Fenomenologia della vita religiosa 9788845980909

Mai come in questo libro, che raduna i celebri corsi dai quali prese avvio – subito dopo la fine della prima guerra mond

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Fenomenologia della vita religiosa
 9788845980909

Table of contents :
Indice......Page 383
Frontespizio......Page 5
Colophon......Page 6
FENOMENOLOGIA DELLA VITA RELIGIOSA......Page 7
Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana......Page 8
Introduzione alla fenomenologia della religione - Corso del primo periodo di Friburgo (semestre invernale 1920/21)......Page 21
Parte prima - Introduzione metodica Filosofia, esperienza effettiva della vita e fenomenologia della religione......Page 22
I - La vita filosofica dei concetti e l’esperienza effettiva della vita......Page 23
II - Tendenze attuali della filosofia della religione......Page 38
III - Il fenomeno dello storico......Page 48
IV - Formalizzazione e indicazione formale......Page 70
Parte seconda - Esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti sulla scorta delle lettere dell’apostolo Paolo......Page 81
I - Interpretazione fenomenologica della lettera ai Galati......Page 82
II - Compito e oggetto della filosofia della religione......Page 89
III - Esplicazione fenomenologica della Prima Lettera ai Tessalonicesi......Page 101
IV - La Seconda Lettera ai Tessalonicesi......Page 120
V - Caratterizzazione dell’esperienza protocristiana della vita......Page 130
Appendice - Annotazioni e abbozzi per il corso......Page 139
Parte introduttiva - Interpretazioni di Agostino......Page 170
1. L’interpretazione di Agostino data da Ernst Troeltsch......Page 172
2. L’interpretazione di Agostino data da Adolf von Harnack......Page 173
3. L’interpretazione di Agostino data da Wilhelm Dilthey......Page 174
4. Il problema dell’obiettività storica......Page 176
5. Discussione delle tre interpretazioni di Agostino secondo il loro senso dell’accesso......Page 177
6. Discussione delle interpretazioni di Agostino secondo la loro base motivazionale per l’impostazione e l’attuazione dell’accesso......Page 178
Parte principale - Interpretazione fenomenologica del libro X delle «Confessioni»......Page 185
7. Preliminari all’interpretazione......Page 186
8. L’introduzione al decimo libro. Dal primo al settimo capitolo......Page 188
9. La «memoria». Dall’ottavo al diciannovesimo capitolo......Page 191
10. Della «beata vita». Dal ventesimo al ventitreesimo capitolo......Page 200
11. Il «come» del domandare e dell’udire. Dal ventiquattresimo al ventisettesimo capitolo......Page 208
12. Il «curare» (essere preoccupato) come carattere fondamentale della vita effettiva. Ventottesimo e ventinovesimo capitolo......Page 211
13. La prima forma della «tentatio»: «concupiscentia carnis». Dal trentesimo al trentaquattresimo capitolo......Page 215
14. La seconda forma della «tentatio»: «concupiscentia oculorum». Trentacinquesimo capitolo......Page 225
15. La terza forma della «tentatio»: «ambitio saeculi». Dal trentaseiesimo al trentottesimo capitolo......Page 230
16. L’autocompiacimento di fronte a se stessi. Trentanovesimo capitolo......Page 240
17. «Molestia» – la fatticità della vita......Page 243
Appendice I - Appunti e abbozzi per il corso......Page 249
Appendice II - Integrazioni tratte dalla Trascrizione di Oskar Becker......Page 271
I fondamenti filosofici della mistica medioevale - [Prime stesure e abbozzi per un corso non tenuto (1918-1919)]Cozzo......Page 297
Nota dei Curatori del corso del semestre invernale 1920/21......Page 332
Nota del Curatore del corso del semestre estivo 1921 e delle prime stesure e degli abbozzi redatti nel 1918-1919......Page 337

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Indice Frontespizio Colophon FENOMENOLOGIA DELLA VITA RELIGIOSA Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana Introduzione alla fenomenologia della religione Corso del primo periodo di Friburgo (semestre invernale 1920/21) Parte prima - Introduzione metodica Filosofia, esperienza effettiva della vita e fenomenologia della religione I - La vita filosofica dei concetti e l’esperienza effettiva della vita II - Tendenze attuali della filosofia della religione III - Il fenomeno dello storico IV - Formalizzazione e indicazione formale Parte seconda - Esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti sulla scorta delle lettere dell’apostolo Paolo I - Interpretazione fenomenologica della lettera ai Galati II - Compito e oggetto della filosofia della religione III - Esplicazione fenomenologica della Prima Lettera ai Tessalonicesi IV - La Seconda Lettera ai Tessalonicesi V - Caratterizzazione dell’esperienza protocristiana della vita Appendice - Annotazioni e abbozzi per il corso Parte introduttiva - Interpretazioni di Agostino 1. L’interpretazione di Agostino data da Ernst Troeltsch 2. L’interpretazione di Agostino data

da Adolf von Harnack 3. L’interpretazione di Agostino data da Wilhelm Dilthey 4. Il problema dell’obiettività storica 5. Discussione delle tre interpretazioni di Agostino secondo il loro senso dell’accesso 6. Discussione delle interpretazioni di Agostino secondo la loro base motivazionale per l’impostazione e l’attuazione dell’accesso Parte principale - Interpretazione fenomenologica del libro X delle «Confessioni» 7. Preliminari all’interpretazione 8. L’introduzione al decimo libro. Dal primo al settimo capitolo 9. La «memoria». Dall’ottavo al diciannovesimo capitolo 10. Della «beata vita». Dal ventesimo al ventitreesimo capitolo 11. Il «come» del domandare e dell’udire. Dal ventiquattresimo al ventisettesimo capitolo 12. Il «curare» (essere preoccupato) come carattere fondamentale della vita effettiva. Ventottesimo e ventinovesimo capitolo 13. La prima forma della «tentatio»: «concupiscentia carnis». Dal trentesimo al trentaquattresimo capitolo 14. La seconda forma della «tentatio»: «concupiscentia oculorum». Trentacinquesimo capitolo 15. La terza forma della «tentatio»: «ambitio saeculi». Dal trentaseiesimo

al trentottesimo capitolo 16. L’autocompiacimento di fronte a se stessi. Trentanovesimo capitolo 17. «Molestia» – la fatticità della vita Appendice I - Appunti e abbozzi per il corso Appendice II - Integrazioni tratte dalla Trascrizione di Oskar Becker I fondamenti filosofici della mistica medioevale [Prime stesure e abbozzi per un corso non tenuto (1918-1919)]Cozzo Nota dei Curatori del corso del semestre invernale 1920/21 Nota del Curatore del corso del semestre estivo 1921 e delle prime stesure e degli abbozzi redatti nel 1918-1919

Martin Heidegger FENOMENOLOGIA DELLA VITA RELIGIOSA A cura di Matthias Jung, Thomas Regehly e Claudius Strube Edizione italiana a cura di Franco Volpi Traduzione di Giovanni Gurisatti

Adelphi eBook

TITOLO ORIGINALE:

Phänomenologie des religiösen Lebens 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (A cura di Matthias Jung e Thomas Regehly) 2. Augustinus und der Neuplatonismus 3. Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (A cura di Claudius Strube)

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2019 © 1995 VITTORIO KLOSTERMANN FRANKFURT AM MAIN © 2003 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-8090-9

FENOMENOLOGIA DELLA VITA RELIGIOSA

AVVERTENZA DEL CURATORE DELL’EDIZIONE ITALIANA 1. Il romanzo della vita filosofica Per il suo contenuto – una serrata analisi filosofica dell’esperienza religiosa – il presente volume costituisce un unicum nell’opera di Heidegger. In nessun’altra occasione egli si è dedicato all’esame fenomenologico della vita religiosa con altrettanta estensione e profondità, altrettanta passione e coinvolgimento, come nei testi qui raccolti. Si tratta dei celebri corsi friburghesi sul cristianesimo delle origini e sull’esperienza protocristiana della vita, con i quali Heidegger iniziò la sua fulminante carriera di docente negli anni successivi alla prima guerra mondiale. La circostanza che egli allora avesse appena attraversato una crisi religiosa e avesse abbandonato il «sistema del cattolicesimo» conferisce a queste lezioni una palpitante carica di verità. Secondo l’ordine, non cronologico, in cui sono stati riuniti nel vol. LX della Gesamtausgabe (Klostermann, Frankfurt a. M., 1995), di cui il presente volume è la traduzione, si tratta dei seguenti corsi: l’Introduzione alla fenomenologia della religione del semestre invernale 1920/21; il corso del semestre estivo 1921 su Agostino e il neoplatonismo, e quello su I fondamenti filosofici della mistica medioevale, annunciato per il semestre invernale 1919/20 ma non svolto. A quest’ultimo corso sono accorpati alcuni manoscritti – datati dal Curatore tedesco tra il 1918 e il 1919 – che pur nel loro carattere «minore» forniscono tracce indispensabili per ricostruire l’itinerarium mentis in Deum et in nihilum del giovane Heidegger. Si tratta di appunti su vari studi e autori di filosofia della religione, in particolare su Windelband, Hegel, Schleiermacher, Adolf Reinach, Troeltsch, Rudolf Otto, Bernardo di Chiaravalle e Teresa d’Ávila. La vicenda di come nacquero questi testi, quindi di come Heidegger si confrontasse con l’esperienza religiosa e vi trovasse indicazioni paradigmatiche per sviluppare una comprensione filosofica genuina della vita umana, è talmente appassionante che meriterebbe di essere raccontata in

romanzo. Per entrare nello spirito e nella logica con cui Heidegger elaborò allora il suo programma filosofico, sarebbe indispensabile illuminare lo sfondo storicobiografico e il contesto speculativo in cui questi scritti furono composti. Mi limito qui a pochi accenni. 2. Teologia, filosofia della religione e mistica nel giovane Heidegger Per prima cosa rimando alle ricostruzioni ormai canoniche della biografia intellettuale di Heidegger – in particolare a quelle di Otto Pöggeler, Hugo Ott e Theodore Kisiel –,1 che forniscono le informazioni necessarie per capire come e perché, fin dagli anni della sua prima formazione, Heidegger intrecciasse l’interesse per la filosofia con quello altrettanto intenso, e inizialmente dominante, per la teologia e la mistica. Numerosi sono i sondaggi che andrebbero fatti in questa direzione. Ci sarebbe da esaminare, anzitutto, l’influenza del teologo Carl Braig, uno degli ultimi esponenti della Scuola cattolica di Tubinga, di cui il giovane Heidegger studiò a fondo il compendio di ontologia Vom Sein. Abriß der Ontologie (Herder, Freiburg i. Br., 1896). Anche dopo essersi trasferito dalla Facoltà di Teologia a quella di Filosofia (1911), Heidegger continuò a frequentarne le lezioni di dogmatica, ed ebbe con lui colloqui privati sull’importanza del pensiero dialettico di Hegel e di Schelling per la teologia. Braig – come Heidegger stesso ricorda – gli avrebbe trasmesso la consapevolezza della tensione fra ontologia e teologia interna alla struttura della metafisica, e quindi avrebbe risvegliato in lui un’attenzione critica per il conflitto tra la Scolastica, basata sul primato dell’essere, e il modernismo, orientato sulla teoria del conoscere.2 C’è poi nell’estate 1917 lo studio della filosofia della religione di Schleiermacher, con particolare riferimento al secondo dei Discorsi sulla religione. Il 1° agosto 1917 Heidegger espose la sua interpretazione in una cerchia di amici, come ricorda Heinrich Ochsner che fu testimone

oculare dell’evento.3 Se si considera che quei Discorsi sulla religione sono rivolti, come recita il sottotitolo, Alle persone colte che la disprezzano, dunque agli atei e agli agnostici così numerosi tra filosofi e intellettuali, è facile immaginare quanti motivi di riflessione essi fornissero al giovane Heidegger, che, in crisi religiosa, inclinava a un «ateismo di principio».4 C’è ancora la lettura del celebre e fortunato libro di Rudolf Otto Il sacro, apparso nel 1917. Heidegger e Ochsner, entrambi allora alla scuola fenomenologica di Husserl, recepirono l’importanza delle ricerche di Otto, e le studiarono a fondo in vista dell’elaborazione di una fenomenologia della coscienza religiosa. «Ochsner, e così pure il suo amico più anziano Heidegger,» scrive Husserl a Otto in una lettera del 5 marzo 1919 «è stato in origine allievo filosofico di Rickert. Entrambi, non senza forti resistenze interiori, un po’ alla volta si sono aperti ai miei stimoli e si sono avvicinati a me anche dal punto di vista personale. In questo stesso periodo hanno radicalmente cambiato le loro convinzioni religiose di fondo. Sono due personalità dal carattere realmente religioso: in Heidegger prevale l’interesse teoretico-filosofico, in Ochsner quello religioso [...] Heidegger e Ochsner (non ricordo chi dei due per primo) l’estate scorsa hanno attirato la mia attenzione sul suo libro sul sacro, che ha avuto una forte influenza su di me, come quasi nessun altro libro da anni aveva avuto».5 Heidegger si proponeva peraltro di recensire il libro di Otto, come ricaviamo dagli appunti qui pubblicati per la prima volta. C’è infine l’intensa frequentazione, filosofica e spirituale, della mistica medioevale e preprotestante, specialmente Meister Eckhart, la Theologia deutsch, Susone e Taulero, che Heidegger fu spinto a leggere da Engelbert Krebs, apprezzato studioso dell’argomento e suo padre spirituale. Al termine della tesi di libera docenza su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (1915) Heidegger annuncia anche uno studio – mai portato a termine – sul

significato filosofico della mistica eckhartiana in relazione alla «metafisica della verità».6 E in esergo alla prolusione per il conferimento della venia legendi, Il concetto di tempo nella scienza della storia (1915), pone una citazione tratta dal sermone tedesco di Meister Eckhart Consideravit domum (Quint, n. 30): «Tempo è ciò che muta e si moltiplica, l’eternità permane semplice».7 Sempre per quanto concerne la mistica, sono conservati – e qui tradotti – gli appunti di una interpretazione dei Sermones in Canticum canticorum di Bernardo di Chiaravalle. Nel settembre del 1917 Heidegger li portò con sé al fronte come lettura insieme ad altri mistici, tra cui il Libro delle dimore o Castello interiore di Teresa d’Ávila. «Per il Natale del 1920» ricorda inoltre Löwith nella sua autobiografia «Heidegger mi regalò il De imitatione Christi di Tommaso di Kempen. Ancora nel 1925 gli sembrava che ci fosse vita spirituale solo nella teologia, in Barth e in Gogarten».8 E in una lettera del 19 agosto 1921, sempre a Löwith, Heidegger dichiara di sentirsi, più che filosofo, un «teologo cristiano».9 Che cosa voleva dire Heidegger scrivendo l’espressione in quel modo? 3. «Teologo cristiano» e «ateo di principio» In quel corsivo che spezza la parola – «teologo» – egli includeva la complessità del suo sofferto rapporto con il cristianesimo, tutta la difficoltà, vissuta in prima persona, di conciliare la forma dogmatico-istituzionale impressa all’esperienza religiosa dal cattolicesimo con la libera ricerca filosofica a cui egli si sentiva votato. Per questo simpatizzava con il «cristianesimo liberale» che valorizzava l’interiorità e sottolineava l’importanza dell’autonomia del pensiero. Pur essendo legato a doppio filo con quel mondo cattolico in cui si era formato e operava,10 Heidegger non faceva mistero della sua insofferenza verso il dogmatismo filosofico della Chiesa cattolica, che proprio allora, con un documento Motu proprio di Pio X, aveva ribadito la fedeltà al tomismo quale sua dottrina filosofica ufficiale. «Ci mancava anche questo Motu proprio» chiosa il 19 luglio 1914 Heidegger a padre

Krebs: la Chiesa, commenta con sarcasmo, avrebbe forse potuto inventare «una procedura migliore per asportare il cervello a tutti coloro che si faranno venire in mente un pensiero autonomo, sostituendoglielo con un’insalata italiana».11 Siamo ormai a un punto critico, anche se per ragioni di opportunità la rottura si consumerà solo qualche anno più tardi. È in una lettera del 9 gennaio 1919, di drammatica franchezza, che Heidegger comunica a padre Krebs – il quale nel frattempo, il 20 marzo 1917, aveva celebrato il matrimonio del giovane filosofo con la protestante Elfride Petri – la decisione di abbandonare la fede cattolica e il sistema dottrinale della Chiesa per seguire liberamente la propria vocazione filosofica. Vale la pena citare per esteso i passaggi salienti di questo scritto per rendersi conto della consapevolezza che spinge il giovane Heidegger a seguire la propria inclinazione: «Egregio signor professore, i due anni trascorsi, nei quali mi sono preoccupato di chiarire nei princìpi la mia posizione filosofica tralasciando ogni compito scientifico particolare, mi hanno condotto a risultati per i quali, se stessi in un vincolo extrafilosofico, non potrei avere garantita la libertà di convinzione e di insegnamento. Intuizioni gnoseologiche, che coinvolgono la teoria del conoscere storico, hanno reso per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo, non però il cristianesimo e la metafisica (quest’ultima, tuttavia, in un senso nuovo). Credo di avere percepito troppo fortemente – forse più dei suoi funzionari ufficiali – quanti valori il Medioevo cattolico porti con sé, e noi siamo ancora molto lontani da una sua vera valorizzazione. Le mie ricerche di fenomenologia della religione, che terranno in grande considerazione il Medioevo, anziché contestare, intendono testimoniare che cambiando la mia posizione di fondo non mi sono lasciato indurre a posporre l’eccellente giudizio oggettivo e l’alta considerazione del mondo della vita cattolico a un’arida e risentita polemica da apostata [...] È difficile vivere da

filosofo; l’intima franchezza di fronte a se stessi e a coloro ai quali si deve insegnare esige sacrifici, rinunce e lotte che all’artigiano della scienza rimangono sempre estranee. Credo di avere l’intima vocazione alla filosofia e, attuandola nella ricerca e nell’insegnamento, credo di fare ciò che le mie forze mi permettono per la destinazione eterna dell’uomo interiore, e soltanto per essa, e così credo di giustificare da solo dinanzi a Dio la mia esistenza e il mio operato. Cordialmente grato, il suo Martin Heidegger».12 Questo distacco non significa evidentemente né abbandono né indifferenza, bensì volontà di recepire e radicalizzare sul piano filosofico i contenuti dell’esperienza cristiana. Mantenendo un punto di vista squisitamente razionale e professandosi «ateo di principio», quindi evitando di compiere il sacrificium intellectus che la fede richiede, Heidegger non rinuncia a valorizzare l’esperienza religiosa e a vedervi il paradigma da cui trarre indicazioni preziose per capire la vita umana nei suoi caratteri originari e nella sua peculiare dinamica. 4. L’esperienza protocristiana della vita come paradigma per una ermeneutica dell’esistenza È così che Heidegger giunge alle appassionate interpretazioni filosofiche dei testi del primo cristianesimo che incontriamo nei corsi qui tradotti. Soprattutto dalle lettere dell’apostolo Paolo e dalle Confessioni di Agostino, lette e studiate con rapace avidità, egli trae intuizioni filosofiche fondamentali per delineare una comprensione genuina della vita umana, cioè tale da non tradirne il «movimento» proprio, la kinesis tou biou, e da coglierla nella sua fatale tendenza a «rovinare» e a perdersi (nelle tentazioni del mondo), ma anche nella sua volontà di conquistare se stessa e salvarsi, ossia nella ricerca della sua difficile eppur raggiungibile riuscita. Una simile comprensione filosofica – questa singolare modificazione della vita che rende possibile una scienza della vita – non mette a distanza la vita per osservarla in una considerazione teoretica neutrale come cosa tra cose,

oggetto tra oggetti. Essa non è un Ent-leben, un «sospendere la vita», ma piuttosto un procedere di pari passo con essa illuminandone la direzione e orientandola verso il suo Eigentliches, «ciò che le è proprio», la sua «autenticità». Trasponendo sul piano filosofico il pathos che anima l’esperienza protocristiana dell’esistenza, in cui ne va sempre e comunque della salvezza o della perdizione, e non di una semplice descrizione conoscitiva, Heidegger intende e pratica la filosofia non come una attività teoretica fra le altre, come un sistema di teorie e dottrine indifferente alla vita, ma come una comprensione della vita che implica una forma di vita e dà forma alla vita. La filosofia non è solo sapere, ma è anche scelta di vita: è salvezza e redenzione. Per questo la passione filosofica del giovane Heidegger appare incommensurabilmente diversa dalle filosofie accademiche dell’epoca. Jaspers – che mirava anche lui a una chiarificazione filosofica radicale dell’esistenza – lo riconobbe subito, al primo incontro. Era l’8 aprile 1920, a casa di Husserl a Friburgo, dove si festeggiava il sessantunesimo compleanno del padre della fenomenologia. Nel capitolo della sua Autobiografia filosofica in cui parla di Heidegger,13 Jaspers descrive l’atmosfera piccolo-borghese e grigia di quella festa, ricordando un’eccezione: «Soltanto Heidegger mi sembrò diverso. Andai a trovarlo, sedetti vicino a lui nella sua stanzetta, lo vidi mentre studiava Lutero, vidi l’intensità del suo lavoro, provai simpatia per il suo modo di parlare conciso e penetrante [...] Ma che cosa ci avvicinava? Era chiara la comune opposizione alla filosofia accademica tradizionale. Meno chiara, eppure tale da smuovere qualcosa in profondità, era la confusa certezza che nel quadro della filosofia accademica, in cui tutti e due entravamo con la volontà di insegnare e operare, fosse necessaria una svolta. Entrambi sentivamo come un dovere il rinnovamento non già della filosofia, bensì di quel tipo di filosofia che si incontrava allora nelle università. Ci accomunava inoltre l’emozione per Kierkegaard. Grazie a Heidegger la tradizione di pensiero cristiana, specialmente

cattolica, che pure conoscevo, mi divenne visibile nell’inconsueta freschezza di un uomo che vi era immerso con tutta la sua anima e che al tempo stesso la superava. Fu lui a regalarmi molte singole espressioni, molti racconti e suggerimenti. Ricordo come parlava di Agostino, Tommaso, Lutero. Vedeva le potenze che erano all’opera in loro. Mi dava preziose indicazioni bibliografiche, mi segnalava i passi. C’era tra noi in quei giorni del nostro stare insieme, e probabilmente ci fu anche molto dopo, un’atmosfera di solidarietà».14 Nei testi qui tradotti tocchiamo con mano il suggestivo lavoro evocato da Jaspers. Nel confronto con l’esperienza protocristiana della vita e nella caparbia ricerca del vocabolario adeguato a esprimerla, assistiamo a come il giovane Heidegger segua con straordinario istinto filosofico il proprio originale cammino e affronti di petto il compito che si prefigge: das Leben verstehen!, «comprendere la vita!». Ma come è possibile elevare la comprensione della vita su un piano rigorosamente filosofico, e al tempo stesso mantenerla così vicina al suo inesausto fluire in modo da non deformarne i tratti genuini e il movimento originario? Come attuare tale comprensione senza perdersi nel relativismo delle filosofie della vita à la Simmel, ma senza nemmeno irrigidirsi nell’estremo opposto, come i neokantiani e lo stesso Husserl facevano, cioè in una determinazione teoreticistica della vita stessa? 5. La lotta con il vocabolario Oggi, in base ai testi pubblicati nella Gesamtausgabe, possiamo ripercorrere tappa per tappa l’ambizioso cammino che Heidegger intraprese, evidenziando i termini di volta in volta escogitati per definirlo: «scienza originaria» (Urwissenschaft) o «scienza preliminare» (Vorwissenschaft) nel semestre del dopoguerra del 1919; «ermeneutica della fatticità» (Hermeneutik der Faktizität) nel semestre estivo 1923; «analitica esistenziale» (existenziale Analytik) fino a Essere e tempo (1927); «metafisica dell’esserci» (Metaphysik des Daseins) nel libro su Kant del 1929.

Questo febbrile rinnovarsi della terminologia segnala, già nelle denominazioni del programma, l’esigenza di affrancarsi dal teoreticismo che affetta le comprensioni della vita umana tradizionali, ma anche quelle più vicine di Jaspers e del maestro Husserl. Viene qui alla luce lo sforzo radicale di elaborare una comprensione dell’esistenza che non cada nell’errore di oggettivarne e reificarne la «motilità» (Bewegtheit), trasformandola in un’entità lì presente da osservare e descrivere, ma che, al contrario, la colga nel suo puro attuarsi (Vollzug). Il problema, come le ardue pagine qui tradotte testimoniano, è il seguente: in che modo è possibile cogliere la vita nel suo farsi, evitando che nella descrizione pura del suo movimento rientrino determinazioni oggettive di contenuto (Gehalt)? Per risolverlo Heidegger introduce qui l’importante concetto di «indicazione formale» (formale Anzeige): inizialmente in funzione soprattutto proibitiva e poi, nell’elaborazione dei semestri successivi, con la connotazione metodica che si ritrova in Essere e tempo (1927). L’indicazione formale è la funzione che – facendo astrazione dalla considerazione oggettiva del contenuto – compete alle determinazioni esistenziali in quanto esse intendono cogliere la vita nel suo puro attuarsi, contro la sua tendenza quotidiana alla Ruinanz, cioè a perdersi nel mondo degli oggetti, e quindi a ricavare da esso le categorie per comprendere se stessa. Ma l’«indicazione formale» non è che un esempio, se si vuole il più importante. Molti altri andrebbero almeno nominati. Diciamo che, specialmente nella parte metodologica del primo dei corsi qui tradotti, Heidegger è impegnato a tutto campo in una laboriosa e complessa lotta con il vocabolario filosofico. Ancora in debito con la fenomenologia husserliana e legato ai suoi concetti, li piega vistosamente alla propria finalità ormai definita: quella di liberarsi delle categorie naturalistiche e reificanti della tradizione teoreticistica per elaborare nuove determinazioni – che chiamerà «esistenziali» – adeguate ad assolvere il

compito di una comprensione genuina dell’esistenza. Uno dei punti cruciali in cui la modificazione heideggeriana della terminologia husserliana è particolarmente eloquente è la definizione del compito della fenomenologia che si trova in questi corsi. Nell’esame di ogni fenomeno – il cui darsi risulta dall’incontro del soggetto intenzionante con l’oggetto intenzionato (in riferimento all’orizzonte in cui quest’ultimo si dà e quindi all’orizzonte degli orizzonti, cioè al mondo) – Husserl distingue tre possibili direzioni dell’analisi fenomenologica: 1) quella del contenuto intenzionato, seguita dalla Inhaltsphänomenologie e considerata una Generalisierung; 2) quella dell’atto intenzionante, seguita dalla Aktphänomenologie e considerata una Formalisierung; 3) quella della correlazione di atto e contenuto, seguita dalla Korrelationsphänomenologie. Il giovane Heidegger riprende questa triplice articolazione ma la declina in modo da radicalizzarne il senso. In ogni fenomeno, tanto più in quello della vita religiosa, i tratti originari che lo contraddistinguono emergono nella loro totalità e genuinità solo se l’analisi fenomenologica considera: 1) «che cosa» nel fenomeno è esperito, ovvero il suo contenuto (Gehalt); 2) «come» tale contenuto è esperito, cioè il modo in cui ci si riferisce a esso, il suo riferimento (Bezug); 3) «come» tale riferimento è messo in atto, la sua «attuazione» (Vollzug). È chiara la corrispondenza tra i primi due momenti dell’articolazione heideggeriana e i primi due di quella husserliana. L’originalità di Heidegger sta tutta nel terzo momento, nell’attuazione, nel Vollzug: per lui è decisivo il «come» (Wie), il modo, l’atteggiamento secondo cui la vita attua i molteplici riferimenti intenzionali ai rispettivi contenuti, cioè la forma di vita di cui quei riferimenti e quei contenuti sono articolazioni ed espressioni. Il compito dell’indicazione formale è di non oscurare con

contenuti oggettivi la purezza dell’attuazione, come accade nella «rovinanza» quotidiana e nella oggettivazione filosofico-scientifica, bensì di fare emergere, al contrario, l’attuazione quale momento determinante il senso complessivo del fenomeno. Quindi il modo in cui la vita umana «ha» se stessa, come io «ho» me stesso, non appare tanto dai contenuti oggettivi che metto in atto nel vivere, i quali, anzi, mi occultano a me stesso, bensì da come li attuo, dal modo in cui attraverso quei contenuti e quelle intenzioni articolo la mia vita e la attuo. I contenuti della vita ricevono il loro senso dalla attuazione della vita, quindi è la vita in quanto praxis, movimento in cui sono in gioco la riuscita o il fallimento, la salvezza o la perdizione, che va tenuta in considerazione. Ecco perché il termine «intenzionalità», con cui Husserl connota il carattere costitutivo del soggetto, a Heidegger non basta più: è una determinazione ancora troppo teoreticistica, cui egli sostituisce, già qui, quella di «cura», cioè Bekümmerung, e più tardi Sorge, per indicare un’apertura al mondo (Prästruktion) più originaria, che abbracci tutti i possibili comportamenti pratico-vitali, siano essi di tipo poietico, pratico o teoretico. 6. Filosofia pratica e pratica di vita Forte della terminologia fenomenologica così trasformata, Heidegger si accosta all’esperienza religiosa e in particolare a quella protocristiana dell’esistenza, ricavandone il paradigma per abbozzare una comprensione della vita che non sia, ancora una volta, né teoria astratta lontana dalla fatticità del vivere, né semplice lasciarsi andare al suo irrequieto fluire. La comprensione heideggeriana della vita ha uno statuto equidistante sia dall’uno che dall’altro estremo. È una «filosofia pratica» che si distingue dalla vita per quel che basta a capirla nel suo movimento proprio, per poi ricadere subito su di essa e guidarla, sulla scorta di tale comprensione, alla sua riuscita, alla sua salvezza, riprendendola dalla perdizione e aiutandola a ritrovare se stessa.

Heidegger cerca in Paolo, in Agostino, nel giovane Lutero e in Kierkegaard compagni di cammino, e compulsa i loro testi per trovarvi la conferma delle proprie intuizioni filosofiche. Si affanna in serrati corpo a corpo, in letture tanto penetranti quanto violente, in assimilazioni e appropriazioni voraci, ma alla fine si accorgerà dell’irriducibile solitudine dell’interprete. E, allora, alla volontà di assimilazione subentreranno in lui la presa di distanza e la critica. Questa ambivalenza appare qui soprattutto nell’avvincente lettura delle Confessioni, che si divarica tra l’iniziale appropriazione dell’Agostino fenomenologo della vita e la conclusiva critica dell’Agostino teologo dogmatico e assiologizzatore. Sarà l’interpretazione di Aristotele – non a caso trattato nel 1921 in un seminario sul De anima parallelo al corso su Agostino e il neoplatonismo, e poi subentrato come interesse predominante fin verso la metà degli anni Venti – a fornire al giovane Heidegger il quadro concettuale per cogliere in termini filosofici rigorosi la dinamica esistenziale esperita nel primo cristianesimo, e precisamente secondo un approccio sgombro dal teoreticismo della filosofia moderna e attento al carattere «pratico» della vita.15 È per questo che nell’ermeneutica dell’esistenza di quegli anni, nella sua impostazione e perfino nella terminologia adottata, Heidegger riprende altrettante intuizioni della filosofia pratica di Aristotele, da lui considerato l’autentico fenomenologo della vita. E in una importante nota di Essere e tempo (par. 42) dirà di essere arrivato a concepire la «cura», ossia la determinazione fondamentale dell’esserci, nel corso di «un’interpretazione dell’antropologia agostiniana – cioè greco – cristiana – in riferimento ai fondamenti essenziali raggiunti nell’ontologia di Aristotele». Si capisce allora perché all’inizio dell’estate 1923, in una retrospettiva sul cammino fino allora percorso, Heidegger constatasse: «Nel mio cercare mi è stato compagno il giovane Lutero e modello Aristotele, che da quello era

odiato. Spunti mi sono venuti da Kierkegaard, e gli occhi me li ha aperti Husserl».16 E si capisce la confessione autobiografica fatta dal vecchio Heidegger nel 1959: «Senza la provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero».17 Solo la lettura dei corsi qui tradotti dà la misura della profonda verità esistenziale affidata a queste parole.

AGOSTINO E IL NEOPLATONISMO CORSO DEL PRIMO PERIODO DI FRIBURGO (SEMESTRE ESTIVO 1921)

PARTE PRIMA

INTRODUZIONE METODICA FILOSOFIA, ESPERIENZA EFFETTIVA DELLA VITA E FENOMENOLOGIA DELLA RELIGIONE

I LA FORMAZIONE FILOSOFICA DEI CONCETTI E L’ESPERIENZA EFFETTIVA DELLA VITA 1. Il carattere peculiare dei concetti filosofici Il carattere peculiare dei concetti filosofici rende necessario chiarire provvisoriamente il significato delle parole contenute nel programma del corso. Nelle singole scienze i concetti sono determinati dall’inserimento in un contesto reale, e sono quindi definiti in modo tanto più preciso quanto più noto è quel contesto. I concetti filosofici sono invece oscillanti, vaghi, multiformi, sfuggenti, come si vede anche dal mutare dei punti di vista filosofici. Tale incertezza dei concetti filosofici, tuttavia, non è dovuta esclusivamente al mutare dei punti di vista, giacché il fatto di rimanere sempre incerti è caratteristico piuttosto del senso di questi concetti come tali. La possibilità di accedere ai concetti filosofici è del tutto diversa dalla possibilità di accedere ai concetti scientifici. La filosofia non dispone di un contesto reale obiettivamente configurato entro cui i suoi concetti possano essere inseriti per ottenere la loro determinazione. Tra scienza e filosofia c’è una differenza di principio. Questa è una tesi provvisoria la cui dimostrazione emergerà nel corso delle nostre considerazioni. (Il fatto che sia una tesi, un principio, è da attribuirsi esclusivamente alla necessità della formulazione linguistica). Tuttavia, per comprendere l’opportunità di un’intesa preliminare sui concetti usati nel titolo possiamo adottare una via più comoda. Parliamo di «concetti» filosofici e scientifici, di «introduzioni» alle scienze e alla fenomenologia. Malgrado la differenza di principio tra scienza e filosofia, emerge quindi una certa affinità. Come mai? Si potrebbe pensare che il comportamento della filosofia sia altrettanto razionale e conoscitivo di quello scientifico. Ne deriva l’idea del «principio in generale», del «concetto in generale», e così via. Questa concezione non è però esente dal pregiudizio di una filosofia intesa come scienza. L’idea delle conoscenze e dei concetti scientifici non

può essere trasferita nella filosofia in base a un’estensione del concetto di principio scientifico a quello di principio in generale, come se i contesti razionali nella scienza e nella filosofia fossero gli stessi. Eppure c’è una concezione «livellata» dei «concetti» e dei «princìpi» filosofici e scientifici. Essi si incontrano nella «vita effettiva», entro la sfera della rappresentazione e della comunicazione linguistica, in quanto «significati» che sono «compresi». A prima vista non c’è alcun segnale che li distingua l’uno dall’altro. Bisogna dunque approfondire questa concezione «livellata», poiché dobbiamo capire che la comprensione dei concetti filosofici è diversa da quella dei concetti scientifici. Tutte queste considerazioni non sono forse un mero insistere su questioni preliminari? Sembra che ci si limiti ad aggirarsi nella sfera introduttiva, trasformando in virtù la necessità della propria incapacità di operare in positivo. Ma si può rimproverare alla filosofia di rigirarsi costantemente in questioni preliminari solo se il criterio per giudicarla è mutuato dall’idea delle scienze, da cui si esige la soluzione di problemi concreti e la costruzione di una visione del mondo. È mia intenzione accrescere e mantenere desta la necessità della filosofia di rigirarsi sempre in questioni preliminari al punto da farla diventare realmente una virtù. Su ciò che vi è di autentico nella filosofia stessa non ho nulla da dirvi. Non proporrò nessun argomento che susciti interesse o tocchi il cuore. Il nostro compito è molto più limitato. 2. Sul titolo del corso Il titolo del corso dice: «Introduzione alla fenomenologia della religione». Gli si possono attribuire tre diverse sfumature di senso, a seconda di quale sia il sostantivo su cui si pone l’accento. Dobbiamo intenderci in via provvisoria sui tre concetti di «introduzione», «fenomenologia» – che per noi ha lo stesso significato di «filosofia» – e «religione». Nel farlo incontriamo subito un problema essenziale tipico, il problema dello storico (das Historische), da cui deriva anche la limitatezza delle nostre aspirazioni. Iniziamo con la chiarificazione dei significati dei termini,

facendo però subito riferimento ai contesti oggettivi da essi indicati, in modo che tali contesti diventino problematici. 1. Che cosa significa «introduzione»? Solitamente un’«introduzione» a una scienza mira a un triplice risultato: a) la delimitazione della materia; b) la teoria della trattazione metodica della materia (a e b si possono riassumere così: definizione del concetto, dello scopo e del compito della scienza); c) l’analisi storica dei tentativi precedenti di porre e di risolvere i compiti scientifici. Si può introdurre così anche alla filosofia? Un’introduzione alle scienze offre sia la materia e la trattazione metodica della materia (scopo e compito), sia una sintesi storica dei vari tentativi di soluzione. Se le scienze e la filosofia sono differenti, c’è da chiedersi se il filosofo che voglia rendere giustizia a ciò che è autenticamente filosofico possa limitarsi ad assumere questo schema di introduzione. Il filosofo si riconosce dalla sua introduzione alla filosofia. Una introduzione secondo lo schema corrente occulta i contesti filosofici. Le introduzioni alla biologia, alla chimica, alla storia della letteratura sono molto diverse quanto al contenuto, ma possiedono una grande somiglianza formale, giacché seguono tutte lo stesso schema. Nell’idea della scienza – intesa non in senso logico-astratto, bensì in senso concreto come «attuazione della scienza» (WissenschaftsVollzug), ricerca sul campo, comunicazione, non sistema puramente razionale – il senso dello schema introduttivo ha motivazioni comprensibili. Eppure le scienze scaturiscono storicamente dalla filosofia – e anche secondo il loro senso. Il termine «scaturire» (entspringen) ha qui un significato particolare. Di norma con esso si intende il fatto che da una scienza generale si sono separate, ovvero si sono rese autonome determinate discipline singole. Qui invece lo scaturire è concepito come il definire con metodo autonomo una specifica materia precedentemente trattata dalla filosofia. Con ciò si presuppone peraltro che anche la

filosofia sia una scienza. L’idea che le scienze scaturiscano dalla filosofia, intesa come un «occuparsi conoscitivo del mondo» che contiene già in sé le scienze in forma embrionale, è un pregiudizio che l’attuale modo di concepire la filosofia ha proiettato a ritroso sulla storia. Soltanto una particolare modificazione formativa di un momento interno alla filosofia, il quale tuttavia continua a permanere in essa nella sua forma originaria, restando quindi immutato, trasforma le scienze – nel loro scaturire dalla filosofia e in virtù della specifica natura di tale scaturire – in scienze. Dunque le scienze non stanno nella filosofia. Questo ci porta alla domanda: 2. Che cosa significa filosofia? Allo scienziato le questioni introduttive non interessano mai quanto gli autentici problemi scientifici concreti. Nell’introduzione, in particolare quando ci si imbatte in questioni filosofiche, emerge una certa, fondata insicurezza. Noi però non ci lasciamo fuorviare da simili giudizi. Forse il senso della «introduzione» alla filosofia è talmente importante che a essa si deve prestare attenzione a ogni passo con cui entriamo nella filosofia. Non è soltanto tecnica. La domanda sull’essenza della filosofia appare sterile e «accademica». Ma anche questo è solo la conseguenza del modo corrente di concepire la filosofia come una scienza. A un filologo, ad esempio, non interessa l’«essenza» della filologia. Il filosofo invece, prima di mettersi effettivamente al lavoro, si occupa seriamente dell’essenza della filosofia. Il fatto di dovere sempre di nuovo fare chiarezza sulla propria essenza costituisce un difetto per la filosofia solo se si assume come norma l’idea della scienza. La storia della filosofia può essere compresa in termini realmente filosofici solo se tra la filosofia e la scienza sussiste una differenza di principio. In questo caso, infatti, i grandi sistemi filosofici possono essere considerati, sulla scorta di tale problema, secondo i seguenti punti di vista: 1. In che cosa consiste il motivo originario della filosofia di cui stiamo trattando? 2. Quali sono i mezzi concettuali, conoscitivi della

realizzazione di tale motivo? 3. Questi mezzi sono scaturiti originariamente dal motivo della filosofia di cui stiamo trattando, cioè non sono mutuati da altri ideali, in particolare scientifici? 4. Emergono – come in tutte le filosofie precedenti – specifiche brecce attraverso cui la filosofia sfocia nel canale scientifico? 5. Il motivo della filosofia di cui stiamo trattando è in se stesso originario o è tratto da altri motivi vitali e da altri ideali? Formuleremo le nostre riflessioni in merito alla storia della filosofia seguendo questa tendenza. Osservata da un’altra prospettiva la storia della filosofia si riduce a essere un bel discorso o un’attività meramente compilativa. Come siamo giunti all’autocomprensione (Selbstverständnis) della filosofia? Un simile risultato può essere ottenuto solo mediante il filosofare stesso, non tramite dimostrazioni e definizioni scientifiche, cioè non in virtù dell’inserimento in un contesto reale generale, obiettivamente configurato. Lo dice il concetto stesso di «autointendimento» (Selbstverständigung). Ciò che la filosofia, come tale, è non può mai essere reso evidente in termini scientifici, perché può essere chiarito solo mediante il filosofare stesso. La filosofia non si può definire nel modo corrente, né la si può caratterizzare tramite l’inserimento in un contesto reale, come quando si dice: la chimica è una scienza e la pittura è un’arte. Si è anche tentato di includere la filosofia in un sistema concettuale, sostenendo che essa si occupa di un oggetto determinato in un modo determinato. Ma anche in questo caso è già presente la concezione scientifica della filosofia. I princìpi del pensare e del conoscere rimangono costantemente non chiariti in quel che sono. Tuttavia, anche della pittura, benché non sia una scienza, si può pur sempre parlare in questo modo, dicendo ad esempio che è un’arte! In effetti, anche nel caso della filosofia ciò è giustificato in un senso del tutto formale, sebbene resti da chiarire di che genere di «formale» si tratti.

Il problema dell’autocomprensione della filosofia è stato sempre preso troppo alla leggera. Se lo si concepisce in termini radicali, ci si accorge che la filosofia scaturisce (entspringt) dall’esperienza effettiva della vita (faktische Lebenserfahrung), per poi farvi ritorno rimbalzando (zurückspringen) al suo interno. Il concetto di esperienza effettiva della vita è fondamentale. Con la definizione della filosofia in quanto comportamento razionale e conoscitivo non si è detto proprio nulla, poiché in tal modo ci si sottomette all’ideale della scienza, con il conseguente occultamento della difficoltà principale. 3. L’esperienza effettiva della vita come punto di partenza Che cosa significa «esperienza effettiva della vita»? «Esperienza» (Erfahrung) designa: 1) l’attività dell’esperire; 2) ciò che, tramite essa, è esperito. Utilizziamo intenzionalmente questa parola nel suo doppio significato, poiché proprio l’elemento essenziale dell’esperienza effettiva della vita mostra che il sé che esperisce e ciò che è esperito non sono separati l’uno dall’altro come cose. «Esperire» non significa «prendere conoscenza», bensì il «confrontarsi» (sich-auseinandersetzen) con le forme di ciò che è esperito, l’affermarsi (sich-behaupten) di tali forme. Ha un senso sia attivo che passivo. «Effettivo» (faktisch) non significa né «reale secondo natura» né «causalmente determinato» e nemmeno «reale-concreto». Il concetto di «effettivo» non va interpretato in base a presupposti gnoseologici de – finitivi. Esso diventa comprensibile solo a partire dal concetto di «storico». Al tempo stesso, però, l’«esperienza effettiva della vita» è una zona pericolosa per la filosofia autonoma, poiché già in tale zona si fanno valere le ambizioni della scienza. Dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la filosofia e la scienza sarebbero costrutti di senso obiettivi, proposizioni isolate e nessi di proposizioni. Se le scienze sono assunte in generale in termini filosofici e problematici, allora le si indaga, dal punto di vista della teoria della scienza, considerandone isolatamente il contesto proposizionale e di verità. Ma le scienze concrete debbono

essere colte anche nella loro attuazione; alla base va posto il processo della scienza in quanto processo storico. Nella filosofia attuale questo aspetto è non soltanto trascurato, bensì intenzionalmente rifiutato: non deve svolgervi alcun ruolo. Noi sosteniamo la tesi che la scienza è per principio differente dalla filosofia. Su ciò è necessario riflettere. Tutti i grandi filosofi hanno voluto elevare la filosofia al rango di scienza, ammettendo così una carenza della rispettiva filosofia (cioè il fatto che essa non sia ancora una scienza). Ci si orienta quindi verso una filosofia scientifica rigorosa. Ma il rigore è un concetto ultrascientifico? Il concetto e il senso del rigore sono originariamente filosofici, non scientifici. Soltanto la filosofia è originariamente rigorosa: essa possiede un rigore rispetto al quale ogni rigore della scienza è meramente derivato. Lo sforzo costante della filosofia di determinare il proprio concetto fa parte della sua autentica motivazione. Una filosofia scientifica, invece, non può mai ribattere il rimprovero di persistere eternamente in considerazioni «gnoseologiche» preliminari. La filosofia va liberata dalla «secolarizzazione» in scienza e anche in teoria scientifica delle visioni del mondo. Il rapporto di discendenza della scienza dalla filosofia va stabilito in termini positivi. Oggi si assume per lo più un punto di vista di compromesso, secondo cui la filosofia sarebbe in particolare una scienza, però tenderebbe in generale a fornire una visione del mondo. In tal modo, tuttavia, i concetti di «scienza» e di «visione del mondo» rimangono vaghi e non chiariti. Come si può giungere all’autocomprensione della filosofia? Evidentemente la nostra tesi sbarra fin da principio la via della deduzione scientifica. Né appare utile indicare l’«oggetto» (Gegenstand) della filosofia, poiché forse essa non ha a che fare con nessun obietto (Objekt). Forse non si deve affatto domandare del suo oggetto. Mediante intuizioni mistiche troncheremmo il problema sul nascere. Il punto di partenza della via che porta alla filosofia è l’esperienza effettiva della vita. Sembra però che la filosofia

riconduca poi di nuovo fuori dall’esperienza effettiva della vita. In realtà, quella via conduce per così dire solo dinanzi alla filosofia, non fino a essa. La filosofia stessa può essere raggiunta soltanto mediante un’inversione di percorso (Umwendung) lungo la via, non però una semplice inversione che si limiti a indirizzare la conoscenza verso altri oggetti, bensì, in senso più radicale, una vera e propria conversione (Umwandlung). Il neokantismo (Natorp) si limita a capovolgere il processo della «obiettivazione» (della conoscenza dell’oggetto) per giungere così alla «soggettivizzazione» (che costituirebbe il processo filosoficopsicologico). In questo modo l’oggetto è solo trasferito dall’obietto nel soggetto, mentre il conoscere in quanto conoscere rimane il medesimo fenomeno non chiarito. L’esperienza effettiva della vita è qualcosa di affatto peculiare; in essa si rende possibile la via verso la filosofia e si compie anche l’inversione che porta alla filosofia. Questa difficoltà va compresa mediante una caratterizzazione provvisoria del fenomeno dell’esperienza effettiva della vita. L’esperienza della vita è più che una semplice esperienza conoscitiva: essa significa l’intera posizione attiva e passiva dell’uomo nei confronti del mondo. Se consideriamo l’esperienza effettiva della vita orientandoci solo sul contenuto esperito, allora definiamo ciò che è esperito – il vissuto (das Erlebte) – come «mondo» (Welt), non come «obietto». Il «mondo» è qualcosa in cui si può vivere (in un obietto non si può vivere). In termini formali il mondo può essere articolato come mondo-ambiente (Umwelt), milieu, come ciò che incontriamo e a cui ineriscono non solo cose materiali, ma anche oggettualità ideali, le scienze, l’arte, eccetera. In questo mondo-ambiente sta anche il mondo degli altri (Mitwelt), vale a dire altri esseri umani caratterizzati in un ben determinato modo effettivo: in quanto studente, docente, familiare, superiore, eccetera – dunque non come esemplari della specie naturale dell’homo sapiens, e così via. Infine, anche l’iostesso (Ich-Selbst), il mondo del sé (Selbstwelt), rientrano nell’esperienza effettiva

della vita. Nella misura in cui è possibile che io mi consacri completamente all’arte e alla scienza al punto di vivere totalmente in esse, arte e scienza sono da definirsi mondi genuini della vita (genuine Lebenswelten). Anch’ essi però sono esperiti nella modalità del mondo-ambiente. Tuttavia non si possono separare nettamente i fenomeni l’uno dall’altro considerandoli come costrutti staccati, né si può domandare del loro rapporto reciproco suddividendoli in classi e tipi, eccetera. Si tratterebbe già di una deformazione, di uno scivolare nella gnoseologia. Una corrispondente classificazione gnoseologica per strati e gradi di questi tre mondi sarebbe già una violenza. Sul rapporto fra i mondi della vita qui non diciamo nulla. L’importante è che essi diventino accessibili all’esperienza effettiva della vita. Di tali mondi è possibile caratterizzare soltanto la modalità, il come (das Wie) dell’esperienza che li riguarda, si può cioè domandare del «senso del riferimento» (Bezugsinn) dell’esperienza effettiva della vita. È problematico se il come, il riferimento (Bezug), determini ciò che è esperito, il contenuto, e come quest’ultimo si caratterizzi. Porremo inoltre in evidenza il prendere conoscenza (die Kenntnisnahme), ossia l’esperire conoscente, dato che la filosofia dev’essere comunque un comportamento conoscitivo. Prima però il senso del prendere conoscenza va compreso in base al motivo dell’esperire stesso. Il carattere peculiare dell’esperienza effettiva della vita consiste nel fatto che il «come mi pongo nei confronti delle cose», ossia la modalità dell’esperire, non è a sua volta esperito. Prima di decretare che la filosofia è conoscenza, va posto fenomenologicamente in evidenza nell’esperienza effettiva della vita ciò che, secondo il senso del conoscere, inerisce a quest’ultimo. L’esperienza effettiva della vita si situa completamente nel contenuto, mentre il come è tutt’al più implicito in esso. È nel contenuto che ha luogo ogni mutamento della vita. Nel corso di una giornata effettivamente vissuta ho a che fare con cose del tutto

eterogenee, però nello svolgersi effettivo della vita non sono affatto cosciente del differente come del mio reagire a tale eterogeneità, giacché essa mi si fa incontro, tutt’al più, nel contenuto stesso che esperisco: l’esperienza effettiva della vita mostra una indifferenza (Indifferenz) riguardo alla modalità dell’esperire. Non pensa che qualcosa potrebbe diventarle inaccessibile. Questo esperire effettivo contesta per così dire tutte le faccende della vita. Le differenze e i mutamenti di accento si situano completamente nel contenuto stesso. Questa indifferenza fonda l’autosufficienza (Selbstgenügsamkeit) dell’esperienza effettiva della vita, che si diffonde ovunque, decidendo, in tale autosufficienza, anche delle cose più alte. Se prestiamo attenzione alla peculiare indifferenza dell’esperire effettivo nei confronti di qualsiasi vita effettiva, ci si fa chiaro un senso determinato e dominante del mondo-ambiente, del mondo degli altri e del mondo del sé: tutto ciò che è esperito nell’esperienza effettiva della vita reca il carattere della significatività (Bedeutsamkeit); ogni contenuto reca in essa questo carattere. Con ciò, tuttavia, non è ancora deciso nulla di gnoseologico, né nel senso di un realismo né nel senso di un idealismo. In questo modo della significatività, che determina il contenuto dell’esperire stesso, esperisco tutte le mie situazioni effettive della vita. Ciò diventa chiaro quando domando in che modo esperisco me stesso nell’esperienza effettiva della vita: nessuna teoria! In genere si è soliti analizzare soltanto concetti dello psichico teoreticamente configurati, mentre il sé non viene problematizzato. Concetti come «anima», «connessione di atti», «coscienza trascendentale», problemi come quello del «nesso fra anima e corpo» – tutto ciò non ha alcun interesse per noi. Nella vita effettiva io non esperisco me stesso né come connessione coerente dell’esperienza vissuta (Erlebniszusammenhang), né come conglomerato di atti e di processi, e neanche come un qualche obietto-io (Ichobjekt) in un senso circoscritto, bensì mi esperisco in ciò che faccio, subisco e mi accade, nei miei stati di depressione e di gioia,

e così via. Io stesso non esperisco nemmeno il mio io separatamente, bensì, nel farlo, sono sempre legato al mondo – ambiente. L’esperire-se-stessi non è né «riflessione» (Reflexion) teoretica, né «percezione interna», eccetera, bensì «esperienza relativa al mondo del sé» (selbstweltliche Erfahrung), poiché l’esperire stesso ha un carattere «mondano», possiede un’accentuata significatività, nel senso che, di fatto, il proprio mondo del sé esperito non è assolutamente più staccato dal mondo-ambiente. L’esperienza del sé è l’unico possibile punto di partenza per una psicologia filosofica, sempre che, in genere, se ne possa postulare una. Voler tornare all’effettivo partendo da teorie psicologiche preconcette è un’impresa sbagliata, giacché nessuna di queste teorie è filosoficamente motivata. «Io però», si potrebbe obiettare, «esperisco me stesso pur sempre anche di fatto, senza particolare riflessione, così come mi sento; so che in questo momento io mi sono comportato male, eccetera». Tuttavia anche questo come non è una modalità configurata del comportamento nei confronti di qualcosa, bensì è una significatività relativa al mondo-ambiente (umweltlich), legata di fatto al mondoambiente. L’effettivo di cui si prende conoscenza non ha carattere di obietto, ma solo di significatività, carattere che, ovviamente, può svilupparsi fino a diventare un contesto obiettivo compiuto. Non speriamo certo che tutto ciò sia compreso immediatamente, giacché queste cose diventano accessibili solo in un costante processo del filosofare che non smette di crescere e di rinnovarsi. Qui si tratta soltanto di compiere il primo passo verso la comprensione della filosofia come tale. 4. Il prendere conoscenza Consideriamo ora il conoscere effettivo, il prendere conoscenza (Kenntnisnahme)! In esso il conosciuto non ha il carattere di obietto, ma è esperito come significatività. Emerge ora un porre in relazione, un coordinare, da cui prende forma un contesto obiettivo contrassegnato da una logica determinata, una logica reale, una struttura peculiare

degli stati di cose particolari. Di fatto, in una determinata situazione ascolto conferenze scientifiche, poi parlo di cose quotidiane, nel medesimo lasso di tempo. La situazione è essenzialmente la stessa, solo il contenuto è mutato, ma in tal caso non sono cosciente di alcun particolare cambio di atteggiamento. Anche gli obietti scientifici sono sempre conosciuti anzitutto nel carattere dell’esperienza effettiva della vita. È tuttavia possibile spingere all’estremo la tendenza a stabilire relazioni e mirare alla connessione strutturale ultima dell’oggettualità in generale (l’idea husserliana di una logica oggettiva a priori). Staccandosi dall’esperire effettivo, il filosofare si caratterizza per il fatto di occuparsi di obietti superiori e supremi, ossia delle «cose prime e ultime». Inoltre, in filosofia tutto è riferito all’uomo e a ciò che per lui è importante (tendenza alla visione del mondo). Anche nel cogliere il soggetto lo stile rimane lo stesso, e anche in tal caso il soggetto è considerato come obietto. In questo modo, ovviamente, in virtù della sua relazione scientifica con l’obietto, la filosofia dovrebbe essere definita anche come scienza nel senso del conoscere compiuto. Le nostre considerazioni non hanno fatto che aumentare ulteriormente la difficoltà dell’autocomprensione della filosofia. Come può essere motivata una modalità di coglimento differente dal prendere conoscenza? Con la sua indifferenza e la sua autosufficienza, l’esperienza effettiva della vita torna sempre a nascondere perfino una tendenza filosofica che sta quasi per emergere. Nella sua cura (Bekümmerung) autosufficiente, l’esperienza effettiva della vita de-cade (fällt ab) costantemente nella significatività. Essa aspira di continuo all’articolazione in scienza e, in definitiva, a una «cultura scientifica». Tuttavia l’esperienza effettiva della vita contiene anche motivi di una condotta puramente filosofica che possono essere messi in risalto solo mediante una peculiare inversione del comportamento filosofico. La differenza tra la filosofia e la scienza non sussiste solo riguardo all’obietto e al metodo, ma è per

principio di natura più radicale. Un autointendimento della filosofia è d’obbligo anche se non si assume alcun rapporto di derivazione della scienza dalla filosofia. Finora i filosofi si sono sforzati di liquidare proprio l’esperienza effettiva della vita come cosa scontata e secondaria – nonostante il filosofare scaturisca proprio da essa – per poi farvi ritorno rimbalzando al suo interno con un rovesciamento (Umkehr) in verità essenziale. Se questa tesi è corretta, tra filosofia e scienza vengono meno tutti i compromessi e le equiparazioni con l’aiuto dei quali la filosofia ha vivacchiato per secoli. Punto di partenza e punto di arrivo della filosofia è l’esperienza effettiva della vita. Se tale esperienza è il punto di partenza della filosofia, e se noi, di fatto, vediamo una differenza di principio fra il conoscere filosofico e il conoscere scientifico, allora l’esperienza effettiva della vita dev’essere non soltanto il punto di partenza del filosofare, bensì proprio ciò che ostacola essenzialmente il filosofare stesso. Posso supporre che, fatte salve rare eccezioni, la maggior parte di voi fraintenda di continuo la totalità delle definizioni e dei concetti da me forniti – e non può essere diversamente. In un primo momento ciò non nuoce affatto, anzi, andando avanti permette che siano indicati, sia pure in modo equivoco, determinati contesti fenomenici che nelle considerazioni successive saranno trattati in maniera da renderne comprensibile il chiaro senso. L’esperienza effettiva della vita è la «autosufficiente cura della significatività conforme all’atteggiamento, decadente e indifferente quanto al riferimento» (die einstellungsmäßige, abfallende, bezugsmäßig -indifferente, selbstgenügsame Bedeutsamkeitsbekümmerung). Prestiamo attenzione anzitutto al senso del riferimento. Emerge qui che lo svolgersi di questo esperire ha un carattere del tutto indifferente e che le differenze di ciò che esperisco hanno luogo nel contenuto. Che a un concerto mi senta disposto diversamente che durante una banale conversazione è una differenza che esperisco solo in base ai contenuti. La

molteplicità delle esperienze mi giunge alla coscienza solo nel contenuto esperito. Il modo di essere lì presente (dabeisein) dell’io e del suo essere coinvolto (mitgenommenwerden) dal mondo è dunque indifferente – così indifferente da contrastare tutto, cioè da sbrigare senza esitazioni tutti i compiti. Questa concezione tende però al decadimento (Abfall) nella significatività. La significatività sembra essere identica al valore (Wert), però il valore è già il prodotto di una teorizzazione e, come ogni teorizzazione, deve scomparire dalla filosofia. Il puro prendere conoscenza non prende conoscenza di obietti compiuti, ma solo di contesti di significatività. Questi tuttavia tendono a un’autonomizzazione, che può senz’altro essere presentata in una «logica degli obietti», dei contesti obiettivi e delle relazioni obiettive. Un ruolo decisivo è svolto dall’esperienza conoscitiva nella sua modalità atematica. Nella tendenza decadente dell’esperienza vitale acquista una forma sempre più definita un contesto obiettivo che si stabilizza sempre più. Si giunge così a una logica del mondoambiente, nella misura in cui la significatività agisce nel contesto obiettivo. Ogni scienza, spingendosi più in là, aspira a costituire un ordine degli obietti sempre più rigoroso, cioè una logica reale (Sachlogik), un contesto reale, una logica situata nelle cose stesse (ad esempio una logica per la storia dell’arte differente da quella per la biologia, eccetera). La filosofia scientifica non è che una configurazione ancora più rigorosa di un ambito oggettivo. Sono costituiti così ambiti oggettivi che «vanno al di là dell’esperienza sensibile», eccetera (il mondo delle idee di Platone). Eppure l’atteggiamento nei confronti degli oggetti rimane lo stesso che nelle singole scienze: il senso del riferimento rimane il medesimo. Sennonché fa la sua comparsa un’altra dimensione di oggetti, nella misura in cui essi sono in grado di chiarire in modo più profondo un contesto. La filosofia recente pone al centro la coscienza (Kant). Il «soggetto» – in particolare nella trattazione fichtiana del problema reale – è una nuova forma dell’oggettualità

rispetto agli altri «obietti». Tuttavia anche qui, nel fatto che Fichte prenda le mosse dalla filosofia pratica di Kant e utilizzi le anticipazioni kantiane, è contenuta una tendenza che in fondo ha carattere di atteggiamento (einstellungshaft). Dunque (in base alla sua storia) la filosofia è sempre una configurazione il più possibile rigorosa di contesti obiettivi – nonostante l’Idealismo tedesco abbia colto la peculiare difficoltà della conoscenza soggettiva. A questo punto non capiamo davvero più come possa sussistere una differenza radicale tra la filosofia e la scienza. La tendenza decadente dell’esperienza effettiva della vita, che la spinge a penetrare di continuo nei contesti significativi del mondo effettivamente esperito – per così dire la sua pesantezza (Schwere) –, provoca una tendenza alla determinazione e alla regolazione obiettiva, avente carattere di atteggiamento, della vita effettivamente vissuta. Il senso dell’esperienza effettiva della vita è dunque contrario al senso della nostra tesi. Dobbiamo guardarci intorno nell’esperienza effettiva della vita allo scopo di individuare un motivo per la sua inversione. Trovare questo motivo è possibile, ma molto difficile. Scegliamo dunque una via più comoda. Noi abbiamo conoscenza della filosofia passata e presente. Certo, il sussistere di fatto della storia della filosofia non è in sé ancora un motivo per filosofare, ma si può comunque partire da essa come da un patrimonio culturale, ricavandone i motivi per filosofare. Al fine di comprendere nel modo più vivo possibile, seguendo rigorosamente il senso dell’esperienza effettiva della vita, guardiamoci attorno nelle tendenze filosofiche del presente, non per comprenderle filosofando, ma solo nel senso del prendere conoscenza, del conoscere di fatto. Per brevità consideriamo alcune concrete tendenze della filosofia della religione nei loro rappresentanti più tipici.

II TENDENZE ATTUALI DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE 5. La filosofia della religione di Troeltsch L’interesse per la filosofia della religione è oggi in crescita. Perfino gentildonne scrivono di filosofia della religione, e i filosofi che vogliono essere presi sul serio le salutano come il più importante fenomeno da decenni! Si vedano ad esempio i due saggi pubblicati sui «Vorträge der Kant-Gesellschaft», fascicolo 24: 1) Radbruch, Zur Religionsphilosophie des Rechts e 2) Tillich, Über die Idee einer Theologie der Kultur.18 Entrambi sono influenzati da Troeltsch. Nelle considerazioni che seguono vogliamo delineare la posizione di Troeltsch nell’ambito della filosofia della religione, dato che egli è il rappresentante più significativo dei suoi sviluppi attuali. Altre ricerche sono svolte in modo non autonomo nell’ambito della teologia. Troeltsch possiede una vasta conoscenza sia dei materiali concreti attinenti alla filosofia della religione sia dell’evoluzione storica della problematica che la riguarda. Egli proviene dalla teologia. Esporre le sue idee è reso difficile dal fatto che ha cambiato spesso il suo punto di vista filosofico di principio, benché – cosa degna di nota – la sua posizione in tema di filosofia della religione sia rimasta costante. In quanto teologo della scuola di Ritschl, la sua prospettiva filosofica è stata determinata in primo luogo da Kant, Schleiermacher e Lotze, mentre la sua filosofia della storia dipende da Dilthey. Negli anni Novanta Troeltsch si è volto alla «filosofia dei valori» di Windelband e Rickert. Negli ultimi anni, infine, è passato alla posizione di Simmel e Bergson. Sulla scorta di questi ultimi ha poi interpretato Hegel, orientandosi infine su di lui per sviluppare la propria filosofia della storia. Quali sono, per Troeltsch, gli scopi della filosofia della religione? Anzitutto l’elaborazione di una definizione scientificamente valida di religione. a) Psicologia I fenomeni religiosi debbono essere in primo luogo

descritti («positivismo»): direttamente, in modo libero da teorie, cogliendo i fenomeni in se stessi (si veda l’analoga esigenza di Max Weber per la sociologia).19 I fenomeni religiosi vanno considerati dapprima in modo ingenuo, non ancora sgrezzato (le preghiere, i culti, le liturgie, soprattutto nel comportamento di grandi personalità religiose, predicatori, riformatori), poi ne vanno definite le condizioni trascendentali originarie. Troeltsch distingue fenomeni religiosi centrali e periferici. Il fenomeno centrale è la fede nel conseguimento della presenza di Dio, insieme al quale in linea di principio è dato il comandamento morale. Forme periferiche sono la sociologia e l’etica economica della religione, ossia la sua espressione effettiva nel mondo storico (come l’ha studiata ad esempio Max Weber). Per raggiungere questo scopo la filosofia della religione deve servirsi del metodo non solo della psicologia individuale e dell’etnopsicologia, ma anche della psicopatologia, della preistoria e dell’etnologia, nonché di quello americano dell’inchiesta e della statistica. Secondo Troeltsch, finora a condurre meglio la descrizione dei fenomeni religiosi è stato William James in La varietà dell’esperienza religiosa.20 (Qui Troeltsch subisce l’influsso della psicologia descrittiva di James e di Dilthey). Troeltsch ha dunque assimilato tutte le tendenze psicologiche fondamentali. b) Gnoseologia Alla descrizione psicologica segue, come secondo compito, la gnoseologia della religione e del momento di validità contenuto nei processi psichici (Troeltsch, Psychologie und Erkenntnistheorie, relazione tenuta al congresso americano per la filosofia della religione del 1904).21 Si tratta di indagare la legalità razionale della formazione di idee religiose, nel cui caso agiscono sempre determinate leggi a priori che stanno alla base dei fenomeni religiosi. La gnoseologia generale ha già stabilito i lineamenti universali della problematica dell’a priori (qui Troeltsch si fonda sulla gnoseologia di Windelband e Rickert). C’è un a priori sintetico del religioso proprio come

c’è un a priori logico, etico ed estetico. Mettere in risalto questo a priori religioso significa fissare la «verità» religiosa in genere, l’elemento razionale presente nel religioso. Troeltsch (in particolare nell’opera tarda) non intende il termine «razionale» nel senso di «teoretico-razionalistico», poiché nel suo caso «razionale» significa solo «generalmente valido» o «necessario secondo ragione». Dapprima Troeltsch lo ha definito a priori razionale, poi però ha abbandonato questa concezione. Ora egli, senza precisarne il contenuto, sostiene che non si tratta di un a priori razionale, bensì irrazionale, e che l’importante è mettere in connessione l’a priori logico, etico ed estetico con l’a priori religioso, per vedere come quei tre a priori ottengano il loro consolidamento sulla base dell’a priori religioso. Il lavoro della gnoseologia della religione è critico, giacché il suo intento è separare ciò che è effettivo-psicologico da ciò che è valido a priori. L’esperienza effettiva della vita non ha (in questo contesto) la funzione di un ambito, o di una regione, in cui compaiono obietti. Essa non ha nulla a che fare con un monismo dell’esperienza o con una teoria monistica: qui nulla viene «spiegato». Assumendo e chiarendo contesti significativi dati, la fenomenologia attuale non si interroga in modo sufficientemente rigoroso sul diritto di validità delle datità effettive. Eppure l’esperienza effettiva della vita è ciò che è già dato, sulla cui base, ovviamente, non si possono fornire «spiegazioni». La fenomenologia non è una scienza preliminare alla filosofia, bensì è essa stessa filosofia. Gli studi attuali in tema di filosofia della religione si compiono principalmente nella teologia medesima, soprattutto in quella protestante, mentre la teologia cattolica affronta i problemi sotto l’aspetto della concezione specificamente cattolica del cristianesimo. La teologia protestante dipende essenzialmente dalle principali correnti filosofiche del momento, cui essa di volta in volta si lega. È un pregiudizio dei filosofi della religione pensare di poter liquidare il problema della teologia con un rapido gesto.

Accanto a tali studi va considerato quello della psicologia della religione, riguardo al cui contributo si dovrà decidere in seguito. Nella misura in cui il problema posto dalla filosofia della religione è affrontato all’interno della filosofia, si può supporre che l’avvicinamento a Fichte e a Hegel, oggi in costante crescita, porterà senza dubbio a un rinnovamento della speculazione in tema di filosofia della religione.22 Con il consolidarsi di questi princìpi il problema posto dalla filosofia della religione è spinto in una determinata direzione, cui in seguito opporremo un rifiuto critico. Ma in ogni caso questa tendenza speculativa ha un significato particolare per lo sviluppo degli studi di filosofia della religione che si realizzerà indubbiamente. Il fatto che oggi siano i letterati a essersi impossessati della filosofia della religione vi dovrebbe essere noto, ma non deve darvi ulteriori preoccupazioni. c) Filosofia della storia Solo separando lo psicologico da ciò che è a priori ci si può interrogare sulla necessità storica interna al religioso. La storia della religione considera la realizzazione dell’a priori religioso nel corso effettivo della storia dello spirito, benché non contempli i nudi fatti, bensì le leggi secondo cui la religione storicamente si sviluppa. Il primo a perseguire questo scopo è stato Hegel, ma il suo metodo costruttivo è inaccettabile. È vero che in questo caso non si può fare a meno della metafisica, però può essere ammessa solo una metafisica «induttiva». La filosofia della storia della religione deve inoltre sia comprendere il presente sia determinare in anticipo lo sviluppo futuro della religione. Essa deve decidere se si giungerà a una religione razionale universale, nata in modo sincretistico dalle attuali religioni universali (dunque a un cattolicesimo evangelico, secondo la definizione di Söderblom) – oppure se in futuro dominerà una delle religioni positive (cristianesmo, buddhismo, islam) da sola. d) Metafisica È una metafisica delle idee di Dio basata sull’insieme

delle nostre esperienze del mondo. Anche la gnoseologia critica (Kant, eccetera) può giungere a una metafisica siffatta, poiché dal contesto teleologico della coscienza (trascendentale) si perviene a un senso ultimo, che esige l’esistenza di Dio. In effetti, Troeltsch ha portato la filosofia della religione fuori dalla teologia, incentrandola sul problema del legame fra la storia della religione e la sistematica della religione (si veda Albrecht Ritschl, 1822-1889). In seguito, ricollegandosi alla «coscienza in generale» di Rickert, ha tentato un’elaborazione e una critica razionale dei materiali relativi alla storia della religione. Il fallimento di questo tentativo lo ha spinto alla rottura con la teologia. Egli intende sostenere la filosofia della religione recente mediante una «fenomenologia provvisoria», cioè una teoria tipologica provvisoria delle religioni storiche, definendo «psicologia della religione» questa descrizione. Il fenomeno centrale è la fede nella possibilità di vivere la presenza di Dio, laddove la mitologia, l’etica, la sociologia della religione restano al margine. La psicopatologia e l’etnologia individuano il fenomeno originario di tutte le religioni nella mistica, l’esperienza vissuta dell’unità in Dio. Ovunque la religione si realizzi in termini psichici sono necessari fondamenti a priori, che poi contrassegnano come religiosi appunto i singoli processi psichici. La gnoseologia della religione deve formulare, in termini analoghi all’a priori teoretico, un a priori religioso, che significhi una fissazione del contenuto di verità, ossia del «momento razionale» della religione in virtù del quale soltanto diventa possibile qualcosa come la «religione» (cfr. Rickert). Ratio significa successivamente in Troeltsch una conformità alla norma, non solo in campo logico, ma anche in campo etico, e così via. La riunificazione dell’a priori così individuato ed evidenziato con le modalità psichiche di manifestazione della religione spetta alla metafisica religiosa. All’a priori religioso corrisponde, in Troeltsch, un superiore mondo dello spirito, la cui esperienza costituisce il fenomeno religioso fondamentale. In Troeltsch

la metafisica religiosa è qualcosa di differente in linea di principio dalla metafisica filosofica, proprio come l’a priori religioso è differente dall’a priori teoretico. Dopo di che può avere luogo un’esposizione storica basata su un principio teleologico di sviluppo tratto dalla filosofia della storia. A ciò darà il suo contributo la metafisica, non però una metafisica dialettico-costruttiva, come quella di Hegel, bensì una metafisica induttiva della religione. La filosofia della religione deve inoltre trasformare l’ulteriore sviluppo della religione e risolvere o discutere, ad esempio, la questione della religione puramente razionale, o del sincretismo, oppure la questione di una religione prescelta fra le grandi forme di religione (si veda Söderblom), eccetera. La metafisica della religione deve inserire la realtà di Dio nel contesto del mondo. Perfino all’interno di una filosofia gnoseologica il fondamento teologico e il senso della fatticità (Faktizität) della coscienza condurranno a una fede in Dio. Nell’ambito della filosofia della religione abbiamo quindi quattro discipline: 1) la psicologia, 2) la gnoseologia, 3) la filosofia della storia – queste tre riunite costituiscono la scienza della religione – e 4) la metafisica, che è l’autentica filosofia della religione. Mentre la scienza della religione è una disciplina filosofica come la logica, l’etica e l’estetica, la metafisica è fondata su di esse come ambito ultimo. Lo stesso Troeltsch, accanto a ricerche più specifiche (si veda Soziallehren des Christentums, eccetera),23 si è occupato soprattutto di filosofia della storia, mutando il proprio orientamento riguardo alla sua fondazione di principio. In passato egli concepiva la storia in senso teleologico, come sviluppo ascendente. Recentemente ha invece rivendicato a ogni epoca della storia della religione il suo senso proprio, sicché nessuna epoca va più considerata un mero punto di passaggio. Dalla vivacità della vita emergono motivi sempre nuovi, non più razionalmente concepibili, per l’epoca successiva. Le religioni scaturiscono da momenti razionali e da forze spontanee della vita, hanno il loro senso che si autonomizza trasformandosi nel motore di uno sviluppo. Non

si può stabilire un nesso logico-dialettico, e uno schema logico di sviluppo costituisce una violenza (si vedano Simmel e Bergson). Troeltsch si pone il problema di una «dialettica storica» (si veda il suo saggio nella «Historische Zeitschrift»).24 Egli abbandona così la filosofia della storia di Rickert tornando a Dilthey (si veda Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften).25 I suoi concetti fondamentali sono «totalità individuale» e «continuità del divenire», non più «sviluppo» (cfr. la «connessione efficiente» di Dilthey). Troeltsch non ha ancora approfondito la modificazione, che ne consegue, della sua concettualità a priori, sicché non è chiaro se adesso egli si attenga ancora, nel senso di Rickert (cfr. Simmel), al concetto di a priori religioso (si veda la sua critica al libro di Otto, Das Heilige, apparsa nelle «Kant-Studien» del 1917).26 6. Osservazioni critiche Non intendiamo criticare la prospettiva di Troeltsch, bensì comprendere in termini ancora più precisi la sua posizione di fondo. Si tratta di definire in modo scientificamente valido l’essenza della religione. Troeltsch ha un quadruplice concetto essenziale di religione: 1. L’essenza psicologica della religione; le specie della sua determinatezza formale. 2. L’essenza gnoseologica della religione; l’a priori della ragione religiosa. 3. L’essenza storica della religione, concepita come tipologia generale; la realizzazione dei punti 1 e 2 nella storia. 4. L’essenza metafisica della religione: il religioso in quanto principio di ogni a priori (posizione della religione nel contesto complessivo della ragione). Solo tutti e quattro i concetti forniscono un panorama completo della filosofia della religione. Dobbiamo comprendere ora in che modo tale filosofia si riferisca alla religione, se cioè essa nasca dal senso della religione o se invece la religione non sia subito concepita in termini oggettuali e introdotta a forza in discipline filosofiche, ossia

inserita in contesti reali già sussistenti in sé prima della religione. Ci sono anche una psicologia, una gnoseologia, una filosofia della storia e una metafisica della scienza e dell’arte. Dunque queste discipline della filosofia della religione non nascono dalla religione stessa in quanto religione. Il religioso è considerato e classificato fin da principio come obietto. La stessa filosofia della religione è scienza della religione. Così l’intera problematica è rinviata alla concezione della filosofia come tale. Il concetto di religione diventa secondario. Si potrebbe pensare altresì a una sociologia o a un’estetica della religione. Una indicazione trainante della filosofia della religione di Troeltsch è rappresentata dalla sua concezione della Riforma. Nella Riforma egli non vede nulla di nuovo; sostiene piuttosto che si sia sviluppata in seno alla struttura medioevale del senso. Il nuovo emergerebbe solo nel diciottesimo secolo e nell’Idealismo tedesco. Così anche Troeltsch ha accolto nella sua filosofia della religione molti elementi medioevali e cattolici. A ragione gli si contesta di non aver compreso affatto Lutero – come Dilthey. In fondo, ciò che interessa a Troeltsch è la metafisica della religione, la prova dell’esistenza di Dio. Tuttavia tale prova non è originariamente cristiana, bensì dipende dal rapporto fra il cristianesimo e la filosofia greca. Questa concezione metafisica determina anche la filosofia della storia di Troeltsch. Non intendiamo svolgere una critica di tipo contenutistico, bensì vedere in quale rapporto stiano la religione e la filosofia, in che modo la religione diventi oggetto della filosofia. La religione è collocata da Troeltsch fra le quattro discipline della filosofia della religione, dunque in un contesto reale già pronto. Nella misura in cui la considerazione filosofica del mondo si muove in ambiti differenti, la religione è collocata in questi ambiti e osservata nel suo modo di esprimersi al loro interno. Nascono così i quattro concetti essenziali della religione. I quattro ambiti sono separati non solo dal punto di vista del

metodo, ma anche secondo il loro carattere reale. In base alla sua struttura e al suo carattere essenziale, la realtà psichica è qualcosa di differente dall’ambito a priori della legalità razionale, così come tale ambito è qualcosa di differente dalla realtà della storia – in particolare della storia universale –, la quale è a sua volta qualcosa di differente dalla realtà metafisica ultima, in cui è pensato Dio. Non importa quali siano le connessioni fra i vari ambiti. Dunque la filosofia della religione non si determina qui in base alla religione stessa, bensì secondo uno specifico concetto di filosofia e, precisamente, secondo un concetto scientifico. Potrebbe sembrare che la metafisica di Troeltsch ci offra qualcosa di nuovo: la religione non sarebbe più considerata come obietto, giacché si avrebbe a che fare piuttosto con il fenomeno originario, la fede nell’esistenza di Dio, che non sarebbe affatto raggiunta per via conoscitiva. Troeltsch però afferma che, nella misura in cui la ragione è un’unità, l’«obietto» della fede va considerato come obietto reale in rapporto ad altri obietti reali. In una considerazione ultima e universale dell’obietto, l’insieme dell’esperire umano va elaborato in concetti, sicché anche Dio è da considerarsi come obietto reale. Si capisce qui inoltre come Troeltsch abbia potuto mantenere invariata la sua posizione in tema di filosofia della religione, pur mutando le sue concezioni filosofiche di principio. Per lui la religione è fin dall’inizio obietto e, come tale, può essere sistemata in differenti contesti reali (in modo corrispondente ai differenti «sistemi» filosofici). È proprio la possibilità in Troeltsch del costante mutamento che costituisce il segno più marcato del fatto che egli postula la religione come obietto. Per Troeltsch il rapporto fra la religione e la scienza non è forzato. Trovandosi storicamente inserita in un contesto culturale, la religione deve confrontarsi con la scienza, il che avviene in modo difensivo e negativo nell’apologetica. Ma la scienza della religione, determinandone anticipatamente il futuro sviluppo, può fornire anche un contributo positivo al perfezionamento della religione stessa. È vero che la scienza

non fa la religione, però rappresenta un fattore proficuo del suo ulteriore sviluppo. Lo mostra, secondo Troeltsch, la storia del cristianesimo, che avrebbe raggiunto la sua posizione storica dominante grazie al legame con la filosofia antica. Non c’è dubbio, peraltro, che attualmente le possibilità creative della filosofia della religione siano esaurite. Si tratta solo di evidenziare la giusta possibilità. Che cosa abbiamo ricavato per i nostri scopi dall’analisi di Troeltsch? Anzitutto un’idea concreta della filosofia della religione. Poi quattro definizioni che si possono attribuire alla religione: quella psicologica, quella razionale-a priori, quella storica e quella metafisica. Infine, è risultato che la filosofia si rapporta alla religione in termini di conoscenza obiettiva. Abbiamo dunque argomentato contro la nostra tesi della differenza radicale tra filosofia e scienza. Infatti, dato che la filosofia deve trasformare la religione nell’obietto della sua conoscenza, non è chiaro in che modo la filosofia debba occuparsi della religione se, tra la filosofia e la scienza (cioè la conoscenza obiettiva), deve sussistere una differenza fondamentale del senso del riferimento. Non è forse vero che sia nella «fenomenologia della religione» sia, ad esempio, nella fenomenologia della fruizione estetica, i «fenomeni» diventano oggetti della considerazione? Prima però di sottoporre la religione a una considerazione filosofica determinata, si rende anzitutto necessario esaminarla nella sua realtà concreta.

III IL FENOMENO DELLO STORICO 7. Lo storico come fenomeno essenziale Tenteremo ora di mettere in luce un fenomeno essenziale che domina i contesti di senso delle tre parole del titolo («Introduzione alla fenomenologia della religione»). Questo fenomeno essenziale è lo «storico» (das Historische). Mirando dunque a stabilire, in ciò che il significato del titolo intende, lo storico come fenomeno essenziale, potremo comprendere per esperienza diretta in che senso i fenomeni di cui ci stiamo occupando possano essere caratterizzati come storici. In che senso «introduzione», «filosofia» e «religione» sono fenomeni storici? Sembra ovvio che l’«introduzione» a una scienza sia storica. La scienza è un insieme di princìpi validi al di fuori del tempo. Il processo dell’introdurre, invece, si svolge nel tempo e dipende dallo stato contingente, storico-effettivo, della scienza, eccetera. Lo stesso vale per la «filosofia» e la «religione», poiché anch’esse sottostanno allo sviluppo storico. Ma lo storico non è forse indifferente proprio alla filosofia, che cerca ciò che vale in eterno? Inoltre, la caratterizzazione di «storico» non si adatta forse a qualsiasi fenomeno? Se però affermiamo che la problematica filosofica trae fondamentalmente la sua motivazione dallo storico, ciò è possibile solo in quanto il concetto di storico è equivoco. Emerge comunque la necessità di cogliere in linea di principio il problema dello storico, senza accontentarsi delle osservazioni del comune buon senso. Abbiamo caratterizzato la filosofia e la religione come sottoposte allo storico: «La filosofia e la religione sono fenomeni storici» (esattamente come: «Il Feldberg e il Kandel sono montagne», oppure: «L’università, il duomo, la stazione sono edifici»). Come sia possibile una siffatta caratterizzazione della filosofia è un problema. In ogni caso, essa consiste nell’esperienza effettiva della vita. Concetti generali sono trattati come obietti, cosicché nel caso della caratterizzazione operata mediante concetti generali ci si

muove in circolo senza uscire dall’ambito obiettivo. La questione, ora, è se vi sia la possibilità di scoprire un altro senso di «storico» che non possa assolutamente essere attribuito agli obietti. Forse l’attuale concetto di storico è solo una derivazione di quel concetto originario. A questo scopo esaminiamo in modo ancora un po’ più preciso in che senso vada intesa la caratterizzazione «storico» da noi appena compiuta. «Storico» significa qui: divenire, nascere, trascorrere nel tempo. È una caratterizzazione che si addice a una realtà. Finché si resta entro la considerazione conoscitiva dei contesti obiettivi, ogni caratterizzazione o ogni impiego del senso di «storico» sono sempre determinati da questa anticipazione (Vorgriff) concernente l’obietto. L’obietto è storico; esso ha la proprietà di trascorrere nel tempo, di trasformarsi. Non partiamo dalla consueta filosofia della storia, che ha ex professo il compito di trattare lo storico. Noi intendiamo lo storico così come lo incontriamo nella vita, non nella scienza della storia. «Storico» non significa soltanto il trascorrere nel tempo, ossia non è solo una caratterizzazione inerente a un contesto obiettivo. Tuttavia, sulla scorta di questa concezione, nell’esperienza effettiva della vita e nello sviluppo diretto della filosofia come atteggiamento, lo storico assume il carattere di proprietà di un obietto che si trasforma nel tempo. In un senso assai più ampio rispetto al fatto storico sussistente solo nel cervello di un logico, che risulta soltanto da uno svuotamento epistemologico del fenomeno vivente, lo storico è vitalità immediata. a) Il «pensiero storico» La «coscienza storica» sarebbe ciò che distingue la nostra civiltà attuale dalle altre. Il pensiero storico determina in effetti la nostra civiltà e la rende inquieta: in primo luogo eccitandola, incitandola e stimolandola; in secondo luogo ostacolandola. Esso significa: 1) un compimento; la vita si regge nella molteplicità dello storico; 2) un peso. Lo storico è dunque una potenza contro cui la vita cerca di affermarsi. Bisognerebbe considerare lo sviluppo della coscienza storica

nella storia vivente dello spirito. Vi rinvio a Dilthey, che peraltro, a mio avviso, non ha colto il nocciolo del problema. Ciò che Troeltsch afferma in proposito (anche ciò che dice sulla Riforma) è essenzialmente influenzato da Dilthey, ed è definito in modo più preciso solo nei contenuti. 1. La mondanizzazione e l’autosufficienza della vita effettiva, il fatto che si voglia assicurare la propria vita con mezzi intramondani, portano a una tolleranza verso le concezioni estranee mediante le quali si vuole ottenere nuova assicurazione. Ne deriva l’attuale smania di comprendere forme spirituali, di tipizzare forme di vita, epoche e civiltà, smania che arriva fino alla convinzione che con ciò si sarebbe raggiunta la dimensione ultima. Ci si adagia su ciò e ci si rallegra della molteplicità della vita e delle sue forme. In questa panarchia del comprendere, la coscienza storica del presente perviene alla sua espressione più acuta. È in tal senso che lo storico riempie la vita (attuale). Tuttavia, ciò che si afferma come logica storica e metodologia della storia non ha alcun contatto con la storicità vivente (lebendige Geschichtlichkeit) che si è per così dire radicata nella nostra esistenza. 2. La tendenza opposta, quella che ostacola, consiste nel fatto che lo storico distoglie lo sguardo dal presente, distrugge la spontaneità del creare e, in tal modo, lo paralizza. Ne deriva l’assalto contro lo storico da parte dell’attivismo genuino. b) Il concetto di storico Lo storico è il fenomeno che deve aprirci l’accesso (Zugang) all’autocomprensione della filosofia. La questione fenomenologica del metodo non riguarda il sistema metodico, bensì l’accesso che conduce attraverso l’esperienza effettiva della vita. Per comprendere le nostre osservazioni è importante considerare il contesto metodico, il quale è metodico nel senso dell’accesso che porta ai problemi stessi e che, come vedremo, svolge un ruolo decisivo nel filosofare. Lo scopo è ottenere dall’esperienza effettiva della vita motivi per l’autocomprensione del

filosofare. Solo in base a tale autocomprensione si concretizza per noi l’intero compito di una fenomenologia della religione, che è dominata dal problema dello storico. Se si ascolta in modo diretto, effettivo, la parola problematica «lo storico», ci si trova – volendo filosofare su di essa – immediatamente rinviati alla filosofia della storia, credendo, con questo rinvio a una disciplina saldamente circoscritta, di avere risolto già metà del compito. Non è tuttavia in base alla filosofia della storia che possiamo cogliere il fenomeno dello storico, poiché siamo contrari a ogni suddivisione della filosofia in discipline. Con ciò lo storico ha, per così dire, perso la sua patria (ist heimatlos geworden), il suo luogo sistematico. Dobbiamo quindi desumere lo storico dalla vita effettiva. Non si dice mai: «Qualcosa è storico», qualcosa, un obietto, ha la proprietà di essere storico. Così lo storico ricade in un contesto obiettivo. In tal modo anche la filosofia e la religione sono ovviamente fenomeni storici. Ma con questa caratterizzazione non si è detto nulla di significativo, poiché in questo senso anche l’arte e la scienza sono storiche. Anzi, proprio nel caso della filosofia tale caratterizzazione sembra essere secondaria, dato che l’importante è ciò che la filosofia è in base al suo senso, a prescindere dal modo in cui si è realizzata storicamente. Solo se ci si interroga sulla validità dei princìpi scientifici lo storico svolge un certo ruolo (per quanto negativo). Si sostiene che la validità di questi princìpi è indipendente dallo storico, è «sovratemporale», e che la considerazione dello storico serve solo a mettere in luce tale fatto. Questo tuttavia sarebbe più un ruolo secondario per lo storico, giacché in tal caso il senso della filosofia e del valere è già presupposto. Noi però affermiamo l’importanza dello storico per il senso del filosofare in generale, prima di tutte le questioni riguardanti la validità. Ciò perché il concetto di storico è equivoco, e non ne abbiamo ancora colto il senso autentico. Il senso dello storico va chiarito in termini fenomenologici. Che cosa si intende quando si dice che un certo processo,

un’impresa, eccetera, sono «storici»? Si intende che ogni accadere spazio-temporale ha la proprietà di stare in un contesto temporale e diveniente. Si attribuisce dunque a un obietto la proprietà di essere storico. Obietto (Objekt) e oggetto (Gegenstand) non sono la stessa cosa. Tutti gli obietti sono oggetti, ma non tutti gli oggetti sono obietti. C’è il pericolo di scambiare determinatezze obiettive per determinatezze oggettive, così come, viceversa, si è indotti a prendere certe determinatezze oggettive per determinatezze obiettive, applicando punti di vista formali a specifiche considerazioni oggettive. La cancellazione, da Platone in poi, di queste differenze è fatale. Ora, un fenomeno non è né obietto né oggetto. In verità, in termini formali un fenomeno è anche un oggetto, cioè qualcosa in generale, però così non si è detto niente di essenziale sul fenomeno, dato che in tal modo esso è stato collocato in una sfera che non è la sua. È questo che rende così straordinariamente difficile la fenomenologia. Obietti, oggetti e fenomeni non possono essere messi l’uno accanto all’altro come su una scacchiera, poiché anche questa sistematizzazione degli oggetti è inadeguata ai fenomeni come tali, e dal punto di vista della fenomenologia una dottrina delle categorie o un sistema filosofico perdono senso. È importante per noi anzitutto solo la differenza di obietto e oggetto. Peculiare di un obietto è dunque l’essere determinato temporalmente: con ciò esso è storico. Non sembra individuabile un concetto di storico più generale di questo. La realtà storica andrà modificandosi ogni volta a seconda del carattere dell’obietto, però in linea di principio lo storico sarà lo stesso. Anche l’applicazione dello storico alla realtà umana sarà una determinazione di questo storicoobiettivo (das Objekts-Historische). L’uomo stesso nella sua realtà è, in quanto obietto, nel tempo, sta nel divenire. Essere storico è appunto una delle sue proprietà. Questa concezione dello storico si sviluppa ancora totalmente nella sfera del comune buon senso. Ma la filosofia non è altro che

una lotta contro il comune buon senso! Non si può liquidare il problema dello storico in questo modo, per quanto difficile possa essere, oggi, giungere a una concezione differente. Se ci basiamo sulla filosofia della storia attuale e lasciamo che sia essa a sottoporci i problemi, non oltrepasseremo mai il «concetto-obiettivo» (Objekts-Begriff) di storico or ora descritto. È per questo che vogliamo prendere le mosse dalla vita effettiva. L’odierna filosofia della storia assume allora importanza solo come una concezione effettiva del problema storico. Noi però non ci poniamo sul suo terreno, non la seguiamo, bensì cerchiamo soltanto di comprendere quali siano i motivi autentici di tale concezione della filosofia della storia. Per acquisire una comprensione profonda sarebbe necessario immedesimarsi nell’intera mentalità contemporanea. Qui possiamo evidenziare solo alcuni indirizzi di fondo. c) Lo storico nell’esperienza effettiva della vita Lo storico svolge un ruolo nell’attuale esperienza effettiva della vita secondo due indirizzi principali: 1) in positivo la molteplicità delle forme storiche dà alla vita un compimento e lascia che si posi nella molteplicità delle conformazioni storiche; 2) in negativo lo storico è per noi un peso, un ostacolo. Da entrambi i punti di vista lo storico è inquietante. Contro di esso la vita cerca di affermarsi e di assicurarsi. La questione è se ciò contro cui la vita effettiva si afferma sia ancora realmente lo storico. A tale proposito sono importanti le ricerche di Dilthey: Einleitung in die 27 Geisteswissenschaften, Die Aufklärung und die 28 geschichtliche Welt (in «Deutsche Rundschau»), Analyse und Auffassung des Menschen im 15. und 16. Jahrhundert (in Gesammelte Werke, II).29 L’espressione della coscienza storica è in un primo momento equivoca. C’è una scienza della storia perché lo storico svolge un ruolo nella nostra vita attuale, e non viceversa. «Pensiero storico» può significare una quantità di cose: nel caso di un obietto storico non ho affatto bisogno di

pensare in termini storici, e d’altronde posso pensare in termini storici senza avere dinanzi a me un obietto storico. Il problema dello storico acquista il suo significato dal fatto che, mediante il distacco da un determinato (attuale) punto di vista ideologico, lo storico apre gli occhi per altre forme di vita e altre epoche culturali. Ora, o in questo comprendere onnicomprensivo, in questo accrescimento dell’accessibilità e dell’apertura come tali, si scorge il massimo che il nostro tempo attuale, dotato di una enorme sensibilità, ha da offrirci – oppure si sottopongono i differenti tipi comparsi nella storia per così dire alla scelta e alla decisione fra gli uni e gli altri, scelta che deve fondarsi sul loro confronto. In modo ancora più intenso, tuttavia, lo storico è percepito oggi come un peso. Esso ostacola la nostra spontaneità creativa. La coscienza storica accompagna costantemente, come un’ombra, ogni tentativo di nuova creazione. Subito si risveglia la coscienza della caducità e ci priva dell’entusiasmo per l’Assoluto. Ora, poiché tutto aspira a pervenire a una nuova cultura spirituale, la coscienza storica intesa in questo senso opprimente va estirpata, sicché l’affermar-si (sich-behaupten) contro lo storico è, in senso proprio, una lotta più o meno aperta contro la storia. 8. La lotta della vita contro lo storico In questo tentativo di affermarsi contro lo storico possiamo distinguere tre vie. Si tratta forse di una distinzione un po’ forzata, anche tenuto conto che oggi la vita spirituale non ha più la chiara consapevolezza di confrontarsi costantemente con la storia. a) La via platonica: lo storico è qualcosa rispetto a cui si deve pervenire a un distacco (Abkehr). L’affermar-si è un distacco dallo storico in quanto tale. b) La via del radicale consegnar-si (sich-ausliefern) allo storico (Spengler). c) La via del compromesso fra gli estremi a e b. (Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften; Simmel, Probleme der Geschichtsphilosophie,30 e l’intera filosofia della storia di Windelband e Rickert).

