Fenomenologia della cura

835 84 2MB

Italian Pages 269 Year 2014

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Fenomenologia della cura

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
1. Frammenti di una fenomenologia della cura - Luigina Mortari
2. Teoria e pratica della cura in educazione - Nel Noddings
3. La storia della ricerca - Luigina Mortari e Alessia Camerella
4. Nell’universo della sofferenza. L’infermiere: dall’oggettivismo tecnicistico del curare al soggettivismo umanistico dell’aver cura - Rita Fadda
5. Pensieri di cura: infermiere e infermieri - Alessia Camerella
6 (prima parte). Educazione e cura: chinarsi sulla vita, in attesa - Ivo Lizzola
6. (seconda parte). Pietà - Ivo Lizzola
7. Il lavoro educativo e l’esigenza di averne cura. Uno sguardo sulla contemporaneità - Cristina Palmieri
8. Pensieri di cura: educatrici ed educatori - Alessia Camerella
9. Per una didattica dell’aver cura. La cura per le professionalità educative nei contesti per l’infanzia - Lucia Balduzzi
10. Pensieri di cura: insegnanti - Alessia Camerella
11. Pensieri di cura nell’agire materno - Alessia Camerella
Gli Autori
Quarta di copertina

Citation preview

Fenomenologia della Cura a cura di

Luigina Mortari e Alessia Camerella

LIGUORI EDITORE

Teorie & Oggetti della Filosofia 75 Collana diretta da Roberto Esposito

Fenomenologia della cura a cura di

Luigina Mortari e Alessia Camerella ISSN 1973-1507

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2014 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2014 Mortari, Luigina (a cura di) : Fenomenologia della cura/Luigina Mortari e Alessia Camerella (a cura di) Teorie & Oggetti delle Filosofia Napoli : Liguori, 2014   ISBN 978 - 88 - 207 - 5262 - 0 (a stampa)   eISBN 978 - 88 - 207 - 5263 - 7 (eBook)   ISSN 1973-1507 1. Pratiche, infermieri  2. Insegnare, educare  I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornamenti: ———————————————————————————————————————— 21 20 19 18 17 16 15 14 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

1

Capitolo primo Frammenti di una fenomenologia della cura



Luigina Mortari Qualcosa per cui ne va dell’esserci 1; Mancare d’essere 2; La matrice relazionale dell’esserci 6; Relazionalità e dipendenza 8; Il sentire che muove l’agire 10; Sentirsi responsabili 13; La tensione donativa 18; Avere riguardo 20; Quale politica? 22; Riferimenti bibliografici 24.

27

Capitolo secondo Teoria e pratica della cura in educazione



Nel Noddings Teoria della cura 27; L’aver cura nell’insegnare 37; Riferimenti bibliografici 47.

49

Capitolo terzo La storia della ricerca



Luigina Mortari e Alessia Camerella Introduzione 49; Disegno emergenziale-evolutivo ed elaborazione induttiva della teoria 50; Raccolta e analisi dei dati 52; Coding System 68; Conteggio delle etichette in assoluto e per regioni 69; Core categories 70; Risultati 72; Il team 74; Posture cognitive 75; Conclusioni 79; Numerazione indicativa 80; Riferimenti bibliografici 81.

83

Capitolo quarto Nell’universo della sofferenza. L’infermiere: dall’oggettivismo tecnicistico del curare al soggettivismo umanistico dell’aver cura



Rita Fadda

Capitolo quinto 109 Pensieri di cura: infermiere e infermieri

Alessia Camerella Creare un contatto fisico non intrusivo 112; Accompagnare l’altro verso l’autonomia 114; Accompagnare l’altro con la parola che rassicura 115; Tranquillizzare e interpretare il vissuto 115; Ascoltare 116; Rivolgere la parola e cercare il contatto attraverso la parola 117; Interpretare il vissuto 117; Osservare 118; Informare e informarsi 119; Cura tra totalità, personalizzazione e limite 119; Riferimenti bibliografici 21.

Indice

viii Capitolo sesto (prima parte) 123 Educazione e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

Ivo Lizzola Educare competenze per la vita nella vulnerabilità 123; L’intenzionalità e le fratture esistenziali 128; Tessiture di prossimità là dove si prova a vivere 130; Curare ed educare: fioriture spontanee impreviste 133; Chinarsi di nuovo sulla vita, in attesa 136; Riferimenti bibliografici 139.

Capitolo sesto (seconda parte) 141 Pietà

Ivo Lizzola

Capitolo settimo 145 Il lavoro educativo e l’esigenza di averne cura. Uno sguardo sulla contemporaneità

Cristina Palmieri



Premessa 145; Il lavoro educativo come lavoro di cura 146; L’esigenza di aver cura del lavoro educativo: da necessità strutturale a urgenza contemporanea 157; Prospettive e oggetti di cura del lavoro educativo nei territori della contemporaneità 168; Riferimenti bibliografici 173.

Capitolo ottavo 177 Pensieri di cura: educatrici ed educatori

Alessia Camerella



Creare un contatto fisico non intrusivo 180; Informare e informarsi 181; Dare regole 182; Creare comunicazione su contenuti significativi 182; Responsabilizzare l’altro 185; Mettere in relazione soggetto e società 186; Ascoltare 187; Riferimenti bibliografici 190.

Capitolo nono 191 Per una didattica dell’aver cura. La cura per le professionalità educative nei contesti per l’infanzia

Lucia Balduzzi



Pensare, nella pratica, la pratica della cura; alla ricerca di categorie per la didattica 191; Quando le insegnanti pensano la cura – itinerari di ricerca per definizioni incerte 195; I racconti dell’aver cura. Metanalisi si pensieri e parole 197; Cura e professionalità 203; La cura di chi cura 207; Considerazioni conclusive 211; Riferimenti bibliografici 213.

Indice

ix

Capitolo decimo 217 Pensieri di cura: insegnanti

Alessia Camerella Dare regole 223; Creare un contesto Fisico non intrusivo 227; Ascoltare 229; Dare tempo alla relazione di costruirsi 230; Favorire l’elaborazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni 232; Far pensare 233; Creare comunicazione su contenuti significativi 234; Creare routines 235; Riferimenti bibliografici 236.

Capitolo undicesimo 239 Pensieri di cura nell’agire materno

Alessia Camerella Favorire l’espressione di emozioni e sentimenti 241; Aver cura del pensare 242; Ascoltare 243; Osservare 245; Informarsi 246; Dare regole 246; Cercare di responsabilizzare l’altro 247; Trattare l’altro con riguardo senza essere intrusivi 248; Sostenere e sdrammatizzare 249; Brevi considerazioni conclusive 252; Riferimenti bibliografici 255.

257 Gli Autori

Capitolo primo Frammenti di una fenomenologia della cura Luigina Mortari

1. Qualcosa per cui ne va dell’esserci A costituire un fatto evidente è che la cura è qualcosa di fondamentale nella vita dell’essere umano, poiché senza cura l’esistenza non può fiorire. Nessuna società può garantire una qualità della vita sufficientemente buona se le persone non si prendono cura le une delle altre. Se, come suggerisce l’analitica heideggeriana, si prende in esame l’essere dell’esserci per comprendere la sua qualità essenziale si scopre che la cura è il modo fondamentale dell’esserci, «è la totalità primaria della costituzione d’essere dell’esserci»1. Quando svolgo un’attività per procurarmi quanto serve per nutrire il corpo, quando cerco di coltivare una relazione, quando mi immergo nella lettura per nutrire la mente, quando mi preoccupo di fornire sostegno ad un’altra persona, quando dedico le mie energie alla costruzione di uno spazio di comunità condiviso, sempre mi occupo, preoccupo, prendo a cuore qualcosa, cioè ho cura. Ma che cosa s’intende precisamente per cura? Proprio perché il termine cura è di uso comune è necessario fare chiarezza, liberandolo da interpretazioni casuali, da significati ovvi e logori. Definisco la cura un’azione, una pratica. Nella favola della Cura riportata da Heidegger in Essere e tempo, si trova che la cura è una persona che impasta argilla, cioè agisce, fa qualcosa, dà forma all’essere. Se si assume che la cura sia una pratica si può dire di trovarsi di fronte a un fenomeno di cura solo quando troviamo una persona che agisce: con i gesti e/o con la parola. Certo ci sono pensieri e sentimenti che possono essere definiti di cura, poiché essenziali al mettere in atto un’azione di cura, ma fino a quando un’intenzione, un desiderio, un progetto non si traduce in un’azione visibile non si può ancora parlare di cura. 1

M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova: Il Melangolo, 1999, p. 379; [Prolegomeni zur Geschichte des Zeitbegriffs, Frankfurt a. M.: Vittorio Klostermann Verlag, 1975].

Fenomenologia

2

della cura

Per definire un’attività umana non basta dire come si manifesta, è necessario specificare l’intenzione che la genera e la guida. Si può dire che la cura è una pratica mossa dall’intenzione di procurare beneficio a se stessi (cura di sé) e ad altri. In molti teorici e soprattutto teoriche – poiché il pensiero sulla cura è prevalentemente femminile – si parla della cura come di un’attività rivolta ad altri. Così è la definizione fornita da Diemut Bubeck2, che parla della cura come di una “other directed practice”, cioè un’attività «fondamentalmente rivolta ad altri per portare loro beneficio»; in quanto tale richiede un notevole investimento di tempo e di energia, ragione per cui si può definire la cura un lavoro, anche se si tratta di un lavoro particolare che richiede specifiche virtù e valori, e in particolare una profonda motivazione a recepire le domande che provengono dalle altre persone. Ma se in molti studi che si occupano di cura questa pratica è concettualizzata come azione rivolta ad altri, non bisogna trascurare che la cura è anche un lavoro per sé, poiché come apprendiamo dall’antica filosofia greca, ciascun essere umano ha il compito di aver cura di sé, per conservare la vita e far fiorire le sue proprie possibilità esistenziali. Ciò che più grava sulla coscienza di una persona è l’incuria per la sua vita. Se è vero che senza ricevere cura da altri non possiamo apprendere ad aver cura di noi, è anche vero che solo avendo cura di noi stessi siamo in grado di aver cura degli altri. Quando si affronta il tema della cura è, dunque, necessario tenere intimamente uniti i due piani: quello della cura rivolta a sé e della cura rivolta ad altri.

2. Mancare d’essere Nella favola riportata da Heidegger si narra che la Cura dà forma all’argilla e che, una volta che il pupazzo prende vita, Saturno decide che per tutto il tempo della vita “lo possiederà la Cura”. Questo per dire che la pratica di cura è consustanziale all’esser-ci. La cura è azione ontologica necessaria perché la condizione umana è caratterizzata da mancanza e dipendenza: manchiamo di potere sul nostro esser-ci e insieme manchiamo di una forma finita, e siamo dipendenti dagli altri poiché la nostra sostanza ontologica è intimamente relazionale. Che siamo mancanti di essere è evidente dal fatto che siamo chiamati a divenire il nostro poter essere, sia biologico sia spirituale. Si può parlare 2

G. D. Bubeck, Justice and the Labor of Care, in E. F. Kittay e E. K. Feder (a cura di), The Subject of Care. Feminist Perspectives on Dependency, Boston: Rowman & Littlefield Publishers, 2002, p. 160.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

3

della mancanza di essere come di un’evidenza ontologica, poiché è cosa manifesta che il mio esserci non è deciso endogamicamente, ma dipende da altro da me. In questo dipendere da altro da sé sta tutta la nostra debolezza ontologica. È questa debolezza che rende necessaria la cura. Se ci fermiamo a pensare la nostra condizione ontologica, non possiamo non trovare profondamente vere le parole di Edith Stein: «io non sono da me, da me sono nulla, in ogni attimo mi trovo di fronte al nulla e devo ricevere in dono attimo per attimo nuovamente l’essere»3. Noi ci scopriamo inconsistenti, e questa inconsistenza è evidente nel fatto che anche se non lo si progetta, anche se non sta nell’ordine del nostro desiderio “io posso morire in ogni istante”4. Questa possibilità di non essere più, che pone termine all’esserci, è una costante che accompagna tutto il tempo dell’essere nel mondo. Non solo mi trovo a esser-ci senza potere su questo essere, ma questo mio essere in cui mi trovo gettato, per usare un’espressione heideggeriana, è un essere incompiuto e in quanto tale ha necessità di dedizione continua. Questo mio essere, che mi trovo prorogato di momento in momento, non è mai dato in una forma compiuta né è mai posseduto, ma chiede quel lavoro dell’esserci necessario a dare a esso forma. Questa dedizione all’esserci è la cura. Il venire al mondo coincide dunque con l’assunzione del compito di aver cura della vita perché possa continuare nel tempo e perché prenda una buona forma. La cura «è per essenza cura dell’essere dell’esser-ci»5. Quando Hannah Arendt distingue le varie forme di attività umane, parla del “lavoro” come di quel fare che è un agire continuo, senza soste, per soddisfare bisogni primari6. La cura può essere definita il lavoro del vivere e dell’esistere, perché quel mancare d’essere che rende necessaria la cura mai trova una soluzione. Mai è dato un momento in cui si pervenga a una condizione di sovranità sull’essere, mai giungiamo a possedere veramente la nostra condizione7. Proprio perché la debolezza dell’esserci in quanto mancante d’essere è costitutiva della condizione umana, il lavoro di cura non può trovare soluzione. Il lavoro della cura non lascia respiro, non consente soste; è un lavoro faticoso: tesse i fili dell’essere, ma senza mai riuscire 3

E. Stein, Essere finito e essere eterno, Roma: Città Nuova, 1999, p. 92; [Endliches und ewiges Sein – Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, Geleen, NL: Archivium Carmelitanum Edith Stein, 1962]. 4 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p. 389. 5 Ibidem. 6 H. Arendt, Vita activa, Milano: Bompiani, 1989; [The Human Condition, Chicago (Ill.): The University of Chicago, 1958]. 7 E. Stein, Essere finito e essere eterno cit., p. 91.

Fenomenologia

4

della cura

completamente nella realizzazione dei suoi progetti, poiché all’essere umano risulta impossibile chiamare all’essere tutto ciò che vede essenziale. Si trova da subito e per tutto il tempo della vita vincolato al compito di dare forma al proprio modo singolare di essere nel mondo con gli altri senza però mai avere sovranità sulle mosse del proprio divenire. Il lavoro di cura risponde dunque alla chiamata ineludibile di fare fronte alla debolezza della condizione umana. Ma proprio perché non riesce mai a ridimensionare questo essere intimamente deboli, nella carne e nell’anima, la cura fa esperire la fatica ontologica, la fatica di perseverare nell’esserci cercando senso e misura sapendo di non conquistare mai la meta. È questo sentire – sentire la fatica di conservarsi nell’esserci e divenire il proprio essere possibile – che più di ogni altro qualifica la condizione umana. Da subito, da quando apriamo gli occhi al mondo, ci troviamo addossati del compito di procurare cose per conservare la vita e per strutturare il nostro essere in una forma. Il bambino che cerca lo sguardo della madre e che dopo pochi giorni ha imparato a riconoscerlo tra tanti altri visi e a cercarlo sa di stare in relazione con la fonte del suo benessere, di ciò che le/gli procura il nutrimento. Nel suo venire al mondo si trova da subito mancante di autonomia, di sovranità su di sé, e questo sentire sviluppa dall’interno la ricerca di nutrimento, la ricerca della madre. Quella madre che, proprio se sa avere cura del bambino, è definita da Winnicott “sufficientemente buona”8. Ma non sentiamo solo la tensione a conservare la vita biologica; siamo, infatti, anche qualcosa di immateriale, la nostra identità ha un grumo spirituale. Essere posti nel mondo mancanti di una forma significa trovarci da subito con il compito di dare una forma nostra propria alle nostre possibilità di essere. Noi veniamo al mondo mancanti di una forma compiuta e ci troviamo da subito chiamati al compito di disegnare il profilo del nostro essere. La filosofia socratica mantiene nel tempo il suo valore proprio perché si fonda sul riconoscimento della primarietà della cura di sé; Socrate, infatti, assume come tema di indagine quello della cura di sé che etichetta come il primo e fondamentale compito di ogni persona, qualificandolo come cura dell’anima. Si può dunque dire che c’è un lavoro di cura come procurare cose per nutrire e conservare la vita e una cura come ricerca delle condizioni esperienziali che consentono l’azione di trascendenza, dell’andare oltre ciò che è già dato per creare forme inedite dell’esser-ci. In questo modo interpreto 8

D. W. Winnicott, I bambini e le loro madri, Milano: Raffaello Cortina, 1987; [Babies and Their mothers, London: Free Association Group, 1987]. Id., Dal luogo delle origini, Milano: Raffaello Cortina, 1990; [Homes is where we start from, London: Penguin Books, 1986].

Frammenti

di una fenomenologia della cura

5

il «doppio senso» che Heidegger attribuisce alla cura: come procurare e come dedizione9. Negli studi che si occupano di cura prevale, per non dire che è quasi esclusiva, l’attenzione per la cura come risposta al bisogno di procurare quanto necessario al vivere, quello che Bubeck definisce «il lavoro necessario per conservarci e riprodurci»10; ma altrettanto necessaria è la dedizione a cercare la migliore qualità di vita possibile, quella che consente di attualizzare le differenti possibilità proprie dell’essere. Il lavoro di cura di una madre consiste nel modellare l’ambiente sulla base dei desideri del bambino, cercando di capire ciò di cui ha bisogno e mettendoglielo a disposizione; una buona cura materna non si limita a soddisfare i bisogni che vede esternalizzati nei modi di essere del bambino, ma anche nell’offrire quelle esperienze che sollecitano il suo essere a crescere e fiorire in tutte le dimensioni ontologiche. Un buon insegnante non si limita a fornire il materiale esperienziale previsto dal curricolo, ma cerca di leggere i bisogni più intimi di ciascun allievo per offrire quelle situazioni esperienziali che consentono di nutrire la tensione cognitiva, etica, estetica, sociale e spirituale della persona. Un’infermiera capace di caring non si limita a fornire una prestazione terapeutica competente, ma dedica tempo a mettere il paziente nelle condizioni di riacquistare la sua autonomia quanto prima possibile. Il lavoro di cura richiede dunque energia, fatica, impegno, dedizione. E questa fatica rivela intensità diversa a seconda del compito che ci troviamo ad affrontare. Il livello di fatica e di impegno è segnalato dalla tonalità emotiva che accompagna l’azione di cura. Proprio perché sempre siamo impegnati nella cura, sempre ci troviamo in una tonalità emotiva11. Anche quando il lavoro di cura ci chiede poco e quasi non ci accorgiamo di essere coinvolti in esso, sempre il soggetto si trova a vivere una qualità affettiva: in questo caso si rivela in una forma di tranquillità, di quietezza. In altri momenti si può avvertire inquietudine, ansietà e paura di non riuscire a fare un buon lavoro di cura, oppure piacere per il senso di quello che si sta facendo, gioia per gli esiti che s’intravede raggiungere. La tonalità emotiva ci rivela come ci si trova. Se rispetto alla dimensione emozionale del vissuto assumiamo una visione neostoica12 – per quanto riguarda l’indagine filosofica – e cognitivista

9

M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p. 377. G. D. Bubeck, Justice and the Labor of Care cit., p. 161. 11 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p. 315. 12 M. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna: Il Mulino, 2004; [Upheavals of Thought: The intelligence of emotions, Cambridge: Cambridge University Press, 2001]. 10

Fenomenologia

6

della cura

– per quanto riguarda l’indagine psicologica13, possiamo affermare che ogni stato emotivo è connesso a una valutazione della situazione che stiamo vivendo. Se dunque prendiamo in analisi la tonalità emotiva, possiamo risalire alla valutazione in essa implicata e quindi all’orizzonte di idee che fanno da sfondo al nostro lavoro di cura. Impegnarsi in questa disamina significa accettare la sfida dell’autocomprensione, lavoro questo che ci consente di assumere una posizione di consapevolezza rispetto al nostro modo di essere nel mondo. Se il trovarsi in uno stato emotivo non è qualcosa di consapevole14, il lavoro di autoanalisi rende possibile guadagnare uno stato di consapevolezza. È stato Socrate (Alcibiade Primo) a insegnarci che il conoscere-se-stessi è un’azione di cura.

3. La matrice relazionale dell’esserci La cura di sé, per quanto sia un compito che il singolo assume per se stesso, non può essere messa in atto da soli, sempre c’è bisogno dell’altro: il maestro che intenzionalmente si preoccupa di coltivare la mente dell’allievo, ma anche una persona qualsiasi che senza intenzionalità formativa si impegna in una conversazione che nutre di senso lo spazio della nostra mente; l’infermiera che si ferma con il malato per ascoltare i suoi timori e le sue aspettative, ma anche l’amico che senza specifiche competenze terapeutiche si fa carico della nostra sofferenza. Sempre noi siamo-con-altri e costruiamo il nostro spazio di vita dentro una rete di relazioni. Questo bisogno dell’incontro con l’altro indica che una qualità ontologica essenziale è quella della relazionalità. Siamo fatti di una sostanza intimamente relazionale, l’esistenza è un filo strettamente intessuto insieme a altri fili. Heidegger spiega la sostanza relazionale dell’essere affermando che non solo «non è mai dato un soggetto senza mondo», ma «non è mai dato, innanzitutto, un io isolato, senza gli altri»15. Che l’esserci sia sempre un con-esserci costituisce un dato fenomenologicamente evidente: noi da soli non siamo nulla; sempre necessitiamo degli altri. Questo dato viene, invece, scorrettamente interpretato da quelle filosofie che arrivano a teorizzare la qualità intersoggettiva dell’esistenza solo dopo aver posto un soggetto isolato e definito in sé, rispetto al quale gli altri compaiono sulla scena in un secondo 13

K. Oatley, Psicologia delle emozioni, Bologna: Il Mulino, 1997; [Best Laid Schemes. The Psychology of Emotions, Cambridge: Cambridge University Press, 1992]. 14 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p. 316. 15 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano: Longanesi, 1976, p. 151; [Sein und Zeit, Tübingen: Niemeyer, 1927].

Frammenti

di una fenomenologia della cura

7

momento. Non ci sono enti delimitati e chiusi in se stessi, e quindi «gli altri … non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche»16. Detto sinteticamente, «l’essere è in se stesso essenzialmente con-essere»17. L’ontologia relazionale ha modificato lo statuto di molte scienze umane. La psicologia si può dire abbia realizzato una svolta paradigmatica quando ha abbandonato una visione atomistica per sviluppare una concezione sociale, intersoggettiva, dell’essere umano; non si pensa più alla mente come a qualcosa che sta dentro i confini di un singolo individuo per poi entrare in contatto con altre menti altrettanto autonome, ma si parla della mente «come punto di incontro di un ampio raggio di influenze strutturanti»18. I nostri vissuti mentali emergerebbero da una mente sociale estesa di cui ci alimentiamo mentre contribuiamo a strutturarla. Anche la psicanalisi, che nella teoria freudiana assume come unità basilare la mente19, ha sviluppato un orientamento relazionale che mette in questione la nozione stessa di mente individuale. Fin dall’inizio il bambino è in interazione con gli altri; il suo venire al mondo è un venire accolto da altri e sono gli scambi con gli altri che strutturano la matrice dell’esperienza. La vita mentale nella quale il soggetto si riconosce e che struttura la sua identità può essere definita come il fenomeno emergente, o epifenomeno, dell’intrecciarsi degli scambi continui con gli altri. Noi siamo mancanti d’essere e proprio in quanto mancanti siamo aperti all’incontro con l’altro, sentiamo intimamente il bisogno di stare in relazione con chi, simile a noi, ha un ontologico bisogno dell’altro. Sarebbe questa qualità dell’umano a spiegare il fenomeno dell’intenso attaccamento di cui è capace il neonato nei confronti di chi si prende cura di lui20. Studi recenti sul comportamento hanno rilevato un’elevata competenza relazionale già dai primi giorni di vita, evidente nella quantità e nella complessità delle interazioni che il neonato stabilisce con gli altri. Evitando l’atteggiamento realista con cui si rende conto delle ricerche, si può dire che, a partire dall’orizzonte 16

M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 153. Ivi, p. 155. 18 R. Harré e G. Gillet, La mente discorsiva, Milano: Raffaello Cortina, 1996, p. 25; [The Discoursive Mind, Thousand Oaks, CA: Sage, 1994]. 19 S. A. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicanalisi. Per un modello integrato, Torino: Bollati Boringhieri, 1993, p. 18; [Relational concept in psychoanalysis. An interation, Cambridge – Mass.: Harvard University Press, 1988]. 20 J. Bowlby, Attaccamento e perdita, vol. I, L’attaccamento alla madre, Torino: Bollati Boringhieri, 1972; [Attachment and loss, vol. I, Attachment, London: Hogarth Press, 1969]. 17

Fenomenologia

8

della cura

concettuale che fa da sfondo alle ricerche osservazionali ispirate alla teoria relazionale, i neonati manifestano una forte tensione alla relazionalità21. Dire che siamo esseri mancanti d’essere e che in quanto tali siamo intimamente relazionali significa affermare che la persona non è un insieme di tratti reificati, non è una collezione di qualità definite che si porta appresso nell’incontro con gli altri, ma è un insieme di disposizioni che si modellano a secondo delle relazioni di cui fa esperienza22.

4. Relazionalità e dipendenza Una conseguenza ontologicamente rilevante della sostanza relazionale della condizione umana è che nulla dell’esistenza può essere pensato in modo isolato e atomistico, ma sempre in relazione agli altri. Tale statuto relazionale della condizione umana si traduce in fragilità e vulnerabilità. Siamo fragili perché ogni nostro progetto esistenziale, ogni nostra azione di cura di sé e di cura del mondo non ha nulla di certo nei suoi esiti, dal momento che accade dentro lo spazio intersoggettivo e pertanto si trova sottoposta all’intervento degli altri, intervento discorsivo o fattualmente operativo, ma in ogni caso con una valenza performativa. Nessuno gode di piena sovranità sulla sua esperienza; dal momento che essendo lo spazio esperienziale condiviso con altri, nel senso di co-costruito, è soggetto all’azione di altri, questa condivisione della sovranità sull’esperienza fa sì che ciascuno di noi si trovi in una condizione di vulnerabilità: l’altro può avere cura di noi, ma può anche minacciare il nostro spazio di vita. In questo senso l’esser-ci è costantemente messo a confronto con la «minacciosità o non minacciosità del mondo»23. La nostra fragilità e vulnerabilità, conseguente alla sostanza relazionale dell’esserci, produce una condizione di dipendenza dagli altri. Questa dipendenza, se risulta evidente in certe fasi o in certe situazioni della vita, è comunque tratto costante dell’esserci. 21

Secondo la teoria dell’attaccamento il neonato cerca il contatto non come tramite per qualcosa di altro ma per il contatto stesso; in altre parole, la persona intreccerebbe relazioni perché cerca la relazione (S. A. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, cit., pp. 24-25). Ma se così fosse allora ogni contatto verrebbe cercato e mantenuto, invece i neonati mostrano di cercare il contatto con certe persone ma anche evitare il contatto con altre, segno che non è la relazione in sé che cercano ma ciò che nutre il loro essere. Per questo cercano chi ha cura di loro, cioè chi provoca un piacere vitale, ed evitano chi mostra incuria facendo loro esperire disvalore e perdita. 22 Ivi, pp. 24-25. 23 M. Heidegge, Essere e tempo cit., p. 314.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

9

L’essere umano non sempre è nelle condizioni di avere cura di sé, per molto infatti del suo tempo dipende da altri e dunque dalle cure che altri hanno per lei/lui: i neonati, le persone che si trovano in una condizione di malattia, le persone con disabilità, gli anziani hanno necessità di ricevere cura dagli altri. Fineman ha definito le fasi della prima infanzia, della malattia e i momenti di estrema fragilità e vulnerabilità della vecchiaia come “dipendenze inevitabili”, in quanto biologicamente determinate24. È vero che la condizione dell’infanzia, della malattia, della disabilità e della vecchiaia, come quella dell’adolescenza e dell’adultità sono costruzioni culturali, tuttavia i limiti fisiologici sono oggettivi, e così lo stato di dipendenza. Sia in relazione alla sopravvivenza sia rispetto al pieno fiorire dell’umano, la dipendenza da altri è un dato incontrovertibile. Ma anche nei momenti generalmente caratterizzati da autonomia, come la fase dell’adultità, sempre c’è bisogno del lavoro di cura che altri hanno per noi. Una qualità della condizione umana è, infatti, quella di avere sempre necessità degli altri e ciò in conseguenza del fatto che siamo esseri intimamente relazionali. Il nostro essere è sempre un esser-ci-con-altri e questa relazionalità sussiste anche quando ci ritiriamo in solitudine, poiché sempre il nostro pensare è un pensare con altri e che si nutre del confronto con gli altri. Quando progettiamo il nostro essere, sempre ciò accade avendo nella mente gli altri, anche quando siamo impegnati a dare forma alla nostra vita più intima. La relazionalità si traduce in “incapacitazione”25, cioè in una condizione di non mai completa autonomia. La dipendenza non è dunque una condizione eccezionale ma strutturale, seppure secondo gradualità differenti, della vita umana. «La dipendenza è inevitabile nella storia di vita di ciascuna persona»26. L’essere umano è intrinsecamente dipendente e come tale bisognoso di cura. Il lavoro di cura viene per questo definito “dependency work”27 e la persona di cui si ha cura qualcuno che è “in the charge”, cioè a carico dell’altro28. Fare lavoro di cura in una relazione asimmetrica dove qualcuno 24

M. A. Fineman, The neutered mother, the sexual family and other twentieth century tragedies, New York: Routledge, 1995, pp. 161-164. 25 E. F. Kittay, Love’s labor, New York, Routledge, 1999, p. 31. 26 Ivi, p. 29. 27 Ivi, p. 30. 28 Ivi, p. 31. Per la precisione Eva Kittay (ivi, p. 38) esclude dalla definizione di “dependency work” i lavori di cura che hanno uno statuto professionale: insegnante, medico, infermiere, assistente sociale, avvocato, poiché garantiti dalla situazione formalmente riconosciuta in cui operano. Certo è differente il lavoro di cura di una madre da quello di una infermiera, ma sempre comunque si tratta di gestire una relazione in cui qualcuno si trova in una situazione più o meno dipendente dall’altro.

10

Fenomenologia

della cura

dipende dall’altro significa assumersi la responsabilità di cercare il ben-esserci di chi ci si prende cura. Se dunque si accetta che (a) siamo esseri relazionali e in quanto tali dipendenti gli uni dagli altri e (b) che la primaria necessità dell’essere umano è la cura, allora la pratica di cura non può essere solo per sé ma anche per altri. Una buona cura è un modo di essere ricettivo e responsivo verso la condizione d’essere dell’altro, che si attualizza nella forma dell’attenzione, della com-passione da intendersi come un sentire con l’altro, della presenza disponibile e sollecita a mettere l’altro – il bambino piccolo che ha bisogno di imparare i modi del suo essere più proprio, l’adolescente che sta esperendo il difficile di costruire il suo cammino nel mondo, l’adulto che si trova in difficoltà e che sente la necessità di un sostegno, il malato che sperimenta tutta la vulnerabilità della condizione umana, l’anziano che patisce una graduale perdita di autonomia – nelle condizioni di esperire una buona qualità della vita.

4. Il sentire che muove l’agire Qualificando la cura come un interesse per l’altro che si concretizza in azioni finalizzate a procurare il suo ben-esser-ci, una postura dell’esserci che si profila essenziale per agire con cura è il sentirsi responsabili per l’altro, cioè il sentire di «dovere fare qualcosa»29. Questa postura etica dell’esserci prende forma quando il soggetto è capace di una dislocazione dello sguardo verso l’altro, che segnala il suo considerare l’altro come ente di valore cui dedicare considerazione e riguardo. Quando la realtà dell’altro diventa qualcosa cui si sente di dovere la massima considerazione allora si crea la condizione etica per agire con cura. «Quando noi vediamo la realtà dell’altro come una possibilità per noi, dobbiamo agire per eliminare ciò che è intollerabile, per ridurre la sofferenza, per soddisfare un bisogno, per realizzare un sogno. Quando io mi trovo in questo tipo di relazione con l’altro, quando la realtà dell’altro diventa una reale possibilità per me, allora I care»30. Proprio perché qualità essenziale dell’aver cura è il sentirsi responsabili per l’altro, la cura sembrerebbe una pratica atopica nel nostro tempo considerato da molti essere caratterizzato da un forte individualismo. A 29

N. Noddings, Caring. A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley: University of California Press, 1984, p. 14. 30 Ibidem.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

11

dominare sarebbe la tendenza a preoccuparsi essenzialmente del proprio spazio vitale, considerando come indice di autenticazione dell’esistenza una condizione di libertà intesa come alleggerimento da ogni vincolo31. Ci sarebbe poca disponibilità alla responsabilità per gli altri e alla cura perché l’orientamento prevalente nella nostra società sarebbe fondamentalmente narcisistico. In luogo di quel sentimento morale che è l’attenzione per l’altro prevarrebbe l’amore di sé che è kantianamente il contrario dell’etica. Elena Pulcini descrive il soggetto postmoderno come «un individuo mosso da un impulso illimitato all’autorealizzazione, entropicamente chiuso nel circuito autoreferenziale dei propri desideri che esclude ogni alterità, indifferente alla sfera pubblica e al bene comune e incapace di progettualità»32. Secondo Charles Taylor33, l’individualismo – da molti considerato la più importante conquista della modernità – implica un riduttivismo etico evidente nel fatto che indurrebbe a concepire la progettualità esistenziale tutta concentrata sul sé rispetto a cui gli altri vengono a occupare il ruolo di mere comparse. La cultura individualistica porta a concepire il proprio sé indipendente dagli altri e quindi a non considerarsi come parte di una rete estesa di relazioni sociali e biologiche. Fra le perdite che l’individualismo si porta appresso Taylor vede il venir meno dei grandi ideali, delle passioni; ma, innanzitutto, l’ethos della centratura su di sé è visto comportare una svalutazione di tutti quei modi di essere che sono attenti alla relazione con l’altro, perché percepiti come minacciosi rispetto al progetto di autorealizzazione del sé34. L’individualismo che permea la visione della modernità ci ha abituati a concepire l’esistenza come un progetto individuale e solitario, che solo in certe situazioni (un’intensa amicizia, il legame di amore, un forte progetto politico) viene condiviso con altri. E questa condivisione non è vista come una condizione ontologica ‘ab initio’, ma sempre a posteriori, nel senso che non è percepita come un crescere insieme, intimamente legati l’uno all’altro in uno spazio vitale ecologico non divisibile in piccoli spazi singolari disgiunti. Il soggetto considerato «capace da un lato di perseguire i suoi interessi e dall’altro di controllare le sue passioni ai fini di una convivenza pacifica e della realizzazione dell’interesse comune, è ormai niente più che un mito residuale dell’ideologia liberale»; a dominare oggi sarebbe «una soggettività

31

P. Benner e J. Wrubel, The Primacy of Caring, Menlo Park-CA: Addison-Wesley Publishing Company, 1989, p. 2. 32 E. Pulcini, La cura del mondo, Torino: Bollati Boringhieri, 2009, p. 32. 33 C. Taylor, The ethics of authenticity, Cambridge, MA: Harvard University Press, 1991, p. 4. 34 Ibidem.

12

Fenomenologia

della cura

dai confini fluidi e incerti, ancorata all’immediatezza del presente e ai piaceri dell’effimero, vittima inconsapevole di un dilagante conformismo e caratterizzata da un rapporto parassitario con il mondo, ridotto a immensa fabbrica di merci; una soggettività … animata da una vocazione all’espansione illimitata dei propri desideri e delle proprie pretese che la rende cieca ai desideri e alle esigenze dell’altro da sé»35. Uno sguardo sulla fenomenicità relazionale del nostro tempo rivela una diffusa incapacità di sentire il legame ontologico con l’altro e di conseguenza di coltivare quella “passione per l’altro” che è la condizione per costruire mondi relazionali condivisi36. A dominare sarebbe uno spirito edonista e narcisista, che attualizza un’autoreferenzialità esistenziale entro la quale il soggetto si percepirebbe libero da vincoli. Molti dati confermano questa tesi, perché molti sono i fatti che attestano incuranza per l’altro, indifferenza, se non addirittura emarginazione e violenza, senza che questi fenomeni generino indignazione etica e politica. Nella vita quotidiana – al lavoro, per le strade, nelle istituzioni, nei servizi – spesso sperimentiamo quell’entropia dell’amore di sé e di indifferenza per l’altro di cui parla Pulcini, un’indifferenza che segnala il venire meno «del legame con l’altro, che diviene una presenza opaca e fantasmatica»37. Però a fronte degli argomenti tesi a evidenziare tutto il grigio del nostro tempo due sono le considerazioni da fare. Innanzitutto l’individualismo esasperato e il narcisismo non sono una caratteristica solo della contemporaneità, come se oggi fosse un tempo degenerato che non ha precedenti; affrontare la realtà da questa prospettiva significa assumere uno schema interpretativo distorto. Plutarco (I sec. d.C.) scriveva che ai suoi tempi la causa principale di quella che definisco una cattiva cultura del vivere era «il cieco amore di se stessi che rende desiderosi di primeggiare in ogni circostanza, di essere vincenti e di voler acquisire di tutto senza sazietà. (Perché) non pretendono soltanto di essere ricchi, eloquenti, forti, capaci di stare nei simposi, simpatici, amici dei re e dei governatori, ma si disperano se non hanno anche cani, cavalli, quaglie e galli da primo premio». Inoltre è da considerare che il negativo, che c’era nei tempi passati e che c’è oggi, è sempre mescolato al positivo: così è da sempre. È sempre pericoloso vedere la realtà attraverso un solo tipo di lente. Se questo modo monocromatico di guardare alle cose fosse adatto a rivelare lo spirito dei tempi in generale allora la cultura della cura non troverebbe nessun campo in cui crescere, parlare di cura sarebbe come gettare i semi di grano su un terreno asfaltato. 35 36 37

E. Pulcini, La cura del mondo cit., pp. 31-32. E. Pulcini, Il potere di unire, Torino: Bollati Boringhieri, 2003, pp. XII-XIII. E. Pulcini, La cura del mondo cit., p. 37.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

13

È necessario vedere se c’è altro, e l’altro c’è perché senza cura nessuna cultura sopravvivrebbe. In ogni ambito discorsivo, ma primariamente in ambito pedagogico è necessario andare a cercare testimonianza di quella che si può definire una “buona cura”, perché è da lì, dal positivo che c’è, che si può costruire una cultura della cura. È un dovere della politica dell’esistenza cercare zone verdi anche nella città cementificata e asfaltata. E il verde lo si trova un po’ dovunque, magari nascosto come i licheni abbarbicati sui muretti o certi fiori che sanno crescere lungo i muri di cinta. Così è il positivo della cura. Per cercare testimonianze di buona cura si può prendere in esame quella regione del mondo della vita che in modo particolare, e in genere giustamente, è soggetta a forti critiche per la scarsa attenzione che viene riservata all’essere dell’altro, cioè l’ambito sanitario. Sono frequenti qui le denunce di incuria, di trascuratezza, o di offesa all’essere dell’altro. Ma c’è anche altro: ci sono infermieri capaci di caring, che sanno prestare attenzione ai bisogni dell’altro considerato nella sua unicità, sanno ascoltare, si rendono disponibili, dedicano tempo non solo per praticare la terapia nel modo migliore ma anche per dare al malato parole e gesti che sanno comunicare considerazione e riguardo. Anche il mondo dei servizi per la prima infanzia attesta una buona pratica di cura, perché troviamo educatrici capaci di intensa attenzione sensibile ai bambini di cui sono responsabili e impegnate a costruire un ambiente di vita che sia non solo accogliente, ma anche facilitante rispetto ai bisogni cognitivi ed emotivi dei piccoli ospiti.

5. Sentirsi responsabili Proprio perché il sentirsi responsabili per l’altro è postura essenziale dell’agire con cura, si rende necessario prendere in esame questo modo etico di stare nel mondo per capire – e questa è una questione pedagogicamente importante – da dove prende forma. Lévinas ci introduce verso una concettualizzazione che scombina il modo ordinario di intendere la responsabilità, cioè quello che la concepisce come un modo di essere che segue una riflessione e una decisione. Infatti, per Lévinas la responsabilità per altri «è un debito contratto prima di ogni libertà, prima di ogni coscienza, prima di ogni presente»38, è un dovere cui ciascuno si trova a essere obbligato senza averlo deciso, è come se «si fosse 38

E. Lévinas, Altrimenti che essere, Milano: Jaca Book, 1991, p. 16; [Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, The Hague: Martinus Nijhoff Publishers, 1978].

14

Fenomenologia

della cura

furtivamente introdotto nella mia coscienza, come di contrabbando, un certo comando»39; ma – aggiunge Lévinas – poiché è estraneo e contraddittorio rispetto al concetto stesso di coscienza che in essa sia operante qualcosa che non sia stato oggetto di una consapevole riflessione, allora il fatto che il soggetto agisca sottoposto a un obbligo non scelto «attesta chiaramente che non siamo più nell’ordine della coscienza. (…) Come se il primo movimento della responsabilità non potesse consistere né nell’attendere né nell’accogliere l’ordine (questa sarebbe ancora quasi attività), ma nell’obbedire a esso prima che si formuli; o come se si formulasse prima di ogni presente possibile, in un passato che si mostra nel presente dell’obbedienza senza essere ricordato»40. Difficile per chi è cresciuto dentro una cultura che molto ha investito nella forza della ragione accettare che a muovere il nostro esserci sia qualcosa che viene prima della coscienza e che per quanto attiene alla postura etica della responsabilità ad agire sia un comando che si situa fuori dal campo di azione della coscienza. Fatico ad accettare questa visione, forse perché implica il riconoscere un modo della debolezza della condizione umana che il razionalismo ci aveva aiutato a mettere tra parentesi. Tuttavia non posso non ascoltarla ed è tentando di stare dentro questo modo di pensare al reale che il pensiero va alle riflessioni di Maria Zambrano, la quale ci invita a considerare che la realtà non è solo quella che la ragione riesce a captare e analizzare, ma c’è dell’altro «che rimane indefinibile e impercettibile, ... che circonda la coscienza, facendola risaltare come isola di luce in mezzo alle tenebre»41. Il razionalismo ci ha abituati a credere che «la ragione penetra tutto»42 e che di conseguenza il nostro agire possa essere nutrito sempre da atti razionali, da deliberazioni meditatamente definite. Nell’orizzonte perimetrato dal razionalismo ci siamo costruiti una visione distorta della condizione umana, governata da una coscienza la cui “chiarezza lunare”43 sarebbe in grado di penetrare in ogni fessura del reale. Chiusi dentro questo sguardo razionalizzante si fatica a vedere che nel reale c’è dell’invisibile «che non si vede e che non si fa vedere»44 e che però capita agisca sul nostro esserci in una maniera viva e intima. Quello che vediamo e di cui riusciamo ad avere 39

Ivi, p. 17. Ibidem. 41 M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma: Edizioni Lavoro, 2001, p. 173; [El hombre y lo divino, México: FCE, 1973 – Madrid: Siruela, 1992]. 42 Ivi, p. 173. 43 Ivi, p. 174. 44 Ivi, p. 175. 40

Frammenti

di una fenomenologia della cura

15

consapevolezza non è tutto quello che c’è, non esaurisce tutta la realtà; c’è dell’altro, e questo altro segue modi non razionalizzati di entrare in contatto col nostro essere. Forse è vero che non siamo soltanto soggetti capaci di ragione e circondati da un mondo che solo a volerlo può rientrare nell’orizzonte del pensiero analitico. Forse è vero che nella lucida vita della coscienza non ci sta tutto, ci può essere dell’altro che rimane estraneo a ogni tentativo di razionalizzazione. Non posso non pensare qui a una risposta che, nel contesto di una ricerca sulle pratiche nelle differenti professioni di cura, mi veniva data quando chiedevo ragione di certe forme coraggiose e intense dell’aver cura per l’altro: si fa perché si deve, mi dicevano, a volte guardandomi con uno sguardo incuriosito dalla mia domanda, come se di essa non si capisse la ragione stessa di porla. Questa stessa risposta ho poi trovato è essere stata registrata anche da Patricia Benner e Judith Wrubel nel campo della cura infermieristica. Queste due ricercatrici spiegano che quando a una persona che ha messo in atto azioni di buona cura, le quali sembrano richiedere decisioni che viste dall’esterno risultano difficili da prendere e implicare complesse valutazioni della situazione, si chiede di spiegare il suo agire, generalmente risponde: «Ho fatto quello che si doveva fare»45. È probabile che in queste persone abbia agito quella forma della responsabilità per l’altro di cui parla Lévinas, quella responsabilità che si assume quando ci si scopre obbligati verso l’altro prima di qualsiasi argomentazione e al di là di qualsiasi decisione che venga dal nostro intimo; «come se il primo movimento della responsabilità non potesse consistere né nell’attendere né nell’accogliere l’ordine (questa sarebbe ancora una quasi attività), ma nell’obbedire ad esso prima che si formuli»46. Eppure, forse condizionata dalla formazione pedagogica, mi risulta difficile e anche non giustificato lasciare che qualcosa di così importante per la vita – il senso di responsabilità per l’altro che muove il nostro esserci all’aver cura – rimanga completamente estraneo all’atto coscienziale della ragione. Forse c’è dell’altro. La stessa Zambrano riconosce che pur trovandoci spesso nella condizione di essere soggetti passivi di fronte a una realtà che deborda rispetto a ogni sforzo razionalizzante, tuttavia questo non significa che non ci sia un soggetto, un soggetto che conosce e che decide47. Anche la passività, affinché sia tale, implica che ci sia un soggetto che ha deciso per questa posizione esperienziale. Analogamente si può pensare che la disposizione ad assumersi responsabilità verso l’altro, anche se si configura come risposta 45 46 47

P. Benner e J. Wrubel, The Primacy of Caring cit., p. 4. E. Lévinas, Altrimenti che essere cit., 1991, p. 16. M. Zambrano, L’uomo e il divino cit., p. 180.

Fenomenologia

16

della cura

all’appello del volto dell’altro, si attualizza concretamente nella misura in cui il soggetto assume una presa di decisione conseguente alla valutazione della necessità etica di posizionarsi in un determinato modo. Solo se il decidersi per la responsabilità e il sapere tradurre questo sentirsi in un’azione efficace è un atto meditato secondo ragione si può ipotizzare che questa postura dell’essere possa essere coltivata. Nel formulare questa tesi ci aiuta la teoria socratica, secondo la quale l’agire secondo virtù richiede una certa forma di educazione che sviluppa il pensiero. In questo specifico caso si può ipotizzare che l’emergere di un senso di responsabilità per l’altro, che si traduce in un agire capace di introdurre modificazioni nel reale, stia in una relazione essenziale con un certo modo di pensare l’altro. La tesi che qui s’intende sostenere è che l’entrare in contatto con l’altro, sentire la qualità del suo vissuto e da qui decidere il modo giusto di trattarlo, dipende dal modo di concettualizzare la condizione dell’altro. Non è indifferente pensare al paziente come a un corpo malato che per essere curato non richiede niente di più che la somministrazione di una certa terapia o pensare il paziente come una persona la cui condizione di sofferenza riguarda non solo il corpo ma anche l’anima. Come spiega Edith Stein48, «la percezione dei processi vitali fa parte della mia vita, come il mio pensare e la mia gioia … sono presente in tutte le parti del corpo, ovunque io senta qualcosa». Chi sa avere giusta cura dell’altro pensa che il malato che ha di fronte è una persona. Non è una sostanza immateriale che nulla sente in modo sensibile, neppure è solo un corpo, ma è un corpo con la sua anima, un corpo che “respira la sua essenza in modo spirituale»49. Questo ha da tenere nel pensiero chiunque si occupi della salute delle persone: il malato sente nell’anima la sua condizione corporea. La vita spirituale, in quanto affondata nella struttura materiale, si nutre dell’energia del corpo, e proprio in quanto si nutre del corpo di questo patisce e assorbe la sua sofferenza. Ciascuno di noi è un «tutto, composto di corpo vivente e anima»50. Non ci sono due sostanze distinte, il corpo e l’anima, che semplicemente starebbero l’una accanto all’altra, ma c’è il corpo animato di vita spirituale e l’anima incarnata in un corpo. Guardare il paziente attraverso questa lente visiva produce l’effetto di sentire che il dolore che avverti afferrare il suo corpo penetra anche nell’anima: è questo tipo di sentire che non può lasciare indifferenti e ci fa comprendere l’ineludibilità dell’assumersi quello che è nella nostra responsabilità di fare per l’altro. 48 49 50

E. Stein, Essere finito e essere eterno cit., p. 389. Ivi, p. 386. Ivi, p. 389.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

17

Elena Pulcini, parla di “potenza della debolezza”, perché nella debolezza dell’altro c’è un appello inconfutabile alla responsabilità51. Riconoscere la vulnerabilità dell’altro sarebbe alla radice di quel sentimento emotivo capace di fornire «un fondamento affettivo e una motivazione all’agire responsabile»52. «Non c’è responsabilità se non laddove di essere resi responsabili da qualcuno che, a causa della sua fragilità, confida nel nostro aiuto e ci chiede di farci carico del suo destino»53. Considerare la percezione di fragilità come origine di un sentimento morale da cui scaturirebbe la responsabilità è argomento che si ritrova anche in Paul Ricoeur, secondo il quale «ciò che è perituro per debolezza naturale e ciò che è minacciato dai colpi della violenza storica» avrebbe la capacità di risvegliare il nostro sentimento verso qualcosa che «avvertiamo come deplorevole, insostenibile, inammissibile, ingiustificabile»54. Zambrano afferma che la pietà è «sentire l’altro come tale, senza schematizzarlo in un’astrazione»55. Sostenere, come qui sto facendo, che l’agire con cura presume un sentire l’altro e che questo sentire l’altro, per non ridursi a vuota sentimentaleria e invece muovere all’azione responsabile, deve poggiare su un certo modo di pensare l’altro, non significa cadere in una forma di razionalismo, cioè dentro l’astrazione del concetto che cancella le differenze individuali e quindi la possibilità stessa di sentire l’altro. Perché il tipo di pensiero che si suppone essere alla base dell’agire responsabile non è un pensiero razionalizzante, che della realtà trattiene solo ciò che si adatta alla struttura del concetto, ma è come uno schema, una visione, una lente che rende possibile un certo vedere: rende possibile considerare l’altro non solo senza che la sua alterità singolare vada persa, ma in un modo tale da attivare la capacità di co-sentire la sua condizione e il suo vissuto. Se pensare e sentire sono la stessa cosa, allora per sentire l’altro c’è necessità di un certo modo di pensare l’altro. Se la cultura occidentale si è costruita nel tempo un antidoto contro il sentire, è dovuto anche al fatto di ragionare per dualismi che stabiliscono pericolose scissure tra quelle che poi si profilano come distinte sfere dell’essere. Avere istituito una radicale scissura tra pensare e sentire ha portato a coltivare un pensare asettico e a relegare il sentire nella sfera dell’irrazionale. Invece il pensare vitale non è disgiunto dal sentire, e il sentire che muove il reale è sempre intimamente connesso a pensieri.

51 52 53 54 55

E. Pulcini, La cura del mondo cit., p. 228. Ivi, p. 229. Ibidem. Ivi, p. 229. M. Zambrano, L’uomo e il divino cit., p. 19.

18

Fenomenologia

della cura

È su questi argomenti che si può formulare la tesi secondo la quale l’educazione alla cura deve poggiare su una forma di alfabetizzazione ontologica, qui intesa come riflessione sulla qualità della condizione umana, per ragionare sul suo essere ontologicamente debole e sul fatto che questa qualità dell’essere ci riguarda tutti: l’altro che ci chiama perché ha bisogno di cura e noi che rispondiamo con tutta la nostra fragilità e vulnerabilità del nostro stare con gli altri. Questa alfabetizzazione ontologica però, pur essenziale, non basta: il vedere chiaro non è sufficiente a smuovere l’esserci. Ci vuole anche passione, passione per il bene, essere appassionati per la vita buona. Sapere e sentire che il nostro ben-esser-ci non è disgiunto dall’altro e che la condizione dell’altro ci riguarda e che quindi il suo benessere riguarda anche noi. Forse sta qua il nodo di una possibilità di educare alla cura.

6. La tensione donativa Per molte persone il lavoro di cura costituisce l’architrave di senso dell’esperienza; «è ciò che dà alla vita il punto di riferimento e procura significato»56; nel dedicare tempo ed energie alla cura per gli altri si verifica, infatti, un guadagno come conseguenza del sapere che quanto si fa procura beneficio all’altro. Per questa ragione il lavoro di cura è essenziale non solo per chi riceve cura, ma anche per chi si assume l’onere della cura57. Fare lavoro di cura fa stare là dove ne va del necessario. Sapere di fare quanto va fatto, e va fatto perché l’altro ha bisogno per il suo esser-ci, restituisce un guadagno di senso che si colloca oltre qualsiasi forma di scambio. Per questo si può dire che nel lavoro di cura c’è intrinseco un elemento di gratuità. La cura che si prende a cuore l’altro esce dal perimetro del calcolo, del misurabile, del negoziabile. Si ha cura per l’altro perché di questo agire si sente la necessità. Qui sta la qualità donativa della cura. Parlare di gratuità, sembra essere cosa di persone da poco, di “fessacchiotti” che non hanno capito come va il mondo. Invece il trovare spazio per l’agire gratuito è alla base del fare comunità. Nel cristianesimo il dono, il dare per migliorare la qualità della vita dell’altro, è un’azione basilare. Si pensi alle opere di misericordia: dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, vestire chi non ha abiti, accogliere chi non ha casa. Prendersi cura di chi si trova nelle condizioni 56

R. West, The Right to Care, pp. 88-114 in E. Kittay e E. K. Feder (a cura di), The Subject of Care, Boston: Rowman & Littlefield Publishers, 2002, p. 89. 57 Ibidem.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

19

di non potere fare nulla da sé è l’insegnamento della parabola del buon samaritano. L’azione del samaritano è disinteressata: offre il suo tempo e ciò di cui dispone per alleviare la sofferenza dell’altro senza attendere nulla per sé; il guadagno sta nel sapere di aver fatto ciò che è necessario fare. E proprio il samaritano mostra come l’agire gratuito non è perdita di sé, semplice emorragia delle proprie energie, perché il decidere di fermarsi ad aiutare l’altro introduce solo una pausa nel proprio viaggio e non interrompe i suoi progetti personali, infatti il samaritano dopo essersi preso cura dell’altro riprende il suo viaggio. L’agire donativo occupa momenti dell’esistenza, non è mai totalizzante; se si pretendesse tale sarebbe insostenibile. Si può dire essere costitutivo della cura l’elemento di gratuità perché il prendersi cura dell’altro per il suo benessere implica il produrre un qualunque tipo di beneficio, e il beneficium è il dare qualcosa per l’altro senza cercare qualcosa per sé. L’esperienza mostra che il dono è lungi dal costituire un fenomeno marginale58. Ma diversamente da quanto ritiene Caillé il dono non è qualcosa che sta dentro una circolazione di beni e servizi qual è la rete di socialità59, perché così inteso non è più dono, non sta nella gratuità. La gratuità rompe ogni sistema circolare e sta dentro una relazione unilineare. Il dono non cerca nulla, non cerca il consolidamento del legame sociale; se è certo che è estraneo al valore d’uso e al valore di scambio, altrettanto non sta dentro il valore di legame. Il dono è qualcosa che qualcuno fa sentendosi chiamato a essere responsivo rispetto a una necessità che si vede nell’altro in vista del suo ben-essere. Il valore del dono sta proprio in questa completa dislocazione sull’altro che si sottrae a ogni logica di scambio. Una comunità per funzionare ha necessità di regole che prevedono la capacità di costruire e conservare legami sociali; in mancanza di regole prevarrebbero gli interessi individuali. Ma per quanto necessarie, le norme, le regole non bastano a creare una comunità capace di generare una buona qualità della vita. Il bene richiede la capacità di agire al di là delle regole che pre-stabiliscono il modo di essere; è necessaria la rottura etica provocata dal gesto del dono60. 58

A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. 9; [Le tiers paradigme. Antropologie philosophique du don, Paris: La Découvier, 1998]. 59 Ibidem. 60 Chi sostiene la teoria del dono come terzo paradigma ragiona dentro una visione della vita sociale che non vede la primarietà della cura. Gli esponenti dell’antropologia del dono pensano e parlano del dono rimanendo all’interno del pensiero accademico. Qui invece il dono viene pensato a partire da una fenomenologia dell’agire di cura. È dunque un pensiero del concreto. Se Caillé nel commentare il paradigma del dono di Mauss è preoccupato di

Fenomenologia

20

della cura

Gli esponenti del pensiero maussiano, pur valorizzando il dono, mantengono questo gesto dentro un paradigma dello scambio: si dona, si riceve, si dona di nuovo e questo scambio genererebbe alleanze. Ma il dono nella sua autenticità va letto fuori da ogni paradigma, anche dal terzo paradigma maussiano, perché rompe le logiche dello scambio, il suo valore sta nel generare senso. Chi dona non si aspetta nulla in cambio, si aspetta che il dono produca un po’ di bene, anche solo una briciola ma un po’ di bene per l’altro. Metafora dell’atto del donare sono i re magi che fanno un lungo viaggio per portare i doni a un bambino in una capanna senza attendersi nulla in cambio se non il sapere di avere fatto ciò che andava fatto. Nella cura il dono non rientra nella fenomenicità del simbolismo, ma nella fenomenicità della concretezza, un gesto che risponde a una necessità vitale.

7. Avere riguardo Lo stato di vulnerabilità di chi ha bisogno di cura richiede al caregiver la consapevolezza della necessità di agire secondo la virtù del rispetto. Chi ha cura si trova in una condizione di potere rispetto a chi non è autonomo. Proprio perché chi è dipendente è anche massimamente vulnerabile, l’asimmetria di potere è endemica nella relazione di cura. L’assumersi la responsabilità di avere cura per l’altro e sentirsi in grado di agire in senso donativo senza avere bisogno di alcuna restituzione può, se non si vigila, trasformare il potere-fare in una forma di violenza sull’altro. Responsabilità e gratuità, pur qualificandosi come dimensioni essenziali dell’eticità propria della pratica di cura, non bastano a garantire una buona cura. Si può dire che responsabilità e generosità strutturano una buona cura se sono intimamente connesse alla capacità di avere rispetto per l’altro. Eva Kittay scrive: stabilire gerarchie di importanza fra sociologi ed etnologi (A. Caillé, Il terzo paradigma cit., pp. 20-21), da parte mia parlando di cura c’è come unica intenzione quella di comprendere la qualità dell’esperienza e cercare, se possibile, di evidenziare quegli atti che sono del più alto valore esistenziale. La distanza radicale tra le due prospettive è rilevabile anche nel fatto che centrale nella formulazione della teoria del dono è l’idea che «la società debba essere concepita come una realtà di ordine simbolico, una totalità legata da simboli» (ivi, p. 26), tenuta insieme da idee, credenze, mentre la teoria della cura mette al centro gli atti; certo ogni atto è indistinguibile dal pensiero e dal sentimento che lo accompagnano ma è innanzitutto un gesto concreto, che agisce concretamente nell’esperienza. Se per Mauss simboli e doni sono identici (ibidem), e come tale il dono è inscrivibile nella logica circolare del darericevere-ricambiare, per me il dono è un gesto concreto che si compie tangibilmente e trova il suo senso compiuto del fare qualcosa.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

21

«la delicatezza della relazione di dipendenza richiede sensibilità al momento di intervenire»61. Se non c’è rispetto non ci può essere una relazione etica. A fornire strumenti concettuali utili a interpretare il principio del rispetto è Lévinas, il quale afferma che si deve lasciare l’altro nella sua trascendenza. L’altro è altro da me e la sua alterità va tenuta nella massima considerazione. Ciò richiede di saper coltivare una relazione in cui il caregiver si rapporta all’altro come a una realtà infinitamente distante dalla sua, “senza però che questa distanza distrugga questa relazione e senza che questa relazione distrugga questa distanza”62. Una relazione di cura è quella in cui il caregiver innanzitutto cerca di comprendere i pensieri e le emozioni, i timori e i desideri dell’altro, e poi da questa alterità si lascia interrogare. Chi nel fare lavoro di cura incontra più persone contemporaneamente (l’educatrice al nido, l’insegnante in classe, l’infermiera in reparto) rischia di perdere il tempo e l’intenzione di uno sguardo singolare sull’altro, assimilando l’altro dentro un pensiero generale. Per agire con competenza è necessario disporre di un sapere (pedagogico, assistenziale, medico, ecc.), ma ogni sapere è tale se ha una valenza quanto più possibile generale; il sapere generale consente un certo livello di efficienza tuttavia se non entra in dialogo con uno sguardo attento all’unicità dell’altro finisce per rendere invisibile la singolarità dell’altro. Più si tende ad affidarsi al sapere generale senza dedicare tempo ed energia a cercare di cogliere l’essenza individuale dell’altro e su questa modulare il proprio agire, più si rischia una forma di violenza sottrattiva, cioè un togliere all’altro quello che è suo proprio, con la conseguenza che viene meno la possibilità stessa di una relazione, perché c’è relazione solo là dove c’è incontro di due singolarità, e poiché la cura si dà in una relazione viene allora meno anche la stessa possibilità di un’azione di cura. La prima forma di rispetto si realizza dunque in quel pensare al singolare che è un tenere la relazione dentro l’incontro “faccia a faccia”63. Il pensare al singolare si nutre dell’esercizio di un’attenzione sensibile, che implica da parte del caregiver la disciplina cognitiva del tenere la mente sotto la prensione delle idee anticipanti così da essere massimamente recettiva alle qualità singolari dell’altro. Per interpretare la declinazione del rispetto come accoglienza dell’altro nella sua singolarità si dovrebbe riuscire a pensare l’altro a partire dall’idea 61

E. F. Kittay, Love’s labor cit., p. 33. E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano: Jaca Book, 2004, p. 39; [Totalité et infini, The Hague: Martinus Nijhoff ’s Boekhandel, 1971]. 63 Ivi, p. 37. 62

Fenomenologia

22

della cura

di infinito, perché se l’infinito è qualcosa che resiste ad ogni forma di incapsulamento cognitivo allora pensare l’altro in questa prospettiva significa porre le condizioni per salvaguardarlo dal potere dei nostri discorsi, un potere che diventa violento quando fa scomparire l’alterità dell’altro dentro forme anticipate di pensiero. Pensare l’altro come infinito significa concepirlo e tenerlo trascendente, salvaguardandolo dall’essere afferrato dentro i propri dispositivi epistemici64. Così formulata la relazione con l’altro sembra non potere avere luogo all’interno di una relazione di cura, invece l’imperativo del tenere l’altro trascendente, estraneo, non è un imperativo a una non relazione, ma a una relazione impregnata di riguardo per l’altro, perché chiede che si disattivino tutti gli imperialismi del proprio linguaggio per cercare un incontro con l’altro libero da significati predati, così da riuscire ad accogliere pienamente il senso della sua esperienza. Se si assume come fondato il presupposto secondo il quale alla base di ogni nostro modo di stare fra gli altri nel mondo c’è una precisa concettualizzazione che enuncia le qualità essenziali dell’ente cui si dirige la nostra intenzionalità, allora è essenziale individuare quali concettualizzazioni dell’altro sono essenziali per fondare il modo di essere del rispetto. Certamente alla radice della capacità di avere rispetto c’è l’idea dell’altro come ente intrinsecamente di valore e come tale inviolabile. Sapere il valore dell’altro sarebbe tutt’uno con il sentire l’imperativo della “inviolabilità dell’altro”65 che obbliga al massimo rispetto. Dal far dipendere la disposizione ad agire secondo il principio etico del rispetto dalla percezione di valore di un ente discende la necessità per il caregiver di concepire l’altro come portatore di un valore intrinseco che nessuna situazione ed evento può compromettere. Proprio perché dell’altro si sente il valore, il riguardo per l’altro diventa una necessità evidente già prima di qualsiasi argomentazione logica.

8. Quale politica? Cosa è necessario per coltivare una cultura della cura? Molte delle teoriche che si sono occupate di cura ritengono essere necessaria una politica capace di mettere al centro la cura e per questo la teoria politica dovrebbe rivedere radicalmente i presupposti su cui si fonda. Dal momento che ogni società si basa su azioni di cura, è necessario mettere a punto una azione politica che sappia tener conto della bisognosità di cura che riguarda ogni persona, 64 65

Ivi, p. 199. Ivi, p. 200.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

23

promuovendo l’offerta delle migliori azioni di cura possibile, e che allo stesso tempo garantisca ai caregiver la possibilità di praticare al meglio la propria professione senza incorrere in forme di svalorizzazione e di sfruttamento, come spesso invece si verifica66. La realtà con cui fare i conti è quella che vede le varie teorie politiche contemplare solo un soggetto autonomo e libero, dimenticando che ciascuno di noi per buona parte della vita è dipendente da altri. Il liberalismo, che ormai pervade ogni nicchia culturale, non contempla alcuna attenzione alla cultura della cura; protegge e incoraggia l’autonomia e la libera iniziativa. Per i presupposti su cui si fonda risulta incapace di prendere in considerazione tutto quanto è connesso con situazioni di dipendenza, fragilità e vulnerabilità67. Penso si possa essere d’accordo con West quando afferma che fino a quando la politica non metterà al centro la presa in carico dei bisogni dei bambini, dei malati, degli anziani e, di tutti quanti si trovano in uno stato di dipendenza, con il progetto di offrire a tutti una migliore qualità della vita, non sarà una politica autenticamente al servizio dell’umanità delle persone. Ma come preparare questa svolta paradigmatica? Chi ha preso in esame la questione sopra indicata sono soprattutto filosofe, gran parte delle quali esponenti del pensiero femminista. Le proposte elaborate sono molto differenti. Fra queste risulta interessante considerare le prospettive elaborate da Eva Kittay e da Martha Nussbaum. Queste filosofe esaminano criticamente le teorie correnti, considerandole inadeguate poiché si occupano solo di soggetti indipendenti e autonomi. Nussbaum, prendendo in esame le teorie della giustizia, cioè Kant ma in particolare Rawls, rileva il fatto che il secondo dichiara di essere consapevole che la sua teoria della giustizia considera solo certe persone e non altre, ma anziché tematizzare questa mancanza, propone di continuare a teorizzare secondo il parametro della giustizia posponendo la considerazione delle persone che hanno necessità di cura ad un momento successivo68. Nussbaum teorizza la necessità di elaborare, in luogo delle teorie politiche fondate sui diritti e sulla giustizia, una teoria fondata sulle capacità69, che assuma come base concettuale la visione aristotelica dell’essere umano come soggetto che ha bisogno di una pluralità di esperienze per poter avere una buona qualità della vita70. Eva 66 M. Nussbaum, The future of feminist liberalism, pp. 186-214, in E. F. Kittay e E. K. Feder, The Subject of Care. Feminist Perspectives on Dependancy, Boston: Rowman & Littlefield Publishers, 2002, p.188. 67 R. West, The Right to Care cit., p. 94. 68 Rawls cit. in M. Nussbaum, The future of feminist liberalism cit., p. 190. 69 M. Nussbaum, The future of feminist liberalism cit., p. 192. 70 Ivi, p. 194.

Fenomenologia

24

della cura

Kittay, invece, ritiene che la teoria politica, così come è stata concepita fino ad ora, debba essere sottoposta ad una radicale rivoluzione che metta al centro il fatto ineludibile dell’essere dipendente che riguarda ogni persona, e questo cambiamento comporterebbe il superamento radicale di ogni forma di liberalismo71. Queste proposte, come altre qui non considerate, risultano ben argomentate, ma il loro limite è di essere pensieri accademici, che ipotizzano cambiamenti nei paradigmi di pensiero senza mai ipotizzare azioni dirette sul reale. Quello che prima di tutto occorre è di cominciare a valorizzare i discorsi sulla cura e impregnare i contesti educativi di esperienze sia verbali sia dirette che mettano i giovani nella condizione di riflettere sul valore della cura. Ritengo non sensato concepire cambiamenti paradigmatici che prevedono il superamento dell’etica della giustizia in prospettiva dell’etica della cura. Sempre sarà necessaria una teoria della giustizia, che però dovrebbe nutrirsi di una diffusa cultura della cura. Se la cura può essere definita come una pratica relazionale che implica una interazione diretta fra chi ha cura e chi riceve cura72, allora l’etica della cura non può governare l’intero sistema di relazioni che strutturano la vita di una società. Ma si rende necessaria anche l’etica della giustizia. Non quindi di ipotesi escludenti, ma di ipotesi dialogiche abbiamo necessità. Nel Fedro, infatti, Zeus è definito colui che mette ordine e che ha cura del mondo.

Riferimenti bibliografici Arendt H., 1989, Vita activa, Milano: Bompiani; [The Human Condition, Chicago (Ill.): The University of Chicago, 1958]. Benner P. e Wrubel J., 1989, The Primacy of Caring, Menlo Park-CA: Addison-Wesley Publishing Company. Bowlby J., 1972, Attaccamento e perdita, vol I, L’attaccamento alla madre, Torino: Bollati Boringhieri (Attachment and loss, vol I, Attachment, London: Hogarth Press, 1969). Bubeck G. D., 2002, Justice and the Labor of Care, pp. 160-185, in Kittay E. F. e Feder E. K. (a cura di), The Subject of Care. Feminist Perspectives on Dependency, Rowman & Littlefield Publishers, Boston. Caillé A., 1998, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Torino: Bollati Boringhieri (Le tiers paradigme. Anthropologie philosophique du don, Paris: La Découverte, 1998).

71 72

E. F. Kittay, Love’s labor cit. G. D. Bubeck, Justice and the Labor of Care cit.

Frammenti

di una fenomenologia della cura

25

Fineman M. A., 1995, The neutered mother, the sexual family and other twentieth century tragedies, New York: Routledge. Harré R. e Gillet G. 1996, La mente discorsiva, Milano: Raffaello Cortina; [The Discursive Mind, Thousand Oaks, CA: Sage, 1994). Heidegger M., 1976, Essere e tempo, Milano: Longanesi; [Sein und Zeit, Tübingen: Niemeyer, 1927]. Heidegger M., 1999, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova: Il Melangolo; [Prolegomeni zur Geschichte des Zeitbegriffs, Frankfurt a. M.: Vittorio Klostermann Verlag, 1975]. Kittay E. F., 1999, Love’s labor, New York: Routledge. Kittay E. F. e Feder E. K. (a cura di) (2002), The Subject of Care, Boston: Rowman & Littlefield Publishers. Lévinas E., 1991, Altrimenti che essere, Milano: Jaca Book [Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, The Hague: Martinus Nijhoff, 1978]. Lévinas E., 2004, Totalità e infinito, Milano: Jaca Book; [Totalità et infini, The Hague: Martinus Niyhoff ’s, 1971]. Mitchell S. A., 1993, Gli orientamenti relazionali in psicanalisi. Per un modello integrato, Torino: Bollati Boringhieri; [Relational concepts in psychoanalysis. An integration, Cambridge – Mass.: Harvard University Press, 1988]. Mortari L., 2006, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori. Noddings N., 1984, Caring. A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley: University of California Press. Noddings N., 2002, Starting at Home, Berkeley and Los Angeles: University of California Press. Nussbaum M., 2002, The future of feminist liberalism, pp. 186-214, in Kittay E. F. e Feder E. K. (a cura di), The Subject of Care. Feminist Perspectives on Dependency, Boston, Rowman & Littlefield Publishers. Nussbaum M., 2004, L’intelligenza delle emozioni, Bologna: Il Mulino; [Upheavals of Thought: The intelligence of emotions, Cambridge: Cambridge University Press, 2001]. Oatley K., 1997, Psicologia delle emozioni, Bologna: Il Mulino; [Best Laid Schemes. The Psychology of Emotions, Cambridge: Cambridge University Press, 1992]. Platone, Platone: tutti gli scritti; [trad. it. Milano: Bompiani, 2000]. Plutarco, La serenità d’animo; [trad. it. Milano: Archinto-Le Vele, 2004]. Pulcini E., 2003, Il potere di unire, Torino: Bollati Boringhieri. Pulcini E., 2009, La cura del mondo, Torino: Bollati Boringhieri. Stein E., 1998, Il problema dell’empatia, Roma: Edizioni Studium; [Zum Problem der Einfühlung, Halle: Buchdruckerei des Waisenhauses, 1917]. Stein E., 1999, Essere finito e essere eterno, Roma: Città Nuova; [Endliches und ewiges Sein – Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, Geleen, NL: Archivium Carmelitanum Edith Stein, 1962].

26

Fenomenologia

della cura

Taylor C., 1991, The ethics of authenticity, Cambridge, MA: Harvard University Press. West R., 2002, The Right to Care, pp. 88-114, in Kittay E. F. and Feder E. K., The Subject of Care, Boston: Rowman & Littlefield Publishers. Winnicott D. W., 1987, I bambini e le loro madri, Milano: Raffaello Cortina; [Babies and Their mothers, London: Free Association Group, 1987]. Winnicott D. W., 1990, Dal luogo delle origini, Milano: Raffaello Cortina; [Homes is where we start from, London: Penguin Books, 1986). Zambrano M., 2001, L’uomo e il divino, Roma: Edizioni Lavoro; [El hombre y lo divino, México: FCE, 1973 – Madrid: Siruela, 1992].

Capitolo secondo Teoria e pratica della cura in educazione1 Nel Noddings

L’interesse per la teoria della cura è emerso negli ultimi due decenni e in molti ambiti appaiono articoli su questo concetto e pratica. È ora riconosciuto che l’etica della cura è estesa a livello sia societario sia personale. Inizierò questo capitolo con un’introduzione sull’etica della cura e sull’aver cura. Lo scopo di tale introduzione è quello di fare un po’ di chiarezza su fraintendimenti popolari diffusi nelle professioni e riassumere alcune applicazioni della teoria della cura rispetto alle politiche sociali. Infine descriverò il nucleo centrale del prendersi cura nell’insegnamento.

Teoria della cura La teoria della cura si è sviluppata lungo i passati tre decenni soprattutto in psicologia e filosofia2. In psicologia la teoria dello sviluppo morale di Gilligan basato sulla relazione e risposta ha messo in dubbio la forma dello sviluppo cognitivo enunciata da Lawrence Kohlberg3. Al contrario dell’enfasi di Kohlberg sul ragionamento morale culminante nell’impegno per una giustizia universale, la versione della teoria della cura di Gilligan ha descritto un percorso alternativo dello sviluppo morale basato sull’incrementare la capacità del soggetto morale nel rispondere con cura ai bisogni degli altri. Il primo lavoro sul prendersi cura ha generato una letteratura voluminosa non 1 Parte di questo capitolo appare in “Caring as Relation and Virtue in Teaching,” in R.L. Walker and P.J. Ivanhoe (a cura di), Working Virtue: Virtue Ethics and Contemporary Moral Problems. Oxford: Oxford University Press, 2007, pp. 41-60; e in Nucci L. e D. Narvaes (a cura di), Handbook of Moral and Character Education, Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum, 2007. 2 In psicologia cfr. C. Gilligan, In a Different Voice, Cambridge: Harvard University Press, 1982; in filosofia cfr. N. Noddings, Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley: University of California Press, 1984; 2nd ed. 2003. 3 L. Kohlberg, The Philosophy of Moral Development, vol. 1, San Francisco: Harper and Row, 1981.

28

Fenomenologia

della cura

solo in psicologia, ma anche nel sociale, in religione, politica, infermieristica, giurisprudenza, business internazionale ed educazione4. Molti dei lavori ispirati a Gilligan sono concentrati sul genere, perché la modalità relazionale dello sviluppo morale è stata scoperta in interviste con donne. È diventato oggetto di alcuni dibattiti se Gilligan originariamente intendesse presentare l’etica della cura come un’“etica della donna”, ma è chiaro nel suo ultimo lavoro che la voce della cura potesse essere sia maschile sia femminile. Le radici filosofiche della teoria della cura possono essere trovate in molti riferimenti. Nel mio primo lavoro sulla cura ho scritto intensamente sulla filosofia relazionale di Martin Buber5. Successivamente, meglio informata sulla teoria femminista, mi sono riferita ai lavori di Simone Weil e Iris Murdoch sull’attenzione6. Sia Weil sia Murdoch enfatizzano l’importanza dell’ascoltare gli altri e rispondere in modi che aiutino a stabilire relazioni di cura. Queste due caratteristiche della consapevolezza della cura – l’attenzione e la risposta – figurano preminentemente nello sviluppo della teoria e dell’insegnamento della cura. Prima di inoltrarsi nella discussione vorrei ricordare ai lettori che ci sono molte definizioni interessanti di “cura” e “avere cura” che divergono da quelle della “teoria della cura”. Spesso ad esempio identifichiamo cura con “preoccupazione”. In questo senso una persona può prendersi cura delle difficoltà di un altro (che è in parte essere preoccupati di), eppure non riuscire ad agire sulla base di tale preoccupazione. “Certamente, mi prendo cura”, qualcuno potrebbe dire, “ma non posso essere coinvolto ora”. Il termine cura è inoltre usato come sinonimo d’inquietudine e ansia. Una persona, che può essere carica di dolori e prove, può essere ricca di cure. Ancora, cura spesso esprime cautela o tenere conto di: muovere con cura, attraversare la strada con cura, 4 Cfr. M. Brabeck (a cura di), Practicing Feminist Ethics in Psychology, Washington, D.C.: American Psychological Association, 2000; N. Noddings, Starting at Home: Caring and Social Policy, Berkeley: University of California Press, 2002; R. Groenhout, Connected Lives: Human Nature and an Ethics of Care, Lanham, MD: Rowman and Littlefield, 2004; C. Keller, From a Broken Web, Boston: Beacon Press, 1986; J. Tronto, Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, New York: Routledge, 1993; H. Kuhse, Caring, Nurses, Women and Ethics, Oxford: Blackwell, 1997; G. Clement, Care, Autonomy, and Justice, Boulder, CO: Westview Press, 1996; S.L. Hart, Capitalism at the Crossroads: The Unlimited Business Opportunities in Solving the World’s Most Difficult Problems, Upper Saddle River, NJ: Pearson Education, 2005. 5 Cfr. M. Buber, I and Thou, trad. di W. Kaufmann, New York: Charles Scribner’s Sons, 1958/1970; cfr. anche Buber, Between Man and Man, New York: Macmillan, 1965. 6 Cfr. N. Noddings, The Challenge to Care in Schools, New York: Teachers College Press, 1992, 2005; also S. Weil, Simone Weil Reader, Mt Kisco, NY: G.A. Panichas, Moyer Bell Limited, 1977; I. Murdoch, The Sovereignty of Good, London: Routledge and Kegan Paul, 1970.

