La lingua di Leopardi è stata nel complesso largamente studiata; mancava però uno studio approfondito sulle lettere, cio
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Italian Pages 332 [320] Year 2012
Table of contents :
SOMMARIO
Pier Vincenzo Mengaldo, Presentazione
1. Introduzione
2. Grafia e punteggiatura
3. Fonologia
4. Morfologia
5. Sintassi
6. Lessico e formazione delle parole
7. Conclusioni
8. Bibliografia
Indice delle forme e degli argomenti
Indice dei nomi
I T A LI A NA p e r l a s t o r i a de lla li n g ua s c r itta in italia col l a n a dire tta da luc a serianni * 7.
L’EP IS T O LAR IO D i G IACOMO LEO PAR D I LINGUA E STILE FABIO M AGRO
PIS A · R OMA F ABRIZ IO SERRA E D IT O RE MMXII
Pubblicazione realizzata col contributo del Dipartimento di Romanistica dell’Università degli Studi di Padova. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2012 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy issn 1828-6897 e-isbn 978-88-6227-481-4 isbn 978-88-6227-480-7
SOMMARIO Pier Vincenzo Mengaldo, Presentazione
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1. Introduzione .Tab. 1 .Tab. 2
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2. Grafia e punteggiatura 1. Grafia 1. Impiego della j e plurali dei nomi in -io 2. Uso dell’accento e dell’apostrofo 3. Nessi palatali 4. Unione e separazione grafica 5. Uso delle maiuscole e nomi stranieri 2. Punteggiatura 1. Uso del punto fermo 2. Uso della virgola 3. Uso dei due punti 4. Uso del punto e virgola 5. Altro
33 33 33 35 37 38 40 42 44 46 50 54 57
3. Fonologia 1. Vocalismo 1. Vocalismo tonico 2. Vocalismo atono 3. Accidenti vocalici 2. Consonantismo 1. Sorde e sonore 2. Palatalizzazione (nesso -ng-) 3. Assibilazione 4. Scempie e geminate 5. Altri fatti
61 61 61 66 75 82 82 84 85 87 91
4. Morfologia 1. Nomi 2. Pronomi 3. Articoli e preposizioni articolate 4. Avverbi e congiunzioni 5. Verbi 1. Alternanze tematiche 2. Presente 3. Imperfetto 4. Perfetto 5. Participio
95 95 98 106 108 110 110 112 116 119 120
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sommario 5. Sintassi 1. Uso dell’articolo 2. Uso delle preposizioni 3. Uso del nome e dell’aggettivo 4. Uso dei pronomi 5. Uso del verbo 1. Infinito 2. Participio 3. Gerundio 4. Accordo dei tempi e dei modi 5. Altri costrutti e perifrasi 6. Reggenze 7. Altri fatti 6. Sintassi del periodo
123 123 126 131 134 137 137 140 143 144 147 152 160 164
6. Lessico e formazione delle parole 1. Lessico 1. Aulicismi e arcaismi 2. Colloquialismi 3. Toscanismi e altri regionalismi 4. Francesismi e altri forestierismi 2. Formazione delle parole 1. Prefissi 2. Suffissi
187 187 187 203 212 220 228 233 239
7. Conclusioni
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8. Bibliografia
295
Indice delle forme e degli argomenti
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Indice dei nomi
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PRESENTAZIONE
L
a lingua di Leopardi è stata nel complesso studiata largamente – non si saprebbe certo dire esaurientemente per una tale penna. Così quella del poeta ad opera di vari studiosi a partire grosso modo dal compianto Emilio Bigi ; quella delle Operette, soprattutto nel folto e attentissimo volume di Maurizio Vitale (che altrove ne ha analizzato anche le varianti) ; anche i non altrettanto entusiasmanti Pensieri hanno conosciuto precise analisi linguistiche (specie Tesi). Quanto all’enorme Zibaldone evidentemente siamo più indietro, ma almeno per i suoi aspetti ‘testuali’ si può citare senz’altro il libro della Cacciapuoti. E si deve ricordare il folto numero degli studi piuttosto stilistici che meramente linguistici, nei quali spicca il maggiore leopardista di oggi, Luigi Blasucci ; anche la metrica, elastico contenente senza il quale non si comprende bene il contenuto, è stata abbordata da molti e da molti angoli visuali. Mancavano le Lettere, cioè, come è stato detto giustamente, l’Epistolario « più bello » e « più commovente » della nostra letteratura. Ora il vuoto è coperto come meglio non si poteva da questo studio completo e intelligente di Fabio Magro, già affermatosi per stringenti analisi stilistiche di poeti del Novecento (come Bertolucci e Raboni in altrettanti volumi e altri), e già entrato nell’officina leopardiana con un saggio su Aspasia in dialogo con quello celeberrimo di Spitzer. Magro procede, sulla base di spogli esaustivi e si vorrebbe dire accaniti, secondo le partizioni sempre utili per non dire indispensabili a sistemare un’analisi linguistica globale : via via dalla grafia e dalla punteggiatura (interessantissima) alla morfologia e alla sintassi, aspetto in Leopardi e in genere decisivo, infine al lessico organizzato e discusso secondo i suoi vari ‘colori’ (aulicismi e arcaismi, forestierismi ecc.). Ma c’è qualcosa che arricchisce e direi anima fortemente – e in modo sistematico, non parcellare – questi spogli e la loro sistemazione tecnica, ed è il fatto che le relative risultanze sono sempre incrociate con quelle di altri e a loro volta esaurienti riscontri. Vale a dire : con l’uso generale – specie epistolare – dell’italiano dell’epoca ; con quello dei maggiori corrispondenti, come il padre, Giordani, i fratelli, il che mi pare particolarmente produttivo anche quando non si restringe a confronti diretti di botte e risposte ; con la lingua delle altre opere di Leopardi, specie quelle in prosa con le quali il confronto è sempre serrato ; infine guardando dentro la stessa scansione cronologica dell’Epistolario, e guardando i dati alla sua luce, come appare più distesamente nelle pagine, allargate alla stilistica specie sintattica, della Conclusione. Con questo libro dunque, a dirla in breve, si amplia in modo sostanzioso (e nella sua ‘socialità’) la nostra conoscenza della scrittura di Leopardi, ma d’altra parte e non marginalmente quella dell’usus linguistico italiano del primo Ottocento. Tutto ciò fa del libro di Magro non solo un esempio di rara completezza e varietà di angolazioni interpretative, dunque prima di tutto di onestà, ma anche un esempio di metodo per studi dello stesso tipo (che vanno crescendo in Italia e altrove). E l’analisi dell’autore, che sa passare dalla ‘grammatica’ alla ‘retorica’ (ma sempre con misura), rende conto sia di tante costanti che di tante sfumature, in sincronia e in dia
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pier vincenzo mengaldo
cronia, di questa magnifica prosa insieme ‘personale’ e ‘sociale’, non meno attraente delle prose leopardiane d’altro genere consegnate alla pubblicazione, e capace anzi a volte di inalzarsi su queste per pathos bruciante ma anche per logica spietata ; per più di un aspetto da apparentarsi semmai a quella così spesso altissima dello Zibaldone.
Pier Vincenzo Mengaldo
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Per ogni cosa conosciuta, oggi riconosciuta. Ai miei di casa
N
on si vorrebbe mai chiudere un libro su Leopardi. E forse non si dovrebbe. Si può solo pensare che si sarebbe potuto e dovuto fare di più. Ma è un pensiero che ha senso solo se si ha la consapevolezza che non sarebbe comunque bastato. E in ogni caso è, come tutto, solo un passaggio, l’occasione di mettere un punto per riprendere fiato, tra questi pensieri e quelli che verranno subito dopo. È così che questo libro, iniziato con una tesi di dottorato discussa ormai troppi anni fa, si è in qualche modo lasciato concludere. Ho avuto la fortuna di potermi occupare di Leopardi nel tempo in cui anche il mio maestro, Pier Vincenzo Mengaldo, ha dedicato passione energia e studi, che in lui sono tutt’uno, al poeta di Recanati. Inutile dire quanto, in molti sensi, io ne abbia beneficiato. Ma non è inutile per me dire a lui qui tutta la mia riconoscenza. Sono grato inoltre al professor Luca Serianni per le sue preziose indicazioni e per la disponibilità ad accogliere il mio lavoro nella collana da lui diretta. Desidero ancora ringraziare Davide Colussi, Antonio Girardi e Carlo Enrico Roggia, che hanno letto alcune parti di questo lavoro regalandomi consigli e suggerimenti. Ai molti a cui devo tutto l’altro senza il quale anche questo poco non sarebbe stato possibile, grazie. Chiudo questo libro pensando a Marco, alla sua luminosa intelligenza, alla generosità, e al tanto bene condiviso. E chiudo con il solo desiderio di un altro set sul nostro sintetico di provincia, quella provincia lussureggiante e ottocentesca che era ed è la sua casa. Padova, settembre 2011
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1. INTRODUZIONE E però avrei maggior concetto di me stesso se mi credessi capace di farmi amare, che di farmi stimare. A Giampietro Vieusseux, 16 novembre 1827 E in verità si può dire che il dolore e l’amore sieno la doppia poesia di queste lettere. Francesco De Sanctis
1.
L
’attenzione nei confronti dell’epistolario leopardiano è stata ampia e precoce. Anzi, secondo Contini « l’ammirazione dei contemporanei fu giustamente istantanea. Cominciò a raccogliere le lettere, nel 1849 e più tardi, il purista Prospero Viani ; molti contributi precedettero la fondamentale edizione del carteggio (includente la parte dei corrispondenti) raccolto e illustrato in 7 volumi (1934-1941) da Francesco Moroncini e Giovanni Ferretti […]. La silloge, di cui furono tragici responsabili la solitudine e gli esili dell’autore, va comunque annoverata fra i più bei libri della letteratura italiana ». 1 Si tratta di un giudizio anticipato e condiviso anche da De Sanctis, come noto, il quale, rispetto ad una valutazione non certo positiva della prosa leopardiana, sottolinea la centralità dell’epistolario come corrispettivo esistenziale e individuale di una voce che altrove, e soprattutto nei Canti, sa essere collettiva : « leggendo le lettere, ti stringe l’animo tanto privato dolore ; leggendo le opere, tu pensi a’ dolorosi destini del genere umano, l’anima di un uomo fattasi anima dell’universo ». 2 Il consenso unanime da parte della critica è attestato del resto non solo dal numero e dalla qualità degli studi dedicati a questi carteggi, i quali godono oggi di una cospicua bibliografia, ma anche dal fatto che quasi nessuna antologia leopardiana ha nel tempo tralasciato di offrire ai lettori almeno una selezione della corrispondenza, confermandone la dignità letteraria e la piena appartenenza al canone delle opere leopardiane. Sulla questione si ritornerà comunque tra breve. Il primo a manifestare il proprio entusiasmo nei confronti della scrittura epistolare del giovane conte fu tuttavia Pietro Brighenti, in una lettera datata 1° giugno 1820 :
le ripeto che io nè sono, nè mi sogno di riguardarmi Letterato, ma pretendo di avere fatta molta pratica a giudicare ciò che piace, o non piace, e ciò che sarà accolto, o trascurato. Io dunque sono per dirle che Ella non solo è poeta in tutta la grandezza del termine, ma è scrittore di Lettere tali che io non crederei che l’Italia potesse presentare altri che la vinca in questo genere, compresi i più acclamati, e riveriti. Le dirò inoltre che avendo fatto vedere questa sua dedicatoria ad un’illustre Letterato, è questi pienamente convenuto nella mia opinione. Io vorrei dunque supplicarla di regalarne un tomo almeno all’Italia (305). 3
1 Contini 1988 : 257. Per una ricostruzione delle prime raccolte di lettere leopardiane, anche di quelle solo ipotizzate, è necessario vedere almeno Moroncini 1934 : x-xv. 2 De Sanctis 1869 [19692 : 386]. 3 Per la numerazione delle lettere cfr. qui § 1.3.
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fabio magro
Brighenti, che a questa altezza aveva già scambiato con Leopardi più di una trentina di lettere (se ne contano sedici per ciascuno), si riferisce qui in particolare alla dedicatoria al Trissino della canzone Ad Angelo Mai (« E al proposito di questa dedicatoria voglio arbitrarmi a dirle una cosa ch’Ella donerà alla confidenza dell’amicizia », da cui poi inizia il brano citato) : 1 anche per questo è interessante leggere la risposta che ricevette l’avvocato modenese :
Io la ringrazio di cuore dell’affetto che V.S. dimostra consigliandomi graziosamente di pubblicare un tomo di lettere. Io non so se ella intenda delle già fatte, o di altre da farsi a posta perchè le già fatte, quantunque io ne abbia in qualche numero scritte con una certa attenzione, non so se quelli a cui le ho indirizzate mi saprebbero buon grado s’io le pubblicassi. E generalmente suol esser pericoloso il pubblicar le lettere troppo recenti, o a motivo delle persone che vi si nominano, o per altri rispetti. Nè la mia età mi permette d’averne se non recenti (306, 9 giugno 1820).
Leopardi non ha inteso come esclusivo il riferimento di Brighenti alla dedicatoria al Trissino, che rientra in un genere o sottogenere di carattere più formale e pubblico, ma pur rifiutando per ragioni di opportunità la proposta, non manca di rilevare la cura riservata nella scrittura di un certo numero di lettere, e quindi l’implicita possibile valenza letteraria delle stesse (escludendola di rimando per altre). Stimolato dal suggerimento di Brighenti, si può in ogni caso ipotizzare che il giovane scrittore fosse stato portato a pensare anche ad altre lettere, magari proprio quelle che negli stessi anni aveva indirizzato e indirizzava a Pietro Giordani (con cui è in contatto già dal 1817), e nelle quali aveva senza dubbio dato il meglio di sé come epistolografo. Ne è convinto tra gli altri anche Moroncini, che in merito alle correzioni fatte da Giacomo su un certo numero di lettere inviate allo scrittore piacentino, pazientemente ricopiate da Paolina e Carlo, nota che ciò « mentre prova la cura meticolosa e instancabile ch’egli poneva nella forma di tutti i suoi scritti, prova dall’altro che anche di quelle sue lettere dovesse non mediocremente compiacersi, e, chi sa ?, fin d’allora pensasse all’eventualità che potessero un giorno divenire di pubblica ragione ». 2 Anche Giordani del resto ebbe modo di lì a poco di esprimere la propria opinione allo stesso “giacomino” : « Mi consola aver una tua lettera, che antipongo pur a quelle di Torquato, e agguaglio a quelle di Cicerone quanto alla bellezza ; e quanto all’affetto mi sono senza paragone » (582, del 24 agosto 1823). 3 Un’opinione che Giordani
1 Brighenti ribadirà la propria convinzione di lì a tre anni, ma questa volta il riferimento va chiaramente alle lettere scambiate tra i due : « Che diamine dite ? se avrò la pazienza di leggere. Le vostre lettere, in primis, sono lettere tali, che non credo l’Italia averne troppe di somiglianti. In secondo luogo esse sono di un degno Amico e padrone, e ogni parola di quelle mi è interessantissima » (595, 26 novembre 1823). 2 Moroncini 1934 : viii-ix. Le correzioni furono probabilmente compiute da Giacomo sulle copie delle lettere indirizzate a Giordani dopo che queste erano state spedite (il piacentino, come noto, non amava conservare le lettere dei propri corrispondenti). Ma su questo cfr. anche Dolfi 1992 : 117. Il fatto che negli anni successivi questo espediente sia venuto meno andrà in parte attribuito alle circostanze materiali (l’aiuto dei fratelli cessò, anche per l’uscita da Recanati di Giacomo, il quale tuttavia inizialmente optò per la stesura di minute), ma in parte, come vedremo, ad un minore investimento nel genere epistolare da parte di Leopardi. 3 Anche in precedenza tuttavia Giordani non era stato meno esplicitamente entusiasta : « Se io vi dico che la vostra dei 29 mi diletta anche sovra le altre vostre, che tutte mi sono carissime ; non l’abbiano le altre per male. Lascerò s’ella sia più bella : certamente è più allegra ; e questo mi empie di consolazione. È pur
introduzione
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ribadì e rinnovò nel corso del tempo ad altri interlocutori, come a Brighenti stesso, ad Antonio Gussalli, a Cesare Cabella ecc. (cfr. Diafani 2000 : 49-50). Su che cosa si fonda dunque tale unanime favorevole considerazione ? In quasi tutti i commentatori e critici l’accento cade principalmente sulle cose, sulla grande capacità di Leopardi di “mettere a nudo” il proprio cuore, e insieme di offrirsi con generosità all’interlocutore. La scelta degli argomenti, il tono generale della lettera, il colore della scrittura, tutto pare orientato verso il destinatario, senza che questo peraltro – e miracolosamente – faccia venir meno il dono di sé. Come osserva Damiani « la qualità narrativa della prosa delle Lettere emerge dall’andamento mimetico che ogni volta Leopardi le conferisce, adeguandosi al modo di pensare e di esprimersi dei suoi corrispondenti. Lo stile e il lessico subiscono diversi aggiustamenti a seconda dei particolari carteggi […]. Quando si cita da una lettera, a sostegno di una tesi o di un argomento ripreso in altri scritti, l’indicazione del corrispondente è quasi indispensabile per individuare la specifica accezione in cui i termini presi in esame vanno soppesati » (E2 : xviii). Il plurale usato da Damiani trova la sua ragion d’essere nell’impressione radicata di avere a che fare non con un’unica raccolta di lettere, la cui compattezza sia garantita dalla presa dell’io sulla realtà o almeno sulla corrispondenza, ma con una molteplicità di carteggi, 1 in cui il mittente si rivela e si nasconde come piegandosi sull’interlocutore. Il fascino straordinario di queste lettere sta così anche nella difficoltà di orientarsi rispetto alle dinamiche dei rapporti che vi si definiscono e sviluppano ; nella fibrillazione continua tra un assoluto bisogno di autenticità e un’altrettanto radicale strategia di fuga e depistaggio, che mette al centro non tanto le cose, ma le relazioni che si costruiscono attorno alle cose. La questione è certo molto delicata, e pone indubbiamente il problema del rapporto che Leopardi instaura con il genere, e insieme delle aspettative che egli ripone nella scrittura epistolare. Un rapporto che cambierà, e anche molto, nel tempo, ma che è tutt’altro che spontaneo o ingenuo, come confermano da un lato le riflessioni che lo Zibaldone dedica al genere, in particolare nella sua concreta espressione storico-letteraria, dall’altro i progetti di scrittura affidati ai Disegni letterari. 2 Di questo secondo aspetto la corrispondenza reca precoce traccia, come testimonia una lettera del 20 marzo 1820 a Pietro Giordani :
ingegnosa ! è pur giudiziosa ! è pur deliziosa ! Ma il bello è che tutte le altre mostran voi rarissimo d’ingegno e di giudizio (e giuro che dico assai meno di quel che penso) : questa dimostra me un rarissimo balordo : e lo mostra con tanta grazia, che non posso riprender me, e quasi non posso dolermi della mia rara balordaggine » (113, del 7 gennaio 1818). 1 Una conferma è data del resto dalla pubblicazione di carteggi dedicati ad un unico interlocutore, con particolare attenzione ai familiari, a Monaldo (1997), a Paolina e a Carlo (1997), ma anche all’editore Stella (cfr. edizioni Osanna, ma per Monaldo anche Adelphi). La critica stessa inoltre ha offerto diversi studi su singoli carteggi, o addirittura singole lettere (cfr. Spaggiari 2000, Melani 2002, Dolfi 1992, Blasucci 1965, Bellucci 1985, Kanduth 1985 ecc.). 2 Se è possibile pensare alla vita di Giacomo Leopardi anche in termini di felicità (ma è certo che lo sia), si potrebbe allora pensare ai momenti in cui quella mente straordinaria immaginava, concepiva, stilava i suoi Disegni letterari (PP** 1204-20). Di alcuni appena il titolo, di altri un abbozzo più compiuto, ma nell’insieme una vastità di interessi, una grandezza di intenti, un desiderio vivissimo di attraversare tutti i mondi dello scibile, di farli propri attraverso la scrittura. Se si può pensare alla felicità anche in questi termini, come proiezione di sé in un futuro laborioso di cose da fare, è altrettanto evidente però che nel caso specifico quella felicità ha preteso, nel tempo stesso del suo concedersi, un prezzo altissimo.
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fabio magro
Tante cose restano da creare in Italia, ch’io sospiro in vedermi così stretto e incatenato dalla cattiva fortuna, che le mie poche forze non si possano adoperare in nessuna cosa. Ma quanto ai disegni chi può contarli ? La lirica da creare (e questa presso tutte le nazioni perchè anche i francesi dicono che l’ode è la sonata della letteratura), tanti generi della tragedia, perchè dall’Alfieri n’abbiamo uno solo, l’eloquenza poetica, letteraria e politica, la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia d’ogni genere accomodata all’età nostra ; fino a una lingua e a uno stile ch’essendo classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati (290). 1
Un impegno di grande rilievo e apertura, di cui lo stesso Leopardi dimostra di avere piena consapevolezza, sia per quanto riguarda il valore di quelle ricerche sia per quel che concerne l’impossibilità di portarle a compimento, come si legge qualche riga più sotto nella stessa lettera :
forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch’io vo meditando, e ne’ quali sono andato esercitando alla meglio la facoltà dell’invenzione che ora è spenta negl’ingegni italiani. E p[er] quanto io conosca la piccola cosa ch’io sono, tuttavia mi spaventa il dover lasciare senza effetto quanto avea concepito (290).
Ci troviamo di fronte ad una passione che anche nella sua impetuosa capacità di progettazione ha qualcosa di ‘eroico’, e che sa comunque affiancare alle indicazioni di genere spunti concreti su molteplici temi e argomenti, coinvolgendo spesso nei suoi disegni l’intera storia della cultura occidentale. Ciò che più conta per noi però è che tra questi Disegni, e precisamente tra quelli riconducibili agli anni 1825-26, ce ne sia più di qualcuno che riguarda proprio il genere epistolare :
Epistole in versi. […] Lettere in prosa. Epistola o Lettere al fratello. […] Lettere di un padre a suo figlio. […] Lettera a un giovane del 20° secolo. […] Lettere a diversi uomini illustri, antichi e moderni (PP**1214-15).
Se il riferimento alla versificazione rimanda ad un genere poetico di ascendenza classica, le lettere agli uomini illustri non sono forse senza legame nei confronti delle letture di carteggi tra illuministi puntualmente registrate negli Elenchi di letture. Ma quello che più colpisce sono le lettere ‘familiari’, al fratello e – significativamente per l’inversione di ruolo – quelle di un padre al figlio. Le riflessioni invece che lo Zibaldone riserva alla letteratura epistolare non sono mai disgiunte da indicazioni in merito alla qualità della lingua e dello stile. È del resto nell’ambito di un discorso relativo al primato linguistico e letterario del Cinquecento che si pone in particolare la questione che ci interessa :
1 La capacità di immaginare nuovi lavori da fare, o la costanza di non abbandonare quelli precedentemente concepiti non lascerà tanto facilmente Leopardi. Ancora nel 1829 in una lettera a Colletta, dopo un lungo elenco di progetti di carattere saggistico, filosofico e linguistico, ma anche narrativo, Leopardi è costretto a chiosare così : « Voi riderete di tanta quantità di titoli ; e ancor io ne rido, e veggo che due vite non basterebbero a colorire tanti disegni. E questi non sono anche una quinta parte degli altri ch’io lascio per non seccarvi di più, e perchè in quelli non potrei darvi ad intendere il mio pensiero senza molte parole […]. In fine, queste non sono altro che ciance, ed io di tanti disegni non farò nulla ; Voi con un solo, non disegno, ma libro, anderete alla posterità. Dico non farò nulla, per non potere non già per non volere ; che la volontà non mi mancherebbe ; e circa alla gloria, sono ancora con Voi » (1440, marzo 1829).
introduzione
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Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura. […] Considerate quello che ho detto altrove del sommo divario fra la nostra lingua e la francese, e non vi parrà poca meraviglia che una lingua così difficile, varia, ricca, immensa, pieghevole e subordinata allo scrittore, come l’italiana, trovasse un secolo, dove tutti o la massima parte la scrivessero bene, e questo in ogni sorta di soggetti e di stili, in ogni qualità di scrittori, e anche in quelle cose che si scrivevano e si scrivono correntemente e senza studio, come lettere e cose tali, dove il cinquecento è sempre quasi perfetto modello della buona lingua italiana a tutti i secoli (Zib 691).
Leopardi considera « ricchissima, fecondissima, potentissima, regolatissima, e al tempo stesso variatissima, poetichissima e naturalissima » la lingua del Cinquecento proprio là dove non guarda al modello trecentesco ma, venendo meno alle sue aspirazioni, rimane per così dire pienamente sé stessa : « a noi […] tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono l’uso del loro secolo, e meno imitano il trecento » (Zib 2515-16). Il Cinquecento aggiunge studio alla natura, al ’300, e riesce perciò ad essere « il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura » al punto che « sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d’oggidì che avesse tanti pregi di lingua quanto l’infimo de’ mediocri scrittori di quel tempo » (Zib 690). Successivamente Leopardi arricchirà il suo pensiero precisando che tra le espressioni più libere e autentiche di quel secolo vanno considerate proprio le lettere familiari :
È notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov’essi ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr’era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che l’altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi (Zib 2516).
E ancora, poco oltre, con apprezzabile filtro storico, il concetto è ribadito :
Si stimavano le prose (o le poesie) del 500, per le cose, per l’immaginazione, invenzione, concetti, sentenze, scoperte o dottrine scientifiche, ec. erudizione ec. ec. benchè la lingua non piacesse, essendo pur la pura e vera lingua corrente di quel secolo. Onde per noi tali scrittori riescono purissimi ed elegantissimi perchè antichi. Ma corrotti si stimavano allora, e negletti, e di niun conto in somma nella lingua. E la pura lingua del 500, quella che si dimostra pienamente nelle lettere familiari di quel secolo, scritte a penna corrente, e ch’è ricchiss.a potentiss.a ec. e per noi puriss.a ed elegantiss.a e spesso tanto più pura e graziosa quanto è più propria del secolo, e più naturale, si chiamava allora decisamente corrotta, e si deplorava, anche da’ veri letterati la degenerazione della lingua italiana, non per altro se non perchè non era più propriam. del 300, benchè dopo la corruzione del 400, fosse risorta più bella e potente di prima […] (Zib 2540-41).
A dare una concretezza ancora maggiore al discorso interviene inoltre il riferimento alla figura centrale del Caro :
Certo è che nessun Fiorentino né del trecento né del 500 né d’altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non istudiate ; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come s’oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di studiarlo, lascian
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fabio magro
do star le lettere, familiari, ch’egli scriveva anzi di malissima voglia, come dice spessissimo, e dice ancora : E delle mie (lettere) private io n’ho fatto molto poche che mi sia messo per farle (cioè con istudio), e di pochissime, ho tenuta copia (lett. 180. vol. 2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi molto obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol. 2.). Vedi ancora quel ch’egli dice del poco studio e impegno con cui tradusse l’Eneide, la Rettor. d’Aristot. le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che siccome le lettere familiari (e forse queste anche più della Rettor. e delle Oraz.) ci riescono pur contuttociò di squisita e quasi inimitabile eleganza (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.) (Zib 2525-26). 1
Le lettere familiari del Caro in sostanza, proprio perché non sono orientate alla stilizzazione di un modello – lo scarso studio attestato dallo stesso autore sottolinea anzi la rinuncia o lo sprezzo di ogni adeguamento al canone letterario –, riescono tra le cose più eleganti, più naturalmente eleganti, di un autore ammirato da Leopardi proprio per la padronanza della lingua. Ci si può chiedere allora quale sia il rapporto tra questo interesse di Leopardi per l’epistolografia e per la lingua dell’epistolografia – nella sua doppia veste di riflessione su di essa e proiezione in essa –, e l’insieme dei carteggi che concretamente nel corso degli anni sono stati raccolti e noi oggi almeno in parte leggiamo. A questa dialettica del resto si deve aggiungere la suggestione derivata dall’ammirazione per l’Alfieri e per il Foscolo anche dell’Ortis, suggestione che sta tra l’altro all’origine dei diversi tentativi di narrazione autobiografica (Memorie del primo amore, Vita abbozzata di Silvio Sarno, Storia di un’anima ecc., su cui cfr. SFA), collocabili nella prima fase della vita di Leopardi. 2 Non si può dunque sfuggire alla tentazione di considerare l’epistolario come il frutto, spontaneo ma, come dire, anche di serra, dell’intreccio tra quelle riflessioni e quei disegni, tra i modelli ammirati e l’elaborazione dei propri progetti, dando così ragione a quanti considerano il complesso dei carteggi leopardiani come un’opera a tutti gli effetti, una sorta di autobiografia romanzata o meglio di romanzo autobiografico. Su questo versante si colloca in effetti Damiani, l’ultimo curatore delle lettere leopardiane, il quale porta alle estreme conseguenze alcuni spunti dello stesso De Sanctis, recuperando pure Contini :
È forse giunto il momento di considerarle invece [le lettere leopardiane], pur accettando e anzi augurandosi l’evenienza di altri fortunati ritrovamenti, un’opera, un libro romanzesco di genere autobiografico ed epistolare, che ha finito per sostituire il progetto di un vero e proprio romanzo, il cui linguaggio e il cui svolgimento sarebbero stati a esse affini. Bisogna leggerle una dopo l’altra come uno dei « più bei libri della letteratura italiana », secondo il giudizio di Contini […]. Potrà dispiacere o essere criticamente discussa la mancanza della voce dei corrispondenti, trasmessa solo per via indiretta, ma questa rinuncia forzata frutta una completa immersione nel flusso del romanzo della vita di Leopardi, scritto da lui stesso nel vivo degli eventi con una “eloquenza” e talora un pathos che nessuno dei suoi interlocutori – siano pure Giordani o Carlo o Paolina, autori di missive memorabili – può uguagliare. Infine
1 Per altri luoghi dello scartafaccio in cui si tratta, in vario modo, del genere epistolare cfr. Zib 136, 1204, 2540, 2615, 4280 ecc. 2 A quest’altezza risale anche la lettura dell’Apologia di Lorenzino de’ Medici, consigliata più volte dallo stesso Giordani, a cui infine Giacomo scrive : « Solamente a forza di dolore sono riuscito a leggere l’Apologia di Lorenzino de’ Medici, e confermatomi nel parere che le scritture e i luoghi più eloquenti sieno dov’altri parla di se medesimo » (234*, 21 giugno 1819). Cfr. anche Zib 60-61.
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si afferma con tale scelta il valore autonomo, letterario e narrativo prima che documentario, dell’epistolario di Leopardi […] (E2 : xvii-xviii).
Si è così concluso un lungo percorso critico lungo il quale gli studiosi, dopo aver considerato i carteggi leopardiani soprattutto come un altissimo documento dei travagli interiori e materiali attraversati dall’autore dei Canti, se ne sono successivamente nutriti come tesoro di dati e notizie funzionali alla lettura dell’opera letteraria, per giungere infine a sancire la completa autonomia artistica dell’epistolario. E tuttavia, a mio avviso, si può accogliere quest’ultima posizione solo a patto di considerarla una provocazione. Pensare all’insieme dei carteggi leopardiani esclusivamente come ad un’opera letteraria non comporta solo immaginare in Leopardi una forza d’azione addirittura superiore alla capacità progettuale, ma significa soprattutto togliere e non aggiungere valore. Sottraendo realtà allo scambio epistolare e puntando sulla trasfigurazione romanzesca si perde, al di là della verità umana (per quanto complessa e sfaccettata possa essere), la verità leopardiana di una scrittura che è sempre, a qualsiasi livello, una ricerca di stile : uno stile come scelta etica irrinunciabile, o come unico modo di stare nel mondo, o nella tradizione del mondo, facendo di ogni scelta di lingua, indipendentemente dalla sua finalità, una scelta innanzitutto di responsabilità morale. Da qui, da questa posizione e non da un investimento letterario nella materia epistolare discende la superiorità di Leopardi nei confronti dei suoi interlocutori. L’assenza delle lettere dei corrispondenti inoltre, se può forse favorire la trama romanzesca, è comunque un’opzione che non si dà, perché quelle lettere esistono e interagiscono con quelle leopardiane condizionandole nei temi oltre che nella forma. Da questo punto di vista ha ragione Laura Diafani nel sottolineare che « nella sua ipotesi di applicarsi alla scrittura epistolare Leopardi non seleziona l’argomento, il tema. È l’identità dell’ipotetico destinatario a qualificare le diverse opere » (Diafani 2000 : 254). Come dire che il punto di partenza è sempre il tu : se il tu manca, cioè se mancano gli interlocutori, anche l’io non si dà. Vale la pena di pensare a questo punto ad un approccio complessivo e dinamico ma aderente, che tenga insieme le cose e le parole. Non possiamo chiedere a questa raccolta di carteggi quello che si chiede alla letteratura : se nella scrittura creativa, e in particolare nella lirica, il massimo grado di oggettivazione si ottiene con il massimo grado di individuazione, nella scrittura epistolare la verità della dinamica relazionale ci chiede lo sforzo di tenere cuore e occhi bene aperti sul vivo e doloroso caso di un’esistenza particolarissima quanto eccezionale. Se si vuole comunque affrontare la questione in termini di valutazione letteraria si tengano allora almeno in considerazione, e si dia loro carattere generale, le parole che Leopardi stesso, quasi al termine della vita, suggeriva a Charles Lebreton di riportare all’amico Louis De Sinner :
Dites-lui, je vous prie, que n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder, mais ma carrière n’est pas allée plus loin (1939*, Napoli, giugno 1836).
Del tutto analogamente ad altre opere leopardiane, e in primo luogo proprio ai Canti, dentro i confini circoscritti e in ogni caso sfuggenti di questi préludes si gioca il rapporto che ogni singola lettera spedita da Leopardi intrattiene con i modelli di riferimento da un lato, il genere e la sua storia, e le aspettative e i progetti o desideri formulati sullo stesso genere dall’altro : ogni volta da capo ; ogni volta, in luogo di un’opera, un nuovo preludio.
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L’epistolario leopardiano copre un arco cronologico di circa trent’anni, estendendosi per quasi l’intera esistenza dell’autore. Iniziata a soli nove anni (la prima lettera è del 16 ottobre 1807, l’ultima del 27 maggio 1837) la corrispondenza si infittisce a partire dal 1817 (41 lettere, allo stato attuale delle conoscenze), ma è in particolare nel quadriennio 1825-1828 che si registra il numero maggiore di contatti, con ben 337 lettere, più di un terzo del totale (che ammonta a 936). È un periodo di fervida attività con spostamenti a Bologna, Milano, Firenze e Pisa, 1 in cui i rapporti epistolari sono il riflesso di un fitto intrecciarsi di relazioni umane e intellettuali che si accompagna all’intensa produzione letteraria sia in proprio sia come divulgatore culturale : può forse riassumere bene l’atteggiamento di questi anni, attivo e dinamico ma anche disincantato dalla vacuità del mondo intellettuale italiano, quella sorta di burla filologica rappresentata dal Martirio de’ santi padri (1826). 2 Siamo in questo senso assai lontani dall’atmosfera tipica delle prime lettere in cui un giovanetto di provincia, nobile, con ambizioni letterarie, chiede udienza e accreditamento presso letterati affermati, e imposta perciò la sua corrispondenza nel segno retorico e linguistico di una lontananza assoluta. Dopo quell’intenso quadriennio l’epistolario leopardiano si mantiene su una media di poco più di 40 lettere all’anno fino al 1833, per poi ridursi bruscamente. Nonostante le zone estreme restino dunque sfrangiate, ciò che possediamo basta ad affiancarsi come su di un tavolo parallelo all’intera altra produzione del poeta, quella ufficialmente letteraria, tracciandone spesso la storia interna, restituendone gli umori, le preoccupazioni e il progressivo distacco che ne accompagna costantemente la parabola creativa, legando inoltre quella parabola ad una condizione esistenziale difficile, problematica, manchevole di sostegno e perciò costantemente protesa, in tensione. La vicenda umana, intellettuale e letteraria di Leopardi è dunque restituita pienamente da queste lettere, che permettono di cogliere il processo di maturazione dell’uomo oltre che dello scrittore sia attraverso i dati esterni, relativi all’intrecciarsi delle diverse esperienze, sia grazie alle più sottili dinamiche di evoluzione della lingua e dello stile. 3 Anche sotto questo aspetto pare riduttivo considerare questi carteggi solo come un’opera letteraria : le lettere sono un filo che tenacemente cuce e salda vita con opere. Da un primo punto di vista, relativo agli interlocutori e genericamente ai contenuti, le lettere possono essere collocate in tre ambiti distinti : quello familiare innanzitutto, che rimane il punto di riferimento costante, pur con tutte le implicazioni psicologiche che conosciamo ; quello del dialogo intellettuale con alcuni dei più im
1 Bologna, a più riprese : dal 17 al 26 luglio 1825, dal 29 settembre dello stesso anno al 3 novembre 1826, dal 26 aprile al 20 giugno 1827 ; Milano : dal 30 luglio al 26 novembre 1825 ; Firenze : dal 21 giugno all’8 novembre 1827 e dall’8 giugno al 10 novembre 1828 (e poi ancora nel 1830, dal 10 maggio al 1° dicembre ; e nel 1833, dal 17 marzo al 2 novembre) ; Pisa : dal 9 novembre all’8 giugno 1828. Per tutti questi spostamenti cfr. Brilli 2000 : 105-06. 2 Non va dimenticato che in questo periodo si colloca anche la stampa dei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio (nell’edizione dei Versi, Bologna, Stamperia delle Muse, 1826). 3 Per una lettura dell’epistolario leopardiano secondo l’ordine cronologico e con una puntuale discussione dei toni e dei contenuti, si veda Diafani 2000.
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portanti esponenti della cultura italiana e non solo ; quello professionale, che concerne i rapporti con gli editori. Bisogna considerare però che se da un lato il numero totale dei destinatari di almeno una lettera leopardiana supera il centinaio, dall’altro più della metà dell’epistolario (513 lettere) è costituito da missive inviate a soli 7 corrispondenti (cfr. tab. 2). Se ne può dedurre in prima battuta che nel vasto echeggiare di voci minime e diverse, ma in qualche caso pure significative e con le quali Leopardi intreccia un dialogo anche intenso (si pensi a De Sinner, a Colletta, a Papadopoli, allo stesso Vieusseux ecc.), a dare corpo e spessore alla corrispondenza leopardiana, nei suoi toni e accenti fondamentali, sono soprattutto le relazioni più intime e fraterne : ne rappresenta una conferma sia il fatto che ad oggi l’epistolario si apre e chiude con una lettera al padre, sia il doppio ruolo esercitato da personaggi come Antonio Fortunato Stella o Pietro Brighenti, con cui entrano in gioco questioni di carattere professionale ma sempre sullo sfondo di uno scambio d’affetti sincero. (È bene del resto ricordare che per Leopardi nessun rapporto intellettuale è privo di un investimento affettivo). 1 La naturale ritrosia e la diffidenza nei confronti della società organizzata nei salotti e nelle corti italiane, maturata si può dire fin dal primo soggiorno romano (novembre 1822 – aprile 1823 ), non potevano del resto che trovare conferma anche sotto questo riguardo, nel senso di una disponibilità o generosità che solo con pochi può darsi in profondità. Si dovrà poi considerare, con Nencioni, che « un epistolario non è che la raccolta di ciò che sopravvive ad una vasta dispersione » : 2 anche un lettore frettoloso non potrà non notare la ricorrenza con cui Leopardi e i suoi interlocutori lamentano ritardi, lacune, perdite nella corrispondenza. Prendendo in considerazione tutti i riferimenti a lettere spedite e ricevute di cui non si ha riscontro, a quelle che non arrivarono a destinazione e ad altre disperse nel tempo, Spaggiari ha calcolato ad esempio che dal carteggio tra Leopardi e Giordani mancano « più di venti » missive del recanatese. 3 Si tratta di lettere che non solo aiuterebbero probabilmente a chiarire alcune questioni rimaste aperte nel rapporto tra i due, ma certo consentirebbero di dare a questa corrispondenza anche da un punto di vista formale, quantitativo, quel posto d’onore (dietro il carteggio con il padre) che di fatto già detiene sul piano dei contenuti, dell’intensità affettiva, e dell’importanza letteraria. Rispetto al carteggio con Monaldo tuttavia, quello con Giordani si sviluppa lungo un periodo di tempo ben
1 Altro caso emblematico è rappresentato dal rapporto con il filologo svizzero, di stanza a Parigi, Louis De Sinner. 2 Nencioni 1973 [1983 : 191]. Una dispersione che nel caso almeno di Leopardi sembra ancora in grado di riservare delle sorprese, come conferma il ritrovamento, in un archivio privato lombardo, di una lettera autografa di Giacomo al fratello Carlo : la lettera, datata Bologna, 30 aprile 1827, era già nota a Viani che però ne aveva fornito copia censurandone una parte (cfr. Panajia 2002 : iii-viii ; nella sua interezza è pubblicata anche in E2 : 734-35). Dalla Universitätsbibliothek di Basilea è inoltre emerso di recente il ‘biglietto’ pubblicato in Terzoli 2010. 3 Cfr. Spaggiari 2000 : 17-19. Ma si veda anche l’introduzione di Moroncini all’epistolario da lui curato, che ricostruisce bene la sorte seguita da molte lettere (Moroncini 1934 : ix-x), o gli analoghi accenni di Damiani a « reticenze volute e spazi bianchi, lasciati dal caso o da occulte censure » (E2 : xlvii-xlviii). Blasucci inoltre lamenta la mancanza delle lettere inviate a Giovanni Rosini, lettere che avrebbero potuto documentare il contributo portato alla stesura della Monaca di Monza, il romanzo che il professore toscano chiese a Leopardi di leggere e rivedere, e che lo impegnò per i primi nove mesi del 1828 (cfr. Blasucci 1991 : 114-19). E così via.
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minore e dà tutto il meglio di sé nella sua prima parte. Del resto è stato già sottolineato da Moroncini che la corrispondenza con il letterato piacentino copre un arco temporale (dal febbraio 1817 al settembre 1832, escludendo solo l’ultima lettera, del ’37) quasi esattamente sovrapponibile alla stesura dello Zibaldone (estate 1817 – 4 dicembre 1832). Dopo i sette anni di « studio matto e disperatissimo » (118*, a Giordani, del 2 marzo 1818), l’incontro (soprattutto sul piano epistolare) con l’illustre scrittore piacentino costituisce in effetti un autentico momento di svolta, l’occasione per fare un primo passo verso quel mondo letterario tanto vagheggiato e sognato, e insieme la possibilità di mettere in gioco l’immenso patrimonio di sapere accumulato, cioè letteralmente di ‘farne parola’, con sé stesso nel diario e nel contesto di un dialogo finalmente autentico nelle lettere. Questa relazione da pari a pari, nel senso di un preciso e consapevole rispetto dei ruoli, 1 era stata in qualche modo attesa e cercata, anzi, a rileggere un passo del Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone, quasi presagita :
Qual piacere di penetrare nella stanza silenziosa di quell’imperatore troppo grande per essere imitato, e di vederlo scrivere familiarmente ad un uomo, che egli amava con tenerezza, ad un Maestro ch’egli riveriva di cuore, e che aveagli insegnato a detestare la invidia e la doppiezza propria di un tiranno (PP** 935). 2
Straordinariamente generosa e ricca di piaceri lo è in effetti anche per noi, quella stanza silenziosa nel palazzo del padre a Recanati, da cui partono le lettere per Giordani, in cui si iniziano a raccogliere i pensieri del diario, e in cui vengono scritte le prime canzoni. Qui importa soprattutto notare la contaminazione, il riflusso continuo di una pagina nell’altra, a testimonianza di una fortissima unità di pensiero e sentimentale : è così che soprattutto a questa altezza uno stesso pregnante nucleo tematico riesce ad attraversare modalità espressive ed artistiche diverse. 3 Si vedano a questo proposito le parole acute di Bigi :
Un esame storico-stilistico […] dovrebbe anzitutto distinguere il gruppo delle lettere scritte all’incirca dal ’17 al ’21, le quali presentano nel complesso una fisionomia stilistica abbastanza unitaria : abbondanza di figure retoriche affettive, come esclamazioni, apostrofi, interrogazioni, parallelismi e antitesi ; frequenti aggettivi spesso al superlativo (« superbia vilissima e indegnisssima », « tenerissimamente vi amo ») ; metafore insistite e intense (« l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora », « nè io avrei dato il mio manoscritto allo Stella perchè me lo crocifiggesse fra quelle tante schifezze del suo giornale ») ; alfierismi (« stradeliberato ») ; saporose citazioni letterarie (« poste esecrande e sputacchievoli, per dirlo alla demostenica ») ; sintassi anch’essa prevalentemente affettiva, ma sovente nelle pagine più curate,
1 Almeno da parte di Giacomo : « Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io possa sperare d’averlo d’ora innanzi a maestro, son cose che appena posso credere » (49*, 21 marzo 1817), e di lì a poco : « E però sia stretta, la prego, fin d’ora tra noi interissima confidenza, rispettosa per altro in me come si conviene a minore, e liberissima in Lei » (60*, 30 aprile 1817) ecc. 2 Il Discorso è della prima metà del 1816. Ma Leopardi in questi anni non sembra avere alcun freno e rende così partecipe lo stesso Giordani della gioia per il compimento delle sue attese : « O quante volte, carissimo e desideratissimo Sig.r Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l’amicizia sua […] O sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che domandava » (60*, del 30 aprile 1817). 3 Altri casi (da cui manca però l’epistolario) di riscrittura in prosa di uno stesso tema su registri stilistici diversi sono stati segnalati, documentati e analizzati da Blasucci 2001 [2003 : 103-23].
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stilizzata nelle forme solenni dell’oratoria tradizionale. Chi non riconosce i segni del gusto delle prime canzoni ? 1
Ha ragione Bigi nel notare la forte congruenza in termini di registro stilistico tra la poesia e la prosa epistolare, anche se in generale questa comunanza di toni va ricondotta al vigoroso e pervasivo entusiasmo (enthousiasmós) che anima il giovane Leopardi a questa altezza, 2 desideroso di farsi conoscere e di intervenire con spirito appassionato e militante nell’agone letterario. 3 E d’altra parte un confronto anche con la pagina zibaldoniana conferma le qualità, già altissime a questa data, dello scrittore, che sa trovare diversi colori linguistici per generi letterari differenti. Si prenda ad esempio l’evidente convergenza tra l’attacco e i versi 21-30 de La sera del dì di festa : 4
Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna […] Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate ! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell’artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello ; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. […] ;
1 Bigi 1954 : 186 (a parte qualche indicazione discutibile, in merito ad esempio all’uso del superlativo che è tipico di tutto Leopardi). Tra gli alfierismi invece ricordo anche « stomacato » in 60* a Giordani, poche righe prima tra l’altro di chiamare in causa lo stesso astigiano (« stomacato » si trova nella Vita di Alfieri, Epoca iv, cap. xix, ed è usato nel contesto, analogo a quello leopardiano, di uno sfogo contro la mediocrità generale). Si veda poi anche Dolfi 1992 : 111n, secondo cui « uno studio auspicabile delle lettere di pari data o di date assai prossime [1817-20] permetterebbe non solo di ricostruire le leopardiane strategie di rapporti, ma di verificare anche il costituirsi di stilemi, blocchi espressivi e sintattici che trascorrono con varianti minime da un testo all’altro ». 2 Si veda la magnifica – per il modo di tornare a sé (a noi) attraverso l’altro, anche quando l’altro è l’Antico – pagina di Zib 96-97 : « Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariam. l’entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario ; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l’immaginazione, e i sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma osservo che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un’aria di festa, che la felicità non ci pare un’illusione, anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che ci fa palpitar e d’entusiasmo e di speranza, e sentiamo una gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella non sia nel nostro carattere, o nell’abitudine contratta colla sperienza della vita ». 3 Ovvio il rimando a PR e a CI, ma si pensi pure agli articoli pubblicati in rivista e a quelli ugualmente concepiti e scritti per tale scopo, anche se poi lasciati nel cassetto. 4 Le varianti più significative per il passo in questione, al di là del titolo (giorno festivo > dì di festa), sono : al v. 1 il passaggio da Oimè a Dolce e ; v. 23 da mi getto e mi ravvolgo a mi getto, e grido, e fremo (con la rinuncia dunque ad un richiamo diretto alla lettera a Giordani). Importante è anche la correzione fatta da Leopardi per l’edizione Starita, da chieggio a chieggo, che comporta la scelta di una forma meno connotata sul piano letterario (ma ancora privilegiata nell’edizione Piatti del 1831).
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un passo di una lettera a Giordani del 6 marzo 1820 (287*), Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio ; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. 1
un altro allo stesso del 24 aprile del medesimo anno (298*), Se noi fossimo antichi, tu avresti spavento di me, vedendomi così perpetuamente maledetto dalla fortuna, e mi crederesti il più scellerato uomo del mondo. Io mi getto e mi ravvolgo p[er] terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere. La mia disgrazia è assicurata p[er] sempre : quanto mi resterà da portarla ? quanto ?
e il seguente brano di Zib 50-51, Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Al diario innanzitutto è affidata l’asciutta descrizione post eventum, la meditazione che si fa assoluta grazie all’indeterminazione temporale e all’uso dell’imperfetto con funzione distanziante, conservando però una traccia della potenziale liricità di quella situazione almeno nel lessico, modulato su parole che rievocano sensazioni vicine ai concetti di indefinito e sfumato cari al poeta. Ma è tra la poesia e le lettere che si fa più stringente il rapporto : a partire dallo stesso materiale linguistico si hanno soluzioni diverse, entrambe di straordinaria forza emotiva e fantastica. Benché ugualmente incalzante nel polisindeto e animata da una medesima efficacia rappresentativa, la prosa della prima lettera è rispetto all’incipit della poesia più distesamente narrativa e descrittiva, anche nell’esplicitare le intuizioni sull’origine del processo interiore (« mi parve di sentire un moto […] la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo ») ; tra i versi successivi della lirica e la seconda missiva invece è mantenuto il presente dell’immediatezza lirica, ma l’una rovescia rispetto all’altra l’ordine delle azioni e – fondamentale – mentre la poesia procede orizzontalmente potenziando la serie delle coordinate (come in 287*), accentuando così la frenesia e l’urgenza del momento e quasi mimandone la gestualità, la lettera (298*), gerarchizzando la struttura sintattica, neutralizza il pathos. La ripresa con variazione del tema e la replicazione della domanda con l’avverbio isolato (per la terza volta in due righe) segnano nella lettera la distanza da quella compiutezza ritmica e melodica che nella poesia è ottenuta per sottrazione.
1 Va notato il monottongo in tepida : benché la fonte non sia autografa, si tratta comunque di una copia fatta da Paolina su cui Giacomo ha segnato alcune correzioni (registrate da Moroncini, cfr. E1 : II, 17-18). È significativo dunque che il monottongo sia sopravvissuto anche ad una seconda lettura. Segnale probabilmente della consapevolezza da parte di Leopardi di un innalzamento di tono del passo. L’immagine può essere messa in relazione tra l’altro con l’attacco di Zib : « Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante ».
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Il passo narrativo e la trasfigurazione fantastica del proprio mondo interiore, qualità proprie delle lettere, si staccano inoltre di gran lunga dall’impianto più riflessivo e raziocinante della pagina del diario. Anche la memoria dell’antico, centrale ma più concreta e storicizzata nella meditazione dello Zibaldone, rientra nelle lettere in un processo di trasformazione che in 287* spinge il ricordo del passato nell’oggi, e in 298* immagina invece di proiettare il presente all’indietro. Più stretto è dunque il legame tra le lettere e il testo poetico, e questo perché sono i carteggi il vero corrispettivo in prosa dei Canti. Come si è detto sopra, un corrispettivo che è prima psicologico ed esistenziale che letterario, o meglio è l’insieme inestricabile e irriducibile di tutti e tre gli aspetti. 1 La poesia dei Canti e la prosa delle lettere nascono e si nutrono di una stessa, fondamentale condizione sentimentale e psicologica, condivisa da nessun’altra opera leopardiana, almeno nella stessa misura. Centrale in entrambi i casi è, come si è visto rapidamente, il rapporto io-tu, la ricerca incessante e ineludibile di un interlocutore solidale a cui affidare, e con cui condividere, la propria bruciante interiorità ; un tu che se nei Canti può anche essere collettivo o indefinito (ma lo è soprattutto per noi che ci riconosciamo in esso), non sempre nelle lettere corrisponde esattamente al destinatario della missiva, perché dietro e oltre il tu reale c’è sempre anche un io di guardia. La fortissima relazione che si instaura tra l’esperienza esistenziale (biografica e culturale, che in Leopardi sono intimamente comunicanti) e la necessità, l’urgenza della sua formulazione linguistica appartiene certo anche allo Zibaldone, ma qui è proprio la debolezza, concreta e fantastica, dell’interlocutore a essere decisiva e a produrre un minore investimento emotivo. Su di un piano più strettamente formale inoltre sia i Canti che l’epistolario costruiscono le loro diverse strutture testuali mediante due strategie espressive apparentemente contrapposte ma in realtà inscindibili : da un lato l’utilizzo di una sintassi ampia e avvolgente, certamente implicata con i modelli linguistici del classicismo cinquecentesco, dall’altro la brevità o l’accelerato, le strutture frante e ripetitive che mimano l’enfasi, il pathos, la commozione, e insomma veicolano più esplicitamente gli umori dell’io (tipicamente nelle prime lettere a Giordani, ricche tra l’altro di frasi epigrafiche e sentenziose). Si tratta in qualche modo del corrispettivo formale da un lato della razionalità analitica che mette ordine nelle cose della realtà, e dall’altro della passione vitale che su quella realtà, umana e intellettuale, punta ad agire : sono i due volti intimi dell’uomo, diversi ma ugualmente necessari, e che non è perciò possibile disgiungere. 2 Un altro aspetto che le lettere e la poesia sembrano condividere è la disponibilità a mutare le proprie forme nel tempo, e a mettere in discussione i generi e le loro cer
1 Anche Solmi sottolinea l’« interesse poetico » dell’epistolario, « soprattutto per gli squarci di dolorosa spontaneità, per i patetici incisi e flessioni del discorso, dove pure sorprendiamo una naturale affinità coi più intimi movimenti della lirica leopardiana » (Solmi 1966 [1987 : 68]). Sul rapporto inoltre tra la poesia e, diciamo in generale, la prosa si veda anche p. 68 : « Né l’accostamento di modi ed espressioni delle lettere alle meditate elaborazioni della lirica leopardiana sembri indebita commistione di letteratura e vita, se il compito della poesia è proprio quello di ritrovare, attraverso una calda e approfondita attenzione, il movimento stesso spontaneo dell’esistenza, che altra volta può esprimersi, molecolarmente, al di là delle formule consolidate dello scambio sociale, nell’effusione impremeditata di una battuta di dialogo epistolare, o di dialogo senz’altro, o magari nella fuggevolezza d’un pensiero nato e tosto spento ». 2 Per questi due aspetti nei Canti rinvio a Mengaldo 2005b [2006 : 142-46] e poi anche 2009.
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tezze. Si assiste dunque in diacronia ad un cambio di prospettiva che per quanto riguarda la scrittura epistolare va messo in relazione con la diversa finalità che nel tempo assume la lettera : da unico mezzo per entrare in contatto con la società letteraria idealizzata dal giovane Leopardi, a quotidiano strumento per mantenere i contatti con la società romana, bolognese, fiorentina o con la stessa famiglia, nei frequenti soggiorni al di fuori di Recanati. I cambiamenti che si evidenziano sul piano diacronico andranno così messi in relazione con quelli che riguardano la variabile diafasica, sia in linea generale sia in relazione ai singoli corrispondenti. Da questo punto di vista i salti di registro possono anche essere dovuti a fattori legati in senso lato alla diatopia, o meglio alla posizione del mittente rispetto al « natio borgo selvaggio ». 1 Solo quando Giacomo è lontano da Recanati entrano in gioco come interlocutori i familiari, in particolare Monaldo, Carlo e Paolina con i quali non sono solo le cose a cambiare, ma il tono stesso del colloquio, che accoglie modi più complici e informali, per larghi tratti venati di nostalgia. D’altro lato il tono delle lettere che partono da Recanati è di massima più grave e sofferto, vista la condizione di emarginazione e anzi reclusione avvertita dall’io : una voce che dal proprio sofferto esilio, nella progressiva perdita di speranze e illusioni, cerca ascolto, soccorso, comprensione. Lo stesso concetto di ‘informalità’ andrà poi valutato con attenzione. In occasione della dedicatoria della canzone Ad Angelo Mai, Leopardi chiese al Trissino di essere perdonato « se nella dedica l’ho trattata con quella certa familiarità che s’usa nelle lettere, alle quali non par che s’adattino le cerimonie che richiede il commerzio civile » (320). 2 Ma si ricordi anche quanto si diceva sopra sulle lodi dello scrivere familiare di Marc’Aurelio nelle lettere a Frontone, oppure l’accenno allo stile familiare nei carteggi dei cinquecentisti (« le lettere dove ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima »). A queste indicazioni, che vanno concordemente verso un’unica una direzione, sembra contrapporsi quella contenuta nella risposta di Leopardi a Brighenti che abbiamo già citato (« quantunque io ne abbia in qualche numero scritte con una certa attenzione » 306). Con le dovute cautele, possiamo comunque immaginare che entro questi due poli si collochi l’ideale continuum relativo alla variabile diafasica che descrive le oscillazioni stilistiche e linguistiche dei carteggi leopardiani. Una concreta legittimazione di queste escursioni sembra del resto confermata dallo stesso Leopardi, il quale inserisce nella sezione Lettere della Crestomazia della prosa testi assai eterogenei per soluzioni stilistiche e per registri linguistici (da Petrarca a
1 Sul versante degli elementi che hanno a che fare con gli spostamenti di Leopardi, andrà poi registrata la tendenza a fornire versioni seriali in merito ad alcuni specifici argomenti come ad esempio il viaggio, l’alloggio, le prime impressioni di una città ecc. Per quanto riguarda Pisa ha notato la cosa Blasucci, secondo cui « i termini adoperati per esprimere la sua soddisfazione per l’alloggio e soprattutto la sua gioiosa meraviglia per la scoperta della città, si rincorrono da una lettera all’altra : e in ognuna di esse l’autore riesce a rinnovare la sua emozione » (Blasucci 1991 : 107). Diversamente, le lettere del primo soggiorno romano evidenziano una maggiore selezione dei materiali, anche linguistici, in base ai corrispondenti (in particolare per Monaldo, Carlo e Paolina) : al di là della maggiore o minore libertà e confidenza con ciascuno, siamo qui ancora in una fase in cui probabilmente Leopardi sente più forte la suggestione del genere e dei progetti che attorno ad esso andava immaginando. Per altre considerazioni in merito cfr. qui § 7. 2 Basta in effetti confrontare questa dedicatoria con quella di solo un anno precedente indirizzata al Monti per le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, per cogliere bene, in tutti i campi, dal lessico alla sintassi alle strutture retoriche e diegetiche, l’abbassamento di registro (cfr. Terzoli 2009).
introduzione
29
Bembo, da Bernardo Tasso a Giacomo Bonfadio, da Giovanni della Casa a Torquato Tasso a cui va l’onore della scelta di tre lettere, esattamente come per Annibal Caro). 1 L’approccio all’epistolario leopardiano – come in realtà l’approccio ad ogni epistolario moderno – deve dunque tener conto dello statuto frammentario e lacunoso del corpus, della mancanza di progettualità complessiva, insomma dell’implicita natura polimorfa e pluristilistica del genere, che nel complesso evidenzia uno statuto ambiguo, tra lingua letteraria e scrittura di servizio, tra richiami espliciti e consapevoli ai modi di un colloquio in presenza e l’attenzione per una grammatica epistolare fatta di regole e convenzioni (su cui cfr. Antonelli 2003 : 25-88). La considerazione di questi aspetti, e ancor più del loro concreto interagire, ci permette di supporre che attraverso l’analisi della lingua di questi carteggi si possa giungere a individuare una sorta di ‘lingua media’ leopardiana, svincolata dalle esigenze espressive delle Operette morali e dei Pensieri, ma pure più sorvegliata rispetto allo Zibaldone ; una ‘lingua media’ in grado di indicare più delle punte estreme la direzione verso cui concretamente si sposta nel corso del tempo e delle occasioni la scrittura di Leopardi. 2 Grazie ad uno stretto raffronto interno all’opera, soprattutto a quella in prosa ma non solo, si può dunque puntare a far emergere gli aspetti più significativi di questa ‘lingua media’, misurando le distanze e i punti di contatto con le scelte linguistiche di volta in volta operate per le opere maggiori. Per cogliere al contempo la specificità della scrittura epistolare leopardiana nel contesto di un genere soggetto da sempre ad un’ampia codificazione, i risultati dello spoglio sistematico delle lettere di Leopardi sono messi a confronto con quelli derivati dalla schedatura degli interlocutori del poeta, e innanzitutto dai più vicini e intimi (Monaldo, Carlo, Paolina, Giordani, Brighenti, Vieusseux, Stella, Melchiorri, Carlo Antici e altri). 3 Se si dovesse poi individuare con una formula questa ‘lingua media’ si potrebbe fin d’ora pensare a quella ‘naturale eleganza’ in cui risiede per Leopardi il fascino stesso delle lettere familiari del Cinquecento. L’obiettivo di questo lavoro sarà dunque quello di descrivere i modi di questa ‘naturale eleganza’, ossia i modi di una scrittura « a penna corrente » in cui non è prodotto dallo studio quello che senza lo studio non sarebbe stato comunque possibile.
3. L’analisi della lingua dell’epistolario di Giacomo Leopardi è condotta sull’edizione a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi uscita per i tipi Bollati Boringhieri nel 1998 (siglata E). Rispetto alle precedenti, questa edizione riordina ed accresce con nuovi testimoni, anche per quanto riguarda i corrispondenti, il materiale precedentemente conosciuto, giungendo ad un corpus complessivo di 1969 lettere. In seguito altre tre lettere sono state ritrovate e di alcune (un paio) sono stati pubblicati brani omessi nelle trascrizioni di cui anche E si è servita (cfr. qui n. 2 p. 23). Ne dà conto l’edizione più re1 Cfr. Crestomazia i : 171-214. 2 E con essa si può pensare di toccare almeno in parte la ‘lingua media’ del suo tempo, se è vero quanto lo stesso Leopardi afferma per le lettere familiari del ’500, come si è visto sopra. 3 Ma la contestualizzazione è poi naturalmente completata dal riferimento agli studi sulla lingua letteraria e non dell’Ottocento, citati in bibliografia.
30
fabio magro
cente (2006) dei carteggi a cura di Rolando Damiani, di cui si è naturalmente tenuto conto. 1 Qualcosa si può dire però sulla resa del testo di queste edizioni. Alcuni sondaggi a campione sugli originali conservati a Recanati hanno evidenziato imprecisioni nella lezione data da E e recepita poi anche da E2. Una serie abbastanza coerente è ad esempio quella relativa all’indicazione dell’apostrofo in casi come « qual’è » (in E 19* e E2 15 si sceglie la forma « qual è »), « un’uomo » (in E 49* e E2 31 si ha « un uomo ») ecc. ; serie che va probabilmente legata alla tendenza da parte di Brioschi Landi di censurare con il [sic] casi analoghi, per sospetti errori di stampa (si veda qui § 2.1.2.). Per quanto ho potuto constatare non sono inoltre state recepite alcune correzioni fatte da Giacomo sulle copie delle lettere stilate da Paolina e da Carlo : sull’autografo della lettera a Giordani del 21 marzo 1817 leggo ad esempio « […] in fare il suo debito. e così vo dirle » mentre la lezione a testo di E 49* (E2 31) è « […] in fare il suo debito. Non so dirle […] » (lezione precedente) ; nella lettera a Mai del 10 novembre 1817, rispetto ad un originario « neppure » (mantenuto da E 101* e E2 106), Giacomo cancella una p e mette l’accento sulla e (da cui « nè pure ») ; nella stessa lettera alla correzione che introduce l’apostrofo in « qual’ella è » Brioschi Landi e poi Damiani mantengono la forma originaria non apostrofata, e così via. Nonostante queste sviste, che lasciano comunque l’impressione di una trascrizione migliorabile in diversi punti, il testo pare in genere affidabile e consolidato. 2 Segnalo infine che la schedatura relativa ai fenomeni grafici, di punteggiatura e fonologici è stata fatta sulle lettere di E la cui fonte è un autografo (e a campione sul resto dei testimoni), mentre per la morfologia, la sintassi e il lessico lo spoglio è stato integrale. L’asterisco dopo il numero che indica la lettera (il riferimento è sempre E) precisa che la fonte non è autografa.
1 E a cui rimando per il testo degli inediti. 2 Sarebbe tuttavia auspicabile in futuro recuperare anche le correzioni apportate da Leopardi sulle copie o sulle minute, utili per documentare la prassi scrittoria e di revisione, del tutto analoga per statuto e motivazioni a quella di altre opere leopardiane.
introduzione Autografi 1807
Copie Minute autografe
31
Da Viani
Altri testimoni
Totale
1
1
1809
1
1
1810
2
2
1811
1
1
1812
1
1
1815
3
1816
11
1
1817
10
22
1818
5
1819
1
4
1
13
1
8
41
17
2
1
25
20
22
7
5
54
1820
25
7
8
9
49
1821
13
6
4
23
1822
25
1823
37
1824
20
1825
50
7
7
14
78
1826
64
4
11
17
96
1827
46
3
11
17
77
1828
52
2
6
26
86
1829
16
1
2
15
34
1830
27
1
1
13
42
1831
37
1
2
12
52
1832
47
1
1
16
65
1833
37
1
2
5
45
1834
2
5
7
1835
9
1
10
1836
6
3
11
1837
2
5
7
Totale
569
196
936
1 1
8 1
1 92
8
5
59
5
1 33
26
58
26
Tab. 1. I dati fanno riferimento all’edizione dell’epistolario leopardiano a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 (E).
32
fabio magro Monaldo 1807
Paolina
Carlo
A. F. Stella
Giordani
Brighenti
Ranieri
1
1809 1810
1
1811
1
1812 1815
1 1
1816
4
1817
8
16 (21)
1818
2
16 (17)
1
18 (18)
6 (9)
12 (8)
19 (16)
5 (5)
9 (9)
1819
1
1
1820 1821
1
1822
6 (7)
2 (4)
4 (4)
3 (5)
1823
12 (10)
3 (3)
12 (12)
1825
11 (6)
2 (7)
3 (7)
9
1826
16 (17)
7 (10)
9 (6)
24
(4)
10 (8)
1827
9 (6)
5 (10)
5 (6)
20
(4)
9 (10)
1828
27 (18)
4 (4)
3 (4)
7
2 (4)
3 (1)
1829
1 (7)
1
1 (8)
1 (3)
1830
8
7
2
(1)
(1)
1831
9 (2)
11
1
(4)
1832
16
8 (1)
1833
7
2
1834
4
1835
4
1836
3
1837
2
Totale
140 (73)
1824
2
4 (5)
5 (5)
(1)
12 (10)
1 (4)
5 (3)
1 (3)
1 1 1
1 (3)
10 30
(1) 52 (39)
39
79
76 (108)
84 (83)
43
Tab. 2. Distribuzione su base annua delle lettere scambiate con i principali interlocutori. Tra parentesi il numero delle lettere dei corrispondenti.
2. GRAFIA E PUNTEGGIATURA 1. Grafia
N
el contesto delle proprie riflessioni linguistiche, affidate come noto alle pagine dello Zibaldone, Leopardi ha sempre evidenziato un forte interesse nei confronti dei problemi legati all’ortografia (e alla punteggiatura). 1 L’attenzione è costantemente focalizzata sul rapporto tra segno e suono : si tratta, come di consueto, sia di riflessioni ampie e articolate che mettono quasi sempre a confronto le tre principali lingue romanze (si veda ad es. Zib 2458-2463), sia di affondi puntuali che spesso segnalano la pessima ortografia dei primi secoli della letteratura, anche tra gli autori maggiori (e i più citati sono Petrarca, Machiavelli, Tasso). In ogni caso Leopardi intende « mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro » (cfr. Zib 1344). All’ambito filosofico spetta la capacità di analisi dei suoni e la loro razionale resa grafica (come appunto per gli, cfr. Zib 1344), a quello naturale probabilmente l’economicità e funzionalità. Ciò che viene infatti condannato nella lingua francese, « la più degenere figlia della latina » (Zib 2463), 2 è proprio la mancata corrispondenza tra il segno, che si è mantenuto stretto alla lingua madre latina, e il suono evolutosi nel corso del tempo : non si tratta tuttavia di un atteggiamento conservativo, quanto piuttosto dell’incapacità da parte dei primi scrittori francesi (in volgare) di cogliere il mutamento della lingua e restituirlo adeguatamente nella scrittura. La posizione di Leopardi è riassumibile con uno degli ultimi appunti che trattano di questo problema, in Zib 4488 :
la vera (e naturale) perfez. dell’ortografia è che 1. ogni segno, come si pronunzia nell’alfab., così nella lettura sempre ; 2. e nell’alf. esprima un suono solo. 3. non si scriva mai caratt. da non pronunziarsi, né si ometta lett. da pronunziarsi. (13. Apr).
Tenendo sempre come punto di riferimento la codificazione fondamentale rappresentata dall’alfabeto, il rapporto deve essere dunque di uno a uno, evitando l’adozione di più grafemi per un unico fonema, come ad esempio i e j (su cui si veda più avanti), o il ricorso a diacritici come h ecc. Prima di vedere i singoli aspetti è opportuno sottolineare che la situazione descritta da Maria Corti (EDG 4-8), relativamente alla grafia degli scritti del 1809-10, è in larga parte confermata dalle prime lettere del carteggio, che per alcuni aspetti prolungano quegli usi alle soglie del 1820. 3
1. Impiego della j e plurali dei nomi in -io. Rispondendo a una lettera di Stella che lo invitava a scrivere per il Ricoglitore un « grazioso articolo il quale servisse a bandire
1 La voce Ortografia dell’Indice del mio Zibaldone di pensieri, conta ben 36 rinvii (ed. R. Damiani, p. 3180). 2 Si veda poi anche Zib 2869 fine-2876 per una sorta di breve storia dell’ortografia francese. 3 Del tutto condivisibili quindi le motivazioni relative alle scelte editoriali adottate : « L’aspetto conservativo della presente edizione, a rischio di essere giudicato frutto di pedanteria, offrirà materiale anche per una storia delle grafie ai primi dell’Ottocento, in quanto il ragazzo chiaramente riproduce consuetudini dell’epoca, apprese a scuola o sui libri (non è un caso che alcuni fenomeni si ritrovino nei programmi d’esami a stampa, qui riprodotti nell’Appendice) » (EDG 5).
34
fabio magro
per tempo dalle buone scritture quel barbaro j chiamato bizzarramente consonante, del quale al certo i padri della nostra lingua non han fatto mai uso, perchè comparso, io credo, soltanto nel sec. xviii » (1043), Leopardi, pur dimostrandosi disponibile ad assumere l’incarico (poi non portato a termine), precisa comunque che « io condanno quella lettera come inutile, ma che veramente non le manca l’autorità e l’antichità. Le scritture e le stampe del cinquecento, ed anche le più antiche, ne sono piene » (1045, del 9 febbraio 1827). Per quanto si riconosca qui la forza della tradizione, in primo piano sono poste le proprie convinzioni che come si è detto lasciano traccia, in date anteriori ma anche posteriori a quella della lettera citata, nelle pagine di Zib. 1 Del resto le cose erano già state decise qualche anno prima : perentoria è infatti l’indicazione del poeta a Brighenti in una lettera del 5 dicembre 1823 (596) affinchè nella stampa delle Canzoni « non si usino j lunghi nè minuscoli nè maiuscoli in nessun luogo nè dell’italiano nè dei passi latini ». La presenza della semiconsonante dunque, rilevata da Corti (EDG 5) « sia all’inizio di parola […] sia all’interno […] per rendere i semiconsonantica ; normale in fine di parola per -ii » si registra solo nella prima fase del carteggio : Gennajo (7, 164, 167), ma poi Gennaio (39, 165, 369, 373, 374, 409, 419, ecc.), Febbrajo (36, 38, 39), ma Febbraio (119, 123, 173, 174, 176, 177 ecc.), noja (9, 23), e poi noia (177, 179, 227, 241, 242, 251, 299 ecc.), ajuto (14), -i (14), mentre aiuto, -i (177, 179, 194, 296, 299, 356, 392 ecc.), jeri (16) poi sempre ieri (251, 458, 465, 468, 473, 477, 483), migliajo (36) e migliaia (991, 1095, -aio 1693). Tra i nomi segnalo Majo (32, Angelo M.) in un’indicazione bibliografica ovviamente latina, 2 e Jacopo in una lettera a Brighenti (874), scherzosa e divertita ; trovo invece Iacopo Gaddi nel Discorso sopra la Batracomiomachia (P* 406) ; Iacopo Jaquelot in SA i (Binni 618.i) ; Iacopo Gregory sempre in SA iv (Binni 718.i), che ha anche Giacopo Antonio Tognali, in SA ii (Binni 652.i). 3 Una maggiore resistenza si può indicare per il plurale in j dei nomi in -io, che è attestata per l’intero carteggio : beneficj (5, 165), varj (7), proprj (9), esempj (9), ossequj (9, 10, 468), studj (10, 531), dubbj (10, 27), sacrifizj (11), sacrificj (11), pregiudizj (13), Bibliotecarj (14), ordinarj (15, 510), baj (204, 382), principj (468), armadj (485), Pontificj (531, 558), ufficj (558, 581), letterarj (641), che alterna con l’uscita in -ii di augurii (31, 605, 1040, 1247 ecc.), principii (194, 241, 242, 296, 299 ecc.), desiderii (374, 409, 593, 1040, 1431), ordinarii (468, 501, 525, 530, 537, 537, 662, 1604, 1803), letterarii (497, 651, 725, 738 ecc.), ossequii (554), intermedii (1560), varii (1610), risparmii
1 La posizione di Leopardi ha tal forza di convinzione da non limitarsi all’approfondimento e alla definizione teorica, ma trova anche modo di operare concretamente all’interno della tradizione stessa in occasione dell’allestimento dei testi per le sue Crestomazie : « nei confronti di tutti si riservò la più ampia libertà ortografica e di punteggiatura » (dalla prefazione di Giulio Bollati, Crestomazia i, lxx). 2 Riportata per esteso in nota a E con la grafia Maio. 3 Cfr. Serianni 1989a : 157n. : « l’uso di j per rappresentare la “jod” in posizione intervocalica è molto frequente nel primo Ottocento, ma decade rapidamente alla fine del secolo ». Si veda anche Migliorini 1960 : 622-23, e Mengaldo 1987 : 37 per il Nievo epistolografo. Riassume la situazione all’inizio del Novecento Malagoli 1905 : 22 : « Molto si è discusso intorno a questa lettera, che già fece parte dell’alfabeto comune italiano. La Crusca, seguita dal Rigutini e dal Fornaciari, ne restringe l’uso in fin di parola : studj da studio, ozj da ozio ; la dice inutile e non l’usa il Giorgini-Broglio. Il Morandi, costretto a riconoscere che la scrittura moderna la bandisce in tutti i casi, piega il capo al fatto compiuto, che non ha tutta la sua approvazione ; si mostra lieto della sua scomparsa il Petrocchi. Alcuni scrittori italiani viventi se ne servono or sì or no ; tuttavia son pochi, e il loro uso saltuario dell’j non ci pare approvabile. Perché, delle due l’una : o si adopera in tutti i casi in cui c’è, o si crede ci sia, la stessa ragione di valersene […], o in sua vece si usa sempre l’i, che si presta, senza notevoli inconvenienti, al doppio uso nella nostra lingua ».
grafia e punteggiatura
35
(1660), Evangelii (1693), studii (1726), m’invidii (1769), fastidii (1773), straordinarii (1798, 1813), bibliotecarii (1811), avversarii (1923) ecc. La maggioranza delle occorrenze tuttavia va alla forma moderna tra cui riscontro ad es. : auguri (483, 659, 1044), desideri (106, 123, 145 ecc.), ordinari (164, 282, 288 ecc.), ossequi (27, 569, 743, 746, 1493, 1914), necessari (292, 412, 1319), contrari (991, 994), 1 primari (106), vari (504, 525, 534 ecc.), studi (194, 201, 239, 242, 296, 334 ecc.), fastidi (304, 316, 321), dubbi (39, 91, 296, 446, 458, 466, 651), uffici (174, 177, 179, 545, 580, 591 ecc.). 2 Escluso già da PR e CI, j è assente anche da OM e da P, mentre per Zib rilevo solo queste occorrenze : ajutandosi (4384), s’ajutavano (4383), ajuto (1351), conjugazione (2146, 2278, 2360), danajo (1769), 3 Filicaja (24, 26), gioja (17), Jonico (935, 3931), muojono (3511), noja (2317) e per il plurale avversarj (2679, 4381), beneficj (1441), demonj (2302), divarj (4385), intermedj (1772), ordinarj (2651), originarj (2649), participj (1939, 3949), principj (406, 1387, 1672, 4380, 4395), sacrificj (1649), tempj (1427, 1447), ufizj (4397, pagina datata 26 settembre 1828). Come si nota alcune di queste forme con -j sono piuttosto tarde (ben dentro al 1828), ciò che segnala una sorta di resistenza della prassi scrittoria anche nei confronti di scelte, come abbiamo visto, piuttosto perentorie. Resta comunque confermata la larga prevalenza dei plurali in -i. 4
2. Uso dell’accento e dell’apostrofo. Localizzate nella primissima fase del carteggio sono pure le oscillazioni che interessano l’uso dell’apostrofo e dell’accento. Anche per il fatto che ciò è in chiara sintonia con quanto accade per la semivocale, e soprattutto perché entrambe le alternanze sono documentate non solo nella lingua dell’epoca ma nella prassi scrittoria del giovanissimo Leopardi, 5 andranno inseriti nei riscontri anche quei casi che nell’edizione Brioschi Landi (E) vengono sanzionati con il [sic] in
1 Nel segnalare a Stella alcuni errori incorsi nel iv volume della sua edizione commentata di Petrarca, Leopardi nota anche il passaggio da contrarii a -i. Solo un paio di righe sopra tuttavia, nel corpo della lettera, si legge principii. 2 Per quanto riguarda ancora l’uso di j, Migliorini 1960 : 699 segnala per il secondo Ottocento che « la Crusca, che l’ha abolita sia all’iniziale che all’interno di parola (iattura, gennaio), l’adopera invece nei plurali dei nomi in -io (studj) ». A favore del plurale in -ii si schierano anche Fornaciari 1879 : 30 e Rigutini 1885 : 10. Per Goidanich 1918 : 9 « l’i lungo (j) è stato abolito nell’uso comune ; si continua ad adoperare in nomi proprî (es. Rajna, Scialoja) ; e meriterebbe di essere conservato in alcune poche parole in cui non si fa (o a rigore non dovrebbe farsi) l’elisione dell’articolo (La jattura, La jettatura, Il jugero ecc.) ». 3 Qui l’oscillazione è ravvicinatissima : « per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaio non mette a frutto il danajo ». 4 Presso i corrispondenti del poeta numerose e diverse sono le oscillazioni. Giordani sembra decisamente bandire il grafema j (si conserva solo per Jesi 1472) ed utilizza per il plurale sia una sola -i (sempre studi ad esempio, 47, 52, 326 ecc.), sia con una certa frequenza la doppia -ii (sempre principii 47, 133, 212, letterarii 109, proprii 112, 408, colloquii 133, desiderii 153, dubbii 162 ecc.). Negli altri corrispondenti la j ha invece ancora una certa resistenza, in particolar modo per il plurale : Monaldo ha sia jeri (467, 902, 1349, 1414 ecc.) che ieri (1221, 1321), annojerà (547), annojarsi (968) e annoiarvi (495), ma solo noja (528, 851) ecc. ; Carlo ha dubbj (462, 546) e dubbi (1179), noja (462, 535), -je (809), antinojoso (887) ma noia (740), annoiasse (740), annoiano (740), jer sera (507, 524), jeri (1179, 783*) e ieri (721, 771), ordinarj (498, 524, 721, 753, 937, 1118, 1124) di contro a un solo ordinari (490), prodigj (524), proprj studj (535), desiderj (540, 1129) ma desiderii (740), sacrifizj (540), improperj (546), annunzj (548), libraj (996), baj (1179), esempj (1179) ecc. Per sintetizzare basti segnalare il rapporto numerico registrato per il plurale di studio : tra tutti i corrispondenti di Giacomo, alle 113 occorrenze di studi rispondono le 13 di studj e le 5 di studii. 5 Cfr. EDG 6 : « molto frequente l’accento sui monosillabi, secondo l’uso dell’epoca ». Per Nievo si veda Mengaldo 1987 : 37 (e a p. 38 per l’apostrofo), mentre Serianni 1996 [2002 : 162 e 166] riscontra nel Carteggio Verdi-Ricordi « gli accenti adoperati da Verdi “fuor di regola” (stò, nò, fù e simili) » (p. 162).