Tentiamo di comprendere, in modo schematico, queste vie per liberarsi dall’effetto inquietante dello storico, al fine di cogliere il senso sia dello storico stesso sia delle tendenze a liberarsene. a) La via platonica La via platonica è la più accessibile e – visto che è la filosofia greca a determinare in modo essenziale la vita spirituale odierna – è quella data in primo luogo e più diffusa. La realtà storica non è l’unica, non è la realtà fondamentale, giacché può essere compresa solo facendo riferimento al regno delle idee, comunque le si intenda nello specifico: come sostanze, valori, norme o princìpi razionali. C’è da notare che in Platone, e ancora oggi, il motivo della scoperta del regno sovratemporale si situa nell’ambito della conoscenza teoretica, della logica, dove, nella lotta contro lo scetticismo (Protagora), ai processi conoscitivi che si svolgono nel tempo si contrappone il contenuto di conoscenza, giungendo così a un concetto di verità inteso come validità in sé di princìpi teorici. Ora, nella misura in cui questo pensiero teoretico svolge un ruolo fondante in Grecia – quindi nella misura in cui tutto è solo in quanto è conosciuto –, a causa di questa posizione dominante del teoretico sia l’agire morale sia il produrre artistico e pratico sono ugualmente riferiti a una realtà ideale di norme e valori. Il primato del logico (teoretico) è riconoscibile dalla posizione di Platone nei confronti di Socrate, cioè dall’interpretazione della sentenza «la virtù è sapere». Secondo Platone, soltanto mediante il sapere è possibile una vita virtuosa. Rimane però la difficoltà del rapporto tra le idee e il mondo sensibile, un problema di cui finora questa filosofia non si è mai preoccupata a dovere. Nel platonismo moderno c’è un ampio spettro di possibilità: gli uni dicono che la realtà è solo l’occasione per la visione delle idee, l’ἀνάμνησις; gli altri concepiscono lo storico come qualcosa che prende forma all’interno della realtà stessa. Le teorie sul rapporto fra i due mondi sono varie e non ci devono

interessare ulteriormente. In ogni caso, lo storico è diventato qualcosa di secondario. b) Radicale consegnar-si Rispetto a questa prima via, la seconda rappresenta una compiuta radicalizzazione in senso opposto, ma in linea di principio si sviluppa nello stesso modo, sicché oggi, nella lotta fra assolutismo e scetticismo, entrambi i partiti si muovono nella medesima direzione, combattendo per qualcosa su cui non hanno fatto chiarezza. La seconda e la terza via sono fondate in modo essenzialmente gnoseologico. Questa fondazione gnoseologica va chiarita. Anche il platonismo ha ottenuto una simile fondazione gnoseologica, però la sua autentica peculiarità consiste nella fondazione ontologica (seinstheoretisch) di una legalità soprareale (überwirklich). La compiuta fondazione gnoseologica della seconda e della terza via ci è stata fornita da Simmel in Probleme der Geschichtsphilosophie. Eine erkenntnistheoretische Studie (prima ediz. 1892, seconda ediz. 1905, terza ediz. 1907). La sua posizione non è originale, giacché la prima formulazione radicale del problema è stata data da Dilthey nella Einleitung. La filosofia della storia di Windelband e Rickert è solo un’analisi vuota e formale dei punti di vista già messi in luce da Dilthey. Superando questa logica della storia, oggi si fa finalmente ritorno a Dilthey e, a distanza di cinquant’anni, si comincia un po’ alla volta a comprenderlo. Se si vuole cogliere in termini filosofici il problema dello storico non conviene partire dalla filosofia della storia, dato che essa rappresenta solo una configurazione determinata di una coscienza storica in merito alla quale è dubbio se sia scaturita anch’essa da una motivazione storica originaria. È significativo che il compito di difendersi dallo storico spetti alla filosofia. Caratterizzazione delle tre vie: la modalità della relazione, il senso del riferimento della tendenza all’assicurazione e il senso della concezione della storia stessa. Simmel domanda: com’è che dalla «materia» della realtà

immediata emerge quel costrutto teoretico che chiamiamo «storia»? La materia subisce un «processo di formazione» (Formungs-Prozess). Ci sono due grandi categorie di analisi della realtà: quella scientifica e quella storica. Rickert si esprime in modo simile, solo che (in Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung)31 fornisce una logica dell’esposizione concettuale, mentre Simmel domanda più nel senso della psicologia della conoscenza. Egli si pone il compito di indagare il processo di formazione entro cui nasce la storia. Ne risulta che l’uomo che è conosciuto è il prodotto della natura e della storia, mentre l’uomo che conosce produce la natura e la storia. La libera personalità umana tiene in pugno la storia, che è un prodotto della libera soggettività formatrice. Come si perviene a questo specifico processo di formazione? Ogni immagine storica, ricevendo la sua struttura dalla soggettività formatrice, dipende da un presente che vede la storia. Quanto alla concezione della sua tendenza di sviluppo, ogni immagine storica è dunque orientata verso il presente. Ma come si giunge a un’immagine storica, a un’obiettività storica? Com’è che la realtà è concepita una volta in termini scientifici, un’altra in termini storici? Si è detto che lo storico è ciò che è efficace. Se dunque un processo mostra una determinata somma di effetti che un altro processo non ha, acquista significato storico.32 Tuttavia, secondo Simmel, la somma dei processi e dei loro effetti non è il significato storico, bensì lo determina. Una somma di processi può infatti essere concepita come efficace solo se c’è un interesse in relazione a cui l’effetto è visto come efficace. Qualcosa diventa storico quando la materia di ciò che è esperito direttamente produce in noi un determinato effetto emotivo, cioè quando ne siamo colpiti. L’interesse storico ha due direzioni fondamentali che debbono essere sempre compresenti se si vuole che nasca qualcosa come la storia. Da un lato, l’interesse storico è interesse per il contenuto come tale, prescindendo completamente dal fatto che la storia narrata sia garantita oppure no, sia narrata

fedelmente oppure no. Questo interesse è gioia e piacere per il contrasto fra il destino e l’energia personale, attenzione per il ritmo di acquisizione e perdita, eccetera. Tuttavia tale interesse non basta. Dall’altro lato, infatti, subentra da sé l’interesse per l’essere reale del contenuto. Ma una realtà in sé non è ancora storica, giacché deve ancora risvegliare l’interesse nel primo senso, quello per il contenuto. Solo quando entrambi gli interessi (per il contenuto e per la realtà) sono compresenti nasce l’interesse storico. Decisivo è che la storia perde il suo effetto inquietante nella misura in cui, con l’analisi gnoseologica, si constata che la sua struttura è solo il prodotto della soggettività liberamente formatrice. Tale tendenza è radicalizzata nella seconda via, contenuta in nuce nella filosofia della storia di Spengler (Der Untergang des Abendlandes).33 Spengler aspira a mettere al sicuro la scienza della storia in quanto tale. In un certo senso la sua tendenza è nuova, e c’è da stupirsi che non sia stata accolta dalla scienza della storia con il favore che in realtà avrebbe meritato. Spengler, infatti, vuole elevare la storia a scienza, in controtendenza rispetto agli interessi che nel diciannovesimo secolo si oppongono al dominio incontrastato delle scienze della natura. Spengler coglie la carenza della scienza della storia proprio nel fatto che la storia – come sottolinea Simmel – è sempre formata partendo da un determinato punto di vista. La scienza della storia andrebbe resa indipendente dalla condizionatezza storica del presente. Bisogna compiere un gesto copernicano. In che modo? Non già assolutizzando il presente che muove e conosce la storia, bensì inserendo anch’esso nel processo obiettivo dell’accadere storico. E tale inserimento può essere compiuto solo sulla base di un modo di pensare gnoseologico, cui Spengler collega poi una metafisica selvaggia, simile a quella di Simmel, secondo la quale la storia è espressione di un’anima («anima della civiltà»). Alla storia non viene contrapposta una realtà sovratemporale, giacché l’assicurazione del presente nei confronti della storia è ottenuta piuttosto considerando

storicamente il presente stesso. La realtà concreta e l’insicurezza del presente sono vissute in maniera tale che il presente stesso è coinvolto nel processo obiettivo del divenire storico, il quale non è che un’oscillazione del divenire dell’«essere che riposa immobile al centro». c) Compromesso fra le due posizioni La terza via tenta di conciliare le prime due. Queste si combattono nel modo più aspro, come mostra la reazione allo scetticismo spengleriano. La terza via si contrappone all’atteggiamento estremo della seconda, alla cui fondazione gnoseologica si ricollega, poiché la configurazione della storia come obiettività nel conoscere è essa stessa normata secondo il valore della verità. La storia è una costante realizzazione di valori, che però non sono mai realizzati completamente. I valori, nello storico – e qui emerge il riferimento a Spengler –, sono dati solo in una forma relativa attraverso la quale però traluce in certo qual modo l’assoluto. L’importante nel confronto con la storia non è quindi, per così dire, perlustrare la realtà storica, bensì, nel quadro di una considerazione universale, raffigurare il futuro in base al patrimonio complessivo del passato entro un processo che, secondo la sua specifica natura, aspira a realizzare ciò che appartiene universalmente all’uomo, l’Umano. In tutte e tre le vie è presente la tendenza alla tipizzazione, che però acquista in ciascuna un significato diverso. La prima via deve avere la tipologia per riferire lo storico al mondo assolutamente valido (idee): la storia è «idiografica» (ἲδιoν, γράφειν) (Windelband)34 e lavora con «idealtipi» (Max Weber).35 Nella seconda via (in Spengler) la tipizzazione svolge un ruolo ancora maggiore. Dato che la storia è la realtà ultima, ciò che importa è indagare le differenti forme di tale configurazione. Il veicolo peculiare di questo genere di conoscenza nell’ambito della scienza della storia è rappresentato dalla costruzione morfologica di tipi. La stessa realtà fondamentale è qui un concetto morfologico, e la costruzione morfologica di tipi è il veicolo specifico della

conoscenza storica. Alla terza via spetta il compito di delimitare in modo netto il presente (nel suo tipo) dal passato, allo scopo di determinare il futuro con l’aiuto di un orientamento nel senso della storia universale (anch’esso possibile solo mediante la costruzione storica di tipi). 9. Tendenze all’assicurazione Finora non si è mai tentato di cogliere il senso della costruzione concettuale morfologico-tipizzante in quanto tale. Il concetto di tipizzazione è importante per il senso dell’assicurazione cui si aspira praticando le tre vie. Nel quadro del nostro problema complessivo consideriamo: a) il riferimento della tendenza all’assicurazione (Sicherungstendenz) alla storia; b) il senso dello storico stesso che ne deriva; c) la domanda se l’assicurazione riesca, ossia se colga realmente ciò che davvero ci inquieta nello storico. a) Il riferimento della tendenza all’assicurazione La via platonica non consiste soltanto in un giustapporre l’idea e la realtà, ma si rende comprensibile solo in virtù della relazione fra l’essere temporale e l’essere sovratemporale. Questa relazione viene espressa ancora oggi nei caratteristici concetti platonici. Essa è chiarita da quattro concetti limite, o immagini: l’essere temporale è una «imitazione» (µἱµησις) del sovratemporale; il sovratemporale è l’«immagine originale (Urbild)» (παράδειγµα), il temporale è l’immagine-copia (Nach-Abbild) (εἲδωλoν); il temporale «prende parte» (µετεχει) al sovratemporale (µέθεξις); presenza (παρoυσἱα) del sovratemporale nell’ente temporale. Queste immagini indicano un nesso ontologico (Seinszusammenhang) obiettivo tra i due mondi del temporale e del sovratemporale. Non ci addentreremo in una discussione di questi concetti, né ci soffermeremo sul modo in cui essi sono poi adattati e utilizzati in termini gnoseologici. Qui ci interessa solo il fatto che l’essere temporale e l’essere sovratemporale sono intesi in modo obiettivo. La modalità, il senso dell’assicurazione si compiono mediante la costruzione di una teoria circa il senso

della realtà del temporale. Se io conosco il senso della realtà del temporale, esso perde per me il suo effetto inquietante, poiché lo conosco come configurazione del sovratemporale. La seconda via evidenzia il medesimo tipo di assicurazione. Per quanto lo scetticismo della seconda via sia contrapposto alla validità assoluta del platonismo, la modalità dell’assicurazione nei confronti dello storico è la stessa in entrambi. In Spengler, infatti, il mondo storico è la realtà fondamentale, l’unica realtà: noi conosciamo soltanto civiltà, cioè il processo diveniente del destino universale. Il fatto di riconoscere che lo storico in cui io stesso mi trovo, e che mi inquieta, sia la realtà fondamentale, fa sì che debba inserirmi nella realtà storica, giacché non posso oppormi a essa. Ne consegue per noi, oggi, il consapevole partecipare alla civiltà occidentale in declino. Anche in Spengler, dunque, l’interpretazione della realtà dello storico ha un effetto liberatorio. Per quanto riguarda la terza via, è del tutto evidente che si tratta soltanto di un compromesso fra le prime due. Essa tenta di realizzare la tendenza all’assicurazione in base a una teoria della realtà storica. Quale compito della filosofia della storia è indicata una «dialettica storica», i contrasti fra temporale e sovratemporale vanno seguiti nella loro tensione e soppressione al fine di evincerne la legalità dialettica dello storico. Da un lato io sono nella storia, dall’altro sono rinviato alle idee: realizzo il sovratemporale tramite l’inserimento nel temporale. Questa bella e toccante beatitudine culturale è stata proposta per così tanto tempo che non vi voglio annoiare con essa. La si ritiene una profonda dialettica con cui si pensa di avere risolto i problemi della storia. Proprio questa via, invece, rappresenta l’estremo appiattimento dell’intera questione, già per il fatto che essa, in quanto compromesso, è incapace di cogliere in modo originario i motivi delle prime due vie, limitandosi piuttosto ad assumerli e a renderli accessibili ai bisogni culturali del presente. Ora, la domanda, per noi, è se queste tendenze teoretiche all’assicurazione siano in generale

conformi al motivo inquietante come tale. In vista di ciò è anzitutto necessario che, sulla base delle vie indicate, cerchiamo di comprendere perché esse si difendano proprio contro la storia. Ed è caratteristico delle tre vie, come dell’intero problema dello storico, che tale questione in realtà sia secondaria, cioè che l’effetto inquietante sia considerato ovvio. In questa prospettiva la storia intesa come scienza della storia non svolge, in un primo momento, alcun ruolo. L’epistemologia della storia è un problema del tutto secondario all’interno del problema dello storico stesso. L’attuale confronto con la storia si manifesta essenzialmente come lotta contro lo scetticismo e il relativismo. Qui la storia si presenta in un senso più popolare, e il nocciolo della dimostrazione è che ogni scetticismo si sopprime da sé. Ma con deduzioni logiche non si ottiene nulla contro le potenze storiche, e la questione dello scetticismo non può essere eliminata in tal modo, giacché questo argomento fu impiegato già dagli antichi Greci. La lotta contro la storia è – indirettamente e inconsciamente – la lotta per una nuova cultura. Tutte e tre le vie sono fondamentalmente dominate dalla concezione platonica, e lo è anche Spengler, che assolutizza la realtà storica solo in opposizione a Platone. La prima via contrappone allo storico la norma assoluta come realtà superiore. La seconda via rinuncia alle norme, vedendo la realtà nello storico stesso, nelle «civiltà». La terza via ammette un minimo di valori assoluti, che però sono dati nello storico solo in forma relativa. L’orientamento nel senso della storia universale dovrebbe far progredire lo sviluppo in virtù di una sintesi creativa di tutte le civiltà passate. In tutte e tre le vie la realtà storica è postulata come un essere obiettivo. La via è quella del conoscere, della considerazione realistica, cui si affianca una tendenza alla tipizzazione, ossia al comprendere che costruisce tipi. Questa tendenza è importante poiché indica il carattere fondamentale dell’atteggiamento teoretico riferito alla storia. In ciò

emerge il carattere di atteggiamento del riferimento alla storia. Il termine Einstellung, «atteggiamento», ha qui un senso ben determinato. Il termine Bezug, «riferimento», lo usiamo nel suo significato generale. Non ogni «riferimento» è un «atteggiamento», però ogni «atteggiamento» ha carattere di «riferimento». L’«atteggiamento» è un riferimento agli obietti tale che in esso il comportamento è completamente riassorbito nel contesto reale. Io mi regolo soltanto sulla cosa, mi stacco da me orientandomi sulla cosa. Con questo «atteggiamento» è al tempo stesso «sospeso» (eingestellt nel senso di «smetterla con qualcosa», ad esempio come quando si dice der Kampf wird eingestellt, «la lotta è sospesa») il riferimento vivente all’oggetto della conoscenza. Abbiamo dunque un doppio senso della parola Einstellung: anzitutto l’atteggiamento che ci colloca in un ambito reale, in secondo luogo la «sospensione» dell’intero riferimento umano al contesto reale. In questo senso definiamo einstellungsmäßig, «conforme all’atteggiamento», il riferimento alla storia nelle tre «vie». Qui la storia è cosa, obietto rispetto al quale sono eingestellt, «atteggiato» conformemente alla conoscenza. Anche Spengler, nel corso delle sue considerazioni, mostra che ciò che ci inquieta è identico a ciò che è inquietato: entrambi sono espressione dell’anima di una civiltà. Il suo riferimento è conoscitivo quanto all’atteggiamento. L’analisi morfologica di tipi non è che la fondazione e il consolidamento del contesto reale in base a sé medesima. Essa liquida un contesto reale in senso logico: la tipizzazione «liquida» la storia. Quando si dice che il comportamento che costruisce sistemi è un comprendere, con ciò si intende al tempo stesso un comprendere come atteggiamento, che però non ha nulla a che fare con il comprendere fenomenologico. b) Il senso dello storico stesso Che cos’è dunque ciò che è inquietato? Da che cosa è motivata l’inquietudine? Per ora possiamo esaminare ciò solo in quanto ci è dato nel senso delle tre vie e quivi è formulato in concetti. L’elemento peculiare delle tre vie consiste in

questo: ciò che l’assicurazione cerca non viene considerato un problema. Ciò che l’assicurazione cerca e ciò che è inquietato sono una ovvietà. Dove è preso in considerazione, il fenomeno dell’inquietudine è già visto entro lo schema platonico. 1. Rispetto a quello originario il platonismo attuale è modificato dall’assimilazione della filosofia kantiana. Anche il neokantismo (le scuole di Cohen e di Windelband) tenta di reinterpretare Platone su questa base. Il platonismo diventa «trascendentale» ed è applicato conformemente alla coscienza, mentre fra il temporale (lo storico) e il sovratemporale (il mondo delle idee) subentra, come terzo regno, con funzioni di mediazione, il regno del senso (scuola di Marburgo, Rickert). In che termini la soggettività costituisce la mediazione? Gli atti di coscienza, le facoltà e le attività della coscienza accadono, si svolgono, hanno un decorso «psichico», ma, oltre a ciò, hanno anche un senso in virtù del quale sono riferiti a oggetti, e tale relazione è determinata da norme. Le difficoltà del platonismo non fanno che ripresentarsi in forma più sofisticata. 2. Spengler. Il fatto decisivo è questo: ciò che è autentica realtà, l’insieme di atti (Aktzusammenhang) dell’esistenza storica, la realtà storico-umana, la vita e l’esistenza attive esigono un’assicurazione, e da ciò nasce la cura. Questa realtà storica attiva e creativa Spengler e altri la chiamano «civiltà». 3. Nel caso della terza via emerge chiaramente ciò che si intende per «bisognoso di assicurazione» (sicherungsbedürftig), senza però che tale inquietudine diventi di per sé problema: l’esistenza è una cosa ovvia, cui non è più necessario prestare attenzione; l’unica cosa che importa è invece assicurarla. La terza via è definita «filosofia della vita». Simmel concepisce la vita in senso più biologico, Dilthey in senso più spirituale, Spengler collega in modo peculiare la prima e la terza via. La «vita» è la realtà fondamentale e si assicura mediante il suo «volgersi all’idea».36 Le idee sono le «dominanti della vita» (Simmel).

La vita tende quindi ad assicurare se stessa o contro la storia (prima via), o con la storia (seconda via), oppure in base alla storia (terza via). Il concetto di vita è equivoco e, da questo punto di vista formale affatto generale, avrebbe senso una critica dell’odierna filosofia della vita. Solo se si riesce a concepire in termini originariamente positivi questo concetto una critica è giustificata, ma non in un senso diverso, altrimenti essa disconosce i motivi autentici della filosofia della vita, ricacciandola nel rigido platonismo. Che per la via platonica la realtà storico-umana non sia compresa in base a se stessa, bensì solo in relazione a contesti di valore a priori, appare evidente in Rickert. Egli sostiene che l’individuo umano nella sua unicità è soltanto ciò che ha fatto per i valori della civiltà. Così il concetto di individuo è concepito in termini puramente platonici. c) È sufficiente l’assicurazione? È sufficiente l’assicurazione per ciò che produce l’inquietudine? Ciò che è inquietato, la realtà della vita, l’esserci (Dasein) umano nella sua cura per la propria assicurazione, non è colto in se stesso, bensì considerato come obietto e inserito come tale nella realtà storica obiettiva. La cura non trova risposta, ma è subito obiettivata. Su questo punto Spengler è il più chiaro di tutti e porta all’estremo le tendenze della filosofia attuale. Egli vuole assicurare la scienza della storia. Con la sua convinzione di essere stato il primo a fare della storia una scienza, egli ha precisamente distrutto la storia, ha matematizzato la storia universale: i tipi stanno l’uno accanto all’altro come palazzi. E la considerazione formale, estetica, dell’anima e dell’espressione è applicata alla storia dall’esterno. Si hanno dunque una tendenza estetica e una tendenza matematica. La vita preoccupata (bekümmert) è collocata in un contesto storico, mentre alla tendenza autentica della cura non si presta attenzione. Come può accadere che, nonostante ciò, le tre vie della vita siano riconosciute come assicurazione? Questo avviene perché la cura è già toccata mediante l’anticipazione

(Vorgriff) della considerazione. La cura è anch’essa reinterpretata come atteggiamento. Ciò dipende dalla tendenza della vita effettiva a decadere quanto all’atteggiamento. È così che, nell’«anticipazione dell’atteggiamento» (Einstellungsvorgriff), la cura stessa diventa obietto. Sta qui il vero e proprio punto di rottura dell’intero problema dello storico. In questo modo il senso della storia, che è predelineato nella cura stessa, non può diventare comprensibile. Si dà qui la possibilità di sopportare il carattere di atteggiamento della considerazione dello storico e, quindi, di scoprire il vero effetto inquietante. Bisogna evitare di desumere il fenomeno dello storico dalla scienza della storia. L’avere postulato la logica della storia come disciplina fondamentale della filosofia della storia pone fin da principio il problema in un contesto sbagliato. Il senso, conforme all’atteggiamento, della storia che compare qui è derivato. In genere accade che, proprio all’opposto, si facciano derivare erroneamente da esso tutti gli altri fenomeni storici. Dobbiamo dunque cercare di cogliere in modo manifesto il fenomeno della cura nell’esserci effettivo. 10. La cura dell’esserci effettivo Come agisce la cura (Bekümmerung) nella vita effettiva? Nelle tre vie la relazione tra l’esserci effettivo e la cura è intesa come relazione d’ordine (Ordnungsbeziehung). L’esserci preoccupato (das bekümmerte Dasein) è inserito in un contesto obiettivo. Ma in che rapporto sta l’esserci preoccupato in quanto tale con lo storico che compare nelle tre vie? L’esserci preoccupato è soltanto un «frammento di obietto» (Objekts-Ausschnitt) facente parte di un intero, grande obietto (la totalità dell’accadere storico obiettivo). L’esserci inquietato si difende a) contro il cambiamento; contro l’esserci che ha carattere di accadimento (geschehnishaft). Detto nei termini della filosofia trascendentale: la coscienza è più che un decorso di atti. Gli atti hanno un senso. b) L’esserci proprio, presente, non aspira soltanto a un senso in generale, ma anche a un senso

concreto, diverso da quello delle civiltà del passato, dunque a un nuovo senso che elevi quello della vita precedente. Esso vuole essere una nuova creazione, che può essere del tutto originaria, o una «grande sintesi», oppure una «fuga dalla barbarie», o comunque si vogliano definire tali tendenze. La nostra indagine non considera il lato del contenuto e la sua legittimazione. Al contrario, partendo da questa espressione dell’esserci preoccupato, tentiamo di ritornare all’esserci stesso. Sembra però che, così facendo, siamo tornati al punto di partenza. Cerchiamo di comprendere l’esserci preoccupato in base alla nostra propria esperienza della vita. In che rapporto sta il proprio esserci vivente – in quanto inquietato dalla storia – con la storia stessa? In che rapporto sta da sé con la storia la vita effettiva? Qui le teorie rimangono completamente al margine, perfino l’idea che la realtà storica sia la realtà dell’accadere che scorre nel tempo. Noi tentiamo solo di determinare il senso della storia in base all’esperienza effettiva. Le difficoltà del problema sono quelle con cui la filosofia deve lottare sempre di nuovo a ogni passo e di fronte a ogni questione. Ciò nonostante, il filo conduttore delle nostre considerazioni rimarrà il vecchio concetto di storico. Per comprendere come ciò sia possibile dobbiamo anzitutto esporre un caposaldo del metodo fenomenologico. Il confronto con la storia è oggi talmente peculiare che si può dire: combattono con armi che essi stessi non comprendono e che appartengono proprio a ciò che combattono. Le tendenze all’assicurazione contro la storia hanno il medesimo carattere della storia concepita come tale, sicché il problema si muove costantemente in un circolo, e una teoria della storia si sostituisce all’altra. Con ciò non intendo dire naturalmente che un giorno potremmo contare su una filosofia della storia valida per l’eternità – questo è un ideale completamente non filosofico –, giacché qui si tratta di un confronto con la storia che nasce piuttosto dal senso dell’esserci effettivo. Nelle tre vie considerate, l’esserci inquietato è inteso

come un obietto all’interno della storia stessa. Scompare così ciò che in senso proprio (originario) è inquietato, e la soluzione dell’inquietudine diventa assai semplice. Noi domandiamo però: che cos’è che, in senso proprio, si vuole assicurare dalla storia? In tutte e tre le vie la vita, la realtà storico-umana, emerge come ciò che deve avere un senso. Nella filosofia attuale questa sfera non diventa un problema o, per lo meno, è concepita solo entro lo schema concettuale della relativa filosofia. Né ci si chiede se, per caso, non sia impossibile cogliere il senso dell’esserci effettivo con i mezzi filosofici attuali. Non si chiede nemmeno come l’esserci effettivo possa essere esplicato (expliziert) in termini originari, cioè filosofici. Sembra quindi che si renda necessario colmare qui una lacuna che si apre nell’attuale sistema filosofico delle categorie. Apparirà tuttavia chiaro che tramite l’esplicazione (Explikation) dell’esserci effettivo sarà fatto saltare tutto il tradizionale sistema delle categorie: a tal punto saranno radicalmente nuove le categorie dell’esserci effettivo. L’esserci effettivo, inteso come un accadere avente un decorso obiettivo, non può semplicemente essere cieco, bensì deve recare in sé un senso, esigendo quindi per sé una determinata legalità. Tuttavia non si pretende solo una legalità in generale, giacché il presente vuole edificarsi ulteriormente nel futuro, in una nuova creazione del proprio esserci e di una propria nuova civiltà. Questa tendenza attribuisce all’esserci effettivo un particolare risalto, e ogni sforzo si concentra su di esso. Lasciamo da parte la concezione della storia di cui abbiamo discusso e domandiamo: in che rapporto sta lo storico con l’esistenza effettiva della vita stessa? Che senso ha lo storico nell’esistenza effettiva della vita? Una difficoltà è questa: che cosa si intende qui propriamente con «storico»? Già nella domanda uso un senso determinato di «storico». Ho già presente un determinato senso in base al quale decido in che senso lo storico compaia nell’esperienza effettiva della vita. È possibile che già con la formulazione

della domanda sia introdotto un senso determinato (che forse dà disturbo) di «storico»? Ma se voglio cogliere lo storico nell’esistenza effettiva della vita non posso concepire la domanda in modo diverso. Questa è una difficoltà che emerge nell’intera fenomenologia, portando facilmente a frettolose generalizzazioni.

IV FORMALIZZAZIONE E INDICAZIONE FORMALE 11. Il senso generale di «storico» Chiamiamo «indicazione formale» (formale Anzeige) l’uso metodico di un senso che fa da guida all’esplicazione fenomenologica. I fenomeni sono esaminati in relazione a ciò che il senso formalmente indicante reca in sé. Le considerazioni di metodo debbono rendere comprensibile perché l’indicazione formale, benché faccia da guida all’analisi, non trasferisca all’interno dei problemi nessuna idea preconcetta. Bisogna avere ben chiaro il senso dell’indicazione formale, altrimenti si cade o in un’analisi conforme all’atteggiamento o in delimitazioni regionali che poi si concepiscono come assolute. Il problema dell’«indicazione formale» inerisce alla «teoria» del metodo fenomenologico in quanto tale; in senso ampio, esso rientra nel problema del teoretico, degli atti teoretici, del fenomeno del differenziare. In seguito ci occuperemo dell’intero problema. Per ora esaminiamo la difficoltà solo nel caso concreto. Il senso corrente dello storico dice che esso è ciò che diviene nel tempo e che, come tale, è passato. L’esperienza effettiva della vita è presa in esame per comprendere in che misura vi compaia qualcosa di temporale, ovvero di diveniente e di cosciente come passato. Questo senso dello «storico» è talmente generale (così sembra a prima vista) che non giova a nulla se esso è applicato direttamente all’esperienza effettiva della vita, dato che tale esperienza costituisce pur sempre una regione determinata della realtà, mentre lo storico, inteso come diveniente in generale, non è limitato a qualcosa del genere. Questo senso appare dunque il più generale; ogni altro sembra invece poterne essere solo una determinazione. È tuttavia problematico in che misura tale senso dello «storico» sia generale, e se questo tipo di generalità possa essere filosoficamente fondamentale. Si pongono qui due domande: 1. In che misura questo senso generale dello storico può essere considerato come

filosoficamente fondamentale? 2. Se tale pretesa non è legittima, eppure il senso è «generale» e ha a che fare con l’esplicazione, in che misura esso non pregiudica il risultato, benché, pur non essendo originario, debba ugualmente guidare un’analisi originaria? Da secoli la generalità dal lato dell’oggetto è stata considerata in filosofia come elemento caratteristico dell’obietto di quest’ultima. Proprio il nostro senso generale dello «storico» può quindi apparire adatto a delimitare un ambito determinato entro la totalità dell’ente, svolgendo con tale delimitazione un lavoro filosofico definitivo, dato che è compito peculiare della filosofia suddividere la totalità dell’ente e assegnarla a diverse scienze a seconda delle diverse regioni. Già Aristotele nella Metafisica dice: τo oν πoλλαχῶς λέγεται (l’ente si dice in molti modi).37 Ma con ogni probabilità Aristotele intende qualcosa di diverso da quanto si è visto fino a oggi. In lui non si hanno solo considerazioni ontologiche, ma queste ultime sono accompagnate da una prospettiva del tutto differente, anche se non tematizzata. La Metafisica aristotelica è forse già più avanti di quanto noi stessi oggi siamo in filosofia. Questa suddivisione dell’ente può essere intesa come una analisi ontologica. Ora, se un ente è essente solo per una coscienza, alla suddivisione ontologica ne corrisponde una conforme alla coscienza, nella quale ci si interroga circa la connessione delle «modalità della coscienza» (Bewußtseinsweisen) in cui l’ente «si costituisce», cioè diventa cosciente. Questo problema è stato posto da Kant, però soltanto la fenomenologia (Husserl) aveva i mezzi per svolgere concretamente tale analisi. Dal lato ontologico la filosofia ha dunque a che fare con l’ente, mentre dal lato della coscienza ha a che fare con le leggi costitutive originarie della coscienza. Ogni elemento oggettuale è sottoposto alla forma di questa costituzione. Nella fenomenologia di Husserl la coscienza stessa diventa una regione soggetta a una considerazione regionale; la sua legalità non è solo in linea di principio originaria, ma è anche

la più generale. Essa si esprime in modo generale e originario nella fenomenologia trascendentale. 12. Generalizzazione e formalizzazione L’universale (das Allgemeine) diventa accessibile mediante l’universalizzazione (Verallgemeinerung). Nella filosofia precedente il senso dell’«universalizzazione» è controverso e prima della fenomenologia di Husserl non è stato preso seriamente in esame. Husserl separò anzitutto la «formalizzazione» (Formalisierung) dalla «generalizzazione» (Generalisierung) (Ricerche logiche, vol. I, capitolo conclusivo;38 Idee per una fenomenologia pura, par. 13).39 Questa distinzione era implicitamente nota da tempo in matematica (già da Leibniz), però soltanto Husserl ne portò a compimento l’esplicazione logica. Egli vede il significato della distinzione soprattutto nella prospettiva dell’ontologia formale e nella fondazione della logica oggettiva pura (mathesis universalis). Vogliamo tentare di perfezionare questa distinzione e di chiarire, mediante tale perfezionamento, il senso dell’indicazione formale. «Generalizzazione» significa universalizzazione secondo il genere. Per esempio, il rosso è un colore, il colore è qualità sensibile; oppure la gioia è un affetto, l’affetto è esperienza vissuta. Sembra che si possa proseguire: le qualità in generale, le cose in generale sono entità. Rosso, colore, qualità sensibile, esperienza vissuta, specie, genere, essenza sono oggetti. Sorge però subito la domanda: il passaggio universalizzante da «rosso» a «colore», oppure da «colore» a «qualità sensibile» è lo stesso del passaggio da «qualità sensibile» a «entità» e da «entità» a «oggetto»? Evidentemente no! C’è qui una frattura: il passaggio da «rosso» a «colore» e da «colore» a «qualità sensibile» è generalizzazione, quello da «qualità sensibile» a «essenza» è formalizzazione. Si può domandare se la determinazione «qualità sensibile» definisca «colore» nello stesso senso in cui la determinazione formale «oggetto» definisce un qualsiasi oggetto. Evidentemente no. Ciò nonostante la distinzione tra generalizzazione e formalizzazione non è

ancora del tutto chiara. Nella sua attuazione la generalizzazione è vincolata a un determinato ambito reale (Sachgebiet). La scala delle «generalità» (specie e generi) è determinata in modo conforme alla realtà (sachhaltig). La corrispondenza con il contesto reale è essenziale. Diverso è il caso della formalizzazione: ad esempio «la pietra è un oggetto». Qui l’atteggiamento non è vincolato alla conformità alla realtà (cioè alla regione delle cose materiali e simili), bensì è libero dall’essere conforme alla realtà. Ed è libero anche da ogni ordinamento gerarchico: non ho bisogno di avere attraversato alcuna universalità inferiore per, ad esempio, salire gradualmente alla «suprema universalità» «oggetto in generale». La predicazione formale non è vincolata all’essere conforme alla realtà, eppure dev’essere comunque motivata in qualche modo. Com’è motivata? Essa nasce dal senso del riferimento dell’atteggiamento (Sinn des Einstellungsbezugs) in quanto tale. La «determinatezza del che cosa» (die Wasbestimmtheit) io non la vedo traendola fuori dall’oggetto, bensì gliela vedo (la sua determinatezza) per così dire «addosso». Devo distogliere lo sguardo dal «contenuto del che cosa» (Wasgehalt) e badare soltanto al fatto che l’oggetto è dato ed è colto in modo conforme all’atteggiamento. La formalizzazione nasce dunque dal senso del riferimento del puro riferimento dell’atteggiamento stesso, e non, per esempio, dal «“contenuto del che cosa” in generale». Solo in base a ciò possono essere intese le determinatezze del riferimento degli atteggiamenti (die Bezugsbestimmtheiten der Einstellungen). Ora, per comprendere l’origine del teoretico, il puro riferimento dell’atteggiamento dev’essere considerato a sua volta come attuazione. Tuttavia il filosofare – come vedremo in seguito – va colto nella sua originaria attuazione dell’atteggiamento (Einstellungsvollzug), poiché allora si chiarisce anche il rapporto fra l’esplicazione fenomenologica e il comportamento cogitativo (denkmäßig). L’origine del

formale sta dunque nel senso del riferimento. La «molteplicità del senso del riferimento» (BezugssinnsMannigfaltigkeit), che si esprime nelle categorie formaliontologiche, circoscrive l’atteggiamento teoretico inautentico nel suo senso del riferimento, anche se non nella sua attuazione originaria. Quando si parla di «indicazione formale», la parola «formale» ha il significato di ciò che è formalizzato oppure ne acquista un altro? Ciò che formalizzazione e generalizzazione hanno in comune è l’appartenenza al senso di «universale», mentre l’indicazione formale non ha nulla a che fare con l’universalità. Il significato del «formale» presente nella «indicazione formale» è più originario. Nella «ontologia formale», infatti, si intende già qualcosa di oggettualmente configurato. La «regione formale» è, in senso ulteriore, anche un «ambito reale», è anche conforme alla realtà. Ci sono ad esempio certe differenze in ciò che è formalizzato. Abbiamo:

Queste differenze sono in relazione con il senso di «universale». Invece l’indicazione formale non ha nulla a che fare con ciò. Essa cade al di fuori di ciò che è teoretico quanto all’atteggiamento. Sempre di nuovo si è attribuito alla filosofia il compito di suddividere in regioni la totalità dell’essere, e per molto tempo essa si è mossa in questa direzione ontologica. Solo tardi si fa spazio la considerazione opposta: ciò che è esperito, com’è esperito in conformità alla coscienza? Ora, se si concepisce questa considerazione correlativa come compito di principio, l’ambito della coscienza si trasforma anch’esso in regione, sicché torna a porsi il compito di determinarlo in termini ontologicamente più precisi. Fintanto che si definisce per lo più la coscienza, in un qualche senso, come attività, questo lato della coscienza può essere indicato come originario, attivo, poiché l’elemento

originario della coscienza diventa identico all’elemento costitutivooriginario. Ne nasce la tendenza a vedere nella costituzione il compito autentico della filosofia, un compito che è stato coerentemente realizzato da Hegel e che oggi è svolto nel modo più acuto nell’ambito della scuola di Marburgo. Ci eravamo posti le seguenti domande: in che misura l’universale può essere postulato come determinazione filosofica ultima? In che senso la generalizzazione è universalizzazione? In che senso la formalizzazione è universalizzazione? Riproiettata sulla nostra domanda, sorge la questione: in che misura e a quali condizioni l’universale può essere postulato come oggetto ultimo della determinazione filosofica? E, se le cose non stanno così, in che misura l’indicazione formale non pregiudica comunque in alcun modo una considerazione fenomenologica? La generalizzazione può essere definita come modo dell’ordinare. Ne consegue un inserimento di determinati elementi individuali isolati in un contesto reale più ampio. Quest’ultimo ha a sua volta la possibilità di essere inserito in un contesto più universale e inclusivo. Per questo la generalizzazione si attua sempre in una sfera conforme alla realtà. La sua direzione è stabilita dal giusto postulato di ciò che è conforme alla realtà. L’universalizzazione ha senso solo in un atteggiamento, poiché il contesto reale dev’essere libero, deve cioè avere mano libera per ordinarsi completamente in modo conforme alla sua realtà. La generalizzazione costituisce una determinata gerarchia, una gerarchia reale-immanente (sachimmanent) di determinatezze che stanno l’una con l’altra nella relazione del reciproco riguardo, sicché la determinazione più universale rinvia fino all’ultimissima, infima. Le determinazioni generalizzanti sono sempre determinazioni di un oggetto (secondo la sua conformità alla realtà) a partire da un altro, in modo che il determinante, a sua volta, appartiene anch’esso all’ambito reale in cui sta il «che cosa» (das Was) da determinare. Il generalizzare è dunque

ordinare, ossia il determinare partendo da un altro in modo che questo altro, in quanto ciò che circomprende (das Umgreifende), appartenga alla medesima regione reale (Sachregion) di ciò che è da determinare. Generalizzare è inserire nel contesto reale di un altro. La formalizzazione è anch’essa ordinamento (Ordnung)? Nel caso della generalizzazione rimango entro una regione reale. Essa può prefigurare diverse direzioni della generalizzazione; ma una volta che se ne è scelta una questa va mantenuta, e non è possibile balzare da una direzione all’altra. La formalizzazione, invece, non è vincolata al determinato «che cosa» dell’oggetto da determinare. La determinazione si di-stacca subito (biegt sofort ab) dalla conformità alla realtà dell’oggetto, giacché lo considera da un unico lato: il suo essere dato. L’oggetto è determinato come qualcosa che è colto, come ciò a cui (worauf) mira il riferimento conoscitivo. Il senso dell’espressione «oggetto in generale» non significa nient’altro che l’«a cui» (das «Worauf») del riferimento teoretico dell’atteggiamento. Questo riferimento dell’atteggiamento reca in sé una molteplicità di senso che può essere esplicata, in modo che tale esplicazione può essere considerata come determinatezza relativa alla sfera oggettuale. Tuttavia il senso del riferimento non è un ordine, una regione, oppure lo è solo in modo indiretto, in quanto è configurato in una categoria formale oggettuale cui corrisponde una «regione». Primariamente la formalizzazione è ordinamento solo in virtù di tale configurazione. Per formalizzazione dobbiamo dunque intendere cose diverse: determinazione di qualcosa come oggetto; attribuzione alla categoria formalmente oggettuale, che però a sua volta non è originaria, bensì rappresenta soltanto la configurazione di un riferimento. Compito della configurazione della molteplicità del senso del riferimento. Teoria del formale-ontologico (das Formal-Ontologische) (mathesis universalis) in base al senso della possibilità del riferimento in quanto tale. 13. L’«indicazione formale»

Abbiamo dunque: 1. Formalizzazione. Tramite questa configurazione nasce un compito particolare: la teoria del formale-logico (das Formal-Logische) e del formale-ontologico. In virtù della loro configurazione in base al senso del riferimento, le categorie formali rendono possibile lo svolgersi delle operazioni matematiche. 2. Teoria del formale-ontologico (mathesis universalis), mediante la quale è posta anche, come separata, una regione teoretica. 3. Fenomenologia del formale (considerazione originaria del formale stesso ed esplicazione del senso del riferimento all’interno della sua attuazione). Se una siffatta determinatezza formale-ontologica è postulata come «universalità», ciò pregiudica qualcosa per la filosofia? Fintanto che le determinazioni formali-ontologiche sono formali, non pregiudicano nulla, ed è conveniente ricondurre loro la filosofia. Quando domandiamo se il formale-ontologico pregiudichi qualcosa per la filosofia, tale domanda ha un senso solo se si accetta la tesi che la filosofia non sia atteggiamento. Per noi, sullo sfondo, sta la tesi che la filosofia non sia una scienza teoretica, sicché anche la considerazione formale-ontologica può essere l’ultima, quella determinante per la considerazione costitutivafenomenologica. Dato questo presupposto, infatti, l’accettato coglimento formale-ontologico dell’oggetto risulta pregiudizievole. Che cos’è la fenomenologia? Che cos’è il fenomeno? Anche quest’ultimo può essere indicato qui solo in termini formali. Ogni esperienza – sia come esperire (erfahren) sia come esperito (Erfahrenes) – può «essere colta nel fenomeno». Si può cioè domandare: 1) del «che cosa» originario che in esso è esperito (contenuto), 2) del «come» originario in cui esso è esperito (riferimento),

3) del «come» originario in cui il senso del riferimento è attuato (attuazione). Queste tre direzioni del senso (senso del contenuto, senso del riferimento, senso dell’attuazione) non stanno però semplicemente l’una accanto all’altra. Il «fenomeno» è totalità di senso (Sinnganzheit) secondo queste tre direzioni. La «fenomenologia» è esplicazione di questa totalità di senso: essa fornisce il «λóγoς» dei fenomeni, cioè il «λóγoς» nel senso del «verbum internum» (non nel senso della logicizzazione). Ora, questo compito della fenomenologia risulta in qualche modo pregiudicato dalla determinatezza formaleontologica? Si potrebbe dire che una determinatezza formale-ontologica non asserisce proprio nulla circa il «che cosa» di ciò che essa determina – dunque non pregiudicherebbe nulla. Tuttavia, essendo appunto completamente indifferente quanto al contenuto, la determinazione formale risulta fatale sia per il lato del riferimento che per quello dell’attuazione del fenomeno, dato che prescrive – o per lo meno contribuisce a prescrivere – un senso teoretico del riferimento. Essa nasconde ciò che è conforme all’attuazione – il che è, se possibile, ancora più fatale – e si rivolge unilateralmente al contenuto. Uno sguardo alla storia della filosofia mostra che la determinatezza formale dell’oggettuale domina completamente la filosofia. Come si può prevenire tale pregiudizio (preconcetto)? È questo appunto il compito dell’indicazione formale che, come momento metodico, inerisce all’esplicazione fenomenologica stessa. Perché si chiama «formale»? Il formale è qualcosa di conforme al riferimento. L’indicazione deve indicare in anticipo il riferimento del fenomeno – invero in un senso negativo, quasi per avvertimento! Un fenomeno dev’essere dato in maniera tale che il senso del suo riferimento sia tenuto in sospeso. Ci si deve guardare dall’assumere che il senso del suo riferimento sia originariamente quello teoretico. Il riferimento e l’attuazione del fenomeno non sono

determinati in anticipo, ma sono tenuti in sospeso. Questa posizione contrasta nel modo più drastico con la scienza. Non c’è alcun inserimento in un ambito reale, bensì, al contrario, l’indicazione formale è una difesa, un’assicurazione preventiva, sicché il carattere di attuazione (Vollzugscharakter) rimane ancora libero. La necessità di questa misura precauzionale emerge dalla tendenza decadente dell’esperienza effettiva della vita, la quale minaccia continuamente di scivolare nell’obiettivo, eppure è partendo da essa che dobbiamo mettere in evidenza i fenomeni. La formalizzazione e la generalizzazione sono dunque motivate in modo conforme all’atteggiamento o teoreticamente. Nella loro attuazione si mette ordine: direttamente nella generalizzazione, indirettamente anche nella formalizzazione. Nell’«indicazione formale», al contrario, non si tratta di un ordinamento. Nel suo caso ci si tiene a distanza da ogni inserimento in un ordine, anzi, si lascia tutto in sospeso. L’indicazione formale ha senso solo in relazione all’esplicazione fenomenologica. La domanda è se si possa mantenere in linea di principio il compito postulato della filosofia in quanto determinazione generale dell’oggettuale, e se la posizione di questo compito scaturisca dal motivo originario del filosofare. Per decidere ciò dobbiamo lasciarci trascinare in una nuova situazione, cioè fare chiarezza circa la modalità della considerazione fenomenologica. È questo appunto il compito dell’indicazione formale, che ha il significato di impostare l’esplicazione fenomenologica. Applichiamo ora i risultati ottenuti al problema dello storico. Se lo storico è inteso come il formalmente-indicato (das Formal-Angezeigte), con ciò non si sostiene che la determinazione più universale di «storico» in quanto «diveniente nel tempo» delinei un senso ultimo. Questa determinazione formalmente indicante del senso di «storico» non va considerata né come una determinazione che definisca il mondo storico obiettivo nel suo carattere storico

strutturale, né come una determinazione che prefiguri il senso più generale dello storico stesso. Il termine «temporale» è assunto provvisoriamente ancora in un senso del tutto indeterminato: non si sa affatto di che tempo si stia parlando. Fintanto che il senso di «temporale» rimane indeterminato, si potrebbe concepirlo come qualcosa di non pregiudizievole. Si potrebbe dire: dato che ogni oggettualità si costituisce nella coscienza, essa è temporale, e con ciò si sarebbe ottenuto lo schema fondamentale del temporale. Tuttavia questa determinazione «universale-formale» del tempo non è una fondazione, bensì una falsificazione del problema del tempo, poiché con essa si prefigura un quadro per il fenomeno del tempo sulla base del teoretico. Invece il problema del tempo va concepito nel modo in cui noi, nell’esperienza effettiva, esperiamo originariamente la temporalità (Zeitlichkeit), quindi a prescindere completamente da ogni coscienza pura e da ogni tempo puro. La via è dunque quella opposta. Dobbiamo chiedere piuttosto: che cos’è originariamente, nell’esperienza effettiva, la temporalità? Che cosa significano, nell’esperienza effettiva, passato, presente, futuro? La nostra via prende le mosse dalla vita effettiva, da cui ricava il senso del tempo. Con ciò il problema dello storico risulta caratterizzato. La filosofia, così come io la concepisco, è in difficoltà. Chi frequenta altri corsi è assicurato fin da principio: in un corso di storia dell’arte può vedere quadri, in altri impara per lo meno qualcosa ai fini dell’esame. In filosofia le cose stanno diversamente, e io non ci posso fare nulla, dato che non sono stato io ad averla inventata. Desidero tuttavia salvarmi da tale calamità. Interrompo quindi queste considerazioni così astratte, e dalla prossima ora vi parlerò di storia. Senza soffermarmi ulteriormente sull’impostazione e sul metodo, prenderò le mosse da un fenomeno concreto determinato, anche se, per quanto mi riguarda, presumo che possiate fraintendere dall’inizio alla fine tutte le mie considerazioni.

PARTE SECONDA

ESPLICAZIONE FENOMENOLOGICA DI FENOMENI RELIGIOSI CONCRETI SULLA SCORTA DELLE LETTERE DELL’APOSTOLO PAOLO

I INTERPRETAZIONE FENOMENOLOGICA DELLA LETTERA AI GALATI 14. Introduzione Nelle considerazioni che seguono non intendiamo sviluppare un’interpretazione dogmatica o teologicoesegetica, e nemmeno un’analisi storica o una meditazione religiosa, bensì limitarci a fornire una propedeutica al comprendere (Verstehen) fenomenologico. Il carattere peculiare del comprendere nel senso della fenomenologia della religione consiste nell’acquisire la precomprensione (Vorverständnis) per una via di accesso originaria. A tale scopo va elaborato il metodo della storia della religione, e precisamente in modo da poterlo verificare criticamente. Il metodo teologico non rientra nel quadro delle nostre considerazioni, giacché solo con il comprendere fenomenologico si apre una nuova via per la teologia. L’indicazione formale rinuncia alla comprensione (Verständnis) ultima, che può essere data solo nella genuina esperienza vissuta religiosa. Essa si prefigge unicamente di aprire l’accesso al Nuovo Testamento. Interpreteremo anzitutto la Lettera dell’apostolo Paolo ai Galati. Essa ebbe grande importanza per il giovane Lutero e, insieme alla Lettera ai Romani, è diventata un fondamento dogmatico. Dal punto di vista religioso Lutero e Paolo si contrappongono nel modo più radicale. Esiste un commento di Lutero alla Lettera ai Galati,40 però noi dobbiamo affrancarci dalla prospettiva di Lutero. Ciò nondimeno vi sono nessi genuini fra il protestantesimo e Paolo. La Lettera ai Galati contiene un resoconto storico in cui Paolo stesso narra la storia della sua conversione. È il documento originario della sua evoluzione religiosa e costituisce anche dal punto di vista storico la testimonianza della sua appassionata irruenza. L’unico altro testo da tenere presente congiuntamente sono gli Atti degli Apostoli. Anzitutto è necessario cercare di comprendere la Lettera ai Galati da un punto di vista generale, allo scopo di penetrare,

sulla sua scorta, anche nei fenomeni fondamentali della vita del primo cristianesimo. Il testo greco originale è l’unico che può essere assunto come base, sicché una reale comprensione presuppone che si entri nello spirito del greco neotestamentario. La migliore edizione greca è il Novum Testamentum Graecum curato da Nestle.41 Se si utilizza, come sussidio, una traduzione, non si prenda quella di Lutero, che è troppo dipendente dal suo personale punto di vista teologico. Si consiglia la traduzione di Weizsäcker (Mohr, Tübingen), oppure quella di Nestle.42 Nella Lettera ai Galati Paolo è in lotta con gli Ebrei e con gli Ebrei cristiani. Abbiamo quindi a che fare con la situazione fenomenologica della lotta religiosa e della lotta come tale. Paolo può essere visto nella sua lotta con la sua passione religiosa nella sua esistenza come apostolo, caratterizzata dalla contesa fra la «legge» e la «fede». Questa antitesi non è definitiva, ma provvisoria. Fede e legge sono entrambe modalità particolari della via della salvezza. La meta è la «salvezza» (η σωτηρíα), in definitiva la «vita» (η ςωη). In base a ciò si può comprendere l’atteggiamento fondamentale della coscienza cristiana, secondo il senso «del contenuto», «del riferimento» e «dell’attuazione» che le sono propri. Ciò che va evitato è la proiezione interpretativa di posizioni moderne. Tutti i concetti vanno compresi in base al contesto della coscienza cristiana. Da questo punto di vista l’indagine storica dei teologi ha i suoi meriti, per quanto problematici possano essere per la teologia stessa. La Lettera ai Galati può essere suddivisa in tre parti principali: 1) dimostrazione dell’indipendenza della missione apostolica di Paolo e della sua vocazione da parte di Cristo; 2) confronto fra la legge e la fede (dapprima in termini teoretici, poi applicazione alla vita); 3) vita cristiana nel suo complesso, i suoi motivi e le sue tendenze di contenuto. 15. Osservazioni singole riguardo al testo 1, 5: αἰών, «mondo». Il tempo presente ha già raggiunto la propria fine e dalla morte di Cristo ha avuto inizio un nuovo αἰών. Al mondo presente è contrapposto il mondo

dell’eternità. ᾧ ἡ δóξα ha un senso specifico. 1, 8-9: la lotta per il «giusto Vangelo». Non ci si prefigge la salvezza dei Galati, giacché il cristianesimo originario va fondato piuttosto su se stesso, senza riguardo a forme di religione precedenti, come quella giudaico-farisaica. Va costituita la posizione religiosa propria di Paolo. 1, 10: importante! Frattura completa con il precedente passato, ossia con ogni concezione non-cristiana della vita. 1, 12: Paolo vuole dire inoltre di essere giunto al cristianesimo grazie a un’esperienza originaria, non attraverso una tradizione storica. A ciò si ricollega una controversa teoria, discussa nella teologia protestante, secondo cui Paolo non avrebbe avuto una coscienza storica di Gesù di Nazareth, ma avrebbe fondato una sua nuova religione cristiana, un nuovo protocristianesimo destinato a dominare il futuro: la religione paolina, non la religione di Gesù. Non c’è bisogno quindi di tornare a un Gesù storico. La vita di Gesù è del tutto indifferente. Questo, naturalmente, non è desumibile dalla lettura di un singolo passo. 1, 13: passo importante per la caratterizzazione di Paolo. ἀναστρoφή: condotta di vita, atteggiamento di vita a cui sono rivolto. 1, 14: ςηλωτης: «fanatico». La passionalità di Paolo resta tale anche dopo la sua conversione. 1, 16: τoῑς ἔθνεσιν: non si sa se ciò gli si fece chiaro già con la vocazione o solo un poco alla volta. 1, 17: Arabia = Giordania orientale; forse vita ascetica, forse già evangelizzazione. 1, 18: ἱστoρῆσαι (ἱστoρεῑν): conoscere, quindi «storia». 2, 2: accentuazione del τρέχειν, «correre». Paolo ha fretta, poiché la fine del tempo è già iniziata. 2, 16: δικαιoῦται, «giudicare giusto», deriva dalla religione ebraica. La vita del singolo è un processo che si dispiega dinanzi a Dio. Contro ciò Gesù si rivolge in termini etici («convinzione morale») nel discorso della montagna. La δικαιoσύνη (νoµoς Xριστoῦ) acquista in seguito un nuovo

significato cristiano. Qui l’argomentazione di Paolo è rabbinico-giudaico-teologica. Da questa immagine va separata la sua peculiare posizione originaria. L’argomentazione tratta dall’Antico Testamento è tipicamente rabbinica. 2, 17: questa conclusione ab absurdo si trova spesso in Paolo. 2, 19: molto importante! Forma concentrata dell’intera dogmatica paolina. ἀπέθανεν νoµω διὰ νóµoυ puramente etico. Dato che Cristo si identificò con la legge, la legge è morta con Lui (così pure Paolo). 2, 20: decisivo per la «mistica» paolina. Reitzenstein richiama l’attenzione sul nesso della terminologia con l’Ellenismo.43 Tuttavia non si deve interpretare in modo settorialmente filologico (scritti ermetici). 3, 2: εξ ἀκoῆς πíστεως: dall’ascolto credente. Cfr. Rm, 10, 11 sgg. 4, 3: ὑπò τὰ στoιχεῑα τoῦ κóσµoυ: sottomessi agli elementi del mondo. Nella Stoa στoιχεῑoν significa «elemento», come già in Empedocle. Filone Giudeo (contemporaneamente a Paolo) definisce i pagani τὰ στoιχεῑα τιµῶντες. Cfr. 4, 9 e 10: le stelle sono considerate elementi del mondo, le festività sono stabilite secondo le stelle. 4, 8: ϕύσει µη oὖσιν θεoῑς. Gli στoιχεῑα sono esseri divini. Cfr. versetto 1: la fase sotto i tutori è paragonata alla fase sotto i sacerdoti astronomi. 4, 9: γιγνώσκειν nel senso di amore (come nel primo versetto). L’amore di Dio per gli uomini è il fatto fondamentale, non una conoscenza teoretica. 4, 14: «Non vi siete scandalizzati per la mia malattia» (malattia concepita in più occasioni come concupiscenza). 4, 24: ἀλληγoρoῦµενα: l’interpretazione allegorica della Scrittura era praticata a quel tempo da Filone. Ἁγάρ («Agar») in arabo significa «montagna», ovvero: così è chiamata quella montagna in arabo. 4, 26: ἡ ἄνω ’Iερoυσαλήµ: lo stadio finale della redenzione

è descritto nell’Apocalisse di Baruc. 5, 5: il nesso fra πíστις e ἐλπíς (cfr. la Lettera ai Corinzi) è importante. La beatitudine non si compie qui, ma è spostata nell’αἰών superiore. Cfr. la «corsa incessante verso la meta». 5, 11: τo σκάνδαλoν τoῦ σταυρoῦ: questo è l’autentico caposaldo del cristianesimo, di fronte al quale ci sono soltanto fede o miscredenza. 16. L’atteggiamento fondamentale di Paolo Paolo è in lotta. È spinto ad affermare l’esperienza cristiana della vita contro il mondo circostante utilizzando a tale scopo i mezzi insufficienti della dottrina rabbinica di cui dispone. Da questa dottrina la sua esplicazione dell’esperienza cristiana della vita riceve la sua struttura peculiare, il che non toglie che si tratti di un’esplicazione originale nata dal senso della vita religiosa stessa. Essa può essere sviluppata ulteriormente nell’esperienza religiosa fondamentale. I nessi teoretici rimangono al margine, eppure si giunge a un contesto esplicativo che si presenta con tratti simili a un’esplicazione teoretica. Si tratta di un ritorno all’esperienza originaria e della comprensione del problema dell’esplicazione religiosa. La Dogmengeschichte di Harnack44 comincia soltanto dal terzo secolo. A suo parere solo la filosofia greca avrebbe dogmatizzato la religione cristiana. Tuttavia il vero problema del «dogma» nel senso dell’esplicazione religiosa sta nel cristianesimo delle origini. È ciò con cui abbiamo a che fare qui. La questione dell’espressione («esplicazione») sembra secondaria, eppure con tale problema apparentemente esteriore ci troviamo nel cuore del fenomeno religioso stesso. Non è un problema tecnico, separato dell’esperienza religiosa, bensì, al contrario, l’esplicazione accompagna sempre l’esperienza religiosa e la muove. Qui la «legge» va intesa prevalentemente come legge rituale e cerimoniale. Anche come legge morale, che è solo secondaria. Per questo c’è una lotta della comunità ebraicocristiana per la legge, concepita come ciò che fa dell’Ebreo

un Ebreo. εργoν νóµoυ: l’atteggiamento di fronte alla legge. Il confronto tra la fede e la legge è l’elemento decisivo: il come della fede e del compimento della legge – come mi rapporto alla fede e alla legge. La Lettera ai Filippesi (3, 13) mostra l’atteggiamento fondamentale di Paolo. Specialmente il terzo capitolo contiene una argomentazione dialettica condotta con sicurezza. Eppure non si tratta di una fondazione logica, giacché essa nasce piuttosto dalla coscienza della fede di questa stessa esplicazione. Per tale articolazione della coscienza della fede l’espressione λoγíςεσθαι acquista il senso caratteristico di rendere comprensibile come tale l’atteggiamento di fede per il singolo stesso, consentendogli di appropriarsi di questo «senso comprensibile in termini specificamente religiosi». Paolo getta subito sul piatto della bilancia il suo argomento teologico capitale: Abramo stesso è giustificato solo dalla fede. Ma allora, che ne è mai della legge? 3, 2: εξ εργων νóµoυ – sta in netta antitesi con εξ ἀκoῆς πíστεως (cfr. Rm, 10, 13; 14). L’adempimento della legge è impossibile, chiunque fallisce in questo, solo la fede giustifica. Chi soggiace alla legge è maledetto. 3, 19 offre una quantità di elementi tesi a dimostrare l’inferiorità della legge. Nel considerare il mondo religioso di Paolo ci si deve liberare dall’idea di selezionare certi concetti (come πíστις, δικαιoσύνη, σάρξ, eccetera) per comporre il loro significato in base a una molteplicità di singoli passi tratti dagli scritti paolini, così da ottenere un catalogo di concetti fondamentali che non dicono nulla. Altrettanto sbagliata è l’idea che esista un sistema teologico di Paolo. Bisogna piuttosto metterne in luce l’esperienza religiosa fondamentale e – rimanendo entro tale esperienza – cercare di comprendere il nesso che tutti i fenomeni religiosi originari hanno con essa. Per avviarci verso questo tipo di considerazione poniamo anzitutto in evidenza il fenomeno presente nella Lettera ai Galati. In seguito faremo ulteriori passi in prospettiva storica, non tanto in avanti verso un tempo futuro, quanto piuttosto indietro verso la comunità cristiana delle origini e Gesù

stesso. Riguardo all’atteggiamento fondamentale di Paolo si veda Fil, 3, 13: autocertezza della posizione nella propria vita – frattura nella sua esistenza – comprensione storica originaria del proprio sé e del proprio esserci. Partendo da qui si compie la sua opera di apostolo e di uomo.

II COMPITO E OGGETTO DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE 17. Il comprendere fenomenologico In che modo ciò di cui abbiamo preso conoscenza in termini grossolani con la lettura della Lettera ai Galati acquista un interesse per la filosofia della religione? Lo si può decidere solo in base allo scopo che fa da guida al compito della filosofia della religione. Con una trattazione sintetica e schematica dobbiamo dunque caratterizzare l’aspetto metodico strettamente necessario, affinché al tempo stesso emerga anche il nesso con l’introduzione metodica generale. Stabilendo in modo del tutto ingenuo il compito della filosofia della religione, si può dire che la religione va compresa, concepita in termini filosofici, ossia proiettata in un contesto comprensibile. La posizione del problema della filosofia della religione dipende quindi dal concetto di filosofia. Se ci si limita alla religiosità protocristiana, bisogna considerare che si tratta di un fatto storico. Se si concepisce il contesto filosofico come un ambito determinato, delimitato – ad esempio come «coscienza» –, la religiosità protocristiana diventa fatto, cioè esempio, caso singolo in una cerchia di possibilità, tipi, possibili forme di religiosità. Dato che tutto ciò che è storico va preso in considerazione solo come esempio, è chiaro che – come oggi di regola avviene – una mera raccolta di materiali risulta compatibile con questo modo di porre il problema. Mediante tale impostazione l’oggetto da conoscere, per esempio la religiosità protocristiana, è già caratterizzato, trovandosi così definito in un determinato senso del fare storia. I tipi storici di religione sono inseriti in una molteplicità di possibilità: sono un materiale in base al quale si crea e costituiscono così una molteplicità sovratemporale. Su quale presupposto si basa questo modo di porre il problema? Non lo domandiamo perché rifiutiamo qualsiasi postulazione di presupposti, bensì perché ogni impostazione

filosofica del problema deve avere ben chiari i propri presupposti. La filosofia della religione oggi in voga contiene nella sua impostazione i seguenti presupposti, che essa stessa non ha ben chiari: 1. La religione è un caso o un esempio di una legalità sovratemporale. 2. La religione fa proprio solo ciò che ha carattere di coscienza. In effetti i fenomeni della coscienza, che corrispondono al ben determinato concetto di coscienza della filosofia che ne sta al fondamento, fungono da norma dell’intero modo di porre il problema. Ora, se si indica come nostro compito la comprensione fenomenologica della religiosità protocristiana, stando alla lettera sembra che si parli della stessa cosa. Invece, quel modo di porre il problema determina una comprensione che si allontana dal proprio oggetto, anzi lo fa sparire. Invece, il comprendere fenomenologico tende a esperire l’oggetto stesso nella sua originarietà. 18. Fenomenologia della religione e storia della religione Si dirà che anche la filosofia della religione corrente si attiene pur sempre allo storico, allo «storico della religione» (das Religions-Geschichtliche). Ma il modo di porre il problema da parte della storia della religione corrente coglie l’autentico oggetto della religiosità stessa? Finché non sia assodato che il comprendere nel senso della storia della religione e il comprendere nel senso autentico della filosofia della religione, ossia fenomenologico, coincidono, non è ancora assolutamente detto che la storia della religione possa fornire materiale per la filosofia (fenomenologia) della religione. In che misura il materiale addotto dalla storia della religione può essere considerato anche solo come punto di partenza per la filosofia della religione? Si tratta di un problema che qui non possiamo risolvere, ma è un problema fondamentale che si pone concretamente per ogni storia dello spirito. La filosofia della storia attuale non dà alcun contributo alla ricerca storica positiva – e viceversa. È

«merito» di Spengler avere condensato in una filosofia la comicità di questa situazione. I problemi della filosofia della storia possono essere affrontati solo sulla base delle scienze storiche concrete. Ma allora, il materiale della storia della religione è utilizzabile da parte della fenomenologia? In che modo la storia della religione come tale è in genere adeguata al suo oggetto? Si potrebbe dire: se la storia della religione spiega la religiosità in base al mondo-ambiente religioso e alla storia contemporanea, come le si può rimproverare allora di non raggiungere il suo oggetto? Non è forse vero che essa, in quanto scienza obiettiva, libera da pregiudizi e idee preconcette, interpreta i fatti solo sulla base del materiale di senso offerto dalle fonti contemporanee, indipendentemente da tutte le tendenze del presente? Questa argomentazione ha senza dubbio una parvenza di legittimità. Anzi, da un lato, e fino a un certo punto, bisogna darle ragione. Dall’altro lato, però, si può eccepire che ogni obiettività nel senso della scienza della storia, così come il comprendere storico obiettivo, non offrono alcuna garanzia fintanto che non c’è chiarezza circa l’anticipazione che fa da guida. Si può mostrare inoltre che tutti i motivi del comprendere storico sono sempre risvegliati dall’esperienza effettiva della vita. La scienza della storia ha solo il compito di applicarli secondo una configurazione formale e una metodica rigorosa. Partendo dal presente vivente si sviluppano le tendenze del comprendere che poi la scienza si limita a configurare in una metodica «esatta», ma l’«esattezza del metodo» non offre di per sé alcuna garanzia di comprensione corretta. Anche se l’apparato metodico-scientifico – critica delle fonti secondo un metodo filologico esatto, eccetera – è irreprensibile, l’anticipazione che fa da guida può mancare completamente l’oggetto vero e proprio. Ciò nondimeno anche la moderna storia della religione dà un contributo notevole alla fenomenologia, purché sia sottoposta a una distruzione (Destruktion) fenomenologica. Solo allora la storia della religione potrà essere presa in considerazione

dalla fenomenologia. La storia della religione offre quindi importanti studi preparatori, benché tutti i suoi concetti e i suoi risultati richiedano necessariamente la distruzione fenomenologica. Ciò tuttavia è ben lungi dal costituire una spiegazione del contesto in cui il materiale disponibile può porsi come punto di partenza del comprendere. Decisiva è l’anticipazione che fa da guida e di cui lo storico medesimo non sa nulla, vale a dire le tendenze che già motivano il modo di porre il problema. In particolare nelle scienze speciali spesso si trascura che il modo stesso di porre il problema non emerge affatto dal semplice materiale, ma è già determinato dall’anticipazione. Tuttavia la fenomenologia non deve mai perdere di vista proprio la problematica dell’anticipazione nel suo rapporto con la storia. 19. Determinazioni fondamentali della religiosità protocristiana Ora, in che senso dobbiamo utilizzare il materiale ricavato dalla Lettera ai Galati? Qual è lo scopo del nostro comprendere fenomenologico? Esso non è un interpretare in base a un contesto di tipo storico in cui la Lettera ai Galati è inserita, ma ciò che noi vogliamo è esplicarne il senso proprio. A tal fine è decisiva già la determinazione fondamentale della religiosità protocristiana. Prima però c’è da aggiungere la seguente osservazione, che è importante per ogni considerazione di storia della religione. In essa oggi si è soliti lavorare con l’antitesi costituita dalla coppia di categorie «razionale» e «irrazionale». L’odierna filosofia della religione45 è fiera della sua categoria di irrazionale e ritiene che con essa sia assicurato l’accesso alla religiosità. Ma con questi due concetti non si è detto nulla fintanto che non si conosce il senso di «razionale». È vero che il concetto di irrazionale va determinato in antitesi al concetto di razionale, però quest’ultimo, com’è noto, è indeterminato. Questa coppia concettuale va dunque accantonata. Secondo il suo senso fondamentale, il comprendere fenomenologico si pone

totalmente al di fuori di questa antitesi, che ha – semmai – una validità assai limitata. Tutto ciò che si dice a proposito di quel residuo insolubile per la ragione che sussisterebbe in ogni religione è solo un gioco estetico con cose non comprese. Quale determinazione fondamentale attribuiamo all’oggetto della filosofia della religione? La Lettera ai Galati ci ha fornito molti elementi alla rinfusa: la vocazione apostolica di Paolo, l’ammonimento rivolto alle comunità, eccetera. Ne abbiamo preso conoscenza in modo indifferente, senza comprendere l’anticipazione che la guida: per vedere che così non va bene, vale a dire per sottoporre la nostra presa di conoscenza alla distruzione. Ci si è presentato un contesto che sembra ovvio: Paolo enuncia una dottrina e dispensa ammonimenti, in tutto e per tutto come i predicatori erranti stoici e cinici del tempo. Il genere della sua esposizione non contiene nulla di particolare. Si vedano in proposito le parole degli Ateniesi al suo riguardo (At, 17, 17 sgg.). Anche noi ci accostiamo alla Lettera ai Galati in modo analogo al loro. Sorge la domanda se questa ovvietà sia veramente tale, e se il rapporto fra vocazione, predicazione, dottrina, ammonimento non abbia un senso motivato che appartiene al senso della religiosità stessa. Ad esempio, la predicazione è di per sé un fenomeno religioso che va analizzato secondo tutte le direzioni fenomenologiche di senso. Nel corso dell’esposizione le nostre determinazioni fondamentali sembrano tesi, però non vanno concepite come tesi che, ad esempio, sarebbero successivamente da dimostrare. Chi le concepisce così le fraintende. Esse sono esplicati (Explikate) fenomenologici. Forniamo anzitutto queste due determinazioni fondamentali: 1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza protocristiana della vita ed è essa stessa un’esperienza siffatta. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica. La religiosità cristiana vive46 la temporalità in quanto tale.47

Queste determinazioni fondamentali sono dapprima ipotetiche. Domandiamo: se con esse è colto il senso fondamentale della religiosità cristiana, che cosa ne consegue dal punto di vista metodico? 20. Il fenomeno della predicazione Dal contesto a cui abbiamo accennato prendiamo solo il fenomeno della predicazione (Verkündigung), perché vi si può cogliere il diretto riferimento vitale del mondo del sé di Paolo al mondo-ambiente e al mondo degli altri della comunità. La predicazione è quindi un fenomeno centrale. Ora, in termini puramente formali si possono formulare diverse domande: chi predica, come si predica, che cosa è predicato, eccetera. Anche qui sussiste una certa connessione da cui si può ricavare l’elemento unitario. Per quanto ci riguarda mettiamo in evidenza il «come» della predicazione. L’attuazione della vita è decisiva. Nella vita è esperito al tempo stesso anche il contesto dell’attuazione (Vollzugszusammenhang). Su questa base va spiegato che il «come» dell’attuazione ha un significato fondamentale. Domandiamo quindi del «come» della predicazione di Paolo. Nel rispondere a questa domanda ci troviamo in una posizione relativamente favorevole, dato che abbiamo di fronte il «come» della predicazione nelle lettere paoline. Ecco che di colpo il carattere di lettera, in quanto fenomeno, assume la sua collocazione in seno alla problematica relativa al «come» della predicazione. La teologia – in particolare quella protestante –, influenzata dallo sviluppo delle scienze storiche dello spirito nel diciannovesimo secolo, ha prodotto studi di storia dello stile sulle forme letterarie del Nuovo Testamento. Ed è lecito attendersi con trepidazione ulteriori indagini, anche se il punto di partenza appare sbagliato sia dalla prospettiva della scienza della storia sia da quella fenomenologica. Inglobare la scrittura neotestamentaria nell’ambito della letteratura universale, per analizzarne le forme in tale prospettiva, è un approccio del tutto esteriore alla questione. Ora, potrebbe anche darsi che le forme del Nuovo Testamento non si

distinguano in nulla dalla letteratura contemporanea, tuttavia non si dovrebbe procedere in questo modo. Per l’analisi del carattere epistolare è sufficiente prendere le mosse dalla situazione di Paolo e dal «come» della necessaria motivazione a comunicare per lettera. Ma il contenuto di ciò che è predicato, e il suo carattere concreto e concettuale, vanno poi analizzati sulla base del fenomeno fondamentale della predicazione. 21. Anticipazioni dell’analisi Nel caso dell’analisi storica le anticipazioni estendono la loro influenza fino alla critica delle fonti, ai dettagli della valutazione del testo, alle congetture e alle questioni riguardanti l’autenticità. Si può illustrare ciò prendendo come esempio la Prima Lettera ai Tessalonicesi, che, per il suo scarso contenuto dogmatico rispetto ad altre lettere paoline, fu dichiarata inautentica dalla Scuola di Tubinga, influenzata da Hegel.48 L’anticipazione penetra fin nel più piccolo dettaglio della ricerca storica, persino nell’edizione delle fonti, anche se la situazione della storia dell’arte è diversa da quella della storia della religione. Ogni materiale storico disponibile va quindi sottoposto a un’analisi dell’anticipazione. Con ciò, tuttavia, non si è fatto ancora nulla per il comprendere fenomenologico, dato che il suo carattere è diverso da quello del comprendere storico obiettivo. Quest’ultimo, infatti, è una determinazione concernente il riferimento, che parte dal riferimento, sicché l’osservatore non è preso in considerazione. Invece il comprendere fenomenologico è determinato partendo dall’attuazione dell’osservatore. Tuttavia, nonostante la provenienza fondamentalmente diversa del comprendere, il suo nesso con la storia obiettiva è più stretto che in altre scienze. Il comprendere fenomenologico in primo luogo non consiste in una proiezione di ciò che va compreso – che non è nulla di obiettivo – in un contesto reale. In secondo luogo esso non ha mai la tendenza a determinare in modo definitivo un tale ambito, ma è sottomesso alla situazione

storica, in quanto per il comprendere fenomenologico l’anticipazione è decisiva in misura ancora superiore che per il comprendere storico obiettivo. Nel comprendere fenomenologico bisogna dunque postulare una protasi (Ansatz), ossia un’anticipazione. Tale protasi non è possibile per ogni osservatore e per ogni fenomeno, poiché dev’essere sorretta da una particolare confidenza con il fenomeno. Si procede in modo metodicamente sicuro quando la determinazione fondamentale è postulata in termini puramente formali. Si lascia intenzionalmente ai concetti una certa labilità, per poi assicurarne la determinazione solo nel corso dell’analisi fenomenologica stessa. In questo senso, per determinare la religiosità protocristiana abbiamo postulato come protasi: 1. La religiosità protocristiana si dà nell’esperienza effettiva della vita. Apodosi: essa è in senso proprio questa stessa esperienza. 2. L’esperienza effettiva della vita è storica. Apodosi: l’esperienza cristiana vive il tempo stesso («vivere» inteso come verbo transitivo). Queste «tesi» non si possono dimostrare, bensì debbono dare buona prova di sé in seno all’esperienza fenomenologica, che è diversa dall’esperienza empirica. Le determinazioni fondamentali sono dunque ipotetiche: «Se valgono, allora per il fenomeno si dà questo e quest’altro». Consideriamo anzitutto la predicazione apostolica di Paolo. Se è un fenomeno fondamentale, in base a essa si deve poter acquisire un riferimento a tutti i fenomeni religiosi fondamentali. Il fenomeno giunge all’esplicazione nell’attuazione e mediante l’attuazione. L’espressione «predicazione apostolica» costituisce una caratterizzazione del fenomeno ancora troppo ampia. Tuttavia, non appena è determinata nel suo «come», nel suo senso dell’attuazione, la predicazione apostolica risulta spiegata in termini decisivi. Questa problematica riguardante il «come» è dunque decisiva. Le viene incontro il carattere del materiale, il fatto cioè che si tratti di lettere. In quanto fonti, le lettere paoline

sono più dirette dei Vangeli scritti in seguito. Non bisogna però isolare il carattere epistolare, trasferendo nel problema questioni letterarie di stile che non sono primarie. Lo stile epistolare stesso è espressione di chi scrive e della sua situazione. Benché siano temporalmente così vicine da far escludere una evoluzione di Paolo dall’una all’altra, le lettere paoline sono assai diverse: ad esempio, la Lettera ai Romani e la Lettera ai Galati sono, quanto al contenuto dogmatico, assai più ricche della Lettera ai Tessalonicesi. Bisogna liberarsi anche dalla suddivisione schematica delle lettere. 22. Lo schema dell’esplicazione fenomenologica Come si attua un’esplicazione fenomenologica in riferimento al suo materiale? Il termine «materiale» (Material) ha un senso metodico determinato. L’esplicazione del fenomeno in base al materiale si attua in determinati gradi. Schematicamente, i passi dell’esplicazione fenomenologica sono i seguenti: 1. Dato che il fenomeno fondamentale è l’esperienza effettiva della vita, e poiché quest’ultima è storica, il primo passo consiste nel determinare il contesto fenomenico in senso storico obiettivo, pre-fenomenologico, come situazione storica, sia pure già in base a motivi fenomenologici. 2. Va acquisita l’attuazione della situazione storica del fenomeno. A tale scopo è necessario: a) caratterizzare la molteplicità di ciò che può essere trovato nella situazione – in modo però che non sia deciso ancora assolutamente nulla circa il suo vero e proprio contesto (in breve: articolazione della «molteplicità della situazione»); b) acquisire la «situazione accentuante» della molteplicità; c) mettere in luce il senso primario o «arcontico (dominante)» della situazione accentuante; d) partendo di qui giungere al contesto fenomenico; e) su questa base, impostare la considerazione dell’origine. Nel compiere queste operazioni dobbiamo però mantenere la consapevolezza di determinate limitazioni: 1. Il comportamento fondamentale dell’esperienza personale della vita dell’osservatore (del fenomenologo) è

«escluso» (ausgeschaltet). 2. L’analisi prende in considerazione i fenomeni storici, però non coinvolge ancora l’elemento decisivo. Si noti che l’esplicazione si acuisce sempre più di grado in grado, diventa sempre più individuale, si avvicina sempre più alla peculiare fatticità (Faktizität) storica. Questa gradazione diventa comprensibile solo se ci si libera con fermezza dalla teoria delle regioni (Regionentheorie). Osservazioni sullo schema dell’esplicazione fenomenologica: Ad 1. L’acquisizione del contesto storico obiettivo è già stabilita dallo scopo dell’esplicazione, che non è casuale. Vanno considerate le distinzioni storiche obiettive, che ottengono un’accentuazione specifica e debbono essere fissate. Ad 2. Il fatto di riportare il contesto storico obiettivo degli avvenimenti alla situazione storica originaria incontra tre difficoltà. A) Esposizione mediante il linguaggio Il linguaggio della considerazione reale non è originario. Già nell’esperienza effettiva della vita è presente una concettualità più originaria, dalla quale soltanto deriva la concettualità reale cui siamo abituati. Questa inversione nella concettualità va necessariamente attuata, altrimenti è vano sperare di poter cogliere la situazione. Non si deve semplicemente porre mano a concetti ovvi. (La questione dei concetti filosofici non è più stata posta dai tempi di Socrate). Talora si crede di avvicinarsi al problema mediante una «dialettica». Non si può tuttavia postulare la vita come «irrazionale» senza avere fatto chiarezza sul senso dell’irrazionalità. Ogni esplicato rimane non compreso fintanto che il suo contesto di senso «indicato» (angezeigt) non è attuato. Il contesto stesso dell’attuazione appartiene contemporaneamente al concetto del fenomeno. Il concetto filosofico ha una struttura non comparabile con il concetto reale. B) «Immedesimazione» in una situazione

Il problema dell’immedesimazione (Einfühlung) non fa un passo avanti finché lo si concepisce in termini gnoseologici, dato che il motivo di tale problema non è affatto gnoseologico. L’immedesimazione compare nell’esperienza effettiva della vita, è cioè un fenomeno storico-originario che non può essere risolto senza il fenomeno della tradizione (Tradition) in senso originario. Oggi il mondo-ambiente di Paolo ci è completamente estraneo. Tuttavia, ciò che ci interessa non è il suo carattere reale, il dato rappresentabile: questo momento è completamente assente, poiché tale mondo-ambiente acquista il suo senso solo in base alla comprensione della situazione. C) La questione dell’esplicazione in quanto tale Con il compimento dell’esplicazione l’esplicato si trasforma apparentemente in qualcosa di autonomo, staccato dall’attuazione. Si tratta tuttavia di un’idea sbagliata. All’astrazione teoretica, conforme all’atteggiamento, è peculiare che ciò che è stato astratto sia concepito come momento di una regione reale, sicché in tal modo è acquisita la determinazione fondamentale della regione. Ciò che è stato astratto viene ulteriormente considerato senza badare a ciò da cui è stato astratto: il fundamentum dell’astrazione è indifferente. L’astrazione come tale – il passaggio dal fundamentum abstractionis all’astrarre – non giunge a essere coesperita. Diverso è il caso dell’esplicazione: quando nell’esplicazione sono esplicati determinati momenti, i momenti di senso verso cui l’esplicazione non si dirige non sono messi da parte, ma il «come» del loro emergere nella direzione di senso appena esplicata – ovvero concepita nell’esplicazione – risulta simultaneamente determinato proprio in virtù dell’esplicazione stessa. Qui si potrebbe domandare: con il senso del riferimento (ad esempio) si può davvero considerare contemporaneamente il «che cosa» (il contenuto), ciò a cui ci si rapporta, e addirittura il «come» dell’attuazione? Questa obiezione, tuttavia, è conforme all’atteggiamento. Le direzioni di senso sono colte tutte e

tre. L’attuazione dell’esplicazione non è una sequenza discontinua di atti, cioè di determinazioni del coglimento (Erfassungsbestimmungen). Essa può essere ottenuta solo in un contesto concreto della vita. Nel qual caso si possono avere, nello stesso tempo, anche direzioni di senso «non viste».