Teoria

e pratica della cura in educazione

29

relazionarsi con il superiore con cura. E cura può descrivere un dovere di cui una persona si fa carico, come la cura della condizione della madre. Tutti questi usi sono legittimi, ma non sono quelli su cui costruire una teoria della cura. Nella teoria della cura noi siamo interessati alla formazione di relazioni di cura e una relazione richiede due parti – non solo un agente singolo cura o si prende cura. Dallo studio sulla natura delle relazioni di cura ci possiamo chiedere che cosa caratterizzi la coscienza e il comportamento di chi ha cura e della persona che la riceve. Esaminando vari casi di relazioni di cura, troviamo certamente aspetti di tutto questo. Chi si prende cura è, innanzitutto, attento; ossia ascolta e adotta un’attitudine aperta e ricettiva verso il destinatario della cura. Nelle parole di Simone Weil, lei implicitamente domanda a colui che è preso in cura: “Che cosa ti capita?”7. Tale interrogativo serve a fondare la vita morale. In Caring ho usato il termine “attenzione focalizzata” in riferimento a questa attitudine di ricettività non selettiva. Ma può diventare attenzione, se noi comprendiamo che l’attenzione iniziale non è diretta da interessi personali o valori preconcetti. Tali interessi e valori possono sicuramente entrare eventualmente nel quadro, ma inizialmente l’attenzione di chi cura dovrebbe essere a-giudicante, aperta, genuinamente focalizzata in “ciò-chec’è” nel messaggio dell’altro. In secondo luogo chi si prende cura fa esperienza di uno spostamento: l’energia movente – almeno temporaneamente – che scorre dai bisogni espressi da chi è preso in cura. Tutti noi abbiamo fatto esperienza di tale movimento di energia in seguito alla richiesta di cura. Qualche volta lo spostamento è resistenza, perché chi ha cura non solo non vuole fare ciò che gli è chiesto (una persona può essere stanca, impegnata, annoiata) e così la relazione di cura è a rischio. Talvolta tuttavia questo spostamento è correttamente respinto, perché il bisogno espresso non è etico o sembra andare contro i migliori interessi di chi è preso cura. In questi casi la relazione è ancora a rischio e chi cura ha il compito di persuadere chi è preso in cura che i suoi bisogni espressi sono in un certo senso sbagliati. In questi casi chi si prende cura deve cercare ancora di mantenere la relazione di cura, sebbene non possa rispondere positivamente al bisogno espresso. Infine, chi si prende cura deve agire. Usando le informazioni offerte da chi è preso in cura e da qualsiasi risorsa disponibile, la persona agisce per soddisfare o modificare il bisogno espresso. È a questo punto (o anche prima) che molte etiche normative cercano di dare esplicite istruzioni su ciò che l’agente morale dovrebbe fare. L’etica della cura non può dirci esattamente 7

S. Weil, Simone Weil Reader cit., p. 51.

30

Fenomenologia

della cura

che cosa fare. Qualsiasi cosa compia, chi ha cura deve vivere la relazione di cura senza arrecare danno. Se devo dire che non posso aiutare con un progetto proposto da chi è preso in cura (perché probabilmente ferirebbe altri verso i quali ho cura), devo rimanere in dialogo con chi è preso in cura nello sforzo di mantenere la nostra relazione di cura. Può essere un duro lavoro, e in tutto questo, la relazione può essere messa a rischio. Molte relazioni di cura sono esiti di ciò che ho chiamato cura “naturale”. In questo contesto naturale significa solo che la risposta di cura è generata da amore o inclinazione. Non è richiesto alcuno sforzo etico, sebbene nelle azioni che seguono possa essere domandato molto impegno. Quando per qualsiasi ragione la cura naturale fallisce, dobbiamo fare appello a una risposta di cura; possiamo farlo, riflettendo sulle nostre vite di persone che curano. Come potrei rispondere se ho avuto cura, se sono stata il meglio di me stessa come persona che si è presa cura? Questo è prendersi cura dal punto di vista etico. È importante, ma è subordinato al prendersi cura naturale e una delle sue principali funzioni è ripristinare il prendersi cura naturale ogni qual volta sia necessario. Il secondo membro della relazione (chi è preso in cura) contribuisce a sua volta alla relazione. Chi è preso in cura risponde agli sforzi di chi si prende cura in alcuni modi, che segnalano che l’atto del curare è stato ricevuto. Un infante smette di piangere e sorride, un paziente che soffre è riportato alla distensione e al riposo, uno studente persegue un progetto con maggiore energia e sicurezza. Non è necessario che la risposta sia di esplicita gratitudine. Spesso, date l’età o la situazione di chi è preso in cura, non può essere attesa nessuna espressione di gratitudine e quest’ultima non è necessaria. Tuttavia una risposta di riconoscimento è essenziale alla relazione di cura. Completa la relazione. Inoltre serve come ulteriore informazione per l’ascolto e l’osservazione da parte di chi dà cura, che è aiutato a decidere cosa compiere successivamente. Alcuni critici dell’etica della cura contestano ai teorici della cura di ritenere che chi ha cura degli infanti ottenga maggior credito morale in base al loro sorridere e chi ha cura degli studenti in base al perseguire i loro interessi. Questi critici fraintendono il punto basilare delle etiche della cura. Non si tratta principalmente di agenti morali e di loro virtù, certamente nemmeno di credito morale. Si tratta della vita morale e del suo fondamento nelle relazioni umane. Chi è preso in cura, in ogni sfera dell’attività umana, contribuisce significativamente alla relazione di cura. Genitori, dottori, infermieri, insegnanti, operatori sociali e relatori dipendono dai loro bambini, pazienti, studenti, utenti e pubblico per tutta l’importante risposta che completa la relazione.

Teoria

e pratica della cura in educazione

31

Un ulteriore punto da prendere in considerazione è che l’espressione “si prende cura” ed “è preso in cura” non sono designazioni permanenti. Si riferiscono a posizioni assunte negli incontri. Io posso essere la persona che dà cura in un incontro e la persona che è presa in cura in un altro. Effettivamente in molte relazioni adulte quotidianamente noi ci attendiamo reciprocità, in una varietà di posizioni. È solo in relazioni inevitabilmente ineguali come genitore-infante, infermiera-paziente e insegnante-studente che una parte agisce esclusivamente come persona che offre cura. Ma supponiamo ora che, nonostante gli sforzi coscienti di chi dà cura, chi è preso in cura fallisse nel rispondere o rispondesse negativamente: “Non prenderti proprio cura!”. Allora non ci sarebbe nessuna relazione di cura. Qui ancora i critici contestano che l’impegnativo lavoro di chi dà cura potrebbe dare credito morale per gli sforzi fatti. I teorici della cura non pongono obiezione nel concedere credito per l’impegno, ma ancora una volta anche tale credito non costituisce il punto della questione. Quest’ultimo risiede nel scoprire il motivo per cui una relazione di cura non viene stabilita o mantenuta. L’errore spetterebbe a chi dà cura, a chi riceve cura o alla situazione in cui chi ha cura e chi è preso in cura si trovano. Nelle scuole, ad esempio, l’errore spesso risiede nella struttura delle classi, nelle regole e nelle valutazioni. Spesso insegnanti e studenti non trascorrono abbastanza tempo insieme per sviluppare relazioni di cura e fiducia. La situazione è frequentemente critica quando la cura viene meno in quelle professioni che vengono chiamate di cura. Questo chiama a cambiamenti nel contesto. Prima di vedere le connessioni tra l’aver cura e le professioni di cura, tuttavia, possiamo menzionare una distinzione ulteriore – che sarà discussa maggiormente nel successivo capitolo. Una ragione per cui i critici fanno emergere la questione del credito morale per chi ha cura è che essi confondono le etiche della cura con le etiche della virtù. Perciò daremo un veloce approfondimento alle virtù della cura8.

Prendersi cura secondo la virtù L’etica della cura e l’etica della virtù hanno molto in comune. Entrambe rigettano un’enfasi sui principi morali e fanno affidamento sulla bontà mo8 Cfr. N. Noddings, “Caring as Relation and Virtue in Teaching,” in P.J. Ivanhoe and R. Walker (a cura di), Working Virtue: Virtue Ethics and Contemporary Moral Problems, Oxford: Oxford University Press, 2007, pp. 41-60. Per una maggiore comprensione dell’etica della virtù si segnala M. Slote, Morals from Motives, Oxford: Oxford University Press, 2001.

32

Fenomenologia

della cura

rale dei soggetti. L’etica della virtù punta al carattere e ai motivi dell’agente morale. L’etica della cura si affida a un ideale etico in costruzione in chi ha cura. È questo ideale che noi impieghiamo quando è necessario fare appello all’etica della cura. Qui, a maggior ragione, la motivazione è basilare. Ci si appella all’ideale etico (di cura) al fine di rivolgersi più naturalmente verso chi è preso in cura. Chi dà cura dal punto di vista delle virtù (come contrasto con chi dà cura dal punto di vista relazionale) può decidere che cosa sia meglio per chi è preso in cura senza ascoltarlo. Tali persone non hanno a cuore i migliori interessi nei confronti di coloro che sono presi in cura, ma probabilmente agiscono sui bisogni che inferiscono dai soggetti riceventi la cura e non su quanto questi ultimi esprimono. Molti di noi avranno incontrato parenti o insegnanti che agiscono in questo modo. Sono le stesse persone che ci hanno detto: “Un giorno mi ringrazierai per questo!” quando ci hanno forzato a fare cose che avremmo preferito evitare. E qualche volta sono stati nel giusto. È importante essere consapevoli della distinzione tra cura relazionale e cura secondo le virtù. Chi si prende cura secondo le virtù può essere limitato o meno dai bisogni o volontà espresse da chi è preso in cura. Chi si prende cura dal punto di vista relazionale deve considerare tali bisogni o volontà nel decidere cosa fare. L’uso del prendersi cura come virtù è familiare a chiunque. Si dice “È un padre che si prende cura”, “È un’insegnante che ha cura”, “Le infermiere hanno maggiore cura rispetto ai dottori” e così via in modo simile. Quando si parla così, usualmente s’intende dire che la persona accreditata di cura mostra un’attitudine di calore, sollecitudine o cosciente attenzione. Affermiamo ciò nell’etica della cura, ma a sottolineare la nostra valutazione è l’osservazione che chi si prende cura è una persona che regolarmente e affidabilmente stabilisce o mantiene relazioni di cura. Perciò nel decidere se attribuire la virtù della cura a un soggetto, l’etica della cura ci consiglia di guardare le relazioni, non solo i motivi e le intenzioni dell’agente. L’aver cura, descritto come virtù, non è semplicemente tale. Basandosi sulla relazione, la questione ricade su ciò che costituisce la cura e trova risposta nell’attenzione, nella dislocazione motivazionale e nella risposta. Ma l’attenzione suggerisce abilità nell’ascoltare, enfatizzare o simpatizzare, è mossa dalla situazione difficile o stato d’animo dell’altro. Inoltre chi si prende cura deve fare qualcosa in risposta e questa necessità suggerisce una disposizione di altre virtù: competenza nell’arena dei bisogni, flessibilità (i bisogni differiscono), coltivazione di personali qualità piacevoli che rendono accettabile la risposta, pazienza (la prima risposta potrebbe non andare a segno), apertura mentale (i bisogni espressi potrebbero differire dai propri)

Teoria

e pratica della cura in educazione

33

e una capacità per la riflessione (è una mia risposta diretta a un bisogno espresso o a un bisogno desunto dall’esperienza personale o professionale?). Approfondendo la competenza come virtù collegata all’aver cura, ci si può interrogare se una persona deve possedere competenza in rapporto all’aver cura dei bisogni. La competenza figura significativamente nella vita professionale e sarà discussa più approfonditamente nel paragrafo sull’insegnare. Ma una persona deve essere competente se le viene attribuito il prendersi cura? A insistere su ciò vi sarebbe una moltitudine di esempi considerevoli e una messa in discussione della fenomenologia basilare del prendersi cura già spiegato. Molti genitori, ad esempio, amano i loro figli e vogliono il meglio per loro, ma mancano di competenza genitoriale; essi semplicemente non sanno come crescere al meglio i loro figli negli attuali contesti culturali. Immigrati, gruppi minoritari e persone che sono profondamente povere spesso mostrano stili genitoriali che possono non essere efficaci in un contesto liberal democratico. Ma sicuramente non potremmo accusare questi genitori di non avere cura. Spesso i ragazzi di tali genitori riconoscono la cura che hanno ricevuto e perciò le relazioni di cura che hanno stabilito. Allora sarebbe meglio dire che impegnarsi con competenza rispetto alle necessità è la caratteristica virtù di chi ha cura. Quando l’aver cura come virtù è basato sulla relazione di cura, è complesso e connota molto più che un’attitudine: implica sia motivazioni sia conseguenze (le ultime descritte in termini di risposte da parte di chi è preso in cura e di effetti sulla relazione), contrasta decisamente con alcuni usi quotidiani del termine e suscita sforzi per essere operazionalizzato negli studi scientifici. L’aver cura, così com’è usato nella teoria della cura, non è semplicemente un comportamento delicato e certamente non può essere identificato con permissivismo nel familiarizzare e insegnare. In medicina l’aver cura implica una disposizione considerata al capezzale, ma non c’è sinonimo di tale comportamento. Negli ultimi anni i ricercatori hanno creato strumenti per misurare l’aver cura: si tratta di un errore a meno che il ricercatore non sia meticoloso nell’indagare le manifestazioni di ciascun familiare in modo approfondito e con strumenti appositi. Uno studio, cercando di identificare “i padri che hanno cura”, ha elencato indicatori come “allenatori della squadra Little League del figlio”. Infatti un padre che allena la squadra del figlio potrebbe essere un padre che ha cura. Ma può non esserlo. Un’adeguata valutazione domanda come egli realizza tale pratica di cura. Come svolge il suo ruolo da allenatore? Aiuta a intessere relazioni di cura tra giocatori oppure invita a una cattiva competizione? Stabilisce le condizioni per le quali le relazioni di cura possono essere piacevolmente sostenute o incoraggia una rivalità

34

Fenomenologia

della cura

non salutare? Possiamo studiare l’aver cura, ma non possiamo farlo con una mera checklist. I filosofi dell’etica delle virtù e i teorici della cura concordano in questo ed entrambi affrontano il compito di descrivere l’aver cura abbastanza approfonditamente per evitare fraintendimenti. Riflettendo sul problema appena discusso, probabilmente possiamo fare un generale richiamo sull’importanza delle virtù: raramente sono semplici e, se lo sono, appaiono in una complessa configurazione di altre virtù così che siamo costretti a studiarle dividendole e usando i contesti e le storie per deciderne la priorità. Per questa ragione i filosofi etici spesso fanno uso della biografia e della narrazione. Si prende una storia per completare un resoconto di virtù9. Si prende una storia di cui si è co-autori per completare un resoconto sull’aver cura. Prima di passare alla trattazione sull’insegnamento, conviene segnalare che spesso coloro che regolarmente danno vita a relazioni di cura sono persone felici10. Come è stato notato precedentemente, quando si risponde supportando l’altro, si contribuisce al benessere sia della persona che viene presa in cura sia della relazione. Quindi, da quando siamo parte della relazione, noi ne beneficiamo11. La connessione tra felicità e aver cura è bi-direzionale. L’aver cura spesso porta felicità, ma la felicità spesso ci rende persone capaci di cura con più efficacia. Genitori e professionisti dell’aver cura fanno bene a dare attenzione alla loro felicità, perché essa diventa parte di ciò che viene trasmesso a colui di cui ci si prende cura e protegge coloro che offrono cura dal burnout. Inoltre riconoscere la connessione tra felicità e cura mette in evidenza il bisogno di lavorare in modo continuo per stabilire e mantenere un ambiente in cui possano fiorire relazioni di cura. Quando le relazioni di cura fioriscono, offrire cura non è un dovere sgradevole e sacrificante, ma piuttosto, un modo di vivere che arricchisce entrambi, chi dà cura e chi la riceve.

9 Cfr. per esempio A. Cunningham, The Heart of the Matter, Berkeley: University of California Press, 2001; inoltre M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge: Cambridge University Press, 1986. Cfr. anche i resoconti in questo volume. 10 Cfr. N. Noddings, Happiness and Education, Cambridge: Cambridge University Press, 2003. 11 Il presente discorso tratta della quotidianità, di relazioni faccia a faccia, non di situazioni estreme. Ci sono molte eccezioni alla domanda di giovamenti reciproci – atti che possono essere descritti come puramente altruistici e anche sacrificali. Le loro analisi non sono prese in considerazione in questo scritto.

Teoria

e pratica della cura in educazione

35

L’aver cura e le professioni del caring Il cosiddetto aver cura professionale – infermieri, assistenti sociali, insegnanti – è spesso concepito come semi-professionale perché essi condividono alcuni comportamenti dei professionisti ma mancano particolarmente di altri, come ad esempio l’autonomia e il controllo sul riconoscimento al professionista12. Non c’è da sorprendersi che queste occupazioni, assieme alla cura per l’infanzia, non abbiano ricevuto un pieno riconoscimento del proprio status professionale. Esse sono esercitate soprattutto da donne ed è un pensiero comune che ciò che è svolto da donne non richieda né studi né un buon rispetto. Veramente nel diciannovesimo secolo, aver bisogno di un’infermiera significa aver bisogno di una donna che desidera compiere tale lavoro13. Esiste un’ovvia denigrazione delle donne nella storia delle professioni dell’aver cura. Tuttavia succede anche che il punto di vista dei teorici della cura sia univoco rispetto ai criteri accettati per i professionisti. La persona che si prende cura (caregiver) e l’aver cura (caring) non sono sinonimi. Si può essere formalmente, per occupazione, un caregiver e non agire secondo gli atteggiamenti di cura descritti dai teorici. Tutti noi abbiamo conosciuto infermiere, assistenti sociali e insegnanti che erano freddi, antipatici e a volte perfidi. Il caso classico in letteratura è quello dell’infermiera Ratchett in Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey. Per quanto riguarda l’insegnamento possiamo nominare Thomas Gradgrind (di Dickens) che proibisce qualsiasi uso dell’immaginazione e Jean Brodie (di Muriel Sparks) che pensa soprattutto a sé e cerca di far diventare discepoli i suoi studenti. Tuttavia le difficoltà teoretiche sono più profonde. I sociologi hanno identificato come caratteristica delle professioni (di medicina, legge e ministero) la dedizione al servizio; si pensa spesso che le professioni siano intrinsecamente altruistiche14. Ma l’aver cura associato con tale atteggiamento altruistico è generalmente una sorta di virtù. Il professionista sa che il paziente, utente o parrocchiano hanno bisogno e può o non può ascoltare i bisogni espressi da chi richiede cura. Spesso chi riceve cura diventa un mero caso, un insieme di problemi da risolvere. Fino a poco tempo fa, ad esempio, i medici ricevevano il consiglio di rimanere distaccati, non legandosi

12

Cfr. A. Etzioni (a cura di), The Semi-Professions and their Organization: Teachers, Nurses, and Social Workers, New York: Free Press, 1969. 13 Cfr. S. Reverby, Ordered to Care, Cambridge: Cambridge University Press, 1987. 14 Cfr. M.S. Larson, The Rise of Professionalism, Berkeley: University of California Press, 1977.

36

Fenomenologia

della cura

affettivamente a ciò che i loro pazienti stavano vivendo. Questa attitudine ha iniziato a cambiare, in parte grazie a infermiere illuminate, ma non significa che sia completamente scomparsa. Sia nell’insegnare sia nella pratica infermieristica il miglioramento è molto richiesto ponendo una certa distanza tra insegnante e studenti o tra infermiera e pazienti. La carriera deriverebbe dall’allontanarsi nel lavoro quotidiano rispetto a studenti e pazienti. Più una persona lavora in modo vicino con studenti o pazienti, più cala nella gerarchia professionale. Per molti anni si è pensato che la vicinanza-assenza di donne nell’amministrazione in ambito educativo potesse essere ascritta in gran parte alla mancanza di ambizione professionale nelle donne stesse. Oggi molte persone danno la colpa di tale assenza alla discriminazione di genere. Ma succede anche che molte donne vogliano rimanere in diretto contatto con gli studenti. Molte donne iniziano a insegnare per promuovere una differenza nelle vite degli individui e custodire la possibilità di intessere relazioni di cura. Tale attitudine dovrebbe essere resa uguale alla mancanza di ambizione professionale? La domanda che si leva è: come possiamo riconoscere insegnanti competenti e che hanno cura? Dovremmo creare una gerarchia professionale che permetta agli insegnanti di avanzare e allo stesso tempo rimanere in contatto diretto con gli studenti? Tale ipotesi è stata proposta alcuni anni fa dall’Holmes Group, ma la questione non è stata risolta15. Come ci si muove nel dibattito sull’aver cura e insegnare, si può vedere che molto di ciò che compiamo come educatori dipende dal clima morale in cui noi lavoriamo. Come il clima scolastico diventa più professionale, nel senso sociologico del termine, può diventare veramente più difficile stabilire un clima di cura. Forse sono gli insegnanti di scuola primaria a compiere il migliore lavoro di cura nei confronti degli studenti. A seconda della necessità parlano il linguaggio dei bambini e dedicano una buona parte della giornata a contatto diretto con i loro allievi. Gli insegnanti degli studenti con più anni spesso non hanno il tempo richiesto per stabilire relazioni di cura e il desiderio di un riconoscimento come professionisti può portarli ad adottare un’istanza più distaccata. Si tende a pensare agli insegnanti di scuola primaria come persone affettuose e materne e agli insegnanti di scuola superiore come figure maggiormente distaccate e professionali. Perciò vi sono più uomini nell’educazione secondaria piuttosto che nell’educazione primaria. La loro presenza nell’educazione secondaria porta anche un’aurea di professionalità e forse riduce l’enfasi sulla cura – confusa con il caregiving e ritenuta essere “lavoro da donne”. 15

Cfr. Holmes Group, Tomorrow’s Teachers, East Lansing, MI: Author, 1986.

Teoria

e pratica della cura in educazione

37

Tale attitudine illustra la confusione attorno al significato del termine caring. Il caring non necessariamente implica il caregiving: è una modalità di vivere nel mondo. Infatti possiamo essere attenti e disposti ad aiutare qualsiasi persona umana incontriamo. Se assumiamo l’incarico di caregiving, possiamo prenderci cura, ma – come abbiamo visto – ciò non è tutto. Tuttavia se noi ci prendiamo cura, non siamo necessariamente in un ruolo di caregiving. Aver cura è un’aspettativa morale in qualsiasi incontro e le relazioni di cura costituiscono il fondamento di una vita morale in ogni contesto. Molte volte l’aver cura come descritto nell’etica della cura diventa una sfida maggiore per ragazzi con un’età maggiore e per adulti competenti. Solitamente i comportamenti associati con il caregiving rispetto a giovani e adulti bisognosi o sofferenti non sono appropriati. Dobbiamo ascoltare, essere spinti ad agire in accordo con ciò che sentiamo e monitorare gli effetti dei nostri tentativi di cura attraverso l’osservazione degli effetti su coloro che ricevono cura. Dobbiamo riconoscere la crescente indipendenza di questi con chi interagisce con loro come persona che si occupa di loro (carer). A parte il ridotto contatto associato con la professionalità, ci sarebbe un leggero conflitto tra aver cura e professionalità. È la definizione di professionale che deve cambiare. Quando gli insegnanti – generalmente uomini – dicono: “Sono un professionista, non un baby sitter”, mostrano un’ignoranza su ciò che significa cura. Aver cura non significa (ma non esclude) abbracciare, dare un buffetto affettuoso, stringere e asciugare lacrime. Né significa decidere da soli sulla base dei propri valori e virtù dell’aver cura ciò che è meglio per chi è preso in cura. Chiarita tale confusione, possiamo esplorare maggiormente il significato di un insegnante che si prende cura.

L’aver cura nell’insegnare In questa parte si cercherà di esplorare l’aver cura nell’insegnamento. In quanto persone che offrono cura, gli insegnanti sono responsabili sia dell’aver cura diretto “persona-a-persona” che contribuisce alla crescita degli studenti individuali sia dello stabilire le condizioni per le quali l’aver cura può fiorire.

Motivazione Parte della responsabilità degli insegnanti è scegliere la teoria della motivazione che li guida nel prendere decisioni pedagogiche. Ci sono due teorie generali sulla motivazione: la prima teoria enfatizza i bisogni e le volontà

38

Fenomenologia

della cura

interni16; la seconda teoria, talvolta chiamata “la carota e il bastone”, enfatizza le richieste esterne, i richiami e le punizioni. Nel management o nell’insegnamento, i propositori della seconda teoria chiedono: come possiamo motivare le persone a fare ciò che vogliamo che compiano? Secondo tale teoria agli insegnanti preme “motivare” gli studenti a lavorare diligentemente al compito che diversamente essi potrebbero respingere. La teoria della motivazione si può accordare con la descrizione dell’aver cura secondo le virtù. Secondo tale descrizione, A diagnostica la condizione di B e decide, dalle sue personali strutture valutative, che cosa può fare per B. Per molti di questi insegnanti la vita è una lotta costante per portare gli studenti a fare cose che essi preferirebbero non fare. I sostenitori della prima teoria inizierebbero chiedendosi: dobbiamo motivarci? Riconoscendo che tutti gli organismi viventi sono motivati, si chiedono: come posso direzionare tale motivazione esistenziale? Tale teoria è compatibile con l’aver cura relazionale. Richiede agli insegnanti di identificare la motivazione degli studenti (da ascoltare) e dirigere i loro interessi ed energie a progetti fruttuosi. La differenza può sembrare impercettibile per i nuovi insegnanti. Dopo tutto, qualsiasi teoria della motivazione sia accettata, gli insegnanti devono insegnare uno specifico programma. Ma gli insegnanti che lavorano secondo la prima teoria probabilmente coltivano un ruolo più ampio per un programma interattivo piuttosto che un programma pre-confezionato; ossia molto di ciò che viene appreso in classe può derivare da obiettivi costruiti cooperativamente, non attraverso obiettivi standardizzati e pre-formulati. Secondo la prima teoria gli insegnanti di lettura permettono agli studenti di leggere lungo linee di loro interesse. Non tutti in classe leggerebbero lo stesso materiale. A ogni livello tali insegnanti provvederanno una vasta esposizione di materiali e argomenti dai quali gli allievi potranno scegliere. Nei casi in cui l’acquisizione di particolari abilità è necessaria e magari noiosa, gli insegnanti potranno spiegare come le abilità si leghino agli obiettivi presenti degli studenti o come l’acquisizione di capacità possa facilitare il successivo lavoro. Tale lavoro (costruzione di abilità) non può mai dominare ciò che è stato fatto in classe. Secondo la prima teoria gli insegnanti ascoltano i propri allievi e, quando il lavoro prescritto diventa oneroso, essi possono ritornare ai motivi e interessi propri degli studenti per ricaricare le loro energie. È un serio lavoro professionale. Gli insegnanti che offrono cura non sono permissivi; ossia non lasciano fare agli studenti ciò che questi ultimi vogliono. 16

Cfr. J. Dewey, Human Nature and Conduct, New York: Modern Library, 1930; cfr. pure A. Maslow, Motivation and Personality, New York: Harper and Row, 1970.

Teoria

e pratica della cura in educazione

39

Riconoscono la verità di un’affermazione di Dewey: Platone una volta ha definito schiavo una persona che esegue i propositi di un altro e una persona pure schiava è colei che è assoggettata ai suoi propri ciechi desideri17. Inoltre gli insegnanti che hanno cura rifiutano un sistema in cui gli obiettivi di apprendimento sono completamente costruiti precedentemente e gli studenti eseguono meramente i propositi di un altro. Ma altresì rifiutano il tipo di permissivismo che inizia ogni giorno con la domanda: che cosa vorreste fare oggi? Il processo di costruzione degli obiettivi in modo cooperativo è una negoziazione continua e intelligente. Ci sono dilemmi e incertezze nell’insegnare in questo modo. Spesso gli studenti sono così abituati alla modalità “della carota e del bastone” che confondono il desiderio dell’insegnante di lavorare in modo cooperativo con il permissivismo (un invito a fare il meno possibile). Perciò ha senso fornire incentivi (perché gli studenti ne hanno bisogno, non perché l’insegnante si sia convertito alla seconda teoria). Una volta ho avuto uno studente che mi ha detto esplicitamente: “Ho bisogno di essere spronato”. Con riluttanza ho risposto che l’avrei fatto e l’ho fatto. Tuttavia gli ho ricordato spesso il tipo di vita che avrebbe dovuto aspettarsi se avesse continuato a fare affidamento sugli altri per essere spronato. Come persone che offrono cura (persone che regolarmente stabiliscono relazioni di cura), affrontiamo molte situazioni in cui troviamo difficile giudicare se stiamo perseguendo maggiormente il nostro personale programma o i migliori interessi di chi è preso in cura. In una situazione potremmo tornare indietro; nell’altra dovremmo spronare con cautela. Un po’ di tempo fa ho ascoltato un insegnante di arte (qualificato dal caring) che affrontava il seguente problema. Si occupava di uno studente di talento che aveva un fine senso per lo spazio e il colore. Tecnicamente lo studente era pronto per una spiegazione dettagliata e una minuziosa pratica di abilità specifiche. Ma allo studente, che aveva una moltitudine di altri talenti, è piaciuto lavorare velocemente. Se l’insegnante lo avesse spronato, lo studente si sarebbe rivolto ad altri interessi? Probabilmente questo studente non si sarebbe perso nel dettaglio e così non avrebbe sacrificato la sua creatività (ma ciò potrebbe essere stata una preoccupazione per un altro studente). Quest’insegnante saggio ha deciso di spronare in modo gentile e monitorare gli effetti di tale azione. Inoltre ha lavorato per rafforzare la relazione e ha accettato il bisogno di vivere con una certa incertezza.

17

J. Dewey, Experience and Education, New York: Collier Books, 1963/1938, p. 67.

Fenomenologia

40

della cura

Pedagogia e programma Gli insegnanti che hanno cura (in senso relazionale) sono flessibili nella loro scelta dei metodi, perché le differenze negli studenti e nelle situazioni (identificate nell’ascoltare e rispondere) richiedono una differenziazione di metodi. Gli insegnanti che si prendono cura secondo la virtù possono o non possono essere flessibili. Al di là di un genuino interesse, essi possono usare (o rifiutare) un particolare metodo che è promosso (o scoraggiato) dal loro punto di vista filosofico sull’insegnamento. L’adesione a un particolare metodo non è limitato agli insegnanti tradizionali. Molti insegnanti costruttivisti (o “progressive”) sono anche inflessibili nel rispetto della scelta dei metodi. Ad esempio ho incontrato insegnanti costruttivisti di matematica che insistono che non userebbero mai la memoria meccanica o i metodi d’esercizio nelle loro classi. Da una prospettiva relazionale questa insistenza sembra un’incomprensione. Spesso gli studenti hanno bisogno di memorizzare e praticare operazioni routinarie. Tale pratica può anche essere riposante e spesso facilita il successivo lavoro concettuale. La questione è fornire ciò che gli studenti necessitano, rimanendo responsivi rispetto a tali bisogni e non a un ideale modello di pedagogia. Come filosofa e docente mi colloco nella tradizione progressista-deweyana, ma non penso che il generale accordo alla filosofia di Dewey mi impegni all’uso esclusivo o estensivo di piccoli gruppi, progetti o lezioni “alla mano”, né all’uso esclusivo di processi democratici. Una situazione di emergenza – una classe di studenti indisciplinati e disattenti – può richiedermi di usare metodi più caratteristici di chi ha cura secondo le virtù. Impiegando questi metodi con un po’ di dispiacere, il mio intento sarebbe quello di coltivare le condizioni con le quali metodi più democratici possano avere successo. Come persona che si prende cura, la mia scelta di metodo deve dipendere fortemente dai bisogni e dalle risposte espressi dai miei studenti. Anche con una classe in cui generalmente i metodi progressisti funzionano, potrei aver bisogno di usare il metodo “della carota e del bastone” e reiterare i metodi con alcuni studenti. In questi casi il mio obiettivo come persona che dà cura può includere l’aiutare alcuni studenti a conoscere se stessi e ciò che i loro atteggiamenti presenti presagiscono per il loro futuro. Negli Stati Uniti, all’apice del movimento sugli obiettivi comportamentali (negli anni Settanta) e ancora oggi con l’enfasi sugli standard comuni per tutti, si consiglia agli insegnanti di rimanere professionalmente liberi di scegliere i metodi attraverso i quali portare tutti gli studenti a raggiungere gli obiettivi o standard. Gli insegnanti che hanno cura rispondono a tale invito con cuore forte, perché sanno che obiettivi, interessi e standard educativi

Teoria

e pratica della cura in educazione

41

(non solo i metodi) devono essere tutti soggetti al cambiamento alla luce degli interessi e delle abilità degli studenti. Oltre a poche necessità di base (come imparare a leggere), gli studenti devono essere invitati a compiere scelte su ciò che essi impareranno. Non devono diventare schiavi che eseguono gli obiettivi di altri. Senza tale libertà nel compiere scelte guidate gli studenti sono spesso annoiati, senza rendimento e a volte ribelli. Gli insegnanti che si prendono cura secondo le virtù – coloro che hanno deciso a priori ciò di cui gli studenti necessitano – spesso trovano il cambiamento di standard compatibile con le loro convinzioni e possono lavorare duramente per portare gli studenti agli standard stabiliti. La loro virtù in termini di consapevolezza non può essere negata. Ma molto spesso la gioia nell’insegnare e apprendere si perde, le relazioni sono indebolite o distrutte e lo scopo dell’educazione si deteriora per superare esami, arrivare a buoni risultati, laurearsi e trasferire gli stessi atteggiamenti alla vita occupazionale. Le incertezze nell’arena dei programmi abbondano. Molto di ciò che noi chiediamo agli studenti di apprendere è materiale che andrà velocemente dimenticato. Molti adulti ben istruiti e di successo sono stati incapaci di superare gli esami ai quali ora forzano i ragazzi. Poiché gli insegnanti che hanno cura ascoltano i loro studenti, conoscono sia la coercizione sia l’irrilevanza degli attuali corsi di studio standardizzati e ne sono profondamente risentiti. Ma che cosa dovrebbero fare gli insegnanti? Non possono semplicemente ignorare il materiale sul quale i loro studenti saranno esaminati, se si prendono cura di ogni allievo, non possono rinnegare i bisogni reali espressi. Questo è forse il maggior dilemma nell’insegnamento corrente e illustra ancora il doppio obbligo dei professionisti dell’aver cura: aver cura di ogni studente e lavorare per stabilire le condizioni attraverso le quali l’aver cura può fiorire. Molti di noi credono che la standardizzazione proceda contro tali condizioni e debba perciò essere respinta18.

La ricerca della competenza L’efficacia di un insegnante nel mondo accademico richiede competenza nelle materie. Questo è generalmente riconosciuto, ma l’aver cura spinge ancor più gli insegnanti a essere competenti. Riconoscendo che gli studenti vengono a loro per vari differenti motivi e interessi, gli insegnanti che hanno cura devono essere preparati non solo nei confronti di una varietà di metodi d’istruzione, ma anche con un repertorio di storie e materiali che connetta 18

Cfr. N. Noddings, When School Reform Goes Wrong, New York: Teachers College Press, 2007.

42

Fenomenologia

della cura

le loro materie con gli obiettivi ordinari, con altre discipline scolastiche, con le grandi domande esistenziali e con nuovi obiettivi come l’apprezzamento estetico e il pensiero critico. Devono essere preparati a insegnare qualcosa di storia, sociologia, estetica ed epistemologia nelle loro discipline. Gli insegnanti competenti che hanno cura vogliono rispondere ai bisogni espressi o meno dai loro studenti. Ad esempio gli insegnanti di matematica dovrebbero essere capaci di richiamarsi alla storia, biografia, narrazione, politica, religione, filosofia e sulle arti in modi tali da arricchire le loro lezioni quotidiane e fornire maggiori possibilità ai singoli studenti di seguire i propri interessi e trovarne di nuovi. Nessun argomento così introdotto potrà attrarre tutti gli studenti, ma l’ampia moltitudine di riferimenti diretti, allusioni, storie, poemi, aneddoti e battute può rendere possibile per molti studenti compiere connessioni con i loro interessi. La preparazione di una disciplina per gli insegnanti dovrebbe diventare più ampia, e non più ristretta, man mano che gli insegnanti avanzano negli studi. Gli insegnanti di matematica della scuola superiore, ad esempio, hanno bisogno di una preparazione diversa da quella di altre materie scientifiche. In questo periodo degli Stati Uniti la maggior parte della preparazione avviene nelle scuole di “Art and Sciences”, non nelle scuole o dipartimenti di educazione e così molti insegnanti di matematica credono che i corsi specificatamente rivolti agli insegnanti dovrebbero essere semplificati. Io suggerisco invece il contrario. Gli insegnanti, se sono chiamati ad aver cura, hanno bisogno di un tipo articolato di preparazione e ciò richiede corsi che siano riccamente differenti, non uno scheletro disincarnato di corsi “veri” di matematica. Dalla prospettiva della cura, gli insegnanti che lavorano con gli studenti che si preparano a diventare insegnanti dovrebbero essere guidati maggiormente dai bisogni dei loro studenti piuttosto che dai programmi tradizionali delle loro discipline. Così molti insegnanti nei college sono persone che hanno cura secondo le virtù, persone che s’interessano profondamente della loro materia e formano gli studenti in accordo con gli standard relativi. Molti insegnanti credono che la loro competenza possa essere rafforzata dal maggior studio della loro materia. Ma c’è un limite nell’efficacia di questi studi per gli insegnanti delle classi “K-12”. Non utilizzano la varietà del materiale innovativo nelle loro classi d’insegnamento o, peggio, lo possono imporre (lavoro a volte mal fatto) nei confronti di studenti che non sono né interessati né pronti a questo. Gli atteggiamenti degli insegnanti delle classi “K-12”, formati dagli specialisti delle materie, spesso diventano persone consapevoli di aver cura secondo le virtù (docenti che non riescono a sviluppare la capacità di rispondere ai bisogni espressi degli studenti).

Teoria

e pratica della cura in educazione

43

Oggi l’insegnamento è forse l’unica professione che può accogliere pensatori rinascimentali. Gli insegnanti che hanno cura, leggono profondamente e conversano con il materiale proveniente da molte discipline, appaiono ai loro allievi come modelli di figure educative. Gli studenti delle scuole superiori spesso si chiedono il motivo per cui loro devono apprendere il materiale da quattro o cinque discipline quando i loro insegnanti ne conoscono solo uno (e spesso nemmeno bene). Rispondendo alla grande varietà degli interessi degli studenti in modo predittivo, gli insegnanti che hanno cura possono preparare se stessi ampiamente e – con una disposizione continua alle relazioni di cura – possono concentrarsi nel sviluppare i loro repertori aggiungendo materiale che contribuisca alla loro crescita personale e al piacere nell’insegnare. La teoria della cura enfatizza la centralità della relazione e le condizioni che sostengono questa relazione includono la felicità sia di chi ha cura sia di chi è preso in cura.

Valutazione Per gli insegnanti che hanno cura l’assenza di compiti è più problematica della valutazione stessa. La valutazione degli studenti rientra nel modo di stabilire e mantenere relazioni di cura e spesso danneggia anche le relazioni studente-studente. Per di più la ricerca di buoni voti può effettivamente indebolire o addirittura distruggere un interesse intellettuale genuino19. Nel considerevole scritto di John Knowles A Separate Peace, lo studente narrante, Gene, pensa di avere avuto un reale vantaggio nel gioco dei voti rispetto al suo più vicino rivale che era indebolito da una vera e propria genuinità nel suo interesse nell’apprendere. Gene confessa che per lui gli argomenti richiesti si assomigliavano, aggiungendo di aver lavorato indiscriminatamente su ognuno di essi20. Questo è chiaramente un risultato che tutti i bravi insegnanti dovrebbero evitare. Ci sono altri effetti negativi ben documentati del valutare. Gli studenti iniziano a confondere il loro risultato con il loro punteggio o grado medio (G.P.A. – Grade Point Average) e la condizione della classe. Lavorano solo tanto quanto è domandato dalla competizione. Inoltre difendono le loro personali performance mediocri, indicando che essi sono “migliori” rispetto a certi 19

Cfr. D. Clark P., “Doing School”: How we are Creating a Generation of Stressed Out, Materialistic, and Miseducated Students, New Haven: Yale University Press, 2001. 20 J. Knowles, A Separate Peace, New York: Macmillan, 1960, p. 46.

44

Fenomenologia

della cura

altri studenti e questo modo di stabilire il loro merito personale li porta a spendere la propria vita paragonandosi favorevolmente ai peggiori esempi nella loro cerchia di conoscenze. Valutare e classificare porta a ingannare e gli insegnanti aumentano il problema quando dicono agli studenti che, quando essi imbrogliano, danneggiano solamente se stessi. Questo sarebbe vero se il sistema valutativo non implicasse il valutare e classificare. Così poi gli studenti che mascherano la loro ignoranza imbrogliando, danneggiano solo se stessi. Ma essi avrebbero un certo incentivo a fare ciò: nel sistema prevalente c’è un forte incentivo a imbrogliare e i truffatori danneggiano tutti superando in modo disonesto il proprio grado. Gli insegnanti della cura secondo la virtù sono così preoccupati dai problemi di valutazione quanto le persone che hanno cura dal punto di vista relazionale. Ma anziché cercare un modo per cambiare il sistema, spesso lavorano duramente per renderlo il più possibile giusto e per appellarsi al senso di onestà e di equità degli studenti. Lavorano duramente per tirare fuori il meglio da una pratica cattiva. Gli insegnanti che hanno cura secondo la virtù lavorano per sviluppare le virtù dei loro studenti in un sistema stesso che manca di virtù; gli insegnanti relazionali lavorano per stabilire un mondo in cui sia desiderabile e possibile essere bravi. Per stabilire questo orizzonte, gli insegnanti che hanno cura cercano un altro modo per valutare i lavori dei loro studenti. Molte scuole si rifiutano di valutare i ragazzi nelle classi primarie (grades K-3) e poche usano la valutazione narrativa (e non i voti) nelle classi elementari e medie. Un ristretto numero di scuole superiori e college seguono questa pratica, ma sono continuamente sotto pressione per giustificare il loro rifiuto nell’assegnare voti. Recentemente membri di facoltà di una certa illuminata istituzione mi hanno parlato delle loro difficoltà nel fornire agli studenti lettere credenziali per l’insegnamento. Il loro stato ora richiede che per una lettera credenziale i candidati mantengano almeno una media di voti “B”. Questi eccellenti educatori potrebbero essere forzati ad assegnare voti se vogliono rimanere nel campo della preparazione degli insegnanti. Che cosa perderanno se accettassero questo? La perdita maggiore potrebbe riguardare le relazioni di cura e fiducia ora apprezzate fra facoltà e studenti. Gli studenti dovrebbero essere capaci di domandare ai loro insegnanti o pari aiuto in ogni passaggio del loro lavoro e il fatto di richiedere molto tempo o guida non dovrebbe portare a un voto minore. Gli insegnanti devono valutare i lavori dei loro studenti, ma la valutazione non implica un voto finale sommativo. Potrebbe essere necessario chiedere agli studenti di lavorare nuovamente a un compito numerose volte per renderlo soddisfacente, ma non è richiesto attribuire un giudizio. In questa pratica alternativa

Teoria

e pratica della cura in educazione

45

un insegnante e uno studente lavorano insieme per produrre entrambi un prodotto soddisfacente e spesso ne risulta una relazione di cura rafforzata.

Valutare e apprendere Tutti i buoni insegnanti sono attenti all’apprendimento dei loro studenti. C’è un’etica della cura che fornisce qualche guida particolare in materia? Rispetto ai docenti che hanno cura secondo la virtù, gli insegnanti guidati da un’etica della cura sono, io penso, più probabilmente propensi a cambiare gli obiettivi d’istruzione alla luce dei bisogni degli studenti. Più facilmente si chiedono “Che cosa ha imparato Johnny?” piuttosto che “Johnny ha imparato X?”. In accordo con gli educatori progressisti, essi credono che gli studenti siano naturalmente motivati e che sia compito dell’insegnante connettere o guidare tale motivazione a esiti proficui. Gli insegnanti che si prendono cura sono profondamente attenti all’apprendimento, ma riconoscono tale bisogno di apprendimento individuale degli studenti, che apprendono inevitabilmente elementi differenti. Tale ricognizione e comprensione delle diverse necessità è un risultato diretto dell’enfasi sulle relazioni di cura. L’insegnante ascolta gli studenti e dà forma alle loro esperienze di apprendimento secondo gli interessi degli studenti e le richieste future della materia. Ovviamente la costruzione cooperativa degli obiettivi e dei metodi richiede grande sforzo alla competenza dell’insegnante e tale impegno aumenta quando gli insegnanti valutano il lavoro degli studenti. È di gran lunga più semplice – ma non del tutto – valutare tutti gli studenti sulla base di materiali standard e rigide regole di imparzialità. Gli studenti sono così abituati a queste modalità standardizzate di valutazione che talvolta si oppongono ai metodi che portano più riconoscimenti per gli studenti individuali. In quanto insegnante di matematica (e io devo assegnare voti in questa posizione), una volta ho ricevuto l’obiezione di uno studente rispetto alla mia prassi di permettere agli studenti di ridare esami finché dimostrano sufficiente padronanza per intraprendere la successiva unità di studio. Non ha reagito contro la ripetizione, ma ha protestato fortemente sul mio non penalizzare gli studenti per le diverse prove. “Mi sta dicendo” – protestava – “che qualcuno che ha raggiunto 95 nella seconda o terza prova è bravo quanto chi ha ricevuto 95 alla prima volta?”. Gli ho risposto che la replica dell’esame era sempre in una nuova forma (non esattamente l’identico esame che poteva essere memorizzato) e quindi ho provato che l’obiettivo era l’apprendimento della materia, non quanto velocemente sarebbe stata appresa. Lui ha insistito che il mio metodo di valutazione fosse “ingiusto”.

Fenomenologia

46

della cura

Per questo studente l’obiettivo dell’apprendimento era raggiungere migliori risultati rispetto agli altri, collezionare il numero maggiore di voti “A” possibili e sconfiggere i compagni di classe nella corsa al college. La valutazione presenta agli insegnanti incertezze che fanno soffrire. Gli insegnanti sono responsabili nei confronti dell’istituzione che li assume e sentono anche una responsabilità nell’accogliere e favorire gli standard associati alle loro discipline. Ma, ancora più importante, gli insegnanti che hanno cura, sono responsabili per la crescita dei loro studenti come persone nella loro interezza. Certamente io non posso insegnare economia domestica o pop music anziché algebra per la quale sono stata assunta. Se riesco a includere riferimenti a questi argomenti nel mio insegnamento, è bene e buono. Ma devo insegnare qualcosa di algebra. Quali studenti potrebbero essere incoraggiati a raggiungere i più alti standard della disciplina? Quali potrebbero soddisfare uno standard meramente adeguato? Quali dovrebbero essere incoraggiati a eccellere in altri studi mentre vengono aiutati a raggiungere gli standard minimi nell’algebra che odiano? E quali sono questi standard minimi? L’insegnamento richiede una ricerca morale per tutta la vita e la valutazione e il supporto all’apprendimento sono tra le sfide più grandi.

Conclusione La teoria della cura è simile all’etica della virtù nel suo rifiuto rispetto a principi fissi in favore invece dall’affidamento al buon carattere (o ideale etico) degli agenti morali a guidare la vita morale. Tuttavia differisce nel dare attenzione ai contributi di chi è preso in cura nelle relazioni di cura. In molti casi gli elementi che motivano o innescano questi contributi non sono chiamati virtù. Spesso sono semplicemente reazioni calorose alle risposte di chi si prende cura. Nonostante ciò ho argomentato che sono elementi di supporto nelle relazioni come genitore-bambino, infermiere-paziente e insegnante-studente. Meritano di essere pienamente incluse nella discussione della vita morale. La teoria della cura è forse unica nel delineare l’aver cura etico subordinato all’aver cura naturale – le relazioni non richiedono uno sforzo morale, ma sono sostenute da amore, simpatia, compassione, generosità, buon umore e attenzione recettiva. L’aver cura etico è richiesto quando, ad esempio, per qualsiasi ragione, l’aver cura naturale fallisce. Allora un ideale etico costruito da un aver cura prolungato e dall’essere stati presi in cura è chiamato a condurre la guida; il suo proposito è quello di ristabilire, se possibile, l’aver cura naturale.

Teoria

e pratica della cura in educazione

47

Applicando la teoria della cura all’insegnamento, ho confrontato l’aver cura relazionale con l’aver cura secondo la virtù. Nell’aver cura relazionale gli insegnanti sono guidati più fortemente dai bisogni espressi e dagli interessi degli studenti. Nell’aver cura secondo la virtù gli insegnanti attingono maggiormente alle loro credenze e ai loro ideali educativi. La prospettiva relazionale è stata applicata alla scelta di una teoria della motivazione, alla pedagogia, al programma, alla ricerca di competenza, alla valutazione, all’apprendimento e al compito di creare le condizioni per le quali le relazioni di cura possono fiorire. Infine ho indicato i dilemmi e le incertezze che emergono in ciascuna di queste aree e anche la felicità che così spesso ricompensa gli insegnanti che hanno cura.

Riferimenti bibliografici Brabeck M. M. (a cura di), 2000, Practicing Feminist Ethics in Psychology. Washington, D.C.: American Psychological Association. Buber M., 1970/1958, I and Thou, trad. di Walter Kaufmann, New York: Charles Scribner’s Sons. Buber M., 1965, Between Man and Man. New York: Macmillan. Clement G., 1996, Care, Autonomy, and Justice. Boulder, CO: Westview Press. Cunningham A., 2001, The Heart of the Matter. Berkeley: University of California Press. Dewey J., 1930, Human Nature and Conduct. New York: Modern Library. Dewey J., 1938, Experience and Education, New York: Collier Books. Etzioni A. (a cura di), 1969 The Semi-Professions and their Organization: Teachers, Nurses, and Social Workers, New York: Free Press. Gilligan C., 1982, In a Different Voice. Cambridge: Harvard University Press. Groenhout R., 2004, Connected Lives: Human Nature and an Ethics of Care, Lanham, MD: Rowman and Littlefield. Hart S.L., 2005, Capitalism at the Crossroads: The Unlimited Business Opportunities in Solving the World’s Most Difficult Problems, Upper Saddle River, NJ: Pearson Education. Holmes Group, Tomorrow’s Teachers, East Lansing, MI: Author. Keller C., 1986, From a Broken Web, Boston: Beacon Press. Knowles J., 1960, A Separate Peace, New York: Macmillan. Kohlberg L., 1981, The Philosophy of Moral Development, vol. 1. San Francisco: Harper and Row. Kuhse H., 1997, Caring, Nurses, Women and Ethics, Oxford: Blackwell. Larson M.S., The Rise of Professionalism, Berkeley: University of California Press.

48

Fenomenologia

della cura

Maslow A., 1970, Motivation and Personality, New York: Harper and Row. Murdoch I., 1970, The Sovereignty of Good, London: Routledge and Kegan Paul. Noddings N., 1984 - 2003 (2nd ed.), Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, Berkeley: University of California Press. Noddings N., 2002, Starting at Home: Caring and Social Policy, Berkeley: University of California Press. Noddings N., 2003, Happiness and Education, Cambridge: Cambridge University Press. Noddings N., “Caring as Relation and Virtue in Teaching” in Walker R. L. and Ivanhoe P. J. (a cura di), 2007, Working Virtue: Virtue Ethics and Contemporary Moral Problems, Oxford: Oxford University Press. Noddings N., 2007, When School Reform Goes Wrong, New York: Teachers College Press. Nussbaum M., 1986, The Fragility of Goodness, Cambridge: Cambridge University Press. Pope D. C., 2001, “Doing School”: How we are Creating a Generation of Stressed Out, Materialistic, and Miseducated Students, New Haven: Yale University Press. Reverby S., 1987, Ordered to Care, Cambridge: Cambridge University Press. Slote M., 2001, Morals from Motives, Oxford: Oxford University Press. Weil S., 1977, Simone Weil Reader, Mt. Kisco, NY: G.A. Panichas, Moyer Bell Limited.

Capitolo terzo La storia della ricerca Luigina Mortari e Alessia Camerella

1. Introduzione L’oggetto di questo capitolo riguarda la ricerca empirica messa in atto, in particolare le scelte epistemologiche, il quadro metodologico e i vari passaggi effettuati dalla raccolta all’analisi dei dati. Il resoconto cerca di essere il più fedele possibile, pur tenendo conto dei limiti personali e dell’eccedenza del vissuto rispetto alla parola che lo narra. Sono stati di supporto il confronto con l’equipe e l’accesso al diario di ricerca, che ha aiutato a ripercorrere le azioni, le difficoltà incontrate, le soluzioni prese e le mosse cognitive attuate1. L’indagine è partita da una domanda di ricerca per esplorare l’aver cura, vista la sua particolare centralità in ambito pedagogico rispetto al fiorire dell’umanità di ciascuno2: qual è il significato che le persone attribuiscono all’agire con cura? La logica emergenziale della ricerca ha richiesto di approfondire i seguenti punti: Tabella 3.1 – Riassunto delle fasi iniziali della ricerca Fasi a livello “macro”: 2.1. Scelta del paradigma di ricerca Scelta dell’epistemologia Scelta della metodologia Scelta della tecnica d’indagine  2.2. Partecipanti Setting

Ecologico Naturalistica Fenomenologica-eidetica Intervista focalizzata Significativi Naturale

1 L. Mortari, Cultura della ricerca e pedagogia, Roma: Carocci, 2007, p. 227. La ricerca coordinata da Luigina Mortari ha visto la collaborazione di Alessia Camerella. Hanno collaborato alla ricerca raccogliendo il materiale: Jessica Bertolani, Maria Antonia Bellini, Gianna Fracchetti, Ivana Trotta e Roberta Vicentini. Dal punto di vista numerico in tutto le interviste utili per l’analisi sono state sessantotto (diciassette per tipologia di persone intervistate). 2 L. Mortari, Aver cura di sé, Milano: Bruno Mondadori, 2009; Id., Cultura della ricerca e pedagogia cit., p. 227.

Fenomenologia

50

della cura

2. Disegno emergenziale-evolutivo ed elaborazione induttiva della teoria 2.1 Le scelte di fondo Paradigma. Il paradigma scelto è quello post-moderno o ecologico individuato da Mortari: adotta una visione evolutiva, relazionale e sistemica della realtà, ponendo attenzione ai contesti e alle connessioni esistenti tra i fenomeni3. Si preoccupa del significato sociale della ricerca affinché quest’ultima promuova il miglioramento della qualità di vita. Il ricercatore è responsabile di tutto il processo, compresa la teoria elaborata, frutto di costruzione di conoscenza. Si avvale dell’apporto dell’indagine qualitativa, senza negare l’importanza dell’approccio quantitativo. Scegliere il paradigma ci permette poi di attuare una serie di scelte successive. Epistemologia. L’epistemologia è di tipo naturalistico e chiede alla ricerca di avvenire là dove solitamente il fenomeno accade: per questo al ricercatore è richiesta grande attenzione per tenere lo sguardo intensamente aperto sul fenomeno, flessibilità e capacità di cogliere ciò che si manifesta nella sua singolarità4. Il disegno di ricerca è chiamato “emergente”, perché non è preordinato in anticipo, ma si struttura in modo progressivo, nel corso dell’indagine, modulandosi in rapporto all’evolversi del sistema. La ricerca risulta attendibile se soddisfa alcuni criteri come quelli di trasferibilità, affidabilità e confermatività. Metodologia. Per attuare tali direzioni e alla luce della filosofia fenomenologica, ci è sembrata appropriata la metodologia fenomenologica-eidetica perché permette di cogliere l’essenza del fenomeno così come appare nel suo contesto. È richiesta fedeltà a ciò che si manifesta con rispetto, umiltà ed empatia, facendo vuoto dentro di sé per poter accogliere l’altro, la sua parola, il suo volto, sviluppando un pensare che si fa ricco di sentire e di una parola che descriva in modo essenziale e scrupoloso l’esperienza vissuta e il significato connesso. La metodologia scelta pone l’accento sull’oggetto più che sui metodi (per non cadere nel rischio di tecnicismo), cogliendo e descrivendo le strutture essenziali dell’oggetto d’indagine. Il criterio di validità sta nella costruzione fedele del fenomeno5.

3 4 5

L. Mortari, Aver cura di sé cit., p. 31. Ivi, p. 61. Ivi, pp. 169-170.

La

51

storia della ricerca

Tecnica di indagine. Come tecnica d’indagine si è scelta l’intervista semistrutturata in profondità6. S’intende un’intervista con basso livello di strutturazione, direttività e standardizzazione nella traccia, nelle domande proposte e nella conduzione dell’intervista.

2.2 Partecipanti e setting Partecipanti. Si è sentita l’esigenza di non rimanere solo a livello teorico (studio della letteratura), ma di ascoltare la viva voce di persone che promuovono azioni di cura verso altri, cogliendo il significato delle pratiche da parte di chi le agisce. Abbiamo cercato i soggetti che sono veramente i testimoni significativi: dalla letteratura le persone capaci di agire con cura vengono indicate negli operatori sanitari (gli/le infermieri/e), nelle madri che si occupano di una missione particolare come quella degli affidi, negli/lle educatori/trici e negli/lle insegnanti7. Le quattro categorie di riferimento sono state scelte perché in base allo studio della letteratura e al confronto a livello di equipe ci sembravano i/ le testimoni previlegiati/e nel mettere in parola i loro vissuti di cura, nella loro vita e nel loro lavoro quotidiano, rispettivamente verso pazienti, figli adottati, studenti e persone in situazione di bisogno. Ci interessava capire in che cosa consistesse per loro l’agire con cura. Quindi abbiamo chiesto di raccontarci le giornate lavorative o in famiglia, gesti concreti di cura, azioni risultate positive, situazioni critiche. Cosa pensano del loro vissuto? Quali difficoltà incontrano? Quali desideri vivono? Quali soluzioni trovano? Si è evitato di intervistare persone che esplicitamente sanno di fare cura (come consulenti, psicoterapeuti, psicoanalisti…) e che possiedono già un’epistemologia esplicita (a seconda delle correnti teoriche adottate). Setting. Svolgere un’intervista – soprattutto quando è non direttiva – richiede che le persone si trovino a loro agio: per questo abbiamo cercato di facilitare gli intervistati chiedendo se desideravano che le interviste venissero fatte presso le loro abitazioni e la maggior parte è stata di questo parere.

6 Bichi definisce l’intervista come “un’interazione tra un intervistato e un intervistatore, provocata dall’intervistatore, avente finalità di tipo conoscitivo, guidata dall’intervistatore sulla base di uno schema di interrogazione e rivolta a un numero consistente di soggetti che sono stati scelti sulla base di un piano di rilevazione” (R. Bichi, L’intervista biografica, Milano: Vita e Pensiero, 2002, p. 18). 7 Le quattro tipologie di persone intervistate vengono chiamate regioni o fields.

52

Fenomenologia

della cura

3. Raccolta e analisi dei dati Nel raccogliere e analizzare i dati si è proceduto secondo un metodo che prevede il suo strutturarsi mentre si fa ricerca: si tratta di una visione evolutiva ed emergenziale in linea con la naturalistic inquiry e arricchita dalla visione pragmatista (che cerca di attenersi al profilo concreto con cui i fatti si evidenziano). Tale metodo si preoccupa di elaborare conoscenze attendibili. La sua caratteristica dinamica di metodo in cammino è lontana sia dal rischio di formalismo sia dal rischio di spontaneismo. Ne sono garanzia la costante analisi e critica ai fini di una continua revisione delle azioni metodologiche8. Le varie fasi di raccolta e analisi dei dati sono riassunte nella Tabella 3.2 e approfondite successivamente. Tabella 3.2 - Riassunto delle fasi di raccolta e analisi dei dati. Fasi a livello “micro”: 1. Primo contatto con le persone da intervistare e accordo per un appuntamento 2. Incontro e intervista audioregistrata (alcune persone sono state incontrate per una seconda intervista, per meglio chiarire alcuni aspetti) 3. Trascrizione fedele dell’intervista 4. Lettura attenta di ogni intervista 5. Individuazione delle unità significative rispetto al tema di indagine 6. A ciascuna unità è stata assegnata una breve descrizione che la rappresentasse (etichetta o label) 7. Si è stilato un elenco delle etichette 8. Si è cercato di far confluire le etichette analoghe in categorie che le potessero riassumere (category) 9. Si è creato un elenco delle varie categorie 10. Questo processo ha permesso la costruzione del sistema di codifica (coding system) ed è stato ripetuto numerose volte sempre in dialogo con i testi delle interviste e nel confronto reciproco 11. Si sono rintracciate le categorie centrali e quella prevalente di riferimento (core category) 12. Dal conteggio delle etichette e delle categorie e dall’attenzione alle loro qualità, sfumature e tipologia di persone intervistate che le esprimevano maggiormente, è emersa a poco a poco una visione delle pratiche di cura messe in atto dai pratici 13. Si è abbozzata una teoria secondo i principi fenomenologici della fedeltà e la mossa cognitiva dell’epochè (che hanno accompagnato costantemente tutta l’indagine) L’indagine è stata accompagnata dallo studio della letteratura sia rispetto alle scelte strettamente di ricerca sia rispetto al tema trattato.

8

L. Mortari e L. Saiani, Gesti e pensieri di cura, Milano: McGraw-Hill, 2013, p. 52. D. A. Erlandson et al., Doing Naturalistic Inquiry: A Guide to Methods, Newbury Park, CA: Sage Publications Inc., 1993.

La

53

storia della ricerca

3.1. Raccolta dei dati Nelle interviste erano presenti delle domande centrali e fondamentali (formulate il più possibile in modo aperto), attorno alle quali ci si poteva espandere, per approfondire alcuni aspetti, narrare esempi, esplorare maggiormente il mondo dell’intervistato e il suo universo di senso. Anche l’ordine delle possibili domande – sia quelle centrali sia quelle articolate e dipendenti – rimaneva abbastanza lineare, ma flessibile rispetto alle risposte dell’intervistato9. Le interviste sono state audioregistrate con consenso della persona intervistata e con accordo sulla tutela della privacy dei contenuti e dati comunicati.

3.2. Analisi dei dati Per iniziare l’analisi del materiale, le interviste sono state trascritte fedelmente, parola per parola, anche nelle espressioni gergali o dialettali. Il testo dell’intervista è stato inserito in una tabella per facilitare la successiva analisi. Essendo una ricerca di tipo fenomenologico, a partire da sinistra nella Tabella 3.3, la prima colonna indica la successione numerica progressiva degli interventi (battute di discorso), nella seconda colonna sono riportate le sigle che individuano le persone (ad esempio “I.” significa “intervistato/a” ed “A.” sta per “intervistatrice”), nella terza è riportato il testo dell’intervista. Infine le ultime (due o più) colonne servono per riportare i prodotti dell’analisi. Il lavoro di analisi è iniziato con una lettura attenta del materiale, per prenderne familiarità e arrivare a una visione globale. Si è trattato poi di rileggere i testi ed evidenziare le unità significative: esaminando con attenzione ogni intervista, si sono cercate ed evidenziate le frasi e le espressioni in cui si parlava specificatamente di pratiche di cura (Tabella 3.4).

9

Rimane l’interrogativo se sia opportuno dal punto di vista cognitivo cambiare l’ordine delle domande. Il modo in cui si pongono cambia il risultato?

Fenomenologia

54

della cura

Tabella 3.3 – Esempio di trascrizione di un’intervista in tabella N° Sogg. 1

A

2

I

3

A

4

I

n.



Testo Tu lavori come educatore in questa struttura molto particolare dove prendersi cura dei bambini è un aspetto principale del tuo lavoro Si, il villaggio è strutturato, è una comunità familiare, perché ci sono delle case in cui risiede per cinque giorni a settimana una figura stabile che noi chiamiamo Mamma, che è una donna che si occupa proprio nel risiedere proprio nella casa e a questa donna sono affidati cinque ragazzi, cinque o sei ragazzi, il massimo è sei, poi dipende. È un servizio sociale che, per mezzo di un decreto di un tribunale, ha deciso di affidarli alla nostra struttura e all’interno di queste case in cui risiedono queste donne, ci sono due figure di guide che più o meno possono avere un ruolo educativo, possono essere formate in maniera diversa rispetto alla mamma, la mamma sceglie di dedicarsi, di dedicare il suo tempo e la sua disponibilità a questi bambini. Quindi questa donna vive lì 24 ore su 24 per cinque giorni a settimana? Sì, invece le due figure educative che la affiancano, chiamate Zie dai bambini, perché è più familiare, sono generalmente persone con una certa formazione di tipo educativo comunque, per cui sono laureati in scienze dell’educazione, sociologia, scuole per educatori eccetera, perché a loro compete un ruolo più burocratico, formale per cui scrivono i verbali da dare al tribunale, progettano progetti per i bambini, sempre chiaramente insieme alla mamma, però ecco è un po’ un ruolo leggermente diverso, tanto più che il nostro contratto è di 38 ore a settimana per cui noi continuiamo a coprire il riposo della mamma però abbiamo un tot di tempo lavorativo rispetto alla mamma che si dedica a tempo totale. ......................................................................................

Prima Seconda Terza analisi analisi analisi

La

storia della ricerca

Tabella 3.4 – Esempio di unità significative N° Sogg. Testo e unità significative 18 I Si si, tu pensa che è comunque per loro una famiglia per cui i ragazzi più grandi hanno le loro attività, le loro compagnie, poi sta chiaramente alla mamma della casa gestire le varie dinamiche però sicuramente ci sono trattamenti diversi; ecco uno dei progetti proprio della nostra associazione è quello di spingere i ragazzi all’esterno perché qui è così bello, è così protetto, è così materna che alcune volte questa realtà rischia di essere troppo troppo troppo chiusa, per cui nel momento in cui poi vengono buttati sull’esterno ovviamente allora fanno fatica perché qua vengono accettati spesso in tutte le loro difficoltà, infatti abbiamo molti casi dove, soprattutto i questi ultimi anni, sono arrivati molti casi di bambini con deficit e disabilità, difficoltà cognitive, per cui questi ragazzini qui trovano sicuramente sostegno, anche nella scuola possono trovare sostegno ma poi quando vengono buttati sull’esterno rischiano si scontrarsi con realtà molto molto più dure quindi la nostra idea è quella di cercare di aprirci il più possibile per cui coinvolgiamo il rione, partecipiamo alla catechesi, ai gruppi dell’oratorio nell’ambito più più religioso perché comunque la maggior parte delle mamme dà in generale un’impostazione cattolica, anche se questa non è una organizzazione cattolica però siamo abbastanza legati all’ambiente parrocchiale, ma anche per dare possibilità ai ragazzi di muoversi, di sperimentare però si organizzano un sacco di feste, d’incontri, si organizza la festa della porta aperta, per cui invitano i loro amici; c’è la marcia dell’amicizia che c’è adesso a settembre, per cui cerchiamo di aprirci alla società, alla comunità, si invitano tutti, si organizza, anche per qui abbiamo degli spazi molto ampi, per cui ci sono alcune squadre che ci chiedono di fare gli allenamenti qui, colonie estive che ci chiedono di però in linea di massima cerchiamo noi di proiettarci verso l’esterno; anche perché comunque l’idea dei genitori dei ragazzi che stanno a scuola con i nostri bimbi è quella di dire «ah poverini, arrivano dal villaggio, sono in difficoltà», invece quello che si cerca di passare è che comunque ci sono delle belle possibilità, delle belle opportunità, alcune volte ci sono dei bimbi che vengono qui a giocare con i nostri e si entusiasmano così tanto che chiedono di poter passare una settimana in vacanza qui (ride). In questo senso si, secondo me ci si cerca di aprirci il più possibile, anche questo è prendersi cura di un aspetto che sarà loro necessario per un futuro

55

Fenomenologia

56

della cura

Tabella 3.5 – Esempio di descrizioni sintetiche ed etichette descrittive n. Sogg. 18

I

Testo Si si, tu pensa che è comunque per loro una famiglia per cui i ragazzi più grandi hanno le loro attività, le loro compagnie, poi sta chiaramente alla mamma della casa gestire le varie dinamiche però sicuramente ci sono trattamenti diversi; ecco uno dei progetti proprio della nostra associazione è quello di spingere i ragazzi all’esterno perché qui è così bello, è così protetto, è così materna che alcune volte questa realtà rischia di essere troppo troppo troppo chiusa, per cui nel momento in cui poi vengono buttati sull’esterno ovviamente allora fanno fatica perché qua vengono accettati spesso in tutte le loro difficoltà, infatti abbiamo molti casi dove, soprattutto i questi ultimi anni, sono arrivati molti casi di bambini con deficit e disabilità, difficoltà cognitive, per cui questi ragazzini qui trovano sicuramente sostegno, anche nella scuola possono trovare sostegno ma poi quando vengono buttati sull’esterno rischiano si scontrarsi con realtà molto molto più dure quindi la nostra idea è quella di cercare di aprirci il più possibile per cui coinvolgiamo il rione, partecipiamo alla catechesi, ai gruppi dell’oratorio nell’ambito più più religioso perché comunque la maggior parte delle mamme dà in generale un’impostazione cattolica, anche se questa non è una organizzazione cattolica però siamo abbastanza legati all’ambiente parrocchiale, ma anche per dare possibilità ai ragazzi di muoversi, di sperimentare però si organizzano un sacco di feste, d’incontri, si organizza la festa della porta aperta, per cui invitano i loro amici; c’è la marcia dell’amicizia che c’è adesso a settembre, per cui cerchiamo di aprirci alla società, alla comunità, si invitano tutti, si organizza, anche per qui abbiamo degli spazi molto ampi, per cui ci sono alcune squadre che ci chiedono di fare gli allenamenti qui, colonie estive che ci chiedono di però in linea di massima cerchiamo noi di proiettarci verso l’esterno; anche perché comunque l’idea dei genitori dei ragazzi che stanno a scuola con i nostri bimbi è quella di dire «ah poverini, arrivano dal villaggio, sono in difficoltà», invece quello che si cerca di passare è che comunque ci sono delle belle possibilità, delle belle opportunità, alcune volte ci sono dei bimbi che vengono qui a giocare con i nostri e si entusiasmano così tanto che chiedono di poter passare una settimana in vacanza qui (ride). In questo senso si, secondo me ci si cerca di aprirci il più possibile, anche questo è prendersi cura di un aspetto che sarà loro necessario per un futuro

Descrizione sintetica

Etichetta

Un progetto dell’associazione è quello di favorire l’autonomia

Un obiettivo della cura è quello di favorire l’autonomia

Si accetta l’altro nel suo essere diverso

Accettare l’altro nel suo essere

L’intenzione è Radicare quella di aprirsi l’azione educativa nel al territorio. territorio

Si cerca di creare contatti con l’esterno attraverso attività in comune.

Radicare l’azione educativa nel territorio

Far pensare Si desidera cambiare il modo di pensare questi bambini: da bambini con difficoltà a b/i con possibilità

La

storia della ricerca

57

Successivamente ognuna delle unità significative è stata considerata singolarmente per individuare il nucleo essenziale dal punto di vista del significato. Ogni unità di significato trovata è stata messa in parola, cercando espressioni appropriate, come si vede nella Tabella 3.5 alla colonna 4. Alla fine di questa fase, quello che si produce è un elenco di descrizioni sintetiche. Non sono ancora etichette, ma descrizioni che riprendono le parole stesse o simili della persona intervistata: la descrizione sintetica serve per nuclearizzare la parte significativa rispetto alla domanda di ricerca. In una seconda fase le descrizioni sono state sintetizzate in un’etichetta (Tabella 3.5, colonna 5). Queste etichette, che cercano di cogliere la qualità dell’espressione sottolineata, sono chiamate “descrittive”: nominano il contenuto di un’unità di testo e offrono il fondamento per un basilare sistema di codifica provvisorio (provisional and basic coding system). Durante il processo di analisi è stato importante cercare di praticare l’auto-indagine riflessiva. Tabella 3.6 – Esempio di diario di ricerca 21.10.11 Non so se sia la difficoltà di riprendere la ricerca dopo un po’ di tempo di sospensione o una fatica comune nella fase di analisi. Ogni volta che mi sembra di aver concluso il coding system, lo rifarei. Mi vengono dubbi: ad esempio sto rifacendo l’analisi di “fc_scu inf R.” per la terza volta; alla battuta 70 ho segnalato due possibili etichette e non so quale sia la più appropriata. Nell’attesa intanto ho sottolineato la prima opzione. Altre volte m’interrogano espressioni come “avere fiducia” e “creare fiducia”: la prima pone maggiormente l’accento su una disposizione personale o sul coltivare particolari sentimenti (siamo già tra due categorie), la seconda mi sembra che accentui maggiormente l’agire... ma sono legate... 10.11.11 Rifletto sulla diversità che avverto tra le interviste alle madri e le altre. C’è un colore, un’intensità diversa. Traspare ed emerge dalla lettura. Vi sento un’incarnazione particolare. Nel loro vivere la cura rimane un punto di forza, un ideale che attrae e dà impulso... L’accoglienza è fisica, tangibile, permeata di sofferenza, domande, gioie. È un’esistenza“pro-esistenza” ossia tutta orientata all’altro, nella consapevolezza che anche l’aver cura di sé ha questo fine. Le persone fanno da ponte, a volte rimangono sullo sfondo in un sapiente gioco di passività e attività e comunque sempre di passione. C’è l’essere stati provati e allo stesso tempo avere la grinta per affrontare il quotidiano. È difficile mettere dei confini. Forse incide anche la capacità della persona di rielaborare l’esperienza vissuta e raccontarla in modo semplice, ma puntuale, che faccia emergere i fuochi d’interesse, la cura per i dettagli, il proprio coinvolgimento.

Il lavoro di etichettatura solleva molti problemi nella mente del ricercatore, poiché non è facile trovare un’etichetta che sinteticamente definisca la qualità dell’unità testuale. Inoltre, più si procede nell’analisi, più risulta difficile codificare le unità significative in etichette ben distinte le une dalle

58

Fenomenologia

della cura

altre. Il modo in cui questa problematicità viene vissuta e affrontata è cosa importante da documentare, questo compito si attualizza descrivendo per iscritto i vissuti cognitivi che accompagnano il lavoro di etichettatura. È questo un lavoro specificatamente fenomenologico, poiché chiede al ricercatore di analizzare i propri vissuti mentali10. Tale lavoro riflessivo va scritto nel diario della vita della mente sotto la forma di note riflessive. Nel diario si annota la descrizione dei vissuti cognitivi che accompagnano il lavoro di etichettatura11. L’azione di etichettatura va compiuta numerose volte su ogni testo, mettendo in atto il principio dell’epochè, per non cadere in automatismi e per mettere tra parentesi i propri pregiudizi e preconcetti. La mossa fenomenologica dell’epochè consiste nel sospendere i propri pregiudizi, mettendoli tra parentesi, affinché non inquinino il manifestarsi del fenomeno al nostro sguardo. In questo modo il fenomeno non viene fagocitato dalle nostre categorie, ma può apparire libero, nella sua essenza. Il ricercatore è chiamato a prendere distanza, fare vuoto per permettere di creare uno spazio d’incontro, nel desiderio di aderire alle cose nella loro datità originaria12. Quando si vede che non emergono nuove etichette, si procede a una loro raccolta sotto forma di elenco, con il fine di ordinarle, confrontarle, raffinarle, vedere quali sono ripetitive o non chiare. Il principio che guida rimane quello della fedeltà al fenomeno: il confronto con il testo è sempre presente, perché le etichette dovrebbero descrivere adeguatamente le evidenze del materiale, indicare fedelmente il contenuto delle varie unità testuali significative e offrire il passaggio per una concettualizzazione maggiore. In altre parole in ogni fase che porta dal dato grezzo alla sua elaborazione, l’obiettivo è quello di rendere con maggiore precisione possibile il significato che l’intervistato ha espresso in quell’unità testuale. Nell’osservare se lo strumento elaborato (l’elenco delle etichette) regge rispetto ai testi delle interviste, il ricercatore si chiede se ci sono parti del testo significative che non sono state prese in considerazione o che non hanno trovato un’etichettatura adeguata oppure se ci sono evidenze irrilevanti e non significative. Inoltre s’interroga se le etichette sono distinte in modo chiaro tra loro, senza ripetizioni, ambiguità o sovrapposizioni.

10

L. Mortari e L. Saiani, Gesti e pensieri di cura cit., pp. 67-68. L. Mortari, Aver cura della vita della mente, Milano: La Nuova Italia, 2002, pp. 166-169 e 223-225. 12 Ivi, pp. 271-282. 11

La

59

storia della ricerca

Tabella 3.7 – Esempio di categorie 18

I Si si, tu pensa che è comunque per loro una famiglia per cui i ragazzi più grandi hanno le loro attività, le loro compagnie, poi sta chiaramente alla mamma della casa gestire le varie dinamiche però sicuramente ci sono trattamenti diversi; ecco uno dei progetti proprio della nostra associazione è quello di spingere i ragazzi all’esterno perché qui è così bello, è così protetto, è così materna che alcune volte questa realtà rischia di essere troppo troppo troppo chiusa, per cui nel momento in cui poi vengono buttati sull’esterno ovviamente allora fanno fatica perché qua vengono accettati spesso in tutte le loro difficoltà, infatti abbiamo molti casi dove, soprattutto i questi ultimi anni, sono arrivati molti casi di bambini con deficit e disabilità, difficoltà cognitive, per cui questi ragazzini qui trovano sicuramente sostegno, anche nella scuola possono trovare sostegno ma poi quando vengono buttati sull’esterno rischiano si scontrarsi con realtà molto molto più dure quindi la nostra idea è quella di cercare di aprirci il più possibile per cui coinvolgiamo il rione, partecipiamo alla catechesi, ai gruppi dell’oratorio nell’ambito più più religioso perché comunque la maggior parte delle mamme dà in generale un’impostazione cattolica, anche se questa non è una organizzazione cattolica però siamo abbastanza legati all’ambiente parrocchiale, ma anche per dare possibilità ai ragazzi di muoversi, di sperimentare però si organizzano un sacco di feste, d’incontri, si organizza la festa della porta aperta, per cui invitano i loro amici; c’è la marcia dell’amicizia che c’è adesso a settembre, per cui cerchiamo di aprirci alla società, alla comunità, si invitano tutti, si organizza, anche per qui abbiamo degli spazi molto ampi, per cui ci sono alcune squadre che ci chiedono di fare gli allenamenti qui, colonie estive che ci chiedono di però in linea di massima cerchiamo noi di proiettarci verso l’esterno; anche perché comunque l’idea dei genitori dei ragazzi che stanno a scuola con i nostri bimbi è quella di dire «ah poverini, arrivano dal villaggio, sono in difficoltà», invece quello che si cerca di passare è che comunque ci sono delle belle possibilità, delle belle opportunità, alcune volte ci sono dei bimbi che vengono qui a giocare con i nostri e si entusiasmano così tanto che chiedono di poter passare una settimana in vacanza qui (ride). In questo senso si, secondo me ci si cerca di aprirci il più possibile, anche questo è prendersi cura di un aspetto che sarà loro necessario per un futuro

un obiettivo della cura è quello di favorire l’autonomia

favorire l’autonomia

accettare l’altro nel suo essere

accettare l’altro

radicare l’azione educativa nel territorio

attuare un modello partecipativo esteso del processo educativo

radicare l’azione educativa nel territorio

attuare un modello partecipativo esteso del processo educativo

far pensare agire sui pensieri per saper dare valore all’altro

Fenomenologia

60

della cura

Come tappa ulteriore si raggruppano le etichette secondo il principio della clusterizzazione13. Si creano in questo modo delle categorie: espressioni che danno un nome a un set di etichette descrittive raggruppate per analogia. La categorizzazione è il primo livello di astrazione nel processo induttivo della teoria, consentendone la costruzione graduale. Le categorie sono simili a dei raccoglitori che al loro interno raccolgono etichette in base alla loro somiglianza. Una volta delineate le varie categorie, si mettono in un elenco, sempre confrontato con i testi. Si configura quella che definiamo “grappolizzazione” ossia una rappresentazione delle varie articolazioni delle etichette collegate ai rami principali delle categorie (Figure 3.1; 3.2; 3.3):

COLTIVARE LA VITA DELLA MENTE

Riflettere Promuovere il pensare insieme

Figura 3.1 – Coltivare la vita della mente

13 È una forma di raccolta dei dati, nata in ambito quantitativo e che – in questa ricerca – usiamo in modo semplice: è chiamata anche analisi dei gruppi, perché – dato un insieme di dati – cerca di selezionare e raggruppare elementi omogenei. L. Mortari, Aver cura di sé cit., p. 173; M. Andemberg, Cluster analysis for applications, New York: Academic Press 1973; A. K. Jain A. e R. C. Dubes, Algorithms for clustering data, New Jersey: Prentice-Hall, 1988; R. Todeschini, Introduzione alla chemiometria, Napoli: EdiSES, 2003.

La

61

storia della ricerca

COLTIVARE LA VITA EMOTIVA Tranquillizzare Favorire l’espressione di sentimenti ed emozioni

Contenere i vissuti dell’altro Aiutare a elaborare sentimenti ed emozioni

Figura 3.2 – Coltivare la vita emotiva

COLTIVARE LA RELAZIONE Rivolgere la parola

Interpretare il vissuto

Ascoltare

Presentare attenzione

Creare un contatto fisico non intrusivo

Responsabilizzare Trattare con riguardo e non essere intrusivi ...

Creare comunicazione su contenuti significativi

Cercare il contatto con la parola Accompagnare il gesto con la parola che rassicura

Creare situazioni di agio

Figura 3.3 – Coltivare la relazione

Dichiarare un interesse positivo per l’altro

Fenomenologia

62

della cura

Alcuni scambi registrati e trascritti durante una riunione d’equipe, in particolare le indicazioni e messa in questione da parte della coordinatrice, possono offrire un’idea viva del processo di analisi, confronto, ritorno sui dati, discussione e scelta delle etichette e categorie più opportune. Il passaggio sotto riportato presenta un momento di lavoro di gruppo sulle etichette e sottolinea la modalità ricorsiva e circolare dell’analisi: Mentre lavoriamo sulle etichette, stiamo definendo le categorie, ma il lavoro non è solo questo, perché precisare le categorie mi porta ad essere più analitico nella strutturazione delle etichette: è un lavoro ricorsivo, mai a senso unico, ma sempre circolare e complesso. Bisogna arrivare a uno strumento che sia fattibile attraverso la ricerca di etichette che siano sufficientemente indicative ma senza frantumarsi nel particolare (Riunione di ricerca_a_245-246).

