L'onda trascorrente. I «Canti» di Leopardi in Saba, Montale, Sereni e Giudici 9788822908711, 9788822913456

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L'onda trascorrente. I «Canti» di Leopardi in Saba, Montale, Sereni e Giudici
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Lettere

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Vincenzo Allegrini L’onda trascorrente

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I Canti di Leopardi in Saba, Montale, Sereni e Giudici

Quodlibet

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Prima edizione: aprile 2022 © 2022 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 – 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0871-1 | e-isbn 978-88-229-1345-6

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Quodlibet Studio. Lettere Collana diretta da Franco D’Intino Comitato scientifico Franco D’Intino, Sapienza Università di Roma Paul Hamilton, Queen Mary University of London Robert Pogue Harrison, Stanford University Bernhard Huß, Freie Universität Berlin Thomas Pavel, University of Chicago Paolo Tortonese, Université Sorbonne Nouvelle Paris 3 Volume pubblicato con il contributo della Ricerca di Base 2017 dell’Ateneo di Verona L’eredità di Leopardi nella poesia italiana del Novecento, e della Ricerca 2018 Leopardian Lexicon 4.0 di Sapienza Università di Roma.

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Indice

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9 Premessa 15 Sigle delle edizioni di riferimento

1. Umberto Saba e i fili d’oro di Leopardi

19 27 31 34 38 40 43 47 52 56 60 65 69

1.1 Una «stanzetta» triestina 1.2 Il «filo d’oro» di Silvia: le origini 1.3 Un verde germoglio 1.4 «Al fiato della primavera» 1.5 Intermezzo 1.6 Due fanciulli inesperti 1.7 Giovanezza 1.8 Fanciulle, ninfe, passanti 1.9 La brama e una Preghiera 1.10 Aspasia a Trieste 1.11 Un canto «per se stesso» (e altre canzonette) 1.12 Voci, finestre, borghi 1.13 Nuvole e foglie

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6

indice

2. Eugenio Montale «and not much Leopardi»?

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77 79

88 90 93 96 99 102 109 114

2.1 Un volatile color lavagna 2.2 Leopardi e gli altri. Dalle trincee d’Europa alla Roma letterata 2.3 Un astro assente 2.4 Prima e dopo Leopardi 2.5 Mnemonicità, troppa luce e troppa polvere 2.6 «E lo pensava anche il Leopardi» 2.7 Filantropi e quattrini 2.8 Arletta, Ezekiel e una «mano diaccia» 2.9 Ancora su alcuni topoi e scenari leopardiani 2.10 «Un sufolo bizzarro»

3. Vittorio Sereni Una connaturata intonazione

117 121 126 129 133 136 138 146 149 152 156 161

3.1 Il terreno di Leopardi 3.2 Foglie, colori, raggi lunari 3.3 Sogni estivi e Angeliche pensose 3.4 Solitudine, idillio, fabbrica 3.5 Tableaux leopardiani 3.6 Un canto notturno 3.7 Vento e ritorno 3.8 Carboni irti al sole e rive sfavillanti 3.9 «Tra le perse primavere» 3.10 Diana 3.11 Proserpina 3.12 Un’erinni, Tenochtitlàn, farfalle e baratri

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7

indice

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4. Giovanni Giudici Il leopardismo del bricoleur

167 175 180 185 188 193 196 200

4.1 Un ragazzo di Recanati 4.2 Gestione ironica, bricolage, naturalezza 4.3 Un cavaliere-cantore 4.4 La stazione di Pisa e un «commendatore» 4.5 La «parte» e le «ore» migliori 4.6 Setter, crinali, socchiuse imposte 4.7 Aulla, L’infinito e un luogo di piante 4.8 Parodia, eros (e morte)

207 Indice dei nomi 211 Indice dei luoghi leopardiani

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Premessa

Al giorno d’oggi l’attenzione della critica sul leopardismo dei nostri lirici del Novecento è quanto mai vigile1. E tuttavia, se non poche sono ormai le incursioni su singoli poeti (o anche, meno spesso, su gruppi di autori)2, ciò che manca davvero è un esaustivo e aggiornato quadro d’assieme, in parte fermo ancora a un fondamentale studio di Lonardi pubblicato per la prima volta nel 19743. Questo libro non ha l’ambizione di assolvere a un compito così ampio, adatto semmai a un lavoro collettivo, come è quello del progetto da cui nasce (L’eredità di Leopardi nella poesia italiana del Novecento, diretto da Massimo Natale presso l’Università di Verona). Le pagine che seguono mirano perciò a fornire un primo campione, con il quale si intende ricostruire la ricezione di Leopardi – in particolar modo dei Canti, ma non senza accenni ad altre opere – da parte di quattro protagonisti assoluti del primo e del secondo Novecento: Saba e Montale da un lato, Sereni e Giudici dall’altro. Nel fare ciò, ho ritenuto necessario uno spoglio integrale dei testi, sia in prosa sia in versi, non solo per desiderio di esaustività; assai forte, ad esempio, è 1  Basti ricordare, da ultimo, il xiv Convegno internazionale di studi leopardiani, tenutosi a Recanati nel settembre 2017, che ha visto interventi su Pascoli, Gozzano, Saba, Montale, Luzi, Caproni, Rosselli (e altri). Più nel dettaglio, cfr. Maria Valeria Dominioni, Luca Chiurchiù (a cura di), Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza, Atti del xiv Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 27-30 settembre 2017), Olschki, Firenze 2020 (in particolare, sui poeti, pp. 165-315). Una più completa bibliografia sugli autori presi in esame sarà fornita nei prossimi capitoli. 2  Per esempio gli ermetici, sui quali si veda Anna Dolfi, Leopardi e il Novecento: sul leopardismo dei poeti, Le Lettere, Firenze 2009. 3  Cfr. Gilberto Lonardi, Leopardismo. Tre saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Sansoni, Firenze 1974 (ma d’ora in avanti si citerà dalla più recente edizione del 1990, ristampata sempre da Sansoni).

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10

premessa

l’intreccio – per ragioni diverse – tra i due piani di scrittura in Sereni e in Giudici. Ancora, la presenza di Leopardi nelle prose di Montale e Saba – nascosta nel primo caso, esibita nel secondo – ci dice non poco anche sulla funzione che svolgono i Canti nelle rispettive opere poetiche dei due autori. In sede preliminare, mi limiterò a illustrare alcune scelte e a mostrare brevemente le direttrici principali dell’influsso leopardiano (il lettore, se vorrà, troverà più avanti maggiori dettagli). Partiamo dalla prosa, e da una prima considerazione: se in tutti e quattro i poeti sono numerose le menzioni di Leopardi, assai rari sono invece gli interventi mirati. Soltanto tre, infatti, sono gli scritti dedicati per intero al poeta ottocentesco: i primi due – per mano di Montale e Sereni – sono relativi alla polemica pascoliana sull’inesattezza di certi scenari naturali (a partire dall’improbabile compresenza di «rose» e «viole» nel Sabato del villaggio); l’altro, ad opera di Giudici, fa ricorso all’Infinito semplicemente per provare «come l’ordine delle parole di un verso non possa essere variato senza che ne sia alterato il suo valore in termini di lingua poetica»4. Eppure, come anticipato, il nome di Leopardi si fa più insistente in altri contesti; per esempio, negli scritti pseudo-autobiografici o negli interventi autoesegetici, secondo una pratica che accomuna i quattro autori: costante in Saba5, più rara (e spesso attiva per contrasto) in Montale6, ancora forte in Sereni7 e di nuovo centralissima in Giudici8. Quest’ultimo, inoltre, non manca di

4  acp, L’infinito, p. 33. Del resto, in Un ragazzo di Recanati – una lettera a Giacomo sulla quale cfr. infra, pp. 167-175 – lo stesso Giudici ammetterà di non aver «mai scritto nulla di rilevante» su Leopardi «tranne un breve articolo in cui raccomandavo a chi si trovasse a leggere la poesia L’infinito di rispettare la scansione dei versi […] oltre a spiegare che, pur potendosi scrivere in una decina d’altri modi e sempre risultando un regolare endecasillabo, quel Sempre caro mi fu quest’ermo colle non tollerava, in termini di lingua poetica, altra formulazione» (fd, Un ragazzo di Recanati, p. 161). 5  Nel poeta triestino i rimandi a Leopardi vanno infatti dalla Prefazione al Canzoniere 1921 (ca21) sino agli ultimi scritti del 1957. 6  Si pensi a Due sciacalli a guinzaglio (1950) e ad alcune interviste, come Queste le ragioni del mio lungo silenzio (1962), per cui cfr. infra, pp. 94-96. 7  E ciò sin dalla lettera del 3 agosto 1936 a Luciano Anceschi, sulla quale cfr. infra, p. 120. 8  Ricordo qui soltanto uno dei più illuminanti scritti giudiciani, La gestione ironica (1964), che da un lato traccia linee di continuità con l’operazione poetica leopardiana (vedremo in che senso), dall’altro lato fornisce indicazioni su come interpretare le riprese dai Canti. A tal proposito, cfr. infra, pp. 175-177.

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premessa

11

riportare lunghi estratti dallo Zibaldone9, come in misura minore fa anche Sereni (il quale, nel porsi – come Saba – sulla scia di Petrarca e di Leopardi, trascrive dal diario proprio alcuni giudizi sul poeta dei Rerum vulgarium fragmenta)10. Quanto a Montale, andrà osservato che anch’egli si serve di Leopardi in qualità di auctoritas, seppur in chiave rovesciata, per sminuire cioè la portata o l’efficacia, in contesti differenti, di certe opinioni su altri autori, lingue o letterature. Non dirò qui dei commenti sparsi sui singoli canti, delle prose che da essi prendono il titolo11 o delle varie allusioni alla figura, alle opere e alle tematiche affrontate dal recanatese, magari con trasposizioni spaziali e temporali. È il caso invece di mettere in risalto la non trascurabile attenzione che i poeti rivolgono al ‘Leopardi degli altri’. Complice anche tale funzione schermante, stavolta il capitolo più ricco è fornito da Montale, il quale rintraccia e segnala le letture leopardiane di poeti, prosatori, critici e intellettuali tanto italiani (Solmi, Ridolfi, Ceccardi, Cardarelli, lo stesso Saba) quanto stranieri (Lawrence, Morgan, Crémieux, Gide, Pound, i poeti americani). Sereni, invece, dedica qualche battuta ai leopardismi – così diversi – di Solmi e Pasolini; Giudici a quelli di Zanzotto, Palazzeschi e Jahier. Affine ma non identico è poi il discorso sugli accostamenti tra l’autore dei Canti e altri scrittori successivi, senza dover necessariamente parlare di fonti. Montale, ad esempio, propone in più occasioni il parallelismo con Baudelaire; Sereni con Pavese, Lee Masters, Apollinaire e Char (con la mediazione di Caproni) e persino con i pittori Morlotti e Mattioli. Passando ora alla produzione in versi, è forse inutile precisare che è stata necessaria una selezione dei testi, soprattutto nei casi di Montale e Saba, sui quali molto è stato scritto. Dunque, nei primi due capitoli ho cercato di non concentrarmi troppo sulle liriche più frequentate e, allo stesso tempo, di restituire un quadro fedele delle principali modalità di confronto, ripresa, allusione o anche scontro con Leopardi. Pertanto, nel capitolo primo, ho scelto di ricostruire la 9  Così è nella Dama non cercata (1983), che contiene una lunga citazione da z 225226, e nell’autocommento alla Vita in versi (1986); ma si veda infra, pp. 177-179. 10  Faccio riferimento a Petrarca, nella sua finzione la sua verità (1974), per cui cfr. infra, p. 120 nota 19. 11  Bastino due esempi: Le magnifiche sorti (1950) di Montale e Il canto notturno (1979) di Sereni.

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premessa

storia di un canto e di un mito – quello di Silvia (e di Proserpina)12 – recuperato da Saba in tutta la sua parabola poetica, dalle liriche giovanili e rifiutate al Canzoniere vero e proprio. Oltre al «filo d’oro»13 di Silvia, ho tentato inoltre di riavvolgere il «filo» di un’altra donna dei Canti, alquanto diversa: l’Aspasia del ciclo fiorentino, che in Saba inizia a lasciare tracce consistenti ancor prima di quanto non sia stato già notato (ossia prima della ‘scoperta’ di Freud). Mi sono infine soffermato sulle metafore e sulle figure vegetali, o persino inorganiche, che in certe zone del Canzoniere – e dei Canti – sovrappongono la loro voce a quella dell’io lirico (sul modello di Imitazione, presente sino alle raccolte conclusive). Un approccio simile ho adottato nel capitolo su Montale, dove sono tornato anzitutto sulle riscritture di A Silvia e delle Ricordanze – ovvero sul topos della fanciulla morta in tenera età – ma con maggiore attenzione verso le liriche meno spesso chiamate in causa, almeno da questo punto di vista (tra tutte,‘Ezekiel saw the Wheel’ della Bufera e altro). I restanti paragrafi sono invece dedicati alle poesie che fondono insieme più motivi o immagini provenienti da luoghi diversi dell’opera leopardiana, a partire da Corrispondenze (1936) delle Occasioni, che attingono al Passero solitario e al Canto notturno, fino a giungere all’Ombra della magnolia… (1947) e al Primo gennaio (1970) della Bufera e altro e di Satura: la prima dialoga con La ginestra e il Canto notturno, la seconda sviluppa un tema delle Operette morali e un’immagine della Vita solitaria. Del resto, tale ‘mescolanza’ è osservabile già nelle Poesie disperse, e in particolare in Flauti-fagotti (1922), che, come vedremo, contiene riprese dalla Sera del dì di festa, dalle Ricordanze e, forse, dal Sogno. Un criterio più inclusivo ho scelto invece per Sereni e, soprattutto, per Giudici (poeta, quest’ultimo, che a differenza degli altri ha conosciuto soltanto un’edizione commentata, per quanto complessiva e assai attenta ai riverberi dai Canti). Nel caso di Sereni, mi è parso di nuovo che il profondo sostrato leopardiano dei suoi versi riguardi non 12  Sulla trama persefonea di A Silvia rinvio a Franco D’Intino, I misteri di Silvia. Motivo persefoneo e mistica eleusina in Leopardi, «Filologia e critica», 2, 1994, pp. 211271 e a Id., L’amore indicibile. Eros e morte sacrificale nei Canti di Leopardi, Marsilio, Venezia 2021 (in particolare, pp. 95-195). 13  tlp, La prosa al servizio della poesia: le prefazioni ai libri di versi, Ai miei lettori (Canzoniere 1921), p. 1129.

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premessa

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solo e non tanto il lessico, le immagini e il paesaggio naturale (attraversato però da presenze nuove e inquietanti: la torpediniera, i convogli, le automobili), ma anche e soprattutto i topoi (la foglia caduta, lo stormire del vento, il ritorno al borgo natio, l’addio prematuro alla giovinezza, le morti giovanili) e i mitologemi (di Diana e, ancora una volta, di Proserpina). D’altronde, è proprio a una singolarissima riscrittura del mito e delle ‘favole antiche’ che approda il leopardismo dell’ultimo Sereni, quello ad esempio di Autostrada della Cisa (1977-1979), che rimodula, in modo ormai sfumato, figure, scenari e temi dell’Ultimo canto di Saffo, di Alla Primavera e dell’Inno ai Patriarchi. Ancora diverso è il caso di Giudici, il quale, vestendo i panni del poeta-bricoleur, rimescola, traspone e rovescia ironicamente più materiali. A risuonare qua e là, anzitutto, è il linguaggio dei Canti, con calchi tanto letterali quanto stridenti, seguiti spesso da immediati abbassamenti di tono. Qualcosa di simile vale, oltre che per certe formule divenute magari proverbiali (ad esempio, i «moti del cuore»14 della Stazione di Pisa), per i tratti metrico-prosodici e per le rime: si pensi non solo alla celebre serie in -ale del Canto notturno, riproposta in più occasioni, ma anche alle più ricercate rime impètro : indietro (Salutz i.9) e invano : umano (Dalla stazione di Aulla), attestate nel Passero solitario e nella canzone Ad Angelo Mai. Consistente è pure l’elenco dei motivi, se non proprio suggeriti, perlomeno condivisi con la poesia di Leopardi: la morte in vita, il ‘risorgimento’, il rimpianto per la giovinezza perduta, il ritorno alle illusioni, l’attesa vana del dì festivo, la ‘fratellanza’ tra Amore e Morte, l’infinito ed altro ancora. Leopardiane, poi, mi sono parse alcune immagini per niente scontate (le socchiuse imposte, il tuono tra i crinali) e certe figure animali (la greggia) e umane. Ebbene, tra quest’ultime un ruolo privilegiato spetta di nuovo a Silvia, la fanciulla che rivive ora nei panni di una non più giovane popolana, Gemma Alfè, oggetto non del ricordo ma del rimpianto (meramente erotico) per una giovanile occasione perduta: stavolta, perciò, il canto pisano – che è uno dei fils rouges di questo libro – ha una funzione assai diversa da quella assunta in Saba, Montale e Sereni (diversissimo, si vedrà, è pure il registro). In ultimo, Giudici, come Saba e Sereni15, va anche oltre i Canti, se è vero che l’eco delle 14 

pt, La stazione di Pisa, iv, v. 13, p. 760. Saba riscrive infatti la puerile Entro dipinta gabbia, mentre Sereni cita, in prosa e in poesia, l’abbozzo Angelica. 15 

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premessa

cosiddette canzoni rifiutate – e delle morti innocenti in esse descritte – risuona nella voce del poeta-cantore medievale di Salutz, libero di viaggiare avanti e indietro nel tempo e di pescare a suo piacimento dai grandi autori dell’Ottocento: Leopardi, Flaubert e Tolstoj16.

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*** I paragrafi 1-8 del cap. 1 riproducono, con aggiustamenti dovuti al contesto, il saggio Saba e «il filo d’oro» di Silvia. Un caso di intertestualità leopardiana, pubblicato in «Bollettino di italianistica», 1, 2021, pp. 88-112. Il resto del volume è inedito. Ringrazio Franco D’Intino e Massimo Natale per la cura con cui hanno seguito le mie ricerche e per l’entusiasmo che mi hanno trasmesso nell’indirizzarle. Sono grato, poi, a Valerio Camarotto e a Davide Pettinicchio, che hanno letto e commentato il manoscritto; a Giuseppe Sandrini, interlocutore attento; a Corrado Viola, al quale devo suggerimenti relativi ad alcuni punti specifici. Ringrazio infine il Laboratorio Leopardi e la Fondazione Christian Cappelluti per il loro sostegno in questi anni; un pensiero va, in particolare, a Federica Barboni, Aretina Bellizzi, Novella Bellucci, Marco Capriotti e Flavia Di Battista.

16 

Cfr. infra, pp. 180-185.

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Sigle delle edizioni di riferimento



Opere di Giacomo Leopardi

c

Canti, edizione critica di Emilio Peruzzi, Rizzoli, Milano 1981. Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1998. Operette morali, in Giacomo Leopardi, Poesie e prose, 2 voll., a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Mondadori, Milano 2015, vol. ii, pp. 3-227. Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, 3 voll., Mondadori, Milano 1997 (si cita la numerazione originale delle pp. manoscritte).

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Opere di Umberto Saba

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Canzoniere, in po, pp. 13-638. Il Canzoniere 1921, edizione critica a cura di Giordano Castellani, Mondadori, Milano 1981. Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, introduzione di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2011. Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2001.

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Opere di Eugenio Montale

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Il secondo mestiere. Arte, musica e società, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1996. La bufera e altro, in Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 2012, pp. 193-278. Le occasioni, in Montale, Tutte le poesie cit., pp. 107-192. Ossi di seppia, in Montale, Tutte le poesie cit., pp. 4-100. Prose e racconti, a cura e con introduzione di Marco Forti, note ai testi e varianti a cura di Luisa Previtera, Mondadori, Milano 1995. Satura, in Montale, Tutte le poesie cit., pp. 279-418. Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, 2 voll., a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 20062.

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sigle delle edizioni di riferimento

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Opere di Vittorio Sereni

Diario d’Algeria, in Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 20106, pp. 55-98. Frontiera, in Sereni, Poesie cit., pp. 3-53. f fda Frontiera. Diario d’Algeria, a cura di Georgia Fioroni, Guanda, Parma 20202. iga Il grande amico. Poesie 1935-1981, introduzione di Gilberto Lonardi, commento di Luca Lenzini, Rizzoli, Milano 1990. p93 Poesie (1993), a cura di Dante Isella con la collaborazione di Clelia Martignoni, Einaudi, Torino 20022. pp Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 2020. su Gli strumenti umani, in Sereni, Poesie cit., pp. 99-184. sv Stella variabile, in Sereni, Poesie cit., pp. 185-266. da



Opere di Giovanni Giudici

a acp

Autobiologia, in vdv, pp. 127-176. Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Ledizoni, Milano 2017.

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sigle delle edizioni di riferimento

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17

La dama non cercata. Poetica e letteratura (1968-1984), Mondadori, Milano 1985. Eresia della sera, in vdv, pp. 1117-1220. Empie stelle, in vdv, pp. 1016-1116. Fortezza, in vdv, pp. 837-920. Frau Doktor, Mondadori, Milano 1989. Lume dei tuoi misteri, in vdv, pp. 561-650. La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975), Editori Riuniti, Roma 1976. O beatrice, in vdv, pp. 237-334. Per forza e per amore, Garzanti, Milano 1996. Prove del teatro, in vdv, pp. 745-836. Il ristorante dei morti, in vdv, pp. 445-560. Salutz, in vdv, pp. 561-744. Save Our Souls e altri inediti, in vdv, pp. 1221-1247. I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, introduzione di Carlo Ossola, Mondadori, Milano 2008. La vita in versi, in vdv, pp. 3-126.

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1. Umberto Saba e i fili d’oro di Leopardi

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1.1. Una «stanzetta» triestina In una pagina ormai celebre della prefazione al Canzoniere del 1921, Saba affermava di aver «ritrovato da solo», nella sua «stanzetta» triestina, il prezioso «filo d’oro» tessuto da Petrarca e Leopardi1. Che la sua poesia seguisse le orme della più alta tradizione lirica, però, poteva non apparire altrettanto chiaro ai lettori, ancora pochi a dire il vero, e per giunta non tutti in grado di «intendere ed apprezzare per istinto la difficile arte del verso»2: Siete però fra le anime migliori che io abbia conosciute, alle quali più di una volta ho avvicinata la mia, come chi ha freddo avvicina al fuoco le dita intirizzite. Spesso, troppo spesso forse, ho sentita la vita come una landa tutta ghiacciata; oh allora, poter chiacchierare con uno di voi, seduti tra il volgo dei consumatori ad uno dei miei adorati caffeucci, o pensarvi, o mandarvi dei versi, è stata per me la salvezza3.

A costoro, che avevano riscaldato e salvato la sua anima agghiacciata, il poeta sente dunque di dover rivolgere «qualche parola di gratitudine» e, soprattutto, «di chiarimento»4. Si saranno accorti, infatti, che circa un terzo delle liriche erano state già pubblicate, parte nelle Poesie del 1911 e parte nella plaquette Coi miei occhi del 1912 (poi Trieste e una donna). Ma il vero punto era un altro: in quelle due raccolte, e specialmente nella prima, erano state «omesse» o «peggio ancora» 1  tlp, La prosa al servizio della poesia: le prefazioni ai libri di versi, Ai miei lettori (Canzoniere 1921), p. 1129. 2  Ivi, p. 1128. Corsivi dell’autore. 3  Ibid. 4  Ibid.

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l’onda trascorrente

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alterate «dalla loro forma primitiva» tutte le poesie «dell’adolescenza, e le giovanili», così «necessarie» – continua Saba – «a comprender la genesi e i graduali sviluppi, gli svincolamenti e i ritorni alle origini» della sua «arte»5. Si trattava, in breve, di una vera e propria «empietà contro sé stesso», giustificabile forse come un errore di gioventù. È qui che entra in gioco Leopardi, per ora insieme a Petrarca: O ero forse troppo giovane ancora per compiacermi, come me ne compiaccio adesso, dell’inoppugnabile derivazione petrarchesca e leopardiana di quei primi sonetti e canzoni (non ho capito Dante che verso i ventitré, ventiquattro anni); quasi che l’aver ritrovato da solo nella mia stanzetta a Trieste, così beatamente remota da ogni influenza d’arte, e quando nessuno ancora aveva parlato a me di buoni e di cattivi autori, il filo d’oro della tradizione italiana, non sia il maggior titolo di nobiltà, la migliore testimonianza che uno possa avere di non essere un comune illuso verseggiatore6.

Pertanto, Saba dichiara di aver dovuto recuperare nella memoria la versione originaria, petrarchesca e leopardiana, restituendola così, ma a fatica, al Canzoniere. E tuttavia non è il caso di fidarci troppo ciecamente di quanto sostiene qui il poeta triestino. Lavagetto prima e Milanini poi hanno infatti mostrato come il concetto stesso di «forma originale» debba esser «preso con molte riserve»7, giacché il confronto con i manoscritti – laddove possibile – sembra confermare che le liriche della prima sezione del Canzoniere sono in realtà l’esito di un «compromesso fra recupero e rifacimento», con il quale Saba intendeva presentarsi come «l’erede della tradizione classica italiana»8. Eppure, va detto che l’apprendistato leopardiano sarà a lungo ribadito, tanto da divenire un vero e proprio Leitmotiv delle scritture autoesegetiche e autobiografiche (o pseudo-autobiografiche). Giunge così, per non dire di Storia e cronistoria del Canzoniere (1948)9, fino alla lettera 5 

Ibid. Corsivi miei. Ivi, p. 1129. 7  Mario Lavagetto, La gallina di Saba, Einaudi, Torino 20147, p. 24 (ma si veda tutto il cap. 1, Ritorno alle origini, alle pp. 5-60). 8  Claudio Milanini, Il «filo d’oro». Su Saba e Leopardi, in Id., Da Porta a Calvino. Saggi e ritratti critici, a cura di Martino Marazzi, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2014, p. 174. 9  Non mi occuperò in questa sede dei numerosi ma già noti rimandi a Leopardi in Storia e cronistoria. Basterà osservare che lì Leopardi è descritto come un «padre» 6 

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1. umberto saba e i fili d’oro di leopardi

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immaginaria di Ernesto a Tullio Mogno (1953), dove Leopardi è ricordato come il primo poeta letto dal personaggio-maschera di Saba:

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Purtroppo, malgrado le spiegazioni che mi dava il signor Saba, non ho capito tutto quello che Lei dice di me e delle poesie che scriverò un giorno. Dei poeti che saranno, se ho ben capito il Suo pensiero, i miei maestri, ho letto fino ad oggi solo il Leopardi; anzi – se devo dirLe la verità – una sola poesia di lui […] che s’intitolava Il sabato del villaggio10.

D’altro canto, sull’inclinazione originaria verso Leopardi Saba insiste fino alle «soglie della notte»11, ossia fino all’ultimo anno della sua vita, il 1957, quando abbozza il frammento narrativo Della biblioteca civica ovvero della gloria, che tra l’altro riecheggia il titolo del Parini delle Operette. Qui il poeta, rispondendo alla richiesta della figlia Linuccia, ricostruisce la sua esile biblioteca infantile: i libri che possedevo in proprio erano pochi, assai pochi. Erano i due primi volumi, edizione Vieusseux, del Leopardi; un Parini lirico, un Foscolo, un Petrarca, commentato (per le donne gentili) dal Leopardi, un Manzoni (che però non leggevo più: lo avevo tanto letto e riletto da ragazzo, da saperlo quasi a memoria), il Poema paradisiaco, ed un altro strano libretto, comperato forse per pochi soldi, su una bancherella, in città vecchia, o saltato fuori non so come e da dove. Erano i sonetti dello Shakespeare, voltati – non ricordo da chi – in prosa italiana12.

Epperò, taglia corto Saba, «dei libri che possedevo quello che più leggevo era il Leopardi, i Canti cioè, le Operette morali, ed alcuni suoi pensieri e lettere»13. È questa un’affermazione che sembra confermata dalle diverse citazioni, non solo dai Canti, di cui sono disseminati gli scritti in prosa sabiani. Ne vedremo qui soltanto quelle meno discusse dalla critica, a partire da un articolo del 1946 (Perché esemplare, verso il quale Saba si dice mosso più da un’«immedesimazione amorosa» che da un «banale» desiderio d’«imitazione» (tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 126). 10  tlp, Prose sparse, [Lettera di Ernesto a Tullio Mogno], p. 1053. 11  tlp, Prose sparse, Della biblioteca civica ovvero della gloria, p. 1116. 12  Ibid. Su Saba e Manzoni, che qui ha una posizione particolare, cfr. Giuseppe Sandrini, Il «cantuccio» del poeta: Saba e la lirica manzoniana, «Rivista di studi manzoniani», 1, 2017, pp. 61-73. 13  tlp, Prose sparse, Della biblioteca civica ovvero della gloria, p. 1117.

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l’onda trascorrente

amo l’Alfieri), dove la parola di Leopardi torna utile come «sentenza», secondo un uso non estraneo al Saba poeta14:

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Se è vero quello che dice il Leopardi, che gli scrittori si volgono allo scrivere perché si trovano nell’impossibilità di agire, la sua sentenza vale per l’Alfieri più che per qualunque altro. Ma non, come per la più gran parte degli scrittori (Leopardi compreso), sul piano sentimentale (erotico). L’azione che sembra essere mancata all’Alfieri fu l’azione per eccellenza: l’azione politica. I tempi, le condizioni del suo paese, il suo indomabile orgoglio e quella leggera incrinatura, gli impedirono di metter mano alla cosa pubblica dell’amato-odiato Piemonte. L’infelice si volse allora a scriver tragedie15.

Non è complicato scovare la «sentenza» leopardiana, corretta solo in parte. Saba la trae nuovamente dal Parini, e più precisamente dal capitolo primo, nel quale è proprio Alfieri ad essere proposto come «esempio» di scrittore che «si volse a scrivere cose grandi» poiché i «tempi» e la «fortuna» gli «impedirono» le «grandi azioni»16 (ma lo stesso «dice il Leopardi» nello Zibaldone, per il tramite però di Madame de Staël: «La Staël lo dice dell’Alfieri […] ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi […] glielo avesse permesso»)17. Se nel passo commentato sopra è dunque riportata un’osservazione di Giacomo, altrove a trapelare è il giudizio di Saba sui versi del poeta recanatese, o magari su certe interpretazioni o trasposizioni novecentesche. È il caso, anzitutto, del Canto notturno: la «più bella lirica di Giacomo Leopardi», tradita tuttavia dalla recitazione affettata dell’attrice Ofelia Mazzoni, giacché un pastore che si trova di notte in un deserto, solo, con la luna, il suo gregge e l’orizzonte lontano […] non grida, non gestisce, non si abbandona ad impeti drammatici, ma, nel suo soliloquio, (che lo fa fratello di Amleto), la faccia gli s’immobilizza in una commozione che è spavento, la sua voce è quella d’uomo che ragioni fra sé e per sé… senza la preoccupazione di strappare l’applauso al 14  Su certi «esiti gnomici di timbro leopardiano», spesso nella forma di clausole che sentenziano come il «male nella vita e nella natura non sia più eludibile», cfr. Romano Luperini, La cultura di Saba, in Atti del Convegno Internazionale Il Punto su Saba, Trieste, 25-27 marzo 1984, Edizioni Lint, Trieste 1985, pp. 19-42 (cit. pp. 27, 31). 15  tlp, Prose sparse, Perché amo l’Alfieri, p. 989. 16  om, Il Parini, ovvero della gloria, p. 85. 17  z 2453, 30 maggio 1822.

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pubblico grosso dei pomeriggi domenicali. Questa continua preoccupazione di strappare l’applauso […] mi spiace in Ofelia Mazzoni […]; ed è troppo intelligente creatura, ed ha un gusto troppo fine per non sapere d’avere, nella sua interpretazione domenicale, falsato la lirica di Giacomo Leopardi. C’è l’applauso, questo è il male18.

È rilevante che Saba calchi qui il pedale sulla naturalezza e sull’inaffettazione (concetti, per inciso, al centro dell’estetica leopardiana). Difatti, anche nel suo più celebre intervento critico – Quello che resta da fare ai poeti (1911) – è di nuovo Leopardi, insieme a Dante e Petrarca, a essere citato come poeta che non «sforza mai l’ispirazione», non si cura degli applausi e non intende sbalordire: «sono pieni di ripetizioni il Canzoniere del Petrarca e quello del Leopardi e la parte più sublime della Commedia “Il Paradiso”; perché questi poeti cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due volte lo stesso numero»19. Ebbene, la stessa triade – Dante, Petrarca, Leopardi – formerà il canone dei poeti lirici ‘pattuito’ durante l’incontro con D’Annunzio (che invece dell’applauso e dello stupore del pubblico si curava eccome): Il discorso deviò sulla letteratura italiana. Disse male del Carducci, un po’ meno del Pascoli. Disse che l’Italia aveva avuti, prima di lui, tre soli poeti: Dante, Petrarca, e Leopardi; gli altri non erano stati che chitarristi. Aderii al suo giudizio, mettendo l’accento sul “prima di lui”20.

Questo breve frammento del primo dei Tre ricordi del mondo meraviglioso (1946-1947) può essere utile per introdurre un altro terreno nel quale non di rado compare il nome di Leopardi, ossia l’aned18  tlp, Prose sparse, Intorno a Ofelia Mazzoni, pp. 660-661. Si noti la presenza della parola-rima chiave («male») del canto leopardiano. 19  tlp, Prose sparse, Quello che resta da fare ai poeti, pp. 676-677. 20  tlp, Ricordi – Racconti, Tre ricordi del mondo meraviglioso, Il bianco immacolato signore, p. 493. Più ampio è invece il canone stabilito, nel 1955, in tlp, Prose sparse, Due suppliche, 1a, p. 1080: «lo poesia (non parlo della letteratura) è rara, così rara che omettendo Dante (la cui grandezza è quasi fuori della misura umana) e, per ovvie ragioni, i poeti che hanno scritto nella prima metà di questo secolo, l’Italia (e non fu, in questo senso uno dei paesi più sfortunati) ebbe dagli inizi della lingua italiana alla fine dell’Ottocento cinque poeti lirici, e cioè il Petrarca, il Parini delle Odi e delle Canzonette […], il Foscolo, il Leopardi e il Manzoni (quest’ultimo – per quanto riguarda le sue poesie, vuole un punto di domanda)».

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dotica. Si prenda l’esempio del rapporto conflittuale con Tommaseo, ricordato non solo in Storia e Cronistoria21 ma anche in una delle Poesie disperse, dove vi è un’esplicita, prevedibile presa di posizione (con un cenno al riscatto postumo di Leopardi): Schedavo il libro d’un funesto. Il nome dirò solo dell’opera consigli agli operai e ai carcerati e quello tacerò dell’autore, perchè tocchi legno o ferro in udirlo, e perchè forse più in basso di così non si può scendere. Dolce cosa mi fu quel giorno vendere a un passante, un ignoto che ne chiese il prezzo a me timidamente, i canti del suo nemico; e quasi grato avvolgere io stesso il libro in bella forma, come fa, me per tutti, il buon Carletto. Oh almeno in ciò gli assomigliassi! libri autori in due divisi: quelli che si vendono meglio i migliori; gli altri un poco meno22.

Ancora, la memoria di Leopardi e Tommaseo riaffiora in un brano della Prefazione (1952) a Gli Ebrei, una raccolta di cinque racconti d’ispirazione autobiografica: La povera gente di cui parlo in queste pagine sembra molto diversa dall’altra. Sembra, ma non lo è. Molto era la “messa in scena”, il costume, era, p. es., il fez rosso dello Zio Edoardo di “Ella gli fa bene”. E se questi si vanta di aver soccorso un infelice, senza prima chiedergli se era goi o iudì (cristiano o ebreo), e di avergli perfino portato un bicchier d’acqua – io mi domando se il grande Tommaseo (che non era ebreo) avrebbe fatto lo stesso col grandissimo

21  Cfr. tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, pp. 169-170, 188-189: «Ora se vi sono al mondo due poeti […] fra di loro assolutamente antitetici, questi sono Saba e Pascoli. Avvicinare il primo al secondo è una scemenza pura, e più, per Saba, affliggente di quella che lo avvicinò, volta a volta, ai crepuscolari, al Metastasio, al Betteloni, allo Stecchetti, all’Aleardi, ad altri molti che adesso non vogliamo ricordare; anche perché fra essi dovremmo fare il nome di uno che, ai suoi tempi, il Leopardi considerava (a torto o a ragione) come uno iettatore famoso […]. Per effetto di una diversa “strana idea” altri fece, a proposito di Saba, il nome di Campanella, e perfino quello di un celebre iettatore che Leopardi non nominava mai senza toccarsi… una parte del corpo». 22  Cfr. po, Poesie disperse, In libreria, p. 997.

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Giacomo Leopardi. Forse anche lo avrebbe fatto; ma, in questo caso, se ne sarebbe – non dubito – vantato23.

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In ogni caso, la figura di Leopardi, al quale già nel 1905 il poeta aveva pensato di dedicare una tragedia24, oltrepassa le soglie del paratesto e appare tra i personaggi veri e propri del Saba prosatore25. Il breve racconto Le polpette al pomodoro (1957) narra infatti un fantasioso incontro con il «Conte Giacomo», ospite per cena a casa Saba, con gioia anche della moglie Lina, che lo «amava appassionatamente, fino dalla sua prima gioventù»26. Così si rivela agli occhi dei due: Provammo, a vederlo, una qualche sorpresa. La deformità, che tanto lo fece soffrire, era quasi del tutto scomparsa, ne rimaneva appena una traccia ed anche quella appena visibile. Vestiva un abito grigio da passeggio, di un taglio quasi sportivo. Il suo volto era quello di sempre. Un sorriso pieno di mestizia e di dolcezza gli errava sulle labbra; gli occhi indicavano una grande bontà ed una, al tempo stesso, intollerabile stanchezza, come di persona troppo forte per morire e troppo debole per sopportare27.

Nel descrivere il poeta e il suo «volto di sempre», Saba usa qui – l’ha notato Milanini – «le stesse parole che usava, nelle lettere coeve a parenti ed amici, per lamentarsi della propria condizione»28: è questa un’altra sovrapposizione tra il proprio destino e quello del recanatese, che forse non sarà sfuggita a Linuccia, alla quale è indirizzato il racconto. Eloquente, poi, è il finale: Leopardi sparisce di fronte alla richiesta – di pascoliana memoria, ma fuorviante – di fornire un chiarimento su quelle «rose» e «viole» che, nonostante la diversa stagione di fioritura, la «donzelletta» reca in mano nel Saba23 

tlp, Ricordi – Racconti, Gli ebrei, Prefazione, p. 365. A riguardo, cfr. ca21, p. xxi, e Stefano Carrai, Saba, Salerno, Roma 2017, p. 233. 25  Sul tema rimando a: Stefano Carrai, Il modello Leopardi dal primo all’ultimo Saba, in Dominioni, Chiurchiù (a cura di), Leopardi e la cultura del Novecento cit., pp. 237-239; Marco Dondero, Leopardi personaggio. Il poeta nei «Canti» e nella letteratura italiana contemporanea, Carocci, Roma 2020, pp. 128-132; Carlo Vecce, Un invito a cena (Leopardi e Saba), in Id., Tre letture leopardiane, Edizioni CNSL, Recanati 2000, pp. 6184. 26  tlp, Prose sparse, Le polpette al pomodoro, p. 1097. 27  Ivi, p. 1099. 28  Milanini, Il «filo d’oro» cit., p. 165. 24 

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to del villaggio29. Inizia allora la ricerca del poeta scomparso in un indaffarato paesaggio cittadino, dal «romore» assai men «lieto» di quello del Sabato30:

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come miracolosamente venuto, così il poeta era miracolosamente sparito. Ci precipitammo tutti sul pianerottolo delle scale: nulla, tranne i soliti abitanti della casa. Alla finestra la stessa cosa: i soliti ragazzi che giocavano al calcio, automobili, camion alti come case, motociclette, lambrette facevano tutt’altro che un “lieto romore”: del poeta invece […] nessuna traccia31.

Una sparizione chiude dunque Le polpette al pomodoro. Eppure, sette anni prima, in un’altra Prefazione (1950) – stavolta alla raccolta Uccelli – Saba associava il nome di Leopardi a un ritorno, o meglio ancora a una rinascita miracolosa. La rinascita, s’intende, della poesia, vista leopardianamente come «tregua» dal «male che m’impedisce ugualmente di vivere e di morire» (similmente, l’abbiamo appena visto, Giacomo era «troppo forte per morire e troppo debole per sopportare»): Cari amici, di una cosa potete essere certi: le poche poesie riunite […] sono le ultime che ho scritte, e le ultime mie che leggerete me vivo […]. Uccelli sono un miracolo. Non intendo parlare di bellezza, o, comunque, di valore letterario […] ma del nudo fatto di aver potuto scrivere poesie. Le ho scritte nell’estate del 1948; ed è dalla metà circa del 1947 che ho cominciato a sentirmi morire alle cose. Ero sicuro […] che non avrei scritto più versi. Ma il male che m’impedisce ugualmente di vivere e di morire, mi concedette in quell’estate un breve periodo di tregua. […] Uccelli sono nati anche da una circostanza occasionale. Il gerente la Libreria Antiquaria che porta ancora il mio nome, aveva comperato, poco tempo prima, un gruppetto di libri sulla caccia e gli uccelli. Pensando […] di aver fatto un cattivo affare, lo aveva nascosto in una cassetta, gettandovi sopra, per non vederlo, un sacco, che una punta di curiosità superstite o l’eccesso della mia noia sollevarono un giorno. E mi misi a sfogliare quei vecchi libri. Rimasi colpito […] da quelli che parlavano degli uccelli, della loro vita, dei loro usi o costumi. Mi parve di aver scoperto il paradiso in terra; e che,

29  A tal proposito, si vedano anche le osservazioni di Montale e di Sereni, per cui cfr. infra, pp. 77-79, 117-121. 30  Cfr. c, Il sabato del villaggio, vv. 24-27: «I fanciulli gridando / Su la piazzuola in frotta, / E qua e là saltando / Fanno un lieto romore». 31  tlp, Prose sparse, Le polpette al pomodoro, p. 1100.

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dovendo proprio nascere, il solo destino invidiabile fosse quello di nascere un uccello. Già il Leopardi disse ai suoi tempi beati (li chiamo beati solo per il confronto coi nostri) qualcosa di simile […]. Fu come una festa inaspettata, e del tutto fuori stagione; fu anche – come prevedevo – una festa di breve durata. Risprofondai subito nella depressione e nello sconforto, nella certezza di non essere ormai che un peso morto sulla superficie della terra, di non aver nulla da fare o da dire in un mondo che non è più mio, nel quale, di mio, non resistono, ad accrescere la tristezza, che pochi frammenti. Così è cari amici32.

Più di un accento leopardiano si conserva in questa lettera-prefazione, che a tratti può ricordare certi passaggi di quella Agli amici suoi di Toscana, soprattutto per i temi del «comiato dalle lettere e dagli studi»33, dell’estraneità e della morte in vita: Saba parla di «peso morto sulla superficie della terra», Leopardi di «un tronco che sente e pena» e di un «un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi»34. Ma se anche ciò non fosse, resta comunque significativo il semplice rimando al «destino degli uccelli», l’unico «invidiabile» anche secondo l’autore dei Canti. Stavolta però egli non più è affiancato, come nella Prefazione al Canzoniere del 1921, da Petrarca: segno che «il filo d’oro della tradizione italiana» si è assottigliato. 1.2. Il «filo d’oro» di Silvia: le origini Gli interventi in prosa ricordati fin qui sono serviti a introdurre brevemente la questione del leopardismo di Saba, più che altro secondo le indicazioni, non importa quanto affidabili, dell’autore stesso35. D’ora in avanti ci concentreremo sulla sola poesia, cercando di 32 

ca, Uccelli, Prefazione ad «Uccelli», pp. 569-570. Giacomo Leopardi, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, Mondadori, Milano 19988, p. 153. 34  Ibid. 35  Un discorso a parte meriterebbero Scorciatoie e raccontini (1945), che Saba stesso definisce «le sue Operette morali» (tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 304). Preciso soltanto che, a dire il vero, al loro interno il nome di Leopardi compare piuttosto tardi, nella scorciatoia n. 64, per tornare poi altre due volte (nn. 67, 74). Invece, le Scorciatoie del 19341935 e le Primissime scorciatoie contenevano entrambe una citazione puntuale dai Canti. La prima è tratta da c, Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 19-21 («troppo tardi / E nella sera delle umane cose, / Acquista oggi, chi nasce, il moto e il senso»); la seconda dalla Quiete dopo la tempesta, v. 7 («E chiaro nella valle il fiume appare»), verso che pare a Saba «il più bello, il più inutile, il più melanconico, il più perfetto che sia mai stato scritto»: l’unico, insomma, che 33

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riavvolgere i fili d’oro dell’ordito leopardiano36. Uno dei principali, senza dubbio, è quello di Silvia, che davvero compare sin dalle «origini» e torna poi con «graduali sviluppi» e «svincolamenti»37. È un percorso, questo, che prende avvio nel 1902, anno in cui il diciannovenne Saba compone due liriche chiaramente ispirate ­al canto del 1828. Ecco la prima, intitolata Addio! e inviata nel marzo all’amico Amedeo Tedeschi: Addio bei sogni, addio speranze liete, giochi sereni e dolci amici addio; addio per sempre ore soavi e quete, addio per sempre, o dolce viver mio! Addio memorie, addio affettuosi inganni, addio fantasmi de l’età primiera, addio innocenti e desiati affanni, addio canzoni e pianti de la sera! Addio in eterno! Oggi nel gracil petto ho seppellito il mio più dolce amore e dove giace quel mal morto affetto sento un brivido freddo di dolore. Oggi ho il cuore ammalato! L’avvenire innanzi viene gelido e austero, e come sola meta al mio soffrire mi mostra lungi il bianco cimitero38. «potrebbe rimanere di secoli di noia» (tlp, Primissime scorciatoie 1934-1935, n. 3, p. 874). Leopardi è protagonista, infine, della primissima scorciatoia n. 25, che prevede sì un ritorno malinconico, ma anche un abbandono, non senza un ripensamento finale: «Leopardi Non lo leggevo da anni, questo idolo malinconico della mia giovanezza malinconica. Uno di questi giorni ho ripreso il suo libro, l’ho portato con me in un bar. Mancava la luce. Avrei potuto pregare il cameriere di accenderla. Ma, ad un tavolo in fondo, erano seduti due amanti, che avevano per sé – bene prezioso – l’ombra. Ho rimesso il libro in tasca, e credo veramente che non vi leggerò più. N.B. Ecco una delle scorciatoie che oggi, forse, non scriverei più. Ma allora… e con quello che allora si voleva fare di Leopardi» (ivi, n. 25, p. 881). 36  Su Leopardi nel Canzoniere, oltre ai già ricordati lavori di Carrai, Lavagetto, Milanini e Vecce, si vedano anche: Ettore Caccia, Lettura e storia di Saba, Bietti, Milano 1967, pp. 340-343; Renzo Negri, Leopardi nella poesia italiana, Le Monnier, Firenze 1970, pp. 87-98; Lonardi, Leopardismo cit., passim; Marina Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, Olschki, Firenze 2009, passim; Giuseppe Savoca, Saba e il «Canzoniere» tra i suoi padri Petrarca e Leopardi, «La modernità letteraria», 1, 2008, pp. 87-99. 37  tlp, La prosa al servizio della poesia: le prefazioni ai libri di versi, Ai miei lettori (Canzoniere 1921), p. 1128. 38  po, Poesie disperse, Addio!, p. 881. Corsivi miei.

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1. umberto saba e i fili d’oro di leopardi

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In questa lirica, senza dubbio ancora acerba, Saba sembra svincolarsi assai poco dal modello di A Silvia. Vi è anzi una piena identificazione con la fanciulla (e con il suo destino di morte), che si traduce in esibite riprese testuali, a partire dalle «speranze liete» e dalle «ore soavi e quete»: tutti termini chiave di A Silvia, per giunta presentati in coppie aggettivali secondo una modalità stilistica forte del canto pisano (ma anche l’«età primiera» dialoga con la leopardiana «età mia nova»)39. Elencare tutti i debiti sarebbe un esercizio piuttosto scontato e in parte già svolto40. Vale la pena, però, sostare un poco sull’immagine conclusiva, del resto ripresa anche nel Canzoniere41: «l’avvenire», nient’affatto «vago» e assai diverso da quello immaginato da Silvia42, incede «gelido e austero» e mostra da lontano («mi mostra lungi») un «bianco cimitero». È una chiara riscrittura, con pochissime varianti, del celebre finale leopardiano: All’apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano43.

Ma anche l’altra poesia assegnabile al 1902 – un sonetto dedicato Alla morte – ripropone lemmi e immagini di A Silvia. Il testo, poi inserito nel solo Canzoniere del 1919, apparve per la prima volta su «La Brigata» (1917), non a caso insieme a una canzone profondamente leopardiana, A una stella, che in Storia e cronistoria è citata come exemplum del leopardismo infuocato del giovanissimo Saba44. Restiamo tuttavia sul sonetto:

39 

c, A Silvia, v. 54: «Cara compagna dell’età mia nova». Cfr. già Caccia, Lettura e storia di Saba cit., p. 342. 41  E sin da Ammonizione, lirica incipitaria sulla quale cfr. infra, pp. 40-41. 42  c, A Silvia, vv. 11-12: «assai contenta / Di quel vago avvenir che in mente avevi». 43  Ivi, vv. 60-63. 44  Cfr. tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, pp. 126-127: «Non sembra dubbio che, nell’età della sua formazione, il poeta che l’ha più impressionato sia stato il Leopardi. Fra i 16 e i 19 anni egli deve aver avito per lui una vera passione. In una poesia che Saba riesumò in questi giorni per la “Fiera Letteraria”, il processo assimilativo al maestro è così impressionante da far pensare ben più ad un’immedesimazione amorosa che ad una banale imitazione. A riprova di quanto abbiamo asserito, dobbiamo qui abusare della pazienza del lettore, e riprodurre l’intero componimento […]. La poesia s’intitolava “Alla mia stella”». 40 

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Dolce cosa è per me fra le tue braccia, Morte, in sogno approdar fra le tempeste; non vidi ancor dappresso la tua faccia, non cingo te di fantasie funeste. Speranza ho in cor che d’ore gravi e meste, che d’un pensiero che in bando mi caccia dal volgo errante al gran silenzio agreste, tuo ch’io divenga, rimarrà una traccia; che un’ignota creatura a me pensando andrà quando s’accendono i fanali; che gli amici nei dì belli, tornando da campagne sui monti o in riva al mar, me rivedran, fra l’ombre dei viali, ombra lieta e pensosa trasvolar45.

Certo qui Leopardi non è l’unico modello, forte è infatti l’influsso di una lunga tradizione, petrarchesca e anche precedente. Eppure, le tessere da A Silvia continuano ad essere esibite: basterà quel «lieta e pensosa» nel finale. Per quanto topico, non va inoltre trascurato il riferimento al motivo della tempesta, che in A Silvia agisce sottotraccia, ma nel profondo46; inoltre, altrettanto leopardiano è il legame tra pulsione (o desiderio) di morte e riscatto postumo affidato alla parola poetica. È questo, d’altronde, un nesso esplicitato in una lettera, sempre del 1902 e ancora a Tedeschi, dai toni leopardiani: «ho il presentimento sicuro» – confessa Saba – «che tutto quanto ho fatto o farò non verrà compreso se non dopo la mia morte, la quale, non per ambizione, ma per stanchezza di soffrire, desidero ardentemente che mi colga fra breve»47. 45 

po, Poesie disperse, Alla morte, p. 886. Corsivi miei. Il motivo è più esplicito nell’Appressamento della morte (1816), che contiene in nuce il nucleo dell’immaginario di A Silvia. Su quest’intreccio, cfr. D’Intino, L’amore indicibile cit., pp. 132-139. 47  Lettera di Umberto Saba ad Amedeo Tedeschi, 28 agosto 1902, citata in ca21, p. 520. Corsivi dell’autore. Si trattava però di un desiderio confinato alla sola «volontà cosciente», come preciserà poi Saba in Storia e cronistoria (ma in relazione alla raccolta Autobiografia): «che se tale volontà fosse esistita nelle profondità del suo essere, è probabile che egli “caro agli dei” avrebbe avuta la soddisfazione di morir giovane» (tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 206). Si noti che risuona qui l’epigrafe menandrea posta in apertura di Amore e Morte («Ὅν οἱ θεοὶ φὶλοῦσιν ἀποθνήσχει νέος. Muor giovane colui ch’al cielo è caro»). La formula ritorna poi nel distico finale di ca, Mediterranee, Narciso al fonte, vv. 10-11, p. 534: «Perché caro agli dèi si mutò in fiore / bianco sulla sua tomba». Corsivi miei. 46 

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1.3. Un verde germoglio Lasciamo da parte, a questo punto, le Poesie disperse, e andiamo alla ricerca delle tracce di Silvia nel Canzoniere vero e proprio. Ebbene, al contrario di quanto avviene nelle liriche del 1902, nel libro sabiano non vi è un’identificazione diretta con la fanciulla dei Canti, che tuttavia è presente, per prendere in prestito un’immagine dello Zibaldone, «come in ombra»48, ritorna cioè attraverso alcune controfigure. La prima, che compare soltanto nel Canzoniere del 1921, è una giovane chiamata Bianca: un nome da leggere forse in chiave antifrastica49. Le carte iniziano perciò a mescolarsi un poco, ma i calchi leopardiani – da A Silvia e dal Canto notturno – rimangono vistosissimi. Ecco infatti l’incipit del componimento50: a Giunta alla dubbia soglia della vita, Bianca, che fai? Interroghi le cose (tutte nuove per te), o una palla ancora tratti per gioco? Perché dal riso fanciullesco cessi, così a un tratto, o lo muti in un sorriso melanconico quasi, e i neri occhi levi pensosa? Di che parli alle tue molte compagne? Forse d’amore?51

La poesia si apre dunque con un interrogativo che, attraverso la mediazione del Canto notturno52, dialoga da vicino con A Silvia: la «soglia» – un’immagine che Saba riprenderà altrove53 – traduce il «limita48 

z 60. Alludo a Nerina o alla stessa Silvia dalle «negre chiome» (c, A Silvia, v. 45). Si noti però che in Leopardi il bianco è il colore della speranza intatta, ossia incontaminata dalla «pece amara» della «velenosa etade»: «E te pur lorda avria / L’indegna mota che sei tanto bianca» (Giacomo Leopardi, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, vv. 140-141, 131-132, in Id., Poesie cit., p. 389). 50  La prima delle due strofe (a) era stata già pubblicata, con alcune varianti, nelle Poesie del 1911. 51  Saba, Canzoniere apocrifo, Bianca, vv. 1-10, in po, p. 730. Corsivi miei. 52  c, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 1-2: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai». 53  Si veda la «soglia», concreta ma anche metaforica, di Giovanezza, per cui cfr. infra, pp. 43-44. 49 

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re»; ricompare poi l’aggettivo «pensosa»54, il dettaglio degli occhi (alla fine della poesia, per giunta, si dice di «pupille» che «ridono»)55, e puntualissima è la ripresa – notata già da Caccia56 – dai vv. 47-48 di A Silvia: «Né teco le compagne ai dì festivi / Ragionavan d’amore». Non è il caso qui di soffermarci troppo sugli espliciti richiami intertestuali. Piuttosto, interessa mettere a fuoco il campo metaforico, anch’esso leopardiano. Poco sopra abbiamo visto gli ambiti del freddo (il «gelido» «avvenire» di Addio)57 e della tempesta (Alla morte); in Bianca, subito dopo i versi appena citati, compaiono invece un accenno alla dimensione sonora e, soprattutto, una metafora vegetale assai cara a Leopardi, quella del verde e tenero germoglio che nasce in uno scenario oscuro, quasi infernale58: Bianca c’è in te qualcosa del germoglio verde che nasce al ramicello in cima, quando il cielo cinereo ancora, e stecchi è la campagna: anche alcunchè dei trilli onde largheggia preludïando il musico, ed arpeggia, ed indugia così come il sonoro legno provasse59.

Ora, la metafora della fanciulla-germoglio è centralissima – l’ha mostrato D’Intino60 – nell’immaginario persefoneo che nutre il canto di Silvia («tenerella»)61, come pure in tanta parte di quell’«ambiente romantico» nel quale il «classico» Saba era «maturato»62. Non al54 

c, A Silvia, vv. 5-6: «E tu, lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi?». Da confrontare con gli «occhi tuoi ridenti e fuggitivi» ivi, v. 4. 56  Cfr. Caccia, Lettura e storia di Saba cit., p. 342. 57  Silvia, lo si ricorderà, è «combattuta e vinta» da «chiuso morbo» «pria che l’erbe inaridisse il verno» (c, A Silvia, vv. 40-41). 58  Non sarà casuale l’impiego di un lessico dantesco, che sembra far eco in particolar modo a Inf. xiii, vv. 4-6: «Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco». Corsivi miei. 59  po, Canzoniere apocrifo, Bianca, vv. 13-20, p. 730. Corsivi miei. 60  Cfr. D’Intino, L’amore indicibile cit., pp. 95-195. 61  c, A Silvia, vv. 42-43: «Perivi, o tenerella. E non vedevi / Il fior degli anni tuoi». 62  Cfr. tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 128: «Saba fu, per temperamento, un classico, maturato in ambiente romantico; ci sembra aver detto, con questo, qualcosa di utile alla sua comprensione. Forse è bene aggiungere che la sua istruzione fu, purtroppo, scarsa […]. Una cultura se la fece poi da solo […]. Sia come si voglia, è certo che quando, 55 

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lontaniamoci troppo, però, da Bianca e leggiamo la seconda strofa in quest’ottica attenta agli usi metaforici: b Bianca, è per te che tra la folla anch’io scendo, ed ivi m’aggiro ove ti spero. Colgo un’erba che il tuo piede leggero prema, e le ignude mani bacio, delizia sola, ch’altro teme, e s’invola la tua grazia ribelle. Bianca, le cose belle sieno tutte per te. Nasca da mia indicibile pena un inesprimibile sogno, che l’origliere ti rasseti [sic], e su te chino, chiuda tue nere pupille con un bacio, e ti dica di me. Bianca, le tue pupille ridono, e sono freccie. Bianca, tue belle treccie mi tengono prigione. Bianca, le cose buone sieno tutte per te63.