III ESPLICAZIONE FENOMENOLOGICA DELLA PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI 23. Difficoltà di metodo La Prima Lettera ai Tessalonicesi è stata scritta nel 53 d.C. (dunque vent’anni dopo la crocifissione) ed è il documento più antico del Nuovo Testamento. Oggi la sua autenticità non è più messa in dubbio. In conformità con il metodo che abbiamo illustrato, domandiamo: qual è la situazione storica obiettiva di Paolo al momento di scrivere la lettera? Essa fu stilata durante il primo viaggio missionario a Corinto, che portò l’apostolo dapprima a Filippi, e di là, per tre settimane, a Tessalonica. L’opposizione degli Ebrei indusse Paolo ad abbandonare di nascosto la città per raggiungere Atene, da cui egli rimandò a Salonicco Timoteo, che reincontrò soltanto a Corinto. Paolo scrisse la lettera subito dopo il suo arrivo a Corinto. Con ciò la situazione risulta perfettamente determinata. Cfr. in proposito 1 Ts, 3, 6; 3, 2; At, 18, 5. Sul primo soggiorno di Paolo a Tessalonica si veda At, 17, 1-16. Se consideriamo tutto questo dal punto di vista storico obiettivo, Paolo appare come un missionario che si esprime con le parole di un comune predicatore errante, senza suscitare particolare scalpore. Ora, però, non prendiamo più in considerazione il contesto storico obiettivo, bensì cogliamo la situazione come se scrivessimo la lettera insieme a Paolo: compiamo insieme a lui l’atto di scrivere – ovvero di dettare – la lettera. La prima domanda è questa: come si relaziona Paolo, nella situazione di colui che scrive la lettera ai Tessalonicesi? Qual è l’esperienza che fa di loro? Come gli è dato, nella situazione dello stilare la lettera, il suo mondo degli altri? Ciò va di pari passo con la domanda: come si pone Paolo nei confronti di questo mondo degli altri? Il contenuto del mondo degli altri va visto nella sua determinatezza in rapporto al «come» del riferimento a tale mondo. Dobbiamo quindi mettere in luce la determinazione fondamentale di

questo riferimento. C’è un’altra difficoltà di metodo che va menzionata. Si potrebbe dire che è impossibile – ovvero solo limitatamente possibile – mettersi nella precisa situazione di Paolo. Noi non conosciamo affatto il suo mondo-ambiente. Questa obiezione nasce dall’idea secondo cui ciò che è dato in termini obiettivi è primario rispetto a una situazione nella quale ci si deve «immedesimare» (einfühlen). Tuttavia la posizione di Paolo nei confronti dell’ambiente circostante (Umgebung) va giudicata in base alla sua personalità, così come ci si deve domandare se tale ambiente sia importante per lui. Il problema dell’«immedesimazione» è posto di solito in termini gnoseologici, sicché non se ne coglie il postulato. Quella che più si avvicina alla visione corretta è la concezione di Scheler, benché la sua impostazione rimanga fortemente viziata in senso gnoseologico. Inoltre, le proposizioni di Paolo non si distinguono da un resoconto storico obiettivo. È un problema di esposizione: tramite il linguaggio ogni espressione decade subito in qualcosa di conforme all’atteggiamento. Si deve capire che è sbagliato aggiustare concetti obiettivi per la soggettività. Da ultimo il problema del «porre in risalto» (Abhebung): come sono poste in risalto le datità del mondo-ambiente, del mondo degli altri e del mondo del sé, che nell’esperire effettivo sono mescolate? Se ne può considerare soltanto una alla volta. Questo porre in risalto non è astrazione, dato che gli altri fattori sono comunque sempre dati simultaneamente. La tendenza non mira a rarefare la fatticità storica, ossia ad acquisire princìpi generali di fenomenologia della religione in base a un esempio. Non si persegue l’ideale di una costruzione teoretica, bensì l’originarietà dell’assolutamente-storico (das Absolut-Historische) nella sua assoluta irripetibilità. Tutte le domande della filosofia sono in fondo domande riguardo al «come», ossia, in senso stretto, domande riguardo al metodo. Nell’esplicazione della situazione relativa alla storia dell’attuazione, la svolta (Wendung) in cui la situazione

storica obiettiva si trasforma in situazione storica relativa alla storia dell’attuazione incontra, nel corso dell’esposizione, una difficoltà, e c’è un’esplicazione immanente dotata di una concettualità più originaria di quella cui siamo abituati, e dalla quale soltanto sempre deriva e ha la sua origine quella per noi abituale. L’autentica domanda preliminare sul senso della concettualità filosofica non è più stata posta dopo Socrate. La concettualità cui siamo abituati tende a ciò che è conforme all’atteggiamento, alla considerazione realistica. Se, da questa prospettiva, si guarda solo al problema dell’esposizione, si può vedere come ogni esplicato che è annunciato nel discorso non sia compreso fintanto che non si è colto nello stesso tempo anche il contesto dell’attuazione. Il concetto reale non può essere assolutamente paragonato al concetto fenomenologico. Una considerazione originaria dei motivi relativi al problema dell’immedesimazione mostra che non si tratta affatto di questioni gnoseologiche. Il problema dell’«immedesimazione» non può essere risolto senza il fenomeno della tradizione (ossia dell’esperienza storica effettiva della vita). Una difficoltà è costituita dal fatto che noi, con le nostre rappresentazioni, non possiamo in nessun caso immedesimarci in Paolo. Essa tuttavia non coglie nel segno, poiché ciò che importa non è affatto il carattere reale del mondo-ambiente di Paolo, bensì solo la sua specifica situazione. Il problema dell’esposizione, dell’immedesimazione e dell’esplicazione «di singoli elementi resisi autonomi» è posto in modo distorto. L’esplicazione si distingue da ogni astrazione reale dell’atteggiamento teoretico. In tal caso, infatti, l’astrarre è concepito come attinente e capace di codeterminare una regione reale. L’essenziale è che ciò che è stato astratto, a prescindere da ciò da cui è stato astratto, in seguito si mantenga stabile, di modo che il «ciò da cui» (das Wovon) rimane indifferente per il senso di ciò che è stato astratto. Non ci interessa qui il passaggio dal sostrato (Unterlage) a

ciò che è stato astratto. Esplicazione significa: se in essa si esplica in una determinata direzione di senso, al suo interno emergono al tempo stesso anche le altre direzioni di senso, dove ciò che importa è determinare il «come» di tale emergere. Si sostiene che non è possibile esplicare in un solo colpo una direzione insieme alle altre – ad esempio il senso del contenuto, il senso del riferimento e il senso dell’attuazione –, ma questa obiezione rivela un comportamento conforme all’atteggiamento. Le singole direzioni di senso non sono cose. Solo nel contesto concreto di una situazione si può vedere come questa difficoltà svanisca completamente. La svolta dal contesto storico obiettivo alla situazione relativa alla storia dell’attuazione nasce anch’essa da connessioni che possono essere mostrate nell’esperienza effettiva della vita. Con questa inversione si va poi a finire fuori della storia? Dove inizia il fenomenologico? Tale obiezione è giustificata, però si basa sulla convinzione che ciò che è filosofico avrebbe una dimensione particolare. Ecco l’equivoco. La filosofia è ritorno allo storico-originario (das Ursprünglich-Historische). Dunque questa difficoltà non grava sulla nostra riflessione. 24. La «situazione» L’inversione da ciò che è storicamente obiettivo a ciò che è relativo alla storia dell’attuazione è contenuta nell’esperienza effettiva stessa della vita. È la svolta verso la situazione. La parola «situazione» è intesa qui come termine fenomenologico, non è cioè impiegata per contesti obiettivi (nemmeno nel senso storico di «condizione» [Lage]: per esempio, situazione – ovvero condizione – disastrosa). Dunque la parola «situazione» è per noi qualcosa di inerente al comprendere conforme all’attuazione e non designa nulla di conforme a un ordine. Una molteplicità di situazioni, o una molteplicità all’interno di una situazione, non possono essere concepite come contesto di un ordine. Nemmeno una sequenza di situazioni è una sequenza conforme a un ordine (cfr. la «durée concrète» di Bergson).49 La questione della

delimitazione di una situazione è indipendente dalla determinazione di un ritaglio storico obiettivo, quale un periodo storico o un’epoca storica. Ma anche il periodo storico obiettivo è qualcosa di diverso da uno spazio di tempo definito in termini fisico-matematici. C’è bisogno di un’indagine particolare per stabilire quando una delimitazione storica obiettiva e una «delimitazione della situazione» (Situations-Abgrenzung) coincidono. Per la questione dell’unità o della molteplicità della situazione è importante che la possiamo acquisire solo nell’indicazione formale. L’unità non è logico-formale, bensì solo formalmente indicata. L’indicazione formale consiste nel «né-né» (das «Weder-Noch»): essa non è né qualcosa di conforme all’ordinamento né esplicazione di una determinazione fenomenologica. Non possiamo proiettare una situazione né in un determinato ambito dell’essere (Seinsbereich) né nella «coscienza». Non possiamo parlare della «situazione di un punto A tra i punti B e C». Il linguaggio si ribella a ciò. E non possiamo farlo perché un punto non è nulla di «egoico» («ichlich»). L’«egoità» (Ichlichkeit) è compresa da noi in modo del tutto indeterminato. A ciascuna situazione appartiene qualcosa di egoico. Ciò non significa che l’egoico di una situazione sia ciò che dà unità alla sua molteplicità. A una situazione inerisce necessariamente anche qualcosa di non-egoico (nichtichlich). Nulla è detto circa la relazione fra egoico e non-egoico. Qui non si intende introdurre alcuna relazione soggetto-oggetto, e neppure stabilire – sulla scorta di Fichte – che «l’io pone il non-io».50 Su ciò non diciamo nulla. In apparenza la relazione fichtiana è affatto universale, eppure pregiudica già contesti del tutto determinati. Essa dice: «L’io pone la forma della non-egoità (Nichtichlichkeit)», il che significa che a essere posto non è il mondo effettivo. Fichte si limita a cogliere in modo più netto la situazione kantiana. L’egoico può essere in rapporto sia con l’egoico sia con il non-egoico, e quest’ultimo può essere in rapporto con se stesso.

L’unica differenza che stabiliamo tra egoico e non-egoico è la seguente: «L’egoico è e ha il non-egoico, il non-egoico è soltanto e non ha». Questo, daccapo, come indicazione del tutto formale. L’è non deve essere inteso nemmeno nel modo apparentemente più universale, la predicazione, e ancora meno come esistenza, accadere reale, eccetera. Il problema è l’origine dei concetti ontologici (Seinsbegriffe). È l’è predicativo dell’esplicazione teoretica a scaturire dall’«io sono» originario, non viceversa. Nella misura in cui l’egoico ha qualcosa, il punto di partenza per la situazione può essere preso di qui, poiché ciò che è avuto (was gehabt wird) sembra darsi come obiettivo. Esso offre un postulato per lo svolgimento dell’esplicazione. Nel linguaggio corrente il termine «situazione» reca in sé un significato che evoca la staticità. Si tratta di un senso secondario che va accantonato. Tuttavia, anche una concezione «dinamica» in cui si intende il nesso fenomenico come un «fluire» e si parla di «flusso dei fenomeni» misconosce la situazione. In questa prospettiva «situazione» significa «arresto». Ma il contesto della situazione si pone al di là dell’alternativa «statico-dinamico». Anche l’immagine del fluire e dello scorrere è conforme all’ordine, e in tal caso l’omogeneità, se non espressamente posta, è per lo meno sottintesa. Il tempo della vita effettiva va acquisito partendo dal contesto dell’attuazione della vita effettiva stessa, e solo su questa base si può determinare il carattere statico, oppure dinamico, della situazione come tale. In termini puramente formali concepiamo la situazione come unità di una molteplicità. Ciò che ne costituisce l’unità rimane indeterminato, eppure la situazione non è un ambito omogeneo di relazioni; la struttura della situazione non si svolge in una o più dimensioni, ma in modo del tutto diverso. Già il postulato di una considerazione fenomenologica, in quanto conforme all’ordine, nonché il tentativo di una descrizione conforme alla realtà, falliscono al cospetto del fenomeno stesso. Bisogna tornare sempre di nuovo al punto di partenza e prendere le mosse dalla «relazione dell’avere»

(Habensbeziehung) dell’egoico, poiché ciò che è avuto sembra darsi in ogni caso come qualcosa di caratterizzabile in termini obiettivi: la relazione fra la gente cui Paolo si rivolge e Paolo stesso è così come egli l’ha. 25. L’«essere-divenuti» dei Tessalonicesi Cercheremo dunque di capire in quanto che cosa (als was) Paolo ha la comunità di Tessalonica e come egli ce l’ha. A tale proposito ci collegheremo a un determinato momento del resoconto storico obiettivo: At, 17, 4 – ossia alla relazione di Paolo con i «taluni» che «aderirono a lui» (καί τινες ἐξ αὐτῶν ἐπείσθησαν καὶ πρoσεκληρώθησαν τω Παύλῳ). Questa relazione storica obiettiva si mantiene con la svolta verso la «situazione»? In che modo si esprime nella stesura delle lettere? Nella natura della comunità (dei τινές) è contenuto anche lo stesso Paolo. I Tessalonicesi sono tali da essergli toccati in sorte. In loro egli coesperisce necessariamente anche se stesso. Postuliamo formalmente la natura della relazione di Paolo con coloro che si «sono uniti a lui». Egli esperisce i Tessalonicesi in due modi: 1) esperisce il loro essere-divenuti (das Gewordensein) (γενηθῆναι); 2) esperisce che essi hanno un sapere del loro essere-divenuti (oἴδατε, eccetera). Ciò significa che il loro essere-divenuti è anche un esseredivenuto di Paolo. Il loro essere-divenuti riguarda anche Paolo. La dimostrazione concreta in base alla lettera è assai facile. Nel testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi risulta evidente l’uso frequente di: 1) γενέσθαι, eccetera; 2) oἴδατε, µνηµoνεύσατε, eccetera. La ricerca minuziosa della ripetizione della medesima parola sembra un’operazione esteriore, ma all’interno della comprensione relativa alla storia dell’attuazione essa va concepita come tendenza ricorrente, ossia come motivo. Si tratta di qualcosa di diverso dalla ripetizione di un evento naturale. Ad 1. 1 Ts, 1, 5; 6; 7 sgg. Il contesto dell’evento è accentuato qui in modo particolare. Vi compare ripetutamente l’εγενηθη. Nello scrivere Paolo li vede come coloro nella cui vita egli è penetrato. Il loro essere-divenuti è

collegato con il suo ingresso nella loro vita (εἴσoδoς 2, 1). 2, 5 εγενηθηµεν: qui è caratterizzato il «come» del suo presentarsi (cfr. 2, 7; 8; 10; 14). Questi passi accentuano il fatto che per Paolo i Tessalonicesi ci sono perché egli stesso, ed essi nel loro essere-divenuti, sono reciprocamente collegati. Ad 2. oἴδατε: 2, 2; 5 in rapporto a γενέσθαι. 2, 9 µνηµoνεύετε. 2, 11 oἴδατε. 3, 6 ἔχετε µνείαν. 4, 2 oἴδατε. 4, 9 oὐ χρείαν ἔχετε γράϕειν ὑµῑν. 5, 1 oὐ χρείαν ἔχετε ὑµῑν γράϕεσθαι. Questo sapere è del tutto diverso da ogni altro sapere e ricordare. Esso risulta soltanto dal contesto della situazione dell’esperienza cristiana della vita. Il sapere riguardo al proprio essere-divenuti pone all’esplicazione un compito del tutto particolare. Su questa base si determinerà il senso di una fatticità che è accompagnata da un sapere specifico. Noi separiamo l’uno dall’altra il sapere e la fatticità, ma questa è coesperita in modo originario. Proprio riguardo a questo problema è possibile mostrare il fallimento della «psicologia scientifica dell’esperienza vissuta». Ora, l’essere-divenuti non è un avvenimento qualsiasi nella vita, bensì è costantemente coesperito, in modo che il loro essere attuale è il loro esseredivenuti. Il loro essere-divenuti è il loro essere attuale. Possiamo cogliere meglio questo fatto solo mediante una determinazione più precisa dell’essere-divenuti. È possibile esplicare questo senso in base alla lettera come tale? 1 Ts, 1, 6: il γενέσθαι è un δέχεσθαι τoν λoγoν, un «accogliere la predicazione» – ἐν θλίψει πoλλῇ µετὰ χαρᾱς – «in grande afflizione». Il δέχεσθαι ha portato con sé l’afflizione, la quale pure permane, benché al tempo stesso sia viva una «gioia» (µετὰ χαρᾱς) che proviene dallo Spirito Santo (πνεύµατoς ἁγίoυ) ed è un dono, dunque non è motivata dalla propria esperienza. Tutto ciò appartiene alla caratterizzazione del γενέσθαι. 2, 13: λoγoν θεoῡ è al tempo stesso genitivo soggettivo e genitivo oggettivo. L’esseredivenuti è inteso nel senso che accogliendo ciò che va accolto si entra in una interazione con Dio. 4, 1: παρελάβετε,

avete accolto il come della condotta di vita cristiana, eccetera. Ciò che è accolto riguarda il «come» del comportar-si (das Wie des Sich-Verhaltens) nella vita effettiva. Abbiamo dunque determinato γενέσθαι mediante δέχεσθαι, e poi mediante παραλαµβάνειν. Ciò che viene accolto è il «come» del comportarsi. Il passo principale che chiarisce il contesto è 1, 9-10. Si tratta di un’inversione assoluta, più precisamente di un volgersi-verso (Hinwendung) Dio e di un volgersi-via (Wegwendung) dagli dèi. L’assoluto volgersi-verso all’interno del senso dell’attuazione della vita effettiva si esplica in due direzioni: δoυλεύειν e ἀναµένειν, un mutare dinanzi a Dio e uno sperare (erharren). Il sapere circa il proprio essere-divenuti è l’inizio e l’origine della teologia. Il senso di una costruzione concettuale teologica emerge nell’esplicazione di questo sapere e della sua espressione concettuale. Il δεχεσθαι, secondo il suo «come», è caratterizzato εν θλίψει («in afflizione»). L’accogliere consiste nel mettersi dentro la necessità (Not) della vita. Con ciò è connessa una gioia che giunge dallo Spirito Santo ed è incomprensibile alla vita. παραλαµβάνειν non significa un appartenere, bensì un accogliere raggiungendo un’interazione vivente con Dio. L’essere presente di Dio si riferisce fondamentalmente al cambiamento di vita (περιπατεῑν). L’accogliere è in se stesso un cambiamento dinanzi a Dio. Forniamo ora uno schema formale del fenomeno. Senza una pre-comprensione dell’intero contesto non si può estrapolare nessun riferimento singolo. Lo schema formale dell’esplicazione ha un senso solo nell’esposizione formale, mentre non compare nell’attuazione del comprendere fenomenologico. Nello schema formale manca l’autentico.

Ad 1, 9-10: il volgersi verso Dio è primario. Solo in base a esso e con esso si dà il volgere le spalle agli εἴδωλα, che è secondario. ἐπιστρέϕειν πρoς τoν θεoν ἀπὸ των εἰδώλων (nel greco classico εἴδωλoν significa «illusione», nei Settanta significa «idolo». Paolo lo trae di qui). All’esplicazione spetta il compito di determinare il senso dell’oggettualità di Dio. Quando Dio è concepito primariamente come oggetto di speculazione si ha un decadimento dal comprendere autentico. Lo si capisce soltanto quando si attua l’esplicazione dei nessi concettuali. Questo però non lo si è mai tentato, poiché la filosofia greca è penetrata nel cristianesimo. Soltanto Lutero ha fatto un tentativo in questa direzione, e ciò spiega il suo odio per Aristotele. 2, 20: ὑµεῑς γάρ ἐστε ἡ δόξα ἡµῶν καὶ ἡ χαρά, «siete la mia gioia e la mia δόξα». oὔτε ζητoῦντες εξ ἀνθρώπων δόξαν oὔτε ἀφ’ ὑµῶν (2, 6) sembra essere in assoluta contraddizione con 2, 20. Paolo vuole conquistare la sua

personale assicurazione mediante il suo successo presso i Tessalonicesi. Si intende qui il contrasto con i predicatori erranti greci, cui Luciano rimprovera δoξoκoπία (sete di gloria). 3, 8: la vita di Paolo dipende dalla saldezza della fede dei Tessalonicesi. Egli dunque si rimette completamente al loro destino. I concetti di ἐλπίς, δόξα, χαρά hanno un senso particolare, altrimenti sorgono contraddizioni. Per cogliere il senso del concetto siamo costretti a prendere in considerazione il contesto fondamentale della vita di Paolo. L’intera struttura concettuale è diversa da ciò che si può pensare in un primo momento. La forza stessa dei fenomeni ci costringe a ritornare a qualcosa di originario. Δoυλεύειν e ἀναµένειν determinano, in quanto direzioni fondamentali, ogni altro riferimento. L’attesa della παρoυσία del Signore è decisiva. I Tessalonicesi costituiscono per lui una speranza non in un senso umano, bensì nel senso dell’esperire la παρoυσία. Questo esperire è un’angustia (θλῑψις) assoluta, che appartiene alla vita dei cristiani come tali. L’accogliere (δέχεσθαι) è un porsi-dentro (sich-hineinstellen) la necessità. Questa angustia è un elemento caratteristico fondamentale, una cura assoluta (absolute Bekümmerung) nell’orizzonte della παρoυσία, vale a dire del Secondo Avvento alla fine dei tempi. Con ciò siamo entrati nel mondo del sé di Paolo. 26. L’attesa della parusia Paolo vive in un’angustia particolare che gli è propria in quanto apostolo, ossia nell’attesa del Secondo Avvento del Signore. Questa angustia articola la specifica situazione di Paolo. Ogni attimo della sua vita si determina in base a essa, sicché egli, nonostante la gioia che lo anima in quanto apostolo, è costantemente sottoposto a una sofferenza. Questa compare due volte nel testo: µηκέτι στεγoντες, «non potevamo più resistere» (3, 1; 3, 5). 3, 10: l’essere-divenuti dei Tessalonicesi è al tempo stesso un nuovo divenire. τὰ ὑστερήµατα significa: c’è bisogno del completamento. 2, 17: per Paolo i Tessalonicesi hanno un significato assoluto. Per capire il suo comportamento nello scrivere la

lettera bisogna prendere le mosse dalla sua angustia. Gettiamo uno sguardo ulteriore sul mondo del sé di Paolo considerando il passo 2 Cor, 12, 2-10. Per Paolo il fatto decisivo non è l’avere ricevuto il dono della grazia: qui egli taglia corto e non ci dice nulla in proposito. Il «come» dell’estasi è ignoto e irrilevante. 2 Cor, 12, 5: separazione dell’esistenza di estasiato da quella di apostolo. Paolo vuole essere visto solo nella sua debolezza e nella sua angustia. C’è in verità anche una ragione più originaria del perché l’angustia sia propria del cristiano. σκoλoψ τῇ σαρκί – si è molto discusso di che cosa si tratti. Va inteso in termini più generali di quanto faccia Agostino, che lo concepisce come concupiscentia. σάρξ, la «carne», è la sfera originaria di tutte le passioni non motivate da Dio. 2, 18: ενεκoψεν ἡµᾱς o σατανᾱς, «Satana ce lo ha impedito». Non ci si deve attenere all’immagine secondo cui Paolo parla di «Satana». Il concetto di Satana e la sua posizione nella vita del cristiano non possono essere esplicati in base a quest’unico passo. Nell’Antico Testamento «Satana» ha semplicemente il significato di «antagonista», «nemico nella guerra», e più in particolare di «colui che lotta contro ciò che Dio vuole». La questione primaria non è speculare e interrogarsi se il diavolo ci sia e che cosa sia, bensì comprendere come esso sia presente e agisca nella vita di Paolo. Satana ostacola di continuo l’opera di Paolo aumentando la sua angustia, ossia l’assoluta cura apostolica per la sua vocazione nel tempo della fine. Cfr. 3, 5 o πειράζων, il «tentatore». In 3, 11 Paolo supplica Dio nella preghiera (preghiera in senso decisivo) affinché gli apra la via che porta ai Tessalonicesi. Già in 2, 17 egli si definisce «abbandonato» poiché da ultimo allontanato da loro. Alla preghiera corrisponde la chiusa della lettera 5, 27: «Vi scongiuro di leggere a tutti questa lettera». Questi momenti: il non poter sopportare, il diavolo, la preghiera, l’implorazione finale – tutto ciò rende possibile alla buona volontà una comprensione dell’angustia di Paolo. Da altre lettere, cfr. in proposito 2 Cor, 12, 5; 7.

Per chiarire l’idea della παρoυσία vanno confrontati i passi 1 Ts, 4, 13-18 e 5, 1-12. Ora, una volta caratterizzata la situazione, passiamo a considerare lo scrivere lettere come forma della predicazione. L’interpretazione che segue dovrebbe eliminare molte difficoltà precedenti. Si tratta delle questioni seguenti: 1. Come stanno le cose riguardo ai defunti, che non vivono più la παρoυσία (4, 13-18)? 2. Quando si attua la παρoυσία (5, 1-12)? Affrontiamo dapprima la seconda questione. Soltanto in base al «come» della risposta possiamo capire in che modo Paolo intenda la domanda. Egli non vi risponde in senso mondano; si tiene ben lungi dall’affrontarla in termini gnoseologici, però al tempo stesso non dice nemmeno che sia una questione inconoscibile. Fornisce la sua risposta mettendo a confronto due modi di vita: ὃταν λέγωσιν... versetto 3, e ὑµεῖς δε... versetto 4. Decisivo è il modo in cui mi rapporto a ciò nella vita autentica. Ne risulta il senso del «quando?», il tempo e l’attimo. Le difficoltà del comprendere fenomenologico non sono solo tecniche. Il senso dell’individuale, in quanto senso di ciò che è infinitamente complicato, qui non c’entra. Il comprendere è difficile nella sua stessa attuazione, e la difficoltà cresce costantemente man mano che ci si avvicina al fenomeno concreto. È la difficoltà dell’immedesimarsi, che non può essere sostituito né da uno «sprofondarsi con la fantasia» (sich-hineinphantasieren) né da un «comprendere empatico» (anverstehen), poiché ciò che si esige è un attuare autentico. 2 Cor, 12, 2-10 ci ha fornito uno sguardo preliminare sul mondo del sé di Paolo. L’elemento straordinario della sua vita non svolge per lui alcun ruolo. Soltanto quando è debole, quando sopporta le necessità della sua esistenza, egli può entrare in uno stretto rapporto con Dio. L’esigenza fondamentale dell’avere-Dio (das Gott-Haben) è l’opposto di ogni cattiva mistica. Decisivo diventa non lo sprofondamento mistico, lo sforzo particolare, bensì sopportare la debolezza della vita. Per Paolo la vita non è un mero flusso di esperienze vissute, poiché essa è solo nella misura in cui egli

ce l’ha. La sua vita è sospesa fra Dio e la sua vocazione. Il modo dell’«avere» la vita stessa, che fa parte dell’attuazione della vita, aumenta ancora la necessità (θλῖψις). Ogni autentico contesto dell’attuazione la aumenta. Dal punto di vista metodico, quanto abbiamo ottenuto finora va inteso nel senso che solo partendo di qui si comprende che cosa Paolo abbia da dire ai Tessalonicesi. Ciò che egli dice loro, e il come lo dice, sono determinati dalla sua situazione personale. Con uno schema:

È questa la situazione angustiante in cui egli scrive la lettera: cfr. 1 Ts, 3, 10: ὑπερεκπερισσoῦ è un’espressione molto forte per «fervente»; τὰ ὑστερήµατα τῆς πίστεως: importante per la posizione del peccato rispetto alla vita cristiana. La predicazione di Paolo è formalmente caratterizzata dal fatto di intervenire nel sapere dei Tessalonicesi in un momento determinato. Mediante la caratterizzazione fenomenologica della predicazione deve emergere inoltre, quale autentica prospettiva, quanto segue: 1) una decisa comprensione del riferimento, relativo al mondo degli altri, di Paolo ai Tessalonicesi; 2) che cosa propriamente accentui la situazione di Paolo; 3) su questa base, la soluzione del problema del sapere che fa parte della fatticità; 4) uno sguardo preliminare sulla più ricca struttura dell’esperienza cristiana della vita, che nel suo «che cosa» e nel suo «come» è sempre dipendente dal contesto dell’attuazione. Cfr. in proposito le considerazioni sull’origine della presa di conoscenza e della conoscenza in base all’esplicazione dell’esperienza effettiva della vita da me svolte nel corso del semestre estivo 1919 (Über das Wesen der Universität),51 nonché gli sviluppi riguardanti la logica concreta di un ambito reale da me esposti durante il corso dell’inverno 1919/20 (Phänomenologische 52 Grundprobleme). È importante la differenza fra la nostra riflessione attuale

e quella sulla Lettera ai Galati. In quest’ultimo caso ci siamo limitati a una semplice presa di conoscenza del contenuto, ma essa costituisce comunque uno stadio determinato necessario nel contesto di accesso al comprendere in quanto tale: una riflessione che dobbiamo praticare ogni qualvolta tentiamo di sviluppare l’autentico comprendere relativo alla storia dell’attuazione. La Lettera ai Galati ha un contenuto «dogmatico», che nell’esegesi è il primo a essere colto. Bisogna però avere le idee chiare circa il modo in cui questo contenuto è da intendersi come «sapere che ha fede» (glaubendes Wissen). Ciò che Paolo dice è caratterizzato dal fatto che egli lo dice ora ai Tessalonicesi (o ai Galati). Non bisogna precipitarsi sul contenuto isolato. Il cosiddetto contenuto dogmatico delle lettere va compreso nell’insieme del modo in cui si conserva una comunicazione di sapere cristiano. Se lo si considera isolatamente, si sbaglia strada. In che cosa consiste il contenuto dogmatico della Prima Lettera ai Tessalonicesi? Paolo risponde a due domande che gli sono state poste (si veda sopra, pp. 139-40). Nella sua storia concettuale l’espressione παρoυσία ha dapprima un senso che qui non è inteso. Nel corso della sua storia essa muta non solo il suo significato, ma anche la sua intera struttura concettuale. In questo mutamento concettuale si mostra la diversità dell’esperienza cristiana della vita. Nel greco classico παρoυσία significa «avvento» (presenza); nell’Antico Testamento (ossia nei Settanta): «L’avvento del Signore nel giorno del giudizio»; nel tardo ebraismo: «L’avvento del Messia come vicario di Dio». Per i cristiani, invece, παρoυσία significa «la ricomparsa del Messia già comparso», ossia qualcosa che in un primo momento non è contenuto nell’espressione letterale. In tal modo, però, l’intera struttura del concetto è diventata un’altra. A tutta prima si potrebbe pensare che il comportamento fondamentale nei confronti della παρoυσία sia un attendere e che la speranza (ἐλπίς) cristiana ne sia un caso speciale. Questo però è falsissimo! Mediante la semplice analisi della

coscienza di un evento futuro non giungeremo mai al senso del riferimento della παρoυσία. La struttura della speranza cristiana, che in verità è il senso del riferimento nei confronti della parusia, è radicalmente diversa da ogni attesa. «Tempo e attimo» (5, 1: «περί των χρoνων καὶ των καιρῶν», usati sempre insieme) pongono un problema particolare all’esplicazione. Nella misura in cui è concepito nel senso di un tempo «obiettivo» conforme all’atteggiamento, il «quando» è già pensato in modo non originario. Qui non si intende nemmeno il tempo della «vita effettiva» nel senso decadente, monotono, non cristiano. Paolo non dice «quando» perché tale espressione è inadeguata a ciò che va espresso, è insufficiente. L’intera questione non è per Paolo una questione di conoscenza (cfr. 5, 2: αὐτoὶ γὰρ ἀκριβῶς oἴδατε). Egli non dice: «In tale giorno il Signore ritornerà», e nemmeno: «Non so quando Egli ritornerà», bensì: «Voi sapete in tutta certezza...». Deve trattarsi di un sapere peculiare, poiché Paolo rinvia i Tessalonicesi a se stessi e al sapere che hanno in quanto divenuti. Da questo genere di risposta emerge che la decisione in merito alla «questione» dipende dalla loro propria vita. Paolo pone dunque a confronto due diversi modi di vita (5, 3: ὃταν λεγωσιν... e 5, 4: ὑµεῖς δε...). Non si tratta però di una contrapposizione fra due tipi diversi; la sua motivazione va individuata piuttosto nel «come» della comunicazione. Incontreremo nuovamente una contrapposizione siffatta nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Si faccia attenzione: ὃταν λέγωσιν (5, 3): «quando dicono», cioè essi sono tali da dire qualcosa in merito. εἰρήνη καὶ ἀσφάλεια (5, 3), «pace e sicurezza» nella vita effettiva: questa espressione sostituisce il «come» del comportarsi nei confronti di ciò che incontro nella vita effettiva. Ciò che incontro nel mio comportamento legato al mondo non reca in sé alcun motivo che produca un effetto inquietante. Coloro che in questo mondo trovano quiete e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo, poiché esso offre loro pace e sicurezza. «Pace e sicurezza»

caratterizzano la modalità del riferimento di coloro che parlano così. Un’improvvisa rovina li sorprende (5, 3: τoτε αἰφνίδιoς αὐτoῖς ἐφίσταται oλεθρoς). Essi ne sono colti di sorpresa, non se la aspettano. O piuttosto: la loro attesa è proprio quella conforme all’atteggiamento; il loro attendere si assorbe in ciò che la vita arreca loro. E poiché vivono in questa attesa, la rovina li colpisce in modo che non possono sfuggirle. Non possono salvare se stessi perché non hanno se stessi, perché hanno dimenticato il proprio sé, perché non hanno se stessi nella chiarezza del sapere autentico. Perciò non possono né cogliere né salvare se stessi (cfr. 5, 4 εν σκότει: «nelle tenebre»). Il paragone con la donna incinta (5, 3) caratterizza la subitaneità. Questo paragone pone particolari problemi, soprattutto riguardo alla sua funzione nel contesto di senso: fino a che punto esso può essere «forzato», eccetera. L’uso di paragoni pone in generale l’esplicazione di fronte a compiti particolari. 5, 4: ὑµεῖς δέ, ἀδελφoί, oὐκ ἐστὲ ἐν σκότει: «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre». ἳνα η ἡµέρα ὑµᾶς ως κλέπτης καταλάβη, «onde quel giorno vi sorprenda come un ladro». ἡµέρα ha un doppio senso: 1) rispetto alla tenebra significa la «luce» del sapere di se stessi (ὑμεῖς υἱoὶ φωτóς ἐστε 5, 5); 2) ἡμέρα significa «giorno del Signore», ossia «giorno della παρoυσία». Questa è dunque la modalità della risposta di Paolo. Essa («cerchiamo di vegliare») ci fa vedere che la domanda sul «quando» si riconduce al mio comportamento. Il modo in cui la παρoυσία sta nella mia vita rinvia all’attuazione della vita stessa. Il senso del «quando», del tempo in cui vive il cristiano, ha un carattere del tutto particolare. In precedenza, in termini formali, abbiamo specificato che «la religiosità cristiana vive la temporalità». Si tratta di un tempo senza un proprio ordine e senza punti fissi, eccetera. È impossibile cogliere questa temporalità in base a un qualsiasi concetto obiettivo di tempo. Il «quando» (das Wann) non è in nessun modo concepibile in termini obiettivi.

Il senso di questa temporalità è fondamentale anche per l’esperienza effettiva della vita, così come lo è per problemi come, ad esempio, quello dell’eternità di Dio. Già nel Medioevo questi problemi non erano più concepiti in modo originario a causa della penetrazione nel cristianesimo della filosofia platonico-aristotelica, e la nostra speculazione attuale che parla di Dio non fa che aumentare il caos. Il culmine dello sviamento è raggiunto oggi con la proiezione del concetto di validità in Dio. Consideriamo ora il centro della vita cristiana: il problema escatologico. Già alla fine del primo secolo l’elemento escatologico presente nel cristianesimo fu occultato, e in epoca successiva tutti i concetti originariamente cristiani furono disconosciuti. Anche nella filosofia odierna i costrutti concettuali cristiani sono ancora celati dietro l’atteggiamento greco. Bisognerebbe prendere in considerazione i Vangeli – i grandi discorsi escatologici di Gesù riportati nei Vangeli di Matteo e di Marco –, che forniscono l’impostazione fondamentale del problema. L’indirizzo escatologico fondamentale è già tardo-ebraico, e la coscienza cristiana ne costituisce una trasformazione peculiare. L’origine del senso dei concetti in questione è caratteristica (cfr. l’Apocalisse di Esdra).53 Qui si deve prestare attenzione alla suddivisione delle direzioni di senso (contenuto, riferimento, attuazione). Il «come» del coglimento della realtà, il «come» della comprensione degli eventi non sono da attuarsi in termini obiettivi e conformi all’atteggiamento in base al «sano buon senso». Per la comprensione dei fenomeni è necessaria piuttosto la comprensione dell’intera situazione. Qui, nel caso della domanda sul «quando» della παρoυσία, l’elemento decisivo è «come» Paolo risponda, poiché soltanto in base a ciò si può giudicare quello che dice. Per la vita cristiana non c’è alcuna sicurezza; e la costante insicurezza è anche il tratto caratteristico di tutte le «cose aventi un significato fondamentale» (Grundbedeutendheiten) della vita effettiva. L’insicuro non è

casuale, bensì necessario, e questa necessità non è né logica né naturale. Qui, per vederci chiaro, si deve riflettere sulla propria vita e sulla sua attuazione. Coloro «che dicono: pace e sicurezza» (5, 3) si consacrano totalmente a ciò che la vita arreca loro, occupandosi di ogni compito della vita, quale che sia. Sono catturati da ciò che la vita offre, mentre, quanto al sapere di se stessi, sono nelle tenebre. I credenti, invece, sono figli della luce e del giorno. La risposta di Paolo alla domanda sul «quando» della παρoυσία consiste dunque nell’esortazione a vegliare e a essere sobri. C’è qui una frecciata contro l’entusiasmo, la smania di almanaccare di coloro che, fiutando questioni come quella del «quando» della παρoυσία, ci speculano sopra. Si preoccupano soltanto del «quando», del «che cosa», della determinazione obiettiva, ma non hanno nessun vero interesse personale al riguardo. Rimangono impantanati nel mondano.

IV LA SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI 27. L’attesa della parusia nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi Nella sua esegesi delle due Lettere ai Tessalonicesi il teologo Schmidt (di Basilea) cerca di costruire un’antitesi tra la prima e la seconda lettera.54 In base alla seconda lettera la παρoυσία sarebbe preceduta dall’avvento dell’Anticristo con guerra e disordine, mentre in base alla prima lettera sarebbe preceduta da pace e sicurezza, sicché arriverebbe inattesa. In base alla seconda lettera l’Anticristo giungerebbe come un avvertimento e un segno provvisorio. Ma tutto questo mettere in gioco diverse visioni rappresentative in contrasto l’una con l’altra non è nello spirito di Paolo. Egli non pensa affatto a rispondere alla domanda sul «quando» della parusia. Il «quando» è determinato dal «come» del comportarsi, che a sua volta è determinato dall’attuazione dell’esperienza effettiva della vita in ciascuno dei suoi momenti. L’analisi della seconda lettera deve confermare i nostri precedenti risultati. Non entriamo nel merito della questione dell’autenticità (cfr. Hollmann, in «Zeitschrift für neutestamentliche Wissenschaft», 1901 e 1904)55 e dell’esegesi. Tuttavia si può negare a Paolo la paternità di questa lettera solo per mancanza di comprensione. Chiariamo anzitutto la situazione della seconda lettera. Che effetto ha ottenuto la prima lettera sui Tessalonicesi? Non è affatto semplice capirlo, però è possibile mettere in evidenza alcuni tratti principali. La seconda lettera rappresenta un’eco dello stato presente della comunità. In seno a quest’ultima vi sono alcuni che hanno compreso Paolo e che sanno che cosa è importante. Se la παρoυσία dipende dal modo in cui vivo, allora non sono in grado di attenermi saldamente alla fede e all’amore che mi sono richiesti, dunque giungo a un passo dalla disperazione. Quelli che la pensano così si angosciano in un senso genuino, nel segno della vera cura riguardo alla loro possibilità di compiere le opere della fede e dell’amore, e di resistere fino al giorno

decisivo. Paolo però non li aiuta, limitandosi piuttosto ad accrescere ancor più la loro necessità (2 Ts, 1, 5: ἒνδειγµα της δικαίας κρίσεως). Queste parole può averle scritte soltanto Paolo stesso. Lo stile sovraccarico (pleroforìa) dell’espressione nella seconda lettera ha la sua ben precisa motivazione ed è segno di autenticità. 1, 11: κλησεως. Si tratta dunque di pregare Dio affinché ci renda degni della vocazione (κλῆσις). I cristiani debbono essere κλῆτoι, chiamati, in contrasto con i reietti (2, 13-14: περιπoίησις δόξης: il darsi da fare per la δόξα del Signore – la cura). A coloro che lo hanno compreso Paolo contrappone quelli che, nell’attesa della imminente παρoυσία, smettono di lavorare e se ne vanno in giro senza fare nulla (3, 11: µηδεν ἐργαςoµένoυς ἀλλὰ περιεργαζoµένoυς). Costoro almanaccano intorno alla questione (2, 2) se la venuta del Signore sia prossima, trasformando in mero ozio l’incuranza nei confronti delle casualità della vita. Sono mondanamente preoccupati nel molteplice affaccendarsi del discorrere e dell’oziare e sono di peso agli altri (cfr. 1 Ts, 4, 11). Insomma, hanno inteso in altro modo la prima lettera. Il passo 2 Ts, 2, 3-12 non va concepito come un’«Apocalisse» isolata. Cfr. 2, 5! Non si tratta di un insegnamento teorico. Qui Paolo ci comunica la comparsa degli uomini dell’iniquità, parla del figlio della perdizione, dell’antagonista e simili. Quest’ultimo giungerà prima della παρoυσία (2, 3: πρωτoν). Dal punto di vista del contenuto è giusto, ma non è questo ciò che importa prioritariamente. Il passo è stato interpretato così: Paolo ci ha ripensato, ha mitigato la sua dottrina, non insegna più l’imminenza della parusia, è diventato più prudente e vuole tranquillizzare la gente. Contro questa lettura parla però l’intero tenore, l’intera modalità espressiva della seconda lettera, che non contiene alcuna attenuazione, bensì un’accresciuta tensione, anche nelle singole espressioni. Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima, e non comunica un ripensamento, bensì un’accresciuta tensione. I Tessalonicesi vanno richiamati a se stessi. Lo stile sovraccarico dell’espressione

di Paolo può essere compreso solo da questo punto di vista: ovunque, nella lettera, sono accentuati proprio i contesti dell’attuazione della vita effettiva. I passi seguenti sono caratteristici in tal senso: 2 Ts, 1, 3 (e 2, 13): εὐχαριστεῑν ὀφείλoµεν. 1, 3: ὑπερραξάνει ἡ πίστις. La πίστις non è un tenere per vero, altrimenti lo ὑπερραυξάνει non avrebbe alcun senso; il πιστεύειν è un contesto dell’attuazione suscettibile di intensificazione. Questa intensificazione è la garanzia della coscienza genuina. 1, 4 εν ύµῖν ἐγκαυχᾶσθαι è un accrescimento del καυχᾶσθαι, del gloriarsi. 1, 11 πᾶσυν εὐδoκίαν (il decidersi) ἀγαθωσύνης καὶ εργoν πίστεως (cfr. εὐδoκήσoντες τῇ αδικίᾳ). 2, 8 τῇ ἐπιφανείᾳ τῆς παρoυσίας (accentuazione dell’attuale). 2, 9 τέρασιν ψεύδoυς. 2, 10 ἀπάτῃ ἀδικίας (questo è senz’altro un ebraismo). Lo stile sovraccarico dell’espressione accentua ovunque il senso dell’attuazione – qui l’amore della verità. 2, 10 τὴν ἀγάπην τῆς ἀληθείας. 2, 11 ἐνέργειαν πλάνης. La particolare vitalità. Il carattere angustiante della situazione è evidenziato ovunque tramite la πληρoφoρία dell’espressione. 2, 13 ἐν ἁγιασµῷ πνεµύατoς καὶ πίστει ἀληθείας (εργoν πίστεως, πίστις ἀληθείας: la verità sta nel contesto di riferimento della fede). Questo dimostra che la stessa πίστις costituisce un contesto dell’attuazione, che può subire una intensificazione. 2, 14 εἰς περιπoίησιν δoξης, darsi da fare per la δόξα. 3, 1 ἵνα o λoγoς τoῦ κυρίoυ τρεχη: affinché la predicazione abbia corso. Per comprendere lo «stile sovraccarico dell’espressione» (pleroforìa) dobbiamo figurarci Paolo nell’angustiante necessità della sua vocazione. Agli ἀπoλλυµένoις manca l’attuazione genuina, che non può in nessun caso essere espressa in termini positivi, dato che il contesto

dell’attuazione non può essere esplicitato né in positivo come mero decorso dell’accadere né in negativo mediante una qualche negazione. Il contesto dell’attuazione si determina anch’esso solo nell’attuazione e con l’attuazione. Il genere di risposta data da Paolo si attua nel medesimo senso della prima lettera. Egli pone nuovamente a confronto due modi della vita effettiva, benché non lo si noti se si considera solo l’aspetto contenutistico. Nella cosiddetta «Apocalisse» (2 Ts, 2, 2-13) è contenuto proprio (2, 10) l’elemento decisivo: καὶ εν πάσῃ ἀπάτῃ ἀδικίας τoῑς ἀπoλλυµένoις, ἀνθ’ ὧν τὴν ἀγάπην τῆς ἀληθείας oὐκ ἐδέξαντo εἰς τὸ σωθῆναι αὐτoύς. La posizione decisiva è caratterizzata dall’oὐκ εδεξαντo. L’oὐκ («non») non è né un non privativum né un non negativum, ma ha piuttosto il senso del «non» «conforme all’attuazione» (das «vollzugsmäßige Nicht»). Il «non» «conforme all’attuazione» non è un rifiuto dell’attuazione, non è un «porsi al di fuori» (sichheraus-stellen) dall’attuazione. Il «non» concerne la posizione del contesto dell’attuazione nei confronti del riferimento da esso stesso motivato. Il senso del «non» può essere chiarito solo in base al contesto storico. Il δέχεσθαι senza oὐκ non ha alcuna relazione. Dovrebbe avere un’accentuazione positiva, eppure anche un «tuttavia attuare» (ein «doch Vollziehen») sarebbe fuorviante, poiché in tal caso ciò che ha carattere di attuazione sarebbe definito come un accadere. Invece, ciò che ha carattere di attuazione può essere esperito solo nell’attuazione stessa, non può essere oggettivato per sé. Da analoghi motivi dell’«al di là del sì e del no» (Jenseits von Ja und Nein) nacque l’idea della teologia negativa. Per sfuggire all’Anticristo in quanto Anticristo bisogna anzitutto essere penetrati nel contesto dell’attuazione della situazione religiosa, poiché l’Anticristo appare come Dio. Il problema della teologia negativa compare in forma sbiadita nella mistica medioevale. 28. L’annuncio dell’Anticristo Il senso dell’annuncio dell’Anticristo è il seguente:

bisogna riconoscere l’Anticristo come tale. È ben vero che egli si spaccia per un dio (cfr. 2 Cor, 4, 4: o θεoς τoῦ αἰῶνoς, Satana secondo Ireneo). Dunque a tal fine è necessaria la fatticità del sapere. In base alla capacità di riconoscere l’Anticristo si decide chi è veramente cristiano. L’evento, che deve giungere prima della παρoυσία, è quindi, secondo il suo senso del riferimento, qualcosa che riguarda gli uomini (ἀπoλλύµενoι – κλῆτoι εἰς δόξαν). Alla comparsa improvvisa dell’Anticristo ciascuno deve decidersi, e anche il noncurante (der Unbekümmerte) si decide per il fatto stesso di essere tale. Chi rimane indeciso si è già posto fuori dal contesto dell’attuazione della necessità dell’attesa, unendosi agli ἀπoλλύµενoι (cfr. 2 Cor, 4, 3). Nell’esegesi il fenomeno escatologico è considerato in termini storici obiettivi. Si sostiene che gli uomini di allora avrebbero creduto che fosse in atto la fine del mondo (chiliasmo). Intorno al 120 d.C. questo fenomeno si esaurisce, benché in seguito il chiliasmo risorga ripetutamente nel chiliasmo medioevale e nell’avventismo moderno. Si dice che queste rappresentazioni chiliastiche sarebbero storicamente condizionate, quindi prive di un valore di eternità. Si cerca di verificare la filiazione delle rappresentazioni escatologiche, e così si è condotti al tardo ebraismo, poi al giudaismo antico, infine alle immagini della fine del mondo di matrice antico-babilonese e antico-iranica. In tal modo si crede di avere «spiegato» Paolo, separatamente da ogni vincolo ecclesiastico, ossia di avere stabilito quale fosse l’aspetto di Paolo come tale. Avremo modo di vedere che proprio questa «obiettività» è sommamente artificiosa, dato che una simile prospettiva non si chiede affatto se coloro che hanno rappresentazioni escatologiche di tale genere le abbiano anche in quanto rappresentazioni. Nella misura in cui non si esita a parlare di «rappresentazioni», si disconosce il fatto che l’escatologico non è mai primariamente rappresentazione. È certamente vero che il contenuto della rappresentazione non può essere escluso, però lo si deve avere nel suo senso (del riferimento)

peculiare. Il comprendere, conforme all’attuazione, partendo dalla situazione, elimina queste difficoltà. Chiarire come sia accaduto che la storia dei dogmi (la storia della religione) abbia assunto la posizione «conforme alla rappresentazione» (vorstellungsmäßig) or ora criticata costituisce per la storia dello spirito un serio problema, che riguarda molto da vicino il concetto stesso di filosofia. Il problema capitale, peraltro, non concerne il modo in cui la storia dei dogmi è pervenuta a questa impostazione rappresentativa, bensì il perché essa non si sia mai orientata diversamente. Origene colse questo problema nelle sue Commentationes al Vangelo di Giovanni e a singoli scritti dell’Antico Testamento. Anche Agostino vide bene il problema della storicità contenuto nell’esperienza cristiana della vita.56 L’impostazione che, anziché prendere le mosse dal contesto dell’attuazione di volta in volta dato (ad esempio quello della creazione artistica o dell’esperienza vissuta religiosa), induce a plasmare un concetto generale dello storico per trasferirlo poi entro i singoli modi di porre il problema, è sbagliata. Analogamente, i metodi filosofici guastano il senso della storia della religione. Ciò che Paolo dice ha una peculiare funzione espressiva da cui non si può estirpare il «contenuto rappresentativo» per confrontarlo, ad esempio, con contenuti rappresentativi antico-babilonesi. Ciò che importa è il contesto originario dell’attuazione in cui si colloca l’escatologico in Paolo, indipendentemente dalle connessioni sussistenti fra le rappresentazioni escatologiche persiane ed ebraiche. Lo «sperare» (erharren) non è un «attendere» (erwarten) conforme all’attuazione, bensì un δoυλεύειν θεω. Lo «sperare» sta nel contesto dell’attuazione dell’intera vita cristiana (si veda lo schema a p. 136). Così la Seconda Lettera ai Tessalonicesi risulta facilmente comprensibile, nonostante alcune difficoltà. Rispetto alla prima lettera la situazione è mutata in questo senso: la frase «il giorno del Signore giunge come un la dro di notte» è intesa da alcuni nel modo giusto (quieta [?] speranza), da altri in modo

sbagliato. Gli uni abbandonano il lavoro, se ne stanno in ozio e chiacchierano, poiché lo attendono ogni giorno, mentre gli altri – quelli che lo hanno compreso – devono essere disperati, poiché la necessità si intensifica, e ciascuno sta solo dinanzi a Dio. A costoro Paolo risponde ora che la necessità è un ἒνδειγµα della vocazione, mentre respinge seccamente gli altri. L’evento della parusia secondo il senso del suo accadere è dunque riferito agli uomini, che (cfr. 2, 10) possono essere distinti in chiamati e reietti. I reietti (ἀπoλλύµενoι) sono stati accecati dal Signore di questo mondo, cioè da Satana. Essi non sono in grado di δoκιµάςειν (1 Ts, 5, 21), ossia di esaminare. 29. Dogma e contesto dell’attuazione È evidente quanto poco Paolo offra in termini teoreticodogmatici, anche nella Lettera ai Romani. La situazione non si presta alla dimostrazione teoretica. In quanto contenuto dottrinale separato, inteso nel suo risalto conoscitivo obiettivo, il dogma non poté mai svolgere una funzione di guida per la religiosità cristiana; al contrario, la sua genesi è comprensibile solo in base all’attuazione dell’esperienza cristiana della vita. Anche il cosiddetto contenuto dottrinario dogmatico della Lettera ai Romani è comprensibile solo in base all’attuazione in cui Paolo si trova e in cui scrive ai Romani. Il suo procedimento dimostrativo non è mai un nesso fondativo puramente teoretico, bensì sempre un nesso originario del divenire, tale che anche in una dimostrazione risulta alla fin fine soltanto «mostrato». Qui l’elemento dominante è costituito dal confronto fra comportamenti fondamentali della vita pratica: σωζόµενoι e ἀπoλλύµενoι, che non significa «reietti», bensì l’«essere nello stato del venire reietti», eccetera. Il participium praesentis al posto del participium perfecti pone l’accento sull’attuazione ancora perdurante. Si tratta di un assumere che è un estremo decider-si (sich-entscheiden). L’oὐκ δέχεσθαι ha un significato positivo in quanto esclude che si debba conoscere. Nel δέχεσθαι si fondano dunque lo εἰδέναι e il δoκιµάζειν. Sotto la pressione della

sua vocazione di predicatore, Paolo vede nella vita questi due tipi umani. Il δέχεσθαι ἀγάπην (l’amore in quanto attuazione) ἀληθείας intende un contesto dell’attuazione che rende idonei a δoκιµάςειν il divino. Solo in base a tale δoκιµάςειν il sapiente intuisce il grande pericolo che minaccia l’uomo religioso: colui che non ha assunto l’attuazione non è per nulla in grado di vedere l’Anticristo che fa la sua comparsa sotto le sembianze del divino (ἀντικείµενoς ἐπὶ πάντα λεγóµενoν θεóν), sicché ne diventa schiavo senza nemmeno accorgersene. Questo pericolo si rivela solo all’uomo di fede, e proprio contro il credente è diretta l’apparizione dell’Anticristo, che costituisce una «prova» per il sapiente. Gli ἀπoλλύµενoι credono (2, 11) allo ψεῦδoς, si lasciano ingannare precisamente nel loro estremo affaccendarsi riguardo alla «sensazione» (Sensation) della parusia, decadono dalla cura originaria per il divino. Per questo saranno assolutamente annientati – Paolo non conosce alcuna mera post-esistenza (Postexistenz) dei dannati nella lontananza da Dio – e perderanno la ςωη. L’apparire dell’Anticristo nei panni del divino facilita la tendenza decadente della vita. Per non diventarne schiavi bisogna dunque tenersi costantemente preparati. L’apparire dell’Anticristo non è un avvenimento puramente passeggero, bensì qualcosa in cui si decide il destino di ciascuno, anche di colui che già crede. In quanto ἀντικείµενoς – ovvero «colui che si pone contro il divino» – egli è nemico dell’uomo di fede, benché compaia egli stesso nella forma del divino. Il diventare manifesto (ἀπoκαλυφθῆναι) è tale soltanto per colui che ha la possibilità di distinguere. Ne deriva il monito (2 Ts, 2, 3) a non lasciarsi ingannare. 2, 11: i reietti credono alla menzogna, non sono indifferenti, sono estremamente affaccendati, però si ingannano e diventano schiavi dell’Anticristo. Essi quindi non accantonano come insignificante l’elemento cristiano, bensì mostrano una peculiare intensificazione che completa la loro cecità e rende perfetto il decadimento in seno all’anti-divino, di modo che

un ritorno indietro è impossibile. In Paolo l’essere dannati significa un assoluto essere annientati, un assoluto nulla: non vi sono – come nella dogmatica di epoche successive – stadi infernali. Mediante il comportamento apologetico della difesa dal paganesimo e dalla sua scienza fu attuata in forma obiettiva una nuova impostazione regressiva e intensificata dell’esperienza cristiana della vita. Il πρῶτoν ελθη (2, 3) non significa una proroga, bensì, nel senso della fatticità cristiana, proprio l’intensificazione della necessità estrema. Perciò Paolo (2, 15) riassume la sua esposizione escatologica: ἂρα oὐν, ἀδελφoί, στηκετε καὶ κρατεῖτε τὰς παραδόσεις (tradizione?) ἃς ἐδιδάχθητε εἲτε διὰ λόγoυ εἲτε δι’ ἐπιστoλῆς ηµῶν. Per il cristiano può essere decisivo solo τo νῦν del contesto dell’attuazione in cui egli effettivamente si trova, non già l’attesa di un evento messo in risalto in quanto stante nella temporalità come futuro. Nel tardo ebraismo l’attesa del Messia mira primariamente a un siffatto evento futuro, l’apparizione del Messia, alla quale altri uomini saranno presenti. Il quarto libro di Esdra mostra già la conoscenza della prevalenza cristiana dell’attuazione rispetto al contesto atteso dell’evento. Soltanto in base a quel contesto dell’attuazione con Dio si sviluppa qualcosa come la temporalità. 2 Ts, 2, 6 -7: καὶ νῡν τo κατέχoν (ciò che trattiene l’Anticristo) oἲδατε. τo γὰρ µυστήριoν ἤδη ἐνεργεῖται τῆς ἀνoµὶας. Teodoreto,57 Agostino e altri vedono nel κατέχoν il rude ordinamento dell’Impero romano che reprime la persecuzione dei cristiani da parte degli Ebrei. Questo passo potrebbe valere come obiezione contro la nostra argomentazione. Qui Paolo sarebbe interessato al dato obiettivo. Tuttavia: il mistero del peccato (µυστήριoν τῆς ἀνoµίας) è già all’opera – ed è questo il fatto decisivo. Il peccato è un mistero tanto quanto la fede. µoνoν o κατέχων ἂρτι εως εκ µέσoυ γένηται. I versetti 6-7 racchiudono il problema dell’atteggiamento cristiano nei confronti del mondo degli altri e del mondo-ambiente non cristiani, quindi il problema della storia della salvezza. Su questa base

diventa comprensibile 1 Ts, 4, 13: oἱ λoιπoὶ oἱ µη εχoντες ἐλπίδα (ύπoµoνην ἐλπίδoς). Vale a dire: tutti coloro che stanno al di fuori del contesto cristiano del divenire sono impotenti di fronte alla questione dei defunti. Nello stesso modo in cui ha risuscitato Cristo, Dio chiamerà a sé, con Cristo, anche i morti: «Questo noi crediamo» (πιστεύoµεν). Però non abbiamo bisogno di occuparci di simili curiose questioni, poiché la fede ci dà certezza. Mc, 9, 1: alcuni di voi non moriranno prima che la βασιλεία τoῦ θεoῦ giunga εν δυνάµει. Anche Paolo attendeva la parusia prima ancora della sua morte. La gran pompa in cui l’Anticristo appare facilita la fede ai credenti, se sono già decisi. La decisione stessa è molto difficile. L’attesa dev’essere già tale che, mediante la fede, l’inganno dell’Anticristo sia riconosciuto come inganno. In questo caso, dunque, il «prima» (das «Zuvor») è intensificazione della suprema necessità. Perciò (2, 15) Paolo dice soltanto: state saldi e conservate le tradizioni di cui avete esperienza. Le questioni di contenuto non possono essere comprese separatamente. In senso proprio anche la contrapposizione fra la dogmatica e la morale è sbagliata. Il titolo stesso «escatologia» è improprio, poiché è preso dalla dogmatica cristiana e indica la dottrina delle cose ultime. Ma non è in questo senso teoretico-disciplinare che noi qui lo intendiamo.

V CARATTERIZZAZIONE DELL’ESPERIENZA PROTOCRISTIANA DELLA VITA 30. Esperienza effettiva della vita e predicazione Sull’oggetto della predicazione: dobbiamo distinguere tra l’annuncio dei Sinottici e quello di Paolo. Nei Vangeli sinottici Gesù annuncia il Regno di Dio, η βασιλεία τoῦ θεoῦ (Lc, 16, 16). Nell’annuncio paolino l’oggetto effettivo della predicazione è già Gesù stesso in quanto Messia. Cfr. 1 Cor, 15, 1-11. Qui si trovano i passi dottrinali essenziali di Paolo, i quali tuttavia sono e rimangono radicati nel come, nella vita: non si tratta di una dottrina specificamente teoretica. Cfr. Rm, 1, 3 e Rm, 10, 9: la resurrezione e il riconoscimento del Figlio di Dio in quanto Signore sono le condizioni fondamentali della salvezza. Il concetto di Vangelo come l’abbiamo noi oggi esiste solo da Giustino e Ireneo in poi, ed è completamente diverso da quello paolino (carattere di attuazione). La prima frase del Vangelo di Marco ha ancora il senso originario («Inizio del Vangelo di Gesù Cristo», «ἀρχὴ τoῦ εὐαγγελίoυ ’Iησoῦ Xριστoῦ», dove peraltro «Gesù Cristo» è da intendersi come genitivo oggettivo). L’esperienza effettiva della vita dei cristiani è determinata storicamente in quanto inizia sempre con la predicazione. Il rapporto del cristiano con il mondo-ambiente è trattato in 1 Cor, 1, 26-27; 7, 20. Le significatività (Bedeutsamkeiten) della vita rimangono, ma nasce un nuovo comportamento. Proseguiamo nell’approfondimento del problema della predicazione lasciando da parte l’aspetto contenutistico. Dobbiamo ora dimostrare che la religiosità cristiana vive la temporalità. Bisogna comprendere se per il cristiano i riferimenti relativi al mondo degli altri e al mondo-ambiente abbiano un senso, e se sì, in che modo. L’effettiva esperienza cristiana della vita è determinata storicamente dal fatto di nascere con la predicazione, la quale coglie l’uomo in un dato momento e poi vive costantemente e simultaneamente nell’attuazione della vita. A sua volta questa esperienza della vita determina i

riferimenti che compaiono al suo interno. Con tutta la sua originarietà, la fatticità protocristiana non diventa in nessun caso né straordinaria né particolare. Per quanto assoluta possa essere la trasformazione dell’attuazione, riguardo alla fatticità mondana tutto rimane come prima. L’accentuazione della vita cristiana è conforme all’attuazione: 1 Ts, 3, 3; 5, 9. Tutti i contesti primari dell’attuazione convergono verso Dio e si attuano dinanzi a Dio. Al tempo stesso l’ἀναµένειν è uno sperare in Dio. Non si tratta delle significatività di un contenuto futuro, bensì di Dio. Il senso della temporalità si determina in base al rapporto fondamentale con Dio, sia pure in maniera tale che soltanto chi vive la temporalità in modo conforme all’attuazione comprende l’eternità. Solo in base a questi contesti dell’attuazione si può determinare il senso dell’essere di Dio. Attraversarli è la condizione preliminare. Ci si deve chiedere inoltre in che modo da siffatti contesti dell’attuazione emerga la concettualità dogmatica. L’essenziale è che la predicazione rimanga sempre compresente in modo vitale, e non solo come grato ricordo. In questo essere-divenuto, come deve comportarsi il cristiano nei confronti del mondo-ambiente e del mondo degli altri (1 Cor, 7, 20; 1, 26 sgg. σoφoί, δυνατoί, εὐγενεῖς)? – τὰ ὄντα: si ha di mira la realtà della vita mondana. La realtà della vita consiste nella tendenza ad appropriarsi di tali significatività. Esse però, all’interno della fatticità della vita cristiana, non diventano in nessun caso dominanti. Al contrario, εν τῇ κλησεί µενετω! Si tratta soltanto di acquisire un nuovo comportamento fondamentale in rapporto a ciò. Questo va messo ora in luce secondo la struttura conforme all’attuazione. Le significatività della vita reale effettivamente esistenti sono vissute ὡς µη, «come se non» (als ob nicht). 31. Il senso del riferimento della religiosità protocristiana Va determinato il senso del riferimento della religiosità protocristiana riguardo al mondo-ambiente, al mondo degli altri e al mondo del sé. Da quest’ultimo va inoltre distinto il

sé vero e proprio. Esattamente i riferimenti relativi al mondo del sé sono i più difficili da cogliere, dato che la cura relativa al mondo del sé porta con sé la parvenza. Paolo sa bene che queste direzioni del riferimento richiedono una caratterizzazione peculiare, che egli fornisce servendosi di concetti apparentemente correnti: πνεῦµα, ψυχή, σάρξ. Proprio questi concetti offrono un tipico esempio di come una direzione errata della comprensione sia incapace di cogliere il senso autentico. Li si intende infatti come proprietà e determinazioni cosali, ma solo la giusta esplicazione dei contesti di senso consente un confronto nel quadro della filosofia della religione. Prima di ciò ogni raccolta di materiale non ha la benché minima utilità per la comprensione. L’esplicazione va mantenuta a un primo livello. Ci sono limiti soggettivi del comprendere: καινὴ κτίσις, Gal, 6, 15 (κλῆσίς, vocazione). Evidente è 1 Cor, 7, 20. Ciascuno deve rimanere nella vocazione in cui si trova. Il γενέσθαι è un µένειν. Per quanto radicale sia la trasformazione, qualcosa rimane. Come va inteso tale rimanere? È anch’esso coinvolto nel divenire, di modo che il senso del rimanere secondo il «che cosa» e il «come» si determina solo in base all’esseredivenuto? Emerge così un contesto di senso peculiare: questi riferimenti al mondo-ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività del contenuto cui mirano, bensì, al contrario, è in base all’attuazione originaria che si determinano il riferimento e il senso della significatività vissuta. In termini schematici: qualcosa rimane invariato, eppure viene radicalmente trasformato. Abbiamo qui un campo di ingegnosi paradossi, ma non giova a nulla! Le formulazioni sottili non esplicano niente. Ciò che viene trasformato non è il senso del riferimento, e ancora meno ciò che attiene al contenuto. Il cristiano non esce quindi fuori dal mondo. Se uno riceve la vocazione di schiavo, non deve assolutamente cedere alla tentazione di credere che, con l’aumento della sua libertà, potrebbe ottenere qualcosa per il suo essere. Lo schiavo deve

rimanere schiavo. È indifferente quale sia la sua importanza in relazione al mondo-ambiente. Lo schiavo, in quanto cristiano, è libero da ogni vincolo. Il libero, invece, in quanto cristiano, diventa schiavo dinanzi a Dio (il γενέσθαι è un δoυλεύειν dinanzi a Dio). Le direzioni di senso che mirano al mondo-ambiente, all’attività svolta e a ciò che si è (mondo del sé) non determinano in alcun modo la fatticità del cristiano, eppure ci sono, vengono mantenute e solo così sono attribuite in senso proprio. In virtù dell’essere-divenuti, le significatività relative al mondo-ambiente si trasformano in beni temporali. Il senso della fatticità secondo questa direzione si determina come temporalità. Finora il senso del riferimento concernente il mondo-ambiente e il mondo degli altri è stato determinato in termini puramente negativi. Dato che questi riferimenti non hanno comunque la possibilità di motivare il senso arcontico della religiosità protocristiana, sorge la domanda positiva circa il rapporto del cristiano con il mondo-ambiente e il mondo degli altri. Consideriamo ora il senso del riferimento in cui il cristiano si trova rispetto al mondo-ambiente. Si tratta di rapporti difficili, dato che proprio le relazioni con il mondo del sé sono colpite nel modo più marcato dall’esseredivenuto cristiano. Lo stesso Paolo tocca tali rapporti solo brevemente, ma con precisione (Cor e Fil). Egli sa bene che questa direzione del riferimento richiede una caratterizzazione specifica (πνεῦµα-spirito, ψυχή-anima, σάρξ-carne). Di solito tali concetti sono intesi come corrispondenti alla situazione. I rapporti con il mondoambiente e il mondo degli altri contribuiscono a costituire la fatticità; però sono beni temporali in quanto sono vissuti nella temporalità. 1 Cor, 7, 29-32: sappiamo che il γενέσθαι è δoυλεύειν e ἀναµένειν. Qui: καιρὸς συνεσταλµένoς. Resta ancora soltanto poco tempo, il cristiano vive costantemente nell’«ancora-sol tanto» (das Nur-Noch) che accresce la sua angustia. La temporalità concentrata (zusammengedrängte Zeitlichkeit) è costitutiva della religiosità cristiana: un

«ancora-soltanto»; non c’è tempo per rimandare. I cristiani debbono essere tali che coloro i quali hanno una donna ce l’hanno in modo tale da non averla, eccetera. τo σχῆµα τoῦ κόσµoυ: la figura del mondo passa; la parola σχῆµα non è intesa tanto in termini obiettivi, quanto piuttosto nel suo corrispondere a un comportar-si. Rm, 12, 2 mostra come va compreso lo σχῆµα: καὶ µη συσχηµατίζεσθε τῷ αἰῶνι τoύτῳ. Ciò consente di cogliere il carattere di attuazione dello σχῆµα. I rapporti stabiliti da Paolo vanno intesi in termini non etici. Perciò Nietzsche sbaglia quando gli rimprovera il ressentiment, che non rientra affatto in questa sfera. In tale contesto non si può assolutamente parlare di ressentiment. Se si sposa questa prospettiva si dimostra di non avere capito nulla. Si è tentati di tradurre lo «ὡς µή» con «come se» (als ob), ma non è corretto. «Come se» esprime un contesto obiettivo e spinge a ritenere che il cristiano dovrebbe escludere i riferimenti al mondo-ambiente. In termini positivi lo ὡς significa un nuovo senso che sopraggiunge. Il µη riguarda il contesto dell’attuazione della vita cristiana. Tutti questi riferimenti subiscono di volta in volta, nell’attuazione, un ritardo, sicché nascono dall’origine del contesto cristiano della vita. La vita cristiana non procede in modo lineare, ma è infranta: tutti i riferimenti relativi al mondo-ambiente debbono passare attraverso il contesto dell’attuazione dell’essere-divenuto, in modo che esso sia compresente, e tuttavia tanto i riferimenti come tali, quanto ciò a cui essi mirano, non siano in nessun caso toccati. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Il fatto che la vita cristiana sia «separata» (abgesondert) ha un tono negativo. Compreso in modo autentico, il contesto dell’esperienza vissuta può essere colto soltanto in base all’origine del contesto protocristiano della vita. In verità, nella vita cristiana c’è anche un contesto vitale non infranto (ungebrochen) a uno stadio della spiritualità, il che non ha nulla a che fare con l’armonia di una vita. Con l’essere-infranto (Gebrochenheit) la necessità e l’afflizione dei cristiani risultano ancora

intensificate, anzi, si sono stabilite nell’intimo. Il passo addotto sembrerebbe di facile interpretazione: invece, sottoposto al comprendere autentico, diventa sempre più difficile. Dal lato del mondo-ambiente la vita cristiana dovrebbe assumere un carattere di ovvietà (1 Cor, 4, 11-13). 32. La fatticità cristiana come attuazione L’esperienza cristiana della vita non è modificata dall’essere-divenuto come tale. Il senso del riferimento dell’esperienza cristiana della vita è diverso dal senso del riferimento relativo al mondo-ambiente. Se questo fosse autonomo nell’esperienza cristiana della vita, certi passi di Paolo sarebbero incomprensibili. L’inversione verso l’esperienza cristiana della vita riguarda l’attuazione. Per evidenziare il senso del riferimento dell’esperienza effettiva della vita si deve prestare attenzione al fatto che essa è «resa più difficile», attuandosi εν θλίψεσιν. I fenomeni dell’attuazione vanno saldati con il senso della fatticità. Paolo mette a tema l’attuazione. Sta scritto: ὡς µη, non oὐ. Il µη indica la tendenza a ciò che è conforme all’attuazione. µη ha la relazione riflessiva (Rückbeziehung) con l’attuazione stessa. Con l’articolazione dei fenomeni emerge l’opportunità di prescindere da qualsiasi schema psicologico. Bisogna lasciare che i fenomeni stessi ci si diano nella loro originarietà. Con il «renderli datità» (zur Gegebenheit bringen) non si è ottenuto ancora nulla. Solo mediante la distruzione fenomenologica si ottiene un risultato. Cfr. 1 Cor, 11, 1: Paolo dice: «Fatevi miei successori!». Egli rifiuta tutte le significatività e tutti i mezzi mondani, eppure combatte sino alla fine. Con la rinuncia alla modalità mondana del difendersi, la necessità della sua vita risulta intensificata. Riuscire a entrare in un contesto dell’attuazione siffatto è un’impresa quasi disperata. Il cristiano sa che questa fatticità non può essere conquistata con le proprie forze, ma proviene da Dio – fenomeno dell’effetto della grazia. Una esplicazione di queste connessioni è molto importante. Il fenomeno è decisivo per

Agostino e Lutero: cfr. 2 Cor, 4, 7-8: τoῦ θεoῦ καὶ µη ἐξ ηµων, poi le antitesi; θλιβόµενoι, ἀλλ’ oὐκ, eccetera. «Abbiamo il tesoro (della fatticità cristiana) in vasi di argilla». Ciò di cui solo noi cristiani disponiamo non è sufficiente per il compito di giungere alla fatticità cristiana. Senza la fatticità cristiana sarebbero le significatività della vita a decidere e a modificare il contesto del riferimento. Qui però la direzione di senso della vita effettiva va nel verso opposto. L’attuazione supera la forza dell’uomo. Egli non è pensabile in base alle proprie forze. La vita effettiva non può fornire da sé i motivi per raggiungere anche solo il γενέσθαι. Mediante l’esagerazione di una significatività la vita tenta di «conquistarsi un sostegno». Il concetto di «sostegno» (Halt) ha un senso entro una struttura del tutto determinata dell’esperienza effettiva della vita, ma non si può applicarlo all’esperienza cristiana della vita. Il cristiano non trova in Dio il suo «sostegno» (cfr. Jaspers).58 È una bestemmia! Dio non è mai un «sostegno». Al contrario, un «avere sostegno» si attua sempre in riferimento a una significatività, un atteggiamento, una concezione del mondo determinati, poiché nel «dare sostegno» e nell’«ottenere sostegno» Dio è il correlato di una significatività. Visione del mondo cristiana: propriamente un controsenso! Non nasce da un contesto di genere storico, come ciò che è cristiano. Quindi, colui che non ha «accolto» (δεχεσθαι) non è in grado di sostenere la fatticità o di appropriarsi del «sapere». Cfr. 1 Cor, 3, 21-22; Fil, 2, 12-13. Dal senso del mondo-ambiente nell’esperienza cristiana della vita risulta che il mondo non c’è solo per caso. Non è un ἀδιάφoρoν. Mediante la revoca dei contesti del riferimento nell’autentica attuazione, la significatività del mondo – anche quella del proprio – è «avuta» (gehabt) ed esperita in modo peculiare. 33. Il contesto dell’attuazione in quanto «sapere» Il χρᾶσθαι κóσµoυς, il µη συγχρηµατίςειν esigono un determinato modo del decidersi: δoκιµάςειν, εἰδεναι. Finché si presta fede alla psicologia e alla gnoseologia odierne e si

lascia che siano esse a presentarci i fenomeni della coscienza, si giunge a una falsa concezione del «sapere». Caratterizzandolo come un «sapere pratico» non ci si avvicina alla sua struttura di senso. Non bisogna presupporre come noto il «sapere in generale» per poi trasformarlo. Alla domanda: «A quale contesto fondamentale rinvia il “sapere”?», va risposto così: «A quello del δoυλεύειν e dell’ἀναµένειν». Il sapere non ha un suo corso lì accanto né sta liberamente sospeso, bensì è sempre lì presente. Secondo il loro specifico senso, gli stessi contesti dell’attuazione sono un «sapere». Cfr. 1 Cor, 2, 10: ἡµῖν δὲ ἀπεκάλυψεν ὁ θεὸς διὰ τoῦ πνεύµατoς. τὸ γὰρ πνεῦµα πάντα ἐραυνᾷ, καὶ τὰ βάθη τoῦ θεoῡ, eccetera. Secondo la sua essenza peculiare, il «sapere» esige lo πνεῦµα ἔχειν. Nell’esegesi moderna si sono compiuti studi sui significati della parola πνεῦµα nella letteratura contemporanea a Paolo e in quella antica di età anteriore, risalendo fino a Platone. Analogie al riguardo sono state scorte in particolare in certi passi di «Ermete Trismegisto» (nel cosiddetto Corpus Hermeticum) – passi che coincidono con Paolo per lingua, stile ed epoca. Si sostiene che nel passo citato (1 Cor, 2, 10 sgg.) egli si caratterizzerebbe come «pneumatico». L’uomo diventerebbe esso stesso Dio. ἀνὴρ πνευµατικóς sarebbe il divino, ἀνὴρ ψυχικóς sarebbe l’umano in esso. Questo passo servirebbe come argomento a favore di un nesso fra gli scritti paolini e le religioni ellenistiche dei Misteri.59 Si tratta però di un errore. In effetti, dal punto di vista della storia obiettiva non vi sarebbe nulla da eccepire, ma in base all’interpretazione nel senso della storia dell’attuazione per «πνεῦµα» risultano significati del tutto diversi, ἀνακρίνειν, ἐραυνᾷ, τὰ βάθη τoῦ θεoῦ (1 Cor, 2, 10). In Paolo lo πνεῦµα è il fondamento dell’attuazione da cui scaturisce il sapere in quanto tale. Nei suoi scritti, πνεῦµα è connesso con ἀνακρίνειν e ἐραυνᾶν (1 Cor, 2, 15; cfr. anche: 2 Cor, 4, 16, l’uomo «esteriore» e l’uomo «interiore»; Rm, 8, 4 sgg. πνεῦµα-σάρξ). Σάρξ è un φρóνηµα (8, 6), una

disposizione dell’animo (Gesinnung), cioè una tendenza della vita. Gal, 2, 20; Fil, 1, 22: σάρξ è il contesto dell’attuazione dell’autentica fatticità nella vita relativa al mondo-ambiente. La sua antitesi, πνεῦµα, sono quindi il δoυλεύειν e ἀναµενέιν. In Paolo non c’è uno πνεῦµα εἰναι (come nel Corpus Hermeticum), bensì uno πνεῦµα ἔχειν, εν πνεύµατι περιπατεῖν, ovvero ἐπιτελεῖσθαι. È dunque sbagliato vedere nello πνεῦµα una parte dell’uomo, giacché l’ἄνθρωπoς πνευµατικóς è piuttosto un uomo che si è appropriato di una determinata caratteristica della vita. È questo il significato del πάντα ἀνακρίνειν. In netto contrasto con ciò sta il conoscere teoretico, il πάντα γνωρίςειν degli scritti ermetici: cfr. 2 Cor, 3, 3. C’è una profonda antitesi tra il miste e il cristiano. Mediante manipolazione il miste è distolto dal contesto della vita, di modo che, in uno stato di rapimento, Dio e il Tutto sono avuti nel presente. Il cristiano non conosce un simile «entusiasmo», bensì dice: «Vegliate e siate sobri». Gli si mostra qui proprio l’enorme difficoltà della vita cristiana. La filosofia della religione genuina non deriva da concetti di filosofia e di religione preconfezionati, giacché la possibilità di cogliere filosoficamente una determinata religiosità deriva piuttosto – per noi cristiani – da questa stessa religiosità. Perché proprio la religiosità cristiana si ponga al centro delle nostre considerazioni è una domanda difficile cui si può rispondere solo risolvendo il problema delle connessioni storiche. Il compito è quello di pervenire a un rapporto genuino e originario con la storia, da esplicarsi sulla base della nostra specifica situazione e fatticità storica. Tutto dipende da ciò che il senso della storia può significare per noi, affinché scompaia l’«obiettività» dello storico «in sé». C’è una storia solo partendo da un presente. Soltanto così va intesa la possibilità di una filosofia della religione.

APPENDICE

ANNOTAZIONI E ABBOZZI PER IL CORSO Lettera ai Galati [cfr. par. 16] Paolo in lotta – non solo per la sua missione, bensì per gli stessi Galati; contro la «legge» non solo in quanto legge, bensì in quanto appartenente all’attuale «età del mondo» (Weltzeit). Un insinuarsi nel non redento, non un radicale afferrare lo spirito. Disputa sulla circoncisione: questione delle condizioni per l’ingresso nella vita cristiana; segno esteriore dell’appartenenza interiore al «mondo dell’alleanza» dopo l’esilio. Ciò che distingue non è la legge con le sue opere e la sua morale, bensì la fede in Gesù Cristo. Superfluità, dannosità [...].60 Nella legge si incarna una «via di salvezza» (concezione dell’esistenza!) (via verso la salvezza nell’osservanza dei comandamenti!). Senso dell’intera legge: rinviare l’uomo al suo fare; la ricompensa è data per le opere del fare [?], della legge. Per Paolo: soltanto Dio opera ogni cosa nell’invio di Cristo! Dunque: non le opere dell’uomo, bensì la grazia! Legge – grazia (ne va dell’esistere, «vivere»), se εκ νóµoυ oppure εκ πίστεως, aut-aut delle vie, per la vita non meta essa stessa. Dunque: πίστις → δικαιoσύνη → ζωή (δóξα, τιµή, ἀφθαρσία). Dunque, sulla scorta della Lettera ai Galati, bisogna anzitutto comprendere e porre in luce la direzione di senso, la dinamica arcontica, la dinamica fenomenologica fondamentale! Si tratta di questo: o l’elemento cristiano (das Christliche) esplica se stesso e riceve se stesso originariamente in un possesso esistenziale, oppure viene meno nell’adorazione [?]. Passione dell’apostolo che si diffonde [?] in questa lettera; dietro a ciò, l’escatologico! Non offrire la fede in modo vuoto come stato e beatitudine definitiva, bensì come riferimento conforme all’attuazione dell’ingresso preoccupato nel futuro; essere-defunti (abgestorbensein) dall’inizio del tempo della fine! Il

cristianesimo è qualcosa che ha un principio esistenziale completamente nuovo: la redenzione cristiana!! Esplicato nella lotta e mediante la lotta. Fede: è morire con Cristo; e precisamente fede come riconoscimento del Cristo redento, del fatto che Egli è il Messia. Ciò ha però la sua essenziale tendenza escatologica, dunque racchiude in sé il procedere verso la meta! La fede è quindi al tempo stesso speranza e compimento dell’inizio. Esperienza religiosa ed esplicazione [cfr. par. 17] Esperienza religiosa – il suo senso, e in che misura agisca in concreto; la sua modalità di esplicazione. Genuina, oppure schema di ordinamento tratto dall’esterno! Esplicazione non evidenziata – evidenziata; predogmatica – dogmatica. Religiosità e religione crescono all’interno di un effettivo mondo-ambiente della vita, sviluppandosi nel suo linguaggio. Nuova creazione di linguaggio solo limitata. All’opposto la sua funzione significativa – la struttura concettuale subisce una trasformazione dall’interno, nel qual caso peraltro il quadro linguistico decaduto non fa che consolidarsi ancora di più (dialettica – Paolo! L’evoluzione di Paolo; il paradosso, trasformato dalla sistematica, è soppresso). Per comprendere ciò in termini originari è necessario evidenziare le esperienze fondamentali e l’anticipazione che esperisce – l’autentica dinamica del senso. Si è sempre scambiato ciò con il sistema e, rifiutando una sistematizzazione schematica, ci si è abbandonati a considerazioni singole, andando alla ricerca di dipendenze religiose per i fenomeni isolati. Problemi «metodici», in senso non tecnico, bensì filosofico. Il «contesto» dei fenomeni è specifico. «Atteggiamento religioso» – registro! Il «contesto strutturale» della religione è la «prima cosa», e va individuato. Non è però un compito «descrittivo», bensì un compito dell’es-plicazione (Ex-plikation) (vale a dire estrapolazione [Herausnahme] dell’attuazione preliminare e fondamentale [Vor- und Grundvollzug], estrapolazione

comprendente. L’«extra» [das «Heraus»] è pensato in modo conforme all’atteggiamento e all’ambito, è semplice, originariamente autentica attuazione dell’anticipazione [Vorgriffsvollzug]. Con ciò non è creato l’ordine, ma tutti i passi e i movimenti esplicativi relativi all’attuazione e alla situazione sono acquisiti all’interno della conduzione fondamentale [Grundführung] dell’esplicazione (terminus)). Ora si può, e propriamente si deve, essere direttamente, assolutamente interessati nell’esplicazione e all’ esplicazione, però essa non ha bisogno di essere comunicata, soprattutto quando manca la vocazione; nondimeno, essa può anche agire in maniera tale che le strutture dell’esplicazione siano intese in modo distruttivo e storico: allora risulta un [?], che non è una preparazione e una facilitazione, bensì un primo urgere verso la difficoltà – e poi esso stesso, come tale, motivato in base alla vita effettiva. Considerazioni metodiche su Paolo, I [cfr. parr. 18 e 19] Una breve indicazione metodica. Comprendere fenomenologicamente Paolo e la sua predicazione apostolica, e in base a essa cogliere contesti di senso decisivi della vita cristiana. Anche questo è già un modo di parlare rozzo perché isolato. Assumerla non significa tuttavia articolarla in concetti filosofici, renderla accessibile, escludendo così ciò che «a noi oggi» risulta estraneo. In tal modo finiremmo per allontanarci da ciò che dev’essere oggetto, trattando appunto l’«oggetto» come un caso isolato, una singola manifestazione della coscienza religiosa in generale, senza contare che è di per sé del tutto problematico da dove derivi tale coscienza in quanto criterio. La vita storica come tale non si lascia smembrare in una inautentica molteplicità di cose, che poi si passino in rassegna. A ciò si ribella in modo giustamente appropriato il senso del nostro particolare oggetto. Si deve dire addirittura che una considerazione di storia della religione, la quale inserisse l’oggetto in un quadro generale di storia della religione, andasse alla ricerca di

contesti genetici e di motivi di sviluppo e aspirasse a un’interpretazione complessiva basata su quell’epoca, si avvicinerebbe ancora di più all’oggetto, dato che sarebbe per lo meno storica, sia pure nel senso della storia dell’atteggiamento e della storia obiettiva (e in questo caso la storia della religione è affetta da difficoltà di principio). Il riferimento «storicamente» caratterizzato della considerazione è più evidente. Solo un indizio di ciò che è autentico, giacché in fondo anche la considerazione menzionata – come ogni considerazione motivata primariamente in termini di atteggiamento – è contraria a ogni comprendere fenomenologico. L’introduzione deve esplicare: il senso del riferimento fenomenologico dell’accesso, l’impostazione, le possibilità di impostazione, l’inizio concretamente richiesto e per nulla lasciato al trastullo filosofico – il nesso interno di tutto ciò con il comprendere fenomenologico (conforme all’attuazione). Per il presente tentativo l’indicazione può essere data solo entro certi limiti: anzitutto non bisogna comprendere distanziandosi (wegverstehen) dall’oggetto, ossia interpretarlo in base a un quadro già pronto e proiettarlo al suo interno, e tantomeno all’interno della massa del materiale comparativo raccolto, relativo alla storia contemporanea. Che cos’è mai l’oggetto, secondo la sua determinazione fondamentale? Non bisogna domandare così, in modo teoreticamente costruttivo, bensì limitarsi a cercare di impostare la determinazione per l’analisi. La vita effettiva non rientra in una regione, né è essa stessa una regione, e nemmeno si pone in antitesi a ogni elemento regionale. Ciò che importa è invece lo sforzo di dimostrare l’oggetto in se stesso in un determinato modo, evidenziandolo nella comprensione fenomenologica esplicita. Questo comprendere si colloca al di fuori della distinzione fra il coglimento concettuale razionale e l’irrazionale lasciar stare un diritto indissolubile. Probabilmente si crede in tal modo di avere lasciato intatto l’oggetto, ma è vero il

contrario, poiché il menzionato diritto irrazionale riceve in feudo il senso della sua irrazionalità da un concetto di razionalità anch’esso non chiarito e per di più fondamentalmente sbagliato. Il carattere peculiare del comprendere fenomenologico consiste nel poter comprendere l’incomprensibile stesso, proprio in quanto lo lascia radicalmente stare nella sua incomprensibilità. A sua volta, ciò è comprensibile solo se si è compreso che la filosofia non ha nulla a che fare con la considerazione scientifica di «soggetto e oggetto». (Ancora una questione dell’introduzione). L’accesso è determinato essenzialmente dal fatto che il fenomeno da raggiungere (la religiosità cristiana – la vita cristiana – la religione cristiana) è colto nella sua direzione di senso fondamentale già nell’impostazione dell’esplicazione . Questi contesti di senso in un primo momento – così come sono compresi nell’impostazione – possono essere ancora molto lontani dall’autentico comprendere filosofico; è già tanto se sono fissati senza alcun riguardo e per l’attuazione dell’esplicazione non sono dati di prima mano, bensì assicurati in modo sempre più radicale. (Dove peraltro l’evidenza dell’assicurazione non è determinata nel senso della validità generale e della necessità razionale scientifiche, bensì mediante l’originarietà della cura e la conformità a essa, com’è richiesta in termini assoluti). (Cfr. le considerazioni metodiche su Paolo, II). Ciò vuol dire che bisogna evidenziare i riferimenti di senso dell’appropriazione (anzitutto il risalto specifico dell’esperienza, l’ingresso in riferimenti predominanti, che si danno già anche in termini di contenuto), renderli manifesti ed esplicarli in modo radicalmente originario, nell’assoluto distacco da ciò di cui ci si deve appropriare in quanto tale e dall’attuazione dell’appropriazione [?], e ciò nonostante assumendo anch’essa [?]. Una siffatta incipiente determinazione fondamentale è: la religiosità cristiana si dà nell’esperienza effettiva della vita, anzi è propriamente essa stessa tale esperienza. Noi

cerchiamo di comprendere questo fatto in base alla predicazione apostolica di Paolo. (1. Modo: il «come» della predicazione – inserire la missione apostolica nella vita del mondo degli altri. 2. Accentuazione dei contesti di senso: l’escatologico – «assolutamente teologico»). Considerazioni metodiche su Paolo, II [cfr. parr. 20 e 21] Vita effettiva: in quale direzione fenomenologica fondamentale? Accentuazione delle direzioni di senso; «il sussistente» (das Bestehende) – senso effettivo? La predicazione, εὐαγγέλιoν, in modo conforme al contenuto, al riferimento e all’attuazione. Quando si predica – al singolo, secondo quale tendenza relativa al mondo degli altri (vita effettiva)? Come si predica – apostolicamente, mirando all’appropriazione. Che cosa si predica – non dottrina, sapienza mondana. Chi predica e in che veste? Il che cosa significa: come? In vista di che cosa? Lo storico. (Gesù Cristo, croce, resurrezione). Il predicare nella sua peculiare accentuazione del senso e (richiedente) tendenza dell’attuazione e missione [?]. Il come dell’appropriazione richiesta; rivolgimento della vita effettiva prodotto dalla predicazione, nella misura in cui essa è fatta propria. Che cosa, nell’esperienza effettiva della vita, è mosso, risvegliato, inquietato, spinto nell’esperienza fondamentale relativa al mondo del sé, anche in colui che vi si oppone? Quale nuova articolazione fondamentale della vita è suscitata, dove e come? Essa è fatta in modo tale che esige di per sé, da parte di chiunque si imbatta in essa, il «confronto reciproco» (Aus-einander-setzung)! In base a ciò va compreso anche il senso delle modalità dell’annuncio: scritti neotestamentari – forma di letteratura! – senso delle autoesplicazioni – teologia neotestamentaria! La nostra analisi sottostà a una limitazione: del Nuovo Testamento consideriamo solo le Lettere paoline. I problemi

che riguardano l’intero punto di partenza – se la questione Gesù-Paolo (in verità il documento cronologicamente più antico e nel contempo più diretto) sia posta correttamente, eccetera – non li tocchiamo nemmeno. D’altra parte bisogna prestare un’attenzione assai maggiore alla situazione storica delle lettere, a come cioè la direzione della predicazione vi sia motivata in modo conforme all’attuazione. Non bisogna intenderle semplicemente allo stesso titolo di scritti dottrinali, ma tantomeno bisogna accentuare troppo lo storico (in quanto situazione obiettiva), dimenticando, con la predicazione, l’autentico contesto motivazionale, ovvero trattandolo solo di sfuggita. Esso è l’elemento decisivo. Perciò va affrontata anzitutto una posizione così esposta (exponiert) come quella nella Lettera ai Galati, anche se va detto subito che questa situazione non è tale che in essa l’autentico venga pienamente in luce – anzi, vale proprio il contrario. La predicazione ruota intorno al problema dell’oδoς, ossia si attiene a esso. L’evidenziazione della forma letteraria non tende qui a collocare autonomamente il testo nella letteratura universale e a farlo oggetto di comparazione, bensì mira a risalire all’attuazione della predicazione. Il fatto che siano accolti motivi e forme relativi al mondo-ambiente parla proprio a favore dell’originalità del motivo della predicazione che, in quanto cristiano, agisce nel profondo. (Da acquisire solo in base all’esplicazione dell’origine. Cfr. Norden, Weiß, Bultmann: «Theologische Rundschau»; Wendland.61 «Forma» – «stile» non tipizzando in termini estetici, bensì il «come» dell’esplicazione, cura, appropriazione del comprendere conforme all’attuazione – decisione!). Rimangono ugualmente a lato tutti i problemi dell’interpretazione, in parte perché appesantiscono l’analisi, ma soprattutto perché non decidono, e forse non sono nemmeno posti in modo radicale. Questo perché si trascurano i problemi dell’ermeneutica. (Dilthey visto

rozzamente, ma proprio per lui nessun problema. Spranger, nel volume celebrativo dedicato a Volkelt;62 cfr. l’allegato «lo storico»).63 Qui bisogna badare soprattutto al fatto che l’estrapolazione di «concetti» e «contenuti rappresentativi», per non dire della loro comparazione con quelli contemporanei a Paolo o precedenti (greco-ellenistici, giudaico-israelitici), è in linea di principio fuorviante. In apparenza, infatti, questo sapere è genuinamente scientifico, eppure è gravato da un presupposto di ampia portata, l’idea cioè che nell’esperire cristiano si abbia in genere a che fare con «contenuti rappresentativi» e «concetti». Le «espressioni» vanno sempre intese come «grovigli» di riferimenti, contesti di senso. Non dobbiamo assumere l’atteggiamento in cui incontriamo cose e un mero accostamento di cose (Ding-Nebeneinander) e le ordiniamo secondo uno schema del nostro sano (e piccolo) buon senso. Proprio lo «stato d’animo» (Stimmung) è l’elemento decisivo, e tutto dipende – come deve appunto mostrare l’indagine fenomenologica – dal fatto di comprendere il peculiare complesso fenomenico «esperienza effettiva della vita» (in particolare cristiana). Soltanto allora risulterà elaborata nello stesso tempo l’anticipazione genuina per una considerazione storica obiettiva capace di comprendere in modo conforme alla presa di posizione. Per quanto riguarda la radicalizzazione fenomenologica, non bisogna temere l’obiezione secondo cui in tal modo si «modernizzerebbe». Ogni comprendere è modernizzante poiché, in quanto esplicante, scopre qualcosa di nuovo che si ha «in mente» (das «im Sinn» liegt). Se ci si attiene solo ai «contenuti rappresentativi» – l’immagine del mondo e la sua interpretazione e sistemazione teoretica di allora – la modernizzazione può avere un effetto assai grossolano; ma appunto, l’attenersi ai contenuti rappresentativi, a sua volta, non è affatto un cogliere e non ha alcun diritto di porsi come criterio per una reinterpretazione modernizzante. Considerazioni metodiche su Paolo, III