Ogni etichetta dovrebbe descrivere fedelmente l’unità significativa ed essere connessa con la relativa categoria. Spesso si tratta di formulare più chiaramente le espressioni o esplicitare maggiormente il ragionamento messo in atto. Lo stile interrogativo e il rilancio delle questioni a livello di equipe hanno aiutato ad approfondire, tenere aperto lo sguardo, affinare il lavoro. Dopo i numerosi passaggi nel trovare l’etichetta descrittiva e le categorie definitive, il risultato nella tabella di analisi può essere come segue: Tabella 3.8 – Esempio di tabella d’analisi Unità significative del testo (il testo è stato ripulito da espressioni Descrizione sintetica informali e reso in italiano) Uno degli aspetti della cura che ci sta La madre esprime l’imparticolarmente a cuore è legato al rag- portanza di far raggiungiungimento dell’autonomia. gere l’autonomia ai figli in affido Ci arrivano bambini che hanno bisogno La dimensione affettiva è di cure principalmente affettive… particolarmente avvertita in chi si assume compiti di cura riparativa, perché quando ci si trova di fronte a soggetti con vissuti difficile si avverte immediatamente il bisogno loro di una affettività positiva e calda quindi magari devi darle la possibilità alla La madre offre nella giorsera di avere quei cinque minuti in cui ti nata un tempo di ascolto, parlano dei loro problemi perché magari in particolare a chi avverhanno nostalgia della mamma o hanno te la nostalgia della figura voglia di raccontarti materna

Etichetta descrittiva Categoria Aver cura è… accompagnare Favorire verso l’autono- l’autonomia mia. prestare Curare la attenzione al dimensione bisogno affetti- affettiva vo dell’altro.

ascoltare la dimensione affettiva

Saper ascoltare

La

63

storia della ricerca

Unità significative del testo (il testo è stato ripulito da espressioni informali e reso in italiano) Quindi può sicuramente può essere un’esigenza affettiva quella di nel nostro caso, di salirti in braccio, perché loro hanno bisogno di sentire che il contatto c’è, dopo pranzo, in qualsiasi momento della giornata, quando ti chiedono se possono baciarti, è una cosa molto forte nei bambini questo bisogno affettivo, perché chiaramente provengono da molte situazioni di privazioni affettiva. Però quello su cui si punta sempre è quella dell’autonomia, non solo intesa come un rendersi capace di fare le cose, ma anche rendersi autonoma affettivamente,

Descrizione sintetica La madre comprende la situazione dei figli e offre loro un contatto fisico ad esempio nel prenderli in braccio.

Secondo E. autonomia non è solo essere capaci di fare delle azioni, ma essere autonomi dal punto di vista affettivo nel senso che io ci sono ogni volta che hai E. si mostra sempre dibisogno però… sponibile, ma nella giusta misura

Etichetta descrittiva Aver cura è… accogliere attraverso la dimensione della fisicità

Favorire un’autonomia intesa anche sul piano affettivo Rendersi attendibile, senza però generare dipendenza

Categoria Saper accogliere

Favorire l’autonomia

Essere attendibile

L’analisi a questo punto può riprendere o terminare, se non emergono più informazioni importanti e se le etichette e categorie assegnate reggono rispetto al testo. Il limite di molte ricerche qualitative è quello di rimanere a un livello superficiale di analisi. Per arrivare a costruire una buona teoria descrittiva così come richiede il metodo fenomenologico è importante adottare anche una prospettiva quantitativa, pur a livello elementare. Infatti, per arrivare a individuare ciò che è essenziale nel fenomeno della cura, è necessario mettere a fuoco quella che definiamo “essenza del concreto”. L’essenza del concreto è il nucleo vitale del fenomeno, ciò che propriamente lo costituisce: il modo di presentarsi dell’ente, il suo essere autentico, ciò che va oltre le proprietà contingenti, gli compete necessariamente e senza il quale non potrebbe essere14. Che cosa comporta nella nostra ricerca? Si è trattato di costruire una mappa ordinata delle qualità caratterizzanti le pratiche di cura, così come sono vissute ed espresse dagli/lle intervistati/e. Si è iniziata un’analisi quantitativa per calcolare il numero di volte in cui ciascuna etichetta è presente nel materiale registrato e trascritto. Il calcolo ha consentito di visualizzare 14

L. Mortari e L. Saiani, Gesti e pensieri di cura cit., p. 54; R. De Monticelli, La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità, SWIF Readings/Contemporanea, 2005, ISSN 1126-4780. http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/fenomenologia_SWIFT.pdf.

Fenomenologia

64

della cura

la/le qualità comuni, quelle più estese e/o singolari. L’intento era quello di evidenziare l’importanza attribuita dalle persone al modo di essere indicato dal concetto assegnato. La presentazione ordinata dei risultati raggiunti rappresenta la teoria fenomenologica descrittiva delle esperienze di cura. Per arrivare all’essenza del concreto devo misurare quante volte un’etichetta compare all’interno di tutte le interviste. Accanto a ciò, per fare un’analisi per regioni tematiche bisogna contare quante volte un’evidenza ricorre in una tipologia di interviste, cioè interviste ad infermieri piuttosto che a madri, educatori o insegnanti. Come faccio a calcolare la quantità di evidenze? Dal testo integrale delle interviste raccolgo le unità significative, le riporto in una tabella, collocandole accanto alla loro etichetta rispettiva:

Regioni

Categoria: C O LT I VA R E LA VITA EMOTIVA

Infermieri

Madri

Educatori

Insegnanti

[1] c’è il sentimento, altrimenti se quello è solo tumore che progredisce dov’è la cura? Non c’è più niente, non c’è più nessuna speranza per quello lì, chiudiamo la porta, veniamo tra un mese e vediamo se è morto, allora la tua cura va sul tranquillizzarlo, sull’aspetto dell’umano, di quello che può sentire, dell’arrabbiatura che può avere quel giorno lì e gliela lasciamo, anzi se vuoi, sto lì mi prendo le parole volentieri oggi perché oggi hai bisogno di sfogarti (inf/b-404)

[1] per M. è stato abbastanza fondamentale l’inserimento. È un bambino molto chiuso, c’è da fare tantissima attenzione alle emozioni… pensa che ha pianto dopo quasi due anni che era in casa famiglia per la prima volta, non si permetteva nessuno sbaglio; cerchi di far affiorare in questo bambino, cose che magari lui ha dentro ma che nessuno gli ha dato… (fam/f-134) 1

[1] so che le colleghe - siccome lui aveva gli scatti proprio di nervoso e si nascondeva, oppure graffiava, mordeva - sono riuscite ad aiutarlo un po’ esplicitando le sue emozioni: ‘ma sei arrabbiato?’, ‘sei triste?’, addirittura a una collega un giorno ha fatto una pantomima, un disastro fuori dal Centro, sulla porta, perché non aveva capito cosa aveva nel sacchetto. Era arrabbiato. Quando la collega è riuscita a capire che lui voleva dirle che aveva la bavaglia sporca, allora lui si è tranquillizzato. (edu/a - 266) 1

[1] io gioco molto sull’aspetto anche affettivo, cercando di tranquillizzare (scu/n_43)

Excerpt

Tabella 3.9 – Esempio di raccolta e conteggio delle unità significative

Etichetta: Tranquillizzare

TOT.: 6

[2] il resto è un bisogno di essere tranquillizzati più che un male fisico vero e proprio, non è una patologia, quindi tu devi cercare di mantenere l’integrità psichica della persona non tanto fisica perché non è che con il parto si stravolga chissà quale integrità fisica, c’è un momento in cui tu devi cercare di alleviare il dolore, il resto è una parte prettamente psichica (inf/o_16) 2

[2] io un po’ riprendo le loro emozioni, cerco di capirli, tranquillizzarli, cerco di andare incontro ai genitori, faccio vedere che io sono vicina a loro… le emozioni sono sempre quelle: la paura, la sfiducia, la vergogna anche magari a volte, di comunicarti alcune modalità che il bambino ha a casa. (scu/p_54-56)

2

Infine conto gli excerpt e trascrivo la numerazione in una tabella (Tabella 3.9, ultima riga).

La

storia della ricerca

65

In questo modo si può studiare la relazione tra etichette e persone intervistate e tra tipologie diverse di regioni. È stato utile compiere un’analisi differenziata sulle diverse professioni di cura, altrimenti la nostra ricerca avrebbe perso le differenze e quindi le informazioni: se si perdono le informazioni, non si costruisce conoscenza15. Abbiamo cercato di salvaguardare due tipologie di differenze: le differenze regionali (infermieri/madri/educatori/insegnanti) e le differenze particolari (le voci dei singoli recuperabili attraverso gli excerpt). Salvaguardo le tipologie regionali della cura attraverso la lettura delle interviste per gruppi omogenei, ma successivamente all’interno di questi ultimi devo salvaguardare anche le singole visioni particolari per non perdere il singolo. È il principio di trascendenza, che mi chiede di rispettare l’altro. Alla base dell’analisi quantitativa sta un conteggio diversificato: un primo calcolo riguarda la numerabilità e viene chiamato “numerazione indicativa”: ci si chiede quante volte una determinata etichetta venga citata e si calcola la somma. Un secondo calcolo considera la diversità di ogni excerpt e viene chiamato “numerazione intensiva”: ad esempio una persona intervistata può esprimere molte volte i termini “ascolto/ascoltare” all’interno di uno stesso excerpt, ma solo come parole, senza articolare un discorso maggiore a riguardo16. Ad esempio: Tabella 3.10 – Esempio di numerazione intensiva e numerazione indicativa Etichetta: “Ascoltare” …ascoltandoli, io ascolto tantissimo quello che mi raccontano, le loro perplessità oppure anche, cioè nell’ascolto, Numerazione Numerazione nel fermarmi, nel fermarmi quando loro hanno bisogno intensiva: indicativa: di dirmi delle cose oppure quando mi raccontano anche in altri momenti che potrebbe essere l’intervallo oppure la 4 1 mattina quando arriviamo subito, io mi fermo per ascoltarli (scu/f_14).

15

G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano: Adelphi, 1993; [Mind and Nature, New York: Hampton Press, 1979]. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano: Adelphi, 2005; [Steps to an Ecology of Mind, Chicago-London: The University of Chigago Press, 2000]. Le tabelle con i risultati, le core categories, le numerazioni indicativa e intensiva sono riportate successivamente. 16 La numerazione indicativa presenta alcune difficoltà: ad esempio alcune etichette non possono essere numerate in una cifra esatta, perché non sempre si riferiscono a una parola direttamente rintracciabile (come “ascolto/ascoltare”), ma traducono un’espressione in concetto (“Trattare con riguardo e non essere inclusive”). L’analisi successivamente presentata è basata sulla numerazione intensiva; tuttavia a fine capitolo verrà riportata anche una tabella della numerazione indicativa (Tabella 3.14).

66

Fenomenologia

della cura

Ogni fase viene ripetuta fino al punto in cui non emergono nuove idee, etichette, categorie e finché queste non sono raffinate e parlano fedelmente ed esclusivamente delle evidenze a cui si riferiscono. Fino a quando può durare tale processo? Di per sé sarebbe infinito, perché può sempre esserci qualche elemento che sfugge; si può comunque segnare un limite, quando si arriva al cosiddetto momento di saturazione ossia quando non emerge più nulla. È importante discernere se si tratta di vera e propria saturazione o di un momento di aridità e “vuoto” nel lavoro. Anche nel nostro gruppo di ricerca, che alternava momenti di lavoro personale e incontri d’equipe, era emerso il problema di “non trovare più niente”. Ci si è chiesto allora se fosse in corso un momento di saturazione, previsto nella ricerca. Inizio ad analizzare le interviste, la mia idea di cultura della cura si allarga, si articola e arriva a un certo punto in cui è sempre uguale. Allora provo a trovare elementi che mi confermino tale idea e ha inizio la fase di saturazione: può succedere che si continui a leggere le interviste ma non si trovino altri dati che spingono ad allargare l’idea, a cui si è arrivati. Allora vuol dire che non ci sono più dati da aggiungere. Oppure può succedere che, leggendo altre interviste molto diverse, si continui a fare il lavoro di ristrutturazione. Il paradigma naturalistico della ricerca arriva al punto di saturazione e vuol dire che bisogna smettere la ricerca; certamente non ci si ferma al primo momento di saturazione, perché può succedere di non riuscire a vedere le differenze. Perciò c’è una saturazione reale e una saturazione soggettiva (Riunione di ricerca_β).

Può accadere che il ricercatore abbia costruito dentro di sé delle visioni che diventano elementi ossessivi perché tende a rimarcarli, quindi deve liberarsi anche di quelli. Gli elementi ossessivi possono essere costituiti da pregiudizi, modi di vedere o giudicare la realtà, sensazioni e ricordi che emergono nella lettura delle interviste o modalità derivanti dall’essere così immersi nel materiale da notare solo alcuni elementi ricorrenti e non altri. Un’indicazione può essere quella di individuare e scrivere ciò che diventa quasi ossessivo, tenere la mente attenta a vedere l’elemento di disturbo ogni volta che si presenta nel lavoro di ricerca: è importante tenere sotto controllo questi fattori, affinché non vadano a inquinare il processo di interpretazione dei dati. Sempre sulla base della ricerca svolta, un altro disagio in cui può imbattersi il ricercatore sta nel riprendere interviste già analizzate e discusse e vedervi delle novità o la necessità di apportare delle modifiche nell’analisi. Com’è possibile, se il lavoro precedente era stato fatto con precisione? Quando termina l’analisi di una ricerca? A questo proposito si parla di “sensibilità

La

storia della ricerca

67

teoretica”17. Questa può venire meno, se l’analisi diventa un’applicazione di quello che c’è già disponibile anziché uno stare attento alla specifica originarietà del testo. Quando il ricercatore nell’analisi del materiale applica delle categorie già costruite senza stare attento a quello che gli dice la realtà, si produce l’inaridimento teoretico o inaridimento interpretativo, poiché si tende a cogliere solo ciò che le categorie già disponibili consentono di trovare. Il rischio della routine, in quanto applicazione di etichette già disponibili, impedisce l’emergere di nuove etichette. Il criterio è sempre la fedeltà alla persona che sta parlando e si può seguire tale direzione attraverso il confronto in gruppo, lo studio della letteratura, momenti di pausa e distanziamento dal testo stesso oppure attraverso il pensiero dell’idea opposta (flip flop tecnique)18. Se l’applicazione delle etichette è preponderante rispetto alla lettura, va fatto un lavoro continuo di revisione e riflessione. La sensazione di impoverire il testo o di appiattirlo (nel tenere a freno l’immaginazione, la creatività e stare sui testi con rigore e fedeltà) non va confusa con la saturazione né con la possibilità di avere creato una sintonia forte nel gruppo, il che – costruire una cultura di gruppo – è un aspetto positivo. Tutto il processo di categorizzazione non termina con un elenco di categorie, ma porta a mettere alla prova il coding system una volta costruito e a ridefinirlo, al fine di verificare se effettivamente si adegua ai dati che sta analizzando, come un guanto alla mano. Il coding system serve a descrivere il fenomeno, aiuta la lettura, fa emergere le qualità essenziali di un fenomeno. Ci si rende conto a questo punto di quanto sia laborioso e articolato il lavoro del ricercatore attraverso le parole simpatiche ed efficaci, tratte da un incontro d’equipe: Immaginate che la mente sia uno scaffale vuoto di una biblioteca: lo si riempie di tantissime opere, alcune delle quali sono libri ben catalogati (nel nostro caso sono il coding system o il diario di ricerca). Poi sullo scaffale ci sono dei cestini pieni di materiale in confusione: ci sono, ma quasi non li vediamo nemmeno. I cestini rappresentano tutte le idee che si stanno accumulando nella mente (modalità procedurali, abilità di pensiero…): se si interrompe la ricerca, svaniscono. Non tutto il nostro sapere, che prende forma e si materializza, è depositato. C’è un sapere che non si materializza, rimane molto vago ed è disponibile nella misura in cui lo si usa. È come fare lo yogurt: ci sono dei fermenti da mettere quotidianamente nel latte e che permettono di fare lo yogurt in ventiquattro ore. Se non lo si fa tutti i giorni, i bacilli muoiono e

17 18

L. Mortari, Cultura della ricerca e pedagogia cit., p. 158. Ivi, p. 164.

Fenomenologia

68

della cura

non si può più formare lo yogurt. […] La metafora vuole indicare che è come se noi avessimo dei batteri nella mente: se non li attiviamo continuamente, i batteri muoiono (Riunione di ricerca_γ).

4. Coding System Il coding system finale è stato elaborato come segue. Per arrivare all’essenza del concreto, abbiamo cercato di raccogliere le categorie e le relative etichette costruite attraverso l’analisi, inserendole in una tabella: Tabella 3.11 – Coding System Conceptual label

Descriptive labels

Coltivare la vita emotiva 1

Tranquillizzare

2

Contenere i vissuti dell’altro

3

Favorire l’espressione di sentimenti ed emozioni

4

Aiutare ad elaborare sentimenti ed emozioni Coltivare la vita della mente

5

Far pensare

6

Promuovere il pensare insieme Coltivare la vita relazionale

7

Rivolgere la parola

8

Interpretare il vissuto

9

Ascoltare

10

Creare comunicazione su contenuti significativi

11

Dichiarare un interesse positivo per l’altro

12

Accompagnare il gesto con la parola che rassicura

13

Cercare il contatto con la parola

14

Creare un contatto fisico non intrusivo

15

Trattare con riguardo e non essere intrusive

16

Creare situazioni di agio.

La

69

storia della ricerca

5. Conteggio delle etichette in assoluto e per regioni Successivamente abbiamo quantificato quanti excerpt fossero presenti per etichetta e per regione, facendone le somme totale e parziali: Tabella 3.12 – Coding system con somma totale degli excerpts per categoria (in maiuscolo), etichetta (in minuscolo) e regione19. In grassetto sono evidenziate le etichette più significative CATEGORIE ed etichette (numerazione intensiva)

Field o regioni Inf.

Fam. Edu.

Ins.

TOT.

COLTIVARE LA VITA EMOTIVA 1

Tranquillizzare

2

1

2

2

7

2

Contenere i vissuti dell’altro

0

0

2

0

2

3

Favorire l’espressione di sentimenti ed emozioni

0

2

0

7

9

4

Aiutare ad elaborare sentimenti ed emozioni

0

0

0

3

3

Totale parziale

2

3

4

12

21

COLTIVARE LA VITA DELLA MENTE 5

Far pensare

0

1

1

7

9

6

Promuovere il pensare insieme

0

1

1

1

3

Totale parziale

0

2

2

8

12

COLTIVARE LA RELAZIONE 7

Rivolgere la parola

1

0

0

0

1

8

Interpretare il vissuto

3

0

0

1

4

9

Ascoltare

2

1

3

10

16

10 Creare comunicazione su contenuti significativi

0

0

2

12

14

11 Dichiarare un interesse positivo per l’altro

1

0

0

0

1

12 Accompagnare il gesto con la parola che rassicura

4

0

0

0

4

13 Cercare il contatto con la parola

1

0

0

0

1

19 Negli excerpts presentati successivamente si troveranno indicazioni come “inf/f_164”: significa che le parole provengono dalla battuta 164 di un’intervista fatta all’ infermiere/a denominata “f ”. La prima parte dell’indicazione (“inf ”, ”fam”, ”edu”, ”ins”) indica la tipologia di persona intervistata; la lettera dopo la barra (a, b, c, d, …) è per noi un riferimento ad una persona specifica; il numero indica a che punto dell’intervista è stato scelto l’estratto (1, 2, 3, 4, 5, …).

Fenomenologia

70 CATEGORIE ed etichette (numerazione intensiva)

della cura

Field o regioni Inf.

Fam. Edu.

Ins.

TOT.

14 Creare un contatto fisico non intrusivo

9

0

4

15

28

15 Trattare con riguardo e non essere intrusive

0

1

0

0

1

16 Creare situazioni di agio.

1

0

3

3

7

17 Avere rispetto

2

0

0

0

2

18 Accompagnare l’altro verso l’autonomia

4

1

3

1

9

19 Soddisfare i bisogni

3

0

0

4

7

20 Responsabilizzare l’altro

1

2

2

1

6

21 Dare regole

1

1

2

15

19

22 Creare routine

1

0

0

6

7

23 Rendere partecipi

0

1

0

1

2

24 Sostenere

0

1

0

0

1

25 Informarsi ed informare

3

1

4

1

9

26 Aiutare l’altro a comprendersi Mettere in relazione cura del soggetto e cura della 27 collettività-società 28 Dare tempo (alla relazione di costruirsi)

1

2

3

2

8

0

3

3

1

7

1

0

2

6

9

29 Prestare attenzione

11

1

16

27

55

50

15

47

106

218

52

20

53

126

251

Totale parziale TOTALE

6. Core categories Il conteggio aiuta ad arrivare alla costruzione della/e core category/ies. Queste ultime sono categorie dominanti e centrali, attorno alle quali ruotano le altre20. Il coding system costruito è generale, mentre ogni core categories è diversa. Per cercare di capire se c’è una specificità dell’attività di cura distinta rispetto alle regioni, abbiamo cercato di vedere quanta intensità avevano le varie 20

La core category è stata individuata sia in assoluto (rispetto alla somma totale delle etichette di tutti i field) sia per regioni (ossia la core category di ogni tipologia di intervistati). È stato importante calcolare le proporzioni e non lavorare solo sul numero assoluto: infatti una data categoria poteva risultare prevalente sommando tutti le regioni, ma carente in uno di essi. L. Mortari, Aver cura di sé cit., p. 157.

La

71

storia della ricerca

etichette. Allora è emerso che l’attività degli infermieri dà molto rilievo al prestare attenzione, le madri al mettere in rete soggetto e società, gli educatori e le insegnanti al prestare attenzione. Quindi c’è una core category che ritorna e una che si differenzia là dove ci sono le madri, anche se queste ultime hanno ben presente il prestare attenzione. Tabella 3.13 – Core categories per regione risultante da un confronto numerico in assoluto e in relazione ai fields.

Core categories

Fields

INFERMIERI Prestare attenzione (11)

MADRI Mettere in rete soggetto e società (3) Responsabilizzare l’altro (2)

Creare un contatto fisico non intrusivo (9) Accompagnare l’al- Aiutare l’altro a tro con la parola comprendersi (2) che rassicura (12) Accompagnare Trattare con l’altro verso l’autoriguardo e non nomia (4) essere intrusive (1) Interpretare il vissuto (3) Tranquillizzare (2)

EDUCATRICI INSEGNANTI Prestare attenzione Prestare attenzione (16) (27) Creare un contatto Dare regole (15) fisico non intrusivo (4) Informare e infor- Creare un contatto marsi fisico non intrusivo (4) (15) Creare situazioni Creare comunicadi agio (3) zione su contenuti significativi (12) Aiutare l’altro a Ascoltare (10) comprendersi (3) Mettere in rela- Favorire l’espressiozione soggetto e ne di sentimenti ed società (3) emozioni (7) Tranquillizzare (2) Far pensare (7) Responsabilizzare Dare tempo alla l’altro (2) relazione di costruirsi (6) Dare regole (2) Creare routine (6) Creare comunica- Soddisfare i bisogni zione su contenuti (4) significativi (2) Contenere i vissuti Creare situazioni dell’altro (2) di agio (3) Aiutare ad elaborare sentimenti ed emozioni (3) Tranquillizzare (2)

Per quanto riguarda tutta l’attività di cura si può dire che la core category generale sia il prestare attenzione:

Fenomenologia

72

della cura

Figura 3.4 – Core category

7. Risultati L’aver cura per l’altro è stato diviso secondo la cura per la vita emotiva, cognitiva e relazionale21. Emerge la categoria dell’attenzione come core category in generale, a esclusione delle madri adottive. Questo dato forse si motiva nel fatto che le madri non la nominano direttamente, ma esprimono un insieme di altre pratiche connesse e di supporto. Tendenzialmente, come si può notare, nel field delle madri non si rilevano numeri elevati di excerpts; si può forse pensare che vi sia una pratica di cura non espressa, non codificata e che procede attraverso modalità altre rispetto a quelle professionali. Spesso nelle interviste parlano molto dei figli e di ciò che essi compiono: le intervistatrici più volte cercavano di riportarle a parlare dei vissuti propri, tentativo che a volte ha trovato risposta e altre volte ha visto le madri ritornare a parlare dei figli, quasi fosse una loro qualità l’uscire da se stesse e mettere l’altro al primo posto. In generale si osserva una maggiore capacità di parlare di cura da parte delle insegnanti, forse data dagli studi psico-pedagogici, dall’abitudine a mettere in parola il vissuto e dalla formazione coltivata in itinere. 21

È sempre da ricordare la diversità tra numerazione indicativa e numerazione intensiva. L’analisi degli excerpts si può vedere per tipologia d’intervistati/e nel corso del testo.

La

storia della ricerca

73

Sono stati individuati consistenti riferimenti sulla vita emotiva e cognitiva, sull’autocomprensione, sulla comunicazione (come ascolto, offerta e ricezione d’informazioni e come scambio su contenuti significativi), sulle relazioni (curare un rapporto non intrusivo, dare regole, promuovere il soggetto alla socialità). Imprescindibile come sfondo è la pratica del dare tempo, perché permette di costruire legami di fiducia, percorsi di maturazione interiore e costruzione di buone relazioni. Buone pratiche di cura aiutano a vivere le situazioni con serenità, vedono le persone che si prendono cura come accompagnatori per un tratto di cammino, casse di risonanza, appoggi e steccati su cui appoggiarsi e tenere la strada, trampolini per andare oltre. La comunicazione verbale e analogica (aspetto esteriore, atteggiamento spaziale e comportamento cinesiaco) indica il mettere qualcosa in comune. Si tratta di un processo complesso, in cui rimane fondamentale da una parte il fatto che, quando comunichiamo, siamo condizionati da ciò che ci abita e dall’altra parte che ogni comportamento è comunicazione e definisce il nostro stile relazionale. In sintesi si può affermare che non si può non comunicare22. Una categoria importante è quella riguardante l’accogliere, che permette di creare uno spazio per l’altro con cuore ospitale. Un insieme di atteggiamenti appartengono all’accoglienza e possono essere riassunti nel prestare attenzione. Quest’ultima può essere considerata una categoria sommativa: implica il coinvolgimento di tutto se stessi in un orientamento della mente e dei sensi verso l’altro e verso le relazioni significative per lui e per lei. L’essere diventa altamente recettivo, è previsione dei desideri e bisogni altrui, dà valore all’altro, gli segnala eventuali pericoli e lo esorta ad essere a sua volta attento. L’attenzione richiede sia concentrazione, impegno, applicazione, diligenza, cura sia cortesia, premura, gentilezza, riguardo. La persona attenta non si confonde con l’altro né lo sostituisce, è capace di osservare i piccoli e grandi cambiamenti, sa aspettare come rischiare quando opportuno, rispetta i confini personali e accetta i limiti propri e altrui. Anche l’etimologia latina della parola può aiutare: adtendo porta il significato di tendere verso, badare e dedicarsi a, volgere la mente. È quindi una tensione, un movimento in cui la persona è pronta a osservare, ascoltare, sentire l’altro. Prestare attenzione significa veicolare alla persona che incontro la certezza di essere presa in considerazione da me. Si esplicita concretamente in tre dimensioni: prestare attenzione fisicamente (1), osservando (2) e ascoltando (3). La dimensione corporea è importante nel sapere come personalizzare un incontro a seconda del soggetto con cui ci si relaziona (uomo, donna, 22

M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Milano: Adelphi, 1987; [Brief über den Humanismus, pubblicata in Platons Lehre von der Wahrheit, Bern: A. Francke A. G., 1947, pp. 267-269].

Fenomenologia

74

della cura

bambino/a, malato...): ad esempio considerare l’aspetto della distanza fisica può essere importante, perché ciascuno di noi ha un territorio personale da rispettare. Dalle interviste emerge come i primi momenti d’incontro possano creare un senso positivo o negativo che influisce sull’incontro stesso. In alcune situazioni il contatto corporeo non invadente, ma premuroso e delicato crea fiducia e una relazione positiva: si pensi ad esempio un infermiere che deve medicare il corpo di un paziente o la carezza e l’abbraccio ad un figlio. Accanto a ciò si saldano l’osservazione e l’ascolto. La prima cerca di capire lo stato d’animo, il tono della voce dell’altro, come si muove, cosa dice, come si veste... Non è curiosità superficiale, ma desiderio di cogliere indizi per aiutare l’altro. L’ascolto può essere visto come un movimento attraverso il quale l’individuo, uscendo da se stesso, riconosce e afferma l’alterità che gli sta di fronte. Richiede decentramento, ossia un atteggiamento non naturale, ma che implica il fare silenzio nella propria dimora interiore sostanziata di bisogni, desideri, stati emotivi… L’ascolto è frutto di un volere, è risultato di apprendimento, perché può essere selettivo e essere ostacolato da molteplici fattori (disattenzione, pregiudizi, stanchezza, routine, timori…). L’ascolto attivo non coglie solo il contenuto, ma è attento anche alla risonanza emotiva, in modo tale che si ponga attenzione a tutto il messaggio complessivo che viaggia tra chi è preso in cura e chi cura. L’ascolto può essere visto come una carezza, intendendo quest’ultima come segno di riconoscimento ossia che il soggetto e ciò che egli dice sono importanti. In questo senso ascoltare fa esistere l’altro, che ha la percezione di essere ascoltato dalle risposte che riceve. L’ascolto, fatto di parole, gesti e silenzi è fondamentale in ogni relazione, a maggior ragione in quelle di cura: crescere in quest’ambito va conquistato e acquisito attraverso un lavoro interiore ed esteriore.

8. Il team Un importante aspetto iniziale è stato quello di capire l’importanza di un affiatamento e sintonia nel gruppo e un continuo confronto esplicito sul nostro modo di pensare e procedere. Tale libertà nel potersi esprimere non è stata immediata, ma nel tempo si è vista la positività della progressiva e maggiore conoscenza reciproca e delle discussioni costruttive sul non detto, che condizionava il buon funzionamento del gruppo23. 23

Gli estratti inseriti nel testo sono attinti da queste trascrizioni (con alcune modifiche rispetto ai nomi delle persone e alla grammatica italiana), per rendere visibile un momento di discussione e costruzione di sapere.

La

75

storia della ricerca

Ci sembra interessante soffermarci su tale aspetto del lavoro di affinamento nel gruppo, sui nodi discussi, su alcuni esempi di problematiche incontrate e possibili soluzioni. Il lavoro in equipe, l’analizzare insieme i dati, permette di non by-passare insieme questioni ed elementi importanti. La forza del gruppo di ricerca permette di superare la tendenza a conformarsi alla propria visione del mondo. Infatti ci sono delle epistemologie personali e delle epistemologie professionali. Nelle prime stanno i nostri modi di essere e di vedere le cose. Il punto di vista altrui ci mostra che esiste anche altro. L’appartenenza a culture diverse all’interno di un gruppo di ricerca ha come ricchezza il fatto che ognuno può portare i propri punti di vista: la ricerca non si può mai fare da soli, perché rimarremmo rinchiusi dentro i nostri schemi e ossessioni. Alla fine della fase di raccolta delle interviste il confronto con una ricercatrice esterna al gruppo ha portato un’ulteriore visione, meno implicata delle intervistatrici e diversamente implicata rispetto alla coordinatrice.

9. Posture cognitive Il lungo lavoro di costruzione induttiva, visto precedentemente, è affiancato da uno studio della letteratura per trovare parole fedeli ai significati espressi dai partecipanti e per tessere un dialogo fecondo tra teorie e dati emergenti. Coltivare una certa postura cognitiva e interiore ha permesso di rapportarci in modo particolare ai dati, relazionarci positivamente con le persone intervistate e tra noi. Quali sono state le posture privilegiate che abbiamo cercato di attuare e che ci sono state di supporto in questo lavoro? La fenomenologia empirica ci ha rese attente nel cogliere sia le qualità essenziali sia l’essenza nel concreto. Le due dimensioni sono collegate tra loro e intrecciate nelle due fasi maggiori di ricerca: la raccolta delle interviste e l’analisi dei dati. Per realizzare tali istanze abbiamo cercato di adottare alcune attenzioni. Come accennato all’inizio, nel raccogliere le interviste (ricche di pratiche, pensieri, sentimenti, difficoltà e aperture…) si è privilegiato l’ascolto dei pratici per una ragione sia epistemica, sia politico-culturale. La prima è stata scelta, perché la ricerca è sollecitata a entrare realmente nel mondo di significati dell’altro, ponendo attenzione a non rimanere dentro entro il proprio sguardo di ricercatrice. Infatti ci interessava capire non un’idea generale degli intervistati sul concetto di cura, ma le loro esperienze ricche di realtà e che in questo modo potevano costruire sapere. La seconda è dovuta all’esigenza di dare voce a chi solitamente non può esprimerla, perché

76

Fenomenologia

della cura

passa inosservato: spesso non si pone attenzione al lavoro e alle pratiche di cura messe in atto quotidianamente in campo infermieristico, educativo, scolastico e familiare. Le persone intervistate hanno ringraziato – con nostra sorpresa – noi ricercatrici per l’attenzione, l’ascolto e lo spazio di parola ricevuti, trasformando l’intervista in possibilità di riflessione e valorizzazione del proprio agire, pensare e sentire24. Un ascolto “a-giudicante” ha permesso agli intervistati libertà dal sentirsi valutati e maggiore motivazione nel raccontare. In alcuni casi l’intervista è stata uno specchio in cui poter vedere e riconoscere cosa sapevano fare. Inoltre abbiamo cercato di attenerci il più possibile al principio di fedeltà. Il principio di fedeltà fenomenologico richiede di essere il più rispettosi possibili nei confronti del fenomeno che si va indagando e che si può manifestare25. Ogni fenomeno presenta un volto manifesto e un volto nascosto: l’umiltà nell’accettare queste dimensioni porta ad accostarsi ai soggetti e ai dati senza tradirli, stando attenti alla loro originalità e verità alle quali ci si può avvicinare, seppur asintoticamente. Ogni etichetta e categoria assegnata dovrebbero basarsi su evidenze testuali e custodirne il senso e significato. Il principio di fedeltà può essere favorito da una mossa metodologica e da una mossa epistemica. La prima porta a ritornare ripetutamente sui dati: come si è spiegato precedentemente, vi sono state interviste ripetute, analisi rivedute più volte in modo ricorsivo per arrivare il più vicino possibile all’essenza concreta. In secondo luogo, se a esserci di aiuto è stato il lavoro di equipe e la supervisione, è da ricordare l’epochè ossia la mossa epistemica che consente di mettere tra parentesi preconcetti, giudizi e tutto ciò che può inquinare l’incontro con l’altro e con ciò che ci porta. Sembra difficile poter parlare di epochè radicale, perché non sempre è possibile che sia totale, ma un’attenzione ai vissuti interiori rende più consapevoli della nostra vita della mente26. L’apertura dell’animo e della mente rendono le pratiche cognitive capaci di ricevere ciò che può emergere ossia di accogliere il dato. Non sempre il dato è chiaro e immediato, a volte va lasciato in sospeso e a volte va ripreso e rinterrogato con delicatezza, senza manipolarlo o farlo aderire ai nostri tempi, convinzioni o aspettative. Si tratta di un lavoro che richiede di offrire il tempo richiesto dalla complessità del reale, un tempo che consenta di attendere l’essere come dato donato. Il “dato” prende tale nome, non perché l’abbiamo costruito,

24

M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna: Il Mulino, 1996, p. 477; [The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge: Cambridge University Press, 1986]. 25 L. Mortari, Cultura della ricerca e pedagogia cit., p. 83. 26 Ivi, p. 89.

La

storia della ricerca

77

ma perché si offre a noi, “ci è dato”. Rispettare questa sua caratteristica da una parte permette di preservarlo da possibili distorsioni, dall’altra aiuta la ricerca a essere rigorosa. Tale atteggiamento del ricercatore si realizza non solo nella fase di analisi, ma diventa una premura e intenzione che accompagnano tutto l’iter della ricerca. Ad esempio anche nello svolgimento dell’intervista sono importanti le disposizioni personali dell’intervistatrice. Alcune possono facilitare e amplificare le possibilità di raccogliere materiale di ricerca in modo ricco dal punto di vista analitico e interpretativo: “la disponibilità all’ascolto e al dialogo, l’atteggiamento naturalmente curioso e fiducioso nei confronti degli altri, l’atteggiamento istintivamente non giudicante, la facilità a lasciarsi sorprendere […] rendono maggiormente fertile il terreno di produzione del materiale di ricerca”27. Tutto ciò non è stato lineare e immediato, anzi ha richiesto un notevole confronto e capacità di discutere i problemi, cercare soluzioni, argomentare le scelte compiute, affrontando i punti di vista diversi e opposti. Desideriamo offrire alcuni esempi dei nodi più importanti affrontati lungo il percorso. Uno dei primi problemi è stato quello di riscontrare di avere idee diverse di cura, sia personali sia raccolte dalle persone intervistate. Da una parte sembrava normale, perché la cura non è un concetto chiaramente codificato nelle nostre culture, dall’altra sembrava un ostacolo. Inoltre rimaneva il dubbio se era stato opportuno non partire già con un’idea comune di cura, magari ricavata dalla letteratura. La via d’uscita è stata quella di prendere coscienza delle proprie ringhiere cognitive che potevano entrare in gioco e di imparare sia a gestirle sia ad assumere una postura mentale aperta e dialogante rispetto a ciò che ci veniva raccontato nelle interviste. Questa è una domanda che mi ero fatta, è una domanda del mio diario di ricerca prima di iniziare la ricerca: devo spiegarvi il concetto di cura o non lo devo spiegare? In realtà avevamo fatto un incontro, il primo incontro, in cui avevo dato alcune spiegazioni. Sapevate comunque il concetto di cura mio, il problema è tenerlo poi tra parentesi. La grounded theory dice: quando tu fai una ricerca, non devi sapere nulla di quella ricerca. Altri dicono che non è possibile, l’importante è esplicitare quello che si sa. Io sono di questo parere. Poi lo tengo lì e faccio in modo che la mia cultura non invada quella dell’altro, altrimenti sono un colonizzatore. Devo evitare l’azione di colonizzazione dell’altro, senza annichilirmi come soggetto pensante: vuol dire recuperare tutta la mia storia, la mia cultura personale e saperla usare con discrezione,

27

R. Bichi, L’intervista biografica cit., p. 57. Douglas parla di un intervistare creativo (J. D. Douglas, Creative Interviewing, London: Sage, 1985).

78

Fenomenologia

della cura

ossia lasciare spazio all’altro. Quindi una buona intervista è un’azione di cura, perché lascio all’altro lo spazio per essere se stesso. Gli dico “io parlo di cura con te, però se tu mi dici che la cura è un’altra cosa mi va bene, perché io non voglio una conferma della mia teoria della cura, voglio raccogliere la cultura della cura e la cultura della cura contempla molteplici aspetti”. Le persone intervistate possono dirci cose che non ci aspettiamo e che non stanno nei nostri orizzonti di pensiero. Se succede, vuol dire che l’intervistata ha trovato lo spazio per parlare (Riunione di ricerca_d_21).

È stato importante riconoscere che ognuna di noi, in quanto pensatrice, doveva parlare del proprio stile, del proprio modo di essere, che poi è il modo di essere nella vita. Ci è stato chiesto di vedere ed esplicitare che tipo di persone eravamo, il nostro grado di direttività, i nostri bisogni e il tipo di fiducia che nutrivamo (o non nutrivamo) nell’altro. In caso contrario, il rischio sarebbe stato quello di togliere alla persona intervistata ogni fiducia e autorevolezza. Una seconda questione riguardava i processi della vita della mente delle ricercatrici nel corso della ricerca. L’idea di cura dalla quale eravamo partite è stata poi approfondita e quindi si è trasformata; l’idea inizialmente vaga e poco chiara progressivamente è diventata complessa e diversificata. Questo aspetto è stato portato alla luce dal lavoro meta-riflessivo: …riflettevo su quello che mi succedeva anche durante le interviste, oppure quello che studiavo alcune volte mi portava alla riflessione sulla cura e me la sono costruita strada facendo. L’idea che ho ora di cura non è quella che avevo un anno fa (dal diario di ricerca).

L’intervistatore cresce nell’incontro con l’altro. In questo modo può arricchire l’intervista, perché può mettere in gioco molteplici elementi. L’essere in ricerca allora diventa una spirale. Una scelta importante da parte della coordinatrice all’inizio della ricerca è stata quella di non fare lezioni previe o indicare di studiare particolari testi sull’argomento, ma – dopo un primo incontro iniziale – ha consigliato di iniziare subito le interviste: È una domanda che mi sono posta io: temevo che un’eccessiva alfabetizzazione vi avrebbe chiuso. Quello che mi pareva però importante era che avessimo un’idea comune, a largo raggio. […] Ci dev’essere un’idea “sufficientemente vaga” o “insufficientemente densa”. Se tu hai un’idea molto stretta, non lasci spazio a nient’altro, non incontri niente, perché stai nel vuoto. Allora l’idea dev’essere sufficientemente definita ma adeguatamente vaga, in modo da lasciare spazio all’altro, quando fai una ricerca… Mi chiedevo mentre parlavate: a questo punto devo dare da leggere il mio libro sulla cura a loro o non glielo devo dare da leggere? Questa è la domanda che mi facevo e me la sono scritta. Questa è una cosa sulla quale io mi devo interrogare. […] e

La

79

storia della ricerca

allora mi chiedo: ma a questo punto allora che cosa devo fare? Ha ragione A. perché potrebbe essere che dopo scombussolo tutto il lavoro del coding system vostro (Riunione di ricerca_e).

Successivamente l’analisi dei dati ha visto una diminuzione delle persone coinvolte. È comunque proseguita in modo ricorsivo e attenta a rimanere fedele alle parole delle persone intervistate. Si è affiancato anche un approfondimento della letteratura, in particolare nel ricercare cosa dicessero autori di riferimento, filosofi, mistici e padri del deserto sui concetti emersi dalle etichette e dalle categorie28.

Conclusioni Tutte queste attenzioni e questioni certamente non hanno tolto né limitato la ricchezza delle interviste, sempre sovrabbondante rispetto al nostro modo di approcciarle e analizzarle. La ricchezza umana delle persone incontrate e delle parole ascoltate e lette nelle trascrizioni rappresentano un di più e un gratis, difficilmente esprimibile a parole, anche se presente. Emergono un’idea e una pratica di cura che intreccia mondi interiori ed esteriori, dimensioni fisiche, intellettive, emotive, spirituali e relazionali, elementi di fatica, logoramento e potenzialità arricchenti e vivificanti. Rimane la semplicità con la quale le persone intervistate descrivono loro stesse come destinatarie di cura e rese ricche dai soggetti in situazione di fragilità o limite con le quali si relazionano. In questo panorama la cura verso l’altro è legata alla cura verso se stessi: porto all’altro ciò che sono, ciò in cui mi sto coltivando, ciò che porto dentro come valori e atteggiamenti. Quanto più questi sono curati e valorizzati, tanto più li posso attuare e promuovere, pur nei limiti personali e contestuali. Desideriamo quindi ringraziare le persone intervistate, il loro dedicarci tempo, attenzione, semplicità, il loro donarci frammenti di vita ricca di cura nel loro essere, personalità, modo di vivere e lavorare, la ricchezza di esperienza lasciataci e quanti e quante hanno collaborato a questa ricerca. Nella consapevolezza che ogni discorso sul tema rimane parziale e custodisce sempre un lato nascosto, auspichiamo allo stesso tempo il confronto e la continua ricerca, affinché la pratica e la teoria possano informarsi e arricchirsi reciprocamente.

28

Ad esempio quando si incontrava la categoria “ascolto”, si andava a leggere Zambrano; quando si arrivava ad “empatia”, si leggeva Stein, ecc. Oppure nelle letture varie si appuntavano eventuali riferimenti che sarebbero potuti essere interessanti per la ricerca.

Fenomenologia

80

della cura

Numerazione indicativa Come spiegato precedentemente, alcune etichette non hanno corrispondenza tra nuova e precedente analisi: le abbiamo raggruppate per stile (corsivo – punteggiato - sottolineato) e numero di asterisco. Altre etichette – come anticipato in una nota precedente – non possono essere contate in un numero esatto, perché non esprimono una parola direttamente rintracciabile (ad esempio “ascolto - ascoltare”), ma un concetto (“Trattare con riguardo e non essere inclusive”): perciò sono state trascritte con sottolineatura ondulata. Tabella 3.14 – Numerazione indicativa CATEGORIE ed etichette (numerazione intensiva)

Inf.

Fam.

Edu.

Ins.

TOT.

4

2

7

1

2

1

1

12

16

4

15

AVER CURA DELLA VITA EMOTIVA 1

Tranquillizzare

1

2

Contenere i vissuti dell’altro

1

3

Favorire l’espressione e aiutare ad elaborare sentimenti*

4

Favorire l’espressione e aiutare ad elaborare emozioni*

2

2

AVER CURA DELLA VITA DELLA MENTE 5

Far pensare

6

Promuovere il pensare insieme

1

10

3

3

2

3

11

COSTRUIRE LA RELAZIONE 7

Rivolgere la parola**

8

Interpretare il vissuto

9

Ascoltare

3

3

4

20

30

10

Creare comunicazione su contenuti significativi

2

2

1

13

18

11

Dichiarare un interesse positivo per l’altro

2

5

12

Accompagnare il gesto con la parola che rassicura

13

Cercare il contatto con la parola**

14

Creare un contatto fisico non intrusivo***

15

Trattare con riguardo e non essere intrusive

5

16

Mettere l’altro nelle condizioni di sentirsi a suo agio. Creare situazioni di agio.

5

3

6

6

5 3

8

La

81

storia della ricerca

CATEGORIE ed etichette (numerazione intensiva)

Inf.

17

Avere rispetto***

4

18

Accompagnare l’altro verso l’autonomia

4

19

Soddisfare i bisogni

1

20

Responsabilizzare l’altro

1

2

21

Dare regole

1

5

22

Creare routines

1

23

Rendere partecipi

24

Sostenere

1

2

25

Informarsi ed informare

4

1

5

26

Aiutare l’altro a comprendersi

2

1

27

Mettere in relazione cura del soggetto e cura della collettività-società

1

2

4

2

9

28

Dare tempo (alla relazione di costruirsi)

2

3

2

15

22

29

PRESTARE ATTENZIONE

5

1

12

16

34

Fam.

1

Edu.

Ins.

TOT.

1

5

10

3

2

10

5

6

2

7

20

26

6

8

1

2

2

1 1

3 3

13 3

Riferimenti bibliografici Andemberg M., 1973, Cluster analysis for applications, New York: Academic Press. Bateson G., 1993, Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano: Adelphi; [Mind and Nature, New York: Hampton Press, 1979]. Bateson G., 2005, Verso un’ecologia della mente, Milano: Adelphi; [Steps to an Ecology of Mind, Chicago-London: The University of Chicago Press, c2000]. Bichi R., 2002, L’intervista biografica, Milano: Vita e Pensiero, 2002. De Monticelli R., La fenomenologia come metodo di ricerca filosofica e la sua attualità, SWIF. Readings/Contemporanea, 2005, ISSN 1126-4780. http://www.swif.uniba. it/lei/pdf/biblioteca/readings/fenomenologia_SWIFT.pdf. Douglas J. D., 1985, Creative Interviewing, London: Sage. Erlandson D. A. et al., 1993, Doing Naturalistic Inquiry: A Guide to Methods, Newbury Park, CA: Sage. Heidegger M., 1987, Lettera sull’umanesimo, Milano: Adelphi; [Brief über den Humanismus, pubblicata in Platons Lehre von der Wahrheit, Bern: A. Francke A. G., 1947]. Jain A. K. e Dubes R. C., 1988, Algorithms for clustering data, New Jersey: Prentice-Hall. Mortari L., 2002, Aver cura della vita della mente, Milano: La Nuova Italia. Mortari L., 2007, Cultura della ricerca e pedagogia, Roma: Carocci.

82

Fenomenologia

della cura

Mortari L., 2009, Aver cura di sé, Milano: Bruno Mondadori. Mortari L. e Saiani L., 2013, Gesti e pensieri di cura, Milano: McGraw-Hill. Nussbaum M., 1996, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna: Il Mulino; [The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge: Cambridge University Press, 1986]. Todeschini R., 2003, Introduzione alla chemiometria, Napoli: EdiSES.

Capitolo quarto Nell’universo della sofferenza. L’infermiere: dall’oggettivismo tecnicistico del curare al soggettivismo umanistico dell’aver cura Rita Fadda

Noi che sprechiamo i dolori. Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano, a vedere se finiscono, forse. E sono invece la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo tempo, son luogo, sede, campo, suolo, dimora. (R.M. Rilke, Elegie Duinesi, X, 10-15)

Nella raccolta di saggi riunita sotto il titolo Dove si nasconde la salute, Gadamer trattando di filosofia e medicina e anche di esperienza della sofferenza e della morte e avendo annotato come non si possa comprendere la malattia senza sapere cosa sia la salute, dal momento che non ci può essere malattia se non c’è salute come metro di paragone, afferma che mentre la malattia è un fenomeno osservabile e giudicabile nel suo valore clinico, con tutti i mezzi messi a disposizione dal sapere oggettivante della scienza e della tecnica moderne, la salute si sottrae, invece, curiosamente a tutto ciò; essa non può essere esaminata in quanto “la sua essenza consiste proprio nel celarsi”1. A differenza della malattia, la salute non è mai causa di preoccupazione, anzi, non si è mai consapevoli di essere sani. Non è, la salute, una condizione che invita e ammonisce l’uomo a prendersi cura di sé stesso, anzi, implica la sorprendente possibilità di essere dimentichi di se stessi. Lo stesso discorso vale per il pensiero e l’esperienza della morte e si inquadra in quello che lo stesso Gadamer definisce il “carattere ovvio dell’esistenza umana” e della sua fine. Mentre normalmente il pensiero del dolore, 1

H. G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Torino: Raffaello Cortina Editore, 1994, p. 107; [Uber die Verborgenheit der Gesundheit, Frankfurt a. M.: Suhrkamp, 1993].

Fenomenologia

84

della cura

della sofferenza o della morte, lo percepiamo come una musica conosciuta, di sottofondo, che risuona dentro di noi in modo flebile, quasi impercettibile, di fronte all’irrompere impetuoso della malattia, de dolore, della sofferenza, della vicinanza della morte, risorge e risuona in tutta la sua potenza fino a togliere il respiro. Gadamer sintetizza ciò che ha inteso esprimere parlando, appunto, di “ovvietà dell’esistenza” e di mancanza di consapevolezza del nostro essere finiti, mortali e perciò fragili, esposti, a rischio, attraverso un’espressione poetica di Hans Carossa. È interessante notare come la metafora usata sia ancora musicale. I versi suonano così: Noi non udiamo quando la melodia divina viene sussurrata, sentiamo solo quanto tace2.

Se la domanda di Gadamer è essenzialmente: cos’è la salute? domanda a cui la scienza non sa rispondere, la nostra domanda, qui è: cos’è il dolore?, cos’è la sofferenza? E di più e più radicalmente. Esiste la possibilità di un conoscere che “dica” il dolore e insieme la sofferenza di chi da questo è colpito, tale per cui si possa approdare ad una verità che li comprenda? Ogni uomo è tormentato dalla verità intesa come ricerca del senso ultimo dell’esistenza, ancor più lo è chi viene colpito dal dolore che è un’esperienza limite della vita, il dolore come l’ineffabile, l’inesprimibile, il sentimento più profondo e lacerante che lascia muti o viene gridato in modo straziante e inarticolato. E se è vero che la salute, ma anche il piacere o la gioia, appaiono come qualcosa di ovvio che non mette in motto nessun processo di coscientizzazione, nessuna esigenza di domandare e di conoscere, l’irruzione del dolore, che ci appare come eminentemente altro, che ci accade e a cui non possiamo sottrarci né possiamo essere in esso sostituiti, ma, proprio perciò, per il suo carattere oggettivo e contingente, viviamo come qualcosa di estraneo a noi, sconosciuto, intruso, straniero, proprio come la morte che il dolore anticipata, mette in motto il bisogno di sapere, di sapere cosa esso sia, ma anche e soprattutto, chi siamo noi, che né è del nostro sé strappato alla “normalità”, alla banalità, quasi, dell’esistenza e gettato nello spaesamento, nell’annichilimento; ma più in generale, induce a domandare, a interrogarsi 2

Ivi, p. 71.

Nell’universo

della sofferenza

85

su quale sia il senso di qualcosa che ci appare come indicibile e totalmente privo di senso. Il dolore come la morte, si è detto, che ci interroga e ci induce ad interrogarci sul senso stesso del nostro esistere. La morte, come assoluta alterità, come assenza totale di senso, se non forse quello della stessa mancanza di senso, la morte in cui siamo insostituibili e che, proprio attraverso il dolore sperimentiamo in vita: essa non è qualcosa che sta fuori, alla fine della vita e che ci attende, ma è piuttosto qualcosa che accompagna sempre la nostra vita, a cui “siamo sempre contemporanei”3 perché, così come non smettiamo mai di vivere la nostra vita, allo stesso modo, non smettiamo mai di morire la nostra morte, ma spesso non ne siamo consapevoli, sordi alla melodia rivelatrice, viviamo come se fossimo eterni, senza renderci conto che l’anticipazione della morte, la coscienza dell’essere finiti. che ci angoscia e ci atterrisce, è però ciò che ci rende umani e fa sì che possiamo progettare l’esistenza, perché senza la coscienza del limite, del termine, nessun senso avrebbe il progetto. Nella sua sconcertante radicalità, l’essere-per-la-morte heideggeriana segnala proprio l’autenticità dell’esistenza. Anche perché, come suggerisce Jankélévitch, la morte dà forma alla vita, la quale, privata del suo limite, del suo termine, sarebbe informe4. Ma l’essenza del senso dell’esistere non si esaurisce mai in una pura attività conoscitiva, ottenuta attraverso le categorie dell’intelletto e della mera ragione, dato che sfugge ad ogni determinazione concettuale. La ricerca della verità a livello esistenziale è qualcosa di assai diverso dalle verità legate alla conoscenza degli oggetti che ci circondano. Essa coinvolge il destino stesso dell’uomo e il dolore e la sofferenza, così come la morte, in quanto radicali esperienze del limite, che restringono le possibilità di vita e di espansione e che ci vengono assegnate e non da noi scelte, sono strettamente intrecciato a tale destino. Anzi, come espressione di massima vulnerabilità, dolore e sofferenza rappresentano più di ogni altra manifestazione o esperienza, la cifra della condizione umana e, come tali, costituiscono il luogo privilegiato per comprendere fino in fondo che cosa significhi essere uomini e quale sia, appunto, il senso del nostro essere al mondo nella finitudine, nella precarietà, nel continuo essere esposti al rischio di perderci nelle infinite modalità del terribile kierkegaardiano5.

3

E. Lisciani Petrini, Introduzione a V. Jankélévitch, La morte, Torino, Einaudi, 2009, [La Mort, Paris: Flammarion, 1977], p. XXXI. 4 V. Jankélévitch, La morte, cit., pp. 116-117. 5 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Torino: Paravia, 1953, pp. 138-139; [Begrebet Angest, Copenaghen: Kierkegaard Society, 1844].

86

Fenomenologia

della cura

Caratteristica essenziale di tale verità è quella di essere una conoscenza che trasforma, che tocca nell’intimo, perché in gioco c’è la nostra esistenza e la nostra essenza, una conoscenza che non è mero sapere che impegna la nostra ragione ma ci lascia intatti, cioè che non tocca e non scalfisce il nostro io ma, al contrario, è un comprendere che fa emergere il nostro limite e insieme il limite del nostro stesso conoscere, del potere del logos e del sapere apofantico, qualcosa che chiama in causa la sfera dei vissuti e del patico in cui queste trovano il loro fondamento e che, proprio come coscienza del limite, ha il potere di modificarci in profondità. La classica definizione aristotelica dell’uomo come animale razionale è lontana dal cogliere la realtà del fondamento dell’uomo se la ragione che ne costituirebbe l’essenza è circoscritta e ridotta a mera attività conoscitiva, ad un logos, appunto, che nessuno spazio lascia al pathos. Nello scritto postumo, Sul pathos della verità, Nietzsche osserva che se l’uomo fosse solo un animale che conosce, il suo bisogno innato di verità lo spingerebbe alla disperazione e all’annientamento, poiché egli sarebbe di fronte alla verità di essere condannato eternamente alla non-verità6. Il mito del progresso legato al puro conoscere e al conoscere scientifico in primo luogo, lo porterebbe ad una interna sofferenza, appunto perché non può mai esaurire il conoscere ed è ben lontano dal comprendere l’uomo singolo nel suo fondamento. L’autentico sapere è, dunque, quello che affiora e prende corpo laddove vi sia consapevolezza del limite del conoscere. La verità esistenziale, che travalica e trascende il sapere concettuale dell’intelletto e della ragione, per farsi piuttosto comprensione, ha le sue radici proprio nella coscienza degli angusti confini del conoscere e quindi del non-potere dell’uomo. Il dolore e la sofferenza ricevono il loro senso proprio da questa consapevolezza del limite e del non-potere. Coscienza e consapevolezza che sono elementi trans-formativi per l’uomo che, solo in quanto si riconosce limitato, è in grado di attingere alla conoscenza esistenziale, di dar senso all’esistenza e, dunque, a ciò che di essa è parte, come il dolore, appunto e la sofferenza che esso provoca o la morte che anticipa, che può portare non tanto ad una conoscenza del dolore come oggetto ma ad una conoscenza a cui si giunge attraverso il dolore stesso. Un antico e stretto legame tiene insieme il dolore e la conoscenza, già in Erodoto e poi nei tragici, e in Sofocle in particolare, nella Poetica di Aristotele, o nei vangeli, come nell’Epistola ai Romani di Paolo o in Ago6

F. Nietzsche, Opere, Milano: Adelphi, 1973, pp. 83-89 (edizione critica a cura di G.Colli e M. Montinari, Sul pathos della verità, in La filosofia nell’epoca tragica dei greci – Scritti 1870-1873); [Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, München: Nietzsche-Gesellschaft, 1923].

Nell’universo

della sofferenza

87

stino, che mettono in luce il carattere catartico del dolore il quale, esperito direttamente o contemplato sulla scena, induce ad una più profonda conoscenza di sé. Al precetto delfico “Conosci te stesso” si arriva anche attraverso l’esperienza del dolore. Dunque, due sono sostanzialmente gli atteggiamenti di fronte ad esso. O mantenerlo a distanza, cercando di rendersi impassibili di fronte alla sofferenza, negandole qualsiasi riconoscimento e potere su di noi o accettare il rischio del coinvolgimento in essi, lasciandosi da essi guidare e cercare di scoprire insieme le sue ragioni e le sue origini; si potrebbe dire che in questo secondo caso si và verso quella che Carlo Emilio Gadda definì “cognizione del dolore” È praticando quest’ultima strada che il dolore può divenire forma di conoscenza e viatico verso un’esistenza non ovvia e banalizzata ma consapevole e autentica e può tradursi in elemento terapeutico se elaborato e manifestato, reso comunicabile a se stessi e agli altri. Ma ciò implica il rischio di esporsi alla mercé di potenze estranee e temibili, capaci di annientarci e disgregarci ed assai alto è il prezzo da pagare poiché occorre accettare le conseguenze, dapprima devastanti, di una discesa agli inferi, di uno sprofondare negli strati più bui di sé stessi, sperimentando una ancor più acuta sofferenza. Soltanto smuovendo freudianamente questi strati profondi e bui si può forse conseguire, alla fine e passando per un accresciuto dolore, un più alto livello di consapevolezza e di liberazione dai vincoli e dallo stato di disgregazione e svuotamento in cui ci si trova. Ignorare il dolore sicuramente non aiuta. Non aiuta neppure, da sola, la conoscenza del dolore come oggetto, mentre può svolgere una funzione assai importante, anche per meglio affrontare la sofferenza, quella conoscenza cui si giunge, appunto, attraverso il dolore. Non una conoscenza astratta ma una accresciuta consapevolezza di sé, una conoscenza che trasforma e che forma, uno sguardo diverso e più profondo su sé stessi e sul mondo. È ciò che afferma anche S. Natoli7, il quale sostiene che l’esperienza del dolore dà luogo ad una forma di conoscenza del tutto diversa da ogni altra percezione del mondo. Sotto il segno del dolore il mondo appare trasformato nella sua interezza ed è questa la ragione per cui quella del dolore è un’esperienza cruciale – cosmica, la definisce anche l’autore- perché mobilita e affina le capacità percettive e cognitive e, quando non produce distruzione, diventa occasione per un’accresciuta conoscenza, si fa esso stesso forma di conoscenza. 7

S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano: Feltrinelli, 2002.

Fenomenologia

88

della cura

Così Natoli: Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai prima s’era visto. Il dolore è veicolo di conoscenza non per astrazione ma per immedesimazione: oltre certi limiti dall’uomo controllabili, esso si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza8.

Il dolore, che è certamente un fatto personale (nessuno può sperimentare il mio dolore) è al contempo anche un’esperienza originaria e rivelatrice ed un evento “cosmico”. Cosmico per due motivi: perché intreccio indissolubile di individuale e universale nel senso che in ogni individuale soffrire c’è un riverbero del dolore universale, di quel dolore possibile che, appunto, universalizza il dolore patito, e infatti, di fronte a qualsiasi esperienza individuale di dolore, irrompe, tremenda, in chi la osserva, la possibilità di soffrire; cosmico, ancora, proprio per la sua capacità di creare quella frattura nel pensare e nel sentire che porta a scardinare le certezze, a gettare una luce nuova sulle cose, perché nuova, diversa, mutata è la prospettiva dalla quale guardiamo e che ci rivela un mondo mai visto fino ad allora, ma ci mette anche alla prova rendendoci consapevoli dei nostri limiti, della nostra precarietà, mentre pressante si fa la domanda sul senso del dolore e insieme sul senso stesso dell’esistenza. Aldo Zanardo, dal canto suo, trattando di sofferenza come senso del limite ma anche di occasione di conoscenza e trasformazione, si spinge ancora oltre e si interroga sulla possibilità che la sofferenza, che è ostacolo e lacerazione, in cui i normali stimoli riadattatori che mettiamo in campo quando un’esperienza momentaneamente ci disorienta, non funzionano e ci sentiamo impoveriti, sconfitti, mancanti, percepiamo la debolezza della nostra condizione, ci sentiamo soli e sperimentiamo e “impariamo” la finitudine, possa costituire occasione e viatico verso la saggezza, ma ciò attraverso un processo di vero e proprio apprendimento o meglio di riapprendimento. Torna l’idea del sapere modificante e di un apprendimento che non è un semplice sapere ma è qualcosa che tocca tutte le sfere del nostro essere e del nostro esistere, che incide nel profondo, come nel profondo incide ogni apprendimento che abbia valore educativo e formativo, che implicano interiorizzazione e trans-formazione e così rivoluzionano e modificano la nostra modalità di essere al mondo e di percepire noi stessi e il mondo. 8

Ivi, p. 8.

Nell’universo

della sofferenza

89

E proprio di educazione parla Zanardo in un passo che mette forse conto riportare. Propriamente la sofferenza umana non è che occasioni immediatamente un corpo di saggezza; l’esito immediato, anzi è uno sviamento forte, un depistaggio dal nostro consueto pensare la vita; illumina diversamente la nostra vita, impone una rettifica, una critica della nostra comprensione di noi, degli altri, del mondo, perfora e riassetta le nostre credenze, ci ricompatta con la realtà e specialmente con la nostra finitezza, predispone una ristrutturazione del nostro essere nella vita; è da questa svolta che si determinano le spinte educative alla saggezza9.

Anche per Heidegger, l’Esserci, inteso come totalità, come realtà unitaria non smembrabile nelle varie parti, come un corpo a cui si aggiungerebbero su vari strati l’anima, lo spirito, in quanto il corpo stesso non è un oggetto fisico ma è il corpo vivente, viene messo alla prova dal dolore ma questo non è solo privazione ma, appunto, trasformazione del rapporto con sé stessi e con il mondo10. Così Simone Weil, sia pure all’interno di una prospettiva che comprende il trascendente e la dimensione cosmica e deterministica della sofferenza, le cui argomentazioni sarebbero troppo lunghe da affrontare nell’economia del presente discorso, mette in relazione il tema del dolore con quello dell’identità personale per giungere alla conclusione che l’esperienza del dolore, che rivela e produce rivelazione, nel momento in cui sembra delimitare i contorni del nostro io, svolge, nei confronti di questo, una funzione strutturante. Non nel senso di ricondurre ad unità ciò che è strutturalmente e irriducibilmente scisso e frammentario (l’Io) ma proprio al contrario: l’esperienza del dolore che, da esperienza del limite fisico, cioè del nostro corpo che, con i suoi confini sensibili, rende possibile il riferimento all’interno di noi stessi e ci chiude così nella sfera del limitato, opera uno spostamento di sguardo e conduce ad una forma di conoscenza che ci porta a coglierci non più dall’interno, dal ripiegamento in noi stessi, ma dall’esterno come eventi collocati in uno scenario cosmico di necessità naturale ineluttabile11. Ma ciò dipende dalla modalità con la quale percepiamo e ci confrontiamo con il dolore e tale modalità non è qualcosa di immediato ma presuppone una coscienza ed un esercizio ermeneutico. Come ogni coscienza 9

A. Zanardo, La sofferenza: senso del limite e occasione, in AA.VV., Filosofia del dolore, Atti del convegno della Società Filosofica italiana, Matera, 1991, p. 60, corsivo mio. 10 M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Napoli: Guida, 1991, p. 148; [Zollikoner Seminare, Frankfurt a. M.: Klostermann, 1987]. 11 S. Weil, Attesa di Dio, Milano: Rusconi, 1972; [Attente de Dieu, Paris: Fayard, 1966].

90

Fenomenologia

della cura

ermeneutica, essa aggiunge, necessita di un apprendistato: il dolore possiede, dunque, il valore di apprendistato. Torna, così, l’idea della valenza formativa e trasformativa del dolore e della sofferenza. E così, quando ci si interroga sul senso della sofferenza, occorre non dimenticare che la sofferenza stessa è una domanda e che da essa siamo interrogati, chiamati in causa, coinvolti nell’intimo, fino ad esserne modificati nella forma12. Anche Rilke, nella X elegia citata in epigrafe, esprime il legame profondo tra il dolore e l’intimo, l’essenza, dell’esistenza, al punto che ogni mutamento rispetto ad esso trasforma l’esistenza stessa e, senza farne l’apologia, segnala come vi sia un modo autentico di vivere che si rivela proprio nel modo di vivere il dolore, senza “sprecarlo”, senza sottrargli la valenza originaria connaturata alla condizione umana, per cui il soffrire è come una stagione dell’anno e diviene per l’uomo tempo, luogo, dimora, e non sprecarlo significa farne occasione per una maggiore consapevolezza di se stessi, della propria condizione, della necessità di non scindere dolore ed esistenza. Dolore il cui mistero resta comunque celato, segreto, mentre la ricerca di sicurezza, il bisogno di rassicurazione rispetto a tutto ciò che è rischio e pericolo, portano ad individuare la salvezza non nel pericolo stesso, connaturato all’uomo e che contiene in sé ciò che salva13, ma in un mondo oggettivato dalla scienza e dalla ragione epistemica, misurabile, certo, controllabile, che tale rischio possa eliminare. Ma un mondo così diviene estraneo all’uomo, non è più il suo mondo. In un mondo non oggettivato, ciò che primariamente emerge è il radicamento del dolore nella vita e, dunque, il suo richiamo alla morte e alla mortalità, giacché anche il male fisico è segno, conseguenza e sintomo di mortalità, il suo essere inscritto nella condizione umana e nel modo in cui l’uomo si da forma dando forma al tempo della propria esistenza, condizione la cui cifra è rappresentata dalla fragilità, dalla vulnerabilità, dalla finitudine di un essere esposto alla contingenza e al rischio, ma nel dolore, nella morte, nella loro irredimibile smisuratezza e nel terrore che essi ispirano, ma che lo fanno essere uomo, si aprono però anche spiragli per far sì che essi siano veicolo di saggezza, di conoscenza, di cambiamento e insegnamento, di assunzione della propria finitudine, che comanda di non cedere all’hybris, alla 12 I. Casadio, Il coraggio di partire da sé per ritornare a sé, in D. Bruzzone e E. Musi (a cura di), Vissuti di cura, Milano: Guerini, 2007, p. 34. 13 Il riferimento è alla nota affermazione di Heidegger secondo cui “Laddove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. M. Heidegger, La questione della tecnica, in G. Vattimo (a cura di), Saggi e discorsi, Milano: Mursia, 1976, p. 22; [Vorträge und Aufsätze, Frankfurt a. M: Klostermann, 1953].

Nell’universo

della sofferenza

91

tracotanza dell’assolutizzazione di sé stessi – ad esempio nel risentimento per non essere immortali o nell’idea di essere colpiti da una potenza misteriosa e malvagia- ma, tutto il contrario, diviene scoperta dell’alterità, apertura verso l’altro da cui non possiamo prescindere, perché nel dolore e nella sofferenza che è sempre sofferenza del/per la morte, e nel sapersi finiti, più che in ogni altra situazione della vita, si fa strada impetuosamente la domanda, spesso muta, silenziosa, di cura e solidarietà, di qualcuno che sporga verso di noi e sia capace di accogliere e ascoltare questo assordante silenzio e magari tradurre il nostro dolore in parola. Ma proprio a questo proposito, ancora Natoli mette in luce in modo crudo e disperante la sostanziale inutilità delle parole che cercano di esprimere il dolore e l’inadeguatezza di quelle altrui quando cercano di spiegare o rendere accettabile la sofferenza. Vanità delle parole proprie, ma, a maggior ragione, di quelle degli altri, soprattutto quando pretendono di spiegare e motivare il dolore, quando si impegnano a renderlo accettabile quasi a persuadere la vita a divenire morte. (...) Le parole di consolazione non sono solo vane ma sono, in taluni casi, perfino impertinenti: oltre che di troppo sono anche di offesa. (...) Nel dolore si fa debole ogni consolazione, poiché tramite esso l’uomo è conficcato radicalmente nella propria finitezza14.

Il dolore rende anomalo chi soffre agli occhi degli altri e rende gli altri estranei, eterogenei rispetto al sofferente, creando così un’irriducibile asimmetria. Esso è, sempre secondo Natoli, anche qualcosa di repellente in sé stesso e rende repellente colui che affligge. Il dolore rende soli perché l’elemento repellente, da un lato restringe la vita, dall’altro allontana chi osserva: in tutto ciò il dolore si fa sempre più intimo alla morte e la raffigura. E la morte è sempre e solamente mia. Il cerchio di solitudine si rafforza da sé poiché da un lato il dolore rende oggettivamente estranei, dall’altro è il sofferente che si rende estraneo al mondo a cagione del suo dolore. Solitudine e sofferenza entrano l’una nell’altra al modo di un circolo vizioso15.

Il soffrire comporta dunque, separazione e individuazione, nel senso che essa divide, separa, appunto, chi soffre, dal mondo circostante. E non solo perché chi è colpito dal dolore si percepisce diverso e staccato dagli altri in quanto più fragile e debole, ma anche perché chi non soffre ten14 15

S. Natoli, L’esperienza del dolore cit., p. 28. Ivi, p. 29.

92

Fenomenologia

della cura

de a tenersi lontano dal dolore e da chi lo patisce, quasi vi fosse in esso qualcosa di contagioso, che evoca l’idea della morte, come per esorcizzare il pensiero che prima o poi toccherà anche a lui. Ma benché siano poche le parole realmente efficaci a rendere comunicabile l’esperienza del dolore essa traspare nel gesto, nella smorfia e suggerisce quanto meno la necessità di rivolgere lo sguardo al volto del sofferente, di soffermarsi sui tratti alterati che il dolore disegna su quel volto, stabilire un contatto e una consuetudine con quelle che Natoli definisce le “maschere del dolore”. Infatti, le parole con cui uomini e donne cercano di arginare il non senso del dolore e di renderlo comunicabile, non sono episodiche o solipsistiche, ma nascono entro gli scenari di senso in cui quegli uomini e quelle donne sono nati e cresciuti, scenari che li precedono e danno loro il linguaggio per divenire interpreti del loro soffrire e della loro pena. Resta il fatto che essendo il dolore, come suggerisce la fenomenologia, la rottura della coincidenza tra corpo ed esistenza, per cui quest’ultima si contrae alterando il rapporto con il mondo, resta comunque quel mondo come spiraglio di apertura, in cui si può tentare di entrare con discrezione e attenzione alla singolarità di ogni mondo segnato dal patire, per dare parole a quel dolore che, privato di esse, è solo una sensazione sorda e muta che si impossessa totalmente della persona che lo soffre. È ciò che pensa Wittgenstein nella sua riflessione filosofica sul dolore quando afferma che l’uomo contiene e confina il dolore attraverso il linguaggio e che esprimerlo significa collocare l’evento doloroso in un luogo e assegnargli un significato16 Il dolore si gioca sempre tra la necessità di far sapere, di comunicare e di essere ascoltati e il bisogno di tacere. Ma il sofferente non vuole commiserazione, non vuole una pietà equivoca, ma vuole quella pietas che è immedesimazione e coinvolgimento nel suo dolore. E c’è pure chi trae ispirazione dal dolore che nel suo limitarci, isolarci, delimitarci e sfidarci, ci apre una prospettiva completamente diversa da quella dell’esistenza anonima e inautentica della quotidianità. E riuscire ad esprimere e far parlare il dolore produce talvolta autentici capolavori: valgano per tutti l’Urlo di Edvard Munch e alcune tra le più belle poesie di Leopardi. Benché la cosa appaia scontata e intuitiva, occorre forse soffermarsi sulla differenza di significato e di senso del dolore e della sofferenza, del passaggio dalla consistenza oggettiva del fenomeno a quella puramente soggettiva. 16

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi, 1967; [Philosophische Untersuchungen, Frankfurt a. M.: Suhrkamp, 1953].

Nell’universo

della sofferenza

93

Il dolore viene sofferto, è cioè motivo di sofferenza, ma proprio perciò non coincide con questo termine. Del dolore si ha esperienza, lo si patisce e con questo già si evidenzia il suo carattere oggettivo. Infatti esso è “altro” dal soggetto che soffre e ciò fino al punto di poter esercitare su di esso una sorta di tirannia. Nella sua oggettiva alterità, il dolore (ci) accade, come qualunque altro evento, come l’essenzialmente imprevisto e proprio perciò nel dolore si palesa il volto sinistro e l’inesorabile presenza della contingenza nelle nostre esistenze e nella realtà tutta. Il volto del dolore è quello che si presenta, nella rappresentazione, con la forza del colpo che viene inferto e non a caso il suo simbolo è quello della ferita. Nella lacerazione del corpo, in una intrusione violenta e spesso inaspettata nei fragili confini che definiscono l’essere al mondo di ogni uomo, si può intuire, in uno, l’evento e il senso primario del dolore. Ma una volta penetrato con la forza indomabile della pura contingenza, il dolore tende a permanere, con la dura pesantezza di un oggetto che da altro da noi si sposta al nostro interno e in qualche modo di noi si impossessa. È questo il passaggio nel quale il dolore da locale si fa globale indifferentemente dal fatto che si tratti di dolore fisico o morale, che pervade il soggetto e da qui inizia un processo di attribuzione di significato e di simbolizzazione che fanno del dolore oggettivo il dolore soggettivamente sofferto. Ma la simbolizzazione del dolore è già in qualche modo, una forma di strategia di contenimento nei suoi confronti. Resta il fatto che il dolore, inteso come algos, anche da Heidegger, per chi volesse cercarne il senso o farne oggetto di conoscenza, è strazio, intima lacerazione, ferita che dura e, dunque, anche ferita nel (del) pensiero e nel senso. Ma il senso che ognuno di noi tende ad attribuire al dolore che per sua natura è l’insensato, dipende anche dalla cultura, dall’orizzonte di appartenenza, dalle fedi e dalle credenze. Sono queste le maschere sociali del dolore di cui parla Natoli e a cui si è fatto cenno a proposito della comunicabilità di esso. Paradossalmente – scrive ancora Natoli – quanto c’è di più individuale e solitario – appunto la sofferenza – è regolato dalle maschere sociali attraverso cui il dolore si fa oggettivo. … Le maschere del dolore segnano, inoltre la differenza e la distanza tra chi soffre e chi non soffre: sottolineano la separazione e producono la comunicazione17.

Il dolore si manifesta attraverso una particolare fenomenologia di segni fisici, morali, sociali che si implicano e si condizionano reciprocamente.

17

S. Natoli, L’esperienza del dolore cit., pp. 14-15.

94

Fenomenologia

della cura

Tristezza, paura, pianto, disperazione, ma anche rassegnazione o sarcasmo scettico. Queste e tante altre le tonalità affettive del patire e i criteri morali secondo cui la sofferenza è vissuta e concepita dall’immaginario sociale e all’interno delle credenze e delle metafisiche che orientano gli uomini nel dolore. Così, il tragico domina nella cultura greca, che concepisce il dolore come inscindibile dalla vita, per cui l’uomo si fa eroe proprio nel dominio della sofferenza; nella tradizione ebraico-cristiana esso viene associato alla colpa e diventa motivo di salvezza e di redenzione e dunque, di speranza. Nell’epoca attuale, l’orizzonte in cui è inscritto il dolore è quello scientifico-tecnologico, dominato da un’idea centrale che consiste nella possibilità di eliminarlo, ciò che fa sì che esso venga concepito, nella coscienza collettiva come disturbo, impedimento, scandalo, nel senso etimologico di impedimento, di pietra di inciampo. Ciò che caratterizza l’esperienza contemporanea del dolore è l’idea che l’uomo possa tecnicamente dominarlo e che la tecnica sia la forma oggettiva per contenere e contrastare il dolore. Esso è sempre associato ad una proposta terapeutica; ogni risposta che non sia pratica è quasi patetica, perché il progresso tecnico consente la fuga da e il nascondimento del dolore attraverso la competenza. Così, la medicalizzazione di tutte le esperienze dolorose, diffusa nella società contemporanea, diviene lo strumento per dominare l’ansia e la paura attraverso il discorso competente che funziona da rituale di assistenza e consolazione. Viene meno in questo modo la circolarità diretta tra dolore e vita. La sofferenza non è più qualcosa di costitutivamente intrinseco all’esistenza stessa, ma solo un restringimento delle sue possibilità. Avviene così, come nota Michel Foucault, che l’evento doloroso rimosso dall’esperienza comune venga relegato nei luoghi competenti, gli ospedali, dove il corpo diviene organismo e il dolore malattia18. L’esperienza del dolore limita e delimita. Limita in quanto vincola, tiene sospesi sul nulla, nell’estraneazione che consegue all’oscurarsi delle possibilità esistenziali che determinano angoscia e lacerazione. In tal modo l’interazione io-mondo è alterata e questo comporta una perdita di soggettività del soggetto singolare, un’impossibilità di identificazione del vuoto di progetto, di interlocuzione, di senso. L’attività si restringe e cresce la passività fino al punto di fare dell’essere umano in qualche modo, cosa, che sperimenta il corpo come oggettività, perché, se la salute ignora l’oggettività del corpo, in quanto non ne percepisce il peso ma solo l’apertura al mondo, la sua valen18

M. Foucault, Nascita della clinica, Torino: Einaudi, 1969; [Naissance de la clinique, Paris: Presses universitaries de France, 1963].

Nell’universo

della sofferenza

95

za comunicativa, in quanto corpo vissuto o corpo proprio, il corpo fisico è percepito come oggetto quando è sperimentato come barriera tra intenzione e realizzazione, quando da apertura al mondo si tramuta in ostacolo verso il mondo: nel dolore ci si aliena dal proprio corpo, percependolo, appunto, come limite e peso. Ciò è aggravato dal fatto che, nella sofferenza fisica, complice l’estrema specializzazione della medicina e la modalità di approccio al paziente di medici e infermieri, i quali spesso, inconsapevoli dell’originario carattere vissuto del corpo e del fatto che dolore e sofferenza colpiscono la persona nella sua interezza ed integrità di mente-corpo, operano in una prospettiva riduzionistica che non vede la soggettività della sofferenza ma l’oggettività del sintomo e dell’organo, di un brandello di corpo oggettivato che si ammala e al quale occorre prestare cure per alleviare o eliminare il dolore. Ma oltre a limitarci il dolore ci delimita, ci mette in contatto con la nostra finitudine e ci costringe a vedere i confini, spesso angusti, delle nostre possibilità fisiche e morali. E tornando al discorso sull’esperienza del dolore e della sofferenza ma, questa volta proprio nei contesti e nelle relazioni di cura sanitaria, occorre dire che i soggetti in causa nella relazione clinica e terapeutica, parlano ed agiscono da due luoghi ben diversi: l’uno da un luogo di autorità riconosciuta ( il medico ma anche l’infermiere) e soprattutto dall’universo dei sani; gli altri da una situazione di passività ma soprattutto di estrema fragilità, di destabilizzazione rispetto al ruolo e alla posizione in cui essi si identificano normalmente. Quando si diventa pazienti, si avverte lo scompenso tra il linguaggio terminologico specialistico entro cui i sintomi acquistano significato e che consente di accrescere la precisione della diagnosi e dell’intervento terapeutico e lo scarso peso del racconto biografico rispetto alla formulazione di una diagnosi e all’individuazione di una strategia di cura. Dunque, occorre fare una distinzione tra termini (tecnici, medici) e parole (relazionali, comunicative). Ora, i progressi della medicina, potenziati dalla tecnologia e dall’alta specializzazione, che comporta anche un ampliamento enorme della terminologia, hanno fatto sì che si possa convivere a lungo con l’esperienza del dolore ed hanno anche portato il paziente ad acquisire una sorta di competenza verbale, ma nulla hanno fatto per dare senso al dolore. Chi soffre è sempre solo con sé stesso e le terminologie del razionalismo biomedico non bastano ad oggettivare l’esperienza soggettiva del soffrire. La riduzione del dolore ad un evento fisico, misurabile e osservabile, ne annulla la portata semantica e maschera anche il fatto che ogni interpretazione clinica del sintomo è, appunto, operazione ermeneutica.