Il poeta scende tra la «folla» – è questo un movimento tipicamente sabiano64 – e coglie un’«erba» premuta, calpestata dal «piede leggero» della fanciulla. Vi è qui senz’altro una suggestione petrarchesca – da Chiare, fresche et dolci acque, soprattutto (rvf, cxxvi) – ma il gesto del cogliere e il contrasto tra il «piede leggero» e il verbo premere appartengono di più a un orizzonte leopardiano. Entrambe le immagini, ad esempio, animano il famoso passo zibaldoniano sul giardino «in istato di souffrance»: nella sua cameretta “dove nessuno aveva parlato a lui di buoni o cattivi autori”, Saba lesse per la prima volta il Leopardi, deve aver avuta l’impressione non già di leggerlo, ma di rileggerlo». 63  po, Canzoniere apocrifo, Bianca, vv. 25-46, p. 731. Corsivi miei. 64  Si pensi a ca, La serena disperazione, Il garzone con la carriola, vv. 5-7, p. 147: «Spalanchi le finestre o scendi tu / tra la folla: vedrai che basta poco / a rallegrarti».

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Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. […] Qua un ramicello è rotto dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli65.

Che Saba avesse in mente proprio questo brano – certo più ‘violento’ – è tuttavia difficile da dimostrare. La seconda strofa di Bianca, però, ospita altri due dettagli di più sicura derivazione leopardiana: le «ignude mani» da un lato, e le ridenti «nere / pupille» dall’altro. A contaminarsi, dunque, sono due tra i motivi portanti di A Silvia: quello iniziale degli occhi «ridenti e fuggitivi» e quello conclusivo della «mano» che mostra «la fredda morte ed una tomba ignuda»66. Ma in questo caso l’eco di Silvia non basta; le «pupille tenere» ed «erranti», insieme alla «candida» e «ignuda mano», comparivano infatti già nel canto precedente, Il Risorgimento: E voi, pupille tenere, Sguardi furtivi, erranti, […]. Ed alla mano offertami Candida ignuda mano Foste voi pure invano Al duro mio sopor67.

1.4. «Al fiato della primavera» Finora abbiamo visto come alcuni motivi di A Silvia – il gelo, la tempesta, il germoglio, la mano – facciano comparsa nelle primissime prove poetiche e nelle poesie giovanili di Saba. Ebbene, tale trama, che è anzitutto persefonea, si conserva nel poeta più maturo, come ad esempio si può notare nelle opere del biennio 1928-1929: 65  66  67 

z 4175-4176, 22 aprile 1826. Corsivi miei. c, A Silvia, vv. 4, 61-62. Corsivi miei. c, Il risorgimento, vv. 57-58, 61-64. Corsivi miei.

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L’Uomo e Preludio e fughe. Partiamo da quest’ultima, e in particolare dalla Settima fuga che accoglie, specialmente nella prima voce, temi, immagini e scelte lessicali leopardiane. Eccone l’incipit:

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La vita, che d’altre vite si nutre, o è fugace, o tace, pauroso arcano, la sua propria mèta. Sapessi almeno, non triste e non lieta, giungere, in pace con me stessa, al giorno estremo68.

La presenza di Leopardi riguarda più che altro il piano del lessico, con alcune spie – «lieta», «arcano» ed «estremo» su tutte – che aprono, passando per i canti pisano-recanatesi, al cosiddetto ciclo di Aspasia69. Poco dopo, però, all’aggettivazione di stampo leopardiano («amara» e «ascoso» conducono ancora ad A se stesso) subentrano i topoi, che già conosciamo, della Silvia-Persefone (insieme alla dialettica di morte e rinascita): Amara sono ad altri e a me stessa… Eppure in fondo, nell’intimo dell’essere, profondo più del dolore, hanno stanza pensieri celesti. […] Il gelo si scioglie al fiato della primavera, la nera terra discopre di germogli piena. […] S’innova ogni vita per altre in lei distrutte; 68 

ca, Preludio e fughe, Settima fuga, vv. 25-46, p. 389. Corsivi dell’autore. Si vedano c, Il pensiero dominante, v. 7: «tua natura arcana»; c, Aspasia, v. 20: «arcana voluttà»; c, A se stesso, v. 2: «l’inganno estremo». Si tenga a mente però anche il Leopardi sepolcrale: c, Sopra un basso rilievo antico, v. 86: «il giorno estremo»; c, Sopra il ritratto di una bella donna, vv. 38-39: «arcano / Erra lo spirito umano». Corsivi miei. 69 

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di tutte una non v’è che dica di sì atroce legge il modo di uscire […]

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Restiamo, per meglio amarla, in questo ascoso porto70.

Assai simile, d’altra parte, è il campo metaforico che sorregge L’Uomo (1928), un poemetto che, come scrive Carrai, nasce da un «progetto» assai ambizioso, con il quale «il poeta mirava a compendiare la storia naturale ed esistenziale dell’essere umano»71. La prospettiva adottata, insomma, è più allegorica che autobiografica, e perciò è davvero difficile pensare che il ritorno dei motivi persefonei avvenga per una pura casualità. Per di più, ciò accade sin dai primi versi, alla seconda strofa: Cresceva come tra le verdi fronde un frutto, che l’occhio al quale esso tondeggia al tutto appaga, ma la mano ancor non coglie; aspetta sia tra le ingiallite foglie maturo72.

Per descrivere l’infanzia, Saba si serve quindi di un’altra metafora vegetale: un frutto ancora acerbo – simile al «verde / germoglio» di Bianca – che però stavolta la «mano ancor non coglie»73. Alla germogliazione primaverile e alla fioritura estiva, tuttavia, segue «improvvisa» la «tempesta»: Era all’estate della vita […] sbocciava qualche fiore da lui che della terra

70  ca, Preludio e fughe, Settima fuga, vv. 47-51, 56-59, 78-82, 85-86, pp. 389-390. Corsivi dell’autore. 71  Carrai, Saba cit., p. 157. 72  ca, L’Uomo, vv. 12-17, p. 349. Corsivi miei. 73  Anche qui, come per Bianca, non è da escludere del tutto la memoria di Inf. xiii. Si pensi infatti, ma per contrasto, alle «frondi» non «verdi» della selva dei sucidi, che Dante spezza e coglie con la «mano»: «Allor porsi la mano un poco avante, / e colsi un ramicel da un gran pruno» (Inf. xiii, vv. 31-32).

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viva nel grembo intrecciava le vive radici. […] Sopravvenne improvvisa la tempesta, di dove non seppe mai. Dentro una nube muove il Dio che ne castiga74.

È qui riproposto, nella sostanza, lo schema archetipico che dall’Appressamento della morte conduce ad A Silvia, tanto più che l’apice della «tempesta» (simbolo del castigo che turba la quiete) è raggiunto con una morte più che tenera, la morte cioè del figlio neonato. Torna allora il motivo del gelo, insieme ad altri topoi condivisi con la cantica: la pietrificazione, la cecità, il malinconico rannicchiarsi75. Eccoli tutti insieme, trasposti nel giro di pochi versi: Dei rimasti il migliore un dì l’immerse nell’angoscia, e partì lontano. Accanto quel gli restava che cresceva in forme perverse, ed una giovanetta che di gelo aveva il cuore, e cieca allo sfacelo, solo un tormento non trovava vano: tutta a se stessa di rose intrecciare la vita. La sua moglie col mento in una mano parea impietrita76.

74 

ca, L’Uomo, vv. 257, 262-265, 268-270, pp. 356-357. Mi limito a qualche esempio dall’Appressamento: «Taceva ’l tutto, ed i’ era di pietra» (i, v. 82): «Non vidi come speme cada e pera / e ’l desio resti e mai non venga pieno, / così che lasso cor giunga la sera. // Seppi, non vidi […]» (v, vv. 25-28); «Povera cetra mia, già mi t’invola / la man fredda di morte» (v, vv. 88-89); «e sento un gelo / quando penso ch’appressa il punto estremo» (v, vv. 98-99). Le citazioni sono tratte da Giacomo Leopardi, Appressamento della morte, edizione critica a cura di Sabrina Delcò-Toschini, introduzione e commento a cura di Christian Genetelli, Antenore, Roma-Padova 2002 (rispettivamente alle pp. 17, 98-99, 105-106, 107). 76  ca, L’Uomo, vv. 291-301, p. 357. Corsivi miei. 75 

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1.5. Intermezzo L’immagine della moglie pietrificata in posa malinconica ci permette di introdurre un’altra figura femminile che assume i connotati – tra i tanti – di Silvia: Lina, la vera moglie del poeta, ritratta in più di un’occasione mentre tesse, proprio come la fanciulla dei Canti, seduta alla finestra. Vi è infatti chi ha parlato di una vera e propria «equivalenza»77 tra le due figure, ben visibile non solo nell’Intermezzo a Lina di Casa e campagna (1909-1910)78, ma forse pure – lo vedremo meglio più avanti – nella quinta poesia di Fanciulle (1925). In ogni caso, interessa ora mettere in risalto le profonde radici di tale sovrapposizione, già salde in una lirica (Lina) pubblicata nelle Poesie del 1911 e poi accolta nel Canzoniere del 192179. Leggiamola nella sua ultima redazione: Lina, già volge l’anno che ti vidi. Seduta alla finestra eri e cucivi. Io ti sorrisi, non mi dissi amante, ti accarezzai quell’anima tremante. Com’eri bella, buona! che tesoro di dolcezza nei neri umili occhi! Io fingendo ammirare il tuo lavoro, ti posavo una mano sui ginocchi. Tu alzando gli occhi: Non mi puoi tu amare – ammonivi così – non lusingarmi. A me tutto sorride, e tu non farmi male. Ne sparsi di lacrime, amare tanto! Risero i buoni occhi piangenti, fissandosi ne’ miei: poi su t’alzasti; ed io non ti seguii. Rimasi. Basti così – dissi a me stesso – e udivo lenti passi dentro l’attigua stanza, i tuoi. Era la sera, l’ora della cena, l’ora del lume, l’ora che la pena ingigantisce, o Lina, che non vuoi

77 

Vecce, Un invito a cena cit., p. 75. Cfr. ca, Casa e campagna, Intermezzo a Lina, vv. 40-44, p. 84: «cucivi, un poco inferma, / nella tua cella, o rumoroso intorno, / come una camerata di caserma, / t’era il laboratorio, / pieno di canti e di malinconia». 79  Dopo questa data Lina non troverà più ospitalità nel Canzoniere sabiano. 78 

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amare, perchè temi, perchè sai diversa dalla tua questa mia strada. Tu fiorita la pensi, ovunque vada non altro trova che lacrime e guai80.

Sin dal primo verso il lettore si accorge di trovarsi in una zona leopardiana; puntuale, infatti, è il calco – segnalato già da Castellani81 – dall’incipit di Alla luna: «O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, […]»82. Altrettanto evidenti sono però i debiti con A Silvia, nonostante sia venuta meno la componente luttuosa; come Silvia, Lina – di nuovo – siede e cuce83, mentre i suoi «occhi piangenti» ridono dopo essersi fissati in quelli del poeta. Per di più, al canto pisano ci riconducono alcune soluzioni metrico-stilistiche, formali ma pur sempre frutto di un’allusione voluta e cercata: l’utilizzo del nome al vocativo (all’inizio e verso la fine del componimento)84 e le esclamative (vv. 5-6) introdotte da «che» e «come», vale a dire dalle tessere fondamentali della «grammatica poetica»85 di A Silvia («Che pensieri soavi, / Che speranze, che cori, o Silvia mia!»; «Come passata sei […] / Mia lacrimata speme!)»86. Ancora, la presenza del pronome di seconda persona singolare all’inizio del verso («Tu fiorita la pensi», v. 23) e l’alternanza tra passato remoto e imperfetto (la serie «t’alzasti», «ti seguii», «rimasi», «udivo», vv. 13-16) trovano un corrispettivo nel più volte ricordato finale leopardiano: «Tu, misera, cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda / Mostravi di lontano»87.

80 

po, Canzoniere apocrifo, Lina, p. 745. Corsivi miei. Cfr. ca21, p. 482. 82  c, Alla luna, vv. 1-2. Corsivi miei. Con Alla luna, seppur attraverso la mediazione de L’assiuolo di Pascoli, dialoga anche A Lina, inserita da Saba in ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, p. 36. 83  Si tenga però presente, ancora una volta, la mediazione pascoliana, e in particolare della Tessitrice (pubblicata in rivista nel 1897 e poi inclusa nei Canti di Castelvecchio del 1903). A riguardo, cfr. Lonardi, Leopardismo cit., pp. 103-105. 84  «Lina, già volge l’anno» al v. 1; «O Lina» al v. 20 (come in c, A Silvia, vv. 1, 29: «Silvia, rimembri», «o Silvia mia!»). 85  Prendo in prestito quest’efficace formulazione, alla quale farò ricorso anche più avanti, da Gilberto Lonardi, Winston Churchill e il bulldog. La «Ballata» e altri saggi montaliani, Marsilio, Venezia 2011, p. 44. 86  c, A Silvia, vv. 28-29, 53, 55. 87  Ivi, vv. 60-63. Corsivi miei. 81 

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l’onda trascorrente

È tempo però di lasciare da parte Lina, per osservare come l’eco di A Silvia, così ricercato nelle poesie giovanili e disperse, risuoni pure nel testo che apre l’edizione definitiva del Canzoniere. 1.6. Due fanciulli inesperti

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È un’Ammonizione ricca di immagini e di interrogativi leopardiani, infatti, a dare il la al Canzoniere: Che fai nel ciel sereno bel nuvolo rosato, acceso e vagheggiato dall’aurora del dì? Cangi tue forme e perdi quel fuoco veleggiando; ti spezzi, e dileguando, ammonisci così: Tu pure, o baldo giovane, cui suonan liete l’ore, cui dolci sogni e amore nascondono l’avel, scolorerai, chiudendo le azzurre luci, un giorno; mai più vedrai d’intorno gli amici e il patrio ciel88.

Inutile insistere qui sui rimandi ad altri canti, del resto segnalati dalla critica89. Qualche parola di commento merita invece la terza quartina, nella quale è di nuovo ripreso, e solo in parte cambiato di segno, il finale di A Silvia. Difatti, se in Leopardi la «dolce» Speranza mostra la «fredda morte» e «una tomba ignuda», in Ammonizione 88 

ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Ammonizione, p. 17. Corsivi miei. Le prime due strofe riprendono l’avvio del Canto notturno, «senza infingimenti o dissimulazioni»; a cambiare è però l’ambientazione, «aurorale anziché notturna» (Carrai, Il modello Leopardi dal primo all’ultimo Saba cit., p. 236, che discute anche altre sovrapposizioni con Il sabato del villaggio e con Sopra un basso rilievo antico sepolcrale). 89 

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«i dolci sogni e amore» nascondono – l’esatto contrario del mostrare – l’«avel»: un lemma, attestato nella varia lectio di A Silvia90, che traduce la «tomba» in un lessico più melodrammatico. Epperò, anche in Saba l’illusione è presto svelata, più precisamente allo scalino dell’ultima strofa: «tu pure» – nonostante questo – «scolorerai», commenta il poeta. D’altra parte, proprio il verbo scolorare (leopardiano ma non solo)91 compariva, per una curiosa casualità, tra le varianti di A Silvia, al v. 40: «Tu pria che l’erbe inaridisse il verno», al quale si affiancava la lezione alternativa «i poggi scolorisse»92. La «derivazione» leopardiana della prima poesia dell’adolescenza, insomma, è davvero «inoppugnabile»93, e lo stesso si potrebbe dire – hoc erat in votis, lo sappiamo – delle altre liriche della raccolta iniziale. Sarebbe dunque superfluo soffermarci su tutte, ma almeno un’altra, la terza, merita di essere ricordata: è la Lettera ad un amico pianista, nella quale incontriamo l’ennesima controfigura di Silvia, stavolta però di sesso maschile (Elio, un amico d’infanzia). Eccone l’incipit e qualche altro verso di cui, per non ripetermi, non commenterò le riprese testuali dal canto leopardiano: Elio, ricordi il bel tempo gentile, l’amicizia fraterna che ci univa pel gioco nel cortile della casa materna? […] Ma spesso tu sedevi pensieroso al cembalo sonoro; ed io in un canto udivo il dilettoso angelico lavoro. Le tue dita rendevan la canzone dell’amore, della vita; 90  «La fredda, scura, morte ed una tomba ignuda, avello» (c.l.xxi.7a, c. 2r). ‘Avello’ ha due occorrenze nei Canti, per cui si vedano c, Ad Angelo Mai, v. 138: «sconsolato avello» e c, Bruto Minore, v. 110: «sdegnoso avello». 91  c, Canto notturno, vv. 65-66: «Che sia questo morir, questo supremo / Scolorar del sembiante». 92  Biblioteca Nazionale di Napoli, Carte Leopardi, xxi.7a, c. 1v. 93  Cfr. supra, p. 20 nota 6.

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l’onda trascorrente

e s’accendeva in me la visione d’una pace infinita94.

La riscrittura dell’incipit di A Silvia è fin troppo chiara. Il dialogo, però, si fa più complesso nei versi successivi:

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Elio, è al tuo cor presente quella bionda signora? e nel sonno, o con gli occhi della mente, la rivedi tu ancora? Come tutto mutò! Come la vita diversa oggi m’appare! Quante immagini care m’han, via fuggendo, l’alma impaurita!95.

La «bionda signora» a cui fa riferimento Saba, e alla quale si rivolge ora la memoria, è la madre di Elio, spenta quando i suoi «anni / già volgevano a sera»96. La morte, perciò, colpisce una figura assai diversa da Silvia, che può anzi ricordare «la maturità di Aspasia»97. Nessuna vita troncata nel «fior degli anni», dunque, eppure l’effetto è lo stesso: «Quale allora ci apparia / La vita umana e il fato»98, esclamava Leopardi, al quale fa eco Saba: «Come tutto mutò! Come la vita / diversa oggi m’appare!». D’altronde, il finale della poesia rende ancora più esplicita la sovrapposizione tra Leopardi e Saba, o meglio ancora tra Silvia e Saba. È una chiusura circolare, che non solo ripropone l’interrogativo iniziale e il topos del «canto» che risuona per «le vie dintorno»99, ma contiene anche l’idea di un ritorno (possibile solo nel ricordo e nella poesia) alla condizione di Silvia, fanciulla inesperta – come il «baldo giovane» di Ammonizione – dell’umano dolore: Pace ha tua madre giù nel cimitero. Quasi a trarne conforto 94  ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Lettera ad un amico pianista studente al conservatorio di…, vv. 1-4, 13-20, p. 19. Corsivi miei. 95  Ivi, vv. 29-36, p. 20. Corsivi miei. 96  Ivi, vv. 25-26. 97  Vecce, Un invito a cena cit., p. 76. 98  c, A Silvia, vv. 30-31. Corsivi miei. 99  Ivi, vv. 8-9.

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a lei va reverente il mio pensiero; poi tosto a te lo porto; a te che sconosciute vie all’intorno empiendo vai di suoni; né, fin che al tutto non è spento il giorno, il cembalo abbandoni.

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Oh potessi sedermi a te d’accanto! Udire quei tranquilli arpeggi, quelle fughe, quel tuo canto, quei tuoi limpidi trilli di rosignolo. Io scorderei di certo di mia vita l’errore; ritornerei fanciullo ed inesperto dell’umano dolore. Per te il bel tempo rivivrei gentile, l’amicizia fraterna che ci univa – ricordi? – nel cortile della casa materna100.

1.7. Giovanezza In ogni caso, il più intenso confronto con A Silvia avviene altrove, e precisamente nella terza delle Tre poesie fuori luogo (1920), Giovanezza: un titolo dalla desinenza cara a Leopardi, come osservava Giovanni Giudici, che in una lettera immaginaria al poeta di Recanati annoverava proprio il lemma «giovanezza» tra le parole tutte leopardiane e non più utilizzabili dai poeti dopo di lui101. Potremmo aggiungere, come non sarà sfuggito a Giudici stesso, che la parola ‘giovanezza’ è però altrettanto sabiana; infatti, non solo compare in un altro titolo (Dopo la giovanezza, nella raccolta La serena disperazione, 1913-1915), ma ricorre anche per ben altre 34 volte nel Canzoniere, a fronte di una sola attestazione di ‘giovinezza’, per giunta 100  ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Lettera ad un amico pianista studente al conservatorio di…, vv. 45-60, pp. 20-21. Corsivi miei. 101  A riguardo, cfr. infra, pp. 174-175.

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riferita non all’io lirico ma alla città di Trieste102. Della ricorsività e della carica allusiva di questo lemma leopardiano, insomma, bisognerà tener conto nell’avvicinarsi alla lettura di Giovanezza: Nella via popolosa (e l’aria è grigia di pioggia, autunnale) consunto il volto e le membra dal male, di un negozietto sull’uscio (né cosa di quel più oscura è nell’oscura via) sta un giovane seduto. Non par che soffra; ascolta in pace, muto, l’organetto che suona. Lo guardo; ha in volto popolar fierezza. E dall’interno un’altra giovanezza tiene in lui l’occhio nero, di pietà colmo, del vano dei poveri amore, quale può solo amare, e non salvare. «Ai primi freddi – pensa – morirà»103.

In un giorno autunnale, grigio di pioggia – un oscuro presagio – lo sguardo del poeta si sofferma quindi su questo giovane sull’«uscio», che sembra essere quasi una reincarnazione di Silvia. Come la fanciulla leopardiana, egli siede e, soprattutto, ha «il volto e le membra» consunte dal «male». Viene proprio da pensare, allora, al «chiuso morbo» dal quale Silvia è «combattuta e vinta» – «consumata e vinta» nei Canti del 1831104 – appena «pria che l’erbe inaridisse il verno»105: «Ai primi freddi – pensa – morirà», commenta similmente l’«altra giovanezza» in Saba. Del resto, ulteriori aspetti, meno vistosi ma pur sempre significativi, ci riconducono allo scenario d’apertura di A Silvia; la dimensione sonora, ad esempio, in Leopardi affidata al canto che risuona nelle «quiete stanze» e nelle «vie dintorno»106, è qui ripresa 102  Cfr. ca, Trieste e una donna, Verso casa, vv. 11-12, p. 90: «[…] in questo suo colore / di giovinezza, in questo vario moto». Già Milanini, nel commento a Coi miei occhi pubblicato nella collezione «I Paralleli» diretta proprio da Giudici, per ‘giovanezza’ parlava di «forma prediletta dal Leopardi, e perciò cara a Saba» (Umberto Saba, Coi miei occhi, a cura di Claudio Milanini, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 25). 103  ca, Tre poesie fuori luogo, Giovanezza, vv. 1-15, p. 185. Corsivi miei. 104  Giacomo Leopardi, Canti, presso Guglielmo Piatti, Firenze 1831, p. 135. 105  c, A Silvia, vv. 40-41. 106  Ivi, vv. 7-8.

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attraverso l’«organetto» che il giovane «ascolta in pace, muto» (per inciso, il mutismo è un tema assai significativo nell’immaginario leopardiano, anche in relazione ad A Silvia)107. E tuttavia in Giovanezza vi è anche uno scarto: il destino del «giovane» di Saba, che tra l’altro non si è ancora compiuto (è registrato in presa diretta e poi proiettato nell’«avvenir»), si rivela infatti, nella seconda strofa, diverso da quello sortito da Silvia. È lì che si verifica il primo vero svincolamento: Amorosa o sorella? O l’una e l’altra? La povera gente non li cura che passa; ed io, dolente, sento a un tratto per essi, sento quella, diversamente triste, al cor tornarmi mia giovanezza prima108.

La scena ha dunque favorito un ritorno, o meglio – e in termini leopardiani – una ricordanza: «sento» «al cor tornarmi / mia giovanezza prima». Per di più, non sfuggirà che l’oggetto della ricordanza è proprio quella «giovanezza» che in A Silvia è negata al poeta: «agli anni miei», scriveva Leopardi, «Anche negaro i fati / La giovanezza»109. L’influsso di A Silvia, però, non termina qui e agisce nei versi successivi: Poi la vita mi prese, che sublima, se non stronca, il dolore; con le sue mani mi prese spietate e benedette; e da me s’ebbe alate fra i tormenti parole, s’ebbe amari rimbrotti; udire ella non parve alcuna di mie querele umane, prese vie strane e a mèta mi portò cui vengon rari110.

La presenza del canto leopardiano è senza dubbio più sfumata. Eppure, ci sono indizi che fanno pensare che il dialogo, poi di nuovo evidente nell’ultima strofa, continui. Il primo è l’uso della personifi107  108  109  110 

A riguardo, cfr. D’Intino, I misteri di Silvia cit., pp. 230-231. ca, Tre poesie fuori luogo, Giovanezza, vv. 16-21, p. 185. Corsivi miei. c, A Silvia, vv. 50-52. Corsivi miei. ca, Tre poesie fuori luogo, Giovanezza, vv. 22-30, p. 185. Corsivi miei.

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cazione: non della Speranza come in Leopardi, ma della «vita» che afferra «con le sue mani […] spietate / e benedette». D’altra parte, ed eccoci al secondo indizio, la scelta di coppie aggettivali al limite dell’ossimorico («spietate / e benedette») ha un precedente illustre proprio in A Silvia: «ridenti e fuggitivi», «lieta e pensosa», «innamorati e schivi», e così via111. Sul piano figurale, poi, non serve ricordare ancora l’immagine conclusiva della mano, che in Leopardi mostrava la «fredda morte e una tomba ignuda»112. Ma siamo giunti ormai alla strofa finale, nella quale Saba esce allo scoperto: O voi che il dolor strinse, a cui sta presso, o vi pare, la morte; giovane sventura e della sorte di lui pietosa; povertà lo vinse, più forse ancora del morbo; ed io grande non proverei stupore, se qui, tra un anno passando, egli fuori trovassi ancor seduto, se non di sanità fiorente, almeno più lieto in volto, e il negozietto pieno, non come adesso, di grame verzure, ma di quante più belle e più ridenti frutta ha la stagione. La mia canzone tanto vi rechi – se un bene – o creature113.

Dalle sue «querele» e dalla sua «vita» Saba, con un movimento che è anche di Leopardi, torna dunque sul destino del «giovane» ritratto in apertura. È qui che insieme si dispiega, si scioglie e poi ritorna il filo di Silvia. «Povertà lo vinse, / più forse ancora del morbo», infatti, sembra proprio correggere il leopardiano «Da chiuso morbo combattuta e vinta»114. D’altro canto, è proprio il destino di morte, che tanto aveva affascinato Saba nelle sue primissime prove poetiche, ad essere ora negato, o forse meglio risolto in una morte solo pensata: l’approdo è nel segno della rinascita, simboleggiata dal ciclo stagionale della fioritura 111  112  113  114 

c, A Silvia, vv. 4-5, 46. Ivi, v. 62. ca, Tre poesie fuori luogo, Giovanezza, vv. 30-45, p. 186. Corsivi miei. c, A Silvia, v. 41.

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e dalla metamorfosi delle «grame verzure» in frutti ridenti. In altri termini, sebbene nel «giovane» si conservino i senhal di Silvia (lo stare seduto, il volto lieto, i topoi persefonei), egli con tutta probabilità – e senza suscitare stupore – sopravvivrà al freddo dell’inverno. Ma in che modo accade tutto ciò? Viene da pensare, se ben interpreto l’augurio finale, grazie al valore salvifico di quella parola di cui si diceva nella seconda strofa: «la mia canzone tanto vi rechi – se un bene – o creature». Se così è, allora Saba non si discosta tanto da Leopardi e dalla sua Silvia, il cui «canto» è reso davvero «perpetuo» e immortale dalla voce del poeta115. Per entrambi gli autori, d’altra parte, il discorso potrebbe essere rovesciato, giacché la poesia, incarnata da Silvia e dal «giovane», costituisce a sua volta un momento salvifico: «mandarvi dei versi», scriverà Saba nella prefazione del 1921, «è stata per me la salvezza». Non a caso lì il poeta, fratello del fanciullo di Giovanezza, si ritrae come colui che «ha freddo» e sente «la vita come una landa tutta ghiacciata»: per rinascere e salvarsi dovrà «avvicinare al fuoco» della poesia «le dita intirizzite»116. 1.8. Fanciulle, ninfe, passanti È il caso, tuttavia, di precisare che nel Canzoniere la figura di Silvia ha agito pure in un’altra direzione e in un altro Saba, quello più sensuale di Fanciulle (1925). Stavolta però si tratta anche di un’altra Silvia: la fanciulla innocente, il «fiore purissimo» e «intatto» che ha «un non so che di divino», stando a un pensiero dello Zibaldone annotato appena due mesi dopo la stesura del canto pisano. Eccone un estratto: Ma veram. una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che 115  Si veda anche D’Intino, I misteri di Silvia cit., p. 254: «Nell’aprile del ’28, invece, proprio secondo lo schema degli infantili componimenti sull’inverno, Leopardi mette in scena una Core che muore per rinascere, poeticamente, ad ogni ri-lettura […]. La poesia diventa così una sorta di spazio sacro, capace di annullare l’idea di morte e di caducità». 116  tlp, La prosa al servizio della poesia: le prefazioni ai libri di versi, Ai miei lettori (Canzoniere 1921), p. 1129. Corsivi miei.

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voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto117.

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Ebbene, a differenza di Leopardi, in Fanciulle Saba insiste proprio sul «desiderio di posseder quell’oggetto» e su un certo fascino malizioso dell’innocenza, che suscita la sensazione di un paradiso sì, ma solo apparente. Infatti, così avverte la prima poesia della serie, nei versi finali: […] Oh, quanti vorrebbero per sé ai miei occhi il lampo del piacere promesso, che paradiso è spesso, e più spesso è l’inferno senza scampo!118.

Anche le due poesie successive conservano, estremizzano e confondono alcuni tratti dell’archetipo femminile che è dietro alla «giovane» dello Zibaldone (e dunque alla stessa Silvia). La seconda fanciulla, ad esempio, è «ammalata d’un intimo malore», «ha gli occhi grandi e neri» e «reggere sogna fieri / interminati gli assalti d’amore»119: Forse è vergine ancora, forse solo pensò, pensa quel bene. Forse in deserte arene, tornata fiera, uccise il suo figliolo. Eppur bella è così, fiore di spina, che, se il male si tace, toglie a te la tua pace col franco riso di buona bambina.

117  118  119 

z 4310-4311, 30 giugno 1828. ca, Fanciulle, 1, vv. 12-16, p. 291. ca, Fanciulle, 2, vv. 1-4, p. 292.

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Ma se piange spettacolo ti tocca di sconvolta natura, e se parla hai paura: dice cose confuse la sua bocca120.

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Il «fiore purissimo», insomma, si rivela ora un «fiore di spina»; per di più, il «riso» della fanciulla toglie la «pace» e le sue parole «confuse» incutono paura (singolare trasposizione, questa, del topos dell’indicibilità). Del resto, il lessico e l’immaginario di A Silvia – la «dolce lode», gli sguardi «schivi», le «compagne»121 – conservano un’eco anche nella terza fanciulla, regale e inarrivabile come una divinità: Questa che innanzi mi viene è una fronte di parvenza regale. D’un qualunque mortale a lei gli amori sembrerebber’onte. Sempre ti dirà «prego» e non mai «voglio»; ma, di tue lodi schiva, in un peccato è viva, ismisurato e divino: l’orgoglio. Quante ha dolci compagne, ch’ella buona da se stessa protegge; ed a quella ch’elegge, quanto è docile più, più di sé dona. D’un dio in attesa, di potergli dare suo cuor forte e sereno, seno premendo a seno, con le vergini uguali ama danzare122.

Per quanto reali123, queste fanciulle sdegnose che danzano con le vergini124 sembrano assumere proprio i tratti delle ninfe: creature di120 

Ivi, vv. 5-16. c, A Silvia, vv. 45-47: «La dolce lode or delle negre chiome, / Or degli sguardi innamorati e schivi; / Né teco le compagne ai dì festivi». 122  ca, Fanciulle, 3, p. 293. Corsivi miei. 123  Sull’identificazione delle fanciulle, cfr. Carrai, Saba cit., pp. 142-147. 124  A riguardo, si veda anche c, Il sabato del villaggio, vv. 14-15: «Solea danzar la sera intra di quei / Ch’ebbe compagni dell’età bella». Si tenga presente che la natura divina, 121 

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vine, inarrivabili e seducenti, che del resto – per ragioni diverse – non sono estranee alla Silvia e alla Nerina di Leopardi125. Ebbene però, al contrario di Silvia, e proprio come certe ninfe (quelle tassiane, ad esempio)126, le fanciulle di Saba si distinguono per il fatto di arrossire narcisisticamente alle lodi. Così fa Chiaretta, la fanciulla «acerbetta» protagonista di questo Saba mediano:

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È bella quanto può così acerbetta esser bella fanciulla. Non è fatta di nulla la sua grazia? Non è la mia Chiaretta? Vedi come al sapore della lode le s’imporpora il viso. Io le dico: «Narciso». Si specchia nell’ingiuria ella, e ne gode127.

Non molto diversa è pure la decima fanciulla, descritta ancora una volta con il lessico di A Silvia, e sin dall’incipit: Oh quanto amor nei suoi sdegni nasconde questa che invan tu molci, che se le dici dolci cose con una mossa ti risponde128.

«Non ti molceva il core / La dolce lode»129, leggiamo invece nel canto leopardiano. La memoria di A Silvia, però, agisce più nel leggera e danzante delle Fanciulle è ribadita nell’ultima lirica della raccolta: «Oh come invece / l’amo ancora fanciulla! / In queste mie v’è nulla / che m’offenda, son quasi un’altra spece [sic]. // Ah, che la vita è solo ancora un gioco / generoso per esse / con levità connesse / come gli dèi, tutte simili un poco» (ca, Fanciulle, 12, vv. 9-16, p. 302). Corsivi miei. 125  Come è noto, i nomi delle fanciulle dei Canti corrispondono a quelli di due ninfe dell’Aminta di Tasso. A ogni modo, per un’ampia analisi sul tema della ninfa rinvio a Fabio Camilletti, Leopardi’s Nymphs. Grace, Melancholy, and the Uncanny, Legenda, Oxford 2013. 126  Eccone un esempio, tratto non dall’Aminta ma dalla Gerusalemme liberata: «Così da l’acque e da’ capelli ascosa / a lor si volse lieta e vergognosa. // Rideva insieme e insieme ella arrossia / ed era nel rossor più bello il riso» (xv, ottava 61, vv. 7-8; ottava 62, vv. 1-4). Corsivi miei. 127  ca, Fanciulle, 4, vv. 5-12, p. 294. 128  ca, Fanciulle, 10, vv. 1-4, p. 300. Corsivi miei. 129  c, A Silvia, vv. 44-45. Corsivi miei.

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profondo nella quinta fanciulla, dietro alla quale si cela forse – di nuovo – l’ombra di Lina. Infatti, proprio come Silvia, come alcune ninfe e come la Lina delle poesie giovanili130, anche quest’ultima fanciulla su cui ci soffermeremo ora è intenta a cucire (ma diverrà poi una dattilografa che «di segni empie le carte»). Si ritorna così al «filo» delle «origini», che tuttavia non si scioglie, anzi s’intreccia ancora di più attraverso la moltiplicazione dei modelli e dei motivi:

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Questa è la donna che un tempo cuciva seduta alla finestra. Nell’ago era maestra, e l’occhio, l’occhio nella via fuggiva. È la sartina. Ufficio oggi ha diverso, e altrimenti è nomata. Ma è pur la stessa. Amata, risana, langue se amore l’è avverso. È la stessa. O mutata è sì, ma in parte piccola veramente. L’occhio un giorno sfuggente oggi affissa. E di segni empie le carte. Ma chi la vede per la via passare sul ben calzato piede, nella vita più fede sente, e in se stesso. E si volge a mirare131.

Alla memoria stilnovistica e cavalcantiana (si veda soprattutto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira: «Questa è la donna che un tempo cuciva», sembra rispondere Saba) si sommano qui suggestioni più recenti. La tessitrice dall’«occhio» che «fuggiva» si trasforma ora

130  Si vedano le già ricordate Lina (Canzoniere 1921) e Intermezzo a Lina (ca), nelle quali torna anche il particolare degli occhi che affissano: «Risero i buoni occhi piangenti, / fissandosi nei miei»; «Ora i tuoi occhi come dolci dardi / figgi in me» (po, Poesie disperse, Lina, vv. 13-14, p. 745; ca, Intermezzo a Lina, Intermezzo a Lina, vv. 53-54, p. 84). Cfr. però anche ca, Trieste e una donna, Nuovi versi alla Lina, 3, vv. 9-12: «quel giorno ancora chiamo il più felice / dei miei giorni, che in rosso scialle avvolta / ho salutata per la prima volta / Lina la cucitrice». 131  ca, Fanciulle, 5, p. 295. Corsivi miei.

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– è mutata «in parte» (in rima, come in A Silvia, con «carte»)132 – da ninfa a passante: una figura, o meglio ancora una Pathosformel, che ai primi del Novecento non può che riportarci a Baudelaire e, con la mediazione di Gradiva, a Freud (in tal senso, il «bel calzato piede» potrebbe essere un indizio curioso)133. Se così è, in questo Saba «psicanalitico prima della psicanalisi»134 verrebbe da leggere un’anticipazione – non importa se casuale – di quell’«originale intreccio»135 che il poeta triestino, a partire dalla raccolta successiva a Fanciulle (Cuor morituro, 1925-1930), proporrà tra Leopardi e Freud, valorizzando per primo e più di tutti il ciclo di Aspasia. 1.9. La brama e una Preghiera Difatti, in Cuor morituro i prestiti più fertili provengono dal ciclo di Aspasia, ossia dal recupero, «aiutato certamente da Freud», di «un Eros antico e feroce»136. A riguardo, conviene partire da La brama, la cui derivazione leopardiana è dichiarata apertamente dallo stesso Saba. Così infatti scrive in Storia e cronistoria: “La brama” è, essa pure, una delle grandi poesie di Saba […]. Noi possiamo rimproverarle un solo difetto – raro nel Nostro – un po’ di eloquenza. La voce del poeta è bene la sua, ma ci giunge come amplificata da un altoparlante. L’amplificazione non è nei particolari, che sono anzi sobri e precisi, ma nell’impostazione troppo esclamativa della lirica. “La brama” deriva sensibilmente dal “Pensiero dominante” di Leopardi […]. La brama di cui parla Saba è la 132  c, A Silvia, vv. 15-18: «Io gli studi leggiadri / Talor lasciando e le sudate carte, / Ove il tempo mio primo / E di me si spendea la miglior parte». 133  Alludo alla novella di Wilhelm Jensen Gradiva. Ein pompejanisches Phantasiestück (1903), letta e spiegata da Freud in chiave psicanalitica (cfr. il saggio Der Wahn und die Träume in Jensens  ‘Gradiva’, 1906). Sul rapporto tra le ninfe e Gradiva, con aperture verso Jolles e Warburg, mi limito a rimandare al recente studio di Daniela Sacco, Ninfa e Gradiva: dalla percezione individuale alla memoria storica sovrapersonale, «Cahiers d’études italiennes», 23, 2016, pp. 45-60. 134  Gianfranco Contini, Un anno di letteratura, Le Monnier, Firenze 1946, p. 92. Non poco è stato scritto su Saba e la psicanalisi, ma per un’utile panoramica cfr. Stefano Carrai, Trieste, gli anni della psicoanalisi, in Giancarlo Alfano, Stefano Carrai (a cura di), Letteratura e psicoanalisi in Italia, Carocci, Roma 2019, pp. 81-107 (in particolare, pp. 89-107). 135  Negri, Leopardi nella poesia italiana cit., p. 95. 136  Lonardi, Leopardismo cit., p. 44. Di «antico Eros che unifica il mondo» si parla pure in tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 226.

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brama carnale; essa accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, non gli dà pace né tregua137.

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La «voce del poeta» è la «sua», sì, ma è pure «amplificata» dalle esclamazioni che rischiano di renderla troppo eloquente. Quale sia il vettore di questa «amplificazione» è subito detto: la lirica «deriva sensibilmente dal Pensiero dominante», da un componimento cioè, possiamo aggiungere, ricco di esclamative138 e di domande retoriche139 (quest’ultime assenti in Saba, se non fosse per un’unica eccezione situata in un passaggio – lo vedremo meglio tra poco – ricalcato fedelmente sul finale leopardiano)140. Ma leggiamo il testo della Brama, a partire dall’incipit: O nell’antica carne dell’uomo addentro infitta antica brama! Illusione, menzogna, vanità delle cose che lei non sono, o lei per non parere vestono diverse forme, e son pur quest’una in cui quanta dolcezza ha in sé il creato la carne aduna141.

137 

tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, pp. 225-226. Ecco qualche esempio: «Come solinga è fatta / La mente mia d’allora / Che tu quivi prendesti a far dimora!»; «Che divenute son, fuor di te solo, / Tutte l’opre terrene, / Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia / Gli ozi, i commerci usati, / E di vano piacer la vana spene, / Allato a quella gioia, / Gioia celeste che da te mi viene!»; «Che mondo mai, che nova / Immensità, che paradiso è quello / Là dove spesso il tuo stupendo incanto / Parmi innalzar! dov’io, / Sott’altra luce che l’usata errando, / Il mio terreno stato / E tutto quanto il ver pongo in obblio!»; «Angelica beltade!» (c, Il pensiero dominante, vv. 13-15, 21-28, 100-106, 130). 139  Ne presento una casistica: «Di tua natura arcana / Chi non favella? il suo poter fra noi / Chi non sentì?»; «A quello onde tu movi, / Quale affetto non cede? / Anzi qual altro affetto / Se non quell’uno intra i mortali ha sede?»; «Da che ti vidi pria, / Di qual mia seria cura ultimo obietto / Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, / Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei / La tua sovrana imago / Quante volte mancò?»; «Che chiedo io mai, che spero / Altro che gli occhi tuoi veder più vago? / Altro più dolce aver che il tuo pensiero?» (c, Il pensiero dominante, vv. 7-9, 69-72, 136-141, 145-147). 140  Cfr. ca, Cuor morituro, La brama, vv. 40-42: «Altro che te che ho detto / io nei modi dell’arte, che ho nascosto / altro che te, o svelato?». 141  Ivi, vv. 1-10, p. 320. Corsivi miei. 138 

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I tre versi inaugurali, che diverranno poi un ritornello per descrivere la natura ossessiva e dominante del pensiero d’Amore, sembrano proprio conservare la memoria di Aspasia: «Così nel fianco / Non punto inerme a viva forza impresse / Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto / Ululando portai»142. Immediatamente dopo, è il lessico a ricondurci alla stessa zona dei Canti: «illusione, menzogna / vanità delle cose» – non serve dimostrarlo – sono tutte parole chiave del ciclo fiorentino. In ogni caso, il fil rouge di Aspasia prosegue nei versi successivi, dove tra l’altro è introdotto il motivo portante della parentela tra Eros e Thanatos: Ti riconosce colui che alla sera, con lotta e pena, della vita è giunto; ti riconosce e, per sfuggirti, morte s’invoca; ahi, che da te vorrebbe avere quella morte, antica brama!143

Potremmo continuare ad illustrare altri intrecci, ma sarebbe superfluo: che dietro La brama vi sia un certo Leopardi è stato detto prima da Saba, poi dai critici e dai commentatori. Un passaggio della quarta strofa, però, merita di essere riletto: la più mobile tu, tu la più immota fra le cose del mondo, antica brama! Onnipresente, strani aspetti assumi, ed or ti veli, ed or t’imponi in nuda forma impudica. Altro che te che ho detto io nei modi dell’arte, che ho nascosto altro che te, o svelato?144

Come anticipato, i versi rielaborano e quasi condensano il finale del Pensiero dominante: Da che ti vidi pria, Di qual mia seria cura ultimo obietto 142  c, Aspasia, vv. 28-31 (la segnalazione è già in Negri, Leopardi nella poesia italiana cit., p. 95). Corsivi miei. 143  ca, Cuor morituro, La brama, vv. 18-22, p. 320. 144  ca, Cuor morituro, La brama, vv. 35-42, p. 321. Corsivi miei.

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Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei La tua sovrana imago Quante volte mancò? Bella qual sogno, Angelica sembianza, Nella terrena stanza, Nell’alte vie dell’universo interno, Che chiedo io mai, che spero Altro che gli occhi tuoi veder più vago? Altro più dolce aver che il tuo pensiero?145

Eppure, in Cuor morituro non vi è solo l’eco «ferino»146 del Pensiero dominante, di Amore e Morte e di Aspasia, ma trova spazio anche il canto più melodrammatico della serie, il Consalvo, riscritto da Saba sotto forma di Preghiera per una fanciulla povera. Leggiamola: Erna, strana fanciulla, oscura come la grazia. Un giovane l’amava, ed ella non poteva dargli per quanta pena gli facesse, un bacio. Li dava a molti i dolci baci, a quello che la pregava piangendo, nessuno. Di lui fu sorte ammalarsi (da tempo era senza lavoro, era da tempo anche a sé un peso) e la fanciulla, finta un’improvvisa passione, la bocca dipinta giungeva a quella del morente. Forse ella può ancora guarire. Ma dove cosa le accada di cui teme il freddo questa fanciulla povera, Signore; dove apparirti ella dovesse viso a viso, apri le porte del tuo paradiso147.

145  146  147 

c, Il pensiero dominante, vv. 136-147. Corsivi miei. Riprendo qui un’espressione di Lonardi, Leopardismo cit., p. 44. ca, Cuor morituro, Preghiera per una fanciulla povera, p. 341.

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Beninteso, il topos del bacio in punto di morte non è esclusivamente leopardiano, e anzi il Consalvo prende a sua volta spunto dal Conquisto di Granata. Epperò, la consonanza emerge non solo dal contenuto, ma anche e soprattutto – uso le parole del poeta – dal tono da «“novelletta”», adottato per giunta «contro tutti i canoni della modernità»148. Vi è tuttavia anche uno scarto – e non da poco – che riguarda la figura femminile, vera protagonista in Saba (a lei è indirizzata la Preghiera); non si tratta più di un personaggio letterario né della figlia di un re, ma di una fanciulla povera, «strana» e «oscura come / la grazia», non identificata ma identificabile: è colei che «concedeva a molti i suoi baci, li concedeva, per così dire, a tutti meno al giovane che l’amava davvero»149. 1.10. Aspasia a Trieste Cuor morituro non è però la prima raccolta nel segno di Aspasia, che anzi lascia le sue tracce già nella dolorosa vicenda – il tradimento della moglie – narrata in Trieste e una donna (1910-1912). Difatti, a Lina è attribuita lì una duplice maschera: la prima, più esplicita, è quella della Carmen di Bizet, la seconda, sicuramente più velata ma ritornante, è quella di Fanny. Eccole insieme nell’incipit di una poesia intitolata, per l’appunto, Carmen: Torna la mia disperazione a te. Dopo aver tanto errato, oggi il mio amore torna al tuo fiero mutevole ardore, più nulla chiede che la tua onestà. In queste lunghe giornate d’affanno, che senza lotta e senza pace vanno, e senza la tua gaia crudeltà; con la mia solitaria anima invisa, con l’immagine tua dovunque incisa, ho sognato pur io d’averti uccisa, per l’ebbrezza di piangere su te150. 148  149  150 

tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, p. 234. Ibid. ca, Trieste e una donna, Carmen, vv. 1-11, p. 96. Corsivi miei.

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Come ha notato Paino, «nei versi dedicati a questa Carmen triestina si sente subito l’eco»151 dell’attacco di Aspasia:

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Torna dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nell’anima a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge152.

In breve, Saba duplica il verbo iniziale – ‘tornare’, ripetuto ai vv. 1 e 3 – e fa propria l’idea della «superba visione» che «risorge» in ogni luogo: «con l’immagine tua dovunque incisa». Ma allora, viene da aggiungere, con Aspasia dialoga non solo l’incipit ma anche il finale di Carmen. Entrambe le chiuse sono infatti incentrate sul motivo del sorriso, di nuovo però con uno spostamento sostanziale: non più quello, di «conforto e vendetta», dell’io lirico («Il mar la terra il ciel miro e sorrido»)153, ma quello, non so se pietoso o impietoso, della donna: «Io che a fatica ho rattenuto un grido / mi sono meritato un tuo sorriso»154. D’altra parte, tra questi due estremi si registrano anche altri punti di contatto. Penso anzitutto al riferimento alla «musica», certo legato a Bizet ma ripetuto per due volte in Aspasia, in modo piuttosto inaspettato: Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi […] In simil guisa ignora Esecutor di musici concenti

151  Paino, La tentazione della leggerezza cit., p. 100. Si noti pure che ‘affanno’ è parola chiave dell’intero ciclo leopardiano, per cui cfr. c, Consalvo, v. 71: «mortale affanno»; c, Il pensiero dominante, vv. 89, 119: «umani affanni», «infiniti affanni»; c, Amore e morte, vv. 50, 99: «affannoso amante», «teneri affanni»; c, Aspasia, v. 64: «affanni intensi». 152  c, Aspasia, vv. 1-8. Corsivi miei. 153  Ivi, vv. 110, 112. Corsivi miei. 154  ca, Trieste e una donna, Carmen, vv. 30-31, p. 97. Corsivi miei.

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Quei ch’ei con mano o con la voce adopra In chi l’ascolta155.

E in Saba: Incolpabile amica, austera figlia d’amore, se la vita oggi t’esiglia, con la musica ancora vieni a me156.

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Che il parallelo non sia troppo forzato, io credo, è confermato dai versi successivi, dove la donna appare l’ultima volta – guarda caso – nelle vesti di «una popolana / di Firenze»: Solo vagavo il mattino di un giorno di festa, e tra la folla oscura e vana tu m’apparivi in una popolana di Firenze157.

Carmen, però, non è l’unica poesia di Trieste e una donna a contenere riprese tematiche, lessicali e sintattiche dal ciclo di Aspasia. Mi limito ad altri due esempi, tra i più significativi. Il primo è La malinconia amorosa, nella quale gli echi s’addensano – ancora una volta – nell’incipit e nel finale: Malinconia amorosa del nostro cuore, come una cura secreta o un fervore solitario, più sempre intima e cara; per te un dolce pensiero ad un’amara rimembranza si sposa; discaccia il tedio che dentro ristagna, e poi tutta la vita t’accompagna. […] Malinconia amorosa della mia vita, 155  156  157 

c, Aspasia, vv. 34-35, 67-70. ca, Trieste e una donna, Carmen, vv. 12-14, p. 96. Ivi, vv. 22-25, p. 96.

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prima del cuore ed ultima ferita; chi a cogliere i tuoi frutti ama l’ombre calanti, i luoghi oscuri, lento cammina, va rasente i muri, non vede quello che vedono tutti, e quello che nessuno vede adora158.

Ebbene, nelle prime battute – scrive Milanini – sono «smorzati, ma ben percepibili»159 i debiti con Il pensiero dominante: «Quindi più sempre divenir non vede»; «Per cor le gioie tue, dolce pensiero»; «Sei tu, dolce pensiero; «Più sempre infievolir»; «Altro più dolce aver che il tuo pensiero?»160. Inoltre, se l’«amara / rimembranza» fa tornare alla mente la «rimembranza acerba» delle Ricordanze161, l’aggettivo «amaro» – insieme a «noia» – è termine chiave di A se stesso («Amaro e noia / La vita, altro mai nulla; e fango il mondo»)162: similmente, Saba parla qui di «tedio» – altra parola dei Canti – che «ristagna, e poi tutta la vita t’accompagna». Quanto invece al finale della lirica, la «ferita» nel «cuore» può ricordare di nuovo quella inflitta da Aspasia nel «fianco» (nel cuore, appunto) di Giacomo: un motivo topico, sì, ma pure ben presente, nella rielaborazione leopardiana, alla memoria del Saba di Cuor morituro. Per di più, con Aspasia è in comune l’idea di Amore come inganno, per effetto del quale il «piagato mortal»163 non «vede quello che vedono tutti» e 158  ca, Trieste e una donna, La malinconia amorosa, vv. 1-8, 25-32, pp. 113-114. Corsivi miei. 159  Milanini, Il «filo d’oro» cit., p. 169. 160  c, Il pensiero dominante, vv. 64, 88, 110, 125, 147. Tutti i rimandi sono suggeriti da Milanini, tranne l’ultimo (che è anche l’ultimo verso del canto). Per altri simili calchi lessicali e sintattici, si veda ca, Trieste e una donna, La solitudine, v. 5, p. 143: «infinito affetto», che trova corrispondenza in c, Consalvo, v. 92 («infinito affetto»). Ancora, un verso come «ma solo e sempre non veder che te» (ca, Trieste e una donna, Nuovi versi alla Lina, 6, v. 23, p. 128) riecheggia c, Consalvo, vv. 11-12: «Quella che sola e sempre eragli a mente». Corsivi miei. 161  c, Le ricordanze, v. 173. Ma si veda pure c, Il primo amore, v. 61: «Amarissima allor la ricordanza». 162  c, A se stesso, vv. 9-10. Corsivi miei. 163  Cfr. c, Aspasia, vv. 37-47: «Vagheggia / Il piagato mortal quindi la figlia / Della sua mente, l’amorosa idea, / Che gran parte d’Olimpio in se racchiude, / Tutta al volto ai costumi alla favella / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiare ed amar confuso estima. / Or questa egli non già, ma quella, ancora / Nei corporali amplessi, inchina ed ama. / Alfin l’errore e gli scambiati oggetti / Conoscendo, s’adira».

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«adora», tra tormento e «delizia», una falsa divinità, ossia ciò «che nessuno vede»: «Quanto adorata, o numi, e quale un giorno / Mia delizia ed erinni!»164. L’ultimo esempio su cui dirò brevemente è L’appassionata, dove da un lato tornano il lemma ‘amaro’, il motivo della musica e l’immagine della ferita, dall’altro lato compare il tema – già di Aspasia – dell’inconsapevolezza della donna: Questa grazia che a te fors’anco è ignota è il nostro amore, è la tua verità. Quanto riguardi tosto a te si vota, offre a te la sua vita. Dell’inferta ferita poi sanguini così dentro il tuo cuore, che si chiede perdono a te, o devota, o appassionata, […] La tua voce che a me giunge più amara e più impregnata dell’intima ambascia, si ascolta come una musica bassa, come una lenta musica di chiesa. Nell’anima che tu, innocente, hai lesa strana dolcezza lascia, pure al ricordo, la tua voce amara165.

Il «tu» al quale Saba si rivolge è quindi inconsapevole quanto «innocente». È questa, allora, un’altra differenza tra l’approdo di Trieste e una donna e la serie leopardiana, nella quale ad essere detto «innocente» è solo il «sangue» versato dal poeta: «La man che flagellando si colora / Nel mio sangue innocente»166. 1.11. Un canto «per se stesso» (e altre canzonette) La memoria del Leopardi di Aspasia continua ad agire anche dopo Trieste e una donna. Prima di passare oltre, perciò, è il caso di accen164  165  166 

Ivi, vv. 9-10. Corsivi miei. ca, Trieste e una donna, L’appassionata, vv. 6-13, 17-23, p. 92. Corsivi miei. c, Amore e Morte, vv. 112-113.

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nare al Canto di un mattino di Preludio e canzonette (1922-1923), che si apre con un’allocuzione al cuore e racconta l’estremo «addio all’amore» – un canto «per se stesso» – di un giovane «marinaio»:

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Da te, cuor mio, l’ultimo canto aspetto, e mi diletto a pensarlo fra me. Del mare sulla riva solatia, non so se in sogno o vegliando, ho veduto, quasi ancor giovanetto, un marinaio. […] E l’udivo cantare, per se stesso, ma sì che la città n’era intenta, ed i colli e la marina, e sopra tutte le cose il mio cuore: «Meglio – cantava – dire addio all’amore, se nell’amor non è felicità»167.

L’apostrofe e l’allocuzione al cuore inducono a credere che sottotraccia vi sia A se stesso, nonostante la differenza di tono, qui privo d’ogni asprezza. Del resto, è questa una modalità discorsiva cara a Saba, e persistente, se è vero che giunge fino alla tarda raccolta Epigrafe (1947-1948). Si prenda ad esempio il finale di Vecchio e giovane: Nella tua impazienza, cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; ha un compito difficile; ha la vita non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, se puoi, tua morte. O non pensarci più168.

È stato notato che sia l’andamento «autoesortativo»169 sia la «serie di imperativi rivolti al cuore» sono debitori al più breve canto fiorentino170, ma si può aggiungere che una variazione sugli stessi 167 

ca, Preludio e canzonette, Il canto di un mattino, vv. 1-5, 9-14, p. 225. Corsivi miei. ca, Epigrafe, Vecchio e giovane, vv. 23-27, p. 560. Corsivi miei. 169  Antonio Girardi, Lo stile dell’ultimo Saba, in Jacopo Galavotti, Antonio Girardi, Arnaldo Soldani (a cura di), L’ultimo Umberto Saba: poesie e prose, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2019, p. 10. 170  Furio Brugnolo, Commentare e interpretare Saba: ‘Vecchio e giovane’, in Id., Forme e figure del verso. Prima e dopo Petrarca, Leopardi, Pasolini, Carocci, Roma 2016, p. 213. 168 

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motivi era contenuta già nella Seconda fuga di Preludio e fughe, che per di più si chiude con una dolce rassegnazione all’«essenza amara» (si presti ancora attenzione all’aggettivo): L’ultima goccia di dolcezza esprimi, anima stanca, e muori […].

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Anima fanciulletta, anima cara, ecco prendi di me quel che tu puoi. Io prendo tutto: la dolcezza, e poi, che più mi piace, la tua essenza amara171.

«Or poserai per sempre, / Stanco mio cor», così esordiva il Leopardi di A se stesso, per ribadire: «T’acqueta omai. Dispera / L’ultima volta»172. Ma lasciamo stare le esortazioni e, per completare il quadro su Aspasia, torniamo a Preludio e canzonette. Subito dopo il già citato Canto di un mattino, troviamo infatti una Canzonetta nella quale si moltiplicano le riprese. Leggiamone intanto lo snodo centrale: Malinconia, la vita mia amò lieta una cosa, sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa, ch’altro non spero173.

