il passaggio del raggio di ritorno attraverso il foro contiguo a quello di partenza. La velocità della luce è «misurata» in tal caso ponendo come assoluti Io spazio tra i fori, quello tra sorgente e specchio, ed il tempo che misura la velocità angolare del disco. 21 Born M .. La sintesi einsteiniana, Boringhieri, Torino 1969, pp . .304-12. 19

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De Broglie L., l quanti e !a fisica moderna, Einaudi, Torino 1942, p. 91. Vedi anche Reichenbach H., l! significato filosofico della teoria della relatività, in Einstein, Autobiografia filosofica, Einaudi, Torino 1979, p. 181. 2J Vedi ad esempio Sexl R. e Schmidt K., Spaziotempo, Boringhieri, Torino 1980, p. 87; oppure Boro M., op.cit., p . .311. 22

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ne realistica della dilatazione temporale vi sono diverse considerazioni; innanzitutto, bisogna riconoscere che se un tale rallentamento del tempo vi fosse realmente, ciò sarebbe da considerare un puro accidente, quanto al modo in cui è predetto, giacché l'argomentazione relativistica non fa alcun riferimento ad un nesso causale tra variazioni di moto ed effetti materiali sul sistema accelerato, effetti tali da giustificare, ad esempio, un rallentamento del metabolismo del gemello viaggiante. L'effetto di rallentamento dipende esclusivamente dalla differenza di velocità complessiva, e non dall'accelerazione, dunque, per ipotesi, un'accelerazione costante quasi-statica ed un'accelerazione violentissima non avrebbero effetti differenti sui processi del sistema, ai fini della considerazione temporale. Inoltre la misura in cui avviene il rallentamento temporale dipende dalla costante c, che quindi ci appare, nonostante storicamente la sua scelta fosse consapevolmente «convenzionale»2 \ come una costante di natura dotata di particolari qualità occulte influenzanti gli altri moti materiali. Sarebbe inoltre interessante sapere, in quest'ottica, cioè ammesso che la velocità in sé, relativa alla velocità della luce, abbia effetti causali sul tempo, quale sarebbe la veri e propri, cioè al del tempo se riduciamo drasticamente il senso del concetto, in un senso che è poi di fatto quello che si può inferire dalla teoria

Non è difficile, per quanto ci interessa, aggiornare eventualmente questo modello ((di passaggiOl> verso la teoria dei quanti con modelli quantistici più recenti.

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della relatività: il tempo diviene, con una coerenza concettuale mai prima raggiunta dalla fisica, un puro numero dotato di talune valenze operative, ma che, dal punto di vista del contatto con la realtà, è del tutto dipendente dalla rapidità della luce e dalle velocità che essa misura. Il tempo, come coordinazione di azioni, nella teoria della relatività deve essere letto nel complesso dei rapporti tra spazio e tempo: ad un rallentamento ~el >27 •

SVolgiamo, in conclusione di questo paragrafo, alcune brevi considerazioni sul problema della costanza della velocità della luce, e su quello connesso delle ) del percorso, di una quantità proporzionale a (l - tl/t!Y11 , parimenti lo spazio, misurato in secondi-luce da un raggio che ha la stessa velocità, è equivalente ad un tempo che scorre più lentamente, ed è dunque necessariamente più corto in modo direttamente proporzionale ::ù!a dilatazione temporale. La stessa cosa si può concepire considerando che per la misura di una distanza (che è una differenza) c'è bisogno di una valutazione simultanea degli estremi, e la simultaneità propria di una misura locale è sfasata per un sistema in moto. 27 Le verifiche sperimentali di effetti relativistici di cui siamo a conoscenza possono essere ricompresi nei termini della spiegazione qui esposta. Il caso della presenza dci muoni ad un livello dell'atmosfera più basso di quanto compatibile con i tempi di esistenza dei muoni stessi, come provato in laboratorio, può essere compreso se non ci si lascia ipnotizzare dal valore limite della velocità della luce: il fatto che noi non possiamo trasmettere messaggi a velocità superiore a c, implica che non possiamo verificare fisicamente velocità superiori, ma non che esse non possano sussistere. Se ai muoni che giungono nell'atmosfera, qualunque sia la loro velocità, e qualunque sia il moto relativo della terra, viene vietato di superare c, allora l'interpretazione relativistica si impone; ma della loro velocità in sé non sappiamo, né possiamo sapere assolutamente nulla. È il caso di non dimenticare che il senso, correttamente operazionale, della velocità relativistica ha valore in quanto vieta una moltiplicazione di enti immotivabile, un'infrazione del rasoio di Ockham, ma che è un nonsenso verificare una conseguenza dell'assunto metodologico della velocità limite (la dilatazione temporale) passando per un'inferenza che presuppone quel limite con valore ontologico.-Trascuriamo di discutere un'altra molto citata verifica sperimentale, cioè quella dei cosiddetti «orologi aviotrasportati», svolta da

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Hafele e Keating nel1971, giacché tutte le descrizioni che conosciamo dell'esperimento sono troppo lacunose per consentire una sensata discussione di un effetto che implica misurazioni dell'ordine dei nanosecondi e che è infine risultato corretto soltanto per uno dei due orologi. 28 Notiamo di passaggio che esperimenti come quello di Arago, che sembrano dimostrare la costanza della velocità della luce per osservatori dotati di velocità relative alla sorgente diverse, non dimostrano nulla nella prospettiva delle attuali conoscenze sul comportamento della luce. L'esperimento in questione si basa sulla dipendenza della posizione dei fuochi in un telescopio dalla velocità della luce. Ora, i fotoni che provengono dalla prima lente incontrata dal raggio non sono gli «stessi>) fotoni del raggio iniziale, ma sono nuovi fotoni liberati per diffusione dalla lente, dunque, per così dire, sono fotoni che ripartono di bel nuovo con velocità c, e per cui la distanza focale deve rimanere costante.

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Fenomenologia e genealogia della verità no strutture puramente tautologiche. Prendiamo ad esempio il seguente brano di Eddington: Ci si potrebbe domandare se è possibile che qualche cosa abbia una velocità superio· re a quella della luce. Certamente la materia non può raggiungere una velocità supe· riore; ma potrebbero esserci altre cose in natura capaci di farlo. Qualsiasi entità con una velocità superiore a quella della luce potrebbe essere in due luoghi nello stesso tempo. Si può appena notare che è di per sé contraddittorio essere in due luoghi nel· lo stesso tempo 29 •

È chiaro come una volta definita la simultaneità per mezzo della velocità della luce, e trasponendo tale concetto di contemporaneità nella definizione aristotelica della «contraddizione~>, parlare di «entità» più veloci della luce è a priori contraddittorio. Questa contraddittorietà non può in nessun modo es· sere confutata per via empirica, fino a che si utilizzano gli strumenti pratico· teorici elaborati dalla teoria. Se usiamo la velocità c come metro di misurazione possiamo misurare soltanto frazioni di c, mentre una supposta entità viaggiante a velocità superiore potrebbe essere soltanto «inferita» (come si fa in fisica quantistica), ma non mai «misurata», e dunque non potrebbe mai avere «esistenza fisica~/ 0 • Quante alle presunte «verifiche» dell'impossibilità di raggiungere velocità superiori a c effettuate nei sincrotroni è appena il caso di notare come le particelle di prova vengano accelerate con impulsi provenienti da serie sincronizzate di magneti, con impulsi dunque che producono i loro effetti con una velocità finita ben determinata, e precisamente c! Pensare che una particella in un sincrotrone possa raggiungere una velocità superiore a quella della luce semplicemente aumentando le forze magnetiche in causa è come pensare di muovere un auto ad una velocità superiore a quella massima di un essere umano aumentando il numero di uomini che la spingono. Il problema della costanza della velocità della luce riemerge in occasione della considerazione gravitazionale di essa. Non possiamo qui approfon· dire questo punto, ci limitiamo dunque ad alcune osservazioni essenziali, per mostrare l'unità dei temi del moto e del tempo anche negli sviluppi della relatività generale; in questa elaborazione c viene conservata come costante, anche in presenza di fenomeni come la distorsione gravitazionale del raggio. Come noto, il fatto che la luce subisca un effetto di curvatura gravitazionale implicherebbe, adottando una concettualità classica, una va·

Etica della fisica riaziOne del vettore velocità, un'accelerazione, ma adottando la strutturazione dello spazio propria della relatività generale, cioè considerando unitariamente il moto inerziale e quello gravitazionale, si può mantenere il valore costante di c, che rimane il prototipo dell'inerzialità (moto «rettilineo uniforme»). Quando però si vuole utilizzare la costanza di c per sostenere tesi fondative della teoria, come il rallentamento temporale in presenza di campi gravitazionali, bisogna mantenere una certa diffidenza; ad ogni modo, il fatto che in presenza di certe forze, come la gravità, si possa dare l'effetto di un «rallentamento>> dei moti (non del «tempo») è, da un punto di vista strettamente fisico, molto meno bizzarro di quanto non sia il «rallentamento>> della relatività ristretta. Resta ovviamente ferma l'osservazione che quanto viene > della scienza, del suo senso come rappresentazione della realtà. 2. Materia ed energia 2.1. Corpi ed azione reciproca L'origine della nozione di }, che è immediatamente deducibile dai valori del tempo e della lunghezza ottenuti con le trasformazioni di Lorentz.