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quanto « si potrebbe altrimenti sospettare errore di stampa ». 1 Con l’accento comunque trovo solo quì (5), 2 nò (7 ; Zib 21), 3 hò (7), stò (7), fù (12*), mè (12*), sò (36), stà (768), 4 istà (74*, 85* ; Zib 46, 49, 503, 784, 2110, 3233, 3572, 4177), 5 mentre ne sono privi perche (3, 2 volte), Caffe (3), finche (3), si (7) e, ma in questo caso si tratta di una costante in Leopardi, se (7). 6 Corti (EDG 8) segnala inoltre il troncamento dell’articolo indeterminativo una, precisando che « non si tratta di svista in quanto il fenomeno non si verifica con l’articolo determinativo femminile ». In E trovo in realtà casi, pochi e ancora quasi tutti circoscritti alle prime lettere, di entrambi i tipi : un opera (7), un iscrizione (10), un occhiata (10), un insulsa (10), una edizione (679, 693) ; ma anche la età (5), nella estensione (5), nella iscrizione (10), la origine (13), la edizione (16, 679, 681), e pure di Europa (14). 7
1 Cfr. E : lxii-lxiii anche per l’indicazione degli altri criteri adottati nella resa dei manoscritti e delle stampe. Per una discussione delle scelte dei curatori si veda Genetelli 2003 : 170-72. È comunque da dire, al di fuori dell’epistolario, che P* e P** (ma anche Binni, per quanto riguarda il testo dell’epistolario), in luogo del [sic], normalizzano. 2 Nel resto dell’opera leopardiana registro quì in : Dialogo filosofico… (Binni 574.ii), Descrizione del Sole per i suoi effetti (tra le Prose varie del 1809, EDG 31), La campagna 2.13 (Binni 518.i), Scipione che parte da Roma 12 (Binni 515.i), Odi di Orazio i.ii 57 (EDG 88, ma Binni 517.i senza accento), La spelonca, 90 e 92 (EDG 164), Le notti puniche i.94 e 95 (EDG 285), Il diluvio universale 116 (EDG 306), Alla Signora Contessa Paolina Leopardi… iv.15 (EDG 456), Giacomo Leopardi al suo diletto genitore […] 9 e 21 (EDG 461), La virtù indiana at.i, sc.vii (Binni 539.ii). 3 Nò anche in Dialogo filosofico […] (Binni 574.i), Per il Santo Natale, 21 (EDG 71), Traduzione dell’Elegia Settima del Libro Primo dei Tristi […] 40 (EDG 204), Il Balaamo i.183 e 184 (EDG 219), Catone in Affrica ix.42 e x.37 (EDG 265), Le notti puniche iii.116 (EDG 296), Composizioni per il saggio 1810 xiii.42, xv.17, xv.20, xxi.9 (EDG 357, 359, 366), Per il giorno delle ceneri 21 (EDG 401), La virtù indiana at.1, sc.7 (Binni 539.ii), at.2, sc.1 (540.ii), at.2, sc.2 (541.i), at.2, sc.3 (541.ii). 4 Da segnalare questi altri casi : per stà, La campagna ii.16 (EDG 47) ; per istà, Operette morali d’isocrate II (P** 1095), OM xxiv, 233. 5 Per dare almeno l’idea della situazione di forte oscillazione della lingua dell’epoca segnalo in nota anche i prelievi che interessano i corrispondenti del poeta. Già dalla consistenza dei riscontri anche in mittenti colti, e dalla resistenza nel tempo, si può cogliere per contrasto la coerenza di Leopardi, che emargina rapidamente le forme più stravaganti : Giordani (quì 76, 83, 150, 162, 228 ecc., quà 235, nò 99, 121, 582), Monaldo (e per è 495, quì 467, 482, 502, 522 ecc. quà 892, 1145, nò 942, 1267, 1429, hò 821, stò 901, 1101, 1425, fù 467, 821, 1256, mè 463, 476, 495, 502, 990 ecc. sò 467, 476, 495, 528, 815 ecc. stà 467, 476, 528, 815, 1084, ecc.), Paolina (quà 1090, nò 499, 523, 550, 556, 945), Melchiorri (fà 427, 433, 438, 441, 565 ecc., và 433, 579, 665, 668, 683, stà 436, 437, 457, 565, 575 ecc., frà 449, 665, 668, 673, 680, 835, sà 575, 579, 603, 654, 658 ecc., quà 654, 688, sò 433, 438, 449, 565, 575, fò 433, 733, stò 649, 670, 673, 688, 692, 817, dò 658, vò 680, tè 835, sé congiunzione ipotetica 654, 668, 817, fù 438, 575, 579, 673, sù preposizione 438, 449, 610, 649, 644, 680, 733, tù 610, 615, 649, 654, 658 ecc.). 6 Trovo perche molto frequente in Antici (161, 207, 585, 672, 682, 704, 718 ecc.), che ha pure affinche (207) ; anche in Bunsen riscontro perche (770, 776, 827). 7 Le voci registrate per i corrispondenti sono, anche in questo caso, in gran parte accompagnate dal [sic] in E. Come si vede tuttavia gli errori di stampa che il segno presuppone insisterebbero anche qui quasi esclusivamente sulle stesse parole, con un accanimento poco credibile : Giordani (una edizione 105, questa edizione 108, l’edizioni 99), Monaldo (un ottima 495, un altra 968, un ora 1425, un esperienza 1425) Paolina (un altra 470, 851, un ora 966, un ansietà 556, un opera, 1145, un altro 783), Brighenti (un’affanno 404, un opera 957, un’esemplare 180, 224, 230, 259, 312, un’atto 297, un’articolo 297, un’ordine 302, un’altro 302, 325, un’illustre 305, un’amico 322, 377, un’asino 325) Vieusseux (un opera 1643, un’articolo 1180, 1452) Melchiorri (un idea 427, quel Epoca 438, un iscrizione 438, un altra 438, 572, 654, 733, un Appendice 457, un ora 572, un epoca 668, un opinione 668, un opera 673, 680, un illustrazione 695, un erudizione 695, un epigrafe 835, un’intero 597) ecc. Per quanto riguarda Leopardi l’oscillazione è registrata anche tra le varianti, manoscritte soprattutto, di OM, in particolare per quanto riguarda l’articolo determinativo (si veda ad es. la opinione, la esperienza, una età ecc. in OM i).
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3. Nessi palatali. La necessità di una stretta aderenza della grafia alla pronuncia che, come detto, è il punto di riferimento costante per poter considerare « vera, perfetta e filosofica » una scrittura (nella fattispecie così è valutata quella italiana, cfr. Zib 3057), 1 spinge il Leopardi linguista ad analisi molto particolareggiate. Si veda Zib 1347 :
Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l’i è la vocale più esile e stretta. Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e (quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o insomma senz’altro appoggio di vocale. Così accade anche ai suoni che partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non iscriviamo mai senza l’i, o lo pronunziamo in altro modo) e gn. V. p. 1362. Del resto il nostro c e g chiusi, noi li poniamo anche davanti alla e, quantunque questa insieme coll’i sia la sola vocale a cui la preponiamo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i anche al c ed e, ec. ; e così solevano fare i nostri antichi anche nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha escluso l’i. (19. Luglio 1821).
Pur confermando il suo giudizio positivo sull’ortografia italiana, 2 qui Leopardi coglie un aspetto problematico del sistema, e proprio là dove invece la tradizione asseconda la perfetta corrispondenza tra segno e suono. Ciò nonostante la prassi del poeta poco si discosta dalle consuetudini moderne 3 che prescrivono per il plurale dei nomi in -cia e -gia di lasciar cadere la i di seguito a consonante : trovo solo mancie (551 per 2 v.), provincie (612, 1946), di contro almeno a ciance (406) e letteracce (1826). Qualcosa di più si trova in Zib : angoscie (291 ; ma angosce 530, 531), provincie (13, 55, 149, 301, 739 ecc. per 27 occ. ; ma province 1242, 1258, 1879, 2125), selvaggie (3198 ; mentre selvagge 878, 886, 1281, 1604, 1776 ecc. per 20 volte). In OM sarà significativo il riscontro di un solo caso appena, in appendice : provincie (App. iii 218 ; e però province viii 87, xiii 4.72, xiii 8.40). Nulla è da segnalare per P. Per i nessi interni in E rilevo l’oscillazione consueta – ma prevalente è però la forma moderna – tra leggiero (10), leggieri (884) e leggero (242, 330, 504, 1161, 1246), -i (743) -a (497, 1767, 1774, 1918) -e 1560), e per i verbi della prima con tema in palatale incomincieresti (514), comincieranno (543) e incomincerà (857). Costante è Ruggiero (1665, 1765, 1838), e inoltre con il mantenimento della i anche ciera (« Volesse Iddio che i miei mali fossero di sola fantasia perchè la mia ciera è buona », 1537). Da questo punto di vista molto più produttivo Zib che presenta una serie di alternanze al cui interno comunque una
1 Il contesto del discorso di Leopardi riguarda la resa dei prestiti, che nella lingua italiana è più aderente (rispetto a quanto accade in francese) alla pronuncia. 2 Zib 2462 : « In somma la lingua italiana pericolava di stabilirsi e radicarsi irreparabilmente in quella stessa imperfezione d’ortografia, in cui si veniva formando, e poi per sempre si radicò la lingua francese. Fortunatamente non accadde, anzi ell’ebbe la più perfetta ortografia moderna : non lettere scritte le quali non si pronunzino : non lettere che si pronunzino e non si scrivano : ciascuna lettera scritta, pronunziata sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l’alfabeto ec. ». 3 Anche se in realtà nel primo Ottocento la resa grafica delle palatali era piuttosto incerta. Cfr. Migliorini 1960 : 623 ; per il Nievo epistolografo rinvio a Mengaldo 1987 : 37. Sulla questione si veda anche Serianni 1989b : 135-36. La situazione pare già assestata in Malagoli 1905 : 51-52.
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preferenza (sia da un punto di vista quantitativo sia per la continuità in diacronia) sembra accordata sempre alla forma oggi corrente : per i verbi di prima coniugazione abbraccierà (870 ; abbraccerà 267, 268), abbraccierebbe (2074, 4204), accieca (3905), acciecamento (433, 441 ; accecati 3276), lascieremo (1168 ; lasceremo 3863, lasceremmo 3194), lascierò (2319 ; lascerò 832, 1057) incomincieremo (4124 ; ma comincerà 867, cominceranno 2098, comincerebbero 2615, comincerete 368) ; altre voci leggier (4019), leggiera (1326, 3373 ; leggera 364, 364, 496, 652, 1127 ecc. per 14 volte), leggiere (3384 ; leggere 140, 544, 656, 1458, 3812, 3854), leggieri (1110, 2618, 4248 ; leggeri 202, 266, 339, 1152, 1509, 3865, 3865, 4240), leggiero (56, 152, 3597 ; leggero 202, 454, 1364, 1714, 1906, 2769, 3329, 4038, 4239), leggieramente (3910), passeggiera (261 ; passeggera 214, 220, 393, 873, 1078 ecc. per 11 occ.), ciera (4229 ; cera 1914, 2643 nello stesso senso di ‘espressione, aspetto’, poi comunque sempre cera 86, 1099, 2850, 2851, 2857, 3841, 3995, 4470). Anche per i nessi interni OM fa registrare un solo esempio in appendice di mantenimento della i di seguito a consonante : leggieri (App. iii 244), ma poi leggera (ii 104, xvii 209, leggeri xv 3.25, leggero ii 8, ii 57, ii 81, xiii 3.69, App. ivb.201). Interessante tuttavia, poiché dice della consapevolezza con cui opera l’autore, il fatto che in un caso (ii 8) la forma moderna venga introdotta dopo l’edizione di Milano del 1827. 1 Conseguentemente e coerentemente, P non presenta casi da segnalare.
4. Unione e separazione grafica. Molto oscillante il comportamento di Leopardi in questo settore. 2 Le forme analitiche tuttavia prevalgono quasi sempre, 3 così come in OM e in P (ma non in Zib), ponendosi dunque non solo come opzione linguistica più culta in funzione dell’innalzamento stilistico, ma anche come ulteriore spia di un forte controllo sulla scrittura : si possono così accogliere, ed anzi estendere ad un più vasto settore dell’opera leopardiana le conclusioni di Vitale 1992a : 204 secondo cui « l’assiduo uso delle forme analitiche di avverbi, congiunzioni e preposizioni, che era modo della scrittura grave e letteraria […] era anche un mezzo, disponendo una più lenta e scandita successione dei singoli componenti, di accentuarne il valore razionale ». Si è del resto visto più sopra come nelle riflessioni che lo Zibaldone dedica al rapporto tra grafia e pronuncia venga lodata la capacità di analisi e separazione dei singoli suoni, considerazione che si può pensare di far valere anche in questo settore. Ecco i riscontri per E :
anzi che 693 ; così detti 14, così dette 1934, 1965* ; e pur 407, e pure 1777, 200* (eppure 508, 716) ; fra tanto 176, 194, 225, 227, 608, 1312 (frattanto 3, 9, 158, 877) ; in fatti 289, 439, 568, 1178, 1196, 1198, 1461, 1799 (infatti 9, 10, 11, 422, 508, 612, 628, 746) ; in fine 690, 734, 984 ecc. per 11 occ. (infine 743, 884, 1123) ; in somma 16, 165, 242, 296, 409 ecc. per un tot. di 34 occ. (insomma 479, 504, 600) ; in vano 16, 936 [fa parte di una errata corrige] (invano 299, 306, 936 [cfr. errata corrige], 1900, 1934) ; in vece 193, 289, 381, 465, 505 ecc. per 15 volte (invece 23, 31, 1767) ; nè anche 80, 91, 145, 155, 227 ecc. per 18 occ. (neanche 242, 277, 292, 296, 304 ecc. per 20 occ.) ; non ostante 193, 253, 288, 313, 458 ecc. per 18 occ. (nonostante 1715, 151*) ; per tanto 176, 181, 194, 480, 772, 927, 1372, 66*, 103*, 205*, 82* (pertanto 193, 202, 531, 554, 1525*) ; pur troppo esclusivo 299, 327, 480, 531, 576, 634, 714, 744, 949 ecc. ; riscontro inoltre un solo caso per ben essere 917 (nessuno per benessere).
1 Che aveva dunque leggiero. Cfr. le varianti dell’edizione Besomi (OM, p. 43). 2 Cfr. in generale Serianni 1989a : 152n. Per il fenomeno in Nievo cfr. Mengaldo 1987 : 39. La scelta in favore della grafia unita operata da Manzoni nella revisione del romanzo è documentata da Ghisalberti 3 Nonostante l’indicazione contraria di Vitale 1992a : 204. 1941 : 117-24.
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La grafia unita si presenta maggioritaria invece nei seguenti casi :
neppur(e) 167, 193, 242, 247, 288 ecc. fino ad un totale di 58 occorrenze (nè pur(e) 136 145, 93*, 111*, 115*, 131*, 144*, 1965*) ; piuttosto 9, 26, 173, 174, 176, 181, 183 ecc. (più tosto 64, 145, 60*, 66*, 96*, 111*, 122*, 142*) ; sebbene 26, 155, 242, 321, 373, 374, 396 ecc. (se bene 174, 296, 310, 347, 369, 1785) ; 1 siccome 21, 55, 193, 242, 284 ecc. per 21 volte (Sì come 5, 21) ; soprattutto 35, 39, 80, 155, 277 ecc. per 25 occ. e sopratutto 473, 600, 1767 (sopra tutto 14, 174, 227, 239, 299 ecc. per 16 volte).
Rinviando in nota i riscontri per Zib 2 segnalo qui quanto ho trovato per OM :
e pure (xxiii 23) ; in fatti (ix 254, xi 48, xi 121, xiii 9.2, xiii 9.36, xix 54, xx 303, xxiv 94), infatti (App. ivb 103) ; in fine (v 53, vi 33, ix 112, x 189, xi 25, xi 234, xii 149, xiii 2.138, xiii 109, xiii 6.38 ecc. per 26 occ. tot.) ; in somma (iii 13, ii 87, viii 66, ix 245, xi 107, xiii 5.31, xiv 57, xv 4.48, xvi 158, xvii 189 ecc. per 22 occ. tot.), insomma (App. i 40, App. ii 76, App. iiic 143) ; invano (xx 296, xxiv 307) ; in vece (i 420, v 116, v 118, viii 173, x 74, xvi 40, xxi 4.220, App. ivb 206, App. va 37) ; nè anche (26 occ.), neanche (5 occ. tutte in appendice) ; nè pure (vii 109, xiii 8.36, xxi 2.143), nè pur (viii 26, xix 171, xx 194), neppure (App. ivb 61, App. vc 111) ; non ostante (i 223, vii 100, ix 199, xiii 5.67, xiii 7.62, xv 4.2, xv 4.74, xix 90, xxi 4.362, App. ivb 48, App. vc 197) ; oltre a ciò (i 13, iv 70, xiii 5.20) ; per tanto (i 62, i 143, ix 23, xi 89, xii 78, xii 161, xii 220, xiii 5.102, xiii 8.110, xv 1.126 ecc. per 15 occ. tot.) ; piuttosto (31 occorrenze più 9 in app.) ; pur troppo (xi 38) ; se bene (i 110, i 419, i 454, viii 41, x 57, xi 184, xiii 6.5, xiii 6.46, xiii 7.30, xiii 8.96, ecc. per 27 occ. tot.), sebbene (xxiv 127, App. ivb 235, App. va 26) ; sopra tutto (xiii 6.19, xviii 94, xx 97-98, xxii 239). 3
E il poco per P :
e pur (xxxix 23) ; in fatti (xii 3, xxxvii 1-2, xlii 4) ; in fine (xxxii 21, lxxxii 23) ; in somma (xxi 11-12, xliv 11, lxxxiv 15, xcvii 17-18) ; nè anche (xvi 7, xlix 10, c 42) ; non ostante (xix 24, liv 1-2) ; uniti invece sono piuttosto (li 15, xcix 27) ; sebbene (iii 3).
Anche per quanto riguarda le congiunzioni composte con che bisogna sottolineare che la scrizione separata è di gran lunga più frequente, al punto che per E se non si allargasse il sondaggio alle copie non si incontrerebbe che una manciata di esempi con grafia unita :
1 Nella scrizione separata la congiunzione regge sempre l’indicativo, mentre i casi, pur minoritari, di reggenza del congiuntivo si hanno solo con la grafia unita (cfr. qui pp. 145-46). Un paio di esempi per entrambi i casi : se bene (« Se bene io comprendo anzi sento tutto giorno e intensamente l’inutilità delle cose umane, contuttociò m’addolora e m’affanna la considerazione di quanto ci sarebbe da fare […] » 369 ; « Si taglia sul fine di maggio, se bene il Re dice l’Aprile » 132*) ; sebbene (« sebbene le difficoltà sian grandi e si riesca a superarle perfettamente, il pubblico non le calcola […] » 26 ; « […] sebbene le mie lettere si perdano tutto giorno, quelle però che vengono a me, non sogliono smarrirsi » 373). 2 Dato il numero elevato dei riscontri, per ragioni di spazio indicherò solamente il numero complessivo delle voci che entrano in competizione, notando che qui i rapporti sono un po’ diversi rispetto alle altre opere ed alcune grafie unite che altrove sono minoritarie prendono il sopravvento (si può pensare ad un influsso della rapidità e immediatezza della scrittura diaristica ?) : frattanto 17 (più fratanto p. 1884) / fra tanto 7 ; infatti 317 / in fatti 64 ; infine 4 / in fine 14 ; insomma 311 / in somma 235 ; invece 39 / in vece 125 ; neppure 115 / né pur(e) 23 ; nonostante 6 / non ostante 61 ; oltracciò 31 / oltre a ciò 3 ; pertanto 41 / per tanto 46 ; piuttosto 367 / più tosto 9 ; purtroppo 1 / pur troppo 32 ; sibbene 9 / sì bene 4 ; soprattutto 64 (sopratutto 1062) / sopra tutto 13. La peculiarità di Zib (anche per quanto riguarda i nessi congiuntivali composti con che) rispetto alle altre opere può forse confermare la maggiore spontaneità delle grafie unite. 3 I riscontri integrano quelli di Vitale 1992a : 204-05.
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contuttochè (106, 242, 103*) ; oltredichè (145) ; oltrechè (66*, 78*, 95*, 110*, 82*) ; pressochè (66*, 132*) ; comechè (66*, 1 103*) ; tantochè (66*) ; perocchè (66*) ; eccettochè (93*) ; secondochè (114*, 144*) ; casochè (114*) ; checchè (151*, 263*) ; essendochè (182*) ; dimodochè (504*) ; finattantochè (241), finoattantochè (103) ; 2
di contro alla più consistente serie che si riscontra in Zib :
acciocchè (159, 168, 248, 289, 794, 2429, 2440, 2455, 3057, 3376, 4397) ; avvengachè (4285) ; checchè (1645, 1712, 2650, 2651, 3757, 3783, 3915, 4422) ; comechè (12, 4067) ; contuttochè (229, 1677, 2496, 2547) ; dovechè (16, 2772, 3535, 3930) ; finattantochè (4062, 4286) ; imperciocchè (2953) ; imperocchè (1, 2, 3, 1893, 2661) ; infinoattantochè (4062) ; intantochè (4061) ; oltrechè (4, 34, 1402, 1815, 1853, 2060, 2381, 2745, 2940, 3373, 4282) ; perciocchè (240, 656, 1471, 2080, 2111 ecc. per 30 occ.) ; perlochè (303, 2661, 2838, 3286), piucchè (2222, 2223, 2224, 2350, 2922, 3732) ; pressochè (1253, 4420) ; secondochè (2248, 2791) ; stantechè (4344) ; talchè (26, 893, 901, 2902, 4392, 4396) ; tuttochè (2451).
Per OM e P invece :
OM : acciocchè (i 81, i 164, ii 66, v 115, x 10, xiii 1.72, xv 1.127, xxi 4.364, xxii 81, App. i 2) ; avvengachè (xix 107) ; comechè (xix 141) ; imperciocchè (i 178, xix 63, App. iiic 217) ; imperocchè (xvii 33, xvii 111, xvii 149, xix 21) ; perciocchè (i 18, i 131, i 216, i 369, i 379, i 487, xiii 1.62, xiii 2.76, xiii 4.22, xiii 4.55, xv 1.107, xv 3.39, xv 4.43, xv 4.95, xv 4.102, xvii 106, xix 86, xix 93, xix 156, xxii 108, xxii 340) ; perocchè (i 174-75) ; pressochè (i 68) ; P : acciocchè (xxxv 7, lii 5, civ 22) ; ancorchè (i 19, xci 6).
5. Uso delle maiuscole e nomi stranieri. Anche per questi aspetti le indicazioni che Leopardi dà ai tipografi sono perentorie :
Per regola de’ suoi compositori, io scrivo sempre cielo col c minuscolo, quando questa parola significa luogo, o voglia dir cielo visibile, o voglia dir paradiso : scrivo sempre Cielo col C maiuscolo, quando questa parola significa persona o persone, cioè Dio, gli Dei, i Beati, ec., per esempio in queste frasi : piaccia al Cielo ; il Cielo mi vuole infelice ; grato al Cielo ; leggi del Cielo, e simili, che sono frequentissime » (936, ad Antonio Fortunato Stella, del 16 giugno 1826).
Certo la situazione dell’epistolario è ben diversa per troppo evidenti motivi perché ci si possa attendere una omogeneità che in realtà pare acquistata solo lungo l’asse diacronico, come per tanti altri fenomeni (alcuni dei quali del resto appena visti). Tuttavia, all’inizio di questa avventura umana ed epistolare, in una lettera al padre leggiamo coerentemente « venire a testificarle la mia gratitudine augurandogli ogni bene dal Cielo nelle prossime festive ricorrenze » (5, ma per la stessa lettera si vedano qui sotto altri casi). Nel complesso dunque l’oscillazione riguarda soprattutto la prima parte di E, e in primo luogo le maiuscole che possono comparire anche con nomi generici come Padre (« come ad un figlio sì beneficato era convenevole di fare con un Padre sì benefico » 5), Copista, -i (« di mille errori eran ripiene tutte quelle, che egli avea avute da’ varj Copisti » 7), Stampatore (« in cotesta città nessuno Stampatore può mettersi all’impresa di stampare un libro a suo conto » 23), Tipografo (« Ella mi farà sommo favore se vorrà
1 Anche in Giordani (244) che ha pure acciocchè 121, dappoichè 152, piucchè 1091. Si veda per il piacentino Serianni 2000 : 258-59. 2 Per finattanto che invece i riscontri sono : 227, 241, 253, 799, 360*, 168*, 60*. Da vedere Zib 4062 per le varie forme della congiunzione segnate da Leopardi.
grafia e punteggiatura
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pregare il Sig. Ab. Amati, o lo stesso Tipografo a prendersene cura » 27), 1 l’alterato Libretto (« Anche a me pareva impossibilissimo che la stampa del mio Libretto potesse farsi per soli […] » 31, e poi 23, 28 ecc.), Legatura (« Il nominato mio Zio s’incaricherà a mia istanza della distribuzione e del pagamento, ma della Legatura non potrebbe » 27, poi sempre minuscolo), Carta (28), Chirurgo (106) ecc., e aggettivi quali Sacra (« la Sacra vicina festività » 5), Italiana 2 (« Il restauratore dell’Italiana Poesia Francesco Petrarca » 7) ecc., delineando in sostanza un quadro che permette di confermare le parole di Maria Corti (EDG 8) : « frequenti le maiuscole secondo le abitudini grafiche del tempo, ma usate in modo alquanto capriccioso ». Da segnalare ancora la presenza di qualche minuscola con i nomi di nazione e città : italia (91, 679), parigi (106), 3 e recanati (85*, copia di Paolina). Per la grafia di nomi stranieri da notare gli adattamenti Svezzese (14), 4 Giosafatte (618), Brusselles (634), 5 Israello (877), 6 Francfort (1765). 7 Segnalo qui di passata che solo in un apografo di Ranieri (1965*) si riscontra la forma moderna colera mentre per il resto E oscilla tra cholera (1694 sottolineato, a De Sinner ; 1946, 1783*, 1966 ap. di Ranieri), choléra (1946, 1949 con allusione alla pronuncia francese « la peste, chiamata per gentilezza del secolo choléra ») e con variazione nell’accento cholèra (1951, 1956, 1957). 8 Si veda infine un esempio tratto da una copia di Paolina (ma di una delle prime lettere scritte a Giordani, con correzioni autografe di Giacomo) in cui notevole è l’utilizzo in senso ironico di una grafia dotta e latineggiante : « nella Capitale della molto excellentissima et magnifica provintia nostra, è un cotal letteratone… » (60*).
1 In questi casi si potrebbe pensare che valga la regola enunciata per cielo nella lettera citata poco sopra : sempre con l’iniziale maiuscola quando « questa parola significa persona o persone ». 2 Anche se la maiuscola di un aggettivo derivante da un nome proprio non era inconsueta all’epoca, qui pare più il contesto ad essere rilevante, oltre al fatto che non ho riscontrato altri casi del genere (ma in Zib 50 trovo Romani). Rigutini 1885 : 5 prescrive la maiuscola « ai nomi ennografici, quando sono sostantivi, come Italiano, Italiana, gl’Italiani, le Italiane […]. Ma allorchè tali nomi si usano come adiettivi, in questo caso si debbono scrivere con la iniziale piccola : Il regno italiano, la gioventù italiana […] ». Sulle oscillazioni nell’uso a cavaliere dei due secoli si vedano almeno Migliorini 1960 : 535-36 e 624, Serianni 1989a : 149 : « per la grafia il dato saliente è l’abbondanza di maiuscole iniziali, che peraltro erano frequenti nelle consuetudini tipografiche dell’epoca e non comportavano generalmente particolari connotazioni espressive ». Si veda tuttavia quanto suggerisce Fornaciari, forse tra i grammatici più aperti su questo punto : « nei nomi di patria e nazione riferiti a persona e usati sostantivamente ; spesso anche nei nomi di dignità o titolo, non accompagnati da nome proprio e riferiti a qualche particolare persona, istituto, ecc. ; nei nomi usati in un senso speciale o storico ; comunemente in principio de’ versi ; e finalmente in qualche altro caso, per giovare alla chiarezza e alla forza dell’espressione » (Fornaciari Gramm.8 : 8). 3 Nelle stesse lettere tuttavia Italia e Parigi sono anche con la maiuscola. 4 Forma già settecentesca, con riscontri sia in Alfieri (Vita), sia in Baretti (Frusta letteraria). Cfr. anche Masini 1990 : 155. 5 Utilizzato da Alfieri (Vita), Baretti (La frusta letteraria), Sarpi (Istoria del Concilio tridentino). 6 Ancora Alfieri (Saul), e poi Bartoli (La ricreazione del savio) e Marino (Dicerie sacre). 7 Alfieri (Vita), Giannone (Vita scritta da lui medesimo), Sarpi (Istoria del concilio tridentino). 8 Le oscillazioni, come si vede, sono anche all’interno della stessa lettera. Così, « choléra alla francese », si trova pure nella Palinodia al marchese Gino Capponi, v. 44 (cfr. Mengaldo 2005a [2006 : 94]). Nel resto del corpus leopardiano trovo cholera (« cholera morbus ») in P vii 9 e nella « Dissertazione sopra l’anima delle bestie » (in una citazione latina da Tostato, PP** 517). Nei dizionari ottocenteschi la forma è, unanimemente, quella moderna : colera.
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fabio magro 2. Punteggiatura
Il noto, forte interesse di Leopardi nei confronti della punteggiatura trova riscontro anche in vari luoghi dell’epistolario. In primo piano, soprattutto all’inizio dell’attività letteraria e dunque nelle prime fasi del carteggio, vi è la preoccupazione di difendere l’integrità delle proprie opere :
« ardisco pregarla che voglia commettere la correzione della stampa a persona diligente e che non trascuri nè anche la punteggiatura del Ms.to » (155) ; « che il revisore non trascurasse neanche la punteggiatura, ch’io ho cercato di regolare nel ms. con ogni esattezza, parendomi che anch’essa faccia non piccola parte della buona o cattiva qualità dello stile, massimamente in questa sorta di scritti » (277, si riferisce qui alla canzone Ad Angelo Mai e alle altre 2 poi rifiutate) ; « La punteggiatura (nella quale io soglio essere sofistichissimo) è regolata nel manoscritto così diligentemente, che non v’è pure una virgola ch’io non abbia pesata e ripesata più volte » (596) ; « La esattezza della correzione, tanto nel testo, quanto nominatamente nella punteggiatura, mi preme sopra tutto ; e ve la raccomando possibilmente » (624) ; « Nelle cose mie vi ho trovato alcuni leggeri falli di punteggiatura, che non erano nelle prove che io corressi » (743) ; « La punteggiatura non potrebb’essere stata da me rifatta con più diligenza » (866) ; « Rimando il manoscritto, dove parecchi falli del copista, e segnatamente molte negligenze nella punteggiatura, non isfuggiranno all’avvedutezza di V.S. quando lo ripasserà, nè fa bisogno ch’io ne l’avvisi » (421*, si tratta della traduzione latina di tre canzoni di Giacomo fatta da Ignazio Guerrieri) ecc.
La costante attenzione di Leopardi per le questioni di interpunzione trova anche alimento da problemi di carattere filologico, o in ogni caso interpretativo su testi antichi. Le due prospettive si colgono bene nella lettera a Giordani del 12 maggio 1820 :
Per una mia curiosità vorrei sapere chi sia quel letterato che scrivendo al Capurro lodò il cambiare la puntatura del Guicciardini. Anche a me pare una buona impresa, e stimo che quasi tutti i cinquecentisti avrebbero bisogno di questo uffizio, e senza grave difficoltà e nessuna alterazione del testo, laddove ora non paiono leggibili alla più parte, diverrebbero facili a chicchessia. L’arte di rompere il discorso, senza però slegarlo, come fanno i francesi, conviene impararla dai greci e dai trecentisti, ma i cinquecentisti non pensarono che si trovasse, nè che volendo esser letti, bisognasse adoperarla. E i latini in questo, benchè più discreti e avveduti (che alla fine erano altri uomini) tuttavia non hanno gran lode, ma s’è rimediato facilmente coll’interpunzione come si dovrebbe fare ne’ cinquecentisti. Io p[er] me, sapendo che la chiarezza è il primo debito dello scrittore, non ho mai lodata l’avarizia de’ segni, e vedo che spesse volte una sola virgola ben messa, dà luce a tutt’un periodo. Oltre che il tedio e la stanchezza del povero lettore che si sfiata a ogni pagina, quando anche non penasse a capire, nuoce ai più begli effetti di qualunque scrittura (301*).
Leopardi eserciterà l’auspicato uffizio di rendere leggibili alla più parte i testi cinquecenteschi intervenendo nell’interpunzione, come del resto nell’ortografia, in occasione delle due Crestomazie (cfr. qui p. 34, n. 1) ; sperimentando probabilmente sul campo le indicazioni di quel Trattatello della punteggiatura segnato tra i « Disegni letterari » del 1825 e mai compiuto. Il passo della lettera appena citato ci mette comunque di fronte all’atteggiamento di fondo dell’autore, che sembra cercare un punto di sintesi tra le esigenze logico
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grammaticali e quelle pausative (con il riferimento al « lettore che si sfiata ») : 1 il ritmo della prosa non sta allora solo nella ricerca del numero, ma nell’esatto equilibrio tra la chiarezza del pensiero, delle sue membrature sintattiche, e la fluidità dell’espressione che ne accompagna lo sviluppo. Agli estremi opposti stanno l’oscurità degli antichi, determinata da una carenza di segni che non guida la complessità sintattica, e la slegatura dei moderni, dei francesi soprattutto, i quali a quella complessità rinunciano per una scansione lineare che toglie profondità al discorso e ne impedisce uno sviluppo ampio e armonico. 2 La punteggiatura del carteggio risente certo della particolarità di un genere che più di altri ha commercio con l’oralità, ed è al contempo inevitabilmente soggetta alla diversa origine e natura delle lettere, alcune, per esplicita ammissione dello stesso autore, più meditate, altre più informali o di servizio. 3 Anche per queste ragioni è opportuno precisare, prima di passare in rassegna i singoli punti, che la trattazione non vuole qui essere esaustiva – al che sarebbe necessario uno specifico lavoro –, ma punta ad inquadrare alcuni problemi, visti soprattutto nella loro dimensione diacronica. Vale la pena comunque – perché permette di cogliere in fieri il lavoro d’autore – dire almeno qualcosa del quadro che emerge dalle varianti interpuntive di OM, che Besomi opportunamente registra in una apposita fascia dell’apparato. Al di là del carattere e del tono della singola operetta, gli interventi di Leopardi sembrano andare in una medesima direzione trattandosi nella quasi totalità dei casi di varianti aggiuntive e progressive, che prevedono l’inserimento della virgola dove prima non c’era, il passaggio dalla virgola al punto virgola o da questo ai due punti. 4 Un movimento teso dunque a dare profondità al periodo, disegnandone con maggiore
1 Pare evidente comunque che Leopardi metta davanti a tutto le ragioni della sintassi, rovesciando la priorità sancita nei trattati e nelle grammatiche fino al Settecento (cfr. Fornara 2008 : 170) e a buona parte dell’Ottocento (cfr. Antonelli 2008 : 180). 2 Un breve appunto, tra i tanti, sull’interpunzione francese in Zib 1970 : « la minuziosità della punteggiatura usata da’ francesi, corrisponde, ed è analoga, conseguente e conveniente all’indole delle loro parole, costruzioni ec. e di tutta la loro lingua, e scrittura. (22 ott. 1821) ». Mi sembra interessante legare questo pensiero ad una pagina successiva : « Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de’ periodi, come nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell’andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni ; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell’avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti, per fermarsi a respirare (28 Agosto 1822) » (Zib 2613-14). 3 Le affermazioni più sopra riportate indicano che “l’arte del puntare” gli scritti è attività legata alla meditazione e alla ponderazione, e che quindi richiede più di un passaggio di lettura. Oltre a E tale condizione non si può dare per certa in realtà nemmeno per Zib : come noto il diario secondo l’autore mancava del tutto di una revisione stilistica (si vedano su questo problema almeno Ricci 2001-2 e Blasucci 2001). 4 Basti pensare che per la Storia del genere umano su un totale di 116 interventi in ben 54 casi si ha l’inserimento di una virgola (di contro a 7 in cui è eliminata), mentre in 41 si ha il passaggio dalla virgola al punto e virgola (in tre circostanze il caso contrario), in 5 dalla virgola ai due punti e in 3 dal punto e virgola ai due punti. Ancora più significativo il caso del Dialogo della Natura e di un Islandese che conta ben 133 varianti interpuntive. Ecco il quadro : (/) → (,) = 74 casi ; (/) → ( ;) = 2 ; (/) → ( :) = 2 ; (,) → ( ;) = 39 ; (,) → ( :) = 8 ; ( ;) → ( :) = 5 ; (,) → (/) = 3.
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incisività le coordinate prospettiche. Chiarissimo è da questo punto di vista il caso seguente : 1
Di maniera che la terra e le altre parti dell’universo, se per addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome [ , ] : perché essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della natura [ , ] ; e perché quelle, contro la corrente aspettazione degli uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno, quanto egli ne ha più notizia » (OM i, 363-68).
Qui il processo non punta tanto a sciogliere un’oscurità, ma a fare emergere in superficie la struttura armonica del periodo. L’assetto iniziale infatti, utilizzando esclusivamente la virgola per scandire le parti del discorso, rischiava di mettere sullo stesso piano la subordinata con la formulazione della causa e la reggente che ne illustra l’effetto. L’utilizzo dei due punti in funzione sintattico-argomentativa consente poi di evidenziare anche l’articolazione della causa stessa, la quale non solo è bipartita ma riprende specularmente i due elementi della reggente, prima il compl. di termine (« loro ») e poi il sogg. (« la terra e le altre parti dell’universo »). Vero è tuttavia che non si tratta solo di una più chiara ed efficace partizione della sintassi, dal momento che alcuni interventi sottolineano anche una più decisa scansione ritmica del discorso. 2 Si può a questo proposito ricordare l’inserimento di una virgola, che stacca e rileva il sintagma iniziale, in una fulminea battuta della Morte nel Dialogo della Moda e della Morte :
Gran miracolo [ / ], che tu non abbi fatto quello che non hai potuto (OM iii, 84-85),
introducendo una pausa che dà chiaramente forma all’intonazione. Ma la medesima cosa accade anche nell’ultima operetta (cfr. OM xxiv, 154-55 e 172). 3 Il quadro offerto dalle varianti interpuntive di OM potrebbe far pensare al fatto che la prima stesura, indipendentemente dal registro linguistico e stilistico, nasca ‘povera’ di segni. Ciò va forse tenuto presente nel valutare l’interpunzione delle lettere la cui rilettura o revisione non sarà probabilmente stata né così omogenea né, almeno da un certo momento in avanti, così rigorosa.
1. Uso del punto fermo. Se neppure nelle esercitazioni scolastiche raccolte da Maria Corti (cfr. EDG) si può rintracciare con sicurezza la presenza del cosiddetto punto mobile, 4 che secondo Antonelli 2008 : 182 « almeno per tutto il primo Ottocento,
1 Tra parentesi quadre indico la situazione di partenza, mentre con | segno il cambio di riga dell’edizione Besomi. 2 Per una interpretazione della punteggiatura delle Operette che punta a metterne in rilievo la primaria funzione ritmica di rallentamento del discorso, cfr. Bigi 1954 : 129-32. 3 Ecco i due passi : 154-55 « In conseguenza [ / ], credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati » ; 172 « Oh dunque [ / ], che farete del vostro libro ? ». 4 Non se ne fa cenno del resto nel paragrafo della Premessa ai testi dedicato alla punteggiatura (cfr. EDG : 8-9). Può però, a mio avviso, far sospettare l’uso del punto mobile proprio il caso di p. 36 r. 163 (il testo, del 1809, è Il trionfo della Verità. Veduto in Samaria, e sul Carmelo) in cui la curatrice segnala il proprio intervento per sostituire « due punti al punto dopo assistito, per evitare il pericolo della oscurità ». Ecco dunque come sarebbe stato in origine il passo : « Minaccioso, accigliato, e fiero questi [Achab] lo accoglie, e tu fremendo gli dice tu sei quello, che si fattamente turbi Israele. Punto non si commuove Elia, ne lo sdegno dell’irritato Re paventa, ma intrepido, e dalla Verità assistito. non io, gli risponde, ma tu sei quello, che a Sammaria le infelicità, e la fame procuri ». La prima battuta di discorso diretto, quella di Achab, non è introdotta da alcun segno, mentre la seconda è preceduta da un punto (seguito dalla minuscola) che ha soprattutto un valore intonativo.
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soprattutto nell’uso manoscritto, continua a circolare con una certa larghezza », 1 vale la pena di segnalare alcuni usi direi sorprendentemente moderni del punto fermo. Traggo gli esempi dal carteggio con Giordani, interlocutore con il quale, com’è noto e come avremo ampiamente modo di vedere anche in seguito, Leopardi spende le sue migliori energie, sul piano della lingua e dello stile oltre che su quello delle cose, di epistolografo. Da un punto di vista testuale va tenuto conto che se da un lato le più importanti lettere a Giordani non ci sono pervenute come autografi, dall’altro la consuetudine tra i fratelli prevedeva, soprattutto nei primi tempi, che Carlo o Paolina si impegnassero a ricopiare la lettera che poi Giacomo rileggeva e correggeva. 2 Qualcosa insomma di paragonabile ad una correzione di bozze. Ma veniamo al punto con qualche esempio :
« Di Recanati non mi parli. M’è tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee p[er] un trattato dell’Odio della patria […] » (49*), « Mio padre vi saluta molto caramente. Ed io v’abbraccio e vi lascio, o mio Giordani » (82*), « Nella mia brigata domestica che non è poca, se ne sentono alla giornata delle così belle che è una maraviglia. Ma io ci ho fatto il callo e non mi fanno più male » (93*).
Se in tutti questi casi il segno avrebbe potuto essere anche diverso dal punto fermo, è pur vero che mentre negli ultimi due l’uso del punto ha un valore anche pragmatico (serve cioè a marcare da un lato il cambio del referente dall’altro l’opposizione tra l’io e il resto della “brigata”), nel primo caso si può cogliere il valore prosodico e direi gestuale o prossemico, del segno. L’intenzione di predisporre una più ordinata distribuzione della materia (un’intenzione, come dire, turbata dall’impeto di dire) va forse ricercata nel prossimo esempio, riscontrabile in una lettera a Pietro Brighenti, in cui il punto fermo (vicino anche qui al punto mobile ?) 3 separa la reggente dalle completive successive alla prima :
1 A p. 183 lo stesso Antonelli cita un caso di uso del punto mobile da parte del Giordani epistolografo. In merito alla grafia e punteggiatura delle lettere giordaniane si può rinviare al quadro offerto da Melosi 2002 : 144, riferito al carteggio con Viesseux, ma sostanzialmente confermato da quello con Leopardi : « Paragonate alla scrittura giordaniana letterariamente impegnata, le missive private evidenziano sul piano della forma una mancanza di disciplina che chiama in causa lo statuto stesso del genere epistolare (nel caso specifico lo statuto della lettera familiare […]). Interessanti elementi di valutazione emergono a questo proposito dall’analisi degli autografi di Giordani, caratterizzati da un’irregolare conformazione dello specchio di scrittura, dall’uso asistematico della minuscola dopo il punto fermo (spesso anche a capoverso) e dopo il punto interrogativo, o nell’indicazione dei nomi propri più consueti […]. Vanno inoltre rilevati alcuni personalissimi effetti di interpunzione e interiezione e la continua oscillazione delle consonanti geminate […] ». Forzando un po’ il suo discorso, la studiosa mette poi in relazione questi tratti (tutt’altro che sconosciuti alla lingua del tempo) con la volontà giordaniana di sottolineare la « natura colloquiale dell’epistolarità privata » e di « riprodurre, nei limiti del possibile (e quindi anche per via di stilizzazione grafica), il discorso orale in una forma letteraria corriva ». 2 Cfr. le fonti riportate nelle note di E in cui si riferisce « copia di […], con correzioni di Giacomo ». Si veda anche Diafani 2000 : 35n : « Delle lettere “al Giordani e ad altri […] egli non ne faceva quasi mai le minute ; ma, finché fummo insieme, le copiavamo quasi tutte io e Paolina prima che le spedisse” » la testimonianza è di Carlo Leopardi, riferita nei Ricordi orali, in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte (1849), a cura di P. Viani, Firenze, Le Monnier, 1889 (6a ed. riveduta e corretta). 3 Altro contesto in cui può affacciarsi il punto mobile riguarda forse il punto dopo il vocativo, utilizzato spesso da Leopardi (e da alcuni suoi corrispondenti) anche in missive degli ultimi anni : « Caro Papà mio. Torno in questo punto […] » (1795), « Ranieri mio. Io ti scrivo un nulla, ma sempre » (1847), « Cara Pilla. Io sapeva […] » (1918) ecc. La ripresa con la maiuscola in questo caso potrà evidenziare proprio una fase di passaggio, l’imminenza dell’uscita dall’uso del segno in questione.
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Fatemi grazia di dire al nostro Giordani che alla sua ultima dei 18 di Giugno risposi con una lunga lettera smarrita al solito. Ma che le sue non vanno a male, e perciò, se non gli è grave, me ne consoli di quando in quando. Che gli scrivo oggi, e perché verisimilmente non riceverà la lettera, lo avverto per mezzo vostro, che mio padre non mi sconsentirebbe la cattedra in Lombardia, e probabilmente neanche l’assegno (323). 1
Si può ancora notare come lo stacco tra reggente e subordinata causale, nel passo che segue, possa essere letto come una strategia di messa in rilievo dell’elemento sintatticamente dipendente :
Ella dice da Maestro che il tradurre è utilissimo nella età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perchè quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde (49*).
Siamo ancora nelle fasi iniziali del carteggio (la lettera è datata 21 marzo 1817), ma sempre nell’ambito di una lettera a Giordani, a testimonianza dell’incredibile precocissima sapienza stilistica di Leopardi. 2. Uso della virgola. Per quanto si è detto poco sopra va da sé che Leopardi, sia pure con un’attenzione sempre rivolta alla leggerezza e al “legato”, intervenga con la punteggiatura piuttosto a separare e incidere i profili di un periodo sintattico ampio ed elaborato che a lasciare più coperto e insieme più implicito il suo discorso. La pratica interpuntiva riscontrata nel carteggio risente comunque di una certa oscillazione che, come detto, può essere legata all’eterogeneità dei testi presenti nel corpus ma che indubbiamente è anche in sintonia con la scrittura del tempo. L’ampia rassegna di Persiani 1998 delinea infatti per la fine del Settecento una situazione ancora largamente in via di definizione, 2 sia per quanto riguarda la prassi degli scrittori sia nelle sistemazioni teoriche dei grammatici, in bilico tra un approccio all’interpunzione di tipo logico-grammaticale e uno pausativo (tenendo pur conto che le due prospettive possono anche convergere). 3 Resta comunque il fatto che « la virgola è stata sempre soggetta a usi oscillanti e stilisticamente diversi ; specie nell’Ottocento, quando molte delle norme che attualmente ne regolano l’impiego erano ancora in via di assestamento » (Antonelli 2008 : 187). Per quanto riguarda l’uso della virgola come connettivo di sintagmi, direi che nel caso delle serie o enumerazioni composte da due o più membri il segno, come normale anche oggi, è presente in un’ampia maggioranza di casi. Vediamone almeno qualche esempio con aggettivi e sostantivi :
1 Con Fornaciari si potrebbe chiosare che siamo di fronte a concetti che « non rampollano l’uno dall’altro, ma nascono tutti successivamente e separatamente, da un animo agitato ; e però si richiedevano tutti que’ punti fermi » (cito da Antonelli 2008 : 184). 2 L’assetto messo in luce da Persiani è sostanzialmente confermato da Antonelli 2008 per l’Ottocento. 3 Davvero esemplare nel conciliare le due esigenze è l’attacco della prima Operetta, Storia del genere umano. Secondo Colagrosso 1911 : 228, la punteggiatura leopardiana, e quella delle operette in particolare, è « punteggiatura soprattutto stilistica ». Sul carattere principalmente ritmico, anzi francamente « stilistico », dell’interpunzione manzoniana, in particolare nella revisione del romanzo, insiste Ghisalberti 1941, 14043. Su un piano più generale si veda anche il breve excursus in Mortara Garavelli 2003, 117-34 e il già citato panorama di Antonelli 2008.
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« L’aria di questa città […]. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi » (60*), « Ma il diletto che m’hanno recato i suoi versi puri, facili, delicati, supera ogni altro riguardo […] » (357), « La letteratura romana, come tu sai benissimo, è così misera, vile, stolta, nulla, ch’io mi pento d’averla veduta e vederla » (512) ecc. ; « con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali » (3) « che ne diranno il Monti, il Giordani ? » (49*). 1
L’oscillazione ravvicinata che si riscontra in alcuni luoghi può anche essere voluta per esigenze di variatio :
« Il fregiare le opere proprie col nome di personaggio illustre fù spesso orgoglio, interesse, costume. L’umiliare all’Em.za v.ra R.ma questo mio componimento è rispetto amore riconoscenza » (12*).
La situazione sostanzialmente non cambia con la presenza di congiunzioni coordinative, anche se va tenuto conto di contesti contrari :
« sono senza paragone più noti e stimati e lodati e riveriti che non son io » (168*), « perchè l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili » (268*), « Addio, mio carissimo e preziosissimo e incomparabile amico » (1610) ecc. 2
e di parziali contaminazioni :
« Non so dirle con quanta necessità, stomacato e scoraggiato dalla mediocrità che n’assedia, e n’affoga » (49*), « I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e del Tasso, e dell’Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento » (60*), « vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura, e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione » (520).
Per restare ancora all’interno della frase, nella connessione tra sintagmi, Leopardi doveva certo sentire vicina alla propria esigenza di gerarchizzazione delle strutture la virgola che separa dal predicato il soggetto variamente ampliato :
« Egli credendo che lo avessi mandato a Lui nel suo Giornale, mi ha scritto obbligantemente dicendomi che […] » (50*), « Mio padre che la saluta con ogni distinzione, scrisse il 27 Febbraio p. p. alla sua Ditta » (123), « Quelli che presero in sinistro la mia Canzone sul Dante, fecero male » (296), « ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono » (466), « un freddo intenso e straordinario cominciato qui ai 10 di decembre e continuato costantemente per un mese, mi ha impedito di pormi in via » (1889), « il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a Napoli » (1957) ;
fino al caso limite in cui è un inciso vero e proprio (che quindi non è segnalato in avvio) 3
1 Si vedano però anche casi come i seguenti : « disprezzava Omero Dante tutti i Classici » 60*, « Io avea allora 15 anni, e stava dietro a studi grossi, Grammatiche Dizionari greci ebraici e cose simili tediose, ma necessarie » (60*) ecc. 2 Ma con una analoga terna di superlativi si veda 1811 (l’interlocutore è sempre De Sinner) : « E non mi fa punto meraviglia che la Germania, solo paese dotto oggidì, sia più giusta verso di Voi, che la presuntuosissima, e superficialissima, e ciarlatanissima Francia ». 3 Sulla scelta di Manzoni di segnalare con la virgola solo la chiusura dell’inciso, divenuta più rigorosa nella revisione del romanzo, si veda Ghisalberti 1941 : 151 secondo cui l’autore dei Promessi sposi « mantenne senza virgole i brevissimi incisi che si potevano senz’altro considerare come complementi necessari della proposizione stessa […]. Laddove essi si inseriscono in modo più evidente tra il soggetto ed il verbo della proposizione, egli preferì considerarli come parole appartenenti al soggetto, o alla congiunzione stessa specialmente se coordinata, segnando una pausa soltanto invece di due, e di solito alla fine, prima del verbo, con una virgola più stilistica che grammaticale ».
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a dilatare il soggetto, come in « l’errore corso nel mio manoscritto p. 40 di cui Ella mi favorisce d’avvertirmi, va corretto così » (289). 1 Sullo stesso piano si può collocare la virgola davanti alle relative limitative, che esemplifico con due casi dalle zone estreme del carteggio : « non altri che un insensato potrebbe dimenticare la gratitudine, che le debbo » (9), « a causa della mia cassetta fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente erano quei di casa » (1957). Pur attestate lungo tutto l’epistolario le relative limitative non circoscritte dalla virgola sono nettamente minoritarie. Passando alla connessione tra frasi, e scorciando un po’ la presentazione del materiale, va segnalata comunque la frequenza della virgola davanti a
– congiunzioni copulative :
« ho molto piacere che la stampa dell’Annibal Caro debba riuscir così bella come sento, e superiore senza dubbio a quella di Milano la quale non è di lusso ma di semplice uso » (119), « Mi lusingo che Ella s’avvedrà del sommo riguardo che ho avuto al Cav., e degli elogi che gli ho fatti, e della possibile avvertenza che ho avuta perchè il discorso non uscisse nemmeno un punto dai termini di un affare puramente letterario » (123), « il desiderio ardentissimo di servire cotesta mia patria, a qualunque mio costo e fatica, ogni volta che lo consentano i tempi, e che l’opera mia non paia dover essere, come in questo caso, del tutto fuori di luogo » (1603) ecc. ;
– e, del resto assolutamente normale anche oggi (cfr. Mortara Garavelli 2003 : 1718), congiunzioni avversative :
« della quale avendomi scritto lo stesso Mai ed altri con certa approvazione, ho creduto che non per il merito suo, ma per l’importanza dell’argomento non le dovesse esser discaro di averla » (90), « non solo non difendo mio padre, ma do schiettamente ragione a Lei » (381), « Sono arrivato iersera, e non ancora uscito di casa […], nè ho visto alcuno de’ conoscenti, ma vi scrivo questa per darvi le mie nuove, e per dimandarvi le vostre, e quelle de’ cari amici che ho lasciati nella cara Firenze » (1656) ecc.
Tutt’altro che rara, e riscontrabile per tutto il carteggio ma particolarmente in avvio, la virgola che separa il verbo dalla completiva :
« Amerei, che ella illustrato da un lume negato dalla natura a tutti gli uomini potesse nel mio cuore leggere […] » (5), « fu assicurato da chi glielo procurò, che esso era rarissimo » (106), « Fatta la risposta, vedo p[er] notizie più recenti, che forse gli Austriaci saranno costì prima della presente. Credo perciò bastare, che Ella m[edesima] risponda questo in mio nome » (1604) ecc. ; 2
1 Di « virgole stilistiche » parla Ghisalberti 1941 : 146 a proposito di esempi manzoniani in cui la virgola separa il soggetto dal verbo (cfr. nota precedente). Si tratta spesso di un soggetto non espanso e dunque ne risulta prevalente il carattere ritmico e di messa in rilievo (Ghisalberti parla di « esigenze del senso e della lettura »). Non mancano tuttavia casi analoghi a quelli visti a testo per Leopardi, per il quale basti pensare anche solo all’attacco della Storia del genere umano : « Narrasi che tutti gli uomini che da principio popolarono | la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo ». E tuttavia OM ha anche esempi contrari, e nella stessa operetta d’apertura. In « Molti mortali, inesperti e incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno » la virgola dopo il sintagma iniziale segnala l’avvio dell’inciso (si tratta, è bene precisarlo, di una variante introdotta successivamente). Alcuni esempi tratti dallo Zibaldone in Castellani Pollidori 2002 [2004 : 456-57]. L’affinità tra Leopardi e Manzoni in questo uso della virgola era già stata sottolineata da Colagrosso 1911 : 220. 2 Per la virgola utilizzata come segno per marcare semplicemente il confine di frase cfr. Serianni 1989a : 150n, 160n.
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– ancor più frequente davanti alle concessive (tipo del resto moderno, ma che soprattutto nel distinguere membri brevi denota la sua funzione logica, di chiarezza, piuttosto che pausativa) :
« Da Giordani tornato a Milano ebbi lettera che mi consolò moltissimo, benchè si lamenti ancora della sua testa » (422), « l’Opera è nuova, del M.ro Caraffa : non mi parve gran cosa, benchè avesse un incontro sufficiente » (480), « Del Zio Ettore mi dispiace moltissimo, sebbene non lascio di sperare » (786), « Vi scrivo dunque, benchè siate prossima a tornare » (1777) ;
– mentre costante pare la virgola che separa protasi e apodosi nel periodo ipotetico :
« Noi non conosceremmo Achille, se Omero non ne avesse parlato » (9), « Ma la continuazione le sarà spedita sollecitamente, se questa prima parte non le dispiacerà » (123), « s’Ella non isdegnasse di servirsi dell’opera mia, avrei ben caro di mostrarle » (155), « Se io dovessi riprendere alcuna cosa nel suo scritto, sarebbe la macchia ch’Ella ha voluto fare ad una pagina coll’inserirvi il mio nome » (165).
Alla serie si possono aggiungere le finali con le quali i riscontri sono più oscillanti :
« attendea con impazienza il libro, per gustare il piacere della sua lettura » (9), « non lascio di pregarla a volergli significare la mia riconoscenza, affinchè i miei ring raziamenti, venendo da Lei, gli riescano più graditi » (634), « Io aveva deciso di andare a passare tutta la buona stagione a Parma, per provare di curarmi seriamente » (1600) ; mentre, senza virgola, « Ne abbiamo pubblicato questo Saggio in Firenze per provare se il ms. passerebbe in Lombardia » (861), « Avanti ier sera fu in casa per vedermi » (868), « Voi avete fatto sforzi erculei per dare alle mie bagattelle filologiche un’apparenza di valore » (1610). 1
Da un punto di vista diacronico il medesimo atteggiamento teso a scandire l’autonomia e l’indipendenza logico-semantica dei vari membri, in un contesto sintattico radicalmente mutato quale quello che si registra verso la fine del carteggio, ha l’effetto di isolare porzioni sempre più piccole di enunciato portando in superficie tutte le singole nervature del discorso, ma anche di rallentare il ritmo della frase spezzettando la linea melodica : « Ho avuto la sorte, qui singolarissima, di trovare un quartiere a mese, senza dovere andare, come io temeva, in locanda » (1899), « La mia salute, o per benefizio di questo clima, o del luogo salubre che abito, o per altra cagione, è migliorata straordinariamente » (1900), « Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l’anima, augurando loro ogni maggior consolazione nella prossima Pasqua » (1957). Da segnalare inoltre un uso della virgola assimilabile a quello “presentativo” dei due punti : « Il Fabricio la chiama, edizione non dispregevole » (32), « Il titolo sarà, Canzone di Giacomo Leopardi ad Angelo Mai » (304), e più sfumato « ripeto quello che le diceva nell’altra mia, che eccetto dodici copie, le quali […] » (164). Per dare infine almeno un esempio dell’attenzione (e qui lo stile è la cosa stessa) che almeno in alcune zone è dato riscontrare nell’uso anche della virgola, si veda questo passo :
1 Aggiungo un es. all’interno della proposizione, con il compl. di fine o scopo : « Desidero esser tenuto al corrente delle nuove loro, per mia quiete » (1600).
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Sempre ch’io penso a te (il che avviene ogni giorno) e massimamente leggendo le tue lettere, mi prende un desiderio incredibile di rivederti e riabbracciarti e conversar teco lungamente, e mostrarti il mio cuore e contemplare il tuo, e se non consolarti dei rigori della fortuna sottentrare ad alcuna parte delle molestie e della tristezza che ti aggravano (512* a Giordani).
Si può notare da un lato l’effusione del sentimento che tramite il polisindeto allinea orizzontalmente i vari membri dell’enunciato, dall’altro la presenza della virgola che distingue comunque momenti o gradi dell’amore diversi e via via più profondi. 3. Uso dei due punti. Si tratta soprattutto di sottolineare l’aumento in diacronia del segno. La progressiva riduzione della complessità sintattica porta con sé un maggior ricorso alla giustapposizione, ad uno sviluppo orizzontale del discorso che fa un più frequente uso dei due punti per scandire più nettamente le parti ; mimare un discorso diretto, più efficace e immediato del discorso riportato ; semplificare le strategie di chiusura. La tipologia d’uso comunque rientra tra quelle indicate dalle varie grammatiche sette-ottocentesche e riassunte in Persiani 1998 : 203-210 di cui seguo per comodità la sistemazione :
– giustapposizione in sintassi nominale. Qui in particolare è molto evidente come alle elaborate formule di chiusura della prima parte del carteggio, che sono un topos del genere, Leopardi sostituisca in seguito più spigliate, e più comuni, soluzioni bipartite o anche tripartite :
« Ripeto, non mi credete un amico di parole. No per Dio : forse ve ne ridireste una volta, s’io diverrò mai padrone di me stesso, e delle mie facoltà, se non altro, naturali » 345, « Saluti affettuosissimi a tutti i suoi : mi dia le sue nuove, e mi creda sempre […] » (1605), « Saluta tutti : addio » (1652), « Addio, carissimo Vieusseux : vi abbraccio col cuore » (1669), « Addio, cara Fanny : salutatemi le bambine » (1686), « Addio, cara Antonietta : potete pensare quanto sia il mio desiderio di rivedervi » (1692), « Addio, Carluccio mio : mille baci alla Gigia : io tornerò a Firenze probabilmente questo marzo » (1698), « Addio, cara mia Pilla : da Babbo avrai potuto sapere ch’io ti scrissi già il 12 o 13 dicembre una lettera che Arimane si è mangiata per colezione » (1704), « Addio : salutami tutti » (1725) ecc. 1
– giustapposizione di proposizioni, che produce una scansione più netta e rilevata delle singole parti del discorso, attribuendo al segno una funzione segmentatrice o anche sintattico-argomentativa (come nell’ultimo esempio) :
« Questo voglio : di tutto l’altro la pregherò » (49*), « Altro mezzo che questo non c’era : convenia scegliere, e la scelta ben sapete che non poteva esser dubbiosa » (241), « Te le raccomando : abbine cura e difendile : sai che non ho cosa più preziosa che i parti della mia mente e del mio cuore » (241), « Desidero però sommamente che la città e la provincia si scordino ora totalmente di me e de’ miei : creda p[er] certo che non possono farci cosa più vantaggiosa » (1604), « Pigliare il mio protocollo di lettere letterarie, tutti due i volumi : levar via le lettere di
1 Va da sé che soprattutto nelle formule di chiusura, costruite sulla falsariga di quelle a testo, le soluzioni relative alla punteggiatura possono essere svariate : si può aver il punto fermo (« Salutami tutti teneramente. Addio addio » 1609, « Addio, Pilla mia. Prega Dio per me, e voglimi bene » 1765), oppure il punto e virgola (« Addio ; guardatevi da questo diabolico inverno » 483) o la virgola (« Addio, ti bacio, stammi di buon animo » 466).
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Vieusseux, Brighenti, Stella, Colletta, e le copie delle lettere mie : farne un gran rouleau con sopraccarta ben suggellata : scriverci sopra Documenti » (1616), « Non vi stancate di amarmi : non troverete in me altri meriti, ma un animo amante, anzi amantissimo, mi troverete fin ch’io viva » (1715) ecc.
I due punti possono essere utilizzati anche nelle replicazioni con appoggio sugli stessi elementi, con un valore dunque di sottolineatura dell’anafora (ma è evidente che queste strutture sono in maggioranza accompagnate da altri segni di punteggiatura) :
« Costì il nome di letteratura si sente spessissimo : costì giornali accademie conversazioni libraj in grandissimo numero » (60*), « Unico divertimento in Recanati è lo studio : unico divertimento è quello che mi ammazza : tutto il resto è noia » (60*), « Le dirò solo che l’affare non è d’un triennio […] : che a piacer mio saranno ancora tutte le circostanze […] : che De Romanis è un uomo buono […] : che in Italia, e massimamente in Roma […] : che nell’impresa di De Romanis […] : che ho già presso di me […] ; e che finalmente o non si farà scrittura […] ; o dovendosi fare obbligazione […] » (497). 1
– coordinazione di proposizioni, con una più marcata funzione di rilancio del discorso, o meglio di precisazione e compimento. I due punti sembra stiano ad indicare una sorta di dipendenza, non sintattica ma concettuale, di ciò che segue :
« È coperta di quel leggiero strato, o patina come sogliam dire, che caratterizza i monumenti antichi : e manda un odore disgustoso, il quale sembra mostrare che essa è stata dissotterrata » (10), « Ne acchiudo uno del quale ella si servirà a suo piacere : e forse anche presto ne avrò altri che le manderò se non le dispiaceranno » (94), « Quando bene io fossi stato di ghiaccio verso la patria, le parole di V. S. m’avrebbero infiammato : nè certamente io presumo di potere altro che pochissimo : tuttavia non lascerò che si desideri niente di quello ch’io possa, nè mancherò all’esortazioni di V. S. » (227), « Che che sia di ciò, confesso che il desiderio di rivedervi supera in me ogni altra considerazione : e M. Mourawieff vi desidera anch’egli moltissimo, come ben sapete, e come egli mi ripete ogni volta che mi vede » (1610) ecc.
– coordinazione di proposizioni con cong. avversative :
« l’Accademia Ecclesiastica, ricercando maggiore spesa che a me non bisognerebbe in altro luogo, è, se nel superlativo si dà comparativo, il partito il più disperato : mentre quello stesso ch’io domando […] non è pure immaginabile d’ottenerlo » (218), « quanto maggiore sarà il numero degli scrittori tanto le speranze saranno più ragionevoli : ma da uno solo o da pochi per quanto siano eccellenti non è facile che nascano grandi effetti » (227), « Mi domandi perchè non rispondo alle lettere del Comitato di Rec. e di Macerata : ma sai tu dunque che quello di Macerata mi abbia scritto ? e a che fine ? io non ho ricevuto nulla » (1609), « Ho parlato coll’Odescalchi e col Betti : ma per ora non v’è discorso di smettere il G. Arcadico, del quale anzi mi par che costoro vadano più pettoruti che mai » (1669) ecc. 2
1 Va forse segnalato il tono perentorio che accomuna questi tre esempi, e che la punteggiatura vuole forse sottolineare. L’ultimo in ogni caso è significativo : il lungo elenco distingue i suoi diversi costituenti attraverso la ripresa anaforica della congiunzione e l’aggiunta dei due punti, tranne l’ultimo membro della serie che è introdotto dal punto e virgola. La funzione conclusiva di questo ultimo elemento è sottolineata non solo sul piano sintattico dalla congiunzione e con valore conclusivo, ma anche sul piano lessicale attraverso il ricorso all’avverbio. Poiché anche il membro finale del lungo periodo tuttavia è partito o meglio bipartito, Leopardi usa coerentemente il segno con cui quel membro si era aperto, cioè il punto e virgola. 2 Diversi casi anche nelle Operette : OM i, 472 e 482 ; OM ii, 55 e 65 ; OM viii, 31 ; OM ix, 33 ; OM xxi, 323 ecc.
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e conclusive :
« Io sto passabilmente, ma gli occhi non mi lasciano far nulla nulla : perciò non posso se non ricordare a Lei, alla cara Mamma e ai cari fratelli, l’amore del loro […] » (1600) ;
– subordinazione causale (anche qui con una sorta di messa in rilievo dell’articolazione sintattica e argomentativa) :
« Verissimo e grandissimo dispiacere provo p[er] non poterla servire del promesso articolo sopra il Bellini, i cui fascicoli le piacque spedirmi il 14 Decembre p. pel ½ Marsoner e Grandi : poichè dopo settanta giorni la spedizione p[er] noi è come non fatta » (39), « mi dispiace di non poterla in nessun modo contraccambiare per molto ch’io lo desideri : giacchè quello che spetta ai nuovi frammenti di Dionigi Alicarnasseo non è fattibile per due ragioni » (145), « Non ti aspettare però gran cose : si tratta di libricciuoli regalati » (1665), « Nè posso anche parlarvi dei vostri libri, dei quali vi ringrazio senza fine, e che sono impazientissimo di vedere : perchè tutto quello ch’io potei sapere […] fu che il vostro pacco si trovava a Marsiglia in luogo sicuro » (1951), « il secondo delle operette morali non posso mandarlo altrimenti, per la parte edita, che nell’edizione di Firenze, tal qual è : perchè mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra quell’edizione » (1956) ecc. 1
I due punti sono utilizzati anche con altri tipi di subordinata 2. Trovo casi ad esempio per le concessive (« Ma non voglio che t’affanni a scrivermi : benchè non mi resti altra consolazione che questa, due righe mi basteranno » 232, « Non parlerò mai della sua sorte senza un’infinita invidia : se bene sono certissimo che, avvedutosi della morte vicina, egli volentieri avrebbe cangiato il suo stato col mio » 1785), le comparative di analogia (« Ho creduto di doverla informare di tutto questo, e di non far torto con ciò a mio cugino che mi ha pregato di non parlarne ad alcuno : come anche ho creduto di doverlo intieramente tacere al Zio Carlo » 544), per le consecutive (« In Luglio il negoziante che mi era debitore di quella e maggior somma, con perfidia sconosciuta a chi non conosce Napoli, ha mancato al promesso pagamento : onde mi è convenuto con altri miei soci letterarii farlo notificare […] » 1911), le completive (« Un’altra cosa le giuro (e Carlo l’ha pur promessa a Mamma) : che neanche la disperazione potrebbe indurre Carlo e Paolina a fare un passo decisivo durante la di Lei assenza » 1431), le esclamative (« La parte francese la feci scrivere da un nazionale a Milano, e poi dovetti farla rifare da un altro, e infine correggerla io stesso : tanto era barbara » 884) ecc.
– per il discorso diretto invece, che rimane su di un piano potenziale dal momento che è sempre l’io a parlare ; su di un piano cioè di strategia espressiva legata all’immediatezza, o se si vuole di messa in scena del discorso, 3 si vedano almeno questi esempi :
« Direte : ancora non siamo in quaresima, e vi dà da pensare il finire una lettera prima di pasqua ? » 114*, « Direte : e lo studio ? » (139*), « Replicherò quello ch’io ti scriveva nella sopraddetta
1 Cfr. Colagrosso 1911 : 209-10. 2 Leopardi sembra dimostrare qui una maggiore apertura rispetto alla tradizione precedente in cui raramente i due punti introducono subordinate diverse dalle causali (cfr. Persiani 1998 : 208-09). 3 Sull’uso sobrio o meglio ‘leggero’ della punteggiatura per introdurre il discorso diretto in OM cfr. Tesi 1989-90 [2009 : 67-70].
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lettera : io voglio sperare che tu potrai fare un viaggetto » (307), « Ma ditemi, vi prego : la prima distribuzione è ella ancora pubblicata ? » (1610), « Senti, Pilla : io ho un pressantissimo bisogno di solette » (1652), « La tua malinconia mi affligge di continuo : quanto sospiro quel tempo ch’io ho potuto consolarti ! » (1843) ecc. 1
Da segnalare ancora l’utilizzo, non particolarmente frequente, dei due punti nel collegamento tra reggente e relativa (« quanto è l’affetto ch’io porto a questa nostra patria comune ch’è l’italia, tanto bisogna che mi lasciate odiare intensamente questa vilissima zolla dov’io son nato : della quale vorrei che vi faceste in mente questo concetto, che non potete mai […] » 194, « Vi sono gratissimo dell’amorevole premura con cui mi consigliate la moderazione negli studi : la quale però essendo mancata a suo tempo, ora non ha più luogo » 239, « Mi dispiace che ho già dovuto spedire a Milano il ms. della Crestomazia poetica : nella quale però non avrei potuto far piacere a Broglio […] » 1323), 2 oppure in quella forma di collegamento appositivo che si realizza con l’uso di cosa come connettivo (« La ringrazio delle Copie della Batracomiomachia di cui vedo annunziata la 2da edizione : cosa che non avrei mai sognata quando anche la prima era troppo ad un’opera degna di p[er]petue tenebre » 39, « Ella viva sicura che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa edizione andrà innanzi : cosa della quale dubito molto » 1918). 3 Su questa strada si può segnalare anche il caso dei due punti usati con valore riepilogativo e riassuntivo :
« Io non son certo una gran cosa : ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa : tutto questo non ha fatto mai altro recanatese a recineto condito » (60*), « Disse ch’era stato pagato del resto, ma non aveva avuto ne gli armadj vecchi né gli otto scudi ; che non si curerebbe di averli se il suo credito fosse con Lei, ma ch’essendo colla Comune, non vedeva nessun motivo di trascurarlo : in somma mi pregò che gliene scrivessi, come faccio […] » (485).