[cfr. par. 22] Portata della ricerca per la teologia. (Non come elogio della sua importanza, bensì come positiva esigenza di una nuova impostazione del problema, che in effetti muove anche me!). Qui peraltro il concetto di teologia resta del tutto in sospeso. Quello tradizionale indicherebbe l’impossibilità di evitare che la scoperta dei nessi fenomenici trasformi alla radice la problematica e la costruzione concettuale, stabilendo veri e propri criteri per la distruzione della teologia cristiana e della filosofia occidentale. Il precristiano – il rivolgimento cristiano: come sono entrambi definiti in se stessi, come sono paragonabili e a quale determinazione fondamentale possono essere fenomenologicamente ricondotti? In base a essi va definito anche il senso dell’«antitesi» e della «evoluzione» (rivolgimento). La parola «cristiano» non è semplicemente una determinazione del fatto che qualcosa di eterogeneo cresce unitamente e domina qualcosa. (Ciò vale proprio riguardo all’escatologico! Cfr. le annotazioni critiche relative al corso).64 Esplicazione fenomenologica e «psicologizzare» – «spiritualizzare», «razionalizzare». In linea di principio la sostituzione contenutisticamente rozza, conforme all’atteggiamento, di «presunti contenuti psichici» mediante contenuti fisici, va distinta dal risalire fenomenologico ai contesti di senso. 1. Bisogna prestare attenzione al fatto che forse in genere l’antitesi fisico-psichico è erroneamente interpretata in termini proiettivi, in base all’atteggiamento per il quale non ci sono problemi di accesso. 2. L’esplicazione fenomenologica pone un problema, che però non è insolubile e soprattutto non è un problema di ermeneutica interna alla mera scienza, bensì è il problema esistenziale fondamentale – nel contesto della distruzione. Cfr. l’indicazione preliminare nella Introduzione alla fenomenologia della religione: «storia dello spirito», «storia dell’anticipazione».65

3. L’esplicazione fenomenologica non mira isolatamente, esclusivamente e prioritariamente al contenuto, bensì ai riferimenti e alle attuazioni, che sono sì leggibili in base ai contenuti (in ogni forma temporalmente determinata), ma a loro volta non possono essere conservati in un eterno arsenale a priori, giacché ricevono il senso piuttosto dall’appropriazione della loro stessa esistenza effettiva! 4. Soprattutto non bisogna sciorinare i «fenomeni» come singoli pezzi su un piano coscienziale, lasciandoli convivere indifferentemente gli uni accanto agli altri; – atteggiamento decadente! A questo proposito non cambia nulla nemmeno l’idea radicale della costituzione. Al contrario! Predicazione che mira alla comunicazione esistenziale alla comunità: 1 Cor, 1 sgg. Paolo mostra che per i chiamati il Vangelo è forza, e ha l’attuazione fondamentale della fede. In base a esso, in quanto esperienza fondamentale, è determinata l’intera esperienza effettiva della vita, e tutte le significatività che essa reca al proprio interno debbono determinarsi in modo radicale partendo da qui. Se si pone mano ad altri mezzi di tipo extramondano, e se «sapienti» portano confusione al mondo, si ha un decadimento. In linea di principio (solo in concreto): i chiamati devono vivere περισσεὐειν µᾶλλoν, la cura perdurante, l’autentica appropriazione nell’esperienza effettiva della vita, cioè la temporalità, come essa è e che cosa è in base all’attuazione cristiana fondamentale. Ciò significa che la «prova» e la dimostrazione di quanto è predicato non consistono nell’«avere preso visione», giacché la predicazione è piuttosto «apodissi» (ἀπόδειξις) dello «spirito» e della «forza» (1 Cor, 2, 4). La fede non deve affatto consistere nella sapienza umana: cfr. 1 Cor, 2, 5. Comunicazione dell’esistenza. In tal modo l’apostolo è solo uno strumento di tale dimostrazione. Le anticipazioni ermeneutiche [cfr. par. 22]

Origine del riferimento ermeneutico. Qual è in genere la direzione di senso arcontica nell’ermeneutico? A quale «contesto (originario) motivazionale» (Motiv [Ursprungs]zusammenhang) essa rinvia? Fenomenologia della predicazione paolina, I (1 Ts) [cfr. parr. 23-26] Nell’analisi della Lettera ai Galati (cfr. le considerazioni metodiche su Paolo, II), nella prima presa di conoscenza iniziale del «contenuto» della [...]66 apostolica, Paolo [si trova] in una situazione (situazione obiettivamente storica), e precisamente nel pieno svolgimento della sua attività apostolica: lotta, disputa teologica. Ritornare alla vita effettiva e cogliere passo per passo in modo più preciso la situazione (effettiva). La Prima Lettera ai Tessalonicesi è un «frammento» della predicazione apostolica stessa. Un frammento che indica gli inizi [?], e in base al quale va evidenziata la situazione di fondo. Contesto fenomenico da cui non bisogna più uscire e che va radicalizzato. «Forma» della predicazione – contenuto della predicazione – «come» della predicazione. Quest’ultimo aspetto è decisivo, e precisamente: in quale situazione effettiva si attui, come nasca da essa; come si attui in essa, in quale situazione irrompa, come dell’irruzione. Non va separato dalla «forma letteraria»! Come problema particolare! Espressione come comunicazione! Dove peraltro l’esplicazione della predicazione non mira a fornire un contributo secondario per un’immagine della personalità come tipo; – criterio fondamentalmente sbagliato, inadeguato all’essere di Paolo e alla sua vita. Il «come» della predicazione: contesto dell’attuazione nella sua vita; come la predicazione stia in lui e lo tenga costantemente occupato (l’«urgenza»), 2, 2. La predicazione come lotta nel quadro di una grande e vasta impresa. «L’ammonimento» non può esserne separato: non si tratta di un’appendice pratica, usuale, bensì corrisponde al senso fondamentale dell’esistenza cristiana caratterizzata da una cura (µᾶλλoν) costante e radicale. Ts στηρίξαι 3, 2. Affinché

non si sforzino inutilmente, tutto in vista della παρoυσία. Come vede Paolo i Tessalonicesi? I defunti! Non a caso! 3, 10 καταρτίσαι, 3, 12; 3, 13. Coloro che tuttavia, nella notte, incalzano verso la fatticità del tempo della fine. 2, 19: angoscia del non poter celebrare, del non avere compiuto la vocazione. Ciò è implicito essenzialmente nell’ammonimento! L’insicurezza (3, 2: vacillare nell’afflizione) può diventare grande, ad esempio i «defunti»: che cosa ne sarà di noi? νεκρoὶ εν Xριστῷ, non θάνατoς! «Seria», la loro «continuità» («intensità» [?] ad esempio assenza di Cristo [?]), costitutiva per ciò che è decisivo nel cristiano! Fenomeni: dove e come il loro contesto e la loro situazione! Accade così nel ricordo dell’«inizio», che va mantenuto presente. Si tratta soltanto del suo dispiegamento! Vita effettiva: riferimenti relativi al mondo-ambiente, al mondo degli altri e al mondo del sé, determinati dall’attuazione della fatticità del tempo della fine. In essa c’è per Paolo soltanto predicazione, dalla sua riuscita o dal suo fallimento dipende tutto; l’elemento decisivo non è mai καύχησις, dunque anche riguardo a lui in quanto apostolo! εἴσoδoς ὁπoία, 1, 9; 2, 1, non era κενoς; sappiamo che voi siete eletti, voi siete in attesa, ne va di voi, di ogni singolo. La predicazione deve avere continuità, perché ciò che è annunciato non va «assimilato» in termini mondani, bensì entra, giunge da sé, è solo [?] inizio [?]; sempre più στηρίξαι, divorare; ri-costruire (zurückbauen) sul fondamento, non edificare e giungere al termine della costruzione e decadere. Perciò l’apostolo dice: ἀδιαλείπτως µνηµoνεύoντες, µηκέτι στεγων, 3, 1; 3, 5: egli nei loro confronti è sempre nel «come» dell’apostolo! εἰδoτες την εκλoγην! Sapere dell’inquietudine («la certezza dell’eternità» – non inerte), che non si ferma e non lascia riposare, bensì opera nel senso opposto (2, 18 sgg.; 3, 5 decisivo). Ora più che mai l’ultima cura, e ringraziamo Dio per questo! Paolo pensa alla sua responsabilità apostolica dinanzi a Dio e solo a essa. 1, 5 εγενηθη. Responsabilità: essa riguarda la predicazione, e

quest’ultima riguarda il riferimento effettivo della vita di Paolo ai cristiani. In questo divenire il mondo degli altri è giunto nella situazione. Il fatto che il Vangelo stia nella loro vita non può più essere messo in discussione! 3, 3. Il loro rapporto con Paolo – fede! µίµηται ήµῶν! µνείαν, memoria decisiva del come dell’essere divenuti cristiani grazie a lui. 2, 9; 3, 6! (Problema, se i contesti [?], a dispetto dello schema, non abbiano un nuovo senso fondamentale). Fenomenologia della predicazione paolina, II (1 Ts) [cfr. parr. 23-26] La lettera è una «meditazione» esistenziale, preoccupata, della situazione! Nata da essa, dunque «niente di particolare». Costruzione ed esposizione ancora insicure. Ogni lettera isolata nella struttura della situazione che la concerne? E poi non generalizzazione! Bensì contesto originario dell’attuazione, in modo che si esprima l’autenticamente storico! Dove mi fermo e dove proseguo, e voi con me, voi che siete chiamati! (Discrimen essenziale nell’esperienza effettiva della vita, in particolare dal punto di vista fenomenologico?). Questa struttura della situazione non è casuale, bensì appartiene al senso fondamentale dell’esperienza effettiva della vita dei cristiani. Come e in che senso? Cfr. 2, 18; 3, 5; qui l’elemento decisivo della sua esistenza: ἐλπίς! Voi siete nel contempo la mia speranza nella parusia. Voi, così come ora siete divenuti e siete in divenire, lo siete in virtù della mia predicazione apostolica, della mia attuazione della cura per voi. Ciò significa che siete voi il mio autentico essere (3, 7)! Infatti, se voi non foste così, questo sarebbe mancato a me, alla mia cura e alla mia opera. (Che io sia apostolo è sicuro, così come lo è che Dio agisce in me). Se si fallisce, la colpa è mia (fallimento a Filippi; infuso nuovo coraggio, 2, 1); quindi non lo posso sopportare, sono inquieto per voi, poiché non so dove «stiate» (e dove sia io) – in θλίψεσιν –, così come so che il Tentatore è al lavoro! E lo è

tanto più, quanto più vicina è la decisione. Ecco il perché della mia lotta (2, 2). A maggior ragione vi devo vedere, ossia avere fisicamente dinanzi a me (3, 10: ἰδεῖν καὶ καταρτίσαι). Sempre di nuovo l’ultimo: parusia! Sta minacciosa nel suo posto. Come va inteso in termini fenomenologici questo stare? Oppure articolazione dell’attuazione! E questo risalendo fenomenologicamente alla cura esistenziale fondamentale! Vita ↔ morte. Non diventare ἀθετῶν τoν θεoν, non escludere Dio, cioè l’ἁγισµός – una vocazione! Fenomenologia della predicazione paolina, III (1 Ts) [cfr. parr. 23-26] Opposizione degli Ebrei: indicazione del fatto che qualcosa di «nuovo», di diverso, sta capitando loro, qualcosa contro cui si ribellano. Avviene qualcosa nell’esperienza effettiva della vita degli Ebrei, e in particolare degli abitanti di Tessalonica. Infatti, πρoς εκληρωθησιν, «da – a» (von – zu), vale a dire in loro stessi qualcosa si dev’essere rovesciato, convertito; ἐπείσθησαν, nuovamente convinti. Così si presenta anche per Paolo il mondo degli altri a Tessalonica. In verità si tratta solo di un momento; non sono ancora (escatologicamente) determinati né il mondo degli altri né il riferimento fondamentale di Paolo a esso. Che cos’è l’attuazione apostolica della missione nella sua direzione fondamentale, nel suo motivo e nella sua tendenza? (Struttura dell’esplicazione, in seguito). In che termini si pone, in questa comunità di Tessalonica, a) il «riferimento al mondo degli altri» (Mitweltbezug) di Paolo nei suoi confronti? Mondo degli altri: 1. Come sono i Tessalonicesi stessi, «in quanto che cosa» (als was) sono determinati, come sono esperiti, qual è il loro «esserci» per Paolo. 2. Com’è attuato il riferimento in Paolo. Ciò significa nel contempo: «da lui condotti a», ossia «da lui è stimolata la conversione». b) Mondo del sé. c) Mondo-ambiente. In questa situazione relativa al mondo degli altri, e sotto [?] di essa, a essa inerente, per essa stessa c’è un determinato, decisivo prima (vorher [?]), un divenire

(T[erminus]) nel caso di tutti i fenomeni di un siffatto senso religioso fondamentale? Ad a) Mondo degli altri (Tessalonicesi): coloro a cui egli scrive. È questo il carattere autonomo, determinante in senso fondamentale? No, bensì soltanto a causa di... Ne sono particolarmente onorati? Sì e no. No, poiché sono ἀδιαλείπτως nel loro «essere». Sì, però questo c’entra primariamente per lui in quanto apostolo, e per loro in quanto l’urgenza della loro crescita si impone costantemente, cioè finché urge in senso escatologico. Articolazione del mondo degli altri, in virtù della vocazione, della fede. Senso fondamentale escatologico, fenomenale, di ciò che è esperito in relazione al mondo degli altri. Prima pagani, nessun membro in un contesto di significatività o addirittura in tensione praticamente «terrena» verso qualcosa! Per coloro che ricevono il Vangelo direttamente da lui e, nell’accoglierlo, si dimostrano chiamati – per coloro quindi che si sono fatti incontro a lui nella sua più propria esperienza effettiva della vita – «per costoro egli è venuto». (Proprio il fornire motivazioni a questi uomini è lo scopo dello scrivere loro lettere. Possibile motivo fondamentale, occasione, istituzione – cfr. il ritorno di Timoteo) . εγενηθη τo εὐαγγέλιoν εἰς ὑµᾶς. Come esso giunse – fece la sua irruzione – in modo così decisivo che anche in questo caso, viceversa [?], lo stesso Paolo non viene dalla «memoria», dunque li sceglie «stanti in una storia» (il cui intero senso è dato così contemporaneamente in loro in modo conforme all’attuazione; escatologicamente). Contrastare: in ciò eccezionale incontro con altri, entrando nella vita effettiva. Può essere l’occasione per la nascita di nuove attuazioni, mai però come in questo caso, in cui l’esistenza si fonda su questo incontro. Fenomenologia della predicazione paolina, IV [cfr. parr. 23-26] εἰς ὑµᾶς τo εὐαγγέλιoν εγενηθη, dunque κληθεντες, e così, in quanto coloro che sono angustiati dalle tribolazioni,

sappiano costantemente, 3, 2: data con la posizione storica fondamentale: παρoυσία! Da ciò si capisce che egli scrive loro. Solo in questo: sempre più περισσεὐειν µᾶλλoν; l’elemento decisivo è la cura crescente. Loro in quanto «ogni singolo», 2, 11; 5, 11, 14, 15; ovunque come παρακαλεῖν ἀλλήλoυς. Vita effettiva giunta da una genesi e diventata storica (attuata) in un senso del tutto particolare. Un carattere fondamentale siffatto da non permettere in nessun caso un riferimento solo rappresentativo o in genere un riferimento primariamente libero da cura (bekümmerungsfrei). Ciò però significa: il giungere e l’incontrare non sono nulla di secondario. In che senso non lo sono? Fenomeno della predicazione – centro motivazionale dell’attuazione. La loro «genesi» è simultanea alla sua e sta in essa; egli appartiene dunque a loro, partecipando al loro destino in un senso del tutto determinato. Ne deriva ora l’anelito di poterli «vedere» καὶ: 3, 10 καταρτίσαι; poiché egli è vincolato in quanto apostolo, dato che gli sono affidati, e lo sono in questo tempo. εἴσoδoς (Aristotele) di Paolo 1 Ts, 1, 9; 2, 1-12. 3, 17 sgg. Esiliato da loro: in verità, lontananza fisica, ma non del cuore. La sua ἐλπίς – l’ultimo con καὶ ὑµεῖς (2, 19) della sua esistenza. χαρᾷ εµπρoσθεν τoῦ θεoῦ, 3, 9. Sulla motivazione dello scrivere lettere. Anche nella lotta contro la vita, cioè ha un significato decisivo nella sua vita, non è un capriccio casuale, un divertimento [?], un piacere, una gentilezza, né comporta una partecipazione personale. Necessarietà della sua esistenza apostolica 2, 18. 3, 5: πειράζων: κενoν, µηκέτι στεγων. Assillo del tempo! 3, 8: ςωµεν, se vi trovate in questa necessità e in questo tormento? (Non terreni!). 3, 11: possa Dio aprire la strada. 5, 27: vi scongiuro di leggere la lettera a tutti i fratelli. Come esperisce Paolo il mondo-ambiente? Si parla di ciò? Caratteristico il «non»! Escatologia; qui erroneamente «localizzata».

Come gli è dato il mondo del suo sé? Fenomenologia della predicazione paolina, V [cfr. parr. 23-26] Direzioni dell’esplicazione: il mondo degli altri come accogliente. Il mondo degli altri come «accogliente», in cui il Vangelo fa colpo (einschlägt). Come deve accogliere, recepire, «re-agire» (re-agieren)? Mondo degli altri: ogni singolo. A questo scopo, come può essere acquisita la struttura in base all’attuazione della predicazione? Come può essere acquisita la struttura in base all’opposizione e al suo «come»? (Cfr. allegato predicazione).67 Predica della croce – il suo come. 2, 18 mostra che dev’esserci una situazione fondamentale (il mondo degli altri) fatta in modo da decidersi in relazione alla croce. Paolo in lotta contro la divisione in fazioni, ossia il trincerarsi dietro le opinioni dei singoli, il millantare. («Ringrazio», 1 Cor, 1, 14, di non avere più battezzato, sicché non me ne posso vantare). Non è il battesimo, infatti, l’elemento decisivo, bensì la predicazione, e precisamente il suo come: non nella forma del discorso sapienziale – affinché la croce non sia svuotata dal molto chiacchierare –, ma solamente tramite il suo parlare semplice e opportuno. Questo è l’unico modo, e qui non c’è assolutamente alcuna possibilità di chiacchierare, purché si sia colto il «come». La croce e, in termini corrispondenti, la predica della croce, 1 Cor, 1, 17-18. Questa predica è concepita esattamente in modo tale che in relazione a essa si decidano l’assolutezza e la non affettazione: essa rappresenta un aut-aut e non lascia spazio a superficialità e opinioni – discorsi magniloquenti che occultano l’autentico. Lo scandalo non dev’essere neutralizzato e attenuato da un atteggiamento ricettivo che, mediante il discorrere e la sapienza, distoglie lo sguardo da esso, quindi non si mantiene radicalmente aperto. La situazione della cura esistenziale tenuta radicalmente pronta in sé. Accogliere la situazione disponente della predica della croce. Situazione

dell’apostolo relativa al mondo del sé. (Escatologia – e come Paolo vi stia). Dato l’orientamento decadente della vita e della collocazione entro tendenze relative al mondo degli altri (sapienza dei Greci), per predicare con la richiesta semplicità è necessario un radicale attenersi a se stessi, guardando la croce sempre solo in questa prospettiva. Ciò avviene in modo tale che, così facendo, ci si pone in disparte nel mondo degli altri, e in verità bisognerebbe nascondere il proprio agire, vergognandosi di sé. Ma cfr. Paolo, Rm, 1, 16: oὐ γὰρ ἐπαισχύνoµαι τo εὐαγγέλιoν. Questo significa che al fondo sta una fede assoluta, e ciò che precede è adatto a seguire il modo in cui la fede (cura assoluta) determina la situazione da accentuare in quanto senso arcontico. Nessuna coesistenza di conseguenze, bensì un contesto motivazionale della vita effettiva. Il «come» dei Tessalonicesi. Essere-divenuti, loro concreto contesto di vita. Per Paolo ἐλπίς – χαρά – δόξα; egli li esperisce così, anch’essi animati dalla speranza, «vivendo nell’attesa» (entgegen lebend). Secondo la sua natura, qualcuno essenzialmente altro. Da questa angustia deriva la cura assoluta. (Inizio – 3, 10, preghiera!). Che cos’è, da tale prospettiva, questo scrivere lettere in una simile situazione – determinazione del che cosa dello scritto in base al «come» dell’esistenza e, soprattutto, da tale punto di vista, il «come» di questo «che cosa»! 4, 13: oὐ θελoµεν ὑµᾶς ἀγνoεῖν, voi dovete sapere. Collegare con l’oἴδατε e la sua pienezza fondamentale; collocare nel loro mondo effettivo, ovvero nella sua autoesplicazione. Paolo li incontra nella loro autentica fatticità, cui appartiene senz’altro il «sapere». 5, 11: lo stesso θελoµεν nasce dalla sua più propria esperienza del mondo del sé (assillo). I Tessalonicesi sono «gente che sta per sapere» (Wissende in Werden), e precisamente in modo tale che egli (in quanto apostolo) deve volere che anche loro sappiano. L’esperienza effettiva della vita ha la sua

autoesplicazione, per essa genuina, co-determinata dalle esperienze fondamentali. Nella misura in cui Paolo si rapporta ai Tessalonicesi anch’egli animato da una cura assoluta, vedendoli nel loro autentico «come», nel «rapporto» con loro egli si muoverà evidentemente nell’autoesplicazione; non solo, ma per lui, nell’assillo, non c’è nessun’altra possibilità. Ciò che viene detto fra di loro, in quanto autoesplicazione dell’esperienza effettiva della vita – nella sua stessa fatticità – insegna qualcosa in merito a quest’ultima non nella forbitezza e nel distacco della teoria, ma perché reca con sé le torsioni e le fratture della vita effettiva nella sua afflizione, e per nient’altro. («Salto originario» [Ur-sprung] della teologia). E che cosa sono i Tessalonicesi: υἱoὶ φωτός – ἡµέρας; postulato per l’esplicazione del sapere autentico della fatticità. (Contesti «dogmatici»!; τo πνεῦµα µὴ σβέννυτε, 5, 19; cfr. Deißner!).68 Sono da intendersi così anche le altre lettere. Perciò si è considerata preliminarmente la Lettera ai Galati nel suo complesso, per non indugiare nei paragoni, e affinché nel corso dell’analisi apparisse evidente come essa non avesse affatto fornito i mezzi per la comprensione, e come nell’esplicazione, per quanto ampia, fosse mancato l’elemento decisivo. Il «contenuto della lettera in senso stretto» – ciò su cui egli scrive – e il «come» di questo scrivere – in quanto è compreso rettamente fin da principio e non è distorto dall’esterno [?] – sono adatti a esplicare in senso proprio anche il contesto della vita relativo al mondo degli altri nella sua articolazione e, dunque, la vita effettiva sia dei Tessalonicesi sia, soprattutto, di Paolo. Il «come» della predicazione esplicato in modo che da sé, sotto la coazione dei fenomeni, vale a dire della mobilità conforme all’attuazione, si... Nello stesso tempo, l’elemento escatologico anch’esso pre-compreso in modo più originario. Escatologia e fatticità in quanto esperite nella vita effettiva. I fatti relativi alla storia della salvezza.

Il «denigrare» [?] esprime l’assillo, così come il fatto che egli veda i Tessalonicesi in cammino; l’essere-divenuti, l’essere un nuovo divenire; i Tessalonicesi divenuti un (assoluto) divenire (l’ὑστερήµα ha, lo στηρίξαι deve). Paolo esperisce in se stesso l’assoluta necessità, muovendosi in base a [?] essa (2 Cor), e soltanto così comprende in modo autentico. Ciò significa al tempo stesso che egli non resiste, ovvero: deve parlare loro – e in ciò ritrova veramente se stesso. 3, 7 sgg.: la necessità, in cui egli gioisce e che lo rende sempre più instancabile. Quanto più in alto essi stanno, tanto maggiore è il pericolo. [...].69 Comprendere nel senso della storia dell’attuazione [cfr. par. 24] Il contesto storico obiettivo dell’accadere va compreso nel senso della storia dell’attuazione. L’impostazione di questa svolta deve essere tale: che il contesto dell’accadere sia esperito in qualche punto in modo conforme alla situazione. «Situazione» non significa un concetto storico obiettivo, ma è un termine (alla lettera!) fenomenologico, benché sia spesso utilizzato in senso storico-obiettivo. Confini del contesto dell’evento – confini della situazione: non coincidono (= problema). La domanda successiva: come dal contesto della situazione sia originariamente esperito ciò che ha carattere di evento (das Ereignishafte). Domanda sul «come» della predicazione: il domandare che apre-rompendo (das auf-brechende Fragen)! Un domandare che è sempre presente in qualche modo – un domandare che prende sempre esplicitamente conoscenza! Molteplicità della situazione. (Indicazioni di principio sulle «strutture» della situazione). (Sg.) e (sg.). L’«io» che vive la situazione e le appartiene (sg.). Il mondo del sé (l’io) vive «allontanandosi da» (von weg) e «dirigendosi verso» (auf hin) – non più formale, però importante. «Io» postulato come «costituente unità» (einheitbildend) e formalmenteindicante (formal-anzeigend). Con ciò non è detto che esso colga già la situazione in senso proprio. Indicazione formale dello schema della molteplicità e dell’unità della situazione.

«Io» in relazione con l’egoico e il non egoico (mondo del sé, mondo degli altri, mondo-ambiente). Indicazione formale della molteplicità della situazione, un contesto di relazione (Beziehungszusammenhang); niente di stabilito anche circa l’unità e la molteplicità. L’«io» «è» e, come tale, «ha»; già una determinazione più precisa del contesto di relazione, non formale, bensì indicazione formale. L’«è» della predicazione teoretica e l’«è» dell’ipseità (Selbstheit) [?] (esistenza) [?] radicale in modo conforme all’attuazione sono incomparabilmente separati, ed è per questo che qui li si utilizza in senso formalmente-indicante. È un errore fondamentale ritenere che, mediante la concrezione [?], la specificazione e il compimento materiale dell’«è» predicativo si possa acquisire quello esistenzialmente conforme all’attuazione. Al contrario: l’«è» teoreticamente predicativo è solo un derivato (Abfall) dell’atteggiamento puro! Esporre ciò che è avuto. Dato che questa «molteplicità e unità del riferimento» della situazione non è quella che dipende dall’ordinamento, e che quindi nessuna determinazione può essere data in modo tale che elementi di molteplicità possano essere considerati isolatamente per sé e giacciano come qualcosa di molteplice in una regione, con il postulato dell’esplicazione è già... Proprio da quella prospettiva, dunque, va compresa la struttura della situazione, per cui non c’è alcun a priori regionale, bensì una originarietà storica e una decisione storica pro o contro – non in senso teoretico, ma in senso conforme all’attuazione, poiché si attua di volta in volta soltanto così. Com’è, ad esempio, l’escatologico? Non è inclusivo, non è comune, bensì è dominante-attraverso (durch herrschend) in modo conforme all’attuazione. Dominante che cosa – e come – e sul fondamento di che cosa? Attraverso che cosa – attraverso e verso dove (was durch – wohin durch)? Poiché anche il comprendere conforme all’attuazione è minacciato dal decadimento – qualora si irrigidisca in atteggiamento o si mescoli con elementi di atteggiamento –,

talvolta l’elemento autentico della situazione è difficile da cogliere. Soprattutto ciò che è dato; esso ha ancora qualcosa dell’essere-avuto (das Gehabtsein) in modo conforme all’atteggiamento e può essere direttamente così. Il che cosa per i Tessalonicesi in apparenza nuovamente caratterizzato in termini di atteggiamento, nella situazione, nell’avere, eppure non ancora in modo autentico. Ciò che essi «sono» (mondo-ambiente) e «hanno» (mondo-ambiente) in quanto «egoico». Non bisogna separare ciò che essi sono – cioè, per Paolo, nella situazione che noi gli [...]70 – e ciò che essi, in quanto essenti siffatti, hanno, giacché l’una cosa determina l’altra, anzi è la stessa cosa, ossia determinazione esistenziale fondamentale indicata! Escatologia, I (1 Ts) [cfr. par. 26] Ts, 4, 13-5, 11 prende in esame: 1) il destino (vita effettiva, essere) dei defunti in relazione ([...]71) alla παρoυσία; 2) il «quando» della παρoυσία. Dunque: detto in relazione a qualcosa che sta in un rapporto essenziale con loro, con la loro vita effettiva, la loro vita attuale in quanto cristiani, anzitutto nel loro mondo degli altri, da cui alcuni sono stati strappati via? Ma perché per gli altri, e non per se stessi? Perché loro stessi possono morire – e che cosa accade poi? Tutto dipende dal senso della παρoυσία. Che cosa significa quest’ultima: che i Tessalonicesi entrano in lutto e non hanno alcuna speranza, ossia, di fatto, decadono? È qualcosa in relazione a cui si decide la loro vita effettiva; la loro speranza, l’avere-speranza e il «come» di questo avere. Dunque gli autentici «come» del loro essere (cfr. lo schema).72 Paolo interviene nel loro «sapere», che riguarda la παρoυσία, ciò in cui essi sperano, il loro sperare – una determinazione essenziale del «come» della loro vita effettiva. Sì, egli interviene in modo così originario e genuino [?] nel loro sapere da arricchirlo proprio riguardo ai come (ossia al senso della loro attuazione). Nella misura in cui il «come»

è decisivo – il che emergerà in modo molto più chiaro nel corso dell’esplicazione. Ciò che in precedenza è stato indicato in termini formali lo trasponiamo qui, senza seguire l’ordine del contenuto della lettera, che d’altronde già di per sé, così come si presenta in termini storici obiettivi, è un ordine esteriore, benché non lo sia isolatamente ed esclusivamente. παρoυσία – «evento», «come», «chi»? Il riferimento nei loro confronti – un evento a venire. Com’è presente, quale obiettività ha nel conoscere? Questo stesso una fede!! Il «come» del riferimento trova la sua motivazione essenzialmente nell’attuazione (vita effettiva)! 4, 13 sgg. Bisogna impedire un’afflizione. Quest’ultima è giustificata dal punto di vista cristiano? Come impedisce Paolo questo «scopo pratico»? Non si ha quindi la raffigurazione altrimenti consueta nell’apocalittica – ciò si vieta per Paolo, cfr. 5 sgg. «Nessuna curiosità», «nessun impulso comunicativo»! Paolo non dice nulla sul destino dei defunti (ora) – che cosa ne è stato di loro, dove si trovano –, ma anche in questo caso dice solo l’unica cosa decisiva: essi non «ci rimetteranno». Qui tutto si concentra solo sulla semplice linea: per così dire nel suo assillo e nella sua esistenza autenticamente cristiana egli non presta minimamente orecchio alle elucubrazioni di uno speculare disperato e decadente. Difficoltà: se la morte (secondo 2 Cor, 5, 8 e Fil, 1, 21) rappresenta il passaggio diretto alla comunità con Cristo, perché il motivo della consolazione è cercato solo nella parusia futura? La morte non è forse già un equivalente? Stählin, p. 183.73 5, 1-11. Su tempo e attimo (l’uso linguistico biblico non è casuale; l’esplicita caratterizzazione del «quando», non un «quando» obiettivamente indifferente; καιρός decisivo). E come determina Paolo questo «quando»? Non mediante un’indicazione temporale obiettiva, bensì tramite il come, e

precisamente il come in quanto correlato direttamente al riferimento al come, giacché il riferimento (ovvero l’attuazione) è l’elemento decisivo del quando! Non avete necessariamente, sapete che il quando [è] nella vostra vita effettiva, e proprio in quest’ultima [c’è] il suddetto come dell’attuazione di essa. Questo riferimento (ovvero questa attuazione) si fonda su una elezione! Poiché siete chiamati, il senso fondamentale del vostro essere è. Assumete [?] περιπoίησις σωτηρίας (vale a dire ἀναµένειν, indossare, l’armamento! Lotta). Per coloro che non hanno speranza, quindi sono afflitti, però possiedono gioia apparente e sicurezza, giunge come «improvviso» e inevitabile; inatteso; non preparati a esso; non gli è consegnato nessun mezzo per il superamento e la presa di posizione. Riferimento relativo decadente, del tutto assorbito da (εἰρήνη, ἀσφάλεια), soddisfatto [?]. Attuazione relativa rimossa, assolutamente non vista. Non possono sfuggire; vogliono salvarsi e non possono più farlo. Assolutamente da prendere! Sono nelle tenebre, nascosti a loro stessi (attuazione). Non «vedono» in quella direzione, fuggono via da se stessi. Confronto: ὅταν λέγωσιν 5, 3 – ὑµεῖς δέ 5, 4; in questa maniera egli caratterizza due modi del riferimento al riguardo. Per i saggi il giorno non giunge (come il ladro di notte) – non con una subitaneità da cui non si può sfuggire, 5, 5. ἡµέρα il giorno, e nel giorno per il cristiano! ἡµέρας oντες νηφωµεν, sobrio nei confronti dell’esagerazione, un decadere a rovescio! (Coloro che si ubriacano sono ebbri). Non un assurdo entusiasmo (bensì ἐλπίδα σωτηρίας), che va nella stessa direzione del dormire: essere giudiziosi!! Escatologia, II (1 Ts) [cfr. par. 26] La speranza che hanno i cristiani non è semplicemente fede nell’immortalità, bensì fiduciosa resistenza fondata sulla vita cristiana effettiva. La speranza non è esperita come un millantare senza curarsi di se stessi, ma proprio

ἐλπίδα nel superamento, ὑπoµoνή della θλῖψις! «Avere speranza» e mero attendere conforme all’atteggiamento sono essenzialmente differenti. Avere l’«attendere» come speranza: fiducioso, amoroso, umile attendere nell’afflizione e nella gioia. Cfr. 4, 5, in part. Ef, 2, 12: ἐλπίδα µη εχoντες καὶ ἄθεoι εν τῷ κoσµω. In che senso i Tessalonicesi (quali?) subiscono una «perdita», sicché sono afflitti, non hanno speranza, ossia fuoriescono dal senso particolare dell’attuazione? Soprattutto, essi non devono curarsi di elucubrazioni, cioè non devono avviare alcuna speculazione problematica, vale a dire attendere in modo meramente conforme all’atteggiamento, εἰ γὰρ πιστεύoµεν. Credere! πιστεύειν non è un mero tenere per vero un fatto in modo conforme all’atteggiamento! Ancora più vuoto e inadeguato (ovvero unilaterale) dell’esclusivo porre l’accento sulla fiducia, tipico del protestantesimo. Entrambi estrapolano un momento del riferimento, però non vedono né ciò che è autentico né ciò che è conforme all’attuazione. Ora, le espressioni di cui Paolo si serve nel suo insegnamento indicano inconfondibilmente il suo timore di un rifiuto solo parziale e temporaneo. A esso egli non contrappone l’assicurazione che una resurrezione attende anche i defunti, bensì quella che Dio, attraverso Gesù (con il sopravvento della beatitudine messianica del Regno), porterà con Lui ἄξει σὺν αὐτῷ (4, 14) (ut ei aggregentur et eius gloriae fiant participes – Turrettini).74 Contemporaneità, ovvero priorità dei viventi, ovvero dell’accoglimento della salvezza, dunque di nuovo un quando, non tanto un «quando» obiettivo in generale. La cura (Sorge) mirava solo al vantaggio dei viventi, ovvero allo svantaggio dei morti. Se abbiamo fede (fatto centrale!), allora in questa fede è dato un rapportarsi alla questione (resurrezione) che non è frutto di speculazione, e soprattutto non è messo in dubbio. In quanto credenti, i defunti non sono perduti; essi saranno lì presenti, ed è questo il fatto decisivo. Se abbiamo fede,

abbiamo la speranza genuina, cioè il riferimento genuino a ciò che nella questione è inteso! (Fede nel (Cristo) morto e risorto significa in sé, in termini di contenuto: il come della datità di fatto! Relativo alla storia della salvezza!). (L’attesa escatologica «modificata»: 2 Cor, 5, 9, 10; 1 Cor, 6, 14; 2 Cor, 4, 14; Fil, 1, 21-22; 2, 17; 3, 10-11. All’opposto: 1 Cor 15, 51; 7, 29-31; 1, 7, 8; 16, 22; Rm, 13, 11; Col, 3, 4; Fil, 4, 5). Bisogna guardarsi dal reinterpretare l’attesa di Paolo, concernente lui e la sua generazione, inserendola in un contesto storico obiettivo. Primario è il contesto dell’attuazione; è questo il «quando» decisivo: il fatto che egli se lo aspetti. Ma questa non è forse una parafrasi moderna? Paolo ha creduto (si veda sopra), però non ha creduto in modo «falso»; qui non c’è vero e falso. La questione della «evoluzione» della sua visione va trattata in termini corrispondenti. Il come della venuta del Signore stesso determina il «come» dell’ingresso dei vivi e dei morti, εν κελεύσματι – ϕωνῇ – σάλπιγγι. «Il giorno» da ciò caratterizzato, il contrassegno di questo giorno. Il resuscitare e il condurre in cielo coincidono con la παρουσία. κέλευσμα, grida di comando ai rematori, il grido del condottiero; durante la battuta di caccia, i cani che inseguono la selvaggina! Dio grida ai morti di alzarsi (κέλευσμα non è un grido di battaglia contro i nemici!) . Simboli escatologici: tromba (doppio significato: 1) manifestazione di potenza che tutto scuote; 2) segnale per l’adunata del popolo di Dio!). Il tempo futuro e i giorni del Messia coincidono? αἰὼν µελλων: (o) autentica eternità, oppure il tempo del Messia è solo migliore rispetto all’attuale, ma è ancora terreno, non è autenticamente tempo della fine, pur essendo comunque futuro! Nel tardo ebraismo: il tempo del Messia è ancora terreno, però compimento terreno della «teocrazia» veterotestamentaria.

Escatologia, III (2 Ts) [cfr. parr. 27 e 28] Risonanza della modalità della «determinazione del “come” del “quando”» (Wiebestimmung des Wann), ovvero del destino nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. 1. Insicurezza accresciuta, spinta in modo ancora più radicale nell’attuazione, cioè (possibilità) della disperazione riguardo alla capacità di resistere – questa afflizione e in che modalità; cristianamente sempre preoccupata, eppure non autentica; ancora un guardare di traverso all’afflizione, in modo conforme all’atteggiamento. 2. Nell’accentuazione dell’attuazione, simultanea accentuazione della non importanza della vita mondana; dunque soltanto da questo lato mondanamente non preoccupati, però in senso mondano; ozio [?], e mondanamente preoccupati per la parusia. Affaccendarsi del parlare e dello speculare. Partendo dall’incomprensione, vedere in che modo i Tessalonicesi avrebbero dovuto comprendere e come ora Paolo, nella seconda lettera, viene loro in aiuto. Cap. I: il tenersi pronti; cap. II: di nuovo due modi di comportarsi. Qual è il significato della «pleroforia» esplicita nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi? A che cosa mira? All’accentuazione dell’attuazione esistenziale nella lettera, che è ciò che importa! εὐδοκία – schiusura, tendenza dell’attuazione a compiere il bene; 2 Ts, 1, 11: εργoν πίστεως; 2, 12: εὐδοκήσαντες τῇ ἀδικίᾳ (peccato!), cfr. 3, 5. µη ταχέως σαλευθῆναι 2, 2: ἀπó – essere scossi, confusi, insicuri, perdere il chiaro (sapere) (l’orientamento fondamentale del nostro sapere), ed essere quindi spaventati; da nulla che si possa mai imporre e avvicinare con il discorso: «giunto è il giorno»; questa sarebbe una determinazione «obiettiva». θρoεῖσθαι (ibid.), nella falsa paura, da non confondere con il timore e tremore religioso! Questo non può essere dato.

La nuova domanda circa il «quando» della parusia (2 Ts, 2, 1-12). Già in base a 1 Ts, 5, 1 sgg. comprendiamo come vada concepito il «quando», che cosa sia decisivo in esso. Paolo non intende misurare il «quando», fissare il «presto» o il «tardi» (fissare, cioè frenare, se non addirittura riprendere qualcosa di più antico); al contrario: non dovete, animati da falsa cura per il «quando», dipendere da persone che vi ingannano, quanto piuttosto comprendere tutto nella prospettiva della storia della salvezza, come, in base alla fede, ho pure esplicato nel comportamento fondamentale nei confronti di Dio, ovvero dell’antagonista (peccato). Nessuno – e soprattutto non gli speculatori né i chiacchieroni – può dire «il giorno è arrivato». L’«ora» è concepito nel momento del suo sopraggiungere. «L’ora», poiché «prima» deve comparire l’Anticristo. (Non si tratta di una «storia» che sta ancora accadendo in quel luogo, di un «incidente», bensì di qualcosa di essenziale, sia pure negativo, che capita a Dio e ai cristiani. Non si ha per nulla a che fare con un mero primae - dopo. Il «prima» non è quello dell’ordinamento, ovvero dell’atteggiamento, bensì quello della cura – qualcosa di significativo dal punto di vista esistenziale). E chi riconosce l’Anticristo? Solo gli uomini di fede, giacché egli, appunto, inganna! Dunque il «quando» è sempre incerto anche per il credente, per il quale di fronte all’Anticristo può trattarsi solo di resistere. Considera l’introduzione della questione dell’Anticristo tramite il problema decisivo (esistenziale) della παρουσία, e per la precisione dal punto di vista del tenersi saldi (festhalten), frutto di pura fede. In quanto «segno del tempo», senso del «tempo» e dell’esperire il giorno-tempo (das Zeit-Tagerfahren), da cui anche il comprendere ricco di esperienza (credente, in quanto si è deciso) deve prendere il suo senso. ἀποστασία: il suo giungere significa anch’esso stare saldi (feststehen) e può essere riconosciuto soltanto in base a tale saldezza (Feststand). E come può essere riconosciuto? Non come segno mondano.

Anticristo: l’«essere contro Dio» (Gottwidrigkeit) indica, come segno, il tempo della fine!? ἄνομος (dapprima: non Ebreo), figlio della rovina, cade vittima della rovina. «Destino finale dell’impresa contraria a Dio». ἀντικεῖσθαι, porsi contro; ὑπεραίρεσθαι, sollevarsi (contro). Mettersi a sedere nel tempio è il segno decisivo della miscredenza contraria a Dio; dunque soltanto il senso della contrarietà a Dio (Widergöttlichkeit) è l’elemento decisivo in tutti i concetti; «segno» decisivo del «tempo». Escatologia, IV (2 Ts) [cfr. parr. 28 e 29] 2, 5, 6; se vi ricordate il sapere della fede, allora sapete anche adesso e dovete sapere τo κατέχον, la forza frenante che sottomette (das niederzwingende Haltende). 2, 9: l’Anticristo, παρουσία dei perduti. Dunque prima deve giungere l’Anticristo, tempo della verifica, della necessità e della decisione supreme, del più drastico aut-aut. Non è così semplice e comodo come se lo immaginano i chiacchieroni. Non ci si lasci dunque ingannare da loro, ossia condurre a una falsa posizione di fondo nei confronti della parusia, confondere la speranza, indurre al decadimento. Si tratta piuttosto di una suprema necessità, e la cosa più importante non è che scorgiate in essa il «quando» obiettivo, bensì che stiate saldi in essa, non vacilliate e vi preoccupiate dei segni del tempo in questo modo, anziché, tramite l’osservazione di ciò che accade e simili, specularvi sopra qualcosa di conforme alla conoscenza – dimenticando la questione capitale. ψυχή μιᾷ ψυχῇ συναθλοῦντες τῇ πίστει τοῦ εὐαγγελίου, Fil, 1, 27. La posizione esistenziale fondamentale degli Ebrei secondo Paolo. Cfr. Rm, 1; la posizione «esistenziale» fondamentale dei pagani secondo Paolo.

INTRODUZIONE ALLA FENOMENOLOGIA DELLA RELIGIONE CORSO DEL PRIMO PERIODO DI FRIBURGO (SEMESTRE INVERNALE 1920/21)

MOTTO Curiosum genus ad cognoscendam vitam alienam, desidiosum ad corrigendam suam. Agostino, Confessiones, X, 3, 3

PARTE INTRODUTTIVA

INTERPRETAZIONI DI AGOSTINO

Il compito che ci proponiamo è circoscritto. In che senso lo sia, appare chiaro, per lo meno in termini negativi, grazie alla sua delimitazione rispetto ad altre interpretazioni e valutazioni di Agostino, che convengono nel tenere in alta considerazione la sua influenza nell’ambito della storia dello spirito. La teologia medioevale poggia su Agostino. La ricezione di Aristotele nel Medioevo si è affermata – se mai completamente – soltanto in un radicale confronto con orientamenti di pensiero agostiniani. La mistica medioevale costituisce un rinvigorimento del pensiero teologico e dell’esercizio pratico-ecclesiastico della religione che risale essenzialmente a motivi agostiniani. Negli anni decisivi della sua maturazione Lutero ha subito il forte influsso di Agostino. All’interno del protestantesimo Agostino è rimasto il padre della Chiesa tenuto nella maggiore considerazione. In seno alla Chiesa cattolica c’è stata una rinascita agostiniana specialmente nel diciassettesimo secolo in Francia (Descartes, Malebranche, Pascal, giansenismo, Bossuet, Fénélon), e da allora la presenza di Agostino è rimasta colà particolarmente viva fino alla moderna apologetica cattolica francese, che al tempo stesso ha assimilato idee bergsoniane (di matrice plotiniana). Anche se in questo caso ad avere influenza non è propriamente Agostino, bensì un agostinismo già adeguatosi alla dottrina della Chiesa, che solo nell’ontologismo infrange leggermente i limiti dogmatici. (Ciò che Scheler fa oggi è solo una ripresa secondaria di questa corrente di pensiero, ornata di fenomenologia) . L’agostinismo ha un doppio significato: dal punto di vista filosofico è un platonismo tinto di colori cristiani contrapposto ad Aristotele; dal punto di vista teologico è una determinata concezione della dottrina del peccato e della grazia (libertà del volere e predestinazione). Nel diciannovesimo secolo, con il destarsi della scienza critica della storia, cioè con lo sviluppo sia di un’autentica storia delle Chiese e dei dogmi, sia di una storia cristiana

della filosofia e della letteratura, Agostino ha goduto di una nuova considerazione in questo senso. Tracceremo qui un breve profilo delle tre concezioni e valutazioni più notevoli tratte dalla ricerca degli ultimi decenni, rispetto alle quali il percorso che noi svilupperemo si distingue e si delimita in modo essenziale. 1. L’interpretazione di Agostino data da Ernst Troeltsch L’interpretazione più recente è quella fornita da Ernst Troeltsch nello scritto Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter. Im Anschluß an die Schrift «De Civitate Dei» (1915). Troeltsch interpreta Agostino dal punto di vista di una filosofia generale della civiltà, orientata nel senso della storia universale. «Da quando il movimento cristiano» uscì allo scoperto «nell’ambito della cultura, della proprietà e della società, il grande problema dei pensatori cristiani [diventò] quello della civiltà»,75 vale a dire la questione di come il mondo e i beni reali della civiltà possano essere integrati nella salvezza cristiana. (Il problema della civiltà: come ci si debba installare comodamente e decentemente nel mondo, in modo conforme al progresso e con onore, dopo che si è già caduti vittima del paganesimo). Per Troeltsch l’autentico significato di Agostino consiste nel fatto che, con la sua etica del summum bonum, egli è diventato il grande maestro di etica dell’antichità cristiana. Agostino «rappresenta l’ultima e maggiore sintesi della civiltà antica al suo tramonto, con l’ethos, il mito, l’autorità e l’organizzazione della Chiesa protocattolica».76 (Un vecchio fondo di magazzino, tradotto nella fraseologia della filosofia della civiltà e della storia universale!). Perciò Agostino, «con tutto ciò che ha di più essenziale, non poté essere adottato sul terreno di un’altra civiltà».77 Egli sta più a conclusione del mondo antico e meno a fondamento del Medioevo. Si stabilisce così per la prima volta una delle più importanti delimitazioni dei grandi periodi e delle formazioni principali dell’idea cristiana. L’analisi si sviluppa totalmente nel senso del metodo della storia della religione già formulato in precedenza da

Troeltsch (cfr. la nostra Introduzione alla fenomenologia della religione, semestre invernale 1920/21).78 In base a esso bisogna separare dallo sfondo di una determinata dogmatica teologica lo studio e l’esposizione delle «formazioni di idee religiose», che vanno considerate nella loro fusione con «la rispettiva situazione generale della civiltà».79 Il metodo della storia della religione dev’essere un metodo di storia della civiltà, che includa anche quello della storia sociale. Con ciò Troeltsch non intende dire «che i grandi movimenti religiosi derivino direttamente dalla situazione generale della civiltà».80 (Ma vi appartengono forse?! Ciò costituisce un fraintendimento assai peggiore, giacché il «derivare» potrebbe avere ancora un senso! Si può davvero parlare di affermazione!?). «È vero il contrario. Eppure la loro possibilità di affermazione si fonda su di essa, e la loro fissazione istituzionale in quanto religioni di massa è condizionata dalla capacità di installarsi in un dato sistema culturale».81 (Dunque è questo il problema che interessa a Troeltsch. Ciò significa che, nella misura in cui egli postula il problema della civiltà come l’elemento essenziale dell’analisi storica nel senso della storia universale, tale analisi diventa effettivamente assai «comprensiva», ma anche insipida e semplice materia di orientamento propedeutico; in particolare se si pensa a ciò che dovrebbe sorreggere tale orientamento, ossia una filosofia generale della religione e della civiltà. Tutto rimane nel vago fintanto che questo sfondo non è realmente determinato, ovvero posto seriamente come problema. Cfr. l’Introduzione alla fenomenologia della religione).82 Invece che da una dogmatica teologica, lo sfondo di questo modo di considerare il problema dev’essere costituito da una filosofia generale della religione e della civiltà. È facile vedere che la determinazione di «ciò che vi è di più essenziale» in Agostino si regge e cade con il senso e la legittimazione di questo sfondo. 2. L’interpretazione di Agostino data da Adolf von Harnack Harnack interpreta Agostino e la sua importanza in modo

diverso. La sua esposizione si fonda su una familiarità con gli scritti agostiniani assai maggiore di quella di Troeltsch e della sua trattazione, troppo universale a tale riguardo. L’esposizione di Harnack va intesa in base al compito della storia dei dogmi come egli l’ha formulata. Nell’ambito della problematica della storia dei dogmi così concepita il tratto peculiare di Agostino, secondo Harnack, non sembra essere tanto la costruzione di un nuovo sistema dogmatico, bensì, da un lato, la restituzione di quello antico a nuova vita in base all’esperienza e alla devozione personali, dall’altro, in stretto rapporto con ciò, la fusione al suo interno del nuovo pensiero fondamentale della dottrina del peccato e della grazia. Per l’analisi condotta nel senso della storia dei dogmi ne deriva un doppio compito: l’esposizione in primo luogo della devozione di Agostino, in secondo luogo della sua influenza in quanto dottore della Chiesa. Nel giudizio complessivo Harnack pone l’accento sul primo aspetto e caratterizza Agostino, secondo ciò che ha di peculiare, come «riformatore della devozione cristiana».83 Agostino ha riscoperto la religiosità nella religione. «Egli trasferì la religione, come dono e come compito, dalla forma comunitaria e cultuale nei cuori».84 Ciò che Agostino sviluppa come dogmatica e dottrina della fede si ricollega al simbolo veterocattolico. «Nasce così il profilo caratteristico della dottrina i cui influssi in Occidente sono perdurati nel Medioevo, e che sta evidentemente a fondamento anche della concezione dottrinale della Riforma: un legame fra la teologia veterocattolica, lo schema veterocattolico [cristologia] e il nuovo pensiero fondamentale della dottrina della grazia, inserito a forza entro il quadro del simbolo».85 Dove peraltro Agostino, in riferimento al suo lavoro per la costruzione della dottrina, si distingue perché nella Chiesa antica fu il teologo che perseguì nel modo più fervido l’unità di un sistema della dottrina della fede. 3. L’interpretazione di Agostino data da Wilhelm Dilthey

Una terza interpretazione è stata proposta da Dilthey nella sua Introduzione alle scienze dello spirito, I (1883) nel contesto di un’analisi storica dello sviluppo della coscienza storica e di una fondazione gnoseologica delle scienze dello spirito. [Trascrizione di Oskar Becker:] Dilthey riconduce la conoscenza alla psicologia descrittiva, all’«esperienza vissuta» (nel senso dell’auto-osservazione, della percezione interna). Che significato hanno dunque il cristianesimo, e in particolare Agostino, per la fondazione delle scienze dello spirito? Il cristianesimo implica una trasformazione della vita psichica. Essa si ripiega su se stessa. Tramite l’esperienza del grande esempio della personalità di Gesù, una nuova vitalità si diffonde nell’umanità. Che significato ha questa trasformazione per le finalità della scienza? Con il cristianesimo è superato il limite della scienza antica, che si occupava esclusivamente dell’immagine del mondo esterno. La vita psichica diventa un problema scientifico. Rivelandosi nella realtà storica (storia della salvezza), Dio viene strappato dalla trascendenza teoretica di Platone ed entra nel contesto dell’esperienza. In questo punto si colloca l’origine della coscienza storica. Dilthey approfondisce ulteriormente tale aspetto mostrando come sotto l’influsso della scienza antica il cristianesimo si trasformi in dottrina e in filosofia. Qual è l’importanza di Agostino in questo processo? In contrasto con l’antico scetticismo egli stabilì la realtà assoluta dell’esperienza interiore (in una forma che anticipa il «cogito, ergo sum» di Descartes). Subito però avviene la svolta verso la metafisica: le veritates aeternae sono le idee contenute nella coscienza assoluta di Dio. Lo stesso accade con l’analisi delle esperienze vissute volitive. Il sapere è un carattere dell’essenza della sostanza. L’anima umana è mutevole ed esige un fondamento immutabile. Questa è l’esperienza interiore dell’esistenza di Dio (Agostino, De Trinitate). Dilthey afferma che ciò a cui Agostino mirava è stato ottenuto per la prima volta da Kant e da Schleiermacher. In tal modo egli ha completamente

frainteso il problema interiore di Agostino. 4. Il problema dell’obiettività storica La domanda, quale delle tre interpretazioni – quella della storia della civiltà, quella della storia dei dogmi o quella della storia della scienza – sia obiettivamente giusta, è mal posta. Sforzarsi di pervenire a un accordo fra di esse, oppure voler confutare l’una o l’altra adducendo materiale che ne contesti i risultati, corrisponderebbe a un pieno fraintendimento del senso dell’obiettività storica. La distinzione di «vero» e «falso», intesa nel senso corrente – in genere acriticamente accettato –, non può essere semplicemente trasposta nella storia. Altrettanto sbagliata sarebbe tuttavia un’argomentazione che si basasse su uno scetticismo risultante da questo fatto. Lo scetticismo, nella concezione corrente, ha senso infatti solo in quanto antitetico al concetto di verità sopra menzionato: entrambi si trovano nel medesimo stadio di attuazione del determinare e dell’assicurare teoretici e delle loro norme di senso immanenti. (Lo scetticismo si limita a constatare che essa86 non raggiunge quello scopo a cui – anche secondo la sua opinione – dovrebbe «propriamente» arrivare). Quindi, così come quel concetto di verità non trova applicazione, allo stesso modo non è possibile dimostrare lo scetticismo. In altri termini, il modo corrente di identificare lo storico con il relativo è insensato. Ciò solo per accennare al fatto che le domande e le decisioni relative all’obiettività storica si situano in una prospettiva del tutto peculiare. Se poi si volesse trarre la conseguenza quietistica di lasciar valere d’ora in poi tutte le concezioni come ugualmente legittime, tale opinione avrebbe evidentemente la stessa origine di quella scettica. (Scappatoia: ci si acquieta e ci si accontenta con il sincretismo, «sostituto» di ciò che dovrebbe essere! «Idea» oggi corrente! L’aspetto comico della filosofia è che essa poi fornisce in più anche la teoria che sanziona ciò). Se quindi l’esperienza e la conoscenza storiche non debbono rimanere sottoposte a criteri conoscitivi

tradizionali, bisogna cercare di decidere – nel senso positivo dell’esperire e del determinare storici – e tale decisione, a sua volta, non può che essere storica. Il raggiungimento di una simile decisione e la sua genuina appropriazione dominano le considerazioni seguenti, che sono tuttavia pensate solo come lavori preliminari. Nel loro concreto svolgimento esse sono forse in grado di avviare nel modo più semplice una comprensione sia del senso dell’attuazione dell’esperienza storica ivi operante, sia del carattere peculiare dei problemi che vi emergono. Tuttavia, una breve discussione delle tre interpretazioni di Agostino che abbiamo delineato può subito distogliere ex negativo dalle prospettive che qui non sono prese in considerazione. (Esaminiamo: 1) il senso dell’accesso [Zugangssinn], 2) la base motivazionale dell’impostazione dell’accesso [Zugangsansatz] e dell’attuazione dell’accesso [Zugangsvollzug]. Ciò che importa innanzitutto è la differenza in quanto tale. Si tratta di un sussidio alla comprensione, non di una vera e propria discussione) . 5. Discussione delle tre interpretazioni di Agostino secondo il loro senso dell’accesso Per quanto eterogenee possano essere nelle tre interpretazioni le direzioni dell’accesso (Zugangsrichtungen) al loro oggetto, in quanto domina sempre una diversa determinatezza complessiva del contenuto del «che cosa» (das inhaltliche Wasbestimmtheitsganze) della sua «prestazione» – etica, religiosità, fondazione gnoseologica –, il senso dell’accesso è lo stesso. L’oggetto (Agostino) è visto sotto diversi riguardi (si guarda a esso cogliendone differenti «lati»), eppure è colto come obietto nel contesto obiettivo di un determinato ordine, benché il quadro di quest’ultimo – sia esso pensato o meno come nesso evolutivo – possa avere ampiezze differenti. Troeltsch pone alla base il quadro più ampio, quello della storia universale. La posizione e il significato – qui le sue caratteristiche più essenziali – che Agostino si vede assegnati nella sequenza complessiva dei periodi della

formazione cristiana delle idee, dunque anche dell’evoluzione culturale europea, sono quelli di essere l’etico della civiltà che conclude la cristianità antica, e di porsi, dal punto di vista di questo quadro di filosofia della civiltà, come essenziale. Non si tratta tanto della formazione cristiana delle idee come tale, oppure della persona di Agostino, quanto piuttosto – nel senso della filosofia della civiltà – del processo socio-culturale (obiettivo) della loro affermazione e delle loro ripercussioni. In conformità con il cosiddetto quadro «complessivo» e la cosiddetta «profondità di pensiero» di ogni orientamento di filosofia della civiltà, un’esposizione siffatta si muove sempre entro i più esili ambiti marginali dei pensieri e delle formule, e – data la mancanza di viva familiarità con la vita storica, nonché sotto la costrizione dell’universalità – finisce quasi necessariamente per essere niente più che un’annacquata compilazione di letteratura secondaria. Anche nel caso di Harnack il riguardo prende in considerazione l’obietto inserito in un contesto ordinativo predefinito: la nascita del dogma della vecchia Chiesa e la sua evoluzione. Agostino come «ri»-formatore («Re»formator), visto in relazione a ciò che c’era prima e fissato come inizio dell’influenza su ciò che venne dopo. Lo stesso vale per Dilthey. Nel suo caso il quadro è il seguente: evoluzione delle scienze dello spirito nei popoli europei. Nella misura in cui, in queste interpretazioni storiche, il senso dominante del riguardo è la considerazione dell’obietto in quanto situato entro un contesto storico ordinativo obiettivamente posto, le definiamo come atteggiamento storico obiettivo. Quanto viene esposto ha il senso oggettuale dell’immagine disegnata obiettivamente, e le condizioni dell’accesso (Zugangsbedingungen) si concentrano nel dominio del materiale specifico considerato. Ogni ulteriore valutazione e presa di posizione si basa sulla determinazione dell’obietto primariamente attuata in questi termini.

6. Discussione delle interpretazioni di Agostino secondo la loro base motivazionale per l’impostazione e l’attuazione dell’accesso a) I centri motivazionali delle tre interpretazioni Finora abbiamo illustrato solo il senso dell’accesso delle tre prospettive. La tendenza dell’atteggiamento mira alla caratterizzazione storica obiettiva dell’ordine. Ma con ciò la discussione non è esaurita. (Il quadro obiettivo dell’ordine è essenzialmente fondato anche sulla determinazione della sequenza cronologica del tempo storico. Nella storia obiettiva il «tempo» funge: 1) come mezzo metodicamente regionale di determinazione reale, ed è, in questi termini, attuato nell’atteggiamento – costituendo invero, conformemente alla sua origine, già un genere peculiare di «orientamento»; 2) in quanto oggetto reale obiettivo è di per sé un tempo determinato: epoca. Riferita al tempo, la «relazione dell’avere» [Habensbeziehung] è quella del distacco obiettivo del tempo attuale da quelli precedenti,87 della differenza di struttura obiettivamente qualitativa dell’epoca attuale da quelle precedenti).88 Il senso dell’accesso in quanto atteggiamento storico obiettivo è lo stesso, tuttavia la base motivazionale per l’impostazione e l’attuazione dell’accesso è differente. In Troeltsch si ha lo sforzo di ottenere una filosofia della civiltà dai contorni ben definiti, nonché la «convinzione» di poter venire in aiuto alla vita spirituale presente – in particolare a quella religiosa – mediante una sistematica dei valori culturali (Kulturwert-systematik) orientata nel senso della storia universale. In Harnack si ha un’analoga tensione alla comprensione teologica della fede, ossia la «convinzione» che una storiografia critica dei dogmi possa mostrare come si sia arrivati alla teologia ecclesiastica che originariamente non concorda con una teologia cristianoprotestante.89 Infine, Dilthey mira a una fondazione, o alla costruzione, delle scienze storiche dello spirito, con la «convinzione» di fondo che una penetrazione del passato (dell’obiettivo) attuata nel senso della storia dello spirito costituisca uno dei concreti

compiti intellettuali della vita attuale.90 In questa sede non possiamo specificare in che senso tali «convinzioni», sia in sé, come centri motivazionali, sia nei loro rapporti relativi alla storia dell’attuazione, vadano comprese e giudicate riguardo a ciò che propriamente «sono». (Nella misura in cui le pretese delle tre interpretazioni menzionate si spingono oltre l’interesse reale e oltre la trattazione concreta delle singole scienze – e di fatto è così –, esse si sottopongono alla critica filosofica, ovvero teologica, che deve anzitutto giudicare l’originalità della loro base motivazionale, e in secondo luogo chiedersi fino a che punto e in che senso una considerazione «obiettiva» abbia filosoficamente un senso) . b) Delimitazione rispetto a considerazioni storico-obiettive Operando solo una delimitazione ex negativo, diciamo ora: 1) nessuna delle citate costellazioni di motivi è in sintonia con la nostra indagine; 2) nella misura in cui è viva, un’indagine siffatta è tale che il suo senso vieta di vedere in una considerazione storico-obiettiva lo scopo separatamente evidenziato, autentico e fondato in termini filosoficofenomenologici. Saldando i motivi in modo diverso è dato un diverso senso dell’esperienza storica. Allo stato attuale dei mezzi (e delle consuetudini) di esplicazione filosofica è difficile stabilire – e ancor più spiegare – sia in che relazione tale esperienza stia (solo?!) con quella storico-obiettiva, sia che cosa dica. È già sufficiente che essa ponga concretamente le premesse per un tentativo di attuazione. Soprattutto ci si deve guardare dal costruire in modo precipitoso, e non bisogna ritenere che l’«antitesi» dell’esperienza storico-obiettiva sia «soggettiva», «non scientifica» e simili, cioè che si fondi su un punto di vista «soggettivo» e su una finalità soggettiva. Così non si ottiene assolutamente nulla, solo la forma atrofizzata e deteriore di una considerazione storica in sé del tutto legittima, poiché ciò che in tal caso rimane indiscusso è proprio il senso della relazione fra storia e scienza. Nella delimitazione rispetto all’atteggiamento storico-

obiettivo ciò significa che, se pure nelle considerazioni seguenti si parla dell’obietto in apparente conformità con la medesima tendenza, una comprensione che vada in questa direzione non ne coglie il senso. Il nostro intento non è offrire un quadro complessivo concernente «la vita e l’opera» di Agostino, né le sue opere vanno intese come «espressione della personalità» nel senso di una raffigurazione. Dove si parla di evoluzione e altre cose simili, lo si fa senza alcuna finalità descrittiva. La delimitazione negativa può essere colta in modo ancora più preciso. Il titolo dell’indagine è: «Agostino e il neoplatonismo». Dal punto di vista storico-obiettivo si tratta della questione riguardante il peso e la modalità dell’influsso della filosofia neoplatonica sul lavoro filosofico-teologicodogmatico di Agostino. Oggi, nell’ambito dei recenti studi agostiniani, non si fa che parlare di questo. Harnack, ad esempio, proprio con l’intento di indagare – sotto l’influsso teologico di Ritschl91 – la genesi e l’evoluzione dei dogmi ecclesiastici, punta lo sguardo sul processo di ellenizzazione del cristianesimo. Analogamente Dilthey – sotto l’evidente influsso di Schleiermacher e di Ritschl – ha parlato di una penetrazione della metafisica e della cosmologia greche nell’esperienza interiore. Tuttavia, Dilthey non ha fornito una prova realmente concreta, né quelle di cui disponiamo sono qualcosa di più che mere constatazioni di genere storico-letterario, accertamenti riportati di assunzioni di concetti e termini. (Un accostamento di filosofia e schemi della storia dei dogmi, in cui il neoplatonismo appare come materia e mezzo di formazione). Viceversa, anche se il problema del contesto storico obiettivo fosse concepito in modo più penetrante, non si coglierebbe ugualmente la problematica che fa da guida alle riflessioni seguenti, e che va elaborata qui di seguito. Le nostre considerazioni hanno questo titolo perché le orientiamo preliminarmente sulla menzionata questione storico-obiettiva del contesto, tramite la quale giungiamo a evidenziare certi fenomeni decisivi che si sono determinati in

modo risolutivo nella situazione relativa alla storia dell’attuazione di allora, e che in tale determinazione ancora «sorreggono» noi stessi. Ciò non significa peraltro che la questione del rapporto fra il neoplatonismo e Agostino sia un caso speciale del problema generale riguardante la relazione fra grecità e cristianesimo, come se «il problema generale» dovesse e potesse essere illustrato e deciso sulla scorta dello stato concreto delle cose. Questo a prescindere dal fatto che una tale scomposizione logico-formale dello storico in problemi sovratemporali generali e in realizzazioni casuali determinate è contraria al senso dello storico: si tratta infatti di separazioni che non si eliminano mediante manipolazioni hegeliane, una volta che le si è operate, ovvero una volta che nella propria impostazione si conserva l’idea di una sistematica di tipo hegeliano o altrimenti configurata. Il contesto storico qui considerato rappresenta il terreno in assoluto meno adatto per il problema «grecità e cristianesimo», una volta che sia stato ammesso: da un lato perché il cristianesimo in seno al quale Agostino cresce è già completamente permeato dall’elemento greco, dall’altro perché nel neoplatonismo l’elemento greco ha già subito una «ellenizzazione» e orientalizzazione, se non addirittura – e mi sembra molto probabile – una cristianizzazione. Dobbiamo conquistare l’accesso a contesti di senso che risultano occultati da una formulazione del problema come, ad esempio, quella di Dilthey. In ultima analisi non si tratta né di metafisica e cosmologia greche, né di «esperienza vissuta» intesa come presa di conoscenza psicologica, e soprattutto non di una mera penetrazione della prima nella seconda. (Così come non si tratta di una fondazione delle scienze sull’esperienza interna). Il fatto che in Dilthey la problematica si sviluppi in tutt’altra direzione deriva dalla sua convinzione che il problema non risolto da Agostino sia stato deciso, per lo meno in linea di principio, da Kant e da Schleiermacher. Se nella forma obiettiva della metafisica e della cosmologia greche è contenuto il problema del senso della

scienza reale teoretico-obiettiva, e se la domanda sull’esperienza interna e sull’essenza del contesto effettivo cela un fenomeno assai più radicale – ci limitiamo qui a enunciarlo con il titolo «vita effettiva» –, a maggior ragione la relazione fra l’uno e l’altro è qualcosa di diverso da una penetrazione reciproca, ovvero, in termini positivi, dalla fondazione (costituzione) gnoseologica del primo sul secondo e in base al secondo. (Il «consistere di un problema nella forma storico-obiettiva» è visto solo dall’esterno, mentre nel senso della storia dell’attuazione qualcosa del genere non c’è. Ma il compito e la difficoltà dell’attuazione consistono proprio nel distogliere la problematica dalla direzione della domanda che mira alla percezione immanente e alla descrizione adeguata) . c) Delimitazione rispetto a considerazioni storico-tipologiche Da ciò si potrebbe evincere che si tratta di un problema generale di cui il titolo «neoplatonismo e Agostino» offre solo una forma tipica. Ma non è così. Anzi, se lo storico fosse inteso in questo modo, il senso autentico delle nostre considerazioni andrebbe perduto. (Il concetto di «tipo», e il contesto di esperienza e di comprensione che sta al suo fondamento, riportano alla formulazione storico-obiettiva della domanda) . Il neoplatonismo e Agostino non diventano un prodotto qualunque del caso, giacché nel corso dell’analisi la loro storicità deve piuttosto intensificarsi fino alla sua forma autentica, come qualcosa nella cui peculiare dimensione di influenza noi stessi oggi ci troviamo. La storia ci colpisce (trifft uns), e noi siamo la storia stessa. E il fatto che oggi non lo vediamo – in quanto riteniamo di averla e di dominarla in una considerazione storico-obiettiva finora mai raggiunta –, nel fatto cioè che la pensiamo così e, seguendo tale opinione, continuiamo a costruire e a pensare altra supposta cultura, altre filosofie e altri sistemi, la storia assesta ora per ora il colpo più violento contro noi stessi. Parlare del «trovarsi nelle dimensioni di influenza» non ha

nulla a che fare con il luogo comune secondo cui si è sempre dipendenti dalla tradizione. All’opposto, questa opinione induce a cercare di creare, in modo sbagliato e da epigoni, «nuova cultura» e nuove epoche. Tutto ciò valga solo come accenno – per quanto negativo – alla direzione. È inutile svolgere su tale argomento discorsi generali, fintanto che lo stato di fatto non sia già in qualche modo costrittivo oppure sia visto nella direzione genuina dell’attribuzione (Zueignung). Dal nostro modo di porre il problema emerge che nella trattazione di Agostino prendiamo in considerazione, in modo concreto e determinato, tanto l’elemento teologico quanto quello filosofico, senza dapprima distillarne una filosofia e poi porla al fondamento. I confini fra il teologico e il filosofico non debbono peraltro essere cancellati (nessun annacquamento filosofico della teologia, nessun «approfondimento» con pretese religiose della filosofia). Piuttosto, ciò che va compiuto è proprio il cammino a ritroso che risale dietro queste due configurazioni esemplari della vita effettiva: 1) anzitutto indicare in linea di principio in che senso qualcosa stia «dietro» entrambe, e di che cosa si tratti; 2) in secondo luogo indicare come ne derivi una problematica genuina – tutto questo non in senso sovratemporale o in vista della costruzione di una cultura a venire o meno, bensì esso stesso in termini relativi alla storia dell’attuazione.

PARTE PRINCIPALE

INTERPRETAZIONE FENOMENOLOGICA DEL LIBRO X DELLE «CONFESSIONI»

7. Preliminari all’interpretazione a) La retractatio agostiniana delle Confessioni Intorno al 426/427, poco prima di morire (430), Agostino scrisse i due libri delle Retractationes. «Retractationes», ossia un riconsiderare i suoi opuscula (libri, epistulae, tractatus), un riesaminare a fondo «judiciaria severitate»,92 in cui peraltro egli annota, ovvero corregge e migliora, ciò che ora gli provoca «scandalo». Nella premessa (Prologus), dove stabilisce il compito delle Retractationes, egli dà conto dei motivi che lo hanno spinto a rimettere mano alle proprie opere. «Illud etiam quod scriptum est, Ex multiloquio non effugies peccatum (Prv, 10, 19), terret me plurimum; non quia multa scripsi [...] sed istam sententiam Scripturae sanctae propterea timeo, quia de tam multis disputationibus meis sine dubio multa colligi possunt, quae si non falsa, at certe videantur, sive etiam convincantur non necessaria».93 (Il prologo va esplicato da un punto di vista esistenziale). Riguardo alle Confessioni Agostino scrive: «Confessionum mearum libri tredecim, et de malis et de bonis meis [nel mio essere, nella mia vita, nel mio essere-stato, buoni e cattivi]94 Deum laudant iustum et bonum, atque in eum excitant humanum intellectum et affectum; interim quod ad me attinet, hoc in me egerunt cum scriberentur, et agunt cum leguntur. Quid de illis alii sentiant, ipsi viderint; multis tamen fratribus eos multum placuisse et placere scio. A primo usque ad decimum de me scripti sunt: in tribus caeteris, de Scripturis sanctis, ab eo quod scriptum est, In principio fecit Deus caelum et terram, usque ad sabbati requiem (Gn, 1, 1; 2, 2)».95 b) La disposizione dei capitoli È bene acquisire anzitutto una schematica visione d’insieme del contenuto del decimo libro, in modo da prendere conoscenza di ciò che vi si trova (è suddiviso in 43 brevi capitoli; in seguito l’ordine progressivo salta e si raccoglie in un «come» del tutto differente; ad esempio, la digressione – obiettivamente lunga – sulla memoria ha una

funzione principale!). Il senso di tale presa di conoscenza e la sua funzione nella vita effettiva appaiono ovvi, eppure lo sono tanto poco che in un primo momento non si può dire nulla in merito, benché in contesti successivi debbano invece essere chiariti. La differenza tra le future «considerazioni» (formali!) e queste non sta tuttavia a significare che quelle allora sarebbero più «accurate», «precise», «complete», «sicure» e comunque «migliori», bensì che alla fine – e repentinamente – cambiano la direzione, il mezzo e l’attuazione della comprensione. (Il resoconto non deve sostituire e migliorare l’originale, bensì abbandonarlo – ovvero articolarlo in modo particolare – nella prospettiva di un’esplicazione sicuramente genuina. A questo scopo si rende necessario prendere una via traversa che passa per una selezione che metta ordine, poiché in tal modo qualcosa, in un primo momento, ci è più facilmente accessibile. Un puro resoconto inteso come descrizione non esiste. Esso potrebbe essere al massimo una cattiva interpretazione, che si concepisce come assoluta e non ha chiarezza su se stessa. Il «resoconto» costituisce il punto di partenza, ancora prevalentemente orientato in termini «obiettivi» – e che articola nel senso del decadimento –, dell’esplicazione intesa in modo autentico. Soltanto da ciò trae il suo senso). Per impostare il discorso forniamo un orientamento riguardo a «ciò che in generale vi è effettivamente contenuto», a «ciò di cui si parla». Da questo punto di vista il decimo libro è facilmente delimitabile rispetto agli altri poiché Agostino, qui, non ci parla più del suo passato, ma di ciò che egli è ora: «in ipso tempore confessionum mearum»,96 quod sim. Dal punto di vista lineare obiettivo si hanno dunque un’«integrazione» e un «completamento», benché vi sia da notare che, in termini obiettivi, da 388 a 400 c’è una «lacuna». (Una «lacuna» che non è tale se in generale non si mira – quantomeno non in modo primario – a un’esposizione biograficamente obiettiva) . Per la «visione d’insieme» può essere di aiuto prendere in considerazione la suddivisione in capitoli, cosa non priva di

importanza per l’articolazione successiva. In un primo momento la ripartizione e la riunione dei singoli capitoli in gruppi potrà apparire arbitraria: (1-4), (5), (6), (7), (8-19), (20-23), (24-27), (28-29), (30-39), (40-42), (43). 8. L’introduzione al decimo libro. Dal primo al settimo capitolo a) Il motivo del confiteri dinanzi a Dio e agli uomini (1-4) Iniziando con un’invocazione a Dio, Agostino intende chiarire a se stesso che cosa possa significare confessare dinanzi a Dio, a cui tuttavia – essendo Egli l’Onnisciente – nulla può essere nascosto, quindi in senso proprio nulla può essere comunicato che Egli già non sappia. Che cosa significa confessare al cospetto di Dio, e che cosa confessare di fronte agli altri uomini? Quale può esserne l’utilità? Quanto alla confessione riguardante il passato di Agostino, un’utilità risulta evidente: essa anzitutto scuote e non abbandona i deboli nella disperazione, poiché mostra che la grazia viene in aiuto anche al più debole. E i buoni e forti si rallegreranno, non perché ci siano stati il male e il peccato, bensì perché ciò che era adesso non è più. A che scopo tuttavia offrire un resoconto sullo stato attuale? Per giustificare la pubblicazione, Agostino scrive: «An congratulari mihi cupiunt cum audierint quantum ad te accedam munere tuo, et orare pro me cum audierint quantum retarder pondere meo? Indicabo me talibus».97 b) Il sapere di se stessi (5) Agostino osa dunque confessarsi, e confesserà soltanto ciò che «sa» di se stesso, benché ammetta di non sapere tutto. Anche questo vuole «confessarlo». (Quaestio mihi factus sum. «Capire è per un uomo la sua comprensione dell’umano, ma credere è il suo rapporto con il divino».98 Terra difficultatis. Si presti attenzione al differente senso del riferimento! «Tamen est aliquid hominis quod nec ipse scit spiritus hominis [...] quibus tentationibus resistere valeam, quibusve non valeam»).99 Gli è però senz’altro certa quest’unica cosa, il fatto che ama Dio. «Quid autem amo, cum te amo?».100 A questa

domanda Agostino cerca di trovare una risposta indagando a fondo che cosa vi sia di degno d’amore, e se vi sia compreso qualcosa che Dio stesso sia, ovvero che offra una «visione esaudiente» a colui che vive nell’amore di Dio, che soddisfi e riempia ciò che egli intende nell’amore di Dio. («Cum te amo» significa qui già uno specifico stadio esistenziale, quello che ha esperito la misericordia e che in tale misericordia è stato strappato alla sordità: uno stadio che può «udire» e vedere, cioè che nell’amare – in un amare siffatto – è aperto a qualcosa di determinato.101 E solo a partire di là, nel «cum», coelum et terra annunciano la lode di Dio, il che però non accade se il mio atteggiamento di ricerca è quello delle scienze naturali) . c) L’oggettualità di Dio (6) Non amo la figura corporea, la grazia, lo splendore della luce, l’armonia dei suoni, la fragranza dei fiori e degli unguenti, e nemmeno le membra mortali strette nell’amplesso; eppure, in qualche modo, amo qualcosa di simile quando amo Deum meum: «lucem, vocem, odorem, cibum, amplexum interioris hominis mei».102 Ma di che cosa si tratta? Egli interroga la terra, la natura, i mari, gli abissi e gli animali che vi abitano, poi il cosmo intero, il sole, la luna e le stelle – ed essi rispondono: non siamo ciò che cerchi. Però a te, l’«interrogante», possiamo rivelare qualcosa di tutto ciò: Ipse fecit nos (Sal, 99, 3). «Interrogatio mea, intentio mea; et responsio eorum, species eorum».103 Egli quindi si rivolge a se stesso e domanda che cosa sia l’uomo. Un esterno e un interno. «Corpus et anima in me mihi praesto sunt».104 (Non si tratta semplicemente di una caratterizzazione obiettiva, di una «sintesi») . Quale dei due deve interrogare? Il mondo dei corpi fisici è già stato esplorato, dunque «melius quod interius».105 A esso infatti riferiscono i messaggeri, cioè i sensi, ed è l’homo interior che decide del messaggio. È lui che pone le domande, e la risposta che riceve suona: ipse fecit nos. Ma ciò è accessibile a chiunque abbia sensi sani. Perché allora la natura non parla così a tutti, per esempio agli animali? Essi

non possono porre domande, «animalia [...] interrogare nequeunt».106 L’interrogare è già un giudicare e un sovrastare, mentre i sottoposti, i «subditi», non possono domandare. Le cose rispondono solo all’interrogante «giudicante», ossia solo a colui che è interiormente in grado di decidere (confrontando). Nel suo caso è la «verità» a rivolgere la parola e a fornire la decisione: il tuo Dio non è né cielo né terra, e in generale non è una massa corporea; qui la «parte» è minore del tutto.107 Nell’uomo, però, accanto all’esterno è esperito l’interno,108 inteso come ciò che compenetra, muove e anima il corpo: anima, melior es, vitam praebes. «Deus autem tuus etiam tibi vitae vita est».109 (Non è necessario che ciò sia inteso in modo obiettivante, grecometafisico, come vuole Dilthey. Cfr. lumen, vox interioris hominis! E il concetto di vita! Ma in ogni caso sussiste qui un intreccio non chiarito di motivi e tendenze esplicative). d) L’essenza dell’anima (7) Dio è dunque qualcosa che sovrasta anche l’anima, anzi proprio essa («sovra-stare» [über-ragen]: nuovo senso! Quis est ille super caput animae meae? Non solo l’idea dell’essere obiettivamente creato!). È indicato così il compito di esplorare anche l’anima. Agostino trova la «forza» mediante la quale essa si lega al corpo e ne muove la massa. «Non ea vi reperio Deum meum: nam reperiret et equus, et mulus, quibus non est intellectus (Sal, 31, 9); quia est eadem vis qua vivunt etiam eorum corpora».110 Oltre alla forza che dona la vita egli trova quella che rende possibili le percezioni sensibili e assegna a ciascun «organo» la sua funzione (officium) peculiare e inconfondibile, dunque la forza «organizzante» in senso stretto: «jubens oculo ut non audiat, et auri ut non videat; [...] quae diversa per eos ago unus ego animus. Transibo et istam vim meam: nam et hanc habet equus, et mulus; sentiunt enim etiam ipsi per corpus».111 (Qui si ha già il «differimento» della questione – cfr. X, 20 – sotto la pressione dei fenomeni: non ci si chiede più se questo o quello sia Dio, bensì se «in ciò» = «con ciò» = «vivendo in ciò» io possa trovare Dio.112 Ciò avviene tramite

un confronto [obiettivo] con altri esseri viventi in possesso della medesima forza, dei quali si constata [sentenza biblica Sal, 31, 9]113 che sono privi dell’intelletto in cui evidentemente – secondo l’anticipazione – Dio è in qualche modo trovato. Si veda, nelle riflessioni seguenti, l’oscillare dell’analisi dell’esperienza intesa ora come mezzo obiettivamente lì presente, ora come interpretazione riferita all’attuazione! Di che cosa è espressione l’oscillare come tale? Punto di partenza per la rottura esistenziale fra la relazione oggettuale e ordinativa della psicologia [ovvero dell’interpretazione] e il coglimento del problema in base alla vita effettiva in termini concretamente storicoesistenziali). 9. La «memoria». Dall’ottavo al diciannovesimo capitolo a) Lo stupore riguardo alla memoria Nella sua ascesa progressiva e oltrepassante, Agostino giunge nel vasto campo della memoria. La lasciamo in un primo momento non tradotta. L’esposizione, ora, non segue rigorosamente l’ordine dei capitoli, bensì, ai fini della visione d’insieme, si mantiene intenzionalmente ancora più schematica. Nello stesso Agostino il «disordine» ha un preciso senso espressivo, il continuo riaprirsi di «contenuti» e di enigmi dell’attuazione (Vollzugsrätseln). (I fenomeni concreti che Agostino adduce, puramente in termini di contenuto, e soprattutto come egli esplica i fenomeni, entro quali contesti e quali determinazioni fondamentali – ad esempio la beata vita –, fanno saltare il quadro e la struttura della concezione corrente). Nella memoria sono presenti le innumerevoli immagini delle cose e insieme tutto ciò che noi – analizzandole a fondo, ampliandole, associandole, elaborandole – pensiamo di esse: «penetrale amplum et infinitum».114 Tutto ciò mi appartiene, però io stesso non lo colgo. Per avere se stessi lo spirito è troppo stretto. Ma dove sarà allora ciò che lo spirito non coglie in se stesso? «Stupor apprehendit me. Et eunt homines admirari alta montium, et ingentes fluctus maris, et

latissimos lapsus fluminum, et Oceani ambitum, et gyros siderum, et relinquunt seipsos».115 Ed essi non si meravigliano del fatto che io stesso, ora, nel momento in cui ne parlo, non veda quelle cose, e tuttavia non potrei parlarne se non le vedessi dentro di me nelle medesime enormi dimensioni. (Considerato in termini obiettivi: Agostino qui si lascia andare, perdendosi in un’analisi minuziosa della memoria) . E se ora mi soffermo all’interno della memoria, esigo, come voglio, che nella situazione del raccontare qualcosa – «cum aliquid narro memoriter»116 – questo e quello mi si facciano presenti. Qualcosa giunge rapidamente, qualcos’altro richiede più tempo, altro ancora cade lì in disordine, ammucchiandosi in grande quantità. E nel caso si stia cercando alcunché di determinato, ecco che qualcosa si offre: «Sono forse io ciò che cerchi?». Io lo respingo manu cordis, finché è risvegliata quell’unica cosa che voglio («donec enubiletur quod volo») .117 Altre cose emergono in sequenza e secondo i nostri desideri. Così accade quando racconto. b) Oggetti sensibili Ma ciò che suscita stupore non sono soltanto il «che cosa» e il come dell’evento prodigioso che qui si attua,118 bensì anche la molteplicità dei contenuti che entrano nella memoria e il come del loro ingresso. Ciò che entra è – conformemente alle modalità di accesso – genuino e ordinato secondo generi: colori, suoni, odori, sapori; durezza e morbidezza, caldo e freddo; ciò che giunge dall’esterno, dai corpi materiali, e ciò che giunge dall’interno del proprio corpo. (Se esso, per così dire liberato dalla modalità di accesso, si limita a essere lì presente, non reca disturbo, giacché ne richiamo alla mente soltanto il senso). Anche al buio sono in grado di distinguere il nero dal bianco e di stabilire qualcosa riguardo ai colori, senza che vi sia interferenza da parte dei suoni. E «canto» anche se la lingua e la gola riposano. Senza al momento odorarli, distinguo il profumo del giglio da quello della viola. Non gli

oggetti stessi sono presenti, bensì, per così dire, «immagini». (All’interno della ripresentazione sono in grado di distinguere). c) Oggetti non sensibili Tuttavia, sono disponibili in questo modo non solo gli oggetti sensibili, bensì ad esempio princìpi e regole, tesi e questioni scientifiche. Così, ad esempio, quando sento dire che ci sono tre specie di domanda: se qualcosa è, che cos’è, com’è fatto. È vero che continuo a trattenere le immagini dei suoni delle parole in cui la frase è formulata, ossia i suoni verbali, anche se so che si sono già spenti, ma ciò che in tal modo ho non è «la frase». La cosa stessa, tuttavia, il senso che comprendo, non l’ho ricevuto mediante l’udito, cioè tramite i «sensi», né l’ho visto da qualche parte al di fuori della coscienza, e nemmeno ho nella coscienza un’immagine del senso della frase, bensì il senso stesso. Com’è giunto nella coscienza? Controllo rapidamente tutte le porte e tutti gli accessi e li interrogo. La vista risponde: se è colorato, dipende da me. E nell’apprendere non li ho tratti da una coscienza estranea, bensì riconosciuti in me stesso. Fino a quel momento però non erano nella memoria. Ma dov’erano allora? Analogamente, la memoria racchiude anche rapporti numerici e leggi delle relazioni spaziali (oggetti matematici). Questi non sono colorati, non risuonano, e nemmeno possiedono una qualsiasi altra determinatezza sensibile. È vero che odo le parole in cui sono formulati e in cui si parla di essi, però tali parole cambiano (greco – latino), giacché gli oggetti matematici non appartengono affatto al genere dell’espressione linguistica. Quando vedo la più sottile delle linee disegnate, esile come il filo di una ragnatela, non si tratta della linea matematica come tale. Questa linea ce l’ha consapevolmente presente soltanto chi la coglie senza pensare, appunto, in termini sensibili-corporei. Io conto colori e suoni, misuro qualcosa di pesante o di leggero. Ciò che conta e misura, e il contato in quanto tale nel suo essere contato (determinatezza numerica), non sono colorati,

eccetera. «Et ideo valde sunt»119 – e proprio per questo hanno in alta misura un essere. d) Il discere e gli atti teoretici Se quindi cogliamo così gli «oggetti scientifici», e li abbiamo non nelle immagini, bensì in quanto tali, che cosa sono allora in senso proprio il discere, l’acquisizione di conoscenza (com’è che qualcosa diventa notitia?), l’apprendere? Nient’altro che un raccogliere, un ordinare ciò che – in questa prospettiva del pensare – «giace» nella memoria non ordinato, sparpagliato e trascurato. (Discere significa qui propriamente ricercare [forschen], «trarre allo scoperto» [aus-heben] qualcosa di vero). Si tratta di un ordinare tale che ciò che è appreso, ed è così determinato nell’ordine, di volta in volta «jam familiari intentioni facile occurrant»120 (venendo incontro al corrispondente senso dell’anticipazione dell’ambito [Gebietsvorgriffssinn] – in conformità con l’ordinatezza [Geordnetheit] utilizzabile predelineata!) . Ciò che in tal modo «ad manum positum est» (è disponibile in modo ordinato) è il saputo, l’appreso. Se però rimane trascurato a lungo torna a sprofondare, ma non cade completamente fuori della coscienza e deve esserne nuovamente estratto come qualcosa di nuovo e di primo: «quod in animo [ex quadam dispersione] colligitur, id est cogitur».121 Anche il falso lo «so», ce l’ho a disposizione.122 Se ci sono falsità, non è tuttavia falso che io lo sappia. E io so del fatto che, operando in termini comparativi, ne devo distinguere, all’opposto, le verità. Una cosa è che io sappia che adesso sto distinguendo, altra cosa è che mi ricordi di avere distinto. Nella ripresentazione mi è dunque disponibile anche il mio proprio fare, e perfino il ripresentare e l’aver ripresentato stessi. (La modalità del sapere riguardante attuazioni attuali – mondo del sé? – e la modalità del sapere riguardante l’avere attuato – atti teoretici) . Nella memoria (nn. 20, 21, 22, 24) sono quindi in grado di avere («mihi praesto sum») non solo il vasto ambito delle