Il fatto che i segnali provenienti da una sorgente posta in un campo gravitazionale più forte manifestino un rallentamento della frequenza è interpretato come un >, bisogna sacrificare alcuni presupposti della prima pratica, e precisamente bisogna ammettere la non-formalità dello spazio (vedi paragrafo precedente), ovvero, dal punto di vista della materia, bisogna introdurre lo >, la «distanza», o il > tra enti (non «atomi>>). Un'azione o è a distanza o non è, nel senso che è l'azione a porre «distanze», e d'altra parte non vi sono «parti» di materia al di fuori delle reazioni ad interazioni.

tatto cbl suolo, ed in questo modo, certo modificando la natura del fenomeno .originario, possiamo universalizzare il concetto di > in tempi «uguali». Sappiamo però che per costruire lo spazio ed il tempo che danno la misura alla velocità abbiamo bisogno di fare delle astrazioni da moti giudicati , e che dunque l'uniformità del moto inerziale è in definitiva la misura di se stessa. L'evidente struttura «tautologica» della prima «legge del moto» non deve affatto portare a concludere per la sua «inutilità», od «ovvietà~>: le «tautologie materiali» poste dalla pratica scientifica sono tautologie in/onnative; esse hanno valenza logico-operativa, istituiscono (o espongono) i nessi tra i concetti, le disgiunzioni unificanti, ed ogni atto di disgiunzione è soglia di un'unità d'azione fondata su comportamenti ambientali, che di per sé non sono né «fisici>>, né «mentali», né a priori, né a posteriori. Guardando al secondo principio della dinamica facciamo un passo avanti nelle operazioni di codefinizione, cioè diamo rappresentazione alla «misura» dei rapporti tra i concetti. Questo principio afferma che una forza applicata ad un corpo imprime ad esso un'accelerazione direttamente proporzionale alla forza stessa e inversamente proporzionale alla massa del corpd6. Sappiamo già che con e «azioni». Nonostante la convinzione di Newton, nell'elaborare le >. Prendiamo ad esempio il primo principio in una sua formulazione classica: "Un corpo su cui non intervenga alcuna forza tende a permanere nella sua condizione di stato o moto rettilineo uniforme". Questa proposizione che, apparentemente, descrive un fenomeno empirico di grande generalità, rappresenta in effetti una codefinizione dei concetti di corpo, forza e moto rettilineo unifonne. Cos'è un corpo fisico? È una «COSa» la cui dinamica caratteristica è rappresentata dall'assenza di «automovimento», cioè dalla necessità, per variare la propria condizione di stato o moto rettilineo uniforme, di un intervento esterno, dell'applicazione di una «forza». In questo senso un capriolo non è un corpo, né lo è un razzo, né un atomo instabile; tuttavia, sotto opportune condizioni, nei limiti delle capacità operative, possiamo sempre selezionare in ogni soggetto le caratteristiche identificative della corporeità, l'inerzia: possiamo uccidere il capriolo, o fare astrazione dalle sue variazioni di moto valutandone semplicemente un istante in assenza di conCfr. Jammer, Storia del concetto di forza, Feltrinelli, Milano 1971, p. 137; e dello stesso autore nella citata Storia del concetto di spazio, p. 87.

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In simboli, astraendo dai segni di differenziale, il principio è trascrivibile come F "' k · m · a, dove b costante di proporzionalità «k» può essere posta eguale a l e con ciò eliminata.

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Fenomenologia e genealogia della verità Per chiarire il rapporto tra forza e massa inerziale dobbiamo passare per una spiegazione del terzo principio, prima di ritornare al secondo; il terzo principio della dinamica asserisce che ad ogni forza applicata, ad ogni azione, corrisponde una reazione eguale e contraria. Qui il rapporto tra forza e massa è un rapporto tra due forze: lavis impressa, cioè la forza in senso pro· prio, e la vis insita, cioè la forza reattiva che emerge in presenza di una vis impressa. Che tra le due forze sussista una proporzionalità diretta è un puro truismo: se applico una forza l'applicazione è una corrispondenza, che solo per astrazione posso scindere in un agente e un agito, una forza e una mas· sa, necessariamente proporzionali perché sono il medesimo evento visto sotto due rispetti. Per misurare la forza con la massa o la massa con la forza devo utilizzare un metro stabile, e cioè, newtonianamente, Io spazio ed il tempo assoluti, utilizzati per osservare le accelerazioni, cioè le variazioni di velocità, cioè le variazioni delle variazioni di spazio nel tempo (la derivata seconda della legge oraria del moto). D'altro canto, per disgiungere operativamente i concetti correlativi di forza e massa, devo dare incarnazione ad una pratica per scindere forza-massa misurante e forza-massa misurata; questa incarnazione è rappresentata storicamente dalla «molla», sulle cui virtù si basano gli strumenti di misura effettivi come il dinamometro o l'o· scillatore inerziale. Nella molla ci si concentra sulla deformazione elastica di un corpo, tarato spazialmente, cioè si obiettiva, rendendolo visibile macroscopicamente, quel momento di azione reciproca necessariamente presente in ogni urto elastico. Coslla taratura della molla pone nella molla la «forza», l'agente-misurante, e nel corpo apposto all'estremità non vincolata la massa, il misurato 37 • A questo punto possiamo definire operativamente la massa attraverso il periodo di oscillazione di un'oscillatore inerziale, oppure il peso come deformazione statica di un dinamometro. In questo modo forza e massa sono ricondotti rispettivamente alla misura spaziale della deformazione elastica della molla, e alla misura spazio temporale dell'accelerazione, (o temporale del periodo di oscillazione), e la loro unità originaria viene scissa da queste due pratiche di misurazione interdipendenti. Questa distinzione è coerente con il progetto originario dell'istituzione della «Cosalità>> fisica, dall'atomismo greco alla res exstensa cartesiana. Se però ora osserviamo partitamente i due concetti di forza e massa vediamo che la loro

E tic a della fisica code terminazione istituisce piani di misurazione divergenti. In primo luogo la forza, una volta , essa non può che venire stravolta nel suo senso: quanto al suo lato «attuale~> la forza diviene nient'altro che il suo effetto, ovvero la misura del suo effetto (l'accelerazione di un corpo); quanto al suo Iato «passivo», reattivo, essa si è trasposta compiutamente nel concetto di massa; quanto infine ad una sua considerazione >, 14/15, Nov. '96-Apr. '97, pp.

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209-230.

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Einstein A., Autobiografia scientifica, Einaudi, Torino 1979, p. 209. Ibidem, pp. 214-5.

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Fenomenologia e genealogia della verità Come però già da noi acquisito, l'esistenza ha in sé il carattere della corrispondenza ad un'unità d'azione57 , dal che consegue che la pura individualità oggettiva è un'astrazione, e che ogni realtà effettuale ha già sempre carattere universale' 8 , non individuale. In particolare, ogni sistema che abbia esistenza fisica è così poco individuale da poter essere «nella sostanza~> replicato, da poter essere misurato e rirnisurato, e da essere tradotto in un co· dice fisso che ne consente la riproduzione. La più univoca e diretta delle misurazioni, ad esempio quella di una lunghezza con un regolo rigido, non fa che porre come fisicamente esistente ciò che corrisponde al codice prefissato del metro, costruendo così, automaticamente, un insieme ideale di in· sierni equivalenti: per il metro non sono reali né il colore, né la temperatura, né le asperità del misurato. Ciò che ha esistenza fisica in generale è ciò che può venire introdotto in equazioni differenziali, ed in tal modo determinato puntualmente, con grado arbitrario di precisione. È così che possono nascere bizzarrie come, ad esempio, il concetto di tra due estremi ma investito di senso dalla sua traduzione matematica, che ne permette 1~ determinazione per un intervallo di tempo idealmente tendente a zero. Ciò che Einstein, equivocamente, chiama «situazione individuale>>, o «sistema singolo» è di fatto solo «ideologicamente» una pura individualità, mentre in realtà incarna l'infinita determinabilità, cioè, in senso logico, non l'individuale ma il particolare, ovvero ciò che può essere ottenuto analizzando in parti il tutto costituito da un oggetto fisico. La «situazione individuale>> di cui si parla è quella ideale in cui un oggetto è identificato e tenuto fermo n:I~a. di:p.oni~ilità per esami ulteriori, tendenti alla conoscenza puntuale, c1oe mfm1tes1ma, senza che né l'identificazione, né l'ulteriore analisi interf~risca~~ co~ la na.tura in sé dell'oggetto. Ovviamente, come sappiamo, già l IdentificaziOne d1 qualcosa come un «oggetto>> è un'interferenza che toglie la natura dal suo ideale «in sé», e parimenti ogni misurazione, in quanto traduzione in un codice coerente connesso ad una teoria della datità ogaettuaIe, è un'interferenza che sopprime ogni «indipendenZa» ideale deli'o;oetto. Ma più di tutte è invadente l'interferenza data dalla costruzione dell; condizioni sperimentali ideali, in cui viene accolto come fenomeno soltanto ciò che segue una linea causale univoca; ad esempio, vengono legittimati come Vedi sezione B, paragrafo l. Vedi sezione C, paragrafo 8.