Chiudo su questo segno ancora con un esempio che ne mette chiaramente in evidenzia la funzione pausativa, senza tuttavia che con questo ci si debba riferire ad aspetti esclusivamente prosodici. Qui si tratta di un respiro che si accorda ai tempi lucidissimi, e disperati, del pensiero :
1 Il discorso diretto in E può eccezionalmente essere introdotto anche dalla virgola, come in 49* : « Ma ad un cieco è poca cosa dire, Tu esci di strada ; se non se gli aggiunge, Piega a questa banda » (ma ad es. in 60* : « È un bel dire : Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti », e ancora senza alcun segnale poco oltre nella stessa lettera : « È un bellissimo dire qui sei nato, qui ti vuole la provvidenza »). Sul ricorso invece al punto e virgola per indicare il passaggio del turno (come nel primo esempio riportato e poi in 60* e anche altrove), che si riscontra in OM ma che non pare estraneo all’uso dell’epoca, si veda Tesi 1989-90 [2009 : 68-69]. 2 Situazione presente anche in OM i, 433-39 : « Avevano usato gli Dei negli antichi tempi […] visitare alcuna volta le | proprie fatture, scendendo ora l’uno ora l’altro in terra, e qui | significando la loro presenza in diversi modi : la quale era stata sempre con grandissimo beneficio o di tutti i mortali o | di alcuno in particolare ». Si tratta di casi, come quelli a testo del resto, che possono essere inseriti nella categoria della coniunctio relativa, per cui si veda § 5.6. 3 Alcuni esempi anche da OM in Tesi 1989-90 [2009 : 42]. Fornaciari 1881 : 477 : « dinanzi ad una lunga o molto importante apposizione […] che aggiunga un pensiero inaspettato. Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno de’ pochissimi Italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente : cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Leopardi », la citazione, nel corsivo originale, è naturalmente dall’attacco di OM xiii.
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« La mia salute è sempre tale da farmi impossibile ogni godimento : ogni menomo piacere mi ammazzerebbe : se non voglio morire, bisogna ch’io non viva » (1249).
4. Uso del punto e virgola. Se la caratteristica di questo segno di trovarsi come a metà strada fra virgola e due punti è causa di un certo imbarazzo da parte dei grammatici che ne devono descrivere la funzione, dobbiamo dire che la prassi dell’epoca, 1 confermata dall’uso leopardiano, non aiuta a fissare precisi contesti d’uso : ne consegue che i casi di ambiguità del segno, che può sostituire sia la virgola sia i due punti, aumentano, così come si amplia la casistica relativa al suo utilizzo. 2 All’interno della proposizione ad esempio il punto e virgola può essere usato, sia pure solo nella prima fase della corrispondenza, come connettivo di sintagmi, nelle coppie o serie (« Non v’ha in esse nè esagerazione ; nè menzogna » 5, « L’altre amicizie che ho fatte qui […] sono il cav. Marini, uomo dotto, come tu sai, e buono ; e parecchi forestieri, come il prof. Tiersch di Monaco, Grecista celebre ; il dottor Frarup Danese ; il Ministro de’ Paesi Bassi letterato e gentile ; e il Ministro di Prussia » 527, « Il Cavaliere Marini all’aspetto è un uomo d’età fra i quarantacinque e i cinquant’anni ; di viso non affatto giovanile ; ma niente vecchio ; fisionomia molto amabile e per lo più ridente ; occhi vivi ; colorito sanissimo ; complessione forte ; statura mediocre e personale proporzionato » 542). Maggior resistenza in diacronia registra l’uso del punto e virgola per isolare un costrutto appositivo (« Che il mio libro avesse molti difetti lo credea prima, ora lo giurerei perchè me lo ha detto il Monti ; carissimo e desideratissimo detto » 49*, con efficace passaggio dal verbo al nome ; « se la pièce fu applaudita a Pisa per testimonianza dell’autore, a Firenze ultimamente ha fatto fiasco completo ; cosa ch’io non so dall’autore, ma da altri miei amici » 1715) oppure con evidente effetto di mise en relief (« Vengo leggendo e scrivacchiando stentatamente, e gli studi miei non cadono oramai sulle parole ; ma sulle cose » 356, « E sappi che quelle erano una bagatella a paragone di queste ; sicchè perdi molto ; ma pazienza » 730, « Addio, anima mia ; senza fine addio » 1815). A sostituire la virgola questo segno è chiamato anche nel caso in cui il sintagma d’avvio (che può essere nominale, ma anche verbale) si espanda per mezzo di un inciso chiuso appunto non da una virgola, con cui si era aperto, ma dal punto e virgola che gerarchizza così la struttura secondo quanto indicato anche da Fornaciari 1881 : 476 (« In generale, per separare varii membri del periodo coordinati o subordinati, ma tali che formino un tutto ») : 3
« L’opera mia qualunque, abbracciando tutti gli scritti di Africano, con moltissime note e prolegomeni ; potrà riempire un tomo in foglio o due tomi in quarto, che a Milano sarebbe facile pubblicare ; nè io credo che quella del Marini sia così ampia » (16), « Mio caro Signor Padre, se
1 Si veda a proposito Persiani 1998 : 211, ma anche Fornaciari 1881 : 475-76, e Mortara Garavelli 2003 : 67-68. 2 Su alcuni usi del punto e virgola in OM rinvio a Tesi 1989-90 [2009 : 23 n. 21], in cui tra l’altro l’autore sottolinea l’importanza della trattatistica secentesca nella prassi interpuntoria leopardiana, e in particolare dell’Ortografia di Daniello Bartoli ; libro presente nella biblioteca di Monaldo, e autore come noto più volte citato in Zib e altrove (anche in E : 60*, 110*, 477, 857). 3 Si tratta, evidentemente, di una variante più elaborata e insieme più precisa del tipo già visto per la virgola con soggetto espanso.
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mi permette di chiamarla con questo nome ; io m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze » (242), « Vi scrivo dunque, benchè siate prossima a tornare ; non più per domandarvi le vostre nuove, ma per ringraziarvi della gentile vostra di lunedì (1777), « Non ho veduto la Pelzet, e non la vedrò, credo ; non essendo verisimile ch’ella venga a trovarmi » (1813).
Nell’esempio iniziale, se alla prima occorrenza del punto e virgola possiamo attribuire il compito di tenere unito il sintagma d’avvio alla gerundiva che lo precisa, formando in sostanza un soggetto complesso, la seconda occorrenza vorrà forse segnalare che la coordinata si colloca sullo stesso piano di quella parte della principale che è separata dal suo soggetto mediante quel medesimo segno. Anche se cambia il soggetto grammaticale, da un punto di vista pragmatico il referente rimane pur sempre « l’opera mia qualunque ecc. ». La stessa funzione di sottolineare l’autonomia dei diversi membri di un periodo, che va di pari passo con una implicita funzione pausativa, 1 si coglie nella giustapposizione di proposizioni complesse :
« Tuttavia questa deliberazione non è repentina ; benchè fatta nel calore, ho lasciato passare molti giorni per maturarla ; e non ho avuto mai motivo di pentirmene » (241), 2 « Ho scritto lungamente al conte Saverio, e s’egli vorrà mostrarvi la mia lettera, potrete intendere come io abbia pensato e pensi ; se non vorrà, spero che non perciò mi farete torto nella vostra opinione, senza conoscere la natura della cosa » (251), « In verità è una grande imprudenza il lasciar che le mie o le tue lettere vadano in mano di Mamma ; io ci ho avuto sempre scrupolo ; da qui in avanti, procura che non succeda più » (939), « I miei versi sono stampati da un pezzo ; l’edizione è molto pulita, legata in cartoncino alla bodoniana ; ma lo stampatore ancora non mi manda le copie che mi deve, e io non ho cuore di spendere cinque paoli l’una per compe rarne » (1622) ecc. 3
In questa direzione, come già visto per i due punti, il punto e virgola può separare proposizioni coordinate introdotte da congiunzioni copulative o avversative (« Avrei voluto scrivere a quel Sig. Cav. proponendogli o di accettare da me tutto il frutto delle mie fatiche e servirsene nella sua Edizione ; o di communicarmi quello delle proprie » 16, « Vero è che, perdendo le mie lettere, tu perdi poco ; ma io perdo molto, che per
1 Si veda da questo punto di vista almeno un passo tratto dall’Operetta di stile più alto, la Storia del genere umano (OM i, 143-48) : « Non per tanto, ammoniti da Giove di riparare alla solitudine della terra ; e non sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla generazione ; tolto delle pietre della montagna, secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le spalle, restaurarono la specie umana ». 2 Qui il segno pone sullo stesso piano membri diversi. Il primo punto e virgola serve ad indicare che la reggente della concessiva non è la proposizione d’apertura del periodo, ma quella che segue la congiunzione. Poiché però diventa necessario esporre anche un corollario per rendere più completa e convincente la « deliberazione » intrapresa, ecco la coordinata alla reggente introdotta anch’essa dal punto e virgola. Una costruzione su tre livelli avrebbe offerto una scansione più aderente al contenuto, ma non avrebbe forse restituito l’immediatezza e l’urgenza di cui è pervasa questa lettera che annuncia al fratello la propria fuga. 3 Funzioni simili a quelle della virgola sono evidenti anche in ess. del tipo : « Ho preso con Voi una libertà che non ho e non avrei mai preso con altra persona al mondo : cioè di trarre al vostro indirizzo una cambiale per dodici luigi ; i quali vi renderò al più presto ch’io possa ; e spero di potere in breve » (1905). La scansione più risoluta e staccata segnalata per i due punti nella parte finale di E coinvolge dunque anche il punto e virgola. Per esempi del genere nell’Ortis e nella prosa settecentesca si veda Persiani 1998 : 215-16.
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ciò son privo delle tue » 1503), oppure essere impiegato come elemento divisore nella subordinazione. La tipologia è ampia : si veda almeno qualche caso :
« M’è accaduto parecchie volte di parlare con persone che […] m’hanno domandato s’io le avessi mai scritto, e si sono maravigliati della negativa, e molto più sentendo ch’io n’aveva infinito desiderio ; perchè siccom’erano consapevoli della soavità de’ suoi costumi, e particolarmente dell’eccellenza del suo cuore, non vedevano che cosa mi potesse ritenere dal soddisfarmi » (174), « Mi scrisse molto leggiadramente e con dimostrazioni di fervidissimo amor patrio ; sicchè ti ringrazio della sua conoscenza […] » (232), « Ciò ch’Ella mi dice per suo proprio conto in proposito della mia canzone nello strazio di una giovane, come lo tengo per giustissimo, e ne la ringrazio sopra tutto il resto, così lo riguardo per una prova certa di quello che ho detto ; perchè il mio povero giudizio, e l’esperienze fatte di quella canzone sopra donne e persone non letterate, secondo il mio costume, e riuscitemi assai più felicemente delle altre, mi aveano persuaso del contrario » (299), « Perdonatemi ancor Voi, e scrivetemi presto ; che pochi giorni sono per me così lieti, come quelli nei quali ricevo le vostre nuove » (1934), « non ho avuto altro motivo d’infastidirla che le sue virtù e la fama singolare, segnatamente nelle lettere ; in maniera che m’ha servito di sprone quello stesso che m’avrebbe dovuto ritenere » (183), « Io, cara Pilla, muoio di malinconia sempre che penso al gran tempo che ho passato senza riveder voi altri ; quando mi rivedrai, le tue accuse cesseranno » (1918).
Come abbiamo visto per i due punti, anche il punto e virgola può servire a scandire l’anafora o il polisindeto :
« Nella mia de’ 20 d’Agosto ti raccontava la risoluzione che avea fatta d’abbandonarmi alla fortuna, fuggendo di qua ; e cominciatala ad eseguire ; e come nel venirmi il passaporto da Macerata, fui scoperto ; e non essendo piaciuto a Dio che usassero la forza, le preghiere e il dolore mi legarono al mio patibolo irresolutamente » (261), « Dimmi, ti prego, il parer tuo ; se credi possibile d’uscir di qua e viver fuori di qua ; se credi che questo mi convenga ; se pensi che l’utilità sia maggiore o minore della difficoltà e del travaglio che si richiede a questo effetto » (512), « Quando ella [la salute] non lo sostiene, io passeggio per la camera qualche mese ; e poi torno agli studi ; e così vivo » (690), « io non sono nulla : questo io ti aveva già predicato più volte ; questo è quello che io predico a tutti quelli che desiderano di aver notizia dell’esser mio » (1249), « Fammi tanta grazia di dire al nostro Vieusseux che lo ringrazio infinitamente della cara sua dei 15 ; che non posso dettare, perchè ogni applicazione della mente mi è impossibile, anche il discorrere ; che gli scriverò subito ch’io possa, o gli farò scrivere da mia sorella, la quale intanto lo saluta di tutto cuore » (1503).
Talvolta si nota una sorta di effetto di trascinamento del segno per cui la funzione con cui era stato introdotto passa in secondo piano rispetto ad un’esigenza di semplice partizione del periodo. Nell’esempio che segue i primi tre membri formano un elenco costruito su elementi che si ripetono a cui però sono giustapposti due altri membri di struttura diversa ; la scansione è per così dire tutta in orizzontale :
« Questi viottoli, che si chiamano strade, mi affogano ; questo sudiciume universale, mi ammorba ; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe mi fanno ira ; io non veggo altri che Vieusseux e la sua compagnia ; e quando questo mi manca, come accade spesso, mi trovo come in un deserto » (1319).
Interessanti infine alcuni casi in chiusura di lettera : il confronto tra i primi della serie e gli ultimi permette di cogliere lo spostamento subito dalla scrittura epistolare leopardiana nel corso degli anni ; un processo che qui potrà risultare forse con par
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ticolare evidenza anche per la concomitanza di altri fattori (tipo di interlocutore, destinazione della lettera ecc.), ma che nel complesso segnala fin d’ora un radicale cambiamento di approccio al genere :
« Ma se mi toglie i mezzi di ciò, non mi toglie il desiderio di mostrarmele grato e di corrispondere il meglio ch’io sappia, nè quella ardentissima riconoscenza che mi farà essere costantemente fin ch’io viva, quale sono presentemente, aspettando come nuovo favore la nota della spesa ch’Ella si compiace di promettermi ; il suo / Dmo Obblmo Serv.e ed Amico / Giacomo Leopardi » (165), « E l’obbligo mio crescerà infinitamente se insieme colla stampa V. S. non si sdegnerà d’accettare anche me per quello che già le sono da molto in poi col desiderio, e sarò per l’avvenire coll’effetto, quando Ella me lo consenta ; io dico per suo / Devmo Obblmo Servitore » (183) ; « Se posso servirvi non mi risparmiate ; e vogliatemi bene. Salutatemi Tommaseo. Addio, addio con tutto l’animo » (1656), « Addio, mio carissimo ; sono in fretta » (1720), « Addio, anima mia ; senza fine addio » (1815). 1
5. Altro. Ironico, quasi sferzante, ma al contempo estremamente lucido e consapevole, è Leopardi nel condannare l’eccesso di segni che contraddistingue le scritture a lui contemporanee (in particolare quelle dei « romantici (Bürger nell’Eleonora. B. ital. tomo 8. p. 365) ») :
La scrittura dev’essere scrittura e non algebra ; deve rappresentare le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io ? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare con le parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Imparate imparate l’arte dello stile, quell’arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell’arte che oggi è nella massima parte perduta, quell’arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla sospensione, all’attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l’obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. (Zib 976, 22 aprile 1821).
Pur non essendo nel complesso molto utilizzato, il punto esclamativo si fa strada lentamente ma progressivamente in E : basti pensare che nei primi cento autografi è utilizzato solo tre volte di cui due nella lettera in cui annuncia al fratello Carlo la fuga, mentre negli ultimi cento il numero sale a 10. È necessario dunque che la dimensione più familiare si faccia spazio e l’espressione della propria emotività possa esprimersi con più immediatezza, senza schermi. D’altra parte l’aumento del segno può essere messo in relazione proprio con quanto Leopardi dice nella pagina appena riportata : a mano a mano che diminuisce l’impegno anche stilistico cresce evidentemente l’esigenza di surrogare in altro modo l’effusione del sentimento. È infatti nelle lettere a Ranieri, e in genere ai più intimi interlocutori, che il punto esclamativo trova una maggiore visibilità, raccogliendo le ansie, i risentimenti e in qualche caso anche l’ironia di Leopardi, e veicolandole soprattutto in forma di invocazioni, in una sorta di rincorsa al parlato :
1 Equivalenti, questi ultimi esempi, a quelli segnalati al paragrafo precedente per i due punti.
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« Non dubitare, non sarai tu così. Oh quanto meriti più di me ! Che sono io ? Un uomo proprio da nulla » (241), « Oh se potessi già trovarmi con loro ! » (1351), « Oh povero il nostro Colletta ! anzi poveri noi, beatissimo lui ! » (1689), « Povero Ranieri mio ! » (1821), « Oh Ranieri mio ! quando ti ricupererò ? » (1821), « Oh venga alla fine il momento di questa nostra non più separabile ricongiunzione ! » (1856).
L’oscillazione maiuscola/minuscola dopo il punto esclamativo riguarda una serie limitata di casi, i quali pur non individuando una specializzazione, compaiono tutti nella parte finale dell’epistolario (dal 1830 in poi) dove si fa uso anche del doppio punto esclamativo o addirittura della serie, con evidente valore enfatico :
« Cosa incredibile ! il mio abito turchino ridotto all’ultima moda, coi petti lunghissimi » (1562), « Povero Ranieri mio ! se gli uomini ti deridono per mia cagione […] » (1821), « ricordati per la memoria del tempo passato insieme, ch’io voglio per Dio ! ribaciarti prima di morire » (1824), « senza dovere andare alla dogana e al P. Revisore come qui si va per tutti i libri, fogli, pezzi di carta stampata, che la posta porta ! ! ! ! ! Ringrazia tanto il Papà p[er] me » (1711), « Addio, anima mia cara, addio per necessità : grand’ira e rabbia non potere scrivere : ma per Dio, è inutile ! ! » (1819), « Questa lettera, così breve com’ella è, cominciata in Gennaio ! ! non ha assolutamente potuto esser finita che oggi » (1858).
Se restiamo agli autografi, il primo punto interrogativo 1 si trova (come poco sopra si è visto) nella lettera che annuncia la fuga al fratello Carlo : « Che sono io ? Un uomo proprio da nulla » (241). Rispetto all’esclamativo comunque, l’interrogativo ha una buona presenza in E sia perché veicola più direttamente l’intonazione tipica dell’oralità e della comunicazione in praesentia (« Oh ! Costa ? Costa ? già me lo ero immaginato » 334), sia perché soprattutto nella prima parte risponde più intimamente al pathos del mittente, all’ansia comunicativa che irrompe tra le strutture ampie e sorvegliate, costruite su di una sintassi intensamente ipotattica, cercando come d’impulso di accorciare il più possibile la distanza dall’interlocutore. Ecco allora le serie incalzanti di interrogative che in un primo tempo si affollano in particolare, come ci aspetteremmo, nelle lettere a Giordani e in un secondo momento in quelle a Ranieri. Qualche esempio :
A Giordani : « La mia disgrazia è assicurata p[er] sempre : quanto mi resterà da portarla ? quanto ? » (298*), « Che farò, mio povero amico, per te, o che posso far io ? Tramutare il mondo ? ma neanche consolarti ? » […] Che cosa è barbarie se non quella condizione dove la natura non ha più forza negli uomini ? […] Come penseremo di traviare seguendo la natura ? E perchè vogliamo piuttosto ribellarci a costei che ce le ha date, e ha voluto che vivessimo di queste, come vivono tutti gli altri animali, anzi in certa maniera tutte le cose ? […] ristretti alla verità e nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno ? » (310), « Ma dunque togliete questi inganni : che bene ci resta ? dove ci ripariamo ? che cosa è la sapienza ? che altro c’insegna fuorchè la nostra infelicità ? » (396) ; a Ranieri : « Ranieri mio. Ricevi tu le mie lettere ? o è preclusa interamente ogni corrispondenza tra noi ? » (1802), « Ma tu mi uccidi con quelle parole disporre della tua vita. Come ? se tu non potessi uscire, non verrei teco io ad ogni costo ? non ci riuniremmo egualmente ? e presto ? » (1824).
Nessun riscontro nei primi cento autografi di E per la lineetta, che tuttavia successivamente conosce una discreta diffusione, in sintonia per certi versi con quanto si 1 E quanto significativo dell’uomo e del poeta !
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è detto per i due punti. La minore responsabilità affidata al genere epistolare, la sua trasformazione in mezzo di comunicazione essenziale e funzionale, comporta non solo un minore impegno sul piano dell’architettura sintattica del periodo, ma più in generale il passaggio da una forte coesione testuale ad un procedere per punti, sbrigativo e quasi slegato. 1 È come se il fuoco non fosse più fissato, come un tempo, sul testo, sulla scrittura, ma fosse traslato sulla relazione umana, professionale ecc. di cui la lettera rappresenta solo una traccia di servizio :
« Riscontro la pregiatissima sua dei 21 spirante. – Farò al Costa l’ambasciata del Papà subito che io lo vegga. – Ella mi parla con sorpresa del mio silenzio sopra il Petrarca, e la sua sorpresa sorprende un poco anche me » (778), « Il Sofocle di Angelelli qui è ancora sconosciuto. – Ti abbraccio, ardo di rivederti, e di ricuperare in te un vero amico, cosa che non ho nè spero di avere in Milano » (716), « Vi mando sotto fascia, insieme col saggio sugli Amori del Tasso, una copia de’ miei Canti : ma non ho potuto procurarmi le Operette, perchè non si trovano più in niun luogo, se non forse a Milano. – Desidero che M. Thilo sia contento dell’acclusa collazione. Quando gliela manderete, accompagnatela, vi prego, co’ miei complimenti. Essa è fatta dal Bencini, che vi riverisce : la spesa è troppo frivola, perchè vaglia il pregio di parlarne. – Ebbi il libro di M. Berger, e lo raccomando a Vieusseux, ma l’Antologia, come saprete, è soppressa per decreto granducale. – Debbo anche ringraziarvi del bel volume dell’Havelok, e soprattutto del vostro articolo nel Siècle, dove ho riconosciuto, con vivi sensi di gratitudine, la dolce affezione che l’ha dettato. – » (1858).
1 In questo processo non è certo da dimenticare la debole salute di Leopardi e i problemi alla vista che avranno certo influito concretamente sulla possibilità di scrivere, per quanto in qualche caso magari tirati in ballo anche come arma di difesa.
3. FONOLOGIA 1. Vocalismo 1. Vocalismo tonico
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e / e. Per quanto le occorrenze siano davvero poche, pur considerando tutto il corpus leopardiano, va segnalato l’uso coerente della forma letteraria tepid- : 1 nell’epistolario accanto ad un tepidi (« questi giorni tepidi » 840), si può aggiungere tepida in 287* (del 6 marzo 1820, la cui fonte è una copia di Paolina, ma con correzioni del fratello), una lettera indirizzata a Giordani che si apre con il racconto-confessione di un momento vissuto di grande commozione, con il presentimento e l’attesa di una rinascita interiore che sembra finalmente lacerare il grande buio degli anni precedenti, per poi tuttavia di nuovo soccombere alla secchezza e aridità che attanaglia il cuore filosofico del poeta. La prosa, quasi in una riproduzione “dal vero”, accompagna gli scatti umorali dell’autore, facendo posto alle accensioni liriche solo in avvio, 2 nella ricostruzione “idillica” di una scena che è già spazio della memoria, luogo perduto della ricordanza. 3 Nell’ambito dell’oscillazione intero / intiero, perfettamente in linea con la prassi dell’epoca, la netta preferenza che sul piano numerico è dato riscontrare per l’allotropo monottongato rivela, se letta in diacronia, una precisa direzione : mentre infatti intero copre tutto l’arco cronologico di E, intiero perde rapidamente terreno e, dopo un’ultima apparizione in 984 (ad Antonio Fortunato Stella, del 3 settembre 1826), esce di scena. 4 In atonia, poiché è maggiore la vitalità della forma dittongata, più evidente risulta la parabola descritta : intieramente infatti pur maggioritario per numero di oc
1 Si veda Vitale 1992a : 20 per le altre occorrenze nell’opera leopardiana, cui va solo aggiunto, in poesia, tepide / brume dalla traduzione dell’ode oraziana A Settimio (v. 23, PP* 726). Patota 1987 : 30, registrando per l’Ortis la presenza del solo tepido, avverte che i vocabolari lo rinviano a tiepido. Così infatti TB che riporta comunque, e inevitabilmente, esempi nelle due specie. Netta la prevalenza del dittongo in SPM (15 a 4). Nessuno dei corrispondenti di Leopardi utilizza l’aggettivo. 2 Si consideri tra l’altro, proprio all’inizio della lettera, l’endecasillabo « un cielo puro e un bel raggio di luna », con la disposizione chiastica dei due membri e con il doppio articolo indeterminativo a sfocare l’immagine proiettandola in una dimensione spaziale e temporale indefinita (cui concorre appunto « un’aria tepida e certi cani… » ; la scena del resto è cara a Leopardi e ricorda da vicino, almeno negli elementi fondamentali, quella che apre lo Zibaldone (« Palazzo bello, Cane di notte dal casolare, al passar del viandante »). 3 Sul valore di queste lettere a Giordani, e in generale sull’importanza del rapporto con il letterato piacentino, già De Sanctis ha detto cose definitive : « E quando prende con lui dimestichezza, e gli può scrivere con tutta confidenza, effonde in seno all’amico le sue angosce, e la sua vita intima gli appare tutta innanzi riflessa nella sua immaginazione e colorata dalle sue impressioni ; egli è per la prima volta il poeta di se stesso. […] Per la prima volta il giovane gitta giù tutto il suo bagaglio di frasi e di modi convenzionali ; non fa un lavoro di fantasia, soffre troppo perché pensi a forme letterarie ; ciò che scrive esce da una emozione sempre sincera ; e se c’è qua e là qualche cosa di soverchio, non è rettorica, è caldezza e abbondanza giovanile. E se vai innanzi in questa corrispondenza, farai questa osservazione, che lo stile si anima e si colora, quando il giovane parla di sé, e tutto l’altro rimane nell’ombra, come cosa che non mette in movimento il suo pensiero. Soprattutto non trovi mai nulla che si riferisca al mondo esteriore ed esprima le sue impressioni, se non quando esso abbia qualche relazione col suo dolore » (De Sanctis 1883 [19692 : 79-80]). Sul rapporto con Giordani si vedano almeno Diafani 2000 : 34-64, Spaggiari 2000 : 15-38, Melani 2002 : 179-207. 4 L’oscillazione tra le due forme può essere anche ravvicinata. Così in 833 troviamo sia intero sia intieramente (ma in un’aggiunta di tre giorni posteriore) ; in 569 compare intera ma in 570 (di quattro giorni più tardi) intiero ; se in 777 e 778 la forma è interamente, in 779 è invece intieramente.
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correnze, è soprattutto presente nella prima parte del carteggio, se è vero che dei 27 casi riscontrati negli autografi ben 23 si collocano prima del 1826, mentre interamente da quella data in poi segna altre 11 presenze (la metà esatta delle totali). 1 In E registro inoltre interissimamente 744, analogo a Zib 1696, il quale è però preceduto da intierissimamente 27, 905. 2 La riduzione del dittongo è senza eccezioni anche per breve (nessun caso di dittongo neppure tra i corrispondenti). 3
-uo- / -o-. Del tutto sporadico il monottongo da o˘ tonico in sillaba libera. Da segnalare comunque la presenza di core 323, 1788, 1815, 1856, nel primo caso in una lettera a Brighenti (inviata a Bologna), 4 negli altri tre a Ranieri (lettere spedite tutte da Firenze) ; e due occorrenze di cor 1817, 1842, entrambi in brevi missive ancora a Ranieri ed entrambi nella formula di chiusura « Addio, cor mio ». 5 Per quanto riguarda le lettere indirizzate all’amico napoletano, la natura di veri e propri biglietti (Leopardi stesso parla di « microscopiche lettere » in 1842), brevi ma intensi, permette di porre in primo piano la connotazione affettiva, con sfumatura patetica, assunta dalla forma monottongata. 6 L’opposizione, o meglio specializzazione, delle due forme è di regola rispettata : l’unica altra occorrenza del monottongo in prosa si ha infatti in Zib 2479, in un passo del 5 febbraio 1822 (« dal core del regno ai suoi ultimi confini »). Non così tuttavia nei primissimi lavori del recanatese, in cui anzi si nota una leggera prevalenza assoluta della forma dittongata. 7 Nove invece, nel significato traslato di “notizie”, compare unicamente in 1705 (indirizzata a Firenze, a Vieusseux), nel sintagma « non buone nove » (in chiasmo con
1 Più frastagliata la situazione nelle lettere dei corrispondenti : prevale il dittongo in Monaldo (intiero 491, 1284, -a 830, 1256 di contro a interi 495) e Carlo (intiero 462, -a 740) ; il monottongo in Giordani (intero 700, interamente 56), Brighenti (intera 343, 898, -i 434, 623, 1096, -o 638, 686, interamente 294, 425), Melchiorri (intero 436, 575, 590, 597 per 2 v., -a 575, 613, interamente 575) ; si ha oscillazione in Vieusseux (intiera 1222, intero 1433) e Antici (intero 386, 869, 1822, intieramente 585). 2 Lo Zibaldone conferma dunque la progressiva emarginazione, e poi scomparsa, del tipo dittongato, senza contare che i rapporti di forza tra le due forme su di un piano quantitativo sono già di per sé lampanti : intiera conta 14 presenze rispetto alle 100 di intera ; intiere 5 / intere 32 ; intieri 5 / interi 18 ; intiero 13 / intero 53. Altri dati, ma che sostanzialmente confermano la direzione indicata, in Ricci 2003 : 96-97. 3 L’unica occorrenza di brieve in poesia è di data molto alta (1809) e si trova nella versione di un’ode di Orazio, dal primo libro : « Brieve vita speranza lunga vietaci » (ode iv, v. 17). 4 Il quale da parte sua usa sempre la forma dittongata. Nella lettera citata, del 14 agosto 1820, il monottongo compare nell’espressione bisogna farsi core alla meglio, e alterna con cuore (due volte). 5 Trovo inoltre batticore in 101* e core in 139*, copia di Paolina l’una e di Carlo l’altra (in entrambi i casi però le lettere hanno correzioni del fratello) : nella seconda, a Giordani, in un’espressione fortemente espressiva e ricca di umore (« ogni giorno mi pare un secolo, né sapendo come riempierli […] sudo il core a sgozzarli »). Tra i corrispondenti riscontro solo il vocativo core mio in 535, di Carlo (l’intonazione è patetica e il caso vocativo : « Core mio, quando si ha bisogno, e si merita, il domandare non è vergogna »), che per il resto (17 volte) ha sempre la forma dittongata. 6 Come suggerisce Antonelli 2003 : 89, in casi del genere il monottongo è tutt’altro che raro : « l’emersione di core è legata spesso a contesti cristallizzati (sintagmi stereotipici, allocuzioni) ed emotivamente marcati, nei quali poteva trovare posto una forma ormai viva quasi solo in poesia ». Per core in poesia (e in genere per l’alternanza dittongo/monottongo) si veda Serianni 2009 : 56-60. 7 Il sostantivo conferma l’alternanza già segnalata da Corti (EDG 9), per muove / move, cuopre / copre. Cuore, cuor in poesia compare fino alla traduzione delle poesie di Mosco, risalenti al 1815 e pubblicate nello « Spettatore italiano » nell’agosto-settembre dell’anno successivo. Per le traduzioni da Mosco, cfr. Idillio I v. 21 (Binni 413.ii), ii v. 204 (Binni 416.i), iv v. 13 (Binni 418.i) ; iv v. 51 (Binni 418.i). Altri quattro casi con il dittongo si trovano nelle canzonette de La campagna (Binni 518-20).
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« non ho notizie fresche » alla riga precedente) : nella medesima lettera tuttavia al tipo monottongato fanno da riscontro nuova aggettivo e nuove sostantivo. 1 Appena qualche riscontro in più si ottiene nel resto della prosa leopardiana che ha nova aggettivo in Zib 2347 (« nova prova ») ; -e in Zib 2386 (« nove frasi ») e nella Lettera al Giordani sul Frontone del Mai (« cose nove », Binni 959.i) ; -i in Zib 3764 (« novi o vecchi ») e in SA ii (« novi paesi », Binni 639.i). Il dittongo in atonia si trova in nuovissima e nuovamente 255, 641, 679, 805, cui fanno da riscontro novissime 458 2 e novamente 884 (e 1634*). Per quanto riguarda il superlativo, il monottongo, in prosa, si ha altrove anche in OM xvi 62 e Zib 1319, 1767, 1867, 2198, 3 3327, 3776, 4431 ; 4 per l’avverbio invece due occorrenze in OM i 303, xviii 97, e appena una in Zib 3719 alla quale però risponde, per ben 40 volte, nuovamente. 5 Sempre con il dittongo, in qualunque accezione, 6 tuono : con riferimento al fenomeno atmosferico in 13, 530, 1183 ; con senso figurato in 55 (« affinchè io possa regolarmi nel tuono che ho da prendere »), 458 (« alla mia prima risposta, cambiò tuono tutto d’un salto »), 483 (« una conversazione di buon tuono »), 514 (« Caro Carlo. Dal tuono della tua lettera […] ») ecc. Nel resto dell’opera, l’unica occorrenza di tono è in Zib 943. 7 Una occorrenza a testa si dividono tremuoto 13 e terremoto 1246, 8 mentre altrove nel
1 L’ipotesi che il monottongo risponda alla volontà di evitare la ripetizione ravvicinata dello stesso suono deve tener conto del fatto che « Buone nuove » è presente in 419, 716, 788, 1895. Patota 1987 : 23 riscontra, per la prosa del secondo Settecento e per l’Ortis solo forme dittongate, aggiungendo in nota che « di novo il Vocabolario della Crusca, il D’Alberti e il Tramater segnalano il carattere poetico ». Un paio di casi con il monottongo in una lettera di Manzoni sono segnalati in Antonelli 2003 : 90, ma per il carteggio del lombardo è da vedere soprattutto Savini 2002 : 2. Per l’alternanza manzoniana risolta in diacronia con una maggiore propensione verso il monottongo, si veda anche Serianni 1986 [1989 : 153-56]. 2 In questa lettera, la prima che Giacomo scrive al fratello Carlo da Roma, compare anche bonissima (ma si noti : « alla prima mia risposta, cambiò tuono tutto d’un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima »), che si ritroverà poi in 1541. Bonissimo è anche in una lettera di Giordani (582) : Serianni 2000 : 265 segnala tra le varianti del Panegirico a Napoleone il passaggio al monottongo da un’iniziale dittongo sia per nuovissimo sia per nuocesse e uomicciolo. Una certa apertura al dittongo in sillaba atona con i superlativi in -issimo viene da Fornaciari Gramm.8 : 22. 3 Qualche riga prima era stato utilizzato nuovissimo, che compare poi anche in 759, -i 1650, 1692, 2335, 3189, -e 1753, -a 1328. 4 Nel testo della Lettera di Giacomo Leopardi al Ch. Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai, segnalo che Binni 949.I ha novissimo, mentre Pacella-Timpanaro 1967 (da cui PP** 954) reca nuovissimo. 5 Mi pare interessante accostare al seguente passo del diario, « Tali sono assai spesso le espressioni, o vogliamo dire i mezzi d’espressione, e il modo di rappresentar le cose e destar le immagini ec. nuove o novamente, p. virtù propria della novità del mondo » (3719), ad altri in cui aggettivo e avverbio presentano entrambi il dittongo : « nessuna finzione o nuova [o] nuovamente applicata » (287), « una parola italiana o nuova o nuovamente applicata » (1844), « maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente dedotte » (2618), « o sia vocabolo nuovo, o nuovamente applicato » (2949), « con un vocabolo nuovo o nuovamente applicato » (2950). Tali esempi, tra altri analoghi, permettono di evidenziare la serialità della struttura che rende ancor più insolito il monottongo del primo caso riportato (in cui però può aver esercitato una qualche influenza la vicinanza del sostantivo novità). 6 Forma normale per l’epoca, come dimostrano gli spogli di SPM, secondo cui a 21 casi di tuono risponde una sola occorrenza di tono, e come conferma Antonelli 2003 : 89. Si vedano anche Migliorini 1960 : 532, 646, 698 e Paradisi 1994 : 754-55. Va ricordato che Manzoni corregge tuono in tono nella quarantana (cfr. Boraschi 1899 : ccxxxviii). Tra i corrispondenti di Leopardi noto solo « considerando il tono pedantesco » (1049) in una lettera di Pietro Brighenti, mentre anche Monaldo ha tuono 528, 821, così come Carlo 535, 721 (2 v.), -i 507 (2 v.). 7 Si tratta di un passo dedicato ai caratteri della lingua “Chinese” : « ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta per via di quattro toni, dell’uno dei quali si appone loro il segno […] ». 8 Giacomo qui risponde alla sorella quasi correggendola : Paolina infatti (1243) tra le “noie” dell’anno in
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corpus leopardiano si conferma la prevalenza della prima forma che compare in OM ix 101, 108 (di contro a terremoti xii 104) ; 1 in EPA, esclusivo, per ben 19 volte ; in SA I (Binni 611.II) ; in Zib 196 (ma terremoto 4302). La maggioranza numerica a favore di tremuoto non impedisce di notare come le testimonianze della forma moderna si collochino tutte in data più bassa, a suggerire almeno una possibile direzione. Costante il mantenimento del dittongo dopo palatale, secondo una prassi largamente diffusa e ben documentata per la prosa del secondo Settecento e del primo Ottocento. 2 Riscontro pertanto solo due occorrenze di figliuolo (3, 1748) ; 3 e poi sempre libricciuolo, -i (155, 158, 167 e così via per altre 19 occorrenze), 4 opericciuole 822, 5 spagnuola 409, 1449, -o 477, -i 1889, romagnuoli 641, 132* (il fratello Carlo invece, in 493, ha romagnolo), e anche ferraiuolo 1154, 1158, 1198 e oriuolo 936. 6 Per quanto riguarda figliuolo, vale la pena di segnalare l’estensione del dittongo in figliuolanza 600, che ha dei riscontri anche in Zib 127, 249, 1133, 2874, 3811. Alla pagina 3969 (del 10 dicembre 1823) dello “scartafaccio” leopardiano si legge :
Del resto l’aggiunta dell’u in questa nostra inflessione (come in figliolo ec) 1. è una gentilezza della scrittura e ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della toscana, e in tal caso, che non credo neanche in Toscana sia troppo frequente e’ sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte, anzi fuorchè nelle moderne, forse nel più delle scritture ella manca, e credo ancora che manchi regolarmente anche oggi, almeno secondo l’ortograf. della Crusca, in molte parole dove l’olo è pur lungo. 3. ella svanisce regolarmente (p. la regola de’ dittonghi mobili) sempre che l’accento non è sull’o : quindi da figliuolo figliolanza ec. 4. essa è veram. una proprietà ital. onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. […] Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di ortograf. ital. o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi alienissimi da questa inflessione, e che in questa med. non ha sempre luogo ec. 7
corso (il 1828) pone anche i terremuoti (che del resto è già di Dante, Vita nuova xiv, 5 [ed. Gorni]). Noto che Giordani ha terremoto (1741). 1 Interessante il fatto che le due operette siano state scritte a pochissima distanza l’una dall’altra : l’autografo di OM ix porta infatti la data « 30 aprile-8 maggio 1824 », quello di OM xii « 21. 27-30 maggio 1824 ». 2 Rinvio nell’ordine a Serianni 1986 [1989 : 165] e a Patota 1987 : 25. La situazione è confermata da SPM : si pensi solo a figliuolo che tocca le 54 presenze rispetto alle 2 di figliolo, oppure alle 160 di spagnuolo contro un’unica occorrenza di spagnolo. Per OM si veda naturalmente Vitale 1992a : 19, mentre per Manzoni rimando ai noti D’Ovidio 1892 : 56-57, Vitale 1986 : 28 e 69, Poggi Salani 1990 : 401. 3 Vitale 1992a, che si basa per i propri riscontri sull’edizione dell’epistolario offerta da Binni (che a sua volta riprende quella allestita da Flora), segnala in nota a p. 19 un figlioli riscontrato in una lettera non autografa del 22 maggio 1832 a Paolina. E che recupera l’autografo (conservato presso la University Library ad Harvard), mette a testo figliuoli (1748). 4 L’alterato è quasi esclusivamente usato (tranne in un paio di casi) in riferimento alle proprie opere ; l’ultima apparizione del vocabolo (al singolare) è in una lettera del 18 settembre 1820, in data decisamente alta. In seguito, accanto alla forma normale libro, -i, compare libretto. 5 Opericciuola compare anche in 37* la cui fonte è un apografo di Viani e, al plurale, in 66*, una lunga lettera a Giordani da cui recupero anche la forma donnicciuola. Se per quanto riguarda il testo di quest’ultima missiva ci si deve appoggiare ad una copia di Paolina (ma con correzioni di Giacomo), lo stesso vocabolo, donnicciuola, è attestato nel Manuale di Epitteto (PP** 1051). Patota 1987 : 26 segnala del resto che « donnicciuola è l’unica forma lemmatizzata da tutti i repertori ». 6 Nei corrispondenti trovo che Monaldo ha campagnuolo 821, Colletta figliuolo 1515, 1607. Segnalo qui, benchè diverso, anche il dittongo in donnajuolo 592 di Brighenti. Per il dittongo dopo palatale corretto da Manzoni cfr. Vitale 2000 : 28. 7 Poco prima, lo stesso giorno, forse proprio ad innescare il tema di fondo del brano riportato, Leopardi
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Significativa innanzitutto la comprensione del carattere “indigeno” dell’aggiunta vocalica, così come la distinzione parlato / scritto e altresì la marginalità del fenomeno nella lingua orale. Colpisce del resto il carattere di modernità attribuito alla dittongazione, da intendere forse su di un piano quantitativo più che genetico. 1 Proprio la sottolineatura relativa alla « gentilezza » può forse dar conto dello slittamento del dittongo in alcune voci arizotoniche, in particolare negli alterati quali figliuolini (EPA xviii, in Binni 864.ii ; Zib 209), figliuolino (OM App. va 24, ME in PP** 1050), cagnuolini (Zib 3556), 2 e anche, con la tonica, uomicciuolo (« il nostro antico fante p. parlante, e di qui p. uomo, co’ suoi diminutivi, come fanciullo (cioè uomicciuolo) che ancor s’usa […] » Zib 4492) ecc., mentre per restare all’epistolario è da segnalare ferraiuolini 1184 (per la palatale segnalo anche, ma non in un autografo, spagnuolismo 1430*). Per gioco/giocare gli autografi si accordano al resto dell’opera leopardiana che conserva bene la polarizzazione tradizionale tra prosa (-uo-) e poesia (-o-) : si ha dunque solo giuoco 251, 468, 1823 (nel resto dei testimoni invece si registra anche giocare 93* e giuocando 366*). 3 Nell’ambito della “regola del dittongo mobile” è da notare qualche altra estensione del dittongo alle forme rizoatone nell’uso dei verbi che seguono : per muovere (esclusivo anche prefissato ri-, s-, pro-), accanto ad un piuttosto tardo moversi 1888 (a Monaldo) registro sia moverebbe 327, moverò 1600 e commovesse 1282, sia muoverò 800 ; per nuocere 241, 242 837 ecc., accanto a nocerebbe 994, nociuto 1730, un nuocerà 1026, e anche nuocerebbe 84* ; 4 per vuotare, in atonia è presente sia vuotato 861, sia votato 840 ; per rinnuovare 5 con i normali rinnovano 288, rinnovarle 1045, 1141, 1298, 1619, rinnovamento 1610, rinnovarmi 1770, anche un rinnuovati 5. Vero e proprio hapax è riscotere che ricorre due volte nella stessa lettera (35). 6
accostava a figliuolo « i suoi derivativi ec. pur positivati, come figliolanza ». Appena un mese e dieci giorni prima, in una nota alla p. 3812 dedicata nella prima parte ai « diminutivi positivati » la serie era : « Figliuolo (filiolus), figliuolanza ec. ». TB mette a lemma figliuolanza, ma la fa seguire da « e figliolanza ». 1 Alla data a cui risale l’appunto (luglio 1823) Leopardi non è ancora stato in Toscana. Su questo « argenteismo » fiorentino, di recente diffusione, si vedano naturalmente Migliorini 1960 : 702 e Castellani 1967 : 33. 2 Segnalo che a p. 4486 dello scartafaccio si trova cagnuola di cui Verducci 1994 : 569 attesta l’origine dialettale. 3 Antonelli 2003 : 93 (a cui rinvio anche per i vari riscontri bibliografici) osserva che, per il corpus di epistolari preso in considerazione, sono « molto scarsi, come prevedibile, i casi di monottongamento ». Per Leopardi si veda Vitale 1992a : 18-19. In sostanza nella prosa leopardiana le forme monottongate, pur presenti in buon numero, sono largamente minoritarie rispetto alle voci dittongate, ma soprattutto l’alternanza conserva come nel carteggio la distinzione prosa / poesia. Si può aggiungere che è frequente, in prosa, anche lo slittamento del dittongo alle forme rizoatone (giuocando, giuocarono, giuocherelli ecc., mentre Zib 3825 presenta un’oscillazione ravvicinata : « come son quelle [facoltà straordinarie] de’ giocolieri indiani, ed eran quelle de’ giocolieri messicani ec. de’ nostri saltatori, giuocatori di forze, ed anche di lestezza di mano ec. »). Trovo inoltre giuochi in una lettera di Carlo (462) che ha anche giuocare (507 per 2 v.), così come Giordani (52). Altrove Paolina ha giuochetto (Ferretti 1979 : 35). 4 Copia di Carlo con correzioni di Giacomo. Nell’ambito del vocalismo tonico, per lo stesso verbo (qui anche con la doppia), ad un noccia di Leopardi (1823) metto vicino, per contrasto, un nuoccia di Giordani (700). 5 L’infinito dittongato si trova in Zib 194, in OM App. v 161 (ma alla riga successiva si ha rinnovai), in EPA x (Binni 816.ii), CI (Binni 970.in. ma a p. 974.iin. si ha pure rinnovare). 6 Nel resto del corpus leopardiano, sia in prosa che in poesia, trovo il monottongo fuori d’accento solo in riscoterà OM xviii 5.
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Articolata la situazione per quanto riguarda cuopre, 1 per il quale si può comunque notare, con Serianni 1986 [1989 : 165], che « scarsa vitalità in tema di dittongo mostrano anche forme quali cuopre, scuopre, siegue, niega, il cui livellamento alle voci rizoatone è ormai molto avanzato ». 2 Benchè i riscontri siano tutt’altro che numerosi è da sottolineare che la forma dittongata si conserva in scuopro 627 e scuoprono 663 per quanto riguarda gli autografi, mentre dalle lettere tratte dagli apografi Viani recupero iscuopra 62* e ricuopra 421* e in una copia di Carlo con correzioni di Giacomo cuoprano 132*. Nessuna estensione del dittongo invece in atonia. 3 La riduzione del dittongo dopo consonante + r in prova (sost. 10, 136, 288 e così via per altre 47 occorrenze ; verbo 11, 466, 520 ecc. per altre 33 volte) è assoluta : del resto « gli episodi di mantenimento del dittongo in pieno Ottocento sono ormai chiari arcaismi ». 4 Aggiungo inoltre qui che a Buonaparte (91) risponde Bonaparte (106, 1622, 1633 – lettera in francese –, 62*), così come Bonafede (1795) è preceduto e seguito da Buonafede (1790* e 1799). 5 Bonaparte ha un paio di riscontri in Zib (251) contro Buonaparte (114). La forma dittongata presenta quattro occorrenze anche nella giovanile (composta tra il maggio e il giugno 1815) Agl’italiani. Orazione in occasione della liberazione del Piceno (PP* 891, 903). 6
Altri fatti. Poco da segnalare in realtà, ad eccezione di curti (3) che visto anche il contesto andrà considerato di provenienza dialettale (cfr. 5.1.3). La lettera in cui è inserito rappresenta in effetti un unicum nel carteggio leopardiano, uno scherzo o una “bagattella” che verosimilmente (o certamente secondo Moroncini) a causa del linguaggio troppo libero e colorito, non fu recapitata per l’intervento censorio dei genitori di Giacomo. 2. Vocalismo atono Alternanza -a- / -e-. Nel confronto tra maraviglia, -oso, ma anche maravigliare (e sue forme) e meraviglia, -oso, e meravigliare, pur prevalendo nettamente la forma assimi1 Corti in EDG 9-10 per le opere giovanili : « in ambito fonetico si rileva l’alternanza muove / move, cuopre / copre con preferenza per la forma dittongata, anche in atonia : cuoprendo, cuoperto ecc. ». Altrove nell’opera di Leopardi si nota per questo verbo una certa oscillazione tra forme dittongate e monottongate, sia in posizione tonica sia in atonia, con leggera prevalenza delle prime. 2 Il processo era del resto già avviato nel Settecento. Cfr. Patota 1987 : 30 e Antonelli 1996 : 85. 3 Tra i corrispondenti del poeta, Monaldo non solo ha cuopra 862, 1288, ma anche sieguano 482 e siegue 528, oltre a sfuogo 1195 (ma sfogazione 1267), mentre nelle lettere di Carlo si trova per due volte scuoprire 546, 771, accanto a scoprirlo 493. In Melchiorri trovo sieguano 433, 835, e siegue 668. 4 Per Leopardi cfr. Vitale 1992a : 18. Qualche riscontro significativo si ha invece tra i corrispondenti : Giordani (pruova 953), Carlo Antici (pruovo 128, pruova 451, e anche appruovati 161), Pietro Colletta (pruove 1460, -a 1504), Karl Bunsen (pruove 1139, -a 1486). Fornaroli 1976 : 131 attesta per Giordani una certa oscillazione tra forme monottongate e dittongate. Un quadro particolareggiato della situazione primottocentesca in Serianni 1986 [1989 : 164-65 (da cui è ripreso il passo citato a testo)]. Antonelli 2003 : 93 segnala comunque che « di fronte allo strapotere delle forme monottongate, l’unico dei tre [tra priego, pruovo, truovo] che riesce a opporre una significativa resistenza è il tipo pruova ». La forma dittongata « è complessivamente estranea all’epistolario manzoniano, anche nella fase giovanile » (Savini 2002 : 11). 5 Il riferimento qui è ad un libretto di Monaldo intitolato Vita di Niccolò Bonafede, vescovo di Chiusi ed officiale nella Corte Romana, dai tempi di Alessandro VI ai tempi di Clemente VII, tratta da scritti contemporanei, Pesaro, Nobili, 1832. 6 In una nota della stessa Orazione Leopardi riporta l’indicazione bibliografica : « M. De Chateaubriand, De Bonaparte et des Bourbons » (PP** 904).
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lata della tradizione (e fiorentina), 1 non è dato riscontrare quella scelta di esclusività che caratterizza OM e P, in cui è presente solo il tipo -ar-. Va tuttavia segnalato che la prima occorrenza della forma poi vincente si ha in una lettera del 1° agosto 1823 (576) a Giuseppe Melchiorri (« Mi ha fatto un poco meraviglia […] ») ; 2 nella primissima fase dell’epistolario, quella decisamente più sorvegliata sul piano letterario, il tipo assimilato è comunque assoluto. In Zib la situazione è molto più articolata, ma per restare al solo sostantivo e ai nudi dati numerici basti dire che il rapporto tra la forma assimilata e l’altra è di 137 a 21 : si può aggiungere che il tipo con vocale palatale, entrato nel diario leopardiano solo nel 1821 in un discorso sui pregi della lingua dei cinquecentisti (Zib 691-92), convive nella medesima pagina con il suo allotropo. 3 Di gran lunga prevalente danaro su denaro la cui ultima occorrenza (di 8 appena che si registrano – ricordo – negli autografi : 7, 214, 2124, 474 ecc.) non va oltre il 1824 : 4 anche qui è da segnalare l’uso ravvicinatissimo delle due forme in una stessa missiva, a chiusura e ad apertura di periodo. 5 Danaro comunque è tipo esclusivo di Zib, OM e P (che ha però anche denaroso xxxv 4) : di Zib (ma anche di EPA e di altre prose minori) è pure danaio, canonico per la Crusca (e già in Guittone). 6 In due lettere a Giordani si trova la forma maladett- (maladetta città 93*, maladette poste 98*) di contro ad una folta schiera di riscontri per il tipo corrente (maledett- 292, 307, 413, 543, 574 ecc.). La variante a testo in 98* tuttavia, come segnala Moroncini (lettera 83, n. 7), deriva da una correzione di Giacomo sul testo ricopiato dalla sorella Paolina (che dunque aveva scritto maledett-) : il riferimento dantesco (come vedremo
1 Cfr. Vitale 1992a : 31. Tutti i dizionari rinviano dal tipo in -er- a quello in -ar- ; Verducci 1994 : 571 ne segnala la presenza anche nel dialetto marchigiano. 2 Una lettera che inizia in modo del tutto informale con un « Caro Peppino ». 3 Davvero poche, ripetto a quelle della forma concorrente, sono le occorrenze del tipo non assimilato riscontrabili tra i principali corrispondenti del poeta : Giordani ha solo meraviglia (52), così come Vieusseux (1468) ; Brighenti ha meravigliarsi (291), mentre tra i familiari segnalo appena per Monaldo meraviglia (476, 839). Utilizza con più frequenza l’allotropo con palatale Melchiorri : meraviglia (427, 579, 668), -ato (610), di contro al solo maravigliosa (668, ed è da notare l’oscillazione ravvicinata). La forma in -ar- è anche in Paolina (Ferretti 1979 : 24). 4 Corrispondenti : se Giordani e Vieusseux si allineano alla prassi comune che privilegia il tipo in -a- (per il primo : danari 88, 192, -o 192 ; per il secondo danaro 1410, 1690, -i 1452), Brighenti usa più spesso denaro (213, 278, 399 ecc., -i 1502, 1532), così come Monaldo (-o 467, 476, 495, 815 ecc.), Carlo (-o 462, 507, 809 ecc., -i 493) e Paolina (-i 903, 962, -o 945). Per entrambe le voci (maraviglia e danaro) Manzoni nell’epistolario « opta costantemente per le forme con a protonica, proprie della tradizione ma soprattutto specificamente fiorentine » (Savini 2002 : 22). 5 In 474, del 16 dicembre 1822, al fratello Carlo : « […] ed escluso quello che si fa per puro, purissimo denaro, il che senza dubbio è moltissimo, anzi è il più. Ma ci vuol danaro assai […] ». Ugualmente a contatto è l’oscillazione che si registra tra sostantivo e aggettivo in P xxxv 3-4 : « l’uomo riputato senza danari, non è stimato appena uomo ; creduto denaroso, è sempre in pericolo di vita ». Sulla presenza ravvicinata di allotropi in funzione di variatio nel Giordani prosatore si veda Serianni 2000 : 266 secondo cui « l’intento di screziare il pimento espressivo attraverso la dosatura degli allotropi è una costante dell’intera esperienza letteraria del Giordani ». Si tratta di una sensibilità che certo era condivisa anche da Leopardi. 6 Almeno fino alla V impressione, dove si trova solamente il rimando da danaro a denaro. In precedenza invece, in Crusca 1763, con cui concorda quasi perfettamente Tramater, denaio è posto a lemma principale, cui rimanda danaro con la precisazione che la forma “appo i migliori scrittori” è più spesso utilizzata al pl. (mentre denaro rinvia a sua volta a danaro). Gherardini, Supplimento, ha denaro come lemma principale, a cui rimanda la voce “danaro o danajo”. In F danajo è forma principale a cui sono richiamate tutte le altre (anche denajo) ; al contrario TB, che ha danaro come lemma base, contrassegna con una croce d’arcaismo sia denajo sia danajo. Altri riscontri in Vitale 1992a : 31. Si veda anche Rohlfs § 130, 132 e, per il suffisso, § 284.
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in 5.1.2., un tratto tipico di questa prima fase della corrispondenza con Giordani è l’accumulo di voci, letterarie o meno) ne risulta così, per noi, sottolineato. Nell’ambito dell’alternanza tra -ar- / -er-, va segnalato per l’epistolario l’uso assoluto del diminutivo in -erello, 1 rispetto alla forma non fiorentina che ha pure appena un paio di occorrenze nel resto dell’opera leopardiana : scrittarello nella Lettera al Giordani sul Frontone del Mai (PP** 966) ; vecchiarelle – ma nel contesto di una citazione da Stefano Pace – nella Dissertazione sopra le doti dell’anima (Diss 329). 2 Accanto alle più diffuse e correnti aspettativa (880, 1312, 1749, 1946) e aspettazione (1763), si trovano le rispettive forme latineggianti, ormai in via di uscire dall’uso, espettazione (1127) e espettativa (1763), l’ultima delle quali come si nota alterna nella stessa lettera con il suo allotropo. Il tipo moderno è maggioritario anche in Zib dove pure compaiono 2 volte sia espettativa (3498, 4250), sia espettazione (1742, 3279), che si trova anche nelle Operette morali d’Isocrate (PP** 1093), mentre espettazion è nel discorso sulla Crocifissione e morte di Cristo del 1813 (PP** 553). 3 In tutto il corpus leopardiano non si trova che un’unica occorrenza di colazione, in OM xxi.3 194, cui fanno riscontro nel carteggio 5 casi di colezione 744, 1226, 1704, 799* (2 volte, copia del « professor Speziali »). 4 Segnalo inoltre il latineggiante consecrazione (10) in una missiva del 15 luglio 1815 a Francesco Cancellieri ; una lettera caratterizzata da un dovuto e tuttavia sincero tono reverenziale nei confronti dell’erudito abate, ma non certo priva di una straordinaria sicurezza nel padroneggiare mezzi linguistici e stilistici con cui è costruito un testo fittamente elaborato. Qui tuttavia il latinismo troverà anche motivazioni legate al contesto di un discorso che verte sulla decifrazione di una iscrizione latina. La medesima forma, come è lecito aspettarsi, ritorna anche in alcune prose giovanili : consecrata in uno scritto del 1809 (Quanto la Buona Educazione sia da preferirsi ad ogni altro studio, cfr. EDG 25), consecrati in EPA (PP** 651), consecrato due volte in SA (Binni 653.i e 667.i) e inoltre in Zib 4298, dove però è citata una nota di Monti relativa ad un passo delle Satire di Persio da lui stesso tradotte. 5
1 E così : vecchierella 251 (come nei Canti in cui si ha sia vecchierel al v. 21 del Canto notturno, sia vecchierella al v. 9 de Il sabato del villaggio), coserelle 342, 743, -a 678, 777, noterella 637, -e 819, 936, 1422, e anche l’alterato coserellaccia 1044. 2 Sull’alternanza tra i due suffissi si veda Migliorini 1960 : 646 (« in alcune voci notiamo la lotta tra -erfiorentino e -ar- del resto d’Italia »), e Antonelli 2003 : 104 che segnala fattarello in una lettera di Monaldo al figlio (541). Tra i corrispondenti di Leopardi segnalo, in aggiunta, un altro fattarello in una missiva di Carlo Antici (541, da Roma) e d’altra parte conterello di Stella (33). 3 Nessun riscontro con e- nei corrispondenti. La forma, apocopata (espettazion mia), anche nel Cesari epistolografo (cfr. Migliorini 1960 : 596). La LIZ, per l’Ottocento, segnala un’espettazione nel programma del Conciliatore. TB ha per espettazione e per espettativa una croce d’arcaismo. 4 Tra i corrispondenti trovo solo colazione in una lettera di Vieusseux (1232, per due volte). Manzoni nell’edizione definitiva del romanzo muta in -a due casi di colezione della ventisettana. Per Migliorini 1960 : 698, ancora nella seconda metà dell’Ottocento « colezione è usato qua e là accanto a colazione ». Dalla LIZ ricavo esempi di colezione in Pellico (4 volte) e nel Conciliatorie (9). SPM mostra in vantaggio il tipo in -a : colazione 9 / colezione 4. Diversa la situazione nei dizionari : fino a Crusca IV colezione è lemma principale a cui colazione rinvia ; in Crusca V si ha invece solo il tipo in -a-. Inoltre anche Diz. Minerva, Tramater, Crusca Vr, Masi rimandano da colazione a colezione. Lo stesso fa Manuzzi che tra l’altro per colazione dà come significato principale “lo stesso che colamento”. La situazione cambia solo con TB che ha la forma in -a come lemma principale. Da dire infine che colezione è anche forma attestata a Roma. 5 Da notare che in Binni 574.i (si tratta del dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato « Analisi delle idee ad uso della gioventù ») trovo consecrar, mentre l’edizione del Flora nello stesso luogo ha consacrar (PP**
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Due occorrenze infine di salvatico di contro a nessuna per la forma selvatico (« Mi rallegro che Milano v’invischi. Segno che non siete un uccello tanto salvatico » 131* ; « salvatica oscurità e confusione » 931*). Il primo tipo, toscaneggiante, si ha inoltre in OM xviii 3, CI (PP** 457n), Zib 1699, 1786, 3379 (nel diario qualche occorrenza in più per il tipo moderno : selvatico 1267, 3658 ; -ci 2692, -che 1776, 3790).
-e- / -i-. Normale per l’epoca l’oscillazione gittare / gettare : 1 nel carteggio a prevalere è la seconda forma sulla prima, contrariamente a quanto accade in OM, P e anche Zib. 2 Interessante inoltre che E si caratterizzi rispetto alle altre tre opere per il fatto che le voci rizotoniche presentano sempre -e-. La forma più eletta, se appare in un primo momento in lettere che veicolano un contenuto emotivo ad alta temperatura (si veda ad esempio la 241, indirizzata a Carlo prima del tentativo di fuga), 3 è usata in seguito anche in resoconti più distesi (cfr. le lettere a Paolina 465, 1158) o in missive di “lavoro” (991). Solo a partire dal 1820 compare dicembre che, pur rimanendo minoritario, convive con decembre per tutto il carteggio, alternandosi anche in lettere scritte a poca distanza come ad esempio in 479 del 26 dicembre 1822 e in 480 del 27 decembre dello stesso anno. 4 Le due forme alternano senza soluzione di continuità nelle pagine dello Zibaldone, anche se a guardar bene nelle abbreviazioni prevale il tipo latineggiante (dec. 178 volte / dic. 172 v.), mentre nella scrittura per esteso è maggioritario quello moderno (dicembre 390, 392, 393, 942, 2662, 4173, 4419, 4421, 4422, / decembre 29, 3939, 3949). 5
529). Consacrar è anche di Carlo (462), consacrarvi di Antici (704). In poesia invece consecrato si trova solo al v. 10 della seconda delle Inscrizioni Greche Triopee (PP* 544). 1 Per il secondo Settecento così Patota 1992 : 36 : « molto frequente anche lo scambio fra gettare e gittare, con una certa prevalenza del secondo sul primo, nonostante che i vocabolari del xviii secolo considerino gittare forma secondaria rispetto a gettare ». Di oscillazione, in cui « il tipo in -i dimostra ancora una notevole vitalità », parla Antonelli 2003 : 97, mentre descrive una situazione già mutata Serianni 1986 [1989 : 177-78], a cui rimando anche per il quadro sui dizionari ottocenteschi. SPM : 155 occorrenze per -e-, 26 per -i-. 2 14 casi per il tipo in -e- (31, 296, 772, 1126, 1765, 1767 ecc. ) contro 9 per l’altro (241, 299, 347, 1158 ecc.), che ad un certo punto pare proprio uscire di scena (l’ultima occorrenza è in una lettera a Vieusseux del novembre 1827). In OM e P (una occorrenza a testa per vocale atona e tonica) è utilizzata solo la forma in -i-. In Zib invece si ha oscillazione, con una netta prevalenza delle forme in -i- per le voci rizoatone, in -e- per quelle rizotoniche (cfr. Vitale 1992a : 21). Tra i corrispondenti del poeta la generale prevalenza del tipo in -e- è contraddetta dal solo Giordani che accanto a getta 582, ha gittare 52, gittaste 172, gittandoti 264, gittarti 326, gitterai 519, e pure gitto 266. La preferenza dello scrittore piacentino per le forme in -i- è confermata anche da Fornaroli 1976 : 132. 3 All’incirca sei anni separano questa lettera (senza data ma collocabile alla fine di luglio del 1819), nella quale si legge « non trovo altro conforto che gittarmi alla ventura », dalla 690 a Pietro Giordani (6 maggio 1825) in cui è ripresa quasi per intero la medesima formula : « mi gitterei volentieri a vivere alla ventura » : il passaggio al condizionale è la spia di uno scacco, di una consapevole impossibilità ; segna la fine desolata di ogni anelito ad una vita diversa, una resa in sostanza alla vanità delle illusioni. 4 Quasi a conferma di quanto sostenuto da TB, che cioè dicembre « vive in Toscana », solo Vieusseux tra i corrispondenti usa senza eccezione questa forma. Per Giordani si può parlare di un’evoluzione dal momento che dalla lettera 1405 (del 1828) in poi alla forma latineggiante, prima esclusiva, sostituisce quella in -i-. Sulla resistenza della forma latineggiante anche a fine secolo si veda Migliorini 1960 : 697. 5 Noto che per quanto riguarda la dedicatoria dell’edizione fiorentina dei Canti, il testo presentato da Flora, riproposto in E, riporta come data 15 decembre 1830, mentre l’edizione critica a cura di De Robertis ha 15 dicembre 1830. In realtà il manoscritto non porta che l’indicazione della città, senza la data, che deve essere stata aggiunta in tipografia (l’edizione critica diretta da Gavazzeni – Firenze, Presso l’Accademia della Crusca, 2006, vol. ii, Appendici, pp. 269-74 – riporta infatti la trascrizione dell’autografo (e anche la riproduzione nel cd allegato) senza data. Ma per questo fatto, come per il passaggio da commiato a comiato nella stessa dedicatoria, si veda Peruzzi 1980 : 409-10.
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Latineggiante è anche nepote (445, 534, 702) che alterna con nipote (15, 473, 661, 1610). 1 Non presente in OM e in P, il vocabolo oscilla pure in Zib. 2 Un lungo passo dello scartafaccio ad esempio, del 4 giugno 1823 (pp. 2740-52), è dedicato alla diversificazione o moltiplicazione degli alfabeti, al rapporto tra grafemi e fonemi e alla evoluzione della scrittura. Leopardi, che pensa gli alfabeti « esser derivati tutti o quasi tutti da uno solo », distingue nell’elaborazione della scrittura due momenti : il primo in cui il grafema è « figlio del suono ch’esso esprime », cioè rappresenta direttamente quel fonema ; il secondo in cui, per ragioni legate alle necessità di una veloce trascrizione, un singolo segno è utilizzato per esprimere più fonemi e dunque non può dirsi « figlio […], come lo sono quelli ch’esprimono i suoni preesistenti, [bensì] quasi nepote del suono che per lui è rappresentato » (p. 2742). In chiusura di discorso, dopo esattamente dieci pagine (ma tutte scritte appunto nella stessa giornata) Leopardi riprende il concetto e lo riassume affermando che « la vera, intrinseca ed essenziale differenza tra i caratteri composti della prima epoca e quelli della seconda, si è che quelli […], e questi sono figli d’altri caratteri, cioè trovati per rappresentare due o più caratteri già esistenti e noti, e così sono nipoti de’ suoni ». 3 Nonostante l’esiguità dei riscontri vale comunque la pena di citare il pure latineggiante frontispizio (284, 651, 248*), 4 sul quale è in vantaggio frontespizio 304, 596, 600 (2 volte), 57*, 849* (2 volte), forma utilizzata anche in Zib 4265 e in OM App. iv 95. Fanno registrare un’unica occorrenza tre voci che conservano la qualità vocalica degli originari latini : giurisconsulto 10, moltiplicità 1034 e nimicizie 327. 5 Nei primi due casi la forma con il mantenimento della chiusura vocalica è – a quanto ho potuto vedere – l’unica attestata nel corpus leopardiano : Giurisconsulto, -i, è infatti anche di EPA xvi (PP** 842), Zib 4424, OM xviii 13 ; moltiplicità è invece largamente presente lungo tutto lo Zibaldone, ed è altresì in SA (Binni 628.ii, 629.ii, 630.ii, 631.i), in EPA (PP** 677, 6 729, 816, ma 784 ha molteplicità) e OM App. iv 295. 7 A nimicizie invece fa da riscontro
1 Tra i corrispondenti, maggioritaria è la chiusura della vocale protonica nelle lettere di Vieusseux (1232, 1441, 1513, contro nepoti 1374). Nepote è però usato anche in altre lettere di Paolina (Ferretti 1979 : 22). 2 Nepote 2742, 4236 ; nepoti 4386 ; nipote 3073, 4438 ; nipoti 2752. Da segnalare una occorrenza per Cornelio Nipote (Zib 861). Nepote è la forma dei Canti (la veste latineggiante è però un acquisto successivo, cfr. Serianni 2009 : 39), mentre in prosa compare anche in SA iv (Cornelio Nepote, Binni 688.ii), EPA viii (PP** 726) e nel Discorso su Frontone (PP** 946). 3 Sia per nepote / nipote che per decembre / dicembre nell’ambito dell’epistolografia del primo Ottocento si veda Antonelli 2003 : 98 (« tengono bene le forme latineggianti »). Per le lettere di Manzoni rinvio a Savini 2002 : 17 che nota la i esclusiva in nipote e l’evoluzione in contro tendenza (da -i- a -e-) per dicembre. 4 In due delle tre occasioni in cui è utilizzata la forma latineggiante l’interlocutore è Giuseppe Melchiorri che a sua volta ha frontispizio come forma esclusiva (ma in 600, sempre con il cugino, Leopardi usa pure frontespizio). Testimoniano di una situazione in equilibrio i riscontri di SPM : frontespizio 3 / frontispizio 3 (ma è da aggiungere un caso per il plurale : frontispizj). Gli stessi vocabolari tuttavia oscillano : Crusca Vr ha frontispizio come lemma principale ; Manuzzi e Cardinali mettono le due forme sullo stesso piano ma rimandano da -e- a -i-. Tramater ha come principale frontespizio, come anche TB che pone la croce d’arcaismo ai tipi in -i- (nello schema, per tutti, entrano in gioco anche le forme con consonante palatale, frontispicio e frontespicio). 5 Corrispondenti : giurisconsulti è anche in una lettera di Giuseppe Melchiorri (597) ; moltiplici è utilizzato da Vieusseux (616) e da Carlo Antici (604, 667), mentre Monaldo ha moltiplici (533), moltiplicità (1421) e poi anche inimici (821), inimico (830, 901), inimicizie (942). 6 Segnalo che Binni 784.ii ha qui però molteplicità. 7 Per le forme rizotoniche invece riscontro sempre moltiplici in Zib 709, 1453, 2060 ecc., -e 172, 1162, 1468, 1747 ecc. Moltiplici è anche in OM xvi 54, mentre noto il passaggio da molteplice a moltiplice in xiii.10 14, che
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nell’epistolario nemicizia (1715) e poi sempre nemico, -a, -i. Ben rappresentata invece in Zib l’alternanza nemico / nimico, con netta prevalenza della forma più corrente secondo i seguenti rapporti numerici : nemica 50 / nimica 1 ; nemici 88 / nimici 4 ; nemico 94 / nimico 5 ; nemicizia 11 / nimicizia 3, ma tuttavia al plurale nemicizie 2 / nimicizie 5. 1 Salgono a due i casi registrati di quistione, -i (323, 1550, tre con 22*) a fronte di 11 esempi del rispettivo allotropo (-e 1360, 1610, 1749, -i 1269, 1744, 1749 ecc.) : la forma di tradizione letteraria è anche di OM xxii 367 (ma quattro sono i riscontri per -e-), e di Zib 2, 785, 999, 1013 ecc. (anche quistionando 4389) dove però ricorre maggiormente il tipo con -e-. Solo la forma con chiusura della vocale in P v 3-4 (2 volte). 2 L’oscillazione, registrata e documentata da Patota 1987 : 34 per la prosa del Settecento, tra devoto e divoto (e corradicali), 3 ha qualche riscontro solo nelle lettere di Giordani in cui il tipo con chiusura della vocale protonica è, sia pure di poco, maggioritario, 4 mentre Leopardi (con gli altri suoi corrispondenti) utilizza esclusivamente la forma in -e-. Trovo per il resto solo due occorrenze di divoto in Zib (116), e una di divota in PR (PP** 368), entrambe quindi di data piuttosto alta. Nei vocaboli prefissati con re-, sono maggioritarie le forme con chiusura della vocale protonica, cui pure rimanda la maggior parte dei vocabolari : 5 registro reputasse (64), reputerò (627), ma riputasse (7), riputazione (177, 179, 445 ecc.), riputava (861), riputarsi (917) ; 6 restringa (1116), ma ristringerò (466) e ristringersi (554) ; repugnanza (1724) ma ripugnanza (27, 123, 183 ecc.), ripugnasse (174) ; e infine rivocando (« si ostinò a volere che il figlio tornasse, rivocando il consentimento dato e le promesse fatte » 1726). Se in 627
può tuttavia essere anche un refuso di Besomi 1979 (trovo infatti la forma con -e- nella fascia riservata alle varianti interpuntive, dove è coinvolta nell’introduzione di una virgola). Moltiplici è forma anche dei Canti, utilizzata nella Palinodia al marchese Gino Capponi, v. 43. L’unico caso di molteplicità si avrebbe dunque in EPA V (Binni 784.ii ; segnalo tuttavia che PP** 677 ha a testo moltiplicità). Si veda anche Tramater : « V. e di’ Moltiplice », con cui concorda Manuzzi. TB pone la croce d’arcaismo a multiplice e molteplice, mentre il lemma principale è moltiplice. 1 Serianni 1986 [1989 : 178] ricorda che « nimico è data come forma secondaria in Crusca i, Crusca iv, Crusca v, TB (croce d’arcaismo), F ; in GB, RF e P c’è solo nemico ». In Manuzzi, Diz. Minerva, Tramater, Masi, Cardinali e Crusca Vr si trova solo nimicizia. TB spiega che « nemicizia non si suol dire né scrivere […] i parlanti in Toscana decapitando al solito direbbero nimicizia ». Col che si ricorda che il punto di partenza è pur sempre inimicizia. 2 Interessante che i dati di SPM siano a favore dell’allotropo di tradizione più eletta, il quale fa segnare un numero quasi doppio delle presenze (quistione 103 / questione 65). Se Crusca I e IV pongono a lemma il tipo più scelto, gli altri vocabolari dell’epoca, e in particolare TB, GB, P, F danno la medesima forma come secondaria. Nessuno tra i corrispondenti di Leopardi utilizza il tipo in -i-. Per il Manzoni epistolografo Savini 2002 : 17 segnala che il passaggio da -i- a -e- si ha « negli anni Trenta ; esso avviene contemporaneamente anche nel romanzo e si rivelerà determinante per l’eliminazione dell’allotropia nell’italiano moderno ». 3 Crusca IV registra entrambe le forme, mentre D’Alberti e Tramater hanno come voce principale divoto. TB suggerisce di riservare la forma più eletta per i riferimenti di carattere religioso. Da tener presente, qui come altrove, che « vanno considerate normali per la lingua scritta dell’epoca alcune opzioni per forme più letterarie », cfr. Mengaldo 1987 : 50-51 sulla presenza in Nievo di questa come di altre forme analoghe. 4 Nel corso del suo rapporto epistolare con Leopardi, Giordani usa dunque devoti, -a (56, 63, 147), ma poi divotissimo (42), e divota, -o (56, 162 per 2 volte, 326). Per le oscillazioni del piacentino (per queste come poi per altre varianti dello stesso tipo) rinvio a Fornaroli 1976 : 132. Sulla situazione generale (« corrisponde all’uso primottocentesco la prevalenza (qui assoluta) del tipo devoto ») si veda anche Antonelli 2003 : 97. 5 Si veda Vitale 1992a : 25-26, e Antonelli 2003 : 98-99 che conferma anche per altre voci la netta prevalenza del tipo più letterario con re- (cfr. Malagoli 1905 : 112, ma con le avvertenze ricordate da Colussi 2007 : 59). Per il Manzoni epistolografo ma non solo cfr. Savini 2002 : 18-19. 6 In OM i 285 Leopardi corregge reputavano in riputavano. Cfr. Vitale 1992b : 230.