96

Fenomenologia

della cura

La disgiunzione tra termini e parole, laddove i termini appartengono al vocabolario degli scambi economici e scientifici e rimandano ad un referente concettuale, mentre le parole hanno la funzione di legare un Io e un Tu in una relazione e ad esse è affidata la funzione di mediazione del linguaggio, si ripercuote sui soggetti della relazione terapeutica: i termini proteggono chi li usa perché universalizzano la malattia e schermano dalla sofferenza di chi è oggetto di cura; le parole sono rivolte alla persona singola, unica, che soffre e non ad un’astratta malattia considerata come “caso” particolare e anonimo di un’affezione universale portatrice di dolore, espongono alla possibilità e al rischio di essere toccati dalla sofferenza, ma chiamano anche alla relazione e alla cura. Il paradosso che nasce dalla confusione tra termini e parole fa sì che dolore e sofferenza non siano disgiunti ma vengano assunti come indifferenti perché ciò che conta è che si possiedono i termini per dire da che cosa si è affetti o da che cosa un paziente è affetto; ma ciò porta sia chi cura che chi viene curato ad una sorta di incompetenza verbale per cui diviene difficile per entrambi tradurre la malattia e la sofferenza in qualcosa di vissuto e patito. Infatti, se il dolore è oggettivo e sono prevalentemente i termini a dirlo, la sofferenza è soggettiva, è il nostro modo di vivere e recepire il dolore ed entra nella nostra storia di vita come esperienza privata e singolare che può essere detta solo attraverso la parola, che, quando il soffrire non è così intenso da renderla vana, può unire nella comunicazione, che è già di per sé un modo per alleviarla e contenerla, per sfuggire alla sconsolata solitudine, all’isolamento che può tragicamente sconfinare in una sorta di autismo difficile da strappare al silenzio e alla totale chiusura. E così, siamo approdati proprio alla dimensione medica del dolore e della sofferenza e alla relazione di cura che vede come attori medici ed infermieri, ma qui ad essere fatta oggetto di riflessione sarà proprio questa seconda figura professionale, che svolge le sue mansioni prevalentemente in situazioni di ospedalizzazione del paziente, con tutto ciò che questo comporta. Una figura strategica, poiché opera a stretto contatto con il paziente, in modo continuativo e prolungato e fa da mediatore tra questo ed il medico, la cui presenza è perlopiù fugace e frettolosa e la relazione umana quasi sempre inesistente E una delle domande conseguenti a quanto finora si è andato argomentando è: al di là del sapere e della competenza tecnica che sono fondamentali e fanno parte del bagaglio culturale e professionale di questa figura, nel contesto di cura clinico-terapeutica, quanto l’infermiere è in grado di interrogarsi sul senso della sofferenza e da questa lasciarsi interrogare e

Nell’universo

della sofferenza

97

anche tras-formare, per scoprire così l’esperienza radicale del limite e della finitudine ed il legame indissolubile tra dolore e vita, tra il soffrire e l’esistere? Perché questo è il presupposto primo e fondamentale per accedere a questa professione: essere capace di pensiero riflessivo e di consapevolezza di tutte le implicazioni che il mestiere comporta, prima fra tutte il fatto che si è continuamente esposti al contatto con il dolore, con la sofferenza, con l’umana, estrema fragilità, e saper sostare in modo critico di fronte ad essi. E da qui, ancora, la necessità di interrogarsi sui propri limiti e sulle proprie personali fragilità per scoprire se e fino a che punto si è in grado di sopportare il peso di una vita spesa a stretto e continuo contatto con il dolore e con la sofferenza, ma senza lasciarsi da esso travolgere o, al contrario, senza quel distacco e quell’anestetizzazione delle emozioni che dal dolore dell’altro lo mettano al riparo. Quella dell’infermiere è stata definita una “professione arrischiante”19. Non la si può scegliere come una qualsiasi professione o buttarsi, semplicemente, a capo fitto in essa. Primo perché, come tutte le professioni di cura, deve contemplare una certa “vocazione”, essere non una qualunque professione ma anche una mission, che non tollera l’agire routinario e la trasformazione del denaro con il quale è remunerata da mezzo a fine20 e secondo, perché, se ci si accosta da sprovveduti e disarmati, “a mani nude” al dolore”, ci si può fare male, essa presuppone grande ponderatezza, equilibrio, propensione allo scavo interiore, competenza emotiva che contempla la necessità di acquisire consapevolezza non solo dei limiti dell’umano, ma, per l’appunto, dei propri personali limiti, delle proprie individuali fragilità, perché sapersi limitati, non solo scongiura i rischi opposti di eccessivo e devastante coinvolgimento nel dolore o, all’opposto, freddo distacco, ma anche perché la coscienza del limite, di cui la sofferenza come annuncio di morte è massima espressione, possano divenire coraggio di aprirsi verso l’Altro, di sporgere verso di esso, di riconoscerlo nella sua soggettività di persona unica e irripetibile e non nell’oggettività di un caso clinico da trattare secondo i protocolli della sua malattia e ciò implica l’impegno e la responsabilità di fermarsi a riflettere, di interrogarsi su ciascuna persona, di porsi di fronte ad essa con la disposizione ad accogliere, a tentare, con sguardo ermeneutico, 19

I. Casadio, Il coraggio di partire da sé per ritornare a sé cit., p. 32. A tal proposito, parlando di mestieri di cura e della loro corrispondenza ad una vocazione, cioè al desiderio incondizionato di aiutare gli altri sottolinea il fatto che la remunerazione non può essere la motivazione essenziale dell’operatore di cura il cui lavoro presuppone dono di sé e gratuità e mai potrà divenire rapporto mercificato perché sarebbe una forma di prostituzione. Cfr. A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Torino: Boringhieri, 1992, p. 159; [Métamorphoses du travail, Paris: Galiléè, 1988]. 20

98

Fenomenologia

della cura

di decifrare i sui vissuti di dolore e patimento, i suoi pensieri, le sue paure, le sue angosce e averne cura. E la vita spesa a contatto continuo con il dolore della malattia fisica o morale deve, dunque, comportare tale consapevolezza del fatto che è la persona nella sua totalità e in modo unico, che soffre e non un suo organo o apparato. Da ciò dipende l’umanizzazione della relazione di cura e la possibilità di passare dal semplice curare al prendersi cura. E allora, posto che vi sia tale consapevolezza, sarà egli in grado di relazionarsi a colui che soffre, non solo in tutte quelle pratiche che servono ad attenuare, contenere o eliminare, ove sia possibile, il dolore ma nella più difficile delle competenze e cioè proprio quella di volere e sapere accogliere la persona che soffre, e dare risposte umane e non tecniche al suo vissuto di dolore, e avrà la competenza per strappare all’anonimato e all’omologazione la sofferenza, rinunciando ad un modello rigidamente deterministico di definizione di protocolli che separano e proteggono dal rapporto diretto con il dolore e con coloro che lo patiscono, per assumerlo e farsene carico proprio nell’alterità e nella differenza? E ancora: quanto è in grado di cogliere i segni muti di essa, nell’ascolto, innanzi tutto, e tentare di tradurre ciò che normalmente viene espresso con i termini tecnici in parole che aprano alla comunicazione, di “dare parole al dolore”21 per strapparlo alla solitudine e all’isolamento cui questo così spesso conduce? Si è parlato del carattere cosmico del dolore come esperienza che prima o poi tocca tutti, esperienza che restringe le possibilità di vita e produce coscienza del limite, ma spinge anche verso la conoscenza, talvolta persino alla saggezza e induce modificazioni profonde nella visione del mondo del paziente che ne acuiscono la fragilità ma ne accrescono l’autenticità. Ma anche in ciò il paziente non dovrebbe essere lasciato solo; per quanto arduo possa sembrare, aver cura e non solo curare, comporta anche la capacità di cogliere e accogliere questo processo di profonda modificazione interiore che riguarda la conoscenza e la verità esistenziale, nell’interesse e nell’attenzione, nella decifrazione dei segni di questo processo evolutivo o nell’ascolto di chi, nella parola o nel gesto, nel volto e nello sguardo, lo denuncia e lo manifesta, ma capace anche di indirizzarlo verso una direzione di consapevolezza di sé e di crescita interiore piuttosto che di regressione, estraniazione o pura disperazione.

21

Il riferimento è al titolo del volume di L. Cancrini, Date parole al dolore, Milano: Frassinelli, 1969.

Nell’universo

della sofferenza

99

In sintesi e a rischio di essere ripetitivi, per essere buoni operatori di cura sanitaria, occorre possedere quella sensibilità umana e culturale che fonda ogni altro sapere e intervento, una sorta di competenza che potremmo definire filosofica, ma ancor più pedagogica, che lo aiutino ad inquadrare il dolore nell’orizzonte della vita e dell’esistenza, e a non isolarlo come semplice fenomeno fisico di momentaneo impedimento rispetto alle normali attività che in esse si svolgono, da cui la coscienza del fatto che la possibilità di soffrire è costitutiva della condizione umana e da qui ancora la possibilità di interrogarsi su ciò che è e resta un mistero indicibile, ossia sul perché si soffre e si muore e su quale possa essere il senso di quel totale non senso che per tanti versi è il dolore, il suo patimento, e la morte di cui essi sono annuncio e soprattutto la possibilità di accogliere, pur non avendo risposta certa, la domanda sul perché e sul senso che domina gli scenari esistenziali di chi vive nel dolore e nello straziato patire. Che cosa significa, dunque aver cura di chi è al mondo nella modalità della malattia e della sofferenza, al di là della mera competenza tecnicoassistenziale? Quali i saperi, le competenze, le attitudini, le posture di questa particolare modalità della cura? Innanzi tutto, giova forse ricordare come la cura abbia spazio e senso proprio laddove in modo più radicale si rivela la fragilità e vulnerabilità, il limite e la finitudine che dell’uomo rappresentano la cifra ontologica e antropologica. Ma se così è, niente come la sofferenza e il suo ineludibile contatto con la morte, chiamano alla cura, all’accoglienza, all’ascolto, alla relazione. Nessuno più di chi, come l’infermiere, che sta a stretto contatto con il dolore e con chi lo patisce, dovrebbe sentire tale chiamata. Ma vorremo tornare sulle riflessioni sull’essenza e sul senso del dolore che sono state sviluppate nella prima parte di questo discorso e che di esso costituiscono il fondamento, la base, il punto di partenza, per inquadrare quella che è la figura e il ruolo di chi ha cura della persona che soffre. Il dolore è un’esperienza originaria, perché nessuno ne è immune e perché tocca l’intera esistenza di chi lo patisce, la strappa al suo carattere di ovvietà, per farne occasione e momento di trasformazione profonda della visione di sé, e del mondo e dello stesso essere-al mondo dell’uomo che soffre. Molto si è insistito sul rapporto che lega dolore e conoscenza e sul fatto che non si tratta di conoscenza del dolore quanto piuttosto di conoscenza a cui si arriva attraverso il dolore. Un particolare tipo di conoscenza, che è insieme comprensione e rivelazione e che trasforma, perché in-segna a vivere e ad esistere, e a cui si può arrivare, pur nell’assurdità della sua violenza, nella disgregazione e nello svuotamento degli abituali universi di senso, proprio solo attraverso l’esperienza del dolore.

100

Fenomenologia

della cura

Si è già sottolineata la portata esistenziale di tale esperienza e l’importanza del fatto che chi assiste un sofferente sia consapevole di avere di fronte persone che sperimentano un tale radicale cambiamento che riguarda il modo di sentire e percepire se stessi, il proprio corpo, la propria mente, le proprie emozioni e che coinvolge il senso stesso dell’esistenza, di essere testimoni e compagni di viaggio di chi sperimenta in modo unico una tale modalità esistentiva e farne, per ciascun caso, oggetto di riflessione: fa parte del sapere e della professionalità dell’infermiere sapersi decentrare da se stesso, dalla propria personale prospettiva per riuscire a cogliere la prospettiva, la visione del mondo, di chi ha davanti e a cui deve prestar cure, perché solo partendo da questa si può pensare di entrare in contatto con il suo mondo, far capire, anche nel silenzio, con il solo linguaggio del corpo e con disposizione d’animo contrassegnata dall’empatia, che li si capisce. È questo, un aspetto assai delicato e cruciale del mestiere di infermiere. Non ci sono tecniche e non ci sono regole uguali per tutti, per relazionarsi, protetti da queste, e senza coinvolgimento, a chi, attraverso il soffrire, vive questo inarrestabile flusso di cambiamento della propria visione del mondo e del modo di abitare il mondo, per saper cogliere i segni di tale cambiamento e comprenderne a fondo la portata, ma solo l’esperienza, la sensibilità, l’attenzione empatica, ma soprattutto il pensiero riflessivo che ogni singolo caso, interrogando chi cura, reclama. E se è vero che difficilmente la parola lenisce il dolore, tale consapevolezza può aiutare anche l’infermiere a trovare il modo di orientare la persona che soffrendo impara e si modifica, verso percorsi di pensiero e verso vissuti emozionali che non vadano solo nella direzione di una, pur inevitabile, estraneazione, che può però trasformare la stessa persona in cosa, verso una passività vuota di progetto, una chiusura al mondo cieca di futuro e in cui nessuno spazio vi è più per il senso, ma verso un’altra modalità di cambiamento, meno distruttivo, più produttivo, che mette duramente alla prova ma proprio perciò si combatte in prima persona, e ci si può sentire ancora persona e non oggetto, non cosa. E qui, proprio qui, la presenza dell’infermiere può essere di grande aiuto, proprio per restituire a chi vive un’esperienza di estraniazione e restrizione, il ruolo di persona e aiutarla ad affrontare e superare questa prova. Tale elemento di mediazione può talvolta fare la differenza perché riconoscere l’altro come persona, accoglierlo ed accompagnarlo nella difficile prova della malattia e della sofferenza, significa sottrarlo al rischio di spersonalizzazione, di oggettivazione, che proprio il dolore comporta, per aiutarlo ad attingere una più profonda consapevolezza di sé, della propria condizione e del proprio limite, perchè proprio questa consapevolezza rappresenta l’essenza

Nell’universo

della sofferenza

101

dell’esser persone e persone autentiche, fuori dal mondo dell’ovvio, del banale, della “chiacchiera” e sostenerlo affinchè possa intravvedere quel labile profilo di senso che il suo sofferto esistere gli lascia ma anche il coraggio e quel barlume di speranza che, come un filo sottile, talvolta impercettibile, all’esistenza autentica lo tengano legato. Ma occorre evitare ogni retorica ed ogni ipocrisia e occorre essere realisti circa le reali possibilità dell’ infermiere di trovare il tempo e di disporre delle competenze per dare sostegno ed aiuto a chi soffre, per trovare modalità di avvicinamento agli aspetti più profondi dei vissuti individuali ed unici di ogni paziente e, soprattutto, occorre non pretendere di fare della professione infermieristica un surrogato di quella clinico-psichiatrica o psicologica. Occorre, dunque, avere consapevolezza del fatto che l’infermiere, altamente specializzato sotto il profilo tecnico-sanitario, non ha una formazione adeguata sotto il profilo della competenza emotiva, relazionale ed umana ed anche evitare confusione e sovrapposizione di ruoli ma, soprattutto bisogna essere consapevoli della obbiettiva difficoltà di definire tale competenza, considerato il fatto che ci si trova continuamente a dover prendere decisioni rispetto ad ogni singolo caso, a mettersi e rimettersi ogni volta in gioco, senza certezze, ma sorretti, solo dall’esperienza e dalle capacità intuitive e riflessive. La competenza infermieristica – scrive L. Mortari – molta parte della quale non trova una formalizzazione, si configura come un sapere che non si apprende tecnicamente ma si costruisce attraverso l’esperienza sulla base di una costante riflessione sui casi affrontati22.

Dunque, più che le tecniche – che sorreggono il sapere clinico in senso stretto – sotto il profilo cognitivo, è la disposizione alla riflessione critica a costituire un tratto fondamentale di una buona pratica di cura, così come fondamentale è l’attenzione verso l’Altro, che ancora Mortari definisce come “postura della mente che consente di comprendere l’altro e di intervenire al momento opportuno” e costituisce la condizione per costruire sapere a partire dall’esperienza.23 Occorre poi ribadire quanto già detto circa la disparità ed il carattere asimmetrico della relazione tra chi presta cure, come l’infermiere, e chi di cure è bisognoso. Come quella del medico, la figura dell’infermiere è istituzionalizzata, egli ha un ruolo specifico e riconosciuto, rappresenta in qualche modo un’autorità, la incarna. 22 23

L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori, 2006, p. 83. Ivi, p. 84.

102

Fenomenologia

della cura

Dunque, egli si trova in una posizione di potere rispetto al non potere del paziente e può usare questo potere per ben operare nel segno della cura o per mostrare semplicemente la sua forza di fronte alla fragilità dell’altro. E un altro elemento forte, ma al primo strettamente correlato, in quanto in gioco vi è sempre il potere in senso foucaultiano, di disparità, è rappresentato dal fatto che il primo opera, agisce, pensa, da persona sana, il secondo da una posizione del tutto differente in quanto malato. E occorre prestare attenzione al fatto che teatro della sofferenza in cui si trova ad operare l’infermiere è prevalentemente l’ospedale o la casa di cura. E le carenze di strutture e di personale degli ospedali, i compiti ben precisi e standardizzati che esse attribuiscono all’infermiere a cui si aggiunge il fatto che spesso la relazione è di breve durata e che mancano tempo e continuità per instaurare rapporti che possano veramente incidere sulla condizione esistenziale della persona malata, rendono spesso vano ogni tentativo di uscire dalle attività routinarie per dedicarsi alla persona più che al caso o all’organo malato. Resta però il fatto che, oltre al medico, l’infermiere è, pur nell’alternanza delle turnazioni, una presenza costante nella vita ospedaliera e nel mondo di chi soffre che a lui si relaziona nella quotidianità della vita ospedaliera. E se la sofferenza di per sé induce radicali cambiamenti nel modo di vedere, di pensare, di sentire, essa apporta cambiamenti anche nell’esperienza soggettiva dello spazio, del tempo e della corporeità. L’ospedalizzazione comporta lo sradicamento dal proprio ambiente, dalla casa, dalle cose, dalle abitudini, dal lavoro, dagli affetti e produce isolamento, solitudine, dipendenza, dunque perdita di identità e di potere. L’unica possibilità di sentire meno schiacciante il peso e l’angoscia di questo sradicamento, che si aggiunge alla sofferenza derivante dalla malattia, è legato da un lato alla possibilità di solidarizzare con le persone estranee che però vivono la stessa situazione e dall’altro proprio alla capacità dell’infermiere – che incarna, insieme al medico, quel potere che il paziente ha perso, potere di disporre di sé stesso, di non essere dipendente dagli altri – di rendere meno doloroso questo stato attraverso la relazione umana improntata all’accoglienza, alla solidarietà, alla sim-patia, alla disponibilità. Anche il tempo non è più amministrato da chi soffre e vive l’esperienza dell’ospedalizzazione ma regolamentato e scandito dai ritmi ripetitivi e standardizzati della struttura. Essere espropriati dal tempo significa ancora perdere il potere di amministrarlo, di scegliere a chi e a cosa dedicarlo, ma soprattutto, l’esperienza del dolore trasforma i vissuti temporali, lascia poco spazio al passato e lede o annulla le aperture al futuro, mentre dominante diviene la dimensione del presente di un tempo immobilizzato, quasi eterno,

Nell’universo

della sofferenza

103

come eterna appare la sofferenza, che scorre lento e sempre uguale, informe e perlopiù manchevole di senso. La singolare situazione della sofferenza più profonda e devastante, è il sentire che non si può sopportarla oltre, ma proprio per questo, per questo non potere, non si può smettere di sopportarla. Così il tempo sembra arrestarsi, confondendosi con il suo intervallo, con un tempo fuori dal tempo, il presente non ha fine: un infinito inesauribile e vuoto, l’infinito stesso della sofferenza, lo separa da ogni altro presente e lo destituisce di ogni avvenire. Frattura nel soggetto dell’intenzionalità – scrive M. Andrisani, riferendosi a Blanchot e Levinas – la sofferenza è esperienza che destituisce l’egoità dell’Ego e la sua padronanza; l’io cade nell’assenza di tempo di un presente senza fine, dove non è possibile alcuna ‘pro-tensione’ trascendente e al contempo neanche sostenere tale presente, impossibile e smisurato rispetto al potere di assunzione del soggetto, rigettato, così, nella sua fatticità, nel ‘che è’ opaco della sua presenza insensata, irremissibile quanto inevitabile 24.

Perdita della diacronicità della vita, il dolore è situato in un presente singolare reso eterno dalla temporalità immobile e senza soggetto. Anzi, nella quale il soggetto è il dolore, struttura di un vuoto di spazio e di tempo. L’abbondanza di tempo che si vive negli ospedali rende ancora più acuta la sofferenza perché accresce la sensazione che questa sia senza fine, ma anche perché l’essenza del tempo non è solo o tanto il cambiamento quanto la nostra modalità di avvertire il cambiamento, anzi di avvertire noi stessi nel cambiamento, dunque è strettamente connesso alla nostra soggettività, alla nostra identità e alla coscienza del nostro sé. Ciò fa sì che una frattura nella struttura della temporalità non possa non ripercuotersi sul senso stesso di sé stessi, sulla percezione identitaria del soggetto, indebolendola, rendendola ancora più fragile di quanto in genere non sia, fino ad arrivare, nei casi estremi, ad annullarla, proprio perché soggetto del tempo diviene il dolore stesso, fino al punto di sentirsi oggetto anonimo e fuori dal tempo, più che soggetto singolo che, originariamente, vive nel tempo ed è tempo e che questo tempo amministra attraverso la Cura e in primo luogo la cura di sé che consente di dare forma al tempo del proprio esistere. Anche qui nel contrasto tra la lentezza, spesso la paralisi del vissuto temporale del paziente, che pur si contrappone alla fretta quasi frenetica di chi presta assistenza e cura, si richiede almeno una presenza non neutra e non anonima ma partecipata, consapevole e capace di riconoscere la 24

M. Andrisani, La sofferenza im-pensabile, in Filosofia del dolore cit., p. 156.

Fenomenologia

104

della cura

persona, ogni singola ed unica persona che sperimenta il non potere della sofferenza anche in termini temporali, di donare ad essa un po’ di tempo, il tempo della relazione, perché essa possa ancora sentirsi tale, persona, appunto, espropriata del suo tempo ma non della sua dignità. E qui sarebbe forse utile riflettere sui vissuti temporali di cura dell’infermiere e su quanto questi possano essere diversi a seconda che si imposti la relazione in modo che tutto risulti predefinito, preimpostato, cui corrisponde un vissuto temporale lineare e piatto in cui le valenze, le distanze di un incontro, sono date e non v’è spazio per il nuovo, o invece una relazione tra due esseri umani, con i loro pensieri e le loro emozioni, le loro gioie e i loro dolori, le speranze e le delusioni, capace di abitare anche quel tempo fuori dal tempo programmato, il tempo donato, pronta ad accogliere ciò che è inaspettato e non progettato, comprese le pause, le chiusure, i silenzi, che sono di ogni uomo ma in maggior misura di chi soffre, e a non considerarli come tempo sottratto all’esistenza e alla forma ma epifania di qualcosa di nuovo che nasce in lui e intorno a lui. Uno stare nel tempo e nel ruolo ed in esso re-stare, da un lato o uno stare nel tempo senza restare nella stessa modalità di relazione, dall’altro, che apre nuovi orizzonti e richiede ad ogni istante nuove decisioni, nuove modalità di avvicinamento ai vissuti dell’altro. E anche per quanto riguarda il corpo della persona malata e sofferente, l’avvento della tecnica ha portato ad oggettivare tale corpo, concentrando l’attenzione sull’organo malato, attraverso la mediazione di tutta una strutturazione che misura il suo funzionamento, che vede l’invisibile, che classifica, smembrando così il corpo stesso, riducendolo ad aggregato di parti, facendo di esso, che è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti che con gli organi del corpo vedono, toccano, ispezionano, un oggetto. In questo modo si aliena il corpo, gli si toglie la sua peculiarità di “originaria apertura al mondo che consente al corpo di sentirsi nelle sue possibilità”25. La scienza, scrive Galimberti, assolutizzando l’oggettività e dimenticandone la genesi, recide il legame originario del corpo col mondo in cui si raccoglie tutta la nostra vita, per sostituirvi l’idea chiara e distinta dell’oggetto in sé e del soggetto come pura coscienza in cui nessuno può ritrovarsi se non astraendosi dal mondo della vita26.

Ma, nel caso che qui principalmente interessa, il problema non sta nella scienza e nella tecnica che essa produce, quanto nell’uso che di essa si fa. 25 26

U. Galimberti, Il corpo, Milano: Feltrinelli, 1983, p. 47. Ivi, pp. 47-48.

Nell’universo

della sofferenza

105

Forse l’uomo d’oggi non è davvero ancora maturo per abitare la tecnica, usandola come mezzo e non come fine e, nel caso che ci interessa, per usarla come potente mezzo di intervento sul malato e sulla malattia ma senza perdere di vista che ad essere malato e a soffrire è un essere umano nella sua integralità di mente-corpo, con i suoi vissuti, con le sue emozioni, con la sua storia, con i suoi pensieri perché il dolore, sia fisico che morale, fin da subito, da locale si fa globale, invade e pervade tutto il soggetto e produce vissuti di sofferenza che sono anche vissuti corporei. L’uso improprio della tecnica quando ad essa e solo ad essa ci si affida, porta inevitabilmente all’oggettivazione e alla spersonalizzazione e curare diviene operazione anche essa prevalentemente tecnica rivolta ad un corpooggetto mentre del tutto in ombra resta il problema di come aver cura del vissuto della persona malata che soffre spesso nel silenzio più totale ma che comunica emozioni, sentimenti, paura, speranza, disperazione proprio attraverso il corpo, col gesto o con lo sguardo, con l’espressione del volto e questi segnali corporei che sono spesso l’unico modo per entrare in relazione e per comunicare, dovrebbero essere strumenti preziosi per gli operatori di cura in genere e in particolare per il medico e ancor più per l’infermiere, in quanto spesso divengono l’unico modo per entrare nel mondo del paziente che non vuole e non sa dare parole al suo dolore, entrarci in punta di piedi, per accompagnarlo discretamente, per farlo sentire “visto”, riconosciuto, accettato, e per ras-sicurare per quanto si può, magari ancora attraverso il corpo e la sua valenza comunicativa; talvolta basta uno sguardo attento che denuncia interesse e coinvolgimento, o un semplice gesto accogliente e rassicurante che può essere anche di contatto fisico. Ma ciò presuppone che da parte dell’operatore sanitario vi sia, chiara, la consapevolezza del fatto che ad essere fatto oggetto di cura non è un corpo fisico (anche quando si tratta di malattia psichiatrica, di disagio emotivo, che ha come organo fisico il cervello) ma il corpo proprio, il corpo vissuto. Binswanger non si stancava mai di ripetere a proposito della malattia mentale che chi ne viene colpito non ha una malattia ma è al mondo nella modalità della malattia e della sofferenza e ciò potrebbe essere detto anche per tutte le altre forme patologiche che colpiscono singoli organi ma che producono dolore e sono vissute, appunto, come modi di essere al mondo, di avere e abitare un mondo. Occorre, pertanto, che del percorso di formazione dell’infermiere faccia parte anche l’educazione corporea: essa è parte fondamentale di quella competenza nei saperi di cura che comprendono e in misura notevole, la consapevolezza e l’attenzione rispetto ai vissuti della corporeità e ciò, ancora una volta per contrastare la tendenza dello stesso malato che soffre a vedere

106

Fenomenologia

della cura

nel corpo più un impedimento, un ostacolo verso il mondo che una apertura ad esso e correggere, insieme, quella dell’operatore sanitario il quale, troppo spesso inconsapevole, perché a questo indotto anche dalla estrema specializzazione e dall’uso della sempre più sofisticato di strumentazione tecnica, perdono di vista l’originario carattere vissuto del corpo ed operano in modo riduzionistico, riducendo cioè la soggettività della sofferenza all’oggettività del sintomo e dell’organo malato, che diviene così, non parte di un corpo vivente, ma frammento di un corpo reificato, di un corpo-cosa o di un corpo-oggetto. E non è certamente un caso che Emmanuel Levinas si riferisca all’altro uomo, che è colui che ci fonda e ci definisce come Sé, come Io, chiamandolo Volto e con ciò riferendosi ad una parte del corpo, a quanto di più espressivo e comunicativo vi sia nella nostra corporeità. Ma egli scorge nel volto dell’Altro, non certo una parte anatomica di un corpo oggettivato e reificato, ma, tutto al contrario, il simbolo e l’essenza stessa dell’essere uomo, l’espressione massima della soggettività, l’incarnazione della persona, unica, diversa, altra da noi e che ci chiede di essere accolta e riconosciuta proprio nella sua differenza ed irriducibile alterità. E ciò che vi è di più straordinario è che questo volto si presenta nella sua nudità, con le sue pieghe e le sue rughe, che il tempo, la vita, vi hanno impresso. Il volto dell’Altro si offre a me, nudo, disarmato, spogliato da ogni orpello, proprio come nudo, disarmato, inerme è il volto di chi vive la fragilità estrema del dolore e della sofferenza. Ma è proprio questa nudità, questo essere senza difesa, che chiama e convoca chi gli sta di fronte, di faccia, a farsene carico e ad averne cura. E chi è convocato è “eletto” in prima persona, come unico destinatario e, dunque, non è sostituibile o rimpiazzabile da nessun altro. Così Levinas: Dietro l’alterità specifica e formale degli individui che costituiscono il genere umano […] insorge e prende significato un’altra alterità. Come se, nella molteplicità umana, l’altro uomo si trovasse bruscamente e paradossalmente – contrariamente alla logica della specie – colui che mi riguarda prima di tutto; come se, uno in mezzo a tanti altri, mi trovassi – io o me – colui che, come convocato, ha inteso l’imperativo come unico destinatario, come se solo verso di me, verso di me prima di tutto, questo imperativo fosse stato emesso, come se io, ormai scelto e unico, dovessi essere responsabile della morte, e dunque della vita, degli altri27. 27

E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Milano: Jaca Book, 1998, p. 227; [Entre Nous, Paris: Grassett & Fasquelle, 1991].

Nell’universo

della sofferenza

107

E niente come la filosofia e la pedagogia del volto levinasiana danno l’idea di che cosa debba intendersi per cura dell’altro, che si da, si offre in modo incondizionato ed ostensivo, fuori da ogni concettualizzazione, da ogni mediazione, rompendo gli apparati di un mondo già interpretato, di un mondo pacificato dalla ragione teoretica, come nudità e denudamento, come esposizione estrema, come il senza-difesa, che interroga la nostra coscienza e ci costringe ad un decentramento da noi stessi, che trasformi la nostra ipseità ripiegata su se stessa, primordiale e autarchica, in soggettività decentrata, rivolta ad altri, responsabile di altri. Non servono commenti per mettere in luce quanto questo pensiero già così radicale, lo divenga ancora di più se quel volto nudo che noi tutti siamo, nel nostro essere limitati, fragili, esposti, finiti, aperti al mondo ma anche sperduti in esso, diviene il volto di una persona che, colpita dal dolore e dalla malattia, segnata dal patire, ne rappresenta l’espressione massima e quell’essere nudo, senza difesa, massimamente vulnerabile ed esposto, con la sua sola presenta chiede cura, chiama alla relazione e alla responsabilità. E in Levinas l’etica diviene, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, la filosofia prima, che antepone all’“Io sono” della conoscenza, l’“Ecco-mi” della responsabilità morale. Noi chiamiamo etica una relazione tra dei termini dove l’uno e l’altro non sono uniti né per una sintesi dell’intelletto, né per la relazione tra soggetto e oggetto e dove, tuttavia, l’uno grava e importa o è significante per l’altro, dove essi sono legati da un intrico che il sapere non saprebbe né esaurire né districare. L’etica è il rapporto tra due volti in cui il rispetto dell’altro non è determinato dall’impossibilità di assorbirlo ma dall’ascolto di quell’ordine che in Autrui si fa presente e così mi definisce28.

L’incondizionatezza di questo rapporto, il suo essere diretto e non condizionato da aspettative, da mire, da caratteristiche (ad esempio sano o malato), da interpretazioni o concettualizzazioni, ne indica il carattere di assoluta gratuità. L’atteggiamento è, in prima istanza, quello passivo dell’ascolto e mai potrà essere quello attivo del de-finire, dell’etichettare, dell’assimilare – negando la differenza – o dell’esercitare un potere e mostrare una forza di fronte al non-potere e alla debolezza dell’altro. Nessun codice deontologico – in questo caso di un operatore di cura come l’infermiere – è in grado di rendere in modo così incisivo e per tanti versi sconvolgente, lo sfondo etico, i dettami, le condizioni, la ragione e il senso dell’aver cura e del fare della relazione di cura una, sia pur peculiarissima, professione. 28

Ivi, p. 182.

108

Fenomenologia

della cura

Riferimenti bibliografici Andrisani M., La sofferenza im-pensabile, in AA.VV., 1991, Filosofia del dolore, Atti del convegno della Società Filosofica italiana, Matera. Cancrini L., 1969, Date parole al dolore, Milano: Frassinelli, Milano. Casadio I., Il coraggio di partire da sé per ritornare a sé, in Bruzzone D. e Musi E. (a cura di), 2007, Vissuti di cura, Milano: Guerini. Foucault M., 1969, Nascita della clinica, Torino: Einaudi; [Naissance de la clinique, Paris: Presses universitaries de France, 1963]. Gadamer H. G., 1994, Dove si nasconde la salute, Torino: Raffaello Cortina Editore; [Über die Verborgenheit der Gesundheit, Frankfurt a. M.: Suhrkamp, 1993]. Galimberti U., 1983, Il corpo, Milano: Feltrinelli. Gorz A., 1992, Metamorfosi del lavoro, Torino: Boringhieri; [Métamorphoses du travail, Paris: Galiléè, 1988]. Heidegger M., La questione della tecnica, in Vattimo G. (a cura di), 1976, Saggi e discorsi, Milano: Mursia; [Vorträge und Aufsätze, Frankfurt a. M: Klostermann, 1953]. Heidegger M., 1991, Seminari di Zollikon, Napoli: Guida; [Zollikoner Seminare, Frankfurt a. M.: Klostermann, 1987]. Jankélévitch V., 2009, La morte, Torino: Einaudi; [La Mort, Paris: Flammarion, 1977]. Kierkegaard S., 1953, Il concetto dell’angoscia, Torino: Paravia; [Begrebet Angest, Copenaghen: Kierkegaard Society, 1844]. Levinas E. 1998, Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Milano, Jaca Book; [Entre Nous, Paris: Grassett & Fasquelle, 1991]. Mortari L., 2006, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori. Natoli S., 2002, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano: Feltrinelli. Nietzsche F., Opere, Milano: Adelphi, 1973, pp. 83-89 (edizione critica a cura di Colli G. e Montinari M., Sul pathos della verità, in La filosofia nell’epoca tragica dei greci – Scritti 1870-1873); [Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, München: Nietzsche-Gesellsshaft, 1923]. Weil S., 1972, Attesa di Dio, Milano: Rusconi; [Attente de Dieu, Paris: Fayard, 1966]. Wittgenstein L., 1967, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi; [Philosophische Untersuchungen, Frankfurt a. M.: Suhrkamp, 1953]. Zanardo A., La sofferenza: senso del limite e occasione, in AA.VV., 1991, Filosofia del dolore, Atti del convegno della Società Filosofica italiana, Matera.

Capitolo quinto Pensieri di cura: infermiere e infermieri Alessia Camerella

L’attenzione sola mi è richiesta, quella attenzione tanto piena che l’Io vi scompare S. Weil, L’ombra e la grazia

Dall’analisi quantitativa degli excerpts risulta che l’indicatore fondamentale dell’aver cura viene individuato dagli infermieri nel prestare attenzione; a seguire risultano il creare un contatto fisico non intrusivo, accompagnare l’altro verso l’autonomia, accompagnare l’altro con la parola che rassicura, tranquillizzare e interpretare il vissuto. Prestare attenzione significa innanzitutto disporsi in un atteggiamento di accoglienza, che impegna e investe tutta la persona in modo continuato. Per questo l’attenzione è caratterizzata dalle dimensioni di totalità, profondità e permanenza1. La persona attenta si rivolge all’altro e alla realtà che vive con interesse e sollecitudine, con premura e riguardo nell’osservarlo, ascoltarlo, toccarlo, per promuovere poi successivamente il bene sia fisico sia interiore. Il prestare attenzione è collegato anche al conoscere e valorizzare il paziente, personalizzando la cura rispetto a lui o lei e considerando anche i suoi familiari: è un’attenzione che tocca il cuore e genera una positiva “tensione” verso l’altro. Significa considerare che ogni paziente ha una storia, un vissuto, un carattere e sensibilità particolari da rispettare: perciò è importante imparare a conoscere il soggetto in cura oltre l’aspetto medico-sanitario. Non si tratta solo di applicare una terapia, ma di orientarsi verso il paziente e il suo mondo culturale, affettivo e relazionale. Infatti l’infermiere è spesso chiamato a rivolgere il suo interesse anche alle relazioni significative per il paziente ossia ai suoi familiari e amici, favorendo la comunicazione sulla situazione e offrendo loro sostegno. 1

R. De Monticelli, L’allegria della mente, Milano: Mondadori, 2004, pp. 160-168.

110

Fenomenologia

della cura

Quando la persona sta male, la vedi se conosci il caso, però quando vedi che l’altro ha solo bisogno di protezione, ha bisogno di attenzione allora stai lì e poi la pastiglietta fasulla è miracolosa, però io non gliela negavo perché non dovevo dirgli “no tu in realtà non hai male” perché sarebbe stato comunque… (inf/c_150). La soggettività del paziente è fondamentale, devi fare un’analisi molto approfondita che vada oltre il considerare la sua spalla (inf/c_66). Credo che l’importante è dimostrargli che ti prendi a cuore il suo caso (inf/f_82). La porto dentro al cuore e magari prego per lei (inf/f_164).

Anche Malebranche ha definito l’attenzione come “la preghiera silenziosa del cuore”2; infatti può essere intesa come lo stato di raccoglimento e concentrazione di cui parla S. Teresa d’Avila nella sua opera Il Castello interiore3. L’infermiere attento vede il paziente come soggetto, sa distinguere la proporzione esistente tra il male fisico e il bisogno di protezione e attenzione al suo mondo interiore, porta nel cuore l’altro, in modo che quest’ultimo si senta alleviato nella fatica, sofferenza, paura, incomprensione e impotenza. A volte si tratta semplicemente di stare. Proseguendo, gli intervistati ci sottolineano l’importanza dell’ aver l’attenzione per i pazienti paraplegici, per quelli che usano solo la metà del corpo, di mettere tutte le cose dalla parte che possano anche vedere, che possano, se hanno sete che possano bere; anche se la stanza non è adibita che il comodino stia da quella parte, mettilo di là. Per cui bisogna avere attenzione. Poi passavano i colleghi dicendo “lo vizi”. Cioè non è che gli porto la caramellina, ma cerco di far venire fuori le risorse che ha, se questo ce la fa ancora a sentire lo stimolo, dobbiamo trovare i due minuti per alzarlo, portarlo in bagno… l’attenzione, il fatto di non omologare tutti (inf/b_340).

Prestare attenzione indica una presenza d’essere e di sentire senza la quale la persona rischierebbe di inaridirsi, è un far spazio nel proprio cuore: è la percezione di un ordine del mondo, un’accoglienza affettiva e riconoscenza per costruire orizzonti di nuovo sapere4. Si tratta di allearsi con le risorse dell’altro per incentivarlo, trovare il tempo per l’altro, ricordando l’unicità di ognuno. Infatti non tutti i pazienti sono uguali, ma ognuno è particolare e quindi l’attenzione si personalizza e modula rispetto all’altro che si ha di fronte.

2 3 4

Ivi, p. 177. Ibidem. R. De Monticelli, L’ordine del cuore, Milano: Garzanti, 2003, pp. 277-280.

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

111

Un’intervistata ribadisce che il contatto viene dopo, è soprattutto l’ascolto, lo sguardo, l’attenzione al suo vissuto (inf/c_102).

Guarire significa innanzitutto creare uno spazio, in cui il paziente possa raccontare sé, la propria storia, esperienza, situazione con qualcuno che lo ascolti realmente e attentamente. “Colui che medica è un ospite che ascolta con pazienza e attenzione le storie degli stranieri che soffrono”5. La relazione tra infermiere e paziente è un incontro di vite e di storie; molto di ciò rimane non detto, ma portarne la consapevolezza fa dell’altro non un oggetto tra i tanti, ma una persona unica che parla con tutto ciò che è. Come già si può cogliere dalle parole degli intervistati sul prestare attenzione, la pratica infermieristica per sua natura coinvolge la dimensione corporea sia dell’infermiere sia soprattutto del paziente: infatti richiede di rapportarsi con la corporeità dell’assistito; la corporeità dell’infermiere è a servizio di quella del paziente. Quando passi all’assistenza vera e propria del cambio, allora lì vedi il paziente quasi nella sua totalità e quindi lo devi lavare, vedi se ci sono piaghe, vedi se… (inf/n_20).

“La nudità, seppure inevitabile in certi frangenti, fa sentire il paziente a disagio, impotente, con una forte sensazione di imbarazzo e umiliazione. L’esposizione del proprio corpo, specialmente se associata alla mancanza di indipendenza, incide tanto da azzerare la dignità […]. Quando la dignità può essere compromessa dalla nudità, l’infermiere ha totalmente il potere di far percepire all’assistito una dignità integra”6. Nel promuovere la dignità del paziente l’approccio e la professionalità del personale sanitario non si orientano solo ad agire con competenza, serietà e correttezza, ma anche con passione e dedizione. Per questo all’infermiere è chiesto di creare un contatto fisico non intrusivo, permettendo particolarmente in situazioni di sofferenza e difficoltà “di tornare sciolti e franchi/dall’ansia che diverge i nostri corpi,/e godere di gioie innumerabili”7. 5 H. J. M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia: Queriniana, 1999, p. 86; [Reaching out. The Three Moviments of the Spiritual Life, London: Fount Paperbacks, 1980]. 6 A. Fumagalli e I. M. Rosi, “La percezione degli assistiti sulla tutela della dignità in ospedale. Uno studio qualitativo”, «L’infermiere» 49, 5, 2012, p. 75. 7 Lucrezio, Inno alla saggezza; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, 1949].

112

Fenomenologia

della cura

L’infermiere si fa accompagnatore del paziente, innanzitutto per portarlo o riportarlo all’autonomia. L’attenzione si esprime non solo nello sguardo, ma anche nell’offrire parole all’altro: infatti una pratica segnalata dagli infermieri è l’accompagnare con la parola ogni gesto che si sta compiendo o che si è in procinto di compiere. La parola che cura cerca il contatto, dichiara un interesse positivo per l’altro e accompagna i gesti in modo rassicurante. La parola che cura può sciogliere “ai venti/ogni malinconia, disseca il pianto […]/Una parola medica l’infermo”8. Spesso il paziente porta con sé timori o paure, sente dolore o sofferenza, può essere preso dallo sconforto o cadere nella percezione della propria fragilità, solitudine, impotenza. Ecco allora che la figura dell’infermiere cerca di tranquillizzarlo, favorendo l’accettazione di ciò che sta vivendo, facendo appello al positivo comunque presente e ricordando che “sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto”9.

Creare un contatto fisico non intrusivo Anche senza la sollecitazione di domande da parte dell’intervistatrice, viene espressa l’importanza della cura nei confronti della dimensione corporea dei pazienti: A me piace coccolarlo (inf/h_498). Io sono molto fisica per cui li abbracciavo, li baciavo (inf/b_25). Eh per me la carezza sempre, quando stan male, quando stan bene, quando sei in visita con i dottori che allora i dottori ti guardano un po’ per dire “ma sei matta! insomma”, e il fatto di dire alla paziente “dai sei stata brava” (inf/b_124).

Sembra strano parlare di “coccole” nei confronti di pazienti, in ambito sanitario. Può sembrare difficile per la complessità e fatica lavorative da sostenere da parte degli infermieri, ma le parole delle persone intervistate ci dicono che è possibile; non si tratta di un’azione appresa nel percorso di studi né un obbligo professionale a cui sottostare, ma sembra nascere dall’interno del proprio essere come piacere di prendersi cura, esternarsi di una propensione interiore di cura verso l’altro che si trova in una situazione di bisogno o disagio. 8 T’Eimuraz I, L’uomo; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, 1949, p. 455]. 9 E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano: Adelphi, 2012, p. 126; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlen: De Haan, 1981].

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

113

Il valore del paziente diviene principale, anche se non è considerato tale da colleghi o superiori; si tratta di un valore che viene comunicato, diventa esplicito nei gesti e nelle parole di stima, affetto, incoraggiamento. Queste parole possono trovare eco sensibile nel riconoscimento che la propria “natura è di essere/presente: amare/la realtà che sento: toccare,/ divenire queste morenti cose/salvarle nel mio gesto/di pietà”10. È importante il contatto umano: a questa donna chi glielo dava più un bacio? “Ti accarezzo perché so che tanto a casa non hai più nessuno che viene qua, sono io il tuo famigliare in questo momento qua”; si buttava anche un po’ sullo scherzoso il suo problema agli arti a volte per vedere se riusciva un po’ a superarlo, allora lei diceva “ho prurito al piede” e io dicevo “quale ti gratto il destro o il sinistro?” e allora lei continuava a ridere (inf/b_214). Il contatto fisico nel senso limitato, la mano, ma anche solo la visita, perché tante volte magari i medici magari per fretta visitano poco il paziente oppure si va via veloci, ma anche la visita in sé è anche una cosa molto personale, nel senso che spogli il paziente, lo tocchi e quindi entri in intimità incredibile, anche se professionale. Quindi già quello crea un po’ di empatia; dopo se tu lo associ alla sua situazione se è un malato terminale, …l’anziano… sì la mano e la carezza. Vedo che loro ne hanno piacere, non tutti ma magari soprattutto le donne, quelle di una certa età, i giovani no, i giovani quasi nessuno, mi capita di non toccarli mai a parte per misurare la pressione. Invece gli anziani ne hanno tanto bisogno di sentire il contatto fisico e la mano, di qualcuno che parli con loro (inf/o_152-154).

Emerge come sia insito all’essere infermieristico – in una commistione tra professionalità e carattere personale – avvicinarsi all’altro, rispettare il suo corpo, accorgersi del bisogno di qualcuno che renda meno estraneo il luogo medico e più sostenibile la terapia. Il corpo del paziente non è un semplice oggetto sul quale praticare azioni assistenziali, terapeutiche e riabilitative, ma è un soggetto incarnato, ricco di esperienze, idee, vissuti, significati e aspettative. Accanto a ciò, l’infermiere entra in contatto non solo con il corpo dell’altro, ma anche con il proprio corpo, che è altrettanto vivo, carico di storia, emozioni, precomprensioni e insieme potenzialità come la forza della comunicazione, l’empatia, la presenza che sostiene, accoglie, accompagna e lascia andare11. Aver cura del corpo dell’altro significa avere rispetto: …chiedere, spiegare e addirittura chiedere permesso a volte, nel senso che noi non siamo padroni del loro corpo, sul quale possiamo decidere noi (inf/b_276). 10 11

D. M. Turoldo, O sensi miei, Milano: Rizzoli, 1990, p. 23. L. Zannini, Il corpo paziente, Milano: FrancoAngeli, 2004.

114

Fenomenologia

della cura

Questo ospite si vede arrivare prima uno che gli fa l’igiene e che poi va via, poi arriva un altro e gli fa il clistere, poi arriva un altro… se invece quella parte parte gliela vede solo l’infermiera e basta… è anche il senso del pudore che l’altro si aspetta, perché – immagina – se tu vai dal ginecologo, speri che non ti vengano in quattro a vedere (inf/b_71).

Accompagnare l’altro verso l’autonomia Tale attenzione implica il vedere prima l’uomo e la donna ricoverati come persone e poi come pazienti. In questo modo la cura non è solo guarigione di una malattia o istruzione di competenze corrette (come nel primo esempio), ma aiutare l’altro a prendersi cura di sé, valorizzando le sue dignità e potenzialità. L’obiettivo nostro è una donna equilibrata, cioè darle dei compiti, delle competenze che lei è in grado di sostenere. Fare acquisire alla madre le competenze che sono necessarie per accudire un bambino, sviluppare in questo processo di cura proprio sempre più competenze, autonomia, sicurezza praticamente nei loro ruoli, e anche dei punti di riferimento che abbiano, se eventualmente avessero bisogno, dandogli tutte le informazioni che sono necessarie in questo caso. (inf/a_22-24). Curare è anche stimolare l’autonomia di questa persona, sotto tutti gli aspetti: motricità, sensorialità, aspetto cognitivo e psichico (inf/i_38). Si spiega bene cosa succede. Deve essere fatto, loro imparano… sono più interessati ad imparare, perché è anche una questione di intimità potersi lavare un po’ da soli, potersi vestire da solo senza essere dipendente da un’assistente domiciliare o da un familiare (inf/i_62). L’obiettivo finale è che il paziente raggiunga l’autonomia di se stesso. Il paziente prima non era dipendente dal terapista. Quindi si tratta di uscire dalla condizione di paziente per ritornare alla condizione di persona autonoma (inf/c_80).

Viene ribadita la cura nei confronti di tutta la persona nella sua integralità (ossia agli aspetti fisico-motori, psichici e interiori, sociali-relazionali). L’infermiere fa leva sull’interesse del paziente a imparare, incentiva la cura di sé, affinché quest’ultimo si senta il più possibile sicuro e abile nel procedere autonomamente nella vita quotidiana una volta tornato a casa.

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

115

Accompagnare l’altro con la parola che rassicura Spesso la pratica specifica di un’etichetta è stata introdotta dalla voce “accompagnare”, proprio per indicare il farsi compagni, vicini, partecipare alla situazione dell’altro, condividendo – seppur non in prima persona – ciò che riempie e muove il suo corpo e la sua anima. Anche la parola si fa prossima, introducendo i gesti che l’infermiere sta per compiere, creando un clima di fiducia, accettazione e maggiore serenità, sdrammatizzando e portando speranza e luce, talvolta con ironia. È brutale per chi si vede arrivare uno che lo scopre, lo gira senza dire che cosa gli sta facendo e gli pratica una terapia. Invece il fatto di dirgli “Guarda siccome è tanti giorni che non scarichi, è vero che non stai bene?” – “Sì è vero” – “Allora ascolta: con un clistere, guarda ti assicuro che starai meglio, allora girati di là perché se ti giri a sinistra l’intestino è più libero” (inf/b_61). Sì spiegare perché loro sono terrorizzati dal dolore e di quello che non conoscono, per cui se tu gli spieghi, li rassicuri. Oppure finché tu fai questo lavoro il continuare a chiedere “Ti faccio male? Vuoi che mi fermi? Aspettiamo un po’”. Anche chiedere la sensazione dell’altro è importante (inf/b_63). Comunque spieghiamo tutto quello che succede, anche le cose più semplici ma vengono spiegate. E il genitore generalmente quando sente una ragione per delle cose che si devono fare al figlio, lascia fare. (inf/m_92).

L’infermiere non dà nulla per scontato, spiega anche il più piccolo gesto e chiede al paziente come sta, cosa prova durante il trattamento; a sua volta, in questo modo, il paziente e i suoi familiari si sentono più sereni, accolgono maggiormente la diagnosi e la terapia, interagiscono con maggior apertura e disponibilità.

Tranquillizzare e interpretare il vissuto C’è il sentimento, altrimenti se quello è solo tumore che progredisce dov’è la cura? Non c’è più niente, non c’è più nessuna speranza per quello lì, chiudiamo la porta, veniamo tra un mese e vediamo se è morto, Allora la tua cura va sull’aspetto dell’umano, su quello che può sentire, l’arrabbiatura che può avere quel giorno e gliela lasciamo; anzi se vuoi, sto lì, mi prendo le parole volentieri oggi, perché oggi hai bisogno di sfogarti (inf/b_404).

Fenomenologia

116

della cura

È un bisogno di essere tranquillizzati più che un male fisico vero e proprio, non è una patologia, quindi tu devi cercare di mantenere l’integrità psichica della persona non tanto fisica perché non è che con il parto si stravolga chissà quale integrità fisica, c’è un momento in cui tu devi cercare di alleviare il dolore, il resto è una parte prettamente psichica (inf/o_16).

Come si può intuire dalle pagine precedenti, nel lavoro infermieristico s’intrecciano cura terapeutica e cura all’umanità, cura verso un paziente e allo stesso tempo verso la persona che era, è e potrà essere. Può implicare anche un’assunzione del male e dei bisogni dell’altro, tranquillizzandolo, prendendosi cura del suo lato psichico o lasciandolo sfogare e arrabbiarsi. La sensibilità porta l’infermiere ad avere la strana sensazione che qualcuno abbia bisogno anche quando non è chiaramente espresso, a farsi incontro all’altro, cercarlo, incarnare un atteggiamento comprensivo, mobilitandosi per creare un ponte con la famiglia12. Spesso la consolazione non basta a togliere la paura; allora si è chiamati a una presenza costante, silenziosa, che impari ad accettare l’incomprensione e il fallimento; spesso non possiamo togliere il dolore, ma abbiamo la possibilità di addolcirlo mettendoci un seme di amore, possiamo tendere le braccia, fermarci, abbandonarci, guardare e attendere13. A conclusione raccolgo alcune pratiche di cura risultanti minori nell’analisi delle interviste, ma che costellano anche brevemente gli interventi delle persone intervistate.

Ascoltare Io cerco di ascoltare ma poi anche di rimandare a chi possa dare un aiuto specializzato (scu/i_76). È un ascolto innanzi tutto per comprendere realmente i bisogni della persona e per poi capire, come professionista, come posso dargli un aiuto e di che genere, cioè se di un aiuto da un punto di vista fisico o anche pratico, se un aiuto da un punto di vista più psicologico (inf/a_12).

È un ascolto innanzitutto umano, fatto di vicinanza e interesse e allo stesso tempo che conosce i propri limiti professionali e quindi, nel cogliere il bisogno del paziente, sa poi rivolgersi a chi può essere più competente.

12 13

L. Favaro, Il sole in una lacrima, Messina: Kimerih, 2009, p. 9. L. Verdi, “Sorella paura”, «Romena» 1, anno 12, marzo 2008, p. 4.

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

117

Generalmente ho una relazione di ascolto, perché tante volte solo dal discorso, dal dialogo si capisce effettivamente se ha bisogno di una parola di conforto oppure di sostegno o di incoraggiamento oppure solo di esserci: mi prendo cura non nel senso di togliere qualsiasi tipo di sofferenza ma nel rimanere lì… (inf/x_12).

L’ascolto è accompagnato dalla parola, che cerca di capire l’altro e interpretare il suo vissuto.

Rivolgere la parola e cercare il contatto attraverso la parola Il fatto di andare là e dirle “M. buon giorno, buon giorno, dai guarda che anche oggi ti devo bucare altre sei volte perché anche oggi sei esilina…”… chi è che sa se questa un giorno me la ritroverò davanti, nell’aldilà e mi dice “ma tu non mi hai mai parlato, io ero lì che ti aspettavo, non mi hai parlato” […] Sì, veramente magari dire “scusami se ti ho fatto venire fuori un po’ di sangue, scusami se…” (inf/b_110). Nel momento in cui tu devi avvicinarti al bambino per qualsiasi cosa, non lo fai sterilmente come faresti con un adulto “vengo e ti do la pastiglia”. Cerchi comunque sempre di fermarti un attimo, di fargli un sorriso, gli spieghi con parole che con l’adulto non useresti chiaramente, ti fermi sempre un attimino… (inf/i_62).

Aver cura attraverso la parola richiede tempo, il fermarsi accanto al paziente piccolo o grande che sia e spiegargli cosa sta succedendo, salutarlo, parlargli. È sentirsi aspettati dall’altro e con umiltà chiedere scusa se involontariamente gli si fa male nel praticare una terapia.

Interpretare il vissuto Interpretare il vissuto può essere inteso sia come predisposizione dell’infermiere nell’interpretare la situazione del paziente, sia come aiuto offerto a quest’ultimo nel comprendere ciò che sta vivendo, nei vari aspetti di sofferenza, incomprensione, paura o anche reazioni negative nei confronti degli operatori sanitari. Acquisire la capacità di stare in compagnia che passa attraverso i comportamenti soprattutto non verbali di queste persone, cercando di capire dove sono i buchi che si sono formati e su quelli lavorare (inf/e_2).

Fenomenologia

118

della cura

“Siamo qua per capire insieme a te come fare ad aiutarti”: l’importante è che loro vengano messi nella condizione di poterci parlare perché loro magari hanno bisogno di trovare uno spazio diverso, l’importante che la verità l’ammettano a se stessi, non puntare sul fatto che loro sbagliano a non dirci che hanno bevuto ma puntare sul fatto che se non lo dicono probabilmente hanno dei motivi per non farlo, cercare di capire perché, insieme con loro (inf/f_86-88). Bisogna dargli lo spazio necessario per esprimere il loro disagio, la loro ansia e dopo di che ricostruisci il percorso per portarli ad una certa consapevolezza del loro stato, del perché è successa quella cosa e di come fare per affrontarla (inf/z_26). Cerco di fargli sentire il limite che c’è tra me e lui, nel senso che se una cosa non me la sento mia gliela ridò a lui perché è sua, perché il problema non è mio ma è suo: il fatto di porsi con arroganza, di offendere, di non avere credibilità nei tuoi confronti, cerco di fargli capire che è una cosa che non mi appartiene. Anzi, che rifletta su se stesso per capire il perché ha questo tipo di reazione (inf/z_18).

La capacità di stare in compagnia si può acquisire nel tempo e aiuta a leggere i messaggi che in vari modi i pazienti esprimono a livello verbale o analogico. L’infermiere che ha cura non fa sentire solo il paziente: “siamo qua… insieme a te… per capire”. La comprensione deriva molto anche dall’osservazione ravvicinata e mirata oppure anche a distanza, passando per i corridoi e le stanze.

Osservare Li guardi… io li osservo… guardo il bambino come si relaziona con la mamma nel primo momento che sono lì, poi se rimane più giorni poi lo conosci… ma all’inizio… com’è il bambino? Se poi passano più giorni di fila, ti accorgi se è nervoso, se non è… Impari proprio a conoscerlo, osservandolo da distante… per cui arrivi alla mattina e per lo meno io me li osservo, me li guardo… perché ho imparato che il bambino se è osservato, si comporta in un certo modo come se non fosse osservato, quasi neutrale… appena tu ti avvicini, cambia il suo comportamento. Per cui devi imparare a conoscerlo prima, da distante (inf/m_58-60).

Nell’osservare l’infermiere impara, si accorge dello stato emotivo del paziente, è attento a come l’assistito si relaziona con le altre persone che si trovano con lui, si interroga. È un’osservazione graduale che permette

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

119

una maggiore conoscenza, che poi potrà essere resa più esplicita e diretta attraverso la comunicazione verbale. Ieri una paziente stava piangendo perché un nostro medico aveva interpretato male quello che ha detto e quindi sono stata lì con lei, allora mi ha ringraziato. […] Dipende proprio dalla formazione che ogni persona ha, se è più o meno sensibile, io riesco a cogliere se è scattato qualcosa e riesco a stare con tutti (inf/x_13).

Informare e informarsi Il sapere raccolto sul paziente favorisce il costruirsi di una relazione con l’infermiere e permette a quest’ultimo di intervenire meglio nell’approcciarsi e curare il soggetto. Faccio delle domande personalizzate, come è andata la notte, domande per capire come stanno (inf/c_100).

La circolazione di conoscenza avviene anche in senso inverso dall’infermiere al paziente: il primo troverà le modalità e le parole migliori per far comprendere all’assistito e ai suoi familiari la diagnosi, la terapia, il tipo di medicinali e come comportarsi una volta dimesso e tornato a casa. Trasmettere il tuo sapere in modo tale che il paziente possa scegliere, più è a conoscenza e più può agire (inf/c_74). L’informazione prima di tutto perché io vedo, ma anche come utente quando io, per miei parenti devo rivolgermi a qualche medico, vedo che alla fine vengono fuori ma non sanno cosa, cioè la visita non gli ha dato niente, non hanno capito cosa gli ha detto lo specialista, non hanno capito cosa devono fare, quindi secondo me è l’informazione quella che rende l’utente consapevole e anche risponde meglio alle terapie, risponde meglio alle cure se un paziente è informato (inf/o_80).

Cura tra totalità, personalizzazione e limite Rileggendo le varie interviste degli infermieri risalta il loro aver cura a trecentosessanta gradi rispetto alla totalità dei diversi pazienti, dal punto di vista fisico e psicologico: L’assistenza è il prendersi cura della persona nella sua totalità e quindi sia nell’aspetto fisico sia nell’aspetto emotivo, spirituale, è importantissimo avere

120

Fenomenologia

della cura

cura perché alla fine c’è gente che ha bisogno e tu alla fine con la tua persona, con le tue azioni, con la nostra attività (inf/y_8). All’inizio quando non hai molta esperienza pensi che la parte importante sia la cura in senso materiale, di fare stare bene le persone, di portare sollievo fisico, di vedere che la malattia che li ha portati in ospedale pian pianino si risolve e la persona riacquista il suo stato di salute e di benessere. […] Sembrava questa la cosa più importante: invece poi con gli anni, con l’esperienza e con la possibilità di avere fatto altri percorsi secondo me adesso la cosa importante è la cura psicologica della persona. Questo perché se la persona è trattata come un numero, come un cartello, trattata fine a se stessa per le cure che devi darle, secondo me non è più sufficiente questo. Prima devi pensare che in quel letto lì c’è una persona che ha il suo vissuto, che proviene da una famiglia, da un suo contesto sociale, lavorativo, tutto quello che sta dietro ad una persona. Se tu parti dalla persona e dai suoi bisogni come persona, riesci anche a fargli vivere meglio il suo stato di malattia e anche a fare in modo che lui stesso riesca a seguire e a mettere in atto i consigli che gli sono dati (inf/z_8).

Il fine è quello di far fronte alle preoccupazioni di vario genere dell’ammalato, capendo i suoi bisogni e necessità, in particolare le sue sofferenze e i sentimenti che porta in cuore: Avere cura dei bisogni di una persona, dei bisogni essenziali di questa persona in quel momento lì e le sue necessità. Possono essere bisogni di vita, o comunque i bisogni emotivi. Secondo me prendersi cura del paziente significa prendersi cura del paziente totalmente, dal punto di vista fisico, dal punto di vista igienico, ma anche dal punto di vista dei sentimenti, delle emozioni sue e di aiutarlo anche in questo periodo che senz’altro per lui che è in ospedale c’è una sofferenza, più o meno marcata, c’è qualcosa che lo sta preoccupando. Quindi non sono importanti solo le cure igieniche, ma anche far fronte alle sue preoccupazioni. (inf/w_ 20).

L’infermiere scopre che ogni persona ha un valore, ogni paziente è diverso dall’altro e ha un significato unico. Anzi imparare a prendersi cura dei pazienti umanizza l’infermiere, facendogli capire il valore e l’importanza dell’essere umano come persona. Imparare a valutare la persona quando entra, i suoi bisogni, le sue necessità, il suo modo di porsi e come devo fare con lui perché per ogni persona devo adottare una tecnica diversa. (inf/z_26). Ogni infermiere si prende cura del proprio paziente in modo diverso l’uno dall’altro. C’è l’individualità e allo stesso tempo canoni standard che dobbiamo tenere in considerazione (inf/y_18).

Pensieri

di cura: infermiere e infermieri

121

Da quando sto facendo questo lavoro, do più valore alle persone, nel senso che le persone hanno un significato, ogni singola persona ha un valore, cioè ogni singola persona è un’entità che è presente in questo mondo (inf/y_80).

L’infermiere capace di cura sa coniugare la professionalità con le qualità umane che danno dignità al paziente e permeano la relazione di affetto, fiducia, sostegno, rispetto e incoraggiamento.

Riferimenti bibliografici De Monticelli R., 2003, L’ordine del cuore, Milano: Garzanti. De Monticelli R., 2004, L’allegria della mente, Milano: Mondadori. Favaro L., 2009, Il sole in una lacrima, Messina: Kimerih. Fumagalli A. e Rosi I. M., “La percezione degli assistiti sulla tutela della dignità in ospedale. Uno studio qualitativo”, «L’infermiere» 49, 5, 2012, pp. e70-e76. Hillesum E., 2012, Diario 1941-1943, Milano: Adelphi; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlem: De Haan, 1981]. Lucrezio, Inno alla saggezza; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, 1949]. Nouwen H. J. M., 1999, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia: Queriniana; [Reaching out. The Three Moviments of the Spiritual Life, London: Fount Paperbacks, 1980]. T’Eimuraz I, L’uomo; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, 1949, p. 455]. Turoldo D. M., 1990, O sensi miei, Milano: Rizzoli. Verdi L., marzo 2008, “Sorella paura”, «Romena» 1, anno 12, p. 4. Zannini L, 2004, Il corpo paziente, Milano: Franco Angeli.

Capitolo sesto (prima parte) Educazione e cura: chinarsi sulla vita, in attesa Ivo Lizzola

1. Educare competenze per la vita nella vulnerabilità La relazione educativa ha al suo cuore la vulnerabilità. E nasce da una doppia esposizione: esposizione a ciò che viene consegnato, indicato, trasmesso da chi, con più vita, ci accompagna a sapere danzare attorno alle nostre capacità e alle nostre fragilità; esposizione di chi offre le sue consegne, il suo sapere, le sue indicazioni, le sue esperienze alla interrogazione e allo sguardo di chi cerca vita e verità. Nella vulnerabilità si incontrano generazioni che appartengono a tempi così marcatamente diversi, cercando alleanze e bellezza da vivere, forza del pensiero e delle convinzioni. A partire dalla scoperta di ciò che vale, e di ciò che resta, alla quale conduce il “setaccio” della relazione educativa. In essa prende forma il tempo, e si dà come abitabile. Faticano, oggi, i giovanissimi ed i giovani a diventare testimoni del proprio cambiamento, a maturare il senso del tempo e “la direzione dei venti” per usare parole di Simone Weil. E le donne e gli uomini loro vicini sono spesso delusi e rancorosi, portano memorie di incompiutezza e sentono rinsecchite le sorgenti di futuro. Eppure scorrendo nelle memorie e nelle sorgenti potrebbero trovare i tratti della testimonianza del proprio cambiamento, e le tensioni del loro essere nati più volte. Molti educatori oggi si trovano collocati presso condizioni di vita (e di relazione) nelle quali sono chiamati ad accompagnare la costruzione d’un nuovo rapporto con la propria vulnerabilità in donne e uomini che vivono un percorso non solo prezioso ma decisivo per l’apprendimento di un nuovo sapere della relazione e del limite. Su questo percorso si diviene portatori, educatori e curanti di una capacità recettiva e di una attenzione che mitigano le volontà di iniziativa e di presenza, come quelle di affermazione e di risoluzione. La capacità di legame e la capacità nel legame si può coltivare da dentro o in relazione ad esperienze sociali vicine alla fragilità ed al disagio: quante

124

Fenomenologia

della cura

esperienze di economia solidale e di comunità, quante realtà di housing sociale, quante reti di cura, sostegno e affido familiare, quanti progetti di servizio e di cooperazione nelle transizioni difficili dei territori evidenziano la generatività e la dimensione coeducativa dell’incontro tra le persone, le generazioni, e tra i saperi, le risorse, le volontà quando si assume l’orizzonte della vulnerabilità come quello nel quale ritrovarsi. In queste esperienze si generano spazi di vita comune, per molti aspetti diversi dai vecchi spazi pubblici delle tutele dei diritti degli individui, dei servizi e delle assistenze. Spazi di co-educazione ad una nuova umanità possibile. Forse va davvero maturando “la svolta personale dell’individualismo” come sostiene Alain Ehrenberg, da dentro le fatiche e da dentro le ricerche d’umanità nelle quali nel nostro tempo d’incertezza si conduce la storia delle persone, delle loro reti familiari e di prossimità1. Quelle reti che vanno riaddensandosi attorno alle fragilità ed alle vulnerabilità delle condizioni di vita, nei progetti, e in prove di relazione anche inedite. Perché è nella nuova evidenza della vulnerabilità della vita (delle sue condizioni materiali, delle narrazioni che vi si conducono, dei corpi e dei legami) che gli individui vanno riscoprendo la loro unicità originale, la loro particolare traccia e la loro voce. Nella capacità e nella libertà che sono reciprocamente offerte o che vengono sostenute da presenze educative. In esperienze educative e di cura le donne e gli uomini “tornano a nascere” (ma María Zambrano dice che a volte è proprio un “decidersi a nascere”)2 e a cogliere il valore e l’attesa nei giorni, capaci di ridisegnare sé e le proprie scelte nelle prove e nelle svolte. Così avviene anche in quanti si ritrovano nelle scelte della dedizione, della responsabilità e della cura nei confronti di chi, fragile, si affida e chiama alla prossimità. Gli “individui”, le donne e gli uomini, si ritrovano (ritrovano se stessi) nell’interdipendenza e nella reciprocità. Anzi, prima ancora, nella “elezione” e nell’obbligo (come direbbe Emmanuel Lévinas)3 perché, chiamati alla presenza ed alla disposizione, devono rispondere a chi è loro affidato o consegnato. La forte ripresa di rapporto con la vulnerabilità, con la debolezza irriducibile, mentre alimenta percorsi di vita più personale alimenta senso e forme inedite del legame di convivenza e delle politiche. Si può riprendere 1 A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino: Einaudi, 2010; [La Fatigue d’être soi, Paris: Odile Jacob, 1998]. Id., La società del disagio. Il mentale e il sociale, Torino: Einaudi, 2010; [La Société du malaise, Paris: Odile Jacob, 2010]. 2 M. Zambrano, Note di un metodo, Napoli: Filema, 2003; [Notas de un mètodo, Madrid: Mondadori Espana, 1989]. 3 E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano: Jaca Book, 1977; [Totalité et infini, The Hague, Boston, Lancaster: Martinus Nijhoff, 1984].

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

125

contatto con la propria vulnerabilità e finitudine, infatti, da dentro le trame della relazione di cura, di condivisione, di reciprocità, trame che divengono “luogo” generatore di capacità di autonomia e di socialità. Trame nelle quali si va ritrovando e praticando una nuova pedagogia sociale. Le situazioni della cura diffuse negli spazi familiari e micro-sociali hanno tratti e dimensioni che richiamano movimenti di ricomposizione e di ridisegno. Ritrovarsi come donne e uomini nella pienezza delle dimensioni personali e delle possibilità, capaci di resistere alla profonda lacerazione sociale, al nichilismo, alla durezza, e costruire legami, orizzonti di senso, risorse sociali, accoglienze segnate da responsabilità e cura, sono elementi dello stesso movimento. Nascente e d’inizio più che resistente. Tale movimento percorre gli interstizi della vita quotidiana e di relazione, e le fratture, le rotture instauratrici che segnano le storie di vita personali, familiari e di prossimità (le nascite e le morti, le malattie e le crisi, le migrazioni e le scelte lavorative, le separazioni e le ricomposizioni, le chiamate in causa e i perdoni). È dentro queste narrazioni che le donne e gli uomini continuano a cercare e a serbare, qualche volta a generare, risorse simboliche (conoscenze, affetti, convinzioni) per venire a capo del compito della vita. E lo fanno grazie a ciò che trattengono del sapere della vita (e dei saperi), e a ciò che consegnano, a ciò che indicano e che narrano nelle relazioni con altri. E grazie alla loro presenza, alla inquietudine e alla immaginazione che provocano o evocano. Come sostiene lucidamente Julia Kristeva “l’umanesimo è cresciuto censurando, espellendo tale vulnerabilità insita nell’uomo”, cercando di combatterla e vincerla. Anzitutto con lo sforzo della scienza e con la sua promessa di rimediare domani ciò che non è rimediabile oggi4. Vincere il male (il bisogno, la malattia, la morte) è stata la direzione degli sforzi delle scienze mediche, sociali ed umane. Ciò ha indebolito le risorse culturali, etiche, psicologiche e spirituali delle donne e degli uomini di fronte al limite, all’impossibilità, alla mortalità. Indebolito è stato ogni tentativo di elaborare un’etica capace di coesistere con la vulnerabilità ed il limite. La modernità ha provato a “vaccinare” (con risultati molto incerti) contro il pregiudizio, il razzismo, l’intolleranza nei confronti delle minoranze e della diversità. Ma ha lasciato scoperti nei confronti della vulnerabilità manifesta, della debolezza irreparabile della malattia che sfigura e chiede cura fedele e prolungata nel tempo. Di fronte a questo occorre avere maturato la capacità di “integrare la morte nella vita”. 4

J. Kristeva e J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre, Roma: Donzelli, 2011; [Leur regard perce nos ombres, Paris: Fayard, 2011].

126

Fenomenologia

della cura

Ci sono incontri tra le donne e gli uomini, tra le generazioni, che espongono e svelano. In essi non si può non essere presenti in verità. Ed essere in verità è non solo togliere maschere difensive, infingimenti, difese di ruolo: è, soprattutto, accettare di mostrarsi nella propria povertà e debolezza, nella propria ricerca, quando è sincera, nella “nuda fede” come direbbe Romano Guardini5. Molti adulti nella relazione educativa hanno paura, si sentono inadeguati, sfuggita la forza della speranza, sfinito il gusto della sfida, ridotta ai vicini la fiducia nelle persone, rotto il legame con le istituzioni, i progetti, i patti della convivenza. Molti adulti non credono più, e gli sguardi e le attese che incontrano nei bambini e nei giovani li inquietano, li sfuggono come pericolosi. Forse perché li riportano alle loro disillusioni, alle sofferenze, alla rinuncia, passaggi con i quali non si sono rappacificati. Educare fa sempre, e da sempre, anche paura. Chiede riesame e ricapitolazione, chiede lucidità nelle consegne che si fanno, chiede onestà e coraggiosa umiltà, chiede rigore e credibile testimonianza. E si sente il timore di restare allo scoperto, di vedere svelata (anche a sé) la debolezza delle proprie ragioni, delle scelte cui si è partecipato. La fragilità ambigua dei sogni d’un tempo. E si avverte per qualche momento la paura di restare soli con i fallimenti e gli errori, con i problemi non risolti. È negli adulti che va riscoperta la relazione e la responsabilità educativa come dimensione feconda e vitale per la propria vita. Oggi è assolutamente necessario costruire, arricchire e fare buona manutenzione delle trame di relazione tra adulti nelle organizzazioni e nei servizi. Specie là dove è importante re-ingaggiare gli adulti in una loro responsabilità educativa verso le vite giovani. In tanti ci si sente nell’attraversamento, anche se manca una adeguata coscienza del passaggio. Non sappiamo, cioè, ancora come stare nell’attraversamento, non sappiamo cosa emergerà di noi: quali resistenze e quali risorse, quali paure e quali capacità di speranza, quale spesa di intelligenza. Non abbiamo chiaro a cosa saremo chiamati, che ne sarà delle nostre capacità di stare insieme, dei nostri affetti, o cosa resterà vitale e si rivelerà prezioso delle nostre tradizioni, dei nostri saperi, della memoria. Che ne sarà del nostro potere, e della nostra debolezza? Come sapremo orientarci nell’attraversamento? L’incontro con la fragilità, con la diversità, con la colpa, con lo smarrimento mette alla prova le donne e gli uomini impegnati nell’azione sociale, nella cura e nell’educazione. Ma sta, forse, facendo emergere: una nuova 5

R. Guardini, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia: Morcelliana, 1989; Id., Lettere dal lago di Como, Brescia: Morcelliana, 1959.

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

127

profondità nel sentire l’altro; una nuova evidenza del limite nell’esercizio di saperi e poteri; una pratica di inediti contesti di relazione e di responsabilità. Questa integrazione chiede di riprendere ad educare. Con adulti testimoni e passatori che accompagnano sulla soglia della vita nuova, dell’avenire. Cercando, trovando, provando, nella relazione educativa, delle “competenze per la vita”. Proviamo a indicarne alcune, che paiono affiorare nell’incontro con la diffusissima trama di esperienze di prossimità, di mutualità e cura, di ospitalità e accoglienza di invenzione del quotidiano che legano generazioni, le reti familiari, i padri e i figli. Un primo apprendimento riguarda il sapere “trafficare” con la propria vulnerabilità, ridisegnandola con altri, ripensandola come condizione per il progetto ed il legame. Riorganizzando le condizioni di vincolo e di possibilità nella vita personale e nella convivenza, usando pensiero strategico, equilibrio affettivo e tenuta psicologica. Gli educatori possono accompagnare a non oscillare tra libertà immaginaria e abbassamento dell’orizzonte delle attese, tenendo il sogno dentro la realtà, e “leggendo” il sogno della realtà. Grazie ad essi si può essere portati a farsi testimoni del proprio cambiamento, ricomprendendo svolte e momenti nascenti, cogliendone le forze di legame, e le condizioni di libertà. È importante per questo apprendere a vivere “salti di piano”, nuove dislocazioni nel tempo e nello spazio, acquisendo le percezioni di un sé che cambia in relazione al contesto che viene trasformato e si trasforma. In questi passaggi si apprende a lavorare riflessivamente sul proprio sentire, sui vissuti e le emozioni, a dare destinazione e senso alle proprie energie interiori. Inoltre si scopre la preziosità del “mettersi in sicurezza reciproca”, vegliando gli uni sugli altri. Affinando il sapere stare in reciprocità anche asimmetriche, ad affidarsi ed essere affidabili, a stare nel viaggio senza perdere l’orientamento. I gesti e le parole assumono una dimensione simbolica come se, a volte, fossero “per sempre”; diventano consegne e lasciti, ricevuti e sui quali impegnare. Si vive una nuova capacità immaginativa6.

6

I. Lizzola, Non avere paura, in M. De Beni (a cura), Essere educatori. Coraggio di una presenza, Roma: Città Nuova, 2013.