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Etica della fisica corpi in una teoria degli urti solo i corpi che si comportano «bene» rispetto al terzo principio della dinamica, cioè corpi con una simmetria azione~rea~ zione, corpi idealmente lisci e sferici, privi di relazioni magnetiche, privi di attriti esterni e interni, idealmente elastici, possibilmente del medesimo materiale: uno schiaffo schivato non è un esempio legittimo di «azione-reazione», un colpo di pistola nella sabbia è già un esempio migliore, l'urto tra due biglie può essere accolto come ottima approssimazione di quella realtà prima della realtà che è l'urto ideale tra corpi elastici. Questo processo di selezione delle condizioni ideali è continuo, ed imprescindibile nella misurazione e sperimentazione: nella meccanica dei fluidi si ragiona con liquidi ideali, incomprimibili e privi di attriti interni, in termodinamica con gas ideali, molto rarefatti, per variazioni «quasi·statiche» di pressione, temperatura, o volume; e via discorrendo. Questo procedimento non solo è utile, ma costituisce l'essenza stessa dell'individuazione fisica: la misurazione, cioè la determinazione da cui dipende ogni predizione «deterministica», è tanto più precisa e puntuale, quanto più si sottrae alrindividualità dei fenomeni. In questo procedimento di isolamento ideale dell'entità fisica si fa astrazione: a) dalle forze che non è possibile far rientrare nello schema misurativo, cioè da interazioni accidentali, ed in generale da ciò che viene chiamato attrito; b) dagli errori di misurazione. L'attrito è un concetto esemplare per la sua funzione nella costruzione della determinazione fisica: esso è un concetto puramente negativo, privo di una definizione univoca che non sia il riferimento difettivo all'incapacità di dare una determinazione ad alcune forze: l'attrito è insomma il «concetto di scarto~>. D'altra parte gli errori di misura vengono elisi con la ripetizione degli atti misurativi, in quanto si assume che i fattori «volontari» nell'atto sperimentale permanga· no, mentre i fattori «involontarh>, cioè gli errori, in quanto casuali, si elidano con il tendere ad infinito delle prove. Dunque l'oggetto fisico si ottiene solo costruendo un sistema di identificazione che ottenga una risposta misurativa sospendendo nei limiti del possibile gli attriti e le interazioni fisiche allotrie, ed eliminando gli eventuali errori di misurazione. In altri termini la determinazione fisica è ottenuta attraverso una complessa opera di isolamento e rilevazione, che viene in seguito rimossa dal senso ultimo delia misurazione: questa ci dà soltanto un esito univoco, che è il risultato sem· plice di un'interazione complessa. Il sistema di misura, che tenta di sospen· dere le interazioni del sistema fisico circostante, con le sue accidentali influenze, si mostra come un sistema necessariamente interattivo a sua volta, e questo è proprio quanto emerge nei problemi dell'lndeterminazione quan~ tistica, dove il sistema di osservazione incide sul fenomeno osservato in un 249

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Fenomenologia e genealogia della verità modo che contraddice le pratiche di isolamento del sistema. Il principio di indeterminazione, e la funzione d'onda, nel suo senso «probabilistico» sono semplicemente indici dell'ingresso nella fisica di una consapevolezza pragmatico-concettuale obbligata circa il nesso inscindibile tra pratiche di misurazione e risultati «individuali». 3.2. Caso e probabilità L'accezione «probabilistica» di cui sopra non indica una supposta «probabilità individuale» in contrapposizione alla probabilità classica riferita ad insiemi di elementi~ 9 , poiché non vi è alcuna distinzione di principio tra «elementi>> fisici ed insiemi: ogni «elemento», se consente un'indagine sulle sue parti, è anche un insieme, ed ogni insieme, in quanto determinato, cioè in quanto corrispondente ad una misurazione, è un «individum>60 • L'insieme delle particelle di un gas e delle loro possibili interazioni è esattamente come l'insieme delle possibili traiettorie di una «particella» (di una concentrazione di energia) in un'onda: si tratta sempre di analisi di un sistema in cui non si può fare astrazione dalle interazioni degli elementi, in cui cioè l'operazione di isolamento non è possibile. Nel secondo caso tuttavia la mediazione tra gli individui si colloca tra osservatore e oggetto, e la misurazione dà conto degli stati possibili del sistema in rapporto all'osservatore, mentre nel primo caso si ha a che fare con interazioni tra individui del sistema, e la misurazione dà conto degli stati possibili del sistema in rapporto alle relazioni reciproche tra tali individui. In un sistema in cui si ammette di poter far riferimento ad individui perfettamente determinati, cioè in cui tutte le interazioni tra gli elementi possono essere controllate, è possibile istituire nessi causali necessari: si seleziona un insieme di fattori rilevanti di tipo «inerziale», cioè uniforme, costante, si crea un'asimmetria nel sistema, modificando la condizione , e dar ragione delle apparenti bizzarrie legate al suo uso in rapporto a problemi di predizione causale 61 • Il caso fisico è una regola molto rigida. Esso rappresenta la regola della negazione di regole rilevabili. Il caso non è da confondere con il «caos» assoluto: mentre nel «caos» non sussistono fattori definibili, cd ogni elemento potrebbe venir meno, o trasformarsi in un elemento differente, nel «caso» si identifica un numero definito di 61 Vedi ad esempio in Boro M., Filosofia naturale della casualità e del caso, Boringhieri, Torino 1962: "Siamo di fronte ad una situazione paradossale: gli eventi osservabili obbediscono alle leggi del caso; mola probabilità per questi stessi eventi si manifesta secondo leggi che sono, in tutti i loro caratteri sostanziali, leggi causali", p. 1.31.

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fattori rilevanti disgiunti (ad esempio numero e quantità di moto delle parM ticelle di un gas, o parametri caratteristici di un'onda) e l'accidentalità in M terviene nelle codeterminazioni tra questi fattori, che vengono considerati come capaci di agire in tutti i modi possibili, cioè in maniera equiprobabile. Chiaramente anche tale accidentalità è soltanto apparente, in quanto incar~ na una norma, cioè appunto l'imposizione dell'equiprobabilità. Il dibattito sulla definizione di in rapporto al suo uso scientifico può fornirci una prospettiva interessante sulla nozione fisica di «caso». Consideriamo particolarmente rilevante il dissidio tra la concezione «classica>> e quella «frequentista>> della probabilità: la probabilità classica, laplaciana, è definita come il numero dei casi > il fatto che x semplicemente accada, e d'altra parte x non può accadere al 90%. In realtà la distinzione tra probabilità classica e probabilità frequentista è più apparente che reale. Ciò che conta in entrambe è la selezione degli eventi possibili, posta al denominatore: la selezione dei «dati rilevanti>> è

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l'individuazione di quei fattori la cui presenza concorre ad un aumento del~ la frequenza del predicato; essi ràppresentano lo sfondo definito di possibili su cui le occorrenze variano. Mentre per la versione frequentista tale selezione è immediatamente evidente, per la versione Iaplaciana essa compare in forma camuffata. Apparentemente sembra un dato a priori che un dado regolare a sei faccie abbia un sesto di probabilità per faccia, ma, chiaramente, per costruire il dado e per verificarne la regolarità si è dovuto procedere inizialmente con un'analisi induttiva, frequentista, che confermava con la ripetizione la rilevanza esclusiva delle sei faccie per la frequenza di comparsa di ciascuna di esse. Nel caso del dado la comparsa del 6 è determinata dall'assenza degli altri cinque numeri a cui il6 è vincolato, mentre ogni al~ tra accidentale, come l'impulso della mano o l'attrito della superfi~ de su cui cade, non essendo indirizzabili, tendono ad annullarsi con l' au~ mentare del numero dei lanci. Se il dado fosse costituito da una piramide tronca le frequenze relative sarebbero differenti, ma l'uscita di una faccia sarebbe sempre determinata soltanto dall'assenza delle altre. Il dado normale viene costruito avendo di mira l'equiprobabilità di ognuna delle possibilità, cioè una frequenza relativa identica per ciascuna faccia. II nesso tra casualità e causalità diventa chiaro non appena si intende la funzione della selezione dei dati rilevanti nel processo di induzione, che è quanto a dire nel processo di inferenza probabilistica. Si è soliti concepire l'induzione come la generalizzazione di un regolare concorso di eventi regi~ strato in un numero finito di casi. A tale processo è stato obiettato humea~ namente che il concorso regolare di elementi disgiunti non può essere interpretato legittimamente come il sussistere obiettivo di un nesso causale, e che dunque al ripresentarsi di una medesima successione di elementi non vi è alcun incremento della predicibilità di una sequenza sulla scorta dell'andamento passato. Ma allora dobbiamo chiederci più direttamente: cos'è un nesso causale? Nel fenomeno della causalità, come la tradizione empirista ci ricorda, non c'è nulla di più di quanto ci sia nella successione regolare di elementi, magari contigui. Possiamo allora forse dire, con J.S. Mill, che le inferenze induttive sono giustificate dall'uniformità della natura, e che però, inversamente, veniamo a sapere dell'uniformità della natura per induzione? Guardando meglio la natura del nesso causale necessario, cioè esem~ plare, dovremmo trovare un approccio più produttivo alla questione: se noi osserviamo (misuriamo) un evento, ad esempio l'accelerazione di una palla, o la lunghezza di un tavolo, notiamo che esso può essere considerato tanto come evento singolo che come un sistema di eventi: in genere, se la misura non varia, e se non ho intenzioni più analitiche, trascuro la possibilità di