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reputerò si trova accanto a scuopro, testificarle, inspirano, che contribuiscono con altro ad innalzare il tono di una lettera di ringraziamento per i buoni uffici assicurati da Bunsen nella ricerca di un impiego romano, in lettere di tono analogo, di accompagnamento di proprie opere, e quindi ugualmente sorvegliate (da vedere almeno 64 e 177), gli allotropi si alternano. Analoghe le osservazioni che si possono fare per ricapito, ricapitare, forma nettamente maggioritaria rispetto al tipo concorrente : i due allotropi si trovano in più di un caso nella medesima lettera (750, 1911). 1
-e- / -u-. Unica occorrenza di tema in esc- è escissero (16), mentre per il resto sempre uscire (242, 292, 391 ecc.) o anche riuscire (292, 530), e così naturalmente per le altre voci. Unica altra forma del genere è escirà in Zib (3466), mentre in poesia trovo un escir in un sonetto in ottonari composto nel 1810 (EDG 364, v. 6). Patota 1987 : 44 2 segnala l’uso costante in Foscolo e negli autori da lui presi in esame del tipo in -u-, tuttavia Masini 1977 : 33 avverte che « l’estensione dei temi esc- / riesc- alle forme arizotoniche è documentata per tutto il corso della tradizione letteraria ed era viva nell’Ottocento ». 3 Ben rappresentata l’oscillazione tra eguale / uguale e egualmente / ugualmente, con prevalenza del tipo labializzato per l’aggettivo (uguali, -e, 174, 202, 327 ecc. per dodici occorrenze complessive, contro egual 1401, 1773), della forma etimologica per l’avverbio (egualmente 9, 173, 1824 ecc. fino a nove presenze, ma pure ugualmente 202, 1663, 19*). La specializzazione è sostanzialmente confermata dai rapporti numerici di Zib : uguale 68 volte / eguale 4, uguali 52 / eguali 2, ugual 8 / egual 4, ma ugualmente 55 / egualmente 64. In OM e in P manca il tipo con vocale etimologica. 4
-o- / -u-. Se si eccettua un caso di obbed.mo (545), 5 assoluta è la forma in -u- per le voci
1 Utilizzano esclusivamente la forma con chiusura Melchiorri (ricapitatavi 438, ricapitate 649), Stella (ricapito 742, 872, ricapitar 1162), Antici (ricapitare 604, ricapitati 726 ecc.) e Monaldo (ricapitati 467, ricapito 491, 839) ; Brighenti ha invece solo il tipo con -e- (recapitato 221, recapitata 322 ecc.). 2 Da vedere anche, alla pagina successiva, la situazione nei vocabolari e le testimonianze dei grammatici coevi intorno alla preferenza accordata dai toscani al tema in esc-. Serianni 1986 [1989 : 205] rileva che « la lessicografia coeva registra sempre escire e riescire, sia pure come forme secondarie. Si vedano : Bazzarini, Diz. Minerva, Cardinali e poi TB (« escire anco nell’infinito vive in Toscana e così in altre forme, ma nell’infinito è più comune uscire »), GB, RF, F, e P (escire e riescire sono qualificati “popolari”) ». 3 I dati offerti da SPM sono chiari : tipo escire 21 / uscire 225. Tra i corrispondenti del poeta trovo in Paolina esciamo (523, due volte), esciranno 937, riescirà 1099, contro 5 occorrenze per l’altra serie (il tema in esc- si riscontra anche in altre lettere : cfr. Ferretti 1979 : 28, 34, 41 ecc.) ; in Monaldo solo riescirà 495, ma riuscito (463), -i (942), uscire (549, 942) ecc. ; in Stella escite (1048), ma uscito (24), riuscir (1013), uscirà 1043 ecc. Per il Manzoni delle lettere sono esclusive le forme con vocale labiale (cfr. Savini 2002 : 23). 4 Trovo quattro casi di egualità (da rinviare al latino aequalitas, anche per il contesto) nel volgarizzamento delle Operette morali d’Isocrate (PP** 1107, 1121 egualità civile per due volte, 1130). Per OM invece si veda Vitale 1992a : 23. Anche tra i corrispondenti l’alternanza è comune, con leggera prevalenza della forma in e- nei familiari del poeta : Carlo ha egualmente (771, 1072) eguale (996), ma uguale (524, 540) ; Paolina usa uguale (1219), ma anche egualissimi (523), eguale (794, 851) ; Monaldo ugualmente (476, 528 due volte), egual (968) e poi uguale (1248). Per Giordani l’equilibrio è quasi perfetto : eguali (52), -e (99, 1091), egualmente (148), uguale (121, 172), ugualmente (99, 589). 5 La lettera a Barthold Georg Niebuhr, si chiude con la formula « Um.o Obbed.mo Servitore ». Si potrebbe pensare che l’opzione per il tipo in o- sia stata innescata dalla volontà di evitare la ripetizione un po’ cacofonica della vocale d’avvio. Sembrerebbe confermarlo il fatto che mutate appena le condizioni, si ritorna al tipo più comune : « Umiliss. Devotiss. Ubbidientiss. Servitore » (628*, minuta autografa). La stessa
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del verbo ubbidire : ubbedisco (321), 1 ubbidisco (474), ubbidirvi (1777), e poi anche disubbidiente (194), ubbidienza (242), ubbidiente (369), ubbidientiss. (628) ecc. Le occorrenze con o- in Zib sono davvero limitate (obbedire 1079, 3974, 3975 ; obbedienza 874, 888, 923, 4298 ; obbedientissimi 4387), mentre del tutto assenti sono in OM e in P. 2 Al di là di una occorrenza di officio (80), che può essere stato ripreso dallo statuto dell’Accademia di Scienze ed Arti di Viterbo o Accademia degli Ardenti a cui la lettera risponde, per il resto si ha sempre il tipo toscano, con u-, che prevale anche in Zib dove però compaiono pure offici (1445, 2610), officio (3008, 3222, 3223, 4355), offizio (2445, 2999). In OM trovo solo officiale (ix 268). 3 Presente in E unicamente il sostantivo polizia (26, 284, 288, 706, 744), con il significato di ‘azione svolta dallo stato per prevenire i reati, individuare i loro autori e tutelare l’ordine pubblico ; istituzioni create a questo scopo’, 4 e l’agg. pulito, -a (106, 1622), con l’avv. pulitamente (639) in riferimento alla qualità di un manoscritto, di una stampa, di un’edizione. L’unica occorrenza di polizia in Zib si accorda a questa linea (« specie d’ispettori di polizia » 918), ma per il resto si ha polita (857, 1157, 1301, ecc. per altre sette volte), polite (1304, 1663, 1942, 2356), polito (1345, 1346, 1368 ecc. fino a undici presenze), politezza (93, 1043, 4501), politissime (1750) e politori (« furono politori e limatori, che emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi » 4355), che non solo sono semanticamente equivalenti rispetto alle forme in -u-, ma sono anche nettamente maggioritarie. 5 A poca cosa, almeno sul piano numerico, si riducono le altre alternanze : prevale il tipo in -u- per cultura (628), cultissime (1409) e cultore (1480), anche se registro pure coltura (984), e per bullettino (1432, 1493, 1694, ma bollettino 681), 6 mentre romore 525, 1131,
formula comunque (« Um.o Obbed.mo… ») si trova in 22* che è un apografo (di Carlo), mentre « Dv.mo Obbed.mo Servo » è in 19*, copia di Paolina. 1 Binni 1806.I ha obbedisco, ma la lezione di E è ripresa anche da E2 (272). 2 Trovo infatti : ubbidienti (P civ 8), ubbidirlo (OM i 419), ubbidirmi (OM iii 60), ubbidisci (OM vi 42), ubbiditi (P xix 10). Per i corrispondenti segnalo che Carlo ha obbedire (462) e obbediente (783) ; Monaldo obbedire 1260, obbedienza 1288 ; Brighenti obbedire (259, 592), obbedita (302), obbedirla (302). Giordani invece usa solo forme in u-. 3 Cfr. per un quadro generale Vitale 1992a : 24, ma pure Antonelli 2003 : 101. 4 Con lo stesso significato Trissino ha Pulizie (331 : « Il nostro Principe Vice-Re egli stesso ha severamente proibita quella Canzone ; e queste Pulizie sono ordinate di sorvegliare perché non venghi conosciuta »). Giordani usa, con altro significato, sia puliti (52 : per ‘pulire i panni’), sia polita (235 : per descrivere la lingua di un’opera). In SPM le forme in -u- sono prevalenti, tranne che per il significato che afferisce all’Istituzione in cui è schiacciante (70 contro 1) il tipo in -o-. 5 Bastano un paio di esempi di Zib per verificare l’equivalenza di significato : il primo nell’ambito di un medesimo discorso e quindi a distanza ravvicinata, il secondo invece a far coppia con il medesimo aggettivo : « Sozzo è quello che dà noia ec. polito l’opposto » (1368), « Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei, molte cose per noi pulitissime » (1369) ; « certo il più polito ed elegante di quanti mai scrissero » (1840), « In oltre la dicitura diventa meno elegante e pulita » (24). La situazione è confermata da Antonelli 2003 : 102. Segnalo comunque che TB e P rinviano decisamente alle forme in -u-, mentre RF non concede altra opzione che la forma oggi corrente. 6 Nettamente maggioritaria in Zib coltura che fa registrare 70 presenze di cui appena 5 (915, 1699, 1739, 2250, 2982) in riferimento alle attività contadine. La medesima forma è anche di OM App. v 80, e delle Operette Morali d’Isocrate (PP** 1081). Per cultura/coltura si veda in ogni caso Antonelli 2003 : 104, integrato da Colussi 2007 : 57. Per bullettino/bollettino, « la variante in u è la più comune nell’Ottocento, sovrapponendosi in essa il peso dell’influsso francese e della tradizione puristica » (Savini 2002 : 21).
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vince su rumore 1026. 1 Da segnalare scolture (« Non mancherò di avere in vista quanto Ella mi dice circa scolture vendibili », 831) cha ha un corrispondente nella dedicatoria del 1820 della canzone Ad Angelo Mai a Leonardo Trissino, 2 mutata poi in sculture nell’edizione del 1824. 3 Accanto ad una decina di occorrenze di scultura e ad un paio di sculture, 4 Leopardi utilizza anche in Zib scoltura (155) e scolture (211 e 3888).
-i- / -o-. Anche in questo settore le oscillazioni registrate si collocano in un quadro d’insieme piuttosto coerente per il secondo Settecento e per il primo Ottocento. I tratti principali di questo scenario, delineati da Patota 1987 : 46-47 e Serianni 1986 [1989 : 179-81], sono riassumibili con le parole di quest’ultimo secondo cui « complessivamente minoritarie, le forme con vocale palatale reggono meglio per dimandare ». 5 Così è, dunque, con l’eccezione proprio di dimanda / domanda per cui il carteggio è in realtà più vicino ai risultati di SPM in cui il tipo con -o- è prevalente sull’altro. 6 La variante con palatale, benché di carattere più letterario, 7 compare in larga misura in lettere indirizzate ai propri familiari (241 a Carlo, 730 a Paolina, 468 a Monaldo) o comunque di tono amichevole (690 a Giordani, 1044 a Brighenti, 1432 a Vieusseux). Quattro sono invece le occorrenze tra dimani (1010, 1389, 1600) e posdimani (1549) rispetto a 18 casi della forma labializzata, 8 mentre si scende a due appena con dimesticamente (734) e dimestichezza (744) di contro a domestico (31, 485), domestiche (299), domestica (542). 9
1 Così accade anche nel resto della produzione leopardiana, che si accosta a quanto riscontrato da Patota 1987 : 41 piuttosto che ai risultati che emergono dagli spogli di SPM, dove il rapporto è di 40 occorrenze per rumore contro le 10 di romore. Zib infatti ha solo romore (50, 133, 217, 1671, 1818, 2110), romoreggiare (4490), come del resto OM (ii 32, viii 204, xiii 4.93, 8.95, xxiv 215, App. iv 100) ; in poesia vige esclusivamente romor- (la forma in -u- è presente solo nella dedica al Monti delle canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante). Segnalo che per dimandare, come anche per dimani di cui più sotto, Verducci 1994 : 571 attesta il carattere dialettale marchigiano. 2 La dedicatoria riprende quasi alla lettera, come del resto dice il testo stesso, un’espressione che Trissino aveva rivolto a Leopardi in una lettera del 10 settembre 1819 (la 256) : « si ricordi, che della Italia presente la Storia non potrà far discorso che di sculture, e di un po’ di lettere ». Dopo aver ricevuto il “libricciuolo” il conte vicentino risponde (336) al poeta riprendendo ancora quell’esortazione, parafrasandola, ma utilizzando precisamente scolture. 3 La correzione è già, a penna, sulla princeps. Se ne può vedere la riproduzione in De Robertis 1984 : 73, e ora anche in Gavazzeni 2006 : 22. 4 Scultura : Zib 80, 977, 1828 ecc., OM xiii 4.70 ; sculture : Zib 3427, 3466. 5 Di predominio netto dell’allotropo labializzato parla Antonelli 2003 : 95. Ricordo altresì che i dizionari ottocenteschi hanno in genere le forme in -o- come secondarie (Crusca V, RF, F, P ; TB dà entrambe le forme con i rispettivi esempi). 6 Per i riscontri su OM si veda naturalmente Vitale 1992a : 26. In P registro dimandato (xiv 6 e xx 63), ma poi domanda (lii 22), domandano (lxix 6), domandavano (lxix 7). In SA solo dimandò (Binni 634.i). In Zib ad un numero di occorrenze del tipo labializzato che supera le 70 fa da riscontro appena dimandano (4494), dimandare (2550), dimandato (4201, 4225, 4283), dimando (4429). 7 Secondo Vitale 2000 : 55 « negli usi scritti dimandare […] suonava certamente più scelto », ed è comunque più utilizzato da Leopardi in poesia (se si eccettua un domanda nella canzone Ad Angelo Mai, v. 134, le altre occorrenze del tipo labializzato sono tutte nelle parti in prosa, di contro a dimanda in Consalvo v. 64, dimandai ne Il Risorgimento v. 38, dimande nel Frammento xxxix v. 22). 8 OM ha solo il tipo con la velare, così come P (domani lxxiii 10). In Zib (4522) invece dimani appare nell’ambito di un discorso sulle preposizioni e sugli avverbi romanzi derivati dal latino mediante l’aggiunta « di un de affatto pleonastico » : così « de mane : dimani ec., demain ». 9 In OM trovo dimesticati (xiii 7.29, xvii 49). Forme in -i, minoritarie rispetto alle altre, tra i corrispondenti. Giordani : dimandarti (700) ; Paolina : dimanda (550) ; Brighenti : dimanda (343) ; dimani (640, 920, 1096, 1733) ; Vieusseux : dimando (853) ; Melchiorri : dimanda (433), dimandarti (695), dimani (654) ; Colletta : dimani (1385).
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Registro inoltre sempre il tipo labializzato in somiglianza (193), -ante (193), rassomiglio (356), -ano (396), -iglino (514), -ato (663), -armi (868), assomigliato (1753). 1 Se la forma in -o risulta esclusiva anche per OM e P, in Zib rilevo pure simigliante (33, 3410), -i (3401, 4060), simiglianza (2769, 2857, 3792, 3817, 3819), -e (1262), simigliare (2825).
Postonia. Da registrare un solo caso di giovine (820), con estensione a giovinezza (391, unica occorrenza del sostantivo), 2 mentre per il resto sempre giovane (31, 242, 253, 307, -i 242, 296 ecc.), come poi anche per gli alterati giovanotti (474), giovanetto (730, 1678, 60*). 3 In parte diverso è il comportamento di OM, dove sia pure di pochissimo (tre occorrenze contro due) prevale giovanezza, 4 situazione che in P quasi si rovescia (giovinezza xxxii 18, xlii 6 e 10, civ 26 ; giovanezza ii 33 e 35, civ 31). L’oscillazione è presente anche in Zib e vede sempre nettamente minoritario il tipo con vocale palatale, in tutte le forme corradicali : giovinastro (4503) / giovanastro (238, 1507, 2157, 2158, 2159), 5 giovinett- (5, 4300, 4396) / giovanett- (83, 63, 2381, 144, 355, 2272, 681, 1063, 4023, 4194), giovinezza 4, 102 (2 v.) / giovanezza (85, 128, 205, 207, 302 per 31 occorrenze totali). Per quanto riguarda le vocali finali, E conferma, anzi rafforza, i riscontri di Vitale 1992a : 28 su OM, presentando sempre domani, oltre, dunque, lungi, contro (mai contra), 6 fuori (mai fuora) 7 e affiancando a una serie cospicua di parimente (119, 136, 145, 155, 164 e così via per altre 15 volte negli autografi ), anche un parimenti (282). 8 In Zib solo contra fa registrare una presenza apprezzabile, pur rimanendo sempre molto lontano dal tipo più corrente, mentre un’unica occorrenza hanno sia fuora (1139), 9 sia parimenti (370).
3. Accidenti vocalici Aferesi. Delle quattro occorrenze di state, 10 è da sottolineare che tra la prima (801, del
1 Nessuna occorrenza di rassimigliare e simili nell’opera leopardiana. TB, che riporta comunque un esempio del Cortegiano, pone su rassimigliare una croce d’arcaismo. 2 Aggiungo giovine (19*) e giovinezza (205*) in copie di Paolina, la quale peraltro, nelle proprie lettere, usa sempre giovane. 3 Per la situazione di primo Ottocento rinvio a Serianni 1986 [1989 : 181-83]. Tra i corrispondenti del poeta segnalo in Giordani giovine (233), giovinetto (56, 92, 113), giovinezza (52, 99, 410), ma giovane, -i, per otto volte ; A. F. Stella invece ha solo giovine (1048, 1100, 1115, 1162), e però giovanezza (24). 4 I riscontri in Vitale 1992a : 27 e 1992b : 231. Giovanezza è inoltre più diffuso in poesia : si trova infatti in Ultimo canto di Saffo v. 42, Il sogno vv. 52 e 78, Al conte Carlo Pepoli v. 73, Le ricordanze vv. 111 e 135, Frammento. Dal greco di Simonide v. 17, Per una donna inferma vv. 2 e 107 ; giovinezza invece è usato ne Il passero solitario v. 20, Le ricordanze v. 120, Il tramonto della luna vv. 22 e 64, Inno a Nettuno v. 50. 5 TB pone a lemma entrambe le forme come peggiorativi di giovane, ma per giovanastro chiosa : « meno pegg. di Giovanaccio. Questo è più com. coll’A ; Giovinastro coll’I ; e dice più specialm. leggerezza e licenza ». 6 In 1596*, apografo Viani, trovo però « né pro né contra » ; contra è anche in 121, di Giordani. 7 Anche in questo caso trovo fuora in una copia (66*, di Paolina), mentre prevale la variante più letteraria in Vieusseux (fuora 1197, 1398, 1452, 1464 ; fuori 1171, 1441). Fuora è anche in 56 e 172 di Giordani che usa più spesso però l’altro tipo. 8 Tra le lettere dei corrispondenti trovo solo parimenti in Carlo Antici (161, 1907). 9 Ma si legga il passo : « Similm. i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal lat. foras o foris, dicono hors, aspirando però l’h ». 10 Origine e fortuna di state e verno in Serianni 2009 : 105. Da dire che in E è presente solo inverno così come in P (xxxix 51), mentre verno è esclusivo di OM (xii 61, xviii 123). In Zib una sola occorrenza di verno (« Così ancora nella state più che nel verno » 4250 : la scelta è dunque contestualmente coerente ; si noti che poche righe più sotto, svincolato dalla coppia, si ha « inverno »), per il resto sempre inverno (per 13 volte). Per
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dicembre 1825) e le altre tre (1900, 1915, 1956) passano quasi 10 anni. In tutti i casi si tratta di missive di tono amichevole e di carattere confidenziale, tra cui spicca semmai la lettera a cui la 801 risponde, di Antonio Papadopoli (il quale pare sempre puntare a un linguaggio ricercato, pur nell’intonazione intima). 1 Largamente maggioritaria è comunque nel carteggio la forma piena, al contrario di OM e P in cui compare solo state. Pochi in ogni caso i riscontri : appena due nelle Operette (v 134, xii 62) e tre nei Pensieri (iv 6, xxxix 53 e 78). Più equilibrata invece la situazione di Zib in cui i due tipi si dividono quasi a metà il totale delle occorrenze, con appena un leggero vantaggio per la forma più aulica (2927 per due volte, 2928, 4241, 4250). 2 Per dar conto poi di spediente (730), sperimenti (327) e sperienza (419), 3 si legga Zib 2236-38 dell’8 dic. 1821 :
spessissimo anzi quasi sempre, dalle voci latine comincianti per ex noi abbiamo tolto la e, e il c, e cominciatele per s, specialmente, anzi propriamente allora quando la ex era seguita da consonante, sicchè la nostra s viene ad essere impura. […] chi vuol vedere che l’antico volgare latino, ed anche gli scrittori più antichi, usavano di far nè più nè meno quel che facciamo noi, osservi il Forc. in Stinguo (e forse anche in molti altri luoghi), verbo che anche noi anticamente dicemmo per estinguo e così stremo per estremo, sperimento, esperimento ; sperto, esperto ; spremere da exprimere da cui pure abbiamo esprimere ; sclamare da exclamare, onde pure esclamare ; e così altre tali voci che hanno pur conservata la e, la perdono o a piacer dello scrittore, o nei nostri antichi, o nella bocca del popolo ec. E forse l’avere gli spagn. e i franc. la e in tali parole, non è tanto conservazione, quanto maggiore e doppia corruzione ; vale a dire che, secondo me, essi volgarmente da principio dissero come noi, cioè colla s impura iniziale, e poi per proprietà ed inclinazione de’ loro organi, che mal la soffrivano, o a cui riusciva poco dolce ec. v’aggiunsero, non prendendola dal lat. ma del loro, la e iniziale. Infatti essa si trova sempre o quasi sempre nelle parole che anche nel latino scritto, e dell’aureo secolo, e per loro natura ed etimologia ec. cominciano colla s impura, siccome pur fanno sempre in italiano. 4
Resta comunque il fatto che, « a piacer dello scrittore », le forme non aferetiche sono di gran lunga prevalenti nell’opera leopardiana : nell’epistolario pur non essendo attestato (come in OM e in P) 5 il sostantivo esperiment- (il quale compare in Zib in modo
state, altri riscontri in Vitale 1992a : 29. La forma aferetica è quasi esclusiva in poesia : una sola occorrenza per estate (« una simil pazzia / forse in estate fatta non avria »), in un epigramma puerile (il xiii, cfr. Binni 561.i) 1 Per dare appena un’idea basterà notare sul piano lessicale « Fiorenza » per Firenze, « sanità » per salute, l’avverbio « imprimachè », per la grafia « debilemente », per la flessione verbale « addormita », e infine l’apocope « mel vieta ». È da aggiungere tuttavia che se Papadopoli in sostanza non muterà il suo stile, Leopardi a due anni di distanza, in una lettera del 1827 (1082), non solo utilizzerà il sintagma « questa estate », ma si prenderà anche la libertà del turpiloquio : « […] che io continui ad andare da quella puttana della Malvezzi ? ». 2 Estate invece a p. 31, 1658, 2051, 4282. Corrispondenti : state è in Giordani (953), e in Brighenti (647) ; solo 3 Da aggiungere 60* e 95*, copie di Paolina. di Colletta è verno (1523). 4 Una precisazione a proposito di stinguo è in Zib 2297. 5 È tuttavia attestato in OM sia sperimentato, -a, -i (xv 2.111, 3.77, 5.42, xvii 117, xviii 113), sia esperimentato (xi 225). Riporto quest’ultimo passo : « la solitudine fa quasi l’ufficio della gioventù ; o certo ringiovanisce l’animo, ravvalora e rimette in opera l’immaginazione, e rinnuova nell’uomo esperimentato i benefici di quella prima esperienza che tu sospiri » e lo metto vicino a quest’altro tratto da una lettera a Pietro Colletta del marzo 1829 (1440*, apografo Viani) : « Colloqui dell’io antico e dell’io nuovo ; cioè di quello che io fui, con quello ch’io sono ; dell’uomo anteriore all’esperienza della vita e dell’uomo sperimentato ».
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esclusivo, per otto volte : 19, 575, 603, 2236, 2237, 3228, 3242, 3918), e facendo segnare espediente un’unica occorrenza (398), registro esperienza in 200, 310, 345, 458, ecc. 1
Prostesi. Ad introduzione dei risultati della schedatura si legga questo passo dello Zibaldone del 18 marzo 1821 (pp. 813-14) :
In quelle parole che cominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno di un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola. La lingua francese e la spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute da’ latini o da chicchessia, ovvero formate da loro. […] Ora dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non si è scelta altra che la e. […] Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla nella vocale, senza che questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e. […] L’Italia quanto alla s impura, non è stata più delicata dei latini e de’ latini. Vero è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante, l’Italia per usanza non naturale, ma grammaticale, artifiziale, acquisita, e particolare sua, v’interpone la i non la e (in ispirito ec.) credo però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani. Del resto riferite alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec. e non if il. 2
Come accade di frequente nello scartafaccio leopardiano, la singola notazione linguistica si inserisce in un discorso più ampio che mira a far luce sulle strutture generali della lingua come sui rapporti che in particolare le tre lingue sorelle (italiano, spagnolo e francese) intrattengono fra di loro e con il latino. Qui infatti si discute proprio del diverso comportamento dello spagnolo e del francese nei confronti delle parole inizianti per s impura : l’obiettivo di Leopardi, anche in queste puntuali, per quanto minime, osservazioni è quello di mostrare concretamente la maggiore vicinanza, il grado più stretto di parentela che comunque la lingua italiana mantiene con il latino (o meglio con il volgare latino ; ma si vedano a questo proposito le conclusioni di Zib 2238). La prassi scrittoria segue le indicazioni del linguista in modo rigoroso in OM 3 e in P, 4 che concordano anche – ma in direzione contraria – nell’utilizzo esclusivo di stesso. 5 In Zib, ad un uso che pare altrettanto assoluto della prostesi dopo parola uscente per consonante, si registra pure, in consonanza con OM ma non con P, 6 una certa presenza di voci che mantengono la i etimologica come istoria (882, 2781, 4214, 4215, 7
1 Segnalo che Giordani ha sperimento, -i (52, 519), ma anche esperimento (86). Per il Manzoni epistolografo rinvio a Savini 2002 : 45. 2 Sull’uso di i- come vocale d’appoggio già in latino volgare cfr. Rohlfs § 187. 3 Vitale 1992a : 30 : « regolare e assoluta, quale che sia il tono delle Operette, la prostesi di i- davanti a s complicata, dopo parola uscente in consonante ». Savini 2002 : 43 nota la coerenza manzoniana nell’eliminare la i- prostetica anche dalla scrittura epistolare dopo aver deciso di toglierla da parecchie voci in occasione dell’edizione del 1840 dei Promessi sposi. 4 Qualche riscontro per P : per iscritto (lii 12) ; per iscrivere (ii 2) ; per iscusarsi (xx 27) ; per isperanza (xvi 8) ; per ispiegare (xxxix 57) ; per isperienza (xxxix 61 ; forma che è anche in Zib 3278) ; per ispogliarlo (xxvi 19) ; per istima (lviii 3) ; per istratagemma (c 16) ; per isvagamento (iv 2) ; in iscompiglio (lxxviii 7) ; in ismanie (xlviii 5) ; non iscuopra (xcvii 8) ; non isperare (xxiv 9) ; non istimano (xxxiii 6) ; con isforzo (c 39) ; con istudio (c 5) ; con isperanza (lii 21). Segnalo inoltre 21 occorrenze per stesso, sempre preceduto da vocale. 5 Per il passaggio da istesso a stesso in OM si veda Vitale 1992b : 232. 6 P infatti non presenta cultismi del tipo istoria, inimico ecc., ma ha sempre storie (lxxiv 10, xciv 5) ; storia (lxix 2, lxix 8) ; storici (li 17) ; storico (li 13) ; storiella (iv 30) ; storica (iv 32) ; e nemica (lxxxv 3) ; nemici (i 31, c 34) ; nemico (xv 7, lxxxv 4) ; ma inimicizie (xlix 6). 7 La pagina discute l’appartenenza della disciplina fondata da Aristotele, l’Istoria naturale, all’ambito degli studi storici. Nella pagina si alternano senza soluzione di continuità tipi con prostesi e tipi senza, anche se il nome della disciplina è sempre, coerentemente, istoria naturale.
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4217 ecc., -e 466, 3894, 4238 ecc., istorietta 4193, 4265, istoriche 3579, 4403, istoricamente 3812, 4171, 4429) ; inimico (3116, 4099, -i 1710, 3167, 4226, inimicizia 184, 3682, inimicato 3487 ecc.) ; istrumento (441, 559, 937 ecc., istrumenti 328, 778, 2468 ecc. ; istrumentale 3426). 1 Da segnalare in Zib i quindici casi di istesso, -a, -i (44, 62, 68, 79 ecc.), che è presente in particolare nella prima parte del diario ma giunge, con l’ultima occorrenza, al 1824. Anche se non con il rigore segnalato per le altre opere, nel carteggio è comunque prevalente la prostesi di i- davanti ad s complicata se preceduta da consonante. La prostesi è costante quando la parola è introdotta dalla preposizione per : per ispedizione (21, 26, 39), per iscrivergli (31), per ispedirle (214), per isbaglio (255, 37*), per istamparsi (1683), per istretta (1693) ecc. ; oppure da con : con ischiettezza (304), con isperanza (1769) ; o anche da in : in ispecie (11), in istato (27, 31, 439, 538, 574 ecc.), in iscena (296), in iscritto (497, 1720), in isperanza (1895, 1914), in istrette (1899) ecc. Se ad introdurre la parola è invece l’avverbio di negazione, la prostesi di i è prevalente ma tutt’altro che assoluta : a non iscriveranno (7), non isdegni (36), non isdegnasse (155, 545), non ispero (458, 801), non istava (465), non istia (693, 1712), non istanno (1026), ecc. fanno da riscontro non scrissi (710, 1198), non stancarsi (758), non stai (840), non scrive (852), non spezzato (1045), non stanno (1111), non spero (1126), non scrivo (1149), non stare (1246), non stia (1387), non sposeranno (1431), non starò (1798). Si potrà notare di sfuggita che il tipo privo dell’appoggio vocalico compare solo a partire dalla lettera 710, del 31 luglio 1825. 2 Mantengono altresì la i etimologica istesso, solo in una primissima fase (106, 101* 205*) e rispetto ad una larga maggioranza di occorrenze secondo la forma corrente ; 3 e istoria (136 e 1753) anche se in netta prevalenza si ha storia (13, 136, 145, 204, 538, 574, 693 ecc.). 4
1 Registro anche instrumento in Zib 4252 : la forma latineggiante può qui essere in parte legata al contesto di un discorso di carattere scientifico : « Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell’aria di essere instrumento del suono […] ». Se per istoria e inimico i dati riportati devono tener conto della stragrande maggioranza delle forme correnti diffuse in Zib (solo storia tocca le 200 presenze), istrumento (con le sue varianti) è presente per 39 volte, mentre strumento solo 23. Una prevalenza, peraltro non decisiva, delle forme con i- iniziale si ricava da SPM (istr- 59 / str- 51). 2 Qualche riscontro tra i corrispondenti, in cui è da notare una certa oscillazione anche a breve distanza. Carlo : per iscritto (471), per istrascinarsi (507), per iscuotere (887), in iscena (507), in ismanie (548), ben iscegliere (721), ma per scriverti (753), per scorrere (809), in smanie (462), in strade (462) ; Giordani : per isbaglio (47), per istudi (86), per isnaturato (99), con ismisurato (108), non ismarrirmi (126), non istiate (196), non istancarti (349), non istudiar (932), ma per spia (112), in schiavitù (262), in spasimo (262) ; Brighenti : per iscrivere (404), per iscrivermi (587), per iscriverti (1036), per isperare (592), in ispedizione (180), in isvizzera (587), in ispecie (1031, 1096), in iscena (1737), non istava (317), non istà (317), non ispero (402), non istancarvi (621), non istudiar (1031), non istimo (1096), ma per spignere (317), per spedire (322), in Svizzera (492) ; Vieusseux : per iscritto (1643) ; Stella : per isbaglio (59, 1150), non isborserà (824), non istia (1264), ma per spese (54) ; Antici : in Ispagna (704), in iscritto (863), con isdegno (718), per isgravare (745), ma per scrivervi (704), per spese (1912), in stretta (869) ; Bunsen : in istato (770), in iscritto (776, 827), in ispecie (827), non isdegni (827), non isbaglio (1139) ; Cancellieri : per iscusato (163). 3 Sulla rapida affermazione di stesso, si veda Serianni 1989c : 15. Per le spinte anche dialettali in Nievo cfr. Mengaldo 1987 : 52. 4 Da notare che in 136 i due tipi convivono a breve distanza (« ho qualche intenzione di tradurre in volgare il trattato di Luciano del Come vada scritta la storia, il quale dall’un canto mi pare che converrebbe alla sua Collezione giovando a mettere in chiaro le opinioni dei greci intorno alla maniera di scrivere l’istoria […] »). Se in 1753 il titolo di un’opera letteraria ha l’appoggio vocalico (Istoria evangelica), in 1923 ne è privo (Storia evangelica).
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Apocope. Nettamente più diffuse le forme intere rispetto a quelle apocopate secondo una tendenza che si andava consolidando nell’uso scritto dell’epoca. 1 I troncamenti hanno ancora un certo peso nella prima parte del carteggio, ma in diacronia si coglie un netto orientamento verso i tipi più correnti ; preferenza del resto confermata anche da OM, in particolare dalla prassi correttoria. 2 Se si circoscrivesse il riscontro alle lettere scritte entro la fine del 1820 risulterebbero maggioritarie forme apocopate quali esser (28 volte, su essere 24), poter (4 su potere 2), far (42 su fare 40), par (8 su pare 4) ecc., che in realtà, pur mantenendo una certa vitalità, cedono poi il passo alle rispettive forme intere. 3 Per quanto in Zib 4028 Leopardi noti il carattere letterario del ricorso al troncamento, come strumento utile a raggiungere il « numero », 4 non è dato riscontrare per l’epistolario una strategia coerente né una particolare tensione stilistica che investa questo fenomeno, anche se naturalmente, e ancora soprattutto nella prima parte del carteggio, non sono certo infrequenti le risposte dell’autore a sollecitazioni di tipo ritmico ed eufonico. 5 Colpisce il verbo, quasi sempre all’infinito, il tipo più diffuso di apocope postconsonantica. La casistica è ampia, ma il denominatore comune è la coesione tra i due elementi, fattore ritenuto necessario anche da Fornaciari, Gramm.8 : 63 : « in prosa si richiede altresì che la parola da troncarsi si appoggi, senza sospensione di senso, alla seguente ». Il verbo apocopato dunque può essere seguito dal compl. oggetto (copiar la sua opera 7, continuar la sua serie 10, acquistar fama 26, 165, nell’introdur la descrizione 944, produr conseguenze 1431 ecc.), da un compl. indiretto (d’inviar loro 9, giudicar delle cose 10, parlar di quello 299, ragionar teco 330, mancar dell’una 409, lasciar da parte 538 ecc.), può reggere un altro verbo (lasciar d’inserirlo 94, andar mendicando 242 ecc.), o essere seguito da un avverbio (mandar innanzi 26, sperar più 39, star bene 167, 334, arrivar nuovo 173, 183, 6 andar meglio 486, lasciar mai 530 ecc.).
1 Lapidario Migliorini 1960 : 626 : « in forte regresso è il troncamento sintattico ». Per l’incremento di forme apocopate dopo il 1840 negli scritti manzoniani rinvio a Savini 2002 : 47-50. 2 Per cui si veda Vitale 1992a : 33 e 1992b : 234-37. 3 Esemplifica bene, mi pare, il progressivo favore che acquistano le forme piene il trattamento di un sintagma, certo non di stampo letterario ma anzi vicino al parlato, come son certo (7, 28, 299, ecc. 1282, 1448, 1560, 1631 per 24 volte in totale) rispetto a sono certo che compare solo nella parte finale del carteggio (1380, 1432, 1769, 1956). 4 Zib 4028 : « l’uso de’ troncamenti è singolarm. proprio del Pallavicini, e de’ secentisti e de’ più moderni da loro in poi ». In realtà Leopardi intende dimostrare come in tempi di decadenza il troncamento, con altri accidenti, consenta di mantenere l’involucro di una forma che però palesa immediatamente la sua assoluta gratuità. 5 Per quanto riguarda Giordani, Fornaroli 1976 : 132 dopo aver rilevato l’altissima frequenza della figura, « che troviamo nella maggior parte dei casi possibili » sottolinea l’« evidente ricerca di eufonia nell’uso così esteso dell’apocope (più vicino al modo poetico che a quello prosastico) ». L’analisi delle varianti apportate dal piacentino al suo Panegirico a Napoleone ha permesso a Serianni 2000 : 264 di rilevare, nell’ambito di una generale riduzione di tratti di ascendenza letteraria, anche la diminuzione in diacronia della propensione al troncamento segnalata da Fornaroli. Anche nella corrispondenza con Leopardi la casistica relativa all’uso dell’apocope è tale che meriterebbe una trattazione a parte. Ho qui solo lo spazio per qualche rapido esempio : trovandosel già (99), ditel pure (104), far arrossire (42), far amare (52), cercar un poco (88), dar indizio (99), giovar io (153), dee lor credere, siam facili (56), abbiam detto (56), facciam l’impossibile (153), li lasciam dire (283), possiam noi (309), abbiam noi (1251), un uom nuovo (99), men cattiva (151) ecc. 6 Si tratta di due lettere identiche, accompagnatorie delle prime due Canzoni, stampate a Roma grazie alla cura dell’abate Cancellieri. Ecco l’incipit : « il mio nome sarà nuovo senza fallo a V.S. ma perché il suo non potrebbe arrivar nuovo a nessun italiano […] ».
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Opta per forme più scelte il troncamento, costante, 1 che si ha con la posposizione del pronome personale (espor lei 554, soffrir io 1788, neppur esse 242, neppur io 306, e soprattutto con l’avverbio ancora – sempre nel significato di ‘anche’ – ancor io 57, 396, 514, 1918 ecc., ancor egli 239, 534, 1918, ancor lei 1767, ancor voi 432, 1457, 1686, 1934, ancor lui 1110, ma ancora io 539), o del possessivo con accentuazione della connotazione affettiva (amor mio 346, 373, 466, 483 ecc. – l’amore mio 1923 – amor vostro 389, 396, 596, 1146, amor tuo 890, 1165, 1249, dolor suo 1282, dolor loro 1282, cor mio 1817, 1842, favor mio 398, 558, 581, 627, favor nostro 1297, 1298, onor vostro 651, onor tuo 949). Nell’ambito del sintagma nominale, frequente l’apocope del sostantivo seguito dal compl. di specificazione (promotor della fede 534, servitor di sala 551, scrittor di favole 663, odor di saccoccia 884, timor del caldo 1329, raffreddor di petto 1722, editor maceratese 1306, amor di Dio 576, 724, 971 ecc., amor di Patria 779, 1061, amor degli altri 1282, amor d’istruzione 1390, onor dell’autore 155, 277, onor dell’Italia 1147, ecc.), e più in generale del primo elemento nella sequenza determinato-determinante, certo più comune (proccurator generale 530, Direttor Generale 744, direttor postale 1616, servitor vero 778, 833, 865, autor principale 1126, scrittor classico 1245, traduttor francese 1623, amator caldo 1480, amor vero 949, favor possibile 1307, ecc.) : sarà da notare come entrambi questi tipi entrino nella lingua epistolare piuttosto tardi, a partire all’incirca dal 1823. Decisamente minore è l’incidenza del tipo che rovescia l’ultimo descritto e apocopa il determinante (picciol compendio 7, non ignobil fatica 7, cordial servo 306, principal sede 466, e anche davanti a vocale in maggior istanza 1298). Limitata a pochi casi, e tutti nella primissima fase della corrispondenza, è l’apocope vocalica dopo nasale, in particolare -m : « non ci dipartiam dal Petrarca » (7), « come sogliam dire » (10), « insiem con lei » (14), « non abbiam fatto niente » (31). Attraversa tutto il carteggio invece non tanto l’apocope sillabica di gran in coppia con un sostantivo, del tutto normale (tipicamente « È gran tempo che […] »), ma quella in cui l’aggettivo introduce un femminile plurale, circostanza che si verifica volentieri in lettere di carattere sostanzialmente informale : gran cose (458, 679, 1665), gran carezze (710, 1831 : « Ella ha preso a farmi di gran carezze »), gran doti (965) ; cui si possono aggiungere un paio di casi per il maschile (« Ma V. S. dice ottimamente che allora avremo gran poeti quando avremo gran cittadini » 227, « se volessimo seguire i gran principi prudenziali e marchegiani di mio padre » 299). 2 Nell’esempio che segue invece mi pare chiaro che l’apocope, notevole proprio perché colpisce l’elemento centrale di una terna, punta ad evitare la ripetizione cacofonica : « A momenti debbo avere occasione di scrivere a Melchiorri, e gli ricorderò la restituzion del Varrone » (836, il corsivo è mio). Stanno quasi ai punti estremi dell’epistolario due casi di mancato troncamento di formazioni aggettivali composte con -uno (da alcuno merito 80 e qualcuno altro 1774), di tipo analogo a quelle corrette da Leopardi in OM. 3 Sempre a proposito degli indefiniti, è da segnalare che alla generale osservanza delle norme correnti fanno eccezione
1 Nella maggior parte dei casi si tratta di apocope davanti a parola iniziante per vocale, da evitare « almeno in prosa » per Fornaciari Gramm.8 : 66-67, ma non per Gherardini App. 549 ss (secondo quanto riferito da Mengaldo 1987 : 54). 2 Il c.vo è mio. Fornaciari Gramm.8 : 66, nel paragrafo dedicato ai troncamenti irregolari precisa : « l’aggettivo sing. grande, tanto maschile quanto femminile, si tronca in gran davanti a un nome che cominci per conson. semplice, o per muta o f seguite da liquida […]. Di rado si tronca nel masch. plurale : i gran pregi ; e 3 Cfr. Vitale 1992b : 236-37. più di rado ancora nel femminile ».
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da un lato l’apocope in nessun pensa a voi 730, e in un de’ miei fogli 1715, 1 dall’altro al plurale – se non si tratta di una svista – ad alcun altri 894. Largo uso dell’apocope postvocalica nelle preposizioni articolate per tutto l’arco del carteggio, spesso a breve distanza dalle forme intere. Ciò accade in particolare in avvio di missiva laddove la necessità di attivazione del canale comunicativo obbliga a richiamare, attraverso l’indicazione della data, i precedenti cui si intende dar seguito : « Ricevo la sua graziosissima dei 12. Le mie de’ 13 e 23 di Ottobre […] » (374), « risposi subito alla tua dei 24 Maggio, e quella mia lettera non ti giunse. Dalla tua de’ 24 Maggio in poi non ho avuto altro da te, se non quest’ultima dei 9 corrente » (574) ; « la mia de’ 22 e l’altra de’ 26, e Zio Ettore quella parimente dei 22 » (710). In genere l’apocope è usata coerentemente nelle coppie o in formazioni composte da più cola : « de’ suoi mali e de’ miei » (422), « de’ pochi e de’ rari » (422), « non ti domando de’ tuoi casi, de’ tuoi pensieri, de’ tuoi studi (690), « de’ verbi e de’ nomi » (984). Al di là delle preposizioni articolate sono da segnalare le apocopi postvocaliche con le forme imperativali, come in sta’ poi sicuro (514) e fa’ quello che ti piace (820), mentre spicca l’unico caso di troncamento in que’ momenti (1922, del gennaio 1836).
Elisione. Indubbiamente nel complesso maggiore rispetto alle Operette, l’elisione nel carteggio sembra in aumento anche sul piano diacronico. 2 Lo si nota bene con l’articolo e con la progressiva emarginazione di forme non elise che nella prima parte del carteggio sembrano avere ancora una certa vitalità : la immortalità (9), la impostazione (125), la incredibile bontà (159), la infelicità (391), la insopportabile donna (460), la intenzione (644), la impresa (662, 1026), la interpretazione (743, 944), la insalubrità (772), la idea (831), la irregolarità (975), la inclinazione (875), la integrità (984), la impossibilità (1061), la impaginatura (1102), la intera (1147), la infame gelosia (1811). Per restare nell’ambito di un confronto con OM, significativo è anche il comportamento con i dimostrativi : a qualche esempio di mancata elisione con questo (questo effetto 26, 520, 553, 868, 1184, 1905 ; questo affare 296, 381, 520, 544 ecc., ma sempre con decisa attenuazione in diacronia) non se ne può indicare, a differenza di quanto riscontrato per le Operette da Vitale 1992a : 34, nessuno per quello. Ciò che manca invece in E è l’elisione con gli indefiniti alcuna e ciascuna, che OM presenta in qualche caso : alcun’altra (ix 226), alcun’immagine (xiii 3.20, 4.54), ciascun’opera (xiii 5.110), nessun’ingiuria (xii 102), nessun’arma (App. ii 60). Per l’epistolario trovo esempi solo con nessuna (che però si arrestano al 1827) : nessun’altra (176, 193, 194 ecc.), nessun’amicizia (744), nessun’alterazione (1066). 3 Particolarmente disponibile all’elisione è il relativo, sia con i pronomi personali (ch’io 36, 106, 1824, 1915, 1934 ecc., ch’ella 9, 21, 125, 136, 145, 1813 1946 ecc., ch’egli 106,
1 Mi pare sia anche da notare nessuno incomodo (624) come del resto le seguenti inversioni, vere e proprie costruzioni marcate, non ho segreto nessuno (373), non ha diritto nessuno (391), caso nessuno (648), ma credo di non far torto nessuno (1249). 2 La scarsa propensione all’elisione in OM è sottolineata da Vitale (« in generale, il Leopardi nelle Operette preferisce non elidere »), il quale tuttavia segnala come sia « imponente (se pur complessivamente minoritaria) la serie di elisioni introdotte nella correzione » (Vitale 1992b : 233). Se si tiene conto del fatto che l’introduzione dell’elisione riguarda non solo Operette dialogiche ma anche quelle più sostenute (come i o iv ad es.), si può confermare anche sotto questo aspetto minimo la ricerca in diacronia di una maggiore scioltezza e modernità della prosa. 3 Al contrario : « nessuna amicizia » (744, 1210), « nessuna edizione » (693), « nessuna occupazione » (538), « nessuna occasione » (1245).
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146, 1609, 1665, 1693 1934 ecc.), 1 con il verbo essere (ch’è necessario 145, ch’è nata 173, 183, ch’è 1639, 1811, 1946 ecc. ch’essendo 194, ch’era 241, 1562 ecc.), 2 o avere (ch’ebbi 21, 538, 542, ch’avete 1951, ch’ho 204, 242, 1803 ecc.), sia davanti a preposizione (fuor ch’a voi 194, ch’a un suo cenno 304). Ad un aumento in diacronia di forme elise va tuttavia affiancata la tendenza a ridurre i tipi più in contrasto con quel carattere di colloquialità e sveltezza che pure l’elisione contribuisce ad imprimere alla scrittura epistolare leopardiana : poche o sempre meno sono dunque forme come affinch’Ella 511, acciocch’ella 136, siccom’erano 174, siccom’era 193, vorrebb’essere 155, 729, 1026, potrebb’essere 468, 531, 730, 831, 866, dovrebb’essere 477 per tre volte, 693, 778, potrebb’ella 591, potrebb’essermi 601, sarebb’egli 1720. 3
2. Consonantismo 1. Sorde e sonore In posizione iniziale trovo solo gastigo (242) e gastigatezza (363*, apografo Viani), 4 ma poco oltre castigato (407) ; oscillazione che ritorna anche in P (gastigo i 51, e castigato xx 6). Una leggera preferenza per la sonora si nota pure in OM che ha gastiga (3a pers. sing., in I 496) e gastighi (sost., in xxii 164), mentre castigo è in appendice (App. iva 6) ; 5 ed è confermata da Zib, 6 che ai tipi più moderni come castigare (753), castigatezza (59, 375, 526), castigato (23, 4231), castigo (3317, 3456), affianca gastigarono (2707), gastigano (2707), gastigavano (568), gastighi (45, 2464, 2482, 3449, 3452), gastigo (936, 1362, 3449). 7 Maggiore vitalità, in E, presenta l’oscillazione che interessa il gruppo velare + r, 8 e
1 Alcune differenze si notano comunque se si considerano i totali dei riscontri : che io 344 / ch’io 547 ; che ella 202 / ch’ella 163 ; che egli 44 / ch’egli 40. 2 Sfiora il pareggio il risultato totale delle occorrenze per quanto riguarda almeno la terza persona del presente : che è 75 / ch’è 71. Per P invece pur nel contesto di una netta maggioranza delle forme elise (ch’io 9 / che io 1 ; ch’egli 6 / che egli 1 ; ch’ella 3 / ch’ella 1), proprio con la terza persona del verbo essere la forma intera prevale (ch’è 2 / che è 10). 3 Sull’utilizzo dell’elisione da parte di Manzoni sia nel romanzo sia nel carteggio, come accorgimento per avvicinare la scrittura alle « ritmate movenze del parlato », cfr. Savini 2002 : 50-51. 4 La prima occorrenza si trova nella lettera di congedo al padre (databile alla fine di luglio del 1819) in occasione del tentativo di fuga. Il contesto in cui si colloca il termine pare perfettamente bilanciato sia da un punto di vista retorico che da quello emozionale : « È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi » (242). La voce è censurata (« non è voce fin qui approvata ») da UF. 5 Cfr. Vitale 1992a : 34-35, il quale tra l’altro sottolinea la correzione di castigo in gastigo da parte di Manzoni (p. 34n). Si veda anche, per altri riscontri di primo Ottocento relativi all’intero gruppo, Antonelli 2003 : 121-25, con cui i rilievi leopardiani concordano sostanzialmente. 6 Il tipo con sorda iniziale tuttavia stava ormai entrando stabilmente nell’uso, come dimostrano i dati di SPM in cui si trovano 20 casi per castigo / castigare e appena 7 per gastigo / gastigare. 7 La sonorizzazione della consonante iniziale è assoluta in alcuni volgarizzamenti in prosa, come quello delle Operette morali d’Isocrate (gastigando PP** 1121, gastigare 1097 e 1126, gastigava 1127, gastighi 1129, gastigo 1126) e del Manuale di Epitteto (gastigherò, PP** 1052), e in EPA (gastigo, PP** 708). 8 Per la situazione settecentesca si legga Patota 1987 : 57 : « in consacrare, sacramento, sacrificare, sacro viene accolta costantemente la sorda, largamente maggioritaria nelle coppie sacrificio / sagrificio e secreto / segreto ; costante, invece, l’uso della sonora con lagrima e con i suoi derivati ». Gli spogli di Serianni 1986 [1989 : 184], confermano questi dati, che si allineano pure a quelli prelevabili da SPM. Per lacrima / lagrima ancora Serianni nota che il tipo con sonorizzazione è più frequente tra i settentrionali, mentre « lacrima è abbastanza diffuso tra i toscani » : Manzoni in effetti opta per lacrima nella quarantana.
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in particolare il latineggiante secreto (542, 600, 1282, -i 1282, 1715, -e 543) che alterna con il più frequente segreto (373, 738, 857 ecc., -a 544, -e 663, -i 1431) e anche segretissimamente (544). L’alternanza riguarda anche Zib, ma non P né OM che hanno solo segret-. Costante è invece la sonora in segretario (392, 481, 530, 538, 543 ecc.), mentre al contrario è esclusiva la sorda per sacro, sacramento e sacrifizio, -ficio (242, 543, 1026, 1698, ma sacrifizj 11, sacrifici 242, sacrificarlo 292). 1 Segnalo una sola occorrenza di lacrime (1457), rispetto a lagrime (407, 514, 520, 628, 744 ecc.). 2 Una situazione tutto sommato analoga si ritrova anche nelle altre opere in prosa, in modo particolare in Zib dove si ripresenta l’alternanza tra secreti (492, 641, 2425, 3472, 4225, 4239), secretissime (1465), secreto (809, 1765, 2471, 3604, 3917), e segreta (3307), segretamente (333, 4449), segreti (1834, 1856, 2707), segreto (339, 1462, 1536, 1852, 2471, 2472, 3470, 4293), segretezza (1536) ; l’assoluta predominanza della sorda per i composti di sacro (sono solo due le voci con la sonora : sagrifizio 23, -i 335), e la prevalenza di lagrima (4138), lagrimando (3106), lagrimata (3139), lagrime (3105, 3162, 3311, 4079, 4107), lagrimevole (160), su lacrima (268, 1677, 4217), lacrimevole (4517). Sono poi OM e P a dare una conferma alle tendenze, già di per sé chiarissime, di questi dati : in entrambe infatti si trovano solo esempi di segreto (OM iv 52, xxii 32, OM App. va 48, -a xvi 17 ; P -o viii 2, liv 6, -e i 30) ; nessuna occorrenza di sagr- e derivati (OM ha sacrificare i 232, xv 6.32, sacrifici i 414, sacrificio ix 175, Sacrobosco xxi 145) ; infine se le lagrime/lacrime sono bandite da P, OM ha lagrimare (xx 207), lagrime (xxii 477) su lacrimevoli (xiii 12.12). Per quanto i risultati non siano assoluti (ma per OM e P lo sono), si può configurare comunque una sorta di specializzazione della variante sonora per la prosa, di quella sorda per la poesia. 3 Per quanto riguarda invece il gruppo -tr-, 4 il carteggio non presenta alcun caso di sonorizzazione, per cui si ha nutrito (663), nutrir (1749), nutrite (1946). 5 Analoga la situazione per la sola dentale che è dunque sempre sorda : imperatori (7, 10), e costante servitor-, sia nelle formule di congedo sia altrove (come in 155, 201, 328, 342 ecc.).
1 Per sacro e composti sarà naturalmente da aggiungere anche consecrazione (10), segnalato al par. 2.1.2. Tali oscillazioni si ritrovano, direi con i medesimi movimenti, tra i corrispondenti del poeta : Monaldo ha sagrificio (547), sagrifizio (901) ; G. Melchiorri sagramentare (572) ; P. Brighenti sagrifizio (404, 592, 1096) ; C. Antici sagrificate (161), -ando (602), sagra (602), sagrificio (745) ; K. Bunsen sagri (1906). Pietro Colletta invece utilizza solo secreto (1407, 1504). 2 Tra gli interlocutori di Leopardi oscillano Monaldo (lacrime 1267, 1302 ma lagrime 1256, 1275) e Stella (lacr- 873 ; lagr- 873), mentre usano la forma con sorda Ranieri (1406) e C. Antici (161), quella con sonora Carlo (462, 507), Giordani (700), G. Melchiorri (457, 575) e Brighenti (333, 1502). 3 Per l’utilizzo delle forme con sorda nei Canti, come acquisto sistematico dovuto alla prassi correttoria, si veda Serianni 2009 : 38-39 : « in questo caso lo spartiacque stilistico è netto : lacrima e lacrimare (con lacrimevoli) si alternano con le forme sonorizzate nelle opere in prosa, mentre sono generali nei Canti e nei Paralipomeni (ma non nelle liriche non comprese nei Canti e nelle traduzioni poetiche), “come forme più elette” ». Da segnalare al contrario, in merito all’oscillazione secr-/segr-, che l’unica attestazione nei Canti della sonora è segreta, di cui si hanno due occorrenze, in Alla Primavera v. 53 e in Dal greco di Simonide v. 45. 4 I dizionari dell’epoca sembrano preferire la forma con sorda ed anche SPM ha pochi riscontri per l’allotropo sonorizzato : nutrire 67 / nudrire, nodrire 17. Cfr. Bricchi 2000 : 55, 80. 5 Così anche in OM e P. Appena qualcosa in più per Zib. Si veda a p. 4380 : « parevano immedesimate ne’ suoi pensieri e raccolte non tanto per nudrire i suoi studi, quanto per essere nudrite dalla sua mente » (il corsivo qui è mio, più avanti dell’autore) ; significativo il passo di p. 4287 : « Béqueter. Nutrire, nodrire – nutricare, nodricare. V. Forc. Frigere-fricasser » dove tra l’altro sembrerebbero andare insieme sonorizzazione consonantica e apertura vocalica. Nodrisce è invece a p. 2389. Tra i corrispondenti utilizzano l’allotropo sonorizzato Pietro Brighenti (nudrita 322), Monaldo (nudritivi 528), Antonio Fortunato Stella (nudrendo 1013, ma nutro 1242).
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Restano appena da segnalare i due casi di sonorizzazione in codesto (681) e codesta (1377), per il resto sempre cotesto (3, 119, 314, 1754, 1946 per 73 occorrenze totali) ; 1 e i 4 in lagune, -a (439, 468, 641, 1915), contro lacuna (545), 2 sempre in riferimento al danneggiamento dei codici, con conseguente perdita di parti di opere, eccetto che in 1915 (del 3 ottobre 1835) in cui è da intendere in senso traslato (« Vogliate dunque Voi stesso darmi con particolarità le nuove vostre, […] facendo sparire la laguna che il lungo silenzio passato ha posto non nella nostra amicizia, ma nelle nostre relazioni scambievoli », a de Sinner). 3
2. Palatalizzazione L’alternanza gn / ng interessa il verbo aggiungere che accanto al tipo moderno e predominante ha anche aggiugnerle (36), aggiugnere (67), aggiugne (786). Per il resto sempre giungere, ingiungere, stringere, costringere, ristringere (e forme derivate), secondo una tendenza largamente diffusa nella lingua letteraria e non dell’epoca. 4 L’arcaismo con nasale palatale si trova anche in altre opere leopardiane in prosa ma, esattamente come in E, compare solo in pagine giovanili, quasi come residuo di un apprendistato letterario non ancora completamente assorbito : 5 in Zib ad esempio registro aggiugne (1), aggiugnevano (16) ; 6 nelle Memorie del primo amore trovo aggiugnere (SFA 41),
1 Netta la preferenza di Leopardi per il tipo non sonorizzato anche altrove in prosa : in particolare è assoluta in OM, P e Zib. L’oscillazione è comunque ben attestata nella scrittura dell’epoca, ed emerge in particolare dagli spogli di SPM (codesto 48 / cotesto 46), ma tutto sommato anche dai corrispondenti : se a prediligere la sonora sono Monaldo (codeste 522, 968, 1429, -i 942, 1333, -o 1145, -a 1252, 1425) e Brighenti (codeste 385, 1031, -i 1104, 1117, -a 317), a utilizzare solo la sorda sono Giordani (cotesta 172, -i 63, 104, -o 212, 841), Carlo (cotesta 540), Paolina (cotesta 1219, -i 470), P. Colletta (cotesti 1515, -e 1514), C. Antici (cotesto 1907) e F. Cancellieri (cotesto 394). Oscilla invece un autorevole esponente dell’editoria milanese come A. F. Stella (codeste 43, 824, 872, -o 1100, 1169, 1216, -a 780, 1057 ; cotesto 1052). 2 Aggiungo qui gli altri casi del tipo con sonora nel resto dell’opera leopardiana, precisando che solo in prosa laguna vale ‘mancanza’, mentre in poesia il senso è quello moderno, geografico : lagun- in Zib (219, 420, 1297), Paralipomeni (1.12, v. 4 e 7.38, v. 6), Appressamento della morte (2.72), Discorso su Frontone (PP** 935). 3 Cfr. Scavuzzo 1988 : 36 per laguna con il significato di “mancanza”. In SPM laguna 18 / lacuna 8, ma solo il tipo con sonora è in accezione geografica. TB, Manuzzi, Diz. Minerva, Tramater non indicano preferenze tra i due tipi, ma danno sempre come significato principale “quantità non piccola d’acqua morta” o simili. Crusca VR e Masi non hanno neppure come significato secondario quello testuale. Tra i corrispondenti trovo laguna in una lettera di G. Melchiorri (572, ma lacuna in 680), mentre lacune è in 900, di A. F. Stella. 4 Serianni 1986 [1989 : 167-70] presenta una messa a giorno della situazione primottocentesca al riguardo (ma da vedere è anche Serianni 2009 : 96-97, da cui l’osservazione che nell’Ottocento « giugne regredisce ulteriormente, nella poesia più nettamente ancora di quanto non avvenga nella prosa »). Basti dire che tra i dati registrati da SPM e riportati da Serianni proprio aggiugnere fa registrare una maggiore resistenza rispetto agli altri verbi (61 occorrenze contro 128 per aggiungere). Si veda poi anche Antonelli 2003 : 119 : « la palatalizzazione del nesso -ng- appare dunque come un tratto in nettissima decadenza, limitato all’uso di scriventi in varia misura arcaizzanti ». Per i corrispondenti : di contro a sei casi del tipo moderno, Giordani ha giugnervi (192) e giugner (736), così come G. Melchiorri ha aggiugnervi (438), e giugneranno (457), mentre più diffuso il tipo in palatale per A. F. Stella (soggiugnendole 696, aggiugnere 858, aggiugnerò 873, 907 ecc.) e in particolare assoluto, tranne un caso contrario, per P. Brighenti (giugnerà 180, giugneranno 221, giugnessero, 359, aggiugnendovi 281 e così per 13 volte). Colletta accanto a giugneranno (1428), giugnere (1436, 1523) ha anche vegnente 1428 (2 v.). 5 La prima occorrenza del tipo con palatale, aggiugnerle (36), coincide in effetti con la prima missiva rivolta a Giordani, con la quale Giacomo accompagnava la Traduzione del libro secondo della Eneide : rientra in sostanza tra i primi esempi di lettera formale, in cui il tono, di ossequiosa deferenza, doveva essere di necessità elevato. 6 Segnalo in nota giugnere a p. 3288. Dal contesto si rileva che la forma è quella messa a lemma dalla Crusca.
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aggiugnici (PP**1173) ; la Titanomachia di Esiodo ha aggiugnere (PP* 596), e in poesia, l’Appressamento della morte ha giugne (ii 33), piagne (i 11, ii 43), piagnendo (v 35), piagneva (ii 159), spignea (i 66). Segnalo a parte vegnente (1915 e 66*, copia di Paolina), registrato tra l’altro come tipo principale ancora da Crusca iv e TB, 1 che ha riscontri anche in EPA (PP** 697, 763, 828), in Zib (3459), in P (iv 13), e inoltre, in poesia, nell’Inno a Nettuno, ma in nota al v. 150 (PP* 332), e ai versi 134 e 217 della Palinodia al marchese Gino Capponi. Una sola attestazione, e sempre in copie di Paolina, registro per pognamo (60*), piagnere (66*), soggiugne (66*) e soggiugnete (103*), ma i tipi oggi correnti sono dominanti : poniamo (194, 227, 553) ; piango (310, 391, 618 ecc.), piangere (514, 542, 600 ecc.), pianger (1257), piange (927 ecc.) ; soggiungeva (288), soggiungere (170, 551, 580, 855), soggiunge (339*) ecc. Rimando al § 3.4.1. per altri casi di palatalizzazione della consonante tematica finale del verbo.
3. Assibilazione L’affricata palatale in sacrificj/-o conta due sole occorrenze, ma significative : in 11 e 242 infatti è utilizzata contemporaneamente al tipo con affricata dentale (sacrifizj, e sacrifizio). Si tratta di lettere, di ben diverso tenore, indirizzate al padre : la prima, dell’agosto del 1815 inviata a Macerata, è soprattutto un esercizio di stile per un giovane che confida (assieme ai fratelli) i propri sentimenti di affetto e le proprie preoccupazioni per i travagli a cui è esposto il padre, mentre la seconda che non porta la data, ma è collocabile alla fine di luglio del 1819, è la dura e sofferta lettera che doveva accompagnare la progettata fuga da Recanati. Due lettere lontane l’una dall’altra ben più dei quattro anni che cronologicamente le separano, ma certo entrambe meditate e rilette nelle singole parti come nel tutto : testimonianza la prima di un formidabile percorso formativo, che ha condotto l’adolescente Giacomo ad una già sicura padronanza non solo dello strumento linguistico ma anche del suo utilizzo retorico ; denuncia di un cuore sfibrato e disperato (in senso proprio) la seconda, in cui la commozione corrosa dall’amarezza e dal rancore non toglie lucidità al pensiero ma ne affila e ne avvelena i dardi. Due lettere di tenore così diverso, nel conservare entrambe a poche righe di distanza i due allotropi sembrano lasciare una traccia della loro neutralità, del bilanciarsi all’orecchio come all’occhio, se alla differente qualità della consonante si aggiunge il fatto che per segnalare il plurale Leopardi sceglie comunque il grafema -j, di lì a poco eliminato dal sistema (cfr. 1.1.1). È da tener presente innanzitutto che « mentre Crusca I, pur usando promiscuamente, nel corpo delle voci, forme di entrambe le serie, lemmatizza i tipi con palatale, [nei dizionari dell’]Ottocento le forme principali risultano generalmente quelle con affricata dentale ; talora solo in quanto aprono la serie delle varianti, senza che si possa ricavare con sicurezza se i lessicografi abbiano inteso sancire l’effettivo predominio di un tipo sull’altro ». 2 In linea generale si può dire che anche Leopardi usa più spesso i tipi con dentale, sia nella scrittura epistolare sia nelle altre opere in prosa. Per
1 Per il Tramater : « part. di Venire, usato per lo più come add., com. in luogo di Venente ». 2 Serianni 1986 [1989 : 187]. Alla stessa pagina sono da vedere in dettaglio le indicazioni dei vocabolari per le parole più frequenti (vale a dire artifizio, benefizio, edifizio, sacrifizio, uffizio e varianti).
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E sono comunque da rilevare, accanto ai due esempi citati, le seguenti voci con palatale : beneficj (5, 165), supplicio (36), pronunciarne (9), pronunciato (49*), e per la sonora dispregio (392, 1587), dispregiava (396). A queste poche presenze, quasi tutte collocabili cronologicamente nella fase di avvio delle relazioni epistolari del poeta, e quindi in data molto alta, reagisce compattamente la serie con dentale : sacrifizj (11, 242), sacrifizio (242, 543, 1026, 1698), 1 benefizio (347, 391, 392, 468 ecc.), -i (1198), benefiziato (825) ; 2 pronunziarlo (167), pronunziata (663), pronunziatone (1760), pronunzia (66*, copia di Paolina) ; disprezzarsi (7), disprezzo (241, 1319), disprezzato (31, 296, 327, 391 ecc.), disprezza (299), disprezzare (327), disprezzatore (460) ecc. ; sempre con -zi- inoltre artifizi (460) e artifiziali (1095) ; rinunziare (28, 304, 531, 852 ecc.), rinunzio (292), rinunziato (296, 591, 1588, 1693), rinunziarsi (551), rinunziando (833, 1198) ; e anche giudizio (9, 26, 31, 106 ecc.). 3 Una decisa preferenza per l’allotropo palatalizzato, sia pure in un contesto di più spiccata oscillazione, si nota sia per officio (80), uffici (174, 177, 179 ecc. per 13 occ. tot.), ufficio (251, 288, 310 ecc. per 14 occ. tot.), ufficiali (551, 570), rispetto a uffizio (176, 251, 396 ecc. per 15 occ.), uffiziale (551, 852, 969) ; 4 sia per servigio (31, 468, 606, 662, 713, 1147), -i (389, 569, 1911), contro servizio (335, 511, 612, 855, 1957), -i (435, 1093). 5 Sempre con palatale invece commercio (9, 288, 292, 320 ecc.), tranne che in 320 dove al normale « il nostro commercio epistolare » si contrappone a poche righe di distanza « il commerzio civile ». L’assetto descritto è, come detto, sostanzialmente confermato dalle altre opere in prosa, anche se per qualche voce si notano orientamenti diversi : in Zib è per esempio più frequente la serie in dentale per uffizio (68, 164, 553 per 16 occ. tot.), uffizi (68, 270, 354, 570, 913, 918, 2607, 3276, 4517), ufizj (4397), uffiziale (2424), -i (1518, 3887), offizio (2445, 2999), contro uffici (2609, 2905, 3271, 3272, 3277, 4378), ufficii (913), offici (1445, 2610), ufficio (3, 976, 1226, 2402, 2892, 3365, 4250), officio (3008, 3222, 3223, 4355), ufficiale (4247) ; 6 mentre per OM è la palatale ad essere più frequente in sacrifici (i 414), -o (ix 175) e in beneficio (i 243, i 402, i 438, i 474, ix 225, x 183, xiii 1.33, xiii 10.2, xv 3.95, xv 6.17), benefici (i 330), beneficii (xi 225), contro benefizi (xiii 12.23, xv 5.29, App. ii 34, App. iv 161), benefizio (v 107, xvii 136 e 216, xx 152, xxiv 309). Se nel passo « si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro » (OM v 96-98, mio il corsivo) è possibile pensare ad una ricerca di variatio nell’alternanza tra
1 Pur registrando una prevalenza del tipo con affricata dentale – 29 presenze contro 24 per sacr- / sagrificio –, i dati di SPM non sono decisivi. 2 Manuzzi, con Diz. Minerva, Cardinali e Masi : « Beneficio e Benificio che i più moderni dicono anche Benefizio e Benifizio ». Tramater da benefizio rimanda a beneficio, al contrario di TB che dichiara beneficio meno comune. 3 Cfr. Serianni 1986 [1989 : 186] : « a dar conto del carattere arcaizzante del tipo etimologico, basterà osservare che in SPM a 4 esempi di giudicio se ne contrappongono ben 160 di giudizio ». 4 Ancor più netti sono i dati di SPM : 119 -ci- / 29 -zi-. 5 Da segnalare che ciascuna forma copre tutte le accezioni con cui è impiegata l’altra, così che non si può definire una specializzazione semantica. Ufficio e uffizio ad esempio sono entrambi utilizzati sia per indicare il servizio postale e il luogo fisico in cui si riceve e smercia la posta, sia come termine religioso per la liturgia delle ore, sia con il significato traslato di “compito, responsabilità” ecc. 6 OM e P stanno per queste voci dalla parte di E. OM : uffici (i 74, i 248, iv 21, iv 105, ix 53, xxiv 211), ufficio (i 450, xi 223, xii 210, xiii 1.67, xvii 145, xxi 169), officiale (ix 268), contro due soli casi di uffizio (v 97, xxi 23) ; P : uffici (lxxii 3), ufficiale (xliv 13), ma uffizi (xvii 2).
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affricata dentale e palatale, lo stesso forse non si potrebbe dire per Zib 2905, benché in un periodo estremamente ricco di riprese lessicali e parallelismi sintattici spicchi proprio la diversa qualità consonantica del termine in questione che compare nelle due specie a poche righe di distanza. 1 Al di là della visione complessiva e panoramica offerta dai rapporti numerici, l’utilizzo in due lettere scritte nello stesso giorno, entrambe di carattere formale e tono sostenuto, delle due forme concorrenti (uffizio 176, uffici 177) pare attestare la sostanziale disponibilità e pari dignità dei due allotropi. In linea con le considerazioni di inizio paragrafo si può forse dire che tale condizione va in generale attribuita all’intera serie ; a cui però è da sottrarre annunzio/-are costante in tutto il corpus leopardiano (unica occorrenza dell’opzione con palatale è annunciò in SA (Binni 708.ii). 2
4. Scempie e geminate Va segnalata innanzitutto la presenza di uno sparuto gruppo di parole che conservano, accanto a quella moderna di gran lunga prevalente, una grafia latineggiante (magari sostenuta anche dal francese). La serie è ben localizzata nella primissima fase della pratica epistolare di Leopardi : 3 commodo (14), incommodarla (9, 10, 27), incommodi, -o (14, 16, 27, 313, 398) ; communi (11, 13) ; 4 communicarmi (16), communicandomele (282), communicato (534, a Monaldo), communicarci (538, a Carlo), communicazioni (1223, a
1 Ecco il passo iniziale del brano, che ha come tema le differenti funzioni del coro nelle opere antiche e moderne : « Nelle nostre Opere serie e buffe l’effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener quel personaggio, e quindi dal muovere quelle illusioni e far quegli effetti che faceva nelle tragedie antiche : ond’è ch’esso riesce forse meglio nelle opere buffe, quanto all’effetto morale, giacchè muove pure all’allegria, e fa come l’uffizio, così l’effetto che produceva nelle antiche commedie, né il muovere all’allegria, ch’è pure una passione, è piccolo effetto morale » (Zib 2905). 2 Si veda anche in proposito Vitale 1992a : 38 : « Il Leopardi nelle Operette alterna pure egli le forme più ricercate della tradizione toscanista e quelle letterarie più correnti e per lui più comuni, senza per altro che si riesca a riconoscere un intento distintivo in correlazione con il tono stilistico delle singole operette ». Si può inoltre notare che le oscillazioni tra le due forme si trovano anche tra i corrispondenti del poeta, i quali si comportano tuttavia in vario modo. Monaldo ha sia ufficio (491, 547, 839, 1267, 1284, 1311), e officiale (491), che uffizio (815, 821), -ii (1284) ; sia benefizii (815, 821, 892, 901, 913), -o (815, 821, 830, 839, 892), che beneficiati (821), -o (821). Giordani accanto a rinunziare (99) ha rinunciato (309), con la serie compatta disprezzino (52, 63), -ezzo (92, 116), -are (92), -ezzi (92), -armi (99), -ano (1012), ha anche dispregi (1968) ; alternanze confermate anche da Fornaroli 1976 : 134. Brighenti ha uffizio (221), -i (434) e ufficio (322), -i (402, 1752). Per Vieusseux uffizio (1171) e ufficiale (1513). Per Bunsen infine registro rinunziare (760, 1486) e rinunciato (770). 3 Se per Leopardi si tratta di un fenomeno destinato ad essere ben presto superato, non così per una parte dei suoi interlocutori, le cui oscillazioni si protraggono per tutta la parabola dei loro rapporti epistolari con il conte recanatese. Si tratta non solo di scrittori che gravitano nell’orbita culturale e sociale romana, ma che nella loro scrittura affiancano a questo altri tratti arcaizzanti : Giuseppe Melchiorri ha incommodato (427), incommodarvi (441), incommodo (835, 1505), communicassi (438), communicai (695), commodo (441, 562, 649, 664, 683), commandi (449, 562, 654), commandatemi (457), commandami (665), commune (695), ma comodissime (575), comunicarmene (449), comune (613, 649), comunemente (680) ; Carlo Antici commune (386, 672), -i (856), commodo (667), communicarvi (672), communicato (956), ma comunicarsi (161), -vi (718), -gli (1912), comune (732, 1648), comunicata (981), incomodo (823, 956), -i (847), incomodare (956) ; Karl Bunsen communicò (760), communicherei (760), communicazione (770, 827), -i (1486), commodo (770), communicarle (827), ma comunicazione (760), comunicarvi (1906). 4 Commodo (e incomm-, accomm-) e commune (ma come proposta di correzione per un testo poetico) sono segnalati anche nell’epistolario di Nievo da Mengaldo 1987 : 47. Si tratta tra l’altro di grafie approvate da Gherardini (cfr. anche Migliorini 1960 : 625).