cose, dei fatti e degli obietti, bensì me stesso, e per la precisione non solo il discernere, colligere, cogitare nel senso stretto del meminisse,123 bensì «affectiones quoque animi mei eadem memoria continet»124 (e noematico!). e) Le affezioni e i loro modi di darsi Il modo in cui le affezioni sono avute nella memoria è assai differente da quello in cui esse sono avute nell’esperire attuale, «cum patitur eas».125 Il modo è corrispondente all’essenza della memoria. Se mi ripresento una gioia o un dolore, non sono io stesso felice o triste, non ho bisogno di esserlo. Se ricordo una paura, non ho paura. Anzi, se adesso sono di umore allegro posso ripresentarmi una cosa triste, e viceversa. (La ripresentazione di affezioni non è condizionata dal carattere affettivo della situazione ripresentata). Non ci si deve meravigliare di questa stranezza se ciò che è ricordato, ripresentato, è un’affezione del corpo in carne e ossa (Leib) . Infatti, dato che il corpo non è certo la stessa cosa dell’anima, tale affezione – ad esempio il dolore fisico – può essere senza dubbio differente dallo stato psichico, ad esempio dall’essere felice, può averlo superato. Ma l’enigma riguarda gli stati psichici stessi. Non è forse vero che la memoria non è nulla al di fuori della coscienza, bensì è la coscienza stessa? Ma allora, se sono di umore allegro, come posso «avere» il dolore? (Io «ho» il dolore; e al tempo stesso: io «ho» la gioia. In entrambi i casi: «io») . La memoria è per così dire lo stomaco: i cibi assunti, dolci e amari, ci sono ancora, ma hanno perso il loro gusto. È ridicolo (ridiculum) sostenere che vi sia qui una somiglianza effettiva, eppure qualcosa di comune c’è. Quando stabilisco qualcosa riguardo ai moti dell’animo, quando li classifico – cupiditas, laetitia, metus, tristitia – e li definisco, li prendo dalla coscienza stessa, poiché è in base a essa che mi sono disponibili. (L’avere è dunque visto da Agostino pur sempre come proprio!). E se li ho così, io stesso non sono perturbato (perturbatur) dal loro essere presenti. (Ciò che è ripresentato in quanto tale non determina la situazione della ripresentazione). Chi mai vorrebbe stabilire

qualcosa riguardo a tali fenomeni, conoscendo e teorizzando, se per farlo dovesse egli stesso vivere costantemente in preda a questi turbamenti? Come se il fenomenologo che analizza l’odio o la paura dovesse essere costantemente in preda alla paura! Viceversa, se descrivendo tali turbamenti dico qualcosa al loro riguardo, non ci sono soltanto mere parole, bensì essi – gli affetti – sono intesi come tali. E solo nella misura in cui io stesso li ho posso caratterizzarli. (Ma come li «ho»?). «Et tamen non ea loqueremur, nisi in memoria nostra non tantum sonos nominum secundum imagines impressas a sensibus corporis; sed etiam rerum ipsarum notiones inveniremus, quas nulla janua carnis accepimus, sed eas ipse animus per experientiam passionum suarum sentiens memoriae commendavit, aut ipsa sibi haec etiam non commendata retinuit».126 f) Ipse mihi occurro «Ibi mihi et ipse occurro, meque recolo, quid, quando, et ubi egerim, quoque modo cum agerem affectus fuerim. [...] ex his [ciò che ho a disposizione] etiam futuras actiones et eventa et spes, et haec omnia rursus quasi praesentia meditor».127 (Qualcosa di futuro, di atteso – quasi praesentia). D’altra parte, ciò in cui vivo non è esso stesso presente in carne e ossa, eppure non è nemmeno nulla, altrimenti non potrei dire assolutamente nulla in merito. Ma che cos’è propriamente questo «non nulla»? Dico «pietra», «sole», «cum res ipsae non adsunt sensibus meis»128 (res – imago). Nella ripresentazione ho la loro immagine. In tal senso il malato non potrebbe distinguere la malattia dalla salute se la salute stessa non fosse per lui in qualche modo presente. E ciò nonostante è malato. Se nel pronunciare la parola «sole» l’immagine mi è presente, non è presente un’immagine dell’immagine, bensì l’immagine medesima. E se intendo la memoria stessa, essa è presente tramite un’immagine, oppure c’è essa stessa? (Così nel caso dei numeri). g) L’aporia riguardo all’oblivio Se ora parlo dell’«oblio» (Vergessen), comprendo pur

sempre ciò che intendo. L’oblio deve dunque essere presente come tale. Se mi ripresento l’oblivio (oblivio: l’avere dimenticato e il dimenticato), è praesto la «memoria qua meminerim, oblivio quam meminerim».129 (Non si tratta di un giochetto o di una sottigliezza, anzi, allo stato della problematica e della tendenza reale ed esplicativa di allora il problema è posto nel modo più acuto possibile. – Il «praesto est» riguarda in senso indifferenziato il contenuto ripresentato e l’attuazione della ripresentazione [Vergegenwärtigungsvollzug] della memoria e dell’oblivio, la cui esistenza – l’essere-realmente «nel» [das Wirklichsein «im»] – in quanto coscienza non viene separata. – Ora, l’oblivio ha carattere di riferimento [ist bezughaft], cosa che finora non era stata notata: non avere presente – qualcosa che era stato presente e che dovrebbe esserlo ora – in quanto non avere presentemente disponibile, ossia in quanto assenza [Abwesenheit] di memoria. Questo essere assente [Abwesendsein], collocato nel senso del riferimento, è colto – per questo deve però essere visto come tale – come nonesistenza [Nichtdasein] nel senso suddetto del «non-esserepraesto» [Nicht-praesto-sein], e precisamente in un modo che ha carattere di attuazione. Ne deriva l’antinomia: se c’è la memoria – la ripresentazione – non ci può essere l’oblivio, e viceversa. Se c’è l’oblivio non sono in grado di ripresentare, sicché anch’essa – in termini di contenuto – non c’è). «Sed quid est oblivio, nisi privatio memoriae?».130 Se dunque c’ è memoria, cioè se mi ricordo dell’oblivio, l’oblivio non ci può essere, mentre se c’è l’oblivio, non la posso ripresentare. «Adest ergo ne obliviscamur, quae cum adest obliviscimur».131 Se ne può forse dedurre che l’oblivio non è presente di per sé, bensì è presente la sua immagine,132 dato che, in effetti, in caso contrario, se fosse presente di per sé, «causerebbe» oblio? Chi può vederci chiaro qui? («Quomodo ergo adest ut eam meminerim, quando cum adest meminisse non possum?».133 L’oblivio dobbiamo ripresentarcela noi

stessi – meminisse. «Memoria retinetur oblivio».134 L’oblio è ripresentato come tale) . Tuttavia, anche ammettendo che sia presente solo l’immagine della ripresentazione, la ripresentazione stessa deve pur sempre essere presente di per sé affinché io possa acquisire l’immagine. Ma come può accadere questo, dato che proprio l’oblio cancella, secondo il suo senso, ciò che, in quanto notatum, sarebbe disponibile? «Et tamen [...] ipsam oblivionem [l’avere dimenticato] meminisse me certus sum, qua id quod meminerimus [ciò che vogliamo ripresentare] obruitur».135 h) Che cosa significa cercare? La memoria è «tanta vitae vis»,136 e io sono essa stessa. (Ti trovo «nella» memoria?). Che cosa devo fare, che cosa voglio? Dio – vera vita; «volens te attingere unde attingi potes, et inhaerere tibi unde inhaereri tibi potest».137 Devo superare la memoria. Non ce l’hanno forse anche gli animali (come il pesce e l’uccello)? «Habent enim memoriam et pecora et aves»,138 dato che cercano i loro covi e i loro nidi e tutto ciò a cui sono abituati. Solo grazie alla memoria, infatti, è possibile l’abitudine. «Transibo ergo et memoriam, ut attingam eum».139 Dove devo trovarti? Fuori, non nella memoria che mi accingo a superare? Allora però sono immemor tui – non memore.140 E come posso cercare, se non ti ho in qualche modo, se non so di te? (Non posso assolutamente dire che non ho qualcosa, quindi «ho», in qualche modo, anche Dio?). Che cosa significa allora «cercare»? La donna che cercò e trovò la dracma perduta, come avrebbe potuto cercarla e trovarla se non l’avesse in qualche modo avuta ancora presente? Se nella ricerca di qualcosa mi si offrono una quantità di cose diverse, e io rigetto ogni altra finché non «ho» trovato quella «giusta» che sto cercando, allora devo «avere» ciò secondo cui, e sulla cui scorta, misuro quello che va trovato, il cercato stesso. Perfino se il cercato fosse lì presente, ma io non lo riconoscessi come tale, esso non sarebbe trovato. (Essere trovato ≠ obiettivo –

pensato – esser-ci. Avere – avere disponibile lì dinanzi [vorfindlich haben]!). Se si cerca qualcosa che è sottratto alla vista, esso, nel cercare e nell’essere cercato, è presente per la memoria. (Cfr. il corso Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks, semestre estivo del 1920,141 «essere» = avere. – Avere in senso proprio = non avere perduto; avere in riferimento al poter perdere – nell’angoscia – possibilità – intenzionalità! – esserci – obiettivo – è un carattere configurativo teoretico, cui in effetti può mancare l’appropriazione effettiva, il che però significa che esso stesso non può essere utilizzato per determinare il senso della realtà effettiva) . Ma come stanno le cose se si deve cercare ciò che è sfuggito alla memoria, che non è in essa, che è dimenticato? Dove cerchiamo in tal caso? Nella memoria stessa!142 Eppure non c’è! O in parte c’è, in parte è sfuggito, sicché, per così dire, nella coscienza abbiamo ancora un resto che tentiamo di completare per eliminare in tal modo la mutilazione? (Se fosse sfuggito del tutto, anche un accenno al suo riguardo non servirebbe a nulla). Così accade ad esempio quando, incontrando una persona che ci è nota, ne ricordiamo il nome: tutti i nomi che si accalcano vengono respinti finché non si impone quello che siamo abituati a collegare con quella specifica persona. Tuttavia anche il dimenticato emerge dalla e nella coscienza, dunque non può esserle sfuggito del tutto. In effetti, quando parliamo di qualcosa di dimenticato, guardiamo rigorosamente al senso: «Neque enim omnimodo adhuc obliti sumus, quod vel jam oblitos nos esse meminimus. Hoc ergo nec amissum quaerere poterimus, quod omnino obliti fuerimus».143 (Nella coscienza dell’avere dimenticato, l’«avere dimenticato» è ancora presente, il che significa che l’oblio non è una privatio radicale della memoria, bensì ha il suo senso intenzionale del riferimento [intentionaler Bezugssinn]. Inteso in termini di riferimento: fintanto che abbiamo perduto qualcosa, ce l’«abbiamo» pur sempre ancora. – Che cosa significa però «omnino oblivisci»? Non vivere assolutamente

nell’attuazione della ripresentazione, non avere affatto a disposizione la direzione dell’accesso (Zugangsrichtung), essersi occlusi in proposito, ovvero essersi coperti in maniera tale da non vedere che in determinate direzioni del riferimento qualcosa è comunque ancora presente. Però non viene afferrato!). [Due domande:] 1. Che cosa significa propriamente «cercare»? 2. Che cosa mai cerco in senso proprio? Più precisamente: che cosa mi è ancora disponibile nel cercare? («Il fatto che» ce l’ho, «come» ce l’ho). Per che cosa mi do da fare, che cosa mi è sfuggito? (Anticipando: Dio in quanto vita vitae. Non c’è bisogno tuttavia che ciò abbia la sua concreta configurazione tradizionale, giacché, al contrario, ha propriamente un senso esistenziale del movimento [existenzieller Bewegungssinn]). Oppure, in quanto quale uomo, cui sono sfuggiti il «che cosa» e il «come» [...],144 esperisco me stesso? Ciò significa che nel cercare-Dio (Gottsuchen) qualcosa in me stesso non solo viene «espresso», bensì costituisce la mia fatticità e la mia cura al riguardo. (In base a che cosa riconosco, ossia colgo qualcosa come Dio? Che cosa dà il compimento di senso «sat est»? Vita). Ciò significa che nel cercare questo Qualcosa come Dio, io stesso vi compaio in un ruolo del tutto diverso. Non sono soltanto colui dal quale il cercare prende le mosse dirigendosi da qualche parte, oppure nel quale il cercare accade, giacché l’attuazione del cercare stesso è piuttosto qualcosa del cercare medesimo. Che cosa significa io «sono»? (Rientra nell’«acquisizione della “rappresentazione”» [«Vorstellungs» gewinnung] del sé che genere di rappresentazione ho di me stesso. Kierkegaard) . 10. Della «beata vita». Dal ventesimo al ventitreesimo capitolo a) Il «come» dell’avere la vita beata Domande poste finora: che cosa amo, quando amo te? In qua vi animae [ti] trovo? Devo superare la memoria, ma, d’altra parte, ciò che cerco, ciò che amo, dev’essere «nella» memoria. Per cercare, devo in qualche modo averlo. Che

cosa cerco dunque quando cerco Dio? «Cum enim te Deum meum quaero, vitam beatam quaero. Quaeram te ut vivat anima mea. Vivit enim corpus meum de anima mea, et vivit anima mea de te [vita vitae meae]».145 La tradizione non è (ovvero: non è del tutto) distrutta! Dunque la domanda quomodo quaero Deum si trasforma nella domanda quomodo quaero vitam beatam.146 (Agostino dà subito una risposta alla domanda: «Quid autem amo, cum te amo?»:147 beata vita. Questa risposta non deriva da quanto è stato detto prima. Tuttavia ciò motiva senz’altro la domanda riguardo al «come» del cercare. Il cercare, e soprattutto il cercare-Dio, si fa problematico! La domanda prende quindi la direzione di una teoria generale dell’accesso [allgemeine Zugangstheorie], che non è propriamente esistenziale in senso stretto. – Beata vita = vera beata vita = veritas = Dio. Come la cerco? In cambio, avere in qualche modo la beata vita secondo l’essenza, secondo il suo senso. E come ce l’ho?). Secondo quanto è stato stabilito riguardo al cercare e al trovare, ce l’«ho» solo quando posso dire: «Basta, è qui».148 Ora, il cercare può essere tale che «per recordationem [...] oblitumque me esse adhuc teneam»,149 vale a dire come se una volta l’avessi in qualche modo avuta, solo che però l’ho perduta, ma perduta in maniera tale che so ancora di avere perduto e, quindi, so parimenti ancora in qualche modo di ciò stesso che ho perduto. Oppure, viceversa, non l’ho assolutamente mai avuta e la cerco «per appetitum discendi incognitam».150 («Cercare la vita», «cura per la vita»). «Nimirum [in verità, senza dubbio] habemus eam nescio quomodo».151 «Volere vivere» – vita beata: è qualcosa che «omnes volunt, et omnino qui nolit nemo est».152 È vero che il modo dell’avere è differente. Alcuni sono beati soltanto se la possiedono completamente (se la «hanno» in senso proprio), altri lo sono già nello sperare, ossia ce l’hanno sperando. Quest’ultimo è un inferiore modo, uno stadio di valore inferiore dell’avere – ovvero del beatus esse –, che però è pur sempre ancora superiore al modo di coloro che

«nec re nec spe beati sunt».153 Anche costoro vogliono certamente essere felici, e lo possono soltanto se in generale intendono in qualche senso la beata vita. Appurare come essa sia presente, e in quale forma la beata vita sia avuta da costoro, costituisce lo sforzo instancabile di Agostino. In questo momento egli non vuole stabilire nulla riguardo a come noi tutti l’abbiamo ricevuta o perduta, poiché gli interessa solo appurare se essa sia nella memoria. Se è così, sorge l’ulteriore domanda: in che modo è presente la beata vita, com’è esperita e vissuta? (Agostino cerca in modo radicale? No, egli si mantiene nel contempo all’interno di una considerazione dell’ordine e del quadro, entro il senso del riferimento che fa rispettivamente da guida. – Greco [...],154 «cattolico». – In termini di fondazione mediante vocazione alla diffusione universale, e quest’ultima del tutto in termini di presupposizione e, per di più, secondo un orientamento conforme all’atteggiamento! Sapere obiettivo!) . Già in precedenza è apparso chiaro che, per quanto variamente compiute possano essere le modalità in cui la beata vita è avuta, tutti la vogliono («generalmente diffusa», «ognuno» ce l’ha), e noi la vogliamo perché l’amiamo; e possiamo amarla solo se ne abbiamo anche in qualche modo una conoscenza. E per quanto varia possa essere l’espressione linguistica per beata vita, tutti, al di là di tale varietà, comprendono un identico senso e ammettono di volerla. Ciò non sarebbe possibile se questo oggetto di desiderio non fosse in qualche modo presente nella memoria. (Comprensione della parola, del discorso. Senso esistenziale. Il fatto che sia generalmente presente, e come lo sia) . La beata vita è dunque avuta come presente nello stesso modo in cui è presente la città di Cartagine, ossia nel senso che chiunque l’abbia vista una volta di persona adesso se ne ricorda? Evidentemente no.155 Cartagine, infatti, è stata percepita con i sensi, ma ciò non vale per la beata vita, che non è una cosa materiale che ha come suo modus genuino e peculiare di accesso il percepire sensibile. La beata vita non

è sensibile, è qualcosa di non sensibile. Di tal genere sono per esempio i «numeri». La beata vita è presente nello stesso modo in cui sono avuti i numeri? No, i numeri sono presenti di per sé: non è che ci si limiti ad aspirare alla loro acquisizione. Per contro: «vitam [...] beatam habemus in notitia, ideoque amamus eam, et tamen adhuc adipisci eam volumus ut beati simus».156 (Tramite l’esplicazione del «come» dell’avere bisogna appurare al tempo stesso che cosa essa sia conformemente alla già appurata modalità dell’accesso e dell’avere. Degno di nota è il primato del senso del riferimento, ovvero del senso dell’attuazione. – Che cosa essa è: questa domanda spinge a indagare come essa sia avuta. La situazione dell’attuazione, autentica esistenza. – Appropriarsi dell’«avere» in modo tale che l’avere diventi un «essere») . Essa è dunque presente in maniera tale che «ne abbiamo conoscenza», ma, proprio per questo, adesso vogliamo averla anche realmente. Non è forse così, ad esempio, con l’eloquenza? Sappiamo che cos’è, e coloro che non ce l’hanno vogliono possederla. In questo caso, però, il modo in cui ne abbiamo acquisito la notitia consiste nell’avere percepito sensibilmente altri che la possiedono e nell’averne gioito. Anche la conoscenza, qui, l’abbiamo ricavata tramite i sensi e da altri uomini. Entrambe le possibilità non valgono per la beata vita. Agostino ci offre qui un notevole inciso: «quamquam nisi ex interiore notitia [Er. et Lov. habent, in exteriore notitia] non delectarentur, neque hoc esse vellent nisi delectarentur».157 Per quanto ne traggano gioia soltanto in base a una notizia esteriore, non la vorrebbero se, in genere, non gioissero. (Ciò significa che, nell’esempio, si dice soltanto che, e come, esperiamo un determinato «che cosa» di cui gioiamo. Ma il gioire come tale? Rinvio radicale al sé, fatticità autentica. – Qualcosa che di per sé non può affatto essere assunto da altri) . In questo caso il voler gioire (ovvero il volersi allontanare dalla sofferenza) è l’autentico motivo: avere la gioia. In definitiva, abbiamo la beata vita nella memoria come una

gioia? Fortasse ita. Nel corso dell’analisi, infatti, bisogna dire: la mia gioia non l’ho mai vista, udita, odorata, gustata o tastata sensibilmente, «sed expertus sum in animo meo quando laetatus sum».158 (La beata vita è forse presente nel voler gioire? Nella modalità della gioia? È il voler gioire il motivo dello sforzo e dell’affaccendarsi? Il modo in cui la beata vita è sempre presente in qualche maniera: «delectatio finis cura»159). Inoltre, la gioia è tale che posso averla presente anche se sono triste, e ciò significa che se la beata vita è fatta presente in questo modo, non ho bisogno di essere già beatus; al contrario, posso averla anche in quanto «miser», nella miseria (esistenziale): «tristis gaudium pristinum recolo».160 (Che cos’è allora la gioia? Uno stato psichico. Dunque la beata vita sarebbe un essere psichico!? Cfr. cap. 25!). Ora, quando e dove ho esperito la beata vita in modo tale che soltanto come gioia posso ripresentarla e averla presente per amarla e desiderarla? Agostino ha la risposta: «Nec ego tantum, aut cum paucis, sed beati prorsus omnes esse volumus. Quod nisi certa notitia nossemus, non tam certa voluntate vellemus».161 Poiché è effettivamente certo che noi tutti la vogliamo, dobbiamo anche averne una conoscenza sicura. Che questo volere sia certo è dimostrato anche dal caso estremo in cui l’uno vuole il contrario di ciò che vuole l’altro. Per lo stesso e medesimo motivo l’uno vuole «servire» (militare) e l’altro no: «si autem ab eis quaeratur, utrum beati esse velint, fieri possit ut uterque statim se sine ulla dubitatione dicat optare [...]. Nam forte quoniam alius hinc, alius inde gaudet [...]. Quod etsi alius hinc, alius illinc assequitur, unum est tamen quo pervenire omnes nituntur ut gaudeant».162 «Atque ipsum gaudium vitam beatam vocant».163 Nessuno può dire di non avere mai esperito in sé qualcosa del genere, dunque ne ha una conoscenza. (I motivi concretamente effettivi sono a prima vista diversi, contrapposti, ma in realtà si tratta della stessa cosa. «Ut

quisque gaudeat» è decisivo!). E ora Agostino, dinanzi a Dio, allontana da sé l’idea che già ogni gioia esperita sia la gioia genuina, la beata vita. «Est enim gaudium quod [...] datur [...] eis qui te gratis [spontaneamente] colunt [...]. Et ipsa est beata vita gaudere ad te, de te, propter te [per te, di te, a causa di te]; ipsa est, et non est altera. Qui autem aliam putant esse, aliud sectantur gaudium, neque ipsum verum. Ab aliqua tamen imagine gaudii voluntas eorum non avertitur».164 Non è quindi affatto scontato che tutti desiderino la beata vita genuina, anzi: «cadunt in id quod valent, eoque contenti sunt».165 Essi cadono in ciò che loro stessi sono in grado di fare, che è loro direttamente disponibile, nelle significatività del mondo e del sé che si rendono loro comodamente raggiungibili, relative al mondo-ambiente o di altro genere. (Indicata formalmente, la beata vita in quanto tale e riguardo al «come» del suo esserci è una sola. In senso proprio qui si tratta del singolo, di come egli se ne appropria. Ce n’è una sola genuina; e quella, di nuovo, e proprio essa per il singolo. Cfr. il percorso delle esplicazioni seguenti). Ciò che invece non è direttamente a loro disposizione, e non è semplicemente lì a portata di mano, «non tantum volunt, quantum sat est ut valeant»,166 non lo vogliono poi così tanto, non lo fanno oggetto della loro volontà nella stessa misura, non se lo pongono di fronte da sé, in quanto «possibilità», in modo sufficiente per potersene appropriare. Se ne curano talmente poco che esso – il quale appunto solo nella cura diventa oggettuale nella sua modalità genuina – non è affatto presente in senso autentico. (Si tratta dunque di qualcosa che è presente solo in un contesto autentico dell’attuazione. Esso deve – in termini esistenziali – essere aperto con forza, non però per mettere mano al contenuto in modo conforme all’atteggiamento, bensì nel contesto specificamente articolato ed effettivamente storico dell’attuazione). b) Il gaudium de veritate

In un certo senso, per esempio, tutti vogliono la verità; antepongono la veritas alla falsitas (errore), e ciò accade con la stessa facilità e spontaneità con cui vogliono la vita beata. (C’è un nesso con il normale velle gaudere: gaudium de veritate. «Generalità», normalità – da intendersi in termini storici effettivi, a uno stadio determinato della vita effettiva. «Generalità» è un senso genuino, influenzato solo dalla filosofia greca, che va riportato nell’unità storicoesistenziale). «Beata quippe vita est gaudium de veritate».167 Questa gioia l’hanno provata là dove, nella loro vita, è capitato loro di incontrare in qualche modo la verità. E dove, in che maniera, incontrano la verità? Esattamente là dove non vogliono essere ingannati. In effetti, molti uomini mirano a ingannare gli altri, però non vogliono essere ingannati a loro volta. In questo «non voler essere essi stessi ingannati» (selbst-nicht-getäuschtwerdenwollen), in questo sforzo di sottrarsi a tale eventualità, sono guidati da un senso della verità. Ovviamente non la amerebbero, né la potrebbero amare, e nemmeno ne gioirebbero, «nisi esset aliqua notitia ejus in memoria eorum».168 (Nel rifiutare e nel non volere l’inganno tengono ferma la veritas: la ripulsa si attua di per sé nella delectatio veritatis. «Amant enim et ipsam, quia falli nolunt».169 – Veritas è vera beata vita: «veritas»). c) La veritas nella direzione del decadimento Gioiscono dunque in qualche modo della verità e si danno da fare per essa. Perché mai allora, nonostante ciò, non sono nella beata vita, ossia in quella vita genuina che tu stesso, Dio («Veritas»), sei? «Cur ergo non de illa gaudent?».170 Perché non hanno viva dentro di sé la gioia corrispondente a una veritas siffatta? «Quia fortius occupantur in aliis».171 Ciò a cui sono totalmente consacrati nel loro affaccendarsi, le furfanterie a cui si abbassano, li rendono di gran lunga ancora più miseri («potius miseros»: li sprofondano sempre più nella perdita della beata vita) di quanto ciò che è presente tenuiter172 nella memoria – l’«in qualche modo» (das Irgendwie) della verità – li possa rendere beati. «Adhuc

enim modicum lumen est in hominibus»,173 c’è ancora un minimo di «luce». (Il termine «lumen» ha qui un senso esistenziale dell’attuazione completamente determinato nell’esperire effettivo relativo al mondo del sé, e non deve essere inteso in senso cosale-metafisico [dinglichmetaphysisch]). Ma da che cosa dipende allora il fatto che – laddove in apparenza il darsi da fare per la verità è qualcosa di agevole, che è presente da sé (in modo naturale) – la verità autentica non è amata, bensì odiata? «Cur autem veritas parit odium, et inimicus eis factus est homo tuus verum praedicans [...]?».174 Nella vita effettiva gli uomini, in qualche modo, presagiscono qualcosa nella giusta maniera, vivono in esso e per esso come se fosse alcunché di significativo. Nella misura in cui il «vivere» e l’esperire sono già un essere totalmente consacrati a esso, un abbandonarsi a esso, questo alcunché è e diventa nel contempo ciò che dà compimento al darsi premura per la verità. «Hoc quod amant velint esse veritatem»;175 ciò che è amato in quel momento – un amare in cui si cresce mediante la tradizione, la moda, la comodità, l’angoscia di fronte all’inquietudine, il timore di trovarsi improvvisamente nel vuoto – diventa, proprio in e con questo decadimento dell’attuazione, esso stesso «verità». La verità stessa e il suo senso sono coinvolti in questa modificazione: si arretra non solo dinanzi al vuoto, ma tanto più e primariamente dinanzi al «movimento» verso di esso. (Veritas176 nella direzione del decadimento, però là è ancora presente il residuo «genuino» dell’assicurare; non c’è affatto bisogno che esso si consolidi in «custodia» [Gehäuse], poiché questo è solo un aspetto di contenuto e non coglie l’elemento decisivo. Posso vivere nella «custodia» senza che ce l’abbia, anzi, proprio se della costruzione della custodia e del suo smantellamento faccio un processo, ho stabilito la fine in termini di custodia [gehäuseartig]. «Custodia», un senso dell’attuazione e del riferimento. – Jaspers non può parlare di «intero», «vita», «processo» e di quanto egli intende con

ciò, indipendentemente dal nome). Da qui non vogliono lasciarsi stanare, con la motivazione, per loro in un certo senso genuina, di non voler essere ingannati, ossia di non essere per così dire «sfrattati» (weggeholt) da ciò che hanno come verità. Una premura, invero non assimilata in modo genuino e radicale (decadimento!), per la verità li mantiene nell’errore. (Quanto poco ciò dipenda dal «che cosa» del contenuto: tutto sta nel «come»). «Amant eam lucentem, oderunt eam redarguentem».177 Essi la amano178 se viene loro incontro rilucendo,179 in vista di un comodo, estetico gioire di essa, come per ogni splendore da cui ci si può lasciar catturare per riposarsi; però la odiano se li incalza da vicino. Quando essa li riguarda e li scuote, mettendo in questione la loro propria fatticità ed esistenza, allora è meglio chiudere in tempo gli occhi sulla verità, per entusiasmarsi con le litanie corali messe in scena dinanzi a sé.180 È indubbio quindi che gli uomini desiderino che la «verità» diventi loro manifesta, e nulla si nasconda loro (dal punto di vista estetico), eppure essi stessi si occludono a tale eventualità: «ab ea manifestari nolunt».181 Ma che cosa ottiene l’uomo in tal modo? Ottiene che la verità gli rimanga nascosta, benché egli stesso non lo sia al suo cospetto. Tuttavia la sola cosa che va compresa adesso è questa: anche in tale occludersi nei confronti della verità, l’uomo ama la verità più dell’errore, e in tal modo si dà da fare per la beata vita. Ora, l’autentica beata vita l’avrà soltanto colui che sine interpellante molestia,182 cioè senza molestia (Beschwernis), senza ciò che lo tira indietro, senza una caparbietà non genuina, conveniente e che dissimula se stessa, ama «la» veritas sola, «per quam vera sunt omnia».183 Beata vita è gaudium, e più precisamente gaudium de veritate, quest’ultima intesa come esistenzialmente riferita alla vita beata. (Sulla via della veritas c’è però al tempo stesso l’irruzione della filosofia greca).

11. Il «come» del domandare e dell’udire. Dal ventiquattresimo al ventisettesimo capitolo Cercando ciò che ama quando ama Dio non ha trovato nulla extra memoriam. («Extra» in un senso duplice: 1) in quanto il cercare e il trovare sono in genere nella memoria; 2) in quanto la beata vita stessa, come obietto, non è un extra. – Tuttavia Dio non è a sua volta nulla di psichico). Ciò che ha trovato di Lui (in qualche modo la verità) è tale nella memoria, ciò che egli si ripresenta in essa, ex quo didicit, a partire da cui, da quando egli didicit.184 «Ubi enim inveni veritatem, ibi inveni Deum meum ipsam veritatem».185 Quindi, poiché la verità è qualcosa che ho nella memoria e che è accessibile nella memoria come tale, è là che trovo Dio, «cum reminiscor tui et delector in te»,186 ogni volta che sono memore di te e gioisco di te. (Dunque Dio è già presente in qualche modo, sia pure soltanto tenuiter).187 Tu, Dio, fai alla memoria l’onore di dimorarvi. Ma «in qua ejus parte maneas, hoc considero».188 Non ti ho trovato nelle ripresentazioni dei corpi fisici, e nemmeno «ubi commendavi affectiones animi mei»,189 nel luogo a cui ho affidato i miei stati d’animo e i miei sentimenti vissuti. E non eri nemmeno là dove l’anima ha se stessa, «quoniam sui quoque meminit animus».190 Non sei neppure una «affectio viventis, qualis est cum laetamur, contristamur, cupimus, metuimus, meminimus, obliviscimur, et quidquid hujusmodi est; ita nec ipse animus es, quia Dominus Deus animi tu es».191 (Dominus Deus animi: dunque neanche semplicemente un obietto particolare. Agostino rinuncia a caratterizzare in termini regionali che cosa significa «Dominus»).192 «Et commutantur haec omnia, tu autem incommutabilis manes super omnia».193 Non sei qualcosa come l’anima, però «habitas certe in ea»,194 benché là non vi sia qualcosa come «luogo» e «spazio», e non abbia senso domandare del «dove». (Questo stesso elemento oggettuale inteso come esperienza vissuta e contesto dell’esperienza vissuta non può essere Dio: non ha affatto il senso ontologico [Seinssinn] del summum bonum. Cfr. delectatio).

Eppure da qualche parte devo averti esperito, da qualche parte devi essere giunto nella memoria: «inveni te [...] in te supra me».195 Ubique, veritas: in ogni esperire, qualsiasi cosa sia esperita e chiunque la esperisca. Molti ti interrogano chiedendo di altre cose, e tu rispondi. (Tu ci sei per ognuno, e ognuno può parlare con te, può stare dinanzi a te). «Liquide tu respondes, sed non liquide [in modo chiaro, limpido, puro, genuino] omnes audiunt [audire: 196 «comprendere», ossia modo dell’attuazione]». Oppure, in blasfemie a buon mercato, ti si fa obietto di intuizioni essenziali – cosa di qualche lunghezza ancora peggiore delle prove dell’esistenza di Dio criticate con sufficienza –, recitando a tue spese la parte dei rinnovatori religiosi. Tutto dipende dall’udire in modo autentico, dal come dell’atteggiamento interrogativo, del voler udire. Non è che in genere ci si limiti a speculare su di te seguendo una comoda curiosità. Tutti traggono consiglio là da dove vogliono qualcosa, però non sempre odono ciò che davvero vogliono. Prendono per autentico ciò per cui si danno premura in quel momento, senza porsi domande, cioè vogliono udire qualcosa a quel proposito. Ciò significa che in fondo non sono affatto in grado di udire, ossia di mantenersi aperti; sono solo ansiosi di apprendere ciò che fa loro «comodo» e non sanno trasformare ciò che odono in ciò che, forse, non fa loro «comodo», ma di cui devono davvero preoccuparsi. (La domanda «dove trovo Dio?» è ribaltata nella discussione delle condizioni dell’esperienza di Dio, che confluisce nel problema «chi sono io stesso?», di modo che alla fine sussiste la medesima «questione», solo in un’altra forma dell’attuazione). Con il «domandare» e l’«udire» non si approda a nulla se non ci si appropria genuinamente del loro «come». Lo stesso Agostino ammette: «Sero te amavi»,197 tardi sono giunto nello stadio della vita effettiva in cui mi sono messo in condizione di amarti. («Amavi» – contesto di senso dell’attuazione: «Nemo quippe vivit in quacumque vita, sine tribus istis animae affectionibus, credendi

[afferrare fiduciosi, fissare in qualche modo una fine], sperandi [aspettando, mantenendosi aperti per], amandi [dedizione amorevole, ritenere prezioso]») .198 «Et in ista formosa quae fecisti, deformis irruebam»,199 in verità mi gettavo sul mondo e sulle cose formosa (dalle belle forme), che suscitano impressione e annunciano qualcosa di significativo, sicché tutto ciò mi catturava, e il mio voler conoscere si estenuava con esso; però deformis irruebam: io stesso non ero in quella forma, non avevo quell’essere che è l’essere genuino di un sé. «Tetigisti me, et exarsi in pacem tuam».200 12. Il «curare» (essere preoccupato) come carattere fondamentale della vita effettiva. Ventottesimo e ventinovesimo capitolo a) La dispersione della vita «Deformis» è la mia vita. – Non per scusarsi, bensì proprio per allontanarsi da sé senza alcun riguardo e per conquistare se stesso da questa inesorabile distanza, Agostino si chiarisce ora che la «vita» non è una passeggiata ed è senz’altro l’occasione meno adatta per darsi arie di importanza. «Oneri mihi sum».201 La vita è tale che il senso (costitutivamente esistenziale) dell’attuazione dell’attendente, aprente «mantenersi aperti per» (sichoffenhalten-für) può essere solo «tota spes [...] non nisi in magna valde misericordia [Dei]»202 (speranza per disperazione!). E questa misericordia corrisponde esattamente alla miseria di questa vita: è uno iubere – iubes continentiam (iubere: «directio» cordis, cogitationis, delectationis – finis curae! – Cfr. «Et diriges justum, scrutans corda et renes Deus»).203 Infatti, «in multa defluximus»,204 ci dissolviamo (zerfließen) in molteplici cose e siamo completamente assorbiti nella distrazione (Zerstreutheit). Tu esigi la reazione contro la dispersione (Zerstreuung), contro il cadere in pezzi della vita. «Per continentiam quippe colligimur et redigimur in unum [necessarium – Deum?]».205 In questo decisivo sperare vive il genuino darsi da fare

per la continentia, che non giunge alla fine. (Non «continenza» [Enthaltsamkeit] – qui va perduto proprio il senso positivo –, bensì «tenere unito» [zusammenhalten], strappare alla defluxio, diffidare di essa). Voi che siete autenticamente continens, «cogitet quid sibi desit, non quid adsit».206 E ci sarà sempre qualcosa quid desit, poiché la vita non è propriamente nient’altro che una costante tentazione. «Numquid non tentatio est vita humana super terram sine ullo interstitio?».207 Bisogna intendere in modo più preciso questo carattere fondamentale in cui Agostino esperisce la vita effettiva – la tentatio – per poi, in base a ciò, comprendere in che senso colui che vive in una tale chiarezza e a un tale stadio di attuazione sia necessariamente un peso per se stesso. «Tolerari iubes»: «molestias et difficultates»;208 le molestie e le difficoltà non vanno soltanto sopportate, ma affrontate come tali, il che tuttavia non significa amarle – in fondo trasformando le difficoltà in un piacere,209 sacrificandosi a esso –, bensì porsi nei loro confronti in maniera tale che il tolerare stesso rimanga l’elemento decisivo. «Nemo quod tolerat amat, etsi tolerare amat».210 Il tolerare circoscrive un contesto peculiare di attuazione, che non è posto in opera isolatamente, bensì cresce da e si muove in una direzione caratteristica fondamentale della vita effettiva, nella quale anche la tentatio trova al tempo stesso il suo senso e la sua motivazione, e in base alla quale diventa comprensibile in che senso si «danno» molestiae e difficultates. b) La conflittualità della vita L’«in multa defluere» è un orientato essere attratti dalla e nella delectatio: la vita mondana nella sua molteplicità di significatività (Bedeutsamkeitsmannigfaltigkeit) – è così che va inteso il «multum» – alletta. (Cfr. sopra, p. 256: «cadunt» e la reazione esistenziale. – Multum è il molteplice, unum è il proprio; cfr. Aristotele: oὐσία – τoδε τι). Nel defluxus la vita effettiva si forma da sé e per sé una direzione del tutto determinata delle possibili situazioni che

si attende implicitamente nel defluxus stesso: delectatio finis curae. Ora, nel contesto storico effettivo della vita questo curare ha un senso del riferimento mutevole.211 Esso si attua come timere e desiderare, temere (indietreggiare di fronte a) e desiderare (prendere per sé, darsi a e prodigarsi per). Il multum è il molteplice, le molte significatività in cui vivo. Tali significatività sono ora prospera (giovevoli, salutari, piacevoli; ciò significa promuovere, portare nella direzione della significatività), ora adversa (frenanti, decorrenti in senso contrario a ciò a cui si aspira). Ora, se io esperisco212 adversa, questo esperire non è semplicemente un constatante «prendere conoscenza» di cose, giacché, al contrario, «prospera in adversis desidero».213 Questo desiderare, che è con-presente (mit da ist), indica che l’esperire adversa è di per sé collocato in uno specifico orizzonte di attesa (Erwartungshorizont) effettivamente concreto. Esso si attua storicamente in un senso determinato.214 Questo «essere con-presente» (mitdasein) non è incollato, bensì determinato con il senso del fenomeno dell’esperire adversa (nella misura in cui, ovviamente, l’esperire è cura e ha aliquid delectationis. Io esperisco qualcosa che decorre in senso contrario solo in quanto io stesso vivo in una delectatio, cura prosperorum). E «adversa in prosperis timeo».215 Di nuovo, nell’accogliere e nell’acquisire ciò che è propizio, è presente al tempo stesso il timore di ciò che frena.216 Ancora una volta la vita effettiva è nello storico. Il sé è accolto all’interno di un esperire storico, benché spesso lo sia solo «debolmente». – Motivo fondamentale: lo storico nella cura stessa. Ora, se a questa peculiare compresenza dei diversi sensi del riferimento della cura (Bekümmerungsbezugssinne) nell’esperienza effettiva della vita, ovvero nel suo affaccendarsi, diamo il nome di «conflittualità» (Zwiespältigkeit), tale concetto rimane obiettivamente caratterizzante, utilizzabile finché non pretende di fornire il senso autentico del fenomeno. Un «primo» accompagnarsi conflittuale (zwiespältig) di

timor e desiderium (cupiditas)217 reca a sua volta in sé nuove [conflittualità], e si avrebbe qui il terreno dato per antitesi dialettiche, ossia per un modo di sbrigare con la facilità di un gioco faccende che non sopportano un simile approccio. Ora, queste stesse esperienze preoccupate (bekümmert) non si limitano a essere presenti, per così dire, in un flusso psichico, bensì sono di per sé avute nell’esperire – (questo essere-avute [gehabtwerden] è il loro «essere»)218 – non in una mera constatazione che prende conoscenza teoretica, ma anch’esse in una cura:219 in quanto flendum o laetandum, in quanto malum o bonum, dunque in modo tale che non solo l’essere con-presenti di desiderium e timor comporta una conflittualità, ma che questo stesso elemento conflittuale è a sua volta esperito conflittualmente in ciascuna delle sue direzioni, il desiderium in quanto flendum o bonum, maeror in quanto laetandum o malum. E la domanda è proprio questa: in quale modalità di cura vanno attuate queste esperienze preoccupate? Secondo il loro senso peculiare – la finis curae delectatio – tali esperienze trascinano verso una determinata modalità di attuazione. Non si tratta soltanto di insicurezza, bensì del pericolo di cedere alla «corrente» e di cadere nel non genuino. L’attuazione dell’esperienza è di per sé sempre nell’insicurezza. Nel contesto dell’esperienza non c’è in nessun caso un medius locus in cui non siano presenti al tempo stesso le possibilità contrarie, al punto che Agostino deve dire: «ex qua parte stet victoria nescio»220 (dove in definitiva vada a finire la propria vita).221 Si scopre così una diabolica lacerazione (Zerrissenheit) nell’esperire come tale. «Ecce vulnera mea non abscondo»,222 vedi, non nascondo le mie «piaghe». Ricollegandosi a Sap, 8, 21 Agostino definisce già prezioso capire che la continentia per propria forza è un’impresa disperata e che essa, se in qualche modo va «avuta», dev’essere data. Tuttavia non si vede ancora con chiarezza quale nesso vi sia fra questa lacerazione e il fenomeno della tentatio, in che senso cioè la vita sia tota tentatio sine ullo interstitio.

Inoltre, nei capitoli successivi, e fino alla fine, Agostino tratta soltanto tale questione? Essa si fa comunque anche per lui sensibilmente più difficile. L’analisi procede in modo più stentato e incostante, e Agostino ha bisogno della più mobile delle dialettiche per cogliere ciò che egli – con l’interrogare che comprende senza remore l’imperscrutabile – trae fuori dall’oscurità psichica, e per coglierlo in maniera tale che confluisca nella direzione fondamentale delle sue Confessioni e del decimo libro in particolare. Con troppa superficialità si scambiano le considerazioni successive per mere riflessioni cavillose di un pedante «moralista», oppure ci si perde in singole bizzarre analisi psicologiche. In entrambi i casi si è smarrita l’autentica direzione del comprendere. È inevitabile vedere questi capitoli nel contesto dell’autentica questione – il cercare Dio – e nel contempo illuminarla in base a essi. Ma anche questo comporta non poche difficoltà, e l’interpretazione – seppure nello stadio autentico di attuazione –, in quanto così presentata in termini relativi al mondo degli altri, ha il solo scopo di far cozzare contro le difficoltà; e anche in questo caso sussiste una limitazione essenziale nella misura in cui l’interpretazione è fenomenologica e non teologica. La differenza e la connessione fra le due interpretazioni può essere stabilita non in termini epistemologici, bensì «storici». Agostino stesso vede chiaramente che le sue considerazioni non possono risultare senz’altro compiute e comprensibili: «Ecce ubi sum: flete mecum, et pro me flete, qui aliquid boni vobiscum intus agitis unde facta procedunt. Nam qui non agitis, non vos haec movent».223 Domanda: Numquid non tentatio est vita humana?224 13. La prima forma della «tentatio»: «concupiscentia carnis». Dal trentesimo al trentaquattresimo capitolo a) Le tre direzioni della possibilità di defluxio Riguardo alle particolari condizioni per comprendere in modo autentico i capitoli successivi Agostino ha le idee

chiare: Nam qui non intus agitis aliquid boni, non vos haec movent. Fintanto che non agitis in voi stessi – ciascuno per sé in qualche modo preoccupato per il bene in maniera conforme all’attuazione – e non avete il bene solo in una tendenza immaginata e nel desiderio, bensì vi date da fare per esso imponendovi concretamente, ciò non vi muoverà, non vi riguarderà e non vi interesserà. Questa espressa evidenziazione di una condizione essenziale del comprendere agisce in termini dissimulati e inespliciti già nell’esposizione concernente la generale diffusione del delectari e dell’aspirazione alla vita beata.225 Non si tratta per così dire di cominciare anzitutto dall’infonderla, ma soltanto di imbattersi in essa, di evidenziarla e coglierla autenticamente in modo conforme all’attuazione. Lo iubere è iubere continentiam et iustitiam. Duces iustum. – Il concetto di iustitia e la sua comprensione autentica vanno lasciati da parte, così come le difficoltà di Paolo e di Lutero e, a partire di là, a maggior ragione, i nuovi problemi teologici, cioè al tempo stesso propriamente esistenziali. – Dobbiamo limitarci ora a prendere in esame ciò a cui la continentia si riferisce e che cosa essa concerne. Le tre direzioni del defluere, della possibilità di defluxio e del pericolo. («Pericolo» inteso in questo caso non in termini obiettivi). Dall’esterno sembra che Agostino ci voglia offrire una comoda classificazione delle differenti direzioni della concupiscentia, «concupiscenza» (Begierlichkeit). Concupiscere: desiderare-insieme (zusammen-begehren); anche qui si ha una concentrazione, tale però che in essa ciò che concentra è proprio il mondano-«obiettivo» (das «Objectiv»Weltliche) e il sé è attratto al suo interno. Secondo il suo senso, e finché rimane la sola, una classificazione non è la modalità di coglimento adatta ai fenomeni della concupiscentia. Lo si vedrà: sembra una piacevole disarticolazione di sfondi psichici; ma è improbabile che negli anni in questione Agostino abbia avuto «tempo» di dedicarsi a una simile occupazione. Agostino compie la sua «suddivisione» (come diciamo

provvisoriamente) sulla scorta di 1 Gv, 2, 15-17: µη ἀγαπᾶτε τoν κoσµoν µηδε τὰ ἐν τῷ κoσµω. ἐάν τις ἀγαπᾷ τὸν κόσµoν, oὐκ ἔστιν ἡ ἀγάπη τoῦ πατρὸς ἐν αὐτῷ ὅτι πᾶν τὸ ἐν τῷ κόσµῳ, ἡ ἐπιθυμία τῆς σαρκὸς καὶ ἡ ἐπιθυµία τῶν ὀφθαλµῶν καὶ ἡ ἀλαςoνεία τoῦ βίoυ, oὐκ ἔστιν ἐκ τoῦ πατρὸς ἀλλὰ ἐκ τoῦ κόσµoυ ἐστίν. καὶ ὁ κόσµoς παράγεται καὶ ἡ ἐπιθυµία αὐτoυ, ὁ δὲ πoιῶν τὸ θέληµα τoῦ θεoῦ µένει εἰς τὸν αἰῶνα.226 1) concupiscentia carnis; 2) concupiscentia oculorum; 3) ambitio saeculi. Agostino non caratterizza questi fenomeni solo in termini obiettivi – ossia come fenomeni che in qualche modo accadono –, ma la sua esposizione si mantiene sempre nell’atteggiamento della confessio: egli cioè confessa come «da» e «in» tali fenomeni gli vengano tentazioni, e come si comporti (o tenti di comportarsi) nei loro confronti. (Confiteri: interpretazione, intesa qui in un «come» del tutto determinato!).227 b) Il problema dell’«io sono» Agostino non considera la bramosia dei sensi strettamente intesa, la vita pulsionale sessuale, con un atteggiamento teoretico biologico-psicologico, bensì in base ai caratteri in cui egli l’ha esperita e la esperisce di fatto, cioè in base al «come» e al «quando» del suo accadere concreto: malitiae diei et noctis («quotidianità»). È vero che egli ha risposto alla richiesta di Dio, cioè al compito del concubitus, e, ancor più, ha afferrato il consiglio scegliendo il celibato. «Sed adhuc vivunt in memoria mea, de qua multa locutus sum, talium rerum imagines, quas ibi consuetudo mea fixit; et occursant mihi vigilanti quidem carentes viribus».228 Nel sonno e in sogno prendono invece il sopravvento su di me. «Numquid tunc ego non sum [...]?».229 Che ne è del mio essere? (Il problema è l’«io sono». Vale a dire: che ne è dell’«io sono», che cos’ è l’«io sono» in senso proprio? Vita – quaestio. – Viceversa, quando sono sveglio, quando cioè non hanno alcun potere, «sono io». Il mio «essere» si determina in qualche modo in base al senso dell’avere a che fare [umgehen] e del venire a capo

[fertigwerden]. – Sum = sono – esistenza –; quest’ultima attratta all’interno di un essere e di un mutamento dell’essere, sicché proprio in virtù di tale differenza [Unterschied] l’esistenza potrebbe modificarsi, eppure non ne ha bisogno). Durante la veglia, se ho a che fare con le tentazioni, sono in grado di resistere addirittura e proprio quando esse mi sollecitano fisicamente. Nel sonno e in sogno, invece, divento loro schiavo, benché siano presenti soltanto le «immagini». Forse che, con gli occhi, si chiude anche la ratio, ossia la possibilità del libero decidere, valutare, prendere posizione e scegliere? E come può mai accadere, invece, che anche in sogno manteniamo per così dire saldi i nostri propositi, gli orientamenti di scelta e di comportamento assunti, resistendo alle tentazioni? «Et tamen tantum interest inter meipsum et meipsum, intra momentum quo hinc ad soporem transeo, vel huc inde retranseo!».230 Si tratta di una differenza, di una distanza, di una diversità tra passaggi. (Eppure in ogni «tra» [«Zwischen»] c’ è ancora in qualche modo uno «stesso» [«Dasselbe»]; transire – retransire – «sum» – questo svela: «fatticità»). Tuttavia questa differenza non è soltanto tale che «io» in situazioni diverse mi comporto in modi diversi, ma proprio grazie a essa esperisco che – in sogno per esempio – mi sono comportato in questo o quel modo, e che in senso proprio non ero io stesso lì presente, sicché «evigilantes ad conscientiae requiem redeamus; ipsaque distantia reperiamus nos non fecisse, quod tamen in nobis quoquo modo factum esse doleamus».231 Proprio nel «passaggio» facciamo, riguardo a noi stessi, un’esperienza sorprendente: c’è qualcosa quod nos non fecimus, che non è attuato da noi, quod in nobis factum est, e che purtuttavia accade (è successo) a noi e in noi, in maniera che ne siamo in qualche modo rattristati – qualcosa che è in noi, che noi stessi «siamo» eppure non siamo. – Concetto di molestia. – Va considerato in quali contesti di esperienza, quindi appartenendo a quali contesti, questa «differenza» (sg.) si

gonfia [?] («nella coscienza»). In base a ciò che si è esperito, già ora è possibile vedere che non c’è semplicemente una cosa accanto all’altra. Con «duplicità», «scissione» e simili non è detto nulla se non il modo in cui a partire di là si determina il me ipsum, il mio essere me stesso nella sua piena fatticità. Ciò significa che diventa necessario prendere le esperienze e le esperienze oniriche (Traumerfahrungen) non come «processi», bensì nel loro pieno «come» effettivo, in cui io ho e sono il mondo e la mia vita. Bisogna accantonare tutte le separazioni teoreticamente configurate come corpo e anima, sensibilità e ragione, corpo e spirito, e simili. Primariamente il senso decisivo dei fenomeni non sta affatto qui. c) Voluptas I languores animae [debolezze dell’anima] sono affidati alla speranza nella misericordia Dei, «ad pacem plenariam, quam tecum habebunt interiora et exteriora mea».232 Tale speranza reca in sé un determinato ideale che ne è l’origine e l’essere ideale (la quies). «Est alia malitia diei».233 Qui appare chiarissimo il modo in cui Agostino intende queste esperienze: molestie della sua giornata. Questa quotidianità (giorno e notte) include pasti e periodi di riposo. «Reficimus enim quotidianas ruinas corporis edendo et bibendo».234 Dunque rechiamo in noi stessi una indigentia. Siamo un corruptibile e ci trasciniamo dietro questo peso. «Nunc autem suavis est mihi necessitas».235 Io trasformo la «necessità» – che è gravosa e annuncia un’indigenza (da vedere sempre in questa piena significatività dell’esperienza) – in un piacere. L’avere bisogno, l’avere un intenso desiderio di qualcosa, è per me piacevole. Fames et sitis sono in verità e possono essere dolores, «urunt, et sicut febris necant»,236 però «voluptate pelluntur».237 Dato che in base a ciò che abbiamo a disposizione possiamo curare questi dolori, «calamitas deliciae vocantur».238 Così qualcosa si ribalta, molestiae e malitiae sono deliciae. Cibo e bevanda devono essere soltanto medicamenta per conservare «me stesso».

(«Ruina», in termini cristiano-filosofici: decedere, trapassare – in riferimento all’immortalità; l’aspetto obiettivo grecoteoretico del concetto di fatticità; essere assegnati a [angewiesensein auf], urgenza, che c’è di fronte a me e dentro di me). «Sed dum ad quietem satietatis ex indigentiae molestia transeo, in ipso transitu mihi insidiatur laqueus concupiscentiae».239 Da considerare nuovamente un «transeo». «Ipse enim transitus voluptas est, et non est alius qua transeatur quo transire cogit necessitas».240 Secondo il loro senso specifico, l’indigenza e il doversiconservare esigono questo transitus, che allora però è esso stesso una voluptas; «adjungit se [...] periculosa jucunditas, et plerumque praeire conatur».241 (Il passaggio stesso diventa importante per me; una significatività in cui vivo e che dunque, in quanto autentica, assorbe la necessitas e fa «vedere» ed esperire i pasti soltanto a questo modo). La voluptas e il dedicarsi alla iucunditas sono qualcosa che ha in sé una possibilità di movimento, tale da imporsi e interporsi essa stessa come l’autentico τελoς. «Nec idem modus utriusque est: nam quod saluti satis est, delectationi parum est. Et saepe incertum fit utrum adhuc necessaria corporis cura subsidium petat, an voluptaria cupiditatis fallacia ministerium suppetat. Ad hoc incertum hilarescit infelix anima [vi si dedica con gioia, la accoglie, se ne appropria come preziosa, giovevole, comoda], et in eo praeparat excusationis patrocinium».242 (La propria insicurezza viene sfruttata per la comodità. È la fatticità – in cui mi trattengo e mi do «esistenza» – che si intromette in me stesso nel movimento verso l’esistere «autentico». Insicurezza, pericolo, possibilità: ad quod hilarescit infelix anima. Modo della significatività, della richiesta di attuazione [Vollzugsinanspruchnahme]. «Conflittualità». Insicurezza della decisione, «consilium [decisione sicura] mihi de hac re nondum stat»).243 «Non ego immunditiam obsonii timeo, sed immunditiam cupiditatis».244 «In his ergo tentationibus positus, certo

quotidie adversus concupiscentiam manducandi et 245 bibendi», contro la direzione determinata, contro un determinato come di questo concreto «avere a che fare con» (umgehen mit). «Non enim est quod semel praecidere [troncare, rigettare] et ulterius non attingere decernam, sicut de concubitu potui».246 (Concubitus: una determinata situazione da cui posso uscire, benché in tal modo non mi liberi di me stesso). Di nuovo interrompe il discorso una meditazione caratteristica, incalzando verso ciò che importa. d) Illecebra odorum Riguardo agli illecebra odorum, mi sembra che non mi potrebbero affatto nuocere. Non giungono, per così dire, nelle mie vicinanze, sì che debba darmi pena per essi. «Ita mihi videor; fortasse fallor».247 A prima vista, se mi osservo di sfuggita come una cosa fissata adesso, caratterizzata in questo o quel modo, mi sembra che sia così. Ma, nella mia miseria, non devo dolermi solo in quanto constato fino a che punto sono immerso nelle insicurezze, ma «et istae plangendae tenebrae, in quibus me latet facultas mea quae in me est: [...] plerumque occultum est».248 Questo sapere riguardo all’insicurezza stessa249 brancola nel buio. Non mi basta semplicemente osservarmi per avermi subito aperto dinanzi a me. Sono nascosto a me stesso, «nisi experientia manifestetur»,250 se non mi rivela il contesto dell’esperienza, vale a dire l’esperire storico nella sua «estensione» (l’esperienza esistenziale, orientata in relazione al sé [selbstlich orientiert]). Non ho mai la possibilità di richiamarmi a un momento per così dire «fissato» in cui io possa sostenere di avere penetrato me stesso. Già l’attimo successivo può smentirmi, rivelandomi come del tutto diverso. Perciò l’«avere me stesso» (das Michselbsthaben) – nella misura in cui è attuabile – si dà sempre solo nel corso e nella direzione di questa vita, un avanti e indietro (ein Vor und Zurück).251 «Et nemo securus esse debet in ista vita, quae tota tentatio nominatur (Gb, 7, 1), utrum qui fieri potuit ex deteriore melior, non fiat etiam ex meliore deterior».252 Il

«fieri potuit», il passato, ciò che è stato possibile e ciò che io sono in questo essere-divenuto, sta in un «fiat»,253 in ciò che ancora potrebbe divenire. È dunque in questa direzione dell’esperienza che va originariamente cercato il sé. In essa e solo in essa si incontra la tentatio. Ciò significa che fintanto che quest’ultima è presente, la vita, ista vita, dev’essere esperita così254 – dove il sé è assunto nella piena fatticità dell’esperire. (Quanto poco «ho» me stesso in questo modo, e, qualora ciò accadesse – proiettato in avanti –, allora avverrebbe in calcoli significativi). e) Voluptas aurium Ora, questo «aspetto» del fattuale sta evidentemente a fondamento anche della riflessione sulle voluptates aurium:255 «omnes affectus spiritus nostri pro sui diversitate habere proprios modos in voce atque cantu, quorum nescio qua occulta familiaritate excitentur».256 Fintanto che sussiste questa familiaritas, ma i suoni e il cantus liberano in se stessi una delectatio che può diventare un frui, quibus non est fruendum, la vita in affectus spiritus si troverà sempre contemporaneamente nell’insicurezza della sua attuazione effettiva. A causa di questo intreccio concreto anch’essi implicano la loro specifica minaccia, tale che può essere utile come stimolo, in quanto proprio attraverso di essa, nel simultaneo esperire i suoni, gli affectus spiritus possono diventare ancora «più vivi». (Qui l’elemento decisivo è il senso funzionale dell’udito, ovvero di ciò che in esso diventa accessibile per l’affectus spiritus. – L’udito visto da questa prospettiva). L’esperire effettivo irriflesso – posto al servizio di, in vista di, in riferimento a, in correlazione a –, il summum bonum, ovvero il rapporto del sé con esso. E così pure l’analisi teoretica dei suoni stessi. f) Voluptas oculorum «Restat voluptas oculorum istorum carnis meae [caro – non lo spirituale]».257 In termini corrispondenti, il vedere non è riferito a oggetti puramente sensibili, poiché esso è un «come» dell’avere a che fare con («in carne», secondo un

orientamento separato, non divino, non spirituale, non esistenzialmente preoccupato, non autenticamente preoccupato, in modo relativo al mondo del sé, per la beata vita); come appunto in genere, nell’analisi dei «sensi» nel contesto delle tentationes, ciò che esse fanno esperire sta in una peculiare caratterizzazione del contenuto di senso, che forse è proprio quella genuina, esistenzialmente decisiva. Ciò che importa non sono nuove determinazioni regionali dell’argomento, del «che cosa» e del contenuto materiali, giacché esso conta piuttosto in quanto «apre possibilità» – però in modo che la tentazione consiste proprio nel mettere da parte le possibilità e nell’insediarsi saldamente nel reale, nel significativo –,258 in quanto «reca con sé un caso possibile». E qui, nella voluptas istorum oculorum, l’accento cade sullo «amant oculi», su ciò che gli occhi cercano in quel momento: «pulchras formas et varias, nitidos et amoenos colores»259 – lux. La «dedizione a» (die Hingabe an) è tale che questo possesso diventa del tutto familiare e ovvio. Forma e colore sono presenti totis diebus. Lux, regina colorum, «multimodo allapsu blanditur».260 «Insinuat autem se ita vehementer, ut si repente subtrahatur, cum desiderio requiratur; et si diu absit, contristat animum».261 (Transitus! Cfr.: «Non autem sentio sine quo esse aut aequo animo, aut aegre possim, nisi cum abfuerit».262 – Come mi comporto nell’avere, nell’avere a che fare con..., in che modo e fino a che punto mi riguarda, in che modo e fino a che punto sono implicato e coinvolto). L’esperire effettivo si è talmente fissato in quella direzione, che da esso dipendono l’aggiungere, l’accrescere le significatività, cioè le molteplicità, nonché l’aumentare il mutamento di ciò che è disponibile, «il nuovo». (In questo aumento e mutamento si vede quanto ciò sia ritenuto importante e come esso possa riempire una vita).263 g) Operatores et sectatores pulchritudinum exteriorum Homines: «foras sequentes quod faciunt»264 (cadunt in ea quod valent): si attestano saldamente in ciò che riescono a

fare e lo seguono. «Quam innumerabilia [...] addiderunt homines ad illecebras oculorum»;265 gli operatores et sectatores pulchritudinum exteriorum [gli «imprenditori»] usum necessarium atque moderatum longe transgredientes: inseguimento, progresso, cercare nuovo compimento nel decadimento, all’infinito. Il significativo è esperito in modo che esso stesso, in base a sé e al progresso che vi si svolge, basta a se stesso. (Esso assume il ruolo del dare senso [Sinngebung] alla fatticità). In verità, essi «ab illa pulchritudine [...], quae super animas est [per quas pulchra trajecta in manus artificiosas – Plotino], [...] approbandi modum, non autem inde trahunt utendi modum».266 Prendono vita una vocazione a un senso sovraordinato, un significato, un valore, nel caso dei quali si tratta di misurare la significatività effettiva e la corrispondente valutabilità, nonché la prestazione specifica. Ma così questo senso sovraordinato è anch’esso posto al servizio dell’affaccendarsi. (Questo accrescimento, a sua volta, è solo un calcolo nascosto del medesimo senso dell’attuazione, o comunque non è chiarito in modo radicale. Le propaggini e il culmine della filosofia della civiltà: l’idea della civiltà, del progresso civile, dell’avanzamento dello spirito umano, o come si vogliano chiamare queste utopie. – Non ci si accontenta del piacere e della conoscenza, ma vi si aggiunge anche una grande teoria intesa come visione del mondo, un «approfondimento» – sia pure soltanto mitico – al fine di produrre una ulteriore intensificazione richiamandosi a esso. Tuttavia, il comportamento nei confronti di ciò da cui si trae il richiamo, di ciò in cui lo si fonda, è quello assunto in carne – ma anche nella comodità. Di fronte alla possibilità di un siffatto atteggiamento rilevante in relazione al sé si chiudono gli occhi per non farsi disturbare). Sectatores pulchritudinum exteriorum: fortitudinem suam non ad te custodiant [...] eam spargant in deliciosas lassitudines.267 Essi non serbano per sé, nel loro riferimento a te, la sicurezza e la vitalità dell’attuazione della cura e dell’impegno, bensì le spargono e le dispensano con

leggerezza in dilettevoli lassitudini e piacevoli pigrizie. Non le hanno più a disposizione per una decisione autentica. Falliscono, benché in relazione al mondo degli altri si diano un’importanza artificiosa e assumano una posa artefatta da gaudenti e conoscitori di queste cose, comportandosi come se avessero una confidenza e una familiarità particolari con il senso del mondo e i misteri della vita. (Decisivi sono il «come» e l’attuazione della direzione della fortitudo. – L’abilità relativa al sé: la capacità, la facoltà, la disponibilità di possibilità, aventi carattere di attuazione, di esistere in relazione al sé). «Istis pulchris gressum innecto»268 – sempre e ovunque mi impiglio in queste cose belle e seducenti, così come di fatto, nella vita, si succedono a ritmo serrato le possibili situazioni e le possibilità di progresso, di piacere e di operosità. Questi caratteri di ciò che si esperisce nel «come» dell’esperire in carne. «Ego capior miserabiliter»,269 miseramente, miserabilmente sono catturato. «Haereo in ubique sparsis insidiis»,270 perdendo così l’orientamento genuino e autentico verso la lux vera, illa pulchritudo «cui suspirat anima mea die ac nocte»,271 deus decus meum. «O lux quam videbat Tobias, cum clausis oculis istis filium docebat vitae viam [...]. Aut quam videbat Isaac [...], cum filios non agnoscendo benedicere, sed benedicendo agnoscere meruit».272 (Il benedicere rende vedenti in senso proprio). – «Erigo ad te invisibiles oculos»273 (amantes!). – «Ipsa est lux, una est, et unum omnes qui vident et amant eam».274 (Cfr. Tractatus in Joannis Evangelium, I, 18, 19). 14. La seconda forma della «tentatio»: «concupiscentia oculorum». Trentacinquesimo capitolo a) Videre in carne e videre per carnem Alia forma tentationis: «concupiscentia oculorum», «curiositas supervacanea cognoscendi».275 In che senso è presente qui un’altra forma della tentatio? Riguarda forse una modalità dell’esperire diversa da quelle già trattate? E in che senso è diversa? Non lo è solo come il vedere

dall’udire, e l’udire dal gustare, ma in un altro modo. (Vita effettiva: in quale prospettiva di senso? A certe domande «a sorpresa» [Vexierfragen] si giunge perché non si hanno le idee chiare riguardo al senso di simili distinzioni nel loro darsi terminologico, ma ci si limita a «separare» conformemente alla capacità e all’ambito. – La sensibilità è un «come» del pieno esperire). In ogni esperire inteso come curare la tendenza fondamentale è la delectatio (uti – frui), un curare diversamente caratterizzato, dato simultaneamente, dunque sempre un determinato appetitus, un aspirare a qualcosa (in termini formali – altrimenti equivoco, pericoloso). Nelle possibilità di tentazione nominate prima l’appetitus è diretto a un oblectari: per passare il tempo divertirsi, avere a che fare con ciò che si rende accessibile, quanto al «che cosa» del contenuto, proprio tramite i sensi stessi (in modo emozionale). Una cupiditas se oblectandi «in carne» stessa. La delectatio segue il «come» del senso del riferimento della sensibilità, che rimane nel contenuto come tale, nella modalità dell’assaporare godendo e dell’essere trascinato in esso e via da esso. In questo caso ciò che è «veduto» e «udito» ha il senso contenutistico del vedere conformemente a ciò che è goduto. Ora, però, per eosdem sensus c’è un’altra cupiditas: «non se oblectandi in carne, sed experiendi per carnem».276 La sensibilità ha adesso un’altra funzione: per carnem. Ciò significa che essa, secondo il suo senso pieno, entra nel carattere di senso dell’accesso e dell’operazione di accesso (ora domina soltanto esso), sicché l’accesso sta nell’appetitus dell’experiendi. Haec concupiscentia est «in appetitu noscendi»,277 dell’esperire che prende conoscenza, che conosce, del guardar-si intorno (sich umsehen) (non del darsi da fare) negli ambiti e nei campi più diversi, «che cosa vi accade». Curiositas, «avidità del nuovo» (Neu-gier), «cupiditas, nomine cognitionis et scientiae palliata»278 («pallium», riferimento molto probabile: dotto e filosofo greco); indossare il mantello della profondità di pensiero e

dell’assoluta necessità culturale di prestazioni speciali. (Il vedere e l’udire piacevoli sono quelli effettivi; e sono piacevoli in termini talmente ovvi che, se ci si dà a intendere qualcosa, non li «vediamo» assolutamente più, oppure li vediamo coperti e nascosti. – Vedere e udire danno l’articolazione fondamentale al contenuto, alla significatività esperita). Voluptas, ovvero «cupiditas oblectandi» sectatur pulchra, canora, suavia, sapida, lenia. Curiositas, ovvero «cupiditas experiendi» sectatur etiam his contraria (noscendi libidine – non ad subeundam molestiam).279 Ciò significa che in questo caso l’avere a che fare con... primariamente non c’entra nulla. Ci si riferisce qui anche a ciò che non chiarisce positivamente il godimento mondano effettivo, anzi, persino al suo contrario, dato che in realtà l’intenzione è tale da rendersi accessibile il contenuto del «che cosa» in maniera che esso non le possa nuocere: lo tiene alla larga, ma proprio nel farlo si guarda – e si guarda soltanto – cercando un farsi sollecitare forse solo sul fondamento di questo «tenere alla larga» (sich-vom-Leibe-halten). E in effetti ciò che importa non è il contenuto, bensì il «riferimento», la mera attuazione del riferimento in quanto tale. b) Il curioso guardar-si intorno nel mondo Il mero voler vedere, la nuda curiosità, sono il senso dominante, e proprio quando l’esperienza si attua in modo emozionalmente accentuato: paura, sgomento, raccapriccio. Le configurazioni di questa posizione fondamentale nei confronti degli oggetti sono molteplici (cinema). «Hinc etiam, si quid eodem perversae scientiae fine per artes magicas quaeritur».280 In questa curiosità (nella determinata accentuazione di una possibilità dell’esperienza e nella specifica attuazione di essa) sono contenuti anche il votarsi e il dedicarsi alla magia, alla mistica e alla teosofia. Finis delectationis è perversa scientia, che già dal principio ha abbandonato ogni critica al senso di attuazione di se stessa. «Hinc etiam in ipsa religione Deus tentatur, cum signa et

prodigia flagitantur, non ad aliquam salutem, sed ad solam experientiam desiderata».281 (Dio deve accettare di diventare un fattore nello sperimentare umano. Egli deve dare risposta a una curiosità risoluta, presuntuosa e pseudoprofetica, vale a dire a un curioso guardarsi intorno al suo riguardo, che non si subordina [fügt] al senso del proprio oggetto ed è quindi una in-subordinazione [Un-fug]). Perché questa concupiscentia è intesa e definita come concupiscentia oculorum? «Oculi autem sunt ad cognoscendum in sensibus principes [...]. Ad oculos enim proprie videre pertinet».282 (Poiché il senso dell’operazione della sensibilità è il prendere conoscenza, fra le sue varie modalità il primo posto va assegnato al vedere). «Utimur autem hoc verbo etiam in caeteris sensibus, cum eos ad cognoscendum intendimus»,283 se diamo alla sensibilità quella piena direzione e funzione di senso del conoscere che essa, come tale, non ha già comunque, sempre e in primo luogo. «Cum aliquid cognitionis explorant»,284 quando i sensi indagano e rendono accessibile come tale qualcosa che è conforme alla conoscenza e oggetto di conoscenza, definiamo il loro senso del riferimento – quindi il senso pieno – come vedere. Infatti, caeteri sensus [videndi officium] sibi [...] usurpant [usurpano, si attribuiscono], in quo [officio videndi] primatum oculi tenent.285 (Vedere significa porgere un oggetto in quanto oggetto). Se vogliamo constatare prendendo conoscenza, indicare qualcosa in quanto lì presente (vorhanden) – in quanto esistente e «come» esistente (als daseiend und wie daseiend) – negli ambiti di ciò che diventa accessibile tramite i sensi nella loro modalità di senso del riferimento (che non è una modalità dell’experiri), «neque enim dicimus, audi quid rutilet; aut, olfac quam niteat; aut, gusta quam splendeat; aut, palpa quam fulgeat».286 (Qui le determinatezze sono riferite alla lux, poiché la «lux» è il veduto, l’oggettuale in quanto mero oggettuale). «Videri enim dicuntur haec omnia»;287 questo significa

che ciò che diventa accessibile nel vedere (concretamente non evidenziato in modo esplicito), riguardo alla «modalità conoscitiva del riferimento della comprensione» (kenntnisnehmende Erfassungsbezugsweise) non sarà mai definito altrimenti che come «vedere». Per l’operazione di accesso gli altri sensi del riferimento non sono intesi in funzione, mentre il vedere ha il senso del rendere accessibile (qualcosa di oggettuale) nei termini accentuati del mero prendere conoscenza. All’opposto, noi diciamo: «Vide quid sonet; vide quid oleat; vide quid sapiat; vide quam durum sit».288 (Qui si tratta di una molteplicità di cose non propriamente visibili, cioè di oggetti come tali, che però lo diventano solo nel vedere; nel «vedi!», nel concomitante atto [Mitvollzug], essi esperiscono la modificazione avente carattere di riferimento, di contenuto). Secondo il suo senso, il «vedi!» è un mero dare un’occhiata, osservare, un portarsi conoscitivo verso la datità, far sì che qualcosa, in quanto oggetto del mero prendere conoscenza, diventi espressamente obietto. («Generalis experientia sensuum»,289 l’esperire – prendente conoscenza e donante conoscenza – nella sensibilità in generale: «vedere»). Il «vedere» ha il primato nell’officio videndi, ovvero cognoscendi. Quindi, dove il concreto esperire effettivo è secondo il suo senso, e intende un’accentuata presa di conoscenza (questa poi a sua volta con finalità differenti), là è viva la delectatio videndi, che può essere una concupiscentia. In che termini? Il senso del riferimento come tale è ostinato (eigenwillig), sicché ostinato e primario è il senso pieno del videre, che determina tutte le esperienze effettive comprese quelle ultime e decisive. (Il senso ostinato del riferimento si pone al di sopra dell’interpretazione immanente, relativa al sé, dell’attuazione della sua rilevanza esistenziale. Non solo non se ne cura, bensì dirige di per sé tutta la vita. – Verso dove va e da dove si allontana l’ostinazione in Agostino?). Questa forma tentationis è multiplicius periculosa. «Quando audeo dicere nulla re tali me intentum fieri ad

spectandum, et vana cura capiendum?».290 (Nella curiosità, in questa direzione del riferimento ogni cosa è in linea di principio accessibile; senza impedimenti). «Cum enim hujuscemodi rerum conceptaculum fit cor nostrum, et portat copiosae vanitatis catervas»:291 caverne, nascondigli per accogliere e celare in sé vanità senza Dio.292 (Una via principale e una «esistente» [daseiend] occasione di dispersione! «Nella vita», rapporto dell’uomo con Dio: che cosa non succede in tal caso! – Le interiezioni della curiosità riempiono le esperienze effettive). 15. La terza forma della «tentatio»: «ambitio saeculi». Dal trentaseiesimo al trentottesimo capitolo a) Confronto tra le prime due forme della tentazione «Tertium tentationis genus cessavit a me, aut cessare in hac tota vita potest?».293 Nelle prime due forme della tentatio i riferimenti dell’esperienza che determinano la situazione sono: 1) il piacevole avere a che fare con; 2) il curioso guardarsi intorno che vuole solo conoscere. Ciò a cui questi riferimenti dell’esperienza mirano è qualcosa di essenzialmente relativo al mondo-ambiente e non al sé. Infatti, anche dove, sia nel caso 1 che nel caso 2, elementi relativi al mondo degli altri – cioè questi e quegli uomini in questa e quella situazione – sono oggetto dell’avere a che fare, ovvero soprattutto oggetto del guardarsi intorno, del curioso voler fare conoscenza, del poter avere familiarità con, del «saperne di lui» (das Von-ihm-Wissen), rimangono – e questo è appunto l’elemento caratteristico dei riferimenti dell’esperienza che li riguardano – entro un carattere obiettivo (significatività) essenzialmente relativo al mondoambiente. (E ciò in termini talmente «obiettivi» che proprio essi rendono possibile e realizzano lo schiudersi [das Aufgehen]). Ciò che emerge in fatto di riferimenti relativi al mondo degli altri è assunto entro il riferimento dell’esperienza determinante dell’avere a che fare, ovvero del guardarsi intorno. Riguardo al «come» dell’«essere lì presente» (dabeisein) relativo al mondo del sé, o addirittura al sé, ciò

significa che nell’attuazione dell’esperienza il sé in quanto sé non si articola in termini attuativi.294 Nel caso 1 si schiude («schiudersi»: un fenomeno specifico!) nell’«avere a che fare con», ovvero in ciò con cui ha a che fare; nel caso 2 in effetti non si schiude, ma tantomeno giunge a se stesso. Qui il carattere peculiare del fenomeno consiste proprio nel suo non essere né uno schiudersi, come nel caso 1, né un aversi (sichhaben), sicché esso, infondo, non «c’è» (nicht «da ist»).295 (L’esserci, il sé, l’essere reale della vita è uno schiudersi. Il sé è vissuto dal mondo [wird von der Welt gelebt], e lo è nel modo più intenso proprio quando, in un esserci siffatto, afferma di vivere in modo autentico. Questo «essere vissuto» [Gelebtwerden] è un «come» particolare della fatticità e può essere esplicato solo partendo dal senso autentico dell’esistenza). Nella terza forma della tentatio il sé è, in un determinato modo, articolante in termini conformi all’attuazione, in quanto ne va espressamente di esso medesimo. Il sé va preso sul serio in senso autentico, è «lì presente», e ciò significa che la significatività propria (Eigenbedeutsamkeit) diventa finis delectationis.296 Si tratta dell’autoconsiderazione (Selbstgeltung) nell’esperire effettivo, ossia nei contesti della vita relativi al mondo degli altri, ma in definitiva anche in quelli relativi al mondo del sé. Qui il riferimento al mondo è quello relativo al mondo degli altri, in generale mondano avente carattere di sé (selbsthaft). b) Timeri velle e amari velle Agostino inizia la sua riflessione con il «timeri et amari velle ab hominibus».297 Più oltre definisce «quotidiana fornax nostra» (horum tentationum) la «humana lingua».298 Entrambe queste determinazioni rinviano chiaramente al contesto di esperienza relativo al mondo degli altri. Il curare di questo esperire si dà da fare per conquistare all’esperiente una determinata posizione in rapporto al mondo degli altri. Si tratta di un velle: volere, desiderare, mettere coscientemente in opera la vita in modo da essere temuti o amati dagli altri. Il proprio mondo («mondo» in

senso fenomenologico: ciò in cui io vivo), ossia il mondo del proprio agire e operare, il mondo del sé (non però il sé in senso autentico), si impone, si mette in evidenza. In questo velle l’esperire stesso si vede negli occhi, nelle pretese, nei giudizi, nel gusto, ovvero nell’incapacità, nella volubilità e nella stupidità degli altri. Nel timeri et amari velle il mondo del sé assume un atteggiamento in una situazione relativa al mondo degli altri da esso vista in modo particolare. Si tratta dell’«essere tenuti in considerazione nel mondo degli altri» (in-mitweltlicher-Geltung-sein). Nel timeri velle ci si vede come colui che è superiore e ci si dà da fare per questa affermazione relativa al mondo degli altri. Nell’amari velle ci si mette in evidenza come colui che è pregevole e merita la stima degli altri. – Entrambe le cose possono essere espressione di una certa veemenza interiore dell’esistenza, ma possono altrettanto bene, e per lo più, trovare motivazione nella vile debolezza e nella insicurezza, così come nel bisogno di appoggio del poter andare d’accordo oppure nel dissimulante prevenire e differire il contrasto. (Nel cedere che ha luogo in questa tentatio il sé va perduto per se stesso in un modo del tutto peculiare. A ciò corrispondono il conquistare e il trovare, la possibilità del sapere e della chiarezza riguardo a se stessi). La caratterizzazione del linguaggio, e più precisamente del discorrere, del comunicarsi e dell’apprendere in quanto crogiuolo di questa modalità della tentatio, riconduce il contesto di esperienza relativo al mondo degli altri alla modalità decisiva dell’attuazione dell’esperire relativo al mondo degli altri. Con ciò si allude nel contempo a come, proprio in questa modalità di attuazione – e secondo il suo senso più peculiare – le possibilità di dissimularsi, di atteggiarsi, eccetera, siano particolarmente grandi. Una vita in cui questi contesti di esperienza relativi al mondo degli altri sono dominati da un curare siffatto è definita da Agostino una misera vita, una vita miserevole, e una foeda iactantia, una vergognosa arroganza.299 Eppure, come nel caso delle altre forme di tentazione,

anche qui, nella fatticità dell’esserci, «c’è» nel contempo (ist mit «da»)300 la direzione delle possibilità di tentazione relative al mondo degli altri, e per la precisione di queste determinate possibilità in cui si tratta di amare e temere (ovvero di essere amati e temuti). Secondo il suo senso, tale direzione consiste nel fatto che i riferimenti dell’esperienza sono collocati nelle significatività delle esperibilità relative al mondo degli altri: «propter quaedam humanae societatis officia necessarium est amari et timeri ab hominibus».301 Ci siamo così imbattuti in una nuova modalità della motivazione di senso della molestia nella fatticità. («Necessarium», il senso della fatticità: nella vita effettiva «c’è» sempre (?) – «inevitabilmente», vale a dire che la serietà dell’esistenza deve «necessariamente», in base alla sua propria piena possibilità di attuazione, essere diretta a preoccuparsi di ciò. Una direzione della cura, ovvero una direzione data contemporaneamente all’esperienza del «mondo» [«Welt»Erfahrung]). Consideriamo brevemente insieme i differenti sensi della molestia che ineriscono alle forme della tentatio e che la determinano:302 l’esserci relativo al sé, l’esistenza, soffre in diversi modi di una molestia, le è attaccato e si determina così nella sua fatticità. L’essere attaccato (das Verhaftetsein) dell’esserci relativo al sé alla molestia è una caratterizzazione obiettiva. Per la comprensione radicale dei contesti fenomenici con cui abbiamo a che fare qui è decisivo trattare sensatamente il problema già all’inizio. Per ragioni che qui non possiamo ulteriormente discutere, Agostino non ha impostato la problematica in questo modo, benché la questione della tentatio offra indicazioni preziose una volta che si sia colto il problema. La molestia non è un elemento obiettivo – un ambito dell’ente, lì presente in un qualche senso dell’obiettivazione teoretica della natura –, bensì contrassegna un come dell’esperire; per la precisione, in quanto «come» siffatto essa caratterizza il «come» dell’esperire effettivo, e nella misura in cui noi, ora, la consideriamo in relazione al nostro

compito particolare, per lo meno da diversi punti di vista, essa intende il senso pieno della fatticità, il pienamente sensato (das Vollsinnige). Con ciò non è stabilito il modo in cui possiamo esperirlo in quanto tale nella situazione attuale. Forse nell’articolazione problematica esplicita manca proprio la determinazione autentica del senso, lo storico. Le modalità dell’esperire effettivo come tale, indicate nella diversità di senso della molestia, non costituiscono un accostamento ordinativo, bensì la loro relazione formale è essa stessa soltanto un «come» dell’esperire e dell’articolare la fatticità, la sua costituzione avente carattere di attuazione. Ora, in termini riassuntivi, vanno indicate le direzioni dell’esplicazione del fenomeno della fatticità, e precisamente: 1) entro i limiti di ciò che si trova qui in Agostino; 2) soprattutto entro i limiti dovuti al fatto che la problematica iniziale dell’esplicazione – che ne costituisce una parte essenziale ed esprime nel contempo il senso peculiare della fatticità – non viene discussa; 3) la problematica del rapporto fra queste modalità dell’esperire effettivo e il senso autenticamente originario e ultimo dell’attuazione di una fatticità, dell’esistenza effettiva. Con l’indicazione di queste tre limitazioni sono indicati tuttavia al tempo stesso tre ambiti di ricerca della fatticità e della problematica dell’esistenza. (Il «come» dell’essere «proprio», pieno in relazione al sé. Vita effettiva: accadere, essere lì dinanzi, esserci, «posizione» [Lage], ovvero cura [Sorge] della posizione – questo «ovvero» anche nel caso degli altri – essere lì presente, esistere; né strati né stadi; in nessun caso articolare in termini conformi a un ordine. Nella diversa modalità dell’articolazione genuina e nella scoperta fenomenologicamente radicale dei contesti problematici sta bensì la difficoltà, però anche il senso decisivo, da interpretare solo di volta in volta in modo conforme alla storia dell’attuazione. – Dato che la problematica ha l’origine

del senso nell’esistenza – anch’essa effettiva conformemente alla storia dell’attuazione –, tutti gli esplicati di senso da scoprire nella problematica stessa sono esistenziali [Existenzialien], cioè, dal punto di vista formale, «categorie», ovvero categorie ermeneutiche nel senso della storia dell’attuazione, non categorie ordinative aventi carattere di atteggiamento. Senso formale di categoria: λέγειν. – Isolato in modo avente carattere di atteggiamento, e poi considerato genuinamente in termini concreti, ciascuno dei «come» menzionati in precedenza dà per se stesso una cerchia di obiettità [Objektitäten] di senso differente; importante per la «costruzione» dell’obiettità storico-obiettiva). c) Amor laudis Il «voler farsi valere» (sich-in-Geltung-setzen-wollen) è motivato e mantenuto in atto mediante un determinato autocompiacimento (Selbstwichtignahme): «ab amore laudis, qui ad privatam quandam excellentiam contrahit emendicata suffragia».303 E questo autocompiacersi agisce nell’esperienza mondana come affaccendarsi (cura) finalizzato all’attribuzione di lodi: un determinato, esplicito non solo «tenere per valido» (für-wert-halten), bensì anche «dichiarare valido» (für-wert-erklären) dinanzi ad altri o a se stessi, dunque espressamente «valorizzare» (in-Geltungversetzen) e «far valere» (in-Geltung-bringen) nel mondo degli altri, e del fare e operare effettivi. Da ciò deriva la prevalenza di laudare, laudari e laudatio nelle considerazioni successive. Questo affaccendarsi in vista della lode, cioè dell’«essere tenuti in considerazione» (in-Geltung-stehen) nel mondo degli altri, è una cura che mira al piacere (agli altri). Vale a dire: coloro da cui ha origine il piacere goduto da un altro, e che, così facendo, trattengono l’altro nel loro proprio mondo, diventano poi essi stessi importanti: «Divitiae [ricchezze, significatività] vero quae ob hoc expetuntur, ut [ambitioni] [...] serviant».304 Homo movetur laudibus humanis, ovvero: l’autentico crogiuolo di motivi per la propria vita si concentra nell’essere tenuti in piena considerazione nel

mondo degli altri. (Il particolare contesto operativo della vita riceve la sua direzione primaria dallo sforzo finalizzato a fornire concrete possibilità del farsi valere e del mantenersi tali). Anche in questo caso – solo in un modo più dissimulato e pericoloso – anziché lodare si è lodati, ma la propria vita è vista come se fosse qualcosa di eminentemente importante e di meritato in virtù delle prestazioni personali. Qui il cedere alla tentazione è esplicato – assiologizzando – come uno spostamento della direzione del placere. Foeda iactantia. «Hinc fit vel maxime non amare te, nec caste timere te».305 Amore di Dio, timore. Dio stesso non è più preso davvero sul serio; amplius placet un altro. (Spostare via la cura dalla direzione verso il summum bonum; amor maximus e timor castus non attuati). «Et a veritate tua gaudium nostrum deponamus, atque in hominum fallacia ponamus».306 (Importante per la corretta comprensione della veritas Dei). Deponere: «spostare altrove» (wegverlegen) la direzione della cura, ovvero spostare l’apprezzamento e la determinazione del finis. Ponere: «porre all’interno» (hinverlegen) dell’opinione degli uomini, darsi da fare per il «come la pensano di noi» (das «Wie-sie-von-uns-Denken»): «come» e «in quanto che cosa» godiamo della loro considerazione, stabilirsi colà con le aspirazioni della propria vita effettiva. «Libeatque nos amari et timeri, non propter te, sed pro te».307 Anziché amare e stimare te, ci piace di più, preferiamo e prediligiamo essere amati e stimati al posto tuo. Tu sei trascurato e messo da parte. (Non per amor tuo, cioè in modo tale che ogni bonum in noi stessi sia stimato e lodato davvero e soltanto in quanto bonum tuum). – In tutto ciò «instat adversarius verae beatitudinis nostrae»,308 la possibilità di una falsa beatitudo; nel caso della tentatio si tratta sempre di quest’ultima. d) La direzione genuina del placere Qual è dunque il contesto di questo prediligere e posporre con il laudari, ossia con la modalità qui considerata dell’«essere tenuto in considerazione nel mondo degli altri»

autenticamente esistente (esistenziale)? Peccator (homo!) non «laudatur in desideriis animae suae, [...] laudatur homo propter aliquod donum quod dedisti ei».309 Dunque, finché in generale è l’uomo a essere lodato, ritenuto importante e meritevole, nonché dichiarato tale, ciò non accade in base alle preoccupazioni e alle predilezioni più autentiche, né in vista di esse. Egli non ha nulla che potrebbe mai esibire come meritevole di lode, e se ce l’ha, lo ha ricevuto: il donum, il dono, la dote. La significatività disponibile riguardo a se stesso è un donum Dei.310 (Particolare attuazione dell’esperienza, da non vedere solo in termini obiettivi). Accade così che, di fronte a Dio, propriamente melior est «ille qui laudavit, quam iste qui laudatus est»,311 poiché illi (qui laudavit) «placuit in homine donum Dei».312 Costui ha la direzione genuina del placere, la modalità genuina del prediligere; egli attua la lode riguardo al donum in quanto donum Dei, cioè riferisce di fatto il laudare a Dio, il summum bonum. Per contro, «huic [qui laudatus est] amplius placuit donum hominis quam Dei».313 Il donum hominis è il laudare, la laudatio stessa (in quanto proveniente dall’uomo). Agostino interpreta in termini più precisi: «at ille plus gaudet sibi laudari se, quam ipsum donum habere unde laudatur».314 Il rallegrarsi per il fatto di essere lodati in quanto tale è un «compiacersi di sé medesimi» (sich-selbstwichtignehmen) e, in connessione con la tentatio, è un decadimento, dato che dinanzi a Dio l’uomo, quanto al suo significato, è un «nulla». La vita nel mondo degli altri – cioè, in questo caso, nella possibilità dell’essere lodati – cela in sé il pericolo di un futile autocompiacimento. (Il rallegrarsi per il donum è il dovere supremo e non è certo comodo!). Qual è la posizione personale di Agostino nei confronti di questa tentatio? Che cos’ha da confessare? «Quid, nisi delectari me laudibus?».315 Sono disponibile alle lodi, me ne rallegro, però «amplius ipsa veritate quam laudibus».316 Video quid eligam, vedo, ho le idee chiare riguardo a ciò che