Ai prestiti lessicali che ormai già conosciamo, subentra qui l’eco di due luoghi del Consalvo: Desiata, e molto, Come sai, ripregata a me discende, Non temuta, la morte; e lieto apparmi Questo feral mio dì […] […] Due cose belle ha il mondo: Amore e Morte174. 171  ca, Preludio e fughe, Seconda fuga, vv. 1-2, 13-16, p. 370. I corsivi ai vv. 1-2 sono miei, gli altri dell’autore. 172  c, A se stesso, vv. 1-2, 11-12. 173  ca, Preludio e canzonette, Canzonetta i. La malinconia, vv. 21-25, p. 227. 174  c, Consalvo, vv. 42-45, 99-100. Corsivi miei.

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Saba, però, afferma di aver «sempre» amato «una cosa» sola: la Morte. Eppure, come Leopardi, subito dopo precisa che «il fanciullo Amore» «gode» accompagnarla «sovente»175:

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Quando non s’ama più, non si chiama lei la liberatrice; e nel dolore non fa più felice il suo pensiero. Io non sapevo questo; ora bevo l’ultimo sorso amaro dell’esperienza. Oh, quanto è mai più caro il pensier della morte al giovanetto, che a un primo affetto cangia colore e trema. Non ama il vecchio la tomba: suprema crudeltà della sorte176.

Ebbene, da Amore e Morte è ripresa pure la rima morte : sorte, posta da Leopardi proprio in apertura: «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte»177. È probabile allora che dallo stesso canto – ma stavolta dalla chiusa – derivi anche, alla fine della Canzonetta 5, il sintagma «virgineo seno»178, per giunta anticipato da un lessico (‘caro’, ‘lontano’) e da una serie di motivi leopardiani (la ricordanza, la corsa affannosa, la voce che chiama): Sensazioni lontane mi trafiggono il cuore; un ricordo improvviso.

175 

c, Amore e Morte, vv. 13-14. ca, Preludio e canzonette, Canzonetta i. La malinconia, vv. 21-40, p. 228. Corsivi miei. 177  c, Amore e Morte, vv. 1-2. Corsivi miei. 178  Cfr. ivi, vv. 122-124: «Solo aspettar sereno / Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / Nel tuo virgineo seno». Il sintagma sarà anche di Giudici, ma a riguardo cfr. infra, p. 205. Corsivi miei. 176 

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Alza, fanciulla, il viso; e quanto avviene ascolta che per te mi rammenti. […] Ore in mare beate sogno, ghiacce bevande dopo corse affannose;

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monti, vallette ombrose che non vidi, ma lessi di lor, chiuso scolaro. Ogni dolcezza imparo così, solo sognando. E una voce mi chiama. Oh, quante cose brama saper la cara voce! […] Come al fondo tu sia di ciò, forse ti chiedi. Bimba, abbassa il tuo viso. Il tuo seno diviso da un’ombra queste cose mi richiamò beate. Mi richiamò beate cose un virgineo seno, care cose lontane179.

179  ca, Preludio e canzonette, Canzonetta 5. Le persiane chiuse, vv. 1-6, 25-35, 40-48, pp. 235-236. Corsivi miei.

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1.12. Voci, finestre, borghi Poiché nel Canzoniere lo spettro delle citazioni da Leopardi è assai ampio, non è il caso di insistere troppo a lungo sull’influsso di una serie di canti o sulla presenza di singole liriche (tra le più decisive, oltre ad A Silvia, vi sono senza dubbio L’infinito e il Canto notturno)180. Piuttosto, negli ultimi due paragrafi ci soffermeremo sulle metafore, sui topoi e, più in generale, su alcuni scenari di chiara impronta leopardiana. Partiamo dai più fortunati che, come prevedibile, trovano ospitalità nelle Poesie dell’adolescenza e giovanili. Così, il finale di Nella sera della domenica di Pasqua ripropone il motivo del canto che, nella Sera del dì di festa, risuona e va a «morire» «lontanando»181. Saba però, da buon «classico maturato in ambiente romantico»182, lo affianca alle «leggende» di Faust (e a una citazione dal Della Casa)183: Obliando, io penso alle leggende di Fausto, che a quest’ora era inseguito dall’avversario in forma di barbone. E mi par di vederlo, sbigottito fra i campi, dove ombrosa umida scende la notte, e lungi muore una canzone184.

180  L’eco dell’Infinito è notevolissimo almeno dalle Poesie dell’adolescenza e giovanili fino a Cuor morituro, ma è stato già ben messo in luce dalla critica. Quanto al Canto notturno, oltre alle già citate Ammonizione e Bianca, cfr. almeno Durante una marcia, Nuovi versi alla luna, La greggia, Il beato, Confine e, tra le Poesie disperse, Fantasia di una notte di luna. Il caso più curioso mi sembra quello del Beato, poesia dei Prigioni (1924) che riprende dal Canto notturno la rima in -ale, ma capovolge il messaggio del pastore: «Io non posso soffrire. Io sono tale, / per lieto arbitrio degli dèi, che niuna / pena mi tocca, e vivo tra una cuna / e una bara, ignorando il vostro male. // Forse sono io stesso un Immortale. / Guardami ben: vedi tu in me pur una / traccia del tuo dolore? E quanto aduna / tristezze in voi me a rattristar non vale. // Tanta bontà è nel mio cuore, che un gioco / m’è la guerra; ogni volto si fa bello / s’io l’affisso, ogni voce è una canzone. // E se dar mi potessi un’ora, un poco / del tuo dolore, io ti darei per quello / l’alta letizia di cui son prigione» (ca, I prigioni, Il beato, p. 286). Corsivi miei. 181  c, La sera del dì di festa, v. 45. Sulla rielaborazione del topos in Montale e Sereni, cfr. infra, pp. 114-115, 136-137. 182  Cfr. supra, p. 32 nota 62. 183  Alludo al noto sonetto O sonno, o de la queta, umida, ombrosa, dal quale è ripresa la serie aggettivale per la «notte». 184  ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Nella sera della domenica di Pasqua, vv. 9-14, p. 26. Corsivi miei.

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D’altronde, il topos del canto da lungi ricorreva già due poesie addietro, nel Sonetto di primavera, che è di fatto un centone di loci leopardiani: Città paesi e culmini lontani sorridon lieti al sol di primavera. Torna serena la natia riviera. Sono pieni di canti il mare e i piani.

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Io solo qui di desideri vani t’esalto, mia inesperta anima altera; poi stanco mi riduco in sulla sera alla mia stanza, e incerto del domani. Là seggo sovra il bianco letticciolo, e ripenso a un’età già tramontata, a un amor che mi strugge, all’avvenire. E se nell’ombra odo la voce amata di mia madre appressarsi e poi morire, spesso col pianto vo addolcendo il duolo185.

Se le immagini della prima quartina derivano dalla Quiete dopo la tempesta e dal Sabato del villaggio186, e se il v. 6 è un calco quasi letterale dal Canto notturno187, l’«amor che mi strugge» è invece una più rara citazione dal Sogno: «Per le sventure nostre, e per l’amore / Che mi strugge»188. Quanto al rapporto con La sera del dì di festa, non dovrà sfuggire un altro particolare: stavolta la «voce» che s’appressa e muore «lontanando» non è una voce qualsiasi, ma è quella della madre del poeta, la quale, si badi, «detestava (come un consigliere di tristezza) il Leopardi», ed era – «come quella del Leopardi – troppo austera»189. Non sarà un caso, dunque, se il topos ricompare, 185 

ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Sonetto di primavera, p. 23. Corsivi miei. Cfr. c, La quiete dopo la tempesta, vv. 4-6, 19-20: «Ecco il sereno / Rompe là da ponente, alla montagna; / Sgombrasi la campagna»; «Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride / Per li poggi e le ville»; c, Il sabato del villaggio, v. 17: «Torna azzurro il sereno». Corsivi miei. 187  Cfr. c, Canto notturno, v. 14: «poi stanco si riposa in su la sera». La ripresa è segnalata già da ca21, p. 469. Corsivi miei. 188  c, Il sogno, vv. 76-77. Corsivi miei. 189  tlp, Storia e cronistoria del Canzoniere, pp. 159-160. 186 

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sempre nelle Poesie dell’adolescenza e giovanili, in A mamma, che introduce un’altra sovrapposizione biografico-esistenziale. La più lunga poesia della prima raccolta del Canzoniere, infatti, fa pensare a una specie di koinè borghigiana, grazie alla quale Trieste diviene una nuova Recanati (e mi sembra che tale spunto sia confermato da un tardo intervento sabiano)190: Lente lente ora sfollano le vie nella sera di festa, e verdi e rossi accendono fanali le osterie di campagna. È una strana sera, mamma, una che certo affanna i cuori come il tuo soli ed amanti, sugli ultimi mari i naviganti, dentro l’orride celle i prigionieri. Canterellando scendono i sentieri del borgo i cittadini, torna dolce al fanciullo la sua casa; ed il mistero ond’è la vita invasa tu con preghiere esprimi191.

I prelievi dalla Sera del dì di festa sono così chiari da non richiedere ulteriori spiegazioni. Semmai, si può osservare che ancor prima, nella terza strofa, è presente un’altra situazione tipicamente leopardiana: E tu pur, mamma, la domenicale passeggiata riguardi dall’aperta finestra, nella tua casa deserta di me, deserta per te d’ogni bene192.

Se il seme della scena è dato dalle Ricordanze («quella finestra, / Ond’eri usata favellarmi, ed onde / Mesto riluce delle stelle il raggio

190  Cfr. tlp, Prose sparse, [Discorso per il settantesimo compleanno], p. 1062: «Pensiamo un momento Recanati e Leopardi. A parte il fatto che il Leopardi non amava (almeno a parole) Recanati, e che io Trieste l’ho amata; tutto il paesaggio e, probabilmente, tutto il modo di essere del Leopardi era (senza pregiudizio della sua universalità) recanatese. Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria». 191  ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, A mamma, vv. 103-115, p. 35. Corsivi miei. 192  Ivi, vv. 19-22, p. 32. Corsivi miei.

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/ È deserta»)193, a guardare meglio, qui, rispetto al canto recanatese cambia non solo la prospettiva, ma anche l’avvenimento. A scomparire, infatti, non è la fanciulla, bensì l’io lirico: la finestra è «deserta / di me». D’altra parte, la stessa scena delle Ricordanze fa ritorno, sempre nelle Poesie dell’adolescenza, nella Casa della mia nutrice (ovvero della figura che prenderà il posto della madre). Leggiamola per intero:

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La casa della mia nutrice posa tacita in faccia alla Cappella antica, ed al basso riguarda, e par pensosa, da una collina alle caprette amica. La città dove nacqui popolosa scopri da lei per la finestra aprica; anche hai la vista del mar dilettosa e di campagne grate alla fatica. Qui – mi sovviene – nell’età primiera, del vecchio camposanto fra le croci, giocavo ignaro sul far della sera. A Dio innalzavo l’anima serena; e dalla casa un suon di care voci mi giungeva, e l’odore della cena194.

È questa una vera e propria rivisitazione in chiave autobiografica delle Ricordanze: l’«albergo» «paterno» «ove abitai fanciullo», con le sue «finestre»195, diventa ora «la casa della mia nutrice», che «posa / tacita» e «al basso riguarda». Inoltre, a conferma ancora della sovrapposizione tra il paesaggio triestino e quello recanatese, la ‘scoperta’ («scopri») e la «vista del mar» sono le stesse che in Giacomo ispirano «dolci sogni»: «la vista / Di quel lontano mar, quei mon193 

c, Le ricordanze, vv. 141-144. Corsivi miei. ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, La casa della mia nutrice, p. 18. Corsivi miei. 195  Cfr. c, Le ricordanze, vv. 1-5: «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / Tornare ancor per uso a contemplarvi / Sul paterno giardino scintillanti, / E ragionar con voi dalle finestre / Di questo albergo ove abitai fanciullo». Si veda anche po, Poesie disperse, A una stella, vv. 1-3, p. 884: «Io seggo alla finestra; / e parlo, come un tempo, alla mia stella / così sola fra gli astri, e grande e bella». Corsivi miei. 194 

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ti azzurri, / Che di qua scopro»196. Infine, le terzine, introdotte da un altrettanto leopardiano «mi sovviene», sviluppano più propriamente il tema della ricordanza, favorita dal «suon di care voci»: «e sotto al patrio tetto / Sonavan voci alterne, e le tranquille / Opre de’ servi»197.

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1.13. Nuvole e foglie Ma i topoi leopardiani oltrepassano le manieristiche Poesie dell’adolescenza e giovanili. Ne vedremo ora due tra i meno approfonditi dalla critica, entrambi appartenenti alle ultime zone dei Canti, laddove s’affievolisce il «puro monologismo lirico-amoroso» e s’insinua «un certo fascino del non umano»198. Così è, in buona parte, anche nel Canzoniere, nel quale foltissima è la schiera animale199, ma altrettanto rappresentato è il mondo vegetale (qualche esempio: L’arboscello, Alberi, «Frutta erbaggi», Variazioni sulla rosa200, germogli, piante, foglie) e persino inorganico (Il torrente, le Ceneri, la Neve201, le nuvole). Per giunta, in Saba come in Leopardi, le piante, gli elementi naturali e i fenomeni atmosferici sono spesso simbolo della caducità e della fragilità della condizione umana. È evidentissimo già nell’Ammonizione iniziale che, si ricorderà, si apre con il dileguarsi del cangiante «nuvolo rosato»202, vale a dire con un’immagine – l’ha mostrato più di tutti Carrai203 – d’origine leopardiana: 196 

c, Le ricordanze, vv. 19-21. Corsivi miei. Ivi, vv. 17-19. Corsivi miei. 198  Massimo Natale, La poesia, in Franco D’Intino, Massimo Natale (a cura di), Leopardi, Carocci, Roma 2018, pp. 53, 58. 199  Sul tema rimando al recente studio di Marzia Minutelli, L’arca di Saba. «I sereni animali che avvicinano a Dio», Olschki, Firenze 2018. 200  Ho citato i titoli di liriche rispettivamente di Casa e campagna (1909-1910), Ultime cose (1935-1943), Parole (1933-1934) e Mediterranee (1945-1946). 201  Ceneri e Neve sono due titoli di Parole, mentre Il torrente è la seconda poesia di Trieste e una donna, sulla quale rinvio, anche per i rapporti con Leopardi, a Giuseppe Sandrini, Un’acqua dell’infanzia: lettura de Il torrente, «Comunicare letteratura», 1, 2008, pp. 49-61. 202  Cfr. ca, Poesie dell’adolescenza e giovanili, Ammonizione, vv. 1-10, p. 17: «Che fai nel ciel sereno / bel nuvolo rosato, / acceso e vagheggiato / dall’aurora del dì? // Cangi tue forme e perdi / quel fuoco veleggiando; / ti spezzi e, dileguando, / ammonisci così». Corsivi miei. 203  Cfr. Carrai, Saba cit., pp. 79-80. A riguardo, però, si veda anche Paola Montefoschi, L’imperfetto bibliotecario. Esempi di intertestualità nel Novecento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, pp. 98-107 (e relativa bibliografia). 197 

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Come vapore in nuvoletta accolto Sotto forme fugaci all’orizzonte, Dileguarsi così quasi non sorta, E cangiar con gli oscuri Silenzi della tomba i dì futuri204.

Di questa scena di Sopra un basso rilievo antico sepolcrale – assai meno celebre delle altre evocate in Ammonizione – Saba si ricorderà a lungo; per esempio, in un «ritratto» di Cose leggere e vaganti (1920)205, nelle Poesie scritte durante la guerra (dove torna pure la «stanzetta» triestina)206 o ancora in Preludio e canzonette, che contengono un’intera lirica Sopra un mio antico tema207. In ogni caso, merita più attenzione un altro topos dei Canti, su cui meno è stato scritto, anch’esso legato alla caducità ma stavolta davvero conclusivo: alludo alla «foglia frale» di Imitazione, trascinata dal «vento» «lungi dal proprio ramo»208. Ne resta traccia sin dal Canzoniere del 1921 (e altre tracce ne resteranno in autori successivi)209: Quanta malinconia di foglie morte nei deserti vïali, dove tutte appassirono le frali gioie che al sogno mio dava la sorte! Oh, una malinconia grande, infinita quasi, un dolor d’ogni gioia più forte, che ben sa la mia vita, simile all’ingiallita foglia, ad un buio di giorni autunnali210. 204 

c, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 36-40. Corsivi miei. Cfr. ca, Cose leggere e vaganti, Ritratto della mia bambina, vv. 5-7, 11-13, p. 190: «Ed io pensavo: Di tante parvenze / che s’ammirano al mondo, io ben so quali / posso la mia bambina assomigliare. / […] anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo; / e ad altre cose leggere e vaganti». 206  Cfr. ca, Poesie scritte durante la guerra, Sognavo, al suol prostrato…, vv. 1-6, p. 176: «Sognavo, al suol prostrato, un bene antico. / Ero a Trieste, nella mia stanzetta. / Guardavo in alto rosea nuvoletta / veleggiar, scolorando, il ciel turchino // Ella in aere sfacevasi; al destino / suo m’ammonivo in una poesietta». Corsivi miei. 207  Cfr. ca, Preludio e canzonette, Sopra un mio antico tema, pp. 249-250 (si osservi la parziale coincidenza con il titolo leopardiano). 208  Cfr. c, Imitazione, vv. 1-4: «Lungi dal proprio ramo, / Povera foglia frale, / Dove vai tu? – Dal faggio / Là dov’io nacqui, mi divise il vento». 209  Valga su tutti il caso di Sereni, per cui cfr. infra, pp. 121-124. 210  po, Canzoniere apocrifo, Autunno, p. 716. Corsivi miei. 205 

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Autunno non sarà accolta nell’edizione definitiva del libro sabiano, dove però non è affatto raro imbattersi in altre «foglie morte» e cadute. In prima analisi, esse sembrano più che altro dire della precarietà dell’uomo in guerra, o perlomeno così è tra i Versi militari (1908) e le Poesie scritte durante la guerra211. È forse inutile precisare che l’immagine non è certo esclusiva dei Canti, ma diversi segnali ci parlano di una declinazione precisamente leopardiana. Prendiamo anzitutto il sonetto 6 di Durante una marcia, contenuto nei Versi militari:

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E ti racconterò, quando lontani saranno i giorni che n’ero malato, tutti i mostri di cui m’ha liberato l’anima il sol che m’arrossò le mani. Dirò: Per monti e polverosi piani sotto quali mai pesi ho faticato! Credevo non tornare e son tornato. Sono tornato per partir domani. Per mio diletto andrò di monte in valle. Zaino mai più mi graverà le spalle. O Signor mio, non è orribile questo? Foglia caduta cui non torna il verde, nello spazio e nel tempo ogni mio gesto, ogni fatica mia, ecco, si perde212.

Alla «foglia caduta» di Imitazione si arriva soltanto nel finale, e passando per il Canto notturno; la parte centrale del sonetto, difatti, ricalca piuttosto da vicino il cammino del «vecchierel» leopardiano, che, dopo aver corso «con gravissimo fascio in su le spalle, / Per montagna e per valle», precipita nell’«abisso» (si noti pure la comune rima spalle : valle)213. Altrove ho ipotizzato che la caduta 211  Cfr. ca, Poesie scritte durante la guerra, Accompagnando un prigioniero, vv. 1214, p. 170: «vestito è un anno, armato a tanta offesa, / vecchio buon ciabattino, prigioniero / di guerra, foglia nel turbine presa». Corsivi miei. 212  ca, Versi militari, Durante una marcia, 6, p. 48. Corsivi miei. 213  c, Canto notturno, vv. 21, 23-24. Corsivi miei. La rima lontani : mani, invece, può forse riecheggiare il finale di A Silvia (con inversione dell’ordine dei rimanti e con il passaggio dal singolare al plurale).

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di Imitazione possa essere letta come una variazione in minore, e non più antropica, proprio dell’allegoria del «vecchierel», ma non mi ripeto214. Se così fosse, però, la compresenza dei due topoi sarebbe particolarmente curiosa, anche se resta difficile affermare che Saba ne avesse piena consapevolezza. Fatto sta che nel Canzoniere il motivo conosce anche interessanti rivisitazioni, come quella, posta in apertura di Casa e campagna (1909-1910), dell’Arboscello: Oggi il tempo è di pioggia. Sembra il giorno una sera, sembra la primavera un autunno, ed un gran vento devasta l’arboscello che sta – e non pare – saldo; par tra le piante un giovanetto alto troppo per la sua troppo verde età. Tu lo guardi. Hai pietà forse di tutti quei candidi fiori che la bora gli toglie; e sono frutta, sono dolci conserve per l’inverno quei fiori che tra l’erbe cadono. E se ne duole la tua vasta maternità215.

A cadere non sono dunque le foglie, ma i «candidi fiori» dell’«arboscello», strappati e devastati dal «vento». Stavolta non sembrano esserci altre riprese certe dai Canti216, eppure Leopardi è presente come di riflesso. Intendo dire che il componimento anticipa e quasi prepara lo scenario di Giovanezza, ossia, lo sappiamo già, di una delle liriche più leopardiane del Canzoniere: si veda la «pioggia», 214  Cfr. Vincenzo Allegrini, Note sull’abisso di Leopardi, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 2, 2018, pp. 593-610 (ma in particolare pp. 604-605). Del resto, anche Lonardi sostiene che i due canti condividono, nonostante l’evidente differenza di tono, l’idea di una «corsa angosciosa, dannata: una danza senza fine e un fine […] un peregrinare inspiegabile e perpetuo» (Gilberto Lonardi, Imitazione, in Armando Maglione (a cura di), Lectura leopardiana. I quarantuno Canti e I nuovi credenti, Marsilio, Venezia 2003, p. 647). 215  ca, Casa e campagna, L’arboscello, p. 73. Corsivi miei. 216  Per quanto di un «pomo» caduto nel «tardo autunno» – ma soltanto per sua «maturità» – si dica nella similitudine introdotta da c, La ginestra, vv. 202-204: «Come d’arbor cadendo un picciol pomo, / Cui là nel tardo autunno / Maturità senz’altra forza atterra».

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il ciclo stagionale, la similitudine con il «giovanetto», la «verde età», la «pietà» e la «frutta». D’altra parte, anche il più generico paragone tra la «foglia frale» e l’uomo tout court è proposto da Saba in più luoghi; per fare solo due esempi, nel finale del Colloquio di Cuor morituro («Mi scopre / fragile foglia / nella mia spoglia umana»)217 e nell’Uomo (ma in termini oppositivi: «Perché non fu di lui come di foglia / che il ramo / lascia cadere anzi tempo?»)218. Si potrebbe obiettare che si tratta di un topos antichissimo, e già omerico219, tanto più che al poeta greco sembra alludere la Prima fuga: «Le foglie / morte non fanno a me paura, e agli uomini / io penso come a foglie»220. Che Leopardi sia chiamato in causa più di altri, però, mi sembra nuovamente confermato prima dall’Ottava fuga e poi da alcune liriche dell’ultimo Saba. Andiamo dunque per ordine e leggiamo la fuga: Sono una fogliolina appena nata, e intenerisco ai giovanetti il cuore. Son la fresca vernice d’un vapore che fischia per salpar la prima volta. La dolcezza di muovermi m’è tolta, se non è al venticello della sera. Duolmi lasciarti, affollata riviera, dove con esso anch’io venni ammirata. Oh potessi seguirti! Oh te beata che «devi» rimanere! E tu, potendo, non partiresti? Non lo so. M’attendo, come il giovane mozzo alla sua prima prova, veder di grandi cose. In cima del mio ramo attaccata, io ti saluto. Io, se ritorno, quello che ho veduto, ed altro ti dirò, foglia bennata221. 217 

ca, Cuor morituro, Colloquio, vv. 45-48, p. 334. Corsivi miei. ca, L’Uomo, vv. 114-116, p. 352. 219  Cfr. Il. vi, 146: «Oἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν», citato anche da Leopardi in z 4270, 2 aprile 1827. 220  ca, Preludio e fughe, Prima fuga, vv. 16-18, p. 368. Corsivi dell’autore. 221  ca, Preludio e fughe, Ottava fuga, p. 391. L’ultimo corsivo è mio, gli altri sono dell’autore. 218 

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Almeno all’apparenza, rispetto all’Imitazione la situazione è diversa: la foglia non è «frale» né tantomeno in preda al «vento», al contrario è appena nata ed è ben salda al suo ramo. Epperò, identica è la struttura (un dialogo a due voci, una delle quali è della foglia); e non mancano altri echi dai Canti: «intenerisco ai giovanetti il cuore» è un verso ricalcato sul Passero solitario («Sì ch’a mirarla intenerisce il core»)222, mentre «bennato» è aggettivo della canzone al Mai e di A un vincitore nel pallone223, usato ancora da Saba – «fanciullo bennato» – in Sopra un ritratto di me bambino, lirica dal titolo leopardiano inclusa in Cose leggere e vaganti (1920)224. Abbiamo già detto, però, che il topos ricorre pure nelle più tarde raccolte, da Ultime cose (1935-1943) a Mediterranee (1945-1946), e forse fino ad Epigrafe (1947-1948). L’indizio più vistoso è in Ultime cose, poiché il poeta dichiara lì di voler proprio «imitare» – difficile che il verbo sia casuale – una Foglia morta portata via dal «vento»: La rossa foglia morta che il vento porta via, il vento e lo spazzino, – sotto il fulgido cielo cadde, insanguina con le altre la via – imiterei. Per nausea delle parole vane, dei volti senza luce. Ma la tua voce, o gentile, mi parla; fa’ che non cada ancora225.

Ebbene, la preghiera finale – «fa’ che non cada ancora» – sembra trovare accoglienza nell’ultima delle Tre vecchie poesie di Mediterranee, nella quale si compie il «prodigio»: 222 

c, Il passero solitario, v. 7. Corsivi miei. Cfr. c, Ad Angelo Mai, v. 46: «Bennato ingegno»; c, A un vincitore nel pallone, v. 2: «Garzon bennato». 224  ca, Cose leggere e vaganti, Sopra un ritratto di me bambino, vv. 10-12: «Pur, fanciullo bennato, ch’io ti guardi, / i tuoi riccioli biondi, la tua fronte / luminosa, e alla vita e a me perdono». Corsivi miei. 225  ca, Ultime cose, Foglia morta, p. 501. Corsivi miei. 223 

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Io sono come quella foglia – guarda – sul nudo ramo, che un prodigio ancora tiene attaccata. Negami dunque. Non ne sia attristata la bella età che a un’ansia ti colora, e per me a slanci infantili s’attarda.

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Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce. Morire è nulla; perderti è difficile. (1942)226.

Chissà, allora, se in qualche modo anche nell’Epigrafe sabiana si possa conservare una pur vaga memoria di queste foglie morte. «Foglia d’alloro», stavolta, proprio come nell’ultimo verso di Imitazione227: «Parlavo vivo a un popolo di morti. / Morto alloro rifiuto e chiedo oblio»228. L’«alloro», certamente, è topico ed è, si sa, il simbolo della poesia e della gloria. A rifiutarlo, in Leopardi, sono gli dèi della Scommessa di Prometeo, ma anche, suo malgrado, il Tasso della canzone al Mai, anch’egli costretto a parlare a un «popolo di morti» e destinato semmai a un «tardo onore», postumo come un’epigrafe: Al tardo onore Non sorser gli occhi tuoi; mercè, e non danno, L’ora estrema ti fu. Morte domanda Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda229.

226 

ca, Mediterranee, Tre vecchie poesie, 3. Foglia, p. 537. Corsivi miei. Cfr. c, Imitazione, vv. 10-13: «Vo dove ogni altra cosa, / Dove naturalmente / Va la foglia di rosa, / E la foglia d’alloro». 228  ca, Epigrafe, Epigrafe, p. 564. Corsivi miei. 229  c, Ad Angelo Mai, vv. 132-135. Corsivi miei. 227 

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2. Eugenio Montale «and not much Leopardi»?

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2.1. Un volatile color lavagna Tra i numerosi interventi critici di Montale, solo uno – piuttosto breve – è dedicato interamente a Leopardi: In regola il passaporto del «Passero solitario», pubblicato sulle colonne del «Corriere d’Informazione» nel novembre del 1949. Qui l’autore, oltre a precisare il carattere nient’affatto «generico» del passero (è quella monticola cyana o turdus cyanus che sarà poi il suo merlo acquaiolo) contrappone «l’accento lungo, accorato e melodioso» del canto leopardiano al meno efficace «spirito imitativo» di Pascoli, che pure accusava «il Leopardi di indeterminatezza nelle sue “citazioni” naturali»: di scrivere albero siepe augello là dove un più pungente spirito poetico avrebbe consigliato di scrivere quercia ginepro barbagianni ecc.; ma, per una volta tanto, prese una solenne cantonata, perché citando il passero solitario Leopardi seppe riviverne l’accento lungo, accorato, melodioso (“ed erra l’armonia per questa valle”) mentre il Pascoli prestandogli tre note sole (“tre, come tre parole”) si rivelò a corto di ispirazione e di spirito imitativo (lui che teneva tanto alle onomatopee). Altro che tre note! […] La Bibbia, il Petrarca, il Pulci, il Meli e da ultimo il Pascoli stesso (non bene) lo hanno onorato come si deve […]. Ciò spiega come e perché una volta tanto Giacomo uscisse da quel generico che dava tanto fastidio al Pascoli1.

Più che la «solenne cantonata» pascoliana e la nota querelle che ne derivò (di cui si è già detto per Saba e di cui si dirà per Sereni), interessa qui mettere in risalto le poche ma puntuali osservazioni sui versi del Passero solitario. Infatti, subito dopo, il poeta ligure, pur 1 

sm, 1, Prose 1949, In regola il passaporto del «Passero solitario», pp. 870-871.

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mostrando qualche riserva su certe espressioni fuorvianti – «solingo augellin», ad esempio2 – insiste ancora sull’efficace «armonia imitativa» del canto, più riuscita e preziosa di quella che i critici ammettono in Shelley e, soprattutto, in Poe: Nessuno ha mai dubitato che l’usignolo di Shelley fosse, oltreché l’anima dello Shelley stesso, un uccello esistente in natura; nessuno ha mai negato che il corvo di Edgar Poe sia, oltreché un pretesto poetico […], un uccello che esiste e ha caratteri conosciuti. Ma se vi provate a dire che il passero solitario di Leopardi è anche un uccello e un uccello noto a cacciatori e ornitologi, e caro ai poeti, molti classicisti torcono il naso e vi accusano di aver fatto violenza alla segreta verità della poesia. Come se non bastasse quel prezioso locativo (“passero solitario alla campagna / cantando vai…”) che porta con sé tutto lo spazio che il passero solitario crea intorno al suo volo. Questa è vera armonia imitativa, non già il gracchiante “nevermore” di Poe!3

Con una nota su Poe4, del quale si celebrava nel 1949 il centenario della morte, si chiude quindi l’unico intervento tutto leopardiano di Montale5. Ciò non significa, tuttavia, che nelle restanti pagine montaliane il nome di Leopardi scompaia; vedremo anzi che è spesso chiamato in causa, tra l’altro in contesti assai differenti e, in alcuni casi, inaspettati. Più che il ‘quanto’, però, conta ora il ‘come’: l’autore dei Canti, infatti, è citato quasi esclusivamente in modo sbrigativo o ironico (e poche volte da solo), tanto che vi è chi ha parlato di «una fuga del Montale saggista da Leopardi, non sapremmo se per timore reverenziale, per sostanziale freddezza o 2  Cfr. ivi, p. 871: «Qui augellino non va; e non va soprattutto il diminutivo; perché il passero solitario, a modo suo, è un uccello che fa spicco anche nel volo che è alto, irregolare, ondoso, frastagliato». 3  Ibid. Corsivi dell’autore. 4  Cfr. ivi, pp. 871-872: «Di sfuggita, colgo l’occasione per ricordare che il paradossale, ma forse vero, saggio di Poe sulla composizione del suo Corvo si può leggere ora, coi saggi più importanti del Poe stesso, nel volume Marginalia, stampato da Mondadori e tradotto da Luigi Berti. È un libro da leggersi o da rileggersi, anche se Poe sta passando, nel suo Paese, un brutto quarto d’ora; quello di un centenario non precisamente entusiastico». 5  Ricordo però che al Passero solitario Montale rinviava già quattro anni prima, quando nell’autocommento a Da una torre («Politecnico», i, 3, novembre 1945) ammoniva sulla reale entità del «melodioso volatile»: «molti professori, ingannati dal “tu, solingo augellin” lo credono uno passerotto, cioè un uccello lontanissimo dalla solitudine e dall’austerità di questo melodioso volatile color lavagna» (ams, Monologhi, colloqui, «Da una torre», p. 1475).

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2. eugenio montale, «and not much leopardi»?

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per volontà di occultamento»6. Epperò, se è difficile scegliere una sola tra le possibili ragioni di questo «lapis avaro»7, resta il fatto che dietro la reticenza si intravede pure un’«attenzione carsica»8, che emerge in superficie soprattutto in relazione a tre macro-temi, oggetto dei prossimi paragrafi: a. la fortuna di Leopardi e il suo lascito nella cultura del Novecento (italiana e non); b. la questione del rapporto con la tradizione; c. i tratti distintivi della poesia leopardiana (o perlomeno quelli più significativi agli occhi di Montale). A partire da questo primo schema, individueremo poi altre tre modalità di citazione in minore: 1. rapidi cenni ad opere o a luoghi testuali specifici; 2. rinvii a Leopardi in qualità di auctoritas; 3. proiezioni della figura di Leopardi nell’attualità dello scrivente. 2.2. Leopardi e gli altri. Dalle trincee d’Europa alla Roma letterata Partiamo quindi dal tema che ritorna con più insistenza: la fortuna di Leopardi nel Novecento. Come anticipato, il ‘sismografo’ montaliano allarga volentieri il campo d’azione al di là dei confini nazionali, ma ciò ben s’accorda con la strategia di distanziamento alla quale abbiamo già accennato. Così, per esempio, nel 1950 il poeta ci informa che T.E. Lawrence, un uomo cioè dalla «vita tutta antilibresca» e un «intellettuale tutto versato nell’azione», aveva portato con sé durante la campagna d’Arabia un’«antologia» di versi che includeva una sezione italiana chiusa proprio da Leopardi, «il più moderno» ma anche l’ultimo dei «classici»: un ricco collage di ritagli rilegati in forma di libro; centinaia di poesie, poeti di otto lingue, compresi gli italiani (il più moderno era Leopardi). Questa antologia da uomo isolato, da Robinson, fu messa insieme da Maurice Baring, romanziere inglese ormeggiante Henry James, diplomatico e buon intenditore di letteratura russa; Lawrence la vide, ne approvò i criteri e la tenne con sé. Nessuna rivista ne pubblicherà almeno l’indice? Sarebbe uno 6  Pietro Gibellini, Leopardi secondo Montale, in Pietro Gibellini, Claudio Moreschini (a cura di), Leopardi: poesia, filosofia, pensiero, num. speciale di «Humanitas», 1-2, 1998, p. 113 (ma si veda l’intero saggio per una panoramica su Leopardi nel Montale prosatore). 7  Ibid. 8  Massimo Natale, Montale e i moderni: gli italiani, in Paolo Marini, Niccolò Scaffai (a cura di), Montale, Carocci, Roma 2019, p. 217.

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dei più notevoli documenti del nostro tempo: i classici visti da un uomo che ne trasse alimento in una vita tutta antilibresca, tutta cose9.

Ebbene, osservava anni prima Montale, Leopardi fu poeta ‘da trincea’ anche per Benjamin Crémieux, critico francese autore del Panorama de la littérature italienne (1928) e, appunto, «soldato che occupò un giorno i duri ozi di trincea traducendo nella sua lingua – disperatissima impresa – alcune poesie di Leopardi»10. Restiamo ancora in un contesto bellico, e in Francia, con la recensione al Journal (1942-1949) di André Gide, il quale, oltre a essere un instancabile lettore dei classici moderni (Shakespeare, Balzac, Stendhal, Nerval, Kleist) e antichi (Lucrezio e Virgilio), fu attratto «persino» da Leopardi, «nominato» tuttavia «non come lettura ma come desiderio di lettura»11. Qualche riserva in più nutre invece Montale sulle letture leopardiane e dantesche del romanziere inglese Charles Morgan, anch’egli arruolatosi «allo scoppio della Prima guerra mondiale»12, pur dopo aver lasciato la Marina per dedicarsi alla letteratura. Fu infatti, leggiamo nel necrologio pubblicato sul Corriere, uno scrittore prolifico e un «lettore assiduo di pochi libri – la Bibbia, Blake, e la Brönte, ed anche, a quanto si disse, di Dante e Leopardi»13. Quest’ultimo, all’opposto, sarebbe rimasto estraneo agli «imaginisti» e, soprattutto, a Ezra Pound, o almeno così sostiene Montale in una recensione del 1953 ai Canti pisani (va precisato, però, che in età giovanile Pound tradusse Sopra il ritratto di una bella donna)14: i nostri futuristi erano ignoranti ma saturi di cultura implicita, Pound e compagni erano invece colti, ma ricchi di una cultura da abrégé, da corso accelerato, 9  pr, Prose varie di fantasia e d’invenzione, Un misterioso corvo batteva alla finestra di Lawrence, p. 826. 10  sm, 1, Prose 1928, Un panorama letterario, p. 301. Sull’intraducibilità dei Canti (e di Pascoli), cfr. anche sm, 2, Prose 1955, La fortuna del Pascoli, p. 1902: «[Pascoli] non varcò molto, è vero, i confini dell’Italia […] ma in questo subì la sorte del Foscolo, del Leopardi, del Manzoni, del Verga e di tanti altri. La lingua italiana ha scarsa diffusione all’estero e il Pascoli è a modo suo intraducibile quanto il Leopardi». 11  sm, 2, Prose 1950, Il ragazzo egoista strappò un gatto dai piedi di Gide, p. 967. 12  sm, 2, Prose 1958, Si è spento Charles Morgan celebre romanziere inglese, p. 2116. 13  Ivi, p. 2118. 14  Si tratta di una libera traduzione dal titolo Her Monument, the Image Cut Thereon inclusa nelle Canzoni del 1911.

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2. eugenio montale, «and not much leopardi»?

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da scuola serale. Non per nulla Pound, sedicenne, aveva chiesto, all’università, di studiare solo ciò che piaceva a lui. E così fu che gli imaginisti importarono in America la “poesia moderna” restando estranei a quella poesia di origine virgiliana e petrarchesca che attraverso Leopardi e Baudelaire è ancora il segreto della lirica europea. Forse fraintesero questa tradizione, che per loro aveva il nome del detestato Swinburne15.

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È degno di nota, qui, l’accostamento tra Leopardi e Baudelaire, entrambi collocati sulla scia della più alta tradizione virgiliana e petrarchesca, della quale rappresentano l’esito ultimo (non stravolgono ma perpetuano «il segreto della lirica europea»). D’altra parte, non è questo l’unico luogo in cui Montale accomuna i due poeti, che condividono pure il poco successo in vita: il cosiddetto divorzio fra l’arte odierna e il pubblico non è un fatto di questi giorni. Anche cinquanta, anche cento anni fa – e si potrebbe risalire ben più addietro – esisteva un’arte per pochi, un’arte per iniziati. Leopardi e Baudelaire non ebbero in vita entusiastici consensi e Manet dovette schiaffeggiare un suo denigratore per trasformarlo in suo devoto famulo e mecenate. Tuttavia, nel secolo scorso, il pubblico degli iniziati era ancora un pubblico, non una pattuglia di artisti falliti16.

Lasciando da parte lo strale rivolto alla «pattuglia di artisti falliti», è curioso che sul «divorzio» tra letteratura e pubblico si fosse soffermato, anche se in termini differenti, Giacomo stesso, il quale, risalendo appunto «ben più addietro»17, arrivò a ipotizzare la possibilità di «due poesie e letterature, l’una per gl’intendenti» – o gli iniziati – «l’altra pel popolo»18. La scarsa fortuna di Leopardi, a ogni modo, è chiamata in causa anche in un intervento sul francese SaintJohn Perse, poeta oscuro, «se non proprio indecifrabile»19. Ma, si badi, è proprio in virtù di questa oscurità (e non a scapito di essa) che egli ha ottenuto in vita la «gloria» – sia pure «a tirages limitatissime, per iniziati» – e «l’unanime ammirazione del suo pubblico (duecento

15 

sm, 1, Prose 1953, Ezra Pound, pp. 1594-1595. ams, Auto da fé, Tornare nella strada, p. 138. 17  Per Leopardi si tratta infatti di un processo che prende avvio già con la nascita della letteratura scritturale e raggiunge l’apice nel Seicento. 18  z 4388, 21 settembre 1828. 19  sm, 1, Prose 1951, Il «nuovo Colombo» della poesia francese, p. 1194. 16 

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persone ma Leopardi ne ebbe certo meno in vita sua)»20. Al contrario, un’affinità di «sorte» e persino d’aspetto vi è tra Leopardi e Mozart, morto «senza gloria» e considerato «più come una curiosità che come un genio»: Curiosa sorte quella di Mozart, morto a trentacinque anni dopo una vita cosmopolita di grande homo europaeus, quale oggi non sembra più possibile, espressione massima, o tra le massime, del grande Illuminismo settecentesco. Muore senza gloria, considerato più come una curiosità che come un genio […]. Di lui non restano neppure ritratti attendibili. Molti di quelli che esistono sono di maniera e posteriori alla sua morte. Se vogliamo avere un suo ritratto sicuro dobbiamo cercarlo in una pagina di sua sorella che ce lo descrive piccolo, debole, “un corpo e un viso senza pretese”. Da lei sappiamo pure che aveva occhi erranti (Leopardi direbbe fuggitivi), di un azzurro smorto ma capaci di accendersi alla fiamma della musica21.

La prosa di Montale sembra assumere qui movenze leopardiane, nel lessico e nelle tematiche (tornano alla mente certi passi dello Zibaldone in cui «l’uomo singolare» o di «genio», non di rado visto dai più come una curiosità, si contraddistingue per il suo «corpo» consunto, «esilissimo e sparutissimo e anche difettoso» e per l’«occhio» o «volto assai vivo»)22. Se questa può apparire poco più che una suggestione, per giunta ricavata in buona parte dalle parole della sorella, esplicito è però il riferimento ad A Silvia, che fa del compositore austriaco un autentico doppio di Giacomo (e il caso volle che anche i «resti» di Mozart, che «visse sempre nel presentimento, e direi quasi nell’attesa, della morte», non «vennero mai ritrovati»)23. D’altro canto, il Montale critico musicale si sofferma pure, ma en passant e senza enfasi, sulla presenza di Leopardi in musica. È per un «peccato di gioventù», infatti, che Ferruccio Busoni (1866-1924) volle «musicare Il sabato del villaggio», pur detestando «la musica “letteraria”» e pur riuscendo sempre a «sfuggire dalle sirene dell’impressionismo»24. Ci avviciniamo così, per vie traverse, al nodo della ricezione di Leopardi in Italia: una 20  21 

Ibid. ams, Altri scritti musicali 1955, Che cosa può insegnarci il cavaliere W. A. Mozart,

p. 961. 22 

z 207, 11 agosto 1820. Ma a riguardo, cfr. anche z 1176-1178, 17 giugno 1821. Altri scritti musicali 1955, Che cosa può insegnarci il cavaliere W. A. Mozart,

23  ams,

p. 961. 24 

ams, Altri scritti musicali 1960, «Dottor Faust» di Busoni, p. 1146.

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questione assai più insidiosa poiché di fatto coinvolge Montale stesso. Prima di affrontarla, però, occorre capire a quale Leopardi ci si vuole riferire. Vi è, in prima analisi, un Leopardi caro a generici «letterati e professori», ad esempio quelli che in Dieci libri salvati dal finimondo (1949) individuano proprio nei Canti il primo libro da mettere in salvo «dalle distruzioni di una possibile guerra atomica»25 (i «professori» di Montale, invece, «si fermavano al Carducci, saltando a piè pari Leopardi, un poeta che essi ritenevano deprimente, legnoso e lagnoso»)26. Del resto, a un argomento simile è dedicato anche «il documento più antico dell’attenzione montaliana per Leopardi»27, un appunto del Quaderno genovese (1917) in cui il poeta stila una lista di libri da portare con sé in vista di un ipotetico ritiro a vita cenobitica: una scelta da Descartes, Spinoza, Schopenhauer, Bergson. I Vangeli, Epitteto, e l’Amiel. Qualche cosa di Shakespeare (Sogno, Macbeth, forse Amleto). Prévost: Manon Lescaut Tolstoi: Guerra e Pace, Anna Karenina Flaubert: Bovary e altro!!! Soffici: Giornale di bordo Collodi: Pinocchio Critica: Baretti: Frusta Storia: ???? Dante – Leopardi. Tasso (Aminta), Poliziano. Alfred de Vigny (Poesie) (e Villon???) Rimbaud e Verlaine28.

Soltanto una riga è dunque riservata ai poeti italiani: ovviamente Dante, in prima posizione, seguito da Leopardi, Tasso e, un po’ a sorpresa, Poliziano. Sappiamo già che anche in seguito poco altro ci dirà Montale sull’influsso di Leopardi sulla propria opera; possiamo ora aggiungere, però, che ben più di grado egli segnala le letture leopardiane di altri critici o scrittori (ed ecco un secondo Leopardi, diverso da quello dei «professori»). Per esempio, su cosa fa leva il poco entu25  26  27  28 

sm, 1, Prose 1949, Dieci libri salvati dal finimondo, p. 875. sm, 2, Prose 1963, Lettera a un preside, p. 2584. Gibellini, Leopardi secondo Montale cit., p. 113. sm, 2, Quaderno genovese, p. 1297.

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siasmo mostrato da Emilio Cecchi verso la «prosa poetica»? Proprio sui casi di Leopardi e Baudelaire:

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Prosatore d’arte eccellente e anche prosatore poetico, Cecchi vi si dimostra debole apprezzatore della così detta prosa poetica. In ciò si rifà nientedimeno che a Leopardi e a quel Baudelaire che pure scrisse poemi in prosa giudicati da alcuni persino superiori ai Fiori del male. Cecchi non cade in quest’equivoco, come a suo tempo non cadde nell’errore di credere le operette morali il monumento di Leopardi29.

È questo, si sa, l’«equivoco» della «Ronda», dalla quale Montale prese in più di un’occasione le distanze (lo vedremo meglio tra poco). Nulla vieta, tuttavia, che egli nel 1925 potesse far propria la posizione di un rondista, anche se atipico, qual era Giuseppe Raimondi. Ebbene, ancora una volta vi era in gioco il parallelo tra Leopardi e Baudelaire: Il Baudelaire del Raimondi è soprattutto quello del Canto d’autunno e dello Spleen di Parigi, visto e studiato da uno scrittore che ama tenere i piedi su un terreno concreto. C’è qui un senso esatto del transito del tempo e della decadenza del corpo, una copia di notazioni penetranti. […] Anche ci sembrano giusti i richiami al Leopardi, e a momenti della sua poesia che hanno punti di contatto con alcune posizioni di pensiero del Baudelaire. Né su tali paralleli arrischiati, il Raimondi ha insistito più del dovuto30.

Se dai critici ci spostiamo ora sui poeti, noteremo che gli accenni a Leopardi non sono solo generici, ma anche – tutti – piuttosto tardi (non compaiono cioè prima degli anni Sessanta). Per giunta, nel caso di Saba, il poeta più celebre tra la schiera dei ‘leopardiani’, il commento di Montale è rivolto soltanto alle Prose, pubblicate da Mondadori nel 1964 e recensite il 6 dicembre nel «Corriere della sera»: Dire che il presente volume di prose ci dia un ritratto del poeta assai più utile di qualsivoglia commento al Canzoniere non è per il recensore un modo di cavarsela a buon mercato. Perché queste prose non formano affatto un libro organico e trovano la loro unità soltanto nella singolarissima tempra di chi le ha scritte. Non ci sono sbalzi di tono, di stile tra le pagine più vecchie e le più nuove: c’è semmai un accrescimento di indulgenza e di pietà verso gli uomini 29  30 

sm, 1, Prose 1952, I due volti di un critico, p. 1430. sm, 1, Prose 1925, In libreria, p. 91.

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e soprattutto verso la “povera adorata” sua Italia. E questa pietà giunge al massimo della sua forza nelle Scorciatoie che Saba pubblicò a Roma dopo la Liberazione31.

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Detto questo, non sempre però Montale è disposto a seguire fino in fondo le Scorciatoie, soprattutto laddove il «filo conduttore» della psicanalisi si fa troppo insistente32. Si fida tuttavia, e «quasi ciecamente», dell’interpretazione che Saba dà del «suo Leopardi», ostentando così un certo distacco, se non proprio una certa estraneità: Anche qui, anzi soprattutto qui, la psicanalisi è il filo conduttore, ma di fronte a qualche trouvaille troppo facile dettata dall’infinita indulgenza storica del poeta che vuol ridurre anche un cumulo infinito di errori a un paio di complessi fondamentali, quale varietà di notazioni quando la sua attenzione si disvia dallo stretto cerchio dei suoi fatti personali! […] Lo seguo meno quando dice che un giorno, illuminate dalla psicanalisi le fonti intime del musicista [Beethoven], sarà ben difficile dare un nome alle sue “profondità”. E nemmeno sono certo che Verdi sia stato un artista genitale e che tutti i suoi personaggi abbiano avuto “alito vinoso”. Ma lo accetto quasi ciecamente quando parla del suo Nietzsche (che ha avuto la disgrazia, per me la fortuna, di nascere prima che esistesse Freud), oppure il suo Racine, il suo Parini, il suo Leopardi33.

Altrettanto rapidi, poi, sono i riferimenti di Montale al leopardismo di altri due poeti, il genovese Roccatagliata Ceccardi, nel quale «si trovava un po’ di tutto: Carducci, D’Annunzio, Foscolo, Leopardi e anche

31 

sm, 2, Prose 1964, Le prose di Saba, p. 2664. Su questa tendenza sabiana altre perplessità saranno espresse due anni dopo, per cui si veda sm, 2, Prose 1966, Psicanalisi e cultura italiana, p. 2823: «non so che cosa avrebbe detto il professor Freud sentendolo parlare: probabilmente non avrebbe riconosciuto nulla del suo pensiero sentendolo esposto in modo meccanico e unilaterale. Comunque è vero che Saba dopo la presunta guarigione (che in effetti non avvenne mai) impregnò non poche sue poesie di motivi che possiamo dire psicanalitici. Toccherà alla critica letteraria la dimostrazione che Il piccolo Berto sia all’altezza del miglior Saba. Finora tale dimostrazione non è stata tentata» (ivi, p. 2825). Si noti pure che lo scritto si apre con l’esclusione dell’ipotesi «ridicola» di un Leopardi psicanalizzato: «Che cosa sarebbe accaduto se Leopardi, Manzoni, Hölderlin, Baudelaire, Dostoievschi e Kafka si fossero sottoposti a una terapia psicanalitica? La domanda è ridicola per due diverse ragioni: perché la storia e la critica non si fanno con i “se”; e perché la psicanalisi non esisteva (o era appena sorta nel caso di Kafka) quando questi grandi scrittori vissero e operarono» (ivi, p. 2823). 33  sm, 2, Prose 1964, Le prose di Saba, pp. 2664-2665. 32 

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lui stesso, Ceccardo»34, e Sergio Solmi, «amico» sì «di Montaigne e di Leopardi», ma anche, più in generale, «grande essayist dall’onnivora curiosità»35. D’altronde, la suggestiva coppia Leopardi-Montaigne è ricordata anche nell’efficace ritratto di Roberto Ridolfi, non più un poeta ma uno storico, scrittore pure di diari e journaux intimes:

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il Libro dei sogni è, come il precedente, un giornale intimo: il diario di un uomo che viaggia nella propria camera e risale talora ai rami dai quali discende. […] La sua vita è nelle pietre, negli anfratti, negli annosi alberi della sua villa – la Baronata – di cui egli sa tutto. Sedentario illuminato, pieno di desideri non spenti, ricco di umori e di malinconia, vive tra i suoi libri, il suo Montaigne, il suo Leopardi, e del mondo in trasformazione non gli giunge che il suono spento di una risacca36.

Diversi, per risonanza e notorietà, sono infine i casi di Croce e dei rondisti. Quanto al filosofo abruzzese, Montale giudica il suo noto «riserbo» nei confronti di Leopardi come conseguenza di un «particolare temperamento»: la sua «fermezza di carattere» e la sua «interiore sicurezza» hanno fatto sì che egli amasse soltanto «quei poeti che avrebbe amato come uomini, se li avesse conosciuti; siano essi l’olimpico e demonico Goethe o il cattolico e sedicente reazionario Balzac o il miracoloso Nievo e il robusto e sanguigno Carducci»37. Non certo, dunque, quel Leopardi dalla «vita strozzata»38, per citare una celebre formula che Montale farà propria nel finale di Arsenio (riferendola alla leopardiana figura di Arletta)39. Non serve, invece, indugiare più di tanto sulle sparse e già note osservazioni montaliane sul leopardismo della «Ronda»; basterà dire che il rappel à l’ordre 34 

sm, 2, Prose 1968, Genova nei ricordi di un esule, p. 2875. sm, 2, Prose 1969, Sergio Solmi. Settant’anni. Uomo e poeta, pp. 2933-2934. 36  sm, 2, Prose 1963, Due modi di vivere, p. 2592. 37  sm, 2, Prose 1962, L’estetica e la critica, pp. 2531-2533. 38  Benedetto Croce, Leopardi, in Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari 1923, p. 109. Del resto, osservava Montale nel 1950, Leopardi non trovò grandi consensi nemmeno presso Idelfonso Nieri, il quale «leggeva Dante senza togliersi il pipistrello e adorava il Trecento. Per lui la letteratura finiva lì. Poco gli piacevano Foscolo e Leopardi e il Carducci» (sm, 1, Prose 1950, «Secondo in che dà…», p. 972). 39  Cfr. os, Meriggi e ombre, ii, Arsenio, vv. 55-59, p. 84: «e se un gesto ti sfiora, una parola / ti cade accanto, quello è forse, Arsenio, / nell’ora che si scioglie, il cenno d’una / vita strozzata per te sorta, e il vento / la porta con la cenere degli astri». 35 

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del gruppo romano (che, «con ostinato proposito neoclassico»40, «preferiva le Operette morali agli Idilli leopardiani»)41 è letto da Montale come un «recupero archeologico e dunque falsificante», da collocare solo sul piano «più piattamente retorico-stilistico, senza un vero impegno filosofico-culturale»42. Ciò vale soprattutto per Cardarelli, che pure era stato avvolto nel «mito» «dello scopritore e insieme rivendicatore del vero Leopardi: quello delle Operette morali e dello Zibaldone»43. Un mito, si capisce, destinato a sgretolarsi, tanto più che una volta scioltasi «l’équipe» della «Ronda» la «peripatetica battaglia» del poeta di Tarquinia diverrà sempre più la battaglia di un «isolato»44. D’altra parte, sostiene Montale, è pur vero che la vena poetica di Cardarelli perde d’intensità a partire dagli anni Venti, quando cioè l’imitazione di Leopardi – ma stavolta quello degli Idilli – inizia a farsi pedissequa e sterile, in un equilibrio assai precario45: Come poeta lirico i Prologhi e alcune parti dei Viaggi nel tempo (1920) esauriscono, si può dire, il Cardarelli che resterà. In questi libri Cardarelli ha inventato quel suo tono basso, quel suo verso prosastico che più conveniva al suo fondo di moralista e di discettatore. Non era un tono che potesse richiamarsi a Leopardi e la sua musicalità si sosteneva appena impercettibilmente sopra il livello della buona “prosa d’arte” […]. E se il destino avesse fermato allora la carriera di Cardarelli il poeta avrebbe lasciato un ricordo incancellabile di sé. Ma così non fu […]. Il poeta scrisse ancora versi […] ma nelle sue poesie ai “paesaggi interiori” fatti di “ordini e non di figure” subentrano con minor felicità i motivi esterni, la descrizione, il paesaggio e sia pure il paesaggio illuminato dal motivo amoroso, in un contesto che non trova più la primitiva felicità. E veramente, negli ultimi versi di Cardarelli, il troppo scoperto calco degli Idilli leopardiani mostra su qual sottile filo di rasoio dovesse mantenersi46.

Semmai, bisognerà aspettare le prose di Sole a picco (1929) «per ritrovare il tono del maggior Cardarelli»: tono che, l’abbiamo visto sopra, «non poteva richiamarsi a Leopardi». Non sarà un caso, 40 

sm, 1, Prose 1954, Letture, p. 1705. sm, 1, Prose 1954, Panorama con interno della Roma letteraria, p. 1651. 42  Natale, Montale e i moderni cit., p. 216. 43  sm, 2, Prose 1959, Una voce isolata, pp. 2192-2193. 44  Ivi, p. 2193. 45  Sul leopardismo «grammaticale» di Cardarelli, cfr. Lonardi, Leopardismo cit., pp. 137-171. 46  sm, 2, Prose 1959, Una voce isolata, pp. 2193-2194. 41 

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allora, se «una delle opinioni che parevano comuni ai collaboratori della “Ronda”» fosse «che Leopardi avesse esaurito sine die le possibilità della lirica italiana»47.

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2.3. Un astro assente Fin qui abbiamo visto come Montale descriva, spesso con brevi notazioni, il rapporto – si badi, non sempre davvero fruttuoso – tra altri autori a lui più o meno contemporanei e Leopardi. È d’altronde questo uno dei nodi del «problema della tradizione» con il quale, nel primo Novecento, i poeti italiani dovettero fare i conti, Montale incluso. Ora, se dovessimo indicare uno scritto in cui il confronto ha luogo, la scelta ricadrebbe senza dubbio su Stile e tradizione, apparso per la prima volta nel gennaio 1925 e poi riedito, con correzioni sostanziali che riguardano proprio Leopardi, in Auto da fé. Leggiamo intanto un brano chiave dell’argomentazione montaliana così come appare nell’ultima redazione: Non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni. Noi riteniamo che il nostro tempo ha cominciato in qualche modo a trovare la sua voce e la sua espressione, e crediamo di poter affermare che gli uomini migliori d’oggi saranno un giorno veduti meglio inquadrati nella storia del nostro Paese […]. Ma intanto questo destino di vivere alla giornata è parso ad alcuni troppo precario. Fu notato cioè che il problema dello stile, inteso come qualcosa di organico, di assoluto, momento supremo della creazione letteraria, è tuttora aperto al punto in cui lo lasciarono il Manzoni e il Leopardi; e parve non vi fosse dopo che abbassamento, compromessi, dialetto e falsetto48.