considerare l'evento come un sistema di eventi singoli. Ma un singolo evento può sempre essere inteso come un nesso causale necessario tra le sue parti: ad esempio posso scomporre l'accelerazione della palla nell'accelerazione dell'emisfero A e nella conseguente accelerazione dell'emisfero B, inten~ dendo A come causa necessaria di B. Parimenti posso procedere in senso contrario, concependo un nesso necessario (purché sia davvero tale) come un singolo evento. Ora però il concetto di «nesso causale necessario» si mostra propriamente come· contradictio in tenninis: se, infatti, gli estremi del nesso fossero indistinguibili, allora non sarebbero due e non avremo alcun nesso, se invece gli estremi del nesso sono distinguibili, cioè tra di essi vige una relazione, allora, o la relazione sussiste come codefinizione intemporale, oppure è sempre di principio possibile togliere il nesso, conservando l'identità degli estremi: in altri termini, se c'è un nesso non può esservi assoluta necessità, e se c'è necessità non c'è un nesso, ma un'identità. Emerge qui la derivazione del concetto di «causa necessaria» dalla formalizzazione del linguaggio istituito dalla logica: come abbiamo già visto la necessità lo~ gica sorge come deduzione, cioè originariamente come deduzione di un contenuto da una forma a partire dalla scissione della parola in forma e con~ tenutd 2; in questo senso la causa necessaria rappresenta l'ideale traduzione dell'identità sostanziale di premesse e conseguenze sul piano empirico (causa aequat effectum). Questa genealogia del nesso causale ci mette sulla strada per intendere il rapporto tra causalità, induzione ed uniformità. Quando si descrive l'induzione come fondata sull'uniforme susseguirsi di elementi disgiunti, o quando si concepisce l'uniformità della natura, in con· trapposizione alla causalità, come un indifferente concorso di singolarità, si fa esercizio di cattiva fenomenologia. Questa modalità di descrizione dei fenomeni nel senso di «atomi percettivÌ>> è vittima inconsapevole della· tra~ dizione di pensiero greca, riletta su di uno sfondo newtoniano, e non mo~ stra quella che è la tacita essenza delle disgiunzioni concettuali, delle artico~ lazioni. Resta nascosto il fatto che l'uniformità di cui si parla è l'uniformità della natura, cioè del mondo, unitariamente inteso, cioè ancora, di un siste~ ma. I fenomeni non appartiene nulla di più dell'equivalenza di due fenomeni disgiunti in concorso regolare è vero assumendo che «feno~ meno» = o «finale» o > di Gauss, descrivendo con precisione sempre crescente il rapporto di frequenza previsto dalla selezione dei dati pertinenti. Per il successo di questa previsione sono importanti due aspetti: da un lato ci dev'essere un'accurata selezione dei dati, tale per cui, se compaiono una giraffa od un bradipo, tali eventi non vengano inclusi tra le occorrenze pertinenti; d'altra parte ai rapporti di determinazione si richiede tutta la «rigidità» del modello causale, cioè è necessario che i fattori in causa siano colti come identici a se stessi, disgiunti ed isolati, e dunque non possano modificare il loro modo di interagire: le persone non devono interagire con l'osservatore (ad esempio cambiando strada quando si sentono troppo basse), né devono interagire tra di loro a prescindere dall'osservatore (ad esempio decidendo di far passeggiare solo le persone di una certa statura) 64 •

Vedi sez. A, paragrafo 5, e sez. B, paragrafo 5.

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64 Questo problema è visibile sul piano fisico nell'utilizzo di diverse «statistiche)>, a seconda della natura dei «dati rilevanti)>, che possono interagire anche in modo diverso dalla pura equiprobabilità. Così, se per i gas, intesi come composti di particelle distinguibili è possibile adottare una statistica molto >6' , e l'atomismo ne dà l'incarnazione più completa. In seguito, come noto, la preminenza del concetto di «materia» si è ridotto a favore del concetto di «energi~», e la conservazione della «Sostanza» fisica è divenuta «conservazione dell'energia». Come il concetto di , o «errori di misurazione», quegli errori di cui la quotidianità scientifica è tutt'altro che povera. Questa eliminazione è coerente con il senso stesso della scienza fisica, ed incarna negativamente ciò che positivamente appare come I' esigenza di «computabilità» degli eventi fisici. In altri termini il principio di conservazione delI' energia, ma più in generale tutti i principi di conservazione, sono il presupposto teorico che legittima l'uso di «equazioni>>, di eguaglianze tra distinte entità fisiche, tra distinte misurazioni. Per ottenere letteralmente ogni risultato fisico, dalle misurazioni semplici a quelle più indirette, è necessario far riferimento a sistemi di dati che non mutano, né vanno disper-

E tic a della fisica si, ma possono essere ordinatamente computati. In quest'ottica la storia, che qui non possiamo seguire nei particolari, dell'evoluzione dei concetti «termici» è esemplare: quando Joule istituisce un'equivalenza rigorosa tra moti meccanici e misurazione def calore, egli costruisce un medio di traduzione tra due codici di misurazione distinti, che permette di imporre anche al concetto più sfuggente, cioè al calore, le briglie dell'individuazione mec· canica. Il calore era, infatti, il concetto più difficile da obiettivare, e la sua collocazione era comune a quella del concetto di attrito, in quanto «forza» negativa, «scarto>> meccanico. Già l'introduzione del termometro aveva sottratto il calore alla sua collocazione ~, e dunque che il loro singolare annichilimento non comporti alcuna infrazione ad una qualche «conservazione»: la tras/onnazione reciproca è l'identità della loro sostanza. Bisogna ora osservare che l'affermazione della conservazione dell'ener~ gia di un sistema, vista in senso «Sostanziale» è priva di significato: noi infatti non siamo mai in grado di stabilire I' entità della ~> particolari, cioè a relazioni in cui si manifesta una «differenza» di energia. Non si può parlare dell'energia totale del sistema senza specificare come tale energia è stata messa in rilievo, poiché l'energia si manifesta soltanto nella differenza tra un potenziale ed un effetto concreto, che è il solo a poter ess_ere misurato; in altri termini, per poter parlare legittimamente dell'energia totale di un sistema dovremmo poter determinare ogni riserva di energia potenziale di

ticelle indistinguibili, come nel caso dei fotoni, utilizziamo la statistica di Base-Einstein, mentre per gli elettroni, in dipendenza dai principio di esclusione di Pauli, utilizziamo la statistica di Fermi-Dirac. In tutti questi casi la probabilità si adegua ai tipo di uniformità registrata. M Vedi nella sez. C, paragrafi 4 e 5.

Il primo principio è formulato come: d Q "' dU + dW, dove dQ indica, per un cambiamento infinitesimo, la quantità di calore comunicata ad un corpo, dU è l'energia dd corpo, cioè la somma del calore libero e del calore consumato in lavoro interno al corpo, e dW è il lavoro esterno fatto dai corpo (misurato in unità di misura compatibili, cioè in unità di calore). La sostanza del principio è quella di indicare un'equivalenza tra la quantità di calore ed .il lavoro esterno; è invece operativamente scorretta l'interpretazione del principio che pone a soggetto la variazione di energia interna dU, perché non c'è modo di conoscere dU in quanto tale. a'presdndere dalla sua funzi9ne di medio tra dQ e dW. Vedi a questo proposito la lucida critica di Bridgman P.W., in La logica della fisica moderna, Boringhieri, Torino 1984, pp. 133-4.