128

Fenomenologia

della cura

2. L’intenzionalità e le fratture esistenziali Sempre più frequentemente in questi nostri anni, ricordavamo sopra, gli educatori entrano in contatto con situazioni di debolezza irriducibile, con condizioni o passaggi nella fragilità, con gli esiti di fratture esistenziali o relazionali, con la fatica di far fronte al limite e di ridisegnare le storie personali nella evidenza della vulnerabilità. Spesso i minori che incontrano sono segnati dall’abbandono, dalla trascuratezza, dal mancato incontro con l’attesa, con la speranza, con l’accompagnamento. Il gesto educativo è allora, in piena evidenza, un gesto di cura. Un gesto d’accoglienza della esposizione e della debolezza, a volte del disorientamento o della prostrazione di chi è affidato. Che a volte grida, resistendo, facendosi lontano e chiuso. In questo gli educatori devono apprendere dalla loro stessa vulnerabilità, pure esposta e scoperta di fronte a storie, sguardi, corpi che chiedono presenza e senso, speranza e dedizione. Educatori, operatori sociali e insegnanti che osano lasciarsi guardare da chi porta sfinimento e tensione, durezza e ferite, nelle scuole, nelle comunità, nelle case dell’ADM, negli appartamenti protetti, nei CDD, nelle realtà della riabilitazione e del reinserimento, sono riportati a ciò che resta dei loro saperi esperti, delle loro tecniche e delle didattiche, delle loro metodologie, dei saperi d’esperienza sedimentati nel tempo e nella riflessione. Ciò che resta è qualcosa di molto vicino a quel che origina e muove, a ciò che fa nascere la relazione educativa. Questa si dà sempre nel riconoscersi nella cura: là dove la fragilità e la possibilità di nascere, ancora e di nuovo, viene affidata e consegnata ad altri. La relazione educativa è sempre una relazione segnata da una reciprocità asimmetrica, come la relazione di cura. In chi cerca nuova capacità e nuovo sapere, in chi ricerca percorsi di competenza e di senso, in chi sonda linguaggi nuovi e sguardi complessi sulla realtà si gioca sempre un confronto con il senso e con il limite come con il potere ed il timore. Nell’educazione che incontra le dimensioni della fatica e della resistenza, dell’incertezza e dell’incapacità, delle responsabilità e dell’esercizio di saperi e possibilità, non è difficile cogliere come sia presente una dimensione di cura. L’orientamento dominante della riflessione delle scienze dell’educazione pare essersi concentrato prevalentemente sull’abilitare, sull’apprendere, sul rendere competenti, sulla formazione delle eccellenze, sul raggiungimento di prestazioni: questo lascia le dimensioni della cura nell’ombra. Educare è curare tra corpi e biografie esposti ed affidati, offerti e consegnati. Educare, anche nei luoghi nei quali ciò avviene in modo organizzato e formalizzato, è ricomporre pensieri e rappresentazioni di sé, relazioni con altri e con il mondo. Ed è scoprire e praticare il confine tra possibilità

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

129

e limite, tra capacità e vulnerabilità, avendo cura della vita della mente e curando con attenzione l’”ordine del cuore”7, le forme e le direzioni della propria intenzionalità. È bene probabilmente aprire uno spazio di riflessione attorno alla intenzionalità e al suo rapporto con l’esperienza di vulnerabilità. Il termine intenzionalità si colloca nel paradigma fenomenologico e nell’impianto teoretico-epistemologico della pedagogia fenomenologica. La coscienza è sempre “coscienza di”, è intenzionalità.8 Ognuno nasce e si educa ampliando, approfondendo, indagando la propria capacità intenzionale, la propria modalità di dare senso a ciò che gli sta di fronte e di darsi senso. Educarsi ad una coscienza intenzionale è educarsi ad uno sguardo e ad un riguardo. L’intenzionalità fa, spesso, i conti con quel “blocco” di pensieri, volontà, relazioni e visioni che si vive schiacciati da una “presenza eccessiva del mondo” (della necessità, della vita organizzata). Che porta alla dispersione nell’immediato, alla fuga da sé, alla fissazione sulla propria insufficienza. L’evento educativo si dà nella rielaborazione di senso, nella transizione di significati, in scambi e riconoscimenti attivando movimenti di radicamento o di ritorno sulle proprie esperienze, nella propria interiorità, e nell’uscita da sé verso l’altro. L’intenzionalità matura e si esprime nell’incontro tra le generazioni. Così a scuola: conoscendo le memorie dei contemporanei, apprendendo le formalizzazioni, i saperi tecno-scientifici, i linguaggi tra uomini, tra uomo e natura. Si diviene figli del proprio tempo, col senso della consegna e della possibilità, ma anche figli del tempo in relazione con l’umano che si dice tra nascita e morte, amore e risentimento, legame e libertà, potere e patire. “Sapere dal vivo “ che non “disegna” il tempo dentro esercizi di volontà ma conduce a riaprire un tempo dato e ritrovato9. Specialmente nell’incontro segnato da asimmetrie e da distanza incontro un altro ritmo del tempo, un altro senso, altri significati del vivere, nuove responsabilità, attese, fatiche, fratture. Che istituiscono un tempo nuovo: “l’avvenire è l’altro”, lo spazio di una vita comune nasce dal movimento nel quale due esposizioni si incontrano10. Nella tarda modernità la coscienza intenzionale oscilla tra senso di impotenza e delirio di onnipotenza, deve ritrovare la generatività della tensione 7

R. De Monticelli, L’ordine del cuore – Etica e teoria del sentire, Milano: Garzanti, 2003. P. Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Milano: La Nuova Italia, 1988. 9 R. De Monticelli, La novità di ognuno, Milano: Bruno Mondadori, 2009. 10 E. Lévinas, Tra noi – saggi sul pensare all’altro, Milano: Jaca Book, 1998; [Entre Nous, Paris: Grassett & Fasquelle, 1991]. 8

130

Fenomenologia

della cura

tra capacità e fragilità. La vulnerabilità riapre l’intenzionalità delle donne e degli uomini, le figure della relazione, dell’uso dei saperi e del potere. Ricoeur scriveva del carattere fluttuante, incerto e titubante (flottant) dell’entrare nell’umano: “La vita è più della spontaneità, delle motivazioni e del potere, è una certa necessità d’esistere cui non posso oppormi attraverso il giudizio e il dominio”11. La vulnerabilità non è la fragilità, ma designa la sua persistenza nel processo di umanizzazione della vita. La vulnerabilità è ciò che costituisce l’autonomia umana, è motivazione profonda di un lavorio etico. Un’antropologia dell’uomo capace non può essere chiarita che da una antropologia dell’uomo vulnerabile. Quando l’intenzionalità pare distorta da un “troppo di io” che riduce l’altro e il mondo a strumento della rappresentazione di sé, o quando pare “sfinita” in una recettività adattativa, schiacciata dal dolore, nell’atrofia del sentire, le persone possono “tornare a nascere” solo in spazi di vita dove disposizioni, riconoscimenti, reciprocità asimmetriche possono permettere la esposizione della propria prostrazione, avviando una ripresa del senso e della scelta. Dove l’incontro è come un’elezione. La coscienza intenzionale vive salti di piano, ridislocazioni nel tempo e nello spazio, percezioni di un sé che cambia in relazione al contesto che viene trasformato. L’intenzionalità diviene generativa di vita comune quando riconosce il legame che la precede e la origina, nella cura, nella consegna, in nuovi inizi. Cosa resta dell’intenzionalità quando la vita prova, lascia esposti o prostrati, dentro le fratture esistenziali? Restano le dimensioni personali e le possibilità che le donne e gli uomini ritrovano nel loro resistere e ri-esistere, là dove si serbano e si generano risorse simboliche, conoscenze, affetti. Le esperienze nella frattura e nella cura sono “instauratrici” di nuova intenzionalità12. Trovare nella vulnerabilità una risorsa antropologica vuol dire non pensare di eliminare il negativo grazie alle capacità: è scoprire la condizione di vulnerabilità come condizione di responsabilità.

3. Tessiture di prossimità là dove si prova a vivere Il lavoro e la presenza educativa nelle storie di malattia e di cura è tessitura di prossimità. La prossimità tra soggetti che hanno scoperto di non bastare a se stessi, di vivere nella consegna reciproca e nell’affidamento, di non 11

P. Ricoeur, Filosofia della volontà, I, Il volontario e l’involontario, Genova: Marietti, 1990; [Une philosophie de la volonté, Paris: Aubier, 1950]. 12 I. Lizzola, L’educazione nell’ombra, Roma: Carocci, 2009.

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

131

essere messi in sicurezza dalla sola tutela dei diritti presto si rivela essere una prossimità difficile. Il lascito irrisolto della stagione passata è quello di un precario e instabile equilibrio tra distanza e prossimità: nello spazio pubblico si entrava o da protagonisti, o da portatori d’uguali diritti, oppure da utenti di servizi. Oggi la possibilità di reciprocità asimmetriche è ben mostrata e illustrata dal diffondersi feriale e capillare delle esperienze del mutuo aiuto e della cura attorno ai percorsi di malattia cronica o di debolezza irriducibile13, dai percorsi di molti fondi sociali o di solidarietà in comunità e territori scossi dalla crisi (o dalle calamità), dalle esperienze di patto intergenerazionale che lega nello scambio tra prossimità e garanzia anziani e giovanissimi (nell’abitare e nell’avviarsi al lavoro, nel sostenersi nelle transizioni e nelle fragilità). Ci sono bisogni delle donne e degli uomini cui corrispondono diritti (libertà, lavoro, casa, istruzione) e dunque servizi, risorse, specifiche politiche. Ma ci sono bisogni di donne e uomini cui non corrispondono diritti se non vengono promossi e assicurati dal senso di obbligazione, di dedizione e di riconoscimento da parte d’altri: il bisogno di non essere abbandonati, di sentire speranza, di avere dignità. È attorno a questi che, diffusamente, oggi si osservano tanti movimenti istitutivi, tanti luoghi nascenti della convivenza14. Vedere e condividere fragilità e nascita della vita ai margini è essere messi in condizione di dare forma alla forza reattiva del corpo e della mente: “ha un grande potere di strutturare l’individualità, poiché rende visibili le risorse presenti, fa prendere coscienza della potenzialità e dei limiti”.15 La svolta personale dell’individualismo si va compiendo nella preziosa riscoperta della unicità di ognuno in rapporto con sua propria vulnerabilità irriducibile e con la forza di disvelamento della relazione con l’altro. Nelle esperienze della cura e in quelle della fratture: entrambe “instauratrici” di possibilità e di nuove narrazioni. Di fronte alla necessità di superare una “responsabilità-abbandono” (frutto di una politica che rende responsabile senza rendere capace”) si può certo evocare una “responsabilità-partecipazione” (resa possibile da “una politica che renda capaci di essere responsabili”) come indica Ehrenberg. Ma pare necessario riconoscere e generare una responsabilità come cura, come tessitura di dedizioni e di attenzioni, di reciprocità anche asimmetriche. 13

J. Kristeva e J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre cit. I. Lizzola, Incerti legami, Brescia: La scuola, 2012. 15 A. Fabbrini e A. Melucci, L’età dell’oro, Milano: Feltrinelli, 2000; E. Besozzi, Società, cultura, educazione. Teorie, contesti e processi, Roma: Carocci, 2006. 14

132

Fenomenologia

della cura

Il paradosso di cercare sé e la vita tra prove d’autonomia, gioia all’esercizio delle proprie capacità e riconoscimento della vulnerabilità (“una vita ricompresa come sempre già precaria”, scrive Ricoeur) si vive e si scioglie nelle trame reali della vita comune dove la possibilità e la speranza vengono riaperte e riofferte. La possibilità non è vissuta come il contrario dell’impossibilità, da quest’ultima negata. È invece sinonimo di potenzialità dell’umano che sa fronteggiare il non più possibile, le limitazioni specifiche che ogni persona incontra. L’uomo, la donna capace e autonoma viene ricollocato nella concreta polarità tra potere e non potere senza vedere annullata la possibilità (la puissance) narrativa. Può dire: con te, tra noi, “credo di potere”, “devo provare a potere”. Trovare nella vulnerabilità una risorsa antropologica vuol dire, certo, non pretendere o pensare di eliminare il negativo, il limite, la fragilità grazie alle capacità. Ma vuol anche scoprire la condizione di vulnerabilità come condizione di responsabilità. Che può assumere la forma della capacità di inizio o di nuova narrazione, o quella della consegna e della testimonianza, o quella di un farsi “passatori” che accompagnano altri verso le frontiere. Sapendo di lasciarli, e dell’essere lasciati. Tutto questo matura negli spazi e nelle densità della vita quotidiana, prima e piuttosto che negli spazi e nelle progettualità sociali. Poi informa anche luoghi e tempi della vita comune, e prende forma più istituita. Ripetiamolo: un sapere della vita matura e si esercita nel sostenere ed attraversare esposizione e vulnerabilità là dove si rischia di vivere, là dove si prova a vivere. Dove non si cerca (solo) controllo e risposta, o risoluzione dei problemi; dove si assicurano presenze e resistenze incerte e creative (che vuol dire anche ben pensate) e si danno come offerta reciproca di corpi, di tempi, di pensieri. La dimensione educativa della cura e nella cura ci riporta al tema cruciale della dignità d’ogni donna e d’ogni uomo. Educare e curare sono modi della relazione interumana che riconosce dignità piena all’altro. La dignità umana così come è pensata da filoni forti del pensiero occidentale, si esprime ed è riconoscibile nella libertà, nella autenticità, nell’autonomia, nella razionalità.16 Non può certo, così intesa, rispecchiarsi nella figura di donne e uomini resi fragilissimi, dipendenti, incapaci, limitati nelle relazioni incapaci di buon uso della ragione, e di buon governo di sé, portatori di disturbi psichici e distorsioni nel comportamento. Donne e uomini indegni, dunque? Se ascoltiamo le grandi tradizioni sapienziali e morali conservate nei testi sacri e nei miti antichi della nostra cultura sentiamo richiamare una 16

P. Valadier, “Dignità della persona e diritti dell’uomo”, in A. Pavan (a cura di), Dire persona. Luoghi critici e saggi di applicazione di un’idea, Bologna: Il Mulino, 2003.

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

133

dignità degli uomini e delle donne che va rispettata e riconosciuta non tanto, non in primo luogo, là dove questi presentano le qualità e i tratti più elevati e nobili (lì già rifulge, e orienta). La sapienza antica chiede invece di serbarla, di ricercarla, di richiamarla con forza proprio là dove donne e uomini perdono la loro “altezza”, proprio nei momenti in cui perdono la “forma umana”. Dove sono deturpati dalla miseria o dallo smarrimento esistenziale, dove sono prostrati dalla malattia o resi vulnerabili e incapaci dalla invalidità. Lì non c’è autonomia e autosufficienza; non c’è abilità dei gesti o capacità della mente che “manifesti” la dignità umana. Queste condizioni sono avvicinate o attraversate da molti, se non da tutti nell’arco della vita. Queste condizioni sono specchio della nostra costitutiva vulnerabilità, della fragilità nella quale siamo nati, e siamo cresciuti, affidati nelle mani d’altri. La “forma umana” quando si sfigura è del tutto affidata: alla sollecitudine di altri uomini e altre donne, e alle istituzioni di convivenza che essi si danno per la cura e per la giustizia. È la nostra “comune indegnità”, la debolezza e il degrado che è nelle nostre possibilità e (in momenti e con intensità diverse) nella nostra realtà: è questa che ci può fare incontrare in una relazione che riconosce, e manifesta e dà dignità. La dignità è una relazione. La dignità umana è da vedere e sostenere in (e tra) donne e uomini non perfetti, non “puri” nei gesti, non del tutto limpidi nelle intenzioni. Vulnerabili. Occorre vederla e sostenerla, richiamarla operosamente, in responsabilità, da vulnerabili. In ciò onoriamo noi stessi serbando memoria e fedeltà a quanto dobbiamo ad altri d’esserci, d’esser formati in identità, sapere e dignità. Nati figli tutti e capaci di nascere di nuovo, di riscattarci, di onorarci nell’incontro fraterno.

4. Curare ed educare: fioriture spontanee impreviste Ma se educare è curare, possiamo dire anche che curare è educare, ed educarsi. Il confronto con la malattia, con la frattura, con l’indebolimento delle condizioni fisiche, psichiche e relazionali della vita richiama un gesto di cura ed una forma d’accompagnamento e di prossimità che sappiano sostenere non solo l’intervento terapeutico ma anche la ricerca di senso e significato, la riabilitazione alle scelte e al desiderio, la ricerca pratica dell’abitare e del sentire gli altri ed il tempo. Curare la debolezza irriducibile, o le situazioni di sperdimento sul confine della vita, curare nella ricostruzione di un nuovo rapporto con la necessità, con l’incapacità e lo spossessamento, senza nascondersi nella applicazione

134

Fenomenologia

della cura

di protocolli e nelle pratiche terapeutiche è vivere una esposizione alla verità più propria della condizione umana. Tale esposizione è di tanti operatori della cura di operatori sociali dell’area della marginalità, di tanti educatori, ma, alla fine, è di ogni donna e di ogni uomo, di ogni trama familiare e di prossimità. Il nostro tempo ha diffuso di nuovo questa esperienza, nei luoghi quotidiani dove la vita fiorisce e a volte geme, e nei luoghi dove concentriamo il potere delle tecnoscienze a disposizione della medicina. E il nostro si fa, così, tempo di disvelamento della vulnerabilità propria delle figlie e dei figli d’uomo. A volte accoglienza ed esposizione si toccano, una non teme l’altra, non teme d’essere colta nell’altra.17 Accogliere chi mi si presenta o accanto a me si mostra nella irreparabile debolezza, nella insopprimibile (e non celabile) fragilità d’una ferita, d’una malattia, d’uno sfinire pare quasi impossibile. Pare solo rivelare la mia impotenza di fronte alla sua integrità ormai compromessa. Così come è avvertito pare quasi pesante e ingiusto il confidare che la mia condizione ferita, di “resto” di umanità sfigurata possa trovare un qualche riparo, una qualche accoglienza presso altri. Pare solo una pretesa prepotente. Eppure nelle case, nelle strutture sanitarie e d’accoglienza, nei centri e nelle residenze assistenziali, negli hospice dove l’esposizione e l’accoglienza s’allacciano l’una all’altra nei corpi, negli sguardi e nelle mani di donne e uomini fragili e capaci, le vite toccano il loro ritrovarsi sul limite nella loro origine, nella cura. Lì si impara di nuovo a sentire il tempo, a sentire l’altro.18 Lì si apprende un nuovo sapere della propria costitutiva vulnerabilità. Non nella prospettiva del controllo e della risposta (attraverso i saperi e le tecniche diagnostiche e terapeutiche, con i loro protocolli ed interventi) ma in quella della presenza e della responsabilità. Che chiedono, appunto, la partecipazione al gioco della interpretazione, della ricerca del significato, del ridisegno dei desideri. Da qualche decennio vediamo svilupparsi nuove ricerche d’umanità e nuova immaginazione sociale nelle numerose storie familiari segnate dalla presenza della fragilità, come nelle storie di donne e di uomini che apprendono, pur segnati da debolezza irriducibile, a continuare a lavorare, a esercitare ruoli, a studiare e a formarsi. A vivere in società, a esercitare responsabilità e cura d’altri pur nell’evidenza di loro nuovi o persistenti limiti. Intrecciando tutto questo alle terapie, alla cura di sé. 17

S. Petrosino, La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas, Milano: Jaca Book, 2010. E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Genova: Il Melangolo, 1997; [Le temps et l’autre, Paris: PUF, Quadrige, 1983]. 18

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

135

Il tempo del vivere si fa, così, luogo di ricerca e di coglimento di nuovi significati, di nuove attenzioni, d’una nuova destinazione dei beni e delle presenze. D’un nuovo gusto delle relazioni con le cose e le persone. Anche con il proprio corpo. Si danno lente e sorprendenti riabilitazioni al desiderio e al futuro mentre si provano e si trovano nuovi ritmi e nuove collocazioni, ridislocazioni e risimbolizzazioni affettive dei ruoli (familiari e sociali), ridisegni di storie e progetti personali. Sulla scena della cura si dà sempre un delicato gioco di proiezioni, di assimilazioni, di suggestioni, di abusi, di giustificazioni, di rispetto, di dedizione. Occorre apprendere sul campo cosa farsene della propria impotenza e, insieme, come ritessere nella evidenza del limite, e anche del finire, le possibilità di desiderio. Anche di momenti di gioia, legati a esperienze di dare e ricevere tra chi è presente nei giorni, legati alla fioritura di attività gratuite, leggere, non vincolate. Nelle quali ci si chiama alla vita in una specie di amicizia. Sono luoghi e momenti di un apprendimento della vita: in essi a volte matura non solo l’accettare ma, piuttosto, l’integrare la mortalità ed il desiderio, e il gusto dei gesti. Riuscendo, così, ad addomesticare un poco le paure e la depressione. Nella cura ci troviamo quasi sempre là dove non ci aspettavamo di trovarci, presso una sofferenza che può essere incontrata con la possibilità di trascenderla, di trasformarla, almeno un poco. Occorre apprendere a guardare in faccia l’intollerabile, a non indietreggiare. Per una madre, come per tante madri e tanti padri di figli disabili, si tratta di poter giungere a dire: “come madre non scelgo di dare senso all’handicap…, l’handicap si è imposto e io mi reinvento facendo rinascere mio figlio tappa dopo tappa”.19 Anche tante figlie e figli di genitori dementi o sfiniti possono sperare di maturare questo. La cura può aprire ad un paradigma relazionale inedito, più alto rispetto a quelli legati alla utilità, allo scambio, all’immagine, all’efficacia, alla eguaglianza al diritto. Nella cura si dà una reciprocità asimmetrica. La reciprocità asimmetrica è una relazione nella quale non avviene uno scambio alla pari, o il semplice riconoscimento d’una eguaglianza di fronte al diritto. Nella cura le condizioni di chi è ferito e di chi cura sono distanti, radicalmente diverse: e c’è spazio per una soggezione o per una disposizione. Eppure tutto questo, nella cura, non impedisce la generazione di un dare-avere, di una scambievole destinazione d’attenzione e gesti, d’offerte e riserbi. Ed è dal fragile che vengono dettati i ritmi e i movimenti, perché il dare cura possa ritrovare il dono della mitezza. 19

J. Kristeva e J. Vanier, Il loro sguardo buca le nostre ombre cit.

136

Fenomenologia

della cura

Certamente i gesti della cura si fanno a volte molto faticosi, anche perché portano il segno d’una promessa mancata (“io non ti lascerò”, “io ti guarirò”), mentre provano una fedeltà diversa (“io sono qui”). La soglia su cui ci si incontra pare essere quella d’una fluership, d’una fioritura spontanea e imprevista. Come un dono, una “attività non vincolata”. Una reciproca ospitalità nella pagina di vita che si è aperta e offerta, nella quale si è, come dire?, insostituibili. La cura si reincontra come formazione dell’uomo. Più volte, tutte le volte che nella fatica e nella ferita ci riprendiamo, o che facciamo i conti con un limite acquisito, o che ci troviamo a finire e a prendere congedo, la realtà della cura crea un tempo e un contesto nel quale ci formiamo, di nuovo, alla fraternità. Cerchiamo di dare forma nuova al tempo della vita, ai gesti, alle parole.

5. Chinarsi di nuovo sulla vita, in attesa Non sono pochi gli educatori e le educatrici, ricordiamolo ancora, che si trovano collocati su crinali delicati e difficili sui quali s’accompagnano donne e uomini in riprese, riabilitazioni e “riconvenzioni” di abilità e competenze. Sui quali ci si trova in dialogo o a confronto con complesse ermeneutiche esistenziali e svolte biografiche. Non sono pochi gli educatori e le educatrici che affinano le proprie sensibilità e le proprie capacità (anche professionali) nell’ascolto. Essi si avviano su percorsi al cuore dell’avventura umana, sui quali il pensare deve farsi attento e l’agire non deve essere performativo quanto, piuttosto, capaci d’attestare possibilità e attese di novità. L’accompagnamento educativo diviene chinarsi di nuovo sulla vita: esposti e in attesa. Riformulando le parole ed i pensieri a partire dallo “sguardo di ritorno” che le persone ci rivolgono, come una loro offerta. Chi porta questo ascolto ha, nei confronti della realtà, dell’altro, lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di ciò che giunge donato e offerto. Lo si potrebbe dire un ascolto che origina dal rispetto amoroso delle cose e delle persone. Ascolto che rende capaci di farci raggiungere da quelle zone della vita che “restano rincantucciate perché sottomesse da sempre, o perché nascenti”: improvvisi chiari del bosco dice María Zambrano20. Allora ascoltare è cogliere, forse meglio essere colti, accolti e ospitati mentre ci chiniamo, con cura e con intelligenza attenta, sulla vita che nasce, 20

M. Zambrano, Chiari del bosco, Milano: B. Mondadori, 2004; [Claros del bosque, Barcelona: Seix Barral, 1977].

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

137

sul crescere dei piccoli, sull’incertezza dei grandi, sulle fatiche di molti, sulla fragilità di tutti. Sui corpi, sui legami, sulla vita comune: là dove gemono, dove resistono e dove nascono. Dove chiamano ognuno, personalmente. Ascoltare per tornare a nascere, ancora, in fedeltà nuove e antiche. Ascoltare e farci cogliere - da dentro gli incontri ed i giorni - da un po’ di verità e senso, in un tempo nel quale la fragilità e la fatica della speranza paiono lasciarci tra caso e necessità. Esposti, vulnerabili, e nel timore d’esserlo. Certo, possiamo ascoltare senza esporci, evitando di incontrare la nostra vulnerabilità. Ascoltiamo, allora, ciò che cerchiamo, ciò che vogliamo trovare, ciò che ci serve: per costruire una diagnosi, per impostare un piano didattico, per una analisi e un progetto di intervento. Svolgiamo indagini, cogliamo indizi, ascoltiamo confessioni. Ascoltiamo per controllare, per rispondere, tenendoci a distanza, protetti dentro i nostri saperi esperti ed i nostri esercizi di ruolo. Ascoltiamo isolando, frammentando, riducendo, scegliendo, applicando competenze raffinate, ottuse e sorde. Mentre i ragazzi a scuola portano corpi e vite intere e frammentate, storie cognitive e affettive diverse, ricche e complesse, domande ed attese per nulla scontate. Che chiedono ascolto. Mentre i pazienti si trovano su soglie o su fratture esistenziali, dentro timori d’abbandono e necessità di ricapitolazioni. In attesa d’ascolto. Mentre i lavoratori ai recapiti portano le loro storie di lavoro incerto ed evanescente, le fatiche familiari, le tensioni ed i compiti di cura che appesantiscono i giorni. Che vorrebbero ascoltate. L’ascolto si va riaprendo in molti contesti e dentro molte relazioni, tra donne e uomini vulnerabili, a condizione d’una certa capacità di povertà. Ascoltare è, allora, vertigine e dramma della diversità e della esposizione, del lasciarsi leggere e visitare da quel che si è, ed in quel che si ha da offrire. È incontrarsi con le proprie domande, con i propri desideri di verità e con le proprie parti inascoltate. Ascoltare è ascoltarsi, e lasciarsi ascoltare. Ascolto e accoglienza, ospitalità accadono insieme. Nell’ascolto due esposizioni si incontrano e si ospitano. L’ascolto, in fine, è sola (e povera) presenza, è sola ( e povera ) accoglienza. Allora saprò restare nella relazione educativa con te, cercando di sentire il tuo desiderio di vita, coltivando orientamenti e competenze per la vita, e per un tempo non mio, a venire. Perché tu ti conosca e riconosca consegne di memorie e linguaggi, per dare inizio a cose nuove, per trovare il tuo cammino. Imparerò a stare con te nella cura, vicino con le mie capacità e le mie tecniche, prossimo nei ritmi delle relazioni e dei dialoghi che rendono abitabile il tempo della debolezza. A volte anche aperto al desiderio. Cercherò di stare con impegno e intelligenza vicino a te che hai perso lavoro, o non lo trovi che ai margini, perdendo dignità, e proverò a costruire tutela, legami, progetti che ascoltino

138

Fenomenologia

della cura

il bisogno di vita degna, e di futuro. Rappresentando reciprocità responsabili e legami solidali sul lavoro e nelle comunità. Resterò in ascolto, esposto con il mio limite, chinato di nuovo sulla vita che mi si fa incontro. In ascolto di ciò che nasce e di ciò che geme. Provando una presenza come veglia e come ospitalità. In essa occorre non solo fare silenzio ma anche lasciare “disfare” il nostro cercare, il nostro sguardo, la nostra conoscenza che costruisce e prende la realtà. Sospendendo le parole che definiscono e rappresentano la realtà. L’ascolto di donne e uomini fragili e capaci, in reciprocità asimmetriche, avviene nel ritrovamento di parole “aurorali”, che appaiono all’origine dell’incontro. Che si fanno strada tra le parole esperte e funzionali, “operative” e formalizzate che si usano e si scambiano da dentro le relazioni proprie degli esercizi di ruolo (sociale, giuridico, amministrativo, esistenziale, diagnostico, trattamentale, educativo, …). Parole del primo incontro un po’ causale, della presa in carico, del primo colloquio, del patto trattamentale: parole che ne cercano altre, “precedenti”, quelle d’una alleanza, d’un riconoscimento, quelle in ascolto. Scrive Zambrano che “la vita ha bisogno della parola, della parola che sia il suo specchio, che la rischiari, che la potenzi, che la innalzi e, al tempo stesso ( ove necessario, portandola in giudizio ), che dichiari il suo fallimento”. La parola è itinerante, esiliata21. Può entrare dove i saperi ed i poteri non entrano: entra nella notte della prova, nello sperdimento; e nella semplicità, nell’amicizia. Parola in ascolto, che sta nell’attesa della prossimità e del senso. La parola che nella cura e nell’accompagnamento educativo è richiesta è decentrante, è amante, è legata alla misteriosità feconda del silenzio, cerca l’innocenza, ha pudore, e nostalgia. È parola che scende, che di nuovo si piega, si curva sulla vita, sulle storie di donne e di uomini; non argomenta, non prova a spiegare, a dimostrare. È parola che con pietas straordinaria entra nelle pieghe dell’ordinario quotidiano e svela ciò che può essere luce, ciò che rende leggibile l’esperienza umana, anche la più contaminata. Una parola capace di reggere l’esposizione sul nulla, e di lottare, mite e fragile, contro l’abbandono, contro la distanza e l’estraneità tra le persone e le generazioni. Contro la privatizzazione della debolezza, specie quella insuperabile. María Zambrano in alcuni suoi scritti parla di un ascolto e di una parola che si possono dare, come generativi, solo dall’esilio. Da dentro uno smarrimento ed una distanza, incontrandoci stranieri, o in esodo. Nel “paese straniero” parola e ascolto paiono perduti: devono tornare a nascere. 21

M. Zambrano, Le parole del ritorno, Troina (Enna): Città Aperta, 2003; [Las palabras del regreso, Salmanca (Spain): Amarú, 1995].

Educazione

e cura: chinarsi sulla vita, in attesa

139

L’ascolto e l’accoglienza sono costretti a darsi nuovi e di nuovo in molti luoghi della cura, costruzione di un inedito rapporto con la propria vulnerabilità. In una “età senza casa”, come Martin Buber22 definirebbe il nostro tempo, nella quale prevalgono l’incertezza e l’ansia, il cammino e la ricerca, il disorientamento e il rancore, le differenze e gli arcipelaghi di senso, si vive la consumazione di un tempo, la vertigine dell’aperto, il legame ad una promessa. Come nell’esodo: tempo grande e terribile, fecondo e difficile. Nel quale la cura è riabilitare alla speranza, al camminare insieme. Ascoltare abilita a stare nell’esodo, ad accogliere senso e cammino del nostro tempo, nel nostro tempo di vita. Coltivando stili e orientamenti per una vita buona, alla quale aprirci e coeducarci. Coltivando competenze per vivere da donne e uomini in ascolto, donne e uomini giusti nell’esodo.

Riferimenti bibliografici Bertolini P., 1988, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze: La Nuova Italia. Buber M., 1993, Il principio dialogico e altri saggi, Milano: San Paolo; [Das dialogische Prinzip, Heidelberg: Lambert Schneider, 1973]. De Monticelli R., 2003, L’ordine del cuore – Etica e teoria del sentire, Milano: Garzanti. De Monticelli R., 2009, La novità di ognuno, Milano: B. Mondadori. Ehrenberg A., 2010, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino: Einaudi; [La Fatigue d’être soi, Paris: Odile Jacob, 1998]. Ehrenberg A., 2010, La società del disagio. Il mentale e il sociale, Torino: Einaudi; [La Société du malaise, Paris: Odile Jacob, 2010]. Fabbrini A. e Melucci A., 2000, L’età dell’oro, Milano: Feltrinelli. Besozzi E., 2006, Società, cultura, educazione. Teorie, contesti e processi, Roma: Carocci. Guardini R., 1989, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia: Morcelliana. Guardini R., 1959, Lettere dal lago di Como, Brescia: Morcelliana. Kristeva J. e Vanier J., 2011, Il loro sguardo buca le nostre ombre, Roma: Donzelli; [Leur regard perce nos ombres, Paris: Fayard, 2011]. Lévinas E., 2004, Totalità e infinito, Milano: Jaca Book; [Totalité et infini, The Hague , Boston, Lancaster: Martinus Nijhoff, 1971]. Lévinas E., 1997, Il tempo e l’altro, Genova: Il Melangolo; [Le temps et l’autre, Paris: PUF, Quadrige, 1983]. 22

M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano: San Paolo, 1993; [Das dialogische Prinzip, Heidelberg: Lambert Schneider, 1973].

140

Fenomenologia

della cura

Lévinas E., 1998, Tra noi – saggi sul pensare all’altro, Milano: Jaca Book; [Entre Nous, Paris: Grassett & Fasquelle, 1991]. Lizzola I., 2012, Incerti legami, Brescia: La scuola. Lizzola I., 2009, L’educazione nell’ombra, Roma: Carocci. Lizzola I., Non avere paura, in M. De Beni (a cura di), 2013, Essere educatori. Coraggio di una presenza, Roma: Città Nuova. Petrosino S., 2010, La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas, Milano: Jaca Book. Valadier P., “Dignità della persona e diritti dell’uomo”, in A. Pavan (a cura di), 2003, Dire persona. Luoghi critici e saggi di applicazione di un’idea, Bologna: Il Mulino. Zambrano M., 2004, Chiari del bosco, Milano: B. Mondadori; [Claros del bosque, Barcelona: Seix Barral, 1977]. Zambrano M., 2003, Le parole del ritorno, Troina (Enna): Città Aperta; [Las palabras del regreso, Salmanca (Spain): Amarú, 1995]. Zambrano M., 2003, Note di un metodo, Napoli: Filema; [Notas de un mètodo, Madrid: Mondadori España, 1989].

Capitolo sesto (seconda parte) Pietà Ivo Lizzola

Ci sono momenti, condizioni nelle quali sono consumate le parole e non ne resta che una. Una parola sola, che chiede un estremo riconoscimento, e invoca il mantenimento d’un ultimo sottilissimo legame: “pietà!”. Pietà si chiede quando una distanza radicale o una netta asimmetria di potere e di diritto paiono separare, solo separare. Quando siamo del tutto in balia della forza, o abbiamo perso dignità e diritti nella condanna e nel disprezzo; o quando, impotenti e feriti, siamo imprigionati nel corpo malato, allora supplichiamo: “pietà!”. Riapriamo le braccia, nella resa, chiniamo il capo e attendiamo, senza più resistenza. Nella piccolezza, nell’ombra: cercando braccia paterne. “Pietà di noi, Signore!”. Il corpo assume la stessa piegatura china, quasi prostrata, davanti a chi è caduto nel basso, a chi è appena nato, a chi è morente; la stessa piegatura come di fronte all’Altissimo. Lo stesso movimento, nella pietà, verso il basso o verso l’alto: cercando una benedizione che ci sostenga, capaci di mantenere la promessa di vita. “Tu hai pietà di noi”, ci senti e ci tieni nel sentire l’altro, affratellati. Nella pietà siamo messi al mondo, come da una luce aurorale. Quando riappaiono la vulnerabilità e le mendicità è la pietà che ci mantiene nella matrice originaria della vita con la mente e col cuore. È all’interno di una Terapia Intensiva d’eccellenza, in una clinica universitaria, prestigiosa, che ascolto parole impreviste: “credo che sia importante stare male, stare un po’ male per il paziente: credo anche di gestire le situazioni e di decidere meglio se sento la sofferenza… e, certo, se la sopporto condividendola con gli altri dell’équipe”. Non sono, dunque, le macchine che dettano le decisioni in quelle situazioni frequenti nelle quali le diagnosi stesse e le prognosi restano aperte, incerte. “Sentire le persone, sentire la famiglia è, a volte, un pezzo che mi manca”: e la dottoressa non intende per sentire il consultare, l’avvisare, l’informare. Vuol esprimere piuttosto un sentire dentro, un pensare e un agire in presenza, un applicare i protocolli con interventi “misurati” dal sentire la rete di relazioni e di storie. Sentire, e stare un po’ male; nell’incertezza, pur

142

Fenomenologia

della cura

con alte competenze e raffinate possibilità d’intervento sia sull’emergenza, sia su situazioni fortemente compromesse. Sapere e limite, speranza e responsabilità. Pudore, alfine: pietà. La vulnerabilità – di chi è ferito nel corpo, di chi è scosso nei sentimenti e nelle relazioni, di chi porta saperi, tecniche e capacità raffinate – richiama a una sobrietà del fare, del conoscere, del sentire. Sobrietà nella quale si gioca il valore, il significato e la giustizia, in una parola l’umanità delle presenze, dei gesti, dell’incontro tra donne e uomini. Sentire l’altro: attenzione anzi discesa ai luoghi più segreti dell’essere, las entrañas, le viscere. Con un “sapere dei sentimenti” che “è andato via via immiserendosi. […] La liberazione è allora nella pietà, la matrice originaria della vita del sentire […] Ma la pietà non è filantropia, né compassione”. María Zambrano suggerisce che la pietà “è qualcosa di più: è ciò che ci consente di comunicare.” È la pietà dalla quale ci sentiamo avvolti e che ci fa reggere piccolezza e fragilità. Davanti alla ferita dell’altro, al suo morire. Trovando la parola, “sola parola”, parola nascosta dopo essere rimasti senza parole. Oltre le competenze, i saperi, oltre il pensare. E, così, sentire l’altro e sentire il pensiero nostro. Pietà non è parola concetto, è parola che fa concepire. Assumere uno sguardo povero, nella pietà, apre gli occhi all’intelligenza, perché intraveda qualcosa. Occhi poveri, capaci di “rimettere i debiti” che carichiamo sulle spalle degli altri quando non corrispondono alle nostre attese. Quando resistono, non esaudiscono nostri desideri, quando non rispondono ai nostri richiami, ai nostri interventi, alle nostre attese. Occhi poveri sono anche quelli che sanno di non potere vedere tutto dell’altro, non possono su di lui: fossero pure mossi dalla massima benevolenza. L’altro, il suo corpo, la sua psiche sempre possono sottrarsi, sfuggire, segnando la mia impotenza, il mio fallimento. Obbligandomi a chinarmi: pietà di me! Saper trattare con l’altro – conoscere la pietà è questo per María Zambrano – chiede il saper trattare il mistero. Il mistero della nostra altezza e della nostra bassezza: saper portare il senso di inadeguatezza, d’ambiguità, a volte anche di indegnità in noi. E il Mistero, che la salva, di una Pietà che ci prende come nel palmo di una mano, in cui confidare. Pietà che ben conosce la nostra fragilità, la nostra ombra, la nostra limitatezza, come di un padre e una madre che attendono. Pietà di noi perché ne possiamo essere testimoni. La vita è “superficiale” se ricondotta alla storia, al calcolo, alla necessità, alla morte biologica. Cessa di esserlo se la pietà la rende promettente, attraversata da trascendenza, luogo di cura, di bellezza, di relazioni buone, di capacità di nascita anche nella sofferenza. Pietà: trascendenza nel basso, scendere nelle viscere. Perché

Pietà

143

lì le donne e gli uomini avvertono sul limitare del male assoluto, dell’avvelenamento e della misera, la incredibile possibilità d’uno sguardo d’amore, pietoso. Se non la realtà, certo la promessa di bontà e bellezza. Un poco sentiamo, a volte, nel fondo di noi stessi una sorta di “senso di colpa” senza che ci siano imputabili colpe, o responsabilità. E quasi chiederemmo perdono! Una cara amica, oncologa di fama internazionale, scriveva di “un curare che spesso è solo un agire senza speranza”. E aggiunge “Navigo a vista, in scienza e coscienza”: E questo che porto “è un peso che aumenta sempre più, che mi cambia profondamente”. Curati e curanti si scoprono “dopo tanti anni compagni di viaggio, … insieme con zaini diversi. Anche nello sbilanciamento il carico è grave per entrambi”. Ed il ricordo di Milvia va al dialogo di un bellissimo film di anni fa, in cui alla domanda: “Qual è il primo dovere di un medico?” viene risposto: “Il primo dovere di un medico è chiedere perdono!” Milvia che così attentamente cura ogni incontro con ogni paziente, specie di quelli per i quali “non c’è più niente da fare” Ma non riusciamo da noi stessi, soli, a sperare. Specie contro ogni speranza. Ci vuole pietà per sperare che la vita vinca l’ansia, la paura, il risentimento, o la fascinazione del nulla. Ci vuole pietà per sperare, per ristabilire la presenza reciproca, in benevolenza, in fraternità. Sempre – un poco o profondamente – incerta e ferita. L’incontro tra noi è sempre una ferita ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna. Anche nella speranza si resta privi di parole: non può avere “ragioni”, parole o pensieri che la giustifichino e la sorreggano. Si è ridotti a sola speranza quando dopo le parole del giudizio, della condanna, della diagnosi infausta, della sanzione di un fallimento, si resta nel silenzio. Solo la pietà resta, donata nello sguardo e nel gesto di chi, dopo, si volta verso il volto del segnato da condanna. Che può riprendere a parlare con se stesso, a sentire la cura. Sperare: continuare a riprendere a sentire la cura, a sentirsi nella pietà. Un detenuto, più volte recidivo dopo l’ennesimo inganno e la rinnovata violenza, dopo un lungo silenzio sussurra piano al cappellano, muto, dallo sguardo ora deluso, dopo anni: “mi faccio schifo, sì, ma se anche tu non credi più in me, allora è finita davvero. Non c’è speranza”. Solo la pietà può recuperare la promessa. È ciò che resta, nel silenzio, come la parola nascosta. Pietà di me, di noi! E darne testimonianza. Testimoniare, farsi testimoni può esser questo: non essere testis ma super stes. Non nella condizione di “dire la verità” nel processo, da fuori, ”oggettivamente”. Questo, al più, fa giustizia. Ma nel sentire la prova di donne e uomini nelle fratture della vita, delle relazioni dell’anima. Stringendo ciò che resta di un uomo, di una donna di fronte all’estremo. Quando, come dice il linguaggio popolare, “fa pietà”. Evoca pietà, e la attiva, la fa.

144

Fenomenologia

della cura

Chiama a fare, almeno un gesto di pietà, e questo gesto può venire, avvenire. Accogliendo nella pietà chi il gesto agisce e chi lo riceve. Infine entrambi lo ricevono.

Riferimenti bibliografici Bertin M., 2013, Francesco, Roma: Castelvecchi. Borgna E., 2005, L’attesa e la speranza, Milano: Feltrinelli. Lizzola I., 2009, L’educazione nell’ombra – educare e curare nella fragilità, Roma: Carocci. Zambrano M., 1997, “Per una storia della pietà”, «aut aut» 279, p. 79. Zambrano M., 2001, L’uomo e il divino, Roma: Lavoro [El hombre y lo divino, México: FCE, 1973].

Capitolo settimo Il lavoro educativo e l’esigenza di averne cura. Uno sguardo sulla contemporaneità Cristina Palmieri

Premessa Viviamo in «tempi interessanti», afferma Slavoj Žižek1. Sono quei tempi in cui d’un tratto ci si rende conto che il mondo in cui abitiamo non è quello che credevamo di conoscere, che qualcosa è profondamente cambiato ma sfuggono le dinamiche, i meccanismi, le cause dei mutamenti in atto. Da più parti si sbandiera la crisi, si invoca la «catastrofe»2. Nel nostro piccolo, subiamo le conseguenze di tutto ciò e ci sembra di non disporre delle categorie, dei concetti, dei pensieri adeguati per comprendere ciò che sta succedendo. Soprattutto, pare difficile individuare strategie per agire all’altezza dei mutamenti che interessano la nostra quotidianità3. Il mondo dell’educazione, e in particolare quello dell’educazione professionale, sembra attraversare già da qualche anno questi tempi interessanti: ormai è un cliché usurato affermare che la scuola è in crisi, come pure il welfare state e il mondo dei servizi, in particolare educativi. Anche in questo caso sembra non sia maturato un pensiero in grado di cogliere quello che Baricco chiama «il mutamento in atto»4: la soluzione più immediata, ma anche più tradizionale, nel contesto italiano, consiste nell’addossare colpe o responsabilità di volta in volta ai diversi professionisti (insegnanti in primis), piuttosto che a un sistema che pare quanto mai inafferrabile e che si esprime attraverso restrizioni, tagli di risorse o lungaggini burocratiche e labirinti amministrativi. La cura, rispetto allo stato di crisi dei servizi educativi, sembra ricorrere a soluzioni altrettanto semplificanti: intervenire sui professionisti, 1

S. Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Firenze: Ponte Alle Grazie, 2012; [Welcome to Interesting Times!, London-New York: Verso Books, 2006]. 2 Ivi, p. 10. 3 S. Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Milano: Arnoldo Mondadori, 2010. 4 A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano: Fandango Libri, 2006.

146

Fenomenologia

della cura

a livello di formazione o selezione, chiudere ciò che pare non dare risultati, introdurre nuove procedure. Tutto questo sembra avvenire senza adeguatamente interrogarsi sia sulla specificità del lavoro educativo che si svolge nei servizi – scolastici ed extrascolastici –, sia sul rapporto che tali servizi hanno oggi con il “mondo della vita” delle persone che frequentano questi stessi luoghi come educatori, insegnanti, allievi, utenti, cittadini. Un “mondo della vita” che si concretizza in quel contesto sociale, culturale ed economico in cui trascorre la quotidianità di ciascuno e che, indipendentemente dalla volontà o consapevolezza individuale, insegna a reagire agli eventi quotidiani in un certo modo, induce ad attribuire valori e significati particolari a situazioni, persone, vissuti. Si tratta di quel contesto sociale che, in qualche modo, educa, anche senza alcuna precipua intenzionalità pedagogica5. Sullo sfondo di questo scenario si genera l’esigenza di aver cura del lavoro educativo. Chiedersi cosa significhi e individuare le modalità attraverso cui un sensato “aver cura del lavoro educativo” si possa esprimere richiede di partire da due questioni: in cosa consista la specificità del lavoro educativo, e come, oggi, tale specificità si interfacci con le situazioni contingenti, determinate dal clima sociale, economico e politico che caratterizza i “tempi interessanti” che stiamo vivendo nel XXI secolo, nella parte occidentale del pianeta, più precisamente ancora in quella particolare realtà geopolitica che è la realtà italiana.

1. Il lavoro educativo come lavoro di cura Il lavoro educativo può essere definito come un lavoro di cura dell’esperienza educativa6. In questa prospettiva, che si insegni al nido piuttosto che alla scuola dell’infanzia, primaria o superiore, che ci si occupi di promuovere percorsi 5

S. Tramma, Che cos’è l’educazione informale, Roma: Carocci, 2009. Questa affermazione si regge su precisi presupposti pedagogici: che l’educazione sia innanzitutto un’esperienza (J. Dewey, Esperienza ed educazione, Firenze: La Nuova Italia, 1963; [Experience and Education, USA: Kappa Delta PI, 1938]); che l’esperienza educativa sia una “regione ontologica” dell’esistenza umana, imprescindibile nello e per lo sviluppo psicofisico, sociale e culturale dei soggetti (P. Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze: La Nuova Italia, 1988; R. Massa, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Milano: Unicopli, 1986); che l’esperienza educativa sia caratterizzata da una propria specificità che la distingue strutturalmente da ogni altra esperienza umana (J. Dewey, Esperienza ed educazione cit.; R. Massa (a cura di), La clinica della formazione. Un’esperienza di ricerca, Milano: FrancoAngeli, 1992); che, in quanto tale, l’esperienza educativa necessiti di essere pedagogicamente curata (C. Palmieri, Un’esperienza di cui aver cura… Appunti pedagogici sul fare educazione, Milano: FrancoAngeli, 2011). 6

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

147

di inserimento lavorativo per persone in situazione di disabilità, marginalità sociale o disagio psichico, che si lavori con i giovani attraverso progetti di promozione territoriale e prevenzione del disagio, compito dei professionisti dell’educazione è predisporre, con cura, le condizioni perché i soggetti a cui si rivolge il loro intervento possano essere coinvolti in un’esperienza educativa, ovvero un’esperienza che sia tale da aprire nuovi ambiti di sperimentazione esistenziale, da alimentare il desiderio di imparare da ciò che si offre sul loro cammino, da consentire il confronto con contenuti, situazioni, relazioni nuove e differenti mettendo alla prova capacità, emotività, abitudini acquisite7. Oggetto del lavoro dei professionisti dell’educazione è, in quest’ottica, l’esperienza educativa: quell’esperienza attraverso la quale chi è coinvolto come educando è messo nelle condizioni di riconoscere le proprie potenzialità a partire dai propri limiti. Di conseguenza, preoccupazione degli educatori di professione è individuare le strategie o sfruttare le occasioni attraverso le quali far «fiorire» le “più proprie” potenzialità delle persone, inimmaginabili prima del contatto con l’esperienza stessa8. In questa visione del lavoro educativo, il concetto di cura, intesa come dimensione strutturale dell’esistenza umana che si dipana nella relazione tra effettività e potenzialità esistenziali9, è centrale: nelle diverse occasioni educative vissute dai soggetti è in gioco la possibilità che ciascuno scopra e coltivi «il suo più proprio poter essere»10. Si tratta di una possibilità problematica, perché sempre a rischio di venire travolta da prefigurazioni, precomprensioni, aspettative, pregiudizi o giudizi che educatori – professionali, naturali o «estemporanei»11 – attivano spesso involontariamente, ritagliando quel “poter essere” dentro una rosa di possibilità che risultano così eterodeterminate rispetto all’esistenza del soggetto. Il rischio, che appartiene intrinsecamente alla cura e al lavoro di cura, è di cadere nell’inautenticità: di sostituirsi alle persone nella loro facoltà di sperimentare e comprendere ciò che possono essere nella propria unicità consegnando loro percorsi già tracciati, destini cristallizzati in forme decise da altri. La sola “volontà di fare del bene”, spesso comunemente attribuita a chi è impegnato in relazioni d’aiuto, non 7 Oltre alle opere di Dewey, Massa e Bertolini citate, cfr. G. M. Bertin e M. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Roma: Armando Editore, 2004. 8 L. Mortari, Ricercare e riflettere. La formazione del docente professionista, Roma: Carocci, 2009, p. 11. 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano: Longanesi, 1976; [Sein un Zeit, Tubingen: Max Niemeyer, 1927]. 10 C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Milano: FrancoAngeli, 2000. 11 P. Bertolini, L’esistere pedagogico cit., pp. 159-160.

Fenomenologia

148

della cura

mette al riparo da questo rischio: anzi, sembra amplificarlo12. Piuttosto, chiedersi quali esperienze possano promuovere processi educativi che esitino nell’attivazione di percorsi di sperimentazione di sé e di attivazione di capacità autoformative, interrogarsi su come queste esperienze possano essere individuate, istituite, attraversate, compiute sembrano essere le azioni riflessive che qualificano il lavoro educativo, consentendo ai professionisti di individuare attenzioni, strategie e strumenti che permettano di orientare le pratiche educative nella direzione di una cura il più possibile autentica, che «aiuti gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura»13. Sembra opportuno, quindi, soffermarsi brevemente sulle caratteristiche che, sempre all’interno di questa prospettiva pedagogica, distinguono il lavoro educativo svolto da chi ha scelto di fare dell’educazione di altri – neonati, bambini, adulti, anziani – il proprio «mestiere»14. Ciò, nell’ipotesi che questo passaggio permetta da un lato di far uscire da un diffuso alone di ovvietà e di presunta naturalità le pratiche educative esperite nei servizi o a scuola; dall’altro di mostrarne la complessità, la delicatezza, la criticità. Quindi, di far emergere l’esigenza di averne cura. Cosa implica, allora, in ogni servizio o situazione educativa, individuare, istituire, monitorare e compiere esperienze che siano educative? Si tratta di focalizzare alcune attenzioni, strategie, modalità ricorrenti ma pedagogicamente fondate attraverso cui dar forma all’oggetto su cui educatori ed educatrici, in quest’ottica, lavorano o dovrebbero lavorare. Queste attenzioni sembrano riguardare tre ambiti, tra loro intrecciati: l’aver cura dei contesti, l’aver cura delle persone e delle relazioni, l’aver cura delle strategie attraverso cui si realizza il lavoro educativo15. Come vedremo, quest’ultima attenzione sembra in qualche modo implicare le precedenti: perciò, in questa sede, le dedicheremo più spazio.

1.1 Aver cura dei contesti Educatori ed educatrici possono operare in contesti molto diversi tra loro: strutturati – le scuole, i centri diurni per disabili, le residenze per anziani – o 12

A. Canevaro e A. Chieregatti, La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Roma: Carocci, 1999. 13 M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 158. 14 A. Marchesi, Il profilo. Il mestiere dell’educatore, in C. Palmieri, B. Pozzoli, S. A. Rossetti e S. Tognetti (a cura di), Pensare e fare tirocinio. Manuale di tirocinio per l’educatore professiole, Milano: FrancoAngeli, 2010, pp. 55-72. 15 C. Palmieri e G. Prada, Non di sola relazione. Per una cura del processo educativo, Milano: Mimesis, 2008; C. Palmieri, Un’esperienza di cui aver cura…cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

149

destrutturati – i progetti di educazione territoriale o di educativa di strada. Averne cura pedagogicamente implica innanzitutto sapere che, quando da educatori/trici si entra in un contesto dato, occorre trasformare quel contesto in un luogo in cui potrà accadere un evento educativo16. Si tratta di agire sulla sua materialità: sulla disposizione degli spazi, sull’articolazione dei tempi, sull’alternanza di momenti di attenzione e di riposo, sulla creazione di ritmi di lavoro, di rituali riconoscibili e sensati e quindi di un’atmosfera adeguata a favorire la partecipazione al compito, all’attività o alla situazione proposta, per esempio modulando la luminosità dell’ambiente, introducendo o togliendo oggetti particolari, utilizzando musica e suoni come pure il silenzio. Si tratta di istituire qualcosa di nuovo a partire da qualcosa che è già istituito17. Così facendo, si vanno a creare quelle condizioni materiali che possono dar luogo a relazioni e dinamiche funzionali ad affrontare l’esperienza proposta in modo che coloro che ne sono coinvolti possano farsi domande, abbandonare o mettere tra parentesi pregiudizi e abitudini, incoraggiarsi a sperimentare e a scoprirsi “capaci di riuscire” ma anche “capaci di sbagliare”, in modo da elaborare comunque pensieri inediti, significati propri, curiosità inaspettate, diverse capacità; in altre parole, in modo da imparare dalle situazioni predisposte, e imparare non solo quello che gli educatori e le educatrici auspicano, ma anche qualcosa d’altro, di imprevedibile, che li riguarda.

1.2 Aver cura delle persone e delle relazioni Aver cura dei contesti significa, indirettamente, aver cura delle persone. Significa istituire quei “ponti” che consentano di collegare alla situazione educativa proposta soggetti che provengono da un mondo proprio; che hanno strutturato, in un arco di vita breve o lungo che sia, quelle abitudini che danno loro un certo equilibrio, seppur talora precario; che hanno imparato a relazionarsi con gli altri secondo modelli spesso tanto radicati quanto inconsapevoli; che hanno imparato dunque a “essere-nel-mondo” in un certo modo. Agire sul contesto considerando “il mondo della vita” di chi partecipa alle situazioni educative implica l’individuazione di quelle mediazioni che consentano loro di sentire di poter abitare quelle situazioni e

16

J. Orsenigo, Lo spazio paradossale. Esercizi di filosofia dell’educazione, Milano: Unicopli, 2008. F. Oury (a cura di), Vers une pédagogie institutionnelle?, Vigneux: Matrice, 1991; A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, Milano: Bruno Mondadori, 1999. 17

150

Fenomenologia

della cura

contemporaneamente di potersi aprire a qualcosa di diverso18. È possibile mediare in molti modi: valorizzando oggetti o strumenti già presenti nel contesto o di proprietà dei soggetti (libri, giochi, ma anche materiali come scatole o bottiglie vuote, dispositivi come videocamere o fotocamere, fotografie, vestiti, panchine, ecc.), modulando gli stimoli o le richieste (la loro intensità, la loro frequenza, la loro tipologia), introducendo compiti, imprese che siano comprensibili o sensate per i soggetti e che impongano di per sé regole di interazione, di comunicazione, di partecipazione19. Tutto ciò richiede agli educatori e alle educatrici competenze di tipo euristico, ermeneutico e relazionale: persone e situazioni vanno conosciute, ma nel vivo del loro “esser-ci”; ciò che è riportato in relazioni o cartelle cliniche scritte da altri professionisti è certo interessante ma non sostituisce l’esperienza dell’incontro, l’impatto diretto, il coinvolgimento personale, la possibilità di sperimentare che ogni singolo professionista può mettere in campo. I mediatori possono essere suggeriti dalla conoscenza indiretta della storia altrui, ma il fatto che quell’oggetto, quel modo di comunicare, quel compito siano effettivamente mediatori in quella situazione e per quella persona emerge solo all’interno di un processo di conoscenza ravvicinato, in cui la mobilitazione della capacità empatica di chi educa consente di confermare o incita a modificare ciò su cui si sta facendo leva per creare le condizioni perché esperienza educativa – e contemporaneamente relazione educativa – si diano20. Aver cura delle persone implica una sorta di bilocazione: mentre gli educatori e le educatrici agiscono sul contesto, istituendolo in modo da rendere possibile a determinate persone attraversare un’esperienza in modo da apprendere da essa qualcosa che abbia un impatto sulla loro esistenza, contemporaneamente utilizzano, in quel contesto, la loro presenza. “Presenza” implica l’«esser-ci», l’essere coinvolti attivamente, a livello corporeo, emotivo e cognitivo, nella situazione che si abita con l’altro, con gli altri e le altre21. Aver cura delle persone significa imparare, da educatori, a usare il proprio corpo, il proprio sguardo, i propri gesti, le proprie posture, i propri movimenti, le proprie sensazioni, le proprie emozioni, i propri pensieri per comprendere cosa stia avvenendo, cosa stia vivendo l’altro, e quindi come poter agire perché quella situazione possa trasformarsi in una situazione educativa22. In 18 A. Canevaro, Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la «logica del domino», Trento: Erickson, 2008. 19 Ibidem. C. Freinet, La scuola del fare, Bergamo: Junior (a cura di R. Eynard), 2002. 20 A. Canevaro, Pietre che affiorano cit. 21 M. Heidegger, Essere e tempo cit. 22 C. Palmieri e G. Prada, Non di sola relazione cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

151

quest’ottica, anche il dialogo non rimanda semplicemente a un dire, ma si radica nell’esperienza condivisa, e, forse, diventa l’equivalente di un gesto che di volta in volta può accogliere, chiedere, restituire, oppure fermare, contenere. Aver cura delle persone significa, quindi, da parte degli educatori e delle educatrici, mettere a disposizione la propria esperienza professionale e di vita, pregressa e attuale, per dare senso a ciò che in situazione si sta vivendo, fornendo all’altro/a chiavi di lettura e interpretazione ma anche facendo intravedere prospettive di azione o cambiamento possibili23. Tutto ciò comporta anche e soprattutto incarnare la possibilità di far sperimentare agli educandi forme di relazione differenti da quelle a cui sono abituati24. Quindi, di vivere un’esperienza di relazione in cui potersi sperimentare e su cui poter tornare, nominando i propri vissuti e costruendo le proprie riflessioni25.

1.3 Aver cura delle strategie educative È possibile aver cura dei contesti, agendo sulle condizioni materiali che permettono relazioni ed esperienze educative, e contemporaneamente aver cura delle persone, utilizzando la presenza degli educatori e delle educatrici, nel momento in cui si abbia cura delle strategie che soggiacciono alle singole azioni educative, e quindi degli strumenti pedagogici che consentono di pensare e di mettere in atto tali strategie. In questo senso, l’aver cura delle strategie pedagogiche sembra rappresentare un possibile antidoto per evitare il rischio di una divaricazione tra le azioni che gli educatori compiono sui e nei contesti e le modalità, gli atteggiamenti, le azioni rivolte direttamente ai soggetti: provare ad aver cura delle strategie pedagogiche pare rappresentare una condizione essenziale perché la predisposizione dei contesti favorisca un uso della presenza di educatori ed educatrici funzionale all’istituzione di esperienze educative significative, e, d’altro canto, perché la presenza educativa permetta una modificazione dei contesti adeguata all’avvio e alla prosecuzione di tali esperienze. Parlare di strategie, piuttosto che di metodologie o azioni educative in sé, sembra meglio esprimere l’insieme delle intuizioni, dei pensieri, dei movimenti, delle prassi concrete che si attiva nel momento in cui occorre dar 23 F. Antonacci e F. Cappa (a cura di), Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l’educazione, Milano: Franco Angeli, 2001. 24 P. Bertolini e L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, Firenze: La Nuova Italia, 1993. 25 R. Massa, “Tre piste per lavorare entro la crisi educativa”, «Animazione sociale» 2, febbraio 2000, pp. 60-66.

152

Fenomenologia

della cura

forma all’esperienza educativa. L’educazione è un’esperienza complessa, un «dispositivo in atto», i cui effetti sono determinati dalla combinazione di molte dimensioni, diversamente intrecciate tra loro e in movimento nel tempo26: agli educatori e alle educatrici spetta il compito di conoscerle e di riconoscerle, di padroneggiare quelle che più caratterizzano l’educazione in quanto particolare esperienza vitale. In questa complessità, è fuori dalla portata degli educatori e delle educatrici sia circoscrivere in categorie concettuali e gnoseologiche assolute il fenomeno educativo, sia determinare con esattezza gli effetti delle loro azioni, sia pensare di poter programmare i propri interventi secondo una logica lineare, dedotta da teorie, contenuti e obiettivi avulsi dalle concrete situazioni educative. Non solo. Essendo incarnato nella contingenza delle situazioni e nelle pratiche agite, il lavoro educativo è inevitabilmente attraversato da uno scarto tra ciò si conosce delle situazioni educative, ciò che si immagina di poter fare e ciò che in esse si farà: uno scarto ineliminabile tra programmazione e azione, tra progetto ideato e processo realizzato27. Ciò, anche perché i protagonisti dell’accadere educativo sono prima di tutto i destinatari degli interventi educativi: soggetti di cui non si conoscerà mai abbastanza, che non si comprenderanno mai fino in fondo, e quindi sempre potenzialmente e di fatto imprevedibili quanto a reazioni, comportamenti, motivazioni, modalità di pensiero28. In tutto questo, la strategia è ciò che, in situazione, sorregge il passaggio all’azione educativa: essere consapevoli di ciò che si mette in campo per agire e architettare pedagogicamente ciò che rende possibile tradurre in processo materiale e vissuto quanto pensato, intuito o immaginato sembra essere una condizione ma anche una competenza essenziale per rendere tale il lavoro educativo. Aver cura delle strategie pedagogiche significa, sinteticamente, prestare attenzione almeno a tre elementi che strutturano il lavoro educativo e le pratiche in cui esso si traduce: le finalità che orientano il lavoro educativo, il ruolo o i ruoli agiti dagli educatori e dalle educatrici, gli strumenti pedagogici da utilizzare.

26

R. Massa, Educare o istruire? cit. R. Massa, La clinica della formazione cit., 1992; L. Mortari, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma: Carocci, 2003. 28 C. Palmieri e G. Prada (a cura di), La diagnosi educativa. La questione della conoscenza del soggetto nelle pratiche pedagogiche, Milano: FrancoAngeli, 2005; C. Palmieri e G. Prada, Non di sola relazione cit. 27

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

153

1.3.1 Le finalità che orientano il lavoro educativo Se interpretiamo le finalità come ciò a cui il lavoro educativo tende, quindi i nuclei di senso che orientano i pensieri e le azioni degli educatori e delle educatrici, nel momento in cui si ritiene che il lavoro educativo abbia per oggetto la cura dell’esperienza educativa, individuiamo tali finalità nell’esperienza educativa stessa. Lungi dall’essere una tautologia, intendiamo con ciò riportare l’attenzione sul fatto che il senso del lavoro educativo consista nel dare corpo a esperienze e processi tali da sollecitare, nei soggetti coinvolti, desiderio educativo ma anche accesso e apertura a ulteriori esperienze educative, formali o diffuse, ovvero disseminate nella vita di tutti i giorni29. Perché ciò sia possibile, l’esperienza educativa deve avere una forma precisa: deve staccarsi dalla quotidianità, da quel flusso di vissuti in cui tutti siamo immersi, per portare in un luogo altro, dove si articolino in una particolare alchimia possibilità di attivazione – il fare –, possibilità di espressione – il raccontare – e possibilità di elaborazione – nominare e comprendere ciò che si è sperimentato –, in modo da poter tornare alla vita quotidiana con qualcosa in più o di diverso30. Questo “qualcosa” può essere l’acquisizione o il perfezionamento di capacità o competenze particolari, ma anche un mutamento di sguardo o semplicemente una conoscenza che apre orizzonti inediti: essenziale è che lasci un segno nelle modalità individuali di affrontare la propria esistenza. Come si accennava prima, l’esperienza educativa si connette con il mondo della vita delle persone; perciò, la sua forma è determinata da una specifica temporalità e processualità e da una particolare pragmaticità: deve iniziare, svolgersi e finire e in questo arco spazio-temporale deve consentire ai soggetti di sperimentarsi, di mettersi alla prova, di sbagliare in un contesto protetto, tale da consentire di ritornare sulle proprie azioni, errori inclusi, comprendendone motivazioni, senso e condizioni, non soltanto acquisendo conoscenze o competenze particolari, ma soprattutto perfezionando un modo (personale) di affrontare le situazioni che la vita porgerà; la scommessa, evidentemente, è che l’esperienza educativa possa offrire le occasioni per impadronirsi di strumenti (emotivi, cognitivi, relazionali) utili a questo scopo. In quest’ottica, ciò che può orientare l’individuazione e la messa in atto delle strategie pedagogiche, è quella che Riccardo Massa chiamava la dimensione finzionale dell’esperienza educativa, che rimanda alla possibilità di creare artificialmente situazioni che siano in grado di far sperimentare alle 29 30

J. Dewey, Esperienza ed educazione cit. R. Massa, “Tre piste per lavorare entro la crisi educativa” cit.

Fenomenologia

154

della cura

persone coinvolte autentici processi di scoperta, di cambiamento, di messa in discussione, di rielaborazione personale31.

1.3.2 Il ruolo educativo Aver cura delle strategie significa, quindi, pensare a come agire il proprio ruolo di educatori ed educatrici, nelle diverse situazioni, in modo da avvicinarsi e concretizzare le finalità pedagogiche generali. Per comprendere meglio la specificità del ruolo educativo in relazione alla complessità dell’esperienza educativa stessa, Riccardo Massa ha lavorato metaforicamente, paragonando l’esperienza educativa all’esperienza teatrale, pensando cioè il ruolo educativo come un ruolo che si gioca non solo in diretta ma anche tra le quinte della «scena educativa»32. Utilizzare la metafora teatrale significa chiedersi come impostare una certa “parte” in modo da reggere una particolare sceneggiatura, finalizzata a permettere che, quando si va in scena, non solo lo spettacolo si dia, ma produca anche alcuni effetti: a teatro, che coinvolga il pubblico, divertendolo o commuovendolo ma anche sollecitando riflessione. Nel caso dell’educazione, si tratta di pensare a come giocare il ruolo educativo per consentire ad altri, educandi o utenti che siano, di costruire e di prendersi il proprio ruolo, in modo tale da coinvolgersi nelle situazioni apprestate ma anche, si diceva, da imparare da esse qualcosa di vitale. La parte dell’educatore è abitata da istanze diverse, che rendono complessa questa operazione. In qualunque contesto lavorino, a ogni educatore ed educatrice è già attribuita una parte; ciò è evidente, per esempio, a scuola, dove esistono compiti, orari, oggetti che rendono visibile il ruolo: il solo presentarsi con un registro in mano in un contesto scolastico discrimina chi è l’insegnante e chi è l’allievo. L’abbigliamento, il linguaggio, l’uso di particolari strumenti che gli educatori e le educatrici condividono nei contesti in cui operano, consegnano già delle coordinate, delle aspettative di ruolo, all’interno delle quali ciascun educatore può interpretare la sua parte. Già, perché la parte dell’educatore o dell’educatrice richiede poi un’attivazione soggettiva ed è condizionata da fattori che attengono alla sfera personale: uno stile educativo che si va perfezionando negli anni sulla scorta della storia di formazione, di vita e professionale di ogni educatore/trice; le motivazioni profonde che soggiacciono al lavoro educativo. Evidentemente, la problematicità sta nell’individuare le modalità che consentano di tenere insieme 31 32

R. Massa, Educare o istruire? cit., p. 22. F. Antonacci e F. Cappa (a cura di), Riccardo Massa cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

155

questi due aspetti – la parte “attribuita” e la parte “vissuta” –, in modo che diventino risorsa nell’esperienza educativa, rispettandone le finalità. Per gli educatori e le educatrici, si tratta di esercitare consapevolmente il potere di far fare, ai soggetti, una determinata esperienza. Ciò impone, come già anticipato, da un lato il compito di individuare contenuti e forme di relazione a cui esporre le persone, disponendo condizioni e architettando le mediazioni opportune; dall’altro, di usare se stessi per sollecitare ed attivare nell’altro il desiderio di essere coinvolto nella situazione specifica, ma anche, più in generale, il desiderio di imparare, di continuare a formarsi. Ricorrendo ancora una volta alla metafora teatrale, sembra che all’educatore o all’educatrice si richieda di agire come regista di uno spettacolo in cui egli/ella stesso/a è anche attore: di disporre, da regista, le condizioni – contestuali – a partire dalle quali poter utilizzare al meglio la propria presenza, il proprio, autentico, coinvolgimento nella scena educativa; come nel teatro, questo pare consentire di interpretare al meglio la propria parte: non solo e non tanto il talento personale. Ciò comporta non solo predisporre le diverse “scene” educative in modo tale che il loro intreccio esiti in un processo formativo sensato per chi lo vive, ma anche articolare il proprio ruolo con altri attori: con i destinatari dell’intervento educativo, certo, ma anche con gli altri educatori dell’équipe, con gli altri insegnanti del consiglio di classe o di team, piuttosto che con figure “non protagoniste” ma importanti nel determinare la qualità dell’esperienza complessivamente vissuta, o ancora con coloro che stanno nel retroscena, che osservano o vivono da fuori il processo educativo. Fuor di metafora, si tratta di ripensare strategicamente il coinvolgimento sia delle figure professionali che compongono un’équipe di lavoro o che intervengono nei contesti educativi, sia delle figure che appartengono al “mondo della vita” delle persone coinvolte come educande: genitori, nonni, altri educatori professionali e non, ma anche gruppi amicali o altri gruppi di lavoro o di formazione. Tutto ciò comporta, soprattutto per il singolo educatore o educatrice, arretrare, rispetto al lavoro educativo, in una posizione meno esposta ma soprattutto meno autocentrata: certo meno spontanea ma anche meno casuale33. Ciò non significa limitare o diminuire l’intensità del coinvolgimento degli educatori e delle educatrici, ma che, strategicamente, essi possano essere maggiormente coinvolti in alcuni momenti e meno in altri e comunque in maniera tale da derogare il meno possibile al proprio compito educativo; che 33

Per un approfondimento sulla questione si veda F. Cappa e C. Negro (a cura di), Il senso nell’istante. Improvvisazione e formazione, Milano: Guerini Scientifica, 2006; F. Antonacci e F. Cappa (a cura di), Riccardo Massa cit.

156

Fenomenologia

della cura

si occupino di osservare ciò che accade e di comprendere come rimodulare gli interventi, e non solo il proprio, agendo sul contesto e sull’équipe; forse, anche che si preoccupino dell’andamento dell’intero processo esperienziale e quindi della propria parte e funzione in esso, piuttosto che della propria prestazione, del proprio riconoscimento, del proprio fallimento.

1.3.3 Gli strumenti pedagogici L’elaborazione di strategie educative all’altezza della complessità delle specifiche situazioni e il ripensamento, in quest’ottica, della funzione e della peculiarità del ruolo degli educatori e delle educatrici nei contesti educativi richiede di considerare la funzionalità di alcuni strumenti tradizionali del lavoro educativo ed, eventualmente, di costruirne di nuovi. Il lavoro d’équipe (ristretto ai soli educatori, multiprofessionale, del singolo servizio, interistituzionale o territoriale), il lavoro di rete, l’attività di progettazione (individualizzata e istituzionale), più in generale l’attività di documentazione pedagogica sviluppata nei diversi presidi educativi spesso vengono indicati come gli strumenti fondamentali, oltre che i più diffusi, per sostenere il lavoro degli educatori e delle educatrici. Non è questa la sede per poter entrare nel merito di ciascuno di essi; sembra però importante chiedersi e magari comprendere a quali condizioni queste componenti del lavoro educativo possano diventare luoghi di elaborazione di strategie pedagogiche, auspicabilmente integrate tra loro. Un passaggio preliminare consiste nell’esercitare uno sguardo critico e decostruttivo nei confronti di tali strumenti, ovvero nell’interrogarli a partire da una serie di domande: cosa fanno gli educatori e le educatrici quando si confrontano in équipe (ristretta o allargata che sia), quando vanno agli incontri di rete, quando scrivono i progetti educativi, quando compilano la documentazione prevista nei servizi? Per quale motivo frequentano quei luoghi ed espletano quelle pratiche? Quale impatto tutto questo ha sul lavoro educativo che ogni educatore/educatrice svolge quotidianamente? In che modo, concretamente, li sostiene nell’interpretare il loro ruolo? E quale connessione esiste tra le diverse tipologie di “lavoro per l’utenza”, come spesso viene chiamato il lavoro di elaborazione e di progettazione del lavoro “con” l’utenza? In altre parole, come funzionano il confronto in équipe, le attività di progettazione e di documentazione? Sono presenti figure che organizzano, presidiano, monitorano il funzionamento di questi strumenti e luoghi di confronto, e come operano, sulla base di quali criteri? Rispondere a queste domande, o almeno cominciare a farlo, implica evidentemente cercare di mettere a fuoco gli effettivi oggetti di attenzione e di lavoro di ciascuno di quegli strumenti. Tali oggetti sembrano poter emergere

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

157

da un lavoro di osservazione ed esplicitazione delle pratiche – di confronto tra professionisti, di comunicazione verbale e non verbale, di negoziazione, di interpretazione e di scrittura – attraverso cui quegli strumenti prendono forma; osservazione che consente di individuare le regole non scritte che disciplinano le relazioni tra educatori ed educatrici della medesima équipe o di altre équipe piuttosto che le relazioni con altri professionisti, ma anche ciò che si può dire e ciò che non accede al livello del discorso e che rimane sospeso, nascosto nei corpi o tra le righe. Questo significa, altrettanto evidentemente, intercettare la tradizione, le abitudini su cui si regge il “fare educazione” in determinati contesti, renderla visibile e porla come punto di partenza per una eventuale revisione o per una ridefinizione dei presupposti che la alimentano. Restituire, o corroborare, la funzione di strumenti di elaborazione di strategie pedagogiche a tali pratiche sembra portare in primo luogo a identificare le rappresentazioni di educazione e di lavoro educativo in gioco nei diversi contesti in modo da poterle trattare, ovvero modificare in relazione alle finalità pedagogiche di un’esperienza educativa che si incarna, sempre e comunque, in situazioni contingenti e particolari. In secondo luogo, comporta la possibilità di agire sui contesti relazionali, comunicativi e materiali che regolano il confronto tra operatori, piuttosto che sulle forme di documentazione e progettazione, quindi sulla materialità dei documenti e sui loro impliciti epistemologici e pedagogici. Tutto ciò nell’intento di riconsegnare all’intelligenza, alla sensibilità e alla professionalità degli educatori e delle educatrici gli strumenti con cui supportare il proprio lavoro: di creare le condizioni per costruire un proprio modo (condiviso) di lavorare pedagogicamente nella concretezza delle situazioni che affrontano giorno dopo giorno, cogliendo dalla tradizione pedagogica dei singoli contesti educativi ciò che di volta in volta risulta strategico considerare, e contemporaneamente prendendo le distanze da un’adesione acritica alle consuetudini e alle tendenze insite in quella stessa tradizione. Certo tutto ciò indica non solo l’esigenza di aver cura del lavoro educativo, ma ne è già cura.

2. L’esigenza di aver cura del lavoro educativo: da necessità strutturale a urgenza contemporanea È difficile – la storia della pedagogia dimostra che lo è sempre stato – vedere nel lavoro educativo l’insieme di attenzioni, posizioni, decisioni, azioni, pensieri e strategie sopra sintetizzate. Chi non fa parte del mondo dell’edu-

158

Fenomenologia

della cura

cazione o se ne accosta solo marginalmente sembra faticare a riconoscerne la complessità e quindi a legittimare la funzione di una professionalità che articola le sue competenze intorno al continuo andare e venire tra pensiero e azione, tra teoria e pratica34. In fondo, tutti possono educare, anche loro malgrado, come tutti in qualche modo alla fine crescono: così recita il senso comune. Ciò che fa problema, dal punto di vista pedagogico, è quell’“in qualche modo”: perché quando mancano le attenzioni educative, quando l’esperienza di crescita si sviluppa sulla base di un’assenza di cure o di un’indifferenza che priva bambini, ragazzi, adulti di esperienze a sostegno della loro formatività, quando, insomma, il lavoro educativo non funziona, il disagio prende spessore. E la vita di tutti i giorni ci insegna che questo disagio può rimanere sotto traccia, oppure che può esplodere in comportamenti eclatanti o cronicizzarsi in modalità di vita non sostenibili. Da queste prime battute, si profila un’esigenza di cura del lavoro degli educatori e della loro professionalità perché essi, a loro volta, possano aver cura dell’esperienza educativa. Ma le motivazioni per una cura del lavoro educativo non si esauriscono qui. Il lavoro educativo, in quanto lavoro di cura, è strutturalmente invisibile35: si gioca in un sapiente lavoro di tessitura di istanze differenti, spesso agisce dietro le quinte e i suoi “risultati”, se semplicisticamente identificati con i cambiamenti sollecitati nei soggetti che vivono le esperienze educative, sono il più delle volte incerti, spesso ingannevoli, o quantomeno invisibili, almeno nell’immediato. Tutto questo rende il lavoro educativo in qualche modo imprendibile, “liquido”, costantemente esposto all’incertezza, quindi “debole”, “imperfetto”36. Perciò è difficile de-finirlo, comunicarlo, renderlo visibile. Perciò, a lungo andare, può diventare invisibile anche agli occhi di chi lo pratica quotidianamente: la fatica, il coinvolgimento, la tipologia di situazioni che tratta, spesso fortemente critiche, le emergenze ma anche le ricorsività a cui gli educatori e le educatrici sono esposti possono portare a smarrire il senso di ciò che fanno, a perdersi in quella complessità, a cadere nell’esigenza di semplificare il loro pensiero e le loro pratiche, nell’illusione di ottenere o mantenere un maggior controllo nelle situazioni educative. Tutto ciò può indurre a non rendere più il proprio lavoro oggetto di interrogazione, di ricerca: quasi naturalizzandolo in uno scontato “si fa così” o “si è sempre fatto così”. 34 L. Mortari, Apprendere dall’esperienza cit.; Id., La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori, 2006a; Id., Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Napoli: Liguori, 2006b; Id., Ricercare e riflettere cit. 35 G. Colombo, E. Cocever e L. Bianchi, Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma: Carocci, 2004; L. Mortari, La pratica dell’aver cura cit. 36 S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Roma: Carocci, 2003.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

159

Questo genera un effetto curioso e contraddittorio: un disagio strisciante negli educatori e nelle educatrici che chiedono azioni di cura in particolare nei loro confronti; e d’altronde una riduzione, finanche un’assenza di cura del lavoro educativo. Gli interventi in ascolto e in risposta delle richieste degli educatori, spesso, restano nel solco di una logica semplificante, rinforzando l’idea che il malfunzionamento o la “crisi” dei servizi e delle loro proposte educative sia imputabile innanzitutto all’incapacità di reggere le situazioni da parte degli educatori e delle educatrici, enfatizzando la responsabilità – e quindi l’inadeguatezza – individuale, senza considerare l’intrinseca difficoltà del lavoro educativo, dovuta alla sua complessità, alla sua contingenza, e, soprattutto oggi, ai vincoli istituzionali ed economici entro i quali è dato di lavorare, nonché alle modalità con cui ciò che accade al di fuori delle mura dei servizi, nel “mondo della vita” di tutti, si riverbera sul mondo dei servizi37. Evidentemente, simili interventi non possono incidere sulla complessità del lavoro educativo, ma solo su alcune parti di esso, e spesso sembrano funzionare come palliativi: talora per gli educatori e le educatrici si trasformano in momenti di sfogo o di fuga dalla quotidianità, ma sembrano lontani dall’offrire gli strumenti adeguati per poter incidere sulla qualità complessiva delle pratiche educative quotidiane. Così, dicevamo, la cura del lavoro educativo si riduce, o, in casi estremi, si assottiglia fino a scomparire. Quando la cura del lavoro educativo è ridotta o assente, gli effetti sono potenti, sia su chi educa, sia su chi è destinatario dell’intervento educativo. Anche in questo caso il lavoro educativo può indurre cambiamenti nell’esistenza dei soggetti, quindi, paradossalmente, educa comunque: quando però non è sorretto da una consapevolezza riguardo le sue finalità e le sue possibili mosse strategiche, quando non si fonda su una teoria dell’educazione in continuo dialogo con la pratica, non è detto che i suoi effetti vadano nella direzione dell’ampliamento delle possibilità di esperienza e formazione esistenziale delle persone. Nella migliore delle ipotesi, tali effetti sono lasciati al caso: alle reazioni o risorse dei soggetti che si stanno formando; al senso comune e alle consuetudini presenti nei loro contesti di vita; alle pressioni e attese di ogni tipo che gravano sui servizi, e quindi sugli educatori e sulle educatrici. Ciò che vince sembra essere l’effettività, il “già dato”: alle persone non resta che adattarsi nel modo migliore possibile al mondo in cui vivono. Come si diceva, questo può generare una sofferenza che articola in mille rivoli la sua possibilità di espressione: alla base, si coglie un appiattimento 37

A. P. Ferrante e D. Sartori, “La riflessione pedagogica tra formale e informale”, «Education Science and Society» 2, saggi on line, novembre 2012.