Vi è «qualcosa di vero», continua Montale, in questo «sconfortante rilievo», come è certo però «che l’esagerarne la portata ha condotto a risultati incredibilmente inattuali e generici»49. Infatti, «non fu tenuto abbastanza presente» che

47  48  49 

Ibid. ams, Auto da fé, Stile e tradizione, p. 12. Ibid.

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il Manzoni fu il punto d’arrivo di un ramo secolare della cultura cattolica; che il Leopardi stesso sarebbe incomprensibile se non conoscessimo le eccezionali componenti umanistiche e illuministiche della sua formazione; e che, prima di questi, il Foscolo dello Sterne e delle Grazie è già vicino in spirito a certo odierno superiore dilettantismo50.

È proprio qui che si fa significativo lo scarto rispetto alla prima versione del testo, dove Montale tagliava corto con Leopardi: «nel Leopardi stesso dopo i quattro o cinque momenti più alti e leggiadri, c’è già scadimento e autoretorica»51. La sentenza finale, in ogni caso, resta invariata: «neppure uomini simili» – Foscolo, Manzoni e Leopardi – «seppero tenersi a lungo sulle cime conquistate» e perciò dovrà «apparirci» alquanto pericoloso «isolare e idoleggiare alcuni attimi cristallini e irripetibili dell’arte loro»52. Eppure, l’idea (già rondista) che i Canti abbiano esaurito, almeno per un determinato arco cronologico, le possibilità dello stile e della parola poetica ricomparirà in una più tarda intervista – siamo nel 1960 – insieme al lessico e le immagini di Stile e tradizione: ci vogliono anni e anni per creare nuove possibilità di stile e di linguaggio. E spesso cercando “non” si trova. Trova chi può, quando il frutto è maturo. Dopo Leopardi, per tutto il resto del secolo, fu pressoché impossibile scrivere versi; nel primo Novecento fu ancora possibile. Oggi, non so53.

È allora plausibile che sia anche per liberarsi dal peso della tradizione incarnata da Leopardi che Montale affermi in più di un’occasione che il poeta recanatese ha avuto un ruolo poco decisivo nella sua formazione. Né tantomeno gli è riconosciuto il ruolo di ‘padre fondativo’ dell’Ottocento: il «primo Leopardi», leggiamo in Toscanini prova (1945), è «ancora tutto Settecento», come «Foscolo» e «Rossini»54. Ma a ben vedere non si tratta solo del «primo Leopardi»: il discorso, che a Montale doveva stare particolarmente a cuore, è esteso a tutti i Canti. Così infatti ribadiscono le Variazioni, scritte sempre nel 1945: 50 

Ibid. Eugenio Montale, Stile e tradizione, «Il Baretti», 1, 15 gennaio 1925 (cit. in ams, Note, Stile e tradizione, p. 1758). 52  ams, Auto da fé, Stile e tradizione, p. 12. 53  ams, Monologhi, colloqui, Dialogo con Montale sulla poesia, p. 1609. 54  pr, Prose varie di fantasia e d’invenzione, Toscanini prova, p. 769. 51 

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Leopardi e Foscolo […] (ma più il Foscolo) partono dal Settecento e si affacciano al nostro tempo lasciando allo scoperto gran parte dell’Ottocento. Senza per ciò posporli minimamente a un Baudelaire, si deve convenire che alla nostra lirica è mancato nel secolo scorso un poeta centrale, normativo, integralmente ottocentesco, che potesse far scuola. Se poi l’assenza di un simile astro e della sua disintegrazione potrà risparmiarci molti ismi, tanto meglio. Resta la sensazione, penosa e insieme fortificante, che da noi tutto è sempre da rifare, punto e daccapo; e che proprio da questa solitudine debba trar la sua forza un artista italiano degno del nome55.

Come spiegare, pertanto, la contraddizione tra questo passo e l’altro in cui Montale registra la saturazione della poesia ottocentesca e primonovecentesca ad opera di Leopardi? Con la scelta, è stato detto, di porre l’accento «sulla propria autonomia» di «poeta non compromesso con la tradizione e più libero di cercarsi e trovarsi absolument moderne»56. Una scelta, del resto, ribadita non solo pubblicamente – «non sono mai stato un lettore accanito di Leopardi», dichiarava Montale nel 196157 – ma anche nella corrispondenza privata, ad esempio con Irma Brandeis: «I like Dante and not much Leopardi»58. 2.4. Prima e dopo Leopardi E tuttavia, ammesso pure che non fosse mai stato un «lettore accanito» dei Canti, il Montale saggista coglie e mette a fuoco aspetti nient’affatto secondari della poetica leopardiana. Anche stavolta gli esempi andranno ricercati in scritti su altri autori, come l’Invito a T. S. Eliot (1950), nel quale Giacomo – insieme però a Dante, Petrarca e Shakespeare – è citato per la compresenza di soggettività e universalità nel dettato poetico: «credere che l’aperta soggettività, il dire “io”, renda più precaria, meno universale la poesia è probabilmente una illusione. Dante, Petrarca, lo Shakespeare dei Sonetti e Leopardi

55 

sm, 1, Prose 1945, Variazioni, p. 620. Lonardi, Winston Churchill e il bulldog cit., p. 20. 57  Cfr. ams, Monologhi, colloqui, Biografie al microfono, p. 1612. 58  Eugenio Montale, Lettere a Clizia, a cura di Rosanna Bettarini, Gloria Manghetti e Franco Zabagli, Mondadori, Milano 2006, p. 49. 56 

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hanno scritto in prima persona»59. Ancora un anno e ci imbatteremo di nuovo in Leopardi, e per una questione mica da poco: l’evoluzione e la definizione stessa del concetto di «poesia lirica»60. Infatti, nel recensire la storia letteraria della lirica di Enrico Fusco, edita nel 1951 da Vallardi, Montale non poteva fare a meno di notare alcune mancanze, tra le quali – ed è ciò che più interessa – il non aver mostrato la funzione dei Canti, che hanno svincolato la lirica sia dal linguaggio aulico sia dalle forme chiuse. Leopardi, in breve, ha segnato uno spartiacque: si poteva mostrare come la strofe architettonica, la stanza sia andata trasformandosi per risorgere in nuovi aggregati; era possibile chiarire quali valori armonici abbia raggiunto la nostra lirica quando meno si è legata alle forme chiuse e alla rima fissa; era possibile far capire come e perché dopo Leopardi nel nostro linguaggio poetico la ricerca del “peregrino” non fu più obbligata a servirsi del linguaggio aulico61.

Ma a rompere gli schemi e segnare una linea di confine tra un prima e un «dopo» ha contribuito anche il «paesaggio» leopardiano, che non è più – nota Montale nel 1966 – semplicemente ‘decorativo’ o ‘scenografico’: La scoperta del paesaggio, in letteratura, fu opera del romanticismo. Prima di quel tempo non è che il paesaggio mancasse […] ma la sua funzione era diversa; era essenzialmente scenografica, in largo senso decorativa […]. Inteso come vero e proprio personaggio il décor corrisponde a una effettiva perdita d’importanza dell’eroe del racconto. Una simile perdita autorizza lo sfondo, la cornice a caricarsi di significati e a gonfiarsi oltre misura. La sensualità dell’abate Mouret o quella di certi eroi dannunziani è preparata accortamente da un’esplosione di ebbrezza naturalistica. L’uomo, avendo smarrito la misura di sé, non può che annegare nelle forze della natura. Anche a Leopardi, a Recanati, anche a Chateaubriand sugli scogli di Saint-Malô, era accaduto di annegare oltre infiniti orizzonti, ma un giusto

59 

ams, Prose 1950, Invito a T. S. Eliot, p. 989. Cfr. sm, 1, Prose 1951, Storia dell’araba fenice, p. 1198: «Che cos’è una poesia lirica? Per mio conto non saprei definire quest’araba fenice, questo mostro, quest’oggetto determinatissimo, concreto, eppure impalpabile perché fatto di parole, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia». 61  Ivi, p. 1201. 60 

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senso d’orgoglio – e la certezza della loro responsabilità di uomini e di poeti – impediva a questo annegamento di andare al di là di una semplice forzatura che nemmeno direi una figura retorica. In poesia il grande paesaggio panico doveva ancora sorgere62.

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L’autore dei Canti, riassumendo, ha quindi dissociato il «peregrino» dall’aulico, ha reso più aperte le forme metriche63 e ha preparato la «scoperta» romantica del paesaggio. Ma c’è dell’altro. È infatti «fino al Leopardi» che, nel 1953, Montale ipotizza di poter «addirittura» risalire se si vuole rintracciare il precursore italiano dei lirici inglesi degli anni Trenta, i cosiddetti ‘poeti dell’angoscia’: Donde proviene l’angoscia che sarebbe carattere distintivo di un simile drappello di poeti coetanei? Certo dalla filosofia dell’Esistenza (da Kierkegaard in giù) nella quale il nostro tempo ama riconoscersi. In se stessa l’angoscia dell’uomo – si chiamasse tedium vitae o noia o spleen – non può dirsi fosse scoperta nel 1930. Nulla di più angoscioso della Terra desolata di T. S. Eliot (1922) e di altri versi, anche italiani, scritti in quegli anni. Nulla di più struggente di alcune strofe di Jules Laforgue (fine Ottocento) se addirittura non vogliamo risalire fino al Leopardi64.

62  sm, 2, Prose 1966, Il racconto del silenzio, pp. 2788-2789. A differenza di Chateaubriand, Leopardi seppe mantenersi lontano pure dall’impegno politico. Si veda ams, Monologhi, colloqui, Queste le ragioni del mio lungo silenzio, pp. 1623-1624: «Ci può essere il poeta civile, sociale. Il poeta che canta Marx, che canta il socialismo. Neruda ha scritto un canto a Stalin. Io non saprei negare al poeta di fare questo. Ma non saprei nemmeno negargli il diritto di fare il contrario. Leopardi non si è occupato dei problemi politici del suo tempo. E non si dica che ha scritto la canzone All’Italia invocando la libertà. Questo era il meno che si potesse fare. Non c’è quindi quest’obbligo dell’engagement politico». Corsivi dell’autore. 63  Qualche altra dichiarazione sulla metrica leopardiana vi è in ams, Inchieste, Della poesia d’oggi, p. 1530: «Forme chiuse e forme aperte, è problema di scarso interesse. Tutte le buone liriche sono chiuse e aperte insieme: obbediscono a una legge, anche se invisibile. Leopardi è evidentemente più “chiuso” di Carducci». Sull’assenza del sonetto, invece, cfr. sm, 2, Prose 1958, Poesia d’altri tempi, p. 2124: «il sonetto giunge stanco al nostro Ottocento dopo aver celebrato i suoi ultimi trionfi nel Cinquecento europeo. Muore, si può dire, con pochi esempi del Foscolo. […]. Manzoni e Leopardi non potevano arricchire questo capitolo, e nemmeno Carducci, D’Annunzio e lo stesso Pascoli danno il meglio di sé in questo schema». 64  sm, 1, Prose 1952, W. H. Auden, p. 1411. Corsivi dell’autore.

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2.5. Mnemonicità, troppa luce e troppa polvere Assieme alle considerazioni sul ruolo di Leopardi all’interno della tradizione italiana e sui possibili raffronti con autori europei, vanno segnalate però alcune osservazioni – mai troppo estese – sulle singole liriche dei Canti, quasi tutte contenute in Auto da fé. È stato spesso ricordato dai critici, ad esempio, il giudizio sulla scarsa memorabilità del Canto notturno:

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Quand’ero ragazzo mandai a memoria con facilità quel già difficile carme [i Sepolcri], come imparai con la stessa disinvoltura squarci della replica del Pindemonte […]. E «Ferocemente la visiera bruna» del Frugoni e Il falco e il gallo dello Zanella mi restarono più appiccicati del Canto del pastore errante65.

Certo, subito dopo Montale mette le mani avanti, e precisa: «che se ne conclude? Nulla; o forse solo che la mnemonicità di una lirica non è in sé indizio di valore o disvalore»66. Epperò, quando diciott’anni dopo citerà di nuovo il Canto notturno, lo farà registrando la poeticità al «ribasso» di una luna ormai «detronizzata»: Nessun poeta moderno si rivolgerebbe alla luna col famoso interrogativo “che fai tu in ciel” ecc. Detronizzata da gran tempo, la luna sopravvive come parola d’uso (es. “era una bella serata di luna” in cui la parola luna non ha funzione di protagonista). E sopravvivranno all’allunaggio le numerose connotazioni misterico-negromantiche che hanno fatto del nostro vicino satellite un inquietante personaggio astrale67.

Ma torniamo su Auto da fé, che ospita pure uno scritto dal titolo preso in prestito dalla Ginestra: Le magnifiche sorti (1950). Più che con il canto del 1836, tuttavia, in questo caso il dialogo è con le Operette morali, dalle quali il testo montaliano sembra riprendere alcuni nodi cruciali (l’incipiente «civiltà meccanica», la «prossima fine del mondo», l’uomo che si è fatto «massa»): Non occorre consultare gli annali della storia e i barlumi della preistoria per accorgersi che oggi per la prima volta centinaia di milioni di persone 65  66  67 

ams, Auto da fé, Variazioni, vii, p. 192. Ibid. sm, 2, Prose 1969, Luna e poesia, p. 2928.

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viventi in diversi e lontani paesi […] si trovano in rapida e spesso fulminea comunicazione attraverso i mezzi che la civiltà meccanica ha scoperto […]. Se non è prossima la fine del mondo, nulla fa pensare che tale parossismo di pseudo-comunicazione abbia esaurito le sue possibilità: siamo probabilmente a un principio, non a una fine. […] L’uomo d’oggi ha ereditato un sistema nervoso che non sopporta le attuali condizioni di vita: in attesa che si formi l’uomo di domani non più sapiens ma solamente faber, l’uomo d’oggi reagisce alle mutate condizioni non opponendosi agli urti, bensì facendosi massa, “massificandosi”68.

Ai rimandi al Canto notturno, alla Ginestra e alle Operette ne va aggiunto poi un altro – rapidissimo e inserito all’interno di un più ampio discorso sull’oscurità – all’Infinito, «la più chiara poesia del mondo»69. È del resto proprio sul tema dell’oscurità, strettamente correlato con quello dell’esegesi, che s’addensano altri riferimenti a Leopardi. Si veda, anzitutto, questo passo di Due sciacalli al guinzaglio, forse il più studiato autocommento montaliano70: L’oscurità dei classici, non solo quella di Dante e del Petrarca, ma anche quella del Foscolo e persino del Leopardi, è stata in parte diradata dai commenti di intere generazioni di studiosi: e non dubito che quei grandi sarebbero stupefatti delle spiegazioni di certi loro ermeneuti. Anche l’oscurità di certi moderni finirà per cedere, se domani esisterà ancora una critica. Allora dal buio si passerà alla luce, a troppa luce: quella che i così detti commenti estetici gettano sul mistero della poesia71.

Leopardi è dunque meno oscuro di Dante, Petrarca e, così pare, di Foscolo. Non a caso, cinque anni dopo, quando a Montale sarà chiesto un parere sui commenti alla sua poesia, il pensiero tornerà alle assai ricercate interpretazioni del più ‘chiaro’ dei classici: «Io credo che Leopardi riderebbe a crepapelle se potesse leggere ciò che di lui scrivono 68 

ams, Auto da fé, Le magnifiche sorti, p. 226. Corsivi dell’autore. ams, Auto da fé, Quelli che restano, p. 93. 70  Per un’interpretazione complessiva di questo scritto rimando a Christian Genetelli, Due sciacalli al guinzaglio. Dentro e dietro un autocommento montaliano, «Strumenti critici», 1, 2021, pp. 23-45. Segnalo però che nel testo vi è anche una citazione, forse già proverbiale, del Pensiero dominante: «angosciato com’era e sempre assorto nel suo “pensiero dominante”, stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflesse su uno schermo tante distrazioni» (ams, Monologhi, colloqui, Due sciacalli al guinzaglio, p. 1491). 71  Ivi, p. 1493. 69 

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i suoi commentatori»72. Sul banco degli imputati, però, non finisce soltanto l’esegesi che getta, rendendosi addirittura ridicola, «troppa luce» sui testi, ma anche una certa filologia mossa dalla volontà idealistica di «cogliere la scaturigine prima dell’opera, il lampeggiare dell’idea, dell’ispirazione, la scarica dello spirito sul foglio immacolato»73. Tale «spirito di ricerca», beninteso, può portare a scoperte «utilissime», come è accaduto appunto per Leopardi, Foscolo e D’Annunzio: È noto che il nostro tempo ha una particolare predilezione per l’inedito o per le opere incompiute, abbozzate. Esiste uno stendhalismo in atto, un bracconaggio spirituale che non investe soltanto le opere del grande milanese onorario, ma che di ogni scrittore cerca tutto fuorché i presunti capolavori definitivi. A tale spirito di ricerca dobbiamo la scoperta – utilissima – del Leopardi “segreto”, del Foscolo “didimeo”, del D’Annunzio “notturno”74.

E tuttavia le conseguenze di un simile «bracconaggio spirituale», che si intrecciano con l’esegesi e il mercato editoriale, possono essere assai inquietanti, giacché […] Di pari passo con i progressi della filologia […] le dottrine estetiche sorte dalla tradizione idealistica […] hanno portato ad attribuire sempre maggiore importanza alla prima stesura, all’abbozzo, al frammento, a tutto quanto conserva traccia del lavoro di elaborazione […]. Oggi quadri e libri si leggono coi raggi ultravioletti: la superficie non soddisfa la nostra sete di conoscenza, bisogna guardare dietro i colori e le righe, sapere interpretare le ombre, le macchie, i vuoti […] per ricostruire da un “pentimento”, da un’intenzione, da un accenno, la verità della forma rivelata. […] Fatto si è che mai come ora gli editori sono andati a caccia di taccuini, quaderni, foglietti, brogliacci, zibaldoni, lettere, memorie, diari […]. Si frugano in ogni angolo magazzini e cantine quando gli scaffali della bottega cominciano ad essere vuoti; speriamo che le 72  ams, Monologhi, colloqui, Dovevo inserirmi in una tradizione viva, p. 1539. Ma si veda anche quanto detto subito dopo sul rapporto con la tradizione (Leopardi incluso): «Le mie poesie sono funghi nati spontaneamente in un bosco; sono stati raccolti, mangiati. C’è chi li ha trovati velenosi, mentre altri li hanno detti commestibili. Il bosco… non era vergine; era stato concimato da molte esperienze e letture. Nacquero per una volontà, un bisogno di esprimersi con certe parole, con parole che suggerissero un certo mondo fisico e morale […]. Io non sono fuori dal popolo; ma sono un popolano che ha fatto le scuole medie. Dovevo quindi inserirmi in una tradizione viva, cioè passare da una porta che era l’unica (in quel momento) a me accessibile». Corsivi dell’autore. 73  sm, 1, Prose 1952, Proust (o quasi), p. 1387. 74  Ivi, pp. 1387-1388.

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forniture riprendano presto: per ora, la merce migliore sembra essere quella portata su dal buio, tolta alla polvere dell’oblio75.

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Per di più, ai «taccuini, quaderni, foglietti, brogliacci, zibaldoni, lettere, memorie, diari» e, insomma, a tutti i materiali estrapolati dal «buio» e dalla «polvere» si aggiungeranno, osserva Montale nel 1962, le varianti. Stavolta però non sarà lui – a differenza, guarda caso, di Leopardi – a fornire materiali: non ho mai fatto molte correzioni. Anzi, c’è un mio amico che sta preparando la riedizione dei miei libri e vuole mettere anche le varianti. E allora abbiamo trovato queste varianti, ma tutto si esaurirà in cinque, sei pagine. Perché si vede che cominciavo a scrivere ad un punto già avanzato di maturazione. Una tecnica diversa da altri. Leopardi pare scrivesse prima una cosa in prosa e poi la rimettesse in versi. Io non dico che non si possa fare, ma il mio metodo di lavoro è stato diverso. A volte ho scritto in prosa, ma era una falsa prosa. Mancavano gli “a capo”, e la ricostruivo immediatamente76.

2.6. «E lo pensava anche il Leopardi» «“Questi poeti morti giovani sono tutti eguali”, mi disse un amico con indifferenza, restituendomi il libro»77. Così incomincia la recensione di Montale alle Poesie di Sergio Guerrera (1901-1928)78, pubblicate postume tre anni dopo la morte del giovane poeta siciliano. Il giudizio dell’amico, indifferente e tranchant, «sorprende un poco», ma fornisce anche «la chiave di un fatto poetico abbastanza singolare»: I poeti morti giovani […] non si riconoscono solo in quanto essi partecipano della zona grigia, indifferenziata della poesia potenziale o della pseudopoesia. È il caso più frequente, e quello che meno interessa qui. La somiglianza che ci colpisce si avverte in poeti che per qualche lato si levavano al disopra del generico, ma che il presentimento, sia pure inconscio, della morte sembra avere spinto a una frettolosa e parziale fioritura favorita dal sole illusorio di una precoce primavera. Perché avviene questo? E sia pure nebbia e inverno il carattere di tante adolescenze difficili, non è della gioventù la poesia? Non è l’uomo in 75  76  77  78 

Ivi, pp. 1388-1389. ams, Monologhi, colloqui, Queste le ragioni del mio lungo silenzio, pp. 1625-1626. sm, 1, Prose 1931, Libri, p. 449. Cfr. Sergio Guerrera, Poesie, Corbaccio, Milano 1931.

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quanto poeta (e lo pensava anche il Leopardi) “stampato” tutto nei suoi anni giovanili senz’altra possibilità che di repliche o di doppioni?79

Il brano è il primo esempio, cronologicamente parlando, dell’uso di Leopardi come auctoritas, ossia come garante di un’opinione magari largamente diffusa ma non necessariamente condivisa appieno dall’autore. Che il poeta sia «“stampato” tutto nei suoi anni giovanili», infatti, può essere vero, ma fatta salva una precisazione: «È vero; ma vero nel senso che la giovinezza, prolungata poi dalla memoria e dalla nostalgia, è nella vita dell’uomo la fonte unica e sola dell’immaginazione, del sentimento poetico. Meno vero nell’ordine dello stile, che richiede virilità d’impegno, rinunzia, e in una parola maturità»80. Ora, nell’opera di Leopardi il concetto astratto di ‘maturità’ può assumere il significato di corruzione, ma altrettanto numerosi sono i passi in cui si insiste sull’«impegno», sulla «rinuncia» o, con una parola più leopardiana, sulla fatica da compiere nella ricerca dello «stile». La precisazione di Montale, insomma, non ci porta tanto lontani dal ‘pensiero’ del poeta dei Canti. Del resto, anche in un altro caso – relativo all’ardua sentenza su Manzoni, pronunciata tra il 1955 e 1973 – l’atteggiamento verso le opinioni leopardiane è duplice. Da un lato, infatti, Montale si dice in pieno disaccordo con Giacomo che si ostinò a credere Manzoni «né modesto e neppure vero religioso»81: un giudizio smentito anche dal volume Manzoni, Firenze e la «risciacquatura» di Marino Parenti, recensito per il Corriere nel luglio 1955. Ma se in quell’anno Montale non aveva dubbi sul Manzoni-uomo – «un personaggio di esemplare modestia»82 – quasi vent’anni dopo, nel 1973, si mostrerà più incerto sulla «religiosità manzoniana» e più perplesso sul Manzoni-letterato, o meglio ancora sul Manzoni-lettore (al quale, precisa, «restò estraneo» Leopardi, che a sua volta lo giudicò in modo «distratto»): ho l’impressione che dopo la scelta della sua religione abbia ragionato così: “Ecco fatto. Sono un cattolico credente, adesso non se ne parli più” […]. Che Manzoni sia un grande dell’Ottocento, non c’è discussione, anche se le sue ope-

79  80  81  82 

sm, 1, Prose 1931, Libri, pp. 449-450. Ivi, p. 450. sm, 2, Prose 1955, Letture, p. 1843. Ibid.

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re hanno avuto poca eco all’estero […]. Di Leopardi, si sa il giudizio distratto […]. Io trovo moltissime ragioni per riconoscere la grandezza di Manzoni: il rischio è di mettermi poi ad analizzare ragione per ragione, perché ognuna per suo conto mi lascia talvolta perplesso. Mi viene in mente una domanda: che cosa avrà pensato Manzoni di Dante? Non lo so. Si potrebbe trovarne traccia negli scritti. Ma ho l’impressione che non fosse il suo autore. Anche Leopardi gli restò estraneo… Gli piaceva invece Shakespeare ma in quale lingua poté leggerlo? A quel tempo non esistevano le traduzioni di Victor Hugo figlio83.

A ogni modo, Montale si mostra attento al ‘parere’ di Leopardi non solo sui singoli autori, ma anche sulle lingue e sulle letterature straniere, quella francese in particolare. Si prenda, anzitutto, Francia e Italia (1945), un intervento dell’immediato dopoguerra dove si auspicava un «rinnovato accordo» tra «le due nazioni di antichissima cultura e di tradizioni umanistiche impareggiabili»84, e dove troviamo accostati, seppur in senso diverso, proprio Leopardi e Manzoni: Ha potuto ignorare la poesia francese, se non il vento di libertà che soffiava dalla Francia, il Foscolo; ma un Leopardi, gran lettore degli illuministi, che se n’è difeso a fatica come da un troppo suggestivo contagio, e un Manzoni che non si spiegherebbe senza il lato giansenistico e francese della sua formazione romantica, danno inizio a un’epoca in cui tutti anche da noi hanno fatto i loro conti con la Francia85.

Ebbene, negli anni successivi Montale riconsidererà da vicino i «conti» di Leopardi con la Francia: «La poesia francese classica», scrive nel 1949, «non desta entusiasmi universali, per quanto la Francia del simbolismo e dell’impressionismo sia ancora presente in quanto si fa di meglio, in poesia e in pittura, in tutto il mondo. Sono noti i giudizi di Leopardi e di Croce sui caratteri di quel classicismo»86. E ancora, tre anni dopo: la poesia francese ha in verità tali caratteri distintivi che da Leopardi, almeno, fino al Gide della recente antologia della “Pléiade”, si poté considerarla la 83 

sm, 2, Prose 1973, L’ardua sentenza su Manzoni, pp. 3008-3009, 3011-3012. sm, 1, Prose 1945, Francia e Italia, p. 647. 85  Ivi, p. 649. 86  sm, 1, Prose 1949, Un avvenimento letterario. La lirica francese al setaccio di André Gide, pp. 824-825. 84 

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meno poetica, o se si vuole la meno “canora” delle poesie. Strano giudizio ma non aberrante, emesso all’alba e alla conclusione di un’epoca in cui la Francia poetica, facendo ritorno in Europa dopo un lungo viaggio intorno al mondo, tiene ancora l’iniziativa della cosiddetta modernità87.

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Uno giudizio «strano», dunque, non «aberrante» ma senza dubbio ormai obsoleto. Sulla vera natura della poesia classica francese, infatti, scriverà pagine illuminanti Giovanni Macchia nel suo Il paradiso della ragione (1960), che secondo Montale, tra gli altri meriti, ha quello di aver reso ancora più inattuali – e risibili – le questioni poste da «uomini» come Vico, Goethe, Amiel, Gide e, appunto, Leopardi: È uno spirito poetico quello dei francesi? Ed è la più adatta alla poesia la lingua francese? La questione, posta in questi termini, potrebbe giustamente far ridere. Oggi sappiamo tutti che una lingua naturaliter poetica non esiste, è un’astrazione. Eppure dal Vico in poi la questione fu posta da uomini come Goethe, Leopardi e Amiel; e persino Gide, quando disse che il miglior poeta francese era “Victor Hugo, hélas!” non mancava di alludere a una corrente d’opinioni assai diffusa nella stessa Francia88.

2.7. Filantropi e quattrini Prima di passare ai versi, restano infine da considerare le apparizioni di Leopardi in chiave attualizzante, come accade per esempio in due brani di Auto da fé, nei quali Montale prende le distanze da alcuni progetti culturali che si autoproclamano filantropici. Il primo è la creazione, vagheggiata nel 1953 da un certo «commendator Z.», di un Istituto per vecchi e giovani scrittori: Sui vecchi è facile mettersi d’accordo. Sarà una casa di riposo, un ospizio come tanti altri. Ma per i giovani? Pare che ognuno […] godrà di un’ospitalità che è prevista per un anno, rinnovabile per coloro che si saranno distinti nella loro “produzione”. L’intento è certamente nobile. Ma non so immaginare che cosa possa produrre un giovane di vent’anni il quale […] dopo un buon bagno e un soddisfacente breakfast debba dare un’occhiata al calendario e mettersi a tavolino per giustifica-

87  88 

sm, 1, Prose 1952, Letture, p. 1476. sm, 2, Prose 1960, Il paradiso della ragione, p. 2308.

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re, alla scadenza di altri 364 giorni, la sua presenza all’Istituto. Non vedo, in quella situazione, alcun poeta capace di produrre qualcosa di buono. Non mi riesce di immaginare Leopardi o Whitman, Rimbaud o Campana (e potrei continuare con altri nomi) sequestrati davanti a un foglio bianco in una cella dell’ospizio Z89.

Il secondo progetto, forse ancora più stravagante, è quello dello «IARD», «l’identificazione e l’assistenza dei ragazzi intellettualmente dotati», che coinvolgerebbe «specialisti, assistenti sociali, psicometri ed altra gente ad hoc». Ma sarebbe, commenta il poeta, tutto «spreco» e «dissipazione», senza sorvolare sul fatto che «se i quindicenni Leopardi, Mussorgski e Cézanne fossero caduti nelle mani degli psicometri e avviati all’arricchimento nessuna delle loro opere sarebbe giunta noi»90. Ebbene, se queste menzioni possono sembrare casuali (ma così non deve essere stato, giacché Montale avrebbe potuto fare «altri nomi»), più mirati sono invece i raffronti proposti tra la condizione del poeta recanatese e quella dello scrittore moderno (vale a dire Montale stesso). Così è già in Senza quattrini niente capolavori (1951), una recensione a La Mort de la littérature di Raymond Dumay tutta incentrata sul contrasto che vi è tra le esigenze materiali e l’inclinazione poetica in un’epoca in cui davvero «la poesia non dà quattrini»91. In poche parole, al giorno d’oggi l’«artista» è «costretto a dividersi tra l’arte e un mestiere capace di dargli da vivere», ben più di quanto non sia accaduto già nell’Ottocento a Foscolo, Leopardi e Manzoni: Un Leopardi e un Manzoni che cercano impiego a vent’anni, io non li vedo; e posso supporre che se i mecenati di Foscolo non si fossero stancati di lui (ben a ragione, d’altronde…), il cantore delle Grazie avrebbe tentato (probabilmente senza riuscirci) di dare un filo conduttore ai frammenti del suo poema92.

È pur vero, tuttavia, che il motto Senza quattrini niente capolavori vale, oltre che (forse) per il Foscolo delle Grazie, anche per Leopardi, del quale Montale, sempre nel 1951, ricorda – accennando 89  90  91  92 

ams, Auto da fé, Variazioni, viii, p. 198. ams, Auto da fé, Francobolli, Le dotazioni sprecate, p. 306. sm, 1, Prose 1951, Senza quattrini niente capolavori, pp. 1145-1146. Ivi, p. 1147.

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tra l’altro a un episodio su cui si doveva fare ancora piena luce – le trattative fallite (con De Romanis però, non con «Stella») relative alla traduzione integrale delle opere di Platone:

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La Comédie Humaine sarebbe stata scritta senza le pressioni dei creditori, le minacce degli usurai, le diffide degli editori in isborso di cospicui anticipi? Mi limito a porre l’interrogativo, pur conoscendo bene la sua inutilità. Ma, per passare ad un altro esempio, resta il fatto che se l’editore Stella avesse appena allentato i cordoni della borsa, la nostra letteratura si sarebbe arricchita delle opere di Platone nella traduzione di Giacomo Leopardi93.

Certo però, si ribadirà nel 1959, un Leopardi alle prese con un «secondo mestiere» è davvero inimmaginabile. Così pure Foscolo, fino a giungere ai più recenti casi di Tolstoj e Proust che, come Giacomo, ebbero la fortuna di essere rentiers, possidenti di professione: [i poeti] hanno un secondo mestiere: quello dell’uomo di penna. Scrittori notissimi, magari insigniti del premio Nobel, vivono della loro penna, non della loro arte […]. Quando vediamo negli scaffali le “opere complete” di un autore famoso, noi distinguiamo a colpo d’occhio le poche che appartengono alla sua arte dalle molte che sono di pertinenza del suo secondo mestiere: quello del produttore di parole stampate […]. Un Foscolo o un Leopardi che passino dieci ore al giorno sforbiciando comunicati di agenzie giornalistiche sono inimmaginabili […]; non avremmo avuto Guerra e pace e la Recherche se Tolstoi e Proust non fossero stati dotati di un considerevole “censo”. E in questo caso noi scopriamo quale può essere il secondo mestiere più favorevole alle lettere; quello del rentier94.

Ma Leopardi, e con lui Goethe e Foscolo, ebbero anche un’altra fortuna: quella di non dover sottostare a «lunghe interviste». Interviste, per di più, che avrebbero potuto addirittura offuscare la «leggenda» di questi grandi del passato: Non so supporre che cosa accadrebbe se noi possedessimo, debitamente incise su filo o su disco, lunghe interviste con Goethe, con Foscolo o Leopardi. Dico interviste veramente spontanee o apparentemente tali, e non già dichiarazioni preparate e organizzate del tipo dei colloqui fra Goethe ed Eckermann: veri dialoghi che colgano il tono della voce, gli umori del momento e magari le 93  94 

sm, 1, Prose 1951, L’esilio terreste di Nerval, p. 1236. ams, Auto da fé, Il secondo mestiere, pp. 128-130.

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contraddizioni di uno spirito che vuole e disvuole, dice e disdice… Forse non accadrebbe nulla; oppure la leggenda di quei grandi subirebbe qualche brusca mutazione. Non v’è grandezza senza lontananza e mistero e il senso del “nemo propheta in patria” è tutto qui: che ad esser conosciuto davvicino nessun artista ha molto da guadagnare95.

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2.8. Arletta, Ezekiel e una «mano diaccia» Quale fosse il Leopardi del Montale poeta è già da tempo noto alla critica, soprattutto per quanto riguarda le prime tre raccolte96. Non è dunque necessario ripercorre nel dettaglio la fitta trama dei richiami ai Canti che si dispiega almeno dagli Ossi di seppia (1925) fino alla Bufera e altro (1956). Piuttosto, illustreremo qui alcuni topoi ritornanti, dando però più spazio alle liriche su cui meno è stato detto; laddove possibile, poi, proporremo alcune integrazioni. Nel fare ciò, possiamo prendere le mosse dal topos più ricorrente: quello della fanciulla morta in tenera età, Anna degli Uberti97, detta Arletta, Aretusa, Annetta e infine – a partire dal Quaderno di quattro anni (1977) – capinera, la sylvia atricapilla dalla «testolina bruna»98 o dalle «negre chiome»99. Ebbene, 95  sm, 1, Prose 1952, La straordinaria vita di Cendrars, nomade pagliaccio, poeta cubista, p. 1405. 96  Sull’influenza dei Canti nella poesia montaliana rimando a: Laura Barile, Montale, Londra e la luna, Le Lettere, Firenze 1998, pp. 107-150; Luigi Blasucci, Gli oggetti di Montale (2002), Ledizioni, Milano 20102, pp. 115-131; Dolfi, Leopardi e il Novecento cit., pp. 45-59; Gilberto Lonardi, Il vecchio e il giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 73-120; Id., Il fiore dell’addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 239-258; Id., Winston Churchill e il bulldog cit., pp. 19-48; Giuseppe Sangirardi, Variazioni su Leopardi e Montale, in Dominioni, Chiurchiù (a cura di), Leopardi e la cultura del Novecento cit., pp. 241-258; Giuseppe Savoca, Il Leopardi di Montale tra prosa e poesia, «Revue des études italiennes», 3-4, 1998, pp. 235-250. 97  Come è noto, la donna in realtà è morta all’età di cinquantaquattro anni. A riguardo, si vedano almeno: Paolo De Caro, Anna degli Uberti. Tracce di vita e di poesia per la figura della prima grande ispiratrice montaliana, «La Capitanata. Rivista quadrimestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia», 2004, pp. 107-134; Franco Nosenzo, Storia di Arletta: la figura della fanciulla morta nella «Bufera», «Lingua e letteratura», 24-25, 1994-1995, pp. 89-114; Maria Antonietta Grignani, Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di Eugenio Montale, Longo, Ravenna 1987, pp. 49-70. 98  Lonardi, Il fiore dell’addio cit., p. 256. 99  c, A Silvia, v. 45.

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questa figura, che è forse «la più persistente e tenacemente vitale dell’immaginario poetico montaliano»100, compare la prima volta – già come «funebre immagine fuggitiva e ritornante»101 – in Vento e bandiere, un osso composto nel 1926 e aggiunto nella seconda edizione del 1928:

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La folata che alzò l’amaro aroma del mare alle spirali delle valli, e t’investì, ti scompigliò la chioma, groviglio breve contro il cielo pallido; la raffica che t’incollò la veste e ti modulò rapida a sua imagine, com’è tornata, te lontana, a queste pietre che sporge il monte alla voragine; e come spenta la furia briaca ritrova ora il giardino il sommesso alito che ti cullò, riversa sull’amaca, tra gli alberi, ne’ tuoi voli senz’ali. Ahimè, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E scampo n’è: ché, se accada, insieme alla natura la nostra fiaba brucerà in un lampo. Sgorgo che non s’addoppia, – ed or fa vivo un gruppo di abitati che distesi allo sguardo sul fianco d’un declivo si parano di gale e di palvesi. Il mondo esiste… Uno stupore arresta il cuore che ai vaganti incubi cede, messaggeri del vespero: e non crede che gli uomini affamati hanno una festa102.

Il dialogo, qui, è con A Silvia e Le ricordanze. Infatti, se da un lato il «come» della seconda strofa – una tessera che abbiamo già visto in 100  101  102 

Nosenzo, Storia di Arletta cit., p. 91. Lonardi, Il fiore dell’addio cit., p. 240. os, Altri versi, Vento e bandiere, p. 25. Corsivi miei.

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Saba e che ritroveremo poi in Giudici – proviene dalla «grammatica poetica» del canto pisano, dall’altro lato più elementi sono condivisi con il componimento dell’anno successivo. Mi riferisco non solo e non tanto ai tratti paesaggistici (il «monte», il «mare», il «giardino»)103 ma anche e soprattutto alla presenza di due verbi densi di ripercussioni: ‘tornare’ («com’è tornata») e ‘spegnere’ («e come spenta») che, insieme a ‘passare’104, sono veri e propri senhal di Nerina:

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Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo Son dileguati! E qual mortale ignaro Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza è spenta? O Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? […] […] Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste, Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore105.

Da questi celebri versi deriva non solo il lessico ma anche il campo figurale di Vento e bandiere. Più da vicino, il v. 16 («la nostra fiaba brucerà in un lampo») conserva un’eco dei «Fugaci giorni» della «spenta» «giovanezza», che «a somigliar d’un lampo / Son dileguati» (del resto, è questa l’immagine che prepara l’apparizione di Nerina). Ancora, il finale montaliano rielabora il motivo, centralissimo nelle Ricordanze, del ripetersi degli eventi naturali (il «mondo» continua ad esistere) e dei preparativi («si parano») a «festa» in assenza della fanciulla. 103  Per cui cfr. c, Le ricordanze, vv. 3, 21: «Sul paterno giardino scintillanti», «Quel lontano mar, quei monti azzurri». Corsivi miei. 104  A riguardo, cfr. os, Meriggi e ombre, iii, Marezzo, vv. 53-56, p. 91: «Parli e non riconosci i tuoi accenti. / La memoria ti appare dilavata. / Sei passata e pur senti / la tua vita consumata». Per «consumata» si tenga presente la già ricordata variante di A Silvia: «consumata e vinta». Corsivi miei. 105  c, Le ricordanze, vv. 131-137, 158-165. Corsivi miei.

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Più avanti nella raccolta, nella sezione Meriggi e ombre, ad Arletta è dedicato poi il trittico composto da I morti, Delta e Incontro: liriche ampiamente commentate, per cui mi limiterò a qualche osservazione sulla prima, che si apre con un coro d’assai probabile ispirazione leopardiana (alludo al Coro di morti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie)106. In Montale, tuttavia, più che il coro in sé interessa la chiosa che lo segue: Così forse anche ai morti è tolto ogni riposo nelle zolle: una forza che indi li tragge spietata più del vivere, ed attorno, larve rimorse dai ricordi umani, li volge fino a queste spiagge, fiati senza materia o voce traditi dalla tenebra107.

Se il «tormento dei morti» è quello «di non trovare pace nella sepoltura»108, imprigionati come sono nei ricordi della vita, allora la coincidenza – non solo lessicale ­– con il Coro dell’operetta si fa più nitida: Sola nel mondo eterna, a cui si volve Ogni creata cosa, In te, morte, si posa Nostra ignuda natura […]. Vivemmo: e qual di paurosa larva, E di sudato sogno, A lattante fanciullo erra nell’alma Confusa ricordanza: Tal memoria n’avanza Del viver nostro109.

Quella dei Morti è però un’eccezione: il Montale del ‘ciclo di Arletta’ pesca più che altro – ma quasi mai a carte scoperte – dai canti 106 

A tal proposito, cfr. già Lonardi, Il vecchio e il giovane cit., p. 93. os, Meriggi e ombre, iii, I morti, vv. 27-34, pp. 95-96. Corsivi miei. 108  Eugenio Montale, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, Milano 2019, p. 235. 109  om, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, p. 116. Corsivi miei. 107 

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di Silvia e Nerina110. Così è pure nelle Occasioni (1939): si pensi, per citare due casi noti, al Balcone, che termina con una «finestra che non s’illumina»111, e alla Casa dei doganieri, che invece si apre con «una specie di risposta in negativo»112 all’interrogativo iniziale di A Silvia («Tu non ricordi la casa dei doganieri»)113. Ma lo stesso si potrebbe dire per altre poesie: L’estate, ad esempio, dove ritroviamo il verbo ‘tornare’ («Torni anche tu al mio piede fanciulla morta / Aretusa»)114, e la successiva Eastbourne, dove però il tema è più velato, e così pure l’eco leopardiana. D’altronde, il fantasma-ricordo della giovane donna, Arletta o Aretusa che sia, è altrettanto presente nella Bufera ed altro. Sarebbe superfluo discuterne qui tutte le apparizioni, davvero numerose115, ma una lirica della sezione Silvae – l’ultima dedicata alla fanciulla – merita qualche riflessione: la visionaria e apocalittica ‘Ezekiel saw the Wheel…’ (1946) che, tra le altre cose, potrebbe contenere pure un’inquietante rielaborazione della scena conclusiva di A Silvia (la «mano» che mostra «di lontano» «La fredda morte ed una tomba ignuda»)116. Certo, in una poesia che prende il titolo dal verso di uno spiritual l’immagine della «mano» deriverà anzitutto dal libro di Ezechiele: «et cecidit ibi super me ibi manus Domini Dei» (Ez 8, 1, ma altri passi si potrebbero aggiungere)117. Ciò non comporta, però, 110  Un’eccezione è anche Delta, che dialoga invece con Alla sua donna, come segnalato da Lonardi, Il vecchio e il giovane cit., p. 115. Più nel dettaglio, cfr. os, Meriggi e ombre, iii, Delta, vv. 11-14, p. 97 («Tutto ignoro di te fuor del messaggio / muto che mi sostenta sulla via: / se forma esisti o ubbia nella fumea d’un sogno»), con c, Alla sua donna, vv. 1-3, 4546, 50: «Cara beltà che amore / Lunge m’inspiri o nascondendo il viso, / Fuor se nel sonno» […] / Se dell’eterne idee / L’una sei tu, cui sensibil forma […] / O s’altra terra». Corsivi miei. 111  oc, Il balcone, v. 12, p. 111 (memore di c, Le ricordanze, vv. 141-144: «quella finestra, / Ond’eri usata favellarmi, ed onde / Mesto riluce delle stelle il raggio, / È deserta»). 112  Lonardi, Winston Churchill e il bulldog cit., p. 43. 113  oc, iv, La casa dei doganieri, v. 1, p. 167. Si veda però anche il v. 7, in cui risuona sempre A Silvia: «e il suono del tuo riso non è più lieto (ibid.). Altre «schegge leopardiane» – provenienti dalle Ricordanze e dalla Sera del dì di festa – sono indicate da Lonardi, Leopardismo cit., pp. 129-130. Corsivi miei. 114  oc, iv, L’estate, vv. 7-8, p. 175. Corsivi miei. 115  Si vedano almeno L’orto, Nella serra, Nel parco, Proda di Versilia. 116  c, A Silvia, v. 62. Per uno studio dettagliato sulla struttura e sulle fonti di ‘Ezekiel saw the Wheel’, rinvio a Enrico Tatasciore, Di ombre e cose salde. Studi su Montale, Mimesis, Udine 2005, pp. 112-159 (e relativa bibliografia). 117  A riguardo, si vedano: Rosanna Bettarini, Studi montaliani, a cura di Alessandro Pancheri, introduzione di Cesare Segre, Le Lettere, Firenze 2009, p. 152, ed Eugenio

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che debbano essere escluse altre reminiscenze. Quella di A Silvia mi pare ancora più plausibile se si tiene conto che la «mano» in questione è di Arletta (anche se qualcuno ha intravisto, nel finale, l’ombra di Clizia)118. Meglio è, comunque, andare per ordine e leggere intanto l’incipit del componimento:

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Ghermito m’hai dall’intrico dell’edera, mano straniera? M’ero appoggiato alla vasca viscida, l’aria era nera, solo una vena d’onice tremava nel fondo, quale stelo alla burrasca119.

Il testo si apre quindi con una domanda retorica rivolta a un «tu», o meglio alla sua misteriosa «mano straniera» che deve aver «ghermito» il poeta «appoggiato alla vasca». Sul particolare della mano abbiamo in parte già detto, ma non è da trascurare neppure il dettaglio della «vasca»: non una qualsiasi ma proprio quella del giardino della villa di Monterosso dove Eugenio conobbe Anna degli Uberti. In uno scenario visitato da presagi oscuri e funesti, la «vasca» diventa insomma il «reperto» ‘arlettiano’ «di un’età perduta»120 e – ma questo sin dagli Ossi – lo «specchio di misteriosi ritorni, apparizioni e scomparse»121. Ebbene, la scena può far tornare alla mente un altrettanto sinistro luogo delle Ricordanze, anch’esso canto dell’età perduta, dove è la «fontana» del «paterno giardino» a farsi luogo di morte: Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell’acque La speme e il dolor mio122.

Montale, La bufera e altro, edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, Mondadori, Milano 2019, pp. 281-282. 118  Vi ha insistito Tatasciore, che alla «presenza di Arletta» affianca l’«apparizione» di Clizia, «implicita e crittografata entro una serie di rimandi intertestuali» (Tatasciore, Di ombre e cose salde cit., p. 122). 119  ba, Silvae, ‘Ezekiel saw the Wheel…’, vv. 1-6, p. 255. 120  Montale, La bufera e altro, edizione commentata da Campeggiani e Scaffai cit., p. 282. 121  Tatasciore, Di ombre e cose salde cit., p. 131. 122  c, Le ricordanze, vv. 106-109.

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Si potrebbe obiettare che la coincidenza tra le due scene può essere frutto di una casualità, tanto più che qui non vi è nessuno che ghermisce, ed anzi è Giacomo stesso a chiamare la «morte». Vediamo allora come prosegue Montale: Ma la mano non si distolse, nel buio si fece più diaccia e la pioggia che si disciolse sui miei capelli, sui tuoi d’allora, troppo tenui, troppo lisci, frugava tenace la traccia in me seppellita da un cumulo, da un monte di sabbia che avevo in cuore ammassato per giungere a soffocar la tua voce, a spingerla in giù, dentro il breve cerchio che tutto trasforma123.

La «mano», dunque, si fa «diaccia»124 e poi, tra suggestioni dannunziane, si discioglie in una pioggia che si riversa sull’io lirico e sulla donna, per frugare «tenace» una traccia seppellita (volontariamente) nella memoria: «la tua voce» soffocata e spinta giù «dentro il breve / cerchio che tutto trasforma». Alla «mano» si aggiunge perciò un altro tassello di A Silvia: la riemersione memoriale – malgré lui, in Montale – del «suon della tua voce»125. Se può sembrare ancora troppo poco, si può aggiungere che, come il canto del 1828, anche ‘Ezekiel saw the Wheel’ termina con un tragico ammonimento di morte, simboleggiata prima dal «sorriso di teschio», poi dall’apparir della «Ruota minacciosa» (emblema dell’inesorabilità del destino umano, o del vero) e infine, circolarmente, dall’«artiglio» della «mano» straniera e fredda: 123 

ba, Silvae, ‘Ezekiel saw the Wheel…’, vv. 7-18, p. 255. Corsivi miei. Ricordo che il motivo del gelo, fondamentale in A Silvia, e la rima mano : lontano comparivano già in oc, i, Cave d’autunno, vv. 5-8, p. 121: «ritornerà ritornerà sul gelo / la bontà d’una mano, / varcherà il cielo lontano / la ciurma luminosa che ci saccheggia». Leopardiana è anche la rima (qui interna) gelo : cielo, per cui cfr. c, Ad Angelo Mai, vv. 123-125: «A te, non altro, preparava il cielo. / Oh misero Torquato! il dolce canto / Non valse a consolarti o a sciorre il gelo». Si veda, inoltre, ba, Finisterre, Serenata indiana, vv. 4-7, p. 201: «Puoi condurmi per mano, se tu fingi / di crederti con me, se ho la follia / di seguirti lontano e ciò che stringi, / ciò che dici, m’appare in tuo potere». Corsivi miei. 125  c, A Silvia, v. 20. Corsivi miei. 124 

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[…] il sorriso di teschio che a noi si frappose quando la Ruota minacciosa apparve tra riflessi d’aurora, e fatti sangue i petali del pesco su me scesero e con essi il tuo artiglio, come ora126.

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2.9. Ancora su alcuni topoi e scenari leopardiani Ma neanche sui topoi conviene sostare più del dovuto, se non si vuole correre il rischio di ripetere il già detto. Può essere proficuo, invece, segnalare i casi in cui più motivi leopardiani si sovrappongono, dando vita a scenari che ricordano da vicino luoghi e figure ben precise dei Canti. Proporrò qui tre esempi, tratti rispettivamente dalle Occasioni, dalla Bufera e altro e da Satura. Il primo è quello di Corrispondenze (1936), una lirica che sin dal titolo si pone, con tutta evidenza, sulla scia di Baudelaire. Ora, abbiamo già visto che, seppur con cautela, il Montale saggista ammette, e a volte propone egli stesso, l’accostamento tra Giacomo e il poeta delle Fleurs du Mal. Ma c’è di più. Mi sembra infatti che le Corrispondenze di Montale approdino in realtà a conclusioni più leopardiane che baudelairiane (del resto, da quanto detto sin qui non stupisce che i debiti con il francese siano scoperti, quelli con Leopardi più nascosti). Leggiamo perciò la poesia: Or che in fondo un miraggio di vapori vacilla e si disperde, altro annunzia, tra gli alberi, la squilla del picchio verde. La mano che raggiunge il sottobosco e trapunge la trama 126  ba, Silvae, ‘Ezekiel saw the Wheel…, vv. 24-30, p. 255. Più di trent’anni dopo, ma con tono assai diverso, Montale tornerà sulle apparizioni e sui luoghi arlettiani (inclusa la villa di Monterosso) in Annetta del Diario del ’71 e del ’72, che Lonardi ha definito un «tardo, senile A Silvia montaliano» (Lonardi, Il vecchio e il giovane cit., p. 108). Per inciso, A Silvia e Le ricordanze sono ben presenti pure al Montale del Quaderno di quattro anni (si vedano soprattutto Per un fiore reciso, La capinera non fu uccisa…, Se al più si oppone il meno, Quella del faro).

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del cuore con le punte dello strame, è quella che matura incubi d’oro a specchio delle gore quando il carro sonoro di Bassareo riporta folli mùgoli di arieti sulle toppe arse dei colli. Torni anche tu, pastora senza greggi, e siedi sul mio sasso? Ti riconosco, ma non so che leggi oltre i voli che svariano sul passo. Lo chiedo invano al piano dove una bruma èsita tra baleni e spari su sparsi tetti, alla febbre nascosta dei diretti nella costa che fuma127.

Lo scenario descritto nell’incipit – un paesaggio in cui la nebbia si dissolve e nel quale risuona la «squilla» del «picchio verde» – e l’immagine, quasi alla conclusione, dei «baleni» e degli «spari» sui «tetti» richiamano, distanziandoli, tre versi del Passero solitario: «Odi per lo sereno un suon di squilla, / Odi spesso un tonar di ferree canne, / Che rimbomba lontan di villa in villa»128. Inoltre, all’inizio della seconda strofa ritroviamo una «mano», per alcuni metafora della forza naturale, per altri, più propriamente, una mano di donna (ma le due ipotesi non si escludono). Fatto sta che una donna appare, anzi torna (il verbo, lo sappiamo già, è leopardiano) nell’avvio dell’ultima strofa: «Torni anche tu, pastora senza greggi, / e siedi sul mio sasso?». Di nuovo, dunque, una domanda rivolta a un «tu», ovvero a una «figura crepuscolare e distante» ispirata «ai tratti di Anna degli Uberti»129. Ebbene, è proprio nella raffigurazione della donna (una «pastora» che siede) e, soprattutto, nell’interrogarsi invano dell’io lirico («lo chiedo invano») che emerge la distanza dalle Correspondances baudelairiane130 e, allo stesso tempo, 127 

oc, iv, Corrispondenze, p. 178. Corsivi miei. c, Il passero solitario, vv. 29-31. Corsivi miei. 129  Eugenio Montale, Le occasioni, a cura di Tiziana de Rogatis, Mondadori, Milano 2011, p. 226. 130  Lo nota bene de Rogatis: «ciò che viene meno è la felicità conoscitiva: nel sonetto di Baudelaire, il soggetto era capace di decifrare le sinestesie e di attraversare il misterioso “tempio” della natura; nella variante montaliana, è invece esplicitamente costretto all’incertezza e all’estraneità» (ivi, pp. 223-224). 128 

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l’affinità con le figure, gli interrogativi e le mancate risposte del Canto notturno, seppur con qualche spostamento (in Leopardi le «cose» «son celate al semplice pastore», mentre è la «greggia» che «siede» o, meglio, può sedere «queta e contenta» all’«ombra»)131. Mescola motivi e figure leopardiane anche L’ombra della magnolia… (1947), il secondo testo su cui intendo soffermarmi, che si apre con l’immagine, dal forte valore metaforico, del venir meno dell’ombra a seguito della caduta dei fiori: «L’ombra della magnolia giapponese / si sfoltisce or che i bocci paonazzi / sono caduti»132. È troppo dire che questa sia una variazione sul topos, caro pure a Saba e a Sereni, di Imitazione. I versi successivi, però, suggeriscono che, sì, Montale sta attingendo da Leopardi, anzi, più precisamente, dall’ultimo Leopardi: […] Comincia ora la via più dura: ma non te consunta dal sole e radicata, e pure morbida cesena che sorvoli alta le fredde banchine del tuo fiume, – non te fragile fuggitiva cui zenit nadir cancro capricorno rimasero indistinti perché la guerra fosse in te e in chi adora su te le stimme del tuo sposo, flette il brivido del gelo… Gli altri arretrano e piegano133.

Ha notato Romolini che il modello sintattico di questi versi, per la «forza di alcune avversative»134, ricorda La ginestra (qualche esempio: «non io / Con tal vergogna scenderò sotterra»; «ma non piegato»; «ma non eretto / Con forsennato orgoglio»)135. Eppure, io credo, non si tratta solo di sintassi. Infatti, l’immagine della «fragile» Clizia, che non si «flette» mentre «gli altri arretrano / e piegano», ricalca e allo stesso tempo rovescia quella della «lenta», 131 

c, Canto notturno, vv. 77-78, 105, 114, 113. Corsivi miei. ba, Silvae, L’ombra della magnolia…, vv. 1-3, p. 260. 133  Ivi, vv. 10-20, p. 260. Corsivi miei. 134  Marica Romolini, Commento a «La bufera e altro» di Montale, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 342. 135  c, La ginestra, vv. 63-64, 307, 309-310. Corsivi miei. 132 

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flessibile ginestra leopardiana: «e piegherai / Sotto il fascio mortal non renitente / Il tuo capo innocente: / Ma non piegato allora indarno»136. Come se non bastasse, e a riprova del fatto che siamo in una zona leopardiana, «consunta», «fredde», «fuggitiva» e «gelo» sono parole che ci riportano tutte, ancora una volta, all’immaginario di A Silvia. Passiamo ora al terzo caso, e a Satura, con un avvertimento però: se cercassimo calchi simili a quelli appena visti, rimarremmo quasi del tutto a mani vuote. O meglio, a me pare che nella raccolta del 1971 le riprese dai Canti si riducano a due soli episodi. Il primo riguarda puramente il lessico, e non è detto che non possa essere frutto di memoria involontaria: Pietà di sé, infinita pena e angoscia di chi adora il quaggiù e spera e dispera di un altro… (Chi osa dire un altro mondo?). ……………………………………………… ‘Strana pietà…’ (Azucena, atto secondo)137.

Il breve testo, settimo di Xenia i (1965), termina con una citazione da Verdi, un compositore che in un’ironica e amara prosa di tre anni dopo Montale assocerà in un certo senso a Leopardi138. Nonostante sia evidente la presenza di due dittologie di All’Italia e del Sogno: «orrida pena / Ed immortal angoscia»139; «Io disperando allora / E sperando»140, l’argomento della lirica mi sembra piuttosto distante dall’orizzonte dei Canti. Più forte, invece, è l’influsso leopardiano – tematico e lessicale – nei versi iniziali del Primo gennaio (1970):

136 

Ivi, vv. 304-307. Corsivi miei. sa, Xenia i, Pietà di sé, infinita pena e angoscia…, p. 295. Tranne «quaggiù» (al v. 2) i corsivi sono miei. 138  Cfr. pr, Trentadue variazioni, xii, La gloria, p. 571: «Ne me parlez pas de Verdi: c’est du caca, avrebbe detto Pierre Boulez, compositore e direttore d’orchestra sulla cresta dell’onda. Se potesse leggere l’italiano forse direbbe che le pauvre Leopardi (con l’accento sull’i) c’est du pipi. C’è poco da ridere: a distanza di un secolo e più, questa è la gloria, amici miei. Di tanti altri, di quasi tutti gli altri, non si potrà dire nemmeno questo». Corsivi dell’autore. 139  c, All’Italia, vv. 101-102. Corsivi miei. 140  c, Il sogno, vv. 64-65. Corsivi miei. 137 

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2. eugenio montale, «and not much leopardi»?