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Paolina), cruciare (82*), 1 imaginazione (1362, a Monaldo). 2 Ho indicato i destinatari per le poche voci di data più tarda per far notare come la ripresa a distanza non assuma un valore ulteriore rispetto al compatto gruppo di latinismi delle prime lettere, ma sia più vicina al mero accidente, o semmai al relitto di una fase anteriore, che può tra l’altro convivere con il rispettivo allotropo (come in 1362 dove è presente anche immaginazione). Le forme latineggianti dunque, che su tutto l’arco cronologico di E si riducono a poca cosa, nelle prime lettere non solo convivono con i tipi moderni, ma li superano di un buon numero. Per le altre opere in prosa occorre invece distinguere : da un lato OM e P che privilegiano in assoluto le forme più correnti (dei tipi citati più sopra OM ha solo cruci, i 353), 3 dall’altro Zib in cui convivono i due tipi, con una maggiore – rispetto alle lettere – resistenza sul piano temporale di alcune forme più vicine all’etimologia. Zib ha dunque commune (458, 546, 2075, 2080, 3289, 4307), e poi communica (27, 3281), -abile (224), -ando (3863), -ar (4284), -arci (69), -are (488, 592, 2430, 2896), -arsi (488), -arti (139), -ata (2734), -ati (2940), -azione (840, 3662, 1015), communichino (487), communione (3788, 3802) ; imaginazione (3085, 4465, 4479), -i (14), imagine (6, 13, 1805, 2847, 4453, 4480), -i (10, 13, 14, 1804, 1805, 1813, 1987, 3822). 4 E e Zib si muovono nella stessa direzione anche in merito ad altre oscillazioni che rientrano comunque in una serie ben attestata nella prassi scrittoria ottocentesca : se
1 « In che modo il pensiero possa cruciare e martirizzare una persona », copia di Carlo. Segnalo un cruciato in Zib 4176, in cui vi è la nota descrizione del giardino come « vasto ospitale » : una pagina lucida e commossa al contempo, drammatica ma come vista e detta da una lontananza incolmabile, ormai asciutta di pianto. Giordani ha invece cruciosi (42). Da segnalare TB : « Crucciare e Cruciare […] segnatam. nel senso di Tormentare, per più chiarezza avrebbe a farsi colla C scempia, e così lo pronunziano in certi dial. ; ma l’uso più conforme al Tosc. è Crucciare ». 2 L’assoluto dominio della forma con geminata nei repertori e nella prassi scrittoria è sottolineato anche da Serianni 1986 [1989 : 188-89]. Per l’epistolario manzoniano si veda Savini 2002 : 29. Un paio di casi tra i corrispondenti sono tuttavia degni di nota. Il fratello Carlo innanzitutto, che ha imaginartelo (462), imagine (462), imagina (462), imaginare (535), imaginazione (548), imaginato (721), ma come ultima occorrenza trovo immaginazione (996). Il dominio del tipo latineggiante in Giordani invece non stupisce se non per la coerenza che spesso per questi aspetti, come già più volte evidenziato, gli difetta. Qui invece, contro il solo immaginare (1632), registro la serie imagini (52, 754), imagino (52, 295, 426), imaginate (108), -ato (212), imaginare (116, 153, 258, 496, 700, 1695), imaginarvi (192), imaginavo (217), imagino (295), imaginartelo (326), imaginarti (426). Serianni 2000 : 263, segnalando l’attenuazione dell’impiego di latinismi (tra cui anche imagine) nelle correzioni al Panegirico a Napoleone sembrerebbe, sia pure implicitamente, confermare l’affermazione di Fornaroli 1976 : 133 secondo cui « mentre negli scritti pubblici è nettissimo l’adeguamento alla fonologia toscana sostenuta dalla Crusca […], nelle scritture private, le lettere e il libello polemico [Il Peccato Impossibile] che fu lasciato senza compimento, prevalgono chiaramente le forme con le semplici, che non andranno ricondotte a un avvicinamento alla fonologia dei dialetti settentrionali, difficilmente pensabile in uno scrittore così attento alla lingua come il Giordani, ma a un’influenza delle corrispondenti forme latine presente in tutta la tradizione, nella quale questa oscillazione è largamente testimoniata ». 3 Si veda a proposito Vitale 1992a : 43 e pure, per il processo variantistico che testimonia l’acquisto di forme moderne (in particolare per il passaggio susurro → sussurro e proccur- → procur-, su cui più sotto), Vitale 1992b : 238-39. 4 Sul piano numerico, come detto, non c’è partita : per restare al solo sostantivo basti dire che mentre le occorrenze di imagine sono appena 6, per immagine si sale a 74. Può essere interessante segnalare che in PR, steso nella prima metà del 1818, compare solo imaginare (PP** 362) contro ben 79 occorrenze di voci con la geminata. Vale la pena di riportare quanto alla voce imagine precisa TB (GB e RF non riportano il lemma) : « V. IMMAGINE cogli anal. Anco la pronunzia fiorentina, secondo l’etim., fa sentire una M sola in Imagine, ma due negli altri voc. Non essendo, però neanco ai Fiorentini inusit. dire Immagine, a questo, per l’uniformità, gioverebbe attenersi ». Il tono in qualche modo prescrittivo (e l’assenza della croce d’arcaismo) sembra implicitamente attestare l’oscillazione nell’uso.
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in E troviamo diriggere (125, 1705), e diriggersi (588) insieme a dirigere (637, 713, 720, 1050), dirigerlo (840), diriger (927), dirigermi (1269, 1786), in Zib abbiamo dirigge (346), diriggere (90, 550, 551, 1687, 1912), diriggono (570), ma solo dirigevano (3432) ; 1 se nel carteggio esiggono (11) e esiggere (596), sono superati dalla forma con scempia (esigono 1560, esigere 292, 622, 624, 1770, esige 580, 693, 724 ecc.), analogamente in Zib abbiamo esigge (565), esigger (1306), esiggono (3778) su cui vince esige (1980, 2923, 3085, ecc. per 12 occ. tot.), esigendo (3166), esigente (3555, 3721, 4195, 4250), esigentissime (278), esigerà (3086) ecc. Un più scoperto influsso francese si deve segnalare per l’alterato commodino (840, nella stessa lettera compare anche comò) che mantiene la doppia della base d’origine. 2 Se cammino per ‘camino’ è ben attestato nell’Ottocento, e non solo in scrittori settentrionali, 3 registro qui camminetto (1198, 1588, 1228, ma caminetto 1828*, copia di Sofia Leopardi), che compare solo nel carteggio (entrambe le forme sono a lemma, con diversi esempi, in TB). L’oscillazione ubriaco/ubbriaco è all’epoca ancora lontana dal risolversi a favore della scempia : benché i dizionari comincino a porre la scempia accanto al tipo con raddoppiamento, rinviando tra l’altro da questo a quella, 4 i testi sembrano tutti orientati verso -bb-. Opta sempre per la doppia Leopardi il quale, se in E ha solo ubbriaco (831), in Zib ha anche ubbriaca (4323), ubbriachezza (109, 152, 1779, 1856, 1975, 3905, 3906, 4080), ubbriaco (2566, 4524) ; in OM ubbriaca (ix 180), e ubbriachezza (xvii 124 e 138). In giuntura scempie e geminate seguono per la maggior parte gli esiti moderni pur con alcune oscillazioni che riflettono le divergenze di una codificazione grammaticale e lessicografica non ancora univoca. 5 Nessuna incertezza si coglie nel raddoppiamento fonosintattico delle parole composte con contra- o sopra-, 6 mentre in altri casi si tratta di una, due o pochissime occorrenze – e tutte ancora una volta collocabili nella fase iniziale del carteggio – della forma poi destinata ad uscire dall’uso, come ad esempio abbruciasse (483), abbruciate (706 ; forma attestata anche in Manzoni, cfr. Antonelli 2003 : 113). Riconducibili ad a- iniziale sono anche avvanza (3) contro avanzar, -e (155, 554, 1957), avanzo (177, 179, 299, 334, 1799), -ato (251, 1131), -i (504, 1798),
1 La maggior diffusione del tipo con geminata trova conferma nel rimanente dell’opera leopardiana, dove le occorrenze della forma con -g- sono appena 7 contro le 15 di -gg-. Antonelli 2003 : 110n, cui rinvio anche per i riscontri testuali e i rinvii bibliografici, sottolinea che « Diriggere ha una grande circolazione sette-ottocentesca anche settentrionale e anche letteraria ». 2 Tramater, Diz. Minerva, Manuzzi, Cardinali, TB non hanno riscontri, così come SPM. Trovo commodino da notte solo in Gherardini, Supplimento. Noto che il Dizionario francese dell’Alberti ha commode nel significato di “armadio”. 3 Una nota del Tommaseo in TB precisa anzi che « più generalm. si pronunzia con due M, Cammino ». 4 Il tipo con raddoppiamento è l’unico proposto dalla Crusca (solo in Crusca iv si trova la forma con la scempia, ma il lemma principale resta con la doppia), mentre TB dà per normale ubriaco. D’Alberti e Tramater rinviano dalla forma con la doppia a quella con la scempia. L’unico riscontro (ma in assenza di casi contrari) di ubriaco tra i corrispondenti si ha in 1101, lettera firmata da Monaldo. 5 Sulle diverse oscillazioni si può vedere la rassegna di Antonelli 2003 : 112-16. 6 I tre casi di sopratutto (473, 600, 1767) saranno da mettere in relazione con l’altra più rilevante oscillazione tra la grafia staccata e il tipo con rafforzamento (su cui cfr. 1.1.4.). Si può aggiungere che Zib ha un solo caso per sopratutto (1062), mentre OM e P non ne hanno nessuno. Qualche incertezza solo tra sopraffina (288, per due v.) e soprafina (282, 284, 288) in cui per la prevalenza della scempia avrà influito anche il riferimento alla carta real fina (28), o carta fina (200*) ; altrove riscontro solo sopraffina, ma nel sintagma « l’arte più sopraffina » (Zib 4271).
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avanzamenti, -o (531, 538, 1006, 1914) ecc. ; addottata (5) contro adottato (1127), adottare (1375), adottiva (1911). Nel settore delle congiunzioni noto invece fratanto (289) rispetto a frattanto (3, 9, 158, 877) ; acciochè (3) ma poi costante acciocchè (64, 334, 432, 570, 574 ecc. per 16 occ. tot.), acciocch’io (1763), acciocch’ella (136). In questo contesto va inserito anche comecchè (39). Le oscillazioni più rilevanti riguardano le parole introdotte da pro- : è il caso di proferire (448), proferite (448) e profferire (174), sempre nel senso di ‘proferire parola’ ; proferte (1266) e profferte (396), in entrambi i casi ‘offerte’ ; 1 ma soprattutto di procurò (106), procura (348, 939), procurerò (744, 914, 1693), procurar (866), procurata, -e (1141, 1269), procurarmi (1858, 1923) che pur attraversando quasi tutto l’arco cronologico dell’epistolario resta tuttavia forma minoritaria rispetto all’allotropo, presente con proccuratimi (5), proccurarmi (11, 14, 288, 327, 504 ecc. per 11 occ. tot.), proccurargli (125), proccurare (125, 381, 400 ecc.), proccurarne (442, 534, 527, 591, 779 ecc.), proccura, -i (241, 392, 508, 678), proccurava (242), proccurerò (373, 409, 706, 738), proccuriate (432), proccurarono (445), proccurarti (466, 1126), proccureremo (504), proccurò (511, 777), proccurarsi (520, 1262), proccurarle (542, 1006, 1631), proccuraste (596), ecc. per le altre forme. 2 Considerando che le uniche occorrenze con la scempia in Zib sono procurarli (4518), procurarvi (4501), procurato (922), di contro ad una larghissima maggioranza di forme con raddoppiamento, si possono leggere le correzioni apportate dall’autore a OM, 3 che rendono progressivamente assoluto l’uso del tipo con consonante semplice, come l’introduzione di una forma letterariamente più corrente, anche se personalmente non abituale. Si tratterebbe in sostanza di una sorta di resistenza della scrittura individuale, e più privata, ad accogliere innovazioni ormai di largo uso. Se ne ha una conferma in poesia in cui trovo solo proccura nel « Pompeo in Egitto », vv. 373 e 665 (PP* 853, 863), di contro ad una serie di occorrenze con la scempia (oltre che ad es. in Al conte Carlo Pepoli v. 9, anche nelle prose legate ai Canti, come nella dedicatoria e nella prefazione dell’ed. del 1824, nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, ecc.). 4 Da segnalare alcuni esempi di voci che in E vengono utilizzate una sola volta, o in pochissimi casi, e comunque sempre nella forma meno comune : dai toscanismi letterari abborrivamo (241), abborro (242), abborrono (1785), a abbomino (714, 1686), abbominevole (1767) ; dal raddoppiamento tradizionale in opere rettoriche (743) ; allo scempiamento altrettanto anticheggiante in comenti (693, 713, 906, 961, 991), comentatori
1 Gli unici due esempi con la scempia in Zib sono proferisse (4384) e proferiva (4323), ma poi profferenza (2954), profferir (2954), profferire (4091, 4259, 4429, 4444), profferirebbero (3076), profferirla (3276), profferirono (2994), profferisti (4243), profferita (245), profferite (2949). Sempre con la doppia anche in OM ; profferir (xviii 7), profferire (xiii 2.137), profferte (i 281) ; e P : profferendotisi (lxxviii 20), profferire (c 10), profferisce (c 46), profferte (lii 2, lii 4). 2 Maraschio 1993 : 183 segnala che già in Crusca iii procura aveva sostituito proccura. Tra i dizionari dell’800, da un lato D’Alberti, Tramater e Diz. Minerva pongono le due forme sullo stesso piano, dall’altro RF e GB danno solo il tipo con la scempia, e infine TB e P denunciano come arcaismi le forme con la dop3 Per le varianti cfr. Vitale 1992b : 238-39. pia. SPM ha solo casi con -c-. 4 La particolarità della scelta leopardiana spicca anche dal confronto con i corrispondenti, che quasi senza eccezioni utilizzano solo il tipo con la scempia. Ecco i riscontri : Monaldo 495, 528, 547, 815, 901, 1002 ; Carlo 937 (ma proccurasse 1124) ; Paolina 556, Giordani 52, 56, 171, 228, 258, 496, 573, 1472, 589, 1251, 1458, 1497 ; Brighenti 190, 1752, 221, 230, 325, 898, 1104, 1049, 1532, 1752 ; Vieusseux 607, 616, 853, 1222, 1441, 1690 ; Melchiorri 441, 447, 575, 579, 649, 664, 680, 695, 680, 733, 1750 (ma proccurare 835) ; Stella 33, 51, 1004, 1043, 1115 ; Antici 128, 156, 151, 667, 923.
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(693, ma commentario 14, 612). 1 Uniche le occorrenze di aggradevoli (542) da un lato e innalzati (520) dall’altro. 2 Solo di E è stassera (1815, 1824) che tuttavia « era forma piuttosto comune nell’Ottocento », 3 ma anche tra i corrispondenti del poeta non compare che in Brighenti (898, 1733). Ad una estensione per analogia della tendenza dei proparossitoni alla geminazione della consonante postonica (che si ritrova in pantoffola 845, voce che TB, P, RG danno regolarmente con la scempia) 4 sarà dovuto il raddoppiamento in Giulio Affricano (16) e semiaffricano (1888) ; ma Africano (sempre Giulio in 14, 16, 1715, 1749). 5 L’analogia con altre forme del verbo può dar conto di compiacciuta (9) e compiacciate (637) rispetto a compiaciuto (27, 31, 167, 401, 468, 713, 978, 1390), e compiaciuta (398, 558, 581, 627, 641, 714, 831, 1663). Registro inoltre compiaciamo in Zib (505). 6 Restano da segnalare infine le uniche occorrenze nell’opera leopardiana di bagatelle, -a (1956, 127*, 1620*) cui risponde compatta la serie bagattelle, -a (3, 136, 435, 474, 494, ecc. per 19 occ. tot.), a cui si aggiunge bagattellissime 517* (apografo Viani). 7
5. Altri fatti La specializzazione segnalata e documentata da Serianni 1986 [1989 : 185-86], 8 tra il verbo conchiudere da un lato (eventualmente alternante con concludere) e il sostantivo conclusione dall’altro vale per Leopardi, e sarà significativo, solo per OM che ha esclusivamente conclusione (iii 64, viii 169, xviii n. 56, xx 286 e 291), conclusioni (xiii 7.32 e 7.68, xv 1.56, xvi 81), mentre per il verbo a concludeva (xv 1.108), -cluse (xv 7.26) si oppongono conchiude (x n. 21), -chiudendo (xvii 148), -chiudere (xii 155, xxi 4.272), -chiudesi (xvii 242, xix 23), -chiudete (xxiv 231), -chiudeva (xv 2.130 e 4.104), -chiudi (viii 79), -chiudo (vii 115, ix 245, x 131), -chiudono (xvii 66), -chiusa (xxiv 281). Se in Zib l’oscillazione, pur marcata, rimane all’interno delle coordinate individuate da Serianni, 9 accogliendo tuttavia nella medesima pagina entrambe le forme del sostantivo (conchiusione e
1 Cfr. Vitale 1992a : 43-45 per i rispettivi riscontri. 2 Per TB « più com. inalzare ». Alla voce inalzare poi si trova solo il commento « In Fir. lo pronunziano con un’enne sola ». Largamente maggioritaria la forma con raddoppiamento nell’opera di Leopardi : gli otto casi che si trovano in prosa per inalz- sono tutti in Zib (2026, 2618, 3189, 3339, 3495, 4493) ; mentre in poesia l’unico esempio con la scempia si ha nella versione del 1824 dell’Inno ai Patriarchi, v. 47. 3 Cfr. Scavuzzo 1988 : 39, e bibliografia citata. Per il periodo che qui più interessa la LIZ dà 4 esempi, rispettivamente di Foscolo (dalla Traduzione del “Viaggio” di Sterne), Borsieri (nelle Avventure letterarie di un giorno), Pellico (Le mie prigioni), Nievo (Novelliere campagnolo). L’oscillazione è anche nelle lettere di 4 Moroncini (n. 819) ha però pantofola. Manzoni (cfr. Savini 2002 : 34). 5 In tutta l’opera leopardiana registro solo tre occorrenze di Africa : in EPA in una nota al cap. xii (PP** 802, n. 6, nel contesto di una citazione latina) e in Zib (3577, 4265). Per il resto sempre Affrica. Cfr. Serianni 1989a : 156n : « La stabilizzazione di Africa, promossa dal modello latino e francese e insieme dall’italiano dei non toscani, è molto recente : ancora alla fine del xix secolo i fautori di Affrica erano numerosi e vivaci ». 6 Un paio di casi di compiacciuta anche nel carteggio di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 34). 7 Concordemente i dizionari hanno la doppia, ma nessuno ha però il superlativo. La geminata è preferita anche da Manzoni, come segnala Savini 2002 : 29-30. 8 Il passo è utile, come sempre, anche per le informazioni sui repertori. Significativi inoltre i dati di SPM : conchiudere 90 / concludere 19 ; conchiusione 7 / conclusione 21. Per OM si veda anche Vitale 1992a : 40. 9 Almeno per il sostantivo dal momento che per il verbo è in genere maggioritaria la forma tradizionale in -chi-. Le altre occorrenze nello scartafaccio sono : per concludere e sue forme 97, 125, 281, 357, 378 ecc. per 29 volte / conchiudere e sue forme 18, 203, 273, 335, 418 ecc. per 48 volte ; conclusione, -i 449, 579, 1753, 2213, 2448 ecc. per 16 volte / conchiusione 2529, 2576, 3404, 3473, 4269.
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conclusione in 4169), 1 P rovescia la situazione e fa registrare solo conchiudo (xciii 11) e conchiusione (xxi 14, lii 10). La forma latineggiante, con il nesso -cl-, destinata ad imporsi, ha la meglio in tutti i casi – sia pure di poco – solo in E : concludeva (538), -clusi (538), -cludente (553, 554), -cluso (576, 744, 1306), -clusa (600), -cludenti (697), -cluderebbe (965), -cludono (984), -cludere (1025), -clude (1765), e per il sostantivo conclusione (984, 986, 991), mentre conchiusi 538, -chiudo 1149, -chiuder 1803, -chiuderebbe 1821, e -chiusione 542, 553. Anche qui le due forme possono convivere nella medesima lettera e a breve distanza, come si può notare in 538 indirizzata al fratello Carlo. 2 Analoga è la situazione per le altre voci composte con la medesima base, vale a dire accludere (594), e accludo, -a (55, 251, 304, ecc. per 16 occ. tot.), -cludeva (430) che prevale su acchiudo (27, 32, 94, 734, 1105), -chiusa (1666, 1720, 1815), -chiudervi (1692), -chiuderò (1692) ; e includo (304), -clusa (241), su inchiuse (149*). Per il resto OM ha solo inchiude (vii 34) mentre Zib ha inchiude (2946, 3178), -chiudono (1874), ma poi includa (1696, 1915), -clude (1090, 1450, 1454 ecc. per 13 volte), -cludendo (1800, 2035), -cludendosi (2189), -cludente (4256), -cludere (2283), ecc. per le altre forme. Letteraria, anche se ancora ben diffusa nell’Ottocento, la palatale in cangiare (1716), cangi (825), cangiato (1610, 1765, 1785, 1956), cangiamenti (591, 697, 1914, 1956) : la forma è utilizzata soprattutto nella seconda parte del carteggio ma rimane tuttavia minoritaria rispetto al più comune cambiare (26, 1541), cambiamento (94, 158, 1915), contraccambiare (145), cambiò (458), camb- (1106, 1603, 1619, 1637 ecc.), ricambiare (391), ricambiarle (23). 3 Anche in questo caso OM e P vanno in direzione contraria : per OM cambiamento (xiii 11.49), cambiata (xxiv 8 e 87), -o (xxiv 300, App. ii 33) non sono sufficienti a scalzare il predominio di cangiamenti (App. iiic 140), -o (xix 138, App. iiia 47 e iiib 85), cangiano (xiii 11.59, xvii 164, xix 69, xxii 357), cangiar (xii 82), cangiasi (xix 103), cangiata
1 La legittimità delle due forme vista in una dimensione storica si può cogliere, di scorcio, da questo passo di Zib (2283 ; corsivo e maiuscoletto sono dell’autore) : « Antica pronunzia e scrittura del verbo che poi ordinariamente si disse claudere fu cludere, conservata sempre ne’ composti, recludere, includere concludere, excludere e in tutti o quasi tutti gli altri. Vedi il Forcell. e Frontone sulla fine dei Principia Orationum (quem iubes CLUDI) il qual Frontone era studiosissimo dell’antica ortografia, e il codice che lo contiene è antichissimo. Or questa antica maniera, e ad esclusione della più moderna, si è conservata nell’ital. chiudere, mutato il cl in chi al nostro solito. Dunque il volgo latino continuò sempre (certo in Italia) nell’antica pronunzia di quella voce ». 2 Per questo fenomeno i corrispondenti del poeta si dividono nettamente in due gruppi ciascuno dei quali utilizza coerentemente uno dei due allotropi. Monaldo : concludetemi (541), -cludente (549), -cludersi (549), -clusione (549) ; Carlo : concluso (498, 524), -clude (540), -clusione (471, 721, 1129) ; Brighenti : concluso (291), -cludere (587) : Melchiorri : concluso (575) ; e invece Giordani : conchiude (192, 196), -chiudere (192) ; Vieusseux : conchiudere (1232), -chiusione (1710). Solo Paolina ha una volta conchiudere (550) e un’altra concluda (783). 3 Vitale 1992a : 41 nota che « Leopardi sembra invece preferire in età più bassa » la conservazione del nesso -bj-. Si vedano ora anche le osservazioni di Serianni 2009 : 41. I dati di SPM indicano la prevalenza, sia pur di poco, di cambiare (84 casi) su cangiare (79). L’alternanza è registrata anche dagli spogli di Masini 1977 : 44-45 sui giornali milanesi più tardi, e addirittura in Bonomi 1973 : 189, su alcuni del primo Novecento. Le due forme sono messe alla pari da TB (ma per ricangiare c’è il rinvio a ricambiare e la croce d’arcaismo) e in sostanza anche da GB, mentre cambiare è consigliato da RF (« di forma e suono più schiettamente italiano ») e P (per cui ad essere « non popolare » era il tipo con palatale). Manzoni, come noto, passa dal cangiare della ventisettana al cambiare della versione definitiva del romanzo. Tra i corrispondenti del poeta risultano assoluti solo in Brighenti (cangiatasi 317, cangiarmi 322, cangiate 425) i tipi palatalizzati, che per il resto fanno solo sporadiche apparizioni : Monaldo ha cangiano (541), Giordani cangiato (105), Melchiorri cangiamento (673), Stella cangi (1043), Antici cangia (585).
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(xix 103) ; 1 mentre P ha solo cangiamento (xxxix 67), cangiano (l 17), cangiarsi (lxxii 17), cangiata (xxxii 9). L’alternanza tra le due forme in Zib è certo molto alta, ma in vantaggio è comunque, in analogia con E, il tipo con bilabiale : cangia (672, 1712, 2907, 3815, 3886 ecc.), cangiamenti, -o (330, 897, 1280, 1338, 1517 ecc.), cangiando (616, 1757, 4273, 4286), cangiandosi (3259, 4132), cangiano (74, 923, 2010, 4489), cangiar (632, 4002), cangiare (155, 865, 921, 1762, 2385, ecc.), cangiarla (1946, 2080), cangiarlo (946, 1127), cangiarsi (3184, 4008, 4053), cangiata, -e, -i, -o (576, 1201, 2871, 2997, 3056 ecc.), cangiatore (3769) contro cambia (412, 447, 460, 465, 897 ecc.), cambiamenti, -o (133, 1058, 2002, 2066, 3288 ecc.), cambiamo (135, 4256), cambiando (665, 1058, 1192, 2002, 2323, 3417), cambiandosi (2065, 3260, 3980, 4064), cambiano (1263, 1278, 1284, 1333, 1513 ecc.), cambiar (91, 300, 1079, 1128, 1561 ecc.), cambiare (294, 1062, 1154, 1213, 1219, 2002), cambiarle (3179), -i (1223), -o (3287), cambiarsi (1561), cambiasi (2824), cambiasse (405), cambiatala (2302), cambiata, -e, -i, -o (25, 206, 1201, 1320, 1514, ecc., 4521). 2 Affronto in chiusura di questo paragrafo la questione relativa alla conservazione, « non puramente grafica », 3 dei nessi dotti. Alle pagine 3980-81 dello scartafaccio leopardiano, nel contesto di un brano in cui si denuncia e condanna « l’inesattezza e latinismo comuni a tutte le ortografie moderne », Leopardi, scagliandosi in particolare contro la lingua francese accusata di disporre di una ortografia imperfetta in quanto troppo ancorata alla lingua madre latina e di conseguenza lontana dalla reale e attuale pronuncia, prosegue segnalando che
il contrario è avvenuto ed avviene ancor tuttavia (conformandosi sempre al nuovo modo di pronunziare, o conformandosi alla pronunzia dove l’antica ortografia non vi si conformava ; come p.e. oggi tutti scrivono ispirare e simili, laddove tutti gli antichi inspirare, sia che così pronunziassero, sia che latinizzassero in questa scrittura) nell’ortograf. spagn. e massimam. nell’ital. che perciò sono perfette, o quasi, e certo assai più della francese vicine alla perfezione […]. (14. Dec. 1823.).
Nonostante questa netta presa di posizione i nessi dotti e latineggianti non scompaiono dalla scrittura di Leopardi, anzi, per OM possono essere anche il risultato del recupero di una lezione iniziale corretta in una fase precedente, intermedia (cfr. Vitale 1992b : 254). Per restare proprio al verbo citato da Leopardi (non presente in OM) è da sottolineare come non solo la grafia dotta alterni con la corrente ma, pur rimanendo minoritaria, sopravviva anche in data molto bassa : per E inspirano (627), inspirarmi (641), insperatamente (713), inspira (1153, 1590), ma ispirano (466, 1432, 1811), ispirarsi (474), ispirato (515, 628, 1493), ispira (531, 580), ispirazione (618) ; per Zib inspira (261), inspirare (3981, 4284), inspirato (26, 3935), inspirava (1840), inspiravano (4106), in
1 Va tenuto presente che su 11 occorrenze totali della forma palatalizzata ben 5 si trovano in OM xix, il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, mentre altre tre si rintracciano nei testi posti in appendice all’edizione critica (Besomi 1979). La forma in questione si rivela quindi peculiare di quell’operetta, tolta la quale il tipo moderno risulterebbe in assoluto vincente. 2 In poesia, a parte un cambiato della versione del 1818 di Sopra il monumento di Dante, v. 138, sostituito da mutato nell’edizione definitiva, si ha sempre il tipo in -ng- (per restare a C : cangia ne Il primo amore, v. 93 e Alla luna, v. 9 ; cangiar in Al conte C. Pepoli, v. 79 e Sopra un bassorilievo, v. 39 ; cangiati in Consalvo, v. 106 ; cangiato ne Il Risorgimento, v. 27). 3 Vitale 1992a : 42. Cfr. anche Antonelli 1996 : 129 e 2003 : 117-18. Manzoni, come noto, interviene nell’edizione del ’40 dei Promessi Sposi per eliminare queste grafie latineggianti. In modo analogo si muove il Manzoni epistolografo (si veda Savini 2002 : 34-35).
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spirazione (3976), -i (4324), inspirò (3145), e ispira (37, 59, 87, 356, 464, ecc., 4032), ispirando (1861), ispirano (711, 1677, 2646), ispirar (3411, 3449, 3647, 4284, 4423), -are (261, 1861, 3142, 3147, 3310 ecc.), ispirargli (99), ispirata (409, 735, 3106, 3350), ispirataci (1339), ispirate (26), -i (388, 421), -o (374, 2646, 3028, 3155, 4236, 4348), ispiratrice (4357), ispirava (2808), -avano (1677), ispirazione (13, 17, 3129, 3227, 3269, ecc., 4486), -zioni (4221), ispiri (75), -ino (114), -ò (2739, 3147) ; P invece ha solo ispirano (lxxiv 6), ispirare (xv 2, lxi 2). Per le altre voci l’oscillazione è molto minore, ciò che permette di cogliere con più evidenza la peculiarità di OM, che si colloca su di un lato opposto rispetto a P in cui si registrano (anche se unicamente per tre occorrenze) solo i tipi moderni. E e Zib, ancora una volta solidali, presentano accanto ad una larga maggioranza di forme senza nasale anche qualche occorrenza in cui i nessi dotti sono conservati : se in OM si incontra solo instituì (i 185), instituti (i 276, xv 1.18), -o (iv 2, xii 159, xiii 5.12), instituzioni (viii 147), 1 in P si ha solo istituto (xlv 2) e istitutore (civ 32), mentre in E accanto a instituto (693) si registra istituzioni (334, 855) e in Zib ad instituti (3225), -o (683, 726, 2979, 3627), instituzioni (4256, 4289, 4359), rispondono istituita, -e, -i, -o (38, 164, 1443, 3256, 3544, ecc., 4013), istitutori (3418, 3432), istituzione, -i (67, 114, 573, 576, 577, ecc., 4507). In E rilevo inoltre la presenza anche di instantemente (596, 627), instantissimamente (1293) e pure istantemente (14, 193, 369, 558, 569, ecc., 1731) ; 2 di instanza (1637), ma anche istanza, -e (27, 80, 713, 714, 861, ecc., 1298). Da un lato dunque, anche in virtù della prassi correttoria, le Operette assumono questi tipi con coerenza fino a renderli assoluti, 3 dall’altro Zib ed E, ed ancor più P, che, supportati da precise prese di posizione sul piano della riflessione linguistica, imboccano una direzione diversa e più stretta al presente. Tale orientamento non è di certo messo in discussione dalla persistenza di forme concorrenti a poca distanza l’una dall’altra o addirittura nella medesima pagina. 4
1 Non sarà forse senza significato che le forme correnti si trovino nelle operette poste in appendice all’edizione critica curata da Besomi, che raccoglie il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio espunto da Leopardi nell’edizione del ’35, e altri abbozzi « direttamente collegabili alle Operette, per cronologia genere e affinità tematiche », cfr. Besomi 1979 : lxxxix. In appendice dunque si trovano : istituendo (vc 184), istituto (vc 168 e 194), istitutore (va 13). 2 Il significato è quello di TB : « con istanza », cioè ‘con premura’, ‘fortemente’ e simili. 3 Tranne che per istante, sola forma usata : vi 82, x 117, xi 110 e 122, xiv 164, -i xi 108, xii 173, xiv 167. 4 Zib 3976 (corsivo mio) : « Se v’ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non v’è poesia degna di questo nome) è il malinconico ».
4. MORFOLOGIA 1. Nomi
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scillazioni di genere interessano il sostantivo fonte al singolare, come femminile in 466 (« l’unica fonte ») e 690 (« altra fonte »), e come maschile in 504 (« non t’inganni a credere che le mie effusioni ec. vengano più da politica che da altro fonte »). Lo stesso avviene per il plurale fonti, femminile in 663 (« segrete fonti »), 1934 (« alle fonti »), maschile in 679 (« in una città priva affatto di libri moderni, massimamente in materia filologica, io non posso neppure indicarle in particolare i fonti che io preferirei ») e 114* (« a quegli esempi che mi erano capitati qua e là in vari libri, senza andare ai fonti, ne sostituisco nella cartina altri venutimi sotto gli occhi »). Nonostante il numero esiguo di riscontri, la situazione di E è accostabile a quella di Zib dove pur prevalendo in ogni caso il femminile è al singolare che si registra lo stacco maggiore : alle 9 occorrenze di fonte maschile (ma distribuite lungo tutto lo scartafaccio : 3, 26, 168, 413, 1888, 2782, 2980, 3727, 4349) si contrappongono ben 84 casi di fonte femminile ; 1 al plurale invece il rapporto è di uno a due (fonti [masch.] : 26, 64, 345, 444, 757 ecc. per 10 occ. ; fonti [femm.] : 41, 110, 738, 744, 764 ecc. per 20 occ.). 2 Per restare alle alternanze di genere è da segnalare il maschile per fine con il significato di “termine” (ma non per Leopardi con quello di “morte”), del resto comune all’epoca. 3 Trovo il maschile in 32, 158, 198, 413, 591 ecc. per 14 volte, ma il femminile è presente in un numero ben superiore di casi (419, 466, 503, 545, 558 ecc. per 25 occ.). 4
1 Femminile e maschile possono anche alternarsi nella stessa pagina, nell’ambito del medesimo ragionamento, come in Zib 168 : « l’immaginazione come ho detto è il primo fonte della felicità umana » e poco oltre « gl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte più copiosa di piaceri ». 2 In OM trovo solo il femm. al sing. in xvii 210 e al plur. in xv 6.73, xix 52. Nelle altre opere in prosa, se si eccettua P in cui il termine non ricorre, è il maschile ad essere più presente (al sing., masch. 9 / femm. 4 ; al plur., masch. 9 / femm. 8). In poesia la situazione pare più equilibrata : « Nè guidasse per gioco i lupi al fonte / il pastore » (Inno ai Patriarchi, v. 96) ; « Parla al mio core il fonte » (Il Risorgimento, v. 99) ; « Tu sola fonte / D’ogni altra leggiadria » (Il pensiero dominante, v. 133) ; « Ed alle età venture unica fonte ! » (Palinodia al March. G. Capponi, v. 153) ; sempre femminile poi nei Paralipomeni della batracomiomachia (ii.28, ii.31, vi.45), e maschile nella traduzione delle Poesie di Mosco (iii.104, v.n1). Com’è noto i dizionari offrono esempi di entrambi i tipi senza prendere posizione. Si veda su tutti TB : « S. m. e f. Aff. al lat. aureo Fons ». Solo nella V edizione della Crusca si precisa « che nel parlar familiare è più spesso di gen. femm. ». Serianni 2009 : 16162 nota tra l’altro che l’uso al maschile « è abbastanza diffuso anche in prosa, almeno fino all’Ottocento ». Nessuna occorrenza del termine tra i corrispondenti. 3 Cfr. Vitale 1992a : 49, anche per i riscontri da OM ; e poi Antonelli 2003 : 129. La prevalenza del masch. in Giordani è segnalata da Fornaroli 1976 : 135 e confermata dai riscontri del carteggio con Leopardi (fine masch. in 104, 134, 162, 262, 415, 700, 1605 ; femm. solo in 138). Savini 2002 : 58-59 attesta invece nell’epistolario manzoniano la specializzazione tra masch. con il senso di ‘scopo’ e femm. con quello di ‘termine’. 4 In poesia (e qui l’opzione andrà anche misurata in base a ragioni di carattere metrico) è più diffuso il maschile. Canti : « E delle gioie mie vidi la fine » (Le Ricordanze, v. 6), « questa invocata morte / Sarammi allato, e sarà giunto il fine / Della sventura mia » (Le Ricordanze, v. 96), « Vedova è insino al fine » (Il tramonto della luna, v. 66) ; Paralipomeni della Batracomiomachia : « i topi, omai ridotti al fine / Per fatica e per tema » (i.10) ; Appressamento della morte : « Perch’al fine i’ ristetti a quell’orrore, / E mi rivolsi… » (i.78), « E al fine un punto fu che ’l cor non resse » (ii.119), « tanta gente cerca morta terra, / Per lo suo fine e per l’autor suo primo » (iii.24), « passo per lo buio calle, / Sì ch’iva al fine come neve lento » (iii.36) ; Poesie di Mosco : « Or poichè
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Con i nomi di città oscillano Milano (al maschile, come nel dialetto e nell’italiano dei milanesi, in 710, 1708* ; al femminile in 31, 738) e Recanati (al maschile in 557, 975, 1694, 1534*, 66* ; al femminile in 246*). 1 Passando al plurale, l’unico caso di uscita in -i, alternativa a quella più comune in -a che continua il plurale latino dei neutri della seconda coniugazione, è corni (3) 2 a cui risponde però corna (474, 1184). Per il resto sempre braccia (465, 474, 805, 1126, 1966*, 85*, 215*, 232*), labbra (391, 554, 246*), ciglia (10), ossa (10), miglia (412, 465, 730, 1158, 1799, 1946). 3 Delinea una situazione nel complesso analoga a quella descritta per OM da Vitale 1992a : 50 l’oscillazione al plurale tra orecchie (177, 984, 246*) e orecchi (1249, 1354) : 4 se qui rispetto alle altre opere in prosa l’uscita in -e supera di numero quella maschile in -i, sarà la cronologia a dare un’indicazione di preferenza. Orecchi infatti è ovunque maggioritario, e in particolare in Zib dove il rapporto è di 31 occorrenze contro 13 del tipo in -e. Segnalo che al singolare Zib presenta anche orecchia per 6 volte, ma si tratta sempre di passi in cui centrale è la riflessione linguistica che sottolinea la derivazione da auricola (come in 981, 2281, 2864, 4053). Di particolare interesse, mi pare, il plurale latti che compare in 1639 (a Monaldo) nella serie « carni, latti, frutta » : se non si tratta di un mero lapsus calami, potrà essere stato indotto per via analogica proprio da carni (in ogni caso si tratta di un hapax). 5 Da notare inoltre frutta, 6 che sarà da intendersi qui come plurale viste le concordi attestazioni nel resto dell’opera leopardiana : 7 in Zib delle frutta (228), quelle frutta (1099),
giunto / fu del lavoro al fine » (iv.123) ; Saggio di traduzione dell’Odissea : « Tornato uccise : e pur l’acerbo fine / Che l’attendea » (i.49), « Ma d’aspro fine / Egli è perito » (i.225). 1 Cfr. Rohlfs § 389-a. La situazione ottocentesca, che presenta diverse oscillazioni, è ben sintetizzata in Antonelli 2003 : 128-29. L’uso al maschile di nomi di città che non terminano con -a è segnalato per Nievo da Mengaldo 1987 : 60. La locuzione « a recineto condito » in 60* permette di constatare come il maschile per Recanati si rifacesse anche all’originario nome latino. Usano il maschile per Recanati sia Monaldo (942), sia Giordani (52, 63, 1458), sia Brighenti (492), mentre il femminile si trova in una lettera di Paolina (« Recanati è divenuta Capo Distretto » 1219). 2 Sulle peculiarità di questa lettera si è già discusso. Noto tuttavia che la stessa forma, sia pure con valore metaforico, è usata da Paolina in 523 (« Gli parlavate dei corni di Mariuccia »). Cfr. Antonelli 2003 : 127, con riscontri che evidenziano la netta marginalità dei plurali in -i (anche per le altre forme citate). 3 Per queste voci la coerenza di Leopardi è assoluta. In prosa infatti non si registra nessun caso di plurale in -i, mentre in poesia noto solo corni nel secondo idillio di Mosco, v. 167 (ma corna in ii v. 76, ii v. 119, ii v. 205 ; PP* 492-99), nella prima ode del secondo libro di Orazio del 1809, v. 24 (EDG 127), nel Catone in Affrica, viii, canzone, v. 57 (EDG 262) ; labbri al v. 20 delle Rimembranze, al v. 91 di Per una donna inferma di malattia lunga e mortale. Per l’oscillazione tra i due tipi di plurali, -a / -i, rimando a Scavuzzo 1988 : 46, Serianni 1986 [1989 : 189] e Mengaldo 1987 : 60-61 che puntualizza l’origine settentrionale di alcuni plurali in -i di Nievo. 4 Sulla progressiva affermazione del plurale in -i si veda l’esauriente saggio di Gritti 2001, in particolare per la situazione ottocentesca alle pagine 330-32 (ma i dati su Leopardi, in particolare per Zib, differiscono dai miei). 5 La carta 1199 dell’AIS attesta il singolare latti, ma solo in zone meridionali e in parte della Sicilia e della Sardegna. Al plurale è usato anche da Melchiorri (« Questa voce stà frà li latti, e formaggi » 835) e compare tra gli esempi allegati da TB alla voce latte (« Erano tanti burri e tanti latti », l’esempio è chiosato come « Fam.Fig. »). 6 Unica occorrenza in E, che per il resto ha sempre frutti (483, 661, 1226, 286*, 232*). Frutta è utilizzato anche da Melchiorri : « speranza di doviziosissime frutta » (427), « tutte le derrate, grani, vini, oli, quadrupedi, volatili, pesci, carni, erbe, frutta » (680). 7 A proposito di un plurale fusa letto in un frammento di Simmaco scoperto ed edito dal Mai, Leopardi riflette sulla presenza di una serie di plurali in -a che continuerebbero i plurali dei corrispettivi neutri latini. Dall’esistenza di fusa si potrebbe dunque ricavare quella di fusum, benchè non attestato dai vocabolari. Così che « si potrebbe dedurre che l’antico volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum,
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le frutta (1182, 1699, 3645), queste tali frutta (4204), e inoltre in OM (i 194), SA (Binni 609.i), EPA (PP** 819), Descrizione del Sole per i suoi effetti (EDG 29), Dissertazione sopra la felicità (PP** 492), mentre in poesia trovo « E di frutta di mare empier la pelle » ne I nuovi credenti, v. 25 (PP* 397). 1 Due casi di uscita in -e, di tradizione culta, per il plurale di trista 1946 (« ma triste necessità, delle quali […] fino alla più trista di tutte », a Monaldo) e 999* (« le tue lettere son triste », al fratello Carlo) trovano riscontro sia in Zib (« quelle triste verità » 317, 3768, 4410) e OM (xx 311, xxii 137), sia nelle Operette morali d’Isocrate i (PP** 1080). 2 Al singolare invece segnalo questi casi di uscita in -a : trista fortuna (330), -a consolazione (520), -a nuova (671), cosa allegra o -a che sia (744), -a condizione (1035), vita oscura e -a (1045), -a solitudine (1422), -a necessità (1946), -a storia (1949), -a salute (107*), alla più -a (122*) ; cui fanno da riscontro per Zib : trista esperienza (85, 122, 464), -a ora (151), -a devastazione (350), -a molla (521), -a sensazione (644), -a morte (2989), -a necessità (3278), -a immaginazione (3681), -a poesia (3976), -a condizione (4107), -a vita (4176 e 4418), -a persona (4229), -a età (4284). L’alternanza è con tristo (« Io vivo qui molto malinconico, solitario e tristo » 781, 831, « tristo me » 877, 1044, 1123, 935*) dunque non con triste, che non è mai utilizzato. 3 Vediamo ora i suffissi. Per l’alternanza -iere/-iero riscontro solo forestiere (468, 504, 574, 659, 1211, 1724, 66*) accanto a forestiero (21, 321, 1587, 1934, 1957), oscillazione che sul piano numerico si stabilizza in un equilibrio sostanzialmente confermato anche da Zib in cui -iere è usato 49 volte e -iero 47. Per il resto E ha sempre pensiero e mestiere ponendosi sulla stessa linea del resto dell’opera leopardiana in cui si incontra pensiere solo al v. 41 di Sopra il ritratto di una bella donna, nella dissertazione Sopra le doti dell’anima umana (Diss 333), e mestiero solo due volte in Zib (211, 2164 ; di contro a 17 occorrenze di mestiere). 4 Nel Manuale d’Epitteto inoltre trovo bicchiero per due volte (Binni 497.i). 5
sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi anche diciamo le mura, le pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine […]. Fructa e mura neutri plurali si ritrovano anche nel latino barbaro (Du Cange) […] » (Zib 1182). Cfr. Rohlfs § 368. Sui plurali in -a si veda anche Serianni 2009 : 164-65 ; per Leopardi invece rinvio a Vitale 1992a : 52 il quale tra l’altro, nel saggio dedicato alle correzioni manzoniane, sottolinea i numerosi passaggi, dalla Ventisettana alla Quarantana, dei plurali in -a nei corrispettivi in -i (Vitale 2000 : 58, n. 206). 1 Trovo certe frutte solo nel Martirio dei santi padri (PP** 1026). Nei dizionari dell’epoca (Manuzzi, Tramater, Diz. Minerva) frutte è dato come plurale regolare di frutta, che a sua volta è anche plurale femminile (accanto a frutti maschile) di frutto. TB è il più esplicito nell’indicare che frutta può valere come singolare e plurale. 2 In poesia si vedano almeno : « con le triste o con le buone » v.7, « Van per l’alto ad ogni ora anime triste » vii.48, nei Paralipomeni ; « Ahi triste rane » ii.3, ne La guerra dei topi e delle rane ecc. 3 Per OM, innanzitutto, cfr. Vitale 1992a : 51n. Per la situazione nei giornali dell’epoca cfr. Masini 1977 : 57, e per i carteggi Antonelli 2003 : 128. Savini 2002 : 59 segnala due casi per triste femm. plur. nell’epistolario manzoniano. Nessuno dei corrispondenti di Leopardi utilizza al plurale l’uscita in -e, mentre per -a al singolare registro, per Monaldo, trista sorte (528) ; per Giordani, t. vanità (109), t. cosa (1458) ; per Brighenti, t. fortuna (377, 425), t. reminiscenza (425) ; per Melchiorri, t. sorte (597). 4 Tra i corrispondenti trovo in Monaldo pensiere (495), fuorestiere (815) ; in Carlo pensiere (540, 753), anche postiere (471) ; in Giordani pensiere (47, 700) ; in C. Antici pensiere (585), sentiere (704) ; in Cancellieri pensiere (25, 29, 157). Per la lingua dell’Ottocento si veda anche Fornaroli 1976 : 134, Mengaldo 1987 : 59, Savini 2002 : 60, Antonelli 2003 : 130, e ora Serianni 2009 : 160-61. 5 Migliorini 1960 : 647 nel sottolineare come « lo scambio fra -iere e -iero » sia « larghissimamente ammesso », segnala un bicchiero per Borsieri.
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Vale la pena forse di segnalare qui l’oscillazione, che in realtà sul piano diacronico si risolve in passaggio da una forma all’altra, tra amatore (38, 227, 743) e amante (831, 1006, 1715, 948*, 1508). Con medesimo suffisso in -ore sono anche spenditore (1725), e parlatore (1775). 1
2. Pronomi Per la terza persona il pronome soggetto di gran lunga più utilizzato per il singolare maschile è egli, 2 per il femminile e come allocutivo di cortesia ella. 3 Le alternative esso ed essa fanno registrare poche presenze : in particolare il maschile esso è usato molto parcamente per soggetti animati (trovo appena « fra poco potremo ricominciare a parlare insieme per lettera esso ed io » 453), e quasi sempre in contesti marcati, in unione con medesimo (« l’editore […] si offerse, qualche tempo fa, di stamparlo esso medesimo a proprio conto » 477, 772, 722* ; così anche per il femminile essa medesima 530, 1123) 4 o anche (« Ma si lamentava anch’esso del tuo silenzio » 557), oppure propriamente con funzione di aggettivo dimostrativo (esso stampatore 288, essa Signora 1749). 5 Al maschile si incontra, ma solo nella primissima fase e in lettere di tono diverso, anche il toscano e letterario ei (365, a Pietro Brighenti dell’8 dicembre 1820 ; 107*, a Giordani ; 122*, ad Angelo Mai ; 246*, a Saverio Broglio d’Ajano), 6 mentre l’unico caso
1 Cfr. Rohlfs § 1146 : « in latino -ator serviva a formare nomi di persona a seconda di una loro attività caratteristica ». Si può vedere a proposito lo stesso Leopardi a chiusura di una lettera a Trissino : « per rispetto suo mi perdoni e la povertà del donativo, e quella del donatore » (220). 2 Per un quadro sull’uso ottocentesco dei pronomi personali soggetto di terza si veda Antonelli 2003 : 130-37 e bibliografia ivi citata ; per Leopardi rinvio a Vitale 1992a : 65-66 e Ricci 2003 : 98-99 con cui concordano i miei spogli. Per la seconda persona segnalo solo un caso di estensione dell’obliquo con funzione di soggetto : « Ma non volerla usare [la salute migliorata] mentre sarà facile che te n’abusi » (369, a Giordani ; si tratta però di una minuta autografa). 3 L’uno e l’altro sono usati in qualche caso anche con soggetti inanimati. Per egli si veda 651 (« credo che quell’opera vi debba pur essere di non piccolo profitto anche per l’interesse, che vale anch’egli qualche cosa ») e 1044 (« Ti scrivo dunque per ricordarti l’amor mio (benchè non creda possibile ch’egli t’esca di mente ») ; per ella almeno 115* (« V’ha forse dispiaciuto qualche cosa nell’ultima mia ? Se così è, già sapete di certo ch’ella dispiace molto meno a voi che a me » ; copia di Paolina con corr. di Giacomo). In alcune parti della lunga lettera, la 242, che annuncia al padre la propria fuga, l’utilizzo del pronome è più che insistito, diventa martellante. Nel tentativo di mettere il padre di fronte alle proprie responsabilità denunciando, con sofferenza ma anche con lucidità, la pesantezza di una situazione insostenibile, la funzione non tanto allocutiva quanto, se così si può dire, più evidentemente contrastiva, oppositiva, dovuta alla ripetizione del pronome assume la forza di un dito puntato (alcune considerazioni sulla struttura retorica di questa lettera in Bellucci 1985 : 200-07). Notevole inoltre che in 58* (copia di Paolina, a Francesco Cassi) l’uso dell’allocutivo femminile Ella produca un accordo di genere : « ch’Ella fosse autrice ». 4 Riscontro anche, in contesti molto diversi sul piano diafasico, ella medesima in 569 (a J.G. Reinhold), 1040 (ad A. Tommasini), 1786 (a Monaldo). 5 I casi riportati a testo sono in effetti gli unici in cui esso sostituisca un soggetto animato. Le altre occorrenze di esso soggetto sono in 106, 543, 641, 786, 819, 906, 936 (esso dialogo), 961 (2 v.), 978, 991 (esso ricoglitore), 1061, 792*. Per essa invece, in sostituzione di un sogg. animato si veda 530 (« Donna Marianna […] vi fece anche dire che non vi scriveva essa medesima per non disturbarvi »), 601, 840 (« E Paolina che fa ? e perché neppur essa mi scrive da tanto tempo ? »), 984, 1006, 1122 (« Scrivo […] all’Adelaide, ma se Essa non potrà leggere la mia lettera […] »), 1431, 1631, 1637, 1799 ; inanimato 7, 10, 11, 15, 255 ecc. per 23 occ. tot.). 6 Antonelli 2003 : 131 : « rimane vivo in alcuni scriventi […] anche l’uso di ei, che ha ancora una marcatezza diafasica relativa, se è vero che a volte convive con egli non solo nella stessa lettera, ma anche nella stessa frase ». Analogamente in 246* : « Ed io so di certo ch’egli ha protestato che noi non usciremo di qui finch’egli viva. Ora io che voglio ch’ei viva, e voglio vivere anch’io […] », dove l’uso di ei sembrerebbe bilanciare anche ritmicamente l’enunciato che incrocia chiasmo e parallelismo. Ma anche in Zib 3110 i due tipi
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in cui lui è impiegato con funzioni di soggetto è in 93* (copia di Paolina), in un gerundio assoluto (« amando lui gli stessi studi che io »). 1 Attestato nella prosa leopardiana, ma non presente in E, l’uso di esso come rafforzativo dell’obliquo : « tratto della lingua letteraria sin dall’antico » secondo Vitale 1992a : 67. In Zib trovo ad esempio esso a fianco di lui : per esso lui (2524), in esso lui (3272), con esso lui (3608), in esso lui (3777), cui si aggiunge, con grafia unita, con essolui (2414) ; e di loro : con esso loro (2946), in esso loro (3136), e anche con interposizione (« la felicità conseguente dell’uomo, è stata operata dalla ragione e dalla cognizione (9-15. Dic. 1820.) e consiste immediat. nell’esso increm[ento] loro » 420). 2 Pochi i casi in E di esso in appoggio ad un sostantivo con esplicita funzione anaforica : « vidi il fragm. di Filip. Sidete, il quale non è altro che una traduzione latina della Disputa con un Giudeo (se ben ricordo), scritta da esso Filippo » (1749), « In essa lettera la tratterò col Voi » (74*), « l’uso di questa preposizione […] gli antichi, secondo me, hanno costumato realmente di adoperare essa preposizione » (182*). 3 Segnalando il frequente impiego anaforico di egli (meno di frequente anche ella : « Questa lettera, così breve com’ella è » 1858), spesso in contesti marcati in unione con ancora (« il quale vi sarà tenuto ancor egli del favore » 239), anche (« M. Mourawieff vi desidera anch’egli moltissimo » 1610), stesso (« come sa bene egli stesso » 724), sono da registrare un buon numero di casi di utilizzo del pronome come soggetto “neutro” e in frasi impersonali : 4 « sarà egli così » (1306), « Vi assicuro ch’egli è un bel fascicolo »
sono utilizzati insieme con evidente ricerca di variatio tesa ad alleggerire il tono enfatico : « il lettore non ha dunque niuna cagione di farlo egli, ei non desidera quello che gli è spontanemante dato ». Vero è che qui il valore di egli, per quanto ridondante, è più vicino a quello di un pronome obliquo. Ei è utilizzato anche in OM v 146, xv 7.2, OM App. i 48 ; mentre in P xxxix 80 solo nel contesto di una citazione da Magalotti. 1 Puoti 1847 : 51 : « Il dir lui, in luogo di egli ; lei in luogo di ella ; e, nel plurale, loro in luogo di eglino o elleno ; è errore da fuggirsi. E parimente non si possono le voci egli, ella, eglino, elleno, adoperare ne’ casi obliqui, dicendosi di egli, ad ella, da eglino, con elleno, ec. » ; Fornaciari Gramm.8 non prende neppure in considerazione tale possibilità, e tace. I dati di SPM, che desumo da Serianni 1986 [1989 : 191-92], risultano lampanti dal momento che le occorrenze di lui soggetto sono appena 4 (Serianni avverte che si tratta di « un dato indotto, dal momento che le occorrenze di lui sono state decimate stocasticamente ») contro le 204 di ei e le 1913 di egli. D’altra parte al fratello Carlo che, inviandogli un proprio sonetto dedicato all’attrice Clorinda Corradi, domandava : « so che lei non si può dire in caso retto » (493), Giacomo rispondeva : « come riceve anche il caso obliquo : come me, come te ec. Onde come lei è ben detto » (501), indirettamente confermando l’emarginazione della coppia lui / lei dalla serie dei pronomi sogg. L’utilizzo nella risposta al fratello della congiunzione anche dà cittadinanza ad esempi del tipo : « Il piacere che suo figlio prova nel trattenersi con lei può esser compreso solamente da un padre com’ella » (11) in cui come regge il “caso retto”. 2 Altri riscontri : da esso lui (OM xv 2.101) ; con esso lui (OM xi n. 1, nota 27 ed. Besomi), Martirio dei santi padri (PP** 1032 e 1040), Frammento […] da Senofonte (PP** 1155) ; SA (Binni 722.i), Annotazioni alle Canzoni del 1824 (Canz. iii, PP* 175, citazione del Casa) ; ad esso lui SA (Binni 650.ii, 667.i, 720.ii, 734.i) ; Origine e progressi dell’Astr. (Binni 765.ii) ; con esso loro ME (PP** 1053 e 1068), SA (Binni 612.ii) ; da esso loro Operette morali d’Isocrate (PP** 1093) ; con esso noi nel Martirio dei santi padri (PP** 1042) e in Della eredità di Cleonimo (Binni 506.ii). 3 Per la maggiore frequenza in OM e Zib di questo tipo, « certo sostenuto anche se ancora diffuso nell’Ottocento », cfr. Vitale 1992a : 67. Si veda anche Fornaciari 1881 : 85-86, e poi Serianni 1989b : 284. 4 Per la definizione, del resto non unanimemente condivisa, di pronome neutro rimando a Palermo 1997 : 35-36, dove tra l’altro è illustrato anche il concetto di pronome soggetto pleonastico cui si accenna poco oltre. Il rinvio a Palermo 1997 vale comunque per avere un quadro articolato dell’evoluzione storica del problema. Per Leopardi si veda Ricci 2003 : 99-100 che ripartendo i dati cronologicamente individua un forte incremento di egli come pronome neutro dopo il 1821 in tutta la prosa leopardiana (ma significativamente non in P, da cui è anzi assente). Per Manzoni invece rinvio a Savini 2002 : 62-66.
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(1201), « egli è già definito e irrevocabile che […] » (690, e ancora 833, 1023, 1720, 1749, 1951). Notevole in 1704 (del 1832, a Paolina) l’incalzare di interrogazioni costruite – si potrebbe dire ‘alla francese’ – sulla ripresa mediante pronome del soggetto nominale tematizzato in avvio : « Babbo ha egli ricevuta la mia […] ? Carlo ha egli ricevuto una mia […] ? Mandolino ha egli consegnato […] ? » e ancora poco oltre « Matteo è egli tornato a Roma ? ». 1 Analoga situazione si verifica altrove (574, 1401, 1610 con ella) ma è soprattutto in 1725, in cui la struttura è spezzata e come portata in superficie, che risulta ben chiara la funzione di messa in rilievo della parte nominale : « Il qual Paccapelo mi pare di avere incontrato giorni sono per Roma, che mi salutò a nome : è egli a Roma ? o io m’ingannai ? » (mio il corsivo). 2 Per quanto riguarda il rapporto tra pronome e frase interrogativa, se si amplia l’indagine almeno a tutti gli autografi, le conclusioni di Patota 1990 : 275, 3 secondo cui « man mano che il dettato si fa più colloquiale […] diventa più frequente l’opzione per il tipo interrogativo a soggetto zero », vanno riviste : l’espressione del pronome nelle frasi interrogative infatti non solo risulta maggioritaria (97 – di cui ben 75 con pronome posposto al verbo – contro 73 a soggetto zero), ma si trova anche spesso in lettere informali scritte ai fratelli (« Carluccio mio caro, che fai tu ? » 777, e poi 241, 508, 744, 840, 1609, 553 ecc.), a Giordani (310, « Ma dimmi, non potresti tu di Eraclito convertirti in Democrito ? » 406, 419 ecc.), Brighenti (321, 407, 1131 ecc.), Papadopoli (781) e anche a Ranieri (« Hai tu la lettera della Fanny ? » 1826, 1651, 1802, 1813 ecc.). Sempre nell’ambito dei pronomi soggetto di terza persona è da segnalare l’attacco colloquiale di 413 con l’aferetico gli (« Oh, gli è pur questo un lungo silenzio, mio caro Brighenti »). 4 Per il femminile, ai due casi di la atona pleonastica registrati in Vitale 1992a : 66 sempre per le Operette, 5 fanno da riscontro « la supplico a permetter che la si rimanga qual è » (19* ; nella stessa lettera, ad Angelo Mai, si ha anche il plurale « le osservazioni […] assai mi duole che le siano troppo poche »), « quando la è troppo lunga » (98*, a Giordani), e « Importa solamente che la sia persona sicura » (1645, ad Adelaide Maestri). 6 In 19* e 98* si tratta di lettere il cui testo di E fa riferimento ad una
1 La diffusione del costrutto è tale che potrebbe giustificare una interpretazione analoga anche di strutture del tipo : « non far nessuna direzione sopra il pacco, perchè il Direttore postale di Loreto penserà egli a farcela ». Si veda Vitale 1992a : 88 che segnala la presenza del pronome neutro impersonale in OM. 2 Sarà da notare infine come questa replicazione pronominale del soggetto nelle frasi interrogative sia tipica del francese. 3 Circoscritte ad un’analisi delle lettere del periodo 21 febbraio 1817 – 17 dicembre 1819. 4 Vivo ancor oggi in Toscana, cfr. Serianni 1989b : 244. Per Zib segnalo : « Giacchè gli è mero caso che gli antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. » (1335) e « ma gli è un libro » (2588). 5 Precisamente OM ii 100 e OM xi 8. Vitale distingue tra il primo caso, di stile comico, e il secondo di stile sostenuto : si può dire che in realtà in entrambe le circostanze la battuta si caratterizza per un tono scherzoso, colloquiale. Rimando a Vitale anche per gli esempi dello stesso tipo riscontrati in Zib. Per l’uso di la pronome soggetto come tratto colloquiale fiorentino nell’Ortis di Foscolo si veda Patota 1987 : 73-74 : ai riscontri del romanzo epistolare sono da aggiungere i sette (con la e tre con gli) della traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick. Su queste forme cfr. Serianni 1989b : 244. 6 Due casi anche per Giordani, che carica l’intensità espressiva nel primo esempio attraverso l’inciso e il diminutivo, e nel secondo grazie alla punteggiatura : « Oh la è una cosa grande, giacomino mio, e che non finisce mai » (172), « La è pure una orrenda maledizione questa delle poste ! ! » (326). Ma numerosi sono gli esempi nelle altre opere del piacentino, come segnala Fornaroli 1976 : 139. Migliorini 1960 : 627 dichiara « piuttosto largo, anche in scrittori non toscani, […] l’uso di gli, la, le come soggetti ». Alcuni casi sopravvivono anche in Croce (cfr. Colussi 2007 : 84).
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copia di mano di Paolina (ma con correzioni di Giacomo). In effetti nelle lettere della sorella il fenomeno fa registrare più di una occorrenza : « si è rallegrata infinitamente di sentire che la stia così bene » (794), « la è cosa che tu già sai » (903), « in somma la è una miseria e una malinconia » (783), « la sarebbe una cosa che potrebbe rovinar te » (945). Al plurale invece, 1 oltre ai predominanti essi (11, 35, 10, 530, 663, 1034, 1147, 1431, 1686, 1915, 1923, 1934) ed esse (27, 242, 693, 994, 1269, 1637), trovo proprio all’inizio del carteggio un caso di e’ (60*) al maschile (« finattantochè il libro non si vede e’ se la berranno »), 2 ed uno di elleno (22*) al femminile (« Elleno ottimamente hanno avvisato di sopprimere quella quistione »), 3 nonché un paio di loro, in 622 con funzione anaforica (« Prima si caverebbero loro [i teologi] tutti i denti dalla bocca, che un’opinione dalla testa »), mentre in 1375 rafforzato da tutti (« gran consolazione mi dà il sentire che tutti loro stanno bene »). Sono tutte indirizzate ai propri familiari le lettere in cui compare la forma rafforzata voi altri (730, 777, 890, 971, 995 ecc. per 15 volte), 4 a conferma di quel carattere colloquiale e popolare del sintagma su cui lo stesso Leopardi si sofferma in Zib 2864 (e 2891) : « Ella è presso di noi della scrittura familiare, frequentissima nel discorso domestico, e quasi continua in quello del volgo ». 5 Per le forme atone segnalo di passata una serie di scambi, di valore più letterario il primo, meno connotati gli altri due (anzi più vicino all’italiano popolare il secondo) :
1 Fornaciari Gramm.8 : 58 : « Si avverta fin d’ora che eglino ed elleno sono parole della lingua letteraria, oggi poco usate ; alle quali si sostituiscono più spesso i dimostrativi coloro, essi, esse. Si usò anche elli ed elle ». Puoti 1847 : 49-50 ha al plurale per il maschile solo eglino, per il femminile elle accanto a elleno. Per quanto riguarda Fornaciari, non mi pare senza importanza sottolineare come le molte edizioni della Grammatica portino significativi aggiustamenti di cui è opportuno tener conto. La citazione sopra riportata infatti compare nell’“ottava edizione completamente riveduta e corretta da Antonio Gigli”, mentre è assente nella seconda edizione in cui si trova invece un’apertura notevole nei confronti di lui / lei soggetto (che manca in quella riveduta dal Gigli) : « nondimeno lui, lei e loro possono talvolta usarsi come soggetti quando il pronome debba essere messo in maggior rilievo, specialmente se posposti al verbo (senza interrogazione) : p. es. lo dice lui, non io : lei è ricca ed io povero ; ecc. ». 2 Nella lettera indirizzata a Giordani, poche righe prima della comparsa del pronome si legge « nella Capitale della molto excellentissima et magnifica provintia nostra, è un cotal letteratone che ne’ suoi scritti per tutto toscanesimo ha l’e’ che quando ci capita il mi pare immancabilmente gli fa da lacchè » (il corsivo, o meglio il sottolineato, è dell’autore. In tale contesto, l’utilizzo di questa forma del pronome, anche se al plurale, può essere dovuto ad attrazione (magari del ‘copista’, che in questo caso è Paolina). Si veda tuttavia Vitale 1992a : 66n : « nello Zibaldone ricorrono al plurale ei – e’ – egli – eglino, che non mi pare ricorrano nell’Epistolario autografo ; nei Pensieri eglino (n. lxx – Binni I, p. 235) ; in ME eglino ». Segnalo qui i pochi casi riscontrati tra i corrispondenti : eglino è usato da Vieusseux in 616 (« Ho sempre detto ai collaboratori dell’Antologia ch’eglino non devono temere […] »), elleno da Brighenti in 325 (per ragioni di variatio : « quando si hanno 45. anni se non si fugge da esse [le donne], elleno fuggono »), e’ ancora da Brighenti in 719 (qui forse non senza una sfumatura ironica « non ho veduto alcuno de’ padri della nostra letteratura, perché e’ sono a villeggiare »). 3 Nel riscontrare una lettera (n. 20) del Direttore della Biblioteca Italiana, Giuseppe Acerbi, Leopardi ne segue fedelmente la struttura e l’ordine degli argomenti, e là dove l’Acerbi passa senza soluzione di continuità dalla prima persona singolare alla prima plurale si adegua mutando l’allocutivo di cortesia dal singolare al plurale. 4 I riferimenti sono dati anche per i casi obliqui, in cui si trova pure noi altri (1262). 5 Nessuna occorrenza di tale forma si ritrova in P, mentre in OM a parte i pochi casi nei testi in appendice (noi altri App. iii b 61 e 94 ; voi altri App. iv 105 e 279), l’unico riscontro è voi altri in xxi 4.374 in un contesto dal tono effettivamente colloquiale e, se così si può dire, familiare : « Sole : Senti, Copernico : tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati […] ». Savini 2002 : 69 segnala la presenza di queste forme anche nell’epistolario manzoniano.
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a quello che mi risulta essere l’unico caso di il per lo, « [la copia] il soddisfacesse » (7), 1 affianco un lo per la in « se vorrà onorarmi dei suoi comandi io profitterò […] per accertarlo » (9, mio il corsivo), mentre per il dativo le per a lui in « non ho mai ricevuto lettera sua, che non le [a Trissino] abbia risposto » (413, anche se qui le potrebbe avere come referente logico la lettera stessa), e in « il Card. Malvasia […] mandava all’inquisizione i mariti e i figli di quelle che le resistevano » (474, qui invece potrebbe essere sottinteso un “sua eccellenza”). 2 Grande è la promiscuità di gli che può valere innanzitutto, e normalmente, per il dativo singolare maschile (a lui : 3, 27, 91, 123, 158, 176, 214 ecc., anche in avvio di frase come in 486 per 2 v.), inoltre per il dativo sing. femminile (a lei, ad essa : 10, 497, 530), 3 o plurale (a loro : 3), 4 ma anche, sia pure in misura minore benché per tutto il carteggio, per l’oggetto plurale (li : 227 « E com’essi non sarebbero stati classici facendo altrimenti, così nè anche noi saremo tali mai, se non gl’imiteremo in questo […] », 241, 327, 477, 624, 641, 720, 773 ecc.), e in un caso almeno per l’oggetto singolare (lo : 1726 « Ma io stesso gli [Ranieri] dissuasi poi di parlarvene »). 5 Vale la pena di notare inoltre che ad usi coerenti come in 103* (« se gli avessi avuti, gli avrei abbandonati » = i sollazzi, in entrambi i casi), si oppongono contesti di possibile ambiguità in 110 (« Subito che gli [= i libri] avrò ricevuti, gli [= a Mai] scriverò) o di dissimulazione in 991 (« bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi ec. » = i pensieri, in entrambi i casi), in 1785 (« quelli che li credono mali e gli abborrono » = i beni, in entrambi i casi) e in 132 (« Se gli avessi, forse potrei vedere in che parte della Marca s’abbia la sulla ; ma non li ho » = gli Annali di Agricoltura). 6 Ne per ‘ci’ fa registrare una sola occorrenza, e tra l’altro in una copia di Paolina (« scoraggiato dalla mediocrità che n’assedia, e n’affoga », 49*). 7
1 Per Giordani si veda Fornaroli 1976 : 135. Serianni 2009 : 175 individua proprio nel secondo Ottocento il momento in cui il clitico il (per lo) viene percepito come caratteristico dell’uso poetico ; la presenza di questa forma tra gli Scapigliati è documentata da Arcangeli 2003 : 234-35. Antonelli 2003 : 137 segnala comunque « una certa diffusione » di questo tipo nel corpus epistolare da lui preso in considerazione. 2 Di questo uso « regionale toscano e settentrionale, ma anche genericamente popolare » segnala altri riscontri nei carteggi ottocenteschi Antonelli 2003 : 138 e n. 3 Gli per ‘a lei’ anche come allocutivo di cortesia. Si veda lo scambio ravvicinato in 5 : « non m’impedisce di venire a testificarle la mia gratitudine augurandogli ogni bene dal Cielo » (corsivo mio). Che si tratti di una sorta di lapsus calami pare confermarlo un passo di una lettera a Francesco Cancellieri (la 27) in cui si legge : « Debbo anche supplicarla di due correzioni […]. La prima […] dove è scritto : offrirgli, che come Ella vedrà, è errore, parlandosi di donna, e bisogna porre : offrirle » (il riferimento è al ms. delle Inscrizioni greche triopee che Leopardi aveva inviato all’abate con lo scopo di farlo stampare a Roma). 4 Sull’uso di gli per il femminile singolare e per il plurale come caratteristiche del parlare familiare toscano si vedano le osservazioni di Fornaciari 1881 : 53 che condanna il primo tipo e approva, con qualche riserva, il secondo. Sulla generale ostilità dei grammatici per il tipo gli = a loro si veda Serianni 1986 [1989 : 193], mentre per i riscontri nella prassi epistolare ottocentesca cfr. Antonelli 2003 : 137-38. 5 La polisemia, o comunque la disponibilità semantica di gli, era stata già rilevata per gli scritti del 180910 da Maria Corti (EDG 11). Qui si potrebbe comunque pensare ad una costruzione, alla latina, di dissuadere con il dativo della persona, anche se questa forma non trova a quanto pare altri riscontri all’interno del corpus leopardiano. 6 Va tenuto presente tuttavia, al di là dei casi in cui si può generare ambiguità, che in generale è rispettata « la norma grammaticale più recente [che] prescriveva gli davanti a parola iniziante per vocale e per s impure e li davanti a parola iniziante per consonante » (Vitale 1992a : 67n). 7 Più ampia messe di esempi è invece a questo riguardo offerta dai Canti (in particolare dalle canzoni). Da Sopra il monumento di Dante, « amari / Giorni dopo il seren dato n’ha il cielo » v. 39, « non udisti gli
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Cinque appena sono i casi di apocope nei gruppi composti con lo, trasmessi da tre sole lettere, non autografe (tranne la 22* che è di mano di Carlo, le altre sono copie di Paolina) : mel 60*, 85*, sel 60*, nol 22*, 60*. 1 Nelle altre opere in prosa si può trovare riscontro solo per nol che conta un’unica presenza in OM (xi 115), mentre attraversa quasi tutto l’arco cronologico dello Zibaldone (953, 962, 2534, 3157, 3159, 3227, 3228 ecc. fino alla pagina 4505). Decisamente più varia la situazione per meco, teco, seco abbastanza diffusi sia nell’epistolario che nel diario, ma emarginati in OM e soprattutto in P. 2 Ecco i riscontri per E : meco (7, 9, 26, 242, 392 ecc. per 18 occ.), meco stesso (296, 406), meco medesimo (1029) ; teco (330, 412, 419, 504, 803 ecc. per 16 volte) ; seco (724, 831, 965, 978, 1183 ecc. per 11 occ.). Per Zib in particolare è la terza persona la più utilizzata, e spesso nelle forme rafforzate : meco (23, 24, 2682, 4297, 4471), meco stesso (1365, 2472), meco medesimo (4302) ; teco stesso (89) ; seco (747, 816, 1236, 1254, 1557 ecc. per 29 occ. tot.), seco stesso, -i (94, 303, 540, 1665, 2948 ecc.), seco noi (95), 3 seco loro (1711, 2502, 2584, 3303, 3662 ecc.), seco lei (1922, 2502, 3304, 4045, 4267), seco lui (2430, 3141), seco medesimo (3108). 4 Per OM meco (xxi 186, xxii 26), meco medesimo (xiii 2.104) ; teco (xi 240, xxii 223), teco medesimo (xiii 1.72), teco stesso (xiii 10.3) ; seco (ix 155, xi 214, xii 194, xiii 1.75, xiii 2.49 ecc. per 10 volte tot.), seco medesimi (i 139, vii 48, xiii 7.30), -a (xi 200, xv 4.68), -o (xv 2.104), seco stesso (ix 170), -i (xv 3.67), -e (xv 4.19), seco loro (xx 226) ; per P solo meco (iv 5), teco (xxxvi 1), seco (ii 12, vi 3, xxxix 5, xxxix 39).
oltraggi e la nefanda / Voce di libertà che ne schernia » v. 115, « Perchè il nascer ne desti o perchè prima / Non ne desti il morire » v. 121, « Lo spietato dolor che la stracciava / Ammollir ne fu dato in parte alcuna » v. 129 ; da Ad Angelo Mai « E pur men grava e morde / Il mal che n’addolora / Del tedio che n’affoga » vv. 71-72 (un’eco della lettera, la 49*, citata a testo ?), « allo stupendo / Poter tuo primo ne sottraggon gli anni » v. 104 ; dall’Inno ai Patriarchi « Colpe de’ figli e irrequieto ingegno, / E demenza maggior l’offeso Olimpo / N’armaro incontra » v. 17 ecc. 1 Ricordo che 60* e 85* sono tra le prime lettere scritte a Giordani, il quale (a parte gli enclitici di cui più sotto) dei tipi in esame ha solo nol (42, 52, 63, 92, 208, 217, 262) ; ma forme come mel e tel sono segnalate da Fornaroli 1976 : 135. Serianni 2009 : 127-28 : « Solo nel corso del xix secolo i tipi mel (tel, sel, cel, vel) e nol, pur senza uscire del tutto dall’uso della prosa più sostenuta o più incline all’ibridismo stilistico, si ritirano nella ridotta della lingua poetica. Alcune sequenze sono più comuni di altre (anche in dipendenza della diversa frequenza d’uso delle rispettive combinazioni di clitici, comunque assemblati) : in particolare mel, di cui figura un esempio [Il sogno, v. 69] anche nei Canti leopardiani […] ; e soprattutto nol, adoperato tra gli altri, oltre che da Leopardi [Il sogno, v. 47 ; Amore e morte, v. 78 ; La ginestra, v. 295], da Giusti e Pascoli ». Sulla persistenza di alcune di queste forme nella prosa ottocentesca (in particolare in quella di Tommaseo) cfr. Mauroni 2006 : 256-58, mentre per le sopravvivenze (in realtà solo di nol) nella poesia scapigliata di fine secolo si veda Arcangeli 2003 : 231-32. 2 Serianni 1990 : 153n : « i tipi meco, teco, seco erano normali nell’italiano ottocentesco ». Per l’epistolario manzoniano nota invece Savini 2002 : 70 che queste forme « restano circoscritte alla prima metà degli anni Venti ». 3 In poche righe, alle pagine 94-95, troviamo pensare seco stesso, spiegarci seco noi, intenderci noi medesimi : tre modalità diverse di rafforzamento pronominale che testimoniano dell’oscillazione del valore semantico di seco, della disponibilità del pronome ad evidenziare ora il valore morfologico, ora quello riflessivo e originario. Rimando comunque alla disamina di Tomasin 2001 che in particolare per la terza persona (seco lui, lei, loro) pensa (p. 229) « che l’uso di queste iuncturae sia stato introdotto in ambiente burocratico. Il valore disambiguante dell’aggiunta pronominale sembra rispondere al bisogno di precisione espressiva spesso perseguita, nel linguaggio cancelleresco, mediante il ricorso a perifrasi giustappositive ». 4 Per i tipi « formati da seco + pronome personale (secolui, o seco lui ecc.) » Serianni 2009 : 176 sottolinea che si tratta di tipi caratterizzati da « fortune settecentesche, graditi a prosatori e poeti di gusto classicistico (ma non ai lessicografi puristi, concordi nella condanna ».