Fenomenologia

160

della cura

se non una deprivazione di esperienza e di prospettive altre, di futuro. Ciò riguarda sia chi educa sia chi è educato. Questo stato di cose sembra essere particolarmente evidente nella situazione sociale, politica ed economica attuale: dal punto di vista pedagogico, si fa strada l’idea che l’educazione informale, quell’educazione prodotta senza alcuna dichiarata intenzionalità pedagogica dalla vita di tutti i giorni, dagli ambienti concreti o virtuali che le persone frequentano, dalle tipologie di comunicazione – pensiamo soprattutto ai media – che la percorrono, dai ritmi di vita, dalla presenza o dall’assenza di occupazione (studio o lavoro che sia), induca nell’esistenza dei soggetti apprendimenti – abitudini, stili di vita, modalità di pensiero – in maniera tanto più efficace quanto più strisciante e pervasiva. Di fronte a questo fenomeno pare assottigliarsi il potere dell’educazione formale e non formale: quell’educazione proposta da agenzie educative come la scuola ma anche da servizi territoriali rivolti a ogni tipologia di utenza38. La scarsa consapevolezza con cui spesso anche nel mondo della scuola e dei servizi viene vissuto il senso di impotenza e di sconforto che questa situazione infonde, se porta a denunciare un generico stato di crisi sembra d’altronde non consentire di elaborare strategie che aiutino ad abitare questo mutamento in atto, «ritrovando lo sguardo pedagogico» e soprattutto restituendo senso e attualità alle proposte educative istituzionali e formali39. Questo alimenta e forse rende vitale l’esigenza di una cura del lavoro educativo. Tale stato di confusione e di impotenza, che il mondo dell’educazione formale pare attraversare, sembra essere determinato almeno da due fenomeni: una trasformazione delle modalità attraverso cui oggi ognuno di noi – educatori ed educatrici incluse – “fa esperienza” quotidianamente; una trasformazione del milieu educativo all’interno del quale servizi e scuole trovano posto.

2.1 Un’esperienza “ridotta” L’esperienza, che ciascuno di noi fa quotidianamente, sembra potersi attestare su diversi livelli, che implicano differenti modalità di coinvolgimento. Tutti viviamo immersi in un flusso di situazioni che si susseguono senza soluzione 38 S. Tramma, Che cos’è l’educazione informale cit.; C. Palmieri (a cura di), Crisi sociale e disagio educativo. Spunti di ricerca pedagogica, Milano: FrancoAngeli, 2012; A. P. Ferrante e D. Sartori, “La riflessione pedagogica tra educazione formale e informale” cit. 39 P. Marcialis, J. Orsenigo, G. Prada e S. Faucitano, “Ritrovare lo sguardo pedagogico. Uno, nessuno, centomila ruoli per l’educatore”, «Animazione Sociale» 240, febbraio 2010, pp. 20-29.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

161

di continuità: l’ambiente in cui abitiamo, volenti o nolenti, ci trasmette un orizzonte di senso comune e di pratiche di vita quotidiana, di atteggiamenti, di abitudini condivise, che ci permettono quella reciprocità che consente di convivere dando per scontate quelle regole – pratiche, ma anche cognitive e relazionali – che disciplinano libertà e doveri di ognuno40. All’interno di questo flusso, viviamo momenti che ci coinvolgono particolarmente: sono gli istanti in cui sentiamo di essere vivi, dotati di un’intensità che, a livello emotivo, può farci avvertire sia la nostra implicazione con l’ambiente, sia il nostro essere altro da esso41. Chiamiamo questi momenti “vissuti” (erlebnisse), quasi a sottolineare il nostro essere colpiti al tempo stesso da quanto accade intorno e dentro di noi: coacervo di sensazioni ma anche potenziali punti di origine di un pensiero che si interroga, che cerca il senso di quanto sta vivendo. Possiamo quindi andare oltre questi stessi istanti e attivare conoscenza e riflessione. Conoscenza della situazione vissuta, delle dinamiche che l’hanno sostenuta e degli effetti prodotti; riflessione sul significato di quanto vissuto, delle nostre azioni e sulle loro conseguenze ma anche sul nostro rapporto con quell’ambiente da cui abbiamo appreso le nostre abitudini, cognitive, affettive e comportamentali, nonché i nostri atteggiamenti etici e morali. Soprattutto, a partire dalla mobilitazione di questa attività sia conoscitiva che riflessiva, possiamo agire in modo tale da modificare noi stessi ma anche i contesti in cui ci siamo formati, e possiamo, di nuovo, cercare di comprendere verso quali direzioni vadano le nostre azioni, cosa significhino, a partire dal coinvolgimento in quello che facciamo. In una sorta di circolo virtuoso42. Ma il passaggio da un livello all’altro – dall’immersione nel senso comune, alla sensazione e al vissuto, alla conoscenza e alla riflessione, infine alla costruzione di una sorta di teoria dell’azione – non è scontato né naturale. Tuttavia, fare esperienza in senso pieno vuol dire attraversare tutti questi livelli43. L’educazione formale interviene forse proprio sulla costruzione delle condizioni grazie alle quali ogni soggetto può, a partire dai suoi limiti e dalle sue possibilità, vivere l’esperienza nella più ampia maniera possibile, sperimentando l’articolazione del suo rapporto con l’ambiente in cui vive, con gli altri e con se stesso secondo i livelli esplicitati. Tali condizioni hanno a che fare sia con la materialità dei contesti in cui si generano occasioni

40

A. Canevaro, Pietre che affiorano cit. P. Jedlovsky, Il sapere dell’esperienza. Fra l’abitudine e il dubbio, Roma: Carocci, 2008. 42 Ibidem. 43 J. Dewey, Esperienza e educazione, cit.; J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze: La Nuova Italia, 1990; [Democracy and Education, New York: The Macmillan Company, 1916]. 41

162

Fenomenologia

della cura

esperienziali, sia con gli strumenti, materiali, relazionali, affettivi e cognitivi, che possono facilitare il soggetto nella transazione con l’ambiente, favorendo lo sviluppo di una postura euristica, attiva e critico-riflessiva44. Ora, se teniamo sullo sfondo questa visione dell’esperienza, sembra che il modo in cui oggi, nei nostri contesti di vita, si faccia esperienza «innanzitutto e per lo più» – per rubare a Heidegger un’espressione a lui cara45 –, si attesti su una forma “ridotta”: difficile sembra essere accedere a un livello conoscitivo, riflessivo, autoriflessivo e critico tale permettere alle persone di elaborare autonome e originali strategie di cambiamento di sé, del proprio «fare», delle proprie condizioni di vita, del proprio ambiente46. Questo effetto sembra scaturire da una serie di condizioni e di dinamiche, che, negli ultimi tempi, hanno profondamente mutato le nostre abitudini quotidiane47. È cambiato il modo di vivere il tempo, individuale e collettivo, sospeso tra l’emergenza continua e un immobilismo concentrato su un presente che pare senza storia, senza memoria e senza futuro, teso ad alimentarsi di soddisfazioni o guadagni temporanei, esposti all’usura del consumo48. È cambiato lo spazio in cui ci muoviamo o abitiamo: negli spazi fisici di case e luoghi di lavoro o di svago si aprono gli spazi virtuali della rete, cambiano le regole di accessibilità e movimento in essi e tra essi; vicinanza e lontananza sono stabilite in base a criteri altri e diversi dalla prossimità fisica di luoghi e persone; i confini tra spazi pubblici e privati paiono saltare, le categorie di cui disponiamo sembrano non essere adeguate a definire una nuova esperienza di spazialità49. Si è modificato, quindi, il modo di vivere la corporeità; soprattutto mutano le occasioni attraverso le quali possiamo sperimentare limiti e possibilità del corpo: tecnologicamente possiamo acce-

44

P. Reggio, Il quarto sapere. Guida all’apprendimento esperienziale, Roma: Carocci, 2011. M. Heidegger, Essere e tempo cit. 46 S. Natoli, Il buon uso del mondo cit. 47 Stiamo considerando sempre l’occidente, e in particolare nella parte occidentale del mondo: se ancora, nell’era della globalizzazione, si possono operare distinzioni geografiche e culturali (G. Bocchi e M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Milano: Cortina, 2004; L. Zoja, La morte del prossimo, Torino: Einaudi, 2009). 48 C. Leccardi, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell’accelerazione, Bari: Laterza, 2009; J. Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, Roma: Armando, 2009; [The Vital Illusion, New York: Chichester: Columbia University Press, 2000]. S. Natoli, Il buon uso del mondo cit.; M. Benasayag e G. Smith, L’epoca delle passioni tristi, Milano: Feltrinelli, 2004; [Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Paris: Les Decouvertes, 2003]; Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano: Bruno Mondadori, 2002a; [Ponowoczesność Jaco źródlo cierpień, Warsaw: Zigmunt Bauman & Widawctwo Sic!, 2000]; Z. Bauman, Consumo dunque sono, Bari: Laterza, 2010; [Consuming Life, Cambridge: Polity Press, 2007]. 49 L. Zoja, La morte del prossimo cit. 45

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

163

dere a più esperienze50, raggiungere traguardi impossibili fino a pochi anni fa, e se certamente questo consente un maggior benessere, d’altro canto disabitua giorno dopo giorno a fare i conti con i limiti che comunque un corpo umano presenta (finitudine, imperfezione, invecchiamento, malattia), producendo effetti collaterali che sfumano in un disagio diffuso che spesso esita in patologia: le nuove forme di disagio connesse ai disturbi alimentari, e in particolare l’obesità, sembrano essere l’emblema di questa contraddizione51. Ma anche l’enfasi sulla ricerca della “perfetta forma fisica”, della prestazione che meglio di ogni altra “spacca lo schermo”, fosse solo per un minuto, sono effetti di questa tendenza. L’esperienza corporea tende a connotarsi come esperienza di superamento di ogni limite, ma soprattutto come esperienza di godimento, proprio o altrui: godimento di sensazioni, ristretta al vissuto, sempre più travolgente, istantaneo e individuale52. In tutto ciò, non è detto che il corpo divenga punto di origine di movimenti di desiderio, di relazione e di pensiero; il corpo, piuttosto, sembra essere “consumato”53. All’interno di queste condizioni materiali, ciò che muta, profondamente, sembra essere la modalità attraverso la quale si sperimenta il riconoscimento di sé, la sensazione e la restituzione, da parte degli altri e del mondo, di essere vivi, di «esser-ci»54. In assenza di prospettive, ci si sente vivi perché “si gode” di ogni sensazione che si può collezionare, oppure perché, grazie al godimento che si riesce a suscitare, si conquista l’attenzione degli altri – di tutti gli altri, quanti più possibile. Godere il più possibile e non essere esclusi: questo sembra essere un leit-motiv serpeggiante nel modo di vivere attuale. Sociologi e filosofi, finanche registi55 paiono mostrare l’affermazione, nella quotidianità, di un’ideologia fortemente seduttiva, che legittima ciascuno a spendere ogni suo sforzo nel tentativo di raggiungere quello status sociale caratterizzato dalla ricerca di benessere fine a se stesso e da un sempre maggiore potere di consumo, che un’efficace comunicazione mediatica fa passare sotto traccia come situazione a cui tutti, procurandosi determinati prodotti o comportandosi secondo determinati clichés, possono tendere56. 50

Non è un caso che un noto software sia stato chiamato “XP”, Experience. D. Cosenza, L’obesità nelle nuove forme del sintomo, in D. Cosenza, M. Recalcati e A. Villa (a cura di), Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia, Milano: Bruno Mondadori, 2006. 52 M. Giorgetti Fumel e F. Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà. Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità, Milano: Mimesi, 2012. 53 Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna: Il Mulino, 2002b; [The Individualized Society; Cambridge: Polity Press, 2001]. 54 M. Heidegger, Essere e tempo cit. 55 Ricordiamo, tra i molti, Eric Gandini e il suo Videocracy (2008). 56 S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Roma: Meltemi, 2004; [The Plagues of Fantasies, London-New York: Verso, 1997]. 51

164

Fenomenologia

della cura

Le necessarie esigenze di sintesi portano a dipingere un quadro forse eccessivamente fosco: l’intento non è però quello di fomentare lamentazioni pessimistiche o nostalgiche rispetto a un passato nelle cui radici, tra l’altro, affonda la situazione attuale. Piuttosto, è quello di constatare un mutamento in atto che riguarda le condizioni di esperienza quotidiana, di educazione informale57: chiunque ne è interessato, anche gli educatori e le educatrici, anche i responsabili dei servizi. Come anticipato, le condizioni a partire dalle quali opera l’educazione informale sembrano ancorare l’esperienza diffusa a un livello di transazione tra individuo e ambiente che privilegia posture di passività soggettiva o attivazioni individuali fini a se stesse58. Da un lato la deprivazione di prospettive percorribili sembra minare al cuore la speranza di “poter cambiare le cose”, non solo a livello individuale ma anche a livello sociale; dall’altro un’abitudine, sempre più radicata, a cercare il godimento inteso come assenza di contrasto, di dolore, di problematicità, di disagio, e a consumare in esso l’esperienza stessa, sferra un colpo altrettanto mortale alla capacità umana – non sono cognitiva o razionale – di cogliere problemi e risolvere situazioni non abituali e quindi di per sé problematiche59. Banalmente, questo stato di cose può portare a non farsi domande, ma soprattutto a non percepirsi come soggetti in grado di interrogare la propria esperienza quotidiana, prendendone in qualche modo le distanze. Nonostante l’enfasi sulle libertà (individuali), paradossalmente ciò che si tende a esperire oggi è una strisciante forma di dipendenza: dallo sguardo altrui; dalla performatività individuale in relazione a richieste di efficienza ed efficacia sempre più elevate; dal bisogno, soggettivo, di “stare bene”; oltre che, evidentemente, da un mondo sempre più complicato e da decisioni o azioni di sistemi anonimi – si pensi ai “mercati” –, che piombano sull’esistenza delle persone senza possibilità di replica. La criticità, dal punto di vista educativo, non risiede solo nella probabile univocità delle esperienze di educazione informale cui ciascuno è esposto, ma anche e soprattutto nel modo in cui i professionisti dell’educazione e i contesti in cui essi operano abitano tutto ciò. Il rischio è duplice, e consiste da un lato nell’assunzione di un atteggiamento di adeguamento acritico a tale tendenza da parte di scuole e servizi, dall’altro nella fatica o nella resistenza, opposta da educatori ed educatrici, nel riconoscere, come dato 57 Per un approfondimento si rimanda a C. Palmieri (a cura di), Crisi sociale e disagio educativo cit. 58 S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario cit.; S. Natoli, Il buon uso del mondo cit. 59 J. Dewey, Esperienza e educazione cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

165

di fatto ed elemento da cui partire per articolare le loro proposte, in cosa consista l’esperienza quotidiana che forma le abitudini di chi frequenta contesti educativi formali e istituzionali. Evidentemente, una “forma ridotta” dell’esperienza di per sé non induce a fare della propria esperienza occasione di un apprendimento che fa scoprire significati originali perché propri, che allarga l’orizzonte esistenziale rendendo percorribili strade nuove: non alimenta la curiosità, il desiderio, la volontà di conoscere e di imparare e di uscire, quindi, dal “già noto”, da abitudini consolidate, dal senso comune, da campi di esperienza conosciuti. Con la rassicurazione che procura, questa forma diffusa di esperienza spegne l’esigenza e il desiderio di sperimentazione. Se è così, non si può credere che sia naturale o scontata la disposizione individuale e collettiva a imparare, a intraprendere percorsi formativi. Soprattutto oggi sembra essere essenziale ri-fondare la motivazione che spinge le persone a stare o a restare all’interno di un percorso educativo o formativo, a partire però da un riconoscimento e da un contatto con il “mondo della vita” dei soggetti a cui tale percorso viene proposto, ma tutto ciò sembra necessitare di sguardi nuovi e nuove strategie. Una terza via, pedagogicamente interessante, rispetto ai due atteggiamenti prima esposti, ha a che fare con la possibilità di “rimettere in movimento” la modalità con cui ogni soggetto è abituato a fare esperienza, di individuare quelle particolari condizioni che possono far leva su logiche di azione e di pensiero che agli educatori e alle educatrici possono sfuggire: la troppa lontananza o la troppa vicinanza (reali o presunte) rispetto al mondo della vita dei soggetti in educazione spesso le rende opache, incomprensibili, imprendibili, ma non per questo inesistenti. Per gli educatori e le educatrici, ciò comporta mettersi in una postura di ricerca; in qualche modo anche questo alimenta l’esigenza di una cura del lavoro educativo.

2.2 Quale milieu educativo? I servizi in cui operano educatori ed educatrici, come pure le scuole di ogni ordine e grado, non rappresentano, quindi, nella vita delle persone, le uniche o più importanti esperienze dagli effetti formativi. Oltre ad essi, c’è certamente la vita familiare e poi c’è la televisione, internet, i gruppi informali, gli amici virtuali o reali, le associazioni sportive, le associazioni che si occupano del tempo libero, le associazioni di genitori, le associazioni di supporto alle più svariate categorie di persone. E poi c’è il lavoro, che condiziona la vita di chiunque sia quando c’è che quando non c’è o è precario. Ma ci sono

166

Fenomenologia

della cura

anche la strada, il quartiere, il territorio, con le loro regole non scritte, le loro consuetudini, le loro aspettative, le loro possibilità, i loro vincoli60. Il milieu, l’ambiente educativo in senso allargato è costituito da tutti questi soggetti o agenzie: in ciascuno di questi contesti ognuno di noi si trova a vivere esperienze di differente complessità, ma è l’insieme delle esperienze vissute a incidere sulle abitudini, sugli atteggiamenti, sugli stili di vita dei soggetti: a indurre effetti di apprendimento. In quest’ottica, da un punto di vista pedagogico, non ha senso denunciare la crisi della funzione educativa della scuola o dei servizi se non si colloca tale crisi all’interno di quel contesto più ampio rappresentato, appunto, dalle correnti di educazione informale (Massa, 2000). È curiosa la rete educativa informale in cui ci troviamo a costruire il nostro modo di stare al mondo. Da una parte sembra estremamente dispersiva, frammentaria: talmente diversificata che ci fa saltare da una situazione all’altra, quasi senza mediazioni. Ogni situazione pare distinguersi per la sua capacità attrattiva: per le risposte che è in grado di fornire a bisogni di conoscenza, di incontro, di salute, di benessere. Da questo punto di vista, sembra essere una caratteristica vincente l’immediatezza delle risposte, la promessa di risolvere o eliminare attraverso tecniche adeguate determinate situazioni. D’altra parte, le occasioni esperienziali offerte sembrano livellare la loro qualità sugli standard di un’esperienza “ridotta”: suscitare gradimento o affiliazione, isolare i “casi difficili” e trattarli specialisticamente in modo da annullarne la problematicità sembra essere un obiettivo diffuso61. La rete che connette scuola, servizi e famiglie sembra essere costituita da esperienze di questo tipo. Pare quindi essere una rete che travolge le agenzie educative formali, creando un sostrato esperienziale che, in qualche modo, non è in linea con il compito che, almeno dal punto di vista pedagogico, per quanto detto precedentemente, spetterebbe loro: promuovere esperienze educative non “ridotte”, in grado di mettere alla prova le persone, sollecitando potenzialità pratiche e riflessive attraverso l’apprestamento di situazioni che si staccano dall’abituale, nella direzione della costruzione di atteggiamenti e di modalità attraverso cui continuare a imparare dalla e nella vita quotidiana. Di più: tale rete sembra non conoscere, non riconoscere e quindi non aver cura della specificità del compito educativo esercitato da 60

S. Tramma, Che cos’è l’educazione informale cit. Queste considerazioni derivano dall’elaborazione dei primi risultati di ricerche pedagogiche che il Centro Studi Riccardo Massa sta svolgendo dal 2010 ad oggi nell’ambito di un Laboratorio Permanente sul lavoro educativo; ricerche sviluppate attraverso la partecipazione attiva di associazioni e cooperative sociali lombarde. I risultati saranno pubblicati nel volume Educare e ricercare, Milano: FrancoAngeli, in corso di stampa. 61

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

167

contesti istituzionali quali la scuola o i servizi. Questo atteggiamento, si diceva, non è una novità: quello che rappresenta una caratteristica dei nostri tempi è però la marcata attenuazione se non l’assenza di una sensibilità diffusa a sostegno della funzione sociale e politica esercitata dai luoghi di educazione formale. Ciò che si impara a scuola può essere appreso anche altrove, e magari più piacevolmente. Adolescenti e giovani conoscono con maggior facilità le persone attraverso i social network che frequentando centri di aggregazione giovanile. Allora, perché la scuola? Perché alcuni servizi educativi? Cosa offrono, questi luoghi, di talmente differente da quello che offrono il territorio, internet, presidi specialistici sanitari, istituti penali minorili e via dicendo? Perché investire fondi pubblici nel lavoro educativo? Domande, oggi, non solo retoriche. Nella vita dei servizi educativi e della scuola tutto ciò ha conseguenze piuttosto spiccate: i servizi, ma anche le scuole, devono “stare sul mercato”, rendere appetibili le loro proposte, diventare, in qualche caso, indispensabili. Ma se chi si accosta ai servizi o alla scuola è abituato a un’esperienza educativa “ridotta”, al mondo dell’educazione formale pare che si profilino due strade da percorrere: ridurre, a sua volta, la propria offerta, tradendo il compito educativo; arroccarsi nella propria tradizione educativa, sviluppando un’autoreferenzialità che, evitando di considerare il background esperienziale con cui gli eventuali utenti si approcciano, rischia di esitare in una serie di incontri mancati, in occasioni perse o quantomeno fini a se stesse. Rispetto a queste due posizioni, aver cura del lavoro educativo significa chiedersi se esista una terza via, che riporti l’attenzione sul senso del lavoro educativo oggi e ne ricostruisca, strategicamente, le possibilità. In questo quadro, il lavoro educativo sembra essere sottoposto a «trazioni» che ne fanno evaporare la specifica qualità, assimilandolo al lavoro assistenziale o sanitario, piuttosto che a un lavoro di mera trasmissione di informazioni, di taglio istruttivo, o ancora a un lavoro di controllo sociale, piuttosto che di intrattenimento. Ciò, a seconda delle emergenze territoriali. Perché in qualche modo il problema più urgente, dal punto di vista sociale e politico, è dare risposta a situazioni che vengono lette come emergenze sociali e il lavoro educativo, interpretato a seconda delle circostanze come bacino di professionalità specializzate per gestire determinate categorie di persone, piuttosto che come risorsa che, per afflato vocazionale, accoglie ogni situazione, pare rappresentare una soluzione ottimale62. Salvo poi essere criticato e ridimensionato quando i risultati attesi sembrano non essere perseguiti. 62

P. Marcialis, J. Orsenigo, G. Prada e S. Faucitano, “Ritrovare lo sguardo pedagogico. Uno, nessuno, centomila ruoli per l’educatore” cit.

168

Fenomenologia

della cura

Se questi elementi si sommano alla difficoltà, sopra mostrata, che gli stessi educatori ed educatrici manifestano, nell’abitare la complessità dell’educazione nonché nel fare i conti con l’invisibilità, l’incertezza, il rischio e la responsabilità che il lavoro educativo comporta, si comprende facilmente come si possa smarrire il senso del fare educazione oggi in quanto professionisti pedagogici. E allora la stessa esperienza proposta all’interno dei servizi o della scuola perde spessore, qualità: non giustifica più la presenza dell’educazione formale, professionale. Aver cura del lavoro educativo oggi significa partire da qui.

3. Prospettive e oggetti di cura del lavoro educativo nei territori della contemporaneità Una cura del lavoro educativo, dunque, sembra essere necessaria per due ragioni: per supportare gli educatori e le educatrici nella progettazione e predisposizione delle condizioni che possono rendere educative le esperienze da loro proposte, e, quindi, nella realizzazione e valutazione dei processi messi in atto; per costruire, insieme ai professionisti dell’educazione, le condizioni funzionali a ridare senso e di conseguenza spazio, spessore, qualità alle proposte educative dei servizi territoriali e scolastici. Si tratta quindi di svolgere un lavoro di secondo livello, che si esprima attraverso le funzioni della consulenza, della formazione, della supervisione, della ricerca pedagogica. Un lavoro governato da pedagogisti, che affianchi le équipe educative e i singoli professionisti mettendo a disposizione competenze per (ri)avviare una riflessione pedagogica critica sul lavoro educativo, sulle esperienze educative realizzate o realizzabili, sulle condizioni che, appunto, rendono possibili tale esperienze ma anche l’esercizio e la piena espressione della professionalità educativa. Una riflessione non fine a se stessa, ma capace di esitare nella modifica di atteggiamenti e stili educativi individuali e d’équipe, come pure dei contesti materiali, delle regole scritte e non scritte, degli strumenti e delle strategie grazie a cui i processi educativi prendono forma nelle diverse situazioni. In questo senso, l’aver cura del lavoro educativo si configura come un lavoro pedagogico che, istituendosi come contesto specifico e particolare all’interno della vita dei servizi educativi, si propone l’obiettivo di mettere educatori ed educatrici in una posizione di ricerca63 rispetto al lavoro 63

Sull’importanza e crucialità del divenire e riconoscersi ricercatori per i professionisti dell’educazione, si veda L. Mortari, Ricercare e riflettere cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

169

quotidiano e di trarre, dall’esercizio di tale posizione, non solo elementi di conoscenza e comprensione, ma anche spunti o occasioni di formazione individuale e di équipe, finanche di servizio. Assumere una posizione di ricerca, per gli educatori e le educatrici, significa imparare a emergere dalla quotidianità per vedere ciò che si fa da posizioni differenti e non scontate, e, soprattutto, imparare a costruire domande che consentano di uscire dalla logica dell’emergenza o dal solco della tradizione, dall’obbligo di rendicontazione del proprio operato o da dinamiche affettive così intense da inchiodare chi le vive al proprio vissuto. Assumere una posizione di ricerca significa imparare a chiedersi parallelamente come funzioni l’esperienza in atto e che tipo di lavoro educativo abbia permesso di realizzarla “in quel modo lì”: da quali motivazioni e situazioni un’esperienza prenda avvio, in cosa si concretizzi e quali effetti o imprevisti produca e perché; ma anche quali rilevazioni, quali pensieri, quali condizioni, quali contesti, quali ruoli educativi, quali strategie educative abbiano concretizzato proprio quel tipo di esperienza. In questo senso, il lavoro di cura del lavoro educativo esercita anche funzioni di supervisione e di valutazione: da un lato, consente agli educatori di tornare sull’esperienza vissuta in modo da esplorarne prefigurazioni e significati espliciti e impliciti, dinamiche affettive e strategie consapevoli e inconsapevoli; dall’altro, fornisce gli elementi per poter capire cosa effettivamente sia stato realizzato, quale sia la cifra specifica, la qualità dell’esperienza attuata, quali livelli di elaborazione, di attivazione, di emancipazione, di autonomia abbia effettivamente consentito di toccare e a quali condizioni. Nello scenario attuale, sembra opportuno che l’aver cura del lavoro educativo concentri la sua attenzione in particolare su quattro elementi: l’ampliamento del campo esperienziale dei soggetti in educazione; l’ampliamento della conoscenza e della comprensione, da parte degli educatori e delle educatrici, dei meccanismi di apprendimento informale che determinano la disposizione educativa dei soggetti utenti dei servizi; le modalità con cui educatori ed educatrici utilizzano gli strumenti pedagogici e in primis la progettazione; le modalità di documentazione del lavoro educativo e pedagogico svolto nei servizi e a scuola. Ampliare il campo di esperienza, ovvero proporre agli educandi qualcosa che esuli dal “già noto”, che possa stimolare in loro cambiamenti di prospettive esistenziali64, sembra soprattutto oggi rappresentare un’indicazione per (ri)dotare di senso il lavoro educativo, sostenendone l’importanza in particolare nel momento in cui le esperienze educative proposte paiono porsi come “controcorrente” rispetto alle modalità con cui solitamente un’e64

P. Bertolini, L’esistere pedagogico cit.; R. Massa, Educare o istruire? cit.

170

Fenomenologia

della cura

sperienza è vissuta. L’esperienza educativa non è fatta solo di accoglienza e gratificazione; piuttosto, le strategie di accoglienza sono utili per consentire ai soggetti di mettersi alla prova e le gratificazioni si alternano a inevitabili momenti di spaesamento e di problematicità. L’esperienza educativa non produce agio, inteso come assenza di ogni difficoltà, ma disagio: quel disagio che si prova quando ci si rende conto che ciò che già si sa o si fa non è sufficiente per affrontare una situazione nuova; quel disagio che permette di rimettere in moto la sensibilità, l’intelligenza, la creatività soggettiva per estinguerlo nella ricerca di un nuovo modo di affrontare le situazioni, supportati da potenzialità che, peraltro, solo grazie a quel disagio possono essere scoperte. Ciò non significa virare verso la pedagogia nera65 o che sia necessario procurare dolore per favorire processi di formazione; piuttosto significa considerare che ogni esperienza che si voglia dire educativa contiene una quota di fatica e di disagio: apprendere implica rompere un equilibrio precedentemente assestato per ricomporne uno diverso ad un altro livello66. Formarsi comporta vivere ritmi che alternano novità e ripetitività, attività e passività, entusiasmo e noia, soddisfazione e frustrazione: implica imparare ad abitare questi ritmi, resistendo alla possibilità di fuggire alla ricerca del godimento immediato. In questo senso, per esempio, è importante che l’educazione formale e intenzionale elabori una sua posizione critica rispetto a tendenze socialmente così diffuse e “normali” come la promozione e la ricerca del benessere a ogni costo. Ciò, soprattutto quando l’obiettivo di un generico benessere rappresenti un alibi per mantenere le persone in situazioni cristallizzate, funzionali a esercitare maggiori possibilità di controllo, individuale e sociale. Quando questo accade, l’educazione lascia il posto alla custodia, a una cura che possiamo definire inautentica: la preoccupazione per lo sviluppo delle più proprie possibilità dei soggetti svanisce. È possibile capire come poter ampliare il campo di esperienza dei soggetti in educazione solo quando si conoscano e si riconoscano le condizioni a cui essi sono abituati nel fare esperienza, quindi le loro abitudini, i loro atteggiamenti, ma anche ciò che cercano, ciò che fa presa su di loro, ciò che potrebbe, appunto, aprire varchi o anche solo piccoli pertugi attraverso cui tracciare la strada per esperienze altre. Aver cura del lavoro educativo, in questo senso, richiede di lavorare su due livelli. Da un lato, significa ampliare le conoscenze e/o fornire a educatori e educatrici nuovi strumenti per riconoscere ciò che succede “fuori” dai servizi, come stia cambiando 65

Il riferimento è al pensiero e alle opere di Alice Miller, ripreso in chiave pedagogica da M. Riva, L’abuso educativo. Teoria del trauma e pedagogia, Milano: Unicopli, 1993. 66 J. Dewey, Esperienza e educazione cit.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

171

o sia cambiato il mondo della vita quotidiana e come questo influenzi la disponibilità ad apprendere e a formarsi delle persone che frequentano i servizi. D’altro lato, comporta lavorare sull’autoreferenzialità che caratterizza molti servizi e scuole, e quindi sul modo in cui educatori ed educatrici si riferiscono alla tradizione pedagogica insita nelle fondamenta e nei muri del proprio servizio (scolastico o extrascolastico) oltre che proclamata nelle carte dei servizi o nelle varie brochure. Spesso, questo implica portare alla luce le conoscenze tacite e le regole implicite che stanno alla base della cultura organizzativa e pedagogica dei diversi contesti di lavoro e dei professionisti stessi ma anche comprendere cosa, di questa conoscenza e di questa “disciplina”, si possa modificare, con l’obiettivo di individuare le condizioni che possono consentire di creare l’ambiente idoneo per un lavoro educativo che costruisca ponti, connessioni, aperture nei confronti dei mondi di provenienza dei soggetti in educazione, nella consapevolezza che comunque queste persone ai loro mondi appartengono e ai loro mondi continueranno a tornare o a fare riferimento. Costruire ponti tra il mondo dei servizi educativi e il mondo della vita dei soggetti che vi entrano come utenti significa costruire dei progetti67: perciò comprendere come gli educatori e le educatrici lavorino sulla e con la progettazione, di quali strumenti si dotino per progettare, quali linguaggi adottino, quali logiche seguano e quali obiettivi perseguano sembra essere un altro oggetto fondamentale dell’aver cura del lavoro educativo. L’attenzione è rivolta a ogni tipologia di progetto: dal progetto educativo individualizzato al progetto di servizio, fino a toccare il progetto di vita o il progetto esistenziale68. Ciò che interessa è comprendere come queste tipologie di progetto funzionino, se e come si connettano tra loro, e se e come, allora, diventino strumenti in grado di orientare la prassi, individuando le condizioni in cui fare esperienza, aiutando educatori ed educatrici a impostare le attività, a scegliere i mediatori pedagogici, a coinvolgere altri attori, a istituire gruppi, a studiare le strategie più adeguate per quelle situazioni contingenti, a modificare quanto già predisposto in base all’andamento del processo educativo. Lavorare sulla progettazione significa, in qualche modo, lavorare su quel tavolo in cui la teoria diventa prassi e la prassi modifica la teoria: promuovere consapevolezza di ciò nei contesti educativi e lavorare sugli strumenti attraverso i quali, quotidianamente, il lavoro educativo esprime un’intenzionalità pedagogica e le dà corpo sembra essenziale per sostenere la professionalità degli educatori e delle educatrici. Ma tutto questo pare 67 68

C. Palmieri, Un’esperienza di cui aver cura…cit. Ibidem.

172

Fenomenologia

della cura

cruciale anche come azione di cura rispetto al rischio di una demotivazione che può gettare gli educatori e le educatrici in un pessimismo senza ritorno soprattutto quando operino in situazioni di estrema marginalità o sofferenza: imparare a commisurare alle situazioni effettive e ai loro limiti azioni magari minimali ma tali da aprire comunque spazi di possibilità sembra strutturare quella competenza che davvero rende possibile aver cura di qualsiasi esistenza, abitando il luogo che sta “tra” effettività e possibilità69. Nel fare tutto questo gli educatori usano un linguaggio particolare, e, qualche volta, scrivono. Scrivono progetti, appunto, ma anche diari, personali o “di bordo”. Scrivono relazioni per i servizi sociali, o avvisi, comunicati per le famiglie. Il linguaggio, soprattutto quando scritto, sembra essere il primo corpo che prendono le teorie quando devono essere trasformate in pratica. Ma il linguaggio, scritto, è anche ciò che razionalizza la vita quotidiana del servizio, che descrive le persone e le loro caratteristiche, che rende oggettivo qualcosa di soggettivamente vissuto o percepito, che stacca l’esperienza personale dall’ambiente – corporeo e materiale – in cui è stata vissuta e la trascrive, la “doppia” in un’esperienza altra, che così viene resa disponibile ad altri, non solo ai suoi protagonisti70. La documentazione è l’insieme di questi scritti: è il luogo, materiale, in cui vengono depositati in forma altra la vita del servizio o alcuni suoi spaccati, o ancora atteggiamenti, comportamenti, vicende, progressi, involuzioni, problemi e risorse delle singole persone. Attraverso la documentazione si comunica, si progetta, si valuta, si prescrive. Perciò, essa rappresenta un importante luogo di cura del lavoro educativo. Averne cura significa innanzitutto comprenderne le forme e le varietà, gli obiettivi espliciti e impliciti, le funzioni e i destinatari, le possibilità, i vincoli e i limiti. Soprattutto, però, forse significa comprendere in che modo la documentazione doppi la vita che si svolge nel servizio e quella degli educatori e degli soggetti utenti che in esso trascorrono molto del loro tempo: se e come possa conservare memorie utili a rielaborare l’esperienza oppure rappresenti un compito istituzionale da assolvere per rendicontare amministrativamente la funzionalità degli interventi attuati. Prestare attenzione a cosa si documenta e intraprendere percorsi di ricerca per comprendere a quali condizioni, anche attraverso questa attività, sia possibile rispettare l’esperienza educativa, chiarendone le finalità e precisando, ogni volta, le modalità operative utilizzate e utilizzabili, significa mantenersi vicini alla specificità del proprio compito, avere uno strumento al tempo 69

M. Heidegger, Essere e tempo cit. M. Contini, Possibilità e rischi della scrittura come “esperienza parallela”, in D. Demetrio (a cura di), Per una pedagogia e una didattica della scrittura, Milano: Unicopli, 2007, pp. 39-47. 70

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

173

stesso riflessivo e valutativo per restituire al lavoro educativo in primo luogo visibilità, in secondo luogo spessore e professionalità. Quindi, per promuoverne, anche oggi, la legittimità. Come il lavoro educativo, averne cura è una pratica complessa: richiede ricerca, teorica e pratica, sull’educazione formale e sul mondo sociale, politico ed economico cui essa appartiene. Richiede risorse, ma anche passione. Aver cura del lavoro educativo è una scelta etica: una scelta che interroga la deontologia professionale, ma che presuppone anche una presa di posizione individuale e politica rispetto alla realtà educativa attuale e alle possibilità che attraverso l’educazione formale possono essere coltivate. Purché i professionisti dell’educazione – educatori ed educatrici, consulenti e pedagogisti – vi lavorino quotidianamente. A loro il compito di rendere visibile il lavoro di cura e di legittimarne l’indispensabilità; ad altri – a tutti noi, non solo a chi ricopre posizioni politicamente strategiche – il compito di cogliere tutto questo e di creare le condizioni perché il loro lavoro possa essere compiuto e dare i suoi risultati.

Riferimenti bibliografici Antonacci F. e Cappa F. (a cura di), 2001, Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l’educazione, Milano: FrancoAngeli. Baricco A., 2006, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano: Fandango Libri. Baudrillard J., 2009, L’illusione dell’immortalità, Roma: Armando; [The Vital Illusion, New York Chichester: Columbia University Press, 2000]. Benasayag M. e Smith G., 2004, L’epoca delle passioni tristi, Milano: Feltrinelli; [Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Paris: Les Decouvertes, 2003]. Bauman Z., 2002a, Il disagio della postmodernità, Milano: Bruno Mondadori; [Ponowoczesno´sc´. Jaco źródlo cierpie´n, Warsaw: Zigmunt Bauman & Widawctwo Sic!, 2000]. Bauman Z., 2002b, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Bologna: Il Mulino; [The Individualized Society, Cambridge: Polity Press, 2001]. Bauman Z., 2010, Consumo dunque sono, Bari: Laterza; [Consuming Life, Cambridge: Polity Press, 2007]. Bertin G. M. e Contini M., 2004, Educazione alla progettualità esistenziale, Roma: Armando Editore. Bertolini P., 1988, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze: La Nuova Italia. Bertolini P. e Caronia L., 1993, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee d’intervento, Firenze: La Nuova Italia.

174

Fenomenologia

della cura

Bocchi G. e Ceruti M., 2004, Educazione e globalizzazione, Milano: Cortina. Canevaro A., 1999, Pedagogia Speciale. La riduzione dell’handicap, Milano: Bruno Mondadori. Canevaro A., 2008, Pietre che affiorano. I mediatori efficaci in educazione con la «logica del domino», Trento: Erikson. Canevaro A. e Chieregatti A., 1999, La relazione di aiuto. L’incontro con l’altro nelle professioni educative, Roma: Carocci. Cappa F. e Negro C. (a cura di), 2006, Il senso nell’istante. Improvvisazione e formazione, Milano: Guerini Scientifica. Colombo G., Cocever E. e Bianchi L., 2004, Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma: Carocci. Contini M., Possibilità e rischi della scrittura come ‘esperienza parallela’, in Demetrio D. (a cura di), 2007, Per una pedagogia e una didattica della scrittura, Milano: Unicopli, pp. 39-47. Cosenza D., L’obesità nelle nuove forme del sintomo, in Cosenza D., Recalcati M. e Villa A. (a cura di), 2006, Civiltà e disagio. Forme contemporanee della psicopatologia, Milano: Bruno Mondadori. Dewey J., 1963, Esperienza e educazione, Firenze: La Nuova Italia; [Experience and Education, USA: Kappa Delta PI, 1938]. Dewey J., 1990, Democrazia e educazione, Firenze: La Nuova Italia; [Democracy and Education, The Macmillan Company, New York, 1916]. Ferrante A. P. e Sartori D., 2012, “La riflessione pedagogica tra educazione formale e informale”, «Education Science and Society» 2, novembre, saggi on line. Freinet C., 2002, La scuola del fare, Bergamo: Junior (a cura di Eynard R.). Giorgetti Fumel M e Chicchi F. (a cura di), 2012, Il tempo della precarietà. Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità, Milano: Mimesis. Heidegger M., 1976, Essere e Tempo, Milano: Longanesi; [Sein un Zeit, Tubingen: Max Niemeyer, 1927). Jedlovsky P., 2008, Il sapere dell’esperienza. Fra l’abitudine e il dubbio, Roma: Carocci. Leccardi C., 2009, Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell’accelerazione, Bari: Laterza. Marchesi A., Il profilo. Il mestiere dell’educatore, in Palmieri C., Pozzoli B., Rossetti S. A. e Tognetti S. (a cura di), 2010, Pensare e fare tirocinio. Manuale di tirocinio per l’educatore professionale, Milano: FrancoAngeli, pp. 55-72. Marcialis P., Orsenigo J., Prada G. e Faucitano S., 2010, “Ritrovare lo sguardo pedagogico. Uno, nessuno, centomila ruoli per l’educatore”, «Animazione Sociale» 240, febbraio, pp. 20-29. Massa R., 1986, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Milano: Unicopli. Massa R. (a cura di), 1992, La clinica della formazione. Un’esperienza di ricerca, Milano: FrancoAngeli.

Il

lavoro educativo e l’esigenza di averne cura

175

Massa R., 2000, “Tre piste per lavorare entro la crisi educativa”, «Animazione Sociale» 2, febbraio, pp. 60-66. Mortari L., 2003, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma: Carocci. Mortari L., 2006a, La pratica dell’aver cura, Milano: Bruno Mondadori. Mortari L., 2006b, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano, Napoli: Liguori. Mortari L., 2009, Ricercare e riflettere. La formazione del docente professionista, Roma: Carocci. Natoli S., 2010, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Milano: Arnoldo Mondadori. Orsenigo J., 2008, Lo spazio paradossale. Esercizi di filosofia dell’educazione, Milano: Unicopli. Oury F. (a cura di), 1991, Vers une pédagogie institutionnelle?, Vigneux: Matrice. Palmieri C., 2000, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Milano: FrancoAngeli. Palmieri C., 2011, Un’esperienza di cui aver cura… Appunti pedagogici sul fare educazione, Milano: FrancoAngeli. Palmieri C. (a cura di), 2012, Crisi sociale e disagio educativo. Spunti di ricerca pedagogica, Milano: FrancoAngeli. Palmieri C. e Prada G. (a cura di), 2005, La diagnosi educativa. La questione della conoscenza del soggetto nelle pratiche pedagogiche, Milano: FrancoAngeli. Palmieri C. e Prada G., 2008, Non di sola relazione. Per una cura del processo educativo, Milano: Mimesis. Reggio P., 2011, Il quarto sapere. Guida all’apprendimento esperienziale, Roma: Carocci. Riva M. G., 1993, L’abuso educativo. Teoria del trauma e pedagogia, Milano: Unicopli. Tramma S., 2003, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Roma: Carocci. Tramma S., 2009, Che cos’è l’educazione informale, Roma: Carocci. Žižek S., 2004, L’epidemia dell’immaginario, Roma: Meltemi; [The Plagues of Fantasies, London-New York: Verso, 1997]. Žižek S., 2012, Benvenuti in tempi interessanti, Firenze: Ponte Alle Grazie; [Welcome to Interesting Times!, London-New York: Verso Books, 2006]. Zoja L., 2009, La morte del prossimo, Torino, Einaudi.

Capitolo ottavo Pensieri di cura: educatrici ed educatori Alessia Camerella

L’educazione non esiste, ma esistono gli educatori. In carne ed ossa: ed è il loro lavoro che può costruire, allora, un ambito di ricerca scientifica e cioè ciò che fanno, dicono, promettono, disciplinano. I gesti, le parole, gli esempi, le regole, creano ciò che chiamiamo educazione: e, da questi fatti, occorrerebbe allora partire per parlare di scienza. D. Demetrio, Educatori di professione

Le interviste lasciate dalle educatrici e dagli educatori sottolineano in modo indubitabile la centralità del prestare attenzione come pratica di cura nei confronti dei soggetti con i quali operano. È costellata dalle pratiche del cercare di creare un contatto fisico non intrusivo, informare e informarsi, dare regole, creare comunicazione su contenuti significativi, tranquillizzare, contenere i vissuti dell’altro, creare situazioni di agio, responsabilizzare l’altro, aiutare l’altro a comprendersi, mettere in relazione soggetto e società. Tali pratiche danno una grana particolare al prestare attenzione, che si configura in un’apertura a ventaglio rispetto alla dimensione fisica, emotiva, cognitiva e relazionale ossia alla totalità del soggetto e della sua esistenza. L’educatore attento si esprime sia con delicatezza sia con fermezza, cercando di aiutare il soggetto a trovare quell’unica vera unità che è quella che contiene anche tutte le nostre contraddizioni e momenti irrazionali, permettendo alle potenzialità di ognuno disperse “senza forma e riposo, di crescere, di maturare, e di trovare la loro forma in noi”1. Prendersi cura nel quotidiano vuol dire che quando sei con una persona a fare un’attività, fai in modo che la persona possa star bene. Cioè, avere cura vuol dire avere il pensiero e le attenzioni per fare in modo che la persona possa star bene. Quindi: entra una persona in un gruppo nuovo? Sai che comunque 1

E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano: Adelphi, 2012, p. 91; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlem: De Haan, 1981].

178

Fenomenologia

della cura

anche se il gruppo magari è tutto bello, animato, accogliente, però la persona comunque ha un disagio. Lì allora l’attenzione di presentarle le persone che stanno in gruppo, l’attenzione che se c’è magari uno che di là magari urla, di spiegarle dicendo “Guarda che quello là sta urlando ma non ha niente contro nessuno, se ti dà fastidio me lo dici che andiamo”. Oppure ad esempio andiamo a mangiare: andiamo in mensa e se uno è lì che deve scegliere pasta al pomodoro o pasta al ragù e va in crisi, non sa cosa decidere […] Sapere che per lui potrebbe essere una situazione di disagio. Aiutarlo a esprimere una preferenza. […] cercare in tutte le situazioni di avere l’attenzione perché le persone possano star bene. Quindi se io so che il tipo che viene in piscina è autistico e so che se trova la persona con cui è abituato a stare è tranquillo, se ne trova uno nuovo che lo segue o che magari non lo segue da un pezzo, si agita. Quindi aver l’attenzione di spiegargli tutte le cose che fai e avere l’attenzione di dire che uno possa stare a suo agio. Ad esempio oggi abbiamo fatto l’attività dello scrivere. E c’è la persona che non riesce a scrivere bene. E allora si tratta di avere l’attenzione di star lì e aiutarlo a scrivere. Sono cose banali, però sono quelle che aiutano a stare a proprio agio (edu/b_74-78).

Una delle attenzioni maggiori riguarda la ricerca del maggior benessere per la persona. Nel concreto significa rendere familiare l’ambiente al soggetto, presentargli le altre persone coinvolte, spiegargli ciò che succede, aiutarlo nelle scelte e nelle attività proposte. L’attenzione a creare situazioni di agio implica conoscere ciò che può sfavorire tale ricerca, ciò che può essere di ostacolo e affiancarsi anche in ciò che può sembrare banale come la scelta di una pietanza a pranzo o l’aiuto nella scrittura. È innanzitutto “stare lì” ossia vicini e presenti. Il prestare attenzione è immaginato come un tenere le antenne alte e ricettive, cogliendo ogni piccolo segnale, “l’aria che tira”, come un navigante in mare: L’attenzione è aver sempre su le antenne, io poi sono un po’ sensitiva, sensitiva nel senso che sento un po’ nell’aria. Attenzione vuol dire capire in che situazione sei. Capire l’aria che tira (edu/d_224-226) Se tu fai un’ora in più con loro, loro sanno, cioè sono intelligenti, sanno che non è il tuo lavoro e secondo me loro l’apprezzano tanto o il fatto che qualche volta andiamo a casa di qualcuno a bere il caffè, ad esempio dopo il lavoro, comunque tu vai nella sua casa lui si sente importante (edu/c_68). Una persona può accettare tutto, perché con il fatto che la aiuti è disposta ad accettare tante cose. Però l’attenzione maggiore secondo me è quella di aiutare la persona ad avere una considerazione di sé che magari le fai notare che certe cose potrebbe chiederle. Perché a volte anche questa è maturazione (edu/b_28).

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

179

Noi cerchiamo di fare e valorizzare quello che sanno fare. Ad esempio se un ragazzo è esperto di montagna, andiamo in gita, lui ci guida e si cerca i valorizzarlo (edu/c_54). Se dobbiamo andare a fare la spesa e dobbiamo comprare le cose, tu prendi una persona e te la porti via: anche questa è un’attenzione particolare (edu/c_96). L’attenzione. Perché ad esempio se sono a tavola con sette persone, devo essere attenta un po’ a come stanno tutti. Quindi l’attenzione a cogliere come va la giornata e con la dinamicità di rimettersi sempre in situazione (edu/d_220). Un po’ alla globalità nel senso che anche chi vive da solo noi andiamo a vedere se casa sua è pulita, come va magari con il compagno; se c’è chi magari fa pallavolo, non dico che andiamo a vedere la partita, ma ci interessiamo, tifiamo (ed/c_102).

L’attenzione fa sentire l’altro importante, considerato, valorizzato; non omologa, ma è attenta a ogni soggetto nella sua globalità, nelle situazioni diverse che si possono creare ogni giorno. Come si può leggere, gli intervistati ci parlano di un prestare attenzione declinato nei termini della complessità, orientato all’interesse dell’altro, esplicitando il valore che si pone in lui/lei e al suo mondo. L’educatore attento coglie le sfumature che possono mutare a lungo o breve termine, amplia le sue azioni di cura anche oltre il tempo del suo lavoro e anche alle persone significative per il soggetto, come ad esempio i suoi familiari. Direi quasi un prendersi cura della complessità. Perché riuscire a vedere la totalità della persona è fondamentale e ci si perde costantemente, perché si vede solo una parte. Allenarsi a prendersi cura della complessità della faccenda. Perché le cose non sono mai, in questo ambiente non sono mai semplici (edu/a_162-166). È importante trovare comunque delle modalità affinché io conosca questa persona (edu/d_263). Poi la cura della relazione con la madre e quindi ti sei preso cura di due persone e della loro relazione. Poi cura di lui nel suo futuro (edu/b_253). Secondo me fai sentire alla persona che sei interessato a lui. Quindi non è un aver cura in senso stretto, però è un aver cura nel senso di avere un rapporto, esplicitare il fatto che tu ti occupi di lui anche al di là di quello che fa qua (edu/b_212).

180

Fenomenologia

della cura

Con gli utenti credo di essere molto attenta, colgo le sfumature, li studio (edu/d_100).

L’attenzione può essere vista come il risveglio della coscienza che si dirige verso la realtà o un punto di essa, è l’essere umano che si apre a ciò che è dentro di sé e a ciò che gli sta intorno. Per questo può avere molte forme che possono essere complementari2. Secondo Zambrano esercitarsi nell’attenzione è la base di ogni attività ed è il fondamento per vivere3: porre attenzione non è eccedere coprendo l’altro di premure o riempiendo ogni suo spazio, ma esserci in modo sano ed equilibrato e accompagnare l’altro verso l’autonomia4.

Creare un contatto fisico non intrusivo Una declinazione interessante dell’attenzione di educatori e educatrici è quella riguardante il corpo dell’altro sia nell’offrire sia nel ricevere segni d’affetto. La figura educativa riconosce la storia da cui proviene il soggetto, la mancanza di affetto che può aver avuto, le possibili esperienze di violenza; mantiene il suo ruolo di educatore, offrendo allo stesso tempo un contatto rispettoso e accogliente: Con la coccola fisica proprio riesci, lei non ha i genitori e le dai un abbraccio, i bacini, lei li chiede molto i bacini (edu/c_80). …per esempio una botta sulla spalla, qualche sguardo, che so che ho un ruolo molto più preciso. Io a quarant’anni, quando vado al lavoro, penso a come vestirmi (edu/d_140-142). La nudità non è assolutamente un problema, cioè farsi toccare non è un problema; oppure questo bambino, che ha avuto tutte queste violenze, prendersi cura voleva dire anche chiedergli ‘posso aiutarti a vestirti?’ per esempio, che sembrerà una sciocchezza, ma è una cosa molto importante, cioè, ‘posso?’, chiedergli (edu/e_142). Può sicuramente essere un’esigenza affettiva quella nel nostro caso di salirti in braccio, perché loro hanno bisogno di sentire che il contatto c’è, dopo pranzo, 2

M. Zambrano, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti, 2008, pp. 54-56; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007]. 3 Ivi, p. 53. 4 A. Piussi, Sulla fiducia, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli: Liguori, 2002, pp. 130-133.

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

181

in qualsiasi momento della giornata, quando ti chiedono se possono baciarti, questo bisogno affettivo è una cosa molto forte nei bambini perché chiaramente provengono da molte situazioni di privazioni affettive (edu/g_42).

Il contatto parla di coesione, indica la concretezza del toccare con mano, la vicinanza di essere toccati nel cuore, l’empatia verso chi ha incontrato persone “prive di tatto”: “il tatto è quindi originariamente con-tatto, e nella coesistenza ognuno acquisisce il senso della propria consistenza”5.

Informare e informarsi Con questa espressione s’intende quell’atteggiamento dell’educatore che s’interessa sia di come l’altro vive le sue giornate e attività e di quale sia stata la sua storia di vita (in particolare a livello familiare), sia – con movimento all’esterno – di offrire ai familiari o persone di riferimento una serie di informazioni riguardanti il soggetto e ciò che la comunità educativa compie con lui. Anche se la persona non è mai conoscibile del tutto, la conoscenza dell’altro permette di creare un terreno per la crescita della relazione con il soggetto, per allacciare ponti rassicuranti con le famiglie. Prendersi cura è chiedersi come han passato la giornata (edu/d_230). Per me la cura dei familiari vuol dire: uno, sai che ti hanno dato un figlio. O un fratello comunque. E quindi dare le informazioni il più possibile perché loro possano star tranquilli e sappiano quello che tu fai durante l’attività. Questo sì. E quindi dare informazioni (edu/b_276). La conoscenza è fondamentale per aver cura, più la conosci una persona, più ne puoi aver cura (edu/b_228). Per cui il lavoro che faccio io e per questo è molto importante fare una buona valutazione all’inizio è quello di poter, assieme alla persona, una volta appurato che ci sono i requisiti di accedere ad una misura alternativa piuttosto che ad un’altra, valutare bene la motivazione. Cioè il lavoro poi sulla motivazione lo fa prevalentemente lo psicologo, però comunque io posso sicuramente quando penso con lui o con lei una misura alternativa, devo aver molto le idee chiare sulle risorse familiari presenti o meno… su convivenze che erano in corso al momento della carcerazione per cui… ecco. (edu/f_19).

5

D. Bruzzone in V. Iori, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Milano: Guerini, 2006, p. 136.

Fenomenologia

182

della cura

Dare regole È un momento che mi prendo per me per cui penso che non bisogna aver paura di porre proprio delle distinzioni, dei confini perché i bambini comunque li capiscono … Ci sono tutta una serie di regole che servono chiaramente anche per la convivenza, che servono a dare il senso dello spazio, del rispetto di esso, delle cose (scu/g_52-56). A volte per esempio le nostre scelte educative si scontrano con le loro routine, perché se un bambino mi viene qua e mi dice che lui vuole guardare la televisione dopo le undici, eh no! (edu/g_98)

La strada del lavoro educativo è costeggiata da alcuni steccati, che permettono di porgere lo sguardo sul panorama e allo stesso tempo di camminare sul sentiero senza perdersi. Esistono dei “no” che aiutano il bambino o il ragazzo a crescere, imparare il senso positivo del limite per il rispetto proprio e altrui. Diventano paletti importanti per assegnare valore a ciò che lo richiede veramente, esplicitando la motivazione delle scelte. È un’offerta anticipata di orientamento che il giovane poi potrà assumere come stile di vita per scelte future, imparando a formulare o riferirsi a dei criteri e ascoltando figure di riferimento. È un allenamento efficace per la costruzione della propria libertà in senso relazionale e sistemico nei confronti del mondo circostante, affinché la propria personalità cresca nei termini di umanità piena.

Creare comunicazione su contenuti significativi Secondo me il fatto di dire le proprie emozioni è di metterli davanti a una cosa concreta. Perché il non parlato, il non detto, secondo me verso i bambini… già spaventa un adulto secondo me, perché se io vedo un amico, una persona con cui stai bene, e vedi che c’è qualcosa che non va e non te lo dice, già lì secondo me […]. E secondo me con i bambini vale tre volte tanto. Proprio devi dirle le cose, devi esplicitarle (edu/a_256-258). Dopo anni che sei lì puoi dire anche ‘ti voglio bene’ (edu/e_190). Amo le persone, mi piace la comunicazione: mi piace il contatto con le persone, mi piace la differenza dalle persone, la diversità. Mi incuriosisce molto. Credo di essere stata così anche da piccola: poter chiacchierare, ascoltare… la comunicazione, il dialogo è la cosa che io credo di avere sempre amato e forse può essere che faccia parte di me. […] Prima ascolta, ascolta col cuore, ascolta con i sentimenti, prova sul serio a metterti nei panni degli altri, nella

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

183

loro sofferenza, ascolta il bisogno di cui tu parteciperai, una parte del suo bisogno a livello emotivo. Se una persona non è capace di ascoltare con il cuore, con i sentimenti, con amore, io credo che non sia possibile il resto (edu/y_90).

Se il linguaggio è la casa dell’essere6, è comunque sempre in dialogo tra l’esprimersi e il tacere. Al di là della chiacchiera la parola vera può aprire la strada al non detto, creando un clima affettivo in cui insieme ci si può dire, raccontare ciò che attraversa il cuore, affinché possa essere sgonfiato se pesa troppo, ridimensionato se crea inciampo nel cammino, donato se è una perla preziosa cresciuta negli anni dentro di sè. Accanto a ciò l’educatore attento conosce anche l’importanza del silenzio, dell’aspettare il tempo giusto. “Il silenzio, infatti, può accostare una tonalità emotiva rispettandola e contribuendo, con la sola forza della presenza e dell’attesa, a trasformarla”7. Sì, lo esplicito, quando è qualcosa di chiaro e condivisibile e che la persona lo può capire, lo si esplicita sempre. Se non lo si esplicita, è quando la persona evidentemente non è in grado di capire o quando c’è una situazione che è talmente o tesa o comunque non è chiara… allora è meglio non esplicitare, se no quando si può è meglio esplicitare, e in questi casi qua è meglio esplicitare. (edu/b_46).

Il comunicare su contenuti significativi come l’espressione dei propri sentimenti ed emozioni è collegato ad altre pratiche di cura, simili ma maggiormente mirate in particolare a  tranquillizzare Siccome lui aveva gli scatti proprio di nervoso e si nascondeva, oppure graffiava, mordeva, so che le colleghe sono riuscite ad aiutarlo un po’ esplicitando le sue emozioni: ‘ma sei arrabbiato?’, ‘sei triste?’; addirittura a una collega un giorno ha fatto una pantomima, un disastro fuori dal Centro, sulla porta, perché non aveva capito cosa aveva nel sacchetto. Era arrabbiato. Quando la collega è riuscita a capire che lui voleva dirle che aveva la bavaglia sporca, allora lui si è tranquillizzato (edu/a_266).

La pratica del tranquillizzare può attuarsi nel creare un dialogo con il soggetto, favorire l’espressione di ciò che lo anima, capire le motivazioni che stanno dietro a certe tonalità emotive forti. La tranquillità dell’animo

6

M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Milano: Adelphi, 1995; [Brief über den Humanismus, in Platons Lehre von der Wahrheit, Frankfurt a. M.: Klostermann, 1947]. 7 D. Bruzzone in V. Iori, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza cit., p. 149.

Fenomenologia

184

della cura

produce stabilità e si può riconoscere in un andamento regolare e favorevole dell’animo, che diventa propizio a se stesso, guarda con contentezza a ciò che lo concerne e rimane in uno stato di benessere senza particolari sbilanciamenti. È un’attenzione educativa concedere una pausa agli animi, affinché riposati possano progredire con maggior forza e agio8.  contenere i vissuti dell’altro Una via per tranquillizzare è creare uno spazio in cui l’altro possa riversare ciò che lo anima e allo stesso tempo trovare dei confini per non disperdersi del tutto. Contenere i vissuti dell’altro assomiglia a un abbraccio che fa sentire l’altro amabile con tutto ciò che è, mette al centro l’altro, crea possibilità di conoscersi, senza addossargli pregiudizi né annullarlo. La cura attraverso il contenimento favorisce la sicurezza e il benessere sociali, è un lavoro assiduo per portare il soggetto all’accettazione di sé e della sua storia. bisogna cercare di contenere … La cura è il contenimento. Che non si faccia male lui, che non faccia male a te, che non faccia male agli altri della comunità. E anche proteggere gli altri (edu/d_362-364). …comunicargli il fatto che noi rispettiamo il loro sentimento. E fargli magari pian pianino accettare questi genitori (edu/e_34).

 creare situazioni di agio Le situazioni di agio partono dalla vita quotidiana: gli ambienti domestici (la cameretta, la sala da pranzo, le varie stanze), che sono personalizzati per favorire il sentirsi a casa, in famiglia. A ogni bambino viene riservato uno spazio proprio, di cui può aver cura, un luogo particolare che lo identifica e in cui può riporre vestiti, giochi, oggetti... Far sentire bambini e ragazzi a loro agio permette loro di esprimere bisogni, preoccupazioni, paure o problemi (se e quando scelgono di farlo). La comunità si fa porto sicuro, inclusivo, comunicativo e invitante. Pur nelle fatiche quotidiane la figura educativa si fa premurosa, capace di promuovere il raggiungimento degli obiettivi educativi, comunicativa su ciò che è importante per il bambino o ragazzo: “…questo è il tuo armadio, le tue cose, il tuo cassetto…”: è importante. Devono avere qualcosa che è loro, che li identifica… portato da casa. Ogni letto ha i suoi peluche, generalmente. I suoi giochi…, i piccolini hanno il loro 8

Seneca, De tranquillitate animi; [trad. it. Bologna: Clueb, 1981].

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

185

carillon…hanno le loro cose. Siccome hanno arredato le camere tutte uguali, ‘stile albergo’, noi abbiamo messo gli adesivi alle pareti, uno ha l’orsetto, l’altro il gatto…in uno c’è “La Carica dei 101”, nell’altro c’è Pluto che dorme… (edu/a_570-572).

Come si può leggere, una pratica di cura ne richiama un’altra e un’altra ancora: approcciarsi a uno studio delle interviste non è un semplice scomporre i gesti di cura per analizzarli e poi ridare loro un senso, vista la connessione e interdipendenza implicate tra un’azione e l’altra, tra la cura di un aspetto e la cura di un altro. Un obiettivo generale nelle pratiche di cura può essere rintracciato nel favorire il benessere della persona, a livello fisico, psichico-emotivo, relazionale, esistenziale e ambientale. È un lavoro lungo e complesso, pennellato di piccoli e costanti gesti disseminati nell’arco delle giornate. È un’opera di personalizzazione. Dalle fessure dei sentimenti si può aprire un possibile accesso alla vita, nella ricerca di un equilibrio e di una giusta vicinanza-distanza che specialmente all’inizio appaiono sempre un po’ in bilico, nel saper stare nella vulnerabilità portata dall’altro9.

Responsabilizzare l’altro Sì, questo fatto di dargli un ruolo, dargli queste piccole responsabilità: ad esempio c’è questa lettera “è importante, la spedisci tu, ma ricordati!” cioè magari non è una lettera importante però farli sentire grandi, secondo me questa è una cosa bella insomma (edu/c_8). Ma è vero anche che lui deve rispettare gli spazi dell’adulto (edu/g_50). Io invece tendo a fare in modo che la persona impari da sola la strada per andare in comune, per chiedere informazioni, a districarsi nella burocrazia, a risolvere i suoi semplici problemi. Tendo non a sostituirmi alla persona ma a fare in modo che questa impari come fare per risolvere il problema. Proprio per fare in modo che la persona si veda nella situazione, cambiata e possa capire quali possono essere le conseguenze dei suoi comportamenti (edu/v_98). È importantissimo riuscire a fare in modo che la persona trovi da sé delle risposte, cioè sia in grado di dotare se stessa della capacità di far fronte a dei problemi. Sono contraria ad atteggiamenti assistenzialistici (edu/y_45).

9

A. Augelli in V. Iori, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza cit., pp. 247-253.

186

Fenomenologia

della cura

Per educare al senso di responsabilità, il soggetto deve essere cosciente di essere l’origine, la causa della propria azione, che deve essere il risultato di una scelta e non di costrizione esterne. Dal punto di vista degli educatori, Bertolini osserva che aiutare a sviluppare il senso di responsabilità significa innanzitutto creare contesti in cui ciò sia possibile, in cui l’educando possa scegliere, assumendosi le conseguenze di tali scelte. In conseguenza a ciò, l’idea di responsabilità comporta il rendere conto ad altri, oltre che a se stessi, delle proprie azioni e ciò implica l’aspetto sociale dell’azione umana10. Ecco allora che insegnare ad assumersi responsabilità fa parte del proprio diventare uomini e donne, ne è un ingrediente fondamentale, al quale il giovane va allenato secondo l’età, la sua storia e personalità. Significa educare a una libertà nella moderazione11, diventare abili a rispondere a ciò che la vita ci pone come scelte, sapendo rinunciare a quelle scartate e a ciò che non è essenziale, diventando soggetti capaci di allargare lo sguardo a una responsabilità partecipata e attenta anche al benessere altrui. Offrire possibilità di responsabilità fa sentire all’altro di essere presente, valorizzato, che si ha fiducia e stima in lui e lei; significa infine esporsi all’altro per come si è, con i propri bisogni e desideri di essere rispettati e accettati.

Mettere in relazione soggetto e società Si sta molto insieme, questa è anche una nostra caratteristica, nel senso che di solito non è così. Noi abbiamo scelto di fare le pulizie, per legge abbiamo una che ce le fa ogni tanto, però scegliamo di fare le pulizie insieme, perché così siamo un po’ tutti uguali. Ad esempio hanno presentato i giochi sportivi qua, però noi abbiamo deciso di non partecipare perché loro dicevano “gli utenti partecipano, gli operatori no, perché hanno abilità diverse”; invece per noi è stato importante spiegare che noi non partecipavamo: “perché lui deve correre e io no?” (edu/c_20). Cerchiamo che anche i nostri ragazzi – che non sono magari della casa famiglia – però sentano che c’è la comunità. Ad esempio noi a Natale facciamo una messa con tutte le cooperative della comunità, per fare sentire che siamo tutti insieme (edu/c_235). Il pensare insieme con un’altra associazione è già un’azione di cura importante (edu/b_253).

10 11

P. Bertolini, Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, Bologna: Zanichelli, 2008. Seneca, De tranquillitate animi; [trad. it. Bologna: Clueb, 1981].

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

187

Le realtà e comunità educative non sono mondi isolati né solo ponti tra il soggetto e la famiglia, ma fanno parte di un’ampia rete di enti che coinvolgono scuole, servizi medico-sociali, ricreativi e sportivi. Da parte degli operatori si sente lo stimolo verso una prospettiva di armonia e autenticità che faciliti lo scambio di risorse, la riformulazione di stili e modelli e l’arricchimento reciproco. In questa direzione verrà promossa anche la collaborazione tra colleghe e colleghi. La comunicazione all’esterno permette di farsi conoscere, di giustificare alcune attenzioni, progettare insieme, sostenersi, facendo circolare non solo informazioni ma un clima di familiarità e cura per il benessere di ciascun individuo, educando o educatore, familiare o insegnante, operatore o dirigente. Seguendo le indicazioni di Bronfenbrenner, si tratta di mantenere un’attenzione all’interconnessione dei vari elementi, soggetti e dimensioni del sistema di vita del soggetto e delle persone direttamente e indirettamente coinvolte. Lo studioso afferma che “lo sviluppo umano è il processo attraverso il quale l’individuo che cresce acquisisce una concezione dell’ambiente ecologico più estesa, differenziata e valida e diventa motivato e capace di impegnarsi in attività che lo portano a scoprire le caratteristiche di quell’ambiente e ad accettarlo o ristrutturarlo”12; se si assume tale affermazione, allora sarà compito delle educatrici e degli educatori prendersi cura anche del mondo circostante al soggetto, ampliando certamente la complessità, ma insieme anche la ricchezza dell’essere umano, sia esso bambino, ragazzo o adulto. Di solito si supera molto col confronto tra persone. Al di là delle amministrazioni. Quello che fa sperare è che comunque c’è una buona collaborazione con la scuola, con l’istituto comprensivo del territorio c’è una piena collaborazione che è difficile trovare in giro nei servizi di assistenza domiciliare educativa, anche nel nostro territorio. Noi abbiamo una collaborazione buona per quanto riguarda la scuola sia elementare sia materna che media e anche con alcune scuole superiori. Siamo riusciti ad ottenere uno scambio, una collaborazione durante l’anno abbastanza continua. Questo ci permette di avere una qualità dell’intervento molto alta perché si lavora tutti nella stessa direzione, c’è la continua supervisione dello psicologo del consultorio o del neuropsichiatra e un buon rapporto con le famiglie (edu/x_36).

Ascoltare Per ogni persona c’è un modo particolare di prendersi cura, perché ogni persona ha delle peculiarità, degli atteggiamenti, degli stati d’animo, delle caratteristiche e delle storie diverse che necessitano di un modo di prendersi 12

U. Bronfenbrenner, Ecologia dello sviluppo umano, Bologna: Il Mulino, 1986, p. 63.

188

Fenomenologia

della cura

cura ad hoc. Il filo comune è quello di ascoltare le persone per capire i loro reali bisogni e rispondere a queste richieste (edu/z_30). Io sento di avere questa dote dell’ascolto: l’ho imparata, l’ho acquistata ed è la cosa più importante che secondo me devo fare nel mio lavoro. […] Nel mio lavoro è importantissimo l’ascolto (edu/y_45). Nelle adozioni c’è bisogno di tanto ascolto e tanta sensibilità nel senso di avere la capacità di capire veramente quello che sta vivendo la persona che viene a fare una domanda di adozione (edu/v_98).

Ascoltare con sensibilità permette di comprendere veramente quello che l’altro sta vivendo, nelle sue peculiarità e nei suoi bisogni specifici. Nel sentirsi ascoltato il soggetto trova una cassa di risonanza e uno spazio in cui comprendersi, trovare la strada da solo o insieme all’educatore. L’ascolto crea la possibilità di riflettere, conoscere, ponderare i problemi, mostrare ciò che crea disagio: l’educatore che ha a cuore la situazione saprà poi intervenire nel modo più opportuno o prendersi il tempo necessario per cercare l’azione migliore. In conclusione l’aver cura da parte degli educatori mira a creare un cambiamento nell’altro, anche minimo, ma pur sempre improntato alla crescita positiva e armonica del soggetto: Secondo me, riesci a capire se hai dato cura oppure no, dal fatto di riuscire a provocare un cambiamento nell’utente, cambiamento che non è da considerarsi, in questo caso, come un cambiamento grosso, ma come un cambiamento minimo, un modificarsi di una situazione che è negativa, o non del tutto positiva, in una situazione migliore. Riassumendo penso si capisca di aver dato cura quando comprendi di aver soddisfatto i bisogni reali dell’utente che possono essere immediati, come nel caso del neonato, o a lungo termine come nel caso dell’adulto (edu/z_28).

Il prendersi cura è rivolto alla persona nella sua totalità e punta sulla qualità della relazione, in particolare attraverso il dialogo: Per me il concetto di cura è proprio il dedicarmi all’altra persona in modo totale e nella sua totalità, proprio col rapporto umano, con la relazione. Io lavoro e il primo caposaldo del mio lavoro è proprio la relazione, è stabilire un contatto con quella persona e io uso molto il dialogo, uso molto i colloqui con loro, colloqui individuali, liberi. Lavorando con questa relazione sono riuscita a costruire una fiducia incredibile. Loro sanno che in qualsiasi momento io ci sono e il mio concetto di cura è questo: riuscire a stabilire una relazione completa e totale con loro, una fiducia completa e io mi prendo cura di loro in questa maniera… essendoci! (edu/w_66).

Pensieri

di cura: educatrici ed educatori

189

Si tratta di un dialogo ricco di presenza, sensibilità ed empatia; l’educatore mette in azione tutto se stesso nelle sue qualità interiori e nelle sue doti pratiche: Innanzitutto secondo me occorre che una persona ci sia. Occorrono attitudini personali, qualità, caratteristiche della persona. Intendo la capacità di ascoltare, di identificarsi nell’altro, di capire quindi il bisogno dell’altro, anche il suo stato d’animo. È la sensibilità che poi si trasforma anche in azione. Se tu sei sensibile, ti stanno a cuore certe situazioni, hai un certo coinvolgimento. Ed è quella la molla che ti fa lavorare. Ti permette di fare, andare, parlare, interessarti, scrivere, fare la relazione, la telefonata, lavorare cioè per arrivare ad un certo traguardo attraverso una serie di azioni. Lì ci vuole la persona. Una persona con una certa sensibilità, una certa empatia, cioè mettersi nei panni dell’altro. Accanto a questo ovviamente ci vuole anche un sapere agire, in base a determinate metodologie di lavoro. Non lasciare all’istinto o al buon senso delle cose. Pur che ci voglia buona volontà (edu/v_136). Sicuramente riuscire a stabilire un’empatia con un’altra persona, cioè riuscire proprio a sentire il disagio e la felicità degli altri. Questa è una cosa che ho sempre avuto che è una cosa positiva ma anche negativa, perché se da una parte mi permette di immedesimarmi nell’altro, dall’altra parte non mi dà l’obiettività, il giusto distacco che ci vuole per un educatore, nel senso che a volte mi faccio coinvolgere, però penso che sia una cosa che impari con l’esperienza a mettere un po’ le distanze (edu/w_36). Significa metterci sensibilità, anche una parte di affettività. Certo non intendo sposare il lavoro, ma voglio dire che certe volte ci sono situazioni talmente complicate che bisogna voler bene alle persone. Perché se sei una persona fredda, insensibile, molto tecnica, intanto l’altra persona lo sente e quindi fai un buco nell’acqua prima di partire e non arrivi da nessuna parte. È proprio un discorso di sensibilità. Un prendersi a cuore, perché è sì un discorso di cura però è anche prendersi a cuore le altre persone. Cioè averle in testa (edu/v-106).

L’aver cura chiede all’educatore di portare l’altro nella mente e nel cuore, ossia – come dice l’etimologia dei termini – ricordarlo e averlo presente come se fosse un dono. Averle presenti. Averle in testa. Non dimenticarti. […] Ci sono situazioni che vengono perse o rimandate. Anche rapporti non più recuperati (edu/v_108).

Fenomenologia

190

della cura

Bibliografia Piussi A., 2002, Sulla fiducia, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli: Liguori. Bertolini P., 2008, Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, Bologna: Zanichelli. Bronfenbrenner U., 1986, Ecologia dello sviluppo umano, Bologna: Il Mulino. Heidegger M., 1995, Lettera sull’umanesimo, Milano: Adelphi; [Brief über den Humanismus, in Platons Lehre von der Wahrheit, Frankfurt a. M.: Klostermann, 1947]. Hillesum E., 2012, Diario 1941-1943, Milano: Adelphi; [Het verstoorde leven - Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlen: De Haan, 1981]. Iori V., 2006, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Milano: Guerini. Seneca, De tranquillitate animi; [trad. it. Bologna: Clueb, 1981]. Zambrano M., 2008, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007].

Capitolo nono Per una didattica dell’aver cura. La cura per le professionalità educative nei contesti per l’infanzia Lucia Balduzzi

Il presente contributo intende mettere in luce il punto di vista di educatrici ed insegnanti rispetto alla pratica dell’aver cura nei servizi per la prima infanzia. Gli esiti di alcune ricerche empiriche1 dialogheranno con la riflessione teorica attinente al tema, con l’obiettivo di individuare un territorio comune fra le pratiche di cura pensate e realizzate nei servizi e nelle scuole per l’infanzia e la pratica dell’aver cura, quale approccio teorico pedagogicamente fondato, nell’auspicio di fornire utili indicazioni per orientare la progettazione e l’organizzazione didattica in modo consapevole ed intenzionale.

1. Pensare, nella pratica, la pratica della cura; alla ricerca di categorie per la didattica. Per lungo tempo il pensiero pedagogico si è concentrato soprattutto sulle nozioni di educazione e di formazione, relegando la cura ad una posizione marginale quando non ignorandola. Solo recentemente il tema della cura è divenuto un riferimento importante per la riflessione pedagogica ed educativa2, tanto da essere considerata una delle categorie dirimenti della disciplina, per quanto «problematica e dialettica e complessa»3. 1

M. Contini e M. Manini, La cura in educazione, Roma: Carocci, 2007; V. Gherardi, “La cura della professionalità nei servizi per l’infanzia”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http://rpd.cib. unibo.it/article/view/1522/897, 2007; L. Balduzzi, “La cura di cura nelle parole delle educatrici di asilo nido”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http://rpd.cib.unibo.it/article/view/1515, 2007; L. Mortari (a cura di), Dire la pratica. La cultura del fare scuola, Milano: Mondadori, 2010. 2 L. Mortari, Aver cura della vita della mente, Firenze: La Nuova Italia, 2002; C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Milano: Franco Angeli, 2000; R. Fadda, La cura, la forma, il rischio, Milano: Unicopli, 2006b; G. Colombo, E. Cocever e L. Bianchi, Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma: Carocci, 2004. 3 F. Cambi, La cura in pedagogia: una categoria “sotto analisi”, in V. Boffo (a cura di), La cura in pedagogia, Bologna: Clueb, 2006, p.102.