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So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c’è se mai nessuno l’ha veduto. So che si può esistere non vivendo, con radici strappate da ogni vento se anche non muove foglia e un soffio increspa l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone141.

Stavolta sì che si tratta di un motivo leopardiano: la distinzione tra vita ed esistenza, che riguarda però più che altro il Leopardi delle Operette morali, ovvero, come ho cercato di mostrare altrove, il Leopardi più presente (se non l’unico davvero presente) nell’ultimo Montale142. E tuttavia nel Primo gennaio si conserva ancora un’eco dei Canti, attiva di nuovo nel paesaggio: «Ed erba o foglia non si crolla al vento, / E non onda incresparsi», leggiamo nella Vita solitaria143, «se anche non muove foglia e un soffio increspa / l’acqua» in Montale.

141 

sa, Satura ii, Il primo gennaio, vv. 1-10. Corsivi miei. Mi sia lecito rinviare a Vincenzo Allegrini, «Lascio poco da ardere». L’ultimo Montale e le Operette morali, «Studi Novecenteschi», 2, 2020, pp. 327-343. Sul rapporto con le Operette morali, un utile raffronto tematico – di ampio respiro ma incentrato solo sulla polemica verso la società contemporanea – si può leggere in Debora Carcea, Dal «secol superbo e sciocco» al «trionfo della spazzatura». L’ultimo Montale e il Leopardi satirico, «Critica letteraria», 2, 2019, pp. 339-356. Qualche altra osservazione è in Barile, Montale, Londra e la luna cit., p. 107 (e passim), dove si riconduce alla linea «inaugurata dal Leopardi delle ultime Operette morali e della Ginestra» l’alternanza «di due registri apparentemente inconciliabili, quello satirico e quello lirico». Altri spunti interessanti, per quanto rapidi e relativi soltanto al Quaderno, sono poi forniti da De Rosa, che allude a una possibile lettura di Può darsi alla luce del «Leopardi delle Operette (ad es. per l’antropomorfizzazione e un conseguente “ritorno del represso”, mutuando la nota definizione di Francesco Orlando, fantastico-comico)». De Rosa poi intravede il modello leopardiano nell’uso di «piccole scene-apologhi per voci diverse dall’io poetico o per più voci», come nel caso di Lungolago, «quasi una discendente delle Operette morali» (Francesco De Rosa, Dal quarto al quinto Montale, «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», 3, 2000, p. 407). Più in generale, sulle Operette nel Novecento si veda Novella Bellucci, Andrea Cortellessa (a cura di), «Quel libro senza uguali». Le Operette morali e il Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2000 (dove però non si affronta il caso Montale). 143  c, La vita solitaria, vv. 34-35. Corsivi miei. 142 

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2.10. «Un sufolo bizzarro»

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Può essere curioso, da ultimo, osservare brevemente come più topoi e situazioni leopardiane siano compresenti anche nelle Poesie disperse. Tra tutte, si prenda Flauti-fagotti, la quarta lirica degli Accordi, una serie di sette componimenti pubblicata nel 1922 (con il sottotitolo Sensi e fantasmi di una adolescente)144: Una notte, rammento, intesi un sufolo bizzarro che modulava un suo canto vetrino. Non v’era luna: e pure quella nota aguzza e un poco buffa siccome una fischiata d’ottavino illuminava a poco a poco il parco (così pensavo) e certo nel giardino le piante in ascoltarla si piegavano ad arco verso il terreno ond’ella pullulava […] Esitai un istante: indi balzai alla finestra e spalancai le imposte sopra la vasca sottostante; e tosto fu un tuffarsi di rane canterine, uno sciacquare un buffo uno svolìo d’uccelli nottivaghi; ed improvviso uscì da un mascherone di fontana che gettava a fior d’acqua il suo sogghigno, uno scroscio di riso soffocato in un rantolo roco che l’eco ripeté sempre più fioco. E allora il buio si rifece in me145.

144 

Cfr. «Primo Tempo», i, 2, Torino, 15 giugno 1922, pp. 37-41. Poesie disperse, Accordi, 4 Flauti-fagotti, vv. 1-11, 22-36, in Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 2012, pp. 796-797. Corsivi miei. 145 

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2. eugenio montale, «and not much leopardi»?

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Questo giovane Montale riprende anzitutto dalla Sera del dì di festa il topos – attivo anche in Sbarbaro e poi in Sereni – del «canto» udito di notte, con la variante del flauto-fagotto (per inciso, un suono di «flauto» sarà anche quello del «merlo acquaiolo» o passero solitario di Da una torre)146. Ancora, con La sera del dì di festa è condiviso il sintagma «a poco a poco», tra l’altro posto da Leopardi, nel penultimo verso, in posizione marcata: «Un canto che s’udia per li sentieri / Lontanando morire a poco a poco / Già similmente mi stringeva il core»147. Ma si noti che stavolta a cambiare rispetto all’idillio è il paesaggio: la notte montaliana, per quanto luminosa, è senza luna («non v’era la luna») ed è percorsa dal vento (così lasciano pensare le «piante» che «si piegavano ad arco»), proprio all’opposto del celebre notturno dell’incipit leopardiano: «Dolce e chiara è la notte e senza vento / E queta sovra i tetti posa la luna»148. I versi successivi, invece, ripropongono più tessere delle Ricordanze: le «rane canterine» rievocano «il canto / Della rana rimota alla campagna»149, mentre la «vasca», la «fontana» e il «giardino» ­– si ripensi ad ‘Ezekiel saw the Wheel’ – hanno un corrispettivo nella «fontana» e nel «paterno giardino»150. In questo contesto leopardiano, allora, persino la «finestra» e le «imposte spalancate» dovranno forse qualcosa all’incipit del Sogno, che Montale avrà certo presente in uno dei primi ossi, Quasi una fantasia151: «Era il mattino, e tra le chiuse imposte / Per lo balcone insinuava il sole / Nella mia cieca stanza il primo albore»152. Al di là delle dichiarazioni più o meno ufficiali, i Flauti-fagotti forniscono dunque una precoce testimonianza della risonanza dei Canti nella poesia montaliana: l’eco, che si dispiegherà poi negli Ossi di seppia, incominciava già negli Accordi del 1922, tre anni prima.

146  Cfr. ba, ii, Dopo, Da una torre, vv. 1-4, p. 216: «Ho visto il merlo acquaiolo / spiccarsi dal parafulmine: / al volo orgoglioso, a un gruppetto / di flauto l’ho conosciuto». 147  c, La sera del dì di festa, vv. 43-46. Corsivi miei. 148  Ivi, vv. 1-2. 149  c, Le ricordanze, v. 11-12. Corsivi miei. 150  Ivi, vv. 107, 3. Corsivi miei. 151  Cfr. os, Movimenti, Quasi una fantasia, vv. 1-4, p. 20: «Raggiorna, lo presento / da un albore di frusto / argento alle pareti: / lista un barlume le finestre chiuse». Il parallelo è proposto già da Lonardi, Il vecchio e il giovane cit., p. 78. Ricordo, en passant, che il motivo arriverà fino a Giudici, ma a riguardo cfr. infra, pp. 195-196. Corsivi miei. 152  c, Il sogno, vv. 1-3. Corsivi miei.

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3. Vittorio Sereni Una connaturata intonazione

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3.1. Il terreno di Leopardi Non diversamente da Montale, il Sereni saggista dedica a Leopardi, e neanche per intero, un solo breve intervento: Pascoli e Leopardi, pubblicato per la prima volta nel 19571. Lì, ancora come Montale2 e, per altri versi, Saba3, Sereni si sofferma sulle implicazioni sottese alla nota polemica pascoliana sull’«indeterminatezza» di certe citazioni naturali nei Canti, testimoniata soprattutto dal «mazzolin di rose e di viole» del Sabato del villaggio: un «tropo» che indica semplicemente dei generici fiori. Pur nella sua «poesia così nuova», Leopardi era insomma caduto nell’«errore» – tale sarebbe per Pascoli l’«indeterminatezza» – che contraddistingue l’intera tradizione poetica (petrarchesca) italiana4. Fin qui, però, Pascoli. Ma l’indeterminatezza, si chiede Sereni, è «davvero un errore?»5. Sì e no, verrebbe da sintetizzare, giacché il poeta di Luino non sem1  Vittorio Sereni, Pascoli-Leopardi: polemica indiretta, in Celebri polemiche letterarie, La Scuola, Bellinzona 1957, pp. 219-229. Il saggio è stato riedito con il titolo Pascoli e Leopardi prima in «il verri», 1, 1958, pp. 7-12, poi in Vittorio Sereni, Sentieri di gloria. Note e ragionamenti sulla letteratura, a cura di Giuseppe Strazzeri, introduzione di Giulia Raboni, Mondadori, Milano 1996, pp. 48-55 (dal quale cito). 2  Si veda il già commentato sm, 1, In regola il passaporto del «Passero solitario», pp. 869-872. 3  Alludo al finale del racconto Le polpette al pomodoro (anch’esso del 1957), che rivela, lo si è visto al cap. 1, l’inopportunità dell’obiezione pascoliana, letta – per usare le parole ma non la posizione di Sereni – come «obiezione del senso comune, della renitente pignolaggine di uno che ama – e se ne vanta – tenere i piedi ben saldi sulla terra» (Sereni, Pascoli e Leopardi cit., p. 49). 4  Uso qui espressioni pascoliane, citate distesamente dallo stesso Sereni (cfr. ivi, pp. 49-50). 5  Ivi, p. 50.

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bra volersi sbilanciare più di tanto: «non sceglie, contempera» tra «culto dell’indefinito e culto del particolare»6 (a differenza invece di Montale che, guardando però più che altro al Passero, parlava di una pascoliana «solenne cantonata»)7. Del resto, a ciò che ha già verificato Isella8, ossia al fatto che anche il lessico sereniano oscilla tra precisione e vaghezza, si potrebbe aggiungere (ed è un aspetto non meno significativo) che il Sereni poeta fonde insieme, rielaborandoli, motivi pascoliani e leopardiani; si pensi, per fare un solo esempio, all’«associazione tra il rumore del vento negli alberi» – o, leopardianamente, lo stormir del vento tra le piante – e la voce dei «morti», che deve tanto al «testo inaugurale di Myricae»9 quanto all’Infinito. In altri termini, e come avremo modo di riscontrare più avanti, l’opera poetica di Sereni sembra proprio smentire quell’inconciliabilità tra i due poeti sulla quale si chiude il breve saggio del 195710. Seguiamone perciò lo svolgimento. Alle accuse di Pascoli, Sereni immagina una possibile risposta di Leopardi, che scorge tra le pagine dello Zibaldone: «tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso, consiste, se ben l’osservi, in un modo di parlare indefinito»11. Difficile 6  Dante Isella, Vittorio Sereni, Ancora sulla strada di Zenna. Variazioni su un tema leopardiano, in Nicola Merola (a cura di), La poesia italiana del secondo Novecento, Atti del Convegno (Arcavacata di Rende, 27-29 maggio 2004), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 31. Anche per Lenzini Sereni non prende apertamente partito ma si limita a storicizzare «i termini della questione linguistica» (Luca Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Quodlibet, Macerata 2019, p. 27). 7  sm, 1, In regola il passaporto del «Passero solitario», p. 870. 8  Cfr. Isella, Vittorio Sereni, Ancora sulla strada di Zenna cit., p. 31 (dove l’analisi è limitata a una sola lirica, che presenta però un campione «significativo di tutta la poetica di Sereni»). 9  Sul rapporto Pascoli-Sereni, anche al di là del Giorno dei morti, rimando a Lenzini, Verso la trasparenza cit., pp. 21-48 (qui citato a p. 39). Sull’Infinito, cfr. invece l’inciso in ivi, p. 130: «(che poi sia il vento a risvegliare in Leopardi le “morte stagioni”, dunque a porre il tema memoriale, non sarà ininfluente, specie per la sua proiezione esemplare su un tempo lungo)». 10  Cfr. Sereni, Pascoli e Leopardi cit., pp. 54-55: «La polemica appena in germe nei brani che abbiamo largamente riportato divamperà più avanti, ad opera di altri, lungo il corso della poesia del nostro secolo. Non a caso i nomi dei due poeti da noi artificiosamente contrapposti furono poi presi, più o meno esplicitamente, quasi a emblemi irriducibilmente contrari di opinioni inconciliabili sulla poesia. Non a caso al silenzio su uno dei due nomi corrispose poi più volte il risveglio dell’interesse sull’altro». 11  z 1900, riportato in Sereni, Pascoli e Leopardi cit., p. 50. Restano da indagare i possibili rapporti tra le opere sereniane e lo Zibaldone (un rapido parallelo teorico tra z

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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dire, continua Sereni, «se l’indeterminatezza di cui Pascoli discorre e il parlare indefinito cui accenna Leopardi siano propriamente la stessa cosa»12. È invece più facile stabilire quali siano per Leopardi tali parole poetiche: «lontano, antico e simili» – si cita ancora dallo Zibaldone, alla p. 1789 – «sono poeticissime e piacevoli perché destano idee vaste, e indefinite, non determinabili e confuse». A queste parole, per di più, vanno aggiunte altre «cariche di passato letterario che ricorrono a ogni passo nei Canti e che nei Canti ebbero nuova vita»13. Segue allora la ‘controrisposta’ di Pascoli, al quale in un certo senso spetta l’ultima parola, tanto che può venire il sospetto che, almeno qui, sia forse il poeta di San Mauro «ad essere tutto sommato favorito»14. Infatti, se Leopardi ha dato «nuova vita» alle «parole», Pascoli, di cui sono citati due famosi brani del Fanciullino, si è spinto ancora più in là: ha portato «a una cura, a un amore della cosa» e ha individuato nel «particolare» l’«effluvio poetico delle cose»15. Con «impulso antiletterario» e «antipetrarchista» ha insomma arricchito il «vocabolario poetico» e ha aperto «le strade di nuove associazioni di cose e pensieri»16. 1907 e pp, Gli immediati dintorni, Il silenzio creativo vi è in Antonio Girardi, Sintassi e metrica negli Strumenti umani, in Edoardo Esposito (a cura di), Vittorio Sereni, un altro compleanno, Ledizioni, Milano 2014, pp. 165-166). Dal carteggio con Saba sappiamo che già nell’agosto del 1948 Sereni stava tentando «una rilettura integrale» del diario leopardiano, provocando così il disappunto del corrispondente, che invece lo voleva impegnato in letture freudiane: «Caro, Vittorio», gli scrive il 22 agosto, «bene inteso tutto quello che mi dici a proposito del libro che non hai ancora letto […] e dello Zibaldone del Leopardi, non mi persuade affatto. Non sono nato ieri, ecc. ecc. Non importa. Ognuno “prende il suo nutrimento dove sa e può”, e può essere che la lettura dello Zibaldone di Giacomo Leopardi giovi a te molto più di quanto avrebbe giovato quella dell’Avvenire di un’illusione del dott. Sigmund Freud». In una lettera perduta Sereni deve aver dunque spiegato le sue ragioni al poeta triestino, che qualche giorno prima (il 10 agosto) nascondeva ancor meno il suo risentimento: «per completare il quadro ti sei riattaccato allo Zibaldone del Leopardi, dove (virtù di lingua e di stile a parte) proprio quello non puoi trovare di cui tu – come tutti gli uomini d’oggi – hai maggiormente bisogno: un po’ di chiarezza in profondità». Traggo le citazioni da Umberto Saba, Vittorio Sereni, Il cerchio imperfetto. Lettere 1946-1954, a cura di Cecilia Gibellini, Archinto, Milano 2010 (rispettivamente alle pp. 98, 104, 100). 12  Sereni, Pascoli e Leopardi, in Id., Sentieri di gloria cit., p. 50. 13  Ivi, p. 51. 14  Massimo Natale, Citare, tradire. Leopardi e la poesia del secondo Novecento, in Dominioni, Chiurchiù (a cura di), Leopardi e la cultura del Novecento cit., p. 260. 15  Sereni, Pascoli e Leopardi, in Id., Sentieri di gloria cit., p. 52. 16  Ivi, p. 54.

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D’altra parte, sulla centralità delle «cose» in poesia, e nella sua poesia, Sereni scriveva già in una lettera a Vigorelli, datata 25 gennaio 1937: «Io in poesia sono per le ‘cose’; non mi piace dire ‘io’, preferisco dire ‘loro’»17. Essere «per le ‘cose’», tuttavia, non significa non riconoscere la lezione leopardiana, che opera insieme a quella di Pascoli (e di altri), non solo perché nel finale dei Canti l’io grammaticale lascia il posto e la parola proprio alle ‘cose’: la ginestra, la luna, una foglia caduta (sulla quale tornerò a breve). Che l’inconciliabilità sia solo apparente, del resto, è testimoniato da una lettera scritta pochi mesi prima di quella appena citata. Siamo nell’agosto del 1936, e Sereni confessa apertamente ad Anceschi come Leopardi sia per lui una «base sicura», che poggia, si badi, su una «connaturata» affinità d’intonazione: Già, Leopardi; e questo lo sentivo io nell’atto dello scrivere, per niente preoccupato a mascherarlo come fanno gli ingenui. O prima o poi ci dovevo arrivare; e so benissimo che questo non è orecchiare o imitare, ma seguire una base sicura e quasi connaturata d’intonazione18.

L’«atto dello scrivere», qui, è da riferire a Temporale a Salsomaggiore, una lirica di Frontiera che di fatto sviluppa il tema già leopardiano della quiete dopo la tempesta. Senza troppe esitazioni, però, il concetto può essere esteso almeno all’intera raccolta del 1941, che dalla «base sicura» non sembra volersi allontanare troppo. Diversi anni dopo, nel 1974, sarà lo stesso Sereni a confermarlo, guarda caso in un intervento su quel Petrarca dal quale si era invece discostato Pascoli, e in difesa del quale è chiamato di nuovo in causa il Leopardi dello Zibaldone19: 17 

Dante Isella, Giornale di “Frontiera”, Archinto, Milano 1991, p. 33. Lettera di Vittorio Sereni a Luciano Anceschi, da Salsomaggiore, 3 agosto 1936, citata in Vittorio Sereni, Poesie, Apparato critico, a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 20106, p. 316. 19  Cfr. pp, Poesie come persone, Petrarca, nella sua finzione la sua verità, pp. 926, 931932: «Ai possibili dubbi sull’eventualmente troppo trito tramite tra il Petrarca e noi, suoi tardi lettori, risponde anche per me questo passo dello Zibaldone leopardiano: “A forza di sentire le imitazioni sparisce il concetto, o certo il senso dell’originalità del modello. Il Petrarca tante volte imitato… pare egli stesso un imitatore” […]. A ristabilire almeno in parte le cose giungono dallo Zibaldone queste voci leopardiane: “Gran diversità tra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri: egli versa il suo cuore e gli altri l’anatomizzano… ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano». Le due citazioni (piuttosto libere, soprattutto la seconda) sono tratte rispettivamente da z 4491 e z 112-113. 18 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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La nostra gioventù – parlo di una parte della mia generazione letteraria e senza alcun riferimento alla cosiddetta poesia pura – se pensava alla poesia pensava anzitutto a Leopardi, ma dietro Leopardi evocava il Petrarca. Petrarca era la poesia, ne rappresentava l’essenza o, come si diceva una volta, la quintessenza. E Dante? E Ariosto? Prego non equivocare. Non è che fossero posposti o negletti: erano, semplicemente, altro. Operavano su altri territori. Il terreno sul quale pareva ancora possibile, per noi, operare era quello di Leopardi: dunque di Petrarca. Parlo di inclinazioni, e magari di abitudini e vizi congeniti e pregiudizi, non di opinioni critiche20.

La connaturata intonazione dell’ormai lontana estate del ’36 diviene qui, forse per la lunga familiarità, un’abitudine e un vizio. Lasciate da parte le «opinioni critiche» (per l’appunto, la querelle sul Sabato) restano insomma le «inclinazioni» a indicare il «terreno» più fertile. 3.2. Foglie, colori, raggi lunari Nei paragrafi successivi vedremo nel dettaglio gli esiti concreti e le progressive variazioni di questa intonazione leopardiana che, va precisato sin da subito, riguarda non solo e non tanto il linguaggio – come nel primo Saba e, per altri versi, in Giudici – quanto piuttosto un sostrato comune (congenito) di scenari, temi e miti che attraversano tutta la poesia di Sereni, da Frontiera a Stella variabile. Prima di fare ciò, tuttavia, è opportuno sostare ancora un poco sulle altre citazioni di Leopardi o da Leopardi negli scritti in prosa. I richiami, anzitutto, possono essere piuttosto rapidi, come nei due pezzi del 1948 e del 1951 sull’Antologia di Spoon River e su In quel preciso momento di Buzzati: se la prima opera è un «coro di morti»21, la seconda, assai difficile da catalogare, è forse un’«elegia» che talvolta «prende il passo – ma di fatto lo abbandona subito – dell’“operetta morale”»22. Due semplici confronti tra Leopardi e autori successivi, dunque. Altrove, però, sono altri poeti a suggerire a Sereni punti d’incontro 20  pp, Poesie come persone, Petrarca, nella sua finzione la sua verità, pp. 395-396. Corsivi dell’autore. 21  Vittorio Sereni, I morti coerenti di Spoon River, in Id., Sentieri di gloria cit., p. 21 (edito precedentemente in «La Scuola», 4, 1948, pp. 56-57). 22  pp, Prose critiche, Tre crisi degli anni Cinquanta, 2. In quel preciso momento, p. 829.

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tra la sua opera, anche traduttoria, e quella di Leopardi. Si pensi, anzitutto, a come la scelta di definire leopardianamente imitazione la traduzione dei Feullets d’Hypnos derivi da una proposta di Caproni, anch’egli impegnato (nell’ambito della stessa operazione editoriale)23 nella traduzione di Char. Così scrive infatti Sereni nel 1968, quando ripubblica per Einaudi la sua versione chariana: I Feuillets vengono oggi ripresi da soli in questa sede e riproposti al lettore come un saliente nella poesia francese di questo secolo non meno che all’interno dell’opera, tuttora in corso, del loro autore. Per quanto riguarda la traduzione, che risale al ’58 e alla quale sono stati apportati rispetto ad allora alcuni ritocchi probabilmente opportuni, non posso qualificarla altrimenti da come Caproni qualificava la propria: un’imitazione italiana. «Dico imitazione» scriveva Caproni nella prefazione a Poesia e prosa «perché mi rendo conto che una restituzione perfetta rimane sempre, quando si tratta di poesia traslata, una chimera […]»24.

L’origine leopardiana della parola imitazione (che dà il titolo al xxxv canto, una traduzione-riscrittura di La feuille di Arnault) è più chiara se si legge per intero la Prefazione dalla quale cita Sereni25. Lì per giunta Caproni, che pure non nega la distanza tra i due, accenna a una certa consonanza tra Leopardi e il poeta francese: Ma certi quadri leopardiani esaltanti la vita («Primavera d’intorno / Brilla nell’aria, e per li campi esulta, / Sì ch’a mirarla intenerisce il core. / Odi greggi belar; muggire armenti; / Gli altri augelli contenti, a gara insieme / Per lo libero ciel fan mille giri…») non vedo perché non dovrebbero piacere, per la loro luce, a Char26.

23  Mi riferisco a René Char, Poesia e prosa, Feltrinelli, Milano 1962, un’antologia che riproduce l’edizione francese Poèmes et prose choisis (Gallimard, 1957). La traduzione delle poesie è tutta ad opera di Caproni, autore anche della Prefazione, ad esclusione però dei Feullets, tradotti appunto da Sereni. Su Sereni, Char, Caproni e i Feuillets si veda Elisa Donzelli, Come lenta cometa: traduzione e amicizia poetica nel carteggio tra Sereni e Char, Aragno, Torino 2009 (in particolare, pp. 21-62). Torna sull’argomento Di Febo-Severo nel saggio introduttivo a Vittorio Sererni, Giorgio Caproni, Carteggio 1947-1983, a cura di Giuliana Di Febo-Severo, Olschki, Firenze 2019, pp. 52-76. 24  pp, Letture preliminari, I «Feuillets d’Hypnos», pp. 884-885. Corsivi dell’autore. 25  Ora in René Char, Poesie, tradotte da Giorgio Caproni, a cura di Elisa Donzelli, Einaudi, Torino 2018, pp. 3-9. 26  Giorgio Caproni, Prefazione, in Char, Poesie cit., p. 8.

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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A ogni modo, ciò che più conta è il fatto che i parallelismi Leopardi-Sereni da un lato, Arnault-Char dall’altro sono destinati a lasciare tracce durature nella poesia sereniana. Non mi sembra un caso, infatti, che la memoria dell’Imitazione dei Canti si conservi, in modo anche insolitamente scoperto per il tardo Sereni, nell’ultima poesia ([Bastava un niente],1980-1981) di Traducevo Char, quarta sezione di Stella variabile27:

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viii Bastava un niente e scavalcava un anno una costa splendente una vallata ariosa viene a cadere qui e s’impiglia tra i passi negli indugi della mente la foglia che più resiste – voglia intermittente: Vaucluse28.

Nel suo pellegrinare in balia del «vento», la «foglia frale» dei Canti29 ­– ma che ora «più resiste» – attraversa qui «una costa», «una vallata ariosa», «s’impiglia tra i passi» (in Leopardi: «dal bosco alla campagna, / Dalla valle […] alla montagna»)30 per cadere infine a Vaucluse: luogo natale di Char sì, ma anche «luogo deputato per eccellenza della poesia di Petrarca»31. Ebbene, se la «foglia» ritratta nell’imitazione sereniana non è altro che un’immagine della poesia, viene allora da pensare che i poeti «che più resistono», insieme 27  Sulle modalità di citazione e sulle rielaborazioni dei Canti in Stella variabile tornerò nel paragrafo conclusivo di questo capitolo. 28  sv, viii [Bastava un niente], p. 246. Corsivi miei. 29  Cfr. c, Imitazione, vv. 1-4: «Lungi dal proprio ramo, / Povera foglia frale, / Dove vai tu? Dal faggio / Là dov’io nacqui, mi divise il vento». 30  Ivi, vv. 5-7. 31  Cfr. pp, Poesie come persone, Petrarca, nella sua finzione la sua verità, p. 923: «Non considero un vantaggio rispetto a qualsivoglia altro lettore l’essere stato sul posto, anzi nel luogo deputato per eccellenza della poesia del Petrarca: parlo naturalmente di Valchiusa […]. Sono passato di là più di una volta ormai, ma non si è trattato di un pellegrinaggio petrarchesco […]. Da qualche anno […] mi occupo di René Char, nato, vivente e operante in quei pressi. Ho tradotto molte cose di lui. Non desidero tentare confronti, dire che cosa Char abbia respirato dell’aria che fu di Petrarca».

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a Char, siano di nuovo Petrarca e Leopardi. Da quest’ultimo non è ripreso solo il motivo della foglia, ma anche, nota bene Coppo, «l’inconsueta (per Sereni) serie rimica tetrastica» niente : splenden­te : mente : intermittente, generata per l’appunto dalle «rime car­dinali perpetuamente – naturalmente presenti ai versi 8 e 11 della traduzione» – o, meglio, dell’Imitazione – «leopardiana da Arnault»32. È così che, anche con la mediazione di Caproni, il Sereni traduttore e poeta fa proprio prima un lemma, poi un topos e un tratto metrico-stilistico del canto leopardiano. In parte affine è il caso che riguarda un altro poeta, traduttore e amico, Sergio Solmi, del quale Sereni, nella sua postfazione a Levania (1956), riporta una citazione relativa a una «nota» su Leopardi e Valéry: Sebbene taluni suoi versi non abbiano stentato a incidersi nel nostro ricordo, vediamo il suo dono in altro che nell’acutezza di certe punte liriche. Lo cercheremo nell’estrema articolazione e quasi concatenazione della condizione psicologica col portato dell’attitudine meditativa, di questa col raro ma caratterizzante sconfinamento per cui l’idea metafisica dell’infinito ed eternità si risolve – come leggo in una recentissima nota su Leopardi e Valéry – “nel flusso individuale, nel pungente abbandono allo stato d’animo”33.

L’intreccio con Solmi e Leopardi, però, va ben al di là di questo breve spunto prosastico. Ne resta traccia, stavolta in modo più indiretto, ancora in Stella variabile, e più precisamente nella quarta sezione di Un posto di vacanza (1973), laddove Sereni, l’ha mostrato D’Alessandro34, traduce in versi una formula tratta da un passo dell’Introduzione alle Opere leopardiane curate e pubblicate da Solmi nel 195635. Leggiamolo: 32  Mattia Coppo, Alcuni appunti sul verso di Stella variabile, in Esposito (a cura di), Vittorio Sereni, un altro compleanno cit., nota 31, p. 252. Corsivi dell’autore. 33  pp, Prose critiche, Levania, p. 854. Sul rapporto tra i due poeti, rinvio a Francesca D’Alessandro, Sergio Solmi e Vittorio Sereni: un’amicizia poetica novecentesca. Con una conversazione inedita di Vittorio Sereni, «Italianistica», 1, 2001, pp. 95-114. Per una lettura della postfazione sereniana alla luce della «ripresa creativa a metà degli anni Cinquanta», si veda invece Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 146-148 (cit. a p. 146). 34  Cfr. Francesca D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 151. 35  Una simile modalità di citazione, che definiremo di secondo grado, non è una novità assoluta nel panorama lirico del Novecento italiano. Ne abbiamo visto un precedente illustre

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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la notizia ricavata dal Meyendorff attorno alle melanconiche cantilene dei pastori nomadi dell’Asia centrale, non è più che un pretesto quasi inconsistente a quelle generalissime domande e considerazioni sul nascere e sul morire, cui solo l’accento conferisce l’inequivocabile, struggente individuazione, e il raggio lunare quell’ultimo, stremato colore36.

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Ed ecco Un posto di vacanza: Di fatto si stremava su un colore o piuttosto sul nome del colore da distendere sull’omissione, il mancamento, il vuoto: l’amaranto, luce di stelle spente che nel raggiungerci ci infuoca37.

Alla ripresa quasi letterale dell’«ultimo, stremato colore» si potrebbe affiancare la «luce di stelle spente», che pure «ci infuoca», memore sia del «raggio lunare» solmiano sia delle «facelle» e dell’«arder» di «stelle» del Canto notturno38. D’altra parte Sereni, pur senza scendere troppo nel dettaglio, si sofferma sugli echi dai Canti anche in autori meno scopertamente leopardiani di Solmi. Valgano ad esempio le osservazioni sul leopardismo e gozzanismo di Pasolini, «piegati» in virtù di una particolarissima, e se si vuole più ‘infedele’, capacità di assimilazione: Moltissimi gli echi, ma quasi sempre piegati alla particolare inflessione e necessità di questa voce. Sarà magari possibile dire: “qui c’è Gozzano; o Leopardi; o Laforgue; o Verlaine; o…”. Ma si tratterà sempre d’un gozzanismo o d’un leopardismo rivissuti e riflessi, tanto da raggiungere, nel primo caso, il nel cap. 2: la «vita strozzata» di Croce (critico assai meno sensibile a Leopardi) riecheggiata in Arsenio, che qui vale la pena ricordare se non altro per l’assoluto rilievo che assume in Sereni la lirica degli Ossi. Su quest’ultimo aspetto, cfr. Umberto Motta, Quando il ghiaccio si rompe. Esperienze poetiche novecentesche, Carocci, Roma 2017, p. 180 (e i relativi rimandi a: Dante Isella, L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Einaudi, Torino 1994, p. 271; Francesca Ricci, Il prisma di Arsenio. Montale tra Sereni e Luzi, Gedit, Bologna 2002, pp. 19-32, 40-41; D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni cit., pp. 33-34). 36  Sergio Solmi, Introduzione, in Giacomo Leopardi, Opere, 2 voll., Ricciardi, Milano-Napoli, 1956, vol. i, p. xxiv. Corsivi miei. 37  sv, iii, Un posto di vacanza, iv, vv. 30-34, p. 229. Corsivi miei. 38  Cfr. c, Canto notturno, vv. 84-86: «E quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle?». Di questo interrogativo, secondo Lenzini, Sereni si ricorderà in pp, Gli immediati dintorni, Arie del ’53-’55, p. 598: «Ma quelle luci, per chi stanno accese tutte quelle luci? – mi domando» (cfr. Lenzini, Verso la trasparenza cit., p. 118).

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quasi miracolo di rimettere in circolazione, con insospettata freschezza, una moneta che pareva per sempre scaduta in quanto a possibilità di sviluppi ulteriori39.

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3.3. Sogni estivi e Angeliche pensose La presenza di Leopardi, sempre negli interventi su autori novecenteschi, può essere tuttavia più sotterranea. Lo lascia credere, soprattutto, Dovuto a Montale, un tardo scritto (autoesegetico più che critico) pubblicato per la prima volta nel 1983. Il testo si apre con la rievocazione di una vecchia «infatuazione stagionale» – quella per l’inverno e le sue metafore – che «cessò», scrive Sereni, «tra la fine del ’36 e l’inizio dell’anno successivo», a ridosso dunque del periodo di maggior ancoraggio alla leopardiana «base sicura». L’occasione, continua il poeta, è data da «un mio ritorno dalle nostre parti dopo molti anni di assenza», quando, «sopraffatto dallo sfavillio della giornata di sole», «vivevo uno di quei momenti di completezza, di piena fusione tra sé e il mondo sensibile»40. Il tema del ritorno a Luino, paese natale che conserva il «patrimonio intatto e intangibile» del tempo felice dell’«infanzia»41 (nel quale però l’io non sa più riconoscersi), è assai ricorrente nell’opera di Sereni, ma presenta pure – lo vedremo meglio più avanti – diversi tratti in comune con Le ricordanze. Se però nella trama autobiografica di Dovuto a Montale vogliamo rintracciare, come ha fatto ancora D’Alessandro, una più precisa «coloritura leopardiana»42, non è ai Canti che bisogna guardare, bensì alle Operette morali. Dalla Storia del genere umano – ossia dal «popolo de’ sogni» che inganna «sotto più forme il pensiero degli uomini», figurando «loro quella pienezza di non intellegibile felicità» che non si può «ridurre in atto»43 – Sereni attinge infatti nel descrivere il suo «paese segreto»:

39  40  41  42  43 

pp, Poesie come persone, L’usignolo della Chiesa Cattolica – Diario – Lingua, p. 1097. pp, Poesie come persone, Dovuto a Montale, p. 1030. Ibid. Cfr. D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni cit., pp. 28-29. om, Storia del genere umano, p. 8.

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Non diversamente il mio modo odierno di guardare a Luino vede o crede di vedere in trasparenza una storia nascosta, continua nel tempo, che vi si svolge: una rete di gesti e di sguardi, un sottinteso. Figure che si sfiorano appena muovendo nel paese e nella sua aria, in un battito di ciglia, in un sorriso si riconoscono abitatori di un paese segreto che gli sta dietro, sempre sul punto di sconfinare nella patria notturna e variegata proteiforme dei sogni, dove si scompongono e ricompongono gli accadimenti diurni; e in esso si parlano e agiscono con una pienezza di cui i loro atti quotidiani non sono che un indizio44.

D’altronde, il tempo felice dell’infanzia – tempo estivo, dei sogni e irripetibile – è al centro anche di un altro scritto di diversi anni prima (1957), in cui non a caso risuona già la voce di Leopardi. Si tratta però di un intervento non su un autore vivente, ma sull’attualità di un classico, l’Orlando furioso. Di esso Sereni rievoca la sua prima, adolescenziale lettura: Eppure un modo c’è di accostare il poema di slancio ed è solitamente il modo dell’adolescenza, della prima lettura sui banchi del ginnasio […]. In essa non solo la fronte dell’Ariosto va adorna di fiori; per essa il Furioso è l’estate che trionfa nei libri e accompagna l’estate vera prendendone e dandole luce. Come la stagione reale ha le sue vampe e i suoi uragani, ma diversamente da essa non conosce mai il brivido premonitore del trapasso a più languida stagione. Questa lettura è irripetibile […]. Ma supponiamo che da altre pagine, trascorsi alcuni anni, vengano agli occhi le parole di un altro poeta45.

Le «pagine» e le «parole» di quest’«altro poeta» sono proprio di Leopardi, ma un Leopardi assai poco convenzionale, quello dell’abbozzo Angelica (1828). Eccolo nella trascrizione sereniana: Angelica, tornata al patrio lito dopo i casi e gli errori onde contato esercitata in ogni strania terra e in ogni mar la sua beltà l’avea; otto lustri già corsi, e bella ancora, là nelle stanze ov’abitò fanciulla, sedea soletta, e seco favellando veniva il suo pensiero46.

44  45  46 

pp, Poesie come persone, Dovuto a Montale, p. 1036. Corsivi miei. pp, Poesie come persone, Un’idea per il Furioso, p. 939. Ivi, p. 939. Corsivi miei.

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L’abbozzo, che conserverà poi la sua eco negli Strumenti umafantastica quindi sul ritorno di Angelica al «patrio lito» e alle «stanze ov’abitò fanciulla», con una formula identica a quella usata poi nelle Ricordanze48. Nei versi leopardiani, a ogni modo, Sereni ritrova il medesimo «assillo» che aveva sperimentato a seguito dell’«irripetibile» e sognante lettura del Furioso, poema dell’«estate», della «luce», dei sogni. Chissà allora se egli avesse in mente anche la stanza della canzone al Mai in cui Ariosto figura come poeta nato «ai dolci sogni», quando «il primo / Sole splendeati in vista», e il Furioso è descritto come luogo adorno di «mille vane amenità»49. Che questa sia un’ipotesi non troppo peregrina, io credo, è suggerito dalla chiosa sereniana: Documento acquistato da () il 2023/04/21.

ni47,

È Leopardi e non chiediamoci chi fosse e che significasse Angelica per lui. Ma riconosciamo in questa sua evocazione lo sviluppo se non l’esito di una domanda, di una perplessità, o piuttosto di un assillo che risale al tempo della irrepetibile lettura: che cosa anima e muove quelle figure, quali effetti, quali sentimenti? Di un’Angelica pensosa e favellante tra sé a questo modo, così intimamente sola, non c’è ombra nel Furioso; o piuttosto, l’avevamo cercata invano, invano la si era attesa a questa svolta dove l’anima comincia a farsi palese50.

Difatti, alla domanda qui posta – che cosa muove le «figure» del Furioso? – Leopardi aveva risposto proprio in Ad Angelo Mai. A muoverle sono i «felici errori», le «vanità», le «belle / Fole» di cui si «componea l’umana vita», cacciate però «in bando» nel momento in cui l’uomo ha iniziato a «veder che tutto è vano»51, alla «svolta» cioè 47  Cfr. su, Uno sguardo di rimando, Mille miglia, vv. 5-9, p. 117: «Un malumore sfiora la città / per Orlando impigliato a mezza strada / e alla finestra invano / ancor giovane d’anni e bella ancora / Angelica si fa». È questo un altro limpido esempio di scambio reciproco tra la poesia e la prosa sereniana, di nuovo con la mediazione di Leopardi. Corsivi miei. 48  Cfr. c, Le ricordanze, v. 5: «Di questo albergo ove abitai fanciullo» (ma si tenga presente anche il «paterno giardino» del v. 3). 49  c, Ad Angelo Mai, vv. 106-107, 114. 50  pp, Poesie come persone, Un’idea per il Furioso, p. 939. Corsivi miei. 51  Cfr. c, Ad Angelo Mai, vv. 108-120: «Cantor vago dell’arme e degli amori, / Che in età della nostra assai men trista / Empièr la vita di felici errori: / Nova speme d’Italia. O torri, o celle, / O donne, o cavalieri, / O giardini, o palagi! a voi pensando, / In mille vane amenità si perde / La mente mia. Di vanità, di belle / Fole e strani pensieri / Si componea l’umana vita: in bando / Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde / È spogliato alle cose? Il certo e solo / Veder che tutto è vano altro che il duolo».

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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in cui l’«anima comincia a farsi palese»: la stessa di fronte alla quale s’arresta «pensosa» l’Angelica leopardiana.

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3.4. Solitudine, idillio, fabbrica Nel continuare la rassegna delle citazioni leopardiane nelle prose di Sereni, va aggiunto che non mancano riferimenti all’interno di un più ampio discorso sull’Esperienza della poesia, che però non ha alcuna pretesa di universalità. Difatti, se «nessuno più di un poeta è adatto a dire cose concrete sulla poesia», per contro «nessuno è meno adatto di lui a enunciare verità che escano da un ordine affatto personale»52. Nel brano appena citato, che è del 1947 (anno della pubblicazione del Diario d’Algeria), Sereni si dice perciò «alieno dal considerare la poesia sub specie aeternitatis», tanto più che non vi sono verità o certezze che non siano, oltre che personali, provvisorie: Diffidate – dice il poeta – di tutti coloro che sanno troppo bene che cosa è la poesia, che hanno sempre la definizione pronta; lasciate passare qualche mese, forse appena qualche giorno, e vedrete che quella definizione sarà già mutata, magari integralmente, e non sarà per questo meno perentoria […]. In quanto poeti, essi ci appaiono perennemente tentati, perennemente perplessi tra opposte definizioni e suggestioni: si direbbe che la loro, guardata attimo per attimo, metro per metro, è più una strada di dubbi che di certezze53.

Inutile, insomma, stare troppo a teorizzare: più delle «altre parole» conta la «poesia». Semmai, un’eccezione si può fare per certi vertici, quali appunto i Canti o Les Fleurs du Mal: Le certezze vere sono finali e complessive; e sono valutabili in base alla loro fecondità più che alla loro verità e incontestabilità obiettiva e assoluta. In tal caso lasciamo parlare, prima di tutto, la poesia quale nasce dai testi poetici e dura attraverso quei testi; allora – ma dall’alto dei Canti o delle Fleurs du Mal – anche le altre parole, col credo poetico che ne deriva, potranno pretendere di investirci e di lasciarci, almeno per un lungo periodo, persuasi e partecipi54.

52  53  54 

pp, Gli immediati dintorni, Esperienza della poesia, p. 581. Ibid. L’autore si serve qui di alcune considerazioni di Valéry, citato poco sopra. pp, Gli immediati dintorni, Esperienza della poesia, pp. 581-582.

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Epperò, pur riservando certezze e credi poetici a un Leopardi o a un Baudelaire, Sereni continuerà a tentare di mettere a fuoco perlomeno la «disposizione» d’animo del poeta moderno. Uno spunto, a riguardo, è fornito – esattamente dieci anni dopo – da un altro poeta francese, Guillaume Apollinaire, che nella celebre Le Pont Mirabeau, lirica tradotta e confluita nel Musicante di Saint-Merry, troviamo immobile sulla Senna ad autocompiacersi della propria solitudine. È questa, nota Sereni, un’«attitudine contemplativa» niente affatto attuale, improntata com’è sul «classico» – e petrarchesco – «schema» dell’amor solitudinis. È qui che un po’ a sorpresa entra in gioco Leopardi, riscoperto da Sereni meno «antico» di Apollinaire, poeta tanto caro agli avanguardisti. Proprio Giacomo, invero, è stato l’iniziatore di quel processo che, conclusosi con Pavese, ha portato alla progressiva «sconfessione» dell’ideale idillico della solitudine. Un ideale, beninteso, che nutre sì tanta parte della poesia dei Canti, ma che in fondo – in Leopardi come in Sereni – finisce quasi sempre per infrangersi: Da Leopardi a Pavese la situazione lirica cui la disposizione solitaria dell’animo offre spunto si va scostando sempre più dal suo elementare, classico schema, da quella specie di luogo ideale, antico come la poesia lirica, che dello stato di solitudine faceva il punto d’equilibrio delle passioni, il recupero di esse nell’attitudine contemplativa, la condizione stessa della poesia in quanto fervido strumento di conoscenza. Apollinaire dal suo ponte sulla Senna sembra ancora, nonostante ogni prova in contrario, tra i più vicini a quel luogo ideale. Ma sempre meno il poeta si compiace della propria solitudine, sempre meno ne tesse l’elogio […]. Al punto che lo sviluppo della lirica contemporanea parrebbe svolgersi secondo una progressiva tendenza a rompere, della solitudine, i confini e ad affermare, se non il contrario, il bisogno, la sete del contrario55.

Leopardi, dunque, non è il poeta della solitudine, ma della condivisione e della solidarietà; è però anche il primo ad aver avvertito 55  pp, Gli immediati dintorni, Da Apollinaire. Il Pont Mirabeau, p. 611. D’altra parte, non è raro ritrovare questa «sete del contrario» tra le opere di Sereni stesso, poeta e prosatore, come si può evincere dalla conclusione cui giunge il suo racconto più riuscito, L’opzione: «scrivere non basta», leggiamo alle ultime battute, «lo strumento di cui disponi non è niente se non ha qualche parte, e tu stesso con lui, nella figura dell’attimo successivo… Il ritmo era ormai un rantolo, e neve, e bufera sulla Zeil. Cecidere manus». Il brano, come scrive Lenzini, è «allo stesso tempo denuncia di un’insufficienza e invito alla condivisione, alla comunanza» (Lenzini, Verso la trasparenza cit., p. 110).

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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la rottura del «punto d’equilibrio» dell’io e delle passioni. Pertanto, non sarà poi così strano ritrovarlo – come antidoto inefficace – nel luogo per eccellenza dell’alienazione moderna: la fabbrica, «sacca» di nuove forme di solitudine. Fatto sta, infatti, che:

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non siamo stati meno soli per il fatto di esserci mescolati col mondo della produzione, anzi! Fummo più vivi in guerra, anche quando la sacca si chiudeva su di noi. Se non altro perché non si voleva morire. Ma qui… questa lenta morte organizzata, che non ha niente di tragico, entrata in noi, giorno per giorno a piccole dosi. E non servono le armi umanistiche di vecchio stampo, anche le parole di un poeta (e quale poeta!) sono armi spuntate, non si è all’altezza della situazione56.

E un’arma umanistica, spuntata e «di vecchio stampo» è il Leopardi di Una visita in fabbrica, dove, si sa, l’«operaio più buono e inerme», per distinguersi dagli altri uomini che «in grembiuli neri» «si passano plichi / uniformati al passo delle teleferiche» – non è questa la «lenta morte organizzata»? – «salta su» e «cita» da A Silvia: Salta su il più buono e inerme, cita: E di me si spendea la miglior parte57 tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati.

v La parte migliore? Non esiste. O è un senso di sé sempre in regresso sul lavoro o spento in esso, lieto dell’altrui pane che solo a mente sveglia sa d’amaro58.

Per effetto di una mutazione antropologica, Leopardi (A Silvia, v. 18) e Dante (Par. xvii, vv. 58-59) sono qui messi alla porta, prima dallo «spasso» degli operai e poi dal disincanto, «a mente sveglia», 56  Lettera di Vittorio Sereni a Mario Boselli, da Milano, 16 dicembre 1961, pubblicata in «Nuova Corrente», 25, gennaio-marzo 1962, pp. 7-9 (ma qui si cita da Sereni, Poesie cit., Apparato critico, p. 543). 57  Mi discosto qui dal testo fornito da Isella nell’edizione di riferimento, che legge: «E di me si splendea la miglior parte» (Sereni, Poesie cit., p. 127). 58  su, Una visita in fabbrica (1952-1958), iv, vv. 14-17; v, vv. 1-5, p. 127.

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del poeta. Eppure, ai Canti Sereni tornerà a fare ricorso in un altro più tardo intervento sul rapporto tra letteratura e fabbrica, ovvero l’Intermezzo neocapitalistico (1962) che, tra le altre cose, è una risposta alla lettura impropria data da Vittorini al poemetto degli Strumenti umani. Non si tratta più, però, di una citazione puntuale, ma di uno straniante accostamento al ribasso tra due tipi di «solidarietà»: quella della «leopardiana Ginestra» e quella, posticcia, nata in seno ai meccanismi che regolano la psicologia, la vita e il lavoro in «industria». Ma vediamo come si arriva a questo singolare paragone. Il neocapitalismo, osserva Sereni, si regge su due espedienti imprenditoriali: il primo, «istintivo», capzioso e intimidatorio, consiste nel creare attraverso una precisa strategia retorica uno «sfondo religioso al lavoro»; il secondo, che «corre parallelo», fa leva sulla ritualità e sulla «codificazioni degli atti», di fatto elemento imprescindibile di ogni religione. Ora, se l’espediente ‘religioso’ è da respingere con nettezza, più complesso è il secondo aspetto, poiché «senza codificazione degli atti e rapporti di lavoro, oggi come oggi, non si lavora»59. Il discorso, a questo punto, si vela di amara ironia, o forse sarebbe meglio dire di amara autoironia, visto che ad essere implicato è l’autore stesso: Lo scrittore o più genericamente l’intellettuale, o anche la persona amabile e sensibile che passa per intellettuale, messo per necessità o per caso o per sbaglio proprio o altrui a lavorare in un’industria è portato a compiere quest’errore di respingere la codificazione solo perché tale e perché tale opposta alla libertà e alla naturalezza: doveva pensarci prima e, almeno questo, saperlo prima60.

«Irretito in quest’equivoco», allo scrittore restano due possibilità: ironizzare su «tutto ciò che sa di aziendale» (strutture organizzative, linguaggi e gerghi di comodo ecc.), oppure farsi a sua volta piccolo demiurgo, contrapporre cioè alla «religione patronale» una «religione personale e aristocratica, di clan», basata sull’affinità – presunta o reale – con alcuni «compagni di lavoro»61. Ma così facendo egli consuma e spende, diremmo con l’operaio «più buono» e con A Silvia, la sua «miglior parte»: «dissipando in ciò», scrive Sereni, «una cari59  60  61 

pp, Letture preliminari, Intermezzo neocapitalistico, p. 868. Ibid. Ibid.

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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ca enorme, sproporzionata di energia affettiva»62. Come i versi «del poeta», anche questa «solidarietà» è quindi un’«arma spuntata», se non proprio a doppio taglio; essa d’altronde – ed ecco la citazione di Leopardi – «ricorda vagamente la solidarietà leopardiana della Ginestra»63. Certo però viene il sospetto che alla fine stia avendo la meglio l’altra arma a disposizione, quella dell’ironia.

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3.5. Tableaux leopardiani Finora abbiamo visto come il Sereni prosatore faccia riferimento a Leopardi, prima nella corrispondenza privata e poi pubblicamente, per illustrare le proprie «inclinazioni» e, più in generale, la sua idea ed «esperienza» della poesia. L’attività di poeta va però di pari passo con quella di traduttore, che di nuovo non si discosta tanto da certe suggestioni leopardiane: si è detto infatti dell’imitazione ‘alla Leopardi’ di Char, anche sulla scia della versione caproniana. È emerso, inoltre, come Sereni non trascuri né il leopardismo di altri poeti (quello fedele di Solmi, quello sui generis di Pasolini, o ancora quello più conflittuale di Pascoli) né le riscritture proposte da Leopardi stesso (l’abbozzo Angelica), in entrambi i casi con ripercussioni negli Strumenti umani e in Stella variabile. A concludere il quadro vi sono poi alcuni rapidi confronti con autori italiani (Buzzati, Pavese) e stranieri (Lee Masters, Apollinaire), nonché proiezioni verso realtà estranee all’orizzonte leopardiano (la fabbrica, della quale si è appena detto). Ora, se non stupisce più di tanto che nelle prose di Sereni emerga qua e là il suo Leopardi e, in misura ancora maggiore, quello degli altri scrittori, meno scontato, almeno all’apparenza, è invece il fatto che la memoria dei Canti riaffiori negli Scritti d’arte64. In Acquarelli e tempere di Carlo Mattioli, ad esempio, i tratti della pennellata del pittore emiliano, che ritraggono una «natura solitaria cui parrebbe estranea l’impronta nell’uomo», evocano in primis vaghi «incanti e 62 

Ibid. Corsivi miei. Ivi, p. 868. 64  L’arte, in particolare la pittura, non è ininfluente nell’immaginario sereniano. Su un certo ‘cromatismo pittorico’ in versi, si veda ad esempio Oreste Macrì, L’umanità di Sereni nelle poesie dal ’45 («Strumenti umani» e «Stella variabile»), in Id., La vita della parola. Da Betocchi a Tentori (1996), a cura di Anna Dolfi, Bulzoni, Roma 20022, pp. 634-639. 63 

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magie». Subito dopo, però, l’«esteticità dell’abbagliamento diurno», la «luce sanguigna» del tramonto, il «rosa luminoso» di cieli «distesi sul verde» e di «tetti galleggianti» generano un «ricordo» più preciso e «istintivo». Quale? Quello, ancora una volta, di Ariosto e Leopardi, anzi di Ariosto (e prima di lui Virgilio) in Leopardi: “Lo strano corso che tenne il cavallo…” irresistibile per me la citazione ariostesca; e tanto più l’altra attinta in Virgilio riecheggiante in Leopardi:

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non molto va, che da le vie supreme dei tetti uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare armento65.

L’allusione, qui, è al v. 8 del Passero solitario («Odi greggi belar, muggire armenti»), ricalcato, come segnalava già Straccali (1892, poi 1912), sul Furioso e sull’Eneide, meglio nella traduzione di Caro: «Udìan greggi belar, mugghiare armenti» (viii, v. 553)66. Agli occhi di Sereni, però, Mattioli non è l’unico pittore dalle tinte leopardiane. Gli fa compagnia, in modo più velato, Ennio Morlotti, al quale è dedicato il brano Morlotti e un viaggio (1981) degli Immediati dintorni. A riprova della prossimità tra pittura e letteratura, il testo si apre ex abrupto con un passo desanctisiano, che vale la pena riportare: “… quella età della vita che le passioni si scoloriscono e l’esperienza e il disinganno tolgono le illusioni e, scemata la parte attiva e personale, l’uomo si sente generalizzato, si sente più come genere che come individuo…” Mi ha colto all’improvviso il ricordo di queste parole di Francesco De Sanctis, mentre osservavo Ennio Morlotti alla Fondazione Corrente nel febbraio di un anno fa67.

L’estratto di De Sanctis «era volto a suscitare un’immagine del Purgatorio». Eppure potrebbe essere esteso anche a Leopardi, qualo65  pp, Prose critiche, Scritti d’arte, Acquarelli e tempere di Carlo Mattioli, pp. 1194-1195. Le due citazioni dal Furioso, la prima messa anche in epigrafe, sono tratte rispettivamente dall’ottava 100, v. 1 e dall’ottava 115, vv. 5-8 del canto xxiii (quello famosissimo sulla follia d’Orlando). 66  Infatti, oltre al chiasmo Il passero solitario condivide con la versione di Caro anche il «verbo reggente» (Giacomo Leopardi, Canti. Volume primo, a cura di Luigi Blasucci, Guanda, Parma 2019, p. 298). 67  pp, Gli immediati dintorni, Morlotti e un viaggio, pp. 679-680.

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ra interpretassimo «quella età» come il passaggio dalla fanciullezza alla disillusa età adulta o, in altri termini, dall’antichità alla modernità, secondo un celebre parallelismo proposto, tra i vari luoghi, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni68.

Il tema della fine delle illusioni e delle favole antiche è tra i più notoriamente leopardiani, al centro com’è di tante pagine zibaldoniane (e non solo), oltre che di un canto in particolare: Alla Primavera. L’accostamento qui proposto sarebbe però forzato se Morlotti e un viaggio non contenesse poco sotto uno passo che, come hanno notato Isella e Martignoni69, rinvia proprio alla canzone del 1822: Mai come nel corso di esso [il secolo xx] l’arte ha teso a dare vita all’inanimato. La vita segreta della cosa, il suo potenziale oscuro, erompe dalla corteccia dell’albero o dallo specchio d’acqua come un tempo questa o quella divinità, ninfa, semidio. Crediamo di prestare alla cosa i nostri sentimenti, sussulti, pensieri, di investirla col nostro sguardo, mentre è lei, la cosa, a determinarlo, a imporci la sua presenza a prima vista insondabile e via via più chiara, fino a un ribaltamento dell’effusione romantica70.

Torneremo più avanti su questo aspetto cruciale, ma serve fare sin da subito una precisazione. Sereni, infatti, rispetto al Leopardi di Alla Primavera, e ancor prima dello Zibaldone e del Discorso sui romantici, riavvolge, se non proprio rovescia, il rapporto antichi-mo68  Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Giacomo Leopardi, Poesie e prose, 2 voll., a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Mondadori, Milano 2015, vol. ii, p. 359. 69  In p93, p. 208. 70  pp, Gli immediati dintorni, Morlotti e un viaggio, p. 681.

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derni: i quadri di Morlotti, con la loro natura attraversata da misteri, «analogie» e «rimembranze»71, stanno lì a mostrare come nel secolo xx la natura sia più che mai animata, pronta a prestare la sua voce all’arte, che sia la poesia o la pittura.

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3.6. Un canto notturno Prima di mostrare da vicino gli echi dei Canti nel Sereni poeta, è opportuno menzionare un ultimo brano ‘alla Leopardi’, che per giunta assolve bene la funzione di raccordo tra i due piani strettamente connessi della prosa e della poesia. Mi riferisco al primo segmento di Negli anni di Luino (1979), dal titolo tutto leopardiano (e un po’ fuorviante): Il canto notturno. Ad essere inscenato, infatti, non è il canto del pastore, ma quello, ricolmo d’impeto e d’ebbrezza, di un passante che nell’oscurità della notte si aggira tra le strade di Luino: Regolarmente ogni sera poco dopo le undici, specie nella bella stagione, un canto percorreva la via principale del paese già addormentato, ad eccezione forse di me che non prendevo sonno prima che il canto fosse passato. Sapevo chi era e ne seguivo dentro di me il percorso tracciato a voce spiegata nell’oscurità fino alle prime case di Voldomino. Il canto – era piuttosto un inno impetuoso – culminava sotto le mie finestre colmando di un’ebbrezza fugace la mia attesa, presto mutata in apprensione di sentirlo finire all’altezza del Ronchetto e del passaggio a livello, dove infine, addolcendosi via via nella distanza, si spegneva abbandonandomi al sonno72.