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Vediamo ora i gruppi di pronomi e la loro collocazione. Una copia di Paolina e un apografo di Viani testimoniano la sopravvivenza del femminile nella sequenza dativo accusativo : « le lo prometto » 49*, « le la manderei » 34*, mentre negli autografi si ha sempre glielo (106, 241, 288, 805, 1886), gliele (442, 477), glieli (773), gliela (777, 866, 988, 994, 1858), gliel’ (401, 1722, gliel mando 833). Più varia si presenta la situazione per ‘ne’ con il dativo, che conserva in un discreto numero di casi l’arcaico le, sempre in riferimento ad un allocutivo, in posizione sia proclitica : le ne = gliene (« Ed io le ne saprò grado assaissimo » 38, « Scusi però la nojosa ripetizione che le ne feci nell’altra mia » 39, 125, 204, 282 ecc. per 20 occ. tot.) ; sia enclitica : eccolene (21), spedirlene (225), volerlene (539), scriverlene (544), darlene (641), dirlene (693), mandarlene (917), parlarlene (1061). 1 Di appena qualche unità superiore è il tipo moderno : gliene (413, 485, 944, 1149, 1237 ecc. per 21 volte) ; facendogliene (288), accordargliene (292), mandandogliene (477), proccurargliene (1617), fargliene (1900), mandargliene (1965*, 154*, 160*). L’opzione con il dativo femminile le entra in concorrenza con l’altra solo in E, poiché se Zib presenta un unico caso di le ne diede (1386), di contro a gliene (40, 68, 594, 1924, 2425 ecc. per 17 volte ; e con enclisi trovargliene 12, dargliene 2951, dandogliene, datogliene 3145), OM e P non ne hanno nessuno. L’esempio leopardiano – rimandargliene – citato da Migliorini 1960 : 628, ad illustrazione del fatto che « conforme all’uso toscano, antico e moderno, qualche volta gliene vale anche per glielo », è prelevato dalla lettera da Napoli del 5 marzo 1836 (la 1926) ad Adelaide Maestri, la cui fonte, anche nell’edizione Brioschi Landi non è autografa. 2 Scritte invece proprio a Firenze dal poeta stesso sono le lettere in cui trovo aumentargliene per “aumentargliela” (« una Signora di qui, che ha una ricca collezione […] mi ha pregato molto di trovar via d’aumentargliene » 1619), gliene per “glieli” (« Se vuoi rimandarle nudamente i ritratti, gliene farò rendere dalle Busdraghi » 1830). Sono inoltre da segnalare alcune occorrenze in cui, secondo una fase che Rohlfs § 473 fa risalire a Boccaccio, 3 il pronome personale scivola al secondo posto, e anche qui sia in contesto di proclisi con il dativo (ne le = gliene : « Ho ricevuto […] e ne le rendo mille grazie » 1034, 74*) e con l’accusativo (ne la ringrazio 299, 398, 836, 1489, 50* ; ne li r. 49* ; ne la prego di tutto cuore 381, 714 ; ne la supplico 391 ; e poi 468, 534, 758, 421*, 74*, 78*), 4 sia di enclisi con l’uno (mandarnele 136, comunicarnele 497) e con l’altro (ringraziarnelo 1610, assicurarnela 1872*), trovandonela 118*, volernela 149*). Per quest’ultimo fenomeno solo Zib ha qualche riscontro (ne le caccia 934, ne le trasse 3096 ecc., ne li compensa 622, ne li tolse 2763 ecc., ne lo distoglie 363, ne la sradichi e rapisca 282, fornirnela 3336 ecc. cacciarneli 251, allontanarneli 223, distornelo 3839, impedirnelo 3839 ecc.), mentre P non ne ha nessuno e OM ha solamente compensarnelo (xii 139), ne la gonfiassimo (ii
1 La sequenza è segnalata anche in Nievo, cfr. Mengaldo 1987 : 67. Tra i corrispondenti di Leopardi trovo le ne in una lettera ironica (anche polemica ?) di Carlo (« Ci faccia sapere ancora se ci vuol bene. Noi le ne vogliamo » 1118) e poi soprattutto in quelle di A. F. Stella (828, 858, 1048, 1063, 1081, 1216). L’enclitica solo in un caso di Cancellieri (« farlene presto » 25). 2 La lezione posta a testo da E risale a : Giacomo Leopardi, Studi filologici, raccolti e ordinati da P. Pellegrini e P. Giordani, Firenze, Le Monnier 1845. Medesima fonte avevano sia Moroncini (lettera n. 1879) che Flora (lettera n. 916). 3 Si veda anche Stussi 2005 : 104-14. 4 Solo un paio di casi tra i corrispondenti e solo in proclisi : « Mi permetterà che stabilito il tempo preciso della mia partenza, io Le ne dia avviso » di Bunsen (1139) ; « io le ne sono assai grato » di A. F. Stella (1216).
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107) e ne la strappi e sradichi ? (xiv 155), che rielabora, o meglio ritocca, Zib 282 (di ben quattro anni precedente). 1 Con il riflessivo e l’impersonale invece gli scambi sono davvero pochi per E (se gli = gli si 689* ; se le = le si 497, 114*, 132* ; potendosegli 468, dandosele 445), come per OM (se gli = gli si xi 69, xiii 2.9, xviii 98, xx 338, xxii 502 ; se le = le si ii 94, 2 v. ; porgendosegli xv 5.2) e P (solamente se gli = gli si xxv 3), mentre si fanno più numerosi per Zib (se gli = gli si 61, 342, 654, 1120, 1461 ecc. per 25 occ. tot. ; se le = le si 54, 250, 396, 878, 1396 ecc. per 13 volte ; se le = gli si 798, accostarsegli 3243, davasegli 2401, levarsegli 3431, porsegli 2454, potersegli 25, rappresentantisegli 3270, rappresentarsegli 3306, sbrancatosegli 2881, sostituiscasegli 2792, e anche con grafia unita segli 714). 2 Segnalo, per chiudere con i personali, alcuni casi di anteposizione dei pronomi atoni con l’infinito preceduto da negazione, secondo una sequenza arcaica diffusa nella lingua letteraria fino al Novecento (cfr. Rohlfs § 470) : « non so che diavolo me ne fare » (159*), « non so che mi vi dire » (474), « io non so più che me ne dire » (1149). 3 Altri pronomi. Per i possessivi si conferma il carattere prosastico medio, « di probabile ascendenza burocratica », 4 del costrutto formato dall’inserzione tra articolo (o preposizione articolata) e sostantivo del sintagma di lei / di lui : la trasposizione è assente non solo dai Canti, ma anche da OM e da P, mentre per E registro la di lui impresa (288), col di lui danaro (304), ai di lei beneficj (5), la di lei lettera (14, 944), la di lei cortesia (39), della di lei risposta (39), alla di lei direzione (39), nel di Lei Spettatore (123), dalla di lei gentilezza (125), alla di Lei cordialità (288), e poi 558, 591, 634 ecc. per altre 9 volte, cui saranno da affiancare le inserzioni tra la sola preposizione e il sostantivo a di Lei arbitrio (284, 288), in di Lei disposizione (284), per di Lei parte (852), per di lei commissione (1147), per di Lei conto (752), a di Lei scelta (773), a di Lei credito (1107*). Sono comunque da segnalare oscillazioni tra, ad esempio, per mezzo di Lei (569) e per di Lei mezzo (558, 796) oppure tra il suo giudizio (36, 551, 612, 693 ecc.) e al di lei giudizio (284). Ai casi individuati per E fanno riscontro i seguenti di Zib : art+di lei+sost. (29, 305, 332, 550, 552, ecc. per 40 occ. tot.) ; art.+di lui+sost. 27, 860, 953, 1449, 1533 ecc. per 20 occ.). L’ultima apparizione di questo costrutto in Zib. risale al settembre del 1828, mentre l’ultima di E è in 1431, lettera datata 10 febbraio 1829 : la vicinanza temporale non è
1 Crf. Fornaciari Gramm.8 : 222 : « Ne avverbiale si antepone a lo, la, li, le. Es. : Ne la tolse, ne la trasse. – Ne lo traeva fuori della sua capannetta ». 2 Il tipo con anticipo del si, corrispondente con l’ordine antico, è ancora presente in Manzoni in alternanza con quello moderno (cfr. D’Ovidio 19333 : 95), La sequenza, che è del resto ammessa anche da grammatici ottocenteschi come Fornaciari Gramm.2 : 126-27, Sint. 457-58, Morandi-Cappuccini 1894 : 118 ecc., è presente anche in Nievo (cfr. Mengaldo 1987 : 67, da cui anche prendo i riferimenti precedenti). Una rapida scorsa all’Ottocento della Liz permette prelievi anche in Cuoco. Nessun esempio però tra i corrispondenti di Leopardi. 3 Moise 1878 : 370 ne mette in evidenza l’eleganza, mentre Serianni 1989b : 259 cita esempi di Manzoni, Collodi, D’Annunzio, C. Levi. Il fratello Carlo ha « non so che mi ci fare » (498). Altri esempi di Giacomo invece sono : « Voglio parlare e non so che diavolo mi dire » (458), « io non so che cosa mi replicare » (878), « non so che ci fare » (1282), ma « non so che dirvi » (1330). 4 Serianni 1989c : 17 con rimandi, alla n. 11, a Mengaldo, Migliorini, Vitale. Serianni 1986 [1989 : 19899] prende in esame il costrutto nel contesto della lingua ottocentesca e nei Promessi sposi 1840 in cui si trovano solo un paio di esempi del tipo descritto, che invece gode di una certa frequenza nell’epistolario soprattutto nella seconda metà del secolo (cfr. anche Savini 2002 : 83-84). Per gli epistolari ottocenteschi ampia rassegna di esempi in Antonelli 2003 : 142-43. Per un inquadramento storico del problema si veda Palermo 1998 : 37-8.
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certo un indizio rilevante per datarne l’uscita di scena, tuttavia è pur sempre vero che nell’ultima parte del carteggio esso manca. Una rapida scorsa, per chiudere, agli aggettivi e pronomi indefiniti, e in particolare alle oscillazioni della coppia nessuno/niuno. 1 Se è vero che Leopardi non usa mai in poesia quella che in origine era la variante “bassa” della coppia, vale a dire niuno, 2 è altrettanto vero che nessuno vince ovunque, e in modo schiacciante. Si vedano questi dati (che indicano le occorrenze totali) per Zib : niun 146 / nessun 227, niuna 130 / nessuna 255, niuno 134 / nessuno 255 ; per OM : niun 12 / nessun 30, niuna 19 / nessuna 35, niuno 27 / nessuno 26 ; per P : niun 0 / nessun 9, niuna 0 / nessuna 12, niuno 1 / nessuno 13. 3 L’epistolario non solo permette di confermare una preferenza che pare configurare una progressiva emarginazione, 4 ma consente di seguirne anche l’uscita dall’uso dal momento che l’ultima occorrenza di niuno con valore pronominale risale al 15 gennaio 1825, mentre in funzione di aggettivo ricompare sporadicamente, in due lettere del ’26 e poi a distanza di tre anni l’una dall’altra nel ’27, nel ’30 e nel ’33. Ma ecco i riscontri : niuno (167, 174, 392, 409, 460, 485, 520, 525, 622, 663, 49*, 60, 66*, 205*), niuna (714, 831, 48*) ; niuna speranza (80), niun valore (241, 477), niun impiego (531), niuna sua virtù (606), niuna parte (612), niuna opposizione (693), niuna certezza (714), niuna pena (917), niun modo (1102), niuna conseguenza (1539), niun luogo (1858), niuna censura (826*), niun danno (49*), niun uomo (60*), niune cose (66*).
3. Articoli e preposizioni articolate L’assetto descritto da Vitale 1992a : 47 per OM, secondo cui è « assoluto l’impiego di lo-gli davanti a parola iniziante per s implicata, per n palatale e per z » si conferma per E, come per Zib, solo se visto in diacronia. In entrambi i casi il passaggio da il a lo, soprattutto davanti a z, è infatti progressivo, denunciando delle resistenze in avvio, anche sulla scia di una codificazione grammaticale non decisiva : 5 ad un primo tempo in cui si registra esclusivamente il Zio (31, 455, 483, 515, 534 ecc. per 19 occ.), il Zanotti (1029), il zucchero (1239), 6 ne segue così un secondo in cui si ha lo Zio (1665, 1886, 1911, 1946, 1949), dello Zio (1911), allo Zio (1911), dallo Zannoni (1457). Al plurale invece i riscontri danno unicamente i Zii (460, 465, 544), de’ Zii (554). 7 Vicino a E si
1 Il quadro generale si ha in Serianni 1982 : 27-40 e Castellani Pollidori 2000 [2004 : 245-67]. 2 Tranne che in questi casi : niun « Guerra dei topi e delle rane » (1815) ii.12 v. 4 (Binni 392.i) ; « Poesie di Mosco » Idillio iv v. 25 (Binni 418.i) ; « Saggio di traduzione dell’Odissea » i v. 108 (Binni 423.i). 3 Ricci 2003 : 92-93 propone una periodizzazione in quattro parti a riflesso del diverso atteggiamento che Leopardi manifesta nei confronti dei due allotropi. 4 In sintonia già con la ventisettana che ha ancora un esempio di niuno (cfr. Serianni 1986 [1989 : 195]). Nessun esempio di niuno, almeno per il pronome, nell’epistolario di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 74-75). La netta preferenza per il tipo oggi corrente è confermata per i carteggi ottocenteschi da Antonelli 2003 : 140-41. 5 Ancora una posizione morbida ha ad esempio Fornaciari Gramm.8 : 38 : « Ai nomi comincianti per z si premette più comunemente lo. Es. : lo zio, lo zucchero meglio che il zio, il zucchero », e ancor più Puoti 1847 : 42 : « Se il nome comincia per z si può adoperare con esso nel singolare tanto il primo, quanto il secondo articolo, come : il zelo e lo zelo, il zoppo e lo zoppo, il zio e lo zio. Ma nel plurale si dee sempre usare l’articolo gli : onde si dirà gli zoppi, gli zii, e non i zoppi, i zii ». 6 Analoga è la situazione con le preposizioni articolate : del zio (455, 456, 477, 497, 503 ecc. per 16 volte) ; al Zio (31, 530, 544, 551, 554 ecc. per 11 volte) ; col zio (537) ecc. Segnalo in poesia solo il zappatore (Il sabato del villaggio, v. 29). 7 Tra i corrispondenti si hanno riscontri quasi solo tra familiari e congiunti del poeta : in Monaldo trovo
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colloca come detto Zib la cui progressiva emarginazione dell’articolo il davanti a z- è già stata indicata da Vitale 1992a : 48. 1 Segnalo, a riguardo, l’oscillazione dell’articolo che accompagna la semplice lettera : il z (191, 2842), del z (191, 711), col z (711, 2465), ma la z (1343), della z (1344). 2 Anche l’articolo indeterminativo si allinea agli usi ormai correnti, 3 presentando costantemente un davanti a parola che inizia per consonante semplice o comunque non con s complicata, prima della quale si trova uno. Unica vera eccezione è un zecchino (124*), dal momento che un zucchero in 139 (« il pigliarvene subito un puleggio, un zucchero parravvi di tre cotte ») si colloca nell’ambito della citazione da Il Malmantile racquistato, i, 89, di Lorenzo Lippi. 4 Per quanto riguarda le preposizioni articolate, 5 le forme assimilate sono in generale di gran lunga dominanti, anche se nell’ultimissima parte del carteggio la situazione pare essere in movimento. Per con in effetti da un lato le occorrenze della forma sintetica sono schiaccianti – co’ (225, 453, 455, 624, 857, 1612, 1858 ecc.) ; coi (9, 13, 32, 67, 106 ecc. fino a un totale di 38 casi) ; col (3, 5, 7, 23, 31 ecc. per 153 volte) ; collo (241, 289, 406, 514, 530, 581, 596 ecc.) ; coll’ (7, 14, 32, 165, 173, 193, 255, 282, 299 306) ; colle (5, 91, 242, 288, 334 ecc. per 85 occorrenze totali) ; colla (5, 9, 10, 14, 26 ecc. fino a 168 volte) –
il zecchino (502), li zii (467), un zecchino (502) ; in Carlo il Zio (721, 783), del zio (535), dal zio (540), al zio (783), dei Zii (540) ma lo zio (524) ; in Paolina i spropositi (464), i scroccafusi (851) ; in Melchiorri il zio (427), al zio (565), ma allo zio (441, 447, 603), dallo zio (613), il zucchetto (562), i zii (457, 664), i stampatori (562, 565, 572, 575, 579), i studi (565) ; in C. Antici dei zii (747), i scambievoli (561), i scrittori (672, 869), i schiavi (823), un scaffale (704) ; e inoltre in Giordani al zio (150, 736), ma allo zio (152) ; in Brighenti del Zanotti (1027, 1031) e però lo zelo (278). 1 Per gli scritti risalenti al 1809-1810 si veda Corti in EDG 10 che attesta « oscillazioni nell’uso dell’articolo plurale li, gli / i ; davanti a s impura il Leopardi predilige ancora i : i stimoli, i scudi, i schermi, i spaventosi, i sparsi, ma i stanchi / gli stanchi ecc. ». 2 Ecco le attestazioni per Zib : del Zanchini (26), il Zanolini (882, 1390), del Zanotti (160), il Zappi (28, 31), i zelanti (2514), il zelo (150), quel zelo (3599), quel Zephyro (2288), de’ Zepoli (3967), i Zepidi (3967), il zoppo (2441), il zucchero (1173), nel zucchero (1942), un zucchero (3787) ; con l’indeterminativo un zeffiretto (4176), un zoppo (4162) ; sono da aggiungere i due casi di del zibaldone all’inizio e alla fine degli indici leopardiani. Interessante in particolare Zib 2288-89 (corsivo dell’autore) : « […] nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al zefiro, per lo zefiro, col zefiro ec. » dove l’utilizzo dell’articolo lo compare solo con la preposizione per. 3 Si veda però Fornaciari Gramm.8 : 39 : « uno si tronca davanti ai nomi maschili non comincianti da s impura […]. Anche davanti a z si suol troncare, purchè non ne venga cattivo suono : uno zeffiretto o un zeffiretto : uno zio, ma non bene un zio ». 4 E cita in nota l’edizione delle Lettere di Leopardi curata da S. e R. Solmi, Milano-Napoli, Ricciardi 1966, cui si deve il riscontro. 5 Sulla prassi poetica leopardiana, relativamente alla grafia unita o staccata delle preposizioni, si veda Girardi 2000 : 65-69, il quale dopo aver illustrato la progressiva vittoria delle forme sintetiche osserva come « Leopardi, in conclusione, si situa per tale aspetto entro il filone o tendenza più moderni, con una decisione tutt’altro che pacifica, frutto come appare di un complicato travaglio ». Per l’incidenza delle forme apocopate rinvio invece a Ricci 2003 : 100-01, che ipotizza una gestione dei diversi tipi in base al registro : in tipologie testuali di carattere saggistico-argomentativo (come nello Zibaldone o nel Discorso sopra lo stato presente) sarebbe più utilizzata, in quanto forma marcata, la prep. articolata apocopata rispetto a testi discorsivi (lettere) o d’invenzione (OM). Nei Canti segnalo la prevalenza di per lo (Sopra il monumento di Dante vv. 19 e 21, Il passero solitario vv. 10 e 29, Il sogno vv. 2 e v. 77, Il pensiero dominante v. 97, Amore e morte v. 7, La ginestra v. 166, Frammento xxxix v. 42) su pel (Canto notturno v. 12, Amore e morte v. 80, La ginestra v. 218), così come è senza confronto il rapporto tra per li rispetto a pei (presente solamente ne La sera del dì di festa v. 5, mentre pe’ si trova ne La vita solitaria v. 105. Sulla prassi ottocentesca è da vedere Serianni 1986 [1989 : 166-67]. Interessante Savini 2002 : 55 su Manzoni : « l’adozione delle forme analitiche nell’epistolario inizia appunto negli anni di elaborazione della Quarantana per assestarsi definitivamente intorno alla metà del secolo, a correzione ormai ultimata ».
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dall’altro la maggior parte dei pochi riscontri per la forma analitica si colloca in data molto bassa : con le (3, 316, 1812) ; con l’ (3, 382, 866, 1957) ; con la (1637, 1694, 1704, 1767, 1905, 1956) ; con li (3) ; 1 con gli (1691). Per seguito da il (9, 11, 26, 28, 90 ecc. per 38 occ.) o da lo (55, 165, 242 193, 530 ecc. per 29 occ.) prevale sul tipo assimilato pel (23, 26, 39, 125, 174 ecc. per 42 occ.), ma anche qui si può notare come quest’ultimo sia del tutto assente nella parte finale, estrema di E, dove rimane assoluta la forma analitica. Analoga è la situazione per il plurale : pei (5, 624, 819, 991, 1655*, 1382*) ; per i (11, 26, 466, 651, 730, 737, 744, 1372 ecc.) e per li (204, 282, 288, 316, 389, 531, 551, 1006 ecc.). Segnalo tuttavia che, nella primissima fase del carteggio, per due volte nella stessa lettera, una copia fatta dalla sorella Paolina, Giacomo corregge per il in pel (si tratta della 19*, ad Angelo Mai). 2 Noto qui inoltre l’oscillazione nel titolo del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi che ha questa forma in 13, 32, 1519, mentre in 788, 833, 840, 1749 è citato come Saggio sugli errori popolari e in 1610 con grafia staccata come Saggio su gli errori. Per quanto riguarda le date è normale l’utilizzo del plurale dei (« alla sua gentilissima dei 9 del passato » 164 ecc. per 194 volte) che alterna con il minoritario de’ (« il suo avviso de’ 14 del corrente » 214 ecc. fino a 81 casi) ; davanti a vocale è regolare degli (« degli 8 » 165, e poi 335, 608, 699, 720 ecc. per 19 occ. tot.). Segnalo tuttavia un solo caso di delli (« delli 8 marzo » 69*). 3
4. Avverbi e congiunzioni Per gli avverbi da rilevare innanzitutto che l’ampia gamma registrata da Vitale 1992a : 71-79 per OM trova in larghissima parte riscontro in E. Tenendo come base d’appoggio la schedatura di Vitale si può dire che restano fuori dal carteggio solo le punte estreme di questa folta serie di avverbi. In particolare mancano all’appello sentire/udire un zitto, incontanente, mal suo grado, oggimai, poscia, tutto dì, almanco, all’incontro, in addietro, senza più, da burla, dianzi, indi, di pianta (passare) in silenzio, in universale (parlare) sul sodo, per ragione. 4 Per il resto conta soprattutto la varietà, che tuttavia non significa equipollenza tra le diverse alternative : nel contesto di una larga predominanza di forme più comuni (presto ad esempio supera largamente tosto) 5 l’utilizzo di elementi più scelti (in larga parte del resto presenti anche nelle lettere dei corrispondenti) avrà ricadute soprattutto sul piano stilistico. Così accanto a verbigra
1 Il plurale li è presente solo in 3, di cui si è già avuto modo di sottolineare il carattere di scherzo costruito per mezzo di una lingua artificiale, esplicitamente parodica. 2 A proposito della forma da usare dopo per, Migliorini 1960 : 630 ricorda che « molti usano lo, li, conforme alla regola dei grammatici antichi : il Leopardi osserva costantemente la regola in prosa e in verso, e considera “errore di lingua” per il reo delitto ». Migliorini rinvia ad una recensione al Salterio versificato dal Gazola pubblicato nello « Spettatore italiano » del 31 ottobre e del 15 novembre 1816 in cui appunto Leopardi sottolinea questo errore (per il reo delitto al posto di per lo) « che pure avrebbesi potuto sfuggire in un’opera di bella letteratura » (PP** 917). 3 La stessa prep. articolata anche in 3. Delli è forma che si trova in Manzoni, sia nella ventisettana sia nella redazione del 1840, e nel Nievo epistolografo (cfr. Mengaldo 1987 : 62). 4 Non utilizzate da Leopardi nelle lettere, alcune di esse lo sono tuttavia dai suoi corrispondenti : poscia da Brighenti (322, 592, 1502), Antici (704), Cancellieri (163) ; tutto dì da Melchiorri (673) ; all’incontro da Giordani (262) ; in addietro da Monaldo (821) ; Indi da Giordani (953), Monaldo (495, 1248), Antici (585, 847, 981) ; per ragione da Carlo (1108). 5 Come del resto in OM, in Zib e P (che utilizza solo presto). Tosto vince largamente in poesia.
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zia usato in una lettera a Carlo (474) particolarmente colorita (« Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, verbigrazia che il Card. Malvasia b. m. metteva la mani in petto alle Dame della sua conversazione »), ma che ha anche altre 6 attestazioni in Zib (640, 3349, 3957, 3997 per 2 v., 4153), 1 rilevo il latinismo cancelleresco immediate (« Poco per questa, perchè immediate metto mano a un’altra » 74*, a Giordani), 2 da considerarsi come un vero e proprio hapax. Tra i toscanismi spicca la produttività di punto (« non lo dissi perchè mi premesse punto d’impedire la circolazione del libricciuolo in cotesta capitale » 167, e poi 284, 292, 299, 382, 435, ecc. per 40 presenze in tot.), e la netta prevalenza di costì (119 occorrenze) su costà (44), in un contesto che li vede spesso intercambiabili. 3 Nel settore delle congiunzioni, interessanti sono i rafforzamenti mediante che : 4 « e ciò che faccio con tanto maggior fiducia, quanto che la generosa disposizion d’animo […] » (580, e analogo 693), « in quanto che mi dimostrano la confidenza vostra » (659), « secondo che mi accenna la sua gentilissima dei 17. del passato » (204), « secondo che voi mi direte » (596, e 624, 637, 720, 750, 819, 836 ecc. ma non nell’ultima parte del carteggio), « gli altri possono poetare sempre che vogliono » (618), « Sempre che Ella mi favorirà delle sue lettere, Ella mi farà cosa […] » (483, 497, 772, 778, 781, 822, 890 ecc.) ; « ed io mentre che v’abbraccio » (199*). Costrutti pleonastici alquanto diffusi sono le doppie ma bensì : « io non ho nuove Canzoni da stampare, ma bensì molti cangiamenti da fare alle già stampate » (697), « Il mio lungo silenzio non è certamente venuto, nè poteva venire da […], ma bensì da timore d’incomodarla e annoiarla » (808) ; ma sibbene : « Quando è piaciuto a V. E. Reverendiss. e a cotesti illustri Accademici di ascrivermi al loro collegio, non hanno fatto cosa che disdicesse alla benignità loro, ma sibbene al merito mio » (314). Resta da segnalare la leggera prevalenza del francesismo malgrado (« malgrado le mie speranze » 5, « m. la sua delicatezza » 7, « m. il mio poco merito » 601, « m. il timore » 607, « m. la cognizione » 927, « M. le mie ripetute premure » 978, « m. il bene » 1693, « m. il freddo » 1888, « m. le mie prediche » 999*, « m. la grande difficoltà » 1340, « che estrema necessità mi sforzi malgrado mio » 1806), sulla forma tradizionale a malgrado di (« a malgrado degli stranieri » 80, « Malgrado di tutto ciò » 1026, « malgrado di qualunque patto » 1548, « malgrado del gran dolore » 1767). 5
1 Oltre alle tre di OM segnalate da Vitale 1992a : 79 (sempre in contesti dialogici caratterizzati da una spiccata ironia : OM iii 44 ; viii 152 ; xiv 96), nel resto dell’opera leopardiana trovo un esempio nelle Annotazioni alle dieci Canzoni del ’24 (P* 189), uno nel preambolo alla ristampa delle Annotazioni del 1825 (P* 164) e, in poesia, nell’Arte poetica di Orazio travestita ed esposta in ottava rima x v. 76 (P* 793). 2 Sulla qualifica dell’avverbio cfr. Migliorini 1960 : 303. 3 Anche nelle lettere di Manzoni costì è più largamente usato, mentre punto compare solo dopo la correzione del romanzo (cfr. Savini 2002 : 110-11). L’avverbio è ben attestato anche tra i corrispondenti. 4 Per la grafia rinvio a 1.1.4. 5 Già nel Settecento « Malgrado (“malgrado la lontananza”, Zanotti ; “malgrado le gelosie frequenti”, Bettinelli) tende a sostituire, secondo l’esempio francese, il costrutto tradizionale a malgrado di », Migliorini 1960 : 544. Trovo questa forma anche in Carlo (535), Paolina (851, 862), Vieusseux (1441), Antici (847).
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fabio magro 5. Verbi 1. Alternanze tematiche
Per quanto riguarda la palatalizzazione della consonante finale del tema (cfr. Rohlfs § 534 e segg.) riscontro la prevalenza dell’esito palatalizzato da lj in vagliono (299, 342, 600, 831), vaglia (344, 985, 1774, 1858), vaglio (606, 641, 1175), vagliano (1319), rispetto a valgono (39), e valgo (1619) ; ma viceversa, se prefissato, registro solo prevalga (299), prevalgo (473, 646, 1147, 1401, 1911). Zib alterna le due forme anche se il verbo porta il prefisso : trovo infatti vaglia (20, 24, 790, 822, 1015 ecc. per 14 occ. tot.), vagliano (3003), vaglio (2429), vaglion (3475, 4518), vagliono (2780, 2855, 2904, 2912, 2948 ecc. per 16 volte), e appunto prevaglia (2479, 3595), prevagliano (3297, 3335), prevagliono (2609), mentre al contrario valgano (3633), valgono (1852, 3047, 3570, 3995, 4007), e prevalga (404, 1694, 3584), prevalgono (1899, 3120, 3878, 4003). Lo stesso assetto si ritrova sia in OM che ha prevagliano (viii 192), prevagliono (xiii 11.57), vaglia (xxi 105, xxii 236, App. iv 110), vagliono (xiii 9.77, xxiv 190) e prevalga (iv 52), prevalgono (viii 174), valgano (iii 19), sia in P in cui trovo vaglia (xliv 12), vagliono (xxv 5, cx 1), prevalga (lii 5). Trovo inoltre vaglia nelle Annotazioni alle Canzoni del 1824 (nella prima nota alla canzone vii, Alla primavera, cfr. PP* 191), in una nota delle Inscrizioni greche triopee (PP* 545) ; e prevaglia nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (PP** 271). 1 In poesia solo nelle ottave dell’Arte poetica di Orazio trovo vaglia (23 v. 1, PP* 797) e valgon (40 v. 6, PP* 802), mentre nella traduzione delle Odi di Orazio riscontro valgono (libro i, ode xi v. 9, PP* 704 ; ode xx v. 13, PP* 712) Pur essendo chiara la scelta per la forma connotata letterariamente, si può notare come in realtà i due tipi convivano anche a breve distanza : in Zib in una stessa pagina, la 3570 ; 2 in OM nella medesima operetta, ad appena 12 righe di distanza (viii 174 e 192) ; e in E in una stessa lettera, la 299, in cui tra l’altro la forma scelta emerge in un contesto (« giungere a scriver cose che non vagliono un fico ») che la neutralizza, o meglio sembra ricondurla all’uso corrente del poeta. Ancora in un ambito di palatalizzazione, con un esito che segue da vicino la pronuncia dialettale e/o regionale campana o marchigiana, segnalo, in missive tutte indirizzate da Napoli a Monaldo, ammobigliati (1888, 1957), ammobigliarlo (1888), smobigliati (1957) (nessun’altra occorrenza di questa forma nel corpus di opere leopardiane, e neppure tra i corrispondenti). 3
1 SPM permette di cogliere come la prassi leopardiana sia in controtendenza rispetto alla lingua dell’epoca – almeno quella registrata dai giornali milanesi o settentrionali – : lo spoglio infatti fa registrare, sommando tutte le varie voci, una netta preferenza per le forme “dure”, vincenti su quelle con palatale per 33 occorrenze a 10. Di « cultismo ricercato » parla in effetti Vitale 1992a : 56. Qualche esempio anche nel carteggio di Nievo (cfr. Mengaldo 1987 : 72). TB tuttavia offre la coniugazione per entrambi i tipi senza distinzione. Tra i corrispondenti del poeta le forme sono in parità : vagliono (162, 1968 di Giordani ; 402 di Brighenti ; 510 di Melchiorri), vaglia (1968 di Giordani), vaglio (224, 278, 587, 640 di Brighenti), di contro a valgono (476, 522, 862 di Monaldo ; 1822 di Antici), valga (29 di Cancellieri ; 1140 di Stella), prevalgo (680 di Melchiorri ; 1648, 1822 di Antici). 2 Per Zib pare interessante segnalare inoltre che mentre il tipo palatalizzato copre tutto l’arco cronologico dello scartafaccio, la prima occorrenza del suo allotropo è a p. 1852. 3 In Toschi 1889 trovo « mobiglia = mobilia ».
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Riguarda inoltre il folto gruppo dei verbi in -go 1 un’altra serie di alternanze tematiche riscontrate nel carteggio : la più significativa, 2 almeno su un piano numerico è quella tra veggo (9, 479, 569, 574, 594 ecc. fino a un totale di 55 occ.), vegga (591, 778, 1146, 1153, 66*), veggono (1082), veggano (1431) nei confronti della maggioritaria vedo (39, 136, 193, 194, 241 ecc. fino a 80 volte), vedono (392, 514, 1323, 1431, 60*, 122*) ; veda (3, 91, 316, 432, 544 ecc. per 16 occ.), vedano (1525*, 1534*) ecc. Va detto però che nell’ultima parte dell’epistolario la forma in -go è numericamente vincente sull’altra. 3 L’oscillazione in ogni caso si estende ai derivati avvegga (514), m’avveggo (690, 855, 1127, 48*), rivegga (1823), provvegga (618), cui rispondono mi (m’) avvedo (7, 197, 292, 299, 435, 514, 182*), avveduto (67, 356), rivedo (852, 1774). Nello stesso ambito si colloca l’oscillazione tra chieggo (316, 724, 1127), richieggono (1034, 755*), e chiedo (392, 777, 778, 965, 994 ecc. per 11 volte), chiedono (1799, 1525*, 1771*, 1887*), richiedono (693), richieda (1395). Nel carteggio non si riscontrano mai in ogni caso i più connotati poeticamente veggio/veggiamo ecc. o chieggio, che sono presenti, in particolare il primo, anche in prosa, non solo in OM e P ma pure in Zib (veggiamo fa contare ad es. 31 occ.). Si ritrova l’estensione della velare anetimologica che ha dato origine a questi allotropi anche in tenghiate (392), astenghiate (246), venghiamo (474, 1142, 1724, anche se si riscontra pure veniamo 466), convenghiamo (1408*, ma conveniamo 103*), forme che hanno pochi riscontri nel resto dell’opera leopardiana, in particolare in Zib : tenghiamo (4277), astenghiamoci (4258), venghiamo (4207). 4 Alternanze dovute in origine ad adeguamenti analogici sulle voci di stare e dare sono quelle che riguardano andare e fare, con le coppie vado / vo e faccio / fo. 5 Nettamente minoritarie per entrambi i verbi sono le forme di derivazione regolare : prevale dunque vo (225, 299, 323 ecc. per 26 volte) rispetto a vado (744, 777, 1678, 48*, 698*, 799*) ; fo (36, 67, 136 ecc. fino a 114 occorrenze) su faccio (5, 11, 23, 32, 94 ecc. per appena 17 volte). Da sottolineare che mentre vado registra la sua prima occorrenza solo in 744, dell’ottobre 1825, faccio compare già in 5, in data molto alta (24 dicembre 1810) ; sia
1 Cfr. Rohlfs § 535 e Serianni 2009 : 199-200. 2 Da tener presente però che « veggo per vedo costituisce a lungo, nel xix secolo, una variante neutra, priva di connotazioni letterarie » (Serianni 1986 [1989 : 204]). Resta il fatto tuttavia che rispetto ai riscontri fatti segnare da E e da Zib, OM ribalta la situazione riducendo a poche presenze l’allotropo con dentale (vedendo 5, vediamo, 1, vedo 1) ; sulla stessa scia si muove anche P. La polarizzazione che in questo modo si viene a creare fa pensare che Leopardi sentisse comunque il tipo con velare come più scelto. 3 La velare è esclusiva di Carlo Antici (unico tra l’altro ad avere anche richieggo, 443) che ha veggo (602, 672, 732, 869, 923), preveggo (747). Per il resto trovo comunque in Giordani veggo (79, 309, 496, -a 1012, 1071), in Brighenti vegga (1027), in Melchiorri veggiano (668), in Stella vegga (1140). Presenta una situazione articolata su tre livelli Antonelli 2003 : 171-72. 4 Venghiamo compare inoltre nel preambolo alla ristampa delle annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824, pubblicato sul « Nuovo Ricoglitore » del settembre 1825 (PP* 165) ; venghi invece è nel ME (PP** 1059). 5 Patota 1987 : 119-21 ricostruisce la distribuzione delle due forme attraverso la tradizione e offre alla nota 303 un riepilogo delle indicazioni lessicografiche e dei grammatici del primo Ottocento. Si può aggiungere Fornaciari Gramm.8 : 90 che pur mettendo sullo stesso piano le due forme dà per prima vo, mentre il contrario fa Puoti 1847 : 99 (« Io vado o vo ») ; TB : « Vado per Vo, il che è più in uso ». Per quanto riguarda i corrispondenti è da sottolineare come si attesti sulle posizioni di Leopardi, per entrambe le coppie, solamente Giordani : vo (56, 104, 148, 217, 283, 367, 736, 1413), contro vado (104, 212, 235) ; fo è esclusivo (63, 104, 233, 408, 582, 953). A parziale conferma cfr. Fornaroli 1976 : 135 il quale attesta che per Giordani « le prime persone di andare e fare sono sempre vo e fo, forme toscaneggianti ». Per una panoramica sui carteggi ottocenteschi cfr. Antonelli 2003 : 170-71.
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l’una che l’altra coppia possono essere utilizzate nella medesima lettera, come accade in 777, 1678 per vo / vado e in 825, 1798 per fo / faccio : non sarà forse senza importanza che si tratti sempre di lettere ai propri familiari. Significativo in ogni caso che sia vado sia faccio restino escluse non solo da OM e P, ma anche da Zib (tranne che in due rapide notazioni linguistiche). 1 Segnalo ancora l’alternanza tra incoraggiare (80), incoraggiato (531), scoraggiato (49*) e incoraggire (193), incoraggito (994), scoraggito (730), -e (93), scoraggimento (313, 730), presente anche in Zib (incoraggiare 4515, incoraggiarli 2607, scoraggiamento 136, 214 ; scoraggiare 102, scoraggiata 2234, -i 3252, -o 909 di contro a incoraggisse 565, scoraggimento 84, 259, 485, 789, 4109, scoraggirsi 775, scoraggito 614, 2382, e pure a incoraggisce 3528 e scoraggisce 4109). 2 Nel participio passato il metaplasma di coniugazione si nota in compito : « ho compito il corso delle disgrazie » (296), « il lavoro […] compito due mesi prima » (19*), -a « Amerei grandemente che la stampa del secondo Libro della Eneide fosse compita colla possibile sollecitudine » (26). 3 Altra oscillazione è tra adempire (5, 591) e adempiere (94, 779) : la prima forma si ritrova in prosa anche in EPA (PP** 647), « Sopra le doti dell’anima » (Diss 332), Zib 4348 ; mentre la seconda in SA (Binni 732.ii). 4
2. Presente Si riallaccia al paragrafo precedente la presenza degli incoativi eseguisco (241), -ono (514), offerisco (606, 865, 1175, 1455, 1637), comparisce (31, 106, 836, 1432), offerisce (690), apparisce (1922) per l’indicativo, ed eseguisca (284, 288), apparisca (1065) per il congiuntivo. 5 Solo per offrire tuttavia si ha competizione con l’allotropo offro (389, 435, 808, 874, 991, 1040, 1610, 1581*, 246*, 871*, 755*), offre (304, 538, 819, 1922, 107*, 698*), mentre per gli altri casi la forma incoativa rimane l’unica utilizzata. 6
1 Davvero poche complessivamente, per questi due verbi, le occorrenze del tipo regolare nel corpus leopardiano sia in poesia sia in prosa, e tutte di data molto alta. Faccio conta 5 presenze e vado 6 (tra cui una nella traduzione delle poesie di Mosco, viii.16 (Binni 420.i), una in quella delle Inscrizioni greche triopee (Binni 428.ii), una in SA (Binni 601.ii), e in ogni caso in opere composte tra il 1810-12 (EDG 350 ; Binni 543. ii, 556.ii). 2 A proposito di incoraggire, Bonomi 1990 : 527 afferma che « preferito nel toscano all’allotropo in -are […] questo verbo è sgradito ad alcuni dizionari generali, tra cui Tramater e TB, e soprattutto ai puristi (Azzocchi, Lissoni, Parenti, Ugolini, Bolza, ma difeso dal Viani) ; il GDLI per l’Ottocento dà attestazioni prevalentemente toscane » ; si veda anche Serianni 1981 : 172. Trovo scoraggito in Monaldo (815), scoraggimento in Vieusseux (1410), incoraggire in Antici (863). La forma in -ire, « in quanto più tipicamente toscana », è preferita da Manzoni (Savini 2002 : 275). 3 Cfr. Zib 3834. Appena un paio di altri esempi trovo nel Discorso sopra Mosco (PP* 477) e ancora in Zib 2095. Da segnalare che per TB e GB compire era più comune di compiere ; RF rinvia dal secondo al primo (-iere > -ire). 4 Manzoni nelle lettere passa da adempiere a adempire dopo la Quarantana. Si veda Savini 2002 : 84 da cui cito anche la nota 2 : « GB mette a lemma adempiere ma annota che adempire è forma più comune nella maggior parte della coniugazione. Nel participio passato adempiuto, anch’esso corretto nella Quarantana in adempito, è variante eletta nelle Operette morali e definito non comune da TB ; prevale però in SPM : adempiuto 10 / adempito 5 ». Per quanto riguarda il participio passato va detto che in E si riscontra solo la forma adempiuto (-i 374, 465), mentre nel resto del corpus leopardiano registro adempito solo in SA (Binni 607.i). 5 Fornaciari Gramm8 : 90 e 98 pone sullo stesso piano apparisco e appaio, mentre pur mettendo offerire, da cui viene offerisco ecc., vicino a offrire, lo dichiara meno usato. Per Tommaseo (TB) « Offerisco è inusit., e fa equivoco con Ferire ; tanto più pericoloso a ricordarsi, che certe offerte son vere piaghe ». 6 Cfr. Vitale 1992a : 56-57 : « normale nella tradizione letteraria, per le forme rizotoniche dei verbi della IV classe, la presenza del suffisso incoativo -isc accanto alle forme, certo con sfumatura meno eletta nell’Ot
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Per la prima persona singolare di dovere è costante debbo all’indicativo (9, 23, 27, 31, 55 ecc. per 78 occ. totali solo per gli autografi ) e debba al congiuntivo (16, 119, 288, 310, 314 ecc. per 60 occ.), mentre è alla terza persona che entrano in concorrenza dee (14, 155, 177, 179, 460 ecc. per 34 volte), con deve comunque maggioritario (3, 5, 10, 167, 201 ecc. per 46 volte). 1 Una sola occorrenza fa registrare debbe (« bastandomi che vi compiacciate d’indirizzare al nome falso i soli foglietti, ch’essendo sotto fascia, potrebbero altrimenti esser letti da chi non debbe », 637 a P. Brighenti). 2 Per lo stesso verbo riscontro un unico caso di tema in palatale e cioè deggiono (310), 3 rispetto al quale però segnalo debbono (241, 328, 486, 576, 596, 600, 805, 1493, 1934, 1949) : se la letterarietà del tipo palatalizzato ne consente l’utilizzo in poesia, in prosa si riscontra comunque lo stesso deggiono in Zib (3050, 3806, 4065) e nel volgarizzamento delle Operette morali d’Isocrate (PP** 1088, 1094 per 2 v.). 4 Eterogenei sono i contesti in cui questa forma eletta è accolta : la lingua del volgarizzamento è senza dubbio connotata sul piano letterario e costellata di arcaismi e preziosità, sostenuta com’è dalla ricerca di « un italiano che spero non pecchi d’impurità né di oscurità » (lettera a Carlo Antici, 661) ; più varia è invece la situazione per Zib in cui le 3 presenze di deggiono si collocano nell’ambito di altrettante differenti riflessioni di carattere sociologico, antropologico e in materia di stile ; in E infine l’inedito « ufficio di consolatore » assunto da Leopardi nei confronti di Giordani si esprime in una lettera vibrante in cui il ricorso al proprio sistema filosofico è accompagnato e acceso da lampi di tenerezza e commozione. Una forma come deggiono dunque (ma così per svariate altre naturalmente), permette di notare come alcune opzioni – non escluse quelle più connotate letterariamente – si attivino sulla pagina di Leopardi non solo in base a considerazioni di genere o diafasiche, ma anche sulla spinta di sollecitazioni emotive, come se l’urgenza affettiva spingesse verso un innalzamento del tono, verso l’adozione di un registro più scelto. Il carteggio condivide con il resto della produzione leopardiana una serie di verbi che alla seconda singolare del congiuntivo presente escono in -i : 5 abbi (479, 508, 820,
tocento, senza suffisso ». L’autore offre inoltre un’abbondante esemplificazione sia dalla lingua dell’epoca che dalle opere leopardiane. Non molti invece sono i riscontri tra i corrispondenti del poeta : Giordani ha offerisco (42), apparisce (47), abborrisco (105) ; Carlo comparisce (532) ; Brighenti compisco (1532) ; Vieusseux offerisce (607) ; Antici comparisce (156), languisce (704), apparisce (704), scompariscono (856). Tali forme sono attestate non solo nell’epistolario del Nievo (cfr. Mengaldo 1987 : 71), ma anche nella prosa crociana d’inizio Novecento (cfr. Colussi 2007 : 87). 1 Sulla peculiarità dell’epistolario, che rispetto alle altre opere in prosa privilegia la forma oggi corrente, si veda Ricci 2003 : 92. 2 Queste le forme segnalate da TB : « Forme varie gramm. Il più usit. nel tosc. parl. odierno è Devo, Devi, Deve ; Dobbiamo, Dovete, Devono : Dovevo ; Dovetti, più com. di Dovei, che però si dice : Dovrò ; Ch’io deva. Ma anche Io debbo e Io debba, e Debbono e Debbano, è nell’uso. Nella lingua scritta Dee per Deve, siccome Avea per Aveva ; ma nella seconda pers. Dêi molto più rado. Deggio, anche il verso può farne senza ». Più sotto inoltre tra le forme « più o meno antiquate » è indicata « Debbe, deve » con il rinvio a « Cas. Lett. 28. (C) Bocc. g. 8. n. 1. (Nann.) ». Cfr. Serianni 2009 : 134 e 193-94, per il tema in affricata palatale. 3 Il tipo in palatale ricorre anche in Melchiorri (deggio 433, 436, 590, 673) e in Antici (deggio 561, 823, 856) tra i più inclini fra i corrispondenti di Leopardi ad accogliere elementi di accentuata letterarietà. Oscillazioni negli epistolari ottocenteschi registra anche Antonelli 2003 : 167-68. 4 Valga almeno questo passo : « Tutti gli altri negozi che accaggiono alla giornata, si debbono fare in rispetto di questi fini. Ora egli è manifesto alla bella prima che a quelli che deggiono poter fare le dette cose […] ». Da notare oltre alla vicinanza delle due forme suggerita forse da esigenze di variatio, anche l’altro tema in palatale, di cui si registrano in tutta l’opera leopardiana due sole altre occorrenze in ME (PP** 1050, 1057). 5 L’uscita in -i è avallata da grammatici settecenteschi come Corticelli 1745 [18282] : 97, 102, 113 ecc.,
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845, 1131 ecc. per 12 volte) ; sii (671, 884, 1838, 1859 ; ma sia 241) ; facci (508, 820, 1762* ; e però faccia 697, 949) ; stii (504 ; ma poi sempre stia) ; possi (1660 ; possa 406, 530) ; vogli (310, 466, 514, 1852, 1186*). 1 Il confronto con le altre opere in prosa regge solo rispetto a OM e solo per il verbo avere poiché per il resto la disponibilità della lingua dell’epistolario nei confronti del tipo in -i è decisamente maggiore : rilevo per OM abbi (iii 32, 84, 107, vii 116, viii 159, xii 122, 125, xiii 2.71, 4.23, 7.14, 9.2, 12.6, xiv 159, xxii 15, App. iv 248) ; sii (iii 64, vii 8, App. i 10) ; facci (viii 124, xxii 28) ; possi (vi 67) ; vogli (xiv 97 ; xxii 290, App. iv 81) ; vadi (iii 29) ; per P invece solo abbi (viii 19, 21), sii (xxxv 8, xxxvi 2), facci (xxiv 10) ; per Zib appena abbi (12, 99, 204, 1750), facci (204). 2 Anche per la terna di verbi in cui alla terza plurale del congiuntivo presente entra in competizione la desinenza -ieno, sviluppatasi da -iano ma via via connotata in senso letterario, E riflette la situazione generale della prosa leopardiana : 3 larga prevalenza di sieno (31, 177, 179, 194, 204, 288, 289 ecc. per 69 occorrenze) rispetto a siano (3, 14, 27, 32, 35, 91, 173 ecc. per 27 occ.), sporadiche presenze di dieno (205* ; ma diano 730, 1798, 49*) 4 e stieno (1307, 1384). 5 La Liz dà per Zib 511 occorrenze di sieno (più quattro
Gigli 1721 : 60, 70 (che però per gli ausiliari preferisce -a), e ancora nell’Ottocento trova sostenitori nel purista Puoti 1847 : 85, 87, 93, 96, 100 ecc. (ha solo abbi e sii, ma poi « tu temi o tema », « tu senti o senta »), per poi essere relegata a forma secondaria ad esempio in Moise 1878 : 458, 462, 481, o in Petrocchi 1895 : 102, prima di sparire del tutto come in Fornaciari Gramm.8 : 69, 73, che ha solo il tipo in -a (nelle osservazioni di p. 76 esplicitamente afferma che « tutte le seconde persone singolari escono in -i, eccettuato […] il congiuntivo della seconda e terza, che escono in -a : […] che tu tema, colpisca »). Tra le varie uscite « la più parte antiquate » del verbo ‘avere’, TB segnala : « Abbi per Abbia. Salv. Avvert. 1. 2. 10. (M.) Io abbi o egli abbi, e quei vadino, in vece di abbia, e di vadano…, eziandio nel miglior secolo trascorsero nelle scritture. [Val.] Pucc. Centil. 9. 82. E perchè Pisa abbi pace con voi… Quattromila fiorin te’, che son tuoi », mentre per facci, possi pone la croce d’arcaismo ma ha vogli accanto a voglia, e per vadi sottolinea che « Segnatam. in poesia non sempre si può collocare il Tu : onde per evitare l’equivoco del Vada, terza pers., giova poter dire anche Vadi ». Serianni 1989a : 61 segnala che « per il Mastrofini le serie sii/sia, abbi/abbia e simili sono entrambe ammesse ». 1 Sii è nei Paralipomeni canto v.47 (PP* 270), vogli nella Palinodia al marchese Gino Capponi v. 78. 2 Nelle lettere di Carlo trovo abbi (471, 493, 540, 1108), e possi (462, 493) ; in quelle di Paolina abbi (922, 1157, 1170), sii (1243) ; Melchiorri abbi (572, 654, 680, 683, 695, 733), sii (695), facci (835). Per Giordani invece ai riscontri dell’epistolario (abbi 262, 426, 573, 736, 1458, 1632, sii 367, 519, 573, 1397 possi 1437) possono essere aggiunti quelli indicati da Fornaroli 1976 : 136. Per Leopardi si veda anche Vitale 1992a : 60-61. 3 Che è poi anche quella del secondo Settecento e del primo Ottocento : Foscolo ad esempio usa solo sieno (cfr. Patota 1987 : 115, con le indicazioni dei grammatici settecenteschi che preferiscono questo tipo). Per l’Ottocento rinvio a Serianni 1986 [1989 : 201] secondo cui « le due forme sono, almeno nella prima metà del secolo, pienamente intercambiabili. Anche se i repertori di verbi stabiliscono delle differenze d’uso, è significativo che in SPM le proporzioni dei due tipi siano paritarie : siano 114 / sieno 112 ». Fornaciari Gramm.8 : 69 mette sieno tra parentesi, TB pone la croce d’arcaismo su dieno. Noto è il passaggio sistematico nei Promessi sposi del 1840 da sieno a siano. Sulla prosa leopardiana cfr. anche Vitale 1992a : 61 e Ricci 2003 : 93 4 Segnalo per il congiuntivo imperfetto di dare la forma dasse (« Vi prego però di dire a De Romanis che desidererei mi dasse qualche poco di tempo », 600). Nel resto dell’opera leopardiana, solo altri nove riscontri di questa forma : SA (Binni 590.ii, 702.ii, 730.ii, 735.i), Dissertazione sopra l’origine e i progressi dell’astronomia (Binni 756.ii), Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (Binni 811.i, 820.i), Sopra l’astronomia (PP** 483), Zib 429. Serianni 1989b : 435 : « Quanto al congiuntivo imperfetto dasse, modellato (come stasse) sulle forme regolari di 1a coniugazione (amasse), si tratta di una forma antiquata (“fu fatto decreto che Cesare dasse la cura”, ecc. Sarpi), ma anche di un tipo diffuso in vernacoli toscani moderni (cfr. Rohlfs § 561) e, più in generale, nell’italiano dei semicolti ». Altri riscontri in Antonelli 2003 : 163. Per Manzoni, cfr. Savini 2002 : 93. Riscontro stassi in alcune lettere di Paolina (Ferretti 1979 : 82, 101 ecc.). 5 Trovo dieno e sieno in Colletta (1436). Gli altri interlocutori hanno solo sporadici casi di sieno : Monaldo (478) ; Carlo (771) ; Paolina (1745) ; Giordani (1679, 1968) ; Brighenti (404) ; Melchiorri (427, 433, 733) ; Stella (860, 873, 907, 1048, 1073, 1087) ; Colletta (1436). Savini 2002 : 92 : « L’alternanza sieno/siano è regolare nel primo Ot
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per l’indice) e solo 104 di siano, mentre per gli altri verbi dieno (44, 1611, 3917, 4060) di contro a diano (446, 2271, 3934), e stieno (27, 1085, 1769, 2285 ; stiano non è presente) ; per OM invece ad una sola presenza di siano e per giunta in App. iv 313, ne rispondono 74 di sieno, a cui aggiungo dieno (iv 42), e stieno (xi 204) ; in P registro sieno (i 19, 42, 75, viii 20, xiii 9, xvi 3, xxiv 2, xxix 6, xxxiii 2, xliv 18, xlvi 12, liv 20, 21, lix 2, lxiv 8, lxxii 19), siano (xxxix 21, 31, 34, xci 7) ; dieno (ix 3, lxxii 10) ; stieno (lxxviii 2). Passando al condizionale segnalo un unico caso di uscita in -ia alla terza singolare, potria in una lettera a Stella di tono e carattere ordinario (« il far di tutto il Petrarca un solo volume, riuscirà […], una cosa spropositata. Si potria dividere in due », 861). 1 La desinenza letteraria è invece più diffusa in OM (saria ii 107, iii 77, vii 12, x 42, xxii 96, 202, 234, 324, 360, 384 ; dovria xxii 504 ; potria xxi 103), 2 registra qualche caso anche in Zib (avria 1650, 4258, 4390 ; saria 2863, 4061, 4180, 4487 ; saria 1 ; potria 2678, 4482, 4506), ma scompare quasi del tutto in P (solo saria xxxix 16). Più interessante per la terza plurale del presente alcune uscite in -ebbono, forma di condizionale composto con hebui (Rohlfs § 597) che risente della sostituzone di -ro con -no diffusasi in parte della Toscana in tempi antichi : 3 mancherebbono (10), varrebbono (10), diverrebbono (26), riempirebbono (466), saprebbono (663), sarebbono (403*), dovrebbono (19*). Si tratta di casi sporadici, e comunque nettamente minoritari rispetto alle normali forme in -ebbero. L’opzione tra i due tipi tende a risolversi in diacronia poiché 1. la lettera in cui si registra l’ultima apparizione del tipo analogico, la 663, porta la data del 15 gennaio 1825 ; 4 2. per OM sappiamo da Vitale che i condizionali in -ebbono furono eliminati « a partire in qualche caso dall’edizione milanese e poi prepotentemente in quella napoletana » ; 5 3. le occorrenze di Zib, pur protratte nel tempo, non reggono il confronto con l’uscita regolare (avrebbono 2705, cadrebbono 1129, cagionerebbono 3259, dovrebbono 58, escluderebbono 3257, intenderebbono 3194, parebbono 49, parrebbono 49, 993, 4467, potrebbono 60, 1072, 1168, 2330, 2577 ecc., sarebbono 439, 544, 2924, 2926,
tocento, ma la seconda variante, più diffusa nella lingua parlata guadagna rapidamente terreno soprattutto nei testi in prosa. Attendendo alla correzione del romanzo, Manzoni elimina la forma più ricorrente in poesia sieno e trasmette tale scelta anche alla scrittura privata, dove fino al 1830 sieno era tuttavia impiegato quasi unicamente ». 1 Nel resto del carteggio trovo appena : potria Monaldo (467), saria Monaldo (549), Melchiorri (567), Stella (1039), staria Melchiorri (610). Un marchigiano, un romano e un milanese per un tipo che « da tempo era uscito dall’uso e veniva riguardato come arcaico e poetico » (Antonelli 2003 : 164) ; la forma è però anche presente nei dialetti dell’Italia centrale (cfr. Rohlfs § 594-96 e Serianni 1989b : 395). 2 Più diffusa è comunque la forma in -ebbe, cfr. Vitale 1992a, 61-62 (con la documentazione in nota). Faccio notare che il Dialogo di Plotino e di Porfirio contiene da solo la metà di tutti i condizionali in -ia delle Operette. 3 Nel Martirio dei santi padri 4 occorrenze di ebbono (PP** 1026, 1033, 1034, 1037). Sulla lingua del falso leopardiano si veda Serianni 1994 [2002 : 38-44 (in particolare qui p. 43)]. La forma è « anche hora da buoni scrittori […] adoperata » secondo Bartoli (Bozzola 2009 : 272-73, a cui rimando anche per la bibliografia di riferimento). Per l’intera questione rinvio naturalmente a Nencioni 1955. 4 Tra i corrispondenti di Leopardi, a parte un potrebbono (47) di Giordani, è da sottolineare la folta serie che si riscontra in Brighenti : potrebbono (278, 343, 425, 592, 898), farebbono (343), raccoglierebbono (343), trionferebbono (402), sarebbono (404, 434), importerebbono (592), verrebbono (638), dovrebbono (898), gradirebbono (898), vorrebbono (1156), bramerebbono (1752). Di Brighenti sono anche le forme di condizionale in -ressimo (su cui cfr. Antonelli 2003 : 163-64) : daressimo (686), vivressimo (686), potressimo (686, 898) che registro solamente nei fratelli Carlo (parleressimo 471, saressimo 493) e Paolina (vorressimo 556, faressimo 851, daressimo 922 ; anche vedressimo, in Ferretti 1979 : 29), ma non in Giacomo. 5 Cfr. Vitale 1992b : 244 e anche Vitale 1992a : 62.
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3396 ecc., vorrebbono 4428 ; segnalo che l’occorrenza più tarda si trova in una pagina del 24 febbraio 1829). Il punto di arrivo di questa parabola sembra essere rappresentato da P per cui non è dato rinvenire alcun condizionale in -ebbono, neppure tra le varianti registrate dall’edizione critica a cura di Matteo Durante.
3. Imperfetto L’assetto coerente di OM e P che per la prima persona singolare presentano solo forme con uscita in -a, è confermato da E per i verbi della terza coniugazione (compiva 5, spediva 158, 288, 289, sentiva 693, pativa 1537). 1 Per la prima e seconda invece pur restando largamente dominante la desinenza etimologica, i due tipi alternano :
1) io cercava (10), desiderava (11, 288, 432, 894, 965, 1082), curava (167), replicava (176), indicava (242), menava (242), accusava (247), pregava (247, 288, 574, 631, 1044, 1448), affidava (288), tornava (289), parlava (304, 730, 1753), entrava (304), aspettava (313, 1432, 1811), domandava (328, 574), congetturava (369), fidava (396), dispregiava (396), interpretava (396), ingannava (396), stimava (406), disperava (409), stava (466, 637, 724, 730, 852, 1763, 1777), immaginava (504, 554), passava (551), mandava (574), professava (591), dubitava (401, 591), progettava (594), contava (594, 724, 1934), dimenticava (594), sperava (557, 608, 557, 1889, 1915), portava (612), formava (618), ignorava (671), trovava (538, 706, 1330, 1694, 1905), montava (710), disperava (713), bramava (752), lusingava (805), raccontava (1066), inclinava (1102), cominciava (1278), considerava (1587), provava (1639), preparava (1715), obbligava (1724) ; ma io parlavo (479, 1771*), lasciavo (890), mangiavo (1184), trovavo (1198, 1323), speravo (1870*), rincoravo (182*) ;
2) io voleva (3, 373, 554, 557, 833, 1934), disponeva (9, 412), prometteva (16), chiedeva (55, 1568), faceva (94), diceva (164, 194, 435, 574, 636), intendeva (167, 855), poteva (176, 409, 419, 543, 690, 777, 852, 1255, 1431, 1744, 1934), sapeva (241, 242, 251, 296, 574, 598, 637, 777, 781, 1198, 1316, 1704, 1918, 1949), doveva (241, 409, 538, 641, 720, 1623), vedeva (242, 986), attendeva (282, 752), soggiungeva (288), rimetteva (288), aggiungeva (288), possedeva (292), metteva (296, 730), scriveva (299, 307), conosceva (342), credeva (419, 432, 460, 543, 671, 777, 927, 1631, 1656, 1934), accludeva (430), dipingeva (466), conosceva (468, 663), scriveva (479), teneva (706, 1066), rispondeva (1753), leggeva (1760), riceveva (1765), temeva (1899), godeva (1922) ; ma io volevo (3), sapevo (515, 1765, 1883*), intendevo (837), potevo (927), credevo (941), conoscevo (1704), dovevo (1803), facevo (799*).
A questi riscontri sono poi da aggiungere quelli relativi ai verbi essere (ero 334, 1340*) e avere (avevo 515, 520, 710, 730, 927 ecc. per 11 occ.), sottolineando inoltre che le due uscite possono alternarsi anche nella stessa lettera, a breve distanza (cfr. 3, 334, 1735). 2 Si delinea così un quadro che pone E su posizioni non toccate neppure da Zib, che per gli ausiliari essere e avere ha solo casi in -a, e che per il resto fa registrare appena 4 esempi di uscita analogica, di cui tre nella stessa pagina (correvo 64, sapevo 64, sentivo 64, assuefacevo 1365). 3
1 Per un quadro complessivo delle vicende della prima persona dell’imperfetto rimando a Serianni 1981 : 25-26. Per la situazione settecentesca invece si veda Patota 1987 : 101-04 ; per l’Ottocento ancora Serianni 1986 [1989 : 200], e gli ampi riscontri presentati da Antonelli 2003 : 150-53, integrati con Savini 2002 : 88-89 per Manzoni. Su OM cfr. Vitale 1992a : 59. 2 Al di là dei riscontri numerici, ha ragione Ricci 2003 : 103-04 nel notare come le forme analogiche siano utilizzate di preferenza nelle lettere ai familiari. 3 Piuttosto vario l’atteggiamento dei corrispondenti del poeta : preferiscono l’uscita in -o Monaldo e Paolina, mentre quasi tutti gli altri, con varia gradazione, utilizzano più spesso la forma etimologica. Fa eccezione tuttavia Giordani che ha solo io poteva (162). Per il piacentino vale la pena di ricordare le parole di
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In più di un luogo dello Zibaldone Leopardi affronta il problema della debolezza e della caduta della labiodentale : egli sottolinea innanzitutto che l’assenza della -v- dagli alfabeti antichi sta a conferma del fatto che il suo valore originario non era quello di una consonante vera e propria, ma piuttosto di « semplice aspirazione » (Zib 1126). Si tratterebbe quindi di un suono che non avendo in origine un corrispettivo segno o grafema a cui appoggiarsi risulta per ciò stesso esposto alle modificazioni della pronuncia, o ai « vezzi » del popolo. Partendo da alcune considerazioni sul perfetto dei verbi latini della quarta coniugazione (Zib 1126) Leopardi osserva poi che la fragilità o debolezza di questo suono caratterizza anche parole come nativo / natìo e coinvolge pure la coniugazione dell’imperfetto :
Del resto come i latini dicevano audivi e udii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter togliere il v agl’imperfetti della 2. 3. e 4. coniugazione e dire tanto udia, leggea, quanto udiva, leggeva, vedeva (Zib 2070).
Piena legittimità dunque agli allotropi che caratterizzano prima e terza persona dell’imperfetto, salvo sottolineare in seguito che l’imperf. dicea, sentia, ec. p. diceva, adottato nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana. Va’hia. p. vai via, cioè va via (imperfetto) : volgo toscano (Zib 4365). 1
Cercando di tirare le fila dei diversi passi, si può notare come la riflessione di Leopardi descriva una parabola perfettamente lucida e coerente, cogliendo ancora una volta il rapporto tra la lingua scritta e la parlata o “favella” toscana : se infatti la labiodentale ha in origine, negli stadi più antichi della lingua, un valore di semplice aspirazione (da cui la sua debolezza) non può non ritrovarsi ancor oggi proprio in un dialetto come quello toscano in cui così forte è l’incidenza di questo fattore. 2 Al di là della ricostruzione storico-linguistica leopardiana, ciò che più conta qui è la prassi dello scrittore che va innanzitutto collocata nel quadro, ormai piuttosto chiaro, della lingua tra Sette e Ottocento : « a parte avea e qualche altro verbo, un alto grado di permeabilità al tipo in -ea testimonia la volontà di dare una patina letteraria alla scrittura : se queste forme non erano esclusive, erano certo più caratteristiche della lingua poetica ». 3 Proprio tale divaricazione o specializzazione si coglie nell’opera di Leopardi : nei Canti e nei Paralipomeni le forme senza labiodentale sono nettamente maggioritarie (anche per motivazioni di carattere prosodico), 4 mentre si riducono a poche presenze o spariscono del tutto nelle opere in prosa : in OM trovo, sempre seguita da parola iniziante per consonante, solo avea (i.322, i.410, 412, vii.129, ix.265),
Fornaroli 1976 : 136 secondo cui « la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo esce in -a ». Si può forse ricondurre l’atteggiamento di Giordani alle prescrizioni di grammatici quali Mastrofini e Gherardini che confinano la forma analogica all’uso familiare. 1 La p. 4365 rimanda alla 4336 dove la pronuncia senza labiodentale (come qui in chiusura dello stesso pensiero) registrata anche in sostantivi e avverbi è sentita come caratteristica della parlata toscana. I vari editori dello Zibaldone rinviano opportunamente in nota alla lettura che Leopardi fece della Monaca di Monza di Giovanni Rosini che per il “capitolo del villano” aveva attinto al lessico dei Rusticali. 2 Sulla doppia polarità del fenomeno, che contempla in sé due modalità di variazione, quella diacronica e quella diastratica, cfr. Serianni 1986 [1989 : 172]. 3 Si veda l’efficace ricostruzione di Patota 1987 : 104-13 (da cui le parole citate), e i numerosi casi di forme con caduta della labiodentale registrati nei carteggi ottocenteschi da Antonelli 2003 : 153-56. 4 Il rinvio per questi aspetti va naturalmente a Contini 1947 [1970 : 41-52].
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facea (App. iiib 54, vc 73, PP** 273), parea (i.62, iii.27), ponea (ix.72), potea (i.3, xii.67), tenea (App. iiib 51) ; in P invece nessuna occorrenza. Tra questi due poli stanno E e Zib in cui i due allotropi (pur prevalendo decisamente il tipo con labiodentale) si alternano anche a distanza ravvicinata. Ecco i riscontri della forma più scelta per E. 1 Va tenuto presente che se il tipo con dileguo della labiodentale è usato anche in una lettera da Napoli del 25 gennaio 1836 (ma a De Sinner), è soprattutto nella prima parte del carteggio che esso è di gran lunga più impiegato (segnalo che Ricci 2003 : 94 individua nel 1820 il momento a partire dal quale perde la sua supremazia il tipo senza -v-) :
1. persona : avea 10, 16, 31, 255, 292 ecc. per 31 occ. ; attendea 9, 60* ; credea 49*, 110*, dovea 242, 114*, 246* ; dicea 85*, 159*, facea 22*, 66*, 85*, 114*, 205* ; leggea 60* ; potea 242, 1522, 71*, 237*, 246* ; prevedea 23, 22* ; sapea 193, 22*, 66* ; solea 5 ; tenea 111*, 114* ; vedea 103* ; volea 251, 110*, 149*, 60*, 66*, 215*, 216*, 246*. 3. persona : avea 7, 10, 14, 26, 27 ecc. per 27 occ. ; aggiungea 19* ; credea 66* ; dovea 214, 241, 242, 306, 1922, 78* ; facea 241, 71*, 82*, 66*, 103*, 246 ; parea 60* ; 149*, 49* ; potea 7, 71*, 66*, 154* ; sapea 19*, 95* ; vivea 7, 10 ; volea 60* ; mi parea 48*, 57*, 60*, 103*, 200* ; si facea 71* ; si dicea 71*. 3. persona : convenia 241.
E per Zib :
1. persona : credea 1, 143, sapea 137, solea 28 ; 3. persona : attendea 3534, bevea 3967, conoscea 127, consistea 41, dicea 340, 4365, dispiacea 3, facea 12, 65, 1122, 2917, 3435 ecc. per 12 occ., leggea 2070, mettea 41, nascea 23, potea 2, 45, 324, 1980, 2538 ecc. per 12 occ., producea 3308, ricevea 795, sapea 3, scrivea 3992, solea 77, 100, sorgea 64, succedea 2425, tenea 146, 1280, 2413, vivea 2722, 4476, volea 41, 65, 169, 2724, 3073, 4479, convenia 3223, venia 88, 106. 2
Anche per la prima persona plurale il divario tra le due forme permane : in E trovo aveano (16, 31, 299, 304, 1184, 168*, 175*, 95*) accanto ad avevano (321, 407, 409, 991, 1106, 1693, 1946, 886*, 131*, 931*) ; poteano (9, 246), e potevano (538, 679, 944, 1106, 1431, 1957, 1459*, 103*, 114*) ; spicca invece un solo pareano (60*). 3 Come si può notare, e come si è detto più sopra, le attestazioni si collocano in grandissima parte nella prima fase
1 Per il tipo in -eva darò solo, per ragioni di spazio, il totale delle occorrenze dei verbi più diffusi che sono 120 per aveva, 42 per poteva, 12 per pareva, 16 per credeva, 25 per voleva ecc. La scelta tra uno dei due tipi non pare influenzata dall’attacco vocalico o consonantico della parola che segue. Se si nota infatti una leggera preferenza per far seguire la forma in -ea da un vocabolo che inizia per consonante, trovo anche : avea argomentato, avea avuto, dovea esser, facea onore ecc. (e viceversa). 2 Aggiungo in nota il riscontro numerico su alcune altre opere in prosa. EPA : avea 6, facea 2, ponea 1, pretendea 1, scrivea 1, vivea 4 ; aveva 1, conteneva 1, esisteva 1, faceva 1, giungeva 2, poteva 1, prendeva 1, rendeva 1, rileva 1, sosteneva 1, vedeva 1, conferiva 1, veniva 2. PR : avea 2, dicea 1, dovea 1, facea 2, parea 2, confluia 1, convenia 1 ; aveva 1, conosceva 1, diceva 2, doveva 4, faceva 1, nascondeva 1, pareva 3, possedeva 1, rendeva 1, scriveva 1, soggiungeva 1, soleva 1, vedeva 1, voleva 2, appariva 1, conveniva 1, fuggiva 1, ingrandiva 1, offeriva 1, veniva 2. CI : -ea 0 ; aveva 1, doveva 1, eccedeva 1, poteva 1, favoriva 1. Lettere alla Biblioteca italiana : avea 2, credea 1, potea 2, convenia 1 ; credeva 1, nudriva 1. Discorso su Frontone e Lettera al Giordani sul Frontone del Mai : avea 12, cedea 1, conoscea 1, corrispondea 1, facea 1, parea 1, potea 1, sapea 1, scrivea 2, solea 1 ; ardeva 1, accresceva 1, aveva 1, concedeva 1, conosceva 1, consisteva 1, diceva 4, doveva 1, faceva 1, metteva 1, mugneva 1, porgeva 1, poteva 1, produceva 1, raccoglieva 1, riprendeva 1, scorreva 1, scriveva 2, soleva 1, sopravviveva 1, spremeva 1, supponeva 1, taceva 1, teneva 1, viveva 2, voleva 2, ammoniva 1, conveniva 2, fuggiva 1, nutriva 1, riveriva 2, scherniva 1. 3 Per lo Zibaldone i rapporti tra i due tipi sono : aveano 36 / avevano 158 ; poteano 3 / potevano 43 ; pareano 2 / parevano 8. Per restare al solo aveano basti dire che di 36 occorrenze della forma senza labiodentale ben 25 si collocano entro il 1822.
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del carteggio ; d’altro canto l’utilizzo dei due allotropi può avvenire anche a distanza ravvicinata, nella stessa lettera o nella stessa pagina, senza che ciò comporti un innalzamento di tono, come dimostra a p. 41 di Zib il seguente passo : « quello degli antichi [il ridicolo] era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo [ecc.] ».
4. Perfetto Poche le alternanze riscontrate per il passato remoto. Se per OM sono assolute le forme analogiche in -etti/-ette, come da Vitale 1992a : 59-60 (credetti xxiv 16, 22 ; dovetti App. vc 164 ; risolvetti App. vc 165 ; credette xi n.1, xiii 8.100 ; dovette xv 1.84 ; credettero vi n.1 ; dovettero ii 125 ; eccedettero i 237 ; perdettero App. i 49), si registra in E la presenza di credei (304, 248*), credè (242, 19*), ricevei (255, 365), ricevè (327), dovè (167), forme che si localizzano chiaramente nella primissima parte del carteggio, e che restano comunque largamente minoritarie nei confronti dei rispettivi allotropi : credetti (544, 710, 978, 110*, 798*, 1062*), credette (554), dovetti (852, 884, 986, 1226, 1786, 1923, 360*, 707*, 1655*), dovette (936, 1529*), ricevetti (165, 485, 534, 538, 529, 591, 648 ecc. per 33 occ.), ricevette (554, 798*). 1 Ben diversa è invece la situazione per Zib in cui il tipo in -éi, -é, analogico sulle forme della prima coniugazione (Rohlfs § 574), non solo presenta una distribuzione più omogenea, lungo tutto l’arco dello scartafaccio, ma in alcuni casi prevale sulla forma concorrente : 2 credè (744, 1449, 1540, 2101, 4357), esistè (1341, 2078, 2245, 3039, 3688), perdei (3519), perdè (127, 559, 708, 758, 1098, 1279, 2101, 3223, 3908, 4194), precedè (4349), possedè (750, 767, 768), rendè (472, 752) ecc., crederono (2488), esisterono (3350), perderono (23, 1480), possederono (1496, 3663), precederono (1138, 3873), renderono (2103), riceverono (748, 1070, 1945), di contro a cedette (995, 1012), credetti (29, 1741, 1742), credette (1731, 1732, 3150, 3592, 3598, 4120), eccedette (3598), esistette (2803), godette (3160), perdetti (4420), perdette (2015, 2062, 2929), possedette (3519) ecc. Solo per il passato remoto di dovere il rapporto ritorna in modo schiacciante a favore del tipo modellato su stetti (Rohlfs § 577) : dovette (54, 439, 980, 1266, 1267 ecc. fino a 75 occ.), dovettero (1041, 1269, 1275, 1283, 1284 ecc. per 30 occ.) ; dovei 3700, dovè 996, 1129, 1157, 1269, 1271 ecc. per 14 volte), doverono (1051, 1809, 2385). 3 Da segnalare appena due casi di sofferse (242), offerse (477) contro uno solo, e alla prima persona, di soffrii (520).
1 Il carteggio tuttavia ha sempre diedi (342, 392, 504, 538, 994, 1126, 1165, 1786) e diede (241, 342, 348, 538, 557, 890, 1006, 1306). Oscillazioni si riscontrano anche tra i corrispondenti, con netta preferenza tuttavia per i tipi in -etti/-ette. Monaldo : credetti (839), ricevetti (851, 1260, 1267, 1275, 1321, 1349), cedetti (1275) ; Carlo : dovetti (462) ; ricevetti (490, 771), godetti (1124), insistette (1129) (io) detti (462), ricevei (1124), dovei (846), ricevè (540) ; Paolina : dette (875, 996) ; Giordani : credetti (47, 63, 1091), ricevetti (153, 573), dovetti (192), dovette (47), ricevette (262) ; Brighenti : dovetti (920), dovette (635), ricevei (278, 317), credei (302, 305, 592) ; Melchiorri : ricevetti (649, 660), ricevei (565, 654). 2 Sulla sopravvivenza di alcune di queste forme nei Promessi sposi, anche dopo la revisione del romanzo, cfr. Vitale 1992a : 60n e Serianni 2009 : 210. Forme analoghe sono riscontrate anche nell’epistolario di Manzoni da Savini 2002 : 90. 3 Può essere interessante ricordare che per Leopardi « tutti i nostri perfetti in etti sono primitiv. e veram. in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuor dell’uso, da quell’altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta per evitar l’iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservaz. dell’antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. » (Zib 3700 nota).