scelgo, prediligo, quando sono tenuto a scegliere: «utrum malim furens [appassionato, scatenato, sfrenato, liberante le voluptates], aut in omnibus rebus errans, ab omnibus hominibus laudari; an constans [reggentesi a se stesso, assicurato], et in veritate certissimus, ab omnibus vituperari».317 (Veritas: 1) assicurazione; solidità; 2) validità in sé stabile, assoluta, direttamente un essere; le due cose non devono necessariamente coincidere; 3) priorità della fondazione). In veritate certissimus constans è un bonum. «Verum tamen nollem ut vel augeret mihi gaudium cujuslibet boni mei suffragatio oris alieni»,318 ossia: vedo il pieno valore della verità; vedo che questo bonum è un donum Dei e non ha bisogno di essere soccorso dal plauso, dal favore e dall’ammirazione altrui. Io non lo desidero, poiché questa laudatio non accresce il gaudium, ma lo deturpa soltanto. Verum tamen nollem, sed auget, fateor, eppure, lo confesso, in fondo mi rallegro ancora di più, cioè mi lascio distogliere dalla gioia preoccupata in senso genuino. La vituperatio è segno del fatto che non so mantenermi nella pura attuazione della gioia secondo il suo senso genuino. «Vituperatio minuit»319 (intacca la mia gioia, vale a dire: badando al biasimo, prendendo sul serio il biasimo, quindi me stesso – l’oggetto di biasimo –, esperisco una specie di diminuzione della gioia, il che non sarebbe possibile se vivessi nella pura attuazione di essa). Eppure il biasimo mi rende incerto e mi spinge a guardare gli altri. Non mi attengo puramente alla gioia genuina; «ista miseria mea perturbor»,320 e così vado in confusione. Non sono più sicuro di me stesso e divento schiavo del mondo degli altri. «Subintrat mihi excusatio»,321 si insinua e si insedia in me una giustificazione. Cerco di salvarmi e di giustificarmi appellandomi al fatto che, se cado, non dipende propriamente da me: «l’uomo in fondo è fatto così», la «natura» e scusanti simili. «Quae qualis sit, tu scis, Deus; nam me incertum facit».322 Qual è dunque il comportamento autentico da tenere nel

contesto della vita relativo al mondo degli altri, nell’esperire, nell’essere lodati? Senza alcun dubbio, non ci si deve vedere come colui che è lodato, bensì come colui che loda! Bisogna rallegrarsi del proprio genuino saper lodare; poi, del fatto di essere arrivati a vedere un genuino donum (Dei), ad apprezzarlo e valorizzarlo. Nel rallegrarmene sono io stesso preoccupato soltanto del bonum come tale; de profectu delectari, ovvero de malo (nella vituperatio) contristari. In questa tentatio la direzione del superare è proprio un genuino abbandonarsi al mondo degli altri, tale però da essere attuato dalla chiara collocazione autonoma nella fatticità della propria vita, ossia da non potersi mai dimostrare in una mera dedizione (anche la più radicale) all’obiettivo comunque inteso. Nella continentia, che nell’esperienza della tentatio costituisce la modalità e la direzione del superare e del frenare il decadimento, non è contenuto soltanto il cohibere amorem ab aliqua, bensì sono insieme implicitamente richiesti la iustitia, la collatio, la positio amoris quo, l’apportare, il condurre lì l’amore, nonché la direzione genuina della cura dell’amore. La iustitia è la dirittura (Gerichtetheit) autenticamente, originariamente sensata («devozione»: cfr. la concezione luterana della iustitia) nell’insieme dell’esperienza effettiva della significatività. (Questo senso originario dell’attuazione e dell’esistenza della iustitia va ancor più e totalmente separato dalla assiologizzazione. – Il «come» dell’attuazione del sussistere della tentatio. Essa è un certamen fra due direzioni dell’amare). La direzione del piacere (agli altri) mira al mondo degli altri, e prima di essa è attuata una forma di autocompiacimento (Selbstwichtignahme) riguardo a un bonum che si presume di avere in se stessi e di essere. Ora, questo placere aliis può mancare, e persino un siffatto «far valere se stessi» (sich-selbst-in-Geltung-setzen) relativo al mondo degli altri può esplicitamente essere represso e tenuto lontano. (Verso l’esterno, nel mondo degli

altri, superare l’amor laudis; il quale può tuttavia essersi radicato in modo tanto più tenace, determinando primariamente l’esserci proprio [das Eigendasein] e il suo senso). 16. L’autocompiacimento di fronte a se stessi. Trentanovesimo capitolo «Etiam [tuttavia] intus est aliud in eodem genere tentationis malum, quo inanescunt qui placent sibi de se».323 In questa forma di tentazione c’è una possibilità di decadimento, tale che in esso il sé e, quindi, l’esserci del singolo diventano frivoli, volatilizzandosi nel vuoto e nel nulla. Sibi placens, farsi valere di fronte a se stessi, compiacersi di fronte a se stessi, attribuire a se stessi un bonum; il gaudium (delectatio) si dirige verso il mondo del sé, e nel darsi da fare per la beata vita è il mondo del sé a essere preso sul serio. Ora, l’attuazione dell’esperienza è tale che il proprio mondo del sé, vale a dire la cerchia del proprio operare, la professione, le possibilità e la capacità – sempre nella forma concreta di un proprio passato compiuto – sono tenuti dinanzi a se stessi al fine di compiacersi ora esplicitamente di fronte a questo sé così tenuto dinanzi – il che costituisce già in se stesso una modalità dell’autocompiacimento. Qui peraltro emergono differenti possibilità che, come tali – essendo concepite in quanto «come» di volta in volta decisivo dell’attuazione dell’esperienza –, indicano sempre una determinata modalità del proprio esserci. «Differenti possibilità» in quanto differenti modalità del gaudere di fronte a se stessi (piacere a se stessi, autocompiacersi, rallegrarsi di un bonum, ovvero di un quasi bonum): 1. «De non bonis quasi bonis»:324 si prende sul serio ciò che si «è fatto», si «fa», si è «capaci di fare», e ciò in fondo non può assolutamente essere definito un bene genuino. Non ci si limita a prendere sul serio un bene particolarmente orientato in relazione al sé, bensì ci si spinge talmente avanti nell’autocompiacimento da trattare subito, in questa prospettiva, un non-bene come se fosse un bene. Si presume

qualcosa di sé (man bildet sich etwas ein). (Naturalmente nel caso del «bonum» qui si tratta sempre di un bonum inteso come dotazione del sé in quanto sé, dunque non ad esempio dell’avere a disposizione e possedere beni mondanamente obiettivi, che anche il sé «ha». «Esistenza». Sé: inteso come questo singolo sé che io stesso sono, e non secondo il «che cosa» generale delle proprietà obiettive, in quanto obietto siffatto, bensì il come del «sono» [das Wie des «bin»]). 2. «Verum etiam de bonis tuis quasi suis»,325 ovvero adesso: anche se si conosce in modo genuino il carattere del bene, e se al sé inerisce un bene genuino («essere buono»: esistere autentico!) – cosa che però, in quanto tale, può essere soltanto di Dio – questo fatto è assunto di fronte a se stessi come acquistato grazie a se stessi, dato dal sé per se stesso (esserci – esistenza), portato da se stesso in questo stato e stadio dell’esistenza. 3. «Aut etiam sicut de tuis, sed tanquam ex meritis suis»:326 benché questo autocompiacimento venga abbandonato in quanto il «bene» (l’esistenza) è riconosciuto come non acquistato, procurato ed elaborato da se stessi, il proprio sé è ugualmente preso sul serio, come qualcosa di importante che si ritiene importante, qualcosa che si è posto da se stesso nello stato non di dare a se stesso il bene, bensì di essere valido e degno della dote di essersi in qualche modo reso meritevole del bonum e della sua assegnazione. 4. «Aut etiam sicut ex tua gratia, non tamen socialiter gaudentes, sed aliis invidentes eam»:327 tuttavia, anche qualora il sé non si attribuisca nemmeno il merito e ammetta di possedere il bene immeritatamente, ex gratia, il gaudium boni può essere tale che il sé si rallegra di non condividerlo con altri, nel con-gioire (Mitfreude) con altri di se stesso – dove peraltro il sé è avuto in termini per così dire obiettivi, staccato dall’avere-sé (das Selbsthaben) –, poiché questo bene immeritato è tenuto invidiosamente per sé e rimane celato, mentre è rifiutato agli altri. (Presunzione, superbia, amor sui, peccatum!). (Il mondo del sé si trasforma da ultimo nel mondo degli

altri come nei punti 1 e 2; risolversi del sé [Selbstaufgehen] nel mondo, e così pure mondo degli altri nel mondo; possibili rapporti di attuazione fra i punti 1, 2 e 3. – Si tratta di fenomeni che l’assiologizzazione, nella sua forma più esagerata, non coglie, benché qui anch’essi siano concepiti ancora in termini essenzialmente assiologici. – La direzione del placere e del gaudium viene spostata nel sé, tuttavia in modo tale che il mondo del sé diventa in questo caso il mondo degli altri ancora dirigente. In questa impostazione «mondana» (che lo tiene dinanzi [Vor-halt]) il sé va perduto. – Senso del vero e proprio decadimento del sé: questo perdere, ovvero mai acquistare e [...].328 Viceversa, il superamento della tentatio può condurre alla comprensione e rivelare il sé. Che cos’è infatti il superamento? È genuino attuare, ovvero comprensione genuina dell’attuazione. In termini esplicativi: tentatio in quanto contesto esistenziale dell’espressione). L’elemento peculiare di queste quattro modalità dell’autocompiacimento di fronte a se stessi consiste nel fatto che, se da un lato è vero che è sempre «più» attuata una valutazione genuina del bonum – inteso non solo in quanto tale, ma nel «da dove», «come» e «perché» del suo essere-donato –, dall’altro lato è anche vero che il sé si vede sempre in modo nuovo di fronte a sé, si ante-pone (vor-setzt) il suo proprio mondo del sé e lo prende ancora decisamente sul serio, benché soltanto nel senso che è esso ciò in cui e di fronte a cui si realizzano la grazia e il donum. Questo significa tuttavia che nella modalità in cui il sé, relativamente alla prestazione, non assegna più nulla a se stesso – proprio allora tutto è abbandonato nel gioire di Dio. Da ultimo, e in primo luogo, infatti, qui la cura balza via in un autocompiacimento, sicché l’attuazione della cura si rinnova, ante-ponendo questa esperienza (ovvero esistenza) in sé genuina al proprio mondo del sé; di conseguenza, mediante questo «movimento» nascosto tutto cade nel vuoto, inanescit, e ogni cosa è radicalmente privata di validità rispetto al summum bonum (dinanzi a Dio). Nella cura

estrema, più decisiva e più pura di se stessi sta in agguato la possibilità della caduta più abissale e del vero e proprio perdere se stessi. (Abissale perché non si arresta più in nessun luogo e la caduta non può attuarsi più di fronte a nulla, in modo che alla fine si potrebbe pur sempre trasformarla in qualcosa di mondanamente importante. In ciò consiste il carattere propriamente satanico della tentazione! Qui non c’è alcun controllo estraneo, non ci sono appigli, e il cadere stesso è qualcosa che si potrebbe trasformare in una faccenda importante. – La cura di se stessi appare facile e comoda, in quanto «egoismo» risulta interessante e ponderata, ma al tempo stesso dannosa per il «bene della collettività»: un pericoloso individualismo. E lo è nel modo peggiore proprio dove ci si prende sempre meno sul serio, eppure ci si dà tanto più da fare; ci si pone di fronte appunto una «obiettità», mentre quella della «collettività» è un trastullo, un comodo essere fatte delle cose stesse, delle essenze e dei contesti essenziali). Agostino vede chiaramente la difficoltà e l’aspetto in definitiva «angosciante» (beängstigend) dell’esserci in un siffatto avere se stessi (nella piena fatticità). «In his omnibus atque hujusmodi periculis et laboribus vides tremorem cordis mei; et vulnera mea magis subinde a te sanari, quam mihi non infligi sentio».329 17. «Molestia» – la fatticità della vita a) Il «come» dell’essere della vita Senza indicare espressamente il contesto metodicointerpretativo e senza fare esplicito riferimento al modo in cui in linea di principio l’oggetto si determina più precisamente secondo il suo «come», bisogna delineare ora, sulla scorta dei contesti fenomenici indicati dalla molestia e dalla exploratio, la direzione interpretativa. L’interpretazione nel suo complesso «procede» compiendo da adesso in poi il cammino a ritroso, in modo tale che l’esplicazione ne risulta sensibilmente più originaria. (Tota vita – tentatio:330 «Non ut ipse discat, sed ut quod in homine latet aperiat [per l’uomo stesso, aversi]».331 – «In tentatione

apparet, qualis sit homo».332 – «Nescit se homo, nisi in tentatione discat se»).333 Molestia: molestia per la vita, qualcosa che la degrada; e l’elemento autentico della molestia sta proprio nel fatto che essa può degradare, dove questo «potere» è costituito dalla stessa attuazione dell’esperienza di volta in volta data. Di conseguenza, questa possibilità «cresce» quanto più la vita vive; questa possibilità cresce quanto più la vita perviene a se stessa. Queste due determinazioni sono fra loro connesse; e non solo in quanto è qui stabilito un determinato «come» dell’essere della vita, in base al quale soltanto ha un senso parlare di molestia; – in ultima analisi, radicale cura di sé dinanzi a Dio. (Collegamento con gli oggetti dell’esplicazione rigorosamente fenomenologica!). Dunque un determinato come dell’essere della vita, il che, qui, significa: la vita, la mia vita «è», dà la direzione dei contesti di senso. Ma le due determinazioni sono connesse fra loro in modo più concreto conformemente all’attuazione come specificato nei due punti sotto elencati. (La connessione di esse, nosse, amare – che preforma la vera e propria prestruzione [Prästruktion], l’esperienza fondamentale – è appunto l’elemento decisivo. Obiettità mondana in quanto tale, anche già significatività, egualmente nosse in quanto tale, e parimenti amare; tutti e tre – in quanto ostinati – costituiscono le possibilità della tentatio, ma al tempo stesso il mondo come ciò in cui in generale vivo in un modo o nell’altro). 1. Il «quanto più la vita vive» significa: quanto più pienamente sono attuate le direzioni dell’esperienza della fatticità. Ciò riguarda anzitutto non tanto la pienezza di ciò che è esperito, bensì le direzioni dell’esperienza come tali – di volta in volta relative al mondo-ambiente, al mondo degli altri e al mondo del sé –; quanto più queste, come tali, sono piene, vale a dire quanto più assumono sotto di sé il contesto di attuazione che è loro proprio (ovvero che è proprio alla loro fatticità), tanto più il senso pieno è chiarito

storicamente e di fatto. [Ciò significa:] Quanto più il curare si stabilisce in ogni direzione e, nel rispettivo stabilirsi, porta al tempo stesso con sé gli altri in modo corrispondente al loro senso dell’esperienza. – Questo «più» isola: sembra una quantificazione obiettiva, però non in connessione genuina con il punto 2. (Tale insieme separabile in anticipo [vortrennlich] non è obiettivo, bensì ha carattere di attuazione, è storico, è un «può [es kann]» – orizzonte, corso del tempo – nel senso più radicale, l’accadere dell’attuazione, che deve esso stesso e propriamente formarsi, e che soltanto nel formarsi che ha carattere di attuazione è). 2. Il «quanto più la vita perviene a se stessa» è la seconda determinazione e indica che l’essere della vita consiste in qualche modo anche nel suo essere-avuta: quanto più la vita esperisce che nella sua piena attuazione propria ne va di essa stessa, del suo essere. – Il «più» ha il suo «criterio» nel senso dell’essere della «vita» stessa. (La struttura categoriale di senso di questo essere è il problema per cui l’interpretazione qui sviluppata dovrebbe approntare una determinata situazione fenomenica nel senso della storia dello spirito. Riguardo al concetto di «vita» cfr. la critica a Jaspers nel corso Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks).334 La vita, dunque, in cui in generale può essere esperito qualcosa come la molestia, e nella quale – in quanto vita in sé crescente, perveniente a se stessa – si sviluppano le possibilità della molestia, è tale che il suo essere si fonda su un radicale avere se stessi, inteso come qualcosa che, conformemente all’attuazione, agisce solo e pienamente nella sua fatticità storica. b) Molestia – la minaccia dell’avere se stessi In questa tendenza a un radicale, effettivamente storico avere se stessi in una specifica chiarezza propria (Eigenhelligkeit), diventano prima di tutto visibili il concreto contesto «mondano» di attuazione dell’esperienza (cfr. tentatio), le direzioni dell’esperienza come tali e le loro possibilità in quanto possibilità di questo esperire effettivo

avente carattere di attuazione propria (eigenvollzugshaft). Ciò significa però che il senso della molestia si determina in base all’autentico «come» della vita stessa. Nella misura in cui è esperita in senso proprio, la molestia non è qualcosa come una dotazione obiettiva dell’essere umano, alcunché di obiettivo inerente a qualcosa che accade, che si deve staccare e gettare. Così vedono l’uomo ogni ascesi greco-pagana e ogni ascesi cristiana che rimane implicata nella grecità secondo le rispettive situazioni della storia dello spirito. Molestia: un «come» dell’esperire, una molestia e una minaccia dell’avere se stessi – nella piena fatticità –, «avere se stessi» che, in quanto effettivo, è tale da attuare da sé questa minaccia ed esserne fiero (sich einbildet). Nell’attuazione concretamente genuina dell’esperienza si dà la possibilità del decadimento, però nella cura più propria e radicale di se stessi si dà nel contempo l’«occasione» piena, concreta ed effettiva di pervenire all’essere della vita più propria. Decisivo è dunque l’effettivo avere se stessi nel dareforma (aus-bilden) alla possibilità e nell’essere fieri (einbilden) di essa in quanto «occasione» del sussistere della tentatio, [...]335 e dell’attuazione [...],336 dell’afferrare l’autentica direzione della cura del proprio esserci effettivo. La molestia si determina quindi secondo il «come» dell’avere se stessi nel «come» dell’attuazione effettiva dell’esperienza. (Come «la vita» ha se stessa, può avere se stessa, storicamente di fatto). 1. L’avere se stessi – attuato, inteso nella [cura] «della vita» – è cura per l’essere di se stessi. Dipende dal sé, è importante. Nascosto in ciò sta l’autocompiacimento. La molestia lo accompagna. Nella cura di sé il sé – nel «come» del suo essere più proprio – dà forma sia alla possibilità radicale del decadimento sia all’«occasione» di conquistarsi. Dobbiamo cercare di conquistare una vita bona. La nostra vita deve dunque in qualche modo riguardare noi stessi. (Avere-dinanzi [vor-haben], avere nella «vita». – «Come»

dell’«essere», essere della fatticità. – Quaestionem fieri sibi. Questione preliminare [Vor-Frage], interrogar-si [sichbefragen] non accentuato). 2. «Propter quaedam humanae societatis officia necessarium est amari et timeri ab hominibus».337 Dunque l’attuazione dell’esperienza relativa al mondo degli altri, il co-esperire (miterfahren) nel e per il mondo degli altri, mirano in se stessi a un determinato «essere tenuti in considerazione» e, in quanto tali, recano a loro volta in sé, sviluppano la molestia, ossia la possibilità del «volersi far valere» nel mondo degli altri. 3. Esperire effettivo, quello conforme al mondo, una modalità della presa di conoscenza, un guardarsi intorno, un dare forma alla possibilità del mero guardarsi intorno ostinato, proprio nella serietà di un radicale impegno a confrontarsi con il mondo e a volerlo conoscere. (Il «come» dell’aversi. – Soggettivismo e relativismo sono categorie completamente sbagliate, che argomentano da una posizione che non vede affatto i fenomeni di cui parla. – Questi «come» «sono presenti», non obiettivamente in quanto cose, bensì «storicamente»: nel senso della storia dell’attuazione obiettiva, della storia dello spirito e della storia dell’attuazione). 4. Esperire effettivo, «avere a che fare con», uso, godimento, cura (Sorge) della vita quotidiana, reficere ruinam, riproduzione, conservazione. Nell’impegno radicale sta in agguato l’affaccendarsi. (L’esibizione del fenomeno è sempre interpretazione effettiva motivata in conformità all’attuazione. – La questione non ci induce a orientarci verso un «come» in sé configurato posto casualmente in risalto, bensì a chiederci quale «può» [welches «Kann»] – fondandosi sulla fatticità dell’attuazione genuina della possibile storia dello spirito – sia per noi storicamente ed effettivamente presente. Il «può» racchiude in sé l’obiettità, del tutto eterogenea quanto alla provenienza, dell’elemento esistenziale in direzione del suo senso [?] più proprio!).

Che cosa sono io? Quaestio mihi factus sum. Quid amo? «Problematico» nelle direzioni dell’esperienza, nell’esperire e nell’avere me stesso. «Vita» – un «come» dell’essere, che consiste precisamente nell’esperire le tentationes. È una tentatio, costituisce la possibilità del perdersi e del conquistarsi. «Vita»: un «come» dell’essere di una struttura determinata e di un’espressione categoriale. (L’aversi della vita, avere se stessi, exploratio, quaestio mihi factus sum, «che cosa e come sono io». – Dipendenza della possibilità di esplicazione dall’anticipazione e dal livello dell’interpretazione intesa dal punto di vista storico, della storia dello spirito e della storia dell’attuazione). L’avere non accentuato, avere-dinanzi nell’esperienza effettiva della vita, in una determinata situazione e possibilità storicamente obiettiva, effettiva. La vita si trova così, senza però che in tal caso debbano essere già espressamente rinvenibili nel contempo – messi in risalto e delimitati – il «come», il «dove» e il «verso dove» storici della propria fatticità. Il contesto motivazionale del mettersi in evidenza dell’aversi della vita in base all’esperienza effettiva della vita. Di gran lunga non ancora nel sé. In un senso radicale non ha propriamente bisogno di giungere mai a ciò. Questo mettersi in evidenza e l’articolazione dell’anticipazione, la determinatezza delle anticipazioni e del mutamento dell’anticipazione in base al mondo-ambiente e al mondo degli altri – non accentuato. L’irruzione dello storico e il primo aspetto proprio messo in risalto della vita!

APPENDICE I

APPUNTI E ABBOZZI PER IL CORSO

Le «Confessioni» di Agostino – «confiteri», «interpretari» [cfr. par. 7 b] «Interpretazione» in quanto interpretazione particolarmente caratterizzata di se stesso, in modo che ciò davanti a cui (wovor) diventa conosciuto in riferimento a «sé» stesso non è soltanto il vuoto «davanti a cui» (das leere Wovor), bensì guida il vero e proprio interpretare, rendendolo appunto particolare. «Particolare» qui significa: – fornire livelli di interpretazione concretamente possibili in termini di indicazione formale; – in secondo luogo, mostrare in che modo il confiteri sia motivato nel postulato fondamentale: quaestio mihi factus sum. Su questa base, comprendere gli «scritti» teologicofilosofici – Sermones, Epistulae, la polemistica, e così via – come materiale determinato interpretato in contesti di esperienza relativi al mondo degli altri e in un patrimonio di sapere relativo al mondo-ambiente. Fino a che punto, a partire di qui, un nuovo tenore entra nei concetti teologici; fino a che punto tale tendenza subisce l’influsso non soltanto della Chiesa, ma della grecità! Per la distruzione delle «Confessioni», libro X [cfr. par. 7 b] Memoria che non ha carattere di attuazione in termini radicalmente esistenziali, bensì decadente in senso greco, contenutistico; non che «ne era» di lui e che ne «è» in un «era», bensì, isolatamente – cosa di per sé manifesta – il fatto che la verità ha immutabilmente «consistenza», a cui egli poi si abbassa e si assoggetta. In ciò tuttavia sono sempre presenti movimenti radicalmente esistenziali. Contesto di attuazione della domanda [cfr. par. 8 b]

Come il sé già mediante il cercare possa porsi in qualche modo dinanzi a Dio, ovvero alla vita beata, acquisti esistenza, ciò in cui l’esistenza consiste. Nel cercare esso si pone nella lontananza assoluta, tenta di conquistarla. Esplicato in senso fenomenologico? «La misura del sé è sempre costituita da che cosa sia ciò rispetto a cui esso è un sé; questa però è a sua volta la definizione di “misura”».338 «Quanto più immagine di Dio, tanto più sé; quanto più sé, tanto più immagine di Dio».339 Tentatio [cfr. par. 12 a] [La tentatio non è] un accadimento, bensì un senso esistenziale dell’attuazione, un «come» dell’esperire. Che cosa riguarda? Il senso in cui avviene l’esperire. Non è che se ne stia lì autosufficiente, significativa, nello schiudersi; piuttosto, si ha che una «possibilità» è esperita; significatività implica in termini di contenuto il rimando a un altro; cfr. «conflittualità». Esperire la possibilità, vivere nell’aperto, tenere aperto, aprire autenticamente. Prestruzione – «intenzionalità». Il «come» del sorgere della tentatio. Effettivamente «formativa» (bildend). Per chi essa è davvero presente nel rinnovamento che ha carattere di attuazione? Per colui che si mette radicalmente in «questione». Apertura riguardo a se stesso. La possibilità è l’autentico «peso». Pesante! Vita = tentatio. (Esperire la tentatio – «consistere», «cadere» – non si limita ad avvenire, bensì è esperito. Che cosa ne faccio! Forse che me ne approprio in modo che essa dischiuda soltanto possibilità? Il cadere, il poter cadere e l’essere fatti cadere accresce l’angoscia e rivela: disco!). Come vanno esplicate in questo contesto la «classificazione» e la graduatoria di Agostino? Accrescimento? delle «possibilità», del «peso» (fenomeno del

«transitus»). In che misura? Nella misura in cui la realtà evidente svanisce e la libertà diventa, in termini di contenuto, più propria. Vale a dire le modalità della tentatio in cui essa diventa accessibile. Esperire la possibilità, ossia vedere se stessi in piena attuazione nella miseria, vedere che essa «è» più forte, e che esistere significa vivere radicalmente nella possibilità, e anche, in termini «obiettivi», «essere posti» in essa. Ricevere l’esistenza! Le significatività del mondo-ambiente, del mondo degli altri e del mondo del sé – «limiti della vita» – insignificanti rispetto all’angoscia, alla possibilità. I. Essere sincero nei confronti della possibilità. II. Amministrare per bene le scoperte della sincerità. [Oneri mihi sum] [cfr. par. 12 a] «Cum inhaesero tibi ex omni me [...] et viva erit vita mea».340 La mia vita è vita autentica, io esisto. Se ti sono devoto dall’ultimo ricettacolo del mio sé, se punto tutto e radicalmente su di te – vita erit tota plena te –, allora tutte le relazioni della vita e l’intera fatticità sono talmente dominate e riempite da te che ogni attuazione si compie dinanzi a te. Ma dal momento che non è così, «oneri mihi sum»,341 sono di peso342 a me stesso, ricado indietro, non sublevas. Cado via di là e non sono in grado di cercare in modo autentico. (Come il nesso con ciò che precede). Il «peso» consiste nel «contrasto» in cui vivo, contendunt: laetitiae flendae – maerores laetandi. Non vivo in gioie che dovrei deplorare, e in preoccupazioni di cui mi dovrei rallegrare: esse sono in contrasto.343 «Et ex qua parte stet victoria nescio».344 «Contendunt maerores mei mali cum gaudiis bonis».345 Dolore peccaminoso, disperazione – gioia fiduciosa.346 – Vulnera non abscondo: lacerazione. Numquid non tentatio est vita humana – sine ullo

interstitio? Essere posti tra queste possibilità incalzanti che da soli non si è in grado di dominare. – L’indolente non lo vede, bensì concepisce l’una cosa come succedaneo dell’altra; si lascia trasportare in una monotona leggerezza e apatia. Chi esperisce ciò cerca invece di fissare la fine, di fermarsi. Certamen: in multa defluximus. Disperato. – Dunque iubes continentiam. Tota spes mea non nisi in magna valde continentia tua.347 Dalla dispersione, che si fonda ugualmente sulla tendenza fondamentale del timere e desiderare. Entrambe le cose nella cura del mondano; e questo è il proprio irruere – defluere: scivolare, cadere, nel senso dell’infiacchirsi. Nel defluxus do e procuro a me stesso una situazione in un determinato senso chiusa, che reca in sé la possibilità, in cui però fa da guida la tendenza alla delectatio, all’affaccendarsi. Solo in quanto essa è presente scaturiscono il timere e il desiderare. «Prospera in adversis desidero, adversa in prosperis timeo».348 Poiché nell’esperienza ho al tempo stesso un sapere determinato circa il modo in cui le cose sono sempre solite andare (secondo lo svolgersi dei fatti), e poiché in un certo senso sono sempre in attesa, un sapere storico decaduto nella tendenza alla delectatio. L’attesa è sempre in qualche modo implicita nel desiderium, situs anima (in quanto vox) media. Non c’è alcun medius locus,349 ubi non sit tentatio. In che senso? Che cos’è la tentatio? Nescio in qua parte stet victoria. Maerores laetandi – laetitiae flendae – maerores mei mali cum gaudiis bonis – e per di più nescio. 1. Conflittualità nella vita effettiva stessa – nel defluere – l’irrequietezza – l’essere gettato (Geworfenwerden). 2. Conflittualità entro di sé a sua volta facile [?]. (Timor – maeror laetandus. Oppure è maeror malus? Ce l’ho come qualcosa di cui mi devo rallegrare? Laetitia flenda o gaudium bonum? Si tratta di una gioia che devo deplorare?). 3. Nescio dove stia la vittoria; non so che cosa accadrà e

come andrà a finire. (Tentatio e lo storico. Come qui lo storico si accresca fino al nescio – come mi esperisco – quaestio factus sum. La «conflittualità» in termini obiettivi, si tratta [...],350 quale [...]351 orizzonte storico – intenzionalità esistenziale. La stessa presa di posizione, il «come» dell’appropriazione, del prendere con sé nel timere e nel desiderare è conflittuale, e questi a loro volta sono in conflitto l’uno con l’altro. [cfr. par. 13 a] Riallacciandosi allo iubere continentiam (et iustitiam)352 – riferito alla concupiscentia nelle tre direzioni in cui va (cfr. 1 Gv, 2, 15, 16, 17): 1) concupiscentia carnis, 2) concupiscentia oculorum, 3) ambitio saeculi. Malitiae diei. Sono presenti in quanto deliciae e suavitates, e allettano: le si trasforma in piaceri e divertimenti, mentre in realtà ciò costituisce per me il pericolo. Ciò che sta in basso lo attira, asservisce la sua volontà e gli fa scambiare il decadimento per l’autentico. Che cosa significa in termini effettivi, storici, esistenziali questo contesto dinamico? (Che cosa accade e avviene; e che cosa io attuo. – Nessuna vicinanza, bensì la fatticità autentica in senso esistenziale fenomenologico [?], non isolata obiettivamente in termini biologici, ma vita concreta, «matrimonio» [?] – mangiare, bere, pasti, «ora del tè» – concreta significatività relativa al mondo-ambiente). La tentazione sta in agguato proprio in ciò che appartiene alla mia fatticità, in ciò che ne è di me e in cui io sono. «Essa è storicamente presente». Vita = tentatio tota. Nell’effettivo scivolo in possibili isolamenti del sé (Selbstvereinzelungen). Contro il dischiudersi possibilità, contro il genuino avere ed essere se stessi della vita, delectatio. (Cap. 32: esperienza intesa come storica; tentatio qui inerente; viceversa, partendo da essa, interpretare mirando allo storico.

Esperienza – tentatio dischiudente, però nescio che cosa accadrà. – Motivazione esistenziale della distruzione [...]353 in base all’esperienza fondamentale dell’«essere nascosti a se stessi» (sichselbstverborgensein) e del nascondersi nuovamente nella vita stessa – l’occlusione (Abriegelung)). Ciò si accresce sempre più, di modo che proprio nella cura più radicale di se stessi, che è quella genuina, [si] sprigiona la forza più inquietante della tentatio, sicché solo qui si giunge alla situazione più radicale dell’esperienza di sé, in una direzione della considerazione in cui il sé non sa più che cosa fare – quaestio mihi factus sum. Cfr. la conclusione del cap. 40! (In fondo, «ciò che sono», la mia «fatticità» è la tentazione più forte e il contraccolpo nei confronti dell’esistenza e dell’esistere è il gettarsi incontro alle possibilità genuine, ossia, più precisamente, la cura di questo contesto di attuazione; in esso mi muovo in qualche modo in senso decadente). Tentatio [cfr. par. 13 a, b] Concupiscentia: in sé una direzione, direzioni dell’esperire concreto effettivo, della piena fatticità propria (Eigenfaktizität) della vita. La direzione dell’esperire indica qualcosa di possibile, dischiude possibilità; questo però solo se sono esperite in quanto direzioni, cioè se la fatticità della vita stessa vive nell’attuazione diretta in quanto diretta. L’espressione «in quanto diretto» può essere spiegata in modi diversi; come sempre, nell’«in quanto diretto» – che significa: «diretto così» – sono presenti un «verso dove» (hin-zu) e un «via da» (weg-von). Il «via da» è anch’esso coesperito, e nel contempo lo è il «via da cui» (wovon-weg). (Il radicalmente comprendente avere l’«in quanto» [das «als»] nella «quaestio sibi fieri»: una connessione attuata effettivamente in termini di genesi del senso [sinngenetisch] tra l’«in quanto» nella presa di conoscenza assoluta, solo obiettiva –

avere in qualche modo trascuratamente con sé, ma nel contempo respingere – e il vero e proprio gettarsi sull’«in quanto», ossia su se-stessi). Il tentare, ovvero l’essere tentati, è un esperire in cui una direzione dell’esperienza in quanto così diretta in se stessa – in forza del suo pieno senso in questa piena fatticità – tenta quest’ultima e, attirandola, la chiama a sé, cercando la pre ferisce (vorzieht) nella direzione propria, e precisamente in modo che, nel farlo, la cura autentica va perduta. (Questo curare in ogni concupiscentia, al quale il singolo si «abbandona» [sich «ein-läßt»]354 – «lasciarsi andare e abbandonarsi» [sich los- und einlassen] – introduce nella significatività del mondo, nell’autocompiacimento avente carattere di godimento e conforme alla curiosità. Peraltro, questo stesso «in cui» [worin], «entro cui» [wohinein] trascina via [ist fortziehend]. Il lasciar-andare è quindi anch’esso condotto; mantiene in generale viva solo la direzione – «avanti», «di più» –, però conduce nel mondo, ovvero nella fatticità storica, sicché quest’ultima si restringe e «da ultimo si dissolve»). La cura autentica è effettivamente presente nel «via da» e nel «via da cui», per la vita che è al punto di trovarsi in una tentazione, tale cioè che cerca la sua fatticità e ha una chiarezza propria circa se stessa. Due interpretazioni della «molestia» in linea di principio diverse, che dipendono dalla possibilità di vedere i fenomeni che accadono. 1. Molestia in quanto qualità (Beschaffenheit), ovvero dotazione obiettiva, peso obiettivo, presente e agente come cosa. (Un indurirsi [?] in tal caso: far scomparire – togliere ed eliminare – con mezzi obiettivi; il proprio stesso essere è uno stato, una qualità obiettiva). 2. Molestia in quanto «occasione» (Gelegenheit) della serietà, occasione che uno ha di modellarla anzitutto in quanto tale, di renderla a me esperibile in quanto fatticità, ovvero di afferrarla in termini esistenziali, di avere così la

vita nel ricordo e nell’attesa, accrescendo la serietà. (Porgere e sviluppare la possibilità esistenziale in quanto possibilità autentica). È completamente sbagliato rappresentarsi il radicale avere se stessi come un solipsismo iperriflesso o qualcosa del genere. Il sé «è» quello della piena fatticità storica, che vive nel suo mondo, con il mondo in cui vive; dunque l’«avere» in termini corrispondenti alla molteplicità del riferimento e dell’attuazione – non soltanto molteplicità, bensì contesto storicamente effettivo; e l’«avere» non è momentaneamente quietistico e contemplativo, bensì relativo alla storia dell’attuazione. Solo in questa «occasione» plasmata nell’attuazione esistenziale: «occasione» è un carattere dell’attuazione, [...].355 La donazione di senso esistenziale anche di ciò che, esperito per l’esistenza, è «esistenzialmente pienamente obiettivo» (destino, predestinazione, eccetera). Non si può definire l’autentico concetto di «fatticità» in base a una obiettività posta lì dinanzi e concepita in modo conforme all’atteggiamento, bensì nell’interpretazione esistenzialmente attuata di un «come» dell’«essere» di ciò che ha carattere di contenuto esistenzialmente esperito. Il fenomeno della «tentatio» [cfr. par. 13 c] [La tentatio] nasce (il «come» del nascere le è inerente in quanto esperire fenomenologicamente inteso; non in termini obiettivi, [in quanto] genesi cosale, biologica, la quale non ha alcun senso di tentazione) da esperienze che si risolvono in significatività il cui adempimento e la cui attuazione dell’appropriazione ineriscono essi stessi all’esistenza storicamente effettiva – contribuendo a costituirla – e che dunque sono effettivamente e contemporaneamente collocate nell’attuazione genuina dell’esistenza; tale attuazione si trova anch’essa nella possibilità del

decadimento, nel senso che dalle attuazioni apparentemente autentiche dell’esistenza – deliciae, hilaritas, il proprio scegliere e decidersi – le molestiae effettive [...]356 sono tramutate in significatività non genuine, sbagliate, mediante attuazioni apparentemente genuine dell’esistenza. La significatività può essere accantonata in modi differenti: ad esempio il celibato; all’opposto: l’astinenza e il digiuno. Tuttavia, per il suo senso è comunque decisivo che essa possa essere esperita come tale, l’essere fissata in una determinata assunzione di valore (Wert ergreifung). Il pericolo dell’assiologizzazione dei contesti fenomenici è altrettanto fatale della configurazione teoretica regionale settoriale (quanto all’ambito); le due cose peraltro vanno insieme. In che senso la tentatio è un esistenziale genuino. Luce [cfr. par. 13 f] «Multimodo allapsu blanditur mihi aliud agenti, et eam non advertenti. Insinuat autem se ita vehementer, ut si repente subtrahatur [transitus!], cum desiderio requiratur; et si diu absit, contristat animum».357 Possesso significativo decadente. («Non autem sentio sine quo esse aut aequo animo, aut aegre possim, nisi cum abfuerit»).358 «Ipsa est lux, una est, et unum omnes qui vident et amant eam».359 «Foras sequentes [homines] quod faciunt».360 «Quem invenirem qui me reconciliaret tibi?».361 Abiezione – Dio è lontano. Molestia. «Hic esse valeo, nec volo; illic volo, nec valeo; miser utrobique».362 Il fatto che, in me stesso, mi allontano sempre più da te. Paura dei truffatori più personali dentro di sé. Disabituarsi ai calcoli della significatività! In Agostino non viene tutto chiaramente in luce! Egli si è

fissato in modo troppo seducente nel frui, però all’interno di esso! «La colpa è una rappresentazione più concreta che, trovandosi con la libertà nel rapporto della possibilità, diventa via via sempre più possibile».363 «Tuttavia, chi diventa colpevole, si rende colpevole anche di ciò che ha occasionato la colpa, poiché la colpa non ha mai un’occasione esteriore, e colui che cade in tentazione è egli stesso colpevole nella [corsivo dell’Autore] tentazione».364 Deus lux [cfr. par. 13 g] Deus lux: oggetto sommo e somma chiarezza propria – «sapere». Deus dilectio: esistere autentico. Deus summum bonum: bene sommo; oggetto del valutare. Deus incommutabilis substantia: della ricerca conoscitiva di ciò che sussiste. Deus summa pulchritudo: bellezza somma del considerare che ha carattere di godimento. In ogni determinazione è contenuta una differente modalità di impostazione, di accesso, di determinazione nell’accesso. Il «da dove» (woher) dei mezzi di determinazione, il «come» della configurazione. Ora entro l’antico quadro concettuale, ora quest’ultimo utilizzato in modo nuovo e trasformato, ora nuove impostazioni. Dato che la tendenza di fondo è ancora greca – così come lo è il filosofare fino a oggi – non si giunge a nessuna distruzione. Qui la cosiddetta critica della conoscenza da sola non serve a nulla. Problema: unità e molteplicità dei contesti di attuazione dell’accesso. Origine – la loro autentica fatticità attuata conformemente al senso. Meno in termini psicologici, soprattutto classificazione. Schemi regionali di ordinamento, idee trascendentali non solo non bastano, bensì precludono

la problematica. La tentatio nella nostra interpretazione – tuttavia un’occasione per condurre a fenomeni decisivi – molestia. (Formae – concupiscentia carnis, oculorum – non secondo la possibilità, lo mostra soprattutto il caso III). Tentatio: in carne – per carnem [cfr. par. 14 a] I. Tentazione dell’uti, dell’«avere a che fare con» (umgehen-mit), nella cupiditas oblectandi (in carne), «trarre godimento da» (genußnehmen-aus), comodità, calcolo della significatività, «darsi a intendere qualcosa» (sichetwasvormachen), più precisamente: all’una significatività dare a intendere qualcosa mediante l’altra, traendosi così d’impaccio. (Direzione: lasciar incalzare la significatività stessa). Salvarsi nella scoperta e nella fissazione di una possibilità di godimento, fosse anche la propria indigenza e insicurezza. II. Tentazione della conoscenza (curiosità) – per carnem: ciò che fa da guida è un’intenzione relativa al sé. Idee inventive [?]. (I) in senso determinato – procurare – «non disfarsi di». Molestia tangibile. Ma proprio per questo più facile, poiché in quanto decadenti sono ancora facilmente individuabili nel singolo. Le altre si nascondono di più, tanto che alla fine scopro in me stesso la tentatio più grave. [Confronto fra le tre forme della «tentatio»] [cfr. par. 15 a] Appurare in base alle tre formae. Tentatio: a che scopo (wozu)365 – via da dove. Com’è concepito il decadimento, e che cosa significa in termini esistenziali? In che misura è obiettivo, constatativo,

normativo (teoretizzante, avente carattere di atteggiamento)? In che misura è effettivo, relativo al sé, esistenziale, conforme all’attuazione? Le differenti modalità della molestia ineriscono [?] alla «necessità», livelli di senso della fatticità. In che misura c’è un nesso tra l’«a che scopo»? In che misura un «accrescimento»? Verso dove, in quale direzione? Nei casi I e II di volta in volta atteggiamento!366 Nel caso III cura di se stessi, però una cura basata sull’atteggiamento e vista in base a ciò che in esso è operato per il mondo! Lo spostamento della significatività conforme alla tentatio dal contenuto (I) particolare esperito al riferimento, ovvero nella sua direzione (abbisogna [?] della peculiare ascosità [Verdecktheit] [...]).367 Il riferimento in quanto tale fonte del godimento, del decadimento (III). Assiologizzazione [cfr. par. 15 b-d] Il cedere, l’ar-rendersi (nach-geben). (Peccato). L’andare perduti. Non-cedere: superamento (fede). Cfr. Lutero, De tripl. e De dupl., 1518; iustitia: [...]368 teutonice. Contesto effettivo dell’attuazione: um Gottes willen, «per» amore di Dio, vale a dire (in termini fenomenologici) «volere» (wollen) l’esistenza di Dio, ovvero voler conquistare l’attuazione autentica in quanto esistenziale. Decisiva non è qui una predilezione di valori – il risalto (Absetzung) assiologizzato costituisce un fraintendimento teoretico del fenomeno vero e proprio –, bensì la cura esistenziale (attuazione dell’esistenza). Fede: 1) genuino, radicale amore di sé (egoismo assoluto); 2) genuino, assoluto amore di Dio («dedizione» assoluta). In questa esistenza autentica il timore più radicale è costitutivo della cura. Tuttavia, l’essere-«assoluto» (das «Absolut»-Sein) non è essere-«generale» (das «Allgemein»-Sein), da dissolversi nel

legale, bensì è radicale, concreto, storico «essere il singolo» (das Der-Einzelne-Sein). L’orientarsi sul summum bonum (e così via) assiologizzato trasforma l’intero comportamento in un quasi-esteticismo in un senso ancora ulteriore: non soltanto come atteggiamento, ma come delectatio. All’opposto la problematica storica dell’attuazione: ottiene di indicare il tremendo, il difficile, il problematico (quaestio) nella comunicazione [?]. Nel cedere ci si sottrae a ciò, e l’assiologizzazione come atteggiamento è un cedere dissimulato. Cfr. Agostino, Confessioni, X [...],369 sulla distrazione nella preghiera (mostruosità – tuttavia in Agostino non è la conclusione radicale – considerazione della misericordia). [Agnosce ordinem] [cfr. par. 15 c] «Agnosce ordinem, quaere pacem. Tu Deo, tibi caro. Quid justius? Quid pulchrius? Tu majori, minor tibi: servi tu ei qui fecit te, ut tibi serviat quod factum est propter te. Non enim hunc ordinem novimus, neque hunc ordinem commendamus. Tibi caro et tu Deo; sed, Tu Deo, et tibi caro. Si autem contemnis Tu Deo, nunquam efficies ut Tibi caro. [...] Primo ergo te subdas Deo; deinde illo docente te et adjuvante praelieris».370 Qui una gerarchia di valori, con la corrispondente configurazione assiologizzata, fallisce completamente riguardo all’interpretazione autentica. Diventa sempre più chiaro il modo in cui la tentatio e le modalità di attuazione del portare a compimento mirano anzitutto a una determinata direzione e modalità di attuazione delle esperienze relative al sé, poi però – allo stadio superiore di un’interpretazione fornita dallo stesso Agostino – a modalità precisamente regolate del decidere. Tentatio: senso sulla base di un ordine – ordine gerarchico di valori – («moderno») – Agostino pone

evidentemente la domanda se sia genuino oppure no. Greco. Teorizzazione indirizzata in modo preciso (essere intrecciato con l’elemento greco-platonico). Assiologizzazione indirizzata in modo preciso (incommutabile e summum bonum; e da qui l’intero ordine), che può diventare ancora più funesta poiché considerava contemporaneamente proprio quei fenomeni di cui si tratta in una determinata prospettiva. In Agostino questi ordini sono presenti in modo esplicito – cfr. De doctrina christiana. Tuttavia, per l’interpretazione delle Confessioni non bisogna proseguire in tale direzione, bensì rimanere nel luogo in cui esse sono assicurate; è a partire di là che va afferrato il disegno esistenziale, tentando di dare inizio già qui alla distruzione. D’altra parte è anche vero che in Agostino l’analisi assiologica non è solo supplementare, bensì domina completamente ogni considerazione. Cfr. De doctrina christiana.

[cfr. par. 15 c] Essere tenuti in considerazione nel mondo degli altri: essere amati e temuti per trarne una gioia per se stessi, ossia ci si compiace, in primo luogo, come colui che è «superiore», in secondo luogo come colui che è talmente prezioso da essere apprezzato dagli altri. In tal caso ci si vede totalmente negli occhi e nelle aspirazioni degli altri. Ci si mette in mostra, si diventa superbi (man über-hebt sich). Questa però è misera vita. – «Hinc fit vel maxime non amare te, nec caste timere te».371 In questo modo si danneggia l’amore autentico e supremo rivolto a Te, si viola il timore puro che riguarda Te. «Tu superbis resistis».372 Tu resisti poiché non si pongono nel modo giusto nei Tuoi confronti, bensì fuggono via da Te,

preferendo temere qualcos’altro al posto tuo. Preferire: assiologizzato, trasferisce tutto su un solo piano – obietti di valore. I contesti decisivi dell’attuazione sono nascosti, e più che mai lo sono i passaggi. Mediante l’assiologizzazione, nell’autocomprensione, nell’interpretazione e nella concettualità si insinua il carattere di calcolo, di livellamento e di ordinamento (porre in direzione: ordinare). Ciò significa che la cura autentica è rovinata e vista come calcolo [?] dissimulato. L’accento del senso e l’origine dell’esplicazione non risiedono nell’attuazione autentica e storica. «Propter quaedam humanae societatis officia 373 necessarium est amari et timeri ab hominibus». I doveri, i servizi, i rapporti nella società umana rendono tuttavia necessari questi riferimenti relativi al mondo degli altri. Tuttavia «instat adversarius verae beatitudinis nostrae».374 Possibilità di una falsa beatitudo! «Libeatque nos amari et timeri, non propter te, sed pro te».375 (Fatticità del significativo essere collocato in relazione al mondo degli altri. «Non solo per se stessi» in vario senso). «Quotidiana fornax nostra est humana lingua».376 Linguaggio come modalità di attuazione dell’esperire (concreto, effettivo) relativo al mondo degli altri. «Et multum timeo occulta mea (Sal, 18, 13), quae norunt oculi tui, mei autem non. Est enim qualiscumque in aliis generibus tentationum mihi facultas explorandi me; in hoc paene nulla est».377 Ogni modalità di tentazione possiede un «come» dell’esplorare determinato e corrispondente. A seconda dello «stadio» e della significatività in cui la tentatio è avuta secondo il suo senso pieno, la comprensione e l’interpretazione sono più facili o più difficili: più facili, se ancora più obiettivabili; più difficili, se si tratta dell’autointerpretazione e l’aversi può mascherarsi in modo sempre più seducente e muoversi in succedanei. (Il che rende ancora più pericolosa la tentatio).

[Quattro gruppi di problemi] 1. Tentatio:378 problematica dell’attuazione relativa al sé. Senso fondamentale del sé in quanto storico. 2. Defluere:379 multum – unum. Molestia – fatticità. 3. Quaestio mihi factus sum: insicurezza, conflitto, diventare un problema, modalità autentica del diventare un problema per se stessi. Che cosa esprime ciò? «Possibilità». (Decisivo il «come»: i fenomeni incalzano sensibilmente di più nei contesti di senso dell’attuazione. Tutto ciò che ha carattere di contenuto riceve di là il suo senso. – Problema: come mi esperisco esperendo la tentatio. Quale modalità della cura della fatticità! Può essere [...],380 casuale, obiettiva, criterio di valore obiettivo – assiologizzazione, cfr. Agostino stesso!). 4. Tentatio – orientamento fondamentale in una determinata configurazione assiologica. Allontanarsi da Dio, accrescere il distacco. Nella questione dell’avere-Dio: quanto più egli penetra nelle condizioni autentiche dell’attuazione, tanto più pericolose si dimostrano queste ultime, nell’ostilità contro se stessi. Commento a Rm, 1, 20: predelineata la struttura fondamentale; proprio questo passo come avancorpo (Vorbau) della filosofia greca (teoretica e pratica). Tuttavia non ci si è fermati a questo punto, bensì proprio nel caso di Agostino si decide: 1) totale non conoscenza di Agostino stesso (eliminazione dell’elemento plotiniano e di quello contemporaneo); 2) fraintendimento dell’elemento cristiano – ritorno ad Agostino. Dove manca ogni tentativo serio di una radicale appropriazione del terreno – storia dello spirito – non sussiste il benché minimo diritto anche soltanto a un inizio di scoperta delle prospettive essenziali. L’attuale insana, falsa impostura religiosa (qui curiosità metafisica – con la parvenza dell’interiorità): caratteristico il fatto che si lasci abbindolare da surrogati.

Limitarsi a indicare scientificamente contesti di storia dello spirito, nessuna apologetica del cristianesimo. Peccato Ciò che sta in basso ha la sua forza nell’attrarre, nell’occludere il comprendere autentico e nell’oscurarlo. Il comprendere passa dalla parte della volontà, segue la tendenza decadente e afferma addirittura che si tratta dell’autentico. Contesto motivazionale cristiano: 1. Non comprendere il giusto. 2. Non voler comprendere. 3. Non volere. L’uomo [?] [...]381 il falso, nonostante comprendesse il giusto, ha l’autentica ostinazione. «Inteso in termini cristiani il peccato sta dunque nel volere, non nella conoscenza; e questa corruzione della volontà trascende la coscienza del singolo».382 Proprio il fatto che il peccato sia dinanzi a Dio ne costituisce il lato positivo. La categoria del peccato è la categoria della singolarità. Assiologizzazione [cfr. par. 17] Nella comprensione della fatticità, della sua problematicità e dell’attuazione dell’incertezza (Fraglichkeitsvollzug) viene alla luce il carattere funesto e non adatto all’esistenza dell’assiologizzazione. (Presente in modo molto forte proprio in Agostino. Va escluso ciò che Scheler conserva: egli non comprende il problema in termini sufficientemente radicali). Preferire – posporre – essere indifferenti. Anche questo è in fondo un affaccendarsi con Dio che si facilita le cose; e in effetti bisogna soltanto seguire visioni essenziali.

Ma non sta affatto qui la traccia dell’autentico senso dell’attuazione dell’amore. Ciò che importa non è fuggire, bensì avere costantemente un confronto radicale con il fattuale. Io devo aver lo per giungere all’esistenza. Questo avere si chiama viverci dentro, non però cedere, ma nemmeno superare comodamente e assiologisticamente. Senso del superamento esistenziale. Senso della fatticità. Fissare e fare proprio in modo genuinamente effettivo il mondano, ovvero il riferimento e l’attuazione dell’esperienza. Ciò non significa né «valutare positivamente» – dato che questo non è affatto in discussione e costituisce una falsa interpretazione («Lutero» e fraintendimento) – né «fare compromessi», il che costituisce comunque un affaccendarsi deteriore (cattolicesimo!). Cercare di ottenere quella fatticità che «forma» esistenza. La «molestia» va definita in termini esistenziali: non «peso» – in senso greco-ascetico –, bensì occasione della serietà. Devo per prima cosa solo pre-formare (vor-bilden) la molestia stessa, non superarla falsamente. [Molestia] [cfr. par. 17] Essere il singolo – essere sottoposto alla «vigilanza» più propria e severa. La molestia – «sviluppare radicalmente» in quanto questa mia – contesto determinato dell’attuazione. Appropriarsi in modo conforme all’attuazione della moles in quanto qualcosa di sviante, non lasciarla stare lì come cosa e «natura», bensì afferrare il senso della fatticità, attuarlo in termini esistenziali e comprenderlo così storicamente nel ricordo e nell’attesa. Dare alla vita questa fatticità e chiarezza esistenziali, vale a dire accrescere la

serietà!

[Exploratio] Il «come» e la possibilità di attuazione della exploratio sono diversi anche secondo il modo in cui le tentationes accadono. Esse possono distinguersi chiaramente, diventare evidenti, ma possono anche essere completamente nascoste e proteggersi con la stessa attuazione dell’esperienza in cui si trovano. Explorare: riguarda nello stesso tempo e racchiude in sé il «vedere»:383 «quantum assecutus sim posse refrenare animum meum».384 Questo vedo, ossia l’exploratio è più facile se e nella misura in cui questa tentatio:385 «cum eis rebus careo, vel voluntate, vel cum absunt».386 Res: i contenuti della tentatio.387 Nell’essere liberi da ciò: «Tunc enim me interrogo, quam magis minusve mihi molestum sit non habere».388 «Divitiae vero quae ob hoc expetuntur, ut [serviant] alicui trium istarum cupiditatium [...], si persentiscere non potest animus utrum eas habens contemnat, possunt et dimitti, ut se probet».389 Possibilità del vedere, dell’essere liberi, del superare e dell’avere superato, del comprendere chi io «sono» e che cosa «posso». Ma come va provata la possibilità della privazione nel caso della «lode»? Quid in carendo laudis possum explorandum male vivendum est. «At si bonae vitae bonorumque operum comes et solet et debet esse laudatio, tam comitatum ejus, quam ipsam bonam vitam deseri non oportet».390 Il pericolo della tentatio e l’impedimento della (genuina) esplorazione debbono essere attuati. – La laus in quanto comes – libido carnis, voluptas [...]391 – anche comes? – ma come?

L’abesse della laus può realizzarsi solo se viviamo senza vergogna, distinguendoci nell’infamia e nel disprezzo. Tuttavia dobbiamo ugualmente aspirare alla bona vita, [...]392 nel bonum. Non autem sentio – la possibilità della privazione – nisi cum (in qualche modo) abfuerit. [Angoscia] Offrire le possibilità corrispondenti! A ciò che io esperisco in relazione al mondo! (Delectatio – gaudere velle. L’altro. Manca qualcosa. Quindi già posto nella possibilità, benché interamente nel decadimento mondano. Anche qui, però, ancora qualcosa del movimento esistenziale genuino – per così dire ancora in un guizzo [im Zucken]). «accessi di angoscia» «storico» – attuato – conservando i precedenti aprire – possibilità – anch’esso storico. «L’angoscia scopre il destino».393 L’esperienza priva di direzione dell’angoscia: nessuna direzione a partire dal sé autentico. L’angoscia stessa dirige. L’angoscia diretta in relazione al sé: direzione. Libera dal preferire le significatività mondane. L’«avere timore di esse» è allontanato nell’angoscia. T[erminus]: «angoscia»; non meglio il timore senza direzione della significatività! «Timore» l’angoscia genuina: timore reverenziale. [Le avversità, la tentazione in senso etico, la tribolazione in senso religioso] Le avversità, ciò che è «contro le attese» (das Widerwärtige, «wider das Erwarten»): rapporto stabilito da significatività a significatività all’interno della direzione decadente dell’esperienza. La tentazione (Versuchung) (in senso etico): ciò che sta

«in basso» alletta, cerca di attirare in basso ciò che sta «in alto». (Essere trascinati via nella direzione effettiva della significatività). La tribolazione (Anfechtung) (in senso religioso): ciò che sta in alto (per così dire invidioso) allontana e separa da sé l’individuo, intensificandosi con la religiosità. La peculiare resistenza dell’assoluto. (Essere ricacciati nella cura necessita già dell’esistere! Come? – A chi capita la cura? Come si caratterizza colui al quale essa capita? Che cosa significa essere ricacciati in termini conformi all’attuazione?). Per la distruzione di Plotino Dato che, in ultima analisi, ciò che importa è l’esistenza effettiva, ed è in essa che la distruzione è propriamente vissuta e ha senso, tutto ciò che va distrutto dev’essere esplicato anch’esso, in definitiva, in relazione al suo «come». Il compito è quindi il seguente: vedere quel tenore inespresso che, finché si vive solo nella «cosa» stessa e, ad esempio, la si discute (oppure la si migliora, la si trasforma e simili), non si è in grado di ottenere. Il tenore inespresso si può «vederlo» soltanto entro un’anticipazione autentica (esistenziale) come tale. E ciò che importa è seguire con precisione i passi senza lasciarsi sedurre da alcuna convenzione.

APPENDICE II

INTEGRAZIONI TRATTE DALLA TRASCRIZIONE DI OSKAR BECKER

1. Continentia [cfr. par. 12 a] «Jubes continentiam» – lo iubere è una directio cordis. Su ciò cfr. Enarrationes in Psalmos, VII, versetto 10: lo iubere non è orientato in senso ecclesiastico nella fede obiettiva. «Quomodo ergo justus dirigi potest, nisi in occulto».394 È vero che in passato – a causa degli eventi all’inizio dell’èra cristiana, quando i cristiani erano perseguitati – l’influenza di Dio poteva essere esperita in termini obiettivi come un miracolo. Adesso però che il nome del cristiano è giunto a una simile altezza cresce anche la hypocrisis, l’ipocrisia di coloro che preferiscono piacere agli uomini piuttosto che a Dio. Come può il giusto essere affrancato da una simile confusio simulationis se non in virtù del severo esame cui Dio sottopone «il suo cuore e i suoi reni»? (Cor, cuore = ponderatezza interiore; ren, rene = delectatio in malam partem. Nella vita la delectatio è qualcosa di basso ed è perciò indicata tramite un organo inferiore). Agostino ci dice poi dove si attua questo scrutinium. – «Finis enim curae delectatio est»:395 ciascuno infatti, nella sua cura e ponderatezza, aspira ad arrivare là dove giunge la sua propria delectatio, però nella coscienza è Dio stesso che ci si rivolge e vede la nostra cura e la nostra meta. Un uomo può conoscere ciò che facciamo mediante azioni e parole, «sed quo animo fiant»,396 e con quali intenzioni, lo conosce solo Dio. In questo senso va inteso lo iubes continentiam. 2. «Uti» e «frui» [cfr. par. 12 b] Una caratteristica fondamentale della vita è il curare (l’essere preoccupati), inteso come vox media in bonam et in malam partem: c’è una cura genuina e una non genuina (quest’ultima è l’«affaccendarsi»). Uti: io «ho a che fare» con ciò che la vita mi arreca. Questo è un fenomeno interno al curare. Frui: «godere». – «Beatus est quippe qui fruitur summo bono».397 In ciò è implicito un determinato senso estetico

fondamentale. Si nota l’influsso neoplatonico: il bello inerisce all’essenza dell’essere. Diciamo infatti che è un godimento una cosa «quae nos non ad aliud referenda per se ipsa delectat».398 Concepiamo come uti la modalità del piacere che si ha quando si aspira a qualcosa per amore di altro («uti vero ea re [dicimur], quam propter aliud quaerimus»).399 Nel godere dobbiamo avere le cose eterne e immutabili. Il giusto comportamento nei confronti delle altre cose è l’uti, dato che proprio per loro tramite giungiamo al frui di ciò che è genuino (cfr. De doctrina christiana, libro I, cap. 22). La possibilità di dimorare stabilmente nel godimento ce l’ha soltanto la trinitas, che è il bene supremo e immutabile. Fruendum est rebus invisibilibus. «Frui enim est amore alicui rei inhaerere propter seipsam. Uti autem, quod in usum venerit ad id quod amas obtinendum referre, si tamen amandum est».400 «Omnis itaque humana perversio est, [...] fruendis uti velle, atque utendis frui. Et rursus omnis ordinatio, quae virtus etiam nominatur, fruendis frui, et utendis uti» (De diversis quaestionibus octoginta tribus, liber unus, quaestio XXX; scritto subito dopo la conversione di Agostino).401 Senso estetico fondamentale del frui; fruendum est trinitate, rei intelligibilis pulchritudo [?] (= νoητoν κάλλoς) [?]; incommutabilis et ineffabilis pulchritudo = Dio. Il frui è quindi la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento di fondo di Agostino nei confronti della vita stessa. Il suo correlato è la pulchritudo. Vi è dunque contenuto un momento estetico. E lo stesso vale per il summum bonum. – Risulta così delineato un lato fondamentale dell’oggetto medioevale della teologia (e della storia dello spirito in genere): si tratta della concezione specificamente greca. La «fruitio Dei» è un concetto decisivo nella teologia medioevale; è il motivo principale che ha condotto allo sviluppo della mistica medioevale. Tuttavia la «fruitio» di Agostino non è quella specificamente plotiniana, culminante nella contemplazione,

bensì è radicata nella concezione peculiarmente cristiana della vita effettiva. La fruitio Dei si pone in ultima analisi in antitesi con l’avere il sé; le due cose non nascono dalla medesima radice, bensì sono cresciute insieme dall’esterno. A ciò è connesso il fatto che per Agostino lo scopo della vita è la quies. Vita praesens: «In re laboris, sed in spe quietis; in carne vetustatis, sed in fide novitatis».402 – Nella carne (σάρξ: in Paolo indica non solo la libido dei sensi, bensì la vita effettiva in generale) la rovina (il decadimento), nella fede il rinnovamento. «Quo praecedit spes vestra, sequitur vita vestra».403 La vita si attua là dove l’attesa precede. Schema sinottico dei fenomeni

Uti e frui costituiscono il curare. – La direzione fondamentale della vita: la delectatio. – La tentatio è contenuta nella delectatio stessa. Essa ha le possibilità decisive del defluxus e della continentia. 3. Tentatio [cfr. par. 12 b] Tentatio (cap. 28). Sensi differenti della tentatio: 1) tentatio deceptionis: con la tendenza a «far cadere» (zu-Fallbringen); 2) tentatio probationis: con la tendenza a mettere alla prova. Nel primo senso tenta soltanto il diavolo (diabolus), nel secondo anche Dio.404 «Diabolus»: sopravvive qui in Agostino, con immagini concrete, una credenza nei demoni. Ma non è tutto: si veda lettera 146. Nessun uomo è dotato di giustizia in misura tale che per lui non sia necessaria la tentazione della tribolazione.405 È

questa l’autentica tentatio, la tentatio tribulationis, la quale fa sì che l’uomo metta in questione se stesso. Essa è necessaria «vel ad perficiendam, vel ad confirmandam».406 «Nescit se homo, nisi in tentatione discat se».407 L’uomo non si conosce affatto se non si conosce nella tentatio. Si vede il senso storico fondamentale del discere, che si realizza nell’esperienza storica, concreta ed effettiva di se stessi. La tentatio è un concetto specificamente storico. «Amores duo in hac vita secum in omni tentatione luctantur, amor saeculi, et amor Dei».408 Sul concetto di diabolus: cfr. Enarrationes in Psalmos, ad Ps. 148. Ogni giorno lottano in noi tribolazione e [...]409 non sempre [...], tuttavia portiamo [...], e in noi stessi resta costante il pericolo che colui che non vigila sia vinto; se però non acconsentiamo, prendiamo sì il sopravvento, ma anche in ciò è contenuta una molestia, resistendo 410 delectationibus. Paolo, Gal, 5, 17: «Caro enim concupiscit adversus spiritum».411 Voi non fate quello che volete, e questa è una lotta, e ciò che la rende ancora più molesta è che si tratta di una lotta interiore. «In quo bello si sit quisque victor, illos quos non videt inimicos, continuo superabit. Non enim tentat diabolus vel angeli ejus, nisi quod in te carnale dominatur [è vivo in questa fatticità autentica]».412 Quale che sia il modo in cui il diavolo tenta, egli tenta sempre colui che gli dà il proprio consenso, «non cogit invitum»; afferra soltanto «quem invenerit ex aliqua parte jam similem sibi»,413 di modo che è aperta la porta per l’ingresso della suggestione diabolica (ianua tentatione). Lo sviluppo della tentatio dalla vita effettiva si attua a livelli differenti. Distinzione dei fenomeni in tentazioni concretamente concepibili (ad esempio sessuale) e tentazioni non concretamente concepibili (mentali, che si attuano nella cogitatio). La tentatio ha un duplice rapporto con le esperienze autentiche del sé.

In quale direzione fondamentale dell’esperienza ha anch’essa il suo senso? Dobbiamo ritornare al suo fondamento autentico di attuazione. È qui che ci si offre l’occasione per fornire un’indicazione circa un nesso rimasto finora nascosto fra Agostino e il neoplatonismo! Agostino (nel De doctrina christiana) prende le mosse da una situazione concreta di tentazione, cioè dal «vivere nell’avidità» (avaritia). L’elemento determinante è la dilectio, l’amor pecuniae. Quale sia la delectatio dominante diventa decisivo per il comportamento nella tribolazione e nell’avere la meglio su di essa. Dall’esterno il diavolo consiglia il guadagno, che però implica l’inganno. Egli pro-pone ciò che tu hai interiormente superato. (Dunque qualcosa di significativo, che corrisponde alla direzione del riferimento dell’esperienza che è già viva nell’uomo). Quando vinci l’avidità, quando essa è interiormente dominata in te, la tentazione è superata. Tutto dipende dalla direzione dominante della delectatio. Rimane però sempre viva un’attesa, cui tuttavia può essere anteposto qualcos’altro, sicché ne nasce una lotta interiore. L’uomo si trova di fronte a una decisione. «Sei stato scisso dal peccato in te stesso». («Etenim ex peccato divisus es adversum te»).414 «Habes contra quod pugnes in te, habes quod expugnes in te».415 Ne consegue che nella considerazione della tentatio ciò che importa non è la situazione obiettiva che produce la tentazione, bensì la situazione relativa al sé di colui che la esperisce. È di volta in volta necessaria un’altra cosa a seconda se lotti, vinci, gioisci – ad esempio se viene proposto un guadagno, delectationem habet. «Suggeritur aliquod lucrum, delectat; habet fraudem, sed magnum est lucrum; delectat, non consentis».416 Ancora si danno consigli, si sollecita. Già ponderato. Già caduto. «Contempsit justitiam, ut fraudem faceret»,417 oppure: contempsit lucrum per amore della giustizia. «Sed etiam ille qui vicit, numquid omnino egit in se»418 che il denaro non gli può più nuocere? «Aut nihil in eo excitet delectationis»?419 Benché gli sembri che non valga

più la pena lottare per il denaro, «inest tamen aliqua delectationis titillatio».420 Questo prurito c’è e permane nell’uomo anche quando non è più viva alcuna tentazione. (Qui Agostino giunge al problema del peccato originale). Il ruolo svolto dal «posporre e proporre» (nach- und vorsetzen) indica che al fondamento del fenomeno sta un certo ordo. Tu appartieni a Dio, ma a te appartiene la carne (con cui si intendono le disponibilità della vita effettiva). Tu appartieni a ciò che vi è di più prezioso, ciò che vi è di più misero appartiene a te. L’ordine che conosciamo e raccomandiamo non è il seguente: «Tibi caro et tu Deo; sed, Tu Deo, et tibi caro. Si autem contemnis Tu Deo, nunquam efficies ut Tibi caro. [...] Primo ergo te subdas Deo»,421 poiché così combatterai sotto la sua ispirazione e la sua guida. Ciò che importa non è soltanto il riferimento a Dio, bensì il «come» dell’ordo. «Agnosce ordinem».422 In termini moderni: riconosci la gerarchia dei valori. Per noi è importante: in primo luogo, «come» questo ordine gerarchico stia al fondamento; in secondo luogo, il fatto che l’ordine è visto entro una determinata impostazione concettuale. Non è scontato che quanto è esperito nella delectatio si collochi in una gerarchia di valori. Ciò riposa piuttosto su una «assiologizzazione» che in definitiva si pone sullo stesso piano della «teorizzazione». Questa gerarchia di valori ha un’origine greca. (L’intero stile della sua struttura concettuale deriva in ultima analisi da Platone). Lo dimostra fra l’altro il rapporto con l’incommutabile. Dunque in Agostino è già presente una gerarchia siffatta. Ma questa assiologizzazione corrisponde al fenomeno esplicato? L’assiologizzazione è più difficile da concepire della teorizzazione poiché si occupa effettivamente di ciò che è in questione. I capitoli [...]423 del libro X delle Confessioni indicano che Agostino pone effettivamente una gerarchia al fondamento, però essa acquista alla fine un senso essenzialmente diverso. Questa gerarchia è largamente dominante in Agostino, benché in verità non sia concepita in forma così separata

come si fa oggi (ad esempio in Scheler); essa fa tutt’uno con la sua concreta metafisica, e la comprensione della realtà (res) è improntata su di essa. Che cosa intende Agostino per «res» (realtà)? Le modalità della cura, dell’uti e del frui, riferite alla «res» danno come risultato la seguente partizione in tre generi: «Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus utendum, aliae quae fruuntur et utuntur».424 Di fronte alla res stanno i signa (segni). «Proprie autem nunc res appellavi, quae non ad significandum aliquid adhibentur, sicuti est lignum, lapis, pecus, atque hujusmodi caetera».425 Intesi però non nel senso del pezzo di legno che Mosè pose nelle amare acque, né della pietra su cui Giacobbe poggiò la testa, eccetera. – Antitesi: signum = simbolo. Ciò ha a che fare con l’interpretazione della Scrittura e risale alla scuola esegetica alessandrina (che a sua volta si riallaccia alla scuola filologica: problema dell’interpretazione di tutti i testi). Queste ultime cose (il legno di Mosè, eccetera) sono al tempo stesso segni di altre cose. Ci sono tuttavia anche altri segni il cui impiego compiuto e corrente consiste nel designare stesso (mentre il legno non deve avere necessariamente un carattere indicativo). Nessuno impiega le parole se non per designare. Ogni segno è una res, altrimenti non è nulla, ma non ogni res è un signum. Quando consideriamo la res prestiamo attenzione solo a ciò che le cose sono (secondo il loro contenuto), non a ciò che di diverso possono indicare. Quando invece considero una cosa come segno devo prestare attenzione non a ciò che le cose sono, ma al fatto che esse sono segni (sicché devo volgere lo sguardo altrove rispetto a esse).426 Che cos’è l’uomo in quanto tale? È un fruendum, un utendum, o entrambe le cose? Noi stessi, che fruimur et utimur, siamo a nostra volta una qualche res. «Magna enim quaedam res est homo»,427 giacché egli è dotato di ragione. «Itaque magna quaestio est utrum frui se homines debeant, an uti, an utrumque».428 C’è il comandamento dell’amore

reciproco, ma la questione è se un uomo sia amato dall’altro in quanto uomo (propter se) o per amore di un altro. Se l’uomo è amato per amore di se stesso, fruimur eo; in caso contrario, utimur eo. Ora, però, sembra che l’uomo debba essere amato per amore di un altro, poiché in ciò che va amato per amore di se stesso «constituitur vita beata».429 Tuttavia della vita beata non abbiamo la res (non ce l’abbiamo in quanto tale), sed spes. Anche per se stesso l’uomo non può essere oggetto del frui, se vedi con chiarezza. «Si autem se propter se diligit»,430 non si riferisce a Dio. Se è rivolto a se stesso non è rivolto a nulla di immutabile. E poiché ciò che dice di amare in se stesso è afflitto da un difetto (defectus, la caducità), è preferibile che, senza difetti, si leghi all’incommutabile, piuttosto che «ad seipsum relaxatur».431 Vive santamente colui «qui rerum integer aestimator est»,432 cioè «qui ordinatam dilectionem habet».433 In base a questo ordo si attua la presa di posizione nella tentatio, si decide il comportamento di fondo nei confronti delle cose. Questa dottrina del valore è già a uno stadio avanzato di configurazione. Tuttavia la si giudica in modo sbagliato se la si isola e non la si vede nel suo contesto. Sorge poi il problema se una gerarchia di valori così concepita abbia carattere di necessità, oppure se sia dovuta semplicemente al ruolo che la filosofia greca svolge nel pensiero agostiniano. Ulteriori elementi riguardo alla dottrina del valore: «Non autem omnia quibus utendum est, diligenda sunt, sed ea sola quae aut nobiscum societate quadam referuntur in Deum [essere riferiti a Dio in base a una comunità fra di noi]».434 (Ha qui l’origine l’idea del solidarismo cristiano). Meritano di essere amate le cose che sono riferite a noi, ma «beneficio Dei per nos indigent, sicuti est corpus [carne come sede del peccato]».435 Ci sono quindi quattro generi di oggetti che vanno amati: 1. Ciò che è sopra di noi. 2. Ciò che noi stessi siamo. 3. Ciò che è accanto a noi. 4. Ciò che è sotto

di noi. Riguardo agli oggetti dei punti 2 e 4 non c’è bisogno di un comandamento particolare per amarli. Per quanto possa allontanarsi dalla verità, l’uomo non perde mai la stima di sé e l’apprezzamento del proprio corpo. «Nemo ergo se odit».436 Tuttavia, per la specificità del retto amor proprio, sono necessari comandamenti di un ordine determinato. Nel rapporto con se stesso l’uomo assume una posizione particolare, dato che la stima di sé si presenta da sé con la fatticità della vita. (Ciò implica un determinato complesso di fenomeni dell’esperienza di sé che andrà esplicato). Ama in modo autentico colui che è integer aestimator rerum e che ha la ordinata dilectio, in virtù della quale né ama ciò che non deve essere amato, né ama di più ciò che non deve essere amato di più, eccetera.437 (In questa gradazione dell’ordine dei valori è contenuto un certo formalismo). Non bisogna però sradicare questa gerarchia di valori dal contesto della storia dello spirito, ossia dal peculiare intreccio fra la filosofia greca (in particolare il platonismo) e la concezione cristiana della vita. Nell’analisi dei successivi capitoli delle Confessioni (libro X, capp. 30 sgg.) dobbiamo prestare attenzione ai seguenti quattro gruppi di problemi. 1. Problema della «tentatio». Il contesto di attuazione della mia concreta, piena «esperienza di me stesso», in questo caso: come mi decido. Partendo dal problema della tentatio perveniamo al senso fondamentale dell’esperienza di sé in quanto esperienza storica. 2. Connesso alla tentatio c’è il «defluxus in multum» (nella molteplicità delle significatività della vita effettiva). La «molestia» (molestia) si dimostra costitutiva per il concetto di fatticità. 3. Problema del senso del «quaestio mihi factus sum». Il «porsi in questione» (sich-zur-Frage-werden) ha senso solo nel contesto concreto dell’esperienza di sé. Non è una questione dell’obiettivo essere lì presente, bensì

dell’autentico esistere relativo al sé. 4. Problema dell’orientamento fondamentale della «dilectio» in un sistema assiologico determinato. Bisogna decidere in che misura esso scaturisca dall’esperienza personale e in che misura si possa dimostrare come determinato dalla collocazione di Agostino nella storia dello spirito. Il problema della teoria generale dei valori è in relazione con il platonismo e con la dottrina del summum bonum, in particolare con la concezione della via mediante la quale il summum bonum diventa accessibile. Fondamentale per l’intera «filosofia» patristica e per l’orientamento della formazione della dottrina cristiana sulla scorta della filosofia greca è il passo paolino della Lettera ai Romani, cap. 1, 20. Da esso è tratto il motivo per la fondazione e la ricostruzione greca della dogmatica cristiana. Ed è indubbio che questo «avancorpo» (Vorbau) sia stato poi incluso nei modelli fondamentali dell’orizzonte speculativo cristiano della dogmatica. Non ci si può dunque limitare a eliminare l’elemento platonico presente in Agostino, ed è sbagliato credere di poter ottenere l’elemento autenticamente cristiano facendo riferimento alla sua opera. Rm, 1, 19-20 dice: o θεὸς γὰρ αὐτoῖς ἐφανέρωσεν. τὰ γὰρ ἀόρατα αὐτoῦ ἀπὸ κτίσεως κόσµoυ τoῖς πoιήµασιν νooύµενα καθoρᾶται, ἥ τε ἀΐδιος αὐτοῦ δύναµις καὶ θειóτης...438 A partire dalla creazione del mondo, l’invisibile di Dio si rende visibile al pensiero per mezzo delle sue opere. Questa frase ritorna costantemente negli scritti patristici e dà la direzione all’ascesa (platonica) dal mondo sensibile a quello sovrasensibile. Essa è (ovvero è concepita come) la convalida – tratta da Paolo – del platonismo. Ciò costituisce tuttavia un fraintendimento del passo paolino, che soltanto Lutero per primo ha compreso correttamente. Nelle sue prime opere Lutero ha inaugurato una nuova comprensione del cristianesimo delle origini, benché in seguito sia caduto vittima egli stesso del peso della tradizione, dando inizio così allo sviluppo della

scolastica protestante. Le conoscenze che caratterizzano il primo periodo di Lutero sono decisive per i rapporti intellettuali fra il cristianesimo e la cultura – un fatto, questo, che oggi, nel bel mezzo della preoccupazione per il rinnovamento cristianoreligioso, viene disconosciuto. La concezione di Lutero è chiaramente espressa nella Disputazione di Heidelberg, del 1518, in cui egli sostiene quaranta tesi, ventotto teologiche e dodici filosofiche. Importanti per noi sono qui le tesi 19, 21, 22. (19) «Non ille digne Theologus dicitur, qui invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspicit».439 Non è teologo colui che scorge l’invisibile di Dio per mezzo di ciò che è creato. La donazione dell’oggetto della teologia non si ottiene tramite una considerazione metafisica del mondo. (21) «Theologus gloriae dicit malum bonum et bonum malum, Theologus crucis dicit id quod res est».440 Il theologus gloriae, che si delizia esteticamente delle meraviglie del mondo, nomina il sensibile in Dio. Il teologo della croce dice come sono le cose. (22) «Sapientia illa, quae invisibilia Dei ex operibus intellecta conspicit, omnino inflat, excaecat et indurat».441 La vostra sapienza, che scorge l’invisibile di Dio per mezzo delle sue opere, insuperbisce, acceca e indurisce. 4. Il «confiteri» e il concetto di peccato [cfr. par. 13 b] È importante l’appartenenza della molestia alla fatticità, che si schiude nel proprio esperire medesimo. In che modo la perdurante esperienza della molestia e il confronto con essa ineriscano alla vita autentica. In seguito la molestia viene spiritualizzata: la tentatio non è più sensibile-cosale, bensì più nascosta e pericolosa. Si accrescono il senso della fatticità e il senso del «quaestio mihi factus sum». Abbiamo affrontato così quattro fenomeni fondamentali, importanti per l’ulteriore discussione delle Confessioni: 1) la tentatio; 2) il defluxus in multum e la molestia; 3) il «quaestio mihi factus sum»; 4) la questione della

configurazione assiologica. Nella nostra ulteriore interpretazione dobbiamo tenere conto di due cose. 1. Agostino comunica tutti i fenomeni con l’atteggiamento del confiteri, ponendosi il compito del cercare-Dio e dell’avere-Dio. Importante è l’indicazione relativa all’autentica condizione di attuazione dell’esperire-Dio, la cui natura è tale che, quando la si prende sul serio, ci si allontana (in un primo momento) da Dio. Con il «quaestio mihi factus sum» si accresce il distacco da Dio. 2. La nostra possibilità di interpretazione ha i suoi limiti, poiché il problema del confiteri nasce dalla coscienza dei propri peccati. La tendenza alla vita beata, non in re, bensì in spe, sorge soltanto dalla remissio peccatorum, ossia dalla riconciliazione con Dio. Noi però dobbiamo lasciare da parte questi fenomeni, poiché sono assai complessi e richiedono condizioni di comprensione che non si possono raggiungere in questo contesto. Eppure con la nostra riflessione condotta nell’ordine del comprendere acquisiremo l’elemento fondamentale per accedere ai fenomeni del peccato, della grazia, eccetera. Ed è vero che in Agostino la coscienza del peccato, e il modo in cui Dio è presente in essa, si intrecciano in modo peculiare con il neoplatonismo. (Perciò la sua concezione del peccato non può costituire una guida [...]442 per l’esplicazione fenomenologica del fenomeno «genuino»). Il concetto di peccato ha in Agostino un triplice carattere. 1. Un carattere teoretico: peccato come privatio boni, orientato sul summum bonum. Il peccato è una misura minore di realtà, quindi reca in sé una misura maggiore di mortalità: è esso stesso la morte, con esso è data la morte. Queste sono idee plotiniane che si legano a una determinata interpretazione di pensieri paolini tratti dalla Lettera ai Romani. 2. Un carattere estetico: cfr. su ciò Confessioni, libro VIII, cap. 7, inizio. In base al racconto di Ponticiano su sant’Antonio, Agostino scrive: «Tu autem, Domine, inter

verba ejus retorquebas me ad meipsum, auferens me a dorso meo ubi me posueram, dum nollem me attendere; et constituebas me ante faciem meam, ut viderem quam turpis essem, quam distortus et sordidus, maculosus et ulcerosus».443 3. Un carattere conforme all’attuazione: Ti perde soltanto colui che Ti abbandona; e colui che Ti abbandona, dove fugge se non via da Te il Misericordioso – verso di Te l’Adirato? È una concezione decisiva. 5. La posizione di Agostino nei confronti dell’arte («De musica») [cfr. par. 13 e] Cap. 33. Importante per la posizione di Agostino nei confronti dell’arte, in particolare della musica. Non è possibile estrapolare da Agostino un’analisi dell’arte, ma i suoi motivi di fondo sono importanti. L’arte va inserita in un contesto superiore, così come l’estetica. Essa deve esplicare gli oggetti estetici in modo che siano intesi come una via che porta al bello assoluto (concezione neoplatonica!). Caratteristica in proposito è l’affermazione di Agostino contenuta nelle Retractationes e riferita al suo libro De musica libri VI. Dei sei libri sulla musica quello a cui si fa più spesso riferimento è il sesto, poiché l’oggetto vi è trattato nel modo autentico del conoscere, cioè in questi termini: si mostra come sia possibile il passaggio dai rapporti numerici mentali e sensibili – che però sono di per sé mutevoli – ai rapporti numerici immutabili – che si collocano di per sé nella verità immutabile. Il De musica è un’estetica formale in cui Agostino fornisce una teoria dei numeri e una dottrina delle relazioni. Egli distingue cinque diverse specie di «numeri» (musica ars bene modulandi): 1. numeri «in ipso sono»444 2. numeri «in ipso sensu audientis»445 3. numeri «in ipso actu pronuntiantis»446 4. numeri «in ipsa memoria»447 (come essi sono nella

coscienza) 5. numeri «in ipso naturali judicio sentiendi»;448 ovvero: numeri iudiciales. (In questi «numeri in sé» è contenuto il motivo del passaggio all’immutabile). Agostino non offre un’esposizione psicologica, ma descrive il modo in cui ci si comporta quando si ode. Cfr. in Enarrationes in Psalmos la frequente definizione del Nuovo Testamento come «canticus novus». – «Cantare est res amantis» –. Interpretazione dell’arte: la sua ripresa entro la totalità della vita umana effettiva, ma in modo che essa non sia sviluppata in termini metafisici, bensì riceva il suo posto determinato in base all’ordine dei valori, a partire dal summum bonum. Tuttavia non bisogna estrapolare queste riflessioni dal contesto complessivo, altrimenti non si vedono i fenomeni. Indicative in proposito sono le parole di Agostino stesso riguardo al De musica: chi leggerà quei libri troverà che non ci occupiamo dei fatti artistici in base a una presa di posizione evasiva in cui poi ci adagiamo, bensì partendo dalla necessità di intendere anch’essi come una via. («Illos igitur libros qui leget, inveniet nos cum grammaticis et poeticis animis, non habitandi electione, sed itinerandi necessitate versatos»).449 Benché la via sia bassa (vilis via), non per questo dev’esserlo anche la meta. Questi scritti sono redatti per coloro che si occupano di scienza e di letteratura mondane, rimanendo impigliati in molteplici errori e logorando le loro buone facoltà intellettive in minuzie (in nugis), senza vedere che cosa c’è di propriamente prezioso (ibi delectat) negli oggetti con cui hanno a che fare. È in tale contesto che va inteso l’intero impianto del De musica. Il significato dei singoli «numeri» e la loro disposizione vanno compresi in base all’orientamento fondamentale sul summum bonum, che deriva dall’estetica neoplatonica. 6. Videre (lucem) Deum

[cfr. par. 13 g] «Decus meum», detto di Dio – un pensiero neoplatonico. «Lux», definita dalla tradizione neoplatonica e dal Vangelo di Giovanni, che rinviano entrambi alla filosofia greca. Gv, 1, 4-5: εν αὐτῷ [τω λoγω] ζωὴ ην, καὶ η ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων· καὶ τò φῶς ἐν τῇ σκoτίᾳ φαίνει καὶ ἡ σκoτία αὐτὸ oὺ κατέλαβεν.450 Rapporto con la questione del coglimento di Dio. Cfr. il commento di Agostino al Vangelo di Giovanni (Tractatus in Joannis Evangelium) e la lettera 146 (De videndo Deo); gli scritti precedenti sono molto diversi. La lux va distinta dal lumen. Lux: in senso obiettivo, ciò che è lì presente in quanto oggetto del vedere (regina colorum). Lumen: luminosità, sempre dell’anima. Cfr. Quaestionum Evangeliorum libri duo: «Si quod lumen est in te tenebrae sunt, ipsae tenebrae quantae (Mt, 6, 23)? Lumen dicit bonam intentionem mentis, qua operamur: tenebras autem ipsa opera appellat, sive quia ignoratur ab aliis quo animo illa faciamus, sive quia eorum exitum etiam ipsi nescimus, id est, quomodo exeant atque proveniant eis quibus nos ea bono animo impendimus».451 Le [...]452 sono quelle mirando alle quali le abbiamo intese con buona intenzione. Tractatus in Joannis Evangelium, I, 18 (su Gv, 1, 4): «Et vita erat lux hominum; et ex ipsa vita [Verbi] homines illuminantur. Pecora non illuminantur, quia pecora non habent rationales mentes, quae possint videre 453 sapientiam». (Verità della vita, non teoretica). I, 19: «Sed forte stulta corda adhuc capere istam lucem non possunt, quia peccatis suis aggravantur, ut eam videre non possint. Non ideo cogitent quasi absentem esse lucem [...]: ipsi enim propter peccata tenebrae sunt».454 «Quomodo homo positus in sole caecus, praesens est illi sol, sed ipse soli absens est [egli non è da avere per il sole, mentre il sole lo aspetta; esso gli è forse obiettivamente disponibile]; sic omnis stultus, omnis iniquus, omnis impius, caecus est corde. Praesens est sapientia, sed cum caeco praesens est, oculis eius absens est