La scena è un vero e proprio rifacimento della Sera del dì di festa: «la veglia solitaria e il canto, nonché l’attitudine vitale e apprensiva 71  E si noti questo lemma, tra i più connotati in senso leopardiano. Cfr., nel complesso, pp, Gli immediati dintorni, Morlotti e un viaggio, p. 681: «Che cosa nascondono nel loro aggrovigliarsi, frastagliarsi, scoscendere, dirupare, cingersi di bastioni e contrafforti, nei loro bagliori intermittenti, nel loro svolgersi, incupirsi, sconvolgersi, svanire, le rupi che accompagnano il viaggio da o verso le Alpi Marittime o l’interno della Provenza? Quale cuore segreto, quali linfe, quali risorse, quali misteri rinserrano nelle loro caverne, anfratti, sorgenti invisibili? Il viaggiatore col quale il muto dialogo va instaurandosi dispone appena del balbettìo definitorio prestatogli dalla nomenclatura […] o tutt’al più il suo antropomorfismo gli farà ravvisare forme più familiari, somiglianze, analogie figurali, la rimembranza di un’acropoli». Corsivi miei. 72  pp, Gli immediati dintorni, Negli anni di Luino, Il canto notturno, p. 675. Corsivi miei.

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per ciò che finisce», scrive Natale, fanno del brano una «ritraduzione al biografico»73 del canto leopardiano. La sovrapposizione con la Sera, del resto, non riguarda solo la figuralità (si noti pure il particolare della finestra), ma si estende anche sul piano più propriamente stilistico: spia vistosa è il doppio gerundio nel finale («addolcendosi via via» e «abbandonandomi») che riprende, con un effetto rallentante, il «lontanando»74 della chiusa leopardiana. Questo canto d’ebbrezza, però, ha anche altri due antecedenti: il primo è sbarbariano, e va rintracciato in Piccolo, quando un canto d’ubriachi, lirica di Pianissimo a sua volta ispirata dalla Sera; il secondo è invece sereniano, ed è dato dal Muro (1965) degli Strumenti umani, che si apre su un’onirica Luino («Sono / quasi in sogno a Luino / lungo il muro dei morti») e si chiude con «il canto degli ubriachi», arricchito di nuovo «senso»75. Del leopardismo del Muro diremo però più avanti. Piuttosto, ora si noterà en passant che il topos della Sera lascia un’ultimissima traccia nel Tempo delle fiamme nere, uno scritto di natura memoriale datato 1982 (appena un anno prima della morte del poeta). Stavolta però l’attesa del canto notturno si rivela vana; in un’aria sospesa e «come delusa» resta soltanto il «segno» del «rigido caporale» che guida le ronde fasciste: per molte notti di seguito avevo invano aspettato l’onda trascorrente del canto notturno. Mi staccavo dal letto di mio padre, mettevo il naso alla finestra a guardare la danza delle lampade al vento di marzo. A un segno del rigido caporale – motivo di una nuova canzone, così diversa dagli inni che sappiamo, accennata da qualche raro passante – girava, col pulviscolo palpitante nell’alone dei lumi, la ronda della primavera del ’25. In un’aria come delusa76.

73 

Massimo Natale, Il muro di Sereni: una lettura, «Per leggere», 25, 2013, p. 79. Cfr. c, La sera del dì di festa, v. 45: «Lontanando morire a poco a poco». 75  su, Apparizioni e incontri, Il muro, vv. 1-3, 36-37, p. 179. 76  pp, Gli immediati dintorni, Il tempo delle fiamme nere, p. 693. Si aggiungerà che la memoria dell’altro Canto notturno, quello del pastore errante, si conserva invece, secondo Lenzini, nell’interrogativo finale di pp, Gli immediati dintorni, Arie del ’53-’55, p. 598: «Ma quelle luci, per chi stanno accese tutte quelle luci? – mi domando», per cui cfr. c, Canto notturno, v. 86: «A che tante facelle?». Più nel dettaglio, si veda Lenzini, Verso la trasparenza cit., p. 118. 74 

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3.7. Vento e ritorno Nei paragrafi precedenti abbiamo accennato a due motivi leopardiani che si presentano con costanza nella poesia di Sereni: lo stormire del vento tra le piante, che ci riconduce all’Infinito, e il ritorno al «borgo»77 natio, condiviso invece con Le ricordanze. Vediamoli ora nel dettaglio, a partire dal vento, una presenza frequentissima e «di ampio spessore semantico», «quasi un sismografo del rapporto io-mondo»78. Sarebbe troppo lungo ricordarne qui tutte le apparizioni, per cui ci soffermeremo soltanto su quelle in cui l’intreccio con i Canti si fa più denso di significati. È il caso, anzitutto, di Strada di Zenna (1938), che pure prevede un ritorno – ma è un ritorno, scrive Fioroni, «post mortem», un «preludio persefonico»79. Infatti, qui come altrove il vento tra le foglie presta la voce a un «delicato colloquio con i morti»80, reso esplicito soprattutto nel finale della lirica. Meglio, però, procedere con ordine e partire dall’incipit, memore di più luoghi leopardiani: Ci desteremo sul lago a un’infinita navigazione. Ma ora nell’estate impaziente s’allontana la morte. E pure con labile passo c’incamminiamo su cinerei prati per strade che rasentano l’Eliso81.

77  f, Frontiera, Inverno a Luino, vv. 4-5, p. 31: «sfavilla e s’abbandona / l’estremità del borgo». 78  Lenzini, Verso la trasparenza cit., p. 130 (ma si vedano le pp. 130-134 per una sintetica ed efficace disamina sulla semantica del vento). Sui significati attribuiti alle piante, rimando a: Laura Barile, Il passato che non passa. Le «poetiche provvisorie» di Vittorio Sereni, Le Lettere, Firenze 2004, pp. 13-39 (che rielabora Ead., Gli alberi e la metamorfosi nella poesia di Vittorio Sereni, «Lettere italiane», 3, 1993, pp. 376-397); Enrico Testa, Di alcuni motivi antropologici nella poesia di Sereni, in Esposito (a cura di), Vittorio Sereni, un altro compleanno cit., pp. 29-41 (ma in particolare pp. 30-31, 36). 79  Così Georgia Fioroni in fda, p. 138. L’espressione «preludio persefonico» è di Macrì, al quale rimanda Fioroni stessa (cfr. Oreste Macrì, Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Vellecchi, Firenze 1956, p. 272). 80  p93, p. 21. 81  f, Frontiera, Strada di Zenna, vv. 1-7, p. 33. Corsivi miei.

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L’«infinita / navigazione», chiosa Lenzini, «allude all’oltre-vita come viaggio senza termine di spazio o tempo»82: una meta per ora solo sfiorata – «per strade che rasentano l’Eliso» – e rimandata (ma a un futuro certo) a causa del sopraggiungere dell’estate. Nello scenario che qui si profila, percorso da un funebre presagio, e nell’enjambement ai vv. 1-2 i commentatori83 hanno individuato l’influsso di tre canti: la canzone Ad Angelo Mai, l’epistola Al Pepoli e Amore e morte, nei quali l’aggettivo ‘infinito’ è attestato in identica posizione (rispettivamente: «agl’infiniti / Flutti»; «negl’infiniti / Campi del tutto»; «Infinita / felicità»)84. Al di là della corrispondenza letterale, tuttavia, a me sembra che l’enjambement ‘infinitivo’ instauri un dialogo ancora più ravvicinato con l’idillio del 1819. Se non serve certo tornare sulla funzione dell’inarcatura nell’Infinito, si ricorderà però che lì «quello / Infinito silenzio» è interrotto dalla «voce» del vento che in un certo senso desta («ci desteremo») l’«io» lirico e fa sovvenire l’«eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva»85. Ebbene, l’eterno e il presente sono i due poli tra cui oscilla la «navigazione» sereniana; lo si può notare già al v. 2, nel quale l’«ora» irrompe grazie allo scatto dato dal «Ma» dopo il punto fermo, secondo un uso stilistico che segna sì tutte le raccolte del poeta di Luino86, ma che ha il suo antecedente più illustre proprio nell’Infinito87. Non sarà un caso, allora, se i due elementi che animano l’idillio leopardiano – il vento

82 

iga, p. 196. Cfr. p93, p. 22 e fda, p. 142. 84  c, Ad Angelo Mai, vv. 80-81; c, Al conte Carlo Pepoli, vv. 82-83; c, Amore e morte, vv. 38-39. 85  Cfr. c, L’infinito, vv. 8-13: «E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei». 86  Cfr. già l’incipit della prima lirica di Frontiera: f, Concerto in giardino, Inverno, v. 1, p. 7: «…………. / ma se ti volgi e guardi», sul quale, anche per il rapporto con l’Infinito, si veda Renato Nisticò, Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa, Manni, Lecce 1998, pp. 27-28. Come è noto, l’uso del «ma» diventerà ancora più insistente negli Strumenti umani, dove risponde ad esigenze non solo stilistiche, ma più in generale – per quanto non sia necessario né opportuno separare i due piani – tipiche del dispiegarsi del pensiero sereniano. Sul tema, rimando a Giuseppe Zagarrio, La semantica del «ma» nel primo Sereni, «Il Ponte», 5, 1974, pp. 548-561 e a Stefano Ghidinelli, L’infaticabile «ma» di Sereni, «Studi Novecenteschi», 1, 1999, pp. 157-184. 87  c, L’infinito, v. 4: «Ma sedendo e mirando». 83 

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e il silenzio – siano gli stessi che irrompono nel paesaggio di Strada di Zenna:

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Si muta l’innumerevole riso; è un broncio teso tra l’acqua e le rive nel lagno del vento tra le stuoie tintinnanti. Questa misura ha il silenzio stupito a una nube di fumo rimasta di qua dall’impeto che poco fa spezzava la frontiera88.

Rispetto all’Infinito, però, il vento, che pascolianamente si lagna89, ha qui una coloritura più tetra: è infatti sia il vento invernale, che spezza la frontiera e l’idillio («Si muta / l’innumerevole riso»), sia il vento artificiale generato dal passaggio di un treno che intervalla il silenzio («questa misura ha il silenzio») e, sparendo all’orizzonte delimitato da una galleria90, lascia dietro di sé («di qua dall’impeto») una «nube di fumo». Altri impeti seguono nella terza strofa: sulla «spiaggia abbandonata» turbina la «rena», «travolge la cenere dei giorni»; non vi è più silenzio, ma l’«esteso strazio» di «sirene salutanti nei porti» e il «rombo dell’acquazzone / che flagella le case»91. È a questo punto che ricompare il tema del ritorno (in silenzio: «torneremo taciti»), insieme al «suono», al vento e al «Ma» dell’Infinito: Ma torneremo taciti a ogni approdo. Non saremo che un suono di volubili ore noi due o forse brevi tonfi di remi di malinconiche barche92.

I versi contengono, scrive Fioroni, un’«immagine della vita post mortem, in chiave con la navigazione dei due versi incipitari»93, e forse an88  89  90  91  92  93 

f, Frontiera, Strada di Zenna, vv. 8-16, p. 33. Corsivi miei. Cfr. iga, p. 196. Cfr. fda, p. 145. f, Frontiera, Strada di Zenna, vv. 17-20; 24-25, p. 33. Ivi, vv. 26-30, pp. 33-34. Corsivi miei. fda, p. 147.

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che in chiave (ma rovesciata) con il naufragio leopardiano, convertito in «approdo» e ridotto a «brevi tonfi di remi». Se questa è soltanto un’ipotesi, più definita è l’eco leopardiana nella prima possibilità di ritorno: «non saremo che un suono / di volubili ore noi due». Ma di che suono si tratta? Con tutta probabilità quello, trasportato ancora dal vento, di una «campana a morto»94, che rievoca il più confortante – ma solo nel «caro tempo giovanil»95 – «suon dell’ora» delle Ricordanze: «Viene il vento recando il suon dell’ora / Dalla torre del borgo. Era conforto / Questo suon, mi rimembra, alle mie notti»96. Del resto, nel segno dell’Infinito è anche il finale della lirica, dove lo stormire del vento diviene propriamente un «gemito» che non dà mai «quiete» (altro lemma dell’idillio): Voi morti non ci date mai quiete e forse è vostro il gemito che va tra le foglie nell’ora che s’annuvola il Signore97.

Il topos del vento, con il suo portato di apparizioni e incontri, si prolunga però ben oltre Frontiera, ed è attivo almeno fino agli Strumenti umani98. Può bastare come esempio A un compagno d’infanzia (1962), che sin dalla prima strofa ripropone, privandoli del loro incanto, i tratti climatici e paesaggistici dell’Infinito: lo stormire del vento, appunto, ma anche «la collina». Non privo di significato, allora, mi sembra il fatto che la poesia si apra, al v. 2, con l’avverbio «sempre», usato ora in chiave disforica: 94  Cfr. il brano sereniano Giorno di Sant’Anna, pubblicato in «Campo di Marte» il 15 gennaio 1939 e riproposto poi in Ruggero Jacobbi, “Campo di Marte”. Trent’anni dopo 1938-1968, Vallecchi, Firenze 1969, p. 196: «Ma è certo che domani a quest’ora la cadenza dei miei remi sarà accompagnata per un tratto da una campana a morto: di quell’uno che Sant’Anna e il lago si saranno portati via. Così, un po’ tristemente, sulle onde appena increspate, io compirò ventiquattro anni. Se non sarò io quel morto». Traggo il parallelo da fda, p. 147. 95  c, Le ricordanze, v. 44. 96  Ivi, vv. 50-52. A riguardo, cfr. anche f, Frontiera, Immagine, vv. 7-9, p. 38: «Ancora a volte ti ritrovo a un suono / d’ore oltre la pioggia, curvo / sul primo tizzo autunnale». Nella stessa poesia d’ascendenza leopardiana sono il tema del canto e l’immagine della finestra. Corsivi miei. 97  f, Frontiera, Strada di Zenna, vv. 31-34, p. 34. Corsivi miei. 98  Non mancano più tenui risonanze in Stella variabile, per cui cfr. almeno sv, iii, Niccolò, vv. 21-24: «[…] Sospesa ogni ricerca, / i nomi si ritirano dietro le cose / e dicono no gli oleandri / mossi dal venticello».

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i Non resta più molto da dire e sempre lo stesso paesaggio si ripete. Non rimane che aggirarlo noi due nel vento urlandoci confidenze futili e crederle riepiloghi, drammatiche verità sulla vita. «Ma tu hai la bellezza…» «Chiacchiere nel vento tenebroso, religione della morte: gli anni che passano tali e quali, la collina che riavvampa in autunno, i campanili assolati imperterriti, pietrificate ossa di morti, le nostre radici troppo simili, da troppo per non dolersi insieme, che quel vento fa gemere…»99.

L’avvio è dunque nel segno della negazione («non resta più») e della ripetizione sterile e nullificante («sempre»), secondo un tema forte negli Strumenti umani. A cambiare, perciò, non è il «paesaggio» ma lo sguardo del poeta: è venuta meno «qualsiasi velleità d’idillio o di rievocazione nostalgica»100 e non vi è più luogo, per dirla con Le ricordanze, al «van desio / Del passato»101. Eppure resta intatto il Leitmotiv del vento «tenebroso», che con il suo gemito («fa gemere») rimodula il finale di Strada di Zenna. Per giunta, anche qui il vento si sdoppia: a quello naturale (la voce dei morti e dei morti in vita) subentra «un altro vento» innaturale, stavolta generato dal passaggio delle automobili in autostrada. «Nuovo e senza memoria più del passato»102, quest’ultimo vento è tuttavia assai diverso da quello dell’Infinito: Un’autostrada presto porterà un altro vento tra questi nomi estatici: Creva 99 

su, Apparizioni e incontri, A un compagno d’infanzia, i, vv. 1-15, p. 170. Corsivi miei. iga, p. 241. 101  c, Le ricordanze, vv. 59-60. 102  iga, p. 241. 100 

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Germignaga Voldomino la Trebedora – rivivranno con altro suono e senso in una luce d’orgoglio… Non che sia questo la bellezza, ma la frustata in dirittura, il gesto perentorio sul cruccio che scempiamente si rigira in noi, il saperla sempre a un passo da noi, la bellezza, in un’aria frizzante: questo, che oscuramente cercano i libertini e che ho imparato lavorando103.

Si noti che è leopardiano, di una zona però più periferica dei Canti, anche il tema dello slancio vitale e agonistico del campione («la frustata in dirittura» del ciclista) come via d’uscita – insieme al rischio, il contrario dell’inutile aggiramento: «non rimane che aggirarlo» – dalla noia e dalla ripetizione, ovvero dalle «putri e lente / Ore» di A un vincitore nel pallone104. A ogni modo, il vento torna a «stormire» nella seconda parte di A un compagno d’infanzia: ii Addio addio ripetono le piante. Addio anche a me tocca ora di dirti con la stessa tenerezza e intensità, con la stessa umiltà delle piante che a stormire però continueranno fuori dallo sguardo immediato. Non c’è nessuno, sembra, al ponte che ripasserò tra poco: non figuro mascherato d’inesistenza non querulo viandante. Dunque via libera, e basta con le visioni! Nella domenica confusa

103  104 

su, Apparizioni e incontri, A un compagno d’infanzia, vv. 16-30, pp. 170-171. c, A un vincitore nel pallone, vv. 62-63.

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di un fiume alla sua foce si colluttano salutarmente in me…105

Oltrepassata la frontiera, consumato il «definitivo congedo dal paesaggio natale»106 e pronunciato l’addio alle «visioni», non resta che il ricordo, affidato ancora al vento che, «fuori dallo sguardo immediato», continuerà a stormire tra le piante, umili come le myricae107 (un dettaglio da non farsi sfuggire, che accosta di nuovo Leopardi a Pascoli). D’altra parte, Apparizioni e incontri contengono anche altre tessere leopardiane. Sopra un’immagine sepolcrale, ad esempio, prende il titolo dalle due sepolcrali dei Canti e con la prima ha in comune il tema delle «morti innocenti»108. Ancora più significativa è Il muro, nella quale ritroviamo non solo l’«animazione delle foglie» e il già citato «canto» notturno «degli ubriachi»109, ma anche l’agonismo giovanile: Sono quasi in sogno a Luino lungo il muro dei morti. Qua i nostri volti ardevano nell’ombra nella luce rosa che sulle nove di sera piovevano gli alberi a giugno? Certo chi muore… ma questi che vivono invece: giocano in notturna, sei contro sei, quelli di Porto e delle Verbanesi nuova gioventù. Io da loro distolto sento l’animazione delle foglie e in questa farsi strada la bufera. Scagliano polvere e fronde scagliano ira 105  su, Apparizioni e incontri, A un compagno d’infanzia, ii, vv. 1-14, p. 171. Corsivi miei. Il «ponte», ora libero, è quello sorvegliato e interdetto da «uno senza volto» nella prima lirica di Apparizioni e incontri (cfr. su, Apparizioni e incontri, Un sogno, p. 159). 106  iga, p. 242. 107  Cfr. Virg., Buc., iv, v. 2: «non omnis arbusta iuvant humilesque myricae» (che, com’è noto, ispira il titolo delle Myricae pascoliane e compare in epigrafe ai Canti di Castelvecchio). 108  Cfr. su, Apparizioni e incontri, Sopra un’immagine sepolcrale, vv. 3, 8 («dei morti innocenti», «tra i pargoli innocenti»), con c, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 49-50 («come il consenti / in quei capi innocenti?»). 109  su, Apparizioni e incontri, Il muro, v. 37, p. 180, per cui cfr. supra, pp. 136-137.

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quelli di là dal muro – e tra essi il più caro110.

È sempre il vento a preludere al dialogo con i morti, e con «il più caro» tra di essi, il padre del poeta. Non mi soffermerò troppo su questa poesia, che è forse il vertice di Apparizioni e incontri, tra l’altro già oggetto di un’analisi molto attenta sia al rapporto con Leopardi sia alla stratificazione del testo111. Segnalo, piuttosto, che i topoi del vento e del canto compaiono pure in una poesia dispersa e senza data, Quaresima a San Primo, dove s’insinuano altri due motivi leopardiani – la quiete dopo la tempesta e il dì festivo – insieme però a una parola («trucioli») che ripropone, come nel Muro e negli Immediati dintorni, l’asse Leopardi-Sbarbaro: Il vento, il caro vento che trucioli porta e l’erba nuova a brani, gira la valle e passa; e a grigio si rimette il giorno. […] Erra sui clivi il canto che rattrista le domeniche e narra antiche feste e amaro impreca d’una fortuna che chiuse la porta; sola c’illude

110 

Ivi, vv. 1-16, p. 179. Corsivi miei. Cfr. Natale, Il muro di Sereni: una lettura cit. (in particolare, sulle varianti e sul leopardismo, pp. 69-70: «Interrotto è infine, si noti, il sintagma proverbiale “Certo chi muore giace” […], del quale si cancella “giace”, sospendendo la sentenza. Mi domando se, in tal caso, non possa collaborare anche una sorta di quasi perfetto calco ritmico-lessicale da una lirica che Sereni ha in ogni caso certamente presente, ovvero la prima sepolcrale di Leopardi: “Certo ha chi more invidiabil sorte”, si legge al v. 79 del canto, nel quale lo stesso avverbio fa da perno in punta di verso e di frase, seguito dall’analogo sintagma pronome-verbo. Si noti poi che lo stesso aggettivo riferito alla giovane morta, “animosa in atto” (al v. 8 della canzone), rimbalza ai ragazzi “animosi contro bufera e notte” (e si pensi anche alla più volte citata “animazione”), riaffermandosi così – ma rovesciata – quella drammatica polarità vita-morte cui sia il testo sereniano che quello leopardiano sono pur diversamente improntati»). 111 

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l’onda trascorrente

una viola tra gli sterpi occulta che all’acqua morta dona il suo profumo.

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Così bieco ritorni, vento, e ci sbarri le soglie all’alta valle, presi nel giro denso del tuo fiato come le fonti al gelo delle sere112.

Molteplici sono qui le suggestioni dai Canti. Oltre a quelle già indicate, e oltre alle riprese lessicali («caro» e «amaro», ad esempio, sono due aggettivi pieni di ripercussioni in Leopardi), si osserverà che il «canto» che «erra sui clivi» e «rattrista le domeniche» sembra fondere insieme due luoghi poetici: la Sera del dì di festa, appunto, e l’incipit del Passero solitario: «D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna / Cantando vai finché non more il giorno; / Ed erra l’armonia per questa valle»113. Per di più, la «viola» occulta «tra gli sterpi», che «sola c’illude» donando all’«acqua morta»114 il suo «profumo», sembra proprio una di quelle piante – come l’agave montaliana – imparentate con la ginestra, la quale «di dolcissimo odor manda un profumo, / Che il deserto consola»115. 3.8. Carboni irti al sole e rive sfavillanti L’influsso della Ginestra, però, non si limita a Quaresima a San Primo o all’Intermezzo neocapitalistico degli Immediati dintorni. Già Inverno a Luino (1937), lirica di Frontiera che accoglie pure i topoi del ritorno e del vento, rielabora in modo assai originale certe atmosfere del canto del 1836. Leggiamo intanto l’incipit, che è un’apostrofe a Luino:

112 

Quaresima a San Primo, vv. 1-5, 17-29, in Sereni, Poesie cit., p. 870-871. Corsivi miei. c, Il passero solitario, vv. 1-4. Corsivi miei. 114  Anche questo sintagma risente forse di c, All’Italia, vv. 94-97: «Parea ch’a danza e non a morte andasse / Ciascun de’ vostri, o splendido convito: / Ma v’attendea lo scuro / Tartaro, e l’onda morta». Corsivi miei. 115  c, La ginestra, vv. 36-37. 113 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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Ti distendi e respiri nei colori. Nel golfo irrequieto, nei cumuli di carbone irti al sole sfavilla e s’abbandona l’estremità del borgo116.

A prima vista Leopardi non sembra chiamato in causa, e ancor meno La ginestra: troppo debole, soprattutto se presa da sola, è la vaga parentela tra i «cumuli di carbone irti al sole» invernale e gli aridi «campi» leopardiani «cosparsi / Di ceneri infeconde» e «ricoperti / Dell’impietrata lava […] / Dove s’annida e si contorce al sole / La serpe»117. Epperò, una più sicura aura leopardiana la si avverte nell’uso della parola «borgo»: il sostantivo, tipico dei Canti, è invece un hapax nell’intera produzione sereniana (e non solo in Frontiera, come segnala Fioroni)118. Una scelta, dunque, niente affatto casuale, dietro alla quale si cela forse un primo indizio di leopardismo. Indizio che trova conferma nell’ultima strofa, dove le «rive» del borgo sono investite dal solito «vento» e turbate prima dai fari minacciosi della torpediniera, poi dal tumulto di «lontane locomotive»: Fuggirò quando il vento investirà le tue rive; sa la gente del porto quant’è vana la difesa dei limpidi giorni. Di notte il paese è frugato dai fari, lo borda un’insonnia di fuochi vaganti nella campagna, un fioco tumulto di lontane locomotive verso la frontiera119.

Si inizia a intravedere, qui, la consonanza con un altro paesaggio notturno, ma tutt’altro che invernale: quello, appunto, delle «rive» sfavillanti della Ginestra:

116 

f, Frontiera, Inverno a Luino, vv. 1-5, p. 31. Corsivi miei. c, La ginestra, vv. 17-19, 20. 118  Cfr. fda, p. 128, che rimanda a un passo del Grand Meaulnes di Alain-Fournier («à l’extrémité du borg»). Il che, mi pare, non esclude necessariamente la memoria leopardiana. 119  f, Frontiera, Inverno a Luino, vv. 18-26, p. 31. Corsivi miei. 117 

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l’onda trascorrente

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Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo120.

A insidiare queste «rive», inutile ricordarlo, è il Vesuvio, la «vetta fatal» che «ancor siede tremenda, ancor minaccia» gli abitanti del luogo, del «porto» cioè e del «golfo irrequieto» di Napoli: […] E spesso Il meschino in sul tetto Dell’ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall’inesausto grembo Su l’arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina121.

Insomma, se il lessico e le immagini in comune non traggono in inganno, la minaccia naturale (il «temuto bollor») della Ginestra, che lascia «insonne» (hapax, questo, nei Canti) alla «vagante aura» il «villanello», trova un corrispettivo – moderno e artificiale – nell’«insonnia di fuochi / vaganti» della torpediniera, le cui luci ossessive, rievocate pure nella successiva Terrazza122, non sono che «il fantasma inquietante dell’ignoto»123.

120 

c, La ginestra, vv. 158-166. Corsivi miei. Ivi, vv. 249-257. Corsivi miei. 122  f, Frontiera, Terrazza, vv. 6-9, p. 32: «Siamo tutti sospesi / a un tacito evento questa sera / entro quel raggio di torpediniera / che ci scruta poi gira se ne va». 123  p93, p. 17. 121 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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3.9. «Tra le perse primavere» Tra Concerto in giardino, prima sezione di Frontiera, e Gli strumenti umani si dispiega un altro topos leopardiano meno indagato dalla critica: l’addio alla giovinezza, «perduta tra le perse primavere»124 e dunque mai goduta appieno. Conviene, a riguardo, andare un po’ à rebours e prendere le mosse dalla terza raccolta sereniana, e in particolare da Ancora sulla strada di Zenna (1960), lirica che è un dialogo aperto con le altre sopra citate e, al contempo, una «variazione»125 sui motivi fin qui analizzati: «la spirale del vento» tra le piante126, il ritorno ai luoghi d’infanzia, la «dolorosa scoperta» del «proprio mutamento»127, la fine dell’incanto128, la frantumazione dell’io, la ricordanza129. Limitiamoci, però, all’incipit, incentrato sul contrasto già leopardiano tra la primavera, che torna ciclicamente, e la giovinezza, persa invece per sempre (e anzitempo): Perché quelle piante turbate m’inteneriscono? Forse perché ridicono che il verde si rinnova a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia? Ma non è questa volta un mio lamento e non è primavera, è un’estate, l’estate dei miei anni130.

124 

f, Concerto in giardino, Poesia militare, v. 6, p. 107. Prendo in prestito l’espressione dal già cit. Isella, Vittorio Sereni, Ancora sulla strada di Zenna, al quale rimando per un’analisi più completa. 126  Cfr. su, Uno sguardo di rimando, Ancora sulla strada di Zenna, vv. 10-11, 2829, p. 113: «[…] quel repentino vento che la turba / e alla prossima svolta, forse finirà»; «Dunque pietà per le turbate piante / evocate per poco nella spirale del vento». 127  p93, p. 113. 128  Su questo aspetto, si veda Mazzoni, Forma e solitudine cit., p. 154: «L’argomento di Ancora sulla strada di Zenna, come quello di molte poesie della raccolta, è la perdita di profumo del mondo, la fine della percezione auratica delle cose, l’insensata ripetizione dell’esistere». 129  A riguardo, cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 222-223: «l’io è ora sentito come discontinuo e frantumato […]. Questa frattura non può non avere riflessi sulla memoria sereniana: per esempio, mi azzardo a dirlo fin d’ora, nel moltiplicarsi della memoria involontaria e ancor più in quella che potremmo chiamare, calcando la mano, memoria procurata (bordeggio, evidentemente, concetti proustiani, ma tra l’altro già leopardiani)». 130  su, Uno sguardo di rimando, Ancora sulla strada di Zenna, vv. 1-6, p. 113. Corsivi miei. 125 

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l’onda trascorrente

Nello specifico, il verbo ‘intenerire’, raro in Sereni131, ci riconduce al Passero solitario, dove è impiegato proprio per descrivere gli effetti di quella primavera-giovinezza (che, appunto, «intenerisce il core»)132, dalla quale resta escluso ed estraneo l’io lirico: «Quasi romito, e strano / Al mio loco natio, / Passo del viver mio la primavera»133. Ma il motivo, come anticipato, è al centro soprattutto di Concerto in giardino, che del resto si chiude proprio con una poesia indirizzata Alla giovinezza. Lì tuttavia ad agire sottotraccia più che il Passero solitario sono Le ricordanze, e non a caso. Difatti, il canto del 1829 non solo narra un ritorno, ma illustra anche il prematuro dileguarsi e il fugace spegnersi della giovinezza, prima dell’io lirico134 e poi, nella strofa finale, di Nerina, per la quale davvero «non torna / Primavera»135. Leggiamo dunque il «doloroso addio» di Alla giovinezza, maturato in uno scenario a prima vista rassicurante ma reso presto, al v. 3, «mortale e lugubre»136: È cominciata una canzone losca di rane tra le colline e da un’estate mortale – forse l’ultima tua – s’avventano rondini in volo perdutamente, come tu cammini verso un’aria fondissima, brumale137.

131  Conta solo un’altra occorrenza, sempre negli Strumenti umani (cfr. su, Il centro abitato, La poesia è una passione?, vv. 35-38, p. 154: «S’erano intanto gli occhi raddolciti, / e di poco allentandosi la stretta / s’inteneriva, acquistava altro senso, ritornava / altrimenti violenta»). 132  Cfr. c, Il passero solitario, vv. 5-7: «Primavera dintorno / Brilla nell’aria, e per li campi esulta, / Sì ch’a mirarla intenerisce il core». Se questa è l’unica attestazione di ‘intenerire’ nei Canti, frequente – e ricco di significato – è invece l’aggettivo ‘tenero’ (e derivati). 133  Ivi, vv. 24-26. 134  Cfr. c, Le ricordanze, vv. 131-135: «Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo / Son dileguati. E qual mortale ignaro / Di sventura esser può, se a lui già scorsa / Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, / Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?». 135  Ivi, vv. 164-165. 136  fda, p. 114. Qualcosa di simile accade nelle Ricordanze, al v. 6: «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / Tornare ancor per uso a contemplarvi / Sul paterno giardino scintillanti, / E ragionar con voi dalle finestre / Di questo albergo ove abitai fanciullo, / E delle gioie mie vidi la fine» (c, Le ricordanze, vv. 1-6). 137  f, Concerto in giardino, Alla giovinezza, vv. 1-7, p. 28.

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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È un avvio, come segnalato da Fioroni, di «vasta memoria letteraria»138, per quanto due siano le reminiscenze più forti: il «canto / Della rana rimota alla campagna»139 delle Ricordanze e, si noti ancora la compresenza dei due autori, «il canto delle rane» della Canzone del bucato di Pascoli (v. 14). Se più pascoliane che leopardiane sono senza dubbio le rondini (figure mortuarie soprattutto in Myricae)140, non va trascurato però che al loro posto nel primo abbozzo della poesia troviamo i passeri (che riappariranno poi nei Versi a Proserpina): «Più tristemente, come tu cammini / sui piazzali animati di candore, / spiccano i passeri il volo / verso un’aria fondissima, brumale»141. In ogni caso, che Sereni avesse in mente soprattutto Leopardi, e nello specifico Le ricordanze, mi sembra confermato dalla seconda strofa: E delle voci che da me si dilungano, quale potrà volgere il tuo e il mio cammino a una marcia d’insonni girasoli? Ma non sanno altro bene o altro male che un lago azzurro o grigio i tuoi occhi dall’ombra d’un viale142.

I versi rievocano il paesaggio (i «viali»), la sonorità (le «voci»), il cromatismo («azzurri»), nonché la sintassi (la congiunzione «E» a inizio del verso) della lirica recanatese. Ecco infatti le scene descritte nella prima stanza, subito dopo il dettaglio del «canto / Della rana»: E la lucciola errava appo le siepi E in su l’aiuole, sussurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de’ servi. E che pensieri immensi, 138 

fda, p. 115. c, Le ricordanze, vv. 12-13. 140  Mi limito a ricordare la rondine uccisa nella celebre x agosto, mentre, per quanto riguarda Leopardi, cfr. c, Il risorgimento, vv. 45-48: «La rondinella vigile / Alle finestre intorno / Cantando al novo giorno / Il cor non mi ferì». 141  Sereni, Poesie cit., Apparato critico, pp. 335-336. 142  f, Concerto in giardino, Alla giovinezza, vv. 8-14, p. 28. Corsivi miei. 139 

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l’onda trascorrente

Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato143.

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Certo però lo sguardo del ‘tu’ sereniano, se non finge già più, scruta e scopre un po’ meno dell’«io» dei Canti, resta cioè sospeso nell’incertezza, più «ignaro del suo fato»: «Ma non sanno altro bene o male» i suoi «occhi». 3.10. Diana Con Le ricordanze abbiamo appena sfiorato uno dei topoi leopardiani più diffusi nel primo e secondo Novecento (nei capitoli precedenti lo si è visto agire in Saba e Montale): quello della fanciulla morta in tenera età, che porta con sé, alla radice, un immaginario persefoneo144. Sereni, che a Proserpina dedica un’intera sezione di Frontiera, da questo punto di vista non fa eccezione, anche se il dialogo, lo vedremo tra poco, non è tanto con Le ricordanze quanto con A Silvia. Ma prima che nei Versi a Proserpina il tema compare ancora una volta in Concerto in giardino, in un componimento che attinge ugualmente alla mitologia, e sin dal titolo: Diana, la fanciulla-vergine, dea dei boschi e della luna. Chi si possa celare dietro a questo nome è suggerito da Sereni stesso, il quale ammette più di una possibilità: Maria Luisa Bonfanti, futura moglie del poeta, una studentessa, oppure persino Jean Harlow, famosa attrice hollywoodiana morta all’età di 26 anni. Così infatti scrive a Vigorelli, l’8 luglio del 1938: ecco questa Diana che può essere la M[aria]. L[uisa]., una ragazza della Tenca o addirittura la povera Harlow. Dipende dalla gestazione laboriosissima 143 

c, Le ricordanze, vv. 14-27. Corsivi miei. A riguardo, su Leopardi, rimando ai già citati lavori di D’Intino. Su Sereni, si veda invece Roberto Deidier, Ade e ritorno: i Versi a Proserpina, in Esposito (a cura di), Vittorio Sereni, un altro compleanno cit., pp. 101-113. 144 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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e difficoltosa di questa lirica. E quella morte può essere morale e fisica, distanza e oblìo, a piacere. Col senso, da parte mia, di qualcosa che irrimediabilmente è perduto, accresciuto da questo prossimo materiale partire e dalla nostalgia di quello che non è stato vissuto145.

Il tono e il lessico di questa lettera possono far tornare alla mente certe zone leopardiane, non solo poetiche; si pensi, ad esempio, ai «godimenti di quell’età» – la «fanciullezza» – «irreparabilmente perduti» e svaniti nel giovane che manca «affatto di vita», di cui si dice in una pagina dello Zibaldone146. Non allontaniamoci troppo, però, dai versi di Sereni, e torniamo più da vicino su Diana, che è la storia – già persefonea e leopardiana – di un mancato ritorno. Così ne possiamo riassumere il contenuto: l’arrivo dell’estate suscita un recupero memoriale e illusorio, cui segue prima l’interrogarsi del poeta, poi la costatazione dell’«irrimediabile scomparsa» della giovane, «presente solo nell’imperfetto del ricordo»147. È questa, a grandi linee, la stessa trama di A Silvia, tanto che vi è chi ha parlato di una vera e propria trasfigurazione della fanciulla in Diana, di cui invano è auspicata qui «la riapparizione»148. Il legame con Leopardi, del resto, risalta all’occhio sin dalla prima strofa, nella quale – come pure più avanti – insieme al canto pisano risuonano Le ricordanze: Torna il tuo cielo d’un tempo sulle altane lombarde, in nuvole d’afa s’addensa e nei tuoi occhi esula ogni azzurro si raccoglie e riposa. […] Torni anche tu, Diana, tra i tavoli schierati all’aperto e la gente intenta alle bevande sotto la luna distante?149 145  Lettera a Giancarlo Vigorelli dell’8 luglio 1938, citata in Sereni, Poesie cit., Apparato critico, p. 327. Il primo e l’ultimo corsivo sono dell’autore, gli altri sono miei. 146  z 278, 16 ottobre 1820. Corsivi miei. 147  fda, p. 86. 148  Motta, Quando il ghiaccio si rompe cit., p. 185. 149  f, Concerto in giardino, Diana, vv. 1-5, 10-13, p. 23. Corsivi miei.

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l’onda trascorrente

Lessico, immagini e sintassi proiettano su Diana l’ombra delle due fanciulle dei Canti. È la reiterazione del verbo ‘tornare’, anzitutto, a far pensare a Nerina: «Se torna maggio, e ramoscelli e suoni / Van gli amanti recando alle fanciulle / Dico: Nerina mia, per te non torna / Primavera giammai, non torna amore»150. Che Diana, come Nerina, non torni lo si dirà più esplicitamente nei versi successivi, ma il sospetto che la risposta alla domanda («Torni anche tu, Diana»?) debba essere negativa è nutrito dai richiami contestuali ad A Silvia, puntualmente segnalati da Motta151. Da un lato vi sono le «altane lombarde», che ricordano vagamente i leopardiani «veroni del paterno ostello»; dall’altro, e qui la coincidenza si fa più letterale, la serie «tuo cielo d’un tempo», «nei tuoi occhi», «intenta», che ricalca invece il «tempo della tua vita mortale», «negli occhi tuoi» e «intenta» di A Silvia152. Seguitiamo perciò nella lettura: Ronza un’orchestra in sordina; all’aria che qui ne sobbalza ravviso il tuo ondulato passare, s’addolce nella sera il fiero nome se qualcuno lo mormora sulla tua traccia153.

Il suono dell’orchestra favorisce una rievocazione, a metà tra memoria e sogno, che ha come oggetto Diana ‘ravvisata’ nell’atto di «passare». Ebbene, l’ambiguità di questo verbo – che ci dice sì, per effetto di quell’«ondulato», della sensualità del gesto154 ma anche del suo carattere effimero – si fa più chiara se letta in controluce con i due canti. Difatti, ‘passare’ è termine chiave di A Silvia – lo segnala

150  c, Le ricordanze, vv. 162-165. Il parallelo è suggerito anche da Fioroni in fda, p. 89. Corsivi miei. 151  Cfr. Motta, Quando il ghiaccio si rompe cit., p. 186. 152  Cfr. c, A Silvia, vv. 19, 1, 4, 10. Su «intenta», però, si veda già iga, p. 194, in cui Lenzini sottolinea come il «canto» del v. 23 di Diana, «in chiave con l’agg. intenta, v. 12, è ricordo di Leopardi, A Silvia». 153  f, Concerto in giardino, Diana, vv. 14-19, p. 23. 154  Così infatti Fioroni in fda, p. 92: «Ondulato suggerisce un’andatura sensuale, forse non lontana dall’atmosfera del Quasimodo di Parola, e richiama il tremolio dell’aria, nonché l’orchestra in sordina del v. 14: in musica il termine designa un movimento melodico e caratterizzato da un alternarsi continuo di note acute e basse».

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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giustamente Motta155 – come pure, e forse ancor di più, delle Ricordanze, dove tra l’altro il «passar» è assunto a simbolo della breve, danzante esistenza di Nerina, che fu «come un sogno»:

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Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito, E l’abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi156.

Non stupirà pertanto che l’eco di Nerina si riverberi nelle ultime due strofe: Presto vien giugno e l’arido fiore del sonno cresciuto ai più tristi sobborghi e il canto che avevi, amica, sulla sera torna a dolere qui dentro, alita sulla memoria a rimproverarti la morte157.

È qui in atto, nella sostanza, la stessa dialettica che contraddistingue il passaggio di Nerina: al ritorno dell’estate (non dunque della primavera, come nel «maggio» leopardiano) è contrapposta l’assenza della fanciulla, che però «torna a dolere dentro» nella memoria, come nella chiusa delle Ricordanze158. Ma allora potremmo aggiungere che la specularità non è solo tra Silvia e Nerina, bensì anche tra Leopardi e Sereni: 155  Cfr. Motta, Quando il ghiaccio si rompe cit., p. 186 (che rimanda a c, A Silvia, v. 53: «come passata sei»). 156  c, Le ricordanze, vv. 149-157, ma vedi anche ivi, vv. 169-170: «Ahi tu passasti, eterno / Sospiro mio: passasti». Corsivi miei. 157  f, Concerto in giardino, Diana, vv. 20-26, p. 23. Corsivi miei. 158  Cfr. c, Le ricordanze, vv. 170-173: «e fia compagna / D’ogni mio vago immaginar, di tutti / I miei teneri sensi, i tristi e cari / Moti del cor, la rimembranza acerba». Il rimando è proposto anche da Fioroni in fda, p. 93.

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l’onda trascorrente

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Qui non è cosa Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per se; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui159.

D’altra parte, perfino l’«arido fiore» di Diana – il papavero, estivo e mortuario – ha un corrispettivo metaforico nelle Ricordanze; il «fiore» dell’«arida vita» era lì «il caro tempo giovanil», «irrimediabilmente perduto» – per riprendere i termini della lettera a Vigorelli – prima ancora di essere «vissuto»: «ti perdo / Senza un diletto, inutilmente, in questo / Soggiorno disumano, intra gli affanni / O dell’arida vita unico fiore»160. Non sarà sfuggito, inoltre, che il finale sereniano precisa l’oggetto della «rimembranza acerba»: ad aleggiare nella memoria e a rimproverare la «morte» è il «canto» di Diana. È un filo, questo, che si riallaccia nuovamente a due immagini, e quanto importanti, di A Silvia: quella memoriale, all’inizio, del «perpetuo canto» e quella conclusiva del gesto di Silvia-Speranza, che in un certo senso sta «a rimproverarti la morte»: «e con la mano / La fredda morte ed un tomba ignuda / Mostravi di lontano»161. La metamorfosi di Diana in Proserpina, così, è già iniziata. 3.11. Proserpina Diana, con il suo ordito leopardiano, prepara infatti il terreno ai Versi a Proserpina, breve sezione di Frontiera che accoglie cinque poesie composte tra il 1941 e il 1944 ma pubblicate, dopo sostanziali revisioni, solo nell’edizione del 1966162. Più da vicino, le liri159 

c, Le ricordanze, vv. 55-60. Ivi, vv. 46-49. Corsivi miei. 161  c, A Silvia, vv. 61-63. 162  Tuttavia, le prime due poesie (entrambe del ’44) erano già presenti nel Diario d’Algeria del 1947, in una sezione intitolata Vecchi versi a Prosperina. Numerose sono le varianti rispetto alle prime stesure, alcune delle quali particolarmente significative per il nostro discorso. A ogni modo, per un’analisi più distesa sulla genesi e sull’evoluzione dei Versi a Proserpina si veda Georgia Fioroni, Vittorio Sereni, Versi a Proserpina, in Raffaella Castagnola, Georgia Fioroni (a cura di), Le forme del narrare poetico, Franco Cesati, Firenze 2007, pp. 83-103. 160 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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che, tutte sprovviste di titolo, possono essere lette come una sorta di piccolo canzoniere il cui «sviluppo narrativo» ripercorre le orme di Diana: si va dal «presagio» dell’assenza all’assenza «stessa» e, quindi, «alla memoria» dell’assente163. Protagonista è una giovane morta «a vent’anni», o meglio ancora «scomparsa», «in omaggio» all’ambiguo e «doppio destino di Proserpina»164. In accordo con il mito di Core (e di Silvia), la vicenda della giovane è infatti iscritta all’interno di un ciclo stagionale di morte e rinascita (nella memoria e nella poesia); alla tarda primavera del primo testo segue la piena estate (il ferragosto), poi l’autunno dai «freddi astri» e infine non l’inverno, ma la nuova primavera dell’ultima poesia (ed è qui che ricompare Silvia, la fanciulla scomparsa «pria che l’erbe inaridisse il verno»)165. Andiamo però con ordine e leggiamo la prima lirica: La sera invade il calice leggero che tu accosti alle labbra. Diranno un giorno: – che amore fu quello… –, ma intanto come il cucù desolato dell’ora percossa da stanza a stanza dei giovani cade la danza, s’allunga l’ombra sul prato. E sempre io resto di qua dalla nube smemorata che chiude la tua dolce austerità166.

163 

Cfr. fda, pp. 191-192. Cfr. la lettera di Sereni a Claudio Barigozzi del 22 luglio 1956, citata in Sereni, Poesie cit., Apparato critico, p. 373: «Dovrebbero portare questa specie di dedica: per P.(iera) B.(attaglia) morta a vent’anni, ma questo vale per me e per te. In un libro non m’importa che il lettore li riferisca a persona morta o viva ma scomparsa. Anzi, preferisco lasciare l’ambiguità, proprio in omaggio alla doppia natura o al doppio destino di Proserpina». 165  c, A Silvia, v. 40, da confrontare forse con [Dicono le ortensie], terza dei Versi a Proserpina: «è finita / l’estate, è morta in lei, / e niente ne sapranno i freddi / verdi astri d’autunno» (f, Versi a Proserpina, [Dicono le ortensie], vv. 6-9, p. 47). Al di là dell’aderenza alla fonte mitologica, va comunque precisato che Proserpina è per Sereni, come pure per Leopardi, «un mito privato e un’esperienza poetica personale», «a un tempo recupero memoriale di un momento della giovinezza e accentuazione del valore emblematico del ciclo stagionale» (fda, p. 193). 166  f, Versi a Proserpina, [La sera invade il calice leggero], p. 45. Corsivi miei. 164 

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l’onda trascorrente

Rispetto alle fonti classiche non mancano spostamenti e rielaborazioni, come ha ben illustrato Deidier: il ratto non avviene «nella pienezza del giorno», bensì «in un’aura tardo-crepuscolare», senza che ciò implichi «un banale accostamento» tra le «simbologie» della sera e della morte; «la collocazione temporale si lega piuttosto al momento in cui memoria e affettività congiurano insieme, facendo della rievocazione un evento mitico, ovvero restituendo il mito al mito»167. Ebbene, il «motore» di tale operazione, continua sempre Deidier, è dato proprio da Leopardi, come testimoniano alcune scelte lessicali: «“fu”, “sempre”, infine “dolce”: aureo aggettivo, che poco si discosta dai consueti attributi della Kore, come lieve, o leggera, qui riferito al calice»168. I paralleli proposti da Deidier, dunque, riguardano più che altro L’infinito, ma ad essi se ne possono aggiungere altri – tematici e lessicali – da A Silvia: non solo le «stanze» («da stanza a stanza»), ma anche il verbo chiave ‘cadere’ («Tu, misera, cadesti»)169, qui usato non per la speranza – detta «dolce» in A Silvia170 – ma per la «danza» dei «giovani», che comunque scompare («cade») al sopraggiungere della sera171. Non si tratta, per ora, di citazioni puntuali ma di una più generica filigrana leopardiana, che si intensifica nel secondo componimento: Te n’andrai nell’assolato pomeriggio per le strade che seguono le colline sul lago che brulica di barche arido nel ferragosto. Di quest’attimo vivo e poi di nulla. E tu ne vibri assorta in ogni vena o mia voce più dolce… Ma sempre lo stesso stupore l’avvento saluterà della luna 167 

Deidier, Ade e ritorno cit., p. 112. Ibid. 169  c, A Silvia, v. 61. 170  Cfr. ivi, vv. 49-50: «Anche peria fra poco / La speranza mia dolce» (ma si veda pure la «dolce lode» del v. 45). 171  E chissà, senza voler troppo calcare la mano, se qui ci possa essere ancora una lontana eco del già ricordato passar «danzando» di Nerina. 168 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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dietro il colle di Bédero, ove al chiaro prato che di compianto circonfonde ogni luogo già nostro torneremo anche noi due abbandonati sull’orlo dei rivi172.

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La filigrana si fa ora più visibile, soprattutto a partire dallo scalino del v. 9: quel «Ma sempre» seguito dall’apparizione della «luna» dietro al «colle», che rischiara e «circonfonde di compianto» «ogni luogo già nostro». Il dialogo, certo, è ancora con L’infinito, ma ancor di più con Alla luna: O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia173.

Inoltre, se la «voce» del vocativo sereniano («o mia voce più dolce», al v. 8) è, come suggerisce Fioroni, «a un tempo voce del cuore e della figura femminile»174, non escluderei un più indiretto rapporto con la «voce» di Silvia, e dunque dello stesso Giacomo tornato, si legge in una famosissima lettera, a scrivere «versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta»175. Incoraggia in questa direzione l’ultima poesia a Proserpina, dove la vicinanza con A Silvia è esplicita, perlomeno nella prima stesura autografa del 1941. Il contenuto della breve lirica è piuttosto semplice: la lettura di alcuni versi scritti a matita – tratti, si badi, da una canzone popolare – suscitano nel poeta il ricordo della donna e del passato festoso. Di qui, il contrasto tra la «festa» di San Giuseppe (quando cioè torna primavera) e l’«oggi», segnato ormai da una «quiete» mortifera proiettata prima sulle cose (i «vetri indifferenti») poi sulla natura (il «minuto 172  173  174  175 

f, Versi a Proserpina, [Te n’andrai nell’assolato pomeriggio], p. 46. Corsivi miei. c, Alla luna, vv. 1-8. Corsivi miei. fda, p. 202. e, a Paolina Leopardi, Pisa, 2 maggio 1828, p. 1480.

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l’onda trascorrente

/ sfaccendare dei passeri»). Vediamo ora il testo, confrontando la prima redazione (Aut 1941) con l’ultima versione (f 1966, ma 1956): (Aut 1941) (f 1966)

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“San Giuseppe dei tempi lontani occhi ardenti capelli castani” Sul tavolo tondo di sasso due versi a matita di musica fiorita su una festa (Giorno non passa senza che una traccia io riscopra di te nel giardino distrutto dei vent’anni)

Sul tavolo tondo di sasso due versi a matita, parole per musica fiorite su una festa. Di occhi ardenti, di capelli castani? Come fu quel tuo giorno, e tu com’eri?

In quale ora, con quale viso hai inciso questo segno del tuo tempo mortale?176

E oggi attorno la quiete dei vetri indifferenti, oggi il minuto sfaccendare dei passeri là fuori177.

Nella lezione definitiva viene meno la trascrizione della canzone, riassorbita nella doppia interrogativa («Di occhi ardenti, di capelli castani? / Come fu quel tuo giorno, e tu com’eri?») che di A Silvia conserva qualche eco: si veda, anzitutto, la consonanza tra «occhi tuoi ridenti» e «occhi ardenti», ma anche il dettaglio dei «capelli» (per quanto in Leopardi le «chiome» siano «negre»), come pure la modalità stessa dell’interrogazione178. Sarebbero queste risonanze troppo tenui, se non avessimo avuto però la prima redazione che contiene una citazione letterale proprio da A Silvia: il «tuo tempo mortale», infatti, ricalcava quasi letteralmente il v. 2 del canto pisano («quel tempo della tua vita mortale»). In poche parole, la versione del 1941, chiudendosi con una domanda rivolta a un ‘tu’ assente, presentava una situazione identica a quella dell’incipit leopardiano, con il quale è condiviso anche il tema del «canto», reso poi meno esplicito dalle correzioni. È soltanto la «quiete», ma nella stesura definitiva, a cambiare di segno: se «al perpetuo canto» di Silvia 176 

Sereni, Poesie cit., Apparato critico, p. 372. Corsivi miei. f, Versi a Proserpina, [Sul tavolo rotondo di sasso], p. 49. Corsivi miei. 178  Un sapore più genericamente leopardiano ha anche il v. 6: «Giorno non passa senza che una traccia». 177 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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«Sonavan le quiete stanze / E le vie dintorno», in Sereni la «quiete» «attorno» è quella della morte e dell’immobilità, solo in parte infranta dal «minuto / sfaccendare dei passeri»179.

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3.12. Un’erinni, Tenochtitlàn, farfalle e baratri Giunti a questo punto, è possibile affermare che la poesia di Sereni ha perlomeno un forte sostrato in comune con i Canti, fatto sì di lessico e immagini, ma anche di topoi e mitologemi (in particolare, di Diana e Proserpina)180. Tale sostrato, fitto in Frontiera, sembra allentarsi nel Diario d’Algeria181 per tornare poi negli Strumenti umani. È con Stella variabile, tuttavia, che l’influsso del Leopardi ri-scrittore di miti trova nuova linfa, a patto però che la fonte risulti più sfumata. In tal senso, emblematico è il caso di Autostrada della Cisa (1977-1979), che per giunta riporta al centro i temi del ritorno (non a Luino, ma a Milano) e del colloquio con i morti. Ecco le prime tre strofe: Tempo dieci anni, nemmeno prima che rimuoia in me mio padre (con malgrazia fu calato giù e un banco di nebbia ci divise per sempre). Oggi a un chilometro dal passo 179  Serve precisare, però, che una simile duplicità della quiete è registrata anche in Leopardi, come spero di aver dimostrato altrove (cfr. Vincenzo Allegrini, «Rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco». Le ambivalenze delle quiete e dell’inquietudine leopardiana, «Intersezioni», 1, 2019, pp. 31-56). 180  D’altra parte, il discorso sui topoi leopardiani nella poesia di Sereni potrebbe essere allargato ancora, includendo ad esempio quelli della quiete dopo la tempesta, del dì festivo, del ‘troppo tardi’. Il primo motivo, assai attestato in f (si vedano Memoria d’America, Terre rosse, Compleanno, Temporale a Salsomaggiore, Azalee nella pioggia) è presente pure in su (ad esempio, nell’incipit di Anni dopo, che dialoga forse anche con La vita solitaria). Sul dì festivo e sul ‘troppo tardi’, topoi approfonditi da critici e commentatori, rimando almeno a Lenzini, Verso la trasparenza cit., pp. 103-110 e a Gilberto Lonardi, Introduzione, in iga, pp. 5-25. 181  Nel Diario infatti le riprese riguardano più che altro certe situazioni e scelte lessicali, come nei casi di Città di notte e di Lassù dove di torre, sulle quali rinvio però al commento di fda, pp. 238, 298. Segnalo, invece, che la rima voce : feroce di da, Diario d’Algeria, Ahimè come ritorna, vv. 5, 8 è attestata anche in c, All’Italia, vv. 70, 74 (che preludono al canto di Simonide).

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l’onda trascorrente

una cappelluta scarmigliata erinni agita un cencio dal ciglio di un dirupo, spegne un giorno già spento, e addio.

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Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno – sappilo che non finisce qui, di momento in momento credici a quell’altra vita, di costa in costa aspettala e verrà come di là dal valico un ritorno d’estate182.

D’Alessandro ha individuato una curiosa parentela tra il tono con il quale è descritta questa «scarmigliata erinni» (una contadina che vende i prodotti della terra sul ciglio dell’autostrada) e l’incipit sostenutissimo dell’Ultimo canto di Saffo. Il «valico dell’appennino», infatti, diviene «simbolo del trapasso, del varco verso l’oltre» e la venditrice «si tramuta in personaggio mitologico» – un’«erinni», appunto, «che porta con sé la tonalità estrema di cui Leopardi soffuse l’Ultimo canto di Saffo»183: Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, Sembianze agli occhi miei184.

Non si tratta, è chiaro, di una consonanza forte, nonostante il comune uso – che è anche di Aspasia185 – della lettera minuscola per Erinni, segnalato già da Lenzini186. Epperò, nel bosco di driadi che prende vita nei versi immediatamente successivi torna a riecheggiare il Leopardi delle favole antiche: Parla così la recidiva speranza, morde in un’anguria la polpa dell’estate, vede laggiù quegli alberi perpetuare 182 

sv, v, Autostrada della Cisa, vv. 1-13, p. 261. D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni cit., p. 159. 184  c, Ultimo Canto di Saffo, vv. 1-6. Corsivi miei. 185  Cfr. c, Aspasia, v. 10: «Mia delizia ed erinni!». 186  Cfr. iga, p. 269 (che rimanda pure, oltre al canto x dell’Inferno, al Ritorno delle Occasioni montaliane). 183 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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ognuno in sé la sua ninfa e dietro la raggera degli echi e dei miraggi nella piana assetata il palpito di un lago fare di Mantova una Tenochtitlàn187.

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Isella e Martignoni hanno ricollegato questi versi a un brano di Morlotti e un viaggio, nel quale vi sarebbe una certa affinità, di cui si è già detto, con Alla Primavera188. Eppure, l’eco della canzone del 1822 è rintracciabile anche senza l’apporto della prosa degli Immediati dintorni, non solo per la «recidiva speranza», che ha un corrispettivo leopardiano nella «nova speranza»189, ma anche e soprattutto per il quadro che raffigura una natura viva, con fiumi abitati da «ninfe» e alberi palpitanti: Vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi e il dissueto orecchio Della materna voce il suono accoglie? Già di candide ninfe i rivi albergo. […] Viva fiamma agitar l’esangui vene, Spirar le foglie, e palpitar segreta Nel doloroso amplesso Dafne o la mesta Filli190.