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Fenomenologia e genealogia della verità

E tic a della fisica

tale sistema, ma l'energia potenziale può essere esposta soltanto mettendola in atto nella relazione positiva con un altro livello di energia, ora però, da un lato, non esiste un livello di energia «Zerm> che non sia puramente conM venzionale, cioè riferito ad una precisa operazione di misura, dall'altro non c'è modo di asserire, se non per convenzione, che un certo tipo di operazioM ne ha portato alla luce tutta l'energia potenziale di un sistema, giacché è di diritto sempre concepibile un'operazione diversa che metta in luce in modo controllato, perM ché si tratterebbe di un effetto senza causa, (o di una causa senza effetti), mentre se accade spontaneamente ed eccezionalmente, allora viene rifiutata dal novero dei risultati scientifici. Le cariche, in quanto cariche, possono sl essere «annichilate» o «create»68 , ma sempre a coppie, e ciò è chiaro già solo pensando al fatto che quando le cariche sono state definite, la loro definizione è stata puramente relazionale, al punto che per molto tempo fu in vigore l'uso di nominare gli effetti elettrici facendo tiferimento ad un solo fluido elettrico, dotato di livelli maggiori o minori: non c'è modo di mettere in evidenza una carica di un segno, se non tramite una carica di segno opposto. La carica, dunque, non è una «COSa>>, ma una qualità, istituita come differenza reciproca, e perciò la «distruzione» di una carica dovrebbe essere la distruzione di una di due qualità complementari senza mettere in discussione la seconda: non si tratterebbe perciò di distruggere la determinata struttura «materiale» di un protone, o un positone, un elettrone, o un antiprotone, ecc. ma di distruggere ciò che caratterizza tutte queste singolarizzazioni, senza mettere in campo la singolarizzazione complementare. Tuttavia, le cariche opposte sono caratterizzate come forze che agiscono solo in relazione reciproca, e dunque, se isolate dall'unità complementare, come enerR gie potenziali. Distruggere una carica senza usarne un'altra complementare significherebbe perciò distruggere dell'energia, senza trasformarla: se l'eM nergia delle cariche vuole essere liberata, e cosl divenire attuale e disponibile a trasformarsi, allora le cariche opposte devono interagire, se invece non interagiscono la loro unica variazione possibile è l'annichilimento, con i problemi ad esso connessi. La conservazione della carica perciò si riduce alla conservazione dell'energia. Esiste tuttavia un processo che sembra avere le caratteristiche generali di una «distruzione dell'energia», anche se formalmente non contraddice il principio di Lonservazione; esso è il processo universale descritto dal secondo principio della termodinamica69 , e noto con il nome assegnatoli da Clau-

La valutazione einsteiniana del rapporto tra massa ed energia lascia alquanto perplessi circa il senso operativo da attribuire ad una sua verifica. Non sembra chiaro neppure in ipotesi cosa potrebbe significare la trasformazione di due masse identiche «completamente)> in energia. in modo da poter verificare l'effettiva eguaglianza delle energie prodotte.

6S Ad esempio l'incontro tra un positone ed un elettrone distrugge le due cariche, liberando radiazione elettromagnetica, e viceversa, una radiazione elettromagnetica può produrre a coppie elettroni e positoni. 69 Nella definizione di Kelvin il secondo principio suona cosl: «Se una macchina è tale che, quando viene fatta lavorare alla rovescia, le operazioni di tipo fisico e meccanico in tutte le

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Fenomenologia e genealogia della verità sius di «entropia~>- La crescita deir entropia in un sistema è stato descritto, quanto al suo senso complessivo, in modi differenti, ed è all'origine di un ·ampio dibattito, particolarmente ricco nella seconda metà dell'Ottocento, e dotato di implicazioni filosofiche di particolare rilevanza70 • Possiamo rkor~ darne sommariamente gli estremi nei seguenti termini: la seconda legge del~ la termodinamica sembra mettere in evidenza un progressivo logoramento dell'energia meccanica disponibile in qualunque sistema chiuso; tale logoramento può essere descritto anche come un fatale procedere dell'energia da stati più ordinati, più organizzati, a stati meno ordinati, da stati meno probabili a stati più probabili, e può essere esemplificato con processi come la diffusione del calore da un corpo più caldo ad un corpo più freddo, o lo scioglimento dello zucchero nell'acqua, mentre non ne sono esempi validi gli esseri viventi, in quanto sistemi «aperti» che consumano energia am~ bientale; l'esito ultimo di questo processo non può essere che la degradazione di tutta l'energia dell'universo, la cosiddetta , ovvero ad un progresso verso una climi~ nuzione dell'ordine, si esprime l'entropia in termini di processo non empirico, ma logico. Ora, in termini puramente probabilistici, come già osserva~

Etica della fisica

parti dei suoi movimenti sono rovesciate, allora essa produce tanto effetto meccanico quanto quello che può essere prodotto da una data quantità di calore con una macchina terme-dinamica qualsiasi che lavori tra le stesse temperature di sorgente e di refrigeratore>>. (Kelvin, La teoria dinamica del calore, "Tr:ms. Roy. Soc. Edinburgh", in Opere di Kelvin, p. 191 ·citato da Bellone E., Le leggi della termodinamica, Loescher, Torino 1978, p.165) -In altri termini la legge può essere espressa dicendo che è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia assorbire calore da una sorgente e convertirlo completamente in lavoro. 70 Una traccia significativa di quei dibattiti si può trovare nel già citato testo di Bellone sulle leggi della termodinamica, ed in particolare nella parte antologica della sezione v (pp. 193-214), sul rapporto tra biologia evoluzionistica ed entropiu.

to da Poincaré, non esistono stati più probabili di altri ed un sistema chiuso dovrebbe ritornare casualmente, e perciò necessariamente, e all'infinito, alle condizioni originarie, in una sorta di nietzscheano «eterno ritorno». Af. fermare dunque che l'entropia è un concetto necessario, in quanto legato ad uno sviluppo meno ordinato, che sarebbe a sua volta più probabile di uno sviluppo verso l'ordine, è logicamente privo di senso: il puro caso non è affatto irreversibile. Se però ampliamo il senso della «probabilità>> al significato elaborato più sopra possiamo provare ad interpretare in modo più critico ciò che viene esp~esso come «processo verso il disordine». È chiaro che parlare di un processo dal più al meno ordinato presuppone un modello di «ordine~>, e per dare senso alla valutazione probabilistica biso~ gna concepire il numero degli stati «ordinati~> come inferiore al numero degli stati disordinati. In tal caso, se stabilisco di chiamare «ordine» la situazione in cui tutti i fagioli neri di un sacco stanno nella metà in alto e tutti i fagioli bianchi stanno nella metà in basso, allora, posto che tutte le correlazioni tra i fagioli siano equiprobabili, posso affermare matematicamente che l'ordine nel sacco di fagioli è più improbabile del disordine. Ovviamente, come già osservato, per sapere che le correlazioni tra i fagioli sono equiprobabili, e che, ad esempio, i fagioli neri non sono più leggeri dei fagioli bianchi, devo compromettere la purezza matematica della mia valutazione con un'indagine induttiva che metta alla prova l'equiprobabilità delle correlazioni tra gli elementi. Dunque qualunque situazione io consideri come . ordinata, Io posso fare soltanto presupponendo una tendenza empirica ad una distribuzione «naturalmente» equiprobabile come sfondo per differenza dal quale nomino la situazione presente come ordinata, cioè come distante dall'equiprobabilità; e con ciò la necessità logica del processo entropico si dilegua definitivamente. Guardiamo ora più da vicino al senso «empirico>> del concetto di entropia. La probabilità matematica si è sciolta nella frequenza empirica di determinate relazioni: ciò che chiamiamo «ordine» deve essere inteso come un'attribuzione empirica; ma cos'è concretamente l'energia > un'espressione matematica come x + y = k (se ne ho consuetudine), che è a tutti gli effetti un'immagine matematica, una connessione generale, indipendente dalle singole determinazioni percettive o numeriche, ma verificabile in tali determinazioni. Ora, come noto, il ruolo dei modelli nella scienza è fondamentale, ma non privo di ambiguità. Senza i modelli, come possibilità di connettere qua~ lunque entità in qualunque ordinamento relazionale, non è possibile esten~ dere la prensione scientifica al di là delle pratiche misurative «dirette», dunque non è di fatto possibile la costruzione dell'edificio scientifico. Ma i modelli, anche quelli più utili e «Verificati», possono venire prima o poi so~ stituiti, e la storia della scienza testimonia ampiamente questo processo; dunque si deve concludere che, in qualche modo, i modelli sono necessari all'istituzione della verità scientifica, ma che essi in se stessi_ (come tipolo~ gia del darsi degli enti) sono «falsi», sono altro dalla realtà8J. Senza modelli non è possibile ricomporre in un'immagine scientifica unitaria le differenti disgiunzioni della realtà, ma una volta ottenuta una formulazione matematica unitaria, capace di connettere pratiche misurative dirette ed indirette, tutto dò che conta è il risultato, mentre la natura del modello (percettivo, biologico, meccanico, ecc.) può essere trascurata. Tutto ciò sembra parlare, in definitiva, in favore di un solo genere di modelli, cioè dei modelli mate~ matici che in certo modo, come tipo, permangono al mutare degli altri: pos~ so utilizzare per concettualizzare gli eventi un modello «antropomorfico» o «animale», come nell'antica scienza greca, oppure un modello meccanico, come nella fisica ottocentesca, ed in entrambi i casi, se ottengo un rapporto condizionale tra misurazioni (un «se ... allora ... ») il modello ha assolto legittimamente il suo compito, ed il risultato scientifico, in termini di capacità di previsione matematica degli eventi, può essere messo agli atti. La specifi~ ca natura del modello ha significato soltanto in relazione a due aspetti: l) per il senso comune, e per la psicologia dello scienziato, è rilevante aderire o meno ad un genere di modelli piuttosto che ad un altro, in quanto il mo-