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fabio magro 5. Participio
La riflessione leopardiana attorno al participio latino e al suo rapporto con le lingue romanze è ampia, articolata, e coinvolge sia morfologia che sintassi. L’assunto centrale delle numerose osservazioni, ben distribuite si può dire per quasi tutto lo Zibaldone, riguarda la sostanziale continuità tra participi latini e romanzi ; alcuni esiti romanzi in apparenza non direttamente riconducibili a tipi latini noti permetterebbero di ricostruire forme non attestate o attestate solo in settori marginali o in stadi antichi della lingua. 1 Si rilegga un brano di p. 3363 :
Laonde non sarà da disprezzarsi il testimonio che da’ participi regolari italiani o spagnuoli si volesse trarre a provare che anche la lingua latina avesse i participi analoghi a questi (benchè sconosciuti), e da cui questi sieno derivati. P.e. dall’ital. veduto io potrò non vanamente dedurre il latino viditus, che sarebbe appunto il regolarissimo latino, siccome quello è il regolarissimo italiano. Massime che siccome in latino visus anomalo, così trovasi ancora in italiano e in ispagn. l’anomalo visto, in cui queste lingue lasciano la loro analogia per seguire, non già l’analogia, ma l’anomalia della lingua latina […]. Similmente si può discorrere della lingua francese. E generalmente, osservando, si vedrà che quanto ai partic. passivi, quello ch’è o sarebbe regolare nelle lingue figlie (salve le solite e regolari modificazioni, cioè delle desinenze, dell’i vôlto in u nell’italiano […]) è o sarebbe altresì regolare nel latino (5. Sett. 1823.). 2
Poco prima (Zib 3284) lo stesso concetto serviva a dar ragione della presenza di forme concorrenti :
Al detto da me circa l’anomalo partic. arso che il Perticari crede di arsare e non di ardere, 3 del quale egli è pure in latino, cioè di ardeo, arsus ; si può aggiungere che la lingua italiana (ed anche le sue sorelle) bene spesso, secondo che la lingua latina ha diversi participii d’un solo verbo, diversi n’ha ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari o irregolari che siano quanto all’analogia latina o italiana. P.e. da figo-fixus-fictus, figgere-fisso-fitto. Talvolta ella ha quello che corrisponde all’analogia italiana, e insieme quello che il verbo ha nel latino, sia regolare participio o anomalo in esso latino. 4
Interessa soprattutto sottolineare la pari dignità, almeno su un piano di filiazione, attribuita agli allotropi, la cui presenza in E si caratterizza per una vitalità vicina a quella di Zib, mentre più orientata verso forme letterarie è la scrittura di OM e di 1 Sui participi romanzi contratti che non hanno corrispondenti nella “buona latinità” ma che non per questo vanno considerate formazioni autonome si veda Zib 2346-7. Interessante notare che proprio in questa pagina si incontra l’analogico prevaluto (che in E compare in 598 : « Trovando qui persona che ha conoscenza col Corriere, me ne sono prevaluto per farvi recapitare senza spesa di posta il manoscritto »). 2 Per l’origine di visto dal latino volgare visı˘tus, rimando a Rohlfs § 624. 3 Si veda Zib 2688 : « Il Perticari nell’Apolog. di Dante p. 207, not. 19 trovando in un’antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato un vocabolo senza radice, giacchè dal verbo ardere dovrebbe derivare arduto e non arso. S’inganna : ed anzi il verbo arsare deriva da arso di ardere che n’è la radice. I participi de’ nostri verbi sono per lo più i participi latini, quando il verbo è latino. Se in questi participii è qualche anomalia, la ragione e l’origine della medesima, non si deve cercare nell’italiano né nel provenzale, ma nel latino, sia che quest’anomalia esista anche nel latino, sia che quel participio (e così dico delle altre voci) ch’è anomalo per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l’uso italiano, massime nel particolare dei participii, ha seguito ordinariamente l’uso latino senza guardare se questo corrispondesse o no alle regole o all’analogia della nuova lingua che si veniva formando ». 4 Inutile dire dove stia la ragione. Rinvio a Rohlfs § 622 per i participi deboli in -uto e a § 625 per i participi forti in -so (dove sono registrate altre coppie, tra cui perduto / perso, renduto / reso ecc).
morfologia
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P. In ogni caso prevalgono dappertutto le forme deboli, che all’orecchio di Leopardi dovevano comunque suonare più regolari secondo i modelli di derivazione romanzi fondati sull’analogia, e che del resto i grammatici indicavano come di pertinenza della prosa : 1 se perduto prevale assolutamente su perso, veduto (21, 27, 28, 67, 80, 242, 277 ecc.), vince largamente su visto (1246, 1656, 1665, 1678, 1698, 1704 ecc. ; più utilizzato però nella seconda parte del carteggio), come conceduto (720, 1731, 60*, -i 242, 1209*, -a 796, 1142, 1923, 85*) su concesso (31, 227, 241, -e 194, -a 227) ; più in equilibrio è la situazione per renduto (220, 984, -a 328, 1554, 1923, 160*, -e 154*, -i 234*), rendutami (1082), rendutomi (118*) su reso (119, 242, 1899, 552*, 19*, -a 479, 480, 534, 694, -e 530) ; e per paruto (251, 412, 936, 1249, 57* ecc. per 10 volte) su parso (392, 514, 598, 1753, 1811, 1911, 114*, 124*, -a 948*, 66*, -e 175*, 1136*). Tutto sommato analoga è la situazione di Zib, come già avvertito, eccetto che per reso, -a, -i, -e (55, 76, 159, 189, 253, 328, 432 ecc. per 56 occ.), resolo (2446), resala (3616) maggioritario rispetto a renduta (728, 3633, -e 3653, -i 270, 1026, 2423, -o 42, 95, 1083, 1445, 2254, 3038, 3278, 3791), rendutigli (3453), rendutinegli (769). Tra i participi forti in -so l’unico verbo che presenta alternanza, pur con prevalenza della forma toscana, è rimanere che in E ha rimasa (594, 690), ma rimasta (539, 840, 994, 149*, 261*), in Zib rimasa (771, -e 1012, -o 1093, 3459), e rimasta, -e, -i, -o (34, 55, 70, 138, 177 ecc. per 27 occ.). L’uscita in -uto di conceputo (504, ma concepiti 10, 154*, 182*, -a 28, 679, 1493, 1767, 246*, -o 534, 553, 554, 1370, 849*, 290*), come estensione alla coniugazione in -i di una desinenza del participio debole della seconda coniugazione, si trova, pur minoritaria, in Zib (conceputa 1537, 3191, 3502, -e 3124, 3878, -i 2959, -o 2959, 3145, 3834), 2 OM (conceputo xiii 5.8), e nelle Memorie del primo amore (conceputo SFA 39). Non resta che segnalare la presenza degli aggettivi verbali tocca (13), tocco (268*), che ha riscontri – ugualmente pochi – sia in Zib (tocchi 2332, 3275, 3321 ; -co 1369, 1722, 3509, 3610, -che 40, 1494, -ca 1558), sia in OM (tocchi i 55), sia in P (tocchi i 41, lxxii 9). 3
1 Cfr. Serianni 2009 : 221-22. Su veduto / visto cfr. Patota 1987 : 122-24. Davvero pochi in effetti sono i riscontri della forma debole per i Canti : perduta ne « Il Sogno » 78, « Alla sua donna » 39 ; perduti in Alla sua donna 39, Il risorgimento 39, La ginestra 11 ; pers- 0 occ. ; veduta ne la Palinodia al marchese Gino Capponi 108 ; vist- 12 occ. ; rimaso ne Il primo amore 55, Frammento Odi Melisso 17 ; rimast- 0 occ. Per OM rinvio a Vitale 1992a : 62-63. Per l’epistolario manzoniano si legga invece quanto osservato da Savini 2002 : 94-95 : « lo spoglio rileva la preferenza accordata ai participi forti reso e visto successivamente alla Quarantana, in virtù della loro maggior consuetudine nella lingua colloquiale colta, benché dalla codificazione grammaticale essi siano riservati alla poesia ». 2 « Dico altrove che noi sogliamo cangiare l’i de’ participii latini in us, usitati o inusitati, nella lettera u. Che questa mutazione dell’i in u (mutazione propria della voce umana, come ho detto altrove in più d’un luogo) ci sia naturale segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e conceputo (diciamo anche concetto, voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura). Ma questo secondo è più italiano ed elegante […] ». Rispetto a quest’ultima affermazione noto che l’unica occorrenza nel carteggio è in una lettera al fratello Carlo (« io non m’immaginava in alcun modo che mio padre fosse per concepirne quei sospetti che n’ha conceputi » 504). 3 Sulla formazione (già in latino) di questi participi accorciati si veda quanto afferma lo stesso Leopardi in Zib 2757-58 di cui riporto il passo finale : « E tanto maggiormente si dee credere che questa sorta di contrazione familiarissima a noi, fosse anche più familiare al volgo latino che agli scrittori, quanto che il popolo ama sempre le contrazioni e accorciamenti. (10. Giugno. 1823.) ».
5. SINTASSI 1. Uso dell ’ articolo resenza e assenza dell’articolo si alternano per tutto il carteggio, con una più evidente preferenza per forme più scelte nella prima parte. Per le oscillazioni con i nomi di persona prendiamo un esempio su tutti, quello di Giordani (ma ad es. anche « il Moliere » 251 ecc.). Solo in un primo momento è dato riscontrare la presenza dell’articolo : 1 « il Giordani e il Mai » (136), « scrissi al Giordani » (176), « avendomi avvertito il Giordani » (193), « la nuova operetta del Giordani » (197), « lo squarcio di lettera del Giordani » (214), « le prose del Giordani » (241) ecc. ; mentre poi « se Monti o Giordani concorressero » (321), « una copia delle prose di Giordani » (225), « Il 20 ho scritto a Giordani » (345), « due nuovi volumi di Giordani » (430), 2 « Ricevei la lettera di Giordani » (365), « ebbi […] colle lettere di Giordani e di Stella » (1025) ecc., fino ad arrivare anche all’omissione della preposizione in « le accusava la ricevuta […] per la posta delle Prose Giordani » (247), « io le debbo […] per le prose Giordani » (292), oppure ad un uso promiscuo come in « io ricevei molto tempo fa, tanto la Congiura di Napoli, le Avventure di Saffo, la Cronica del Compagni, la Vita del Giacomini, quanto per la posta le prose Giordani » (255). 3 Analoghe le alternanze con altri nomi tra cui Mai (« il volume del Mai » 16, « non so chi ti abbia scritto del pranzo di Mai » 520), Capponi (« quelle amorose parole che hai dette di me al Capponi » 690, « le critiche sullo stile e la lingua della lettera al Capponi » 819, « Fate i miei complimenti, vi prego, a Reynhold, a Capponi, al P. Mauro » 1201) ecc. 4 Con i nomi di parentela spicca la divaricazione tra papà con l’articolo (465, 479, 481,
P
1 Vale la pena, a questo proposito, riportare un brano della lettera 66* (del 30 maggio 1817) in cui Leopardi, su invito dello stesso Giordani, esprime i propri giudizi sulla prosa del piacentino : « Ho notato che Ella, come mille altri de’ buoni, usa nominando le persone pel solo cognome, lasciare l’articolo. Ora da qualcuno vissuto certo tempo in Toscana, ho sentito che questo là non si fa, e non si vuol che si faccia, perchè, dicono, il cognome è aggettivo e non può stare da se, valendo quanto il patronimico dei greci, onde come non si dice, p[er] e[sempio] Pelide assolutamente ma, il Pelide, così non si può dire, Salviati Valori Strozzi, ma il Salviati il Valori lo Strozzi. Questa ragione a me quadra e può stare che negli antichi non si trovino molti esempi contrari. Veda Ella se le par buona ». Giordani risponde (lettera 72) condividendo le affermazioni di Leopardi e scagliandosi contro il francese : « L’omettere l’articolo ai cognomi è mio errore, nato dalla mala consuetudine universale del franceseggiare in questo secolo ». Anche Migliorini 1960 : 632-33 richiama la discussione tra i due e rinvia alle osservazioni di D’Ovidio 19333 : 79-80 sulla prassi manzoniana. Si veda Fornaroli 1976 : 138 per il diverso valore assunto nella prosa di Giordani dall’uso dell’articolo davanti al nome proprio. Per quanto riguarda le osservazioni di Leopardi va sottolineato come l’indicazione di toscanismo non sia sufficiente da sola a legittimare una forma, ma abbia bisogno del sostegno della tradizione. 2 Cioè delle prose di Giordani. 3 Vari esempi in Nievo di « accostamenti nominali senza preposizione » (cfr. Mengaldo 1987 : 79). 4 Per Fornaciari 1881 : 128 « nel parlar familiare di Firenze i nomi proprii d’individuo femminile ricevono sempre l’articolo determinato ; la Lucia, La Francesca, La Bice ecc. ecc. e quest’uso potrà star bene nella novella e nel dialogo, quando si parli di donne non storiche e in un linguaggio confidenziale ». Così infatti da Firenze parte la lettera in cui si legge : « non posso disporre della Barbara a mio modo » e poco oltre nella stessa missiva « la Fanny ed io » (1810). Per Giordani, Fornaroli 1976 : 138 nota che « nell’Elogio della Maria Giorgi il nome della donna è sempre preceduto dall’articolo, sia nei passi più solenni […] sia in quelli più discorsivi e familiari ». Minoritario l’articolo, con i cognomi di personaggi illustri o di conoscenti e familiari, anche nel carteggio di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 113).
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fabio magro
503, 553, 730, 995, 1395, 1537, 1652 ecc.), 1 e babbo sempre usato senza (481, 710, 840, 868, 884, 908, 927, 939, 1246, 1552, 1704 ecc.), tranne in un caso (« il Babbo » 868). 2 Il diverso trattamento riservato ai due termini si riflette anche su mamma, soggetta ad una notevole oscillazione se usata da sola, ma sempre con l’articolo in coppia con papà (« al Papà e alla Mamma », 481, 743, 1678 ecc., anche con ordine inverso « alla Mamma e al Papà » 483, 553, 1622 ecc.) e sempre senza in coppia con babbo (« a Babbo e a Mamma » 840, 908). Pochi i casi in cui l’articolo è usato con il possessivo e il nome di parentela. Le prime occorrenze di questa serie sono inoltre caratterizzate dalla presenza di un altro elemento nella sequenza : se nelle fasi iniziali del carteggio si incontra infatti « il mio Signor Padre » (9), « dal mio Signor Zio Cav. Antici » (10, 15), sporadicamente poi troviamo « del mio zio Antici » (27), « il mio Zio Antici » (634), « al mio Zio Antici » (1141) e anche « il mio fratello » (624), « al suo fratello » (241), « del suo fratello » (1918), « il suo figlio » (805), « il suo padre » (1198 : « io l’amo tanto teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio alcuno di amare il suo padre »). 3 Con i possessivi dunque normale, anche se non assoluta, è la presenza dell’articolo. 4 Alcuni riscontri tuttavia permettono di notare un avvicinamento alla situazione descritta da Vitale 1992a : 86-87 per OM : 5 si tratta dell’ellissi dell’articolo in combinazione con l’anticipo del possessivo come ad esempio « in mia vita » (618, 706, 720, 819, 1116, 1141, 1277, 1432, 1493), contro « nella mia vita » (11, 1277) ; « di sua Lettera » (23), « con sua lettera » (1895), ma « della sua lettera » (23, 165, 167, 612, 1951), « alla sua lettera » (530), « colla sua lettera » (1895) ecc. ; e ancora « in mio conto » (64) ; « da sua parte » (1098*), « in sua casa » (1631, 1694), « in tua camera » (1846) ecc. Anche in questi esempi
1 Tranne che nei vocativi naturalmente. Se non ho visto male l’unica eccezione sarebbe, ad attacco di periodo : « Papà mi rispose di scriverne a Lei direttamente » (1798). 2 Ma l’oscillazione è ravvicinata : « Cara Paolina / ringrazia tanto e poi tanto per mia parte Babbo e Mamma dei nuovi regali […]. Ringrazia poi il Babbo in particolare delle notizie […] » (868) : la presenza dell’articolo sarà qui dovuta alla più marcata funzione deittica che rappresenta la ripresa. Cfr. pure Rohlfs § 656, con riferimento anche al marchigiano. Si tenga presente comunque Castellani Pollidori 196670 [2004 : 598-99] : « In Toscana s’adopera l’articolo nella gran maggioranza dei sintagmi che c’interessano [con possessivo e nomi di parentela] ; non s’adopera con “padre” e “madre”, che comunque nella lingua familiare sono sostituiti da “babbo” e “mamma”, con i quali la forma analitica [con l’articolo] è d’obbligo. Nelle regioni mediane la situazione è particolarmente complessa : in pratica vi convivono tutti i costrutti possibili ». 3 Fornaciari 1881 : 132 segnala che « i pronomi possessivi rifiutano per lo più l’articolo determinato, quando precedono immediatamente uno de’ seguenti nomi di parentela nel numero singolare : padre, madre, figlio, figlia (non figliuolo, né figliuola), nonno, nonna, fratello, sorella, zio, zia […] » ma precisa anche successivamente che « questa regola vale specialmente per padre e madre. Cogli altri nomi non è sempre obbligo osservarla, massimamente in poesia […] » ; per Puoti 1849 : 45 ugualmente « l’articolo ordinariamente si tralascia innanzi a’ pronomi possessivi mio, tuo, suo, nostro, vostro, quando nel numero del meno precedono immediatamente i nomi di parentela ». Tra i corrispondenti trovo in Monaldo « il mio figlio » (26), mentre Carlo Antici ha « al suo nipote » (207), Vieusseux « del suo nipote » (1513), Paolina invece « la tua sorella » 753. Per l’omissione dell’articolo in Giordani rinvio a Fornaroli 1976 : 137. Lo stesso fenomeno è stato segnalato anche in Nievo da Mengaldo 1987 : 82-83 a cui rimando per ulteriori riferimenti bibliografici. 4 Nell’epistolario del Manzoni tale fenomeno, secondo Savini 2002 : 114, è « limitato a pochi esempi, tutti situati prima del 1840 e in contesti di elevata formalità, dove, considerata la materia delle missive, lo scrittore pare riprodurre alcuni stilemi del linguaggio burocratico-giuridico ». 5 E cioè : « si dovrà notare […] l’omissione dell’articolo davanti ai pronomi possessivi in talune espressioni non consuetamente cristallizzate, che si evidenzano, talora per il tipo di preposizione, talora per l’anticipazione del possessivo ». Di « aulicismi eventualmente sostenuti dal francese » parla Mengaldo 1987 : 82 per tipi simili riscontrati in Nievo.
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si può notare come alcune forme non reggano sull’asse diacronico, mentre altre confermano il proprio statuto di aulicismi in quanto utilizzate effettivamente in missive più sorvegliate (è il caso dell’ultimo esempio che compare in due lettere indirizzate a De Sinner). 1 Per restare nello stesso ambito è da segnalare da un lato la netta maggioranza del tipo « da mia parte » (« ordinandogli da mia parte » 64, 365, 401, 448 ecc. fino a 27 occorrenze negli autografi ), « da sua parte » (468, 480, 1303, 1749, 521*, 755*) non solo sul tipo moderno « da parte mia » (422, 481, 520, 1102, 1223), « da parte sua » (574), ma anche sulla forma articolata « dalla mia parte » (466), « dalla parte mia » (988), « dalla sua parte » (407, 554, 634, 1116). 2 Anche con la preposizione per domina la forma senza articolo : « per mia parte » (38, 284, 316, 855, 868, « Altrettanti [complimenti] per mia parte alla sua » 1045, 1393, 1409, 1637, 1751 ecc.) dunque e « per parte mia » (453, 543, 544, 596, 641, ecc., 1767), vincono largamente su « per la mia parte » (1257) e « per la parte mia » (1262). Sporadica è l’ellissi dell’articolo coi nomi femminili di regioni o nazioni : se l’omissione dopo le preposizioni di e in, « in senso locale », è prescritta da un grammatico come Fornaciari 1881 : 138 (« tornando di Toscana » 1553, « mi fu resa una lettera di Lombardia » 534, « il ritorno di Sicilia » 1887* ecc.), 3 registro anche « verso Lombardia » (758) 4 e – sia pure nell’ambito di un’enumerazione – « da Francia, Germania, Olanda […] non ricevo » (1767). L’oscillazione si coglie bene in due frasi come « Che sarebbe nei climi di Germania ? » (831) e « Come sopportare il clima della Germania ? » (1278), analoghe sul piano strutturale, ma con il passaggio dal plurale al singolare che può forse spiegare la presenza dell’articolo per una maggiore individualizzazione, anche se va detto che la prima lettera, a Karl Bunsen, si caratterizza certo per una maggiore tensione formale. Non molte le « espressioni di tipo apprezzativo esclamativo (generalmente con l’agg. grande) introdotte dal determinativo », 5 di ascendenza letteraria : « di cui non si finisce di dire il gran bene » (868), « Usa, ti prego, il gran potere che tu hai » (1554), « Sarebbe questa la grande infelicità o più veramente stupidità » (66*). L’anticipo del complemento di limitazione ad attacco di periodo, eccetto in un caso (« Di salute, grazie a Dio, sto bene » 1262), 6 porta sempre l’articolo : « Della salute sto bene come Dio vuole » (419), « Della salute sto competentemente bene » (949), « Della salute io soffro meno del solito » (1593*), « Della salute mia della quale si compiace di domandarmi » (339), « Della salute ho cura più che non merita » (234). 7
1 Corrispondente con il quale Leopardi, pur nella progressiva conquista di una maggiore cordialità, alza sempre un po’ il tono. 2 Per OM il riscontro è solo per « da sua parte » (ii 2), ma « dalla parte mia » (xxi 209) ; « per parte mia » (v 86) ma « per la parte mia » (ii 99 ; xxi 107, 351), e « per la mia parte (xx 145), « per la sua parte » (i 266-67) : cfr. Vitale 1992a : 86-87. Tra i corrispondenti riscontro : Monaldo « per parte mia » (495) ; Carlo « per mia parte » (535), « da tua parte » (1129) ; Paolina « da parte mia » (1072, 740), « da parte sua » (523, 794), « per parte mia » (794), « per parte sua » (892, 922) ; Giordani « da mia parte » (573), « da sua parte » (1342) ; G. Melchiorri « da mia parte » (427, 447, 749), « da tua parte » (649) ecc. 3 Si veda anche Rohlfs § 648-649. 4 « Le lettere di Recanati […] non arrivano al loro destino se non per miracolo, massimamente quelle 5 Mengaldo 1987 : 83. dirette verso Lombardia ». 6 Si noti tuttavia lo stacco causato dalla punteggiatura, che circoscrive l’inciso e isola fortemente il complemento in avvio, tematizzandolo ; cosa che non avviene negli altri esempi citati. 7 All’interno o alla fine della frase o periodo, invece, si ha regolarmente omissione : « di salute » (409, 694, 801, 818, 825, 914, 939 ecc.). Cfr. Fornaciari 1881 : 136-37, 348-49.
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Casi diversi, che Rohlfs § 665 lega a particolari modi di dire, sono « ti auguro il buon Natale » (600), « gli auguri del buon anno » (659), cui può essere avvicinato « vi salutano cordialmente e vi desiderano il buon anno » (160*) ; 1 nello stesso ambito, per la valenza apoftegmatica, si può forse collocare « compiacentissimo in parole, politico in fatti » (468). Segnalo inoltre « volendo inferire che tu abbi il torto […] io sono lontano dal darti il torto » (508), « e in questo non avrà il torto » (618), rispetto ad una maggioranza di occorrenze senza articolo. 2 Riguardano l’ellissi dell’indeterminativo, spesso « secondo una forma d’espressione corrispondente al latino » (Rohlfs § 666), questi casi : « né ancor fosse noto in città bella e colta » (71*), « ho giurato di non fargli aver più sillaba del mio » (93*), « Da Giordani tornato a Milano ebbi lettera che mi consolò » (422), « non ci sarà camminatore più disperato di me » (501), « mi doleva che dovendo pur essere, non fossi pianta o sasso » (409), « io credo ch’ella [l’Italia] non avrà mai letteratura moderna sua propria » (409), « Mi vedo anzi costretto ad implorare da Lei nuovo favore » (391), « non mi farà se non favore » (543). Sembra il risultato dell’incrocio tra due avvii diversi l’attacco « Un tempo addietro io era capacissimo […] » (600).
2. Uso delle preposizioni Particolarmente produttiva, in un contesto di per sé molto variegato, è soprattutto di, 3 usata spesso con valore locativo per indicare allontanamento : 4 « attendo risposta di Lombardia » (158), « non s’usa d’uscire del palco » (514), « oggi non ho lettere di Napoli » (1812) ; anche in senso figurato in « levarmi di questo dubbio » (479), « il che è fuori affatto della mia consuetudine » (483), ecc. (l’oscillazione è comunque ben attestata lungo tutto il carteggio : « che non si muove mai dal suo nido » 648, « ricevo avviso dal Giambene che nulla gli è pervenuto da Recanati fino al dì 11 in cui egli scrive » 1786, ecc.). In combinazione con fuori l’uso della preposizione di è assoluto : « fuori di qui » (327), « fuori di questa mia patria » (580), « sto fuor del mondo » (622), « dormii fuori di Locanda » (1158) ecc., anche laddove oggi prevale l’omissione (« tutti gli italiani sono fuor di strada » 530, « fuor di luogo » 1603, « fuori di pericolo » 1946). 5 Normale, anche
1 Fornaciari 1881 : 141 introduce gli esempi (tra cui anche uno di Leopardi : « non passano i quarant’anni di vita » all’indicativo invece che al cong. come in OM x 95-96) affermando che « l’articolo determinato si pone anche spesso per idiotismo di lingua e senza necessità, o invece dell’indeterminato, ma con vantaggio della forza e dell’evidenza ». Basta che cambi il contesto e l’articolo scompare : « questa vigilia di Natale » (1029), « del dì di Natale » (1209*), « Festa di Natale » (798*) ecc. 2 Per il tipo con dare TB rinvia a dare torto, per quello con avere P ne fa una questione di tono : « Più grave, coll’art. avere il – ». 3 Per questa come per tutte le altre preposizioni e reggenze nominali si può integrare questo paragrafo con Vitale 1992a : 96-103. 4 Fornaciari 1881 : 272 : « di significa la relazione di moto dall’interno d’una cosa, quindi anche l’unione, la congiunzione intima di due cose, e passa a tanti altri significati. Esco di casa, di notte » ; cfr. anche Serianni 1989b : 334. « Toscano e ancor comune » secondo Mengaldo 1987 : 89. Per la tendenza a regolarizzare di Manzoni si veda Morandi 1874 : 39 e Boraschi lxxiii-iv. Fornaroli 1976 : 140 riscontra per Giordani le stesse tipologie (vedi anche più sotto per l’agente). 5 In OM solo due casi con da entrambi nel Copernico ma non significativi (« la diana è venuta fuori da un pezzo » xxi.1 7, e « il sole uscì fuori da un certo lago » xxi.ii 151) ; in Zib riscontro solo « fu finalmente rigettato fuori dalla nazione » (3583) ; altrove appena un paio di casi : « l’aria cacciata fuori dai polmoni » (Sopra i fluidi elastici, Diss 194) ; « già son fuori dalle domestiche mura » (Descrizione di un incendio, 1809, EDG 21). Tra i corrispondenti trovo quasi esclusivamente fuori di : Monaldo 495 (« fuori di casa tutto diventa un pensiere »),
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nella lingua odierna, 1 è l’uso con il compl. di causa (« il Zio Carlo si chiama confuso del suo biglietto » 515, « le risate che furono fatte di questo incidente » 534, « s’attristò della sua morte » 542 ecc.), con quello di fine (« non ha mezzi di mantenermi » 531, « gradite […] i voti e i desideri ch’io formo della vostra felicità » 593 ecc.), con il partitivo (« non può provare di questi diletti » 648, « autori greci dei più classici » 661, « se ti posso voler più di bene » 908, « impaziente di ricevere delle sue nuove » 1098*, 1103*, « Se poi Ella desidera qualche volta in me più di confidenza » 1198 ecc.). 2 Rohlfs § 804 rimanda invece a costrutti latini per l’impiego della prep. di con valore di ‘riguardo a’, ‘per quanto concerne’, a cui sembrano avvicinarsi questi esempi (peraltro normali all’epoca) : « sono stato meglio degli occhi » (1154), « io sto passabilmente, salvo degli occhi » (1808), costrutto quasi esclusivo in questi contesti. Segnalo infine almeno un caso con di “rafforzativo” : « Ella ha preso a farmi di gran carezze, perché io la serva presso di te » (1831) ; e pure, sempre sulla scia di Mengaldo 1987 : 90, « mettendo ora una storiella ora una frase ora una sentenza di mano in mano che veniva leggendo e segnando » 145, 596, 631, 744, 866, 994, 1247 (esclusivo per ‘a mano a mano’). Per quanto riguarda invece la prep. a per da si veda la serie, francesizzante, « le porrò a parte » (27), « mettendomi a parte » (320 ; ma « la misi da parte » 136), 3 da segnalare « ragguagliami a parte a parte » (458). Con il verbo avere (nel senso di ‘dovere’) prevale nettamente la reggenza di a su da (eccetto che per la prima e terza persona del pres. indic., evidentemente anche per ragioni eufoniche) : « queste cose che hanno a essere Europee » (82*), « a questo ci hanno a servire gli studi » (84*), « non può esser che voi non abbiate ad esser contento una volta » (593), « senza che io abbia a portare il carico » (857), « anzi, se ho a dire il mio parere » (1360), « ma che s’ha a dire » (1393), « quanto al danno […], che ci s’ha a fare ? » (85*) ecc. contro « regolarmi nel tuono che ho da prendere » (55), « non ho da far nulla » (818), « Ranieri ha da esigere » (1770) ecc. 4 In luogo
poi 942, 1002, 815 (« fuori di regola ») ; Paolina 1145 (« Beato voi, Muccio mio, che siete fuori di tutti questi pettegolezzi »), 1229 (« fuori di casa mia ») ; Giordani 63 (« fuori di casa mia ») ; Melchiorri 665 (« fuori di Roma »), Antici 207 (« fuori di strada ») ecc. Gli unici due casi con da sono anche qui legati al verbo uscire : Monaldo 502 (« Esce fuori dalle mie cartucce ») ; Bunsen 827 (« l’anima uscita fuori dallo Speco di Platone »). Maggioritaria (ma non esclusiva) la reggenza con di anche nel Manzoni epistolografo (Savini 2002 : 128). L’alternanza « fuori di / da (in relazione a luoghi circoscritti » è segnalata ancora da Serianni 1989b : 355. 1 Cfr. Fornaciari 1881 : 337-38 e anche 325 per il partitivo, 335 per il compl. di tempo ; Serianni 1989b : 334 (anche per gli usi descritti subito sotto). 2 Migliorini 1960 : 543 segnala che, per influsso francese, già nel Settecento « il di partitivo si estende al di là di quel che era l’uso tradizionale », mentre a p. 633 sottolinea l’uso del partitivo dopo avverbi di quantità citando anche un esempio leopardiano : « più di fedeltà », dalla Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana (PP** 430). Per un esempio di Giordani invece si veda « Non potete imaginare quanto di confusione e dolore provo per avere […] » (116). 3 Cfr. Poggi Salani 1983 : 996 che ricorda l’indicazione delle sorelle Errera per mettere da parte. Segnalo qui l’ugualmente francesizzante « ti senti male a nessuna parte ? » di OM ii 115, mentre per Zib « lo vai ruminando a parte a parte » (534) e un esempio a testa, gli unici che ho trovato, di « di là ad » (3793) e « di là da » (4233). 4 Anche per OM, Vitale 1992a : 123 segnala la netta maggioranza del costrutto con a (che può anche alternarsi nella stessa operetta con il concorrente). Ancor più netta è la posizione di P in cui non rilevo forme con da, neppure con fare, ma solo il tipo del fiorentino vivo : « ha a fare » (xiii 2, xix 12), « s’ha a far mostra » (c 32), « la colpa della quale hanno a impetrar perdono » (xv 6-7), « il nemico che hanno a placare » (xv 7-8), « luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato » (xx 13), « ognuno che abbia o che abbia avuto alquanto a fare cogli uomini » (xcviii 2), « non avrebbero mai a far altro » (lxxi 6). Alcuni riscontri per i corrispondenti : avere a Giordani (121, 266, 169), Monaldo (495, 1429), Carlo (740), Paolina (478, 937) ; avere da Giordani (52, 410, 1413) ; Paolina (922, 1145).
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di per, come compl. di relazione, è da vedere « sono a te quel medesimo di prima » (690), 1 mentre altri casi sono « quella mia piccola Lirica, alla quale ora […] non ho più alcun pensiero » (577*), « la felicissima congettura di cui Ella si è servita a scoprir l’autore » (591, con valore finale). Altri usi notevoli di a : « aver dato a luogo a qualche sospetto » (11, anche se qui si potrebbe sospettare un errore per anticipo della preposizione), « l’interesse che V.S. Illma ha ben voluto mostrare a quello che mi riguarda » (601), « secondo che restammo d’accordo a principio » (624), « scrivi all’amichevole, come viene […] come fo io » (651) ; 2 mentre più normali, anche se legati comunque a modelli d’oltralpe (Mengaldo 1987 : 87) i seguenti casi : « Le donne non hanno avuto mai niente a far con me, per nessun titolo » (551), « Per verità il Zanotti non ha niente a far colla stufa » (1029). Con l’infinito segnalo « io la consiglio a non prenderla » (477), « le forze mi mancano a potervi consolare » (593), « io potrei occuparmi a scriverne » (612), « mi ha raccomandato di trovare a collocare il ms. » (1605), « non si trova a stampare altro che giornali » (1627). Per tutto l’Epistolario in ogni caso le reggenze, nominali e verbali, oscillano senza che si possa individuare alcun tipo di specializzazione, e saranno semmai i rapporti quantitativi a indicare una direzione. Vediamone intanto alcune : con facile ad esempio minoritaria è la reggenza con di (facile di : 327, 466, 542, 570, 984), mentre le stesse occorrenze fanno registrare quella con a (facile a : 323, 553, 596, 19*, 34*, 154*, 290*, 930*), 3 e quella diretta che però, per resistenza nel tempo, pare alla fine essere preferita (facile : « l’opera mia […], che a Milano sarebbe facile pubblicare » 16, 542, 671, 975, 1603, 1754, 1883*, 1966*) ; 4 al contrario, per difficile, il tipo con a (difficile a : « mi lasciano la misera facoltà ch’io proccuri […] quello ch’è difficile ad ottenere con moltissimi aiuti e patrocini, e colla presenza » 392, 591, 678, 697, 761, 1610, 1749, 1760, 1889, 1956, 60*) domina sugli altri (difficile di 239, 538, 1362, 1733, 1788*, 1966* ; difficile 466, 822, 991, 1888, 1922, 60*, 111*, 1463*). 5 Ancora prevalente la reggenza in a per disposto (disposto a 145, 537, 612, 648, 714, 744, 746, 797* ; disposto di 761), 6 mentre le stesse occorrenze si registrano negli autografi per solito a 193, 494, 714, 991 e solito di 477, 483, 596, 995 ; 7 nettamente più utilizzata invece la reggenza con di per im/possibile (5, 14, 23, 27, 146
1 Oggi « di tono letterario », secondo Serianni 1989b : 337. 2 Ma in quest’ultimo caso è soprattutto l’aggettivo a spiccare : queste costruzioni ellittiche formate da alla + agg. per indicare una relazione di modo e maniera sono infatti normali anche oggi (cfr. Serianni 1989b : 338 e 495). Tra le lettere di Giordani invece trovo « averlo alle mani » 42 (per cui cfr. Mengaldo 1987 : 88 che per Nievo chiama in causa il francese). 3 Con significato passivo (come anche per difficile a), cfr. Rohlfs § 710. 4 Non così per OM e Zib che privilegiano nettamente la reggenza in a. Ecco le occorrenze complessive : OM ha solo facili a i 196, 235, xv 5.34-35, xxii 203 ; per Zib invece facile a per 46 occ., facili a 31 occ., facile di 4, facili da 1, facile 24. 5 OM difficile a x 15-16, xiii 8.98, xiii 9.53, xiii 9.55, xiii 12.5, xv 5.35, difficile da ix 242, difficile xiii 11.87 ; anche in questo caso per Zib fornisco il numero totale delle occorrenze, difficile a 32 occ. difficili a 21, difficile da 1, difficile 21. 6 OM disposta a (iii 130, iv 105, vii 18, xiii 4.45), -i a (i 189, xiii 3.21), -o a (xiv 55), disposto di (xx 336, xxii 38-39, App. v.100), disposto (i 392-93) ; Zib disposta a (10 occ.), -e a (1 occ.), -i a (12 occ.), -o a (14 occ.), disposti di (1), disposto di (3). 7 OM solita di (vii 82), -i di (i 261), -o di (xi 242-43, xvii 176), solite a (xiii 4.92-93), -i a (xv 3.106), -o a (xx 13940) ; Zib solita a (45, 72, 2704), -e a (1886, 1914, 3052, 3718), -i a (538, 1546, 1796, 1805, 4301), -o a (1660, 1683, 1787, 1888, 2326, 3027, 3342, 3546, 3885, 4141), solita di (2776), -i di (48, 2509, 3265, 3295, 3415, 3553, 3639, 3744, 3804, 3855, 4012), -o di (135, 2225, 2868, 3222, 3314, 4098, 4229), solite (4435), -o (1695, 4110, 4119).
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ecc. per 31 occ. tot.) rispetto a quella diretta, pure abbastanza diffusa (15, 398, 474, 663, 699 ecc. per 14 occ.), mentre due sole presenze riscontro per a 601, 1767. 1 Infine se per inutile trovo due casi con di (« stimo inutile di rivederlo » 906, « Credo inutile di ripetervi » 1226) è però anche da segnalare « Lasciamo queste ciarle, e non accade che mi rispondiate sopra questo argomento, del quale è noioso e soprattutto eccessivamente inutile a ragionare » 82*. Per le altre preposizioni segnalo in con valore locativo : « in Roma » (520), « in Recanati » (557), « in Urbino » (601), « Arrivai qua in Bologna » (1066) ecc., a cui si affianca anche « essere in letto » (494, 497, 501, 514, 530, 825, 831, 1691, 1957 ; ma « è da una settimana a letto » 1683). 2 Prevale inoltre di gran lunga a proposito di (« a proposito de’ quali » 514, « a proposito di Parigi » 744, « a proposito di Platone » 831, « a proposito della Biblioteca italiana » 1153 e poi per 33 occorrenze) su in proposito di (« in proposito della mia canzone » 199, « in proposito di Nestore » 855, « in proposito della lettera » 1480 fino a 8 volte), mentre per altre oscillazioni tra in e a rimangono da vedere « sono disposto […] ad impiegarmi in servizio » (612, e 855), « in mio vantaggio » (641) « in tuo vantaggio » (1050), 3 « in ogni modo » (201, 284, 412 ecc. per 30 riscontri totali, che superano di gran lunga quelli, localizzati quasi esclusivamente nella prima parte del carteggio, di « a/ ad ogni modo » 14, 16, 64, 106, 136, 181, 202, 227, 1754 ecc.) e, notevole, « non vorrei che credeste ch’io fossi venuto qua in posta […] per fare lo splendido » (1158). Poco da dire su per, tranne registrare, per il compl. d’agente, 4 l’oscillazione tra la più diffusa per parte di (27, 164, 381, 400, 530 ecc. per 16 volte), per parte vostra (346, 734), per parte mia (453, 543, 544, 596, 641 ecc. per 15 occ.), per parte nostra (576), per parte sua (730, 1040, 1237) ; e da parte di (31, 32, 445, 574, 661, 671, 1922), da parte loro (11, 779), da parte mia (422, 481, 520, 1102, 1223), da parte sua (574) ; sulla stessa scia si colloca anche « come mi sono accertato per molte e continue esperienze » (537). Vitale 1992a : 96 segnala per OM la combinazione « tradizionale e letteraria fin dall’antico » di in e su anche articolata. In E trovo solo due riscontri (« in sul serio » 98*, « in sul partire » 107*) in due lettere non autografe, copia di Paolina la prima, di Carlo la seconda (nessuno dei quali utilizza, almeno nelle lettere al fratello, tale forma). Le due missive, di data piuttosto alta, sono entrambe indirizzate a Giordani che non fa uso dell’arcaismo nella sua corrispondenza con Leopardi, pur non evitandolo in altri scritti di carattere più formale o comunque pubblico : 5 a tale proposito potrà non essere irrilevante che proprio in 107* Leopardi sottolinei l’attenta lettura di alcuni articoli giordaniani, tra cui quello sulla Pastorizia. Il carattere scelto della forma emerge comunque bene dai riscontri effettuati sul resto della prosa leopardiana : la maggior parte delle occorrenze si trovano, a parte il Martirio dei santi padri, nei volgarizza
1 OM possibile di (iv 38, xxiv 218-19), imp- di (vii 58), possibile a (xv 1.32, iv 32-33, xxii 453), imp- a (xxiv 286, xx 332), possibile (xv 2.105, xxii 190-91), impossibile da (ix 242) ; Zib possibile di (58, 67, 862, 1492, 3181, 3465, 3916, 4491), imp- di (40, 99, 415, 798, 828 ecc. per 11 occ.), possibile a (195, 1534, 3475, 3492, 4250, 4462), possibili a (766, 2559, 3467, 4039), impossibile a (160, 172, 297, 1002, 1011 ecc. per 15 occ.), impossibili a (710, 1116, 2455, 3187, 4420), impossibile da (2738), possibile (431, 556, 1219, 1765, 1793 ecc. per 15 occ. tot.), impossibile (99, 183, 192, 755, 802 ecc. per 24 occ. tot.). 2 Fornaciari 1881 : 273 : « in significa relazione d’interiorità o di sovrapposizione, sì in senso di luogo come di tempo » 3 Serianni 1989b : 344 lo segnala « di uso quasi solo letterario », e allega tra gli altri un esempio da Nelle 4 Cfr. Serianni 1989b : 349. nozze della sorella Paolina (vv. 32-33). 5 Cfr. Fornaroli 1976 : 140.
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menti e in prose di data alta come PR o comunque caratterizzate da una indubbia tensione formale come P (dove tra l’altro il costrutto appare soprattutto in alcuni specifici pensieri). Da sottolineare inoltre come Zib abbia appena quattro esempi di questo tipo, ma ad inizio e fine (in sul 4, 55, 4162, 4423), ciò che tra l’altro permette di confermare che la forma in oggetto è per Leopardi connotata sul piano diafasico, senz’altro meno su quello diacronico. 1 Prima di considerare le locuzioni, segnalo di passata il costrutto (non letterario) « così tra per questa cagione e per l’avere avuto a partir di là » (577*) 2 con l’interferenza e unione di due preposizioni, di cui trovo un solo altro esempio leopardiano nel Parere sopra il Salterio ebraico (« ma tra perchè la non fosse anzi barbara che italiana, tra per dilucidare i luoghi oscuri, l’autore ha […] », cfr. PP** 912). 3 Vediamo ora le reggenze di almeno alcune delle locuzioni preposizionali impiegate in E, in rapporto anche a quelle segnalate da Vitale 1992a, per OM : per avanti si incontrano tutte e tre le reggenze, con predominio (come normale all’epoca) di quella in accusativo (« avanti il mio arrivo » 468, « la quale io non desidero avanti la mia » 218*, ma « avanti a tutto il resto » 136, e « poco avanti di partire » 460, « avanti di prendere il caffè » 534 ecc.). 4 Contrariamente a quanto avviene in OM, appresso nel carteggio presenta quasi in forma esclusiva l’accusativo (« appresso Lei » 197, « appresso i miei ospiti » 468, « nel favorirmi appresso il medesimo » 641) tranne un caso con il genitivo (« appresso di Lei » 542) ; 5 largamente prevalente l’attacco diretto con circa, anche se registro sette occorrenze per il dativo (« circa alla distribuzione » 158, « circa al Cinonio » 861, « circa alle osservazioni sulla Proposta del Monti » 994, « circa alla questione » 1360, « circa a quello che […] » 792*, « circa alla gloria » 1440*, « circa a mio padre » 149*) ; 6 maggioritaria la reggenza diretta pure con oltre (« oltre gli scoli antichi » 26, « oltre alcune in carta soprafina » 284, « oltre la prima lettera » ecc. per 30 occorrenze), anche se ben attestata è la reggenza dativa (« oltre all’ordinario » 307, « oltre alle
1 Ecco tutte le occorrenze (per OM rimando a Vitale 1992a : 96) : « in sul » P iv 6, C 16, Rifacimento del Saggio sugli errori popolari (PP** 884), Martirio dei santi padri (PP** 1026, 1030, 1031, 1036, 1038, 1042), Manuale di Epitteto (PP** 1054), Operette morali d’Isocrate (PP** 1106, 1108, 1113, 1134), Frammento da Senofonte (PP** 1158), Memorie del primo amore (SFA 32, 36), Storia di un’anima (SFA 134) ; « in sull’ » PR (PP** 380), Martirio de’ santi padri (PP** 1032, 1034), ME (PP** 1057), Su un’orazione di G.G. Pletone (PP** 1138), Ercole, favola di Prodico (PP** 1071) ; « in sulla » P iv 24, lxxvii 9, c 36, Martirio de’ santi padri (PP** 1028, 1036, 1039, 1040, 1042, 1043), Operette morali d’Isocrate (PP** 1075, 1101), ME (PP** 1057) ; Sopra due voci italiane (PP** 980), Storia di un’anima (SFA 130) ; « in (’n) sulle » P iv 20, lxxvii 21, lxxxi 15, Frammento da Senofonte (PP**156), ME (PP** 1069) ; « in sullo » Martirio de’ santi padri (PP** 1029), Su un’orazione di G.G. Pletone (PP** 1137) ; « in sugli » Martirio de’ santi padri (PP** 1037, 1040), ME (PP** 1067) ; in sui P i 73, xxvi 1, Martirio de’ santi padri (PP** 1030), Operette morali d’Isocrate (PP** 1087). 2 Il testo della lettera risale ad un testimone a stampa, Viani 1878. 3 Serianni 1989b : 353 cita casi di Boccaccio e, di tipo analogo, di Bassani, per testimoniare la continuità del costrutto nella tradizione letteraria. Altri esempi in Fornaciari 1881 : 275. 4 Riscontri per Zib : « avanti gli occhi » (10, 54, 216, 310, 2875), « avanti » (338, 399, 401, 454, 485 ecc. per 36 occ.), « avanti a » (50, 60, 98, 474, 1347, 1350, 2298, 2670, 4354), « avanti di » 1533. Cfr. Vitale 1992a : 97 e n. Nel resto del corpus leopardiano si ha quasi esclusivamente la reggenza diretta. 5 Assoluta la reggenza diretta in Zib tranne che in « appresso di noi » 3032, 4127, « appresso di se » 4237. Per OM, Vitale 1992a : 96 riscontra solo reggenza dativa. Altrove largamente maggioritaria la reggenza diretta. riscontro solo due casi di appresso a nel Martirio dei santi padri, uno nelle Operette morali d’Isocrate e ancora due in PR, uno in CI ; per appresso di, trovo due casi nelle Operette morali d’Isocrate e uno in CI. 6 Nessun caso di costrutto con il dativo in Zib ; due invece nelle Operette morali d’Isocrate, uno nel Martirio dei santi padri, in SA e in PR.
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mie facoltà » 1760 ecc. per un totale di 19 volte), meno quella genitiva (« oltre dell’impero » 10, « oltre di ciò » 1147 ecc. per un massimo di 4) ; 1 infine quasi assoluto è il terzo caso con rispetto (« rispetto a Lei » 167, « rispetto alla bontà » 174, « rispetto a Milano » 716, « rispetto alla salute » 1187*), mentre il genitivo, più scelto e raro, compare in due casi (« in rispetto della sua benignità » 173, 183) 2 in occasione dell’invio delle due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante a due letterati amici di Giordani. 3
3. Uso del nome e dell ’ aggettivo L’ellissi della preposizione negli accostamenti nominali, diffusasi nella scrittura ottocentesca soprattutto sulla spinta del linguaggio burocratico, 4 ma risalente ai primi stadi della formazione delle lingue romanze, 5 e ben attestata nella tradizione, interessa principalmente i costrutti con i nomi propri (costante con casa : « in Casa Mosca a D. Giovanni Pantaleoni […] in Casa Candelari » 35, « in casa Roberti » 251, « far la vita di casa Antici » 458, « portano l’indirizzo in casa Antici » 530, « in casa Badini » 822, « in casa d’Adda a Milano » 1050, « La casa Cassi e la casa Lazzari salutano Lei e tutta la famiglia » 1066, « la casa Stella è sottosopra » 1082, « mi fece elogi smisurati di casa Leopardi » 1126, ma anche « pel mezzo Vieusseux » 1131 ; trovo inoltre di segno contrario « in casa del Dott. Comandoli » 1161, 1165 ; « in casa del Cioni » 1402*). 6 Tipica della scrittura epistolare, almeno ottocentesca, sembra essere anche la giustapposizione tra possessivo e data. In apertura della comunicazione buona norma è tessere le fila della corrispondenza, contestualizzare il proprio turno di parola precisando a quale lettera del corrispondente si intende dar seguito : 7 la giustapposizione dunque ha della formularità la brevitas, caratterizzata dall’ellissi del sostantivo lettera, mentre la data funziona quasi da titolo. Il carteggio presenta in realtà tutte le opzioni, dalla più completa, « la sua lettera de’ 17 del passato » (1122), all’ellissi della prep. « delle tue lettere 16 gennaio, e 15 febbraio » (1223), « Rispondo alle sue preg.me 7 e 21 spirante » (67), « alla sua gentilissima 12 Luglio » (247), « Riscontro la sua pregiatiss. 22. spirante » (299), a formule miste, « Ricevo la vostra dei 10. caro ma scarso compenso alla perdita dell’altra 27. Dic. » (373) ecc. 8
1 La reggenza genitiva in Zib supera la dativa, pur essendo sempre maggioritaria quella diretta : « oltre a » 15, 35, 215, 803, 997, 1054, 2394, 2827, 3036, 3237, 4008 ; « oltre di » 250, 800, 2726, 2828, 2830 ecc. per 18 volte (interessanti gli ultimi due esempi in cui Leopardi traduce letteralmente due costrutti spagnoli : « fuera de que (oltre di che) » e « a men de, oltre di »). La reggenza diretta è maggioritaria sia nei Promessi sposi sia nell’epistolario di Manzoni (cf. Savini 2002 : 128 e n.). 2 In realtà si tratta dello stesso testo inviato a destinatari diversi. Si veda per questa specie Antonelli 2003 : 39. 3 Appena quattro casi per il genitivo anche in Zib : « rispetto di » 2393, 2983, 3320, 3614. Minoritaria tale 4 Cfr. Migliorini 1960 : 708-09, e Mengaldo 1987 : 79. reggenza è pure in OM ; assente in P. 5 Cfr. Rohlfs § 630. 6 Altrove nel corpus leopardiano trovo solo « casa Colonna » nel Discorso sopra la Batracomiomachia (PP* 413). Analoga la situazione tra i corrispondenti. Giordani : « In casa Tommasini » (1661) ; Monaldo : « quali rapporti abbia egli con la Casa Mosca […] Casa Boschi » (1002) ; Carlo : « alloggi in casa Caporalini » (471) ; Paolina : « vi vuol portare in casa Torlonia » (470), « il paese dove abito io è casa Leopardi » (499) ; Vieusseux : « in casa Cioni » (1164), « in casa Pedeville » (1232). Ma su questo aspetto si veda anche Antonelli 2003 : 189-90. 7 Cfr. Antonelli 2003 : 44 (sulle procedure della « grammatica epistolare » è da vedere tutto il capitolo, pp. 25-88). 8 La disperante situazione delle poste italiane del tempo fa sì che soprattutto nella prima parte del carteggio, in particolare con Giordani, vi sia la continua necessità di ricostruire la trama delle lettere scritte,
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Per quanto riguarda il superlativo sono da segnalare i pochi casi di costrutto alla francese con il doppio articolo : 1 « all’uomo il più disperato » (292), anche doppio « l’ingegno il più raro e il più sublime » (299), o replicato « un amico il più sincero, il più costante, il più fedele ed affettuoso » (593), e pure in posizione predicativa « Il testo, secondo me, dovrebb’esser preso esattamente da un’edizione la migliore che si abbia » (693). 2 Nella selva di superlativi (soprattutto in -issimo, tra cui indubbiamente spicca « qui non si fa niente nientissimo » 474) che caratterizzano la scrittura epistolare (ma certo non solo) di Leopardi, tra formularità tipica del genere e genuina e spontanea propensione all’accrescimento o intensificazione del reale, 3 si fanno notare alcuni costrutti, come ad esempio il più ad introdurre una correctio intensificante di un suffissato in -issimo « il che senza dubbio è moltissimo, anzi è il più » (474, a Carlo, da Roma. Se a questo si aggiunge l’es. citato poco sopra, si ha già l’idea di una lettera brillante, ricca di umore), 4 a modificare una locuzione « il dono d’un quadro sarebbe forse il più a proposito » (477). 5 A Ranieri infine è riservato il superlativo di un sostantivo, usato anche assolutamente : « un mio amicissimo a Roma » (1859), « un mio amicissimo » (1869*), « del mio amicissimo Ranieri » (1878*). 6 Alla formularità tipica dello stile epistolare si deve l’uso dell’aggettivo in funzione avverbiale : 7 « Le chieggo mille e mille scuse del mio tardo rispondere » (1127), « Questo mi serva di scusa pel mio tardo rispondere » (1277), « iscusarmi con Lei del mio tardo
spedite, non arrivate o non ricevute. Pur nella ricerca di sintesi e di sveltezza, le soluzioni sono quasi in linguaggio cifrato : « Risposi alla v[ost]ra dei 9 7[m]bre il 26 d.lo stesso, e poi il 10 di q.to all’altra dei 21 7[b] re, dopo la quale (che penò quindici giorni ad arrivare) non ho avuto altra v[ost]ra » (98*) ; « Alle due vostre dell’1 e 6 Novembre risposi con una lunga mia, e adesso rispondo all’altra vostra del 22 » (107*) ecc. 1 Sull’uso della formula è guardingo Fornaciari 1881 : 33, secondo cui « pure qualche rara volta, o per maggior chiarezza o per maggior forza ed evidenza, sarà lecito ripetere anche davanti a più l’articolo determinato ». Qualche caso si riscontra anche tra i corrispondenti in particolare con l’avverbio più : « l’uomo il più erudito » (Monaldo, 821), « l’uomo il più stoico » (Carlo, 721), « un mezzo di spedizione il più sollecito » (Carlo, 1179), « in un mondo in un secolo il più egoista » (Giordani, 235) ecc. Due soli esempi, e nella prima fase del carteggio, registra Savini 2002 : 115 per l’epistolario manzoniano. 2 Cfr. Rohlfs § 663, il quale ricorda che « in posizione predicativa, la forma articolata è più frequente quando il sostantivo a cui segue è accompagnato dall’articolo determinativo » (non dunque come esemplificato a testo). 3 Il superlativo è assai frequente anche nelle lettere dei corrispondenti, sia nel contesto più propriamente legato al genere (formule di saluto, manifestazioni d’affetto ecc.) sia nel testo vero e proprio. Un uso paragonabile a quello leopardiano si riscontra da un lato in Monaldo, dall’altro in Giordani. Quest’ultimo è, rispetto al padre di Giacomo, indubbiamente più inventivo, utilizzando tra l’altro superlativi di nomi (il comune « amicissimo » 109, 152, 192 ecc. ; ma anche « asinissimo » 99) o comunque evidenziando una certa carica di espressività (« ansiosissimo » 233, « aviddissimo » 754, « stessissimo » 109, « impossibilissimo » 116, 217, e pure « benonissimo » 104). 4 Con valore di pronome neutro sostantivato (cfr. Serianni 1989b : 312). Riscontro alcuni esempi interessanti anche in OM : « il più in questi ultimi tempi » (OM iii 94), « il più del tempo » (OM vii 52, ix 34, xiii 4.52-53, xv 1.3), « più di questa faccenda » (OM xxi 1.91) ecc. ; in P solo « il più delle volte » (P xxix 8, ecc.). Un paio di altri casi tra i corrispondenti : « Scrivetemi il più che potete » (Giordani, 192) ; « Il più importante sono i commenti da lui trovati » (Giordani, 270) ; « Ella si spaventa un po’ del viaggio di Venezia ; ma il più è da Firenze a Bologna » (Stella, 1133). 5 In questo caso si può anche pensare all’ellissi del sostantivo (*« il dono d’un quadro sarebbe forse il [dono] più a proposito »). A modificare una locuzione avverbiale può comunque intervenire il solito suffisso : « lo sono di grandissima lunga » (165). 6 Per l’uso del superlativo nell’epistolario di Verdi, in figure tipiche dell’espressività, cfr. Mengaldo 2003 : 35-36. 7 Si veda ad esempio Mengaldo 1987 : 80 per Nievo. Si tratta in ogni caso di un uso riscontrabile anche in poesia : La quiete dopo la tempesta v. 7 ; Canto notturno di un pastore… v. 19 ecc. Cfr. anche Serianni 1989a : 192n.
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rispondere » (1493) ; ma « Tardi rispondo » (644), « Oh rispondo pur tardi all’amorosa vostra » (1432), « Adempio oggi, benchè tardi » (1914) ; « Scrivo dal letto e perciò breve » (1788, e però « Scrivo brevemente perchè sono in letto » 497 ; « le scrivo, ma brevemente » 503). Altri casi : « temo forte » (164, 328), « l’esempio recentissimo delle altre nazioni ci mostri chiaro quanto » (227) ecc. 1 Per quanto riguarda la collocazione del possessivo, 2 largamente maggioritario è il tipo, normale anche oggi, con il possessivo anteposto. Rimane tuttavia una serie di casi marcati dalla posposizione : « nondimeno s’Ella non isdegnasse di servirsi dell’opera mia » (155), « avanti di por mano all’opera mia » (193), « di me puoi esser sicuro sino alla morte mia » (241), « E ringrazio sommamente il cielo d’essermi convinto dell’impotenza mia » (292), « La prima volta che V. S. mi scrisse intorno a questa edizione, si compiacque di esibirmi l’opera sua per qualche legatura se occorresse » (316), « ch’Ella giudicherà secondo il merito loro, ma gradirà secondo l’amorevolezza sua » (348), « la vergogna di usar l’opera tua tante volte » (1080), « io le giuro che l’amicizia mia verso Lei (se però l’amicizia mia val nulla) sarà sempre ferma e calda » (1085) ecc. Pur nell’ambito di un tipico formulario epistolare, che consente l’ellissi di ‘lettera’ e l’uso sostantivato del possessivo, da segnalare è anche il rapporto che si instaura tra « nell’ultima tua scrivi » (574), « nell’ultima tua » (1025, 1044), « Ebbi l’amorosa tua » (1165, 1277), « alla cara tua » (1467), e al contrario « nella tua penultima » (1223), « la tua ultima » (1475), « Ti ringrazio della tua ultima senza data » (1652) ecc. Non molti sono i casi con interposizione tra aggettivo e sostantivo « Ti ringrazio dell’amorosa tua lettera » (820), « perchè non mi scrivi ogni tua cosa » (744), « quell’altra tua lettera io non l’ebbi » (777) ecc. ; d’altro lato « Ti ringrazio della tua ultima senza data » (1652) ecc. Con gli allocutivi l’ordine è quello normale, con il possessivo posposto, anche se ciò non toglie che accanto a « Paolina mia » (777, 553, 852 ecc.), « Carluccio mio » (744, 890, 1698 ecc.), « Giordani mio » (690), « Ranieri mio » (1788, 1802, 1803 ecc.) una sfumatura più patetica assume la replicazione in « Oh Ranieri mio, Ranieri mio » (1813). L’unico caso di anticipo, ma inserito in una raffinata serie di rispondenze, 3 si ha in « Anima mia, povero mio Ranieri, calmati per amor mio » (1834). Per quanto riguarda il rapporto con Monaldo, sarà significativo che solo in occasione della morte del fratello Luigi si possa arrivare ad una formula come « Mio caro Papà » (di frequente utilizzata da 1262 in poi), e soprattutto che in chiusa alla stessa lettera spunti « Papà mio » (ma per questo aspetto cfr. qui le conclusioni, p. 288). Interessanti infine mi sembrano quei casi in cui il possessivo si aggancia al sostantivo che indica la qualità o lo stato piuttosto che a quello che ne localizza la sede specifica, quasi a sottolineare come la parte possa essere assunta ad intero : « Ma durando ancora la mia debolezza degli occhi » (1110), « Il mio incomodo degli occhi » (1111), « colpa della mia somma debolezza degli occhi » (1131), e, con intensificazione « il solito mio male degli occhi mi dà fastidio più del solito » (1089*).
1 Tra i corrispondenti, se si eccettua « il vostro scrivere così raro » di Monaldo (1145), solo Giordani ha costrutti simili : « scrivimi un po’ men raro » (1458), « raro m’arrischio a chiedere » (1520), « del mio tardo rispondere » (736) ecc. Sull’« aggettivo neutralmente e avverbialmente posto » discute Leopardi in Zib 2918 e 4012 notando, in quest’ultima pagina, come l’uso « sia molto più frequente nell’italiano, massime antico, buono, poetico, elegante ec. che nello spagn. qualunque, e massime nel francese. (12. Gen. 1824.) ». 2 Per un dettagliato quadro d’insieme sull’Ottocento rinvio a Mauroni 2006 : 184-217. 3 Lo si dica pure a bassa voce, ma qui la simmetria instaurata dal doppio chiasmo cadenzato sulle sdrucciole sembra voler essa stessa condurre ad un raffreddamento del pathos nell’interlocutore.
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fabio magro 4. Uso dei pronomi
Vitale 1992a : 65 e 87-88 ha sottolineato la « vistosissima presenza, altamente formale, dei pronomi personali soggetto preposti ai verbi » che caratterizza le Operette morali. Pur considerando che il genere epistolare porta naturalmente con sé la propensione ad una maggiore invadenza di questo tipo di pronomi, 1 la lettura anche di poche missive può ben rendere l’idea della foltissima presenza pronominale che caratterizza la scrittura epistolare di Leopardi. Non è dunque tanto la situazione del carteggio a stupire, dato l’alto coinvolgimento dell’io (e di rimando del tu e degli altri), quanto quella di OM a cui si può aggiungere P, la cui prima parola assoluta tra l’altro è proprio il pronome di prima persona, quasi una perentoria affermazione d’identità e al contempo un’esplicita assunzione di responsabilità (« Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto […] »). La segnalazione di Vitale dunque, sommata a quanto si riscontra in E e altrove, piuttosto che un segno ulteriore di letterarietà pare confermare l’attitudine di Leopardi a considerare la scrittura come una sorta di spazio scenico in cui muovere e gestire sempre con salda consapevolezza gli attori in gioco, anche attraverso quei sostituti d’identità che sono i pronomi. La dimensione teatrale del resto è non solo una componente fondamentale di OM ma è ampiamente presente anche in P. 2 Scambi tra pronomi allocutivi nel corpo della lettera sono di prassi a questa altezza, 3 e l’epistolario leopardiano ne ha abbondanti esempi, tuttavia spiccano alcuni ravvicinati passaggi come i seguenti : « Ho già scritto costà per vedere di farti pagare in Roma gli scudi 12.50 pagandoli io qua. Se questo non si potrà eseguire, ve li renderò direttamente per la posta » (659), e in particolare « Se le ho avuto poco riguardo parlandovi di me in maniera indiscreta, perdonatemi » (84*, miei i corsivi). Scambio di genere invece in « io non ho mai ricevuto lettera sua [di Leonardo Trissino], che non le abbia risposto » (413, il destinatario è Brighenti), in cui vi può essere stata una sorta di salto di referente, dall’autore delle lettere alle lettere stesse ; e in « Farò a Donna Marianna la vostra ambasciata quest’altro ordinario, quando gli arriverà il vostro franco » (530). È in particolare nella prima parte del carteggio, e indipendentemente dal destina
1 Una caratteristica confermata ad esempio per l’epistolario di Verdi da Mengaldo 2003 : 42. 2 E pure in C. Spiccata la teatralità delle Canzoni certo, ma si pensi comunque che nei soli Canti il pronome personale di prima persona fa segnare ben 123 occorrenze. Sui Canti tuttavia si veda Mengaldo 2004 [2006 : 59-62] e bibliografia ivi citata. A p. 59 in particolare si legge di « una presenza fittissima e granulare di tanti “tu”, apostrofati come tali, la quale necessariamente profila, come è lo statuto della poesia lirica, l’incombenza dell’io, che tuttavia, nella massima personalizzazione, ha pur bisogno di dialogare con l’altro e con gli altri, se no non consisterebbe lui stesso » : è esattamente ciò che si verifica nel carteggio, per lo statuto del genere certo, ma anche per l’atteggiamento fortemente empatico dell’io. Sulla questione dell’espressione del pronome soggetto da un punto di vista storico rinvio naturalmente a Palermo 1997, da cui vale la pena di citare almeno queste osservazioni : « L’Alfieri, nonostante le critiche ricevute per l’uso eccessivo di PS [pronomi soggetto] nelle tragedie, scelse la strada di una coloritura in senso toscano e letterario della sua prosa, aggiungendo nella stesura definitiva della Vita un buon numero di PS. Nella direzione opposta, ma con differente vigore, si mossero invece il Leopardi (assai timidamente), il Foscolo (in maniera più consistente), il Manzoni (con una drastica potatura che, più che assecondare, indirizzò le sorti dell’italiano scritto). Il recanatese, pur cancellando alcuni PS nella revisione delle Operette morali, non volle intaccare l’assetto tradizionale della propria prosa » (p. 342). 3 Si veda Serianni 1989c : 21-23 in cui si discutono anche esempi dal carteggio leopardiano.
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tario, che si concentrano le forme a più alto tasso di letterarietà, come ad esempio enclisi del tipo « la cura che Ella compiacesi di avere » (5), « lamentavasi » (7), « siasi » (15), « se però il libro non dovesse stamparsi […] questa correzione non dovrà farsi » (27), « debbo subito por mano al promessole articolo » (55), « leggesi » (106), « la premura datasi » (119), « le premure datesi » (242), « per rispondere […], dirolle che […] » (6*), « graditissime ed utili sopra modo sonomi riuscite le osservazioni » (19*) ecc. ; enclisi che in diacronia sopravvivono solo sporadicamente in lettere a interlocutori con cui Leopardi mantiene sempre un registro più sorvegliato, come nel caso di « ho letto […] il Merobaude, e trovatovi un nuovo ed insigne testimonio della vasta dottrina […] » (581, a Karl Bunsen). 1 Assenti tuttavia anche dalle prime fasi del carteggio due costrutti di ascendenza letteraria come l’interposizione del pronome tra l’infinito, il gerundio o l’imperativo e la negazione, e l’enclisi con il verbo in dipendenza di potere e sapere all’infinito e sentire al gerundio, entrambi utilizzati in OM, sia pure nelle operette di stile più elevato. 2 Il costrutto si ha comunque in altri contesti, come ad esempio « In ultimo vi pregava […] di non v’affliggere » (85*). 3 Una costruzione alla latina di persuadere, con l’accusativo della cosa e il dativo della persona, in 538 : « Carlo mio, se tu m’ami, credi ch’io non t’amo meno, e che in verità di giorno in giorno vo sempre più desiderando la tua compagnia, e sentendo il bisogno di te. Sarebbe forse vano ch’io mi sforzassi di persuadertelo ». Distribuito su un ampio arco temporale è il si neutro pleonastico : « l’effetto ch’io vorrei principalmente conseguire, si è che […] » (409), « E la detta circostanza si è, che la Direzione […] » (558), « ma il caso si è che […] » (648), « Il fatto si è che in Milano » (730), « tutto ciò che mi ricordo si è che costò » (1725). 4
1 Per Migliorini 1960 : 634, secondo cui « abbondantissima, anche nella prosa più andante, è l’enclisi pronominale », l’effetto arcaizzante del costrutto andrà valutato caso per caso. Per l’alta frequenza in Nievo si veda Mengaldo 1987 : 84. Circoscritti alla prima fase del carteggio sono anche i riscontri di Savini 2002 : 115-16 sulle lettere di Manzoni. Ancora per la prosa ottocentesca il rinvio va all’ampia documentazione di Mauroni 2006 : 226-34. La progressiva emarginazione di questo tipo di enclisi, che però non ne impedisce l’utilizzo in particolari contesti, ed al contempo la sua frequenza in OM (su cui cfr. Vitale 1992 : 88-89), induce a ritenere che Leopardi sentisse comunque il costrutto come marcato. Per l’uso che ne fa lo stesso Leopardi in poesia, si veda Serianni 1989a : 229. Va sottolineato comunque che si tratta di forme che troveranno acclimatazione in seguito soprattutto nel linguaggio burocratico. 2 Cfr. Vitale 1992a : 89-90. Per Zib ho trovato solamente : « non si considerando » (3101), « non si potendo » (4095), « di non potere ottenerlo » (252), « il non poter noi trovarci mai » (181), « tale da poter giudicarci » (646), « nè da poter gittarne » (3225), « da non poter dubitarne » (3916). In P invece nessun riscontro. 3 L’anticipo del pronome in particolare con l’infinito e l’imperativo preceduti dall’avverbio di negazione è caratteristica della scrittura epistolare di Giordani. Con questo tipicissimo modulo esortativo si esprime così una parte importante delle movenze patetiche con cui è costruito il discorso del letterato piacentino. Qualche esempio : « Però là non mi scrivete » (100), « Per pietà non mi scrivete mai più lettere come quest’ultima » (116), « Non mi dire che mi vuoi bene » (573), « pregali a non mi dimenticare del tutto » (589), « non mi tener tanto tempo senza tue nuove » (1071), « non mi scappare » (1342), « abbi cura della salute ; e di non ti rovinare faticando troppo » (233), « fammi scrivere da Carlino, per non ti affaticare » (262), « non ti abbandonare » (270), « Tu non ti contristare di me » (408), « Non ti scandalizzare » (700), « Non ti scordare di me » (870), « non ti pentire né ti stancare di voler bene a chi ti ama tanto » (1342), « Oh non vi lasciate mai venir in mente che le vostre lettere possano esser lunghe » (113), « non vi abbandonate così alla tristezza » (116), « non vi abbandonate mai a una totale e sicurissima confidenza » (519) ecc. 4 Andrà in questi esempi notata anche la diversità della punteggiatura. Per l’alta frequenza di questa struttura in OM si veda Vitale 1992a : 90-91. Leopardi discute del pronome pleonastico in diverse pagine di Zib, tra cui 4046, 4083-84, 4098-99, 4103 dove si legge « qua spetta il nostro idiotismo sempre comune tra
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Tra i casi di ridondanza pronominale, non frequenti ma che attraversano buona parte del carteggio, segnalo una serie con il dativo, « Non saprei dove mi metter le mani » (694), « Mi farà la cosa più grata che Ella mi possa fare dopo l’amarmi » (1085, anche con ripetizione enfatica del verbo), mentre con l’accusativo, e di data piuttosto bassa, riscontro « venirmi a trovarmi » (1815*). 1 Nella medesima direzione colloquiale, se non schiettamente miranti all’oralità, si inseriscono i casi di ci ridondante (o « senza alcuna necessità », Rohlfs § 899) 2 che ricorrono con una certa frequenza nelle lettere ai congiunti, a Giordani e a pochi altri intimi : 3 « benchè d’ordinario la sola brevità mi possa dispiacere nelle vostre lettere, adesso mi ci piacerà molto » (84*), « Basta ch’io non ci avrò colpa » (85*), « Perch’io non ci ho quella libertà […] » (577*), « egli ci ha pure uno col quale vivendo e parlando » (690), « salvo sempre che Ella non ci abbia veruna difficoltà » (833), « se io non ci avessi avuta difficoltà » (894), « io ci ho avuto sempre scrupolo » (939). Non si mancherà poi di segnalare la reazione, tesa evidentemente all’innalzamento del registro, determinata dalla sostituzione con vi (normale per Rohlfs § 900, anche se « la lingua parlata odierna preferisce ci ») : « ed io vi esorto a questa filosofia perché credo che vi abbiate i miei stessi diritti e la mia stessa disposizione » (553, a Paolina), « per questo vi vorrebbero altri materiali […] che vi potessero essere […] e qui vi bisogna la direzione di […] » (693, ad A. F. Stella), « se vi avesse ad essere molto di greco » (1610, a Louis de Sinner), « L’Antologia è terminata, eccetto che vi manca quell’ultima mano » (1053*, ad A. F. Stella). Ancora, « di registro molto colloquiale » (Serianni 1989b : 308) sono da considerare gli usi con funzione avverbiale di niente (‘per niente’) : « Comprendo bene che il sorprendente numero di Errori […] non dovrà niente attribuirsi al Correttore » (67), « Sappiate dunque che direttamente o indirettamente, voi in realtà siete stata proposta al Cav. Marini, e che questo non si è mostrato niente alieno dall’aderire a questo partito » (553), « tanto più che io non sono niente buono a far molte cose in un tempo » (855, a Vieusseux), « Paolina mi scrisse che [Mamma] era stata disturbata e poi guarita, ma Ella non mi dice niente come stia » (1254*) ecc. Non molto da rilevare per quanto riguarda i relativi. Pare rispondere ad un’esigenza tipica del genere epistolare (ma si veda a tal proposito anche la sintassi del
noi, massime nello scritto, dal 300 a oggi, di aggiungere il si (dativo) al verbo essere. Questo si è, questa si fu la cagione ec. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.) ». Il costrutto è molto utilizzato anche in Zib dove per il solo si è che registro 31 occorrenze (1270, 1508, 1705, 2000, 2529, 2700, 2752, 2762, 2829, 2915, 3083, 3107, 3384, 3453, 3454 ecc. ; si è, che 1339, 4510). Per P invece riscontro appena « Frutto di tale cultura malefica […] si è, o che gli alunni […] si rendono ridicoli e infelici in vecchiezza, volendo vivere da giovani ; ovvero […] che la natura vince […] » (P civ 37-40). Per essere / essersi nel primo Ottocento cfr. anche Serianni 1989a : 157n. 1 Cfr. Vanelli 1976 : 303. 2 Sulla questione del ci “attualizzante” si veda anche D’Achille 1990 : 261-75 e Sabatini 1985 : 160-61, il quale dopo aver registrato la provenienza orale di questo ci originariamente avverbio di luogo, nota che « nell’uso scritto queste forme stentano ad entrare, non soltanto perché fortemente connotate in senso colloquiale, ma perché vi sono difficoltà materiali nel rendere con la grafia normale la pronuncia palatale della c isolata, conservando per di più l’h grafica del verbo. Gli scrittori che hanno accolto la forma in questione (Verga, Pavese, ed altri) hanno scritto ci ho, ci avevo ». 3 I pochi esempi riscontrati in Giordani confermano il tono informale (del resto non è questa la corda prediletta dal piacentino) : « vedi che non ci ho nessuna colpa » (496), « non vuoi che io sappia che un solo ci è capace di far quella scrittura ? » (870), « che cosa credi ch’egli ci riuscirà ? » (1458).
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periodo), 1 l’uso di che con valore di obliquo (= prep. + cui) usato con funzione di collegamento e richiamo dell’argomento o del tema noto, di solito introdotto dall’interlocutore e comunque ripreso dalla lettera precedente : « il Programma de M. Cor Frontone di Freytag, che ella mi accennò […] » (15, a Cancellieri), « Quello che sopra la traduzione del Bellini che ella mi accenna […] » (26, ad A. F. Stella), « Del secondo dell’Eneide che ancora non ho sentenziato […] » (49*, a Giordani), « tu puoi servirti di quel Leonida Termopili, che già mi scrivesti […] » (530, a Carlo), « a causa del ritardo dei fogli che vi ho detto […] » (639, a Brighenti) ecc. 2 Segnalo inoltre l’uso di che per cui : « per piccola cosa che sia quello di che io sono assuefatto a contentarmi » (693, ad A. F. Stella), « e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra ? » (66*, a Giordani), « E il segno di che le domando, è ch’Ella si degni d’accettarlo » (178*, a Mai) ; mentre di carattere letterario è l’uso di cui per che in funzione di oggetto : « Poiché l’ufficio delle belle arti è pur di moltiplicare e perpetuare le imagini di quelle cose o di quelle azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghe e desiderabili » (66*, a Giordani). 3 Un paio di casi di distanziamento del relativo, ammesso anche in italiano antico ma qui di carattere più colloquiale, in « Ho conosciuto il suo fratello a Roma, che mi pare un galantuomo (624, a Brighenti), e « Quanto ho penato non vedendo risposta alla mia degli 11 Agosto a Pietruccio, che sarà smarrita ! » (1570*, a Paolina : qui però il distanziamento è solo apparente, in quanto dipende dall’estensione del sintagma nominale). Riscontro inoltre alcuni casi in cui il che indeclinato assume valore temporale : « il rivederla personalmente in questo tempo che Ella passerà in Italia » (634, notevole in una lettera a Bunsen), « in questo tempo che Ella si è trattenuta » (1003*, ad A. F. Stella).