192

Fenomenologia

della cura

Gli elementi di problematicità e complessità si declinano in differenti pratiche educative, che si attualizzano nei diversi contesti educativi e rendono difficile pensare e definire la cura nello specifico dei servizi e delle scuole per l’infanzia. Questa difficoltà nasce in primo luogo dall’ambiguità data dal fatto che i servizi per l’infanzia sono indirizzati a bambine e bambini che, specie nei primi anni di vita, dipendono in modo importante dalle educatrici e dalle insegnanti cui sono affidati. Essi non sono autonomi nella cura, non possono provvedervi da soli, non sono sufficienti a se stessi neppure per le operazioni fondamentali per la loro sopravvivenza come quelle, primarie, legate al nutrimento e all’igiene, al sonno. L’impossibilità per il bambino di compiere le azioni necessarie alla soddisfazione dei propri bisogni primari senza il gesto ed il supporto degli adulti cui è affidato mette educatori ed insegnanti immediatamente dinnanzi alla relazione di dipendenza che lega i bambini a loro, epifania del tratto ontologico della dipendenza-da quale costrutto della condizione umana e, cosa ancora più importante, dell’essenza relazionale dell’esistenza4. La cura irrompe sulla scena educativa come un imperativo esistenziale, con l’irruenza della sua portata pedagogica ed educativa che si fa viva nella pratica, poiché «l’essenza della cura consiste in una pratica in cui creare le condizioni che consentano all’altro di divenire il suo proprio poter essere sviluppando la capacità di aver cura di sé, e questo agire con cura è una risposta al sentire la necessità ontogenetica della cura»5. L’epifania rischia però di stemperare la propria portata pedagogica nella prosaicità dell’atto che la raffigura, sintetizzandola: porgere il biberon, imboccare il bambino magari recalcitrante nel corso dello svezzamento, cambiare un pannolino, calmare un pianto prima del sonno, sono tutti gesti che, se non inseriti in un paradigma più ampio, liquidano queste esperienze di accudimento nel piano dell’impellenza spogliandole della loro portata più ampia che, dal benessere corporeo del bambino, si diffonde al piano relazionale, emozionale, cognitivo, al suo ben-essere in termini complessivi. Il lavoro di cura dunque come professione che espone la relazione con i bambini, soprattutto con i più piccoli, al rischio di una benevola banalizzazione, a mera attenta sorveglianza ed affettuosa custodia, senza che emerga e si delinei un percorso educativo progettato ed intenzionale. 4

L. Mortari, La pratica dell’aver cura, Milano: Mondadori, 2006. L. Mortari, La cura come asse paradigmatico del discorso pedagogico, in V. Boffo (a cura di), La cura in pedagogica, Bologna: Clueb, 2006, p. 72. 5

Per

una didattica dell’aver cura

193

La cura, nei servizi e nelle scuole dell’infanzia, si declina nell’«aver cura», nella cura degli altri6. Possiamo affermare che educatrici ed insegnanti hanno scelto di fare della cura il proprio ambito professionale: hanno scelto di riconoscere i bambini e le bambine come una presenza privilegiata, e non una fra le tante, con cui condividere una parte significativa della propria esistenza. Riferendosi ad Heidegger, Palmieri evidenzia come la cura possa assumere due forme diverse, quasi antitetiche, due modi differenti di espressione: il «sostituire dominando», laddove la relazione prende le forme dell’inautenticità e della strumentalità, e l’«anticipare liberando», forma che restituisce autenticità e spessore alla relazione7. In un caso, ci si prende cura dell’altro sostituendosi a lui, offrendogli soluzioni preconfezionate; nell’altro invece si opera per rendere i soggetti attivi rispetto al loro percorso di crescita e alla loro esistenza: una cura «che ha cura non del mondo dell’altro – banalmente, di ciò di cui l’altro ha bisogno –, ma dell’esistenza dell’altro, del rapporto dell’altro con la sua possibilità di essere solo se stesso, o tradotto in termini pedagogici, della formazione esistenziale dell’altro»8. Mortari si riferisce a queste due modalità utilizzando le diverse locuzioni del «prendersi cura» e «dell’aver cura», evidenziando che se «seguissimo la terminologia heideggeriana, quando si parla di cura nel contesto del mondo umano bisognerebbe utilizzare esclusivamente l’espressione “aver cura”, ma la questione non si risolve in modo così semplice, poiché la cura, in quanto relazione con gli altri, può declinarsi anche nella forma dell’utilizzabile»9. Nei contesti educativi, dunque, non è sufficiente riferirsi al paradigma della cura per indirizzare la relazione educativa verso l’autenticità ed il rispetto del soggetto nella dipendenza, nella mancanza; è necessario declinarlo nella dimensione dell’aver cura piuttosto che del prendersi cura ed indirizzare quello che si delinea come progetto esistenziale e di senso verso la pratica. L’autrice individua alcune componenti, i modi esistentivi o indicatori della cura, che possono qualificare l’aver cura nella pratica in modo adeguatamente buono, di cui i primi tre, l’essere ricettivi nei confronti dell’altro, l’essere capaci di accettarlo e avere la disponibilità a rispondere attivamente ai suoi bisogni, sono, a nostro avviso, particolarmente significativi10. Tali componenti ci sembrano particolarmente rilevanti per identificare l’ossatura di una didattica del6 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano: Longanesi, 1976; [Sein und Zeit, Tübingen: Niemeyer, 1927]. 7 C. Palmieri, La cura educativa cit. 8 Ivi, p. 27. 9 L. Mortari, La cura come asse paradigmatico del discorso pedagogica cit., p. 75. 10 L. Mortari, La pratica dell’aver cura cit.

Fenomenologia

194

della cura

la cura pedagogicamente fondata; cercheremo dunque di riprenderli per quanto sinteticamente. Per Mortari, la ricettività è «la capacità di far posto all’altro: fare posto ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti»11; una capacità che richiede sia una disponibilità a decentrarsi da sé, a creare un “vuoto” dentro si sé che possa essere riempito dall’altro, sia competenze empatiche, perché è il vissuto dell’altro che deve trovare posto in quel vuoto, con un atteggiamento di partecipe attenzione, con uno sguardo che non interpreta e non valuta. Essere ricettivi significa dunque saper creare una dimensione di accoglienza dentro e attorno a sé, che mette l’altro nella condizione di essere per la relazione ma anche di ritirarsi da questa, di interromperla nella consapevolezza che anche questa possibilità è offerta e accettata. Per questo motivo giustamente Mortari ci ricorda che «adottare la postura ricettiva incrementa la vulnerabilità di chi-ha-cura. È per questa ragione che molti considerano un atteggiamento pericoloso. Se tuttavia, nonostante i rischi che comporta, non può essere esclusa dalla relazione di cura, è perché diversamente non ci sarebbe accoglienza dell’altro»12. Nel lavoro con bambini in età prescolare, specie con quelli che frequentano il nido d’infanzia, la ricettività diviene più saliente in relazione al fatto che la disposizione all’accoglienza e all’ascolto si rivolgono ad un altro che non ha parola, o che non l’ha ancora sicura, e che dunque comunica le proprie sensazioni ed i propri bisogni più tramite le voci del corpo che attraverso il linguaggio verbale. Attuare la ricettività introduce la seconda componente dell’essenza dell’aver cura: la responsività, che significa saper rispondere adeguatamente alle richieste e alla presenza dell’altro, mettendo «tra parentesi il proprio sé per accogliere l’appello dell’altro così come si manifesta»13. L’ultima componente è quella della disponibilità cognitiva ed emotiva, che richiama una dimensione non spontaneistica o esclusivamente affettiva dei due elementi esaminati e che contrasta il rischio di un pensare che si fa astrazione, decontestualizzando la cura dalla storicità e dalla situazione specifica vissuta dai soggetti. Oltre alla ricettività, alla responsività, alla disponibilità cognitiva ed emotiva, Mortari indica come altri indicatori della cura l’empatia, l’attenzione, l’ascolto, la passività attiva, la riflessività, il sentire della cura, la competenza tecnica e l’aver cura di sé. Ciascuna di tali voci rappresenta una ricca miniera di spunti di riflessione e di approfondimento per l’individuazione di una didattica della cura fenomenologicamente fondata, fertile in particolar modo per una rifles11 12 13

Ivi, p. 111. Ivi, p. 112. Ivi, p. 113.

Per

una didattica dell’aver cura

195

sione che voglia contestualizzarsi nei servizi per la prima infanzia e che, speriamo, di poter approfondire in altra sede. In questo scritto ci preme invece richiamare i vissuti e le interpretazioni delle insegnanti in merito alla cura educativa, in modo da poter incrociare queste rappresentazioni con i principi pedagogici fin qui esaminati.

2. Quando le insegnanti pensano la cura – itinerari di ricerca per definizioni incerte Ci sembra importante identificare, sul piano didattico, alcune delle categorie più significative del paradigma pedagogico della cura per cercare di comprende come queste si declinino nelle pratiche educative agite nel nido e nella scuola dell’infanzia partendo dall’idea che di esse hanno educatrici ed insegnanti. In tal senso, cercheremo di far dialogare il paradigma della cura con l’analisi di ricerche che si sono occupate sia di rilevare le idee delle insegnanti rispetto all’educazione, al suo ruolo sociale così come relativamente alle buone pratiche e a quelle orientate a raccogliere vissuti professionali e riflessioni relativamente la propria professionalità14. Tutte queste ricerche avevano come paradigma di riferimento la pedagogia della cura o trattavano, più in generale, in rapporto fra cura ed educazione. Gli studi cui si fa riferimento sono in linea di massima ricerche di natura qualitativa, che utilizzano ampiamente metodologie che privilegiano il paradigma narrativo, tramite strumenti quali il focus group e l’intervista in profondità. Manini sottolinea il fatto che, in maniera trasversale, molte ricerche mettono in luce come le parole delle insegnanti si focalizzino attorno a quattro elementi che, pur nelle differenze, si costituiscono come costanti15: 1) la cura si realizza nella reciprocità. Per essere, la cura, come l’educazione, ha bisogno di costruire un ambiente in cui le relazioni sono ingredienti fondamentali e necessari. Non può esserci cura se non fra individui in carne e ossa; che si intessano rapporti individuali o all’interno di gruppi, la relazione non è mai rappresentata in termini unidirezionali ma in una dimensione che privilegia sia l’aspetto del dare all’altro sia quello del ricevere; essa può realizzarsi sia in presenza di un rapporto 14 I testi non sono in realtà molti. Ci si riferisce a tutti quelli già citati in nota 1 del presente contributo. 15 M. Manini, “Pensare la cura”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http://rpd.cib. unibo.it/article/view/1516-2662-1, 2007.

196

Fenomenologia

della cura

asimmetrico (come quello fra insegnanti e bambini) sia in uno in cui prevale la dimensione della simmetria (ad esempio fra insegnanti); 2) la cura richiama una attenzione specifica che non si limita al singolo ma che può riguardare un gruppo; esiste dunque una dimensione sociale della cura che ne limita i rischi di chiusura nell’intimo e nel privatistico; 3) la cura si realizza attraverso una pluralità di occupazioni e di preoccupazioni; 4) la cura si configura soprattutto nella sua dimensione attiva, come pratica dell’aver cura, dunque come metodo: risulta, nella prassi, non tanto significativo ciò che si fa ma come lo si fa. Una ulteriore dimensione che connota la relazione fra una pedagogia della cura e la pratica dell’aver cura in campo educativo consiste nell’individuare nel maternage un riferimento centrale irrinunciabile. In particolare, questa posizione è sviluppata da Cocever e Bianchi16. Cocever, ripercorrendo gli studi di Winnicot sull’influenza dei rapporti madre-neonato sullo sviluppo psichico e sociale degli individui e quelli di Pikler per l’individuazione di una progettualità educativa in assenza delle figura materna , afferma che «la cura è la prosecuzione, l’aggiornamento di quello che avviene fra madre e neonato perché il bambino venga al mondo e il mondo venga al bambino»17 ed è a partire da questo riferimento che è possibile individuare alcuni elementi cruciali necessari alla concettualizzazione ed alla formazione ad abilità tecniche e conoscitive indirizzate a educatori ed insegnanti. In particolare, anche in questa prospettiva, empatia e conoscenza esperienziale divengono concetti chiave per trasformare gli eventi della vita quotidiana in elementi di pensiero utili per queste categorie professionali. A sostegno di tale tesi può essere richiamata anche la teoria dell’attaccamento di Bowlby18 secondo cui la qualità delle relazioni che si instaurano con il caregiver (il più delle volte la madre) andrà a definire i comportamenti relazionali futuri. Processo, quello dell’attaccamento, che si sviluppa nei primi mesi di vita del bambino e che rimane stabile per significatività nei primi tre anni. La teoria dell’attaccamento è particolarmente rilevante nel nostro contesto d’analisi, poiché è uno dei costrutti teorici che hanno influenzato e che continuano ad influire in modo considerevole sulle pratiche educative nei servizi per i più piccoli, in particolar modo nei nidi 16

G. Colombo, E. Cocever e L. Bianchi, Il lavoro di cura cit. Ivi, p. 38 18 J. Bowlby, Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Firenze: Giunti Barbera, 1957; [Soins maternels et santè mentale, Genéve: Organisation Mondiale de la Santé, 1951]; Id., Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Milano: Raffaello Cortina, 1989; [A Secure Based, London: Routledge, 1988]. 17

Per

una didattica dell’aver cura

197

d’infanzia (si pensi, a puro titolo di esempio, alla strutturazione delle pratiche di ambientamento e al ruolo centrale assunto in esse dalla madre). Un ulteriore passaggio nell’analisi della relazione tra cura e maternage viene effettuato da Bianchi, la quale sottolinea che il lavoro di cura professionale «non è un lavoro prettamente femminile, fatto da donne o “da donne”, è un lavoro in continuità con l’opera di una madre. Dire questo vuol dire porre come suo sfondo rappresentazioni, ricordi, criteri e insegnamenti propri dell’ordine simbolico della madre, la relazione con la madre e la qualità di quella relazione come riferimento e guida, ovviamente non per trasferirle tout court ma per conoscerle ed elaborarle nella professionalità»19. Un passaggio importante questo perché sottolinea, come già anticipato da Cocever, il ruolo dell’osservazione, delle conoscenze pratiche e delle pratiche riflessive come elementi chiave sia della formazione delle insegnanti sia della progettazione educativa e didattica, o forse, per meglio dire, nella formazione ad una progettazione educativa e didattica intenzionalmente orientata alla pratica dell’aver cura. La riflessione sugli impliciti, sulle rappresentazioni e sui vissuti legati al tema della cura diventa dunque una sorta di imperativo metodologico e proprio l’analisi delle narrazioni delle insegnanti si fa, in questo senso, particolarmente rilevante per almeno due ordini di ragioni. Prima di tutto, poiché queste permettono di individuare alcune categorie di analisi che, senza pretese di universalità, possono essere utili per leggere e mappare le differenti esperienze personali e le diverse rappresentazioni che si hanno della cura. In questo modo esse possono essere ulteriormente utilizzate, in fase di formazione, come preziosa risorsa di conoscenze e competenze da svilupparsi nella costruzione, e nel sostegno, della propria competenza professionale, sia in fase iniziale sia in sede di formazione in servizio. In seconda istanza, sul piano metodologico, perché raccontare (in forma orale, scritta, …) la propria idea di cura può diventare un modo per far emergere gli impliciti educativi che sottostanno, spesso in modo inconsapevole, al lavoro educativo, incidendo in modo ‘carsico’ sulla progettazione educativa e sulla gestione quotidiana delle relazioni.

3. I racconti dell’aver cura. Metanalisi di pensieri e parole. Per tentare di elaborare, seppur per sommi capi, una didattica della cura, abbiamo continuato con l’analisi degli esiti delle ricerche empiriche svolte 19

G. Colombo, E. Cocever e L. Bianchi, Il lavoro di cura cit., p. 74.

198

Fenomenologia

della cura

negli ultimi anni che hanno avuto come oggetto di studio la riflessione delle insegnanti sulle proprie pratiche, sia richiamando a quelle prodotte con riferimento esplicito alla cura (con diverse declinazioni: cura educativa, cura ed educazione, pratica della cura) sia fuori da questa prospettiva. Ci siamo qui concentrate su come la cura viene rappresentata nell’agito. In primo luogo, l’aver cura viene rappresentato tramite parole che richiamano azioni transitive destinate ai bambini e alle bambine, nel senso più comprensivo e olistico del loro sviluppo: ci si riferisce soprattutto alla dimensione emotiva, morale e sociale e, in modo molto minore, a quella cognitiva20. Le espressioni che ricorrono sia nelle analisi sia nelle citazioni riportate richiamano azioni quali: accogliere, creare un clima positivo di benessere, avere come obiettivo che i bambini stiano bene assieme, comprendere, fare attenzione, entrare in relazione, comunicare. Il rischio di una percezione della cura come atteggiamento onnicomprensivo e assorbente della specificità educativa è forte soprattutto quando non è esplicitato, in termini intenzionali, il passaggio dalla cura tout court alla cura come pratica. La cura infatti si sostanzia non tanto nelle specifiche attività quanto piuttosto in aspetti trasversali a queste e che «colorano una capacità relazionale connotata dalla disponibilità a declinarsi sulle peculiarità presentate dai bambini»21. Particolarità questa che ritroviamo in tutti i servizi educativi, anche in quelli destinati ai più piccoli, contesti nei quali il rischio di slittamento fra cura e cure diviene più forte. La cura può essere intesa, che so, nel momento in cui lo cambi, stai lì, fai due chiacchiere, se è molto piccolo gli fai le coccole sul fasciatoio, se è più grande chiacchieri con lui, gli fai portare un pannolino. Però secondo me cura è anche se tu fai una attività di tutt’altro genere, che so il colore, però rispondi alle sue domande, sei partecipe a quello che lui sta facendo. Questo in qualsiasi attività, secondo me. Cioè, in quel momento tu sei lì, loro stanno facendo delle cose, a loro piace e tu sei lì con loro, per cui intervieni, gli parli... non intervieni in quello che stanno facendo; poi è chiaro, se loro mi richiedono io vado, però non intervengo dicendo: questo di fa così! Loro fanno quello che vogliono. Però tu ci sei, loro colgono il tuo sguardo, secondo me questo è importante per loro22

20

M. Manini, “Pensare la cura” cit. S. Lorenzini, Tra cura e intercultura: la centralità delle relazioni nel punto di vista delle educatrici di nidi d’infanzia, in M. Contini e M. Manini, La cura in educazione, Roma: Carocci, 2007, pp. 154-165. 22 Ivi, p. 157. 21

Per

una didattica dell’aver cura

199

Le definizioni prodotte da insegnanti ed educatrici disegnano un quadro nel quale la cura di declina in quanto attenzione e sostegno allo sviluppo armonico, ascolto attivo di bisogni e richieste, contenimento di ansie e frustrazioni, attenzione tout court verso l’altro, creazioni di contesti in cui stare bene, …, che, sommate, potrebbero costruire il quadro delle finalità educative dei servizi e delle scuole dell’infanzia. Quando insegnanti ed educatrici parlano di cura richiamano, il più delle volte, la dimensione della pratica, e ciò preserva, seppur non completamente, dal rischio dello slittamento da cura ad educazione già richiamato in precedenza. L’appello alle pratiche che emerge ogni qualvolta si tenti di definire la cura ha come particolare conseguenza quella di “storicizzarla” nel qui e ora, in un preciso contesto educativo, con adulti e bambini in carne e ossa, come a dire che di cura si può parlare soprattutto quando riusciamo a rappresentarcela figurandoci gli atteggiamenti che la contraddistinguono (ascoltare, accogliere, contenere, …) senza però che avvenga una loro reale traduzione in comportamenti operativi standardizzati e per questo difficilmente raccontabili in modo univoco e generalizzabile («… per cui intervieni, … gli parli, … loro fanno quello che vogliono. Però tu ci sei»). Si correrebbe il rischio, in caso contrario, di tradurre l’aver cura in un protocollo di tecniche, o anche di buone prassi, che entrerebbero in contraddizione con il principio stesso della cura. Afferma Fadda: la cura non ha mai la struttura del progetto estrinseco, ma precede, fonda e regola ogni progetto educativo perché antepone ad esso la relazione originaria e in prima istanza decontestualizzata, con l’altro, l’accoglienza, l’ascolto, la tutela della differenza che è premessa per la realizzazione dell’uomo come progetto; essa non è mai, riducibile a tecniche consolidate e ripetibili, neutre e asettiche (benché possa comprenderne), perché presuppone coinvolgimento, investimento affettivo, messa in questione di se stessi, delle proprie certezze, dei propri schemi e prospettive, della stessa identità, ossia l’esatto opposto del tecnicismo23.

La pratica della cura si configura così come la “terra di mezzo”, a volte nella sua ambivalenza, tra la dimensione teorica e quella operativa ed il riferimento alle pratiche permette un avvicinamento del piano della riflessione epistemologica e pedagogica a quello della prassi educativa e della didattica.

23

R. Fadda, Il paradigma della cura. Ontologia, antropologia, etica, in V. Boffo (a cura di), La cura in pedagogia, Bologna: Clueb, 2006a, p. 37.

Fenomenologia

200

della cura

Bisogno, responsività e benessere Due ulteriori categorie che emergono in modo diffuso nelle definizioni di cura sono quelle di bisogno e di responsività al bisogno, categorie che riprendono in modo diretto l’approccio teorico della pratica dell’aver cura. Il richiamo all’osservazione e all’accoglienza dei bisogni dell’altro per rispondervi in modo ‘sufficientemente buono’ è spesso presente nei protocolli citati in articoli e report di ricerca. La responsività dell’insegnante e dell’educatore significa essere in grado di cogliere il bisogno dell’altro e dunque rispondervi, richiamando proprio il modello materno, o del maternage cui abbiamo accennato in precedenza, tendendo verso l’autonomia del bambino, non anticipandolo né sostituendosi a lui. Essere responsivi non significa rispondere in modo spontaneistico alle richieste dei bambini ma essere capaci di programmare il proprio intervento educativo mettendo al centro il bambino, quello vero, presente qui e ora, progettando un percorso che tenga conto anche del contesto materiale nel quale la relazione ha effettivamente luogo. Credo che questo passaggio sia particolarmente significativo perché aiuta a preservare dai rischi di ripiegamento sull’individualismo e sull’intimismo di cui più volte il paradigma della cura è stato accusato. Il bisogno non viene letto come mancanza, totale o parziale, degli elementi che costituiscono il benessere della persona, declinato solo nell’ottica della carenza. Riconoscere il bisogno in campo educativo può essere anche letto come la capacità da parte dell’insegnante di identificare il percorso di sviluppo che il bambino sta affrontando per sostenerlo, direttamente o tramite l’organizzazione del contesto educativo (fatto di spazi, tempi, materiali), predisponendo esperienze che vadano a sostenere il percorso, le competenze non ancora completamente realizzate, l’intenzionalità del bambino di agire sulla realtà. È una progettazione dell’aver cura che si traduce nel mettere l’altro nelle condizioni di provvedere da sé ai propri bisogni, rendendolo capace sia di azioni cognitive, come individuare e stabilire criteri di priorità, sia in azioni concrete per soddisfare bisogni e realizzare obiettivi24.

Il concetto di bisogno richiama, come abbiamo visto, sia quello di mancanza sia quello di benessere, utilizzato il più delle volte nella sua accezione più ampia che, ancora una volta, sembra dipendere soprattutto dalla possibilità di predisporre e di realizzare un ambiente ospitale e contenitivo e un clima 24

L. Mortari, La pratica dell’aver cura cit., p. 31.

Per

una didattica dell’aver cura

201

materiale e relazionale accogliente nel quale e attraverso il quale mandare un messaggio di apertura e disponibilità e desiderio di realizzare relazioni basate sulla sensibilità e sulla fiducia. Per cura intendo un’attenzione al bambino, al suo benessere fisico ma anche psicologico. Educare un bambino significa innanzitutto farlo star bene (sicurezza emotiva e rassicurazione affettiva) e da qui poi partire per fargli acquisire una serie di competenze motorie, cognitive, percettive, linguistiche attraverso le attività che noi insegnanti proponiamo sotto forma di gioco; costruire la sua identità e aiutarlo a conquistare l’autonomia. Nel nido l’attenzione ai bisogni del bambino si verifica soprattutto nei momenti di routines (pasto, cambio, sonno, entrata, uscita) in cui c’è un rapporto privilegiato con l’adulto25.

Realizzare il ben-essere del bambino richiede anche il pre-disporsi alla relazione, trovando dentro di sé un atteggiamento e uno stato emotivo che da una lato preparano una reale accoglienza del bambino e dei suoi genitori e, dall’altro, indicano i limiti ed i confini della relazione e preservano da ‘invasioni’ difficilmente gestibili. Ancora una volta, le parole delle educatrici richiamano quelle di Mortari quando afferma che l’analisi fenomenologica delle pratiche di cura permette di individuare, da parte di chi ha cura, due differenti modi di vivere la relazione con l’altro: l’occuparsi e il preoccuparsi. L’occuparsi è il procurare cose necessarie a conservare, riparare, promuovere la qualità della vita senza un investimento personale, come una serie di mansioni da svolgere» mentre il preoccuparsi «è un prendersi a cuore. Quando l’aver cura si declina nella forma del prendersi a cuore, l’altro entra nei tuoi pensieri; comporta, quindi, un forte investimento personale sia sul piano del pensiero, perché si tratta do decidere come avere cura, sia sul piano emotivo per il sensibile coinvolgimento affettivo26.

Il richiamo ai bisogni dei bambini, al loro benessere, tramite il predisporsi alla relazione sembra indicare il trovare uno spazio per incontrare l’altro pre-occupandosene; d’altro canto, le modalità di preoccupazione presentate da insegnanti e educatrici fanno costante riferimento alla necessità di preservare il proprio ruolo e, allo stesso tempo, la propria integrità emotiva.

25 26

L. Balduzzi, “La cura di cura nelle parole delle educatrici di asilo nido” cit., p. 11. L. Mortari, La pratica dell’aver cura cit., p. 43.

202

Fenomenologia

della cura

L’altra faccia del benessere: aver cura del desiderio Una ulteriore considerazione che emerge dalla lettura delle ricerche, ed in particolare dalle citazioni delle parole delle insegnanti e delle educatrici in esse riportate, è la categoria del benessere. Esso non si esaurisce solo in relazione al bisogno, come soddisfazione di una mancanza o anche, nei casi più responsivi, come anticipazione della risposta a possibili mancanze ma si estende nella dimensione del desiderio e della sua cura. Il caso della predisposizione dell’ambiente materiale diviene qui emblematico. Aver cura dell’ambiente materiale risponde a diversi bisogni del bambino: predisponendo gli spazi, l’adulto gli da sicurezza (cioè gli permette di sentirsi più sicuro in uno spazio che manca di familiarità e di punti fermi), gli offre spazi personali (rispondendo al bisogno di individualizzazione a supplire una mancanza di intimità data dalla dimensione comunitaria e gruppale del setting educativo, …). Aver cura dell’ambiente significa però anche predisporre arredi, materiali, in modo che il bambino desideri sperimentare qualcosa di nuovo, di non noto, dunque creare disequilibrio, mancanza. In questa direzione la pratica dell’aver cura va oltre la dimensione del bisogno e si apre a quella del progetto, al desiderio di…, creando una tensione il cui esito e la cui direzione non sempre (fortunatamente) è prevedibile a priori. Non è forse aver cura dei bambini strutturare momenti di gioco, predisporre gli spazi affinché sia possibile non solo effettuare le “attività” ma anche lasciare spazio per il gioco libero, lavorando per il gusto di sperimentare ‘mancanze protette’, ‘disequilibri’, piacere? Manuzzi propone una interessante riflessione in merito partendo dall’analisi di una testimonianza di una insegnante raccolta durante un corso di formazione che mi sembra importante riportare integralmente: Ieri era bel tempo e ho portato i bambini in giardino, dove è stato messo da poco un tunnel; i più vivaci l’hanno subito attraversato, M. invece è rimasta con lo sguardo pensieroso a guardare quel percorso, si capiva bene che per lei era infinito e buio; io, come avevo fatto il giono prima, ho cercato di incoraggiarla e di convincerla a tentare. Niente da fare: rimaneva appoggiata all’albero, ritraendosi su di sé. Nel frattempo è arrivato A. che, tutto eccitato dal nuovo gioco, è entrato e uscito dal tunnel più volte, guardandomi con aria soddisfatta; io gli ho sorriso e battuto le mani, ma quando mi sono girata, ho di nuovo incrociato lo sguardo incerto di M. È a questo punto che, forse contagiata dal gioco appena fatto, mi è venuto da fare delle facce buffe, di strabuzzare gli occhi e di sorriderle, invece che di preoccuparmi. Era come se stessi giocando io stessa, per cui non credo fosse un gesto molto professionale,

Per

una didattica dell’aver cura

203

no? È stato allora che ho visto M. come ammorbidirsi, cambiare espressione e avvicinarsi al tunnel, per entrarci andando verso il mio viso che la aspettava dall’altra parte, sorridente. Ma la cosa curiosa è che io mi ero dimenticata di volerla convincere ad attraversare!27

Commentando il testo, Manuzzi si chiede se l’azione educativa sia presente nella situazione riportata e si risponde in senso positivo, sottolineando però «l’azione educativa certamente c’è, ma per effectum, e non per intentionem»28 laddove sulla professionalità ‘tecnica’ dell’insegnante ha prevalso la capacità di mettersi in gioco, di lasciarsi guidare dal proprio desiderio di essere nella relazione.

4. Cura e professionalità Abbiamo fin qui fatto riferimento soprattutto a ricerche empiriche che si sono occupate di studiare vissuti e rappresentazioni della cura di educatrici ed insegnanti rispetto al proprio ruolo e alle proprie competenze professionali. Il tema della cura è stato visto in stretta relazione a quello della propria identità professionale e, più in generale, della propria professionalità. Per questo motivo ci sembra importante far dialogare la metanalisi degli esiti delle ricerche italiane che hanno come oggetto vissuti e rappresentazioni delle insegnanti rispetto alla relazione fra cura ed educazione con quella degli studi che, dando voce ad educatrici ed insegnanti in ambito nazionale, si sono focalizzate sul tema della professionalità29. In questo settore il numero delle ricerche empiriche è più nutrito, per quanto sempre esiguo nel settore dei servizi 0-6. Dalle ricerche sulla professionalità docente, nelle differenze, emerge un profilo professionale abbastanza condiviso che fatica ad essere letto all’interno di un modello pedagogico preciso. Nella ricerca di Ongari e Molina sulla professionalità delle educatrici di nido d’infanzia, ad esempio, le ricercatrici avevano costruito l’item relativo alle competenze della ‘buona educatrice’ facendo riferimento a differenti modelli pedagogici con l’ipotesi di poter individuare, tramite la risposta delle educatrici, la priorità di un modello 27 P. Manuzzi, Sulla pesantezza e la leggerezza dell’educare, in I. Gamelli (a cura di), I laboratori del corpo, Milano: Cortina, 2009, p. 23. 28 Ivi, p. 24 29 B. Ongari e P. Molina, Il mestiere di educatrice. Un’indagine sulla professionalità degli operatori di nido, Azzano San Paolo: Junior, 1995; A. Lazzari, Reconceptualising professional development in early childhood. A study on teachers’ professionalism carried out in Bologna province, Unpublished PhD thesis, http://amsdottorato.cib.unibo.it/3473/, 2011.

204

Fenomenologia

della cura

sull’altro. Come le stesse autrici affermano, nel corso dell’analisi l’ipotesi iniziale si è rivelata inadeguata poiché le scelte delle educatrici si sono distribuite non all’interno di uno dei modelli da noi individuati, ma in modo da tener conto di un ventaglio di interventi differenziati che concorrono tutti a definire l’operatività concreta dell’educatrice: entrare in relazione con i bambini, predisporre un contesto stimolante dal punto di vista educativo, gestire la relazione con i genitori, rispondere all’amministrazione comunale, …30.

Credo che uno dei fattori principali per cui la professionalità in campo educativo finisce per essere il più delle volte descritta e narrata in modo così nettamente declinato nella pratica dipenda dalla centralità che il vissuto ha in questo campo, sia in termini di esperienza progettata e offerta sia in quanto esperienza effettuata e vissuta: Le descrizioni che gli insegnanti hanno fornito sul loro agire mettono in luce una costante attenzione all’esperienza e al “fare esperienze” nella pratica didattica. L’esperienza è pensata come un luogo di incontro tra fare e pensare, capace di attivare interrogativi, alimentare ipotesi, processi di scoperta e di interazione con la realtà31.

L’incontro fra il pensare e il fare educazione restituisce alla dimensione pratica una densità che emerge, poi, nelle analisi specifiche delle possibili categorie trasversali che risultano dalle differenti ricerche e che fanno riferimento a competenze pedagogiche e didattiche, allo stile educativo (declinato nel sostegno alla socializzazione piuttosto che all’acquisizione di competenze specifiche da parte dei bambini, …), alla capacità di accoglienza anche degli adulti e del sapere lavorare in gruppo. A simili risultati giungono altre ricerche in ambito nazionale32 ma anche internazionale, utilizzando strumenti d’indagine differenti. Nei lavori indicati è possibile rintracciare citazioni di parole di insegnanti che si richiamano e si rinforzano l’un l’altra, e che non sono molto distanti da quelle prodotte quando di analizza il tema della cura. 30

B. Ongari e P. Molina, Il mestiere di educatrice cit., p. 92. L. Mortari (a cura di), Dire la pratica cit., p. 71. 32 R. Faggioli, “Fare esperienza sulla pelle. La formazione di esperienza professionale nei docenti neoassunti di scuola d’infanzia”, «Encyclopaideia» XV, 2011, pp. 67-90; L. Mortari (a cura di), Dire la pratica cit.; M. Schenetti, Vissuti e profili di professionalità: riflettere sul presente, progettare il futuro, in L. Balduzzi e M. Manini (a cura di), Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, 2013, pp. 133-166; C. Panciroli, La formazione nello sviluppo professionale delle insegnanti, in L. Balduzzi e M. Manini (a cura di), Professionalità e servizi per l’infanzia, 2013, pp. 171-200. 31

Per

una didattica dell’aver cura

205

Nello studio di Lazzari33, pubblicato in lingua inglese, sono proprie alcune delle categorie della pratica dell’aver cura (responsività, ascolto, empatia, preoccupazione,…) che sostengono l’analisi e permettono di individuare lo specifico della professionalità docente nella scuola dell’infanzia, come si evince dall’esempio di analisi del testo effettuato in sede d’analisi: Tabella 9.1 BO.01.01 Credo di essere un’insegnante being welcoming accogliente nei confronti dei miei bambini. Sono affettuosa e being warm to the children mi piace giocare con loro, e genuinely enjoying playing with the children soffermarmi a parlare di ciò che taking time to talk to children fanno a casa. about what they do at home Per me l’accoglienza si attua an- being welcoming che e soprattutto attraverso il dialogo con i bambini e dialoguing with children loro percepiscono che tu (inse- being close to children, gnante) sei vicino a loro, che ti interessi di loro being interested to what children have to say e che sono importanti (doppia sotto- valuing children contributions (“making them feel important”) lineatura del soggetto intervistato).

WELCOMING ATTITUDE in the sense of the ethic of care

WELCOMING ATTITUDE in the sense of the ethic of care

Tabella 9.2 Mi piace ascoltarli, capirli,

listening to children to understand them LISTENING ed insieme percorrere tappe di supporting children’s development ATTITUDE in the sense of pedagogy of crescita prendendoli per mano listening quando fanno fatica ad andare avanti da soli. Una caratteristica fondamentale being receptive towards children’s ENGROSSMENT della mia professionalità penso che emotions (active listening) in the sense of the sia la disponibilità ad un ascolto atethic of care (toward tivo che mi permette di avere una children) relazione empatica con i bambini, con gli adulti della scuola being receptive towards collea- ENGROSSMENT gues’ emotions (active listening) in the sense of the ethic of care (toward colleagues)

33

A. Lazzari, Reconceptualising professional development in early childhood cit.

Fenomenologia

206

della cura

Tabella 9.3 STBO.01.01 1) Accoglienza di tutte le persone che fanno parte della comunità scolastica (bambini, genitori, nonni, colleghe, dade-dadi…) 1) perché l’accoglienza aiuta a far sì che si creino buone relazioni Es: mi piace conoscere i nomi non solo dei miei bambini, ma anche delle loro mamme e dei loro papà costruendo un ambiente familiare

welcoming all the people who are part of the school community (children, parents, grandparents, colleagues, auxiliary staff…) establishing good interpersonal relationships through practices of “welcoming” eg. creating a “familiar” environment by learning not only the children’s names but also their parents’

WELCOMING ATTITUDE (towards colleagues, parents and children) in the sense of the ethic of care WELCOMING ATTITUDE (towards colleagues, parents and children) in the sense of the ethic of care – RELATIONAL ETHIC and SCHOOL AS COMMUNITY (radical collegiality?)

Tabella 9.4 FIM.19.01 - la seconda caratteristica è quella del ‘dialogo’.. penso che far parlare i genitori (più che parlare con i genitori), sia fondamentale nel lavoro che svolgo, in quanto se si sentono accolti loro, si sentiranno accolti anche i loro bambini.

being open to dialogue with pa- LISTENING rents (“listen to parents rather than TO PARENTS talking to parents”) welcoming parents to make WELCOMING children feel welcomed in school (parents and children)

Il fatto che sia possibile far risalire alla pedagogia della cura alcune delle categorie centrali per la descrizione e l’analisi delle caratteristiche della professionalità docente si pone in continuità con quanto già evidenziato da Ongari e Molina, ovvero che le insegnanti utilizzano le differenti teorie pedagogiche, ma anche i diversi approcci didattici, come una sorgente da cui attingere in relazione al bisogno. La premessa valoriale che troviamo più diffusa, comune ai differenti contesti di attuazione dei servizi 0-6 (anche caratterizzati da una pluralità di modelli organizzativi e gestionali), è il riconoscimento della centralità del bambino, in senso olistico, cui corrisponde, ad esempio, una prevalenza dei richiami alla pedagogia dell’ascolto o alla pedagogia della cura rispetto a quelli indirizzati ai modelli centrati sulla programmazione o sulla valutazione delle attività. La seconda considerazione è legata alla centralità della relazione sul piano non solo dei contenuti ma anche rispetto alle scelte metodologiche dichiarate (che sarebbe interessante incrociare con quelle agite rispetto alle quali, purtroppo, si hanno ancora meno dati provenienti da ricerche empiriche). Nido e scuola dell’infanzia sono effettivamente vissuti come luoghi di relazione, non solo fra bambini

Per

una didattica dell’aver cura

207

e fra bambini e adulti, ma anche fra adulti. E questo introduce un’ulteriore questione nell’ambito della cura: chi si cura di chi ha cura?

5. La cura di chi cura Insegnanti ed educatrici riconoscono che la fonte di cura più presente e soddisfacente è rappresentata, in prima istanza, dalla collega di sezione o dal gruppo di lavoro ma, allo stesso tempo, che essa dipende in modo significativo da se stesse e dal proprio atteggiamento nei confronti del lavoro. Infine, il sostegno arriva dal coordinamento laddove è presente (ad esempio il supporto della dirigenza nelle scuole statali è vissuto con molto distacco). In ogni caso, in relazione alla cura offerta dalle pedagogiste emergono alcuni forti elementi di criticità34. Ancora la cura può arrivare dai bambini, dai loro genitori o da esperti esterni, come ad esempio dai docenti dei corsi di formazione o da specialisti chiamati per confrontarsi rispetto a particolari esigenze. La formazione in servizio però, laddove presente perché obbligatoria, non rappresenta una grande fonte di cura, a volte neppure di soddisfazione. La prima persona che si prende cura di una insegnante è un’altra insegnante. […] Poi c’è il gruppo di lavoro educativo che si prende cura dell’insegnante, che sostiene obiettivi e progetti su scale più lontane e meno legate alle vicende della quotidianità, è il gruppo di identificazione e di riferimento, ma anche di contrasto, di riflessione. Poi c’è la pedagogista, che si articola in modo diverso: è colei che fa da ‘raccordo’ con l’ufficio, ma raccoglie anche le difficoltà […] Anche i docenti che organizzano e preparano i vari corsi di aggiornamento hanno cura delle insegnanti, nella loro capacità di proporsi da un’ottica diversa, fa ruoli diversi, dalla possibilità di esprimere nuove alternative in vari campi35.

Prendersi cura tra colleghe Insegnanti ed educatrici affermano che la cura è offerta, in primo luogo, dalla collega e dal gruppo di lavoro. 34

V. Gherardi, “La cura della professionalità nei servizi per l’infanzia” cit.; Id., “Il coordinamento pedagogico raccontato dai coordinatori”, «Infanzia» 1, gennaio-febbraio 2012. 35 Ivi, p. 50.

208

Fenomenologia

della cura

Credo che le insegnanti si prendano cura tra loro. Le persone che lavorano all’interno di ogni nido si parlano, si confrontano, discutono, si sostengono tra loro, almeno in questa realtà a causa dei molti servizi e il numero ridotto di pedagogiste36.

Il gruppo che cura è un gruppo che accoglie, stimola, sostiene soprattutto sul piano della condivisione delle responsabilità e delle scelte educative; è un gruppo che si nutre di un clima relazionale positivo, di confidenza e reciprocità, che ciascuna coppia o triade di insegnanti di sezione riesce a creare ‘sotto lo stesso tetto’. La cura non è mai toccata dal conflitto: aver cura di una collega, essere curate dal gruppo di lavoro, preserva da ogni dimensione di dissidio. La cura cessa nel momento in cui compare la divergenza, la contrapposizione, il disaccordo? Pare di sì. Rispetto a questo passaggio bisognerebbe forse interrogarsi poiché se il conflitto non può essere accolto nella cura fra adulte, esso non potrà neppure essere pensato rispetto ai bambini, e sappiamo che in entrambi i casi l’assenza di opposizioni (fosse solo per conquistare ciascuno la propria autonomia) non è né desiderabile né possibile. Tant’è che, tra i testi che ho raccolto in alcune interviste ad insegnanti rispetto al tema dell’accoglienza, l’aspetto del conflitto emerge ripetutamente37 Mi sono sentita ascoltata e rispettata per il lavoro che stavo svolgendo. Nella mia prima esperienza lavorativa sentivo invece solo una grande ansia e gli occhi puntati: l’importante era che svolgessi il lavoro come mi avevano detto di svolgere senza cambiare niente, assolutamente nessuna liberta d’azione e molta apparenza. La scuola era bellissima, ma i contenuti?38 Non e facile essere accolte nelle nuove scuole, dove tu entri e non c’è tempo per te, per conoscere chi ti sta intorno; e chi e vicino a te non ha tempo da spendere con te39.

Questi testi ci sono utili per ripensare il senso della cura offerta dal gruppo e vanno letti più in chiave positiva che negativa. L’idea di un gruppo che accoglie e cura in modo assoluto e totalizzante suggerisce, infatti, un forte rischio di perdita della propria individualità a favore di una identità

36

Ivi, p. 43. L. Balduzzi, Lavoro di gruppo e accoglienza. Strategie per lo sviluppo nella professionalità in campo educativo, in L. Balduzzi e M. Manini (a cura di), Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, 2013, pp. 97-132. 38 Ivi, p. 28. 39 Ivi, p. 17. 37

Per

una didattica dell’aver cura

209

collettiva non autentica, senza che quest’ultima venga realizzata in chiave costruttiva ed in un’ottica di interdipendenza (deviazione fusionale) a scapito della qualità del lavoro nel servizio. Realisticamente, il fatto che il gruppo sia anche un luogo nel quale emergono divergenze, conflittualità, competizione mi sembra restituire ad esso funzioni di confronto e crescita (personale e professionale)40.

Prendersi cura di se stesse L’insegnante si prende cura di se stessa nel momento in cui trova il modo per preservarsi da un lavoro che la coinvolge molto, a volte troppo, specie sul piano emotivo e che rischia di debordare pericolosamente nella sfera personale. Prendersi cura di se stesse può significare, allora, saper cercare e trovare dentro di sé l’equilibrio e la passione che permettono di lavorare con estrema serenità. Penso che la prima cura per le insegnanti debba venire da se stesse, cioè lavorare con passione e disponibilità aiuta a lavorare serenamente41. La prima cura parte da noi stesse, cercare di mantenere un giusto equilibrio emotivo, fisico e psicologico. (Id. 48)

Sia che a prendersi cura di una educatrice o di una insegnante sia un’altra educatrice o un’altra insegnante sia che lo faccia essa stessa, il punto centrale è legato alla fatica di contenere e gestire ‘il proprio equilibrio’, ed in particolare la carica emotiva che accompagna il lavoro educativo, soprattutto quando si ha a che fare con i bambini e le loro famiglie. Le famiglie, in particolare, rappresentano una fonte di fatica importante per le insegnanti, per gli atteggiamenti di delega messi spesso in atto e per le conseguenti alte aspettative, a volte esagerate, nei confronti del servizio. La cura di se stesse può essere messa in relazione con la richiesta di supervisione e di consulenti specializzati, il più delle volte di natura psicologica, o di altre ‘figure esterne competenti’42.

40 L. Balduzzi, “L’accoglienza adulta. Favorire l’incontro tra generazioni e culture professionali”, «Infanzia» 3, 2009, pp. 178-181. 41 Ivi, p. 40. 42 V. Gherardi, “Il coordinamento pedagogico raccontato dai coordinatori” cit.

210

Fenomenologia

della cura

La cura da parte delle pedagogiste Educatrici ed insegnanti riconoscono il coordinamento e la dirigenza come fonte di sostegno e di cura ma accusano queste funzioni di non essere “sufficientemente buone”: esse dichiarano che si sentirebbero più ‘curate’ dal coordinamento se questo dedicasse loro più tempo, soprattutto per la condivisione della vita del servizio. In generale le educatrici affermano di riconoscere le difficoltà operative dei coordinatori che si ritrovano oberati di impegni, soprattutto di natura amministrativa e politica, ma non per questo giustificano quella che loro vivono come una assenza significativa del coordinamento dal ‘campo’, tanto che in alcuni scritti il coordinamento viene rappresentato più come espressione dell’amministrazione, con chiare funzioni di valutazione e controllo, che dei servizi educativi: Vorrei però che mi curasse di più la mia pedagogista, il mio capo-servizio, la mia amministrazione (Id. 46) Personale preparato (pedagogiste) in grado di dare risposte alle nostre domande e dubbi, con incontri piuttosto ravvicinati; capace di far uscire da noi il meglio delle nostre capacità. Negli incontri di gruppo di lavoro sarebbe bello che fosse presente la pedagogista, non solo quando si presentano problemi, ma anche in situazioni ‘normali’43. Desidererei un maggior confronto con il coordinamento pedagogico, a livello individuale, come coppia di sezione e infine come gruppo di lavoro. Mi piacerebbe più presenza all’interno del nido per osservazioni e confronti nell’immediato44. Mi piacerebbe, come insegnante, aver una maggiore cura da parte delle pedagogiste soprattutto in termini di tempo45. Spesso l’insegnante non è realmente curata, ma controllata46.

La richiesta esplicita più presente è quella di ricevere più attenzione da parte del coordinamento pedagogico che si realizza nell’avere tempi e spazi di incontro non solo istituzionalizzati (i collettivi, la gestione, la formazione) ma anche meno strutturati, soprattutto più ‘vicini’ alla quotidianità delle 43

L. Balduzzi, “L’accoglienza adulta. Favorire l’incontro tra generazioni e culture professionali” cit., p. 41. 44 Ivi, p. 43. 45 Ivi, p. 42. 46 Ivi, p. 44.

Per

una didattica dell’aver cura

211

insegnanti. Si chiede non un pedagogista, ma la mia pedagogista, una figura di riferimento stabile e solerte che partecipi, con l’educatrice, alla vita del nido, conoscendone i problemi e le dinamiche ‘dal di dentro’ e non ‘dall’alto’. Da parte delle educatrici viene percepito, forse, un progressivo allontanamento della figura del pedagogista come riferimento educativo e pedagogico. La cura richiesta al coordinamento, l’importanza data dalle educatrici alle colleghe ed al gruppo di lavoro come luogo e strumento primario ed insostituibile di cura richiamano la necessità di ripensare i modelli di coordinamento da un lato e le modalità di realizzazione della collegialità dall’altro, anche in un’ottica di continuità tra i servizi47. La richiesta che emerge in modo forte è quella di tempi e luoghi poco strutturati in cui confrontarsi e discutere problemi educativi ed emergenze contingenti, con un richiamo abbastanza esplicito al modello della supervisione.

6. Considerazioni conclusive Il contributo aveva come obiettivo quello far dialogare il paradigma della pratica della cura con i vissuti e le rappresentazioni che, della cura, hanno insegnanti ed educatrici dei servizi per l’infanzia. Per questo abbiamo cercato di dare voce alle operatrici di scuole e servizi riportando le citazioni estratte da report di ricerca, articoli e studi che, negli ultimi anni, si sono occupati di questo tema. Pur nelle differenze riscontrabili nel materiale analizzato, da mettersi in evidente relazione con le finalità e il settore di ogni studio, è possibile riscontrare alcuni temi traversali, che emergono sul piano empirico, sui quali soffermarci a riflettere.

La cura agita In primo luogo, sul piano epistemologico, per le insegnanti e le educatrici la cura appartiene alla pratica: esse fanno riferimento al come, alle azioni con cui agiscono la cura, a quello che fanno per… prendersi cura del mondo, sia esso rappresentato dagli altri, da se stesse, dalle cose. Si ha cura di qualcuno 47

A. Lazzari e L. Balduzzi, Bruno Ciari and “educational continuity”: The relationship from an Italian perspective, in P. Moss (a cura di), Early Childhood and Compulsory Education: Reconceptualising the Relationship, London: Routledge, 2013.

212

Fenomenologia

della cura

o di qualcosa, attraverso moti intenzionali diretti verso l’altro: quando si osserva, si accoglie, si contiene, si affianca, si supporta, si risponde… Difficilmente, nelle definizioni, si fa riferimento alla cura nella sua dimensione astratta o categoriale. Questa dimensione emerge invece in sede di riflessione sull’esperienza, in spazi e tempi destinati alla condivisione del pensiero, magari originati proprio dal partecipare ad una formazione o ad un progetto di ricerca sui temi della cura in educazione. La proposta, spesso guidata da un formatore o da un ricercatore, aiuta le insegnanti e le educatrici a teorizzare la cura. In questo caso la cura viene rielaborata e restituita nella sua dimensione progettuale, quindi come pro-getto (gettato in avanti) di cura, incontro autentico di esistenze. Il piano dell’azione in realtà rimane, ma non si tratta più di un’azione descritta nel suo essere diretta verso (verso il bambino, l’adulto, l’ambiente che li circonda, …) quanto piuttosto come gettata fuori, (in una trasposizione più vicina alla radice etimologica del termine) che trova la sua origine nella soggettività dell’insegnante e dell’educatrice: diviene un “mettersi in gioco”, uno “far spazio”, un “saper stare” (so-stare) che nutre l’azione, la pratica, di intenzionalità e di autenticità. La cura è veramente pratica dell’aver cura perché non soverchia, non anticipa, non prende il posto: è cura maieutica, che aiuta le potenzialità dell’altro ad emergere, crescere, farsi forte ma allo stesso tempo si radica dentro chi la offre che ne esce arricchito e nutrito. Un nutrimento che affina la professionalità.

Aver cura di sé, del gruppo di lavoro e della propria professionalità Dai diversi contributi rintracciati nella letteratura relativa alle ricerche empiriche la pratica dell’aver cura, per il suo essere così fortemente radicata nella soggettività, sembra oscillare fra due polarità: quella del privatismo e quella della socialità. È infatti nel soggetto che essa si ancora, dal soggetto che prende la forza propulsiva per farsi nella relazione, ma in una relazione si esplicita e proprio per questo supera sempre la deriva solipsistica. È però nel gruppo che si trova, a detta delle insegnanti, il vero supporto e la fonte della propria cura. Sono le altre insegnanti, le colleghe, a volte anche genitori altre il coordinatore pedagogico, che sostengono e si prendono cura di loro, fornendo consigli, sostegno, accogliendo con azioni che hanno la stessa densità di quelle che esse stesse offrono ai bambini loro affidati. La dimensione della collegialità, allora, diviene a sorpresa una ulteriore possibilità della cura che si allontana dal modello del maternage (che invece è più prossimo quando essa è rivolta all’infanzia) e si avvicina maggiormente a quello

Per

una didattica dell’aver cura

213

dell’empowerment. In altri lavori ho affrontato il ruolo dell’accoglienza nel percorso professionale delle insegnanti48 e si rimanda a quei lavori per eventuali approfondimenti. Qui si vuole solo sottolineare la ricchezza formativa del tempo destinato alla cura di sé e delle colleghe sul piano professionale, proprio perché questo è il più delle volte finalizzato ad una co-costruzione collaborativa sia di pensieri (sui bambini, sulle scelte didattiche, sulle decisioni da prendere, sulla soluzione di problemi) sia di un tessuto relazionale e valoriale che coltiva un buon clima lavorativo. Un ultima riflessione è dedicata alla possibilità, nelle ricerche in didattica, di utilizzare le categorie della cura, insieme ad altre che possono emergere da paradigmi affini, per la lettura e l’analisi delle pratiche scolastiche, come nell’esempio proposto nel testo a cura di Mortari49 oppure in quello estratto da Lazzari50. In questo caso, le categorie individuate posso essere utili per costruire un discorso sulle pratiche aperto e problematico che, sfuggendo ad ogni tecnicismo, rivaluta nella didattica la dimensione creativa e generativa.

Riferimenti bibliografici Balduzzi L. e Leonelli S., 2007, Le cure in educazione. Alcuni spunti di riflessione. Infanzia e servizi nella ricerca educativa, Bergamo: Junior, pp. 65-80. Balduzzi L., 2007, “La cura di cura nelle parole delle educatrici di asilo nido”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http://rpd.cib.unibo.it/article/ view/1515. Balduzzi L., 2009, “L’accoglienza adulta. Favorire l’incontro tra generazioni e culture professionali”, «Infanzia» 3, pp. 178-181. Balduzzi L., 2011, “L’accoglienza delle neo-insegnanti come strumento di sviluppo della professionalità”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 6, 1, http://rpd. unibo.it/article/viewFile/2245/1623. Balduzzi L., 2013, Lavoro di gruppo e accoglienza. Strategie per lo sviluppo nella professionalità in campo educativo, in Balduzzi L. e Manini M., (a cura di), 2013, Professionalità e servizi per l’infanzia. Roma: Carocci, pp. 97-132. Boffo V. (a cura di), 2006, La cura in pedagogica, Bologna: Clueb.

48 L. Balduzzi, “L’accoglienza delle neo-insegnanti come strumento di sviluppo della professionalità”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 6, 1, 2011, http://rpd.unibo.it/article/ viewFile/2245/1623. L. Balduzzi, Lavoro di gruppo e accoglienza. Strategie per lo sviluppo nella professionalità in campo educativo, in L. Balduzzi e M. Manini (a cura di), Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, 2013, pp. 97-112. 49 L. Mortari (a cura di), Dire la pratica cit., 2010. 50 A. Lazzari, Reconceptualising professional development in early childhood cit.

214

Fenomenologia

della cura

Bowlby J., 1957, Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Firenze: Giunti Barbera; [Soins maternels et santé mentale, Genéve: Organisation Mondiale de la Santé, 1951]. Bowlby J., 1989, Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Milano: Raffaello Cortina; [A Secure Based, London: Routledge, 1988]. Cambi F., 2006, La cura in pedagogia: una categoria “sotto analisi”, in Boffo V. (a cura di), La cura in pedagogia, Bologna: Clueb, pp. 101-110. Colombo G., Cocever E. e Bianchi L., 2004, Il lavoro di cura. Come si impara, come si insegna, Roma: Carocci. Contini M. e Manini M., 2007, La cura in educazione, Roma: Carocci. Fadda R., 2006, La cura, la forma, il rischio, Milano: Unicopli. Fadda R., 2006a, Il paradigma della cura. Ontologia, antropologia, etica, in Boffo V. (a cura di), La cura in pedagogia, Bologna: Clueb, pp. 17-58. Faggioli R. 2011, “Fare esperienza sulla pelle. La formazione di esperienza professionale nei docenti neoassunti di scuola d’infanzia”, «Encyclopaideia» XV, 29, pp. 67-90. Gherardi V., 2007, “La cura della professionalità nei servizi per l’infanzia”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http://rpd.cib.unibo.it/article/view/1522/897. Gherardi V., 2012, “Il coordinamento pedagogico raccontato dai coordinatori”, «Infanzia» 1, gennaio-febbraio. Heidegger M., 1976, Essere e tempo. Milano: Longanesi; [Sein und Zeit, Tübingen: Niemeyer, 1927]. Lazzari A. e Balduzzi L., 2013, Bruno Ciari and ‘educational continuity’: The relationship from an Italian perspective, in P. Moss (a cura di), Early Childhood and Compulsory Education: Reconceptualising the Relationship, London: Routledge. Lazzari A., Picchio M. e Musatti T., 2013, “Sustaining ECEC quality through continuing professional development: systemic approaches to practitioners’ professionalisation in the Italian context”, «Early Years: An International Research Journal» 33, pp. 2-13. Lazzari A., 2011, Reconceptualising professional development in early childhood. A study on teachers’ professionalism carried out in Bologna province. Unpublished PhD thesis. http://amsdottorato.cib.unibo.it/3473/ Lorenzini S., 2007, Tra cura e intercultura: la centralità delle relazioni nel punto di vista delle educatrici di nidi d’infanzia, in Contini M. e Manini M., 2007, La cura in educazione, Roma: Carocci, pp. 154-165. Manini M., 2007, “Pensare la cura”, «Ricerche di Pedagogia e Didattica» 2, http:// rpd.cib.unibo.it/article/view/1516-2662-1. Manuzzi P., 2009, Sulla pesantezza e la leggerezza dell’educare, in Gamelli I. (a cura di), 2009, I laboratori del corpo, Milano: Cortina. Mortari L., 2002, Aver cura della vita della mente, Firenze: La Nuova Italia. Mortari L., 2006, La pratica dell’aver cura. Milano: Mondadori.

Per

una didattica dell’aver cura

215

Mortari L., 2006, La cura come asse paradigmatico del discorso pedagogico, in Boffo V. (a cura di), La cura in pedagogica, Bologna: Clueb, pp. 59-84. Mortari L., 2007, Cultura della ricerca e pedagogia, Roma: Carocci. Mortari L. (a cura di), 2010, Dire la pratica. La cultura del fare scuola. Milano: Mondadori. Ongari B. e Molina P., 1995, Il mestiere di educatrice. Un’indagine sulla professionalità degli operatori di nido, Azzano San Paolo: Junior. Palmieri C., 2000, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare, Milano: Franco Angeli. Panciroli C., 2013, La formazione nello sviluppo professionale delle insegnanti in Balduzzi L. e Manini M., (a cura di), 2013, Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, pp. 171-200. Schenetti M., 2013, Vissuti e profili di professionalità: riflettere sul presente, progettare il futuro, in Balduzzi L. e Manini, M., (a cura di), 2013, Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, pp. 133-166. Sharmahd N., 2007, La relazione tra educatrici e genitori al nido: aspettative e percezioni reciproche, Tirrenia (Pisa): Del Cerro. Sharmahd, N., 2012, Ricerca educativa e servizi per l’infanzia, Bergamo: Junior. Urban M., Vandenbroeck M., Peeters J., Lazzari A., Van Laere K., 2011, Competence Requirements in Early Childhood Education and Care. CoRe Research Documents, Brussels: European Commission.

Capitolo decimo Pensieri di cura: insegnanti Alessia Camerella

Il rapporto con gli studenti, anzitutto, è un rapporto in cui si offre se stessi agli allievi che cercano, per aiutarli a vedere più chiaro tra le svariate impressioni del cuore e della mente, scoprendo modelli di pensiero e sentimento su cui potranno costruire la loro esistenza. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo

Anche rispetto agli insegnanti emerge con particolare interesse la pratica del prestare attenzione. È accompagnata dal dare regole, creare un contatto fisico non intrusivo, ascoltare, dare tempo alla relazione di costruirsi, tranquillizzare, favorire l’elaborazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni, far pensare e riflettere, creare comunicazione su contenuti significativi, creare situazioni di agio, soddisfare i bisogni, creare routines. Tale complessità trova ragione nel fatto che “la vita non può essere colta in poche formule. […] la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata”1. Attraverso un attento lavoro su di sé e sull’altro l’insegnante adeguatamente buono ricerca la direzione di senso espressa nell’ultima affermazione. Il prestare attenzione è collegato spesso alla valorizzazione dell’altro; si tratta di accorgersi delle piccole sfumature, adottare uno sguardo sistemico, trovare la giusta misura e favorire attivamente il benessere integrale del soggetto: …anche il complimento, qualcosina…: “ah, che bella magliettina che hai! Che belli questi orecchini!”. Oppure i maschietti magari… loro sono meno vanitosi delle bambine quindi magari se vedi qualcosa di nuovo, a me piace notarla. Apprezzo sempre. Poi magari chiedo: “Ma come mai? Ma chi te l’ha regalato? Da dove arriva?” (scu/i_24).

1

E. Hillesum, Diario 1941-1943, Milano: Adelphi, 2012, p. 68; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlem: De Haan, 1981].

Fenomenologia

218

della cura

La valorizzazione del bambino può essere qualsiasi cosa anche piccola… a favore dell’autostima per quanto riguarda certi bambini, perché prima bisogna lavorare su quello perché incide tanto (scu/i_60). Li valorizzi (scu/i_92). Momenti nella giornata che sento forti… il pasto, il sonno, il riposo, le attività quando si fanno le attività, il fatto di poter seguirli, di poter dare una valorizzazione all’impegno che hanno messo al di là del risultato, far passare l’idea che ciascuno dei bambini e delle bambine ha fatto il massimo, si è impegnato per fare al di là del risultato che può essere più o meno apprezzabile oppure coerente con la richiesta (scu/a-64). Quando li motivo, li motivo a cambiare qualche cosa, li valorizzo in una, in qualche cosa che non sono riusciti a fare, la conquista ottenuta, penso che dare valore a questo sia un’azione di cura… sottolineare questi passaggi, sottolineare davanti agli altri, stabilire con loro questa relazione di fiducia che gli voglio bene (scu/c-166-174). In tutto quello che fai, in qualsiasi momento, dall’organizzazione dei tempi, degli spazi, tutto quello che fai nella scuola viene fatto per mettere i bambini a proprio agio, per creare le condizioni affinché il bambino stia bene; poi imparerà a fare delle esperienze, però prima di tutto il bambino deve stare bene, deve vivere felicemente la situazione a scuola quindi sia nel rapporto con te che nel rapporto con l’ambiente, pratichi la cura nell’organizzare tutto affinché il bambino trovi un ambiente positivo intorno a sé qua (scu/b-10).

L’attenzione si fa anche parola, anzi viaggia attraverso la parola. L’insegnante cerca di creare uno spazio tra se stesso/a e i soggetti per una comunicazione senza timore, permettendo ai soggetti e alle singole esperienze di essere in collegamento e così crescere e maturare insieme. Con il linguaggio dell’accettazione e della fiducia, fatto di ascolto silenzioso e attento, l’insegnante può aiutare lo studente a risolvere i suoi problemi e ad avere stima di sé. L’attenzione alla parola e all’ascolto attivo può essere utilizzata per stimolare discussioni di gruppo su argomenti di studio, fronteggiare la resistenza all’apprendimento, aiutare l’altro ad accrescere la capacità di ricorrere alle proprie risorse e risulta una modalità positiva nel dialogo con i genitori2. Infatti i maestri e gli insegnanti sono vicini ai genitori, come tutte

2

T. Gordon, Insegnanti efficaci. Pratiche educative per insegnanti, genitori, studenti, Firenze: Giunti, 1991, p. 96; [Teacher Effectiveness Training, New York: David McKey Company, 1974].

Pensieri

di cura: insegnanti

219

le persone che si prendono cura direttamente del bambino3. Risulta importante che l’insegnante non metta in atto barriere comunicative né rimandi un’immagine negativa degli studenti e tolga ogni forma di etichettamento, svalutazione, minaccia4, per cercare quella parola che apra nuovi orizzonti e faccia fiorire il poter essere dell’altro. “Il maestro ha da essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vivere, la realtà della vita vera. L’azione del maestro può essere chiamata, più esattamente, una conversazione: si muta in attenzione l’iniziale resistenza” che può esserci nelle aule5: Voler bene a loro vuol dire saperli ascoltare, saper saperti dare a loro nel giusto tempo, saper concedere a loro tempo, la tua attenzione e anche qualche no, oppure anche qualche si e qualche no, cioè il dedicare a loro il tempo e l’attenzione che le persone che vogliono bene dedicano alle persone… (scu/b-56).

Dalle parole delle persone intervistate l’attenzione crea uno spazio interiore, nel quale poter attendere e accogliere l’altro, le sue relazioni significative, le sue potenzialità, accettarlo, comprenderlo (senza possederlo), nel tentativo di accompagnarlo verso l’autonomia: Il soggetto che cresce deve affrontare quotidianamente la realtà, a poco a poco da solo: ecco allora che in modo spesso invisibile ma armonioso l’adulto può essere una presenza efficace nell’aiutare questo sviluppo6. Per questo si cerca di soddisfare i suoi bisogni (quelli che promuovono il suo ben essere e quello degli altri). Non si esclude, comunque, che l’insegnante possa modificare il proprio atteggiamento, sviluppando una maggiore tolleranza e una maggiore comprensione di quello che succede allo studente, incoraggiandolo a parlare dei propri valori e delle proprie concezioni7. I bambini chiedono molta attenzione, un rapporto spesso proprio individuale. Ne ho venticinque-ventisei; ho dei bambini che proprio ti continuano a dire “maestra guardami, guarda me, guarda… hai visto me? Guarda me” e questo moltiplicato per venticinque o per quanti sono … Noi organizziamo molto i gruppi, anche nel momento in cui siamo tutti quanti, organizziamo gli spazi nella classe in modo che un gruppetto di bambini abbia una possibilità di gioco, di lavoro, perché sono anche attività simili ma non uguali, possono essere piccoli laboratori sull’acqua, sul taglia e incolla, sulla costruzione di oggetti, oltre che sulle costruzioni, laboratorio logico-matematico ecco e noi 3 M. Zambrano, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti, 2008, p. 168; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007]. 4 T. Gordon, Insegnanti efficaci cit., pp. 88 e 115. 5 M. Zambrano, Per amore e per la libertà cit., p. 119. 6 Ivi, p. 169. 7 T. Gordon, Insegnanti efficaci cit., p. 87.

220

Fenomenologia

della cura

cerchiamo di gestire un po’, però curiamo molto il fatto di farli diventare autonomi in queste cose, possono diversificare, diamo una scelta; ogni mattina i bambini possono scegliere su dei cartelloni che noi abbiamo, fanno la prenotazione dove vogliono andare… dobbiamo dare un po’ di attenzione a tutti (scu/c-72-74-76). Dare importanza anche questi minimi passaggi; a noi bastano piccoli passaggi, piccole conquiste passo dopo passo (scu/d-105-109). Prima di tutto viene la persona dopo di che viene l’apprendimento (scu/f-6). …dovevi proprio dire lui è in classe e devo prestare attenzione, perché era una presenza davvero molto molto discreta, quindi era un lavoro che te lo dovevi fare tu questo lavoro di presa in cura, perché altrimenti lui non chiedeva niente, restava lì, cioè quasi rassegnato. Anche come abitudine, crearti proprio l’abitudine di interpellarlo: “Tu S. cosa dici? Hai un’idea?”, proprio come un allenamento per far sì che fosse presente (scu/h_14-16).

Prestare attenzione diventa anche educare i compagni di classe a prestare attenzione gli uni agli altri: Se qualcuno è assente e sta male, prestiamo attenzione anche se lui non c’è; anche fosse in una situazione di bisogno, una nostra lettera può fare molto piacere, con dei disegni… (scu/f-118).

Quali possono essere gli indicatori di un contesto di cura? A parlare di cura sono gli spazi, i tempi, le relazioni, le sfumature, atteggiamenti di pazienza, creatività, interesse, stima, contenimento e senso del limite: Deve trovare persone che s’interessano a lui, deve capire, deve sentire che le persone che gli stanno intorno sono interessate a lui, gli vogliono bene, lo vogliono vedere crescere bene e per questo gli danno spunti, per questo gli permettono di fare esperienze, gli permettono di provare, gli permettono anche di sbagliare… e che sanno dire no quando è ora di dire no. Quindi è un ambiente che in qualche modo si prende cura del bambino nella sua totalità, dal mangiare al dormire, all’imparare a mettere in ordine, all’imparare a gestirsi i tempi, gli spazi… in tutta la giornata. Quindi secondo me nella scuola i bambini devono trovare delle figure che si prendono cura di lui da quando arriva a quando se ne va (scu/b-38). Cerco di dare… di farli sentire considerati. Il tempo purtroppo è poco (scu/i_8).

La dimensione temporale è nodale ma spesso nel lavoro quotidiano il tempo corre veloce; eppure la cura che ama l’altro e gli altri sa attendere,

Pensieri

di cura: insegnanti

221

anche a lungo e fino all’estremo. Non diventa mai impaziente, non mette fretta a nessuno e non impone nulla. Conta sui tempi lunghi8, su tempi lunghi e distesi, a volte è difficile però ce lo stiamo ponendo, perché altrimenti impazziamo noi e facciamo impazzire anche i bambini, cerchiamo di fare con le nostre forze pian piano dove arriviamo (scu/d-2). …avere attenzione per i dettagli e per le sfumature… sarà l’atteggiamento della fenomenologia, però effettivamente le sfumature non ti devono sfuggire (scu/g_).

Aver cura con attenzione è prendersi cura delle relazioni e degli oggetti significativi per l’allievo: Il bambino vede anche quando io mi prendo cura delle sue cose (scu/d-141). Lavori anche sul gruppo perché il bambino sta bene qua non solo quando sta bene da solo, ma anche quando sta bene nel gruppo (scu/b-70). È importante curare i momenti di socializzazione con loro, facendoli scoprire che sono amici, se si vogliono bene, se hanno atteggiamenti positivi fra di loro, penso che sia importante proprio curare questa socialità, perché ricevono molte stimolazioni negative dalla pubblicità (scu/c-272). Saper capire il perché di certe cose e saper intervenire, senza magari andare lì e sgridarlo in malo modo, può invece essere meglio prenderlo lì e potergli dire “ma ascolta, lo so che tu sei arrabbiato ma queste cose non le devi fare, non ti devi arrabbiare con questa bambina che non ti ha fatto niente”. Anche saper intervenire in modo diverso e non è facile: anch’io, quante volte vado lì e li sgrido, nove volte su dieci. Tante volte non sai ma è per questo che dico che bisogna fare attenzione, c’è sempre un perché (scu/b-136). Aver cura è forse far vedere anche agli altri le piccole conquiste che sono riuscito ad ottenere (scu/f-272).

Tra le relazioni più significative da ricordare nel prestare attenzione ad un soggetto c’è la famiglia: Vedo anche l’appoggio della famiglia, vedo che hanno fiducia anche i genitori (scu/c-240). 8

D. Bonhoeffer, Lettera alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna: Queriniana,1994; [Brautbriefe Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedemeyer 19431945, München: Beck,1992].

222

Fenomenologia

della cura

Anche i genitori hanno fatto sapere questo: lavorando con il bambino, lavori in qualche modo anche con tutta la famiglia, anche perché più tu sei in contatto e in relazione con la famiglia, molto più tu riesci ad avere un rapporto con il bambino; quindi è importantissimo (scu/b-24). Il genitore vuole sapere che affida il bambino a una persona di cui si può fidare e quindi noi diamo molto spazio alla cura contemporaneamente del bambino ma anche del genitore, perché il genitore va curato ancora prima del bambino. In genere facciamo delle riunioni prima di cominciare la scuola, cerchiamo di essere tranquillizzanti, di rassicurarli anche perché a volte hanno tanti dubbi i genitori, bisogna tranquillizzarli. Dobbiamo anche aiutarli a vedere che il loro bambino ha della capacità, ha delle potenzialità, devono aver fiducia anche loro nel loro bambino (scu/d-34-35). Gioca molto anche la relazione con il genitore, che credo passi molto anche attraverso il figlio, perché comunque devi prenderti cura in un certo modo anche [del genitore]… far comunque capire che loro si possono fidare di te (scu/e-34-40). Prima cosa è parlare con le famiglie, avvicinare le famiglie, cercare di essere più delicata possibile quindi anche con la delicatezza…(scu/g_27).

Come si può vedere l’attenzione sensibile è vigile rispetto a ogni piccolo particolare, richiede di offrire tempo per comprendere il modo di essere dell’altro, ciò di cui necessita e ciò che desidera. L’attenzione vera è fatta di concentrazione e trasparenza, interesse sempre aperto per l’altro e contiene una dinamica morale9: si può definire come “la ricettività portata all’estremo, diretta verso un determinato campo della percezione o del pensiero, ovvero diretta verso il mondo esterno o verso il mondo proprio, in modo riflessivo”10. Dalle interviste si può sfatare l’idea che esista un insegnante ideale o coincidente solo con un ruolo: l’insegnante è di più, è caratterizzato da una dimensione umana che nella relazione con l’altro cerca franchezza e trasparenza, autenticità e presenza, considerazione, interdipendenza, rispetto delle reciproche diversità e necessità. L’insegnante che ha cura permette a sé e a ognuno di crescere e svilupparsi nella propria unicità, creatività e individualità11. Inoltre cerca di coltivare la propria base pedagogica, anche

9 M. C. Nussbaum, Love’s Knowledge. Essay on Philosophy and Literature, New York: Oxford University Press, 1990, p. 148. 10 M. Zambrano, Per amore e per la libertà cit., pp. 51-52. 11 T. Gordon, Insegnanti efficaci cit., p. 48.

Pensieri

di cura: insegnanti

223

lungo gli anni, quando la sua esperienza si consolida12; infatti a volte può succedere che l’azione dell’insegnante sia educativa ma non pedagogica, “perché non sempre è in grado di correlare o riferire tutti i suoi interventi ad un disegno forte, chiaro, motivato scientificamente”13. Se s’immagina l’azione educativa e di cura dell’insegnante come un cammino o un viaggio, si possono leggere nelle parole delle persone intervistate alcune pratiche che costellano tale percorso: sono modalità differenti di incarnare il porre attenzione, affinchè l’altro cresca in modo sano, sentendosi ascoltato e guidato, imparando a dialogare con le dimensioni del sé e dell’altro da sé (livello intellettivo, emotivo, pragmatico, sociale, etico e ambientale).

Dare regole Come la persona vive in un corpo, che diventa suo limite e contenimento e allo stesso tempo possibilità di vivere ed esprimersi, così viene sottolineata l’importanza di dare regole di comportamento in cui s’innestino positivamente la libertà personale, le dimensioni pubblica e civile, valori quali l’uguaglianza e il rispetto. Il dare regole tocca la sfera relazionale sia nei confronti di se stessi sia nei confronti degli altri: imparare a discernere che non tutto è lecito e che esiste una gamma di azioni a favore o sfavore delle persone e dell’ambiente contribuisce a maturare il senso di responsabilità e la concentrazione su ciò per cui vale la pena spendersi. In questo modo il bambino impara ad acquisire il gusto per il buono, il bello, il giusto; conoscere ciò che gli piace e ciò che piace agli altri, riflettendo sulle esperienze che vive piuttosto che viverne molteplici senza attribuzione di senso. L’importanza del dare regole ai bambini avviene motivandole, condividendole, vivendole anche in modo ludico sotto forma di gioco, non tanto con autorità ma con quell’autorevolezza che fa dell’insegnante non solo un ruolo nell’apprendimento, ma una figura di riferimento e di guida. In questo processo si sente l’importanza del coinvolgimento della famiglia: l’insegnante ha la consapevolezza dei propri limiti e della limitata efficacia del suo lavoro se la famiglia non si pone a fianco orientando l’educazione del figlio nella stessa prospettiva. È la famiglia il primo nucleo vitale per l’educazione. Perciò l’educare alle regole è rivolto sia ai bambini sia agli adulti. 12

M. Cannao, Problemi emozionali nel rapporto educativo, Brescia: La Scuola, 1989, pp. 123-124. P. Bertolini, La città: un oggetto pedagogico?, in M. Gennari (a cura di), La città educante, Genova: Sagep, 1989, p. 46. 13

224

Fenomenologia

della cura

Hanno bisogno di essere contenuti i bambini nell’euforia, nell’agitazione hanno bisogno dei punti di riferimento, sapere che fino lì possono andare e là no, se stanno esagerando; l’adulto lo deve fare, è lì apposta, è il suo compito […] C’è un sì e un no, il sì e si spiega perché, il no e si spiega perché, non si può fare tutto in ogni momento perché c’è la libertà personale che va a incontrare la libertà dell’altro, allora quando lo spazio di libertà personale va a intaccare quella dell’altro io non posso non intervenire perché le regole in un ambiente pubblico sono uguali per tutti (scu-a/86-88). Condividiamo le regole, le motiviamo sempre dicendo il perché, non è perché la maestra dice così, perché è un dittatore, ma c’è una motivazione che riguarda un po’ la nostra organizzazione, dando valore alle scelte che si fanno… comunicandoglielo (scu/c-214). Sei una figura dalla quale chiedono autorevolezza, chiedono anche rispetto della regola, chiedono che ci sia l’insegnante che stabilisce per loro, è importante il mondo della legge, l’insegnante diventa proprio la figura che, se c’è lei, si sa che le cose devono andare in un certo modo e in questo modo tutto funziona perché i bambini hanno bisogno anche di questi contenimenti, di questi limiti che non sono delle storpiature, però gli danno la possibilità di sapere che sono concentrati su qualche cosa, su come comportarsi, ecco anche con i genitori a volte abbiamo bisogno di dire questo perché vediamo dei bambini che non hanno limiti, che sono confusi, che provano di tutto senza sapere che cosa gli piace (scu/c-290). Noi abbiamo le regole di un personaggio (si chiama Regoleone, che era il personaggio di un progetto di molto tempo fa) che ha tre regole importanti: uno non far male a nessuno; due gioco mio gioco tuo, quindi vuol dire io ho il mio gioco e tu il tuo, ci rispettiamo; la terza di giocare insieme, un due tre gioca insieme a me. Sono piccole cose, ma loro sanno quali, sono importantissime il non far male a nessuno, non farsi male in realtà, stare attenti a non farsi male e rispettare i materiali sia della scuola che dei compagni, non si distrugge ma si chiede permesso, loro hanno un cassettino, ogni bambino ha il suo cassetto, è la sua proprietà privata, il loro spazio, nessuno può aprirlo, solo lui può aprirlo altrimenti si chiede il permesso per aprirlo e a volte succede, capita che magari ci sono giornate in cui il cambiamento del tempo, c’è un bambino che ha una certa agitazione; allora dico “bambini, un due tre attenzione”, dobbiamo introdurre delle rime, attenzione conversazione, io non voglio gridare, non mi piace gridare (scu/d-81-84).

“Non mi piace gridare” è stato detto: in effetti il grido è un aumento di voce che supera i suoi confini, perciò se parliamo di contenimento il rivolgersi efficace all’altro non richiederebbe i toni alti. Certamente questo

Pensieri

di cura: insegnanti

225

non esclude che la voce si faccia presente, decisa, anche nella sua capacità di poter ammonire, mai per svalorizzare la persona, ma a scopo pedagogico di farle capire l’esito delle sue azioni. Gridare non è sgridare. Quando spiego voglio che stiano fermi e zitti, in silenzio, che ascoltino. Io li sgrido. Li sgrido se manca il materiale. Sono superficiali tante volte in queste cose (scu/i_32). “Vi sgridiamo, perché ci teniamo a voi, per farvi capire che…”: sapere guidarli un attimo e fargli capire che le nostre parole sono solo per il loro bene, per fargli capire cosa hanno fatto, cosa sarebbe meglio non fare… Perché io mi pongo sempre dopo rispetto alla famiglia, nel senso che affianco, cerco di non contrappormi, però io dico principalmente che è la famiglia che deve trasmettere, deve educare (scu/i_38).

La presenza di regole è a servizio del “fare bene insieme”: le norme vengono ripetute più volte e aiutano a gestire le relazioni interpersonali (in particolare in situazioni di tensione), cercano di formare il futuro cittadino. Un’immagine ricorrente è quella di vedere le regole come “paletti”: come questi in campagna delimitano e valorizzano il proprium di un’area, sulla strada aiutano a guidare, sulle coste riparano dalle onde, così nella vita quotidiana le norme fissano dei riferimenti a cui appellarsi e tendere per un maggior benessere proprio e della comunità. Un aspetto importante è che non solo creano ordine dentro di sé, ma hanno un effetto socialecomunitario. La classe – in questo caso – diventa una piccola polis. Le relazioni a volte sono anche costellate da tanti conflitti e da bambini che magari si picchiano: a scuola ci sono delle regole per far bene insieme (scu/e-180-184-188). Come in ogni comunità, ci sono delle regole chiare che devono essere rispettate e se non vengono rispettate possono scattare anche delle sanzioni, che sono condivise nel gruppo classe. La classe ha le sue regole, che pure sono condivise perché arriviamo insieme alle regole, le scriviamo insieme e regolano la nostra comunità, sono le regole del vivere civile, vengono rievocate ogni giorno, più volte al giorno, se le portano dietro dalla materna, continuano poi alle medie, continuano sempre e stanno dentro di loro, regoleranno il loro agire, sono le regole della convivenza civile ed è importante mettere questi paletti da subito, dal momento in cui entrano per la prima volta in classe… sapere che ci saranno delle regole (scu/g_70).