dello in'carna l'intero contenuto di senso dei risultati scientifici: i modelli rappresentano l'antologia della scienza. 2) Per la pratica scientifica l'adesione ad un tipo di modelli deve essere tendenzialmente totalizzante, per.ché l'essenziale per il successo nell'utilizzo di un modello sta nella sua coerenza: non posso usare di volta in volta modelli diversi, come un modello animale ed uno meccanico, perché essi metterebbero capo a sistemi incom~ mensurabili di disgiunzione tra i dati, e dunque potrebbero soltanto servire a per uso mnemotecnico gli eventi, senza consentire il calcolo e l'inferenza tra di essi. Ma questo significa, ancora una volta, che è solo l'aspetto logico~ matematico nei modelli ad essere rilevante sul piano della verità scientifica, mentre le particolari connotazioni dei singoli modelli sono scientificamente inconferenti, e rilevanti solo come «stimolo» psicologico per lo scienziato, o come «ideologia» scientifica per usi extrascientifici. Per tirare le fila del discorso diamo ora uno sguardo al caso esemplare (e per 86 molti versi, come abbiamo visto, fondativo) del concetto di «atom0>> • Esso incarna il limite tra valori essenziali e contingenti dei modelli. Cosa accomuna l'atomo di Leudppo e Democrito con l'atomo di Rutherford, o con quello di Bohr? Potremmo dire che si tratta di un modello comune? In senso stretto questi «atomi» sono modelli incommensurabili: tra l'idea di > mate~ matico è che, data una certa interpretazione, una maglia della rete determi~ na un'aspettativa misurati va (o in generale osservati va), e dunque l'occorre~ re di una smentita o produce un posto vuoto per una variabile inosservata, o nega la validità di quell'interpretazione tutta; il primo caso può portare o alla scoperta della variabile inosservata, o all'inserzione provvisoria di ciò

:'p tetazione; il secondo caso si attiva solo quando una nuova interpretazione

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viene chiamata «ipotesi ad hoo>, e che consente di conservare l'inter~

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comprensiva sopravviene87 . 4. 4. Leggi e determinismo ,,' _ , · · ·Dal perc.orso svolto dovrebbe risultare ormai evidente che in natura >,non vi sono «leggi», ma che leggi si possono costruire. Parlare di leggi in sé è anche nelle sue origini storiche, un'ipostatizzazione di carattere teologi~ _c~. Non è però un'ipostatizzazione accidentale, perché incarna, come il Progetto atomico, l'idea della «scrittura dell'essete». Una leg~e di natura.~ regola che gli eventi sono tenuti a rispettare, una regola rispetto a cUli .;fenomeni e le ricorrenze sono da considerare soltanto realizzazioni. Lo ·:scienziat~ pone come indirizzo generale della sua attività quello di riscrive· :re le leggi cosl come un Dio od un Caso legislatori hanno disposto. Ed è in fondo proprio questo presupposto che giustifica lo scienziato a formulare 'ipotesi, ad usare modelli, a moltiplicare le teorie senza una necessità che esuli da quella interna della scienza. In quest'ottica risulta però anche chia~ 'ro come attendersi che la scienza possa scoprire in sé la libertà, o i valori, o la vita è assolutamente privo di senso: la scienza è per costituzione e genea~ logia >, può benissimo non essere meccanicistica, ma n~n può evitare di porre «leggi» (chiamandole magari diversamente). Le vane forme di «indeterminazione>> e «probabilismo» sottolineano soltanto deter~ minazioni che si discostano dall'ideale normativa della matematizzabilità, carenti rispetto a questo ideale astratto, ma pur sempre sussistenti come de~ terminazioni ferree e su di uno sfondo assunto come in sé deterministico. . Ciò che può uscire dal determinismo è l'interpretazione del valore di realtà di certe determinazioni fisiche, ma qui, come vedremo subito, la scienza fi~ nisce ed emergono la filosofia, o l'ideologia. 1

Può essere considerato esemplare di questo processo il fatto che lo stesso Le Verrier previde l'esistenza di un nuovo pianeta battezzato in anticipo e . La fenomenologia di Husserl, come esercizio descrittivo, subisce uno scacco proprio in quanto si sottrae costantemente il riferimento a quell'oggettività che il linguaggio naturale è predisposto a manifestare. Tale autolimitazione è motivata internamente dalla necessità di evitare l'empirismo o l'antropologismo, di evitare la mancanza, propria delle sustruzioni scientifiche, di radicalità fondativa. Ma cosl facendo Husserl, in rimarchevole prossimità col primo Wittgenstein, si dibatw te in un conflitto permanente col linguaggio naturale, che non può fare a meno di usare, ma che usa sempre con ritrosia e quasi con cattiva coscienza di fronte alla sua costitutiva empiricità: Husserl (come il Wittgenstein del Tractatus) si esprime sempre trattando l'empiria emergente come accidentale esemplificazione da cui ritrarsi quanto prima (o, per Wittgenstein, come insensatezza delle proposizioni da autodenunciare). La «noesis», cosl come la «forma logica» possono sussistere sl soltanto come prassi sedimentate, ma come prassi disponibili per il linguaggio mediante, concresciuto con esse, dunque come unità d'azione; una illustrazione pragmatico-concettuale deve l) partire da singole «verità» o pretese di verità (fatti, empiria), 2) deve tradurle e coordinarle con altre verità in un'estensione di principio onnicom292

Tesi prensiva (con l'essenza del «sistema}>, senza però pretendere un dispiegamento «sistematico»), 3) tali verità devono rappresentare andamenti coerenti (immaginabili nelle conseguenze), e 4) tutto questo procedimento deve guardare al ti koinon, cioè alla sua unitarietà necessariamente inapparente, e necessariamente presente. Va notato, ad esempio nel caso dell'esibizione di ':.erità storiche, che ammettere l'ordinamento storico-fattuale co. me illustrazione delle unità d'azione che lo rendono accessibile non significa considerare la storia come una mera didascalia, come un modello indipendente dalla propria verità: non è secondario, ma essenziale per l'illustrazione diacronica che io possa credere la storia vera. Essa deve essere coerente con il mio presente, come fatto e come concetto, deve essere coerente cOn la mia esistenza vista sotto specie storica.

Metodo di illustrazione e verità La nostra argomentazione, in quanto volta ad identificare gli estremi della determinazione di ciò che è verità, non poteva che avere il carattere del ripercorrimento di una pratica già vigente, usandola per esaminare il modo in cui la si usa. Parimenti, il valore di verità attribuibile a tali argomentazioni deve sottoporsi al vaglio dei propri risultati; e di fatto questa indagine, una volta cancellate le cancellature, ha ritrovato a posteriori una giustificazione del suo modo di procedere, anche se tale andamento sarebbe stato certamente diverso, e molto più compatto, se avesse potuto contare sin dall'inizio sui risultati che espone. Ora trova definitivo chiarimento la collocazione delle esemplificazioni ed illustrazioni empiriche utilizzate, di cui eravamo certi di non poter fare a meno, pur essendo consapevoli della loro ·natura necessariamente «seconda» in un'indagine sulla verità in generale. Il punto essenziale è che una pratica, in quanto non è un oggetto, non può essere rappresentata come tale, ma soltanto attraverso fatti e cose obiettivi. Le immagini che mi possono balenare all'occorrere di parole designanti un'unità d'aZione non sono rappresentazioni dell'oggetto «unità d'azione», sono sempre solo dei rimandi, dei segnali d'avvio di un decorso: .:J.Uesto vale per ogni unità d'azione, dunque per ogni contenuto semantico, per quello di «trippa», come di «pensare». Come abbiamo visto, l'immagine mentale non è una copia del proprio contenuto, essa occorre in quanto richiamata da un'unità verbale, come segnale, che però rimanda, per una determinazione del proprio contenuto, ad un pratica conseguente, ed è questa che incontra la realtà, allivello peculiare di quella pratica, e sempre nella forma di «particolare di un universale}> (posso verificare una parola anche ;olo con un'altra parola, dove però l'occorrenza di quest'ultima è una realtà 293