In Autostrada della Cisa, dunque, Sereni riprende, mescolandoli, gli elementi dello scenario di Alla Primavera: «albergo» delle ninfe non sono più i «rivi» ma gli «alberi», mentre il «palpitar» è attributo non dell’alloro (Dafne) o del mandorlo (Filli), bensì del «lago»191. Con uno scatto inaspettato, poi, è proprio questo «palpito» – altro lemma leopardiano – a fare di Mantova una nuova Tenochtitlàn: «oggi Città del Messico», scrive il poeta in una nota al testo, «e a suo tempo […] capitale del regno azteco prima della conquista spagnola: città felice nel ricordo, come sempre dopo la catastrofe»192. 187 

sv, v, Autostrada delle Cisa, vv. 14-20, p. 261. Corsivi miei. Cfr. p93, p. 208. 189  c, Alla Primavera, v. 7: «Novo d’amor desio, nova speranza». 190  Ivi, vv. 20-23, 52-55. Corsivi miei. 191  Anche la «raggera degli echi e dei miraggi» può avere forse un precedente ivi, vv. 58-69. 192  Cfr. Sereni, Poesie cit., p. 834. 188 

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l’onda trascorrente

Ebbene, anche questo improvviso salto alle Americhe ha un antecedente situato nella stessa zona dei Canti: il finale dell’Inno ai Patriarchi, dove per l’appunto le «vaste californie selve» – «felici nel ricordo» – sono violate dallo «scellerato ardimento» dei conquistatori spagnoli: la «catastrofe» che l’«ignuda / Felicità per l’imo sole incalza»193. Tuttavia, come in Morlotti e un viaggio, va segnalato pure un certo scarto o, per dir così, un’inversione di rotta. Se infatti nell’Inno si passa dal lontano tempo biblico alla piena modernità, al contrario nell’Autostrada di Sereni l’«oggi» apre un rapidissimo squarcio immaginativo su un passato ormai remoto. In sintesi, il caso di Autostrada della Cisa ci dice di una nuova modalità di confronto con il modello dei Canti, altrettanto profonda ma più vicina alla riscrittura che alla citazione esibita194 (una pratica, quest’ultima, non sconosciuta agli Strumenti umani: si veda quanto detto sopra su Mille miglia e Una visita in fabbrica). D’altronde, va in questa direzione anche un’altra poesia di Stella variabile, Di taglio e cucito (1961), che rimodula, l’ha dimostrato Genetelli195, il Canto notturno, ma a partire da un oggetto, il «giocattolo», che assai difficilmente assoceremmo alla grande lirica leopardiana: Il giocattolo, pecora o agnello che rappezzi per ingiunzione della piccola, di testa forte più di quanto non dica il suo genere ovino è in famiglia con te. Il tuo profilo caparbio a ricucire il giocattolo e quella testa forte: paziente nell’impazienza – e il tuo cipiglio che pure non molla la presa sulla mia vita che va per farfalle e per baratri… Per ogni graffio un rammendo, per ogni sbrego 193 

c, Inno ai Patriarchi, vv. 104, 111, 117. Corsivi miei. Fa in parte eccezione sv, viii, Traducevo Char, sulla quale ci siamo soffermati nel primo paragrafo di questo capitolo. Lì infatti la rielaborazione del topos della foglia è accompagnata da più puntuali richiami intertestuali, che si estendono anche sul piano delle rime. 195  Cfr. Christian Genetelli, Per un attacco e per una chiusa di Sereni («La spiaggia»; «Di taglio e cucito»), «Strumenti critici», 3, 2008, pp. 447-455. 194 

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3. vittorio sereni. una connaturata intonazione

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una toppa. Quanto vale il lavoro di una rammendatrice, quanto la tua vita?196

Se è vero, come scriverà Montale nel 1969 e come abbiamo visto già197, che «nessun poeta moderno si rivolgerebbe alla luna col famoso interrogativo “che fai tu luna in ciel”»198, è anche vero che qui l’interrogativa finale riscrive proprio «le immortali, fittissime domande poste alla luna dal pastore errante»199: «Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi?»200. Finora siamo rimasti sul piano della citazione testuale, ma più curiosa è la rielaborazione di altre due immagini del Canto notturno: da un lato il «giocattolo» rammendato, «pecora o agnello», che è quasi «il fuoriuscito della certo assai nota greggia»201 leopardiana; dall’altro lato la «mia vita che va per farfalle / e baratri» che, nota ancora Genetelli, stabilisce «una nuova, sotterranea ma impercepibile risonanza»202 con quella del «vecchierel» «infermo». Nel Canto notturno, però, non vi è nessuno che «non molli la presa» e la «via» del «vecchierel» può precipitare nell’«Abisso orrido, immenso»203 o, stando a una variante rifiutata e a un coevo passo dello Zibaldone, nella «fossa»204 e nel βόθρος: «burrone, burrato»205, baratro.

196 

sv, ii, Di taglio e cucito, p. 205. Corsivi miei. supra, p. 93. 198  sm, 2, Luna e poesia, p. 2928. Un’eccezione singolare, però, è data da Zanzotto, sul quale cfr. da ultimo Natale, Citare, tradire cit., pp. 271-272. 199  Genetelli, Per un attacco e per una chiusa di Sereni cit., p. 452. 200  c, Canto notturno, vv. 16-18. 201  Genetelli, Per un attacco e per una chiusa di Sereni cit., p. 452. 202  Ibid. 203  c, Canto notturno, vv. 21, 35. 204  «Fossa oscura, capace» (Biblioteca Nazionale di Napoli, Carte Leopardi, xiii. 25. 205  z 4524, 12 aprile 1830. 197  Cfr.

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4. Giovanni Giudici Il leopardismo del bricoleur

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4.1. Un ragazzo di Recanati Il dialogo che Giudici ingaggia con Leopardi si svolge su piani differenti rispetto a quelli visti finora, tanto più se si guarda al vicino Sereni. Nell’opera del poeta ligure la presenza dei Canti assume infatti contorni più definiti e, per continuare la metafora, colori assai più sgargianti. In altre parole, e proprio all’opposto di Sereni, egli «lascia leggere in controluce le sue fonti» e calca spesso il pedale «dell’allusione e della parodia»1. Tale atteggiamento trova senza dubbio gli esiti più riusciti nella produzione in versi, ma ne vedremo ora un primo assaggio in Frau Doktor, una raccolta di prose eterogenee pubblicata nel 1989. Tra queste, vi è anche una lettera (composta nel 1987) al «Signor conte Giacomo Leopardi» sulla quale conviene sostare un poco, se non altro perché è indicativa del modo assai disinibito con il quale Giudici si rivolge al poeta ottocentesco, alternando l’omaggio alla parodia, l’intarsio di citazioni al pettegolezzo, e ancora l’allusione ammiccante alla correzione (se non provocazione) esplicita. Ambiguo, anzitutto, è il titolo della lettera: Un ragazzo di Recanati, che il lettore associa immediatamente a Giacomo. Esso in realtà, ma lo si scopre verso la fine, va in primis riferito a un altro ragazzo di Recanati, il quale, nel bel mezzo dell’estate, dalle Marche era giunto sino a Bologna per chiedere a Giudici se per caso avesse scritto qualcosa su Leopardi, suo conterraneo: Ero, in una caldissima sera dell’estate, in Bologna per uno di quei tanti rituali a cui ci chiama talvolta la nostra condizione letteraria; e concluso il rito 1  Pier Vincenzo Mengaldo, Il solido nulla, in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, p. 382 (dove però il giudizio è rivolto al solo Sereni).

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l’onda trascorrente

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(un ennesimo discutere su quel che è la poesia) mi si avvicinò un ragazzo che mi parve nobilissimo nella sua composta decenza. Mi domandò se avessi io mai scritto qualcosa intorno a Lei, al poeta Giacomo Leopardi. E io risposi che no, che non avevo mai scritto nulla di rilevante a Suo riguardo, tranne un breve articolo […]. «Ma perché vuoi sapere» chiesi poi al ragazzo «se io ho mai scritto qualcosa su Leopardi?» «Sono di Recanati» disse semplicemente […]. Abitava a Recanati, era venuto da Recanati con tutto quel caldo, nella speranza forse di ricavar qualche lume da un futile discutere su quel che dovesse intendersi per poesia2.

Di qui il commento di Giudici, che lascia qualche sospetto d’ironia: «vede quale semenza il Suo nome continua a seminare proprio nel luogo che Le diede i natali! […]. Anche Lei fu al tempo Suo, un ragazzo di Recanati e avrei forse dovuto scriverLe dandoLe del tu»3. Il titolo, dunque, in fondo va bene anche per Leopardi, che fu a sua volta «un ragazzo di Recanati». È già su questa definizione, io credo, che bisogna riflettere, poiché apostrofa il poeta con un termine che gli appartiene ben poco: un dettaglio da non trascurare, soprattutto se si tiene conto che più avanti la lettera si sofferma in modo puntuale sul lessico dei Canti. ‘Ragazzo’, difatti, è lemma piuttosto raro in Leopardi; ricorre però, con un’accezione nient’affatto positiva, in un luogo cruciale. Mi riferisco al Dialogo di Tristano e di un amico, dove l’alter ego di Giacomo – tanto diverso dall’ingenuo ragazzo di Recanati – conclude che il suo è un «secolo di ragazzi», che «vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie»4. È anche per questo, osservava poco sopra Tristano, che il «secolo decimonono» ha prodotto un’«immensa bibliografia» composta tutta da libri che «si scrivono in minor tempo che ne bisogna a leggerli»: è facile prevedere, allora, che su di essa il «secolo venturo farà un bellissimo frego»5. Per giunta, in questa ipertrofia di testi Tristano legge una riprova dell’impossibilità di giungere ai posteri, secondo un motivo forte già nel Parini: «l’uso che oggi si fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti scritti degnissimi di memoria […] dall’immenso fiume 2  3  4  5 

fd, Un ragazzo di Recanati, pp. 161-162. Ivi, p. 162. om, Dialogo di Tristano e di un amico, p. 217. Ibid.

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4. giovanni giudici. il leopardismo del bricoleur

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dei libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono senz’altra cagione»6. Ebbene, ammesso pure – senza voler essere troppo maliziosi – che Giudici non ironizzi sullo status di ‘ragazzo’, è perlomeno curioso che la lettera di Frau Doktor si apra sui temi dell’immensa «bibliografia» e della posterità, condivisi con lo stesso brano del Tristano. Quanto al primo tema, va detto che stavolta non si tratta di una generica «bibliografia», ma proprio di quella su Leopardi, un fiume in continua crescita negli ultimi centocinquant’anni: «Signor conte Giacomo Leopardi» – così esordisce il «dev.mo Giovanni Giudici» – «poi che scrivere a Lei è ormai da centocinquanta anni impresa assai più improbabile che lo scrivere (come molti hanno fatto e continuano a fare) su di Lei, ho molto esitato prima di accingermi a questo passo»7. Rotti gli indugi e lasciate alle spalle le esitazioni, è quindi tempo di passare alla captatio benevolentiae, che guarda caso è altrettanto improbabile e ironica, giacché finisce per mettere in luce, più che altro, una sostanziale divergenza di pensiero (niente meno che sull’«anima»): Scrivere a quel che di Lei è cancellato per sempre da questa Terra, alle Sue povere disperse ossa, all’introvato cranio che albergò l’intrico dei suoi nervi e le cui vacue orbite non avrebbero comunque più lume alcuno degli occhi per queste mie righe, sarebbe invero una perfetta vanità e tale, ne sono certo, Lei stesso giudicherebbe se vivo. E non dico questo per assecondare quelle idee di un radicale materialismo che sarebbero state da Lei professate e Le vengono con ufficiale sicurezza attribuite, sulla scorta di esse escludendosi in modo assoluto la persistenza di un alcunché di Lei medesimo chiamato «anima»; lo dico perché, non del tutto disposto a condividere quel Suo scetticismo, sarei in ogni caso abbastanza certo che (laddove una tale Sua «anima» davvero persistesse) le mie proposizioni risulterebbero a essa del tutto estranee, del tutto incongrue, sia rimanendo consegnate ai segni sulla pagina, sia pronunziate a suoni8.

C’è accordo, dunque, nel considerare «una perfetta vanità» scrivere a un corpo morto, ma davvero non è questa materia di grandi discussioni. Scontata e al contempo assurda, la premessa serve insomma a dare il la alla protesta dell’autore, non disposto ad acco6  7  8 

om, Il Parini, ovvero della gloria, p. 97. fd, Un ragazzo di Recanati, p. 157. Ibid.

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gliere il «radicale materialismo» e lo «scetticismo leopardiano», sul quale hanno insistito con tanta «sicurezza» gli interpreti (ma chissà se hanno colto nel segno, sembra di intuire tra le righe). In ogni caso, altri particolari ci dicono di una certa ambiguità mista a un gusto macabro: su tutti, l’«introvato cranio» albergo di nervi intricati e le «vacue orbite» senza lume. Una cosa però Giudici riconosce al destinatario della lettera: la sua indiscutibile posterità, quella stessa alla quale non credeva più, ridendosene, Tristano. Ed eccoci al secondo punto di contatto con l’operetta: E a chi o a cosa posso scrivere, dunque, volendo tuttavia in qualche modo scrivere a Lei, se non a un mucchietto di parole stampate in libri o vaganti nelle nostre (col passar degli anni) sempre più labili memorie; parole davanti alle quali ci fu quasi imposto nei lontani anni di scuola di andare come in estasi, peraltro senza troppa convinzione, trattandosi a quel tempo di accettare per buone estasi altrui piuttosto che di vivere estasi nostre proprie, nostre proprie illuminazioni, soltanto in seguito (e talvolta in modo del tutto accidentale) sperimentate?9

Vi è anche qui un gioco di luci e ombre: l’opera di Leopardi – anzi, il «mucchietto» delle sue parole – vaga sì nella memoria ma, almeno a prima vista, in modo ormai sbiadito (si badi però che poco dopo si parla di una presenza nitidissima); l’«estasi» della lettura10, poi, è imposta e tutt’altro che spontanea. È pur vero, tuttavia, che in quel «mucchietto» di parole scampate all’«immane abisso» della morte e dell’oblio il poeta scorge l’«anima» di Giacomo: Ma la sua “anima”, Signor conte Leopardi, non sarà proprio quel mucchietto di parole che, a differenza delle parole parlate o scritte da altri milioni o miliardi di altri nostri simili, Esseri già vivi e poi inghiottiti nell’immane abisso del non-essere-più, persistono come ceneri che il vento non osa disperdere?11

9 

Ivi, pp. 157-158. L’immagine è anche leopardiana. Cfr. in particolare la dedica del Saggio sopra gli errori popolari ad Andrea Mustoxidi: «Io vo in estasi quando leggo gli scritti dei vostri cari Greci, e, ardisco dirlo, non cedo che a voi nel vivo trasporto per quegl’incantati alberghi delle muse, degnissime di essere dispregiati da chi non può conoscerli» (Giacomo Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di Giovanni Battista Bronzini, Edizioni Osanna, Venosa 1997, p. 58). Corsivi miei. 11  fd, Un ragazzo di Recanati, p. 158. 10 

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Se c’è un luogo della lettera in cui Giudici strizza davvero l’occhio a Leopardi, è questo. L’immagine delle «ceneri che il vento non osa disperdere», infatti, sembra proprio alludere, ammiccando, a un famoso passo di una lettera a Brighenti (oltre che della dedicatoria Agli amici suoi di Toscana)12:

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Il mondo è fatto così, e non come ce lo dipingevano a noi poveri fanciulli. Io sto qui, deriso, sputacchiato preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza, in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. E tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finchè non potrà spargermi per la campagna, e divertirsi a far volare la mia cenere in aria13.

Ma appena fatto un passo verso il «conte», Giudici (che poco sotto si diverte a pescare dall’Epistolario più licenzioso)14 si affretta subito a farne due indietro. A macchiare l’omaggio sono le battute immediatamente successive, che spostano l’accento dalle «parole» e dal pensiero del poeta al suo «corpo» e alla sua «individuale», «privata sofferenza» (visione, questa, contro la quale si scagliò lo stesso Giacomo)15: Quelle parole, quel mucchietto di ceneri, non furono la Sua vita e il suo corpo misteriosamente in esse transustanziati al prezzo, per Lei non lieve, della Sua individuale e privata sofferenza? Della Sua inappagata voglia d’amore? Del Suo inquieto cercare un Altrove che fosse al tempo stesso una Patria? Della sua sgradevolezza fisica? Della sua (devo supporre) difficile frequentabilità? […] A prezzo, voglio dire, di quella somma di patimenti ai quali Ella nutrì la Sua breve vita16.

12  Cfr. Leopardi, Poesie cit., p. 153: «L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere». 13  e, a Pietro Brighenti, Recanati 22 giugno 1821, p. 512. Corsivi miei. 14  Sono citati i giudizi malevoli «su quella puttana della Malvezzi» e i commenti schietti sulle donne romane, che «non la danno» (cfr. fd, Un ragazzo di Recanati, p. 158). Del resto, linguisticamente disinibita era anche la lettera al Brighenti, seppur con la mediazione ‘alta’ di Dante: «e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terraqueo. Il mondo è fatto a rovescio come quei dannati di Dante che avevano il culo dinanzi e il petto di dietro; e le lagrime strisciavano giù per lo fesso» (e, a Pietro Brighenti, Recanati 22 giugno 1821, p. 513). 15  Difficilmente sarà sfuggito a Giudici, lettore non solo dei Canti, ma anche dello Zibaldone e dell’Epistolario. Superfluo riportare, a riguardo, la citatissima lettera al De Sinner del 24 maggio 1832. 16  fd, Un ragazzo di Recanati, p. 158.

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È così che la lettera continua con una serie di fantasticherie sulla «persona» di Leopardi, perlopiù incentrate sui fastidi e sulle disavventure che ferirono l’«orgoglio» del poeta fuori da Recanti: il ricorso agli «anonimi e striminziti sussidî da parte degli “amici di Toscana”»; il «freddo» di Bologna (e il rapporto con la Malvezzi); i tentativi falliti di trovare un incarico a Roma, con il rischio «di trovarsi avviluppato nel violetto di una tonaca canonicale se non addirittura in porpora cardinalizia»; la presunta ostilità dei letterati e del popolo napoletano, pronto a dileggiarlo «come o’ranavuottolo» in quei caffè descritti con sarcasmo nella Palinodia (citata ai vv. 13-20)17. Ora, non importa indugiare sugli altri pettegolezzi che Giudici riporta attingendo soprattutto dalle testimonianze di Ranieri (oggetto comunque di un’attenta lettura). Piuttosto, sottolineerei che la rassegna delle città di Leopardi lascia fuori, un po’ a sorpresa, Recanati: Più difficile, e direi quasi impossibile, mi riesce però pensarLa nel luogo che più d’ogni altro dovrebbe essere (ed è) legato al Suo nome. Dico Recanati, dove non ho mancato di salire un pomeriggio di due o tre anni fa trovandomi da quelle parti; e di visitare il bel palazzetto della Sua famiglia, rivolgendo poco più che una distratta occhiata alla maledetta biblioteca che per il Suo starvi troppo a lungo chino su quei libri Le contorse bizzarramente e crudelmente il fil della schiena, la prua del petto…18

Il registro è sminuente: è solo per caso, passando di lì per altre ragioni, che il poeta ha visitato il «palazzetto» della famiglia Leopardi, e ha rivolto giusto «una distratta occhiata» alla «maledetta biblioteca». Eppure, con un altro rivolgimento, il disinteresse qui esibito è subito accantonato, tanto che viene più di un dubbio sulla sua autenticità. Dopo la descrizione del «pomeriggio» recanatese, infatti, in tutt’altri termini Giudici si sofferma sull’incidenza dei Canti nella sua poesia e nella sua non più «labile» «memoria»: servì, tanto dannato studio, a costruire giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, quel castello di disincanto e disperazione dalle cui tetre mura avrebbero spiccato però il volo gli aerei stormi di certe Sue parole che su e giù per i cieli della memoria continuamente mi s’incrociano nette, taglienti, irripetibili da chiunque non sia più Lei… Lei, sì, prigioniero in vetta a quel poggio, del quale è 17  18 

Ivi, p. 159. Ivi, pp. 159-160.

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propaggine (e modesta cosa, in realtà) l’“ermo colle” reso da Lei sublime, ma dal quale la vista spazia su un’immensità marina che superbamente contrasta con la meschina angustia quotidiana19.

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È il mare, secondo il poeta, la «vera Musa» di Leopardi, «lo specchio dell’infinito al quale anelava» il «prigioniero» di Recanati, come gli sembra di leggere nelle Ricordanze, citate per esteso ai vv. 1424. A questo primo spunto critico seguono inoltre altre due allusioni meno scontate, entrambe tratte dallo Zibaldone: la prima all’arte del ‘computare’, la seconda alla potenza di quella «naturalezza» così cara all’estetica leopardiana (e sulla quale torneremo presto): Lei proferiva la pura, assoluta parola della Sua “anima”, Signor conte! Lei era in Recanati ma non di Recanati, così come altri prima di Lei erano stati nel mondo ma non del mondo, e da questo veniva la verità della Sua voce quasi da sé compitante (ma non “computante”) le sue proprie parole e sillabe, i suoi accenti, la sua potente naturalità20.

Del resto, le osservazioni leopardiane sul computare devono aver ispirato anche la poesia A un computer, pubblicata in «Telèma» nella primavera del 1999 ma composta più di dieci anni prima, tra il 1987 e il 1988 (dunque a ridosso di Un ragazzo di Recanati). Non è un caso che la lirica si apra con un’epigrafe zibaldoniana, alla quale in un secondo momento è affiancato il v. 149 della canzone al Mai (riportato senza la virgola dopo il primo emistichio): In computisteria si decidono le sorti del mondo. G. Leopardi Se più de’ carmi il computar s’ascolta… G. Leopardi Tutto rùmini di tutti E ancora sputti e inputti Per digitati tasti ai tremolii D’un nulla di tivù Che d’uno schermo ai verdi zufolìi 19  20 

Ivi, p. 160. Ivi, p. 161.

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Iberna fasti e guasti Placido al nostro non poterne più: Di te, pèste e diabolica Macchinazione elettronica!

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Fatuo monatto – e a me Vorresti dimostrare Che meglio stia chi sa più presto E più si bea chi va più lesto?… Che essenza del reale Sia più del computato il computare? Ahi vacanza del pensiero, Ronzìo tuo labilissimo Mondo senza mistero!21

Al di là del doppio esergo e del suggerimento tematico che contiene, si sarà notato che ben poco di davvero leopardiano resta in questa poesia. Se forse gli interrogativi ai vv. 11-15 dialogano con il pensiero dello Zibaldone, è soprattutto il lessico adoperato, ricco di anglismi e neologismi informatici, a portarci lontani da Leopardi. Fatta eccezione di «computar», trovano infatti riscontro nei Canti solo i lemmi «nulla» (ma qui si tratta di un nulla molto diverso: un «nulla di tivù»), «placido» e «mistero». Eppure, è proprio sul piano lessicale che si consuma l’ultimo – autentico ma un po’ a denti stretti – omaggio di Frau Doktor al poeta dei Canti, situato appena prima della rievocazione dell’episodio bolognese dal quale siamo partiti: Ci sono parole tutte Sue che, pur in tutta umiltà, oso invidiarLe: il verbo rimembrare, per esempio; il potersi rivolgere ad altra creatura con appellativi come dolcezza mia o eterno / sospiro mio senza cadere nel sentimentalismo; aggettivi come vaghe o acerba; e, ancora, il verbo immaginar, e quella giovanezza che, a differenza della banale “giovinezza”, dura di Lei perenne fin che duri la Lingua della quale Lei e molti altri e io stesso fummo ministri e servi22.

Curiosamente, il piccolo lemmario estratto dai Canti si chiude però con una parola, «giovanezza», che non era stata solo di Leo21  22 

sos, A un computer, p. 1234. La citazione zibaldoniana è tratta da z 1006. fd, Un ragazzo di Recanati, p. 161. Corsivi dell’autore.

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pardi, ma anche – lo sappiamo già23 – di uno dei maestri di Giudici: Umberto Saba24.

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4.2. Gestione ironica, bricolage, naturalezza D’altra parte, in che modo Giudici intendesse servirsi non solo della poesia di Leopardi, ma più in generale della tradizione lirica era detto a chiare lettere già nella Gestione ironica, un importante scritto in prosa apparso per la prima volta nei «Quaderni piacentini» del 196425. Ad essere messo in discussione è lì lo strumento stesso del «fare poetico», vale a dire la «lingua letteraria», la quale si rivelerebbe ormai arretrata rispetto al suo «oggetto»: la «realtà», che pure «esige nuove significazioni». È dunque alla radice del linguaggio che bisogna intervenire: di ciò lo scrittore di versi prende coscienza nell’attuarsi medesimo del suo progetto, quando, per così dire, si fa egli stesso rivendicatore della realtà, attra23 

A riguardo, cfr. il par. 7 del cap. 1. Giudici dedica qualche considerazione sull’influsso di Leopardi nella poesia sabiana in dnc, Saba: l’amore e il dolore, che fa del poeta triestino un campione della gestione ironica. Lì si sostiene infatti che per intendere la «lingua» di Saba non bisogna limitarsi agli «echi lessicali» o alle «clausole» che «rimandano a una memoria del Petrarca o del Leopardi»; piuttosto, serve «soffermarsi sulla fitta trama delle trasgressione e degli scarti […] rispetto a quei “logori” modelli» (dnc, Saba: l’amore e il dolore, p. 203). Segue inoltre un aneddoto dal quale emerge un giudizio di valore: irritato per la richiesta di una «prefazione per una nuova raccolta di versi», Saba fa sapere a Giudici che «“per principio” non fa prefazioni», salvo però un’unica, poco probabile eccezione: «Forse, se nascesse un nuovo Leopardi! Ma i Leopardi sono – come sai – rari» (ivi, p. 209). A ogni modo, sull’incontro poetico e umano tra Saba e Giudici rinvio a Simona Morando, «Il ritratto che qui vedete…». Su Giovanni Giudici e Umberto Saba, in Alberto Cadioli (a cura di), Metti in versi la vita. La figura e l’opera di Giovanni Giudici, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014, pp. 53-81 (in particolare, p. 77, che segnala l’«eco» del racconto Le polpette al pomodoro nella lettera immaginaria di Frau Doktor). 25  L’intervento è stato poi incluso in lvh, dalla quale si cita. Cronologicamente parlando, La gestione ironica non è però il primo testo della raccolta a menzionare Leopardi. Lo precede un articolo, edito nel 1960, sull’Esperienza del «Politecnico», celebre rivista di cui era appena uscita un’edizione antologica. Tuttavia, in questo caso Leopardi figura all’interno di un semplice elenco di nomi mirato a rievocare l’ampiezza dell’orizzonte culturale del periodico diretto da Vittorini: «Dewey», «Hemingway», «Brecht», «Eliot», «Pasternak» e persino autori cinesi da un lato; «marxismo», «economia», «Montecatini», «Fiat», «senzatetto», «cinema», «Russia», «carovita», «Leopardi» e «Dante» dall’altro (lvh, L’esperienza del «Politecnico, pp. 220-221). 24 

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verso un’invenzione linguistica per molti aspetti simile al bricolage, arricchendo e integrando la convenzione linguistico-letteraria prevalente di elementi e usi lessicali e sintattici attinti a zone diverse e assumendoli al livello della letterarietà26.

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Oltre che sul linguaggio, il poeta-bricoleur può tuttavia lavorare anche su altre «forme istituzionali», come ad esempio la metrica e la sintassi. Ma in che modo? Sminuzzando, mescolando, o meglio ancora rovesciando le carte: può benissimo darsi che, nel prendere atto dell’arretratezza della forma istituzionale linguistica o metrico-prosodica rispetto alla realtà del suo proprio fare, lo scrittore di versi […] può esser portato dal suo progetto ad esercitare l’atto innovatore in altra direzione, rovesciandolo: a innovare cioè non la forma istituzionale, ma il suo proprio atteggiamento nei riguardi della medesima, attribuendogli un ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir menzognero, ossia ironico, equivalente insomma a una sospensione o negazione di riconoscimento27.

Più che ammodernare la forma istituzionale, perciò, si tratta di renderla ancora più arretrata, «assumendola addirittura ai suoi gradi più arcaici», facendo di essa «risibile liturgia» e «logoro supporto, a cui sia demandata la funzione di un conduttore elettrico di minima resistenza»28. In tal senso, Giudici non ha difficoltà a indicare un illustre precursore. Chi? Proprio Leopardi: «la povertà lessicale e metrico-prosodica di taluni grandi poeti può essere un esempio abbastanza illustrativo», ed «è perfino ovvio citare il pseudo-petrarchismo di Giacomo Leopardi»29. Non so quanto sia davvero «ovvio citare» l’esempio leopardiano, almeno per quanto riguarda l’aspetto, per dir così, volutamente corrosivo. Certo è, mi pare, che le immagini del «conduttore elettrico di minima resistenza» o dei «fili logori» – meno quella della «risibile liturgia» – si possono applicare persino alla zona dei Canti che più verrebbe da associare alla tradizione (e a Petrarca): le Canzoni, sulla cui stravaganza non a caso aveva insistito Giacomo stesso nel suo se-

26  27  28  29 

lvh, La gestione ironica, p. 212. Corsivi dell’autore. Ivi, p. 213. Ibid. Ivi, p. 214.

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rissimo quanto ironico Preambolo alle Annotazioni30. A ogni modo, poco importa se tale rinvio sia ovvio o no; esso rimane tra i più illuminanti (nonché tra i più confermati sul piano poetico), poiché non solo ci dice di una lettura personale, ma lascia anche presagire come Leopardi debba essere a sua volta oggetto della «gestione ironica» da parte del poeta novecentesco. Vedremo nei paragrafi successivi come Giudici ‘gestisca ironicamente’ Leopardi, intervenendo, lo si intuisce, non solo e non tanto sugli aspetti metrico-prosodici, quanto piuttosto su topoi, stilemi o anche singoli lemmi. Del resto, è sul linguaggio leopardiano e sulla naturalezza del dettato dei Canti che più è posto l’accento – ma senza ironia – negli altri scritti in prosa giudiciani. Ripercorriamoli brevemente, a partire dal saggio che dà il titolo alla seconda raccolta: La dama non cercata, un contributo edito nel volume di «Sigma» su «Grande stile» e poesia del Novecento, curato da Gian Luigi Beccaria31. È di nuovo da un «problema» di natura linguistica che Giudici prende le mosse: «come rinverdire la parola appassita, far nuovo ciò che è vecchio, render ciò che è svilito memorabile»32. Non vi sono, avverte l’autore, procedimenti sicuri che portino a una soluzione definitiva; epperò è indispensabile recuperare la naturalezza e l’«innocenza» dell’espressione. Così, la ricerca dello stile alto è interpretata come un processo di riconquista della «naturalità», o meglio ancora come un tentativo di pervenire «a quella naturalezza dell’innaturale che è fra i privilegi della grande poesia»33. Ebbene, come nella Gestione ironica anche qui l’esempio è dato da Leopardi. Sappiamo quanto il tema della faticosa riconquista della naturalezza sia uno dei nuclei principali della riflessione zibaldoniana sulla poesia: altrettanto bene mostra di saperlo Giudici. Difatti, è al diario di Leopardi che egli ricorre ogniqualvolta debba mettersi al riparto da certi «vizi» o «peccati» di artificiosità, che distruggono ogni «poema»34: 30  Cfr. il Preambolo alla ristampa delle Annotazioni, in «Il Nuovo Ricoglitore», i, parte ii, Milano, 1825, p. 659. 31  Cfr. «Sigma», xvi, 2-3, 1983. 32  dnc, La dama non cercata, p. 38. 33  Ivi, p. 39. 34  ‘Poema’ è utilizzato qui nell’accezione di ‘poesia’, ‘componimento in versi’, secondo la prassi più volte giustificata e ribadita dall’autore.

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difficilmente […] si potrà ignorare quel vizio d’origine di ogni sperimentalismo che è l’eccesso di “intenzionalità”, antitesi dell’“innocenza” e premessa di quasi inevitabile fallimento nella costruzione del poema […]. Forse sconfino qui in una piccola teologia affermando che l’eccesso di “intenzionalità” è uno di quei peccati contro lo spirito che, secondo il Vangelo, non potranno essere perdonati. E a questo punto non potrò non citare un Leopardi (Zibaldone di pensieri [225], 25 agosto 1820), al quale continuamente ritorno per confrontarmi e restare in guardia35.

Il pensiero dello Zibaldone, di cui è citato un lungo estratto36, serve insomma a scongiurare il pericolo di un’eccesiva «manipolazione delle parole o (se si preferisce) dei cosiddetti significanti»37: pratica assai inefficace, tanto più che in poesia – e anche ciò Giudici confessa di averlo appreso da Leopardi – la «primauté» è dell’«occasione», ovvero di fattori e di stimoli esterni «di per sé non necessariamente poetici», ma imprescindibili per la «genesi della scrittura»38. Tre anni dopo, qualcosa di simile è ribadito nell’autocommento di La vita in versi39, laddove il poeta rievoca il preciso momento in cui ha avvertito di aver finalmente scoperto il suo «proprio linguaggio». In che modo? Assecondando una «sotterranea vocazione “ottocentesca”», obbedendo ad essa «inconsciamente», nella consapevolezza però «di dover cercare la poesia attraverso quello che viveva, attraverso i materiali apparentemente meno poetici». Ecco allora che torna di nuovo utile citare un passo zibaldoniano (nel dettaglio, z 29: «uno che per far versi si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare»): il «cosiddetto poetico» – gli fa eco Giudici – «non nutre infatti la poesia: uno che voglia ingrassare (come diceva il Leopardi) non è che debba mangiare soltanto grassi; uno 35 

dnc, La dama non cercata, p. 40. Si tratta di un brano contro l’eccesso di affettazione didascalica da parte del poeta, il quale, al contrario, deve «mostrare» di «non capire l’effetto che dovranno produrre in chi legge, le sue immagini, descrizioni, affetti ec.». Niente di più distante, dunque, dall’«uso moderno» (alla Byron) di «tramezzare tutta la scrittura o poesia di segnetti e lineette, e punti ammirativi doppi, tripli ec.» (z 225-226, 25 agosto 1820). Per l’intera citazione, cfr. dnc, La dama non cercata, p. 41. 37  Ibid. 38  Ibid. 39  Cfr. Giovanni Giudici, La vita in versi, in Colloquio francese italiano. «Io parlo di un certo mio libro» (Roma, 13-15 dicembre 1985), supplemento letterario 6 di «alfabeta», 84, 1986, pp. ix-x. 36 

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che voglia fare poesia non è detto che debba leggere soltanto poesie. Certe letture anche extraletterarie diventano come provocazione di un mondo “altro”»40. Sembra proprio, insomma, che la funzione assunta da Leopardi cambi sensibilmente in relazione ai contesti: se il poeta dei Canti può essere oggetto di parodia e di polemica negli scritti d’invenzione (della poesia diremo, ma si è visto già il caso di Un ragazzo di Recanati), al contrario nei testi teorici Giudici fa leva su una certa continuità tra il proprio «fare poetico» e quello di Leopardi, dal quale trae una serie di «indicazioni» che valgono, se non proprio come regole, almeno come moniti personali. D’altronde, così è anche in un altro contributo dal titolo eloquente: Come una poesia si costruisce (1984), dove torna il solito ammonimento di z 225-226 e L’infinito, insieme al canto xiv del Paradiso, è citato come esempio di lirica che prescinde dalla comprensione logica e affida piuttosto il suo messaggio all’intelligenza emotiva41. Pertanto, Leopardi si riconferma come modello a cui guardare per tenersi alla larga – anche come lettori – dal freddo e sterile intellettualismo42. Né cambia lo scenario nella raccolta successiva, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia (1992); lì è sempre L’infinito ad essere indicato come la lirica più adatta sia «a spiegare nel modo più semplice quel che deva [sic] intendersi per “lingua poetica”»43 sia a dirci come non leggere (nel senso di declamare, ma anche di interiorizzare) i versi: Non sarà mai deplorato a sufficienza un certo modo di declamare i versi, dove il declamante tende a evidenziare più che altro se stesso, ascoltando e accarezzando la propria voce e persino il proprio gestire, rozzamente incurante di quel che è il testo […]. Una delle grossolanità più comuni […] è il non tenere conto degli enjambement. […] Lo sciagurato dicitore, quasi preoccupato dell’apparente “insensatezza” della frattura, tende a ricomporla, a colmarla: come se, invece di una poesia, stesse leggendo le istruzioni per l’uso di un frullatore. Mentre in “sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella…”, 40 

Ivi, p. x (ma si veda anche vdv, p. 1639). Cfr. dnc, Come una poesia si costruisce, p. 60. 42  Non a caso Giacomo è citato in un vivace passo di Semiologi e no (1983), che lamenta come certi critici di professione, presi dalla febbre strutturalista di costruire schemi e sistemi, finiscano «rendere indifferente l’oggetto dell’indagine stessa»: che appunto sia «Leopardi» o «Diabolik» poco importa, «va bene purché si presti all’analisi strutturale» (dnc, Semiologi e no, p. 127). 43  acp, L’infinito, p. 33. 41 

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non poco del fascino sta esattamente nella sospensione a cui la voce è indotta alla fine del verso: quegli interminati davvero si spalancano sull’infinito44.

Non stupirà, allora, che anche nell’ultimo libro del Giudici esegeta, Per forza e per amore (1996), Leopardi rimanga in scena, pur non comparendo più come attore protagonista. Fuor di metafora, rimane la presenza dei Canti – come libro fisico e come modello – ma in riferimento ad altri autori: Zanzotto, Palazzeschi e Jahier. Per il primo, è in gioco il concetto di «idillio», che in Vocativo (1957) da «semplice riflessione di un mondo» si fa «(leopardianamente) riflessione sul mondo»45. Più aneddotiche, e soprattutto attribuite a terzi, sono invece le altre due restanti menzioni: nel 1963, ricorda Giudici, Palazzeschi lo invitava a non preoccuparsi «della quantità, del numero delle poesie che scrive» e lo esortava a guardare quindi a «Leopardi: trentanove poesie in tutto!»46. Lo schermo tra i due poeti, infine, si fa ancora più netto nel caso di Jahier: nel protagonista del suo romanzo autobiografico, Ragazzo, si era rispecchiato in passato Giudici, e come lui aveva scoperto l’«arte di far baratto» della sua «“bravura”, commerciando in temi svolti per potersi comprare col ricavato “l’Astronomia popolare di Flammarion, o I Canti di Giacomo Leopardi commentati dal prof. Filippo Sesler”»47. 4.3. Un cavaliere-cantore Teoria e prassi, in Giudici, corrispondono con estrema coerenza. Non sarà difficile verificare, ad esempio, come il gesto del poeta-bricoleur – che arricchisce, integra e rovescia le convenzioni linguisticoletterarie – sia ripetuto, seppur con le dovute gradazioni, dalla prima all’ultima raccolta poetica. Per ovvi motivi, adotteremo qui una spècola solo leopardiana, ma se volessimo metterci sulle tracce di altri autori otterremmo probabilmente risultati non tanto dissimili. Iniziamo dunque con il porre attenzione alla lingua e agli aspetti metrico-prosodici, come suggeriscono le prose giudiciane. Un buon punto di partenza può 44  45  46  47 

acp, Tynjanov, pp. 32-33. Corsivi dell’autore. pfpa, In questa lingua che passerà, p. 151. Corsivi dell’autore. pfpa, Amarcord di Milano, p. 184. pfpa, Un libro da cento lire, p. 201.

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4. giovanni giudici. il leopardismo del bricoleur

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essere Salutz (1984-1986), un libro metalinguistico e metaletterario costruito tuttavia su un universo trobadorico-provenzale che sembrerebbe quanto di più distante da Leopardi. È Giudici stesso, però, ad invitarci a non prendere troppo alla lettera lo sfondo medievale:

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sto lavorando a una sequenza poetica più o meno ironicamente ricalcata sui modi della poesia trobadorica provenzale e del Minnesang germanico. L’io di queste poesie è una specie di cantore-cavaliere che viaggia un po’ in tutti i tempi (pare che abbia persino preso parte, lui che parla come un poeta del xii o xiii secolo, alla battaglia della Montagna Bianca, presso Praga, che ebbe luogo nel 1620!) e attinge a materiali di varie culture (“cavalca” per esempio “una tigre!”)48.

Se questo cavaliere-cantore49 viaggia avanti e indietro nel tempo e attinge un po’ dove vuole, nulla gli vieta di prendere in prestito la voce di autori ottocenteschi, ad esempio Flaubert, Tolstoj e per l’appunto Leopardi. Così è, di fatto, nella sesta poesia della sesta sezione: Insania mia più vostra Midons donde io tremo Cinema e giostra: Voi fioco grido arreso al sovrassalto Di nequitoso treno – O sfatta spoglia giù Capofitta le chiome da uno spalto: Traccia di rena per disperso lume Ninfea di veli a funebri canali – O pur trafitta il seno In fredde piume e labbri di veleno: Per mio castigo reo di vostri mali Alluminate in voi Morti cresco mortali50 48 

dnc, «Viola e durlindana»: riflessioni sulla lingua, pp. 158-159. Corsivi dell’autore. È chiaro che si tratta di un travestimento, esplicitato in acp, Bricoler, Bricoleur, Bricolage, p. 28: «Benché non possa dirmi ignorante, non sono nemmeno particolarmente colto; e si sbaglia a collegare, per esempio, un libro come Salutz a una mia frequentazione della poesia trobadorica o del Minnesang, quando la semplice verità è che ebbi allora, nello scriverlo, bisogno di un travestimento che mi aiutasse ad aggirare l’inibizione connessa ad esperienze dolorose. Senza premeditazione alcuna e per puro istinto, mi trovai avvolto in quegli esibiti e illusori panni di scena». 50  s, vi.6, p. 722. Corsivi miei. 49 

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l’onda trascorrente

La rima mali : mortali, posta nella chiusa, può ricalcare la famosa serie che suggella (al singolare) le strofe di un altro ‘cantore’ errante, il pastore del Canto notturno (in particolare, nella seconda, terza e quarta strofa: tale : mortale; tale : mortale : cale; frale : male). Ma c’è di più. Come segnala Zucco51, nel trattare il tema del suicidio femminile l’io lirico allude sì alla morte di Anna Karenina52 («Voi fioco grido arreso al sovrassalto / Di nequitoso treno»), ma sceglie anche un aggettivo («nequitoso») utilizzato da Leopardi. Non si tratta, beninteso, di una parola tutta leopardiana come quelle di Un ragazzo di Recanati. Il contesto, tuttavia, è determinante. In Leopardi ‘nequitoso’ conta infatti solo quattro occorrenze: una in prosa (se così si possono definire gli Esercizi di memoria) e tre in poesia (nel Saggio di traduzione dell’Odissea del 1816 e nelle canzoni rifiutate del 1819). È di queste ultime, verosimilmente, che Giudici deve essersi ricordato, giacché dicono anch’esse di altre morti femminili, innocenti e violente, ma subìte per mano del caso (nella prima: «Fra nequitosa gente, / Qual se’ discesa, tale a la partita, / Cara, o cara beltà, mori innocente»)53 o per mano altrui (nella seconda: «Ma molto più che misera lasciasti / E nequitosa vita / Pensando ti conforta»)54. Epperò, al contrario delle fanciulle leopardiane, la figura femminile di Salutz non è affatto una vittima; piuttosto, è una carnefice, per giunta identificata con la morte stessa: «Eravate la Morte vi ho scoperta / Che mi fate tremare»55. O meglio, e a voler essere più precisi, Midons è una vittima solo fantasticata. Di lei il cavaliere immagina di vendicarsi assassinandola con un «pugnale» (strumento che diede la morte a Marat, non così diverso però dai «ferri atroci» e dall’«acciaro» della seconda canzone rifiutata): Però colpo ferale Preciso inaspettato Come Marat nel bagno assassinato 51 

Cfr. vdv, p. 1615. Sempre secondo Zucco (vdv, p. 1616) i vv. 10-11 potrebbero contenere invece un’allusione a Didone e a Emma Bovary. 53  Leopardi, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, vv. 149-151, in Id., Poesie cit., p. 389. Corsivi miei. 54  Leopardi, Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, vv. 105-107, in Id., Poesie cit., p. 393. Corsivi miei. 55  s, v.1, vv. 1-2, p. 705. 52 

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Non sia per voi mio semplice pugnale Midons – […] Per sfregio per fendente di plebaglia E cruda voi remota madrefiglia: Vi scelgo – mia fatale Orfanità56

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Ma i prestiti lessicali e rimici da Leopardi sono attestati sin dalla prima sezione di Salutz. Si prenda ad esempio il testo che la conclude: Midons – palla-al-piede Che mi trattiene indietro Mentre vecchiezza e non futuro impètro – Tacito reo adisco Al soglio vostro e mi prosterno Sepolto nella neve d’un segreto Quanto scavai quanto scavai nel tetro Buio budello eterno A districare spaghi rappezzando Miei stracci di ricordo ragno e talpa – Di quando fui in battaglia fui in torneo Per voi giostrai perduto a Bílá hora Invincibile amore di trofeo – Per me voi foste salva57

Senza voler insistere sulla traccia animale (il paragone con il «costume» del ragno e della talpa), vistosa è nell’incipit la citazione-correzione dal finale del Passero solitario, riecheggiato anche attraverso la rima impetro : indietro: Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia

56  57 

s, v.5, vv. 1-5; 11-14, p. 709. Si noti anche qui la rima in -ale. Corsivi miei. s, i.9, p. 665. Corsivi miei.

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l’onda trascorrente

Evitar non impetro […] Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro58.

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Del resto, il bricolage poetico continua anche nella seconda sezione di Salutz, che intreccia topoi medievali (la donna come stella polare della navigatio amorosa) e scenari o sintagmi leopardiani: Dolcezza di parole Di lei soltanto vivremo – Non io che a pronunziarle adesso temo La correzione vostra sospettosa – E navigo nel buio cielo-e-mare All’incerto approdare Dove il parlare mio sarà una cosa: Al voi di un’altra voi Se mai stella polare Non m’appariste tremula e nebbiosa – Lassù di cinque volte prolungando Il lato posteriore Del Carro che a tutti è visibile Chiamato l’Orsa Maggiore59

Ebbene, la situazione descritta – l’angoscia, lo sguardo rivolto al cielo – ricorda piuttosto da vicino, anche nel lessico, un incipit dei Canti, che similmente descrive l’apparizione («m’appariste») di un astro notturno (non la stella polare né l’Orsa60, ma la luna), tremulo e nebbioso alle «luci» del poeta: O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti; E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto

58 

c, Il passero solitario, vv. 45-52, 58-59. Corsivi miei. s, ii.9, p. 677. Corsivi miei. 60  L’Orsa è richiamata invece in c, Le ricordanze, v. 1: «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea». 59 

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Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia61.

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4.4. La stazione di Pisa e un «commendatore» Nei Versi della vita di Giudici Salutz occupa una posizione più o meno intermedia, ma ugualmente significativo è il riuso di materiali leopardiani nelle raccolte precedenti o successive. È bene precisare, tuttavia, che la cronologia delle singole liriche non corrisponde sempre alla posizione occupata all’interno dell’edizione completa. Ad esempio Prove del teatro, che segue immediatamente Salutz, accoglie componimenti ben più datati, indietro fino al 1953. È con uno di essi, risalente al 1954, che possiamo continuare la campionatura degli echi dai Canti. Nella quarta lirica de La stazione di Pisa troviamo infatti, trasposta però in un contesto diverso e tutto moderno (quello, appunto, della stazione toscana), una delle formule leopardiane più note: «i moti del cor». Moti, si sa, che in Leopardi tornano a farsi sentire proprio a seguito di un Risorgimento pisano62: iv …Dello scatto segreto degli scambi solo un segno d’aria rimane tracciato nel buio andito delle pietre; sui binari guizzano neri animali, e l’inferno sopravviene del treno fragoroso. Per gli occhi dei vivi è restata dei segnali di fermo e di via libera una fuga di dischi rosso-verdi, 61  c, Alla luna, vv. 1-8. Secondo Zucco (vdv, p. 1661) l’influsso di Alla luna, v. 15 («Il rimembrar delle passate cose») è inoltre attivo in f, Memoria, I ciliegi, vv. 27-28: «Ginocchia appunta adesso se mai duri / Al rimembrar di lui l’ombra e la voce» (ma per il verbo ‘durare’ cfr. pure c, Alla luna, v. 16: «Ancor che triste, e che l’affanno duri»). Corsivi miei. 62  Si veda c, Il risorgimento, vv. 1-6: «Credei ch’al tutto fossero / In me, sul fior degli anni, / Mancati i dolci affanni / Della mia prima età: / I dolci affanni, i teneri / Moti del cor profondo» (ma cfr. anche c, Le ricordanze, vv. 172-173: «i tristi e cari / Moti del cor»). Corsivi miei.

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alterna luce lontana che più non illumina gli attimi dei cento scatti perduti degli scambi e cento moti del cuore, aurore impercettibili, ignote morti d’insetti e di uomini63.

Difficile dire se sia stata davvero Pisa a suscitare ricordi leopardiani64. Quello che è certo, a ogni modo, è che la stazione di Giudici non è affatto un luogo di rinascita; è, semmai, un luogo di «rinascita / quotidiana alla morte»65, di «binari morti»66 e di «quasimorti»67 o, per dirla con Leopardi, di «sepolcri ambulanti»68. Lo si evince già nella lirica citata qui sopra, che si apre con l’«inferno» e si chiude con la «morte», ma toglie ogni dubbio la settima e ultima poesia: Così vivo in Italia: e Pisa è un nome da regalare al mio ricordo, un segno della mia fuga verso il Regno, intento con cuore d’ansia se alcuno mi segua. Lo stridore dei denti non ha tregua nelle bocche dei morti qui sepolti in parvenze di vivi… Antichi volti che mi tacquero accanto, oh non cedete al martello implacabile del tedio sul ferro dei binari: resistete, con le mascelle serrate, all’assedio69.

63 

pt, La stazione di Pisa, iv, vv. 1-14, p. 758. Corsivi miei. Per inciso, anche la seconda poesia della raccolta riprende un lemma chiave del Risorgimento: «palpito». Più nel dettaglio, cfr. pt, La stazione di Pisa, ii, vv. 16-17, p. 756: «puro palpito, / non misura di tempo, era il mio cuore» e c, Il risorgimento, vv. 13, 85-87: «Mancàr gli usati palpiti»; «Moti soavi, immagini / Palpiti, error beato / Per sempre a voi negato». Corsivi miei. 65  pt, La stazione di Pisa, v, v. 26, p. 761. 66  pt, La stazione di Pisa, vi, v. 3, p. 762. 67  pt, La stazione di Pisa, iii, v. 12, p. 757. 68  Cfr. z 4149, 3 novembre 1825: «Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibiliss. che più non sente». 69  pt, La stazione di Pisa, vii, p. 764. Corsivi miei. 64 

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Eppure, la plaquette si conclude con l’invito a non cedere, a resistere cioè all’«assedio» del «tedio», con un binomio anch’esso dei Canti: «perché» – è questa l’ultima interrogativa del Canto notturno – «Me […] il tedio assale?»70. Più ironica e volutamente ‘stridente’ è invece un’altra esortazione dal sapore leopardiano, con la quale ci spostiamo al di qua di Salutz ma più avanti negli anni: al 197171, quando Giudici pubblica la sua Teoria della verità, poi inclusa, un anno dopo, in O beatrice. Eccone un estratto:

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io ti faccio ingiunzione di emergere o verità […] O mia di me ti supplico lièvita O estasi scarsamente credibile E cosa chiedi in cambio di te stessa o ombra? Cosa devo (voglio dire) per ottenermi mucchietto ai miei piedi? Compitare delle perfidie la lista? […] Orsù procombiamo ginocchioni davanti al commendatore per uno che amiamo pietà impetrando72.

Sarà una casualità, ma tornano qui le stesse immagini e lo stesso lessico di Un ragazzo di Recanati: prima l’«estasi» non «credibile», poi il «mucchietto» e infine il «compitare». Viene il sospetto, però, che dietro la casualità si celi qualcosa di profondo, se è vero che l’esortazione giudiciana non solo recupera il desueto ‘impetrare’ (che sappiamo già del Passero e di Salutz i.9), ma scherza anche con la profferta eroica – troppo eroica, secondo un noto detrattore – di All’Italia: «L’armi, qua 70  Cfr. c, Canto notturno, vv. 129-132: «Dimmi: perché giacendo / A bell’agio, ozioso, / S’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?». Corsivi miei. 71  La lirica appare in «Paragone», 258, agosto 1971. 72  ob, Teoria della verità, i, vv. 6-7, 13-19, 22-25, pp. 317-318. Corsivi miei.

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l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io»73. Certo, in Giudici la caduta è assai meno nobile (e più codarda): è una genuflessione, un’invocazione di pietà «davanti al commendatore», non più il crollo stremato ai piedi del nemico, dopo aver combattuto in solitudine.

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4.5. La «parte» e le «ore» migliori Nell’ampia opera poetica di Giudici non è raro però incontrare ancora più esibite citazioni dai Canti, spesso riletti in chiave ironica e proiettati in quel mondo piccolo-borghese in cui si muove l’«uomo impiegatizio»74 ritratto dal poeta ligure. Emblematica, a riguardo, è Se sia opportuno trasferirsi in campagna (1960), lirica della Vita in versi (1965) che culmina con una citazione quasi letterale da A Silvia, anticipata da altre consonanze, lessicali e non, con Il sabato del villaggio: […] Ti diverti anche tu nella festa cittadina, ma se una sera d’estate troppo calda l’afa della pianura ti stagna in cuore, t’affanna il respiro, ti fa meschina, per noi è facile andare in Brianza, una mezzora di macchina se è sgombra la via da chi torna, se la danza dei fari non è cominciata. E l’ombra è chiara, il giorno ancora non si perde, […] il sabato una visita in città e a primavera una festa in giardino per chi le abiterà nel lungo inverno75

73 

c, All’Italia, vv. 37-38. Corsivi miei. Riprendo qui la fortunata definizione zanzottiana, per la quale cfr. Andrea Zanzotto, L’uomo impiegatizio, «Corriere della Sera», 28 aprile 1977 (poi in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 1994, pp. 130-134). 75  vv, Se sia opportuno trasferirsi in campagna, vv. 16-25, 34-26, pp. 43-44. Corsivi miei. 74 

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Con il Sabato non è condiviso qui solo il tema della «festa», ma anche l’immagine della «danza»:

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Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera […]76.

La «danza», è chiaro, ha conosciuto in Giudici una mutazione vistosissima: è infatti quella, non più umana, generata dai fari delle automobili di «chi torna». Potrebbe sembrare troppo poco, se non fosse che in questo scenario comune s’innesta pure una più precisa ripresa testuale: «il giorno ancora non si perde» ricalca, spostando un po’ indietro l’asticella del tempo, il leopardiano «Incontro là dove si perde il giorno». Abbiamo già anticipato, però, che il dialogo con i Canti è reso esplicito soprattutto dal finale della poesia, dove l’io lirico – «un io imborghesito» che «coltiva fiori» nella «quiete della domenica»77 – cita da A Silvia: coltivo fiori, inchiodo legni, rispondo con lacrime a elette commozioni pubbliche – e sono là, così diverso, chiudo un cancello, sciolgo un cane guardia al piccolo mondo d’un disperso villino nella fitta schiera uguale dei simili, depreco il mondo avverso: «quello che sono è bene, il resto è male» penso nel coro – e un’altra libertà benedico, riposo domenicale. ……… Qui di me si perdeva la miglior parte, che maledice e spacca la noce tra i denti, 76  77 

c, Il sabato del villaggio, vv. 8-14. Corsivi miei. Natale, Citare, tradire cit., p. 257.

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e a quel minuscolo crac ancora prossima spera la fine di ormai remoti stenti78.

Con minimi aggiustamenti, Giudici trascrive dunque lo stesso verso di A Silvia («E di me si spendea la miglior parte») declamato dall’operaio della sereniana Una visita in fabbrica, anch’essa pubblicata nel 1965. Del resto, proprio come accade nel Sereni poeta e prosatore, anche la Vita in versi ospita una poesia, Le ore migliori (1962), in cui i calchi leopardiani – nuovamente dal Sabato – sono inseriti all’interno di un contesto neocapitalistico fatto di gesti ripetuti. Vediamola più da vicino. Ultima della raccolta, Le ore migliori è una lirica in tre sezioni, ognuna delle quali descrive i momenti della giornata di un impiegato e della moglie casalinga, tutti spesi – anzi, bruciati e persi – in vane speranze. Così infatti il mattino: Intanto passano le tue ore migliori, quando potresti parlarmi e sorridere. Tali bruciavano gli anni della gioventù nell’aspettare più sereni giorni: e tu riassetti, rigoverni, spolveri, sola (i figli sono a scuola) e aspetti che torni79.

Nell’attesa e nel rimpianto per la giovinezza perduta si chiude quindi la prima sezione. È forse troppo parlare di una fonte, eppure sembra spirare un’aura leopardiana, dalle Ricordanze ad esempio: «e intanto vola / Il caro tempo giovanil; più caro / Che la fama e l’allor, più che la pura / Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo / Senza un diletto, inutilmente, in questo / Soggiorno disumano, intra gli affanni, / O dell’arida vita unico fiore»80. Nient’affatto vago, invece, è l’influsso dei Canti nella seconda sezione: ii Dice decoro la tavola apparecchiata, possiamo avere tutto ciò che vogliamo: 78  79  80 

vv, Se sia opportuno trasferirsi in campagna, vv. 76-89, pp. 45-46. Corsivi miei. vv, Le ore migliori, i, vv. 19-24, p. 61. Corsivi miei. c, Le ricordanze, vv. 43-44, 46-49. Corsivi miei.

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all’opulenza mancano forse i fiori. Il buon cibo conforta dopo l’onesta fatica. Ma già si ammucchiano stoviglie mentre mangiamo troppo avidamente, per fare presto.

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E ricominci: i necessari rifiuti in un solo piatto raccogli, riempi il lavandino ove galleggiano sughi, affondano fili di pasta, bucce. Adempi la tua virtù necessaria, riordini ancora una volta la casa. Io ad altro lavoro attendo, al mio ufficio, sperando di fornir l’opra e non me, anzi che giunga la sera, per godermi la luce residua e, di me stesso padrone, qualche ora di avanzo. Ma non sarà quella la vita vera: sono queste ore migliori e non ci appartengono81.