Libertà non è assenza di costrizioni o possibilità di scegliere tutto tra infinite chance. Si tratta invece di un’educazione al desiderio, all’esercizio

226

Fenomenologia

della cura

della volontà, all’amore: nell’amare l’ordine del mondo si può trovare l’unica libertà e liberazione14. L’insegnante impara a trovare “il modo giusto per andare incontro” a ogni persona, rispettandone l’unicità. Certamente richiede un dispendio di energie non indifferente, tempi lunghi e la capacità di gestire il singolo individuo contemporaneamente agli altri compagni di classe presenti. Se vi sono soggetti con difficoltà o diversamente abili un elemento decisivo è rendere partecipi anche loro di ciò che si vive, alleandosi con le loro parti sane, facendo leva su di esse, con uno sguardo che va oltre, in proporzione al poter essere dell’altro. I paletti vanno messi perché solo così il bambino capisce, costruisce la sua identità, capisce che non è tutto lecito e non è sempre facile, in gruppo magari hai due o tre che ti tolgono il respiro, è un lavoro molto faticoso con un dispendio di energie psicologiche, perché trovare sempre il modo giusto per andare incontro ad ogni tipo… ad esempio nel caso dell’aggressività, tu poi devi capire quello aggressivo e quello che ha subìto che piange e nel frattempo ne hai altri otto e la cura lì… cerchi di garantirla ma non è sempre facile, come fai? Certe volte li sgridi (scu/t_136). Gioco molto sul fatto della regola … Se ci sono bambini che hanno un handicap, è adeguata al problema del bambino, ma per me c’è, la regola c’è anche per lui. Ma io mi alleo con le parti sane del bambino, non con la parte malata … se c’è la regola di raccogliere, raccogli anche tu. Io ti aiuto. Ad esempio bambini che hanno difficoltà, io comincio dal tenergli la sua mano e insieme… quindi è molto lento, molto lungo… (scu/n_43).

Insegnare l’esistenza e la pratica di alcune regole significa rispettare il bambino; anzi, a discapito di quanto si potrebbe pensare, è il bambino stesso che le ricerca e le chiede: Rispettare il bambino significa anche dargli degli insegnamenti, anche quello di dare dei paletti al bambino è una forma di rispetto. Prendersi cura del bambino significa anche creare la stanza giusta, creare il modo giusto, però anche creargli i divieti che gli indichino fino a che punto può arrivare (scu/o_190). Sono le regole che tutte, chi più chi meno, devono imporre al bambino, per un quieto vivere, perché se non riesci a gestire il gruppo... è questa una forma di cura. Secondo me cura significa anche pensare alla loro educazione … Il 14

S. Weil, Quaderni IV, (a cura di G. Gaeta), Milano: Adelphi, 1988, p. 180; [Cahiers. La connaissance surnaturelle, Paris: Gallimard, c1994-c2006].

Pensieri

di cura: insegnanti

227

bambino si trova bene nelle regole. Cioè il bambino è alla ricerca di regole e limiti (scu/p_136 e 148). Io, nonostante voglia bene a tutti, li sgrido anche molto. Non passi che, poiché gli si vuole bene, si lascia fare tutto. Perché i bambini chiedono la legge, la legge è importante e noi dobbiamo essere assolutamente autorevoli dobbiamo essere… io ci credo. E anche mi arrabbio con i bambini (scu/q_252-256). L’allontanamento è il castigo peggiore, metterlo da solo, a pensare, l’allontanamento dal gruppo è il castigo peggiore (scu/q_272-275).

Creare un contatto fisico non intrusivo I bambini quando arrivano, fanno il pieno di coccole, un abbraccio, chi lo esprime in un modo o nell’altro ma un rapporto fisico che fanno il pieno e poi vanno a fare le loro cose, quindi è anche una questione di accettare questa loro esigenza di un contatto fisico e anche di essere guardati mentre fanno una cosa particolare: “mi guardi? guardi cosa sto facendo?”; è una attenzione, perché comunque è una cura nel senso che è un rimando che dai alla personalità del minore, del bimbo, perché è chiaro che poi questa richiesta ti viene fatta contemporaneamente magari da più persone e ci vuole una disponibilità a dare un piccolo spazio, un piccolo tempo, un riguardo a quelli che te lo chiedono insomma (scu/a-10).

Il contatto fisico nella forma della carezza, della coccola, del massaggio o dell’abbraccio – nella giusta misura – sono considerate forme di cura come offerta gratuita di tempo all’altro, rimando alla personalità del soggetto, favorendo uno stato d’animo rilassato e facendogli sentire modi di cura e attenzione che potrà imparare a sua volta. L’insegnante si abbassa, si fa vicino/a al bambino per non incutere timore, per poter guardarsi negli occhi. Nel momento del rilassamento li facciamo massaggiare a coppia, per noi è una pratica normale quella di accarezzare i bambini sulla schiena per aiutarli a rilassarsi: rimarrà questo atteggiamento di attenzione anche dopo, sono loro che iniziano a massaggiarsi uno con l’altro, poi fanno cambio (scu/b-80-82). Penso al periodo di ambientamento dei piccolini come questo aver cura sia più nel senso fisico, hanno bisogno di coccole, di tenerezza, del fatto che gli allunghi la mano per accoglierli quando si staccano dalla mamma o dal papà con difficoltà. Con un sorriso … mi abbasso, io mi abbasso molto vicino a loro perché non tutti accettano subito di essere presi in braccio subito, anche per certe mamme non è così, alcune vorrebbero proprio dartelo in braccio (scu/c-46-48).

228

Fenomenologia

della cura

A loro basta sentire a volte la mano, basta la schiena: io ho scoperto che se un bambino piange, io mi siedo vicino a lui, me lo metto vicino ma non in braccio, gli accarezzo la schiena; ha come un effetto rilassante perché io non penso che il bambino ama molto essere troppo manipolato, gli piace essere accolto, basta un sorriso (scu/d-105). C’è chi dice, Lévinas, che quando tu sei capace di accoglienza nei confronti dell’altro, l’accoglienza è l’attenzione e lo sguardo al volto dell’altro; la carezza è quella che non cerca niente, la carezza di chi vuole bene non cerca, proprio segue l’andamento del volto dell’altro (scu/d-146). Questa disponibilità ad esempio a prenderli in braccio oppure a coccolarli, io credo che sia molto importante (scu/e-18). Ogni tanto la coccolavo, l’accarezzavo e io tendo ad abbassarmi al loro livello, nel senso che secondo me l’autorità può fare anche tanto, tanto timore, mi abbasso così ci possiamo guardare a livello degli occhi (scu/f-8). Mi piace anche toccarli, accarezzarli, prenderli per mano… magari bambini che hanno particolari situazioni familiari, cerco anche tanto il contatto… (scu/i_6). Dopo c’è sia chi è disabituato, magari ne riceve poco a casa e non apprezza e chi comunque ne riceve poco, però comunque lo ricerca (scu/i_26).

Accarezzare o coccolare l’altro indicano delicatezza e rispetto, fanno sentire vicinanza fisica ma anche emotiva, donano all’altro la possibilità di conoscersi e conoscere, percepirsi come corpo, custodire e fare memoria di tali esperienze di cura dentro di sé. Ad esempio sul fasciatoio: quando c’è un contatto più intimo, gli cambi il pannolino, gli fai il solletico e lui si percepisce come corpo… (scu/t_96). Praticavo il massaggio indiano, facevo tutte queste tecniche di effetto cucciolata… anziché metterli sul fasciatolo, sì cambiarli e tutto, e poi metterli sulle gambe e proprio con la crema, con l’olio massaggiare, toccarli. Fare esperienza di toccarli guardandoli negli occhi, parlandogli, canticchiandogli, vis-a-vis con i bambini, ma soprattutto per me è importante… io penso che lavoro molto sui sensi, sul sensoriale… La pelle è l’organo di senso privilegiato e secondo me la pelle ha memoria e quindi ha memoria di queste prime esperienze che tu fai, il modo come sei toccato, il piacere che tu sei toccato, secondo me lascia tracce e serve anche al bambino per autopercepirsi … Per me è rispetto. Questa è l’attenzione, prendersi cura. Non è solo cambiargli il pannolino, è come glielo cambi. … Il momento del cambio lo voglio fare io. In momenti così intimi il bambino si deve abituare gradualmente ad altre mani, dev’esser maneggiato

Pensieri

di cura: insegnanti

229

il meno possibile da mani sconosciute. Quindi dobbiamo conoscerci e l’unico modo che abbiamo per conoscerci è quello che lui tocchi me e io mi faccio toccare, ecco perché dico che io ho un impermeabile pieno di buchi… Dicono che è come dal fisioterapeuta che ti devi infilare l’impermeabile… purtroppo il mio impermeabile è pieno di buchi, perché mi vanno dentro da tutte le parti e, lo so, mi dicono che è sbagliato però… ma sarà che son tanti anni che lavoro, ma a me piace non avere la corazza e molti hanno la corazza purtroppo… e quindi mi faccio anche toccare, proprio anche la pelle così… perché penso che ha lo stesso diritto che ho io questo bambino (scu/n_27-29). …le cure fisiche, il fatto di accarezzarlo, di tenerlo in braccio, di fargli sentire che ci sei fisicamente, ma anche emotivamente. Comunque capisci il suo disagio e lo tieni in braccio Se tu lo tieni in braccio con una certa decisione e fermezza, il bambino lo nota, nota sicurezza da parte dell’educatrice, si tranquillizza (scu/p_78-82). Non voleva lasciare la mamma, allora le ho detto ‘dai’, voleva ancora coccole, voleva ancora le coccole dalla mamma, allora le ho detto ‘Dai che adesso te le faccio io le coccole’ e allora è venuta da me (scu/q_36).

Essendo la persona composta d’anima e di corpo, è opportuno disporre di esperienze nel settore sia materiale sia spirituale: esercitare la saggezza nelle cose che cadono sotto gli occhi aiuta poi a conoscere quelle invisibili, interiori, della mente e del cuore15.

Ascoltare Prendersi cura vuol dire proprio ascoltarli (scu/e-16). I bambini hanno una grande voglia di essere proprio ascoltati (scu/e-66).

Ascoltare è una delle pratiche maggiormente messe in diretto collegamento con la cura. Ascoltare implica dedicare un tempo rivolto all’altro accogliendo ciò che ci porta attraverso le sue parole, richiede fermarsi e concentrare un’attenzione ricettiva sul soggetto. Quando questo non è pienamente possibile (per mancanza di tempo o per conseguire altre importanti azioni in atto), l’insegnante però se ne ricorda e riserva in particolari momenti della giornata uno spazio particolare. L’insegnante può diventare un punto di riferimento e di aiuto: maggiore è la comunicazione, migliore può 15

Ignazio di Antiochia, Lettera a Policarpo; [trad. it. a cura di G. De Capitani, Milano: Mimep-Docete, 1996].

230

Fenomenologia

della cura

diventare la relazione, la conoscenza interpersonale, il benessere nel vivere fasi ed episodi di vita personale, familiare o scolastica. Ascoltandoli, io ascolto tantissimo quello che mi raccontano, le loro perplessità; ascolto nel fermarmi quando loro hanno bisogno di dirmi delle cose oppure quando mi raccontano anche in altri momenti che potrebbero essere l’intervallo oppure alla mattina quando arriviamo subito, io mi fermo per ascoltarli (scu/f-14). Cerco di dare ascolto sempre a tutti quanti (scu/i_6). Ascoltare anche tanto i bambini, partire sempre da loro, dalle loro esigenze, ascoltarli, tenerli sempre tanto in considerazione per tutto quello che hanno da dire… anche quello che fanno… aiutarli nei momenti di difficoltà… diventare anche un riferimento se hanno bisogno di sfogarsi (scu/i_88). Il momento di cura è saperli ascoltare (scu/p_332). Fondamentale è l’ascoltarsi. E quindi il fatto di noi lo facciamo molto nel primo periodo dell’anno, poi lo lasciamo un po’ perdere, dico la verità, però il fatto di lasciare che i bambini parlino molto delle cose che fanno a casa. Perché li aiuta a conoscersi fra di loro oppure si conoscono cose diverse del bambino, o che è stato male, o che… c’è una relazione affettiva verso questo bambino, c’è una comprensione: io ti ascolto, so come vivi, ti conosco di più e poi facilito anche l’empatia fondamentalmente (scu/q_88-90).

Dare tempo alla relazione di costruirsi È stato accennato in varie pratiche di cura l’importanza della dimensione temporale, sia nel senso di riservare spazi di tempo per l’altro (come nell’ascoltare) sia nel concedere il tempo necessario affinché l’altro maturi e impari (ad esempio nell’insegnamento di regole). Il tempo è ciò che costituisce la nostra esistenza, dispiegandosi in un continuo fluire tra passato, presente e futuro: considerare la dimensione temporale è prendersi cura del senso e del significato del nostro esistere16. Le relazioni hanno bisogno di tempo per costruirsi, consolidarsi, diventare vere: per creare legami c’è bisogno di pazienza, costanza, piccoli passi; è il tempo dedicato all’altro a rendere l’altro importante17. Il tempo della cura è fatto di progressiva conoscenza, 16

L. Mortari, Aver cura di sè, Milano: Mondadori, 2009. A. de Saint-Exupery, Il piccolo principe, Milano: Bompiani, 2005; [Le petit prince, Paris: Gallimard, c1946]. 17

Pensieri

di cura: insegnanti

231

dialogo, attesa, incoraggiamento e insieme accettazione, collaborazione con il soggetto e con la sua famiglia, accoglienza e interesse, accompagnamento e gradualità. Fa parte del nostro lavoro quello di voler vedere dei risultati positivi nei bambini, a volte non sempre vengono, a volte forse devi mettere in conto che probabilmente arriveranno, che forse ci vuole più tempo, che forse quel bambino non è ancora pronto per questo, magari non è detto che tutte queste cose tutti le possano, le debbano ottenere allo stesso modo, anche questo accettare le diversità (scu/c-242). È importante che non lo copri di troppo dover essere, bisogna lasciare anche un tempo di maturazione (scu/c-248). Si discute, anche insieme al genitore, prima di iniziare a fare l’inserimento, proprio per tentare di spiegare al genitore tutte le particolarità dell’inserimento … serve soprattutto per capire come il bambino è abituato ad essere addormentato, perché ogni bambino ha il suo modo, allora si cerca di riprendere tutte le abitudini che avevano a casa, nel possibile ovviamente, e riproporle al nido, per esempio se c’è un bambino che è abituato ad addormentarsi con il suo orsetto allora si chiede al genitore di portare quello stesso orsetto al nido per poterlo ritrovare … vanno proprio accompagnati quindi si prova un po’ alla volta senza forzare troppo. Quindi proporre un po’ la cosa fino a quando la accetta bene (scu/o_40-70-74). Il momento dell’inserimento è essenziale perché io prima ti ho parlato dei distacchi dal punto di vista dei bambini, ma è vero anche che un genitore dal momento che esce dalla stanza anche lui sta vivendo un distacco, perché magari anche per lui è prima volta che non è con il bambino e allora bisogna aver cura di questi genitori (scu/o_106). Gli vado incontro, mi abbasso al suo livello, in modo tale che il bambino ho modo di vederlo negli occhi. Lo prendo per mano, gli chiedo, gli dico ‘Buon giorno, come stai, hai dormito bene?’, quelle piccole cose che lo fanno sentire accolto comunque. E poi chiedo alla mamma come è andata, come va (scu/p_18-20). L’inserimento è fatto in modo tale da favorire un distacco che sia il più possibile morbido come lo chiamiamo noi, quindi prima lo fai stare un po’ con la mamma, anzi fai venire l’anno precedente i bambini in modo che ti conoscano, fai vedere l’ambiente poi, ti avvicini un po’ lentamente e poi a settembre fai l’inserimento, prima di mezz’ora poi di un’ora poi due ore, poi ti fai vedere dal bambino mentre parli con la mamma (scu/b-8).

232

Fenomenologia

della cura

Favorire l’elaborazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni La cura della dimensione affettivo-emotiva aiuta ad abitare i nostri sentimenti, che possono essere considerati le giunture della nostra esistenza18. Emozioni, affetti e sentimenti costituiscono le forze e i colori che ci animano, ci muovono verso gli altri oppure contro essi o ci allontanano. Imparare l’alfabeto delle emozioni, le loro cause ed effetti, le reazioni del nostro corpo, saperle comunicare e leggere negli altri è un apporto alla conoscenza di sé, a ciò che per noi ha valore, al stare in relazione con altri. [Il bambino] deve tirare fuori le emozioni, però gestirle da parte di un adulto è molto delicato, questo è un lavoro secondo me tra i più delicati (scu/t_68). Bisogna vedere il bisogno profondo, ho visto che parlandone, succede che quando trovi una persona che si sintonizza sul tuo stato emotivo, sulla tua condizione e trova delle spiegazioni razionali o comunque convincenti che non è proprio come si pensa - dopo gli passa (scu/a-26). Fanno fatica a parlare di emozioni, di sentimenti, non è così facile (scu/h_34). ‘Adesso devo cambiarti, lo so che non ti piace, lo so che sei arrabbiato perché vorresti che ci fosse qui la tua mamma’, questo modo di riprendere le sue preoccupazioni e le sue ansie. E intanto lo cambi. (scu/p_88). La cosa importante è la verbalizzazione delle emozioni (scu/p_174). Adesso che sono grandi riescono a dare voce alle emozioni. E questo non è poco per loro, è una grande conquista (scu/p_328).

Come si può leggere, vi sono varie modalità per favorire l’espressione della vita emotiva, perché non è un passaggio semplice né immediato né conseguito una volta per tutte. A volte l’insegnante potrà proporlo in modo diretto, a volte facendo da specchio e provando a formulare ciò che l’altro prova, altre volte pensando a percorsi strutturati in collaborazione con le colleghe. Anche favorire l’elaborazione e l’espressione di sentimenti ed emozioni è collegato alle altre pratiche, come ad esempio l’ascoltare. Io insieme alle mie colleghe ho strutturato un percorso anche sulle emozioni per aiutarli a leggere, a capire che emozione stanno vivendo loro e impararle a leggerle anche sul viso, sulla postura del corpo del compagno, perché a 18

A. Augelli in V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Milano: Guerini, 2006, p. 261.

Pensieri

di cura: insegnanti

233

volte tante incomprensioni e conflitti nascono proprio perché non c’è questo e quindi c’è l’ascolto. Queste cose intendevo come ascolto (scu/f-46).

Far pensare …vuol dire prendersi cura della mente del bambino e – nel prendersi cura delle sue possibilità di instaurare relazioni - creare delle situazioni in cui lui, lei, siano messi nella possibilità di parlare, di esprimersi, di creare dei pensieri oppure situazioni in cui i bambini devono risolvere dei problemi (scu/e-116-118).

Imparare a pensare e riflettere è un’arte orientata al sapere dell’esistere ossia al dare sapore a ciò che viviamo, avendone consapevolezza, stimolando la creatività, esercitando un giudizio critico, ricordando quanto vissuto. Il lavoro della vita della mente si estende anche agli affetti, emozioni, sentimenti: infatti ogni pensiero è accompagnato da una tonalità emotiva19. Propongo tanti perché e vedo che loro non sono sempre pronti, fan fatica, però se li alleni a sentire “perché” può darsi che qualche perché se lo chiederanno prima o poi, oppure che siano portati ad essere curiosi non solo come possono essere i bambini, del tipo mi piacciono gli animali e questo, ma proprio anche curiosi di cose un pochino più pensanti (scu/h_38). La cura è metterci anche “perché” noi sappiamo che mettendoci delle cose nuove stimoliamo idee nuove (scu/q_228). Aiutare a riflettere su quello che hanno fatto, cercare di fare come un lavoro di memoria, di recupero della memoria “che cosa abbiamo fatto, ma perché, dove siamo andati, prima che cosa è successo, e dopo, ma secondo te si poteva fare così e se fossimo andati a un’altra parte” cioè il riflettere su quello che hanno già fatto, aiutarli anche a mettere ordine nelle cose che loro sanno, perché i bambini sanno molte cose perché le vedono, perché le sentono, perché le hanno viste dal libro, le hanno sentite alla televisione, alla radio, cercare di capire “beh dai che glielo spieghiamo anche ai tuoi compagni, diglielo tu, spiegaglielo tu ai tuoi compagni” e di valorizzare sempre che ogni cosa che fanno, che dicono (scu/d-73). Aver cura della loro mente… stimolare il loro pensiero (scu/g_33). Capace di pensare, di ragionare, di capire, di provare delle emozioni e di saper reagire anche a queste insomma …fin da piccoli si cerca di renderli

19

L. Mortari, Aver cura di sé cit.

Fenomenologia

234

della cura

consapevoli anche sul piano del pensiero, è più difficile, perché, quando son più piccoli, il bambino è molto istintivo, impulsivo. Si deve aiutare a trasformare l’emozione anche in pensiero (scu/p_318-326). Il momento della riflessione e poi la presa di coscienza delle loro piccole azioni. È sempre tempo dato bene secondo me (scu/r_59).

Creare comunicazione su contenuti significativi Essenzialmente significa avere cura delle parole (scu/t_188).

Approfondendo nella lettura delle interviste, creare comunicazione su contenuti significativi comprende esprimere all’altro il bene che gli si vuole, pensare all’altro come risorsa e rendere noto ciò su cui si dissente o ha fatto arrabbiare. Da una parte possono essere parole ripetute più volte nel corso dei giorni, dall’altra l’insegnante sa che troppe parole non servono. Si ricerca allora la parola essenziale, sobria, capace di trattenere ciò che vale e poi rilasciarlo, come una spugna imbevuta d’acqua. Io la userei questa parola perché a volte loro me la dicono “ti voglio bene” e mi sento di [scambiarla] con loro, penso di volere molto bene a tutti i bambini (scu/c-176). Mi faccio come capire all’altro, passare un messaggio, a volte anche lo verbalizzo ‘se vuoi ti prendo un po’ in braccio e ti coccolo un pochino’ (scu/e-20). “Oggi ragazzi, io con voi non ho lavorato bene, mi rendo conto che ci sono state anche delle cose che non mi sono piaciute”, sì io esplicito tantissimo, “questa cosa qui mi ha fatto molto arrabbiare” (scu/f-60). è importante esplicitarli e pensare agli altri come a risorse, sento gli altri che mi danno tanto (scu/f-371). Cerco di parlarci assieme, di far capire (scu/i_36) …rendermi conto che ho a che fare soprattutto con dei bambini e quindi non dare niente per scontato, spiegare tutto, spiegarlo e ripeterlo tante volte in maniera anche diversa. Tante parole non servono, a volte creano anche tanta confusione. …faccio passare magari lo stesso messaggio ma in più giorni, ritornandoci, chiedendo a loro, sentendo anche da loro cosa hanno capito di quello che tu hai detto in modo che te ne rendi conto (scu/i_76-78).

Pensieri

di cura: insegnanti

235

Significa aiutare il bambino a imparare a esprimere quanto sente, le idee che gli vengono in mente, favorire il dialogare e conversare con gli altri, farsi aiutare, accettare la critica, riformulare quanto ha ascoltato, letto o visto. Le parole che esprimiamo – e come le formuliamo – hanno la potenzialità di dire chi siamo, chi sono gli altri per noi e racchiudono una forza performativa che incide sui vari soggetti coinvolti. Far capire che se vogliono dire una cosa la possono dire e… a loro dico questo ‘se stiamo discutendo e questa è una tua idea, posso non essere d’accordo, però tu la puoi sempre dire, dopo…tu dilla perché se è una tua idea, magari mi piace poco, magari ti dico anche che mi piace poco o non sono d’accordo, però tu dilla’. Cioè il poter dire le cose (scu/h_80). Verbalizzare molto e sempre tutte le emozioni del bambino e riprenderle in questo senso (scu/p_78). La cura è aiutarli ad esprimersi (scu/p_332). Però man mano che cresce, il momento del pasto è un momento di relazione, di dialogo tra i bambini. Lì è sviluppo del linguaggio fondamentalmente. E lì una forma di cura è anche quella di saperli riprendere nel momento in cui voleva dire qualcosa e non riusciva ad esprimerla in maniera corretta (scu/p_334). Si cerca un po’ innanzitutto di chiedere, di favorire il loro intervento. Un’attenzione particolare poi alla capacità da parte loro anche di spiegarsi bene. Si favorisce quindi la conversazione, gli atteggiamenti attivi da parte dei bambini (scu/r_6).

Creare routines Il dover ripetere con loro, insieme a loro, alcune cose dette, fatte tante volte così per creare un’abitudine (scu/c-112). Io li saluto alla mattina, li saluto prima di questo sonno, li saluto e poi c’è sempre il bambino incaricato che, abbiamo un bel cesto di peluche che ogni tanto i genitori ci lasciano, questo bambino passa da ogni bambino, se vogliono gli danno un peluche e allora dopo un po’, metto una musica, una musica abbastanza rilassante oppure brani di musica classica, sempre quella si ripete, quindi come un rituale tutti i giorni è quella, in modo che c‘è proprio un rituale, allora i bambini piccolini pian piano si addormentano, gli altri, perché ci sono anche gli altri eh, sono seduti al tavolino ascoltano “guardate bambini loro stanno riposando, anche noi abbiamo bisogno di riposare per-

236

Fenomenologia

della cura

ché abbiamo giocato, abbiamo corso, abbiamo sudato, qualche bambino ha gridato” (scu/d-149-151). Un po’ questo discorso di ritualità, sia cioè facendo proprio sentire l’importanza, il piacere di questo momento, cioè di pulirsi, di stare a tavola, di poterci stare insieme, parlando, senza urlare (scu/e-112). Questa distribuzione del tempo è per dare una sicurezza al bambino (scu/o_80). Il fatto di dirgli ‘stai tranquillo che la mamma viene dopo il pranzo’ fa in modo che, quando lui pranza, stai tranquilla che è felice, perché sa che dopo il pranzo [viene la mamma]: è un modo per aiutarlo a scandire il tempo (scu/p_102). Una cosa della cura secondo me è il rituale, il rispetto del rituale. Intanto dà garanzia di sicurezza, hanno una certa stabilità. Loro hanno bisogno di sicurezze, il tempo è scandito da questi rituali e lo scandire del tempo dà sicurezza (scu/q_66-72).

Rendere l’ordinario straordinario. Sembra emergere un po’ questo. Gran parte dell’attività scolastica – direi umana in senso più ampio – è fatta di routine ossia azioni abitudinarie. Naturalmente in rapporto alla fascia di età dei bambini, saranno più distese, lente, in una scansione che intreccia accoglienza, gioco, attività, merende e pasti, riposo. Creare un’abitudine è creare un habitus, che poi il bambino porterà anche oltre, una volta cresciuto, nella vita futura certamente più complessa. La distribuzione di azioni cicliche e ripetute nel tempo offre sicurezza e stabilità al bambino. Imparare a stare nel tempo, con ciò che racchiude (nostra interiorità, relazioni, eventi…), porta a cogliere il senso e il significato di ciò che viviamo, facendolo parte di noi, un tassello in più nel mosaico del nostro esistere.

Riferimenti bibliografici Bertolini P., La città: un oggetto pedagogico?, in M. Gennari (a cura di), 1989, La città educante, Genova: Sagep. Bonhoeffer D., 1994, Lettera alla fidanzata-Cella 92. Dietrich Bonhoeffer-Maria von Wedermeyer 1943-45, Bologna: Queriniana; [Brautbriefe Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer Maria von Wedemeyer 1943-1945, München: Beck, 1992]. Cannao M., 1989, Problemi emozionali nel rapporto educativo, Brescia: La Scuola. Gordon T., 1991, Insegnanti efficaci. Pratiche educative per insegnanti, genitori, studenti, Firenze: Giunti; [Teacher Effectiveness Training, New York: David McKey Company, 1974].

Pensieri

di cura: insegnanti

237

Hillesum E., 2012, Diario 1943-1945, Milano: Adelphi; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlen: De Haan, 1981]. Ignazio di Antiochia, Lettera a Policarpo; [trad. it. a cura di G. De Capitani, Milano: Mimep-Docete, 1996]. Iori V. (a cura di), 2006, Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Milano: Guerini. Mortari L., 2009, Aver cura di sè, Milano: Mondadori. Nussbaum M. C., 1990, Love’s Knowledge. Essay on Philosophy and Literature, New York: Oxford University Press. Saint-Exupery A. de, 2005, Il piccolo principe, Milano: Bompiani; [Le petit prince, Paris: Gallimard, 1946]. Weil S., 1988, Quaderni IV, (a cura di G. Gaeta), Milano: Adelphi; [Cahiers. La connaissance surnaturelle, Paris: Gallimard, c1994-c2006]. Zambrano M., 2008, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007].

Capitolo undicesimo Pensieri di cura nell’agire materno Alessia Camerella

Anche il concetto di noi stessi – chi siamo – lo apprendiamo soprattutto nella nostra famiglia. Nessuno insegna mai a essere genitori. All’improvviso vi ritrovate con un bambino vostro, ed è fatta. Potete sentire la responsabilità, ma potete filtrarla esclusivamente attraverso ciò che siete. Ecco perché questa mattina ho detto che la cosa più importante è che diventiate la persona più grande, più ricca d’amore del mondo… perché è questo che darete ai vostri figli… e a tutti coloro che incontrerete. (…) I nostri primi maestri sono i nostri genitori, i nostri familiari. Se non siamo più bambini, non possiamo dare la colpa ai genitori e ai familiari, perché genitori e familiari sono soltanto esseri umani come tutti gli altri. Hanno i loro problemi, le loro fragilità. Hanno la loro forza e le loro debolezze. Ci hanno insegnato soltanto ciò che sanno. Voi sarete finalmente adulti quando potrete rivolgervi all’uomo che è vostro padre o alla donna che è vostra madre e dire: “Sai, nonostante tutti i tuoi difetti, ti voglio bene”. L. Buscaglia, Vivere, amare, capirsi

La core category emergente dalle interviste alle madri e alle famiglie affidatarie è il mettere in rete soggetto e società; è seguita dal cercare di responsabilizzare l’altro, aiutarlo a comprendersi e trattarlo con riguardo senza essere intrusivi 1. L’affermazione della vita del bambino o del ragazzo in generale racchiuderebbe due aspetti: uno è rappresentato dalle cure necessarie alla preservazione della vita e alla crescita, l’altro aspetto va oltre la pura e semplice 1 Mi sono interrogata spesso sul minor numero di estratti (significativi per la ricerca) nella presente tipologia d’interviste: “una spiegazione potrebbe essere la minor abitudine delle madri affidatarie a parlare di pratiche di cura rispetto ad altre categorie, come le insegnanti. Inoltre le madri parlano più per racconti e narrazioni dei e sui figli, poco su sé. Come dire il “non detto”? Forse è la cura stessa che sfugge alle categorizzazioni e con rispetto custodisce di sè anche un volto nascosto? Il deficit nella parola può oscurare a tal punto aspetti magari rilevanti?” (dal diario personale di ricerca).

240

Fenomenologia

della cura

conservazione e si riflette nell’attitudine che instilla nel bambino o ragazzo un amore per la vita2. A dimostrazione che la cura, anche se mirata a un soggetto, è sempre pratica aperta e generativa di relazioni vi sono le seguenti parole, che sottolineano come sia importante mettere in relazione la cura del soggetto con la cura della collettività e società, sia all’interno della famiglia in cui il soggetto viene accolto sia all’esterno nei contesti di vita familiari, scolastici, ricreativi... Una modalità possibile per attuare ciò può essere quella del sensibilizzare persone e servizi: Vengono i nostri amici qui a cena, o così, ma a volte ne avevo di più. Facevamo parte dei gruppi famiglia, per cui ogni quindici-venti giorni c’era qualcuno e… era bello (fam/c_114). Non ci si ferma al prendersi cura del suo corpo, ma curare lui significa curare la relazione con lui, quindi la relazione mia con lui, la relazione sua con il mondo (fam/e_8bis). …corsi di sensibilizzazione alla cittadinanza, progetti nelle scuole, spettacolo teatrale sull’accoglienza, organizzazione di un convegno, partecipazione a dibattiti pubblici, promozione di progetti collaborativi con gli enti e, non da meno, ogni giorno siamo visibili agli altri nel quotidiano. Ad esempio andare a prendere i bambini a scuola con un pulmino da nove posti ti rende visibile, ascoltare una mamma che ti chiede un consiglio, offrire il giardino per organizzare una merenda di fine anno per la classe di uno dei figli, anziché andare a mangiare una pizza a cui non tutti potranno partecipare… (fam/f_90).

Dagli estratti emerge come i genitori possano essere considerati i primi e più importanti insegnanti dei figli, in particolare nei primi anni di vita; anche successivamente, se desiderano stimolarli nell’acquisizione di competenze, devono offrire loro opportunità, fornire strumenti e materiali, lasciare loro la progressiva responsabilità di alcuni problemi. I genitori possono esercitare molta influenza nel favorire la costruzione di migliori rapporti umani di quanto essi stessi possono pensare, collaborando attivamente con i docenti e le altre figure che saranno responsabili dei propri figli o entreranno in relazione con loro3. Accompagnare un figlio in un percorso di crescita non è dirigere, ma aiutare a trovare la strada, sostenere durante il cammino,

2 E. Fromm, L’arte di amare, Milano: Mondadori, 1995, p. 59; [The art of loving, New York: Harper, 1956]. 3 T. Gordon, Insegnanti efficaci. Pratiche educative per insegnanti, genitori e studenti, Giunti: Firenze, 1991, p. 285; [Teacher Effectiveness Training, New York: David Mckey Company, 1974].

Pensieri

di cura nell’agire materno

241

eventualmente illuminare là dove regna ancora l’oscurità, indicando a volte la direzione, cercando di responsabilizzare l’altro e renderlo partecipe. Le parole delle madri e delle famiglie intervistate ci fanno cogliere come il compito arduo dei genitori sia quello di aiutare i figli a sviluppare una libertà, che permetterà loro di stare in piedi da soli (fisicamente, mentalmente e spiritualmente) e in relazione con gli altri, rialzarsi dopo essere caduti, affinché possano poi partire, ognuno nella propria direzione. Sottolineando la dimensione relazionale della core category e riferendosi al concetto di ospitalità, si potrebbe affermare che “ospita bene colui che non solo sa ricevere gli invitati con onore, offrendo loro ogni attenzione di cui hanno bisogno, ma che li lascia anche andare quando per loro giunge il momento della partenza”4. Così i figli potranno essere stimolati ad ascoltare il proprio io, alimentando quella libertà che darà loro il coraggio di lasciare la casa per proseguire il cammino. La dimora ospitale è quella dove padre, madre e figli possono svelarsi le doti personali, essere presenti gli uni agli altri come membri della stessa famiglia umana e sorreggersi l’un l’altro nella sfida comune per vivere e far vivere. Nello spazio della famiglia l’amore materno trova il suo senso nell’aver cura, che diventa sinonimo e pratica di amore estesa a ogni essere umano: Provare piacere nell’aver cura è secondo me il vero senso dell’amore materno (fam/y_13). Lei ha sempre bisogno di cura, perché ogni essere umano ha sempre bisogno di cura. Per me la parola cura significa amore (fam/x_106).

Favorire l’espressione di emozioni e sentimenti Tra i compiti dei genitori che fanno affidi, e in particolare delle madri, vi è quello di aiutare il soggetto a capire, nominare e imparare a gestire le proprie emozioni. Vi è alla base un atteggiamento di non pregiudizio e di riconoscimento nella propria storia passata e presente dell’importanza di imparare a vivere la propria sfera emotivo-affettiva, anzi la propria storia può aiutare la storia dell’altro. Io lascio che si arrabbino, perché è giusto che si arrabbino, perché glielo dico, anch’io sono stata bambina (fam/d_15). 4

H. J. M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia: Queriniana, 1999, p. 75; [Reaching out. The Three Moviments of the Spiritual Life, London: Fount Paperbacks, 1980].

Fenomenologia

242

della cura

Dopo aver osservato la sua difficoltà, abbiamo parlato con lui offrendogli uno spazio di tempo dove poter decidere se dirci o meno ciò che sentiva (poi ha scelto la sera, prima di addormentarsi). Spesso diceva di avere mal di gola: capendo che era un sintomo fisico di un’emozione che voleva uscire, lo abbiamo aiutato a comprendere che poteva esprimere quel “mal di gola”. Lui è un bambino che ama le coccole, il solletico, leggere le storie insieme, ascoltare musica: abbiamo cercato di trovare alleati in queste cose per costruire con lui la consapevolezza che si sta bene dopo aver “buttato fuori” le parole che fanno fatica ad uscire. Tanta pazienza e tanti abbracci senza metterlo sotto un’eccessiva protezione. Siamo ancora in cammino…è stato intenzionale non affrontare un discorso diretto, del tipo: “se il tale bimbo è con noi in casa famiglia è perché ha dei problemi, cerca di portare pazienza..”; sarebbe stato negare il suo essere persona/figlio/bambino. Come ti dicevo, non possiamo educare all’accoglienza imponendola, ma facendogli sperimentare che sono accolti. (fam/f_160).

Non è facile portare alla parola ciò che si prova: sembra che la parola si fermi prima, facendo però interagire ciò che porta nell’animo del figlio. Uno stratagemma può essere quello di cercare una via meno diretta, trovare degli alleati piacevoli al soggetto, come la musica, la narrazione, l’affetto. Nell’intervento precedente si parla di abbracci: l’immagine delle due braccia sembra quella di un otre che raccoglie l’altro, lo sostiene, crea uno spazio in cui il bambino o il ragazzo può adagiare se stesso e quello che porta dentro di sé senza essere imprigionato, ma anzi per allentare ciò che magari lo turba. Come si legge è un percorso che richiede tempo; per questo mi sembra significativa l’espressione al plurale “siamo ancora in cammino”: vi è un coinvolgimento di tutti i membri della famiglia, che richiede sempre nuove tappe e ridefinizioni del percorso, attraverso un pensiero che si fa intenzionale e motivato. Sembra che la prima forma di accoglienza sia del soggetto rispetto a se stesso; certamente è collegata, anzi respira di un’accoglienza più ampia costruita e cercata a livello familiare.

Aver cura del pensare Ogni emozione è legata a un pensiero e viceversa. Perciò le famiglie pongono attenzione anche alla vita della mente dei figli adottati, stimolando il pensiero, il giudizio critico, la riflessione con altri. Sabato sono andata a scuola perché c’erano delle riunioni fra genitori e preside. Il preside mi ha detto che R. non riesce a stare fermo e ha un linguaggio un po’ colorito. “A casa non si è così” gli ho detto e il preside ha risposto “Eh

Pensieri

di cura nell’agire materno

243

lo so, ma lui…”. Allora quando sono venuta a casa gliel’ho detto: “ma ascolta un attimo, ti comporti perché noi ci comportiamo così a casa o perché tu vuoi fare il bullo quando sei a scuola ed essere il meglio?” E allora ne approfitti per riflettere insieme (fam/d_320). Per cui una buona pratica di cura con J. è quella che quando lui sente questa forte spinta a lasciare la casa famiglia, a tornare a casa propria, lo facciamo riflettere molto e anche molto duramente su cosa significa per lui tornare a casa adesso senza delle basi. Anche rispetto a cose molto forti perché ce ne rendiamo conto anche noi, io e mio marito, quando gliele diciamo, però sono sempre cose che lo fanno riflettere e, dopo la riflessione, ritorna. (fam/f_146). Certe volte a casa facciamo delle riunioni su alcuni temi di quotidianità, di famiglia ed è soprattutto bello adesso che anche i nostri figli sono più grandi, S. ha 11 anni, P. 9, M. sta andando per i 7, poi c’è F. Anche loro sono più grandi e c’è la possibilità di riflettere, per cui si rilancia molto. Mio marito mi dice sempre: va bene, questa sera facciamo riunione (fam/f_154). La cosa difficile e che prende più energie in casa famiglia è il dare spazio in gruppo ad ognuno per aiutarli alla riflessione e non accontentarsi mai di quello che ti dicono e bloccarli lì, ma rilanciare sempre con un’ulteriore questione (fam/d_168).

L’occasione per riflettere può nascere da un incidente critico, da una situazione negativa da risolvere o affrontare oppure da temi e questioni importanti per la crescita del ragazzo e della famiglia. Avviene nella modalità del porre domande al ragazzo, ascoltarlo, rilanciare ciò che dice. Il genitore favorisce l’esprimersi del pensiero da parte del figlio, senza porre blocchi o condizioni a priori, ma aprendo uno spazio di comunicazione e confronto per ognuno, nella consapevolezza che quanto emerso ha bisogno poi di tempo per sedimentarsi e crescere dentro di sé. Il tempo per la riflessione può avvenire in un momento occasionale oppure essere programmato come incontro a livello familiare.

Ascoltare Insieme al favorire l’espressione dei propri sentimenti ed emozioni vi sono due pratiche importanti: ascoltare e osservare. Ascoltando, cerchiamo di far parte del suo mondo, di farci dire come sta, molte volte ci sono stati dei conflitti e te li dice lui senza che glieli chiediamo, ci stiamo su, sempre troppo poco però nel senso che la vita quotidiana, i tempi, le corse,

244

Fenomenologia

della cura

preparare da mangiare, fare il bagno, arriva già ora di cena, arriva già ora di andare a letto tante volte lasciano poco spazio all’ascolto, però io cerco di ritagliarmi quando vedo che c’è una situazione o un problema e anche lui spesso mi sfugge e mi dice non ho voglia di parlarne adesso (fam/e_27).

Ascoltare permette di entrare a far parte del mondo dell’altro, conoscere come sta. La complessità della vita quotidiana può ostacolare il tempo dell’ascolto autentico, ma nelle famiglie rimane la ricerca di momenti per comunicare insieme, accettando il possibile rifiuto e rinvio dell’incontro da parte del bambino o ragazzo. Questo per me è saper ascoltare i figli: lasciare che parlino, non interferendo troppo nelle loro scelte, non giudicarli, farli esprimere (fam/y_14). Io penso attraverso l’ascolto. Ascoltare le persone non significa ascoltarle solo con le orecchie, vuol dire ascoltarle con il cuore. Saper ascoltare qualcuno vuol dire dargli la possibilità di parlare ad alta voce dei propri problemi, quindi rallentare la mente e parlare di questi problemi. Gli dai la possibilità di autorivelarsi, perché raramente se ne parla ad alta voce. Nell’ascoltare cerco di non giudicare (fam/x_43). L’ascolto non è solo aver cura degli altri, ma anche di se stessi. Dandomi la possibilità di ascoltarti, tu accresci la mia autostima. Se tu hai scelto me come confidente, per aprirti, per parlare, vuol dire che hai stima di me; quindi io, consapevole di ciò, non faccio altro che accrescere la mia autostima, perché sono consapevole della tua. Ecco perché io ascolto sempre con gioia (fam/x_67).

Avvertire fondamentale la pratica dell’ascoltare significa avere coscienza dell’importanza di comprendere i messaggi espliciti e impliciti, percepire i suoni e i gesti (a livello cognitivo-emotivo-affettivo), che l’altra persona invia, anche inconsciamente, in modo che risuonino dentro di noi e ne possiamo cogliere (o per lo meno intuire) i significati o le contraddizioni. L’ascolto autentico ha la capacità di predisporre al cambiamento sia chi ascolta sia chi è ascoltato: libera la propria interiorità e autenticità dell’essere, permette di andare oltre convenzioni e pregiudizi. L’ascolto che avviene con il cuore fa bene a chi è ascoltato e anche a chi ascolta, perché nutre entrambe le persone di valore, dà significato al tempo che si donano e quindi nutre il loro esistere. Non sempre è facile ascoltare, a volte è richiesto uno sforzo, un mettersi da parte per porre l’altro al centro: Saper ascoltare è importante, addirittura più importante che essere disponibili e anche più difficile: saper ascoltare, sentire che ti parla, accettare di esaurire le

Pensieri

di cura nell’agire materno

245

sue richieste; saper ascoltare è accettare l’altro come persona e come pensiero, concentrarsi sulle sue idee e dimostrarsi attenti e interessati. Così la persona, essendo al centro di attenzione, si sente libera e si sfoga. […] è facile ascoltare e accettare l’altro quando i suoi argomenti ti coinvolgono, ti attirano, ti interessano: così nasce un dialogo aperto e sicuro; è difficile ascoltare l’altro quando dà sfogo alle sue bravure oppure ai suoi problemi, che essendo diversi dai miei, possono annoiarmi o rendermi incapace di suggerire una risposta o una proposta (fam/t_36). Ascoltare sempre, non solo la voce, ma anche quei gesti che a volte ti sembra di non capire. Cercare di ascoltare e capire dal punto di vista di chi hai davanti. Ascoltare quella comunicazione che ti dà ogni giorno, che è soprattutto una non-comunicazione fatta di gesti, musi, gioie, sorrisi (fam/r_38).

Un ascolto vero è nutrito di autenticità e congruenza, sensibilità ed empatia ed è accompagnato dall’osservare.

Osservare L’osservazione sul campo, certo. Cioè proprio… osservi nel quotidiano e poi scrivo. Scrivo anche cose banali successe, che lì per lì non dicono niente, ma che poi nel corso del tempo vado a rispolverare e trovo valide. Anche perché è difficile poi tenersi a mente in un’osservazione… La mia non è una scrittura stretta, non è che appena finito d’osservare scrivo, la quotidianità non me lo permette questo, a meno che non mi prendo lo spazio… Certe volte l’ho fatto (fam/f_224).

L’osservazione avviene nel concreto e nel quotidiano. La madre che parla nel brano riportato non si limita a osservare, ma scrive una specie di diario su quanto ha osservato. Osservare è più di vedere, richiede un’attenzione più mirata e prolungata, la capacità di connettere elementi e costruire una visione d’insieme, custodire quanto colto e tenerlo in considerazione. Osservare certamente attiva in primis la vista, ma implica un coinvolgimento di tutta madre nel rivolgere la sua attenzione verso il figlio adottato e verso il suo mondo, con rispetto, occhio critico e prontezza nell’agire in base a quanto notato. I bambini sono imprevedibili, scaltri, svegli. Devi osservare quello che fanno, cercando di capire quello che vogliono. Ogni bambino ha la propria personalità ed esigenze, ma l’importante è osservare e capire, stare vicino (fam/z_80). Una volta consigliato, è il figlio che deve vivere la propria vita. Noi mamme non dobbiamo allontanarci del tutto, ma restare sempre vicine ed osservare.

Fenomenologia

246

della cura

Un figlio si apre di più alle confidenze con la mamma se questa finge di non intromettersi nelle sue cose, ma in realtà è presente. Quando un figlio dice a sua madre che gli è successo qualcosa, alla madre non resta che dire che si era accorta che lui era triste, ma che per lei era necessario aspettare in silenzio; se si interviene nel momento sbagliato, la situazione si complica. È bello seguire i figli che si trovano nella difficoltà per poter misurare la loro capacità di autocontrollo, di forza morale. Non è facile vedere un figlio che soffre e aspettare in silenzio per dargli la possibilità di fare delle scelte (fam/y_14).

Informarsi Quando vado a prenderli, lungo la strada, chiedo sempre come è andata, come non è andata… (fam/d_265).

Come appendice relativa alla comunicazione di sé, ascolto e osservazione, vi è la propensione di farsi raccontare dal bambino o ragazzo come sta, come si è svolta la sua giornata a scuola o l’attività che ha compiuto nel pomeriggio. È un modo di interessarsi nel concreto di ciò che il soggetto vive, prendere parte dei suoi pensieri e sentimenti, preoccupazioni, relazioni. Cogliere occasioni di dialogo aiuta a costruire ponti di conoscenza, affetto e crescita sia per i genitori sia per i figli. Io penso che la forma migliore sia sempre il dialogo, parlare con i figli, capire le loro idee, il loro modo di ragionare, il loro modo di vedere. Attraverso il dialogo si possono dare consigli, un aiuto, anche indirettamente (fam/s_38).

Dare regole Dare alcune regole, come via per camminare senza pericoli o rischi nel rispetto verso di sé e verso gli altri, può sorgere da una riflessione ponderata oppure in seguito ad un episodio critico per il quale è opportuno intervenire per ordinare un determinato agire secondo fini o modalità desiderate. La norma, nel suo effetto di limite e contenimento, evita l’eccesso, la mancanza di rispetto e responsabilità civile, è vista nella sua flessibilità e nella ricerca della sua forma migliore per favorire il maggior benessere delle persone coinvolte. La dimensione di libertà risiede nella consapevolezza del bene insito nella regola e nella sua assunzione a livello pratico nella vita di tutti i giorni. Sono regole… che tante volte arrivano dalla riflessione… e tante volte ti capitano e poi ci rifletti sopra. Succede anche così. Sono regole date dal

Pensieri

di cura nell’agire materno

247

momento, sei lì devi vivere quella cosa lì e non hai avuto tempo di rifletterci sopra è capitata, e allora devi cercare la regola migliore. Per cui non sono regole rigide, mi vien da dire, sono regole libere… (fam/f_282).

La conciliazione tra espressione della libertà personale e la creazione di modi di essere condivisi nel dialogo hanno come scopo la maturazione della responsabilità. Creare degli argini in modo costruttivo educa il figlio a rispettare le persone che lo circondano e aiuta la madre a non annullarsi del tutto nelle preoccupazioni verso il minore in affido, ma a coltivarsi come donna in altre relazioni, passioni personali, momenti di riposo. Bisogna crearsi degli argini, dei paletti per salvaguardare la cura che si può avere rispetto alle persone a cui vuoi bene, a cui vorresti prestare cura. […] Ho cercato di mettere dei paletti costruttivi, perché non mi sembra giusto che io rinunci a tutte le mie relazioni sociali e alla cura per me stessa, per prendermi cura di lei (fam/u_124-126).

Come può la cura di sé favorire la cura dell’altro? Coltivando il proprio essere ed esistere, la madre porta a frutto ciò che è e quindi poi può donarlo all’altro in modo pieno e responsabile. Nella vita quotidiana spesso è difficile scindere i due momenti (cura verso sé e cura verso l’altro) e non esiste un momento in cui si è pronti ad aver cura dell’altro senza errori o mancanze, ma la consapevolezza dell’importanza della cura sui è presente e interroga le madri. Se vuoi prenderti cura di una persona, prima devi prenderti cura di te stesso, perché altrimenti non riesci a trasmettere sicurezza (fam/u_106).

Cercare di responsabilizzare l’altro Essere genitori implica educare i figli a diventare autonomi con senso di responsabilità ossia che sappiano rispondere di ciò che scelgono e compiono sia nei successi sia nei fallimenti. Significa imparare a rispondere alla propria coscienza in collegamento con gli altri e con la società. L’aver cura inizia dalle piccole azioni, come tenere in ordine e pulita la propria camera da letto: “Avete delle responsabilità, tu hai quattordici anni, la tua camera te la devi tenere in ordine tu e te la spolveri da sola, ti cambi le lenzuola, la camera è tua” (fam/d_244).

248

Fenomenologia

della cura

Fargli capire che ormai è grande, posso dargli dei consigli, ma se sbaglia, ci rimette di suo e anche lui quando sarà grande all’età di M. gli potremo dare solo consigli, non potremmo obbligare a fare… (fam/c_113). Aver cura significa aiutarle a crescere e renderle autonome, per quanto possibile, in maniera che si trovino bene a gestire la propria vita. Il lavoro di noi genitori è proprio questo (fam/s_24). È diversa la cura che si ha quando sono piccoli rispetto a quando crescono. Quando sono piccoli, hanno bisogno di tutto; invece quando i ragazzi crescono, devono trovare la loro autonomia (fam/s_28).

Non è sempre automatico accettare che un figlio – nella sua crescita per diventare se stesso – si allontani dalle figure genitoriali, magari in modo diverso da come si era immaginato e progettato nel percorso educativo. Significa accogliere che l’altro sia effettivamente altro rispetto a noi. Responsabilizzare l’altro racchiude anche il rischio e la preoccupazione. Le parole delle madri ci parlano dell’importanza di tenere insieme il proteggere e l’incentivare, mettendosi in dialogo con il proprio marito o partener5. Nella modalità narrativa, con cui le madri rispondono alle domande dell’intervistatrice, si può cogliere la natura dialogica in cui questo processo può avvenire; infatti in genere le madri parlano raccontando episodi di vita, esempi, dialoghi che danno voce a ciò che succede in famiglia.

Trattare l’altro con riguardo senza essere intrusivi …sempre nella libertà del bambino, perché a volte avverti che vorrebbe darti il bacio della buona notte ma ancora non te lo dà, allora magari fai un passetto tu e se vedi che lo accetta lo dai e dopo di conseguenza arriva tutte le sere, se vedi che ancora si ritrae ti fermi. Insomma sono anche quelle pratiche di cura un po’ importanti. (fam/f_226). Il rapporto fisico c’è un po’ meno chiaramente, perché quando era piccolo c’era questo contatto sempre presente con lui. Adesso ha quindici anni: la tenerezza è rimasta comunque, perché penso che sia dovuta alle coccole che ci sono sempre state, gli dicevo “ti voglio bene” quando aveva due anni, gli dico “ti voglio bene” anche adesso, anche se è cambiato. Sono cambiate le esigenze, le richieste: io mi adeguo a lui e lui si adegua a me (fam/v_16).

5

S. Vegetti e A. M. Battistin, L’età incerta, Milano: Mondadori, 2001.

Pensieri

di cura nell’agire materno

249

Sembra la descrizione di una danza in cui i danzatori cercano l’un l’altro il ritmo, nell’avanzare e retrocedere dei passi, nel trasportare e farsi trasportare, nell’ascolto della musica che li avvolge, nello spazio in cui si muovono magari con altri. È avvertire la qualità della presenza dell’altro nella fase esistenziale in cui si trova, farsene carico con misura, attenzione affettiva, leggerezza meditata che lasciano all’altro il tempo di manifestarsi.

Sostenere e sdrammatizzare L’esperienza è la maestra più grande nell’aiutare i genitori a far fronte alla crescita di un figlio. Certamente possono aiutare i consigli altrui, la formazione o doti personali, ma la conoscenza diretta e personalmente acquisita negli anni favorisce la lettura di avvenimenti e la pratica della cura verso i soggetti affidati. Vedevo che non riuscivo a sostenerli più di tanto, dopo invece con l’esperienza ho capito il discorso della cura, l’importante è stare al fianco di questi bambini, la loro sofferenza io non la annullerò mai, li aiuto a sopportarla […] non è che noi eliminiamo la sua sofferenza però probabilmente c’è qualcuno che gli permette di sopportarla e sostenerla (fam/b_36).

La prima forma di sostegno, quando ci si sente impotenti di fronte alla sofferenza dell’altro, può essere rintracciata nel prendere consapevolezza dei propri limiti: forse può essere impossibile annullare completamente il male dell’altro e forse ai genitori non è chiesto ciò, ma di aiutare il figlio a sopportare e sostenere ciò che gli pesa in cuore, coltivando la speranza di una vita migliore e più serena. Una modalità per rendere più leggero il cammino dei figli in affido è essere capaci di scherzare, per addolcire il vissuto, attenuare le tensioni, far sentire affetto con simpatia, allargare lo sguardo oltre il dolore e la rabbia verso un altro sentire, più gioioso e amicale. La battuta scherzosa o il solletico possono cogliere il bambino di sorpresa, facendogli cambiare umore e dimenticare ciò gli impediva di sorridere. Tendo sempre a mettere un po’ sullo scherzo, ad addolcire un po’ le cose, a fare una battuta (fam/d_208). Quando ha qualcosa che non va a lui, diventa musone, diventa antipatico, dice tutto no, fa i dispetti… e allora quando lui è così, lo prendo e comincio a fargli il solletico e lui comincia a ridere… e cambia umore… (fam/d_231).

250

Fenomenologia

della cura

Mi piace molto coccolarla, perché è come se allo stesso tempo lei coccolasse me, come se fosse uno scambio di tenerezza e mi piace molto ridere insieme a lei, perché in quel momento la vedo serena, tranquilla, felice (fam/r_14). Io sdrammatizzo e dico: “Va bene, hai sbagliato. Ho sbagliato anch’io, cerchiamo di trovare un accordo”. Quindi il dialogo, la discussione… (fam/s_56).

Non sempre può essere opportuno in prima battuta affrontare un problema dal punto di vista razionale attraverso la riflessione. A volte si rischia di creare maggior ostacolo, come se il pensare aggrovigliasse maggiormente la questione; allora c’è bisogno di un respiro maggiore, di staccare completamente dalla situazione o stato emotivo in cui ci si trova bloccati. Sdrammatizzare può essere una forma per sostenere l’altro e fargli apprendere una modalità per sopportare ciò che vive. Infatti rispetto a una sofferenza si può consolare ed essere consolati solamente, oppure trasformare la situazione prendendo un distacco e accettando che tale sentire ci possa abitare. Così si può sgonfiare la sua forza e l’animo può tornare lieto. Non è opportuno tenere la mente uniformemente sullo stesso oggetto, ogni tanto occorre richiamarla agli svaghi6. In sintesi l’aver cura materno viene ritenuto una vera forma di amore, fatta di grande disponibilità, capacità di modularsi rispetto alla crescita del figlio in affido, aperto alle persone che costellano la propria esistenza. Si fa esempio, diventa un’arte che la madre apprende e riceve nel praticarla. Il comportamento che attuo? Prima di tutto con l’esempio. Lei era piccolina. La coccolavo di più, la seguivo in tante maniere, all’asilo, alle elementari, alle medie, cercando di venire incontro anche alle sue esigenze. Mi sembra di averla seguita bene anche alle superiori. Il comportamento è con l’esempio. Noi siamo tre persone tranquille – lei, io e mio marito – ci rispettiamo a vicenda, ci vogliamo bene (fam/z_28). Io sono convinta che genitori non si nasca, si diventa genitori e si cresce con i figli, imparando e ricevendo tanto. Io insegno a lei e di conseguenza imparo anch’io. Non c’è nessuno che ti insegna il mestiere di genitori. È una cosa che si apprende, man mano, dando e ricevendo (fam/z_48). Si impara anche tante cose dai bambini, perché i bambini sono un mondo pieno di iniziative, sono sempre alla scoperta delle cose, vogliono cercare, capire… (fam/z_80).

6

Seneca, De tranquillitate animi; [trad. it. Bologna: Clueb, 1981].

Pensieri

di cura nell’agire materno

251

La disponibilità non è lasciare fare all’altro ciò che vuole, ma saper dire anche “no” giustificando tale scelta per il bene: Disponibili secondo me è essere sempre a disposizione di chi chiede. Se uno chiede, non ti puoi tirare indietro; essere disponibile è il massimo di quello che si può dare. Disponibilità è essere sempre pronti, anche a dire “no” e a pensare che c’è un motivo per cui lo dico (potrei far del male alla persona) (fam/w_38). Nella disponibilità di una persona c’è la serietà, l’onestà verso se stessa, perché se sa di non essere disponibile e lo dice, è onesta. Diventa orgoglio, perché è un orgoglio dire che sono riuscita a rendermi disponibile quando era necessario (fam/w_40).

L’essere disponibile è una qualità che la madre mette in atto non solo verso il figlio in adozione, ma anche nei confronti delle altre persone che ha vicino, dando così alla sua vita una tonalità comune e uno stile che il figlio può imparare: Essere disponibile è importante perché non essendo impegnata nel lavoro e avendo del tempo libero, posso cercare di agire, fare, pensare, dando sfogo alle mie energie verso chi ha bisogno, tenendo conto dei miei possibili errori e cercando di limitarli. Penso alle persone vicino a me: dialogare, chiedere pareri, procurare i medicinali, accompagnarle dal dottore, trovare altre persone amiche, donare affetto (fam/t_32).

Come spunto finale ci accompagna la poesia lasciataci da un padre: Affido Mi hanno regalato un sorriso: luminosi occhi di bimbi. Mi hanno addormentati i pensieri: cinguettanti bocche di bimbi. Mi hanno aperto il cuore: delicate mani di bimbi.

Fenomenologia

252

della cura

Mi hanno ridotto l’età: saltellanti gambe di bimbi. Mi hanno ricondotto al mio Dio: innocenti presenze di bimbi. Francesco Micheletto

Brevi considerazioni conclusive: elementi in comune per comporre il senso della cura Se nell’analisi delle categorie si è scelto di analizzare le core categories relative e caratterizzanti ogni tipologia d’intervistati, desidero tracciare alcune note che permettano di cogliere un possibile filo rosso nell’aver cura descritto dalle persone intervistate. Innanzitutto l’aver cura si rivolge alla persona nella sua integralità, sia a chi offre cura sia a chi la riceve: sono implicate le dimensioni fisica, intellettiva, emotiva, sociale e spirituale di entrambi. L’aver cura produce effetti interiori ed esteriori ed è influenzabile non solo dalle personali caratteristiche caratteriali ed esistenziali, ma anche dai tipi di contesto, dai collaboratori e dalle persone significative dei soggetti implicati. L’aver cura infine può trovare un secondo filo rosso seguendo i cinque sensi della persona e immaginando che essi siano proiettati dentro noi stessi attraverso altrettanti cinque sensi interiori a cui porre cura e attenzione7: da qui l’attenzione riscontrata negli intervistati a trattare con riguardo il corpo dell’altro, percepire, osservare, ascoltare, comunicare. La consapevolezza rispetto a ciò risulta determinata innanzitutto da una riflessione sui pensieri e sui processi di pensiero messi in atto prima, in itinere e al termine delle pratiche di cura. Riflettere ed educare a riflettere su ciò che si sente e prova aiuta il soggetto a trasformare i propri vissuti e capire i valori impliciti che ordinano l’intensità e la tipologia delle nostre azioni8. Si tratta di aiutare i soggetti a non temere i propri stati sentimentali ed emotivi,

7

G. Matino e E. De Luca, Almeno cinque, Milano: Feltrinelli, 2008. E. Stein, Introduzione alla filosofia, Roma: Città Nuova, 2001, pp. 175-202; [Einführung in die Philosophie, ESGA 8, Freiburg: Herder, 1991]. 8

Pensieri

di cura nell’agire materno

253

ma anzi a farli entrare in un dialogo significativo con chi si prende cura9. Se è vero che pensiamo solo di fronte ad un problema10, nell’aver cura della vita della mente si cercherà di unire la riflessione sull’esperienza vissuta e la libertà di ricerca, favorendo la ricerca personale della verità, con il tempo e le tappe necessari al soggetto11. Educarsi ed educare alla pratica riflessiva porta il soggetto a scoprire un ampliamento della propria vita interiore e dirsi: “Mi nutro del pensiero e ne dilaga/un agevole numero di suoni”12. Un secondo punto rilevante è costituito dall’ascolto (accompagnato da un’attenta osservazione). Quand’è che l’ascolto si fa propriamente pedagogico e adulto? Non vi è un termine temporale, certamente però possiamo affermare che avvenga quando scopriamo che un determinato discorso “ha continuato a lavorare dentro di noi e ci ha cambiati e, forse, ma non lo sapremo mai, ha mutato qualche pensiero o gesto nell’ascoltatore”13. Ciò che si ascolta si addentra all’interno dell’animo, penetra all’interno e chiama all’unione14. Alla base vi dovrebbe essere una fiducia e un’accettazione reciproche, che mostrano come l’altro sia comunque intento nella ricerca della verità che faccia bene alla vita. Riprendendo l’etimologia del termine “verità”, chi si prende cura ha il compito di rivelare che l’altro ha qualcosa da offrire ossia si tratta di svelare, togliere il velo che ricopre la vita della mente di pazienti/figli/educandi/allievi, per constatare insieme che le loro esperienze di vita e affermazioni meritano attenzione. Se si declina l’aver cura come ospitalità, chi ha cura è quella figura chiamata a creare uno spazio senza paura per e con i soggetti, ma in cui potrà aver luogo uno sviluppo mentale ed emotivo. Sono ospitali colui e colei che spronano i soggetti a una riflessione che li guidi a una personale visione. Ad aiutare in questo percorso è auspicabile lo sviluppo di alcune caratteristiche, in particolare l’empatia, la fiducia e la stima dell’altro, la ricerca della giusta misura tra la cura per sé e la cura per gli altri (Est modus in rebus – C’è una misura in tutte le cose 1 5 ), lasciare tempo, affinché le cose si compiano, coltivarsi in buone relazioni e considerarsi sempre in formazione, perché – 9

T. Gordon, Insegnanti efficaci cit., p. 87. J. Dewey, Come pensiamo, Firenze: La Nuova Italia, 1961; [How we think, USA: Heat & C., 1933]. 11 J. Piaget, Dove va l’educazione, Roma: Armando, 1974; [Ou va l’éducation, Paris: Denöel, 1972]. 12 Milton, Inno alla luce; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, p. 509]. 13 D. Demetrio, Pedagogia della memoria, Roma: Malterni, 1998, p. 76. 14 M. Zambrano, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti, 2008, p. 50; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007]. 15 Q. Orazio Flacco, Sermones, I.1; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, 1949]. 10

254

Fenomenologia

della cura

come diceva Gandhi – non si finisce mai di costruire se stessi16. Se come pratica dell’aver cura l’uscire da se stessi e vivere per l’altro portano alla libertà del cuore, possono però consumare la persona17. Sembra proprio vero l’appello affinché ogni tanto la propria anima torni all’ozio e alla pace, faccia ciò le è gradito, per diminuire il rischio che l’eccesso di aver cura si trasformi in affanno18 e trovare alla sera che le esperienze vissute durante il giorno possono essere state straordinarie e hanno bisogno di essere calate in uno spazio che si potrebbe definire ricco d’anima19. A volte nell’analizzare i testi si è usata la terminologia “essere chiamati a”: infatti si può affermare che chi ha cura “sia chiamato a” nel senso di declinare la sua figura e opera come vocazione che conduce l’altro alla sua piena realizzazione e non solamente come professione-occupazione o lavoro per guadagnarsi da vivere20. Chi ha cura è mediatrice e mediatore fra sé e l’altro e fra il soggetto e gli altri che costellano la sua vita e hanno il compito di integrare i diversi saperi necessari per crescere in senso propriamente umano21.

16

Fa parte della cura di sé – da intrecciare alla cura per l’altro – gestire le proprie tonalità emotive, concedersi di sbagliare, prendersi cura tra colleghi/e, chiedere aiuto, coltivare proprie passioni, saper tenere le distanze e dare il giusto valore al proprio agire: tali pratiche emergono trasversalmente dalle parole delle persone intervistate. È un lavoro su di sé di accettazione dei propri limiti, disattivazione dei pregiudizi, coltivazione di alcune virtù, consapevolezza di eventuali ostacoli, bisogni, difficoltà insieme a guadagni e potenzialità. A livello di modi di essere, nella varietà dei caratteri personali, le persone intervistate emergono come figure ricche di entusiasmo, flessibilità, creatività, interesse, fermezza, tenerezza ed empatia, che sanno giocare tra attività e passività, offerta e ricezione, logoramento e ricarica di energie. Per mancanza di evidenze necessarie, non abbiamo approfondito – ma desidero annotarlo qui brevemente – l’importanza di coltivare una dimensione di spiritualità, spesso coincidente con un credo religioso, che unifica e porta significato e vita alle persone coinvolte, permettendo esperienze di trascendenza e di crescita del poter essere proprio e altrui nei luoghi in cui si vive e opera. 17 S. Teresa d’Avila, Fuoco d’amore divino; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze: Sansoni, pp. 419-420]. 18 Chü Yüan, Esortazione alla propria anima; [trad. it. in Orfeo, cit., p. 43]. 19 E. Hillesum, Diario 1943-1945, Milano: Adelphi, 2012, p. 116; [Het verstoorde leven - Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlem: De Haan, 1981]. 20 M. Zambrano, Per amore e per la libertà cit., p. 114. 21 Ivi, p. 113.

Pensieri

di cura nell’agire materno

255

Riferimenti bibliografici Buscaglia L., 1994, Vivere, amare, capirsi, Milano: Mondadori; [Living, Loving and Learning, New York: Fawcett Columbine, c1982]. Chü Yüan, Esortazione alla propria anima; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, p. 43]. Demetrio D., 1998, Pedagogia della memoria, Roma: Malterni. Dewey J., 1961, Come pensiamo, Firenze: La Nuova Italia; [How we think, USA: Heat & C., 1933]. Fromm E., 1995, L’arte di amare, Milano: Mondadori; [The art of loving, New York: Harper, 1956]. Gordon T., 1991, Insegnanti efficaci. Pratiche educative per insegnanti, genitori e studenti, Giunti: Firenze; [Teacher Effectiveness Training, New York: David McKey Company, 1974]. Hillesum E., 2012, Diario 1943-1945, Milano: Adelphi; [Het verstoorde leven – Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943, Haarlem: De Haan, 1981]. Matino G. e De Luca E., 2008, Almeno cinque, Milano: Feltrinelli. Milton, Inno alla luce; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, p. 509]. Mortari L., 2002, Aver cura della vita della mente, Milano: La Nuova Italia. Mortari L., 2006, La pratica dell’aver cura, Milano: Mondadori. Nouwen H. J. M., 1999, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia: Queriniana; [Reaching out. The Three Moviments of the Spiritual Life, London: Fount Paperbacks, 1980]. Orazio Flacco, Sermones, I.1; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano]. Piaget J., 1974, Dove va l’educazione, Roma: Armando; [Ou va l’éducation, Paris: Denöel, 1972]. Ravasi G., 2008, Le parole e i giorni, Milano: Mondadori. S. Teresa d’Avila, Cammino di perfezione e Castello Interiore, in Opere complete, Torino: Paoline, 1992. S. Teresa d’Avila, Fuoco d’amore divino; [trad. it. in Orfeo, a cura di V. Errante e E. Mariano, pp. 419-420]. Seneca, De tranquillitate animi; [trad it. in Orfeo, Bologna: Clueb, 1981]. Stein E., 2001, Introduzione alla filosofia, Roma: Città Nuova; [Einführung in die Philosophie, ESGA 8, Freiburg: Herder, 1991]. Vegetti S. e Battistin A. M., 2001, L’età incerta, Milano: Mondadori. Weil S., 2002, L’ombra e la grazia, Milano: Bompiani; [Le pesanteur et la grace, Paris: Plon, 1947]. Zambrano M., 2008, Per amore e per la libertà, Genova-Milano: Marietti; [Filosofía y Educación. Manuscritos, Málaga: Ágora, 2007].

Gli Autori

Lucia Balduzzi, dottore di ricerca e ricercatore confermato in Didattica e Pedagogia speciale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Bologna. Negli ultimi anni i suoi interessi di studio e ricerca si sono focalizzati sul tema della professionalità di educatori ed insegnanti che lavorano nei servizi convenzionali e sperimentali destinati alla prima e alla seconda infanzia e, in particolare, al tema dell’accoglienza adulta. Tra le sue recenti pubblicazioni, con M. Manini (a cura di) (2013), Professionalità e servizi per l’infanzia, Roma: Carocci, e con A. Lazzari (2013), Bruno Ciari and ‘educational continuity’: The relationship from an Italian perspective. in P. MOSS (ED.) Early Childhood and Compulsory Education: Reconceptualising the Relationship. Lazzari, A. & Balduzzi L. (2013) Bruno Ciari and ‘educational continuity’: The relationship from an Italian perspective. In P. Moss (ed.) Early Childhood and Compulsory Education: Reconceptualising the Relationship, London, New York: Routledge, 2013. Alessia Camerella, dottorata e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona, si è occupata di questioni bioetiche, vita spirituale, temi legati alle pratiche di cura e valutazione di servizi socio-educativi. Oltre ad articoli, ha pubblicato contributi in Per una città solidale (a cura di V. Iori e L. Mortari) (Unicopli 2005); Per un lessico di pedagogia fenomenologica (a cura di P. Bertolini) (Erickson 2006). Rita Fadda è Professore ordinario di Pedagogia generale presso il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari. Studiosa del pensiero di Gaston Bachelard e dei rapporti tra pedagogia e epistemologia, ha poi dedicato diversi volumi al tema della formazione in ambito psichiatrico e pedagogico, con particolare attenzione al pensiero e all’opera di Ludwig Binswanger. I suoi studi più recenti spaziano dall’ermeneutica come possibile approccio alla pedagogia, al tema della crisi del soggetto della modernità e al problema dell’alterità e della differenza, ai fondamenti della cura in ambito pedagogico. Ai concetti di vita, esistenza e tempo come sfondo ontologico dei processi educativi e formativi, fino agli ultimi lavori sul tema dello straniero, sulla condizione umana tra vuoto

258

Gli Autori

esistenza e cura,per poi approdare al tema delal morte, alla sua rimozione e all’urgenza di dar vita ad una pedagogia della morte. Ivo Lizzola é docente di Pedagogia Sociale e Pedagogia della Marginalità presso l’Università degli Studi di Bergamo. Si occupa da anni di relazioni tra le generazioni, delle condizioni di difficoltà esistenziale, delle relazioni di cura. Tra le sue pubblicazioni: Aver cura della vita. L’educazione nella prova: la sofferenza, il congedo, il nuovo inizio, 2002; Di generazione in generazione, l’esperienza educativa tra consegna e nuovo inizio, 2009; Incerti legami. Orizzonti di convivenza tra donne e uomini vulnerabili, 2012; La paternità oggi tra fragilità e testimonianza, 2013. Collabora con le riviste “Animazione Sociale” e “Servitium”. Nel Noddings, professore emerito di Education all’Università di Standford, dove ha ricevuto per ben tre volte il premio Teaching Excellence, è Presidente della National Academy of Education, Philosophy of Education Society e John Dewey Society. Ha pubblicato numerosi volumi e articoli. I suoi campi d’interesse sono l’etica della cura, la filosofia dell’educazione, l’insegnamento e l’educazione morale. Luigina Mortari, docente di Epistemologia della Ricerca Qualitativa, è Direttore del Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona. Le sue ricerche hanno come oggetto la definizione teoretica e l’implementazione di processi di indagine di tipo fenomenologico-ermeneutico nei contesti formativi. Oltre a molti articoli apparsi sia su riviste italiane che straniere, ha pubblicato: Abitare con saggezza la terra (Angeli 1994); Ecologicamente pensando (Unicopli 1998); Per una pedagogia ecologica (La Nuova Italia 2001); Aver cura della vita della mente (La Nuova Italia 2002); Apprendere dall’esperienza (Carocci 2003); Un metodo a-metodico (Liguori 2006); La pratica dell’aver cura (Mondadori 2006); Cultura della ricerca pedagogica (Carocci 2007); Ricercare e riflettere (Carocci 2009); Aver cura di sé (2009); Gesti e pensieri di cura (Mc Graw Hill 2013). Cristina Palmieri è Dottore di ricerca e ricercatore confermato in Pedagogia Generale e Sociale, presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”. Tra le sue aree di studio e ricerca: la cura come competenza educativa, la conoscenza dei soggetti nelle pratiche e nei contesti educativi, rappresentazioni sociali e dispositivi pedagogici, clinica della formazione. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: La cura educativa (FrancoAngeli, 2000); La diagnosi educativa (con Giorgio Prada, a cura di, FrancoAngeli, 2005); Non di sola relazione (con Giorgio Prada, a cura di, Mimesis, 2008); Un’esperienza di cui aver cura (FrancoAngeli, 2011); Crisi sociale e disagio educativo (a cura di, FrancoAngeli, 2012).

Teorie & Oggetti della Filosofia Collana diretta da Roberto Esposito

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39.

F. Châtelet, Attraverso Marx W. Tommasi, La natura e la macchina. Hegel sull’economia e le scienze W. Rathenau, Lo Stato nuovo e altri saggi (a cura di R. Racinaro) R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico R. Genovese, Dell’ideologia inconsapevole. Studio attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno A. Gurland, O. Kirchheimer, H. Marcuse, F. Pollock, Tecnologia e potere nelle società postliberali (a cura di G. Marramao) M. Bertaggia, M. Cacciari, G. Franck, G. Pasqualotto, Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzschiana del tempo M. Horkheimer, Kant: la Critica del Giudizio (a cura di N. Pirillo) B. De Giovanni, R. Esposito, G. Zarone, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo B. Gravagnuolo, Dialettica come destino. Hegel e lo spirito del Cristianesimo V. Dini, G. Stabile, Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un’antropologia in prima età moderna M. Palumbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini B. Accarino, Mercanti ed eroi. La crisi del contrattualismo tra Weber e Luhmann G. Bataille, A. Kojève, J. Wahl, E. Weil, R. Queneau, Sulla fine della storia (a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano) C. Formenti, Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo-moderno M. Cacciari, M. Donà, B. Gasparotti, Le forme del fare H. G. Gadamer, J. Habermas, L’eredità di Hegel (a cura di R. Racinaro) M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel A. Mazzarella (a cura di), Percorsi della Voce R. Genovese, C. Benedetti, P. Garbolino, Modi di attribuzione. Filosofia e teoria dei sistemi (a cura di R. Genovese) A. Illuminati, Racconti morali. Crisi e riabilitazione della filosofia pratica E. Greblo. La tradizione del futuro. Saggio su Walter Benjamin Aa.Vv., Simone Weil. La provocazione della verità E. Agazzi, Dopo Francoforte. Dopo la metafisica. J. Habermas, K. O. Apel, H. G. Gadamer A. Giannatiempo Quinzio, L’estetico in Kierkegaard Aa.Vv., Figure del paradosso. Filosofia e teoria dei sistemi 2 (a cura di R. Genovese) U. Fadini, Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna D. Taranto, Studi sulla protostoria del concetto di interesse. Da Commynes a Nicole (1524-1675) V. Romitelli, Storiografia, cronologia, politica G. Compagno, L’identità del nemico. Drieu La Rochelle e il pensiero della collaborazione Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità L. A. Manfreda, Aporie del simbolo. Saggio su Otto Weininger A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni Diotima, La sapienza di partire da sé F. C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile N. Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile

40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75.

Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza F. S. Festa, Politica e/o Teologia. Saggi di filosofia politica G. M. Barbuto, Ambivalenze del Moderno. De Sanctis e le tradizioni politiche italiane F. Sorge, Passioni e farmaci. Per un’etica della depressione: le passioni dell’uomo tra neuroscienze ed anima F. Fimiani, Poetiche e genealogie. Claudel, Valéry, Nietzsche G. Borrello, Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt A. Martone, Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica R. Panattoni, Appartenenza ed eschaton. La Lettera ai Romani di San Paolo e la questione “teologico-politica” C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927 G. M. Barbuto, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione S. Zuliani, Michel Leiris. Lo spazio dell’arte G. Solla, L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio G. Barberis, Il Regno della Libertà. Diritto, Politica e Storia nel pensiero di Alexandre Kojève W. Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile Diotima, La magica forza del negativo R. Caporali, La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano Diotima, L’ombra della madre W. Tommasi, María Zambrano. La passione della figlia G. M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli A. De Simone, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici L. Bernini, Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault C. Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa S. Tarantino, G. Borrello (a cura di), Esercizi di composizione per Angela Putino. Filosofia, differenza sessuale e politica A. De Simone, L’inquieto vincolo dell’umano. Simmel e oltre W. Tommasi, Oggi è un altro giorno. Filosofia della vita quotidiana A. De Simone, Conflitto e socialità. La contingenza dell’antagonismo Diotima, La festa è qui A. De Simone, Il soggetto e la sovranità. La contingenza del vivente tra Vico e Agamben L. Mortari, A. Camerella (a cura di), Fenomenologia della cura

L

uigina Mortari è Professore ordinario e Direttore del Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona. Tra le sue pubblicazioni: Abitare con saggezza la terra (Angeli 1994); Aver cura della vita della mente (La Nuova Italia 2002); Apprendere dall’esperienza (Carocci 2003); Un metodo a-metodico (Liguori 2006); La pratica dell’aver cura (Mondadori 2006); Cultura della ricerca pedagogica (Carocci 2007); Aver cura di sé (2009); Gesti e pensieri di cura (Mc Graw Hill 2013).

A

lessia Camerella, collabora con il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università degli Studi di Verona. Ha pubblicato contributi in Per una città solidale (a cura di V. Iori e L. Mortari, Unicopli 2005); Per un lessico di pedagogia fenomenologica (a cura di P. Bertolini, Erickson 2006). In copertina: Pierre-Auguste Renoir, Gabrielle et Jean, 1895-1896.

ISSN 1973-1507

L

a cura è fondamentale nella vita dell’essere umano, poiché senza cura l’esistenza non può fiorire. Nessuna società può garantire una qualità della vita sufficientemente buona se le persone non si prendono cura le une delle altre. Ma che cosa s’intende precisamente per cura? La cura è una pratica mossa dall’intenzione di procurare beneficio a se stessi e ad altri. Nei contributi al volume si è cercato di tenere insieme le due dimensioni (cura di sé e cura dell’altro), in un dialogo fecondo tra voci di importanti teorici e voci di pratici che nella quotidianità arricchiscono il loro agire con pratiche di cura nel loro essere madri, infermiere/i, educatrici/ori, insegnanti. Emergono un’idea e una pratica di cura che intreccia mondi interiori ed esteriori, dimensioni fisiche, intellettive, emotive, spirituali e relazionali, elementi di fatica, logoramento e potenzialità arricchenti e vivificanti. In questo panorama la cura verso l’altro è veramente legata alla cura verso se stessi: reco all’altro ciò che sono, ciò in cui mi sto coltivando, ciò che porto dentro come valori e atteggiamenti. Quanto più questi sono curati e valorizzati, tanto più li posso attuare e promuovere, pur nei limiti personali e contestuali.