Fenomenologia e genealogia della verità particolare rispetto al contenuto della prima). Un'immagine mentale può anche essere un segnale ingannevole, può rimandare ad unità d'azione as~ senti o contraddittorie; cosl, con un esempio wittgensteiniano, se diciamo che «la rosa è rossa anche al buim>, possiamo costituire un'immagine che di principio non può rimandare ad operazioni identificative compatibili, e che dunque non rimanda ad una pratica {percettiva) con valore di realtà; possiaw mo dunque «vederci» davanti la rosa rossa contornata dal buio, e questo è un legittimo oggetto di realtà emotiva, ma lo si fraintende, producendo una contraddizione materiale, se lo si ritiene un oggetto visivo possibile. Ora, per descrivere una pratica abbiamo bisogno di fare riferimento a fatti e cose che occorrono in essa, ma inversamente per descrivere fatti e cose che non siano una falsa empiria, come quella dettata da un'immagine materialmente contraddittoria, dobbiamo far riferimento alle pratiche che gli conferiscono senso. Questo rimando non è una circolarità né viziosa, né ermeneutica, non è semplicemente un/atto che rimanda, quanto alla sua verità, ad una ragione, e viceversa, ma è illustrazione del funzionamento del significato, il cui massimo grado di esplicazione viene raggiunto approdando ad una tauw tologia o ad una contraddizione materiali. Infatti, la descrizione di una pra~ tica sedimentata, di un apriori materiale, è una pratica a sua volta, affine a ciò che descrive, ed avviene come tensione tra un'esperienza ed il suo pre~ supposto, ovvero come ripercorrimento dell'identità tra una realtà ed il pro~ prio significato. L'illustrazione chiede che ogni universale, ogni apriori, si dia in esempi obiettivi, e chiede ad ogni esperienza obiettiva la sua condizione di possibilità; cosl facendo l'illustrazione, che è pratica verbale, riper~ corre in forma analogica le pratiche costitutive di ciò che va descrivendo, le ti~ produce: non si tratta di un giudizio che fotografa più o meno adeguata~ mente i presupposti di un altro giudizio, ma di una pratica che «mima», e fa ripercorrere, un'altra pratica.

Tesi

L'illustrazione pragmatico~concettuale dispiega descrittivamente con~ tenuto e condizioni di ogni pretensione di verità, tuttavia non può essere giudicata in termini di maggiore o minore approssimazione alla verità, come se vi fossero criteri obiettivi del vero indipendenti dalle condizioni, dal~ le pratiche esposte nel corso della pratica illustrativa. Nessuna teoria forw male del metodo, nessuna assiomatizzazione ed obiettivazione dei criteri di verità può giocare un ruolo originario: ogni metodo formalmente definito precostituisce un campo circoscritto di verità con un senso precompreso nelle pratiche a monte, ed ogni tentativo di comprendere quel senso, se non

passa per un'illustrazione pragmatica, non può far altro che rinviare in una deriva infinita ad un altro metodo formalmente precostituito, con il proprio senso. Perciò la verità implicita nella pratica fisica non è di per sé meglio approssimata dalle «verità>> storiche sulle scoperte fisiche, né queste ultime dalle «verità» psicologiche sui processi di scoperta, ecc. Ogni metodo che si po~ga come strumento autonomo, come mezzo obiettivo per il ragw giungimento di verità, può sussistere soltanto nella misura in cui sa ricono~ scere le proprie applicazioni corrette e scorrette, dunque in quanto sa già quale genere di oggetti incontrerà e con quali criteri li giudicherà, ma questo sapere necessariamente non può essere una verità. Perciò un metodo formalmente inteso non può essere che l'incarnazione di un senso predeciSo, di pratiche sedimentate, di un Ethos consolidato. Una verità che si vo~ glia gai-antita soltanto dal proprio metodo non può essere in definitiva giustificata, «verificata», che dalle verità cui quel metodo consente di giungere, il cui valore di verità dunque deve sussistere prima dell'istituzione del metodo in questione. Ma cos'è, allora, il valore di verità senz'altro? Quali pratiche sedimentate, quali unità d'azione (di senso) stanno sul fondo di ogni verità, conferendole senso? T cle questione è a maggior ragione rilevante se pensiamo che la verità del giudizio, nella sua introduzione storica tra Parmenide ed Aristotele, compare già sempre come frutto posto da un metodo obiettivo. La verità è già sempre qualcosa cui si perviene, non qualcosa che possediamo; la verità si raggiunge percorrendo una via, praticando un methodos. A cosa mira il metodo per il raggiungimento della verità? Possiamo rispondere, alla realtà. Già, ma perché? Qual è la verità della realtà? Non siamo già sempre presso la realtà? In certo senso sl, se intendiamo la realtà come una somma di cose reali per se stanti, ma la realtà non è primariamente questo, bensl ciò che risponde al soggetto-mondo, all'unità coerente delle unità d'azione. La realtà in sé non esiste. La realtà concepita come aseità, come sussistenza indipendente e sovrana è semplicemente il concetto complementare alla verità intesa come risultato dell'applicazione di un metodo; in questa prospettiva la realtà in sé sarebbe ciò che idealmente giudica della verità, il giudice sovrano che discrimina tra significati, tra pratiche soggettive. Ma di fatto ciò non è mai; la «durezza>> dell'esistente è sempre qualcosa, di principio, >, che non è pura ricerca del Vero in sé, ma invenzione di modelli senza la pressione di un' applicabi-

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Tesi lità immediata. Ciò che la fisica produce può trasformare le nostre pratiche 'ed il nostro mondo, ma la fisica non ha alcun accesso preferenziale al signiHcato di quanto va producendo, cioè alle pratiche che tale prodotto induce: la lampadina o il termometro cambiano le nostre pratiche, ma l' elettromagnetismo o la termodinamica non partecipano all'attribuzione del valore di realtà di lcampadine e termometri. La fisica, come ogni scienza, ma più radicalmente di ogni altra scienza, deve liberarsi dal fardello della Verità, deve emanciparsi dalla tentazione e dall'onere di dire cose che hanno valore ontologico. La verità non è affare della scienza. Lo scienziato che scopra che a una certa sequenza di danze della pioggia succedono regolarmente temporali non deve essere richiesto di giustificare la connessione con una qualche 'spiegazione scientifica, e tale spiegazione non aggiunge alcun valore di verità alla connessione portata alla luce (anche se può avere valore di modello, 'utile per scorgere altre connessioni). Ciò non toglie che un uomo di scienza può, ovviamente, farsi carico della verità, solo non può farsene carico man~ tenendo l'abito scientifico, giacché con l'enunciazione di un «verificato» il lavoro scientifico finisce, mentre l'attività di comprensione del valore di realtà comincia.

Liturgia e peccati della confessione obiettivista Invero l'ambizione veritativa, cosl come inscritta nelle origini della scienza occidentale, manifesta soltanto limitati punti di cedimento, ed al contrario trova una nuova spinta in varie forme di «divulgazione~>, la cui perniciosità è difficile sopravvalutare. I limiti di verità della fisica vengono alla luce per vie interne ogni qual volta la pratica di obiettivazione scientifica vuole abbracciare, dimenticare, o in qualche modo annullare la dipendenza del proprio oggetto dal modo di identificazione. In questi frangenti ci troviamo di fronte a quei casi di obiettivazione del medio che abbiamo scorto nella considerazione realistica degli effetti relativistici (dove la luce è ad un tempo metro ed oggetto fisico), nell' «enigma» della duplice descrizio~ ne ondulatoria e particellare, nel problema degli «effetti osservativi~> nel principio di indeterminazione, nella questione dell'isolamento del sistema per le considerazioni probabilistiche, così come nell'estensione cosmologica del secondo principio della termodinamica. In tutti questi casi, quando l'obiettivazione fisica cerca di forzare i propri limiti, estendendosi verso l'in~ finitamente piccolo o l'infinitamente grande, o cercando di afferrare come misura nel sistema anche l'atto di misurazione del sistema, la scienza fisica si trova di fronte all'inverificabilità o al paradosso. In quest'ottica l'ambito della scienza fisica in cui necessariamente tale genere di procedimenti com-