[...] Quid ergo faciat iste? Mundet [oculos] unde possit videri Deus [...] quia sordidos et saucios oculos haberet».455 Poi il medico elimina ciò che è nocivo (pulvis, fumus – il peccato) affinché tu possa vedere ciò che è destinato ai tuoi occhi. «Tolle inde ista omnia, et videbis sapientiam».456 (Mt, 5, 8: poiché «beati sono i puri di cuore», eccetera). Come avviene questa «purificazione degli occhi»? Tramite la fede. At, 15, 9: «τῇ πίστει καθαρίσας τὰς καρδίας αὐτῶν» (dopo che egli ha purificato i loro cuori tramite la fede). «Mundat cor fides Dei, mundum cor videt Deum».457 Mediante quale fede («quali fide») viene purificato il cuore? (Anche i demoni hanno sia paura di Dio sia una specie di fede in lui, che dunque non è quella giusta. Atti degli Apostoli). Risposta: «Fides quae per dilectionem operatur (Gal, 5, 6: πίστις δι’ ἁγάπης ἐνεργoυµένη) [...] sperat quod Deus pollicetur. Nihil ista definitione perpensius, nihil perfectius. Ergo tria sunt illa [fides, spes, caritas]».458 «Comes est ergo fidei spes. Necessaria quippe spes est».459 Fintanto che non vediamo ciò che crediamo. Affinché non decadiamo. (Questo è un concetto plotiniano reinterpretato in buoni termini cristiani). «Tolle fidem, perit quod credis [perisce ciò che credi]; tolle charitatem, perit quod agis. Fidei enim pertinet ut credas [fides = fiducia, come in Lutero]; charitati [pertinet], ut agas».460 «Et modo ipsa fides quid agit?».461 Ogni testimonianza della Scrittura, ogni insegnamento e ogni istruzione in merito, che cosa producono? Soltanto questo, che noi vediamo «per speculum in aenigmate».462 Ma il fatto che la fede produca soltanto questo non costituisce una buona ragione perché tu ritorni «ad istam faciem tuam»,463 alla tua propria «creatura» (vale a dire a ciò che tu ti sei fatto di Dio, in quanto oggetto). «Faciem cordis cogita».464 (Dio nell’oggettualità, come il cuore se ne appropria nella sua vita autentica). «Coge cor tuum cogitare divina»,465 non dargli pace. (È equivoco interpretare ciò come soggettivismo. Si tratta della condizione di accesso a Dio. Dio non viene fatto, giacché il sé conquista piuttosto la condizione di attuazione

dell’esperienza di Dio. Nel darsi da fare per la vita relativa al sé, Dio è presente. In quanto oggetto nel senso della facies cordis, Dio agisce nella vita autentica dell’uomo). Escludi ciò che, in fatto di «simili» cose corporee, in qualche modo balza incontro a colui che la pensa così! (Di Dio) non puoi dire «egli è così», bensì soltanto «non est hoc». Quando potrai dire: «questo è Dio»? «Nec cum videbis: quia ineffabile est quod videbis».466 «Cogitanti ergo tibi de Deo, occurrit aliqua fortasse in humana specie mira et amplissima magnitudo»,467 ad esempio è paragonato a Dio un uomo di dimensioni gigantesche. Tuttavia, quando ti dai da fare in tal modo [finisti alicubi], «si finisti, Deus non est. Si non finisti, facies ubi est?».468 «Quid agis, stulta et carnalis cogitatio?».469 Hai escogitato cose immense e ti sei sempre più allontanato da Dio. Un altro deve solo aggiungere un cubito per fare Dio ancora più grande. Contro questo argomento sorge un’obiezione (Sermo 53, cap. 12, n. 13) che si basa sulla Scrittura ed è importante per la comprensione dell’interpretazione agostiniana di essa. Si prende in considerazione un passo opposto, tratto da Isaia (Is, 66, 1), in cui Dio è pensato come uomo gigantesco. Il cielo è il mio trono. In proposito Agostino dice: non lo hai letto fino in fondo! Chi ha misurato il cielo con la mano aperta? L’idea del mundare come condizione di accesso è già presente nei primi scritti filosofici di Agostino: un pensiero platonico che in Plotino compare connesso con la sua concezione dell’ascesi. Il mundare si attua mediante la fides christiana (non quella demonica). La fides è un contesto dell’attuazione della fiducia e dell’amore, in cui dev’essere presente il comportamento dell’attesa. Va respinta qualsiasi reificazione cosmicometafisica del concetto di Dio, anche in quanto concetto irrazionale. Ci si deve appropriare piuttosto della facies cordis (l’interiorità). Dio sarà presente nell’uomo interiore quando avremo capito che cosa significano ampiezza, lunghezza, altezza, profondità (latitudo, longitudo, altitudo, profundum), comprendendo così il senso

dell’infinità di Dio per il pensiero del cuore. Medita all’interno di te stesso quando dico: «estensione»! Non balzare con la fantasia alla misura dell’estensione terrena! Comprendi tutto «in te»! Latitudo = ricchezza, pienezza nelle buone opere; longitudo = longanimità e fermezza; altitudo = attesa di ciò che sta sopra di te (sursum cor); profundum = grazia divina. Tutto ciò non va inteso come simbolica obiettiva, bensì ricollegato al senso di attuazione della vita interiore. Simbolica della croce: latitudo: dove sono fissate le mani; longitudo: il corpo, che sta eretto; altitudo: l’attesa [...];470 profundum: nascosto – «inde» [...].471 Dilectio: se lo conti, è uno (εν nel senso plotiniano [...]472), se lo soppesi, contiene molti momenti. «Si Deus dilectio, quisquis diliget dilectionem, Deum diligit».473 Ogni amore racchiude in sé una certa benevolenza (benevolentia) per colui che è amato. (Amore sensibile = amor. La dilectio si riferisce a qualcosa che ha un valore superiore). Noi non amiamo l’uomo nello stesso senso in cui il Signore domandò a Pietro: mi ami? Anche così, però, non dobbiamo amare l’uomo come fanno i crapuloni quando dicono: amo i tordi. Il crapulone li ama soltanto per ucciderli, dunque li ama affinché non siano (non esse). Non bisogna amare gli uomini in modo da sottometterli al proprio scopo. Nondimeno l’amicizia è pur sempre qualcosa come la benevolentia, un dono del nostro amore. Che cosa accadrebbe tuttavia se nel nostro amore non ci fosse nulla che potremmo dare? Poiché egli ama, è sufficiente la pura benevolenza in quanto tale. Non dobbiamo e non possiamo desiderare che vi siano miserabili affinché, in virtù di ciò, ci sia possibile compiere opere buone. Elimina la miseria umana, e l’opera buona scomparirà! Scompare l’opera della misericordia, però rimane la fiamma dell’amore nobile. Al principio (per me ames [?]) ami l’uomo che è felice, cui non hai nulla da donare. Un simile amore è puro e nobile, mentre, se l’altro è misero, facilmente ti insuperbisci: sei tu che assegni a te stesso il compito, e consideri l’altro, cui doni

qualcosa, come a te sottomesso.474 Augurati quindi di avere a che fare con un tuo pari, cui non puoi offrire nessuna cosa umana, affinché stiate entrambi sotto quell’Uno a cui assolutamente nulla può essere dato dagli uomini. In questo optare ti approprierai della possibilità della vita genuina. L’amore autentico tende fondamentalmente al dilectum, ut sit. Amore significa volere l’essere dell’amato. (Quanto al suo contenuto, il senso dell’essere deve corrispondere alla specificità dell’oggetto amato). L’amore di sé tende ad assicurare il proprio essere, però in modo sbagliato, non come cura di se stessi, bensì come calcolo del contesto di esperienza riferito al mondo del sé. L’«amore di sé» è quindi propriamente odio di sé. (Escludere il significato secondario di «odio»!). L’amore relativo al mondo degli altri ha il senso di aiutare l’amato altro a conquistare l’esistenza, affinché pervenga a se stesso. Il genuino amore di Dio ha il senso del volersi rendere accessibile Dio inteso come colui che esiste in un senso assoluto. Questa è la maggiore difficoltà della vita. Posto nel quadro dello schema dei contesti e della gerarchia dei valori, il problema della considerazione fenomenologica degli «atti emozionali» è insensato. Il problema dell’amore va tolto dall’ambito «assiologico». La cosiddetta analisi «fenomenologica» degli atti di Franz Brentano si muove in senso esattamente contrario alla tendenza genuina della fenomenologia. Oggettualità di Dio. Deus lux, dilectio, summum bonum, incommutabilis substantia, summa pulchritudo. In ciascuna di queste determinazioni emergono diverse modalità sia dell’accesso sia dell’impostazione e del motivo riguardanti l’accesso. Inoltre, vanno in seguito esplicate diverse modalità all’interno dell’accesso, ossia all’interno di ciò che è esperito nell’accesso. (I mezzi di determinazione sono tratti da ambiti diversi). Infine, modalità diverse di configurazione tramite i mezzi di esplicazione, che ora sono

autoevidenti – derivano cioè da una nuova impostazione basata sulla propria esperienza – ora si mantengono all’interno del quadro tramandato (talvolta interamente, talvolta modificati). – Nel complesso, tuttavia, l’esplicazione dell’esperienza di Dio in Agostino è specificamente «greca» (nello stesso senso in cui anche tutta la nostra filosofia è ancora «greca»). Non si giunge a una problematica e a una considerazione dell’origine radicalmente critiche (distruzione). Ciò vale soprattutto riguardo alla determinazione dell’oggettualità di Dio in base alle modalità di accesso. (Laddove è ancora dubbio se tutte le modalità di accesso siano di per sé originarie!). Nell’attuazione attuale, nella fatticità dell’esperire stesso le modalità di accesso sono connesse. Orientarsi sulle differenti possibilità di atteggiamento, sulla facoltà della ragione e simili porta fuori strada, tanto nel caso di una classificazione conforme all’ordine quanto in quello dell’impostazione «trascendentale» del problema. Se si vogliono comprendere i problemi dell’attuazione bisogna liberarsi di tutto ciò: un «liberarsi» che non si attua d’un sol colpo, ma che è anch’esso un compito dell’ottenimento dell’accesso in quanto tale. La trattazione agostiniana delle tentationes può servire da appoggio per questo problema, dato che le differenti direzioni delle tentationes non si ottengono mediante la classificazione secondo facoltà psichiche, bensì nell’attuazione effettiva della vita (cristiana). Ciò diventa evidente nel processo graduale che porta dalla concupiscentia carnis alla ambitio saeculi. 7. Digressione sul «timor castus» [cfr. par. 16] Per completezza vanno trattati ancora i fenomeni dell’amore di Dio e del timore di Dio, con riferimento all’oggettualità di Dio da essi resa più accessibile. Cedendo alla tentatio si rinuncia alla possibilità di un genuino amare e di un puro temere Dio: «Vel [...] non amare

te, nec caste timere te».475 Il timor Dei è caratteristico di un momento decisivo del contesto di esperienza in cui Dio diventa oggettuale. Ciò consente di evitare l’equivoco secondo cui l’esperienza reale consisterebbe in un determinato atto – teoretico o non teoretico – ovvero in un complesso di siffatti atti parziali. L’esperienza di Dio nel senso di Agostino, invece, non consiste in un atto isolato o in un momento determinato di un tale atto, bensì in un contesto di esperienza della fatticità storica della propria vita. Questa fatticità è l’autenticamente originario, da cui possono staccarsi modalità isolate di comportamento che, separandosene, portano a una concezione vuota della religiosità e della teologia. La tendenza dell’amare è una cura di se stessi, il genuino amor sui è amore di se stessi. Ciò induce in tentazione, ed è per questo che proprio qui si giunge a una molestia perniciosa. Dato che il singolo può contare solo su se stesso, si presenta l’enorme pericolo che egli formi da sé il possibile mondo degli altri, nei cui confronti assume il proprio atteggiamento di superiorità. In base a quest’ultima considerazione Agostino perviene al «tremor cordis sui».476 Si tratta di un fenomeno che è costitutivo della cura di se stessi: il «timor» genuino. Lo scostarsi da ciò è un allontanar-si dal «caste timere te», dal puro temere Dio. Che cos’ è dunque il «timor castus» genuino in antitesi al «timor servilis» non genuino? 1. Il timere nel suo complesso e i suoi possibili motivi. 2. Antitesi: timor castus – timor servilis. (Il «come» dell’affetto motivante). 3. Che senso ha il timore genuino nel contesto dell’«esperire se stessi»? (Cioè, al tempo stesso, nell’esperienza fondamentale di Dio). Com’è che nel timore genuino Dio diventa assolutamente oggettuale? Come si determina, in base a ciò, la sua oggettualità? (N.B. La nostra interpretazione si muove tuttora in uno stadio preliminare: non abbiamo ancora gli autentici concetti

fenomenologici). Agostino prende le mosse dal contesto concreto di attuazione del temere; analizza il non timere e i suoi possibili motivi, descrivendo l’animo di uno che si spaccia per impavido. Egli ricava così due direzioni motivazionali del non-avere-timore, dunque può impostare la distinzione fra timor castus e timor servilis; pone in connessione il timere con il «dolere» (dolere inteso come stato d’animo: non dolore fisico, bensì tormento psichico). Nel fare ciò parte dal non dolere, o «sanitas», di cui vengono distinti diversi generi. Enarrationes in Psalmos, ad Ps. 55, v. 4: non timeo. Domanda sulla causa, che può essere: 1) la praesumptio, spes, fiducia; 2) duritia (indurimento): «Multi enim nimia superbia nihil timent».477 «Aliud est sanitas corporis, aliud stupor corporis [apatia], aliud immortalitas corporis. Sanitas quidem perfecta, immortalitas est».478 Tuttavia, già in questa vita c’è comunque salute, se non siamo malati. Che cosa significa? Ci sono tre affectiones corporis: 1) sanitas; 2) stupor; 3) immortalitas. 1. «Sanitas aegritudinem non habet; sed tamen quando tangitur et molestatur, dolet».479 2. «Stupor autem non dolet; amisit sensum doloris, tanto insensibilior, quanto pejor».480 3. Immortalitas: non ha dolore, dato che è priva della possibilità della corruptio.481 Nel caso dello stupor e della immortalitas non c’è dolore. Non per questo tuttavia lo stupidus è immortalis. Al contrario: il dolere del sano è più prossimo all’immortalità di quanto non sia l’assenza di dolore dell’insensibile: «Vicinior est immortalitati sanitas dolentis, quam stupor non sentientis».482 Gli arroganti sono dunque ritenuti più coraggiosi di Gesù, che dice: la mia anima è triste fino alla morte. Ma ciò non è nemmeno in discussione. Chi non sente i dolori a causa della sua insensibilità non si è rivestito dell’immortalità, ma si è spogliato della sensibilità («non immortalitate indutus, sed

sensu exutus»).483 Non mantenere la tua anima in modo che sia senza passione! – Per il genuino essere coraggiosi deve sussistere la possibilità del timore. In colui che è indurito risulta escluso il delectari stesso, benché l’indurimento come tale contenga ancora un senso determinato del delectari. Un modo di fare che acconsente a chiunque è mancanza di sensibilità, non però vera quiete. Il fatto genuino consiste nel non-temere provando fiducia in qualcosa; la fiducia, l’«appoggiarsi sempre» a qualcosa (rapporto con la spes e l’amor [caritas]). Interpretazione di due passi della Scrittura (apparentemente) contraddittori: 1. 1 Gv, 4, 18: «Timor non est in charitate». (Nell’amore autentico non c’è timore). 2. Salmo 18, versetto 10: «Timor Domini castus, permanens in saeculum saeculi».484 (Segue una considerazione sull’interpretazione della Scrittura: i due passi sono paragonati alla consonantia fra due flauti). La contraddizione si risolve distinguendo due generi di timore: timor castus e non castus. «Si enim adhuc propter poenas times Deum, nondum amas quem sic times. Non bona desideras, sed mala caves».485 Timor «non enim venit ex amore Dei, sed ex timore poenae».486 Tuttavia, chi ha iniziato ad aspirare al bene per amore del bene stesso vive nel puro timore. «Quis est timor castus? Ne amittas ipsa bona. Intendite. Aliud est timere Deum, ne mittat te in gehennam cum diabolo; aliud est timere Deum, ne recedat a te».487 Questo timore non ha la direzione del «tenersi alla larga», bensì dell’«attirare a sé». Timere separationem (est) amare veritatem. In questo timore l’anima percepisce la majestas Dei. Il puro timore fa tutt’uno con la fiducia. Si times latronem speri nell’aiuto di un altro, non di colui da cui sei per lo più minacciato (i ladroni). Ma se temi Dio in questo modo, a chi ti devi rivolgere allora? Vis ab illo fugere? Ad ipsum fuge! Vis fugere ab irato, fuge ad placatum! Placabis, si speras.488

Il primo timore (timor servilis), il «timore del mondo» (partendo dal mondo-ambiente e dal mondo degli altri), è la paura da cui si è afferrati, che ci assale. All’opposto, il timor castus è il «timore relativo al sé», che trova la sua motivazione nell’autentica speranza, nella fiducia ravvivata da se stessi. Questo timore si forma dentro di me in base a un riferimento in cui esperisco il mondo, in rapporto con la cura della vita per l’autentica esperienza di sé. Nam si non times, aufert Deus, quid dedit. Nel timore mantengo appunto un bonum. 8. L’essere del sé [conclusione del corso] «Vita» non è una semplice parola, un concetto formale, bensì un contesto strutturale, che Agostino stesso ha visto, peraltro con una precisione concettuale ancora insufficiente. A tutt’oggi tale precisione non è stata raggiunta, dato che l’analisi del sé in quanto fenomeno fondamentale è stata condotta da Descartes in un’altra direzione decadente, da cui in seguito l’intera filosofia recente non è più riuscita a staccarsi. I pensieri di Agostino sono stati annacquati da Descartes. La certezza di sé e l’«avere se stessi» nel senso di Agostino sono qualcosa di completamente diverso dall’evidenza cartesiana del «cogito». Cfr. De civitate Dei, XI, capp. 26 sgg., in cui Agostino considera l’uomo sulla scorta del dogma della trinità (cfr. il trattato De trinitate). Noi troviamo in noi stessi un’immagine della somma trinità, giacché: 1. Sumus: noi siamo (esse). 2. Noi ne sappiamo di noi, in quanto tali (nosse). 3. Noi amiamo il sapere riguardante il proprio essere (amare). Queste sono le determinazioni dell’autentico essere del sé. «In his autem tribus [...] nulla nos falsitas veri similis turbat».489 Non sono oggetti, giacché, al contrario, senza il gioco tempestoso della fantasia la cosa per me più certa è

l’essere, nel cui caso io ne so del fatto che lo amo. Certo è quindi: 1) che l’essere è amato; 2) che il nosse è amato; 3) che l’amore stesso in cui amiamo (ipse amor quo amamus) è da noi amato. «Ibi esse nostrum non habebit mortem, ibi nosse nostrum non habebit errorem, ibi amare nostrum non habebit offensionem».490 Anche se abbiamo un’autocertezza del nostro essere, siamo ugualmente insicuri riguardo a quanto ancora vivremo (quamdiu futurum sit), non sappiamo cioè se l’essere una volta o l’altra cesserà. L’autocertezza va interpretata in base all’essere effettivo, è possibile soltanto in base alla fede. Dal punto di vista del metodo è importante che questa evidenza non possa essere intesa in modo isolato: questo sarebbe un decadimento. L’evidenza del cogito c’è, però va fondata sull’effettivo, dato che anche ogni scienza si radica da ultimo nell’esistenza effettiva.

I FONDAMENTI FILOSOFICI DELLA MISTICA MEDIOEVALE [Prime stesure e abbozzi per un corso non tenuto (1918-1919)]

I fondamenti filosofici della mistica medioevale491 La formulazione è ambigua. La problematica e la metodica che ci muovono sono costituite dall’indagine fenomenologica della coscienza religiosa. Con ciò si intende: 1. (in termini negativi) la rinuncia a una filosofia della religione costruttiva; 2. (in termini negativi) non concentrarsi in modo esclusivo su ciò che è puramente storico in quanto tale; 3. ricondurre alla pura coscienza e alla sua costituzione i fenomeni genuinamente chiariti e intesi come genuinamente originari. Tuttavia il problema consiste in questo: l’acquisizione e la comprensione di fenomeni siffatti in generale in base allo storico – quest’ultimo e la sua fatticità nel comprendere fenomenologico originario. Considerato in relazione a questa tendenza in linea di principio originaria – che è la sola genuinamente scientifica – ciò che abbiamo annunciato comporta una limitazione da molti punti di vista, e ciò proprio quando abbiamo preso coscienza delle ambiguità. Rivolgendo anzitutto la nostra attenzione a esse, si ha che: A. Il tema può essere inteso in una prospettiva di mera storia della filosofia, nel qual caso «fondamenti filosofici» significa: i presupposti metafisici, le concezioni gnoseologiche, le dottrine etiche fondamentali e soprattutto l’aspetto scientifico della sfera dell’esperienza vissuta, le posizioni psicologiche della mistica medioevale. Quest’ultima peraltro è concepita sia come forma di esperienza vissuta, sia in particolare come teoria e dottrina di essa, sia come interpretazione e spiegazione metafisica basata su di essa. L’esplorazione di questi fondamenti secondo la storia della filosofia conduce ad Agostino, al neoplatonismo, alla Stoa, a Platone e ad Aristotele. Inoltre, la locuzione «fondamenti filosofici» acquista un senso diverso a seconda di come si intende il termine mistica. Il concetto preliminare di «mistica» può essere chiarito fino a un certo grado già ora, all’inizio, poiché le differenze

si suddividono in ambiti completamente diversi: I. esperienza vissuta («vita»); II. teoria del vissuto (teologia mistica) e sua valorizzazione teoretica, metafisica (visione del mondo religiosa, mistica); III. teoria del vivere stesso; IV. che si ricollega strettamente e in parte necessariamente al punto I: condotta (conforme all’esperienza vissuta) del vivere stesso, da non confondere con il punto III, che, rettamente inteso, significa il comprendere fenomenologico nel risalire all’indietro conforme all’origine, che in tal caso però non può più essere definito «teoria». Ad IV. Le forme e le figure della condotta e della realizzazione pratiche, nonché la loro teleologia e la loro struttura, anch’esse conformi all’esperienza vissuta, non sono ancora considerate («ascesi»). Perché proprio il punto IV nella religiosità mistica? Perché qui il mondo religioso si concentra nel movimento (Bewegtheit) della specifica esperienza vissuta del «trovare-Dio distaccandosi» (das sich abscheidende Gottfinden). Domanda: in quale direzione e con quale finalità si svolge la nostra indagine sulla mistica medioevale, se a guidarci in modo genuino è la meta di una scienza originaria (urwissenschaftlich), fenomenologica? Quali aspetti della mistica sono presi in considerazione, e come? Come è guidato e motivato il comprendere? Vale a dire: B. Come va inteso il tema in modo scientifico-originario? 492

Ciò porta a problemi di principio: separazione regionale dei mondi di esperienza vissuta (la loro completezza è un falso problema) – posizione storica nella pura coscienza. Sono tutti «storico-originari» (urgeschichtlich) allo stesso modo? Genesi degli stadi fondamentali anche nel religioso? Esperienza vissuta e «concetto». Il nostro scopo non potrà mai essere quello di risvegliare la vita religiosa. Ciò accade solo tramite la vita stessa. Difficoltà: soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, poiché altrimenti non disporrebbe di alcun dato genuino. È vero, però questo fatto determina forse

qualche svantaggio dal punto di vista metodico-sistematico? Esso significa soltanto «giù le mani» (Hände weg) per colui che qui non si «sente» sul giusto terreno. Ciò vale ovunque. D’altra parte è vero che proprio mediante il comprendere originario le esperienze vissute sono portate nella sfera della assoluta comprensibilità. Esse sono comprese, e lo sono in modo genuino, e come tali sono esse stesse, ma non «stesse» nel senso del non redatto (das Unredigierte). «Antitesi»: «stesso» in quanto redatto e non redatto (redigiert und unredigiert). Soprattutto, «comprensibilità» non significa «razionalizzazione», scomposizione di un’esperienza vissuta nelle sue «componenti logiche». Il comprendere fenomenologico originario è così poco pregiudicato, cioè non neutrale, ed è invece così originariamente assoluto da recare in sé le possibilità di ingresso (Eingangsmöglichkeiten) nei diversi mondi e nelle diverse forme dell’esperienza vissuta. Esso non va confuso con il comprendere specialistico o teoretico-disciplinare. Per giungere all’elemento teoretico originario (das Urtheoretische) è necessaria una nuova «distruzione della situazione» (Situationszerstörung) – in seno all’elemento teoretico stesso –, ovvero una modificazione relativa alla «visione dell’origine» (das Ursprungs-Sehen). Da sviluppare in modo più concreto, per illustrare al tempo stesso il fenomeno dell’esperienza vissuta religiosa. Comprensione delle esperienze vissute religiose, accesso alle loro forme espressive. Come si esprime un’esperienza vissuta religiosa? «Preghiera» come espressione (e singoli [?] fenomeni di partenza per regresso e ingresso). (La rispettiva indicazione del motivo di tutta questa problematica. Ciò vale in definitiva per l’intera fenomenologia). Avviciniamoci alla vita religiosa stessa in modo genuinamente e puramente metodico: quali strati fondamentali, quali forme, quali movimenti vi compaiono? Come si costituisce questa vita?

In tale domanda relativa alla costituzione non bisogna lasciarsi fuorviare dall’analogia con l’elemento teoretico e con la costituzione dell’obietto della conoscenza, nel senso cioè di domandare in modo nudo e crudo soltanto dell’oggetto (o obietto) religioso. Piuttosto, è corretto e non pregiudizievole prendere in considerazione i movimenti fondamentali e la loro genesi motivazionale: i compimenti di un «io posso» del tutto originario. «Io»? (Bisogna peraltro prestare sempre attenzione anche agli stadi, alle forme preliminari e ai tipi del compimento. Quest’ultimo, e il risultare del risultato, vanno colti di per sé sempre nell’idea e nella motivazione essenziale). Mistica nel Medioevo La mistica medioevale come forma espressiva dell’esperienza vissuta religiosa. La locuzione «fondamenti filosofici» ha vari significati. Intenzionalmente senza pregiudizi. Significa: mezzi della formazione dell’espressione; mezzi delle vie dell’esperienza vissuta stessa; mezzi della sistematica (espressione «concettuale»). Mistica medioevale come forma espressiva: forme espressive dell’esperienza vissuta religiosa in generale. Espressione dell’esperienza vissuta in generale. – Il problema dell’espressione in quanto tale. (Cfr. Spranger, Volkelt-Festschrift)493 – espressione interpretante – espressione giustificante. – Problema del compimento dell’esperienza vissuta in rapporto di principio con ciò. Enucleare i momenti costitutivi dell’esperienza vissuta mistica nel Medioevo (in particolare il fenomeno dell’amore di Dio). Comprendere in base all’aspetto genuino della coscienza (separare con precisione le «spiegazioni», e in parte i fraintendimenti, di matrice scolastico-aristotelica e

platonica). Punto di vista dominante: indagare a fondo la motivazione e, di conseguenza, anche la dottrina delle «cause». Durante la ricerca distinguere sempre la pura esperienza vissuta come tale, l’espressione (gli elementi espressivi), la «spiegazione» (interpretazione), l’applicazione. Le forme dell’esperienza vissuta vanno colte nell’essenza sempre solo ed esclusivamente a partire dalle loro possibili situazioni genuine e dai rispettivi orizzonti. Si tratta della pienezza concreta proprio nell’eidos, e non di concetti di genere isolati e derivati. Problema della concrescenza eidetica (eidetische Konkreszenz), e ciò sempre simultaneamente al pieno inserimento nelle strutture generali dell’esperienza vissuta e nelle possibilità generali di modificazione. Inoltre il «tempo», liberato dalla sua concezione linearmente spaziale, non come mera cornice strutturale, bensì come motivo. Gli effetti, in termini di esperienza vissuta, della «potenza», della «grazia» e della «collera» di Dio. Costituzione dell’oggettualità religiosa: Dio si costituisce nella preghiera? Oppure è in qualche modo religiosamente già dato nella fede («amore»)? E la preghiera è un comportamento particolare nei suoi confronti? In che senso c’è una possibile molteplicità di tipi di costituzione? Fra di essi sussiste una connessione essenziale? Va considerata l’idea che il Medioevo aveva della vita emotiva. Ma come? Separatemente dall’impronta 494 specificamente scolastica. Mistica (direttive) Un momento costitutivo: comportamento nei confronti del mondo (negativo – ripulsivo?). Includere il fenomeno e localizzarlo in modo genuino. Enucleare il problema come un

problema fondamentale della costituzione. (Inoltre, separare: I. l’uomo religioso in sé; II. colui che giunge alla religiosità. – Il secondo tipo è derivato, e le modalità del giungere vanno comprese soltanto in base al punto I). Regresso (Rückgang) agli aspetti fenomenologici del «mondo» e ingresso (Eingang) nella loro costituzione. In questo caso l’immagine medioevale del mondo non deve disturbare l’in sé della datità fenomenica, se sono adottate soltanto spiegazioni naturalistiche e metafisiche, intese non come formulazioni teoretiche su, bensì come motivate da un determinato aspetto del mondo, che va preso anch’esso in considerazione. «Distacco» (Abgeschiedenheit): la sua motivazione originaria nell’elemento religioso, anche nella forma della propensione al mondo, anche in Lutero.495 In che cosa consiste l’elemento positivamente costitutivo, e in base a quale ragione comune si motivano tali movimenti «negativi» e «positivi»? (Questa caratterizzazione è in generale genuina?). Distacco: si tratta di un non-vedere non già teoretico, bensì emozionale, nella sua forma originaria appunto religioso; in termini corrispondenti sono da intendersi anche le vie e gli stadi che portano a esso in quanto «repulsione». (Diventa inoltre problematico se con la mera visione di Dio quale lato «positivo» del distacco sia colto l’elemento genuino, e se la forma dell’unificazione non sia invece un’altra. «Amore»). Costruzione (postulati) La costituzione dell’esperienza vissuta di Dio (nascita di Dio). Lo specifico a priori della corruzione della natura (non potenza), docile abbandono, gratia operans – gratia cooperans. (Vedere tutto nella pura coscienza e comprenderlo come motivazione). Da intendere senz’altro come religiosamente originaria, a

prescindere da qualsiasi genere di constatazioni e «valutazioni» teoretico-naturalistiche dell’essere. Essa è vista appunto di per se stessa in base all’elemento religioso. Il motivo della mistica nella storia assoluta come preparazione della fides. Realizzazione della humilitas tramite il distacco. La mistica diede a Lutero «un mondo di esperienze interiori e gli indicò pure la via metodica per acquisirle e potenziarle. Anche per questo il motivo della humilitas alla lunga non poté agire soltanto come impedimento sul gioioso, sicuro dispiegamento della fiducia. La humilitas, la tribulatio diventano esse stesse espressione della certezza della salvezza personale».496 Le specie fondamentali di compimento delle esperienze vissute religiose, le esperienze vissute che danno la forma costitutiva e la conformazione motivanti del compimento: «rivelazione», «tradizione», «comunità». Un frammento di ontologia della religione, meta principale la fenomenologia. Soltanto un ambito determinato, rigorosamente metodico. Nessuna pretenziosa filosofia della religione. Siamo all’inizio, o meglio, dobbiamo ritornare agli inizi genuini, e il mondo può tranquillamente aspettare. In quanto uomo religioso non ho nessun bisogno della filosofia della religione. La vita genera soltanto vita, non però la visione assoluta come tale. Un contesto reale del tutto originale e dotato di leggi proprie. Fede e sapere Il problema si muove in una falsa sfera, unilateralmente orientata in senso conoscitivo, e in tal modo non è affatto un problema genuino, una volta che si sia colto il problema originario dell’origine dei mondi dell’esperienza vissuta. (Un certo nucleo genuino di legittimità, che è ancora ben lungi dall’essere chiarito in modo puro – e che lo può soltanto in base a quanto detto sopra – è insito nel problema «teologia in quanto “scienza della fede” rispetto alle altre scienze»).

Separare nettamente il problema della teologia da quello della religiosità. Nella teologia bisogna considerare la sua costante dipendenza dalla filosofia e lo stato della rispettiva coscienza teoretica in generale. Finora la teologia non ha trovato alcuna originaria posizione teoretica fondamentale corrispondente alla originarietà del suo oggetto. Riguardo alla nota 1, p. 67: fede e fede sono fondamentalmente diverse nel protestantesimo e nel cattolicesimo. Esperienze vissute nettamente distinte dal punto di vista noetico e noematico. In Lutero emerge una forma di religiosità originale, non rintracciabile nemmeno nei mistici. Il «tenere per vero» (für-wahr-halten) della fede cattolica è fondato in modo completamente diverso da come lo è la fiducia dei riformatori. Fenomeni che vengono compresi soltanto in seno alla dottrina della costituzione del mondo religioso in generale. Da ciò si differenzia anche il concetto di «grazia», quindi l’intero «rapporto» fra grazia e libertà, natura e grazia. Inoltre il senso della tesi «gratia supponit naturam», la dottrina della «iustificatio» e la concezione del sacramento. A loro volta i contesti religiosi di senso nel cristianesimo delle origini risultano essere qualitativamente differenti. Lo sviluppo diversamente motivato della teologia e del suo rapporto con la fede.

Irrazionalismo497 Quello in cui si chiacchiera di mistica definendola l’«informe» (das Formlose) è solo un discorso basato su metodi in fondo non scientifici, per «confronti» concettuali o immaginati. Si riduce tutto a formule, ovvero, in realtà, non si dice nulla, e non si può farlo poiché ci si aggrappa a una parola o a un dogma. Si dice una cosa giusta: l’esperienza vissuta religiosa non è teoretica. Ma che cosa significa

teoretico, e che cosa non teoretico? Per potere già cogliere questa differenza devo pormi al di sopra e comprendere in modo non pregiudizievole. I «concetti» comprendenti, e ogni comprendere in senso genuinamente filosofico, non hanno assolutamente nulla a che fare con la razionalizzazione. Che cosa significa «distruggere» l’esperienza vissuta? Che cosa è contenuto mai in questa presunta «distruzione», non appena si sa con chiarezza quali ne sono la meta e la necessarietà? Nessun succedaneo, nessuna risoluzione in concetti, nessuna migliore fondazione, e nemmeno un’attiva, ugualmente originaria motivazione della rispettiva esperienza vissuta. Come se la filosofia della religione potesse mai promuovere e rivivificare la religione e il religioso! Mentre si può fare soltanto una cosa: nel caso della falsa retorica e della concettualità costruttiva, spingere in un ambito vitale regionale [?], in una dimensione fittizia di presunti «problemi» filosofici. Datità storica e individuazione dell’essenza La «datità» (Vorgegebenheit) è essa stessa cresciuta come costituzione essenziale. Bisogna distinguere il problema in differenti strati, mentre vanno eliminate tutte le difficoltà false e presunte. La domanda se anche uomini non religiosi comprendano le analisi va distinta dall’altra: se soltanto uomini religiosi possano avere una datità «assoluta» genuina. Inoltre, se ciò riduca in qualche modo la «validità essenziale» delle analisi, che però è del tutto indipendente dal numero di coloro che conoscono e comprendono. Da ciò bisogna distinguere la domanda, completamente diversa, che si chiede in quale misura mediante una caratterizzazione storica (oppure molte) si possa ottenere una definizione compiuta dell’essenza. Essenza: «determinatezza costituente essenza» (wesenskonstituirende Bestimmtheit), vale a dire essenziale, appartenente

all’essenza. Ed essenza: totalità in quanto pienezza essenziale ed essenziale completezza del contesto essenziale delle appartenenze essenziali. Inoltre, i correlati e le modalità di comportamento e di atteggiamento corrispondenti costitutivi. [Fenomeni religiosi] Problema: il silenzio come fenomeno religioso (in rapporto al problema dell’irrazionalità). Adorazione: stupore entusiasta. Tutte le cose e tutti i valori vanno differenziati dal nulla (non-essere, nonvalore); il loro essere distinti, plasticità della esistenzialità. Fenomenologia dell’ammirazione e dello stupore (ammirazione per qualcosa di «superiore a»). Ogni esserci è – in quanto «qualcosa che si distingue» (eine Abgehobenheit) (da che cosa?) – anche una chiarezza (Helligkeit); emerge in virtù di determinati chiarimenti (Erhellungen) – concetto della chiarezza (Helle) primaria – primaria nel senso dell’ordine avente carattere di valore. Irrazionalità e problema dell’essere. L’«a priori» religioso Il problema non trova collocazione fuori della filosofia trascendentale. All’interno della moderna psicologia della religione appare per lo più falsato e mal fondato. Inoltre, proprio in seno alle pseudofilosofie dogmatiche, casuistiche, che, in quanto tali, si sacrificano a un determinato sistema religioso (ad esempio il cattolicesimo) – e che si presume siano vicinissime alla religione e all’elemento religioso –, si trova meno che mai traccia della vitalità del problema. Si è addirittura nell’imbarazzo di saper localizzare filosoficamente un problema così concepito, dato che si ignora l’esistenza di qualcosa come la filosofia della religione. A prescindere dal fatto che nel mondo-ambiente e nella

sfera di realizzazione di simili sistemi la capacità di esperienza vissuta riguardante i diversi ambiti di valore in generale, e l’ambito religioso in particolare, ristagna – e ciò a causa della completa mancanza di una coscienza culturale originaria –, nella struttura del sistema (che di per sé non è nato da un atto culturale organico) è insito a priori che il contenuto di valore della religione che va vissuto, la sua sfera contenutistica di senso, deve anzitutto passare attraverso uno sbarramento dogmatico intricato, inorganico, teoreticamente del tutto non chiarito di princìpi e procedure dimostrative, per poi alla fine – in qualità di statuto di diritto canonico – sopraffare il soggetto, opprimendolo e schiacciandolo oscuramente con potere poliziesco (Polizeigewalt). Per di più, il sistema esclude completamente che al suo interno possa darsi un’esperienza vissuta originaria, genuina, religiosa del valore. Quando, ciò nonostante, in una personalità appartenente a un sistema siffatto scaturisce la forza elementare dell’esperienza vissuta, allora l’esperienza vissuta del valore ottiene un effetto solo nel senso che il sistema viene escluso relativamente alla sfera dell’esperienza vissuta e si cerca un contesto di nuovo tipo. Giacché si tratta di una sfera genuina di esperienza vissuta e di prestazione che, come tale, dev’essere essenzialmente appartenente al soggetto e soggettiva, un tale accantonamento e trascendimento del sistema acquista un significato positivo per un qualche alleggerimento della sfera soggettiva. (Aggiunta: la preponderanza dell’elemento teoretico è già presente nella metafisica naturalistica e teoretica dell’essere di Aristotele, fortemente orientata verso le scienze naturali, nonché nella radicalità dell’esclusione e del disconoscimento aristotelici del problema del valore in Platone, che si rinnovarono nella Scolastica medioevale. Così, all’interno della totalità del mondo dell’esperienza vissuta cristiana medioevale, fu proprio la Scolastica a compromettere fortemente l’immediatezza della vita religiosa, dimenticando

la religione a favore della teologia e dei dogmi. Anzi, già nel primo periodo del cristianesimo questi ultimi esercitarono un influsso teoretizzante e dogmatizzante sulle istituzioni e sugli statuti del diritto canonico. Un fenomeno come la mistica è da intendersi come una reazione elementare). Nondimeno la deviazione stessa avviene sempre e soltanto entro i limiti della coscienza culturale di volta in volta data, sicché ne contiene le condizioni e i fattori costitutivi in quanto in sé perduranti, benché, fondandosi su di essi, sia in grado di scoprire una nuova sfera, ma in modo tale da non saperla dominare con mezzi radicalmente nuovi e limitandosi quindi a concepirla e a interpretarla in termini corrispondenti al principio della genuina molteplicità della prestazione. L’alleggerimento nella sfera soggettiva porta alla specifica esperienza vissuta del significato e della struttura del soggetto della mistica. – Problema dell’oggetto e soggetto nella Scolastica. Nascita di un nuovo contesto motivazionale nel soggetto esperiente. Come stimolo alla sovrastruttura mistico-teoretica. Mezzi e meta del dominio razionale di questa sfera ateoretica derivano dalla psicologia della conoscenza e dalla metafisica dell’oggetto. – Dovere etico come forma metodologica della costituzione dell’oggetto e, in termini correlativi, della formazione del soggetto nella mistica. Concetto centrale: «distacco». Aumento della vitalità interiore. Il carattere strutturale dell’unità di oggetto e soggetto. La specifica irrazionalità di questa mistica. Dapprima una breve esposizione della concezione dell’a priori religioso nella filosofia trascendentale dei valori (Windelband, Troeltsch). «Questa necessarietà naturale di ciò che è contrario alla norma nelle funzioni empiriche della ragione rappresenta il dato di fatto generale fondamentale da cui prende le mosse la filosofia critica in tutte le sue discipline. Colta a questo livello di generalità, essa costituisce il problema di tutti i problemi e nello stesso tempo il punto d’attacco della filosofia della religione. Tale coesistenza antinomica della

norma e di ciò che è contrario alla norma nella medesima coscienza è il dato di fatto originario che può essere soltanto mostrato, ma mai colto concettualmente: a partire da essa si sviluppano piuttosto tutti i problemi della filosofia critica».498 Il sacro può essere definito soltanto facendo ricorso alla quintessenza delle norme logiche, etiche ed estetiche. Esse sono sacre in quanto contenuti di valore di una realtà razionale superiore. «Il sacro è dunque la coscienza delle norme (Normalbewußtsein) del vero, buono e bello, vissuti come realtà trascendente».499 «La religione è vita trascendente».500 Irrazionalità in Meister Eckhart L’immediatezza del vivere religioso, la vitalità sfrenata della dedizione al sacro, al divino, non produce la forma a partire da sé – e la meditazione sul carattere genuino della prestazione –, bensì emerge come punto culminante di una psicologia e di una teoria della conoscenza determinate e storicamente condizionate, punto che però, come tale, produce a sua volta proprio il nuovo e il correlato della vitalità dell’esperienza vissuta. Bisogna avere chiaro questo contesto per comprendere realmente come tale la mistica eckhartiana, senza incorrere fin da principio in interpretazioni fuorvianti. Solo a partire di qui si dà anche il concetto dell’elemento specificamente irrazionale di questa mistica. L’irrazionale non è ciò che se ne sta lì, prima di ogni razionalità, come pienezza della molteplicità. Il momento decisivo non è quello dell’immensità, dell’inafferrabilità teoretica, dello sprofondamento nella pienezza, bensì – dato che l’oggettuale è posto nell’essenza, nella forma intesa come ciò che è generale, universale, il valore dell’oggettualità aumenta con l’incremento dell’universale – quello della sempre crescente esclusione di particolarità dalla forma e della sua potenziata vuotezza. L’oggetto originario, l’elemento assoluto, non sono il «non

ancora determinabile» e il «non ancora determinato», bensì ciò che è essenzialmente privo di determinazione in quanto tale. Conformemente al principio secondo cui il simile è conosciuto solo dal simile, e il simile diventa oggettuale solo per il simile, si sviluppa la teoria del soggetto, dell’anima501 – anche qui si ha il processo di riduzione della molteplicità (Entmannigfaltigung), di liquidazione delle singole forze nella loro singolarità e nella loro direzionalità determinata, il regresso verso il loro fondamento, la loro origine e radice. Esclusione di ogni mutamento, pluralità, tempo. Assolutezza di oggetto e soggetto nel senso dell’unità radicale e in quanto unità radicale di entrambi: io sono esso, ed esso è me. Da ciò deriva l’anonimia di Dio e del fondamento dell’anima. In questa sfera non c’è antiteticità, quindi il problema del primato dell’intellectus o della voluntas non rientra più in essa, benché Eckhart abbia necessariamente bisogno di una definizione e caratterizzazione dell’esperienza vissuta mistica. È completamente sbagliata l’opinione di coloro che concepiscono il correlato soggettivo dell’assoluto come somma, totalità delle specifiche prestazioni e facoltà, intendendo il valore del sacro come una qualche risultante del vero, buono e bello. La «concezione fondamentale» di Eckhart – «puoi conoscere soltanto ciò che tu sei»502 – diventa comprensibile solo in base al concetto specifico di conoscenza. È la conoscenza, qui, a determinare il soggetto e l’oggetto. Il problema degli universali in quanto problema oggettuale non chiarito, intriso di cattiva metafisica della natura. Realismo – nominalismo. La forma dell’obiettività in quanto validità universale diventa contenuto e principio ontologicamente costitutivo di ciò che è generalmente universale (universale). Per il problema autentico non c’è nulla da guadagnare, dato che non si procede fino al soggetto, un obiettivo che nel nominalismo appare quantomeno perseguibile. In Scoto si

hanno postulati, in particolare nella sua teoria del significato. Ora, il fatto notevole è che nel caso di un realismo estremo come quello eckhartiano si trova un progresso in direzione del soggetto. Il motivo non è teoretico, così come in genere il regresso verso il fondamento dell’anima non va inteso come processo teoretico. Esso rimane ateoretico, solo che Eckhart cerca di concepirlo in termini razionali, collocandolo in contesti teoretici. Il nuovo contesto motivazionale per la sovrastruttura mistico-teoretica deriva dalla religiosità vivente, dal soggetto vivente. Mezzi e meta del dominio razionale derivano dalla psicologia della conoscenza e dalla metafisica dell’oggetto. Con il carattere di universalità della forma dell’essenza aumenta il valore dell’oggettualità in quanto tale. È certamente vero che l’oggettualità in generale è una forma vuota, però, in quanto oggetto stesso, è l’oggetto originario κατ’ ἐξoχήν, l’assoluto. Il processo di progressiva esclusione di elementi di contenuto, nonché di diversità e antiteticità, si riferisce essenzialmente al telos etico. La molteplicità distrae, inquieta la vita e il soggetto. In quanto tale, dal punto di vista etico, il tentennare fra una cosa e l’altra è senza valore. Nell’esperienza vissuta religiosa è per me a priori certamente la cosa più preziosa a essere oggettivale. Dal punto di vista teoretico, ogni possibilità di ciò che è senza valore – dunque la molteplicità, l’antiteticità, la diversità – deve esserne tenuta lontana. Il valore assoluto coincide con l’assoluta assenza di antitesi, vale a dire con l’assenza di determinazione, ossia con l’oggettuale solo in quanto oggettuale. Solo in quanto tale l’oggettuale è presente per il soggetto mistico. E per questa oggettualità il soggetto mistico non dev’essere di per sé un soggetto che si pone oltre le antitesi o prima delle antitesi. Soltanto così diventa chiaro il senso mistico-teoretico del concetto centrale di distacco.

Il qui e ora, lo spazio e il tempo sono le forme del molteplice e dell’antitetico; non offrono alcun luogo all’attimo eterno, alla sovratemporalità. La sensibilità non è quindi il correlato soggettivo della vera oggettualità, però nemmeno l’intelletto va inteso solo come un giudicare, un separare violentemente nella dualità di soggetto e predicato. Ragione e volontà, conoscenza e amore conducono tuttavia all’assoluto. Disputa intorno al primato di ciascuna delle due «facoltà». Eckhart non prende partito a favore della ragione teoretica come coordinata alla volontà, bensì a favore del primato del fondamento dell’anima, che in termini mistico-teoretici è preordinato a entrambe. Da un altro punto di vista egli – in forza della sua libertà e devozione al valore – individua proprio nella libera volontà la «facoltà» di valore superiore. La forma dell’oggettualità in generale diventa oggetto assoluto. Quantomeno nell’oggettuale si offre qualcosa che per il contenuto distrae ed è capace di stimolare all’apprensione sviante e avvincente, tanto più preziosa e pura diventa l’oggettualità stessa. Il secondo discorso «Sull’essenza della religione» di Schleiermacher Necessarietà di un atteggiamento fenomenologico nei confronti dell’esperienza vissuta religiosa. «Appartiene infatti all’antitesi che si va sempre più consolidando tra l’epoca moderna e quella antica il fatto che più da nessuna parte uno è uno, bensì ciascuno è tutto. Ne deriva che, come i popoli civili hanno aperto gli uni con gli altri un commercio talmente multilaterale che il loro modo peculiare di sentire nei singoli momenti della vita non emerge più allo stato puro, così anche all’interno dell’animo umano si è stabilita una socievolezza talmente ampia e compiuta che»503 nessuna operazione si svolge e agisce isolatamente, bensì è «mossa e compenetrata dall’amore e dal sostegno premuroso degli altri»,504 sicché risulta assai difficile «distinguere in tale associazione la forza produttiva dominante»,505 vale a dire il

senso essenziale dell’operazione nella sua pura essenza. «È per questo che ciascuno può comprendere ogni attività dello spirito solo in quanto la può trovare e contemplare simultaneamente all’interno di se stesso».506 Idea dominante: la religione è 1) ora un modo di pensare, una fede, una modalità propria di considerare il mondo, un costrutto teoretico; 2) ora un modo di agire, un proprio piacere e amore, un particolare modo di comportarsi e di muoversi interiormente, un fenomeno pratico. La religione appartiene a entrambi gli aspetti.507 (In genere, e ancora adesso, si sono valutati i fenomeni e i documenti della religione in base ai proventi che offrivano alla morale e alla metafisica. Va quindi indicata ora anzitutto la profonda antitesi sia tra fede, morale e metafisica, sia tra devozione e moralità). La religione rinuncia a simili pretese e restituisce tutto ciò che ha preso in prestito da quella parte – ovvero ciò che di là le è stato imposto – sì da «rivelare e dimostrare in modo affatto determinato il suo patrimonio originario e peculiare».508 (Esclusione di determinate statuizioni fondantisi su se stesse e recanti in sé una teleologia autonoma. All’interno della fenomenologia vale questa specifica επoχη, allo scopo di poter isolare puramente per sé le singole teleologie). «A che cosa aspira infatti la vostra scienza dell’essere, la vostra scienza della natura, in cui tutto il reale della vostra filosofia teoretica deve pur sempre unificarsi? Conoscere le cose (questo è il mio pensiero) nella loro essenza peculiare; indicare le particolari relazioni in virtù delle quali ogni cosa è ciò che è; stabilire il posto di ogni cosa nell’intero e distinguerla con precisione da tutto il resto; inserire tutto ciò che è reale nella sua necessarietà mutualmente condizionata, dimostrando l’uniformità di tutti i fenomeni con le loro eterne leggi».509 L’essenza della religione è percepita senza avere nulla in comune con questo sapere, benché esso salga fino a Dio in quanto supremo ordinatore della legalità dell’essere. «Poiché la misura del sapere non è

la misura della devozione»510 («misura» significa «criterio di valore»). Dio collocato nella sfera del sapere in quanto fondamento del conoscere e del conosciuto non è la stessa cosa del modo devoto di avere Dio e di saperne di lui. Alla religione è essenziale la considerazione (Betrachtung), non la chiusa ottusità. Considerazione: con ciò si intende «ogni turbamento dello spirito che si è ritratto dall’influsso esterno».511 Senso e gusto per l’infinito = «immediata in noi la vita del finito, come essa è nell’infinito».512 Essere infinito: è impossibile che qui non sia implicitamente posto Dio. Questo specifico significato e l’espressione corrispondente sono stati evitati «poiché altrimenti con l’idea stessa sarebbe facilmente comparso uno specifico modo di intendere le cose, dunque sarebbe stata fornita una decisione, o per lo meno sarebbe stata esercitata una critica riguardo alle diverse maniere di pensare Dio e il mondo, insieme o separati, il che non rientra affatto nei nostri intenti».513 Esclusa la teleologia estranea, e in particolare quella teoretica, che confonde nel modo più pericoloso. Bisogna «scendere nel più intimo santuario della vita»,514 poiché è là che si trova il rapporto originario fra il sentimento e l’intuizione. «Ma devo rinviarvi a voi stessi, al coglimento di un momento vivente. Dovete imparare a spiare voi stessi per così dire dinanzi alla vostra coscienza, o per lo meno a ristabilire per voi questo stato in base a essa. Ciò che dovete osservare è il divenire della vostra coscienza, non dovete cioè riflettere, ad esempio, su qualcosa di già divenuto».515 Bisogna scoprire un ambito originario di vita e di operatività della coscienza (o sentimento) nel quale soltanto la religione si realizza come forma determinata di esperienza vissuta .516 Su tale base vanno interpretati517 gli elementi della religione, che si dimostra così come non appartenente a contesti teleologici (quindi noetici) estranei, né da essi determinata quanto al suo senso. La religione va rigorosamente separata da ciò che le appartiene.518

Universo – pienezza della realtà – in continuo scorrere e operare; ogni singola cosa come parte del tutto. La specifica relazione religiosamente intenzionale, sentimentale, di ogni contenuto di esperienza vissuta con un tutto infinito inteso come senso fondamentale, è religione. Dedizione: originario, sfrenato affluire della pienezza, lasciarsi turbare. Ricondurre la rispettiva esperienza vissuta nell’unità interiore della vita. La vita religiosa consiste nel costante rinnovamento di questo processo. L’agire è il riflesso di questo sentimento; solo l’agire come totalità, non ogni singolo atto, va determinato in questo modo. Attimo misterioso dell’unità omogenea di intuizione e sentimento: l’una non è nulla senza l’altro. Il momento noetico è esso stesso costitutivo per il contenuto noematico complessivo del vivere. Dato che in tal modo viene a mancare ogni carattere tetico, ogni asserzione circa l’essere – giacché non si decide nulla riguardo a qualcosa –, la pienezza dell’esperienza vissuta acquista un certo carattere di neutralità, nel senso che nessun oggetto ha la priorità sull’altro. Con ciò è data una specifica infinità del vivere religioso. La storia nel senso più autentico costituisce l’oggetto supremo della religione, che si inizia e finisce con essa. L’umanità va considerata come una comunità vivente di singoli in cui va perduto l’esserci separato. Fare tutto con la religione, non in base alla religione. La religione deve accompagnare ogni fare della vita come una musica sacra. Fenomenologia dell’esperienza vissuta religiosa e della religione Le forme e configurazioni tipiche della vita religiosa e della coscienza storica. L’autonomia dell’esperienza vissuta religiosa e del suo mondo va considerata come una intenzionalità del tutto originaria, dotata di un carattere di pretesa (Forderungscharakter) del tutto originario; ugualmente

originario è il suo specifico «avere carattere di mondo e di valore» (Welt-und Werthaftigkeit). La pienezza storica – più precisamente: le poche grandi unicità della religione vivente – va valutata mediante gli elementi di senso e di esperienza vissuta della coscienza religiosa e non mediante criteri extrareligiosi o addirittura «scientifici». Solo così la vita religiosa è conservata nella sua vitalità, senza essere minacciata da visioni del mondo cosiddette scientifiche. Come ogni mondo di esperienza vissuta (Erlebniswelt), soltanto nella coscienza storica la religione può acquistare forma e pervenire a una totalità – non universalità – nel senso conforme a ogni ambito di valore. Facendo filosofia non si ottiene nessuna religione genuina; e se ha compreso il suo vero mestiere (cfr. coscienza storica), la filosofia è a stento in grado di addurre un criterio di critica legittimo. Uno degli elementi di senso più significativi e fondanti dell’esperienza vissuta religiosa è quello storico. Però nell’esperienza vissuta è già contenuta l’attribuzione di senso specificamente religiosa. Il mondo dell’esperienza religiosa, nella sua originarietà – non nella sua separatezza teoretico-teologica –, è centrato su una grande, unica figura storica (pienezza di vita personalmente operante). A ciò si connette il carattere costitutivo del concetto di rivelazione e di tradizione nell’essenza della religione. Analisi del fenomeno della fede (πίστις) non intellettualizzato. Il materiale protocristiano e relativo alla storia dei dogmi va isolato e interpretato in termini fenomenologici. Il fenomeno della fiducia e dello specifico senso della «verità» che esso comporta. C’è una razionalizzazione del vivere religioso e del problema della fede anche quando la nozione trascendentale dell’a priori viene indebolita nella sua natura teoretica tramite l’inserimento dell’idea di validità ateoretica. Si ha qui a che fare con una tendenza legittima, dotata però di mezzi completamente inadeguati nel quadro di una

sistematica eterogenea (trascendentalismo). Rispetto a ciò, soltanto la fenomenologia salva dalla miseria filosofica, il che avviene però solo se essa è conservata pura nei suoi momenti radicali originari e l’intuizione non è teoretizzata, né il concetto di essenza è razionalizzato secondo il modello dell’idea generale di validità universale, bensì il termine «essenza» mantiene garantite la possibilità vitale di mutamento e la pienezza vitale di senso conformemente al diverso comportamento nei confronti del valore e dell’esperienza. Tale opinione sarebbe tuttavia da respingere energicamente, come se, allora, la sfera sovrastorica dell’essenza in quanto tale – data nell’intuizione – fosse un accrescimento immanente dell’esperienza vissuta rispettiva. Qualcosa di simile si realizza soltanto nella forma dell’esperienza vissuta specificamente filosofica, dove l’intuìto stesso assume un carattere mondano (Weltcharakter) nuovo e del tutto genuino, conformemente al comportamento del soggetto. L’assoluto519 «La posizione nei confronti di Dio è determinante per il nostro comportamento conforme all’esperienza vissuta verso di lui».520 Che cosa significa «posizione nei confronti di Dio»? In termini sensati e costituiti si può formulare soltanto come un comportamento della coscienza, e non, ad esempio, in senso ontico, come essere accanto – ovvero «sotto» – un essere (assoluto). Vale piuttosto l’inverso: il nostro comportamento verso Dio conforme all’esperienza vissuta – comportamento primario, poiché nascente in noi in virtù della grazia – è determinante per la costituzione specificamente religiosa di «Dio» in quanto «oggetto fenomenologico». (Reinach in un certo senso se ne accorge, però non lo assume come principio metodico della fenomenologia della religione). È per questo che le determinatezze di senso di ciò, ossia

dell’«assoluto», possono essere scoperte solo nelle specifiche strutture delle esperienze vissute costituenti, e possono essere dimostrate con carattere di esperibilità (Erlebtheitscharakter) per il fattore di senso (Sinnmoment) prioritariamente costituente l’elemento logico-ontologico (chiuso riguardo all’essere [seinsverschlossen] [?]) della «non ulteriore incrementabilità» (Nicht-mehrSteigerbarkeit). Il «peso dell’esperienza vissuta» e la sfera del contenuto dell’esperienza vissuta sono effettivamente diversi – ma in quale nesso funzionale? L’assunzione di realtà «è contenuta in modo immanente nel senso stesso dell’esperienza vissuta».521 La validità e il significato conoscitivo delle esperienze vissute religiose costituiscono una sfera genuinamente e – cosa che fino a oggi era un problema – completamente nuova, dove la mera ricerca di analogie con l’ambito estetico dei valori o con l’assunzione di valore non è assolutamente sufficiente, se non addirittura fin da principio fuorviante. Qui l’unica salvezza è l’analisi radicale. Critica dei «concetti metafisici fondamentali». L’assoluto – determinabile soltanto nella sfera di esperienza vissuta di volta in volta data – ottiene la sua piena concretezza in tale sfera solo se si annuncia in una storicità; dunque l’analisi, che si muove solo nella storicità, deve incessantemente dimostrare lo «storico» in quanto elemento sempre diversamente orientato e influente di colorazione e di determinazione, nonché elemento che produce il senso originario e la struttura della coscienza vivente in generale. L’unità vivente di senso dell’essere vivente, che, in quanto «storica», si trova nella struttura di senso della coscienza, determina pure [?] in qualche maniera – benché anche in tal caso iniziando di nuovo in modo originario (conformemente alla struttura) – lo specifico carattere di mondo della relativa sfera di esperienza vissuta in quanto sfera religiosa. Il materiale concettuale tratto dalla metafisica razionalistica e staccato dal suo metodo costruttivo – come

ad esempio i concetti di «assoluto», «misura massima», «misura in generale» – è inadeguato a una sfera genuina di esperienza vissuta, non solo perché non può esserle applicato dall’alto, aprioristicamente, in termini metodici o (rispettivamente) non metodici, ma anche perché porta poi improvvisamente a una dialettica costruttiva, o comunque – anche in caso di regresso all’esperienza vissuta di un siffatto contenuto concettuale (applicato) – le lascia sempre svolgere una funzione di guida; ma, soprattutto, questo materiale ha un contenuto talmente neutrale, sbiadito e non caratterizzato nel senso della sfera dell’esperienza vissuta, che, a un esame più serio, si dimostra essere un conglomerato di elementi di senso assolutamente non originario, ossia non scaturito originariamente da alcuna sfera di esperienza vissuta. La critica di siffatti «concetti metafisici fondamentali» dovrebbe dimostrare il carattere indiscriminatamente e storicamente casuale, composito e contraddittorio dei loro elementi di senso, in particolare l’influsso distruttivo del concetto di natura e dei suoi molteplici fattori, e ciò dovrebbe riguardare anche l’intero operare con il concetto di infinità in Reinach, ad esempio l’antitesi fra il «condurre all’infinito» e il «racchiudere in sé l’infinità».522 Reinach parla di «passaggi interiormente motivati»523 nell’esperienza vissuta delle diverse assolutezze (formali – esperibili in genere! – e compiute) in contrasto con l’eventuale sviluppo logico-teoretico del loro divergere. Torna a mostrarsi qui il medesimo conflitto metodico, che peraltro lascia sempre trapelare la direzione fondamentale verso ciò che è conforme all’esperienza vissuta. Il fenomeno della motivazione è in linea di principio significativo anche qui, come per la costituzione della coscienza storica in generale. È notevole la differenza stabilita da Reinach fra «conoscenze esplicite e conoscenze immanenti all’esperienza vissuta».524 «L’assunzione della realtà è data in modo completamente diverso nel sentirsi protetto

(Sichgeborgenfühlen) in Dio. Dal punto di vista logico essa ne sarebbe il presupposto. Ma nessun uomo trarrà la conclusione logica. Essa è contenuta piuttosto in modo immanente nel senso dell’esperienza vissuta. Qui dobbiamo separare due cose: da un lato la conoscenza dell’essere protetto (Geborgensein), dall’altro la conoscenza dell’esistenza di Dio, vale a dire una conoscenza diretta e una conoscenza indiretta immanente. Nelle esperienze vissute della gratitudine e dell’amore è contenuta soltanto una conoscenza indiretta; in un certo senso esse, in quanto prese di posizione, sono esperienze vissute derivate».525 «Io vivo un’assoluta dipendenza da Dio. Nella misura in cui io stesso sono partecipe di questa relazione vissuta, lo stato di fatto non mi sta dinanzi, giacché io vivo piuttosto me stesso in tale relazione, che quindi, naturalmente, non può essere per me oggettiva. Allo stesso modo, anche quando percepisco un oggetto il rispettivo rapporto fra la percezione e l’oggetto non mi è oggettivamente dato. Poi però emerge subito una differenza: nel caso della percezione, tramite la riflessione su di essa, sorge in me la conoscenza “io percepisco”. Nell’esperienza vissuta della dipendenza, invece, io mi trovo [corsivo dell’Autore] dipendente, senza che si renda necessaria una riflessione, la quale peraltro potrebbe condurmi soltanto alla conoscenza del fatto che mi sento dipendente».526 Questi brevi accenni sono molto importanti, benché soltanto a questo punto debba prendere inizio l’analisi. «La dipendenza assoluta, l’essere assolutamente protetto, non sono un “dato di fatto”».527 Reinach coglie al tempo stesso anche il problema della validità. Si renderà necessario mostrare che qui gli scetticismi puramente conoscitivi non hanno possibilità di arrecare disturbo, in quanto, appunto, sono chiariti soltanto l’elemento specificamente originario delle rispettive esperienze vissute e in particolare la struttura di senso originaria della coscienza storica.

La primissima, originaria posizione di Hegel sulla religione – e le sue conseguenze Influsso decisivo di Kant, che esclude fin dall’inizio un rapporto diretto, fondato su un originario riferimento di esperienza vissuta al sacro. Lo scopo che fa da guida è la moralità, sicché la religione, in quanto mezzo, ne risulta immediatamente degradata. Il senso dell’opera di Gesù consisterebbe «nell’elevare la religione e la virtù alla moralità».528 Questa impostazione fondamentale della religione in quanto mezzo è decisiva per tutta l’ulteriore evoluzione intellettuale di Hegel – ed è in tale direzione che va seguita ed esposta criticamente. Si rende inoltre necessario verificare in che misura, in virtù di ciò, il problema dello storico sia spinto su una strada del tutto determinata, e solo nella sua piena originarietà – in forma non vincolata – diventi un problema filosofico. Problemi L’esperienza vissuta dell’essere nella sua tipicità in determinati periodi della storia dello spirito e in differenti mondi di esperienza (lirica, arte in genere, scienza, eccetera; ad esempio, Verhaeren e Werfel). Oggi, ad esempio, non è caratterizzata per addizione, conformemente al contesto, bensì in senso teleologico, assumente valore, avente carattere di atto. Concetto dei mondi della vita (Lebenswelten); la loro struttura di principio, determinata dalla coscienza storica in generale; la sua specifica struttura, da cui sono determinate le possibilità essenziali delle sue connessioni e complicazioni. Fede Questo titolo abbraccia una molteplicità di modalità che

non sono equiparate come le specie di un genere, ma tra di esse se ne trova una eminente: la doxa originaria (Urdoxa), alla quale le rimanenti sono riferite intenzionalmente in uno specifico modo. (In termini correlativi, le modalità dell’essere). Se il distanziamento delle modalità di fede dalla doxa originaria, quindi il riferimento a essa, sono differenti nel caso di ciascuna modalità – sicché è esclusa una semplice coordinazione di varietà –, ciò dipende dal senso rispettivo di tale distanziamento e di tale reinterpretazione. Vale a dire: quale momento di senso è modificato nella doxa originaria, e come è modificato? «Come» significa anche: quanto è ampia e di che natura è l’estensione della modificazione apportata al semplice contenuto complessivo della doxa originaria? Devozione – fede Cfr. salmi della fiducia «Nella quieta (šuvah) attesa troverete la salvezza, nella silenziosa fiducia sta la vostra forza» (Isaia, 30, 15). Cfr. la voce «Glaube» [«fede»] in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, vol. II, in particolare il par. III, dove peraltro l’analisi è assai carente, e il par. IV su fede e storia. La fede secondo Troeltsch: «Momento conoscitivo della devozione»529 (nota bene: fede in Lutero). La fede è «una modalità di conoscenza e di pensiero mitico-simbolico-pratica, peculiarmente religiosa, che trae origine dall’impressione storico-personale e crede al mito in vista delle energie religiose pratiche da esso tramandate, e solo attraverso il mito è capace di esprimere, concretizzare e comunicare tali energie».530 Struttura, tipologia e «legalità» della vita di fede. Cfr. Realencyklopädie für protestantischen Theologie und Kirche, voce «Glaube», vol. VI, terza edizione. Su «Der christliche Glaube» di Schleiermacher –

e sulla fenomenologia della religione in generale La definizione offerta da Schleiermacher della «devozione» in quanto «determinatezza del sentimento ovvero dell’autocoscienza immediata».531 (Coscienza storica – la descrizione del sentimento data da Steffen: «Il presente immediato dell’intero esserci indiviso»).532 Tuttavia, questa «autocoscienza autentica e immediata, che non è rappresentazione, bensì sentimento in senso autentico, non è affatto sempre e soltanto concomitante»,533 «né è qualcosa di confuso [...] e nemmeno qualcosa di inefficace».534 La forma costitutiva dell’autocoscienza (immediata) in qualche modo determinata circoscrive il senso dell’esistenza personale e si installa nell’elemento costitutivo originario della coscienza storica in generale. Che cosa costituisce il momento di senso della specifica unitarietà, unità e continuità della coscienza personale? L’«essere colpita da una qualche direzione» (das «Irgendwohergetroffensein») della coscienza è possibile solo in base all’essenziale apertura al valore (Wertaufgeschlossenheit) e all’amore primario per il senso (primäre Sinn-Liebe) dell’esistente personale. «Colpibile» (treffbar) non può essere un foglio immacolato, un io vuoto, un sé puntuale, bensì soltanto un essere personale pieno ed essenzialmente aspirante al compimento, dotato di una struttura tale da rendergli possibile sia l’essere riempito da determinati beni del mondo della vita, sia, nell’essere riempito, il crescere ulteriormente e l’essere sentito. (Il «sentire-dipendente» [das «Abhängig-fühlen»] confina già fin troppo con l’obiettivazione teoretica, con un uscire fuori da se stessi e un constatare una relazione di questo sé obiettivato con un altro). «Dipendenza assoluta»: questo senso dell’interpretazione è troppo rozzo; esso obiettiva troppo in una direzione teoretica concernente l’essere – e riguardante nello specifico la realtà naturale.

Si deve piuttosto interpretare il rapporto originario in quanto oscilla dall’anima allo spirito assoluto e viceversa, in modo che mostri una struttura in cui sono incorporate le possibilità (secondo la struttura) per compimenti del genere più vario. «La mutevole determinatezza del nostro sé» significa: la nostra coscienza vivente è un costante susseguirsi e compenetrarsi di situazioni. Anche così tutto è ancora troppo caratterizzato in senso teoretico-naturalistico. Le connessioni sono piuttosto tali da costruirsi in base alla struttura fondamentale della coscienza. A tal fine il concetto di fondazione (Fundierung) addotto con forza da Husserl costituisce uno straordinario passo in avanti nelle vere connessioni. Le situazioni possono alternarsi puramente sulla base dei contenuti di coscienza e delle loro connessioni immanenti, oppure motivate da una gradazione e dalle vitalità determinate dei caratteri specifici dell’atto. Le «situazioni» sono tanto più «pure» immediatamente (e in misura corrispondente alla specifica obiettità), specificamente più chiare, certe, quanto più la rispettiva esperienza vissuta perviene al compimento momentaneo, originario e autonomo del flusso di coscienza, a un essere storico vivo e radicato. La coscienza è storica sempre e soltanto nella realizzazione momentanea, mai nella mera «riflessione dell’io puro» (Reine-Ich-Reflexion). L’io puro è l’elemento costitutivo originario, la forma della possibilità dell’essere colpito e della compiutezza in generale. Non è una cosa libera dal valore, ma nemmeno un bene (oggetto in cui l’accento cade sul valore [wertbetonter Gegenstand]). In senso primario esso è la forma originaria dell’apertura nei confronti di ciò che ha valore in generale, e quindi gli spetta una nobiltà eterna, un’assoluta eccellenza in merito all’a priori delle forme. Il «poter porre se stesso» (das Sichselbstsetzenkönnen) e il «non essere divenuto in virtù di altro» (das Nichtanderswohergewordensein) non sono affatto la sua

essenza. Il suo fondamento originario più peculiare è al tempo stesso e in senso proprio eterna vocazione (Beruf) e chiamata (Berufung) in quanto costituente assoluto dello spirito e della vita in generale. Anch’esso è chiamato (berufen) da un altro – ed è secondario se sia divenuto o che cos’altro (anima naturaliter religiosa). L’«essere divenuto in virtù di altro» (das Anderswohergewordensein) non è quindi una caratterizzazione di sé – in contrasto con la coscienza momentaneamente compiuta. È piuttosto l’io puro la possibilità (non logica, bensì avente carattere di vocazione) dell’essere storico di una coscienza compiuta. Dal punto di vista fenomenologico, tuttavia, il compimento e l’essere compiuto non possono essere interpretati come «essere divenuto», e assolutamente non in modo conforme all’essere (seinsmäßig). Il fatto che vi sia qualcosa di simile appartiene all’essenza e alla «possibilità» della coscienza vivente. Soltanto così il concetto di intenzionalità ottiene la sua interpretazione a priori in quanto elemento originario della coscienza, ed è su di esso che si fonda anzitutto ogni possibile «non avere posto se stesso così» (das Sichselbstnichtsogesetzthaben). Il sacro (Appunti per la recensione di R. Otto, Il sacro, 1917) I problemi di principio richiedono anzitutto di essere, se non risolti, quantomeno nominati e circoscritti. 1. Problema della coscienza storica (coscienza dell’esistenza personale e della sfera originaria, compiuta, della vita; inoltre, la forma corrente dominante di costituzione; a partire di qui, riferimento agli altri mondi che incalzano). 2. Problema dell’irrazionale (cfr. manoscritto).535 L’irrazionale continua a essere considerato come controgetto (Gegenwurf) o confine, però non è mai inteso

nella sua originarietà e nella sua costituzione peculiare. Ne deriva ognora la concessione di un qualche diritto da parte della ragione e della «critica della ragione».536 Non abbiamo ancora una vera cognizione della coscienza vivente e dei suoi mondi originari che, per quanto pienamente originari, hanno pur sempre un radicamento comune – peraltro assai stratificato – nel senso fondamentale di un’esistenza personale genuina. (L’innesto dell’irrazionale sul razionale va evitato e combattuto). Il mondo religioso dell’esperienza vissuta non ha bisogno di assicurarsi la propria autocertezza misurandosi con «legalità» e idee relative alla critica della cultura. Affinché ciò diventi del tutto evidente è necessario che il fenomeno di principio dell’autosussistenza delle datità originarie di certezza sia messo in luce e dimostrato nel suo dominio della coscienza di volta in volta definito. Riguardo ai punti 1 e 2 c’è da dire sostanzialmente questo: il sacro non può essere posto come problema in quanto noema teoretico – nemmeno in quanto irrazionalmente teoretico –, bensì in quanto correlato del carattere di atto «fede», che a sua volta è interpretabile solo in base al contesto essenziale e fondamentale di esperienza vissuta della coscienza storica. Il che non significa che il «sacro» sia spiegato come una «categoria di valutazione», giacché l’elemento primario ed essenziale in esso è piuttosto la costituzione di una obiettità originaria. Il «numinoso»: l’«elemento speciale» nel sacro meno il momento morale e razionale. Su che cosa si fonda il collegamento fra il secondo e il primo? Tale collegamento appartiene in qualche modo alla struttura originaria del numinoso? È necessaria una spiegazione di principio riguardo alla categoria e alla forma, e alla loro funzione. Differenze: il puro sacro e i mondi e gli oggetti sacri costituiti. Windelband (Il sacro)537 mostra di conoscere quasi la medesima varietà di fenomeni religiosi, sia pure in una

formulazione fortemente razionale, ma soprattutto fa vedere che decisivo è questo principio dell’impostazione generale del problema, da cui dipendono sia l’articolazione dei gruppi di problemi sia i postulati metodici. Sui «Sermones in Canticum canticorum» (Serm. III) di Bernardo538 1. «Hodie legimus in libro experientiae».539 Oggi intendiamo muoverci, cogliendo (descrivendo), nel campo dell’esperienza personale. Ritorno alla sfera della propria esperienza vissuta e attento ascolto degli annunci della propria coscienza. Consapevolezza marcata e adeguatamente formulata dell’esclusivo valore e diritto principale della propria esperienza religiosa. Il desiderio religioso di esperienza vissuta e il prodigarsi per la presenza di Gesù sono possibili in senso genuino solo in quanto nati da un’esperienza fondamentale. Di siffatte esperienze vissute non si dispone liberamente e intenzionalmente seguendo le prescrizioni delle leggi ecclesiastiche. Il «sapere» che le riguarda e la loro essenza nascono soltanto dal reale avere esperito. Un’esperienza vissuta siffatta è veramente efficace soltanto in un contesto chiuso di esperienza vissuta (flusso di esperienza vissuta) e non può essere trasmessa e risvegliata mediante descrizione («Est fons signatus, cui non communicat alienus»).540 La costituzione del contesto noetico religioso dell’esperienza vissuta è «storica» (qui bibit, ad hunc sitiat) .541 L’esperienza fondamentale, quindi, è non soltanto temporalmente primaria (cosa di cui forse non ha affatto bisogno), bensì fondativamente primaria. Il senso della direzione e la forma di tale fondazione sono essenzialmente «storici», dove peraltro questo termine non sta a significare ancora nulla di definitivo, ma certamente qualcosa di autosussistente, di primario. Non bisogna mai riallacciarsi nemmeno a rapporti di fondazione di atti teoretici, ma si

deve iniziare con origini primarie (il che richiede necessariamente la conoscenza della radicalità universale della descrizione fenomenologicamente intuitiva e della sua assenza di presupposti. Tuttavia, proprio a causa di questa semplicità della forma dell’atteggiamento, essa stessa rappresenta per il fenomenologo il problema nell’insieme delle costituzioni). 542

Qual è il fenomeno fondamentale nel campo complessivo del conoscere e del fare storici? Come possono essere ottenuti la meta e il senso della sua specifica costituzione dell’oggetto? Gli elementi costitutivi del ricordo e il loro valore funzionale nel processo di obiettivazione del comprendere storico. In rapporto con tutto ciò stanno la costituzione originaria dei caratteri di valore e la loro funzione, nonché il loro significato, per lo «storico». Il momento dell’eccellenza, della preminenza, dell’accrescimento, dell’oggettuale per nulla indifferente dal punto di vista puramente teoretico – quindi il momento noetico dell’essere originariamente riferito ai suddetti momenti noematici – rinviano a una specifica costituzione di esperienze vissute religiose originarie. Connessioni essenziali immanenti della graduazione: «Nolo repente fieri summus; paulatim proficere volo».543 «Citius placas eum [Deum], si mensuram tuam servaveris, et alteriora te non quaesieris».544 (Il «più alto di te», il superiore non devi strapparlo giù verso di te, e nemmeno quindi [...]545 rigidamente, giacché le realtà dell’esperienza vissuta dell’uomo religioso debbono piuttosto nascere costantemente da lui stesso; egli deve lasciar agire in sé le connessioni immanenti). Il fenomeno del raccoglimento (interiore), le sue motivazioni e le sue tendenze (fenomeno particolare: la quiete mistica, il silenzio, il problema del «riferimento all’io» [Ich-Bezug]). Tendenza fondamentale della vita: «vivere di più» (mehr-

leben). A partire di qui già l’attività meditativamente motivata quanto al senso (nulla che abbia carattere di divenuto – ricettività in quanto ricettività originaria del mondo religioso). («Solitudine»: un fenomeno dell’esistenza storica personale in quanto tale). Il fenomeno del processo di costituzione della presenza di Dio è un fenomeno originario. Gli «stadi della preghiera» – da considerare provvisoriamente: concentrazione, meditazione, preghiera della quiete. L’analisi, ossia l’ermeneutica, lavora nell’io storico. La vita in quanto vita religiosa è già presente. Non è che sia analizzata una coscienza neutrale della realtà, giacché di ogni cosa va colta piuttosto la specifica determinatezza di senso. Problema: l’eidetica intuitiva, in quanto ermeneutica, non è mai neutrale-teoretica, bensì coglie anch’essa soltanto «eideticamente» (non [...]546 eideticamente) l’oscillazione del mondo genuino della vita. Il flusso della coscienza è già religioso, quantomeno è motivato e orientato in tal senso. (Quindi santa Teresa, ad esempio, vede in modo fenomenologico in quanto mistica, [senza] vedere eideticamente e [senza] l’eidetica specificamente religiosa). L’anima è «in qualche modo» il sito (die Stätte) per Dio e il divino (cfr. Eckhart, die stat), la casa di Dio, motivazione originaria. Soltanto in seguito a ciò può essere giudicata un valore. Cfr. Seelenburg, IV, 6 (ad esempio il penetrare nel «castello interiore» [Seelenburg]). «Almeno notiamo raramente quali grandi beni possano essere contenuti in questa anima, o chi abiti in essa, o quale valore, quale dignità essa abbia».547 «Chi non crede a qualcosa del genere [come all’abitare di Dio nell’anima – al religioso e al sacro in generale] nemmeno esperirà nulla di ciò, poiché il Signore è ben felice quando non gli si pongono modo e misura nelle sue opere».548 «Poiché ciò che voglio esporre è molto difficile e oscuro se non è presente alcuna esperienza».549

Esigenza: guardare sempre l’intimo e l’intero del castello e non la mera successione e contiguità delle stanze: visione totale e comprendente.550

NOTA DEI CURATORI DEL CORSO DEL SEMESTRE INVERNALE 1920/21 Martin Heidegger tenne il corso intitolato Introduzione alla fenomenologia della religione nel semestre invernale 1920/21 all’Università di Friburgo, dove insegnava in qualità di libero docente. In base all’annuncio ufficiale sappiamo che faceva lezione il martedì e il venerdì dalle 12 alle 13. Come si evince dalle date delle trascrizioni, egli cominciò il 29 ottobre 1920 e terminò il 25 febbraio 1921. Il manoscritto del corso è andato perduto. Nemmeno un annuncio fatto pubblicare su più quotidiani nazionali ha fruttato alcuna indicazione utile a ritrovarlo. Sono disponibili, però, cinque trascrizioni che consentono di ricostruire in modo approssimativo lo svolgimento dell’esposizione e il testo del corso. Tre (Oskar Becker, Helene Weiß, Franz-Josef Brecht) sono conservate presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach, mentre le altre due si trovano presso l’Archivio Husserl di Lovanio. Dall’insieme delle trascrizioni emerge che il corso si suddivide in due parti nettamente distinte e separate da una cesura alla fine della lezione del 30 novembre 1920. Nella trascrizione di Oskar Becker, che reca due numerazioni di pagina diverse nelle due parti, la fine della prima parte è segnata dalla frase seguente: «Interrotto il 30 novembre 1920 a causa delle obiezioni sollevate da estranei». Una richiesta rivolta all’Archivio dell’Università di Friburgo non ha portato ad alcun chiarimento sul genere di tali obiezioni. Fu forse questa la ragione per cui Heidegger si vide costretto a passare repentinamente dall’ampia «introduzione metodica» alla «esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti» – come recita il titolo della seconda parte del corso in Becker. La trascrizione di Becker, di agevole lettura, è basata su annotazioni stenografiche redatte durante le ore di lezione. Benché le frasi di Heidegger siano a volte molto semplificate e spesso abbreviate, la sua trascrizione è servita da base per la ricostruzione del testo della prima parte. Infatti per questa le annotazioni di Becker sono complete,

mentre per la seconda parte mancano sia la lezione del 10 dicembre sia quelle dal 10 al 22 febbraio. Le trascrizioni, regolarmente datate, di Helene Weiß e Franz-Josef Brecht dipendono in larga misura l’una dall’altra e a tratti sono addirittura identiche. Nella grafia di Helene Weiß sono disponibili tre plichi differenti: la trascrizione stessa, con le pagine numerate e relativamente ben leggibili; aggiunte a questo testo; infine una copia parziale della trascrizione di Brecht. Rispetto alla trascrizione di Becker questa è una versione terminologicamente semplificata e più concisa. Ciò vale anche per le annotazioni di Brecht, alcune sezioni delle quali derivano da altri scriventi non identificabili. A queste fonti si aggiunge la trascrizione di Franz Neumann conservata presso l’Archivio Husserl di Lovanio, che i Curatori avevano a disposizione in una redazione di autore ignoto e che è stata loro cortesemente fornita da S. IJsseling e S. Spileers. Il plico contiene solo la prima parte del corso, ma offre materiali aggiuntivi di cui si è tenuto conto nell’allestimento del testo. Non si è potuto invece fare uso della trascrizione di Fritz Kaufmann, anch’essa conservata a Lovanio, redatta con una stenografia antiquata, e finora non trascritta. Per stabilire il testo è stato anzitutto necessario trascrivere i manoscritti conservati a Marbach. La ricostruzione dello svolgimento dell’esposizione, intrapresa in base a una sicura cronologia delle ore di lezione, ha reso possibile organizzare in un ordine coerente il materiale testuale disponibile. Per la prima parte si è seguita, come abbiamo detto, la trascrizione di Becker. Per la compilazione della seconda parte, che si presentava invece più complessa, dato che la trascrizione di Becker è sempre meno precisa e parzialmente incompleta, si è reso necessario ricostruire i relativi passaggi in base alle altre trascrizioni. I Curatori sono consapevoli del fatto che il testo così stabilito – «autentico ma di seconda mano» – non sia paragonabile a edizioni basate sui manoscritti originali. Alle trascrizioni si aggiungono alcune annotazioni

manoscritte di Heidegger relative al contesto del corso. Si tratta di fogli singoli raccolti in una cartella conservata presso il Deutsches Literaturarchiv di Marbach. La grafia è microscopica e di difficilissima decifrazione. Poiché questi fogli rappresentano gli unici documenti originali conservati, essi vengono riportati in appendice. La punteggiatura è stata cautamente uniformata alle regole oggi in vigore. I titoli sono stati inseriti dai Curatori sulla scorta dell’indice fornito da Becker. L’articolazione in capitoli e paragrafi è anch’essa opera dei Curatori. I titoli presenti nell’appendice sono invece tutti di Heidegger. La lettera delle varie trascrizioni è stata di regola rispettata, ma con alcune lievi modifiche quando lo richiedeva l’inserimento nel corpo testuale. Le parentesi quadre [] nelle citazioni dell’appendice contrassegnano le aggiunte di Heidegger, le parentesi quadre nelle note a piè di pagina indicano le aggiunte dei Curatori. I passi mancanti sono contrassegnati da tre puntini di omissione posti fra parentesi quadre [...], le lezioni dubbie da punti di domanda [?]. Questo corso è particolarmente importante per comprendere la prima fase del pensiero di Heidegger. Nonostante la letteratura specializzata vi avesse fatto ripetutamente riferimento, regnava una scarsa chiarezza sia circa le basi testuali disponibili sia riguardo all’esatto svolgimento. Con la presente edizione si pone per quanto possibile rimedio a questa carenza. La collocazione e il valore effettivo del corso all’interno dell’opera complessiva si determinano in base al suo oggetto: in nessun altro luogo è messa in risalto con altrettanta decisione la specificità dell’anticipazione filosofica in contrasto con la metodica scientifica, e mai le questioni religiose sono trattate con altrettanta ampiezza e precisione esegetica. Heidegger collega una critica della filosofia della religione contemporanea (Troeltsch) a fondamentali considerazioni su come l’esperienza effettiva della vita si lasci svelare nella sua storicità. La discussione dettagliata del concetto metodico fondamentale di «indicazione formale» costituisce

lo sfondo rispetto al quale le primissime testimonianze del cristianesimo delle origini sono sottoposte a una penetrante analisi fenomenologica. Nel quadro di una disamina svolta dal punto di vista della «storia dell’attuazione», Heidegger interpreta alcuni passi tratti dalla Lettera ai Galati e dalle due Lettere ai Tessalonicesi. Sulla scorta del fenomeno della predicazione paolina egli enuclea così alcune determinazioni fondamentali della religiosità protocristiana in cui si rende conoscibile il carattere di attuazione della vita effettiva come tale. L’avvicinamento scientifico e personale di Heidegger a Edmund Husserl dal 1918 in poi fece sì che queste analisi si ponessero nel segno di una «fenomenologia della religione». Husserl aveva affidato l’elaborazione più precisa di questo aspetto al suo allievo, il quale peraltro – muovendo dal concetto di esperienza effettiva della vita – lavorava già a una propria concezione della fenomenologia. Il costante confronto con la tradizione cristiana fornisce lo sfondo su cui Heidegger svilupperà la sua «ermeneutica della fatticità». Per il semestre invernale 1919/20 egli aveva annunciato un corso – poi non tenuto – sulla mistica medioevale (si veda la terza parte di questo volume). Le lezioni qui pubblicate del semestre invernale 1920/21 e del semestre estivo 1921 segnano il culmine e nello stesso tempo la fine dei suoi studi di fenomenologia della religione. I Curatori ringraziano il Curatore del lascito postumo, Hermann Heidegger, per la stima loro dimostrata con l’affidamento dell’edizione del corso. Per l’aiuto prestato nella decifrazione di passi testuali di ardua lettura i Curatori sono grati a Friedrich-Wilhelm von Herrmann, e naturalmente a Hermann Heidegger. Un sentito ringraziamento va anche a Hartmut Tietjen per i numerosi ragguagli relativi all’allestimento formale e testuale del corso, per la trascrizione delle annotazioni e degli abbozzi per le lezioni (riportati in appendice), di assai difficile lettura, e per il suo contributo alla correzione delle bozze. Si ringraziano infine Jutta Heidegger, Torsten Steiger e Mark

Michalski per la cortese collaborazione nella revisione redazionale. Francoforte sul Meno, agosto 1995

MATTHIAS JUNG THOMAS REGEHLY

NOTA DEL CURATORE DEL CORSO DEL SEMESTRE ESTIVO 1921 E DELLE PRIME STESURE E DEGLI ABBOZZI REDATTI NEL 1918-1919 Il titolo generale del volume LX della Gesamtausgabe è ripreso dalla copertina di un quaderno in cui Heidegger ha raccolto i suoi studi di fenomenologia della religione degli anni 1918-1919. Su un secondo foglio usato come copertina si trova un titolo ancora precedente: Fenomenologia della coscienza religiosa. In seguito Heidegger cancellò la parola «coscienza» e la sostituì con «vita». Il titolo originario risulta confermato anche da una lettera del 1° maggio 1919 a Elisabeth Blochmann, in cui scrive: «Il mio lavoro è molto concentrato, in linea di principio e in concreto: problemi fondamentali della metodica fenomenologica, affrancamento dalle ultime scorie di punti di vista indotti – costante avanzare nuovamente verso le origini autentiche, lavori preliminari per la fenomenologia della coscienza religiosa – energico impegno rivolto all’attività accademica intensa e di alta qualità, studio costante in compagnia di Husserl» (M. Heidegger-E. Blochmann, Briefwechsel 1918-1969, a cura di J.W. Storck, Marbach am Neckar, 1989, p. 16 [trad. it. Carteggio 1918-1969, a cura di R. Brusotti, il melangolo, Genova, 1991, pp. 34-35]). Il fatto che Heidegger, riferendosi ai propri studi di fenomenologia della religione, parli di «lavori preliminari» va ricollegato senz’altro all’annuncio del corso I fondamenti filosofici della mistica medioevale, programmato per il semestre invernale 1919/20. Ma esso sembra indicare in generale un progetto a più lungo termine, dato che la fenomenologia della religione è, accanto alla problematica dei fondamenti, l’unica problematica concreta che in questo periodo sembra «interessare» a Heidegger. Il manoscritto originale del ciclo di lezioni della durata di tre ore tenuto nel semestre estivo 1921 e intitolato Agostino e il neoplatonismo consiste di 19 pagine in formato in-folio. Sulla parte sinistra dei fogli Heidegger ha steso il testo

continuo, mentre sulla destra si è riservato uno spazio per annotazioni, aggiunte, citazioni, integrazioni e delucidazioni alle traduzioni. Nelle parti interpretative del manoscritto si trovano da 15 a 20 note a margine per pagina (una ne reca addirittura 30), spesso collocate non solo l’una sotto l’altra, ma anche l’una accanto all’altra in «finestre» riquadrate, non di rado a loro volta integrate con nuove aggiunte, il tutto a scapito della congruenza grammaticale. Il cospicuo numero di tali annotazioni per associazione va spiegato in base all’oscillazione fra il procedere dell’interpretazione e la lettura tesa all’approfondimento. Poiché queste note a margine rimangono prive di una chiara correlazione con il testo continuo, si è potuto stabilire un nesso puntuale soltanto tenendo conto dei riferimenti di contenuto e considerando nel contempo la vicinanza spaziale (paralleli di riga, altezza del testo) ai capoversi fatti da Heidegger. Per garantire al lettore una netta distinzione tra il testo continuo e le note a margine, queste ultime sono state generalmente inserite fra parentesi tonde e collocate alla fine del rispettivo paragrafo. All’interno delle parentesi le singole annotazioni sono state separate da trattini. Per la loro sequenza sono stati determinanti, daccapo, il contesto concettuale e la vicinanza spaziale. Nei casi in cui le aggiunte e le inclusioni non presentavano nessuna correlazione al testo, oppure nuocevano alla continuità interpretativa, esse sono state messe in nota a piè di pagina. Dove Heidegger stesso ha usato parentesi tonde esse sono state quasi sempre conservate. Le parentesi quadre sono state utilizzate soprattutto per le delucidazioni fornite da Heidegger all’interno delle citazioni; in pochi casi, facilmente distinguibili, compaiono fra parentesi quadre anche le congetture del Curatore. La punteggiatura, che nel manoscritto è spesso soltanto accennata, è stata completata dal Curatore. I passi del manoscritto non decifrati (passi mancanti) sono stati evidenziati nel testo mediante puntini di omissione posti fra parentesi quadre, mentre in nota a piè di pagina è indicato il numero delle parole mancanti. Lezioni

incerte sono contrassegnate da un punto di domanda posto fra parentesi quadre. Per la trascrizione della grafia originale ho avuto a disposizione una copia eseguita da Hartmut Tietjen. Di grande aiuto sono state inoltre le trascrizioni manoscritte di Oskar Becker, Fritz Schalk e Karl Löwith. Tutti questi scritti sono stati collazionati più volte. I titoli sono del Curatore. Si tratta per lo più di lemmi tratti dal testo interpretato ovvero di formulazioni caratteristiche ricavate dal manoscritto del corso. Sull’Appendice I. Alcune aggiunte, mediante rinvii trasversali, indicavano che Heidegger aveva probabilmente già approntato un numero maggiore di abbozzi, concernenti soprattutto la problematica della tentatio. Essi si trovavano in una raccolta allestita evidentemente ex novo per la preparazione del suo seminario intitolato Agostino, Confessioni, XI (de tempore) (semestre invernale 1930/31). Dato che questi materiali rappresentano un tema centrale del corso e appartengono quasi sicuramente – come dimostrano anche le trascrizioni – ai lavori preparatori delle lezioni, si è ritenuto opportuno riportarli in questo volume. Tutti gli appunti e gli abbozzi sono trascritti qui per la prima volta. Si sono individuate le fonti di tutte le citazioni utilizzate. I riferimenti seguono l’edizione Migne. Sull’Appendice II. Poiché durante le lezioni Heidegger si è spinto più volte oltre i limiti del testo preparato, ho ripreso una serie di integrazioni dalla dettagliata trascrizione di Oskar Becker. Un modello appena abbozzato dello «schema sinottico dei fenomeni» si trovava su un foglietto contenuto nel fascicolo menzionato. Anche per tutte queste integrazioni si sono dovute individuare le fonti delle citazioni. Sulla terza parte del volume. Il summenzionato fascicolo intitolato Fenomenologia della vita religiosa consiste di 22 fogli. Per la trascrizione avevo a mia disposizione una copia redatta probabilmente da Fritz Heidegger. I fogli iniziano con le prime annotazioni relative al corso non tenuto intitolato I fondamenti filosofici della mistica

medioevale. Heidegger aveva annunciato un ciclo di lezioni su questo argomento per il semestre invernale 1919/20. I manoscritti conservati consentono di stabilire che egli iniziò la prima stesura il 10 agosto 1919, ne tentò una continuazione il 14 agosto, per poi interrompere il lavoro. Il 30 agosto Heidegger chiese alla Facoltà di Filosofia di poter mutare l’indirizzo del corso: «All’atto della preparazione del programma il sottoscritto contava su un periodo più lungo di vacanze autunnali. Alle attuali condizioni, tuttavia, un’elaborazione approfondita e sufficientemente rigorosa del materiale per il corso annunciato su I fondamenti filosofici della mistica medioevale si rende impossibile. Il sottoscritto, anziché tenere il corso suddetto, chiede il permesso di trasformare il corso di lezioni di un’ora, anch’esso annunciato, su Problemi scelti della fenomenologia pura, in un corso di lezioni di due ore con il titolo Problemi fondamentali della fenomenologia, da tenersi il martedì e il venerdì dalle 16 alle 17 (per principianti), con il relativo colloquio il martedì dalle 18 alle 19.30» (Universitätsarchiv Freiburg, atti «Philosophische Seminare», segnatura B 1/3348). L’ordine non cronologico dei fogli, che qui è stato mantenuto, può essere spiegato con il fatto che le ulteriori annotazioni sono state associate al corso progettato. Studi sulla mistica erano del resto già stati annunciati nel capitolo conclusivo della dissertazione per l’abilitazione alla libera docenza. Riguardo allo studio sull’assoluto, suggerito da un frammento di filosofia della religione di Adolf Reinach, va ricordato che Heidegger cita in base al manoscritto di tale frammento, che probabilmente gli fu passato da Husserl. Tale manoscritto è stato pubblicato in forma parziale nel 1921 nell’Introduzione di Hedwig Conrad Martius alle Gesammelte Schriften di Reinach. Una verifica completa delle citazioni è stata resa possibile soltanto dall’edizione critica curata da Karl Schuhmann.