Ecco qui un altro bricolage leopardiano: «E s’affretta, e s’adopra / Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba», leggiamo infatti nel Sabato del villaggio82. Con una differenza però: il motivo del «fornir l’opra», il portare a termine il proprio lavoro, è ora declinato in termini di alienazione e di annichilimento, del tutto estranei al «legnaiuol» dei Canti. È una dinamica, questa, narrata nella terza ed ultima sezione, dove tra l’altro, come nel Sabato, si dice a chiare lettere dell’illusorietà del «meglio a venire», che è un «barlume» momentaneo: iii Nessuno ci corre dietro. Ma tu macchinalmente solitaria persisti nel ritmo ordinario in cui ogni ora ha la sua norma […]. […] Bisogna dunque concludere tutto perché tutto ricominci, dopo un riposo affrante bestiole, 81  82 

vv, Le ore migliori, ii, vv. 25-42, p. 62. Corsivi miei. c, Il sabato del villaggio, vv. 36-37. Il rimando è segnalato da Zucco in vdv, p.

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col primo atto del domani: vivrà la vita per chi non ha tempo di vivere […]. Così finiscono le tue ore migliori,

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quando da un capo all’altro della città si chiudono i portoni dei casamenti: e in buie menti un comune pensiero apre un barlume del meglio a venire… Così non riconosci l’inganno di chi ci ha fatti a servire83.

A dire il vero, l’«inganno» era stato ‘riconosciuto’ diverse pagine prima. Più precisamente, in Una casa a Milano (1960), dove, guarda caso, tornano i topoi leopardiani del «mito» dell’infanzia, del ritorno alle «illusioni» e dell’attesa vana del dì festivo (il «sabato»): ii Cerco altrove, lontano dal mito popolare di un’infanzia che forse non fu vera, una casa che già mi sembra inutile tanto stanco mi sento in questa sera di sabato inseguita per il futile arrampicarsi dentro me dei giorni di lavoro, rinvii del giorno a cui sempre affidavo illusori ritorni di volontà per dire: questo fui, vivo nel mio secolo ma volto nel cuore ad altro, avanti, mio proposito di verità84.

Anche stavolta le riprese tematiche sono accompagnate da calchi metrico-sintattici. Si confronti il v. 23 («di volontà per dire: questo fui») con il v. 60 delle Ricordanze («Del passato, ancor tristo, e il 83 

vv, Le ore migliori, iii, vv. 49-52, 55-60, 66-72, pp. 62-63. vv, Una casa a Milano, ii, vv. 45-56, pp. 38-39. A eccezione di «questo» (v. 53), i corsivi sono miei. 84 

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dire: io fui»), posto per giunta a conclusione di un noto passaggio in cui Giacomo, ritornato «all’albergo ove abitò fanciullo»85, svela il suo inganno: […] Qui non è cosa Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per se; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui86.

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4.6. Setter, crinali, socchiuse imposte Nello sfogliare la Vita in versi, subito dopo Le ore migliori troviamo Quindici stanze per un setter (1962), una lunga epistola poetica a Lorenzo Sbragi che va letta in relazione alle due liriche commentate nel paragrafo precedente. Da un lato, infatti, dà concretezza a un’ipotesi di Se sia opportuno trasferirsi in campagna, «laddove il trasferimento immaginato […] implicava il possesso di un cane quale segno di autoincorniciamento nella norma (vv. 7882)»87; dall’altro lato, si ricollega alle battute finali delle Ore migliori sull’illusione della «fine di ormai remoti stenti», introdotte dalla citazione di A Silvia88. Tale prossimità, spaziale e tematica, con le due liriche ‘leopardiane’ non sarà casuale e ci invita a riflettere su altri possibili rapporti intertestuali, tanto più che si tratta di un testo incline al citazionismo. Nella quarta stanza, ad esempio, Giudici scherza con il sostenuto Montale di Non chiederci la parola: il suo cane salta, dorme su una brandina ma alle quattro del mattino s’infila sotto al letto, mangia mele, ogni tanto ruba e piange se solo: «Questo di lui posso dirti, non più: / le sue segrete istan-

85 

c, Le ricordanze, v. 5. Ivi, vv. 55-60. Corsivi miei. 87  vdv, p. 1391. 88  Si veda soprattutto la terza stanza, nella quale, dopo una prima descrizione del setter e delle sue abitudini, Giudici sembra dirci la ragione profonda che lo ha spinto a prendere con sé l’animale: «mi presta un’illusione di agiatezza» (vv, Quindici stanze per un setter, i, v. 29, p. 68). 86 

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ze io non conosco»89. Nella settima stanza, invece, entra in gioco un’altra fonte, dichiarata esplicitamente: il grande narratore russo Tolstoj. Leggiamola: Ecco, questi sono i miei piani. Spero di attuarli con ordine: l’inverno sarà urbano, al riparo dal freddo, lontano dall’umidità. Nessuno può chiedere alla vita un trattamento uguale e la condizione dell’ozio senza noia, accettabile: le bestie, non toccate da macchia originale, riconoscono in essa (almeno stando a Tolstoj) uno stato ideale90.

Ma forse qui non vi è solo Tolstoj. Non sarebbe questo, d’altronde, un caso isolato: abbiamo già visto come in Salutz un riferimento più o meno diretto ad Anna Karenina sia seguito da un più velato richiamo, almeno lessicale, alle canzoni rifiutate. In breve, mi sembra che la stanza giudiciana conservi pure la memoria del Canto notturno, dal quale è ripresa – di nuovo come in Salutz – anche la rima in -ale: O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; […] Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato […] Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, 89  Ivi, v. 41, p. 68, per cui cfr. os, Ossi di seppia, Non chiederci la parola…, vv. 11-12, p. 29: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Il richiamo è suggerito da Zucco in vdv, p. 1391. 90  vv, Quindici stanze per un setter, ii, vv. 11-20, p. 69. Corsivi miei.

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S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?91

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Alla domanda posta dal pastore alla sua «greggia», riecheggiata pure nella Stazione di Pisa, Giudici risponde insomma con la stanza al suo setter (e con Tolstoj): «nessuno / può chiedere alla vita un trattamento» e una «condizione» uguale a quella delle «bestie». D’altra parte, l’influsso del Canto notturno è di lunga durata, se è vero, come è parso a Zucco92, che nel 1988 il prigioniero di Fortezza propone una «sintesi» di due singolari immagini del canto recanatese (il «volar su le nubi» e l’«errar» del tuono «di giogo in giogo»)93: E certe notti un pensiero: Non sanno non sanno che tu Resisti infinito infinita Pazienza del cuor-di-gesù: Mio tra crescermi e dormienza Pulviscolo d’onnipresenza – Non nato imprendibile spacco Tra esserci ancora e mai più: Di crinale in crinale Estranei regni a un minimo volare Bruciare alla speranza Breve lume, nuda stanza94

È questo un esempio di come Giudici riprenda dai Canti anche immagini o particolari nient’affatto scontati. Identica cosa accade, sempre in Fortezza, con il motivo della luna caduta, che Bartolomeo ha efficacemente ricollegato al frammento Odi, Melisso, mostrando puntuali riprese tematiche e lessicali95. In alcuni casi, per giunta, questi motivi sono ricorrenti e ripresi a distanza di anni. Così, la scena 91 

c, Canto notturno, vv. 105-109, 112-116, 128-132. Corsivi miei. Cfr. vdv, p. 1675. 93  Cfr. c, Canto notturno, vv. 133-138: «Forse s’avess’io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una, / O come il tuono errar di giogo in giogo, / Più felice sarei, dolce mia greggia, / Più felice sarei, candida luna». Corsivi miei. 94  fo, Fortezza, 9, p. 873. Corsivi miei. 95  Cfr. fo, Fortezza, 12, p. 876 e Beatrice Bartolomeo, Giudici e Campanella. Lettura di «Ha poco tempo, lo so, Monsignore», «Studi Novecenteschi», 20, 1993, pp. 153-170 (in particolare, p. 161). 92 

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che apre Il sogno leopardiano – il raggio di «sole» che si insinua tra le «chiuse imposte»96 – compare prima nel Ristorante dei morti (1981), in una lirica vicina sin dal titolo, Visitazioni, al contenuto del canto leopardiano («Mirabilia della vista / Che si sgranò a zoi e giostre / E improbabile catechista / Raggio di socchiuse imposte»)97 e poi nell’ultimo libro di poesie, Eresia della sera (1999), dove il sonno è però della donna, contemplata dal poeta:

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Mansueti riversi occhi Di luce in luce e in labile bagliore Tra indaco e violetto Un fortunoso dono rispecchiano Bisbigliato come un sole Che per socchiuse imposte rovesciando Alberi e case stampi l’esteriore Mondo di luce contro il muro bianco98

4.7. Aulla, L’infinito e un luogo di piante Tuttavia, è niente meno che L’infinito il canto più presente nel tardo Giudici. Anzi, nella penultima raccolta, Empie stelle (1993-1996), l’influsso dei Canti si riduce a questo solo idillio, del quale però è data una vera e propria riscrittura sotto forma di poemetto in versi onieghiniani: Dalla stazione di Aulla (1994). Come quarant’anni prima, a fornire suggestioni leopardiane è dunque una stazione toscana (stavolta però non quella affollata di Pisa, ma quella deserta di un piccolo comune subappenninico), forse con la complicità del vento e dei passeri. Così infatti Giudici descrive l’antefatto sulle colonne dell’«Unità»: aspettavo in una solitaria e terminale stazioncina subappenninica. C’era un bel sole, ma un vento piuttosto sostenuto e quasi freddo mi aveva dissuaso dall’idea che di solito ricorre in questi casi: sedersi su una panchina, ingannare il tempo, leggere un giornale. Il vento ne avrebbe scomposto le pagine. Intorno, 96  97  98 

c, Il sogno, v. 1. rm, Pascoli, xi, Visitazioni, vv. 25-28, p. 552. Corsivi miei. er, i. Frammenti dal comunismo, Mansueti riversi occhi, p. 1130.

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4. giovanni giudici. il leopardismo del bricoleur

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un quasi deserto: nessuno, oltre me, in attesa di quel treno, tranne una ragazza che ben presto si era rifugiata in sala d’aspetto. Deserti anche i pochi binari. Su uno di essi, forse l’unico a non recare tracce di ruggine, notavo tuttavia segni di movimento: una mezza dozzina di passeri intenti, con mite pigolio, a saltellare da una rotaia all’altra senza il minimo timore di essere travolti dal sopraggiungere di un convoglio99.

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Il brano fa tornare alla mente certi luoghi sereniani attraversati dal vento e dai convogli o visitati dallo «sfaccendare» dei passeri100. Ma non allontaniamoci da Giudici e leggiamo le prime quattro quartine: Inermi per esigui voli A un nero ferro di mannaia Di mezza mattina salticchiano Dall’una all’altra rotaia Nella tacita stazione Dove aspettando aspetto invano Mentre un loro fato estremo Finge il mio vile cuore umano Piccoli miei accorro a dirvi Non scherzate sui binari Non dissipate il tempo avaro In quel cip-cip di conversari Pane e padre madre e mare Cibo e nido e il que será – Di che parlate o temerari passeri di sottile udito?101

Come scrive Zucco, «la serie tacita, Finge, vile cuore costituisce la traccia testuale più chiara dell’azione dell’Infinito»102, che, lo vedremo tra poco, diviene sempre più pronunciata. La filigrana leo99  Giovanni Giudici, Trentarighe. La collaborazione con l’«Unità» tra il 1993 e il 1997, Binario di attesa, a cura di Francesco Valese, introduzione di Simona Morando, Manni, Lecce 2021, pp. 147-148 (articolo del 29 maggio 1995). 100  Cfr. supra, pp. 160-161. 101  es, Dalla stazione di Aulla, Dalla stazione di Aulla, vv. 1-16, p. 1101. Corsivi miei. 102  vdv, p. 1775.

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pardiana, però, è più ampia. Dall’Infinito può essere estesa, almeno sul piano del lessico, al Pensiero dominante: il «vile cuore umano», infatti, sembra unire insieme due stilemi ravvicinati del canto fiorentino, l’«uman core» e il «cor non vile»103 (per inciso, la rima invano : umano è invece attestata in Angelo Mai)104. Ancora, se il sintagma «fato estremo» compare, e proprio in chiusura di verso, nell’Inno ai Patriarchi («Sortir l’opaca tomba e il fato estremo»)105, il «volo» degli uccelli «inermi» può ricordare quello, più arioso e non certo «esiguo», degli «augelli» di Alla primavera, che affidano appunto al «vento» primaverile il «petto inerme»106. A ogni modo, nei versi successivi lo sguardo di Giudici dai passeri si sposta su una tortora, che «spiccava grandi voli a ben superiori altezze», e poi ancora più in là sino all’«orizzonte»107. Ed eccoci al finale della lirica: Ma più in alto un chiaro verde Dalla forra ecco salire Verde que te quiero verde Dove altri rami va a infoltire Sovrastanti un bianco a chiazze Muro di asilo o di ospedale O uno sfarzo di terrazze Fiori in fila a un davanzale E più in là chiuse alla vista Gialle case del paese In se stessa chiusa ognuna Desolata isola trista Nessun suono – sempre e niente Dove qui nessuno arriva Cerchio a cerchio mese a mese Mi allargavo a una deriva Navigando la mia mente 103 

c, Il pensiero dominante, vv. 79-86. Corsivi miei. Cfr. c, Ad Angelo Mai, vv. 14-15: «O con l’umano / Valor forse contrasta il fato invano?». Corsivi miei. 105  c, Inno ai Patriarchi, v. 9. Corsivi miei. 106  c, Alla Primavera, v. 5. Corsivi miei. 107  Giudici, Trentarighe, Binario di attesa cit., p. 148. 104 

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Dove qui nessuno parte Vacuo tempo ricavando Nuovi cieli, nuove carte108

I debiti con L’infinito sono chiarissimi, anche se l’impedimento visivo non è più dato dalla siepe ma da un artificiale, e già sabiano109, «muro» sovrastato da verdi rami. La vista ‘chiusa’, l’avverbio «sempre», il «Ma» ad inizio del verso e il tema del silenzio sono tutti tratti condivisi con i primi sette versi dell’idillio, talmente noti da non richiedere ulteriori spiegazioni; lo stesso vale per il motivo del naufragio della «mente», che ora naviga – «Navigando»110 – a largo e va alla «deriva». Si diceva, però, che l’idillio lascia tracce importanti anche in Eresia della sera, dove l’accento è posto su un altro fondamentale elemento paesaggistico, le piante: L’amico che un luogo di piante Costruisce e intanto esplora Per linnei di antiche carte Freschi germogli da porre a dimora Il sito – un’erta già di conifere e sassi Col mare che gli è davanti A perdita di sguardo in lui che alterna Pensieri gravi e cure di bracciante Per voi cespugli e arbusti e d’alto fusto Alunni taciti e sodali Afferràti a scarsa terra Calicanto e cotogno e cràssula di australi Estati – arborei nomi all’incolto Meri suoni eppure Creature al notturno spirare Nel vecchio modo umano femmina e maschio 108 

es, Dalla stazione di Aulla, Dalla stazione di Aulla, vv. 32-52, p. 1102. Corsivi miei. Cfr. ca, Casa e campagna, A mia figlia, vv. 8-11, p. 79: «La mia vita, mia cara / bambina, / è l’erta solitaria, l’erta chiusa dal muricciolo, / dove al tramonto solo / siedo»; ca, Trieste e una donna, Trieste, vv. 2-6, p. 89: «Poi ho salita un’erta, / popolosa in principio, in là deserta, / chiusa da un muricciolo: / un cantuccio in cui solo / siedo». 110  Anche l’uso del gerundio è in comune con L’infinito («Ma sedendo e mirando», «Vo comparando», vv. 4 e 11). 109 

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Vi amate di forma in forma Fecondità scambiandovi e affinità – Quali da specie a specie divagano A un fine che non ha più fine e più in là111

Di questa lirica, intitolata A un luogo di piante (1997), ha fornito una recente lettura Zucco, al quale rimando. Quello che vale la pena ribadire, però, è che nei versi non solo è forte l’influsso dell’Infinito (ad esempio, nel «continuum ritmico», nel «tessuto semantico» o nell’uso dell’enjambement)112, ma resta visibile anche la lezione dello Zibaldone. Difatti, Giudici, che s’appresta qui a mettere in versi «un fine che non ha più fine e più in là» (vale a dire: l’infinito), sceglie proprio quei termini – «antico», «alto», «notturno», «tacito» – che, nota Zucco, hanno «puntuale riscontro nelle pagine dello Zibaldone indicizzate sotto Voci e frasi piacevoli e poetiche assolutamente, per l’infinito o indefinito del loro significato, ec.»113. 4.8. Parodia, eros (e morte) Fin qui abbiamo visto Giudici citare, integrare, correggere o più semplicemente rievocare i Canti di Leopardi, a volte riducendone la portata ‘eroica’ e, ancora più spesso, calandoli in una quotidianità ripetitiva e alienante. Diverso è il discorso per altre citazioni vistose ma del tutto decontestualizzate, in cui la «gestione ironica» si fa a tutti gli effetti parodia. In tal senso, è soprattutto il piano dell’erotismo a permettere facili riscritture. È il caso, anzitutto, della Stròloga (1972) di O beatrice, che fa il verso al Passero solitario: Caricatrice di falliche carabine esorta al tiro la stronza gioventù del loco umetta troncando canne una dopo una e avanti un altro i piumini114.

111 

er, Da un tempo di nessuno, A un luogo di piante, p. 1165. Cfr. Rodolfo Zucco, Un dossier: «A un luogo di piante», in Cadioli (a cura di), Metti in versi la vita cit., p. 107. 113  Ivi, p. 107. 114  ob, La stròloga, vv. 17-20, p. 249. Corsivi miei. 112 

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La «citazione parodica»115, e al ribasso, non poteva essere più evidente: «Tutta vestita a festa / La gioventù del loco / Lascia le case, e per le vie si spande», si legge infatti ai vv. 32-34 del Passero solitario. Ma allora anche le immagini delle «carabine», del «tiro» e delle «canne» riscriveranno i due versi precedenti: «Odi spesso un tonar di ferree canne, / Che rimbomba lontan di villa in villa»116. Per di più, come nel Passero neanche qui manca il pentimento finale117, o meglio il rimorso (che poggia, va da sé, su presupposti differenti):

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Ma – e la promessa rivoluzione cristiana? E la domestica virtù quotidiana? E l’esemplare famiglia italiana? E il pio rossore della parola puttana? ……… Ed ecco che cincischiante subito ti rattrappisci stròloga-pulcino che un niente sarebbe bastato a rompere il guscio incrinato stròloga-uccellino che già sgusciavi dalla mano! Come una che a sé si rifiuti e si lasci altra anche tu per pochi flatus vocis rimani ciò che sei scarsamente e dunque presumi di essere ammàini vele e bandiere… Mia non-strega non-maga di molte non-sere e di te balenata speranza che per un minimo di saggezza scusabile all’impossibile condanni il probabile!118

Ma la più originale riscrittura dei Canti in chiave erotica è costituita dal curioso dittico di Autobiologia (1969), che ha come oggetto il rimpianto per il mancato incontro amoroso con una donna non più giovanissima, la signora Gemma Alfè. A un primo livello, il riuso parodico della 115 

vdv, p. 1453. c, Il passero solitario, vv. 30-32. Corsivi miei. 117  Cfr. ivi, vv. 56-59: «Che parrà di tal voglia? / Che di quest’anni miei? che di me stesso? / Ahi pentirommi, e spesso, / Ma sconsolato, volgerommi indietro». 118  ob, La stròloga, vv. 29-44, p. 250. 116 

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tradizione alta sembra riguardare più che altro il mito di Euridice, che dà il titolo alla prima poesia, rivitalizzato in direzione di «un erotismo vorace e popolare»119. Eppure, in entrambi i testi, dietro la ninfa greca si cela un’altra figura femminile: la Silvia leopardiana (anch’essa, in un certo senso, ninfa)120. Ecco infatti l’incipit di Euridice (1965):

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Euridice dai sopraccigli maldepilati, dai ruvidi ginocchi, dagli occhi ironici e neri – specchio ai miei inerti desideri!121

Come A Silvia, Euridice si apre quindi con un’apostrofe, ripetuta poi nel verso finale: «O mia vecchia Euridice!» («Silvia»; «o Silvia mia!», in Leopardi)122. Inoltre, gli «occhi / ironici e neri» e i «sopraccigli maldepilati», che sono «specchio» di «inerti desideri», caricaturizzano forse gli occhi «ridenti e fuggitivi», le «negre chiome» e gli «sguardi innamorati e schivi» della fanciulla dei Canti123. È però un altro, più determinante indizio stilistico a ricondurci con insistenza al canto pisano: l’uso cioè – che era stato anche di Montale e Saba124 – di una «tessera» della «grammatica poetica» di A Silvia, ovvero l’esclamativa introdotta dal «come», che ora diviene un vero e proprio refrain: Ah come tutto l’adulta voglia involgarisce. Ridicola mitologia, quando ognuno capisce che tu fosti la mia giovanile occasione, sprecata da coglione! Ah come tutto l’adulta scienza finisce.

119  Giulio Ferroni, Storia e testi della letteratura italiana, vol. 11, Verso una civiltà planetaria, Mondadori, Milano 2005, p. 107. 120  A riguardo cfr. supra, pp. 47-52. 121  a, Euridice, vv. 1-4, p. 157. Corsivi miei. 122  Ivi, v. 29, p. 158; c, A Silvia, vv. 1, 29. 123  c, A Silvia, vv. 4, 45-46. 124  Cfr. supra, pp. 39, 103-104.

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Euridice dal nero grembiule mia principessa di Tule! […] Ah come il niente l’adulta memoria marcisce. E nelle mani nessun calore di te nessun odore, sulle labbra un ricordo di labbra a malapena sapore d’un sapore del tuo amore finito a coda di sirena – ah

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come tutto ferisce! – con poche tette e niente pansa e cul e senza l’altra cosa che non dice la canzone de la dona del Friûl, o mia vecchia Euridice!125

Ebbene, nella successiva In onore della signora Gemma Alfè (1966) alle tessere grammaticali126 si sommano altre importanti sovrapposizioni lessicali: Mai che mi fosse accaduto considerarti sub specie concupiscendi, signora Alfè, al tempo che imberbe cercavo invano di propiziarti: fiduciaria del capo dei capi, quando passavi davanti alla fila dei tavoli dove chini impiegati non osavamo alzare la fronte a te. Imbacuccata di lana italiana, le brutte calze di mezzocotone caffè,

125 

a, Euridice, vv. 5-13, 19-25, pp. 157-158. Corsivi miei. Alle quali si può forse aggiungere «al tempo che», per cui si vedano: c, Le ricordanze, v. 71: «al tempo che l’acerbo» (in consonanza con l’«imberbe» di Giudici); c, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, vv. 28-29: «al tempo / Che reina bellezza si dispiega»; c, Palinodia al Marchese Gino Capponi, vv. 51-52: «Al tempo / Che seguirà»). D’altronde, «tempo» è parola chiave dell’incipit di A Silvia. Corsivi miei. 126 

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lo sguardo fondo il viso pallido e tondo, oh per nulla cosa al mondo… Come lontana eri, dai miei cattivi pensieri.

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Ma allora tu nel fiore ancora dei tuoi trenta, o Gemma Alfè, tu chissà come saresti stata contenta di sbocciare una volta per me!127

Rispetto ad A Silvia, è chiaro, ci muoviamo in un orizzonte assai diverso, ma sappiamo già che su questo Giudici gioca volentieri. Siamo autorizzati, perciò, a leggere negli ultimi versi un’altra eco leopardiana. In Gemma, che nel «fiore» dei suoi «trenta» sarebbe stata «contenta» di sbocciare per il poeta, è insomma riscritto, con leggerezza ed ironia, il ben più tragico destino di Silvia, che «assai contenta» del suo «vago avvenir» non vide mai «il fior degli anni» suoi128. Sarebbe sbagliato, tuttavia, concludere che la riscrittura erotica di Leopardi si risolva tutta nella parodia. O meglio, vi è almeno un’eccezione, che riguarda nuovamente L’infinito: Ampàro, lirica di Lume dei tuoi misteri (1984) il cui titolo in spagnolo sta a significare ‘porto’, ‘riparo’, ‘soccorso’, ‘rifugio’. Difatti, stavolta non vi è né parodia né ironia: Amore e Morte, anzi, si scambiano le parti. Eros è in compagnia di Thanatos: Carezza delle mani che non è movimento Delle mie mani sul tuo corpo ma il tuo corpo Pieno che lungo il confine le esclude Fra il suo vallivo profilo e l’aria E passano come l’immaginare Al vero del quale fa impedimento Della tua mente il separato pensare Mentre in se stesso si attorciglia e si attorciglia 127 

a, In onore della signora Gemma Alfè, vv. 9-26, pp. 159-160. Corsivi miei. c, A Silvia, vv. 11-12, 43. Ma l’eco lessicale di A Silvia giunge fino ad Eresia della sera, per cui cfr. er, Ahi vita vita mia, vv. 1-2, p. 1197: «Ahi vita vita mia ruvida e ingrata / Paterna casa disamato ostello» e c, A Silvia, v. 19: «D’in su i veroni del paterno ostello» (il rimando è già in vdv, p. 1804). Corsivi miei. 128 

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Il proponimento – di te Vista e sapore e umore portarmi via Tutta stamparmi addosso A ogni senso la nuda parusìa

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O vano seno di madre Amparo of your thighs/sighs Canestro del mondo e tomba – perciò Ritentiamo129

Mi pare indubbio che tornino qui, sia pure in modo inaspettato, il lessico e l’immaginario dell’Infinito («il confine le esclude», l’«impedimento», «il pensare», l’«immaginare»). Ma chissà, viene da chiederci, se nella chiusa possa aver agito sottotraccia anche Amore e Morte, dal momento che i ‘sospiri’, «sighs» in inglese («eterno / sospiro mio», si ricorderà, è una delle espressioni di Un ragazzo di Recanati), la «tomba» e lo stesso ‘porto’-ampàro del titolo sono tutti lemmi del canto del 1832130. Ancora più significativa, d’altra parte, è l’immagine del grembo della madre, identificato da Giudici con la morte. Certo, nel finale leopardiano il «seno» della Morte – «bellissima fanciulla» e «pietosa»131 – è detto «virgineo», ma il suo è un gesto materno: «Solo aspettar sereno / Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / Nel tuo virgineo seno»132.

129 

lm, Accordi, Ampàro, p. 567. Corsivi miei. Cfr. rispettivamente c, Amore e Morte, vv. 59, 68, 42: «Con più sospiri ardenti», «Osa alla tomba, alle funeree bende», «Brama raccôrsi in porto». 131  c, Amore e Morte, vv. 10, 98. 132  Ivi, vv. 122-124. 130 

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Indice dei nomi

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Dei nomi si indicizza anche l’aggettivo o l’avverbio derivato. Giovanni Giudici, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, Umberto Saba e Vittorio Sereni non sono inclusi. Inoltre, l’indice non considera i nomi quando coincidono con il titolo di una lirica o di un’opera.

Aleardi, Aleardo, 24n Alfano, Giancarlo, 52n Alfieri, Vittorio, 22 e n Alighieri, Dante, 20, 23 e n, 32n, 36n, 80, 83, 86n, 90, 94, 98, 121, 131, 171n, 175n Allegrini, Vincenzo, 72n, 113n, 161n Amiel, Henri-Frédéric, 83, 99 Anceschi, Luciano, 10n, 120 e n Apollinaire, Guillaume, 11, 130 e n, 133 Ariosto, Ludovico, 121, 127-128 Arnault, Antoine-Vincent, 122-124 Auden, Wystan Hugh, 92n Balzac, Honoré de, 80, 86 Barboni, Federica, 14 Barigozzi, Claudio, 157n Barile, Laura, 102n, 113n, 138n Baring, Maurice, 79 Bartolomeo, Beatrice, 195 e n Battaglia, Piera, 164n Baudelaire, Charles, 11, 52, 81, 84, 85n, 90, 109, 110 e n, 130 Beccaria, Gian Luigi, 177 Beethoven, Ludwig van, 85 Bellizzi, Aretina, 14 Bellucci, Novella, 14, 113 Bergson, Henri-Louis, 83 Berti, Luigi, 78n Bettarini, Rosanna, 90n, 106n Betteloni, Vittorio, 24n

Bizet, Georges, 56-57 Blake, William, 80 Blasucci, Luigi, 102n, 134n Bonfanti, Maria Luisa, 152 Boselli, Mario, 131n Boulez, Pierre, 112n Brandeis, Irma (Clizia), 107 e n, 111 Brecht, Bertolt, 175n Brighenti, Pietro, 171 e n Brioschi, Franco, 15 Brontë, Emily, 80 Bronzini, Giovanni Battista, 170n Brugnolo, Furio, 61n Busoni, Ferruccio, 82 e n Buzzati, Dino, 121, 133 Byron, George Gordon, 178n Caccia, Ettore, 28n, 29n, 32 e n Cadioli, Alberto, 175n, 200n Camarotto, Valerio, 14 Camilletti, Fabio, 50n Campana, Dino, 100 Campanella, Tommaso, 24n, 195n Campeggiani, Ida, 107n Capriotti, Marco, 14 Caproni, Giorgio, 9n, 11, 122 e n, 124, 133 Carcea, Debora, 113n Cardarelli, Vincenzo, 11, 87 e n Carducci, Giosuè, 23, 83, 85, 86 e n, 92n Carniani (Malvezzi de’ Medici), Teresa, 171n

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208 Carrai, Stefano, 25n, 28n, 36 e n, 40n, 49n, 52n, 69 e n Castagnola, Raffaella, 156n Castellani, Giordano, 39 Cataldi, Pietro, 105n Cavalcanti, Guido, 51 Ceccardi, Ceccardo Roccatagliata, 11, 85 Cecchi, Emilio, 84 Cézanne, Paul, 100 Char, René, 11, 122 e n, 123 e n, 124, 133, 164n Chateaubriand, François-René de, 91, 92n Chiurchiù, Luca, 9n, 25n, 102n, 119n Collodi, Carlo, 83 Contini, Gianfranco, 52n Coppo, Mattia, 124 e n Cortellessa, Andrea, 113n Crémieux, Benjamin, 11, 80 Croce, Benedetto, 86 e n, 98, 125n D’Alessandro, Francesca, 124 e n, 125n, 126 e n, 162 e n d’Amely, Floriana, 105n D’Annunzio, Gabriele, 23, 85, 91, 92n, 95, 108 D’Intino, Franco, 12n, 14, 30n, 32 e n, 45n, 47n, 69n, 152n Damiani, Rolando, 135n De Caro, Paolo, 102n de Rogatis, Tiziana, 110n De Romanis, Filippo Antonio, 101 De Rosa, Francesco, 113n De Sinner, Luigi, 171n Deidier, Roberto, 152n, 158 e n Delcò-Toschini, Sabrina, 37n Descartes, René, 83  Dewey, John, 175n Di Battista, Flavia, 14 Di Febo-Severo, Giuliana, 122n Dolfi, Anna, 9n, 102n, 133n Dominioni, Maria Valeria, 9n, 25n, 102n, 119n Dondero, Marco, 25n Donzelli, Elisa, 122n Dostoevskij, Fëdor Michajlovič, 85n Dumay, Raymond, 100

indice dei nomi Eckermann, Johann-Peter, 101 Eliot, Thomas Stearns, 90, 91n, 92, 175n Epitteto, 83 Esposito, Edoardo, 119n, 124n, 138n, 152n, 158n Ferroni, Giulio, 202n Fioroni, Georgia, 138 e n, 140, 147, 151, 154n, 155n, 156n, 159 Flammarion, Nicolas Camille, 180 Flaubert, Gustave, 14, 83, 181 Forti, Marco, 16 Foscolo, Ugo, 21, 23n, 80n, 86 e n, 89-90, 92n, 94-95, 98, 100-101 Fournier, Alain, 147n Freud, Sigmund, 12, 52 e n, 85 e n, 119n Frugoni, Carlo Innocenzo, 93 Fusco, Enrico, 91 Galavotti, Jacopo, 61n Galimberti, Cesare, 135n Genetelli, Christian, 37n, 94n, 164 e n, 165 en Ghidinelli, Stefano, 139n Gibellini, Cecilia, 119n Gibellini, Pietro, 79n, 83n Gide, André, 11, 80 e n, 98 e n, 99 Girardi, Antonio, 61n, 119n Goethe, Johann Wolfgang von, 86, 99, 101 Gozzano, Guido, 9n, 125 Grignani, Maria Antonietta, 102n Guerrera, Sergio, 96 e n Guerrini, Olindo vedi Stecchetti, Lorenzo Harlow, Jean, 152 Hemingway, Ernest, 175n Hölderlin, Johann Christian Friedrich, 85n Hugo, François-Victor, 98 Hugo, Victor, 99 Isella, Dante, 118 e n, 120n, 125n, 131n, 135, 149n, 163 Jacobbi, Ruggero, 141n Jahier, Piero, 11, 180 James, Henry, 79 Jensen, Wilhelm, 52n Jolles, André, 52n

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209

indice dei nomi

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Kafka, Franz, 85n Kierkegaard, Søren, 92 Kleist, Heinrich von, 80 Laforgue, Jules, 92, 125 Landi, Patrizia, 15 Lavagetto, Mario, 20 e n, 28n Lawrence, Thomas Edward, 11, 79, 80n Lee Masters, Edgar, 11, 133 Lenzini, Luca, 118n, 125n, 130n, 137n, 138n, 139, 161n, 162 Leopardi, Paolina, 159n Lonardi, Gilberto, 9 e n, 28n, 39n, 52n, 55n, 72n, 87n, 90n, 102n, 103n, 105n, 106n, 109n, 115n, 161n Lucrezio, Tito Caro, 80 Luperini, Romano, 22n Luzi, Mario, 9n, 125n

Morlotti, Ennio, 11,134 e n, 135 e n, 136 e n, 163-164 Motta, Umberto, 125n, 153n, 154 e n, 155 en Mozart, Wolfgang Amadeus, 82 e n Musorgskij, Modest Petrovič, 100 Mustoxidi, Andera, 170n Natale, Massimo, 9, 14, 69n, 79n, 87n, 119n, 137 e n, 145n, 165n, 189n Negri, Renzo, 28n, 52n, 54n Neruda, Pablo, 92n Nerval, Gérard de, 80, 101n Nieri, Idelfonso, 86n Nietzsche, Friedrich, 85 Nievo, Ippolito, 86 Nosenzo, Franco, 102n, 103n Omero, 73

Macchia, Giovanni, 99 Macrì, Oreste, 133n, 138n Maglione, Armando, 72n Manet, Édouard, 81 Manghetti, Gloria, 90n Manzoni, Alessandro, 21 e n, 23n, 80n, 85n, 88-89, 92n, 97, 98 e n, 100, 125n Marat, Jean-Paul, 182-183 Marazzi, Martino, 20n Marini, Paolo, 79n Martignoni, Clelia, 135, 163 Marx, Karl, 92n, 175n Mattioli, Carlo, 11, 133, 134 e n Mazzoni, Guido, 124n, 149n Mazzoni, Ofelia, 22-23 e n Menandro, 30n Merola, Nicola, 118n Metastasio, Pietro, 24n Meyendorff, Georges de, 125 Milanini, Claudio, 20 e n, 25 e n, 28n, 44n, 59 e n Minutelli, Marzia, 69n Mogno, Tullio, 21 e n Montaigne, Michel de, 86 Montefoschi, Paola 69n Morando, Simona, 175n, 197n Moreschini, Claudio, 79n Morgan, Charles, 11, 80 e n

Paino, Marina, 28, 57 e n Palazzeschi, Aldo, 11, 180 Pancheri, Alessandro, 106n Parenti, Marino, 97 Parini, Giuseppe, 21, 23n, 85 Pascoli, Giovanni, 9n, 10, 23, 24n, 25, 39n, 77, 80n, 92n, 117 e n, 118 e n, 119 e n, 120, 133, 140, 144 e n, 151, 196n Pasolini, Pier Paolo, 11, 61n, 125, 133 Pasternak, Boris, 175n Pavese, Cesare, 11, 130, 133 Perse, Saint-John, 81 Peruzzi, Emilio, 15 Petrarca, Francesco, 11 e n, 19-21, 23 e n, 27, 28n, 30, 33, 62n, 77, 81, 90, 94, 117, 119, 120 e n, 121 e n, 123 e n, 124, 130, 175n, 176 Pettinicchio, Davide, 14 Pindemonte, Ippolito, 93 Platone, 101 Poe, Edgar Allan, 78 e n Poliziano, Agnolo, 83 Pound, Ezra, 11, 80, 81 e n Previtera, Luisa, 16 Prévost, Antoine François, 83 Proust, Marcel, 95n, 101, 149n

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210 Quasimodo, Salvatore, 154n

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Raboni, Giulia, 117n Racine, Jean, 85 Raimondi, Giuseppe, 84 Ranieri, Antonio, 172 Ricci, Francesca, 125n Ridolfi, Roberto, 11, 86 Rigoni, Mario Andrea, 27n, 135n Rimbaud, Arthur, 83, 100 Romolini, Marica, 111 e n Rosselli, Amelia, 9n Rossini, Gioachino, 89 Sacco, Daniela, 52n Sandrini, Giuseppe, 14, 21n, 69n Sangirardi, Giuseppe, 102n Savoca, Giuseppe, 28n, 102n Sbarbaro, Camillo, 115, 137, 145 Sbragi, Lorenzo, 193 Scaffai, Niccolò, 79n, 107n Schopenhauer, Arthur, 83 Segre, Cesare, 106n Sesler, Filippo, 180 Shakespeare, William, 21, 80, 83, 90, 98 Shelley, Percy Bysshe, 78 Soffici, Ardengo, 83 Soldani, Arnaldo, 61 Solmi, Sergio, 11, 86 e n, 124 e n, 125 e n, 133 Spinoza, Baruch, 83 Staël, Madame de, 22 Stalin, Iosif, 92 Stecchetti, Lorenzo (Olindo Guerrini), 24n Stella, Antonio Fortunato, 101 Stendhal, Marie-Henri Beyle, 80, 95 Sterne, Laurence, 89 Strazzeri, Giuseppe, 117n Swinburne, Algernon Charles, 81

indice dei nomi Tommaseo, Niccolò, 24 e n Toscanini, Arturo, 89 e n Uberti, Anna degli, 102 e n, 107, 110 Valéry, Paul, 124, 129n Valese, Francesco, 197n Vecce, Carlo, 25n, 28n, 38n, 42n Verdi, Giuseppe, 85, 112 e n Verga, Giovanni, 80n Verlaine, Paul, 83, 125 Vico, Giambattista, 99 Vieusseux, Giovan Pietro, 21 Vigny, Alfred de, 83 Vigorelli, Giancarlo, 120, 152, 153n, 156 Villon, François, 83 Virgilio, Publio Varone, 80-81, 134 Vittorini, Elio, 132, 175n Warburg, Aby, 52n Whitman, Walt, 100 Wölfler, Carolina (Lina Saba), 25, 38, 3940, 51, 56 Zabagli, Franco, 90n Zagarrio, Giuseppe, 139n Zampa, Giorgio, 114n Zanella, Giacomo, 93 Zanzotto, Andrea, 11, 165n, 180, 188n Zucco, Rodolfo, 182 e n, 185n, 191n, 194n, 195 e n, 197, 200 e n

Targioni Tozzetti (nata Ronchivecchi), Fanny, 56 Tasso, Torquato, 50 e n, 75, 83 Tatasciore, Enrico, 106n, 107n Tedeschi, Amedeo, 28, 30 e n Testa, Enrico, 138n Tolstoj, Lev Nikolaevič, 14, 83, 101, 181, 194-195

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Indice dei luoghi leopardiani

Ad Angelo Mai, 13, 41n, 74 e n, 75 e n, 108n, 128 e n, 139 e n, 173, 198 e n Agli amici suoi di Toscana, 27, 171 Al Conte Carlo Pepoli, 139 e n Alla luna, 39 e n, 159 e n, 184, 185 e n Alla Primavera, 13, 135, 163 e n, 198 e n Alla sua donna, 106n Amore e Morte, 30n, 55 e n, 57n, 60 e n, 63 e n, 139 e n, 205 e n Angelica (abbozzo), 13n, 127, 128-129, 133 Appressamento della morte, 30n, 37 e n A se stesso, 35 e n, 59 e n, 61, 62 e n A Silvia, 12 e n, 13, 29 e n, 30 e n, 31 e n, 32 e n, 34 e n, 35, 37, 39 e n, 40-41, 42 e n, 43, 44 e n, 45 e n, 46 e n, 47-48, 49 e n, 50 e n, 52 e n, 65, 71n, 82, 102 e n, 103, 104 e n, 106 e n, 107, 108 e n, 109n, 112, 131-132, 152-153, 154 e n, 155 e n, 156 e n, 157 e n, 158 e n, 159-160, 188-190, 193, 202 e n, 203n, 204 e n Aspasia, 35n, 54 e n, 55-56, 57 e n, 58 e n, 59 e n, 162 e n A un vincitore nel pallone, 74 e n, 143 e n Bruto minore, 41n Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 12-13, 22, 31 e n, 40n, 41n, 65 e n, 66 e n, 71 e n, 93-94, 111 e n, 125 e n, 137n, 164, 165 e n, 182, 187 e n, 194, 195 e n

Consalvo, 55-56, 57n, 59n, 62 e n Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 105 e n Dialogo di Tristano e di un amico, 168 e n, 169-170 Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, 135 e n Epistolario, 159 e n, 171 e n Esercizi di memoria, 182 Il Parini, ovvero della gloria, 22 e n, 169 e n Il passero solitario, 12-13, 74 e n, 77 e n, 78 e n, 110 e n, 117n, 118 e n, 122, 134 e n, 146 e n, 150 e n, 183, 184 e n, 187, 200, 201 e n Il pensiero dominante, 35n, 52, 53 e n, 54, 55 e n, 57n, 59 e n, 94n, 198 e n Il risorgimento, 34 e n, 151n, 185 e n, 186n Il sabato del villaggio, 10, 21, 26 e n, 40n, 49n, 66 e n, 82, 117, 121, 188, 189 e n, 190, 191 e n Il sogno, 12, 66 e n, 112 e n, 115 e n, 196 e n Imitazione, 12, 70 e n, 71, 72 e n, 74, 75 e n, 111, 122, 123 e n, 124, 133 Inno ai Patriarchi, 13, 164, 198 e n La ginestra, 12, 72n, 93-94, 111 e n, 112, 113n, 132-133, 146 e n, 147 e n, 148 en

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212

indice dei luoghi leopardiani

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La quiete dopo la tempesta, 27n, 66 e n, 120, 145, 161n La scommessa di Prometeo, 75 La sera del dì di festa, 12, 65 e n, 66-67, 106n, 115 e n, 136, 137 e n, 146 La vita solitaria, 12, 113 e n, 161n Le ricordanze, 12, 59 e n, 67, 68 e n, 69 e n, 103, 104 e n, 106n, 107 e n, 109n, 115 e n, 126, 128 e n, 138, 141 e n, 142 e n, 150 e n, 151 e n, 152 e n, 153, 154n, 155 e n, 156 e n, 173, 184n, 185n, 190 e n, 192, 193 e n, 203n L’infinito, 10 e n, 65 e n, 94, 118 e n, 138, 139 e n, 140-142, 158-159, 179 e n, 196-198, 199 e n, 200, 204-205 Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, 182 e n Nelle nozze della sorella Paolina, 27n Odi, Melisso, 195 Palinodia al Marchese Gino Capponi, 203n Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, 31n, 182 e n Saggio di traduzione dell’Odissea, 182 Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, 170n Sopra il ritratto di una bella donna, 35n, 80 Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, 35n, 40n, 70 e n, 144 e n, 203n Storia del genere umano, 126 e n Ultimo canto di Saffo, 13, 162 e n Zibaldone, 11 e n, 22 e n, 31, 33, 34 e n, 47, 48 e n, 73n, 82 e n, 87, 118 e n, 119 e n, 120 e n, 135, 153 e n, 165 e n, 171n, 173, 174 e n, 177, 178 e n, 179, 200

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Quodlibet Studio

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almanacco di filosofia e politica

Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica i. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica ii. Istituzione. Filosofia, politica, storia Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto

analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di «funzione» tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione Imre Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica Robert Audi, Epistemologia. Un’introduzione alla teoria della conoscenza Pier Luigi Lecis, Giuseppe Lorini, Vinicio Busacchi, Pietro Salis, Olimpia G. Loddo (a cura di), Verità Immagine Normatività. Truth, Image, and Normativity Joachim Schulte,Wittgenstein. Un’introduzione Frank Plumpton Ramsey, Sulla verità e Scritti pragmatisti Marco Mazzeo, Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia

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antropologia e filosofia

Roberto Brigati, Valentina Gamberi (a cura di), Metamorfosi. La svolta ontologica in antropologia Hans Joas, Come nascono i valori

campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert Sarantis Thanopulos, Il desiderio che ama il lutto Valentina Galeotti, La verità sulla bellezza. Colloquio sull’arte con Jacques Lacan

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campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica Fabio Galimberti, Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione Clotilde Leguil, Sartre con Lacan. Correlazione antinomica, relazione pericolosa Leonarda Razzanelli, Logica della vita quotidiana. Il soggetto tra ripetizione, identificazione e sintomo Hélène Bonnaud, L’inconscio del bambino. Dal sintomo al desiderio del sapere Roberto Cavasola, Bipolare? La melanconia, la mania, il suicidio e Lacan Pasquale Mormile, Il difetto. Ovvero dell’adolescenza e della pubertà in psicoanalisi Francesco La Mantia, Seconda persona. Enunciazione e psicoanalisi Jacques-Alain Miller (a cura di), Conversazione clinica Maurizio Mazzotti, Il deserto della verità. Una posizione lacaniana

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campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte Felice Cimatti, Alex Pagliardini (a cura di), Abbecedario del reale

dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico Nunzia Palmieri, Visioni in dissolvenza. Immagini e narrazioni delle nuove città Alberto Castoldi, Epifanie dell’Informe Giacomo Raccis, Una nuova sintassi per il mondo. L’opera letteraria di Emilio Tadini Elio Grazioli, Luca Maria Patella disvelato Gabriele Gimmelli, Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema

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discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla «Metafisica della conoscenza» di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle «fratture» del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il «nuovo neokantismo» di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille

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Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Marco Tedeschini, Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo Mariapaola Fimiani, L’etica oltre l’evento Luigi Azzariti Fumaroli, Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin Roberto Redaelli, Emil Lask. Il soggetto e la forma Eugenio Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo Furio Semerari (a cura di), Che cosa vale. Dell’istanza etica Stefano Besoli, Roberto Redaelli (a cura di), Emil Lask. Un secolo dopo Aldo Masullo, L’Arcisenso. Dialettica della solitudine Sebastiano Galanti Grollo, La passività del sentire. Alterità e sensibilità nel pensiero di Levinas Stefano Besoli, Letizia Caronia (a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale Matteo Santarelli, La vita interessata. Una proposta teorica a partire da John Dewey Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia Stefano Besoli, Forma categoriale e struttura del giudizio. Sull’incompiutezza sistematica del pensiero di Emil Lask Otto Apelt, La dottrina delle categorie di Aristotele Furio Semerari (a cura di), L’esclusione. Analisi di una pratica diffusa Luigi Azzariti-Fumaroli, Fenomenologia dell’ombra. Tre saggi Venanzio Raspa, Origine e significato delle categorie di Aristotele. Il dibattito nell’Ottocento

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Guido Baggio, Michela Bella, Giovanni Maddalena, Matteo Santarelli (a cura di), Esperienza, contingenza, valori. Saggi in onore di Rosa M. Calcaterra Sebastiano Galanti Grollo, L’alterità della carne. Il tema del corpo nel pensiero di Paul Ricoeur Luigi A. Manfreda, L’intimo e l’estraneo. Struttura e composizione del sé Roberto Redaelli, Per una logica dell’umano. Antropologia filosofica e Wertlehre in Windelband, Rickert e Lask Luca Guidetti, Gli elementi dell’esperienza. Studio su Ernst Mach Daniela Calabrò (a cura di), La passione del pensiero. Studi in onore di Enrica LiscianiPetrini

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estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’«amoroso regno» Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel Paolo D’Angelo, Il problema Croce Amelia Valtolina, Il sogno della forma Un’idea tedesca nel Novecento di Gottfried Benn Luca Serafini, Etica dell’estetica. Narcisismo dell’io e apertura agli altri nel pensiero postmoderno

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Mario Farina, La dissoluzione dell’estetico. Adorno e la teoria letteraria dell’arte Alfonso Musci, La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce Paolo D’Angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. I: dal Settecento al Romanticismo Peter Lamarque, Opera e oggetto. Esplorazioni nella metafisica dell’arte Vincenzo Bochicchio, Marco Mazzeo, Giuseppe Squillace (a cura di), A lume di naso. Olfatto, profumi, aromi tra mondo antico e contemporaneo Paolo D’Angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. II: da Kant a Hegel Elisa Caldarola, Filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti Alberto Martinengo, Prospettive sull’ermeneutica dell’immagine Ulisse Dogà, Un tempo altro, estraneissimo. Studio sul futuro composto in poesia Roberto Redaelli, Per una logica dell’umano. Antropologia filosofica e Wertlehre in Windelband, Rickert e Lask Paolo D’Angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. III: dall’Ottocento a oggi Maria Lorenza Crupi, Fiumara d’Arte in Sicilia: arte, architettura, paesaggio filosofia e politica Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Laura Bazzicalupo, Salvo Vaccaro (a cura di), Vita, politica, contingenza Leo Strauss, Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso Marina Montanelli, Massimo Palma (a cura di), Tecniche di esposizione. Walter Benjamin e la riproduzione dell’opera d’arte Mauro Ponzi (a cura di), Marx e la crisi Rudy M. Leonelli, Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant Giulio Azzolini, Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi Giovanni Ruocco, Razze in teoria. La scienza politica di Gaetano Mosca nel discorso pubblico dell’Ottocento

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Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica 1. Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione Stefano Catucci, Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Rita Fulco, Tommaso Greco (a cura di), L’Europa di Simone Weil. Filosofia e nuove istituzioni Walter Benjamin, Hans Kelsen, Karl Löwith, Leo Strauss, Jacob Taubes, Critica della teologia politica. Voci ebraiche su Carl Schmitt Chiara Collamati, Mauro Farnesi Camellone e Emiliano Zanelli (a cura di), Filosofia e politica in Ernst Bloch. Lo spirito dell’utopia un secolo dopo Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin Gabriele Guerra e Tamara Tagliacozzo (a cura di), Felicità e tramonto. Sul Frammento teologico-politico di Walter Benjamin Paola Di Cori, Michel de Certeau. Per il lettore comune Rita Fulco, Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil Francesco Marchesi, Geometria del conflitto. Saggio sulla non-corrispondenza Pierpaolo Cesaroni, La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem Michele Basso, La città, alba dell’Occidente. Saggio su Max Weber

filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi

il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia

lavoro critico

Gino Covili, Gli esclusi 1973-1977 Robert Castel, La discriminazione negativa. Cittadini o indigeni? Marino Niola (a cura di), Lévi-Strauss. Fuori di sé Vito Teti, Pietre di pane. Un’antropologia del restare Ciro Tarantino (a cura di), E la carne si fece verbo. Il discorso sul libertinaggio politico nell’Italia del nouveau régime Vito Teti, Il patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento Ercole Giap Parini, Gli occhiali di Pessoa. Studio sugli eteronimi e la modernità Matteo Meschiari, Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario Robert Castel e Claudine Haroche, Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé. Conversazioni sulla costruzione dell’individuo moderno Matteo Meschiari, Uccidere spazi. Microanalisi della corrida Fabio Coccetti, L’eminenza Grigia. Autobiografia della polvere Ciro Tarantino - Alfredo Givigliano (a cura di), La possibilità sociale Alberto Bertagna, Tic Tac City Luigi Cavallaro, Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea Paolo Maccagno, Lungo lento. Maratona e pratica del limite

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Leonardo Piasere, L’antiziganismo Fabio Merlini, Ubicumque. Saggio sul tempo e lo spazio della mobilitazione Ciro Tarantino e Alfredo Givigliano (a cura di), Le forme sociali Venanzio Raspa, Le buste di Mimì. Cronaca di un’adozione Marcello Walter Bruno ed Emanuele Fadda (a cura di), Roland Barthes Club Band Fabio Coccetti, Il frammento e la parvenza. Le immagini tra memoria e oblio Gennaro Imbriano, Il lavoro e le cose. Saggio su Heidegger e l’economia Natale Losi, Critica del trauma. Modelli, metodi ed esperienze etnopsichiatriche Diego Donna, Dispersione Ordine Distanza. L’Illuminismo di Foucault Luhmann Blumenberg Federico di Vita (a cura di), La scommessa psichedelica Cecilia Cristofori (a cura di), Andar di notte. Viaggio nella movida delle città medie Giuseppe Frazzetto, Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica

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lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo

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Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana Massimo Giuliani, Per un’etica della resistenza. Rileggere Primo Levi Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil Franco Nasi, Traduzioni estreme Valentino Baldi, Il sole e la morte. Saggio sulla teoria letteraria di Francesco Orlando Antonella Ottai, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti Marco Gatto, Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La poesia (1815-1817) Valerio Camarotto, Leopardi traduttore. La prosa (1816-1817) Antonio Girardi, Arnaldo Soldani e Alessandra Zangrandi (a cura di), Questo e altro. Giovanni Raboni dieci anni dopo Valentina Polci, Voce fuori coro di Dolores Prato. Trascrizione e commento dei frammenti autografi su Roma capitale d’Italia Amaranta Sbardella, Il mostro e la fanciulla. Le riscritture di Arianna e del Minotauro nel Novecento Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini Gonzalo Celorio, Saggio di Controconquista Laura Barile, Il ritmo del pensiero. Montale Sereni Zanzotto Emiliano Alessandroni, L’anima e il mondo. Francesco De Sanctis tra filosofia, critica letteraria e teoria della letteratura Tommaso Giartosio, Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo Angela Albanese, Identità sotto chiave. Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del sogno e del cinema Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922) Valentino Baldi, Come frantumi di mondi. Teoria della prosa e logica delle emozioni in Gadda Valentina Sturli, Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco Orlando Margo Glantz, La conquista della scrittura. Letteratura e società nel Messico coloniale Éric Marty, L’engagement estatico. Su René Char

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Roberto Deidier, Giorgio Nisini (a cura di), L’eternità immutabile. Studi su Juan Rodolfo Wilcock Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo Fabio Moliterni, Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei Luca Maccioni, Il marchio di Qajin. I Dialoghi tra due bestie nell’opera di Giacomo Leopardi Carlo Londero, Ulisse, o dell’Amore. Lettura della poesia di Umberto Saba Vincenzo Allegrini, L’onda trascorrente. I Canti di Leopardi in Saba, Montale, Sereni e Giudici

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lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain Elisa Bricco (a cura di), Le bal des arts Le sujet et l’image : écrire avec l’art Matteo Majorano (a cura di), La giostra dei sentimenti Giusi Alessandra Falco, La violenza inapparente nella letteratura francese dell’extrême contemporain Sylviane Coyault et Marie Thérèse Jacquet (a cura di), Les chemins de Pierre Bergounioux Matteo Majorano (a cura di), L’incoerenza creativa nella narrativa francese contemporanea Valeria Gramigna, Scritture in ascolto. Sentimenti e musica nella prosa francese contemporanea Groupe de Recherche sur l’Extrême Contemporain (grec) (a cura di), Premio Murat. Università di Bari. Un romanzo francese per l’Italia 2001-2017. Pagine per Matteo Majorano Marinella Termite (a cura di), Mots de faune Marie Thérèse Jacquet (a cura di), AdolescenceS Valentina Pinto, Dimitri Bortnikov. Un Russe en littérature française

letteratura tradotta in italia

Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia Alessandro Niero, Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi Martina Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959-Torino 1986) Irene Fantappiè, Franco Fortini e la poesia europea. Riscritture di autorialità lingua, didattica, società Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina Ilaria Tani, Lingua e legame sociale. La nozione di comunità linguistica e le sue trasformazioni

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musica e spettacolo

Luca Aversano, Jacopo Pellegrini (a cura di), Mille e una Callas. Voci e studi Roberta Carlotto e Oliviero Ponte di Pino (a cura di), Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi

quaderni dell’«ospite ingrato»

Luca Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni Davide Dalmas (a cura di), Franco Fortini. Scrivere e leggere poesia

scienze del linguaggio

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John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio Franco Lorenzi, Alejandro Marcaccio (a cura di), Testualità e metafora Filippo Grendene, Fabio Magro, Giacomo Morbiato (a cura di), Fortini ’17. Atti del convegno di studi di Padova (11-12 dicembre 2017)

scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei «Promessi Sposi» Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale Roberta Coglitore, Le vertigini della materia. Roger Caillois, la letteratura e il fantastico Daniele Balicco, Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo Raffaello Palumbo Mosca (a cura di), La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo 2000-2016 Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction? Gabriele Guerra, L’acrobata d’avanguardia. Hugo Ball tra dada e mistica Guido Bartorelli, Giovanni Bianchi, Rosamaria Salvatore, Federica Stevanin (a cura di), Il corpo parlante. Contaminazioni e slittamenti tra psicoanalisi, cinema, multimedialità e arti visive Gianluca Paolucci, «Vieni! Guarda e senti Dio». Teologia performativa in Herder Filippo Grendene, Il dialogo della tradizione. Intertestualità, Ri-uso, Storia Camilla Miglio, Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia

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scienze umane e sociali

Franco Bianco, Studi su Max Weber 1980-2002 Franco Bianco, Il giovane Dilthey. La genesi della critica storica della ragione

storia dell’arte

Alessandro Angelini, Il primato dell’occhio. Temi e metodo della storia dell’arte in età moderna Alessandro Del Puppo, Egemonia e consenso. Ideologie visive nell’arte italiana del Novecento Anna Jagiello (a cura di), Avanguardia polacca. Arte e cultura in Polonia tra il 1914 e il 1952

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teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo Laura Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia. 1995-1970 Alessandra Acocella, Caterina Toschi (a cura di), Arte a Firenze 1970-2015. Una città in prospettiva Luca Pietro Nicoletti, Argan e l’Einaudi. La storia dell’arte in casa editrice Carlotta Sylos Calò, Corpo a corpo. Estetica e politica nell’arte italiana degli anni Sessanta Ferdinando Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari

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