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Fenomenologia e genealogia della verità paiono come costitutivi, cioè la cosmologia scientifica (in quanto distinta dall'astronomia e dall'astrofisica), rappresenta nella sua interezza un non· senso. Spesso si è detto che la cosmologia deve far fronte alla difficoltà intrinseca di aver a che fare con un oggetto singolo, l'universo, senza vedere che, più propriamente, la cosmologia per essenza non ha alcun oggetto, giacché l'universo, la totalità onnicomprensiva, non è un oggetto in nessun senso possibile. La cosmologia è qualcosa come la mitologia di una casta sa· cerdotale: le sue tesi sono per essenza inverificabili e prive di valore operativo, ma a sorreggerle sta il principio d'autorità nella figura di appartenenti alla classe degli uomini di scienza, la cui buona fede non toglie che proprio di fede si tratti. Il valore di realtà di tesi per cui l'universo è omogeneo ed isotropo nello spazio e nel tempo, o invece no, per cui l'universo è chiuso o aperto, per cui l'universo all'origine aveva determinate condizioni iniziali piuttosto che altre, ecc. è nullo. Al contrario il loro impatto «ideologico~> è deprecabilmente alto, in quanto vengono ad incrementare l'ipertrofia mito· logica e «virtuale» che caratterizza il nostro tempo, camuffata però da veri· tà obiettiva «cui ci si approssima asintoticamente». In un mondo in cui po· chi sanno piantare una patata o riparare un lavandino, moltissimi hanno una qualche immagine «scientifica~> del cosmo (molto meno impegnativa per l'ingegno), dunque un'immagine dello spazio che si curva, del tempo che rallenta o torna indietro, dell'universo che esplode o si contrae, ecc. Queste immagini sono come specchi o dipinti, dietro a cui non c'è nulla, ed hanno l'unica (involontaria) funzione di acquietare turbamenti dall'aspetto sgradevolmente «profondo», di arrestare la percezione di un limite costitutivo, di un ignoramus et ignorabimus la cui rilevazione, ed accoglimento, è essenziale alla propria collocazione di soggetti nel mondo. Di fatto la comu· nicazione ideologica che, certo inintenzionalmente, proviene dalla cosmologia scientifica (come da altri momenti analoghi dell'intrapresa scientifica, quali la psicofisiologia) suona più o meno cosl: «SU questi temi (ricchi di implicazioni per le attribuzioni di senso al mondo) la scienza non ha forse risposte perfettamente tornite, anzi, magari non ne ha proprio, tuttavia non c'è bisogno di farsene carico, perché vi sono già specialisti che vi si stanno dedicando, e perché comunque sappiamo in anticipo che la verità di queste domande, qualunque sia la risposta particolare cui si perverrà, avrà carattere scientifico» (ergo, avrà la natura di una sequenza causale oggettiva). Per riuscire a cogliere l'eventuale valore di realtà dietro ad un'immagine, ad una «verità astratta», bisogna ripercorrere le pratiche, linguistiche e non, che la sostengono, fino a giungere ad un livello di cui non è possibile pensare che sia diversamente. Di fronte ad un'immagine come quella del

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Tesi tempo che si inverte, o dell'universo che inizia ad esistere, il processo di il,- lustrazione si arresta subito nel vicolo cieco di una contraddizione materiale: posso immaginare che un movimento si inverta, che un processo rallenti, i:na per immaginarlo ho bisogno di collocarlo in un tempo, cioè di pensarlo ~o.me sequenza di eventi disgiunti secondo la relazione prima-dopo, che ~on è im_q1aginabile altrimenti più di quanto sia possibile immaginare la destra a sin,istra della sinistra o l'alto in assenza del basso; parimenti posso ben vedere «con gli occhi della mente» una concentrazione di materia iml:nobile in uno spazio vuoto, e poi vederla esplodere o espandersi, ma non Posso immaginare che prima di quel primo fotogramma non c'era alcun pri):na, o· che lo sfondo su cui si staglia quella concentrazione di materia non sia Uri'o spazio nell'universo; e se qualcuno mi dice che egli invece ha un'immaginazione tanto forte da esserne capace, dopo essermi complimentato con lui, devo privatamente concludere che parliamo lingue diverse. Tuttavia, di fronte a verità scientifiche come, ad esempio, quella per cui un aumento della temperatura produce una dilatazione dei corpi è perfettamente possibile comprenderla ed attribuirle un adeguato valore di realtà, applicandone le conseguenze in molte situazioni, e questo nella misura in cui possiediamo le pratiche identificative delle parti di quella proposizione, che sono indiPendenti da quale modello termodinamico si possa poi essere inclini ad adottare. Il fatto di essersi concentrati sulla rappresentazione del mondo propria della scienza fisica, e sui suoi limiti nel produrre connessioni con valore di realtà, è motivatO dalla sua collocazione storicamente e concettualmente esemplare, ma non implica né che tale modello di approccio alla verità sia scarsamente presente in altre scienze, né che il processo di illustrazione pragmatico-concettuale del valore di realtà abbia applicazione limitata alla scienza fisica, o ai soli saperi scientifici. È altresì vero che in altre scienze, ~ome la medicina, dove l'antologia fisico-matematica si trova a confronto continuativo con i limiti delle pratiche di astrazione, di isolamento obiettivante, la possibilità di un accoglimento senza remare della visione fisicalista del mondo è molto minore. Per quanto gli oggetti della scienza medica siano per definizione pazienti lo sono certo meno degli enti inanimati, e dunque anche la disponibilità a fungere da luogo di verifica di un' ontologia da sovraimporre è molto minore; ciò si è manifestato, anche in tempi recenti, in forma di presa di distanza dalla scienza medica ufficiale, il cui peccato orioinale di derivazione fisicalista, di reificare la corporeità in una somma o , di parti di diritto isolabili, ha l'effetto tendenziale di ridurre all'estremo la pratica diagnostica rivolta all'intero organismo, e di mirare piuttosto alla

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Tesi

Fenomenologia e genealogia della verità soppressione della malattia che alla guarigione del malato. Un campo, prosR simo a quello medico, dove invece il fattore reificante della fisicalizzazione trova minore resistenza è quello psicofisiologico. La sua collocazione, che è quella della «psicologia razionale» cosl come denunciata nella Dialettica kantiana, fa sl che anche in questo caso il senso di questa pratica scientifica sia predeciso nella forma dell'obiettivismo deterministico: se una relazione psicofisiologica è trovata, questa ha il carattere di una causa determinante a base materiale, altri fenomeni non hanno valore di verità per questa pratiR ca. Cosl, asserzioni psicofisiologiche che pretendono di avere valore di realtà, senza un'illustrazione delle pratiche preselettive e della loro collocazione nel mondo, rappresentano nient'altro che manifesti di un'ideologia più grigia della materia suo oggetto. Parlare della possibilità di scoprire le molecole della «forza di volontà», o della «felicità», è come dire che si può condire la minestra con un'equazione di secondo grado. Una descrizione fisiologica ed una psicologica non possono essere tradotte senz'altro l'una nell'altra, ma, per essere comprese nel loro valore di realtà, devono passare, regressivamente, per le pratiche che le pongono, fino al medio universale di traduzione, verbalizzato in forma di tautologia materiale. Una volta proceduto in questo modo si può vedere 1' adeguata dimensione di realtà della connessione, e qui la dopamina produce felicità esattamente come il Chianti produce sincerità. La riflessione filosofica non è affatto estranea ai procedimenti di ipostatizzazione ed astrazione che ritroviamo all'interno dell'attività scientifica (o meglio, della sua versione in prosa ad uso antologico). Procedimenti del genere sono quelli presenti nelle metafisiche classiche, in forma di giudizi circa l'origine causale del mondo, o come riconduzione dell'essenza del mondo ad uno dei suoi predicati (il mondo come volontà, o materia, o spiriR to, o illusione, ecc.). Questo modo di procedere ha una delle sue propaggini più influenti, e misconosciute quanto alla loro natura, in quel genere di argomentazione > abb~amo vohto suggerire l'idea

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Tesi che la_ verità determinata dall'avere valore, o meglio, onde evitare la conce·zione del valore come «cosa» normante, che la verità è concrezione di sen'so. La verità, dunque, non come un bene contrapposto ad un male, ma piuttosto collocata all'altezza della condizione di possibilità perché vi siano bene'e male. La verità mira alla realtà, e la realtà è la «risposta>> al mondo, all'unità delle unità d'azione, i cui caratteri essenziali sono l' onnicomprensività e la c~erenza disgiuntiva delle articolazioni medianti. T ali caratteri cònsentono l'orientamento dell'azione in quanto azione e dunque il senso. N~lla misura in cui le articolazioni medianti sono «significanti», quanti di comportamento guidati da unità linguistiche, e, tenendo presente che il momento primigenio della mediazione è il linguaggio come auto-etero-affeziOne, cioè la costituzione della soggettività come polo di un'intersoggettività, ne segue che il mondo come condizione del senso è anche onnicomprensività e coerenza disgiuntiva dell'intersoggettività. In altri termini, p~rché io, singolo soggetto, abbia un mondo in cui dispiegare l'azione ed esperirne il senso, è necessario che le soggettività che mi danno collocazione come il soggetto che sono, che mi danno riconoscimento, parlino, in un senso forte, lo stesso linguaggio (non semplicemente la stessa «lingua», la stessa grammatica empirica). Se cosl avviene (e nella misura in cui ciò avviene) il soggetto è