Al centro della disamina del libro X delle Confessioni si pone l’interpretazione fenomenologica delle tre tentationes. Heidegger elabora qui ciò che poi svilupperà in Essere e tempo come analisi esistenziale della condizione di decadimento dell’esserci. Già nel corso del semestre estivo 1920 si parla del «decadimento di una significatività indirizzata puramente al mondo del sé in una significatività relativa al mondoambiente e, quindi, nello strato sbiadito di ciò che per lo più si porta con sé in modo secondario» (Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks, in Gesamtausgabe, cit., vol. LIX, a cura di C. Strube, p. 84, cfr. p. 37), tuttavia questo «decadimento» rimane esteriore rispetto alla tentazione interiore della vita stessa, e quindi non coglie ancora il pieno fenomeno del decadimento. La questione genetica del motivo che spinse Heidegger a un’interpretazione fenomenologica della tentatio in Agostino riporta al corso tenuto nel semestre invernale 1919/20: in un passo Heidegger osserva brevemente che il cristianesimo costituisce il paradigma storico più profondo per una determinata possibilità della vita effettiva, e precisamente per lo «spostamento del baricentro della vita effettiva e del mondo della vita nel mondo del sé e nel mondo delle esperienze interiori» (Grundprobleme der Phänomenologie, in Gesamtausgabe, cit., vol. LVIII, a cura di H.-H. Gander, p. 61). Poco dopo prosegue: «Soltanto col riemergere di questi motivi fondamentali di una nuova posizione del mondo del sé si rende comprensibile perché in Agostino abbiamo a che fare con qualcosa come le sue Confessioni e il De civitate Dei. Crede, ut intelligas: vivi in modo vivo il tuo sé – giacché il conoscere si edifica soltanto su questo fondamento di esperienza, la tua ultima e più piena esperienza del sé. Agostino vide nell’inquietum cor nostrum la grande, incessante inquietudine della vita» (ibid., p. 62). Il fatto che, dopo essersi dedicato ad Aristotele – un seminario sul De anima nel medesimo semestre e le lezioni nei semestri successivi –, Heidegger non abbia abbandonato

l’interesse per Agostino (come invece sostengono alcuni), è dimostrato da una considerazione tratta dal primo corso di Marburgo (semestre invernale 1923/24) che mostra come tutti i problemi da lui già indicati nel corso su Agostino – ad esempio l’ambigua tendenza di quest’ultimo all’assiologizzazione – continuino a occuparlo anche in seguito, sia nella loro problematica oggettiva sia riguardo alla loro efficacia storica: «Emerge il fatto che, come l’ἀληθές decadde a verum e certum, anche l’ἀγαθόν andò incontro, fino ai giorni nostri, a un caratteristico processo di decadenza finché fu definito come valore. Riguardo a questi rapporti porrò in luce gli elementi più importanti nel corso su Agostino, e precisamente nell’analisi dei concetti agostiniani di summum bonum, fides, timor castus, gaudium, peccatum, delectatio. In Agostino le diverse possibilità si concentrano a tal punto che la loro efficacia si fa sentire nel Medioevo e nell’età moderna» (Einführung in die phänomenologische Forschung, in Gesamtausgabe, cit., vol. XVII, a cura di F.-W. von Herrmann, p. 276). Nel corso del lavoro a questa edizione ho dovuto spesso rammentare la massima di Hotho, il Curatore dell’Estetica di Hegel. Nella Prefazione al testo egli dichiara essere stata sua premura dare alle lezioni un «carattere e una continuità da libro». Per ottenere questo risultato si è reso necessario il sostegno di varie persone. Sono assai grato a Hermann Heidegger, l’unico in grado di risolvere alcuni problemi di decifrazione particolarmente spinosi. Ringrazio anche Friedrich-Wilhelm von Herrmann per avermi suggerito numerose migliorie e per la sua collazione supplementare dei materiali aggiuntivi. Lo stesso vale per Hartmut Tietjen, che ha controllato più volte il materiale a stampa nelle sue varie fasi e si è impegnato in una accurata redazione finale dell’intero volume. Sono grato anche a Jutta Heidegger per la sua collaborazione nella revisione delle bozze e a Mark Michalski per la verifica di tutte le citazioni greche e latine.

Un particolare ringraziamento va infine ad Andreas Preußner e a Georg Scherer per il loro generoso contributo in tutta l’attività di correzione del testo a stampa. Colonia, agosto 1995

CLAUDIUS STRUBE

1 O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen, 1963, quarta ediz. riveduta e ampliata, 1994 (trad. it. della terza ediz. di G. Varnier, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Guida, Napoli, 1991); H. Ott, Martin Heidegger. Unterwegs zu seiner Biographie, Campus, Frankfurt a. M.- New York, 1988 (trad. it. Heidegger. Sentieri biografici, a cura di F. Cassinari, Sugarco, Milano, 1990); Th. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s «Being and Time», University of California Press, Berkeley, 1993. Quest’ultima monografia contiene fra l’altro un catalogo ragionato della letteratura teologica letta da Heidegger in quegli anni nonché un’analisi di tutti i corsi da lui tenuti.

2 Cfr. M. Heidegger, Mein Weg in die Phänomenologie, in Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen, 1972, pp. 81-90. Su questo punto mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in Le fonti del problema dell’essere nel giovane Heidegger: Franz Brentano e Carl Braig, in Heidegger e i medievali, a cura di C. Esposito e P. Porro, Brepols, Turnhout, 2001, pp. 39-52.

3 Cfr. Das Maß des Verborgenen. Heinrich Ochsner zum Gedächtnis, a cura di C. Ochwadt e E. Tecklenborg, Charis, Hannover, 1981, p. 92 (lettere del 2 e del 5 agosto 1917).

4 M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, in Gesamtausgabe, cit., vol. LXI, 1985, p. 197 (trad. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1990, p. 224).

5 La lettera, conservata nella biblioteca universitaria di Marburgo (Rudolf-OttoNachlaß), è stata pubblicata da H.-W. Schütte, Religion und Christentum in der Theologie Rudolf Ottos, de Gruyter, Berlin, 1969, pp. 139-42, poi in Das Maß des Verborgenen, cit., pp. 157-60.

6 M. Heidegger, Frühe Schriften, in Gesamtausgabe, cit., vol. I, 1978, p. 402, nota 2.

7 Ibid., p. 415.

8 K. Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stuttgart, 1986, p. 29.

9 La lettera è pubblicata in Zur philosophischen Aktualität Heideggers, a cura di D. Papenfuss e O. Pöggeler, Klostermann, Frankfurt a. M., 1990, vol. II, p. 27-32, qui p. 29.

10 Come documenta nei dettagli la ricostruzione biografica di Ott, Martin Heidegger, cit., passim.

11 La lettera è pubblicata per intero da Ott, Martin Heidegger, cit., p. 83.

12 La lettera è conservata nel lascito di E. Krebs presso il Seminario di Dogmatica dell’Università di Friburgo. È stata pubblicata da B. Casper, Martin Heidegger und die Theologische Fakultät Freiburg (1909 -1923), in «Freiburger Diözesan- Archiv», 32, 1980, pp. 534-41, ed è riprodotta (con una correzione) in Ott, Martin Heidegger, cit., pp. 106-107.

13 K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, Piper, München-Zürich, 1977, pp. 92-111, cap. x (trad. it. di E. Pocar, Autobiografia filosofica, Morano, Napoli, 1969). Poiché il cap. x fu scritto con la disposizione che fosse pubblicato solo dopo la morte di Heidegger (1976), l’edizione italiana non lo comprende.

14 K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, cit., pp. 92-96.

15 Come ho cercato di mostrare in vari studi cui mi permetto di rimandare: Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova, 1984; Dasein comme praxis. L’assimilation et la radicalisation heideggerienne de la philosophie pratique d’Aristote, in Heidegger et l’idée de la phénoménologie, Phaenomenologica, 108, Kluwer, Dordrecht-Boston-London, 1988, pp. 1-41; in versione it. ridotta in Filosofia ’91, a cura di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 215-52; «Being and Time»: A ‘Translation’of the «Nicomachean Ethics»?, in Reading Heidegger from the Start. Essays in His Earlier Thought, a cura di Th. Kisiel e J. van Buren, State of New York University Press, New York, 1994, pp. 195-211; La question du logos dans l’articulation de la facticité chez le jeune Heidegger, lecteur d’Aristote, in Heidegger 1919-1929. De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, a cura di J.-F. Courtine, Vrin, Paris, 1996, pp. 33-65.

16 M. Heidegger, Ontologie. Hermeneutik der Faktizität, in Gesamtausgabe, cit., vol. LXIII, 1988, p. 5 (trad. it. di G. Auletta, Ontologia. Ermeneutica della fatticità, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1992, p. 13).

17 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, in Gesamtausgabe, cit., vol. XII, 1985, p. 91 (trad. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano, 1973, p. 90).

18 Entrambi in Religionsphilosophie der Kultur. Zwei Entwürfe von Gustav Radbruch und Paul Tillich, in «Philosophische Vorträge der Kant-Gesellschaft», 24, Berlin, 1919.

19 Cfr. M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie. Frühe Freiburger Vorlesung Wintersemester 1919/20, in Gesamtausgabe, vol. LVIII, a cura di H.-H. Gander, Klostermann, Frankfurt a. M., 1993, pp. 189-96.

20 W. James, The Varieties of Religious Experience. A Study in Human Nature, Longmans, Green and Co., New York, 1902; trad. ted. di G. Wobbermin, Die religiöse Erfahrung in ihrer Mannigfaltigkeit. Materialien und Studien zu einer Psychologie und Pathologie des religiösen Lebens, Hinrichs, Leipzig, 1907 [trad.

it. Le varie forme dell’esperienza religiosa: uno studio sulla natura umana, a cura di P. Paoletti, Morcelliana, Brescia, 1998].

21 Cfr. E. Troeltsch, Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft. Eine Untersuchung über die Bedeutung der Kantischen Religionslehre für die heutige Religionswissenschaft, Mohr, Tübingen, 1905, p. 18 [trad. it. Psicologia e gnoseologia nella scienza delle religioni, in Scritti di filosofia della religione, a cura di S. Sorrentino, Filema, Napoli, 2002, pp. 13579].

22 [Aggiunta tratta dalla trascrizione di Helene Weiß: cfr. F. Überweg, Grundriß der Geschichte der Philosophie, undicesima ediz., Mittler, Berlin, 1916, IV, par. 43. Ricollegandosi a Kant, la teologia moderna ha riconosciuto l’indimostrabilità dei dogmi cristiani e ha costruito la dogmatica basandola sulla certezza personale dell’esperienza vissuta religiosa, rinunciando a una dimostrazione scientifica. Nasce così (come accade nella dottrina della fede di Schleiermacher) solo un’auto-osservazione psicologica della fede cristiana, dove, nel senso di Lotze, l’altezza di valore del cristianesimo è posta come garanzia della verità, mentre nel senso del pragmatismo se ne sottolinea il «valore vitale pratico»].

23 Cfr. E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, Mohr, Tübingen, 1912 [trad. it. Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1941-1966].

24 Cfr. E. Troeltsch, Über den Begriff einer historischen Dialektik: I./II. Windelband, Rickert und Hegel. III. Der Marxismus, in «Historische Zeitschrift», 119 e 120 (1919) e 120 (1919).

25 Cfr. W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, parte prima, in «Abhandlungen der KöniglichPreussischen Akademie der Wissenschaften», Philologische-historische Klasse, 1910 [trad. it. La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino, 1954, pp. 145289].

26 Cfr. E. Troeltsch, Zur Religionsphilosophie (aus Anlaß des Buches von R. Otto über «Das Heilige», 1917), in «Kant-Studien», 23, 1918.

27 Cfr. W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und der Geschichte, vol. I, Duncker & Humblot, Leipzig, 1883 [trad. it. Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia, a cura di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze, 1974] .

28 [Il titolo corretto è il seguente:] Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt, in «Deutsche Rundschau», 108, 1901.

29

[Il titolo corretto è il seguente:] Auffassung und Analyse des Menschen im 15. und 16. Jahrhundert, in Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, in Gesammelte Schriften, vol. II, Teubner, LeipzigBerlin, 1914 [trad. it. di G. Sanna, L’analisi dell’uomo e la intuizione della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, 2 voll., La Nuova Italia, Venezia, 1927; rist. anast., La Nuova Italia, Firenze, 1974].

30 Cfr. G. Simmel, Die Probleme der Geschichtsphilosophie. Eine erkenntnistheoretische Studie, Duncker & Humblot, Leipzig, 1892 [trad. it. I problemi della filosofia della storia, a cura di V. d’Anna, Marietti, Casale Monferrato, 1982].

31 Cfr. H. Rickert, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, seconda ediz. riveduta, Mohr, Tübingen, 1913 [trad. it. I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale, a cura di M. Catarzi, Liguori, Napoli, 2002].

32 [Cfr. E. Meyer, Zur Theorie und Methodik der Geschichte, Niemeyer, Halle, 1902, p. 36; trad. it. Sulla teoria e metodica della storia, in Storia e antropologia, a cura di S. Giammusso, Guida, Napoli, 1990, pp. 75-140].

33 Cfr. O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, vol. I: Gestalt und Wirklichkeit, Braumüller, Wien-Leipzig, 1918 [trad. it. Il tramonto dell’Occidente, a cura di J. Evola, Longanesi, Milano, 1957; poi a cura di F. Jesi, 1978]. [Il 14 aprile 1920 Heidegger tenne a Wiesbaden una conferenza su Oswald Spengler e la sua opera «Il tramonto dell’Occidente» (cfr. M. Heidegger, K. Jaspers, Briefwechsel 1920-1963, a cura di W. Biemel e H. Saner, Klostermann, Frankfurt-München-Zürich, 1990, p. 15)].

34 Cfr. W. Windelband, Geschichte und Naturwissenschaft (Straßburger Rektoratsrede von 1894), in Präludien, Aufsätze und Reden zur Philosophie und ihrer Geschichte, vol. II, quinta ediz. ampliata, Mohr, Tübingen, 1915, p. 145.

35 Cfr. il corso del semestre invernale 1919/20 intitolato Grundprobleme der Phänomenologie, in Gesamtausgabe, vol. LVIII, cit., pp. 189-96.

36 Cfr. G. Simmel, Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, Duncker & Humblot, München-Leipzig, 1918, p. 28 [trad. it. di F. Sternheim, Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, Introduzione di A. Banfi, Bompiani, Milano, 1938; nuova ediz. a cura di G. Antinolfi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1997].

37 Cfr. Met., Γ 2, 1003 a 33.

38 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, vol. I: Prolegomena zur reinen Logik, seconda ediz. riveduta, Niemeyer, Halle, 1913 [trad. it. Ricerche logiche. I: Prolegomeni a una logica pura, a cura di G. Pinna, Il Saggiatore, Milano, 1968].

39

Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», vol. I/1, Niemeyer, Halle, 1913 [trad. it. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Introduzione alla fenomenologia pura, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1965].

40 In epistolam Pauli ad Galatas commentarius (1519), in Des Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, Böhlau, Weimar, vol. II, 1884, pp. 436-618.

41 Novum Testamentum Graece cum apparatu critico ex editionibus et libris manu scriptis collecto curavit Eberhard Nestle. Editio quinta recognita, Privilegierte Württembergische Bibelanstalt, Stuttgart, 1904.

42 Das Neue Testament, a cura di K. Weizsäcker, decima ediz., Mohr, FreiburgTübingen, 1918. Novum Testamentum Graece et Germanice. Das Neue Testament griechisch und deutsch, a cura di E. Nestle, Privilegierte Württembergische Bibelanstalt, Stuttgart, 1898.

43 Cfr. R. Reitzenstein, Die hellenistischen Mysterienreligionen nach ihren Grundgedanken und Wirkungen, 1910, seconda ediz. riveduta, Teubner, LeipzigBerlin, 1920, pp. 48-49.

44 Cfr. A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, 3 voll., Mohr, Tübingen, 1886-1890.

45 [Cfr. R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt & Granier, Breslau, 1917; trad. it. di E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli, Bologna, 1926; poi Feltrinelli, Milano, 1966].

46 [Presumibilmente Becker, dalla cui trascrizione è tratta questa frase, ha inteso male la parola, e anziché «lebt», «vive», ha scritto «lehrt», «insegna»].

47 [Nota a margine della trascrizione di F.J. Brecht: «transitivo»].

48 [Cfr. F.C. Baur, Paulus, der Apostel Jesu Christi, seconda ediz., Fuef, Leipzig, 1866-1867, pp. 107-108].

49 Cfr. H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, undicesima ediz., Alcan, Paris, 1912, pp. 75-79 [trad. it. Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896, a cura di P.A. Rovatti, Mondadori, Milano, 1986, pp. 1-140].

50 J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, 1794, nuova ediz. curata e introdotta da F. Medicus, Meiner, Leipzig, 1911, p. 46 [trad. it. in Scritti

sulla dottrina della scienza, a cura di M. Sacchetto, UTET, Torino, 1999].

51 Cfr. M. Heidegger, Über das Wesen der Universität und des akademischen Studiums, in Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe, cit., voll. LVILVII, a cura di B. Heimbüchel, 1987, pp. 211 sgg. [trad. it. di G. Auletta, Per la determinazione della filosofia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli, 1993, pp. 210 sgg.].

52 Cfr. M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie, in Gesamtausgabe, vol. LVIII, cit., pp. 72-75.

53 [Il cosiddetto quarto libro di Esdra, scritto verso la fine del primo secolo d.C., contiene un’apocalisse ebraica].

54 Cfr. P. Schmidt, Der erste Thessalonicherbrief neu erklärt, nebst einem Excurs über den zweiten gleichnamigen Brief, Berlin, 1885, pp. 111-12.

55 [I dati corretti e completi sono: H.J. Holtzmann, Zum zweiten Thessalonicherbrief, in «Zeitschrift für neutestamentliche Wissenschaft», 2, 1901, pp. 97-108, e G. Hollmann, Die Unechtheit des zweiten Thessalonicherbrief, in «Zeitschrift für neutestamentliche Wissenschaft», 5, 1904, pp. 28-38].

56 [Cfr. il corso su «Agostino e il neoplatonismo», in questo volume alle pp. 205379].

57 [Vescovo di Cirro nel Nord della Siria (393-466 d.C. ca)].

58 Cfr. K. Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Springer, Berlin, 1919, cap. III, c: «Der Halt im Unendlichen» [trad. it. di V. Loriga, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma, 1950, cap. III, c: «Il punto d’appoggio nell’infinito»].

59 Cfr. R. Reitzenstein, Die hellenistischen Mysterienreligionen nach ihren Grundgedanken und Wirkungen, cit.

60 [Due parole illeggibili].

61 R. Bultmann, Neues Testament. Einleitung II, in «Theologische Rundschau», XVII, Tübingen, 1914, pp. 79-90. [= Recensione di:] E. Norden, Agnostos Theos. Untersuchungen zur Formengeschichte religiöser Rede, Teubner, Leipzig, 1913. J. Weiß, Literaturgeschichte des Neuen Testaments, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, a cura di F.M. Schiele e L. Zscharnack, Mohr, Tübingen, 19091913, vol. III, 1912, coll. 2175-215. P. Wendland, Die urchristlichen Literaturformen, in Handbuch zum Neuen Testament, seconda e terza ediz., Mohr, Tübingen, 1912, I, 3, pp. 257-448. [Cfr. inoltre: J. Weiß, Paulus und seine

Gemeinden. Ein Bild von der Entwicklung des Urchristentums, Curtius, Berlin, 1914. P. Wendland, Die hellenistisch-römische Kultur in ihren Beziehungen zu Judentum und Christentum, in Handbuch zum Neuen Testament, cit., 1912, I, 2, pp. 1-256].

62 E. Spranger, Zur Theorie des Verstehens und zur geisteswissenschaftlichen Psychologie, in Festschrift Johannes Volkelt zum 70. Geburtstag, Beck, München, 1918, pp. 357-403; poi in Grundlagen des Geisteswissenschaften, a cura di H.W. Bähr, in Gesammelte Schriften, vol. VI, Niemeyer, Tübingen, 1980, pp. 1-42.

63 [Il manoscritto dell’allegato è andato perduto].

64 [Il manoscritto dell’allegato è andato perduto].

65 Si veda sopra, pp. 65 sgg.

66 [Due parole illeggibili].

67 [Il manoscritto dell’allegato è andato perduto].

68 K. Deißner, Auferstehungshoffnung und Pneumagedanke bei Paulus, Deichert, Naumburg a. d. Saale, 1912 (dissertazione in teologia, Università di Greifswald, 1912) [si veda inoltre K. Deißner, Paulus und die Mystik seiner Zeit, Deichert, Leipzig, 1918].

69 [Aggiunta illeggibile].

70 [Parola illeggibile].

71 [Parola illeggibile].

72 Si veda sopra, p. 136.

73 Cfr. W. Stählin, Experimentelle Untersuchungen über Sprachpsychologie und Religionspsychologie, in «Archiv für Religionspsychologie», a cura di W. Stählin, vol. I, Tübingen, 1914, pp. 117-94.

74 Francisci Turrettini de satisfactione Christi disputationes. Adjectae sunt ejusdem duae disputationes. I: De Circulo Pontificio, II: De Concordia Jacobi & Pauli in articulo justificationis, Genevae, 1666.

75 E. Troeltsch, Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter. Im Anschluß an die Schrift «De Civitate Dei», Oldenbourg, MünchenBerlin, 1915, p. 50.

76 Ibid., p. 7.

77 Loc. cit.

78 [Si veda sopra, pp. 52-64] .

79 E. Troeltsch, Augustin, cit., Prefazione, p. V.

80 Ibid., p. 172.

81 Loc. cit.

82 [Si veda sopra, pp. 60- 64. Il testo fra parentesi tonde è stato aggiunto ed è tratto dai frammenti su Troeltsch].

83 A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. III: Die Entwicklung des kirchlichen Dogmas, quarta ediz. riveduta e ampliata, cit., 1910, p. 59.

84 A. von Harnack, Dogmengeschichte, quinta ediz., Mohr, Tübingen, 1914, p. 248.

85 A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. III, cit., p. 95.

86 [Concordante nelle trascrizioni: «essa» = la conoscenza storica obiettiva] .

87 e di queste ultime l’una rispetto all’altra.

88 è avuta nel porre-via (weg-stellen), e la si può riavere soltanto attraverso di esso!

89 «La pura conoscenza della storia della conoscenza» ci deve aiutare «ad accelerare il processo» di «liberazione» dalle forme estranee che deve assumere (A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, vol. I, quarta ediz., cit., 1909, p. 24).

90 Contro la costruzione, contro l’orientamento unilateralmente naturalistico e scientifico.

91 e di quello presente in Lutero!

92 [«con la severità di un giudice»] Retractationes, Prol., 1, in Patrologiae Cursus Completus, Series Latina, a cura di J.- P. Migne [sigla PL], Paris, 1861-1862, vol. XXXII, p. 583 [per tutte le opere di Agostino si è utilizzata la seguente traduzione italiana: Opere di Sant’Agostino, Città Nuova, Roma, 1965-] .

93

[«Moltissimo timore mi incute anche l’altro passo della Scrittura, Per il molto parlare non riuscirai ad evitare il peccato; non perché ho scritto molto ... ma queste parole della Sacra Scrittura mi incutono timore se considero che dalle mie svariate discussioni è indubbiamente possibile ricavare molti tratti che, se non proprio falsi, potrebbero apparire, o anche essere dimostrati, come superflui»] Retract., Prol., 2; PL, 32, pp. 583-84.

94 [Qui e in seguito le parentesi quadre all’interno delle citazioni tratte da Agostino riportano le proposte di traduzione o le delucidazioni di Heidegger] .

95 [«I tredici libri delle mie Confessioni lodano Dio giusto e buono per le azioni buone e cattive che ho compiuto, e volgono a Dio la mente e il cuore dell’uomo. Per quanto mi riguarda hanno esercitato questa azione su di me mentre li scrivevo e continuano ad esercitarla quando li leggo. Che cosa ne pensino gli altri è affar loro: so però che sono molto piaciuti e tuttora piacciono a molti fratelli. I libri che vanno dal primo al decimo hanno me come oggetto, i rimanenti tre trattano delle Sacre Scritture a partire dalle parole, In principio Dio fece il cielo e la terra, fino al riposo del sabato»] Retract., II, 6, 1; PL, 32, p. 632.

96 [«nel tempo stesso in cui scrivo queste confessioni»] Conf., X, 3, 4; PL, 32, p. 781 [per la traduzione in italiano dei passi delle Confessiones si è fatto riferimento, compatibilmente con l’interpretazione heideggeriana, a Le confessioni, testo latino dell’ediz. di M. Skutella riveduto da M. Pellegrino, trad. e note di C. Carena, Introduzione di A. Trapè, in Opere di Sant’Agostino, cit., parte prima, vol. I, 1965, poi riprodotta a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino, 2000. Si è inoltre consultata l’ediz. della Fondazione Valla, Confessioni, testo criticamente riveduto e apparati scritturistici a cura di M. Simonetti, trad. di G. Chiarini, commento di AA.VV., 5 voll., Mondadori, Milano, 1992-1997] .

97 [«Aspirano a unirsi al mio ringraziamento, dopo aver udito quanto mi avvicina a te il tuo dono, e a pregare per me, dopo aver udito quanto mi rallenti il mio peso? Se è così, a loro mi mostrerò»] Conf., X, 4, 5; PL, 32, p. 781.

98 S. Kierkegaard, Die Krankheit zum Tode, trad. ted. di H. Gottsched, in Gesammelte Werke, Diederichs, Jena, vol. VIII, 1911, p. 93 [trad. it. La malattia mortale, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze, 1972, p. 672].

99 [«Vi è tuttavia nell’uomo qualcosa che neppure lo spirito stesso dell’uomo che è in lui conosce ... a quali tentazioni possa io resistere, a quali no»] Conf., X, 5, 7; PL, 32, p. 782.

100 [«Ma che amo, quando amo te?»] Conf., X, 6, 8; PL, 32, p. 782.

101 Dio – soprattutto universalmente [?] potente.

102 [«la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me»] Conf., X, 6, 8; PL, 32, p. 783.

103 [«Le mie domande erano la mia contemplazione; le loro risposte, la loro bellezza»] Conf., X, 6, 9; PL, 32, p. 783.

104 [«Mi trovo in me un corpo e un’anima»] Loc. cit. (corsivo di Heidegger).

105 [«meglio l’elemento interiore»] Loc. cit.

106 [«gli animali ... sono incapaci di fare domande»] Conf., X, 6, 10; PL, 32, p. 783.

107 Dunque il considerare e il vedere – esperiti – sono peculiari! (Domandare sempre un «come»! Sotto un «come»).

108 E l’anima stessa muove la moles.

109 [«Ma il tuo Dio è anche per te vita della tua vita»] Conf., X, 6, 10; PL, 32, p. 783. Nel transire e ascendere ad Deum è Deus: is qui fecit me (cfr. X, 8, 12).

110 [«Non con questa forza potrei trovare il mio Dio; altrimenti anche un cavallo e un mulo, privi d’intelligenza, ma dotati della medesima forza per la quale anche i loro corpi hanno vita, potrebbero trovarlo»] Conf., X, 7, 11; PL, 32, p. 784.

111 [«prescrivendo all’occhio di non udire, all’orecchio di non vedere... e così io, unico spirito, compio azioni diverse per loro mezzo. Trascenderò anche questa mia forza, poiché ne godono anche un cavallo e un mulo, che infatti hanno essi pure la sensibilità fisica»] Loc. cit.

112 «in» e «con», cfr. al riguardo memoria – gaudium. – Motivo del progredi anche nella memoria. Il senso dell’«esplorare»? La via e le stazioni del percorso esplorativo sono predelineate da classificazioni psicologiche tramandate. Come spezzarle e risignificarle?

113 «Non siate come il cavallo e il mulo, che non hanno intelletto, e a cui bisogna mettere la briglia e il morso se non ti vogliono seguire».

114 [«un santuario vasto e infinito»] Conf., X, 8, 15; PL, 32, p. 785.

115 [«Lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi»] Loc. cit.

116 [«quando faccio un racconto a memoria»] Conf., X, 8, 12; PL, 32, p. 784.

117 [«finché quella che cerco si snebbia»] Loc. cit.

118 Non solo la ripresentazione (Vergegenwärtigung), ma anche la presentazione (Gegenwärtigung).

119 [«E proprio per questo essi sono veramente»] Conf., X, 12, 19; PL, 32, p. 787.

120 [«si presenta facilmente alla considerazione familiare dello spirito»] Conf., X, 11, 18; PL, 32, p. 787.

121 [«è raccolto, ossia riunito nell’animo (da una sorta di dispersione)»] Loc. cit.

122 In sé ciò non rivelerebbe la memoria nel suo «valore».

123 augere – minuere: analitico, arricchente – sintetico, semplificante, diminuente la molteplicità.

124 [«anche le affezioni del mio spirito contiene la stessa memoria»] Conf., X, 14, 21; PL, 32, p. 788.

125 [«all’atto di provarle»] Loc. cit. Differenza importante! A partire dal gaudium e dalla beata vita, che non sono attualmente in possesso e in attuazione. Esistenza!

126 [«Eppure non potremmo parlarne, se non ritrovassimo nella nostra memoria, oltre ai suoni delle parole, secondo le immagini che vi furono impresse dai sensi del corpo, anche le notizie delle cose che esprimono e che non ricevemmo per nessuna porta della carne. Lo spirito medesimo le sentì attraverso l’esperienza delle sue affezioni e le affidò alla memoria, oppure la memoria le trattenne di sua iniziativa senza che le fossero affidate da altri»] Conf., X, 14, 22; PL, 32, pp. 78889.

127 [«Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nelle affezioni che ebbi compiendoli ... Intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti»] Conf., X, 8, 14; PL, 32, p. 785.

128 [«mentre le cose stesse non sono presenti ai miei sensi»] Conf., X, 15, 23; PL, 32, p. 789.

129 [«la memoria, con cui ricordo; l’oblio, che ricordo»] Conf., X, 16, 24; PL, 32, p. 789.

130 [«Ma che cos’è l’oblio, se non privazione di memoria?»] Loc. cit.

131 [«Così abbiamo presente, per non dimenticare, ciò che con la sua presenza ci

fa dimenticare»] Loc. cit.

132 Se vivo nell’oblio, non faccio presente.

133 [«Come dunque può essere presente, affinché lo ricordi, se la sua presenza mi rende impossibile ricordare?»] Conf., X, 16, 24; PL, 32, p. 789.

134 [«La memoria conserva l’oblio»] Loc. cit.

135 [«Eppure ... sono certo di ricordare anche l’oblio stesso, affossatore di ogni nostro ricordo»] Conf., X, 16, 25; PL, 32, p. 790.

136 [«grande facoltà di vivere»] Conf., X, 17, 26; PL, 32, p. 790.

137 [«nell’anelito di coglierti da dove si può coglierti, e di aderire a te da dove si può aderire a te»] Loc. cit. Unde attingi potes – cfr. sopra: unde quaerere debui [Deum meum]! [si veda Conf., X, 6, 9; PL, 32, p. 783!].

138 [«Hanno infatti la memoria anche le bestie e gli uccelli»] Conf., X, 17, 26; PL, 32, p. 790.

139 [«Supererò, dunque, anche la memoria per cogliere Colui»] Loc. cit.

140 Se «fuori» dalla memoria, allora sono «immemor tui».

141 [M. Heidegger, Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks. Theorie der philosophischen Begriffsbildung, in Gesamtausgabe, cit., vol. LIX, a cura di C. Strube, 1993]. Vita effettiva – significato: «essere».

142 Se troviamo, dobbiamo avere presente (Gegenwart haben) nell’agnoscere. Anche il dimenticato dev’essere nella memoria.

143 [«Infatti una cosa, di cui ricordiamo almeno di averla dimenticata, non è ancora dimenticata del tutto. Dimenticata del tutto, non potremmo dunque neppure cercare una cosa perduta»] Conf., X, 19, 28; PL, 32, p. 791.

144 [Parola illeggibile].

145 [«Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò affinché l’anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te [vita della mia vita]»] Conf., X, 20, 29; PL, 32, p. 791.

146 Cfr. Conf., X, 20, 29; PL, 32, pp. 791-92. Vitam quaerere, vitam beatam quaerere, non un contenuto, sicché il quaerere stesso ha un proprio senso del riferimento, e precisamente in modo tale che l’attuazione diventa decisiva.

147 [«Ma che cosa amo, quando amo te?»] Conf., X, 6, 8; PL, 32, p. 782.

148 Vale a dire mediante un simultaneo commisurarsi a ciò che, anticipando, so, ubi oportet ut dicam.

149 [«mediante il ricordo ... conservi il ricordo di averla dimenticata»] Conf., X, 20, 29; PL, 32, p. 792.

150 [«mediante il desiderio di conoscere una felicità ignota»] Loc. cit.

151 [«Certo noi la possediamo in qualche modo»] Loc. cit.

152 [«tutti vogliono e nessuno senza eccezioni non vuole»] Loc. cit.

153 [«non sono felici né per padronanza né per speranza»] Loc. cit.

154 [Parola illeggibile].

155 Le problematiche del contenuto e del riferimento si compenetrano senza separarsi.

156 [«della vita beata abbiamo la nozione, perciò la amiamo, e tuttavia cerchiamo ancora di possederla per essere felici»] Conf., X, 21, 30; PL, 32, p. 792.

157 [«quantunque non potrebbero provare godimento se non per una nozione interiore (Er. e Lov. hanno: in una nozione esterna), e senza godimento non potrebbero voler essere eloquenti»] Loc. cit. [Secondo la trascrizione di Becker, Heidegger ha preferito la variante delle edizioni di Erasmo da Rotterdam (= Er.: in officina Frobeniana, Basileae, 1528-1529) e dei «teologi di Lovanio», Th. Gozaeum e J. Molanum (= Lov.: ex officina Chr. Plantini, Antverpiae, 1576-1577)] .

158 [«ma l’ho sperimentata nel mio animo quando ho gioito»] Conf., X, 21, 30; PL, 32, p. 793. – «Non sensibile» ed esperita nel mio essere, nella mia esistenza.

159 [«il piacere è il fine dell’affanno»] Cfr. Enarrationes in Psalmos, VII, 9; PL, 36, p. 103.

160 [«triste, rievoco la gioia antica»] Conf., X, 21, 30; PL, 32, p. 793. Gioia e ciò di cui si gioisce, il piacevole! Da esplicare più precisamente in seguito (cfr. tentatio).

161 [«Né soltanto io, o pochi uomini con me vogliono essere felici, bensì tutti lo vogliono. Ora, senza conoscere ciò come notizia certa, non lo vorremmo di una

volontà così certa»] Conf., X, 21, 31; PL, 32, p. 793.

162 [«ma chiedi loro se vogliono essere felici, ed ambedue probabilmente ti risponderanno all’istante, senza ombra di dubbio, che sì ... Poiché l’una persona trae gioia da una condizione, l’altra dall’altra... L’uno lo ricerca bensì da una parte, l’altro dall’altra, ma tutti tendono a un’unica meta, di gioire»] Loc. cit.

163 [«La gioia è appunto ciò che chiamiamo felicità della vita»] Loc. cit.

164 [«C’è una gioia che ... è concessa ... a coloro che ti servono per puro amore ... E questa è la felicità, gioire per te, di te, a causa di te; fuori di questa non ve n’è altra. Chi crede ve ne sia un’altra, persegue un’altra gioia, non la vera. Tuttavia da una certa immagine di gioia la loro volontà non si distoglie»] Conf., X, 22, 32; PL, 32, p. 793.

165 [«cadono là dove possono, e ne sono paghi»] Conf., X, 23, 33; PL, 32, p. 793.

166 [«non lo vogliono quanto occorrerebbe per averne la forza»] Loc. cit.

167 [«La vita felice è la gioia della verità»] Loc. cit.

168 [«se non ne avessero una certa nozione nella memoria»] Conf., X, 23, 33; PL, 32, p. 794.

169 [«Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannati»] Loc. cit.

170 [«Perché dunque non ne gioiscono?»] Loc. cit.

171 [«Perché sono più intensamente occupati in altre cose»] Loc. cit.

172 Ciò che, nel chiasso interiore dell’essere affaccendati, risuona solo leggermente, appena percettibile, soffocato dal discorso a voce troppo alta di ciò che vuole imporre il suo diritto. Cfr. il parlare interiore nel confiteri, capp. 1-5!

173 [«C’è ancora un po’ di luce fra gli uomini»] Loc. cit.

174 [«Ma perché la verità genera odio, e l’uomo che predica il vero in tuo nome diventa per loro un nemico...?»] Conf., X, 23, 34; PL, 32, p. 794.

175 [«Pretendono che ciò che amano sia la verità»] Loc. cit.

176 veritas e beata vita: verità esistenziale.

177 [«L’amano quando splende, l’odiano quando riprende»] Loc. cit.

178 se ci si può liberare per questo.

179 cattura («arresta») in quanto «splendore» e attraverso di esso.

180 [Trascrizione di Schalk: per entusiasmarsi nel proprio splendore].

181 [«non vogliono essere scoperti da lei»] Conf., X, 23, 34; PL, 32, p. 794.

182 Cfr. sotto, pp. 311-12.

183 [«grazie alla quale sono vere tutte le cose»] Conf., X, 23, 34; PL, 32, p. 794.

184 dove e da quando la verità è accessibile, riferimento a essa – de cura de vita beata, quindi sulla via che porta a Dio.

185 [«Dove infatti ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità stessa»] Conf., X, 24, 35; PL, 32, p. 794.

186 [«ogni volta che ti ricordo e gioisco di te»] Loc. cit.

187 Modalità di accesso: nel delectari, gaudium de veritate; reminisci tui – delectari in te. – In termini analoghi all’interesse per la retorica: «Cercare e avere-Dio circondato da – motivato da».

188 [«in quale parte vi dimori? A ciò sto pensando»] Conf., X, 25, 36; PL, 32, p. 794.

189 [«ove ho depositato le affezioni del mio animo»] Conf., X, 25, 36; PL, 32, p. 795.

190 [«perché l’animo ricorda anche se medesimo»] Loc. cit.

191 [«affezione del vivente, quale gioia, tristezza, desiderio, timore, ricordo, oblio e ogni altro, così non sei neppure l’animo stesso, essendo il Signore e Dio dell’animo»] Loc. cit.

192 ma pur sempre incommutabilis.

193 [«E mutandosi tutte queste cose, mentre tu rimani immutabile al di sopra di tutte le cose»] Conf., X, 25, 36; PL, 32, p. 795.

194 [«vi abiti certamente»] Loc. cit.

195

[«ti trovai ... in te sopra di me»] Conf., X, 26, 37; PL, 32, p. 795.

196 [«Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente»] Loc. cit.

197 [«Tardi ti amai»] Conf., X, 27, 38; PL, 32, p. 795.

198 [«Qualunque tipo di vita si conduca, nessuno vive senza queste tre affezioni dell’animo: la fede, la speranza, l’amore»] Sermones, CXCVIII, 2; PL, 38, p. 1024.

199 [«Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature»] Conf., X, 27, 38; PL, 32, p. 795.

200 [«Mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace»] Loc. cit.

201 [«Sono un peso per me»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 795.

202 [«intera speranza ... posta nell’immensa grandezza della misericordia (di Dio)»] Conf., X, 29, 40; PL, 32, p. 796.

203 [«E guiderai il giusto, o Dio che scruti i cuori e i reni»] Enarrationes in Psalmos, VII, 9, 10; PL, 36, p. 103.

204 [«ci dissolviamo in molte cose»] Conf., X, 29, 40; PL, 32, p. 796.

205 [«La continenza in verità ci raccoglie e riconduce all’unità [al necessario – Dio?]»] Loc. cit.

206 [«conviene che facciate attenzione più a quello che vi manca che a quello che avete»] Sermones, CCCLIV, 5, 5; PL, 39, p. 1565.

207 [«La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta?»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 796.

208 [«Il tuo comando è di sopportarne il peso»: «fastidi e difficoltà»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 795.

209 delectari inteso come «non complicarsi la vita».

210 [«Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 796.

211 Connessione fenomenologica fra curare come cura (vox media) e uti come (nella cura) avere a che fare con.

212

Battersela da qualcosa! Avvicinarsi di soppiatto a qualcosa! – e se l’«angoscia» è davvero presente.

213 [«nelle avversità desidero il benessere»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 796.

214 Qui, nel resoconto, non mettere ancora in risalto lo «storico»; caratterizzare obiettivamente come «dinamica» e «conflittualità».

215 [«nel benessere temo le avversità»] Loc. cit.

216 Sono in grado di vivere in uno solo nella misura in cui l’altro vive simultaneamente (che cosa significa ciò in senso effettivo-esistenziale?).

217 tentatori ianuae duae.

218 Ciò significa che questa conflittualità effettivamente primaria, che in termini obiettivi può essere definita a due stadi, avvicina l’«espressione». – Ripercorso all’indietro e considerato in senso interpretativo, questo contesto di attuazione è l’inizio di un’espressione esistenziale. Esistenziale. – Problema.

219 Una domanda, qui possibile, Atteggiamento sbagliato!

riguardo

al

«regressus»

è

sbagliata.

220 [«non so da quale parte stia la vittoria»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 795.

221 Cfr. Conf., X, 21, 30. Quaestio mihi factus sum. Tale «quaestio» non è un riflettere casuale con la mente annebbiata! Vita: ego – quaestio. Oneri [moles] mihi sum.

222 [«Vedi che non nascondo le mie piaghe»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 795.

223 [«Ecco il mio stato. Piangete dunque con me, e per me piangete voi che in cuore avete con voi del bene e lo traducete in opere: perché voi che non ne avete, non vi sentite toccare da queste parole»] Conf., X, 33, 50; PL, 32, p. 800.

224 [Forse che la vita umana non è tentatio?] Interpretando in anticipo, fornire già le direzioni di significato di vita e tentatio. (Molestia) fatticità.

225 In ciò agisce un fondamentale lebensdinghaft) non storico.

aspetto

«cosale,

cosale-vitale»

(ding-,

226 [«Non amate il mondo, né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, non è in lui l’amore del Padre; poiché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita, cose che non vengono dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa e anche la sua concupiscenza; ma chi fa

la volontà di Dio dura in eterno»]. Mondo: natura – non divina; mondano – non spirituale; terrena – Dei; «mondo» in senso fenomenologico. – «Visione del mondo»: perplessità e sintomo di disorientamento, fenomeno di decadenza.

227 L’interpretazione autentica si avrà a partire dalla fine. Per ora, in linea con l’atteggiamento informativo-indicativo adottato nei primi capitoli, ci limitiamo a mettere in evidenza!

228 [«Sopravvivono però nella mia memoria, di cui ho parlato a lungo, le immagini di questi diletti che vi ha impresso la consuetudine. Si presentano fievoli quando sono desto»] Conf., X, 30, 41; PL, 32, p. 796.

229 [«In quei momenti non sono forse più io...?»] Loc. cit.

230 [«Eppure c’è molta differenza tra me stesso e me stesso, tra il momento in cui passo dalla veglia al sonno e quello in cui torno dal sonno alla veglia»] Loc. cit.

231 [«la nostra coscienza al risveglio torna in pace, e la stessa distanza fra i due stati ci fa riconoscere che non abbiamo compiuto noi quanto in noi si è compiuto comunque, con nostro rammarico»] Conf., X, 30, 41; PL, 32, pp. 796-97.

232 [«finché io abbia la pace piena, che possederà con te il mio essere interiore ed esteriore»] Conf., X, 30, 42; PL, 32, p. 797.

233 [«Un’altra malizia l’ha il giorno»] Conf., X, 31, 43; PL, 32, p. 797.

234 [«Noi restauriamo i danni che ogni giorno infligge al corpo, mangiando e bevendo»] Loc. cit.

235 [«Per ora mi è dolce questa necessità»] Loc. cit.

236 [«bruciano e uccidono come la febbre»] Loc. cit.

237 [«(li) scaccio col piacere»] Loc. cit.

238 [«questa sventura si chiama delizia»] Loc. cit.

239 [«Senonché, nel passare dalla molestia del bisogno all’appagamento della sazietà, proprio al passaggio mi attende, insidioso, il laccio della concupiscenza»] Conf., X, 31, 44; PL, 32, p. 797.

240 [«Il passaggio stesso è un piacere e non ve n’è altro per passare ove ci costringe a passare il bisogno»] Loc. cit.

241 [«vi si aggiunge ... una soddisfazione pericolosa, che il più delle volte cerca di

precedere»] Loc. cit.

242 [«La misura non è la stessa nei due casi: quanto basta per la salute è poco per il piacere, e spesso non si distingue se è la cura indispensabile del corpo, che ancora chiede un soccorso, o la soddisfazione ingannevole della gola, che, sotto, richiede un servizio. La nostra povera anima esulta dell’incertezza, e predispone in questa la difesa di una scusa»] Conf., X, 31, 44; PL, 32, pp. 797-98.

243 [«il mio giudizio su questo punto non è ancora sicuro»] Conf., X, 31, 44; PL, 32, p. 798.

244 [«Io non temo l’impurità delle vivande, temo l’impurità del desiderio»] Conf., X, 31, 46; PL, 32, p. 799.

245 [«Posto dunque nel mezzo di queste tentazioni, lotto ogni giorno contro la concupiscenza del mangiare e del bere»] Conf., X, 31, 47; PL, 32, p. 799.

246 [«Qui non è possibile che decida di troncare tutto una volta per sempre e non tornarvi più in avvenire, come potei fare per i piaceri venerei»] Loc. cit. Sempre di nuovo e «necessariamente là» ad reficiendam ruinam.

247 [«Così mi pare; forse sbaglio»] Conf., X, 32, 48; PL, 32, p. 799.

248 [«anche queste tenebre deplorevoli, che mi nascondono le mie reali capacità ... (il mio intimo) rimane per lo più ignoto»] Loc. cit.

249 riguardo a me stesso.

250 [«se non mi rivela l’esperienza»] Conf., X, 32, 48; PL, 32, p. 799.

251 Il passato è tanto poco indifferente quanto il «di che cosa» (das «Wovon»).

252 [«E nessuno deve sentirsi sicuro in questa vita, che fu definita tutta una prova. Chi poté diventare da peggiore migliore, può anche ridiventare da migliore peggiore»] Conf., X, 32, 48; PL, 32, p. 799.

253 meum fiat – «può» (es kann) – essere presente solo nell’attuazione dell’esperienza del «può». Qual è la struttura di senso di tale attuazione?

254 fintanto che è esperita una tentazione, ottengo questa situazione. Che cosa significa però «esperire una tentazione»?

255 Cfr. sopra, p. 263.

256 [«tutta la scala delle affezioni della nostra anima trova nella voce e nel canto il

giusto temperamento e direi un’arcana, eccitante corrispondenza»] Conf., X, 33, 49; PL, 32, p. 800.

257 [«Rimane il piacere di questi occhi della mia carne»] Conf., X, 34, 51; PL, 32, p. 800.

258 lasciarsi sviare nel calcolo della significatività.

259 [«gli occhi amano le forme belle e varie, i colori nitidi e ridenti»] Conf., X, 34, 51; PL, 32, p. 800.

260 [«mi raggiunge in mille modi e mi accarezza»] Loc. cit.

261 [«S’insinua con tale vigore, che, se viene a mancare all’improvviso, la ricerco avidamente, e se si assenta a lungo, il mio animo si rattrista»] Conf., X, 34, 51; PL, 32, p. 801.

262 [«Però, per conoscere se l’assenza di un bene mi lascia indifferente o mi angustia, deve mancarmi»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 805.

263 Un peculiare passaggio di situazione nella vita effettiva. La direzione sta nella significatività stessa. Il carattere della situazione è quasi assorbito. In tale significatività si situa il senso di «reale».

264 [«seguendo esteriormente le loro creazioni»] Conf., X, 34, 53; PL, 32, p. 801.

265 [«Quante cose, da non poterle numerare, gli uomini aggiunsero alle naturali attrattive degli occhi»] Loc. cit.

266 [«da quella bellezza che sovrasta le anime [attraverso le quali belle cose passano nelle mani degli artisti – Plotino] ... traggono la misura per giudicarne il valore, non la misura per farne buon uso»] Loc. cit.

267 Cfr. loc. cit.

268 [«Lascio cogliere il mio passo al laccio delle bellezze esteriori»] Loc. cit.

269 [«Io mi lascio prendere miseramente»] Loc. cit.

270 [«Ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque»] Conf., X, 34, 52; PL, 32, p. 801.

271 [«cui l’anima mia sospira giorno e notte»] Conf., X, 34, 53; PL, 32, p. 801.

272 [«O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la

via della vita ... o che vedeva Isacco ... quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli benedicendoli»] Conf., X, 34, 52; PL, 32, p. 801.

273 [«Sollevo verso di te i miei occhi invisibili»] Loc. cit.

274 [«Questa è la Luce, è l’unica Luce, e un’unica cosa tutti coloro che la vedono e l’amano»] Loc. cit.

275 Cfr. Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 804.

276 [«(tendere), anziché al compiacimento della carne, all’esperienza mediante la carne»] Conf., X, 35, 54; PL, 32, p. 802.

277 [«nel desiderio di conoscere»] Loc. cit.

278 [«curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza»] Loc. cit.

279 [«Il piacere, ovvero il desiderio di compiacimento, insegue le cose belle, armoniose, soavi, saporite, delicate. La curiosità, ovvero il desiderio di esperire, insegue anche le cose contrarie a queste (per la brama di conoscere – non per incorrere nella molestia)] Cfr. Conf., X, 35, 55; PL, 32, p. 802.

280 [«Di qui, ancora, se si cerca qualcosa per mezzo delle arti magiche col medesimo fine di una scienza perversa»] Loc. cit.

281 [«Di qui, ancora, nella stessa religione, l’atto di tentare Dio, quando gli si chiedono segni e prodigi, desiderati non per trarne qualche beneficio, ma soltanto per farne esperienza»] Loc. cit.

282 [«Essendo gli occhi, fra i sensi, lo strumento principe della conoscenza... La vista infatti appartiene propriamente agli occhi»] Conf., X, 35, 54; PL, 32, p. 802.

283 [«Ma noi parliamo di vista anche per gli altri sensi, quando li usiamo per conoscere»] Loc. cit.

284 [«Quando esplorano un oggetto per conoscerlo»] Loc. cit.

285 [gli altri sensi usurpano per sé la funzione del vedere nella quale gli occhi hanno il primato] Cfr. loc. cit. Di fatto non è questo il senso della loro operazione?!

286 [«non diciamo: “Ascolta quanto luccica”, oppure: “Odora come brilla”, oppure: “Assapora come splende”, oppure: “Tocca come rifulge”»] Conf., X, 35, 54; PL, 32, p. 802.

287 [«In tutti questi casi si dice sempre: “Vedi”»] Loc. cit.

288 [«Vedi che suono, vedi che odore, vedi che sapore, vedi che ruvido»] Loc. cit.

289 [«Qualunque esperienza sensoriale»] Loc. cit.

290 [«Quando oserei dire che nessuna cosa trattiene su di sé il mio sguardo e assorbe la mia vana preoccupazione?»] Conf., X, 35, 56; PL, 32, p. 802.

291 [«Il nostro cuore diventa un covo di molti difetti di questo genere, porta dentro di sé fitte caterve di vanità»] Conf., X, 35, 57; PL, 32, p. 803.

292 «Aut aliquid nos reducet in spem, nisi tota misericordia tua, quoniam coepisti mutare nos?» [«Nulla mi riporta alla speranza, oltre alla tua misericordia, poiché tu hai avviato la mia conversione»] (Conf., X, 36, 58; PL, 32, p. 803). Una importante invocazione! Misericordia! Fiducia. Persino il nostro pregare è qualcosa che noi propriamente «inter contemnenda deputabimus» [«consideriamo fra le inezie»] (loc. cit.). – «Me primitus sanas a libidine vindicandi me» [«Dapprima mi guarisci dalla voluttà di giustificarmi»] (loc. cit.). Pienezza di sé! – «Compressisti a timore tuo superbiam meam, et mansuefecisti jugo tuo cervicem meam. Et nunc porto illud, et lene est mihi, [...] et nesciebam quando id subire metuebam» [«Ispirandomi il tuo timore soffocasti la mia superbia, rendesti mansueta la mia cervice al tuo giogo. Ora lo porto, e mi è lieve ... e non lo sapevo, quando temevo di addossarmelo»] (Conf., X, 36, 58; PL, 32, p. 804). Nella superbia e nell’egoismo.

293 [«Mi sono liberato anche da questo terzo genere di tentazione, se mai si può esserne liberati in tutta questa vita»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

294 articolazione non attuativa del sé – i modi «dell’essere lì presente».

295 uno schiudersi nel guardarsi intorno.

296 Cfr. «Sermo autem ore procedens, et facta quae innotescunt hominibus, habent tentationem periculosissimam ab amore laudis» [«Ma le parole che escono dalla nostra bocca, e le azioni che la gente viene a conoscere costituiscono una tentazione pericolosissima ad opera dell’amore di lodi»] (Conf., X, 38, 63; PL, 32, p. 806).

297 [«desiderio di farsi temere ed amare dagli uomini»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

298 [«Un crogiuolo quotidiano è per noi la lingua degli uomini»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 804.

299

Cfr. sotto, pp. 308 sgg.

300 una necessitas.

301 [«per certi impegni del consorzio umano è necessario farci amare e temere dagli uomini»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

302 Fatticità; molestia; – situazione e determinazione originaria della rispettiva esplicazione.

303 [«ad opera dell’amore di lodi, che, per ottenere una misera eccellenza personale, raccoglie consensi mendicati»] Conf., X, 38, 63; PL, 32, p. 806. Emergere – estrapolare?

304 [«E le ricchezze, che si cercano appunto per soddisfare (l’ambizione)»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 805.

305 [«Di qui soprattutto deriva l’assenza di amore e timore innocente per te»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

306 [«Per staccare la nostra gioia dalla tua verità e attaccarla alla menzogna degli uomini»] Loc. cit.

307 [«Per farci gustare l’amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece»] Loc. cit.

308 [«l’avversario della nostra vera felicità incalza»] Loc. cit.

309 [«lodato per le brame della sua anima ... bensì lodato per qualche dono ricevuto da te»] Loc. cit.

310 «gratia», cfr. sotto, p. 303 («iustitia»)!

311 [è migliore «chi loda di chi è lodato»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

312 [a quello (che lodò) «piacque nell’uomo il dono di Dio»] Loc. cit.

313 [«a questo (che è lodato) piacque maggiormente il dono dell’uomo che di Dio»] Loc. cit.

314 [«ma costui si rallegra della lode più del possesso del dono per cui è lodato»] Loc. cit.

315 [«Che cos’altro, se non che mi compiaccio delle lodi?»] Conf., X, 37, 61; PL, 32, p. 805.

316 [«più della verità che delle lodi»] Loc. cit.

317 [«fra uno stato di follia e di errori di ogni genere, con la lode di tutti gli uomini, oppure di equilibrio e di sicuro possesso della verità, con il biasimo di tutti»] Loc. cit.

318 [«Però vorrei che l’approvazione di una bocca estranea non accrescesse neppure di poco il godimento che ogni bene mi procura»] Loc. cit.

319 [«Il biasimo diminuisce»] Loc. cit.

320 [«mi sento turbare da questa mia miseria»] Loc. cit.

321 [«S’insinua nella mia mente una giustificazione»] Loc. cit.

322 [«Che tu sai, Dio, quanto vale; me, infatti, rende incerto»] Loc. cit.

323 [«Dentro di noi sta un’altra tentazione maligna della stessa specie: quella che rende vani quanti si compiacciono di se medesimi»] Conf., X, 39, 64; PL, 32, p. 806.

324 [«Prendendo come bene ciò che non è bene»] Loc. cit.

325 [«Prendendo il bene tuo come loro»] Loc. cit.

326 [«O, se anche come tuo, ottenuto però dai meriti loro»] Loc. cit.

327 [«O, se anche come ottenuto dalla tua grazia, non però godendone in comunione con gli altri, ma rifiutandolo loro invidiosamente»] Loc. cit.

328 [Parola illeggibile].

329 [«Fra tutti questi e altri simili pericoli e travagli vedi come trepida il mio cuore. Mi sembra più facile farmi guarire subito da te le mie ferite, che non infliggermele»] Loc. cit.

330 [Si riferisce probabilmente a Epistulae, XCV, 2; PL, 33, p. 353: «Ecce unde vita humana super terram tota tentatio est», «Ecco perché la vita dell’uomo su questa terra è tutta una tentazione»].

331 [L’Index generalis (PL, 46, p. 627) rinvia così ai Sermones, II, 2-3; PL, 38, pp. 28-29].

332

[L’Index generalis (PL, 46, p. 628) rinvia così al Tractatus in Joannis evangelium, XLVI, 10; PL, 35, p. 1730].

333 [«L’uomo non conosce se stesso, a meno che non impari a conoscersi nella tentazione»] Sermones, II, 3, 3; PL, 38, p. 29.

334 M. Heidegger, Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks, in Gesamtausgabe, vol. LIX, cit., p. 10.

335 [Abbreviazione non decifrabile].

336 [Più parole illeggibili].

337 [«Per certi impegni del consorzio umano è necessario farci amare e temere dagli uomini»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

338 S. Kierkegaard, Die Krankheit zum Tode, cit., p. 76 [trad. it. cit., p. 663].

339 Ibid., p. 77 [trad. it. cit., p. 663].

340 [«Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso ... sarà vera vita la mia vita»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 795.

341 [«sono un peso per me»] Loc. cit.

342 Peso: l’andare in pezzi, smembramento. Nessuna continuità, esistenza.

343 e precisamente, riguarda gaudium/maeror (vita).

344 [«E non so da quale parte stia la vittoria»] Loc. cit.

345 [«Le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste»] Loc. cit.

346 e precisamente, non stati d’animo superficiali.

347 [Nell’originale sta «misericordia» anziché «continentia»].

348 [«Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità»] Conf., X, 28, 39; PL, 32, p. 796.

349 Non c’è medius locus fra le antitesi.

350 [Due parole illeggibili].

351

[Parola illeggibile].

352 «Genuina» determinazione del valore! Decus iustum. «Nam qui non [intus] agitis [aliquid bona], non vos haec movent» [«Perché voi che (in cuore) non avete (del bene), non vi sentite toccare da queste parole»] (Conf., X, 33, 50). Condizione del comprendere!

353 [Parola illeggibile].

354 T [erminus].

355 [Parola illeggibile].

356 [Parola illeggibile].

357 [«Mi raggiunge in mille modi e mi accarezza, anche quando, intento ad altro, non bado a essa. S’insinua con tale vigore, che, se viene a mancare all’improvviso, la ricerco avidamente, e se si assenta a lungo, il mio animo si rattrista»] Conf., X, 34, 51; PL, 32, pp. 800-801.

358 [«Però, per conoscere se l’assenza di un bene mi lascia indifferente o mi angustia, deve mancarmi»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 805.

359 [«Questa è la Luce, è l’unica Luce, e un’unica cosa tutti coloro che la vedono e la amano»] Conf., X, 34, 52; PL, 32, p. 801.

360 [«Seguendo esteriormente (gli uomini) ciò che fanno»] Conf., X, 34, 53; PL, 32, p. 801.

361 [«Chi potevo trovare che mi riconciliasse con te?»] Conf., X, 42, 67; PL, 32, p. 807.

362 [«Ove valgo, non voglio stare; ove voglio, non valgo, e qui e là sto infelice»] Conf., X, 40, 65; PL, 32, p. 807.

363 S. Kierkegaard, Der Begriff der Angst, trad. ted. di C. Schrempf, in Gesammelte Werke, cit., vol. V, 1912, p. 107 [trad. it. Il concetto dell’angoscia, in Opere, cit., p. 168].

364 Loc. cit.

365 Verso dove: verso l’amor sui, la superbia, la perdita di esistenza (in senso obiettivo). Che cos’è infatti l’esistenza? – L’elemento agostiniano e un senso fondamentale.

366

Securitas – nessun timor!

367 [Due parole illeggibili].

368 [Parola illeggibile].

369 [Manca l’indicazione del capitolo].

370 [«Riconosci il retto ordine, cerca la pace. Sta’ tu soggetto a Dio e la carne sia soggetta a te. Che cosa c’è di più giusto, di più bello? Tu soggetto al più grande di te, l’inferiore soggetto a te. Tu servi al tuo Creatore, affinché ciò che è stato creato per te sia al tuo servizio. Non è infatti come segue l’ordine che riconosciamo e inculchiamo, cioè la carne soggetta a te e tu a Dio, ma: tu soggetto a Dio e la carne a te. Se infatti tu non t’adoperi per essere soggetto a Dio, mai ti riuscirà di sottomettere a te la carne ... Pertanto, assoggettati prima tu a Dio: successivamente, da lui istruito e aiutato, buttati nella mischia»] Enarrationes in Psalmos, CXLIII, 6; PL, 37, p. 1860.

371 [«Di qui soprattutto deriva l’assenza di amore e timore innocente per te»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

372 [«Tu resisti ai superbi»] Loc. cit.

373 [«Per certi impegni del consorzio umano è necessario farci amare e temere dagli uomini»] Loc. cit.

374 [«l’avversario della nostra vera felicità incalza»] Loc. cit.

375 [«Per farci gustare l’amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece»] Loc. cit.

376 [«Un crogiuolo quotidiano è per noi la lingua degli uomini»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 804.

377 [«E ho gran timore delle mie inclinazioni segrete, che i tuoi occhi conoscono, i miei invece no. Nelle altre specie di tentazioni ho infatti una certa capacità di esplorarmi; in questa quasi nulla»] Loc. cit.

378 Decisivo il «come», però nella concretezza.

379 Fatticità concreta.

380 [Parola illeggibile].

381 [Parola illeggibile].

382 S. Kierkegaard, Die Krankheit zum Tode, cit., p. 93 [trad. it. cit., p. 672].

383 Avere a che fare con, ma non essere schiavo di! Senza compromessi! – Non un habitus permanente, una proprietà obiettivamente inculcata, bensì soltanto nell’angoscia – possibilità portata dinanzi a sé. – Possibilità della privazione.

384 [«fino a che punto sia riuscito a contenere il mio animo»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 804.

385 Secondo quali momenti di senso racchiudere in sé la possibilità del Non [...].

386 [«allorché me ne privo volontariamente, o mi mancano»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, pp. 804-805.

387 Che cosa significa però qui: «esperire l’effettivo»? Carattere della situazione – io non sono legato a essi costantemente nello stesso senso. Da dove viene il mutamento nel «costantemente»?

388 [«Basta allora che m’interroghi per sapere quanto mi spiaccia non averli»] Conf., X, 37, 60; PL, 32, p. 805.

389 [«E le ricchezze, che si cercano appunto per soddisfare uno di questi tre desideri ... può essere che l’animo, finché le possiede, non riesca ad avvertire se le disprezza o meno; ma si può sempre licenziarle per metterlo alla prova»] Loc. cit.

390 [Per esplorare di che cosa sono capace nel rinunciare alle lodi debbo darmi a una vita malvagia. «Ma se la lode suole e deve accompagnarsi a una vita onesta e a opere oneste, non conviene abbandonare né la sua compagnia né la vita onesta»] Loc. cit.

391 [Parola illeggibile].

392 [Due parole illeggibili].

393 S. Kierkegaard, Der Begriff der Angst, cit., p. 160 [trad. it. cit., p. 195].

394 [«In qual modo il giusto può essere guidato, se non nell’intimo?»] Enarrationes in Psalmos, VII, 9, 10; PL, 36, p. 103.

395 [«Il piacere è il fine dell’affanno»] Loc. cit.

396 [«ma con quale animo li compiamo»] Ibid., p. 104.

397

[«È felice infatti chi gode del sommo bene»] De libero arbitrio, II, 13, 36; PL, 32, p. 1260.

398 [«che diletta di per sé senza dover esser posta in relazione ad altro»] De civitate Dei libri XXII, recogn. B. Dombart, Leipzig, 1877, XI, 25; vol. I, p. 496.

399 [«mentre l’usare si dice di una cosa che si cerca come mezzo»] Loc. cit.

400 [Si deve godere delle cose invisibili. «Godere infatti di una cosa è aderire a essa con amore, mossi dalla cosa stessa. Viceversa il servirsi di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si debba amare»] De doctrina christiana, I, 4, 4; PL, 34, p. 20.

401 [«Tutta la perversione umana ... consiste nel volere fare uso delle cose da godere e nel voler godere delle cose da usare. E invece ogni comportamento per bene, detto anche virtù, nel godere delle cose da godere e nel fare uso di quelle da usare»] De diversis quaestionibus, XXX; PL, 40, p. 19.

402 [«Nella realtà delle fatiche, ma nella speranza del riposo, nella carne della realtà vecchia, ma nella speranza della realtà nuova»] Epistulae, LV, 14, 26; PL, 33, p. 217.

403 [«Là dove vi precede la vostra speranza sia orientata la vostra vita»] Enarrationes in Psalmos, CXXXVI, 22; PL, 37, p. 1774.

404 Cfr. Epistulae, CCV; PL, 33, p. 984.

405 «Nullus enim hominum est tanta justitia praeditus, cui non sit necessaria tentatio tribulationis» (Contra Faustum Manichaeum, XXII, 20; PL, 42, p. 411).

406 [«o per completarla o per confermarla»] Loc. cit.

407 [«L’uomo non conosce se stesso, a meno che non impari a conoscersi nella tentazione»] Sermones, II, 3, 3; PL, 38, p. 29.

408 [«Lottano tra loro in questa vita, in ogni tentazione, due amori: l’amore del mondo e l’amore di Dio»] Sermones, CCCXLIV, 1; PL, 39, p. 1512.

409 [Omissioni nella trascrizione Becker].

410 [Per sopperire alle omissioni nella trascrizione si riporta qui il testo latino di riferimento: «Contendunt nobiscum quotidie tentationes, contendunt quotidie delectationes: etsi non consentiamus, tamen molestiam patimur, et contendimus, et magnum periculum est ne qui contendit vincatur; si autem non consentiendo vincamus, molestiam tamen patimur resistendo delectationibus», «Lottano ogni giorno contro di noi le tentazioni e i piaceri; e anche se loro non consentiamo,

tuttavia ne sentiamo il disturbo e combattiamo: ma per chi combatte c’è sempre grave pericolo d’essere vinto. Se noi poi non diamo il consenso e riusciamo a vincere, tuttavia avvertiamo il fastidio nell’atto stesso di resistere a tali voglie disordinate» (Enarrationes in Psalmos, CXLVIII, 4; PL, 37, p. 1940)].

411 [«Infatti la carne desidera contro lo spirito»].

412 [«In questa guerra, chi è vincitore sconfigge con ciò stesso i nemici invisibili. Difatti il diavolo e i suoi angeli non tentano se non approfittando del dominio che su te esercita ciò che è carnale»] Enarrationes in Psalmos, CXLIII, 5; PL, 37, p. 1858.

413 [«non può costringere chi gli resiste», «chi, sotto qualche aspetto, trova già simile a sé»] Sermones, XXXII, 11; PL, 38, p. 200.

414 [«Sei un essere diviso contro te stesso, a causa del peccato»] Enarrationes in Psalmos, CXLIII, 5; PL, 37, p. 1859.

415 [«Hai in te stesso ciò contro cui combattere, hai in te il nemico da debellare»] Loc. cit.

416 [«Ti si fa balenare l’idea di un guadagno e questa idea ti piace. Include la frode, è vero, ma il guadagno è veramente notevole. Nonostante l’attrattiva, tu non consenti»] Enarrationes in Psalmos, CXLIII, 6; PL, 37, pp. 1859-60.

417 [«Uno s’è messo sotto i piedi la giustizia, per commettere la frode»] Ibid., p. 1860.

418 [«Ma anche colui che vinse, forse che ha ottenuto su di sé un successo così assoluto»] Loc. cit.

419 [«O non susciti in lui alcuna attrattiva?»] Loc. cit.

420 [«c’è sempre in fondo all’animo un certo qual pizzicorino di piacere»] Loc. cit.

421 [«La carne soggetta a te e tu a Dio, ma: tu soggetto a Dio e la carne a te. Se infatti tu non t’adoperi per essere soggetto a Dio, mai ti riuscirà di sottomettere a te la carne ... Pertanto, assoggettati prima tu a Dio»] Loc. cit.

422 [«Riconosci il retto ordine»] Loc. cit.

423 [Omissione nella trascrizione].

424 [«Riguardo alle cose, alcune sono fatte per goderne, altre per usarne, altre invece sono capaci di godere e di usare»] De doctrina christiana, I, 3, 3; PL, 34,

p. 20.

425 [«Strettamente parlando io ho dato il nome di cose a tutto ciò che non viene usato per significare qualcosa di diverso da sé, come quando si dice legno, pietra, animale o cose simili»] De doctrina christiana, I, 2, 2; PL, 34, p. 19.

426 Cfr. ibid., p. 20.

427 [«E in effetti l’uomo è una cosa grande»] De doctrina christiana, I, 22, 20; PL, 34, p. 26.

428 [«Di qui sorge il gran problema se gli uomini debbano godere di se stessi o servirsi di se stessi o fare tutte e due le cose»] Loc. cit.

429 [«si consegue la vita beata»] Loc. cit.

430 [«Se invece uno si ama per se stesso»] De doctrina christiana, I, 22, 21; PL, 34, p. 26.

431 [«ripiegarsi su se stesso»] Ibid., p. 27.

432 [«che sa stimare rettamente le cose»] De doctrina christiana, I, 27, 28; PL, 34, p. 29.

433 [«che ha un amore ben ordinato»] Loc. cit.

434 [«Quanto alle cose di cui è lecito servirsi, non sono tutte da amarsi ma soltanto quelle che insieme con noi per una certa unione si riferiscono a Dio»] De doctrina christiana, I, 23, 22; PL, 34, p. 27.

435 [«per nostro mezzo ricevono i benefici di Dio di cui hanno bisogno. Così è il nostro corpo»] Loc. cit.

436 [«Nessuno dunque odia se stesso»] De doctrina christiana, I, 24, 24; PL, 34, p. 27.

437 «Ne aut diligat quod non est diligendum, aut non diligat quod est diligendum, aut amplius diligat quod minus est diligendum, aut aeque diligat quod vel minus vel amplius diligendum est, aut minus vel amplius quod aeque diligendum est» [«(Occorre evitare quanto segue:) amare ciò che non è da amarsi, amare di più ciò che è da amarsi di meno, amare ugualmente ciò che si dovrebbe amare o di meno o di più, o amare di meno o di più ciò che deve essere amato allo stesso modo»] (De doctrina christiana, I, 27, 28; PL, 34, p. 29).

438 [«(Perché ciò che può conoscersi di Dio è in essi manifesto,) avendolo Dio loro

manifestato. Infatti le sue invisibili perfezioni, la sua eterna possanza, la sua divinità, dopo la creazione del mondo, sono rese visibili all’intelligenza per mezzo delle sue creature»].

439 Disputatio Heidelbergae habita (1518), in Des Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, cit., vol. I, 1883, p. 354.

440 Loc. cit.

441 Loc. cit.

442 [Parola illeggibile].

443 [«E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe»] Conf., VIII, 7; PL, 32, p. 756.

444 [«nel suono stesso»] De musica, VI, 2; PL, 32, p. 1163.

445 [«nell’udito stesso di chi ascolta»] Loc. cit.

446 [«nell’atto stesso della dizione»] De musica, VI, 3; PL, 32, p. 1164.

447 [«nella memoria stessa»] Loc. cit.

448 [«nello stesso giudizio spontaneo dell’udito»] De musica, VI, 4; PL, 32, p. 1165.

449 [«Chi leggerà dunque i libri precedenti riscontrerà che ci siamo intrattenuti con lo spirito di grammatici e poeti, non con l’intenzione di rimanere assieme a loro, ma per necessità di rinnovarne la conoscenza»] De musica, VI, 1, 1; PL, 32, p. 1161-62.

450 [«In lui (il Verbo) era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende fra le tenebre, ma le tenebre non la compresero»].

451 [«Se ciò che in te è luce diviene ombra, quanto saranno fitte le stesse tenebre! Chiama lume la buona intenzione della mente con cui ci si muove a operare, tenebre invece le opere stesse. E questo perché gli altri ignorano con che spirito le facciamo o anche perché noi stessi non ne conosciamo il risultato: non sappiamo cioè che fine facciano e che profitto rechino a coloro a pro dei quali, anche se di buon animo, le facciamo»] Quaestionum Evangeliorum libri duo, II, 15; PL, 35, p. 1339.

452

[Due parole illeggibili].

453 [«E la vita era la luce degli uomini: È da questa vita che gli uomini vengono illuminati. Gli animali non vengono illuminati, perché gli animali non possiedono un’anima razionale che consenta loro di contemplare la sapienza»] Tractatus in Joannis Evangelium, I, 18; PL, 35, p. 1388.

454 [«Ma i cuori degli stolti non sono ancora in grado di accogliere questa luce, perché il peso dei peccati impedisce loro di vederla. Non pensino costoro che la luce non c’è ... È che a causa dei peccati essi sono tenebre»] Tractatus in Joannis Evangelium, I, 19; PL, 35, p. 1388.

455 [«(Immaginate) ... un cieco in pieno sole: il sole è presente a lui, ma lui è assente al sole. Così è degli stolti, dei malvagi, degli iniqui: il loro cuore è cieco; la sapienza è lì presente, ma trovandosi di fronte a un cieco, per gli occhi di costui è come se essa non ci fosse ... Che deve fare allora quest’uomo? Purifichi l’occhio con cui potrà vedere Dio ... perché ha gli occhi sporchi o malati»] Loc. cit.

456 [«Togli via tutte queste cose, e vedrai la sapienza»] Loc. cit.

457 [«La fede di Dio purifica il cuore, il cuore purificato vede Dio»] Sermones, LIII, 10, 10; PL, 38, p. 368.

458 [«La fede che opera per mezzo della carità ... spera ciò che Dio promette. Nulla di più ponderato e di più completo di questa definizione. Sono dunque tre virtù (fede, speranza, carità)»] Sermones, LIII, 10, 11; PL, 38, p. 369.

459 [«Compagna della fede è dunque la speranza. La speranza infatti è necessaria»] Loc. cit.

460 [«Se sopprimi la fede, viene meno ciò che credi; se togli di mezzo la carità, viene meno ciò che fai; poiché la fede ha come scopo farti credere, la carità invece quello di spingerti ad agire»] Loc. cit.

461 [«Ma adesso quale azione compie la fede stessa?»] Sermones, LIII, 11, 12; PL, 38, p. 369.

462 [«come in uno specchio, in modo oscuro»] Loc. cit.

463 [«a immaginarti una faccia come la tua»] Loc. cit.

464 [«Rivolgi il tuo pensiero alla faccia del tuo cuore»] Loc. cit.

465 [«Sprona il tuo cuore a pensare la natura di Dio»] Loc. cit.

466 [«Neppure quando lo vedrai, poiché quello che vedrai è inesprimibile»] Loc. cit.

467 [«Allorché dunque pensi a Dio, ti si presenta forse alla mente una grandezza straordinaria e immensa sotto l’aspetto umano»] Ibid., p. 370.

468 [«se l’hai circoscritta, non è Dio. Se non l’hai delimitata, dove si trova la faccia?»] Loc. cit.

469 [«Che cosa fai, o pensiero stolto e carnale?»] Loc. cit.

470 [Tre parole illeggibili].

471 [Tre parole illeggibili. «Non frustra ergo crucem elegit, ubi te huic mundo crucifigeret. Nam latitudo est in cruce transversum lignum, ubi figuntur manus: propter bonorum operum significationem. Longitudo est in ea parte ligni, quae ab ipso transverso ad terram tendit. Ibi enim corpus crucifigitur, et quodam modo stat: et ipsa statio perseverantiam significat. Altitudo autem in illo ligno est, quod ab eodem transverso supernorum exspectatio. Ubi profundum, nisi in ea parte quae terrae defixa est. Occulta est enim gratia, et in abdito latet. Non videtur, sed inde eminet quod videtur»; «Non fu dunque senza un motivo che scelse la croce, per crocifiggerti con essa a questo mondo. Nella croce infatti la larghezza è il braccio trasversale ove son confitte le mani, per simboleggiare le opere buone. La lunghezza è nella parte del legno che dal braccio trasversale arriva sino a terra. Su di esso infatti viene crocifisso il corpo e in certo modo sta ritto; la posizione eretta è simbolo della perseveranza. In quel legno poi l’altezza è la parte che sporge in alto dalla medesima traversa (e rappresenta) l’attesa dei beni celesti. Dov’è la profondità se non nella parte conficcata nella terra? La grazia infatti è occulta e rimane nascosta nel segreto di Dio. Non si vede, ma da essa si eleva ciò che si vede» (Sermones, LIII, 15, 16; PL, 38, pp. 371-72)].

472 [Parola illeggibile].

473 [«Se Dio è amore, chiunque ama l’amore ama Dio»] Tractatus in Epistulam Joannis ad Parthos, IX, 10; PL, 35, p. 2052.

474 Cfr. Tractatus in Epistulam Joannis ad Parthos, VIII, 5; PL, 35, p. 2038.

475 [«L’assenza di amore e timore puro per te»] Conf., X, 36, 59; PL, 32, p. 804.

476 «In his omnibus atque hujusmodi periculis et laboribus vides tremorem cordis mei» [«Fra tutti questi e altri simili pericoli e travagli vedi come trepida il mio cuore»] (Conf., X, 39, 64; PL, 32, p. 806).

477 [«Molti infatti non temono niente proprio per eccesso di superbia»]

Enarrationes in Psalmos, LV, 6; PL, 36, p. 650.

478 [«Una cosa è la salute del corpo, un’altra la paralisi del corpo, e un’altra ancora l’immortalità del corpo. Certamente la salute perfetta si ha nell’immortalità»] Loc. cit.

479 [«La salute esclude la malattia; e quando per caso questa salute è intaccata e aggredita dal male, noi si soffre»] Loc. cit.

480 [«Chi, invece, è colpito da paralisi non soffre: ha perduto la sensibilità al dolore, e tanto più è insensibile, quanto peggiore è la sua condizione»] Ibid., pp. 650-51.

481 Cfr. ibid., p. 651.

482 [«È più vicina all’immortalità la salute di uno che prova dolore, che non l’insensibilità di chi è paralizzato»] Loc. cit.

483 [«non è rivestito d’immortalità, ha soltanto perso la sensibilità»] Loc. cit.

484 [«Il timore di Dio è casto, esso dura nei secoli dei secoli»] Tractatus in Epistulam Joannis ad Parthos, IX, 5; PL, 35, p. 2048. [Agostino legge «timor castus» invece del «timor sanctus» della Vulgata]. Cfr. Enarrationes in Psalmos, XVIII, 10; PL, 36, p. 155.

485 [«Se tu temi il Signore ancora a causa dei suoi castighi, non lo ami ancora. Non desideri il bene ma ti astieni unicamente dal male»] Tractatus in Epistulam Joannis ad Parthos, IX, 5; PL, 35, p. 2049.

486 [«non deriva infatti dall’amore di Dio, ma dal timore del castigo»] Loc. cit.

487 [«Quale timore è casto? Il timore di perdere gli stessi beni. Comprendetemi: altra cosa è temere Dio perché non ti mandi all’inferno, altra cosa temerlo perché egli non si allontani da te»] Loc. cit.

488 [Questo passaggio si basa probabilmente sui seguenti passi:] «Si vis ab illo fugere, ad ipsum fuge. Ad ipsum fuge confitendo, non ab ipso latendo: latere enim non potes, sed confiteri potes» [«Rifugiati presso di lui, quando vuoi da lui fuggire. Rifugiati presso di lui con fiducia, e non già sottrarti al suo sguardo: non lo potresti fare, mentre puoi a lui aprire con fiducia il tuo cuore»] (Tractatus in Epistulam Joannis ad Parthos, VI 3; PL, 35, p. 2021). «Ille corde tuo interior est. Quocumque ergo fugeris, ibi est. Teipsum quo fugies? Nonne quocumque fugeris, te sequeris? Quando autem et teipso interior est, non est quo fugias a Deo irato, nisi ad Deum placatum: prorsus non est quo fugias. Vis fugere ab ipso? Fuge ad ipsum» [«(Dio) è più addentro del tuo stesso cuore. Dovunque fuggirai, egli è là. Dove andresti, se volessi fuggire da te stesso? Forse che, dovunque tu vada, non

saresti seguito da te stesso? Ma, se egli ti è più intimo di te stesso, non hai dove fuggire da Dio irato, se non a Dio placato. Altrove non hai scampo. Vuoi fuggire lontano da lui? Rifugiati presso di lui!»] (Enarrationes in Psalmos, LXXIV, 9; PL, 36, pp. 952-53. Cfr. Enarrationes in Psalmos, XCIV, 2; PL, 37, p. 1217).

489 [«E per quanto riguarda queste tre dimensioni ... non ci turba l’aspetto illusorio di una copia dal vero»] De civitate Dei, XI, 26, ed. cit., p. 497.

490 [«In lui il nostro esistere non avrà fine, in lui il nostro conoscere non incorrerà nell’errore, in lui il nostro amare non incontrerà ripulsa»] De civitate Dei, XI, 28, ed. cit., p. 502.

491 [Il manoscritto reca la data del 10 agosto 1919].

492 Come va dunque inserito il punto A nel punto B per garantire la genuinità scientifica?

493 E. Spranger, Zur Theorie des Verstehens und zur geisteswissenschaftlichen Psychologie, in Festschrift Johannes Volkelt zum 70. Geburtstag, cit.

494 Cfr. W. Dilthey, Die Funktion der Anthropologie in der Kultur des 16. und 17. Jahrhunderts [I. 1 Fortbestand und Umbildungen der zwei Hauptformen der mittelalterlichen Anthropologie], in Gesammelte Schriften, vol. II, cit., pp. 41822.

495 Cfr. Anfänge reformatorischer Bibelauslegung, a cura di J. Ficker, vol. I: Luthers Vorlesung über den Römerbrief 1515-1516, Diederichs, Leipzig, 1908, p. LXXXIII.

496 Loc. cit.

497 [Il manoscritto reca la data del 14 agosto 1919].

498 W. Windelband, Das Heilige. Skizze zur Religionsphilosophie, in Präludien, vol. II, Mohr, Tübingen, 1914, pp. 295-332, qui p. 302.

499 Ibid., p. 305.

500 Loc. cit.

501 E quindi il problema del soggetto in senso eminente.

502 H. Leser, Das religiöse Wahrheitsproblem im Lichte der deutschen Mystik, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 160, 1916, p. 23. [La citazione prosegue così: «Dunque Dio soltanto se e nella misura in cui tu sei

Dio»].

503 F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, in F. Schleiermacher’s sämmtliche Werke, sez. I, vol. I, Reimer, Berlin, 1843, p. 173 [trad. it. Sulla religione. Discorsi alle persone colte che la disprezzano, in Scritti filosofici, a cura di G. Moretto, UTET, Torino, 1998, pp. 83255].

504 Ibid., p. 174.

505 Loc. cit.

506 Loc. cit.

507 Cfr. ibid., p. 174.

508 Ibid., p. 183.

509 Loc. cit.

510 Ibid., p. 184.

511 Ibid., p. 266 (nota 2, p. 189).

512 Loc. cit.

513 Ibid., p. 267.

514 Ibid., p. 191.

515 Loc. cit.

516 Cfr. ibid., pp. 191-96.

517 Cfr. loc. cit.

518 Cfr. ibid., p. 268 (nota 4, p. 196).

519 [Il manoscritto reca la data del giugno 1918. Segue l’indicazione: Cfr. il relativo manoscritto di Reinach].

520 A. Reinach, Sämtliche Werke. Textkritische Ausgabe in zwei Bänden, a cura di K. Schuhmann e B. Smith, vol. I: Werke, Philosophia, München-Hamden-Wien, 1989, p. 607.

521 Ibid., p. 610.

522 [Cfr. ibid., p. 606: «Che cosa caratterizza l’amore divino in contrasto con quello terreno in maniera tale che l’uno conduce all’infinito mentre l’altro contiene in sé l’infinità?»].

523 Ibid., p. 607.

524 Ibid., p. 610.

525 Loc. cit.

526 Ibid., p. 611.

527 Loc. cit.

528 Citato da W. Dilthey, Die Jugendgeschichte Hegels, in «Abhandlungen der Preußischen Akademie der Wissenschaften», Berlin, 1905, p. 26.

529 E. Troeltsch, s.v. «Glaube: III. Dogmatisch. IV. Glaube und Geschichte», in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, cit., vol. II, col. 1438.

530 Ibid., col. 1440.

531 F. Schleiermacher, Der christliche Glaube, seconda ediz., Berlin, 1830, p. 7.

532 Citato in ibid., p. 9.

533 Loc. cit.

534 Ibid., p. 15.

535 [Nessuna ulteriore indicazione].

536 Cfr. P. Natorp nella sua commemorazione di Cohen: Hermann Cohens philosophische Leistung unter dem Gesichtspunkte des Systems, Reuther & Reichard, Berlin, 1918, p. 28.

537 In Präludien, vol. II, cit.

538 [Il manoscritto reca la data del 6 settembre 1918].

539 San Bernardo, Sermones in Canticum canticorum, III, 1; PL, 183, p. 794.

540 [«È una fonte sigillata a cui nessun estraneo può attingere»] Loc. cit.

541 [«Chi beve, abbia sete di questa (fonte)». In realtà il testo di Bernardo recita: «Qui bibit ad huc sitiet», «Chi beve avrà ancora sete»] Loc. cit.

542 [Il manoscritto reca la data del 10 settembre 1918].

543 [«Non voglio diventare eccelso in modo repentino, voglio progredire un poco per volta»] Sermones in Canticum canticorum, III, 4; PL, 183, p. 795.

544 [«Lo (Dio) plachi più rapidamente se manterrai la tua misura e non cercherai cose più alte di te»] Loc. cit.

545 [Parola illeggibile].

546 [Parola illeggibile].

547 Die sämmtlichen Schriften der heiligen Theresia von Jesu, a cura di G. Schwab, vol. IV: Die Seelen-Burg, Sulzbach, 1832, p. 4 [trad. it. di P. Edoardo Martinelli, Il castello interiore, Introduzione e note di P. Tomas Alvarez, OCD, Roma, quarta ediz., 2000].

548 Ibid., p. 6.

549 Ibid., p. 9.

550 Cfr. ibid., pp. 13-14.

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Frontespizio 5 Colophon 6 FENOMENOLOGIA DELLA VITA RELIGIOSA 7 Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana 8 Introduzione alla fenomenologia della religione - Corso del primo periodo di Friburgo (semestre invernale 1920/21) 21 Parte prima - Introduzione metodica Filosofia, esperienza effettiva della vita e fenomenologia della religione 22 I - La vita filosofica dei concetti e l’esperienza effettiva della vita II - Tendenze attuali della filosofia della religione III - Il fenomeno dello storico IV - Formalizzazione e indicazione formale

23 38 48 70

Parte seconda - Esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti sulla scorta delle lettere dell’apostolo Paolo 81 I - Interpretazione fenomenologica della lettera ai Galati II - Compito e oggetto della filosofia della religione III - Esplicazione fenomenologica della Prima Lettera ai Tessalonicesi IV - La Seconda Lettera ai Tessalonicesi V - Caratterizzazione dell’esperienza protocristiana della vita Appendice - Annotazioni e abbozzi per il corso

Parte introduttiva - Interpretazioni di Agostino

1. L’interpretazione di Agostino data da Ernst Troeltsch 2. L’interpretazione di Agostino data da Adolf von Harnack 3. L’interpretazione di Agostino data da Wilhelm Dilthey 4. Il problema dell’obiettività storica 5. Discussione delle tre interpretazioni di Agostino secondo il loro senso dell’accesso 6. Discussione delle interpretazioni di Agostino secondo la loro base motivazionale per l’impostazione e l’attuazione dell’accesso

82 89 101 120 130 139

170 172 173 174 176 177 178

Parte principale - Interpretazione fenomenologica del libro X delle «Confessioni»

185

Appendice I - Appunti e abbozzi per il corso Appendice II - Integrazioni tratte dalla Trascrizione di Oskar Becker I fondamenti filosofici della mistica medioevale - [Prime stesure e abbozzi per un corso non tenuto (1918-1919)]Cozzo Nota dei Curatori del corso del semestre invernale 1920/21 Nota del Curatore del corso del semestre estivo 1921 e delle prime stesure e degli abbozzi redatti nel 1918-1919

249 271

7. Preliminari all’interpretazione 8. L’introduzione al decimo libro. Dal primo al settimo capitolo 9. La «memoria». Dall’ottavo al diciannovesimo capitolo 10. Della «beata vita». Dal ventesimo al ventitreesimo capitolo 11. Il «come» del domandare e dell’udire. Dal ventiquattresimo al ventisettesimo capitolo 12. Il «curare» (essere preoccupato) come carattere fondamentale della vita effettiva. Ventottesimo e ventinovesimo capitolo 13. La prima forma della «tentatio»: «concupiscentia carnis». Dal trentesimo al trentaquattresimo capitolo 14. La seconda forma della «tentatio»: «concupiscentia oculorum». Trentacinquesimo capitolo 15. La terza forma della «tentatio»: «ambitio saeculi». Dal trentaseiesimo al trentottesimo capitolo 16. L’autocompiacimento di fronte a se stessi. Trentanovesimo capitolo 17. «Molestia» – la fatticità della vita

186 188 191 200 208 211 215 225 230 240 243

297 332 337