5. Verbo 1. Uso dell’infinito Gli aspetti più rilevanti, almeno sul piano quantitativo, sono l’impiego dell’infinito nominale preceduto dall’articolo : « il soddisfarmi » (16), « m’è gran conforto il pensare » (78* ma anche 242, 327, 460 ecc.), « veramente è maraviglioso il vedere » (591, 781), « il venire a Milano e il rivederla e abbracciarla » (693), « il darvi questo fastidio » (702), « circa il far collazionare » (1811), « che non ti noccia il mutar clima » (1821) ; e l’infinito preceduto dalle preposizioni in : 4
1 Rinvio a § 4.6 anche per altri due usi dei relativi, che incidono sul collegamento tra le frasi o i periodi, e comunque sulla gestione dell’informazione : l’uso del pronome sostantivato (pp. 167), e l’avvio di proposizione con il relativo quale accompagnato da un sostantivo (pp. 166-67). 2 Fornaciari 1881 : 115 : « il che si usa regolarmente come soggetto o come oggetto, di rado, nell’uso moderno, come termine o complemento indiretto ». Ma per tutta la faccenda, anche in merito agli aggiustamenti terminologici dei grammatici nel corso dei secoli, rinvio naturalmente a D’Achille 1990 : 205-60. 3 Cfr. Fornaciari 1881 : 116, « talora per eleganza può usarsi che anche dopo preposizioni, specialmente quando si riferisce a cosa, non a persona ». 4 Cfr. Rohlfs § 711, Vitale 1992a : 132-33 (« Vivo, specie nelle operette di stile elevato ») e, per l’epistolario leopardiano, Herczeg 1994 : 512-14. Esempi da epistolari ottocenteschi in Antonelli 2003 : 178-79. Il costrutto non risulta gradito a Manzoni il quale nel carteggio non utilizza il tipo introdotto da con, mentre quello introdotto da in fa registrare solo pochi casi antecedenti la Quarantana (cfr. Savini 2002 : 157). Per Serianni 1990 : 87 si tratta di « istituti morfosintattici di sapore libresco se non arcaizzante ». Non sembra di particolare rilievo per Fornaciari 1881 : 201.
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« pure leggo e studio, come posso, i prosatori, e in leggerli non mi fo forza » (66*), « perché volete credere che mi ostini in far quello che […] » (84*), « Mi farebbero un grand’onore se si occupassero in leggere […] » (167), « prova pena in accettare questo tuo dono » (539), « spendere una mezz’oretta in trattenerti con me » (574), « non avreste piacere alcuno in vederlo » (648), « premura e prontezza usata in farmi pervenire […] » (1033), « piacere ch’io provo in pensare » (1715) ecc. ;
oppure con, in luogo di una gerundiva con valore modale :
« avendo passato […] senza scrivere […], e con leggere più che pochissimo » (85*), « se V.S. vorrà darsi il pensiero di proccurarne lo smercio, […], con regolarne il prezzo a suo pieno arbitrio » (282), « Rimane ch’io stampi col mio danaro la Canzone del Mai, […], con premettervi la Lettera che le accludo » (304), « potrà diriggere la boccetta per la posta a mio padre o a me, con avvertirci della spesa che occorrerà » (125), « mi ricompensano con ricusare ostinatamente di aiutarmi » (392), « Bella impresa è quella di riparare in certo modo alla perdita […], con render corpo e vita » (663), « la pregherei di supplicare l’E.mo di Stato a porre il colmo alla sua bontà verso di me con farmi somministrare qualche somma » (761), « voglio dir con amarti sempre teneramente » (969), « al quale non potrò soddisfare altrimenti che con serbar memoria costante della sua cortesia, e con tenermi desideroso de’ suoi comandi » (970), « Il Sig. Cav. de Bunsen mi ha rallegrato più volte, con darmi notizia della memoria che Ella conserva di me » (1147), « moltiplicava prodigiosamente l’olio di una lampada, con rifondervene di nascosto ogni notte » (1184), « Vorrei che voi poteste consolarmi ancora con darmi buone notizie (1380) ;
oppure – certo meno marcato e comunque vivo anche oggi – da per, con valore causale o finale :
« desidero d’essere effettivamente solitario, per essere in effettiva compagnia, cioè nella tua » (466), « È un uomo d’ingegno sufficiente, […], e che per esser sempre vissuto in città piccole, non conosce punto il genio di questo secolo » (752), « Ella mi conosce, credo, abbastanza per essere persuasa che io non saprei neppure scrivere senza usar tutta la diligenza che mi è possibile per fare il meglio ch’io so » (961) ecc.
Non molti sono i casi di infinito indipendente : a parte gli infiniti iussivi di 1173 (« in un caso disperato, mandarlo a Brighenti per la Diligenza, e avvisarmene subito ») e in particolare 1616 (« Pigliare il mio protocollo […] ; levar via le lettere di […] : farne un gran rouleau […] : scriverci sopra […], ingegnarti […] »), ne riscontro altri in una serie di interrogative (« Ora come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo ? e come far che cessi l’effetto se dura la causa ? » 60*, « e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra ? » 66*, « Coll’accrescere l’affetto e la gratitudine di voi ? » 95* ecc.). Una serie di infiniti narrativi (o descrittivi) 1 si trova nella lettera, dell’8 agosto 1817 (82*), in cui Leopardi replica alle preoccupazioni di Giordani (79) con un dettagliato racconto del proprio attuale ‘stile di vita’, ossia del proprio modo di passare le giornate (« Alzarmi la mattina e tardi […] Poi mettermi immediatamente a passeggiare, e passeggiar sempre […] passeggiar sempre […]). 2 Spiccano inoltre « Degnissimo scopo delle vostre fatiche, conservare all’Italia questo tesoro a malgrado degli stranieri » (80), « Cimento proprio terribile, e da spaventare
1 Cfr. Rohlfs § 708, Serianni 1989b : 479.
2 Corsivo dell’autore.
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ogni men prode e potente di Lei, mettere così apertamente alle prese l’arte di scrivere colla pittura » (66*), « grand’ira e rabbia non potere scrivere » (1819) in cui la completiva retta dalla sola parte nominale, per ellissi del verbo essere, sembra acquistare rilievo e valore autonomo. Interessante quest’altro caso :
Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e far mio quel che leggo, non han dato altri che i poeti e quella smania violentissima di comporre, non altri che la natura e le passioni, ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l’anima in tutte le sue parti, e dire fra me : questa è poesia, e p[er] esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa, e darmi a far versi (60*).
In chiusura di questo periodo complesso, da un punto di vista sintattico ci troviamo di fronte alla coordinazione di una completiva ad una precedente subordinata esplicita. In situazioni di questo tipo Franca Ageno (1964 : 393) ha individuato la « spia di una scarsa capacità da parte dello scrittore, di dominare costruzioni sintattiche complesse ». Qui però il caso mi pare un po’ diverso se si riferisce la completiva non a ciò che immediatamente precede, ma a tutto il periodo, che si sviluppa dunque in crescendo, e di cui quell’ultimo movimento vuole essere la curva conclusiva e discendente. Propenderei di staccare dal discorso diretto l’infinitiva per darle rilievo di costrutto indipendente in cui la e avrebbe il compito di riprendere, con una specie di collegamento emotivo, le congiunzioni precedenti che scandiscono le tappe della maturazione poetica di Leopardi : dal fervore (« e quella smania […] ») alla risoluzione (« e dire fra me […] ») all’azione (« e darmi a far »). Anche la punteggiatura sembra andare in questa direzione, soprattutto se si considera la mancata segnatura delle due parti principali del discorso – il desiderio di tradurre da un lato e la smania di comporre dall’altro –, che altrove avrebbero senza dubbio meritato un punto e virgola. Il costrutto latineggiante dell’accusativo con l’infinito, nonostante la notevole vitalità ottocentesca, 1 compare soprattutto nella prima parte di OM, e in special modo nelle operette di registro più elevato (la Storia del genere umano in particolare), evidenziando così il suo carattere di modulo retoricamente connotato. 2 In E il costrutto non è utilizzato con particolare frequenza, forse anche per la particolare inclinazione di Leopardi, in omaggio alle formule di cortesia tipiche del genere epistolare, a sfruttare intensivamente le perifrasi verbali, laddove l’accusativo con l’infinito tende invece ad accorciare e alleggerire i connettivi sintattici e lo spazio verbale. Quando
1 Per la diffusione del costrutto nel primo Ottocento si vedano Migliorini 1960 : 632 ; Mengaldo 1987 : 100 ; Serianni 1989a : 94 ; per gli epistolari ottocenteschi, Antonelli 2003 : 180-82 ne sottolinea l’« ampia diffusione », pur in presenza di « fattori che ne attenuano, almeno in una certa misura, la portata ». È frequente nella prosa del Cesari (cfr. Piva 2002 : 165) mentre Savini 2002 : 154-56 nota che le occorrenze del costrutto nelle lettere di Manzoni non oltrepassano la fatidica soglia del 1840, e in ogni caso anche in precedenza gli esempi non possono essere considerati, secondo l’autore, come espressione di una ricerca di cultismo. Nessuna indicazione sul suo utilizzo da parte di Puoti 1847 : 54-55, mentre chiarissimo è invece Fornaciari 1881 : 367 « questo costrutto come quello che ritiene del latino, non è oggi tanto frequente quanto presso gli antichi, e dovrà usarsi soltanto quando la chiarezza o la forza o la dignità dello stile pajano richiederlo, e specialmente per evitare una troppo vicina ripetizione della congiunzione che ». 2 Cfr. Vitale 1992a : 130 e Tesi 1989-90 [2009 : 46] secondo cui « nelle Operette morali il gradimento in certe zone per questo costrutto tradizionale è sicuramente motivato da tali [la consapevole ricerca di maggiore aulicità] tendenze retorico-compositive ».
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il carteggio si libera dalle convenzioni del genere, e cioè nella sua parte conclusiva, la lingua decisamente più informale non può forse più permettersi di accogliere un costrutto così classicheggiante. Vediamone comunque alcuni esempi :
« il quale so per relazioni a voce, essere un uomo disprezzato da tutta Milano » (31), « il già detto errore, […] che rilevo esser corso » (67), « non dico esser felici » (553), « Quella che dici avermi scritta e consegnata […] il piego che dici essermi stato spedito » (574), « mi dicevate dover essere di là ad una quindicina di giorni » (636), « la Scelta dei Moralisti, la quale trovo che avrebbe molte difficoltà, e fra le altre l’assoluta mancanza di buone edizioni de’ classici in questa città, come l’ho conosciuta essere ancora in Milano » (833), « mi dia quelle ancora del suo stato fisico, che il P. M. Poni con mia gran consolazione mi disse esser molto migliorato » (765*), « perché so esser cosa molestissima il ripescare i difetti di un’opera » (49*), « qualunque savio nel mio caso vedrebbe esser la sola che mi rimanga » (246*).
Dopo verbi di percezione (elencati da Fornaciari 1881 : 202, il quale inoltre segnala che il costrutto in questione « non è dell’uso toscano ») l’unico infinito retto da a è « io domando misericordia alla natura che m’ha dato l’essere appostatamente per vedermi a soffrire » (392) in una vibrata e studiata lettera di richiesta di raccomandazione a Giulio Perticari. 1
2. Uso del participio Pur « raro » e di sapore « letterario » o « burocratico » il participio presente con valore verbale anche in OM non è molto utilizzato. 2 Secondo Herczeg 1994 : 518-19 nell’epistolario leopardiano « non è quasi mai adoperato […], a differenza di certi usi odierni della lingua giuridica o burocratica o anche dei titoli che portano enumerazioni nominali. Semmai il participio presente può assolvere, messo dopo il sostantivo, ad una funzione di subordinata relativa ». Per gli usi più vicini a modelli burocratici si può citare qualche esempio con il participio presente di stare : 3
« essendo proprio della virtù il farsi noto ancora a quegli di cui ella non ha contezza, stante il poco merito loro » (201), « Ma d’altra parte, stante che anche le altre tre canzoni portano a
1 Sporadico è il modulo anche in OM. Si veda Vitale 1992a : 131-32, il quale rileva pure un paio di esempi in Zib (« vedendo a perire » 517 ; « vedere a rompere » 518, in cui tuttavia l’infinito non è retto dal gerundio come segnalato da Vitale) e uno in ME (« si ode a favellar », che potrebbe richiamare il vicino « discendasi a favellare », cfr. PP** 1061). 2 Cfr. Migliorini 1960 : 633 (« il participio presente con pieno valore verbale è assai raro, e suona letterario […] ovvero burocratico »). Patota 1987 : 126 pur riscontrando l’uso verbale del participio presente nella prosa del secondo Settecento, segnala che non è utilizzato nell’Ortis del Foscolo ; successivamente invece è attestato in Nievo (cfr. Mengaldo 1987 : 103), mentre Manzoni lo elimina nella revisione dei Promessi sposi (cfr. Vitale 2000 : 27) e praticamente non lo usa neppure nella prima fase del carteggio (Savini 2002 : 163-64). L’affinità con il linguaggio burocratico ne può spiegare la diffusione nella prosa giornalistica, almeno quella del secondo Ottocento indagata da Masini (cfr. Masini 1977 : 98). Per i riscontri dalle Operette (« sporadici casi »), il rinvio è a Vitale 1992 : 133 che in nota tuttavia aggiunge : « ricorrente con qualche frequenza è il participio presente con valore verbale nella prosa dello Zibaldone, dell’Epistolario e dei Pensieri ». Altrove riscontro anche « giudicò che ciò potesse provenire da una caverna o da un foro attraversante la luna » in SA (Binni 734.i), mentre andranno valutati diversamente i due riscontri tratti dai Ricordi d’infanzia e di adolescenza (« mia madre consolante una povera donna » PP** 1192, « contadino dicente le ave Maria e ’l requiem aeternam » PP** 1196) per la particolare struttura accumulativa dei dati e delle esperienze che caratterizza quel testo. 3 Antonelli 2003 : 177 : « Ormai cristallizzato nel ruolo di congiunzione causale ».
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piedi un’altra dedica » (284), « Ma stante questa difficoltà, e considerando l’infinita gentilezza e l’affetto dimostratomi » (320), « stante che la lingua e l’uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa » (409), « È ben vero che stante la scarsezza d’impieghi secolari in questo Governo, parve […] » (581), « il prezzo di 94 paoli a Bologna, non è punto esagerato, stante la gravezza dei porti » (1765), « il partito ch’io dico, è tale, che stante la mia salute, non è verisimile » (1767), « ma qui nessuno pensa più all’estero, stante la confusione che produce il cholera » (1946), « sono stato molto indeciso se dovessi continuare il viaggio, stante che i miei occhi, […], non sono ancora guariti dalla flussione » (707*), « Mio padre è stradeliberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa, […], stante che neppur qui mi dà mai danaro » (205*), « essendo deliberato d’ora innanzi di tentare le poste solamente p[er] te, stante ch’eccetto in questo commercio che si vuol mantenere anche coi mezzi più disperati, non voglio gettar più carta né fatica » (257*).
Nell’esempio che segue mantiene valore verbale un participio presente (che non ha altri riscontri all’interno dell’opera leopardiana) destinato a sopravvivere solo come sostantivo : « vogliono che io la preghi di un favore da parte loro, ed è di voler proccurare un’ampia licenza di legger libri proibiti al Dottore Ercole Guidetti Medico e Chirurgo esercente in questa città, uomo assai abile e probo » (779). 1 In quest’ambito è da dire che anche il participio presente si allinea ai processi di sostantivizzazione segnalati per l’infinito, collocandosi spesso ad attacco di periodo, come connettivo testuale : « Del restante » (158, 193, 594), « Il restante » (593, 944, 994, 1026), « il rimanente » (158, 857, 1949), « del rimanente » (914, 1888, 1949 ecc.). 2 Per il participio presente in funzione di relativa, del resto in larga parte normale anche oggi, si vedano almeno questi esempi :
« non ha vita bastante a concepire una malattia mortale » (1859), « attendeva risposta a una che scrissi al Sig. Luigi, contenente parecchie cose su cui bramava d’intendere il di Lei sentimento » (752), « Egli è libraio Lombardo, che vuol dire di polso, e molto ben pagante » (1560), « non troverete in me altri meriti, ma un animo amante, anzi amantissimo, mi troverete fin ch’io viva » (1715), « Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch’io non sono l’autore dei Dialoghetti » (1753), « in generale egli vi troverà una quantità d’imperfezioni e di mancanze da una parte, provenienti dallo stato incompleto della libreria di mio padre » (1763) ecc. 3
Cospicua la serie dei participi passati assoluti, nella maggior parte dei casi introdotti dalla preposizione dopo « a chiarimento del rapporto temporale perfettivo » : 4
1 Cfr. Serianni 1989a : 161n (a testo un esempio del medesimo ambito medico tratto dalla « Gazzetta di Milano » del 22 maggio 1822 : « questa direzione medica previene gli esercenti la chirurgia maggiore […] a presentarsi »). 2 In P trovo : « Addormentandosi l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte del prezzo » P xx 82. In poesia l’utilizzo del participio presente al posto di una relativa è, come normale, più diffuso, con la creazione di sintagmi o clausole ricorrenti. La frequenza è maggiore, il che sarà comunque significativo, nelle canzoni : « Il petto ansante, e vacillante il piede » (All’Italia, 82) ; « L’etra sonante » (Ad Angelo Mai, 89) ; « l’echeggiante / Arena » (A un vincitore nel pallone, 12) ; « l’errante / Per li giovani prati aura » (Inno ai patriarchi, 25) ; « È il gener nostro in cura / All’amante natura » (La ginestra, 41) ecc. 3 In P qualche altro esempio : « La quale, essendo i fatti, per esperienza oramai bastante, conosciuti immutabili » P xxiii 11 ; « e la ragione stessa, naturalmente lontana e aborrente dalla realtà della vita » P xxvi 21 ; « E nel particolare dell’amicizia, la crede cosa appartenente ai poemi ed alle storie, non alla vita » P xciv 4 ; « e per quella sera nè per tutto il giorno vegnente non si ricordò di quell’incontro » P iv 13. 4 Cfr. Rohlfs § 726. Si veda anche Fornaciari 1881 : 214-15, e anche Herczeg 1972 : 181-200. Per Nievo rinvio a Mengaldo 1987 : 104. Se l’uso del participio assoluto è « relativamente frequente » nel carteggio di Manzoni, solo « sporadicamente attestato » è il costrutto con dopo davanti al participio passato (Savini 2002 : 164-65).
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« converrà o dopo terminato l’inserimento della Batracomiomachia o quando meglio tornerà, porre […] » (21), « l’ho veduto piangere sopra la sua perdita, due mesi e più dopo accaduta » (542), « se dopo presentata la supplica » (544), « ma dopo fatto esperienza delle cose » (600, da notare qui uno dei pochi casi di participio non accordato), « Poco dopo scritta la mia dei 15 mi giunsero da Ancona le 50 copie » (646), « Il giorno dopo ricevuta la lettera ultima del Papà, ebbi l’altra dei 19 » (730), « dopo scritta l’ultima mia, ho inteso » (836), « I Moralisti saranno stampati dopo finito di stampare il Petrarca » (949), « la prima delle quali mi giunse dopo chiusa già la mia ultima dei 6 » (991), « dopo ricevuta la mia de’ 14 » (1269), « Dopo ricevuta la cara sua ultima » (1053*), « Poco dopo ricevuta l’ultima tua » (1062*) ecc. 1
In un paio di casi il participio passato del verbo essere è utilizzato come apposizione di un sostantivo e funge sinteticamente da relativa : « ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico » (474), « Ho veduto qui Tommasini, stato qua di volo per un consulto » (1691). 2 Da segnalare una serie di riscontri in cui, ad inizio periodo, il participio passato seguito da che + l’ausiliare dà vita ad una subordinata temporale esplicita di sapore squisitamente narrativo : 3 « Tradotta che io l’avrò » (693), « Avuto che avrò il resto […] » (1021*), « Ricevuto che avrò da Bologna l’esemplare che mi significate » (1461), « venuto che sarà » (118*), « Ricevuta che l’ebbi » (1966*). Analogo valore temporale ha l’attacco con il solo participio passato (seguito da un’infinitiva indipendente, su cui si veda più sopra) di « Desinato, passeggiar sempre nello stesso modo sino alla cena : se non che fo, e spesso sforzandomi e spesso interrompendomi e talvolta abbandonandola, una lettura di un’ora » (82*), 4 in cui l’anafora della congiunzione, e dell’avverbio poi variato, mima bene fatica stacco e ripresa della lettura. 5
1 In OM appena due casi, entrambi con verbi intransitivi : « ma dopo cenato non è tempo di dolersene » (xi 4) ; « il giovane […] è obbligato poco dopo entrato […] nel mondo a rinunziare » (App. Vc 72). Per altri casi di participi assoluti nelle operette si veda Vitale 1992a : 133. Per Zib i casi di participio assoluto preceduto dalla prep. dopo (per ragioni di spazio riscontro solo il participio e il numero di pagina) sono, se non ho contato male, 37 : « dopo sfogata » 136, « dopo concepita » 188, « dopo intrapreso » 218, « dopo accadutagli » 285, « dopo prevaluta » 415, « dopo nato » 427, « dopo sentito » 715 ecc., « dopo sedato e pressochè spento » 4420. Un solo caso in P : « continua aringando e gridando per ore […] finchè, lungo tempo dopo tramortito l’uditore, non si sente rifinito di forze egli stesso » P xx 35-36. Il fenomeno è rilevato anche nel carteggio di Manzoni da Savini 2002 : 165. 2 Costrutto non più molto diffuso nell’Ottocento secondo Vitale 1992a : 135 il quale in nota precisa anche che in SPM gli esempi sono « rarissimi ». Per OM, completando lo spoglio di Vitale, i riscontri sono : « con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Diogene, stato segretario di essa Accademia » (iv 122-23), « dichiarava le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso » (ix 54), « scritte ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volgarizzate e stampate in Italia » (x n. 21), « Tommaso Giannotti medico da Ravenna, detto per soprannome il filologo, e stato famoso a’ suoi tempi » (x n. 21), « la quale guardavalo fissamente ; e stata così un buono spazio […] » (xii 16), « alcuni scritti […] sono perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo, cadono » (xiii 2.21), « che ti fosse dato, come fu a qualche eletto spirito, di scoprire alcuna principalissima verità, non solo stata prima incognita in ogni tempo, ma […] » (xiii 8.4-6). 3 Cfr. Fornaciari 1881 : 370, che trattando delle proposizioni temporali aggiunge : « spesso serve allo stesso significato la particella che interposta fra il participio passato e l’ausiliare (avere, essere) posposto sempre al participio ». 4 Mi pare interessante l’analogia con un passo de I promessi sposi di Manzoni : « Passeggiato, desinato, Renzo se n’andò, senza dir dove » (cap. xxxviii). 5 Svolge la medesima funzione di introduttore temporale il nesso congiuntivo subito che : « subito che sarò in caso d’uscire » (483), « Subito che avrò la risposta saprò » (662), « subito che la mia salute me lo per
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3. Uso del gerundio Di notevole efficacia l’attacco con la causale implicita in forma di gerundio assoluto (con soggetto anteposto) 1 della lettera ad Angelo Mai del 2 giugno 1817 : « La sua carissima delli 8 Marzo non essendo di quelle che domandano risposta, io non risposi allora p[er] non infastidirla, ma […] » (69*). Già Herczeg 1994 : 517, secondo cui tra l’altro « Leopardi fece uno spreco dei costrutti gerundiali », rileva l’abbondanza di « gerundi assoluti di tutti i generi ». Vediamo dunque una serie di esempi in cui il gerundio assoluto oscilla tra un valore temporale, causale, ipotetico. La serie proposta è localizzata nella prima parte dell’epistolario, per dare l’idea dello sfruttamento intensivo del costrutto, ma vale la pena di aggiungere che in diacronia le cose non cambiano significativamente :
« Crescendo la età crebbe l’audacia, ma non crebbe il tempo dell’applicazione » (5), « Le spedisco per la posta una brevissima Dissertazione in forma di lettera sopra il Dionigi del Mai, della quale avendomi scritto lo stesso Mai ed altri con certa approvazione, ho creduto che non per il merito suo, ma […] » (90), « Il che, richiedendo l’impresa di V. S. molto maggior prontezza, mi toglie ogni facoltà di soddisfarla » (145), « Se non che mi sembra che il maggiore essendo il dono del suo libro, mi convenga ringraziarla principalmente di questo » (165), « Io non so perchè avendomi avvertito il Giordani molti mesi addietro d’avermi fatto ascrivere alla stampa delle opere di V. S. non solamente il quarto volume di cui Ella mi parla, ma nemmeno il primo mi sia ancora stato spedito, ch’io sappia » (193), « Trovandosi le copie a Roma, ho scritto colà perchè le ne spediscano sollecitamente cinquanta » (204), « Non vedendo riscontro neppure a quest’ultima, non so s’Ella abbia giudicato che non meritasse risposta, come può aver fatto ragionevolmente, non essendovi cosa che la esigesse » (247), « Ma soprattutto, dovendosi far la stampa in mia lontananza, la pregherei a volermi favorire di dar l’incarico della revisione a persona che […] » (277), « Mi perdoni questa lunga e importuna diceria, e si accerti della mia profonda riconoscenza, anzi della maraviglia ch’io provo nel trovar tanta cordialità, essendo cosa nel mondo così straordinaria » (284), « ella farà quello che le piacerà, essendo io in questo caso del tutto indifferente » (296), « Io non so se la Sig.a Martinetti si trovi ora costì. Trovandosi, prego V. S. che le voglia fare avere per mia parte una di queste copie legate » (316), « Ben vi prego con tutto il cuore a farvi coraggio ; e considerare che le calamità sono la sola cosa che vi convenga, essendo virtuoso » (365), « Scrivo oggi alla Mamma, secondo il suo suggerimento. Acconsentendo essa, la prego a volermi tosto dire sopra chi potrò trarre la cambialina » (1799) ecc. 2
metta » (772), subito che io lo vegga (778), « subito che tu avrai tempo » (781), « subito che avrai la presente » (1093), « Subito che avrò potuto risolvermi » (1149) ecc. 1 Sulla posposizione del soggetto è rigoroso anche Fornaciari 1881 : 219 (« Il soggetto, quando vi è, si pospone sempre al gerundio »). Già in Tasso del resto (cfr. Bozzola 2004 : 28). Non è mai attestato nel carteggio manzoniano, in cui pure il costrutto è presente (cfr. Savini 2002 : 162 : « Manzoni pospone sempre il soggetto della frase »). 2 Per Giordani si veda Fornaroli 1976 : 141 : « anche il gerundio viene talvolta usato in modo assoluto ». Cfr. anche Antonelli 2003 : 182-83, il quale nota l’ampia diffusione del gerundio assoluto nella prosa ottocentesca, in quella letteraria, nella stampa periodica e anche negli epistolari, valutando il costrutto come « tratto scarsamente marcato in senso aulico » (soprattutto nel caso di soggetto posposto, come di norma in E). Per OM, Vitale 1992a : 137 segnala « l’uso non infrequente del gerundio assoluto (con valore causale e temporale) », ma si vedano anche gli esempi commentati in Tesi 1989-90 [2009 : 61-62]. Meno frequente la presenza di questa forma in P di cui fornisco comunque qualche es. : « E durando la recitazione, accorgendosi, prima allo sbadigliare, poi al distendersi, allo scontorcersi, e a cento altri segni, delle angosce mortali che prova l’infelice uditore » (P xx 30-33), « Ma questo impossibile, durando lo stato sociale degli uomini,
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Da notare ancora qualche esempio in cui il gerundio assoluto è doppio, con identità di soggetto tra le due gerundive oppure no :
« Ma comandandomi ch’io vi scriva liberamente, e mostrandovi così nemico delle cerimonie, s’io mi tenessi soltanto alla verecondia, credo che vi parrei disubbidiente e fastidioso » (194), « Previdi che l’ora essendo tarda, e la partita non potendo esser breve, non mi sarebbe avanzato un momento per parlarvi » (251) ; « Augurandomi fausti incontri per servirla, e desiderandole anche da parte della mia famiglia, felicissimo il principio e il fine del nuovo anno, me le protesto […] » (32), « le quali non so se ella abbia vedute costì, essendo rarissime in italia, e non trovandosi vendibili né anche a Milano » (91).
Altro passo di rilievo mi pare quello che si può leggere in una lettera – che rimase a quanto ne sappiamo senza risposta – a Dionigi Strocchi, letterato e traduttore di classici greci e latini. Una lettera di particolare e forse eccessiva deferenza nel tono, che si appoggia ad una scrittura sapientemente modulata : nel brano seguente in effetti attacco e fine di periodo esprimono la causa da due punti di vista diversi (si potrebbe dire a parte subiecti e a parte obiecti), incorniciando un periodo ipotetico in cui è compiutamente formulata la richiesta di perdono per una “colpa” che è tutta proiettata sul destinatario :
« Compiacendo al qual desiderio [di conoscere e riverire rarissimi ingegni], e prendendo cuore di scriverle e aggiungere l’impaccio d’una mia stampa, se l’avrò molestata, la prego e spero che voglia perdonarmi considerando la cagione di questa noia ch’è stata la sua fama » (177). 1
Per chiudere si veda come la proposizione reggente, e principale, seguita da una completiva esplicita, possa dilatarsi e quasi gonfiarsi attraverso lo sfruttamento del gerundio, nei primi due casi con valore causale, negli altri due temporale :
« Ma temendo Lei, e temendo io parimente che la stampa non incontri opposizione per parte della Censura, la prego che venendo impedita, o volendosi alterare in qualunque minima cosa il Ms. si compiaccia di spedirlo direttamente sotto fascia al Sig. Pietro Giordani a Piacenza » (164). 2
4. Uso dei tempi e dei modi Anche sul versante della gestione dei modi e dei tempi verbali il carteggio conferma una prassi linguistica nel complesso pienamente moderna. Pochi sono dunque sarà cercato sempre, […] come, durando la nostra specie, i più conoscenti della condizione umana, persevereranno fino alla morte cercando felicità, e promettendosene » (P liii 2-6), « Costante giudizio della moltitudine, non meno che, contraddicendo al linguaggio il discorso, costantemente dissimulato, è […] » (P xlvi 9-11). 1 Si tratta di un’accompagnatoria per il volumetto con le due canzoni patriottiche, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, uscito a stampa per Bourliè all’inizio del 1819. Una lettera quasi identica, in particolare per il passo riportato, è spedita a Bartolomeo Borghesi (179) di lì a qualche giorno. 2 Va sottolineato l’uso del pronome lei in luogo di ella. Modo approvato dal Corticelli : « negli autori del buon secolo si trova usato il gerundio assoluto, col caso obliquo d’egli e d’ella che sembra essere l’ablativo assoluto col participio alla maniera de’ Latini […]. E un tal modo di dire s’incontra spesso in Giovanni Villani, anche col caso avanti il gerundio, ma non già nel Boccaccio, il quale usa quasi sempre il nominativo » (Corticelli 1828 : 322-23).
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in questo contesto gli usi che evidenziano uno scostamento dalla norma attuale, e tutti riconducibili a tipologie in via di uscita dall’uso già nell’Ottocento. Si possono ad esempio indicare alcuni casi di presente pro futuro, in linea con la contrazione del futuro tipica della lingua parlata odierna, in « Rispondo alla tua dei 13 Luglio […] per la prima occasione che ho di mandar lettere alla posta » (1120*), « ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l’uno per l’altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza » (1809*) ecc. ; 1 il caso contrario invece, in cui al futuro sembra affidata una sfumatura modale che lo avvicina al congiuntivo (presente), si nota in « Salutami ancora quegli amici e quei conoscenti che tu crederai che si curino dei miei saluti » (716, con l’aggiunta di un poliptoto che stringe a cornice il breve periodo). 2 Con il congiuntivo inoltre sono da segnalare alcuni scambi tra presente e imperfetto : « Ma che tu segua a patire mi rattrista assai più di quello ch’io potessi mai esprimere » (512*), « dubito ancora che una tal cosa ai tempi nostri si sapesse fare in Italia comportabilmente » (693), « il 2° volume del Cicerone, del quale le dico sinceramente, che nè io potrei, nè so come altri potesse desiderar cosa alcuna di più » (1053*) ; 3 analogamente per il periodo ipotetico si possono segnalare questi casi : « Non ho molto garbo nella galanteria, e di più temo che se volessi usarla con voi, la Mamma non abbruciasse le mie lettere o prima o almeno dopo di avervele date » (483), 4 « Nella seconda parte dello stesso Frammento primo, v. 10. 11, dov’Ella legge in judiciis severitas, vegga se le paresse più a proposito […]. Nel Carm. v. v. 52-54., Ella giudichi se il luogo si potesse risanare così […] » (591). 5 Per gli scambi nei modi verbali invece, normale anche altrove nell’opera leopardiana l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo nelle subordinate concessive introdotte da sebbene (e se bene) : 6 « Ella mi farebbe sommo favore se si compiacesse di
1 Cfr. Rohlfs § 670 ; per Fornaciari 1881 : 172 il presente si può utilizzare « in luogo del futuro, quando si vuole esprimere un fatto con maggior certezza ». Serianni 1989b : 467 ne sottolinea tra l’altro la colloquialità, cosa che mi pare bene espressa nel secondo esempio tratto da una breve lettera indirizzata a Ranieri. Così anche Masini 1977 : 100 (« non estraneo all’italiano letterario, è peculiare della lingua parlata e ha tono familiare »). 2 Sul senso di dubbio e incertezza veicolato dal futuro cfr. Fornaciari 1881 : 181-82. 3 Si vedano a proposito Mengaldo 1987 : 99 e Masini 1977 : 102, per analoghi riscontri rispettivamente nelle lettere di Nievo e nella stampa periodica. 4 Segnalo di passata che si ha qui l’unico caso di costrutto con di nella sequenza temporale formata da dopo + infinito : « dopo di avervele date » (483 a Paolina), ma altrove sempre dopo + infinito (80, 165, 242, 857, 984, 1093, 1656, 1705, 1811, 1899 ecc.). A conferma dell’emarginazione del costrutto, nel resto della prosa leopardiana trovo solo un paio di presenze della forma dopo di + infinito, e quel che più importa in scritti giovanili : « dopo di essersi […] e dopo di avere […] » (Descrizione del Sole per i suoi effetti, EDG 30), « dopo di esservi giunti » (Dissertazione sopra la luce, Diss 203). Per la lingua ottocentesca si veda Serianni 2004 : 54-56. 5 Alcuni di questi esempi, e in particolare gli ultimi due (in quanto suggerimenti di correzioni ad alcuni luoghi dei Frammenti di Merobaude pubblicati da Niebuhr nello stesso 1823), rientrano però nella casistica segnalata da Fornaciari 1881 : 410 che ammette l’uso dell’imperfetto « quando vuolsi indicare un fatto come incerto e ipotetico ». 6 Per OM cfr. viii 41-43, xi 183-86, xiii 6.46-49 ecc. ; Zib 34, 155, 175, 195, 213, 240, 287 ecc. (ma con il congiuntivo qualche caso in più che altrove 235, 243, 263, 374, 347 ecc.). I pochi riscontri dei corrispondenti vanno quasi tutti (tranne qui il primo) in direzione del congiuntivo : « Era veramente cosa da disperarsi, di tanto crudele ingiustizia ; perchè sebbene io era un ignorantello […] avevo però quanto bastava a far molto buona figura » (99, di Giordani), « Carlo ha riso, ed ha approvato il v[ost]ro ritorno dello scherzo sul baule, sebbene non gli sia piaciuto l’esservi stato sempre di dietro » (470, di Paolina), « Del resto, Buccio mio caro, sebbene io sia oramai in un desiderio di rivederti e ritoccarti, che tu non puoi credere, pure non posso che consigliarti a conservare con ogni cura la posizione, in cui sei » (740, di Carlo).
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darmi notizie della sua salute, che sebbene è preziosa a moltissimi, dee premere a me in particolare » (155), « Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come uno stecco » (310), « È vero che quest’inverno, sebbene sono uscito ogni giorno, ho fatta vita ritirata » (852), e poi 174, 321, 341, 369, 374, 401, 406, 412 ecc. per 23 volte ; solo con la grafia unita si trovano alcuni casi contrari : « sebbene le difficoltà sian grandi e si riesca a superarle perfettamente, il pubblico non le calcola » (26), « Sebbene dopo aver saputo quello ch’io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità […] » (242) e anche 373, 663, 671, 825, 19*, 340*, 1791*. Al contrario, con benchè la regola è il congiuntivo, anche se va registrato almeno un esempio con l’indicativo : « Non t’inganni a credere che le mie effusioni ec. vengano più da politica che da altro fonte, benchè non si può negare che la lontananza ravviva in qualche modo le affezioni » (504). 1 Ancora si possono citare alcuni casi, oggi di valore più colloquiale, in cui con i verbi credere, sperare ecc. il futuro dell’indicativo è utilizzato al posto del presente congiuntivo, 2 evidentemente per evitare la sfumatura di eventualità, di potenzialità insita appunto nel congiuntivo : « relativamente a tutto il resto, non ho che aggiungere all’indicata mia de’ 21, la quale credo ch’Ella avrà già nelle mani » (284), « io voglio sperare che tu potrai fare un viaggetto » (307), « Credo che quella lettera sarà stata ingoiata dalle poste secondo il solito » (320), « La Fanny fu proprio contenta della tua lettera, e credo che ti avrà risposto, come disse di voler fare subito » (1819). Si può forse parlare di sovrapposizione o intreccio di due diverse strutture nel caso seguente, in cui è il congiuntivo (che potrebbe dipendere dal vicino credo) a sostituire l’indicativo : « Ho sentito ch’un giornale di Lombardia, credo la Biblioteca italiana di cui mi manca tutto il diciotto e il corrente, abbia sparlato di me » (232*). 3 Può invece essere considerata una svista il congiuntivo imperfetto al posto del condizionale presente in « A me parrebbe che voi poteste benissimo pubblicare e illustrare l’iscrizione senza supplemento » (694, in luogo naturalmente di potreste). 4 Per il futuro nel passato, secondo una consuetudine ancora normale all’epoca, 5
1 Così anche per OM : xvi 153-55, 136-39 e poco altro di contro a una larga maggioranza per il congiuntivo. Si noti che secondo Fornaciari 1881 : 402 « Nelle proposizioni concessive si usa regolarmente il congiuntivo (colle cong. benchè, sebbene, se ecc.) ». Una certa predilezione per l’indicativo si nota invece in Giordani : « Benchè non è questa la intenzione del buon Morcelli : ma i fatti parlan chiaro a chi non ricusa d’intendere » (153), « Oh credimi che molti ti conoscono, benchè tu vivi sepolto, e ti ammirano, e ti vorrebbero felice » (280), « perché già mi sento ricadere nel mio solito male ; benchè non ancora ne soffro gli estremi, dai quali per poco tempo mi liberai » (424), « Dimmi che mi ami, benchè io già lo so » (589), « benchè vedo che nella tua deplorabil condizione non puoi far altro che studiare sino a rovinarti » (700), « Credo che la persecuzione non sia ancora finita ; benchè mi fanno ridere. Ti abbraccio […] » (736), ma al contrario « benchè io poco ti scriva » (736), « Ho parlato a Gino ; benchè sapessi ch’egli non ha nessuna parte nel collegio » (953), « Mi affligge che tu abbia gravi molestie, bench’io non sappia quali » (1679). 2 È pur vero in ogni caso che « Il Leopardi usa prevalentemente in dipendenza dei verbi dubito, credo, ecc. il congiuntivo rispetto al futuro e al condizionale » (Vitale 1992a : 147n). 3 Antonelli 2003 : 196-97 propone una serie di esempi che riguardano « un uso del congiuntivo più esteso rispetto a quello dell’italiano contemporaneo (e non necessariamente ipercorrettivo), legato quasi sempre a verbi che indicano il ‘venire a conoscenza’ : potrebbe trattarsi di un’accentuazione del carattere di eventualità di notizie avute di solito indirettamente ». Parrebbe proprio il caso riportato a testo. Sottolinea la grande padronanza manzoniana nell’utilizzo del congiuntivo, anche nella scrittura epistolare, Savini 4 La lezione di E è confermata da Damiani (E2 525). 2002 : 150-51. 5 Secondo Migliorini 1960 : 633 nel primo Ottocento « per esprimere un futuro dipendente da un passato è frequente il condizionale semplice ».
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riscontro una serie minoritaria di casi di condizionale presente per il passato : 1 in « Il corriere l’ha portato per favore, ma dicendo che lo lascerebbe alla posta. […] giacchè io non sapeva che il Corriere l’avrebbe lasciato alla posta » (598), a poche righe di distanza si trovano entrambe le soluzioni, a meno che il condizionale presente non valga come mimesi irriflessa del parlato. Altri casi : « il furbo Giurisconsulto Triboniano dava ad intendere appunto a Giustiniano, che egli non .morrebbe, ma in carne, ed ossa sarebbe trasportato in cielo » (10), « quando da principio la pregai di questa edizione non possedeva ancora effettivamente il danaro bisognevole, ma era persuaso che l’avrei ogni volta che avessi voluto» (292), « ho preso confidenza, e sperato che V.S. mi perdonerebbe tanto la libertà quanto la piccolezza del dono » (320), « […] mi diceva in sostanza che aveva parlato di me al Segretario di Stato, che questi non era alieno dal provvedermi ; che intendendo la mia avversione al sacerdozio, gli aveva domandato se mi risolverei di prender l’abito di Corte, il quale mi avrebbe aperto la strada ad impieghi ed onori » (538), « di quelli eravate sicura che non si offenderebbero » (1686), « la supplico a far giungere senza verun indugio al Giambene i 24 franc.ni ch’io trassi, p[er] avermi Ella detto che sarebbero subito pagati » (1786).
5. Altri costrutti e perifrasi a) Non particolarmente diffuso, e circoscritto comunque alla prima metà del carteggio, l’utilizzo di avere per essere, ricondotto dallo stesso Leopardi al latino se habere, usato in forma impersonale ma anche personale : 2 « Non v’ha in esse nè esagerazione ; nè menzogna » (5 ; e poi v’ha per c’è in 466, 115*, 246*), « Quando bene non ci avesse altro spettatore » (82*), « non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui » (466), « la mia piaghetta […] non ha mai migliorato » (497), « se attualmente non ve n’ha alcuno vacante » (531), « credo che ci possa aver chi se ne contenti » (577*), « io mi confermo nel pensiero che egli ci ha pure uno col quale […] » (690). Gli esempi citati in Vitale 1992a : 126 riguardano tutti operette scritte entro il 1824-25, anche se poi il costrutto sopravvive in P, sebbene – se non ho visto male – solo in un caso (« V’ha alcune poche persone al mondo, condannate a riuscir male » xix 1). 3 In Zib invece il modulo, soprattutto nella forma impersonale, ha una certa diffusione : anche qui però su un totale di 92 occorrenze solo 5 sono posteriori al 1825 (vi ha 1785, 4116, 4133, v’ha 70, 71, 181, 343, 838, 1090, 1399, ecc. per 85 esempi, e poi 4223, 4250, 4287, 4293). 4
1 È la soluzione utilizzata con maggior frequenza da Manzoni nel carteggio, secondo quanto nota Savini 2002 : 153-55. Più moderno invece l’atteggiamento nella revisione del romanzo, in cui il condizionale presente della prima edizione è declinato al passato in quella definitiva (cfr. Vitale 1986 : 28 e 68n). Per i riscontri in OM rinvio a Vitale 1992a : 139 ; per quelli dai giornali milanesi della metà dell’Ottocento invece si veda Masini 1977 : 103. 2 Zib 2923 : « Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl’ital. da’ franc. dagli spagn., talora eziandio personalmente dagl’italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette dire p.e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v’è ; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v’ha nulla » (ma è da vedere senz’altro l’intero passo). 3 Il costrutto, in avvio di pensiero, assume carattere spigliato e proverbiale. In effetti, alla fine delle considerazioni di Zib 2923 si legge : « s’usa in questo senso [per essere] anche impersonalmente, come in italiano, franc. e spagnuolo, tutto dì » (il corsivo è mio). Difende, con un po’ di sarcasmo nei confronti della Crusca, lo statuto del verbo avere Gherardini 1845 : 110-114, mentre TB rivela un atteggiamento un po’ ambiguo, tra un desiderio di censura (« Avere per Essere è antiq. ») e i distinguo del caso. 4 Tra i corrispondenti riscontro : Giordani « Potendo scegliere soggiorno, non v’ha dubbio sopra Firen
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b) Per gli ausiliari segnalo l’uso di essere con cominciare seguito dall’infinito + a (« Sono pure cominciate a uscire le mie Annotazioni sull’Eusebio » 530) che ha un paio di riscontri in OM (entrambi nel Copernico : « è cominciata a montare » xxi 109-10 ; « sono cominciati a stare » xxi 118), e uno in Zib (« è cominciata a divenire » 807). 1 c) Per esprimere l’imminenza dell’azione Leopardi usa spesso la perifrasi essere per + infinito, di larga fortuna nella tradizione letteraria e toscana : « Fui p[er] cedere alla fortuna » (139*), « come son per dirle » (316), « la posta è per partire » (456), « quello ch’io sono per dirti » (466), « De Romanis è per pubblicarglielo a conto proprio » (477), « osservazioni ch’io sono per fare stampare » (468), « quello ch’io ho scoperto […] o fossi per iscoprire » (530), « È per dare alla sua figlia » (542), « io non sarò mai né per deporla né per diminuirla » (569), « La supplico a credere che io non sono per dimenticarli in alcun tempo » (627), « in qualunque modo Voi siate per accogliere » (702), « è anche certo che la vostra riputazione non dipende dal posto che voi siate per occupare » (891*), « Appena mi par credibile che la nostra riunione sia per aver luogo » (1817) ; e notevole, per il rovesciamento in negativo, « da che ho saputo le ciarle che ella ha fatto di me, ci sono tornato, o sono per tornarci mai » (1082). Il costrutto può anche essere impiegato come una sorta di formula di cortesia con valore attenuante : « la stessa gentilezza e bontà ch’Ella mi avea dimostrato, dovevano indurmi a credere ch’Ella fosse, non dirò per gradire, ma certo per comportare ch’io l’esponessi i miei sentimenti verso di Lei » (569) ; o anche augurale : « Ella ha già fatto gran bene all’Italia ed è per farne anche maggiore » (606). Tutti questi casi mi pare confermino il valore scelto di questa forma perifrastica : 2 Vitale 1992a : 129 ne nota in effetti la presenza in Operette di tono sostenuto ; in P in ogni caso trovo solo due riscontri (« quello che io sono per dire è vero » P i 7, « egli […] non ha personaggio alcuno in tanta venerazione, al qual non fosse per fare gravissimo dispiacere […] » P xli 4-5). d) Sempre con il verbo essere, aspetto durativo esprime il costrutto con la preposizione dietro a, di carattere e tono colloquiale, non utilizzato altrove nell’opera leopardiana : « presentemente son dietro a terminare certe bagattelle » (435), « Io sono sempre dietro alla maledetta Crestomazia poetica » (1226), « Ora son dietro ad ordinare i materiali della Enciclopedia » (1107*). 3 Il verbo essere può anche essere sostituito da
ze » (1458), Carlo « Non so se a quest’ora tu avrai avuto la mia, ma se ve n’ha una di perduta, sta certo che è la mia » (490), « ve n’ha però uno che tu non hai provato » (493). Il fenomeno è ancora ben attestato nella prosa crociana (cfr. Colussi 2007 : 109). 1 Vitale 1992a : 126 dà in nota i riferimenti ai lessici, per i quali la forma è arcaica, e a SPM, da cui si coglie il valore ormai non comune dell’ausiliare essere in tale contesto. 2 Rohlfs § 714. La frequenza registratane da Antonelli 2003 : 180 per gli epistolari ottocenteschi e da Savini 2002 : 144-45 per quello di Manzoni (che però segnala una sensibile decrescita in diacronia) sembrerebbe attestarne comunque la larga diffusione (Savini chiosa : « il costrutto […] mantiene il suo valore sostenuto pur risultando alquanto diffuso in prosa »). Qualche esempio anche tra i corrispondenti del poeta : « Ora che sono per chiudere la lettera » (665, Melchiorri) ; « sono per dirle » (305, Brighenti) ; « sono per scrivervi » (704, Antici) ; « egli è per essere io convinto che ne trarrete immensi vantaggi » (856, Antici) ; « fosse per riuscirmi » (547, Monaldo) ; « permesso ch’Ella fosse per concedere » (281, Brighenti) ; « il freddo sia per arrecarvi giovamento » (1145, Monaldo) ; « impiego così ridicolo che non ci lascia luogo a sperare, che tu sia per muoverti accettandolo » (966, Paolina), « io ero per prendere la penna per scriverti » (572, Melchiorri). 3 Tra i corrispondenti solo nelle lettere del romano Melchiorri si ha qualche caso analogo : « sulla via Appia sono state trovate molte Iscrizioni le quali sono dietro ad illustrare » (436), « essendo ora dietro a publicare le Iscrizioni Latine » (441). TB : « Essere dietro a fare alcuna cosa. Star facendola », con un esempio dalle lettere del Caro.
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stare (« e stava dietro a studi grossi » 60* ; « Sto dietro a considerare l’Eusebio del Mai » 200*), 1 o tenere (« vedermi forzato di tener dietro a quella poesia » 60*). 2 e) Senza dubbio più utilizzata, in linea del resto con la lingua del primo Ottocento (cfr. Bertinetto 2003 : 97-98), è l’altra perifrasi che esprime continuità dell’azione, quella costruita con andare o venire e il gerundio : 3 « vo covando » (60*), « vo facendo » (225, 777), « vo meditando » (323), « Vo lentamente leggendo, studiando e scrivacchiando » (406), « La qual cosa va pure accadendo a me » (406), « vo sempre più desiderando » (538), « vo migliorando » (786), « vo passeggiando » (786), « va di giorno in giorno migliorando » (788), « vo contando i giorni » (1086), « Mi vo sostenendo col pensiero » (1262), « va crescendo » (1573) ecc. ; 4 « le coserelle ch’io era venuto pubblicando » (342),
1 Così come per il costrutto essere per. Anzi, secondo Durante 1981 : 180 « in toscano e nei dialetti settentrionali la combinazione sto per + infinito è sostituita da sono per ». 2 In Zib trovo in effetti riscontri con tenere (18, 28, 199, 731, 1003, 1996, 2383, 2873, 3823, 4350), ma uno solo con stare (1401), mentre poi registro anche andar dietro (21, 24, 61, 272, 1060, 1544, 1911, 2731, 3627), e venire dietro (517, 914, 1074, 1075, 2726). Una ricorrenza per venire dietro in OM xvi 144, così come per andare dietro OM xxiv 138. 3 Cfr. Corticelli 1828 : 324 e Rohlfs § 720. La riflessione su questo costrutto in Zib è piuttosto ampia, e come spesso avviene prende spunto dal confronto con il latino. Il punto di partenza in questo caso sono i cosiddetti verbi continuativi latini : « Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’ gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un’azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta ; e di più un’azione meno perfetta » (1155) ; « Alle volte, anzi bene spesso dinotano l’appoco appoco, il corso il progresso dell’azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza dell’azione, e non si usano ad altro fine. Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell’azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de’ verbi latini terminanti in itare. Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati (24 giugno 1821) » (1212) ; « Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in quando, come p.e. dicendo il Tasso viene ordinando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec. e vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre ; o se dicessimo suole ornare ec. (28. Giugno 1821.) » (1233) ; « È anche maniera continuativa fra noi star facendo dicendo, ec. V. la Crusca. Anzi il verbo stare, e per sua natura in tutte le lingue (giacchè egli è propriamente ed essenzialmente un continuativo di essere), e per proprietà della nostra, è il più adattato, o piuttosto è precisamente quello ch’esprime la continuità o durata di qualsivoglia azione (sebbene non molto elegantemente). P.e. s’io vorrò esprimere la forza di un continuativo latino, non avrò che ad usare in ital. il verbo stare col gerundio esprimente quell’azione, e per lectare dirò star leggendo, massime se l’azione non è affatto di moto, o materiale o ideale, e metaforico ec. Ma volgarmente diciamo tutto giorno star passeggiando, o camminando, o viaggiando e simili, e propriam. e perpetuam. adoperiamo in questa forma il verbo stare in luogo di universale continuativo (4. Gen. 1822.) » (2328). Al di là del saggio di ‘stilistica della lingua’ che ci è magistralmente offerto qui dall’autore, si può cogliere chiaramente che il costrutto, per Leopardi, non aveva valore letterario. Da qui probabilmente la scarsa presenza in P (« va scemando » xxxix 69, « va mancando » lix 3, « viene generando » lxxx 6 ecc.), mentre Zib fa registrare più di qualche occorrenza (« vo predicando » 1174, « vo preparando » 1394, « andar cantando » 4336, « va errando » 171, « va assottigliando » 216, « va piangendo » 281, « va formando » 2841 ecc.). 4 Il fenomeno è « ampiamente presente » nelle Operette secondo Vitale 1992a : 129. Savini 2002 : 147 ne attesta la presenza nell’epistolario manzoniano. Il carattere discretamente letterario della perifrasi pare confermato dalla competenza linguistica dei corrispondenti che ne fanno uso, i quali tuttavia si servono esclusivamente del verbo andare. Giordani in primo luogo : « di andar divulgando e lodando libri buoni » (52), « E io mi vo travagliando » (56), « va seminando evangelio » (88), « Io vo contando i giorni » (104), « va scemando di compratori » (112), « Io vo sempre parlando di voi » (217), « Io vo gridando di voi » (217), « vo rileggendo » (283), « si va raccozzando » (283), « ci andremo scrivendo » (349), « vo lentamente frugando » (367), « sento andare estinguendosi » (410), « Ma io vo pensando » (736), « Io vo sempre sperando » (1413) ; poi Vieusseux : « vo ripetendolo » (616), « va crescendo » (853, 1513), « va perdendosi » (1200), « va facendo » (1433, 1492,
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« Vengo leggendo e scrivacchiando stentatamente » (356), « io mi vengo accostumando » (406), « opere importanti che vengono uscendo fra gli stranieri » (612), « Io vengo presentemente ingannando il tempo » (661), « venir peccando un altro poco » (877), « non mancherò di venir pensando al Diz. » (978), « vengo anche acquistando di più » (1149), « vengo gradatamente risorgendo » (1918) ecc. Mi paiono interessanti i casi in cui il costrutto, con stare (cioè stare + gerundio), proietta l’aspetto durativo al futuro : « M’era già risoluto a sgridarvi d’una certa cosa, ma il nostro Lazzari mi chiuse la bocca per parte vostra. Bene, ma starò aspettando » (346, “starò in attesa”), 1 « finchè non avrò ottenuto questo immenso bene, starò tremando che la cosa non possa esser vera » (1821), « Starò aspettando la vostra visita, la quale giacchè non può più essere in Maggio, pazienza » (118*), « starò attendendo suoi riscontri circa le sopraddette giunte » (1021*), mentre al contrario per il passato « io sono stato combattendo con un reuma di capo » (1003*). 2 f) Con venire inoltre sono da segnalare alcuni casi di utilizzo del verbo seguito da un participio. Si tratta di un costrutto che « affiora in vari scrittori del Cinquecento, ad esempio il Caro e il De’ Sommi, ma si afferma decisamente con Galileo come denotazione del fenomeno in atto » : 3 « bramo che venga seguitato da molti » (227), « se per disgrazia venisse fatto a qualche mio foglio di penetrare sino costà » (249), « un esemplare delle mie Canzoni, che mi vien richiesto da Milano » (1033), « secondo mi viene notificato dal lor venerato dispaccio » (1603), « in maniera che vien letto con molta avidità » (1636), « come non lascio di sperare che mi venga pur fatto una volta » (1798), « ho una gran voglia di leggerla segno che probabilmente non mi verrà fatto » (182*), « Il che se mi verrà fatto, spero […] » (216*), « un cuore […] come questo non le verrà trovato così facilmente » (260*), « da Milano mi vien fatta premura » (698*). Vale la pena di dire qualcosa sul notevole « Ma ogni mio sforzo essendomi venuto
1707), « va sempre peggiorando » (1501), « va mettendo giudizio » (1513) ; e Stella : « vo pregando » (1039), « va sempre più spargendosi » (1162), « vo lusingandomi » (1378). Brighenti ha due soli esempi ma notevoli : « La ediz.e del Monti va molto lentamente vendendosi » (1056), e « Oh ! mi avete pur dato la bella speranza ! Oh ! fosse vera, fosse vera. Andatemi dicendo che si vada sempre più rendendo probabile ! » (385) in cui il gerundio si attacca prima all’imperativo e poi al congiuntivo in un periodo mosso e animato, ma tutt’altro che colloquiale (da notare anche l’uso letterario dell’art. det. : cfr. Fornaciari 1881 : 141). 1 Il sintagma è presente anche nelle lettere di Marino, anzi « si può dire che “starò aspettando” è una vera e propria formula ricorrente con cui Marino, per solito nella parte conclusiva della lettera, introduce una raccomandazione al destinatario affinchè non manchi d’inviargli quanto ha promesso » (Matt 2005 : 201). 2 Cfr. Durante 1981 : 180 : « Nel Cinquecento e nel Seicento la costruzione [di stare] col gerundio è ammessa anche nell’imperativo, nel passato prossimo e remoto e nel futuro » (cioè anche « starò aspettando », come abbiamo appena visto). Sulle differenze, e sulla reciproca distribuzione nella lingua dell’Otto e Novecento, tra la perifrasi progressiva (stare + gerundio) e la perifrasi continua (andare o venire + gerundio) si veda Brianti 1992 e Bertinetto 2003 : 89-116, il quale sottolinea e documenta tra l’altro il carattere di maggiore formalità del costrutto continuo rispetto a quello progressivo. Nel carteggio tuttavia la perifrasi continua è utilizzata in una pluralità di contesti e con una serie di interlocutori tali da non permettere di rilevare il valore più scelto di questa forma. Fa il punto su questo costrutto anche Cortelazzo 2007. 3 Durante 1981 : 181. Cfr. anche Fornaciari 1881 : 162 « per meglio esprimere che l’azione è in atto ». Per OM si veda Vitale 1992a : 128 (che aggiunge : « il costrutto ricorre anche nello Zibaldone […] e nell’Epistolario »). Un paio di esempi anche in P : « sarà piccola fortuna se, con molta fatica, ti verrà fatto di rivederlo » (P lii 11-12) ; « ad onta della fortuna, quello che mai non gli verrà impetrato da generosità de’ prossimi nè da umanità » (P c 40-41).
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fallito, spero che Ella e la Mamma […] mi perdoneranno un ardire al quale sono costretto […] » (1886) : indirizzata al padre Monaldo in previsione di un ritorno a casa da Napoli (ritorno che non ci sarà), la lettera avvisa il genitore della necessità occorsa di chiedere una somma di denaro allo zio Carlo Antici per affrontare le spese del viaggio. Segue dunque l’imbarazzo per questo debito ulteriore e il tentativo di trovare una giustificazione portando anche a prova il ritardo della partenza, e la ricerca di provvedere da solo al denaro. La desolata formula perifrastica, « essendomi venuto fallito », sembra comportare un processo di introiezione della sconfitta, e comunque una sorta di messa in forma della durata, e della conseguente amarezza di ogni nuovo fallimento registrato nel tentativo di giungere ad una qualche soglia di autonomia. g) Tra i costrutti marcati letterariamente, ma ormai sul crinale che conduce all’uscita dall’uso, vi è quello che interessa i cosiddetti verba timendi, che pongono l’avverbio di negazione tra sé e il verbo della subordinata affermativa che reggono, costrutto come noto modellato sul latino timeo ne. 1 Tutt’altro che raro in E, il modulo è in ogni caso minoritario, e presente soprattutto nella prima parte. Ecco una serie per entrambe le soluzioni :
- Temere « temo forte che la mia lettera non sia smarrita » (164), « Ma temendo Lei, e temendo io […] che […] non incontri opposizione » (164), « temo forte che non mi condanni di troppo ardire » (328), « temo che se volessi […], la Mamma non abbruciasse le mie lettere » (483), « temerei, se […], che la cosa non gli paresse […] » (852) ; e invece « ma ho temuto di dimostrare » (3), « temo di parere incivile » (255), « temendo di soffocare le sensazioni » (520), « così temo di esser grave altrui » (569), « temendo che questo possa essere accresciuto » (313), « temendo ch’elle abbiano ad essere le consuete e dolorose » (406), « temendo di soffocare le sensazioni » (520), « temo di esser grave altrui » (569), « temere che tu mi avessi dimenticato » (1278), « temo pur troppo fortemente che sia o malato o morto » (1490), « temendo che, non ostante […], pure a cagione […], potesse parervi ed essere cosa indiscreta il dimandarvi favore » (1726), « Io temo che il Sig. Thilo si troverà deluso » (1763), « ho temuto che Ella avesse a fare un rimprovero » (1767).
- Dubitare « Non lasciano luogo a dubitare che Ella non voglia […] » (627), « Non dubito ch’egli sapendo, […], non abbia giudicato che l’umanità di V. S. » (181, 202), « non ho dubitato che al valore […], non s’unisse una squisita cortesia » (201), « Del Grutero non dubito che non sia cosa magnifica » (468), « io dubito assai che, […], il dono non sia gettato » (477), « non lasciano luogo a dubi tare che Ella non voglia compir l’opera sua » (627), « Ella non dubiti che i suoi libri non sieno per esser tenuti […] » (836), « mi faresti dubitare che non mi volessi più bene » (995), « la quale non dubito punto che non sia per acquistarti » (1278) ; ma al contrario « Io dubito se ella stessa ne abbia tanto per se medesima » (11), « non dubito, […], ch’Ell’ha in se stessa tanto vigore e coraggio quanto […] » (193), « nè anche dubiteranno ch’io mi sia dimenticato di loro » (453), « e l’uno di noi non dubita che l’altro possa mai dubitare di lui » (504), « ho tuttavia dubitato s’io
1 Cfr. Rohlfs § 970, Fornaciari 1881 : 364. Si veda anche Vitale 1992a : 138 che offre i riscontri per OM e in nota segnala la presenza del tutto minoritaria della forma letteraria in SPM (a parte dubitare con cui la presenza dell’avverbio di negazione prevale) e nei Promessi sposi. Anche Antonelli 2003 : 185 segnala, per il corpus epistolare indagato, che il costrutto è minoritario. Interessante TB secondo cui « Al verbo Temere, per proprietà di linguaggio, si dà il Non, o Non forse, ommettendo il Che ».
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dovessi farmi animo di scriverle » (569), « Io dubito che voi siate al caso di prendere questo incarico » (588), « io dubitava che il senso e la somma del contesto fosse » (591), « dubito ancora che una tal cosa ai tempi nostri si sapesse fare in Italia » (693), « io non dubito di asserire che una edizione completa di tutte le opere di Cicerone […], avrebbe un incontro grandissimo presso l’estero » (693), « Dubito assai di poter trovar qui » (861), « Ho dubitato molto se fosse a proposito » (1351), « dubito che la stanza dell’archivio sia un poco fredda » 1375, « Dubito che le mie 2 prose inedite abbiano un interesse suffi ciente » (1774).
- Negare « Non nego però che questo non venga in gran parte dalla mia particolare costituzione morale e fisica » (474), « non posso negare che le loro viste non mi abbiano giovato » (538), « non posso negare ch’io non desideri una vita distratta » (551), « Non nego però che la sua riflessione (…), non mi faccia qualche forza » (777), « Del resto non ti nego che la cosa non sia prematura » (777) ; ma « benchè non si può negare che la lontananza ravviva in qualche modo le affezioni » (504), « non nego ch’io ebbi in animo di farle una sorpresa » (544), « Ella nega che quel Ridiari nel titolo del Carm. III indichi il nome dell’autore di quei versi » (591).
- Impedire « la sua stessa benignità non basterebbe a impedirle che non m’avesse per l’uomo della più stolida presunzione » (174), « la fortuna m’ha impedito sempre e sempre m’impedirà ch’io non possa mettere in opera neanche questo poco » (342), « mio padre impedì che non si stampasse un’altra mia canzone » (357), « Vi prego a impedire che io non sia strapazzato » (624), « credo che nessuna forza avrebbe potuto impedirmi di non venire » (1946) ; e invece « non m’impedisce di venire a testificarle la mia gratitutine » (5), « la prego a volere impedire che in questo che le mando sia fatto verun cambiamento » (94), « non m’impediscono d’avervi presente alla memoria » (473), « abbia sempre fatto grandissima forza per impedire che si discorresse di questo in tavola » (543), « non vi sarà cosa al mondo che m’impedisca di mettermi in viaggio » (1257), « spero che non m’impedirà di pormi in legno per Firenze » (1722). 1
6. Reggenze Le oscillazioni nelle reggenze sono numerose, come del resto nella prosa dell’epoca. In alcuni casi emerge chiaramente, per via quantitativa e/o sul piano diacronico la 1 La maggiore letterarietà si può misurare anche dalla rarità delle occorrenze tra i corrispondenti. Per i verbi indicati (e anche per evitare e fuggire) non hanno esempi Monaldo, Vieusseux e Stella. Per gli altri invece ho solo questi riscontri : Giordani « temo sempre che non mi ascoltiate a bastanza » (109), « temendo che non potessi voler bene a lui » (233), « Per tema che questa mia non ti giunga » (235), « Temiamo non l’abbia avuta » (1758), « non dubiterai mai mai che io non ti adori sempre » (736), « nego che non si possano amare se non persone stimabili » (113) ; Brighenti « temerò sempre che lo stile non paja gonfio » (404) ; Carlo « si teme di non veder bene » (535) ; Paolina « teme, che non gl’indirizziate la risposta » (794), « che anzi dubita non abbiate ricevuta » (523), « dubito che tu non la vedrai più » (1229) ; Melchiorri « non poteva dubitare che voi non foste l’autore di quel libro » (1750). D’altra parte per P riscontro solo casi con la negazione : « tanto meno temono che tu non accetti le loro offerte » (lii 18-19), « Nè dubitiamo che non possano dare quello che non hanno ricevuto » (x 2-3), « non nego che molte volte il mondo non sia come quei giudici » (c 1-2), « Mirano e tacciono eternamente ; e, potendo, impediscono che altri non vegga » (xxiv 11), « nè progresso di filosofia nè di civiltà potendo impedire che uomo nato o da nascere non sia o degli uni o degli altri » (xxviii 3-5) ; eccetto per « non v’è ora nè luogo dove qualunque innocente non abbia a temere di essere assaltato » (xx 12-14). Per Zib invece sembrano più produttivi negare (46, 576, 1201, 1312, 1360, 1492, 2475 ecc.) e dubitare (292, 293, 455, 2562, 3829, 3975, 4069) rispetto a impedire (196, 999, 2780) e temere (1548, 4427).
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forma preferita o vincente, ma in altri anche tre tipi di reggenza (diretta, indiretta con prep. diverse) si alternano senza soluzione di continuità. 1 Vale la pena di segnalare qui i casi che si discostano dagli usi più frequenti e attestati nella lingua del primo Ottocento, che rimangono comunque i più seguiti pure nell’epistolario. Per la reggenza diretta nel costrutto implicito 2 vanno dunque notati : – ardire : maggioritaria è la reggenza diretta (« ardii intraprendere » 5, « ardisco lusingarmi » 14 ecc. per 21 occorrenze negli autografi ), seguita a non molta distanza da quella con il genitivo (« prendo ardire di supplicarla » 164 ecc. per 15 volte). Noto che OM ha anche un esempio di reggenza dativa (xiii.2 137), così come C (« Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato » La ginestra v. 112) ; Zib fa registrare, come E, una prevalenza della reggenza diretta (riscontro 16 casi di reggenza a grado zero e 12 con di). Non ha esempi utili P. 3 – aver caro/esser caro : trovo solo « Mi è stato assai caro vedere il suo manifesto » (1701*), contro 20 occorrenze per la reggenza con il genitivo. 4 Vitale 1992a : 105 registra anche per OM un unico caso di reggenza diretta (v 64). Nessuna occorrenza utile nelle altre opere (un caso di reggenza genitiva in Zib : « similmente cogli altri uomini i quali hanno più caro di averli contrarii che affezionati o indifferenti » 3943). – credere : « Ella crede dover essere » (28), « non credo avervi mai scritto » (594), « credo poter esigere che […] » (624), « io crederei molto opportuno seguire le osservazioni » (693), « con questo credo aver detto molto » (1225), « credendo farle cosa grata » (886*), « credo essere divenuto immobile » (1403*), « hanno creduto scoprir la tua penna » (1062*) ecc., ma è comunque maggioritario il costrutto con di (51 casi in totale, tra cui ad es : « Ho creduto di doverla informare » 544, « non credo di far torto nessuno » 1249 ecc.). Per le Operette invece Vitale segnala la preponderanza della reggenza diretta, in conformità ad un valore più scelto attestato anche dall’uso assoluto di questo tipo in C e in P. 5 Zib invece si allinea alla lingua del carteggio utilizzando in netta maggio
1 Non così per Manzoni invece che secondo Savini 2002 : 130 « a partire dagli anni Venti » sceglie una forma, nella maggior parte dei casi quella dell’uso, e la impiega con coerenza. 2 Ricordo che per le soggettive Fornaciari 1881 : 362 prescrive : « si prepone regolarmente la prep. di all’infinito, coi verbi o frasi impersonali accadere, avvenire, occorrere, parere, piacere, dispiacere, dilettare, far bisogno, esser d’uopo, premere, importare, tardare, parer mill’anni, venir fatto, riuscire, toccare od altri di pari significato, accompagnati per lo più da un complem. d’interesse (mi, ti, gli, ad alcuno ecc.) ; e così pure coi passivi di que’ verbi transitivi che reggono l’infinito per mezzo della prep. di ; p. es. è proibito di correre. […] Talora per altro, massimamente in verso, la prep. di si omette. Già mi parea sentire alquanto vento. Dante. È francesismo usare la prep. di con altri verbi, e specialmente con predicati nominali p. es. è dolce di beneficare il prossimo, e viltà di vendicarsi ; dovendosi dire è dolce beneficare ovvero coll’infin. sostantivato, è dolce il beneficare ecc. Quanto è più dolce, quanto è più sicuro Seguir le fere fuggitive in caccia ! Poliziano ». Secondo Tesi 1989-90 [2009 : 49] « nella lingua scritta dell’Ottocento la reggenza diretta sembra ancora tendenzialmente preferita al costrutto preposizionale, almeno per un certo numero di reggenti verbali, ma con un trend al diradamento particolarmente sensibile nella seconda metà del secolo ». 3 Per il resto : ardire diretto in Carlo 846 ; Brighenti 1737 ; Vieusseux 616 ; ardire di in Paolina 470. Nessun caso di dativo nel Manzoni epistolografo (cfr. Savini 2002 : 131-32). 4 Si veda ad es. « avrei caro di soddisfarla » (136), « avrei molto caro di poterla incoraggire » (193), « mi sarebbe stato assai caro di poter continuare » (1050) ecc. Tra i corrispondenti si può segnalare che se il cugino Melchiorri usa solo la reggenza genitiva (427, 449, 654), Stella preferisce quella diretta (1063, 1242, 1335). 5 La reggenza diretta è ad esempio ancor viva in Croce (cfr. Colussi 2007 : 103). Ecco in ogni caso i riscontri per P : « I giovani assai comunemente credono rendersi amabili, fingendosi malinconici » (xxxiv 1-2), « Nessuno si creda avere imparato a vivere, se non ha imparato a […] » (lii 1), « facilmente, e forse alle
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ranza il costrutto con di (creda di 473, 797, 1100, 1280 contro 2485, 3199 per la reggenza diretta ; crede di 113, 147, 449, 534, 1730, 2485, 3109 contro 3503 4120, ecc.). 1 – desiderare : rispetto ai casi di reggenza genitiva (in totale 41), risulta minoritaria ma ben attestata negli autografi la reggenza diretta, comune del resto anche nella lingua odierna (« desidererei poterla » 27, « Desidererei sapere » 90, e poi 400, 468, 743, 1111, « Desidererei esser sicuro » 316, « Desidero intendere che l’abbiate ricevuta » 486, 646, « desidero aver nuove » 617, 618, « desidererebbe conoscere le varianti » 800, « desiderava essere sciolto » 819 ecc.). 2 Pochi i casi di reggenza al grado zero in OM (cfr. Vitale 1992a : 107), mentre per Zib contro 38 casi di reggenza con di ne riscontro appena tre per quella diretta (« desidera esser più felice degli altri » 895, « desiderando esserne presto sgravato » 1686, « essi desidererebbero dire » 2612) ; nessun riscontro utile invece per P. 3 – dire anche in questo caso la reggenza diretta è minoritaria, ma presente lungo tutto il carteggio : « non dico poi essere preferite » (167), « non dico saperti felice o contento » (504), « la seconda memoria che dici aver data a Capaccini » (574), « che mi dicevate dover essere » (636), « mi diceste volermi spedire » (644), « per la quale dice aver in pronto […] » (831), « Stella mi dice averti spedito » (1033), « Dico insuperbire » (1167), « con infinito piacere vedrò lo Specimen che dite volermene mandare » (1934) ecc. per 12 occorrenze totali (mentre le completive introdotte da di sono trenta). Analoga la situazione in OM (Vitale 1992a : 108) e in P. 4 – favorire l’unico riscontro è « l’esemplare ch’Ella ha favorito mandare in casa » (445) contro 25 esempi di reggenza genitiva. Nessun caso utile in OM, P, Zib, né in C. 5
volte con verità, si credono avere, non solo conseguita, ma superata quell’idea » (lxiv 9-10), « Nel secolo decimosesto i neri, creduti avere una radice coi bianchi, ed essere una stessa » (lxvi 3-4), « i sani […], come sempre accade, o disprezzano o non credono poter perdere ciò che posseggono » (lxxvii 5-6) ; di contro a « anco da chi dica, ed anco da chi talvolta creda di non cercarlo » (liii 3-4), « volano le mosche al mele, a quella dolcezza del credere di vedersi stimati » (xcii 23-24) ; registro comunque anche un caso di reggenza con a (« le azioni ridicole degli uomini, sono molto più solite che non crediamo, e che forse non è credibile, a passare » xcviii 8-10). 1 Così i corrispondenti : credere di Giordani 56, 99, 108, 109, 116, 143, 212, 303, 519, 736 ; Monaldo 902, 1256, 1296 ; Carlo 462, 471, 493, 532, 540, 546, 1263 ; Paolina 470, 523, 550, 862, 1170, 1219 ; Brighenti 190, 259, 281, 291, 302, 325, 325, 325, 647, 719 ; Vieusseux 1222 ; Melchiorri 610, 680, 695, 1505 credere Giordani 63, 121, 162, 162 ; Carlo 507, 524 ; Paolina 1229 ; Brighenti 595, 1473 ; Vieusseux 1410 ; Melchiorri 457, 673, 692. 2 L’oscillazione è sancita anche da Serianni 1989b : 552. 3 Ricordo che Manzoni, nella Quarantana come nella parte del carteggio successiva ad essa, adotta la reggenza diretta (cfr. Savini 2002 : 133). Tra i corrispondenti segnalo che Melchiorri e Vieusseux hanno solo il costrutto diretto. Per il resto desiderare di : Giordani 92, 99, 134, 1497, 1695 ; Monaldo 476, 815, 1248, 1267, 1414 ; Carlo 846, 846 ; Paolina 771, 794, 1099, 945* ; Brighenti 217, 333, 647, 719, 1473 ; desiderare : Giordani 270 ; Carlo 1129 ; Paolina 851 ; Vieusseux 853 ; Melchiorri 433, 433. 4 P : « quasi soverchio l’aggiungere che il raffreddamento continuo che si dice aver luogo per cagioni intrinseche nella massa terrestre » (xxxix 84-85), ma « più valido e più ragionevole lo scusarsi dicendo di non volere aumentare il numero dei malvagi » (xiv 8-9), « pare che la natura non ci consenta di avere in odio una persona che dica di stimarci » (xcii 13-14), « e maggiormente quanto sono d’indole più gentile : dico di confessare a ogni poco, senza necessità e fuori di luogo » (c 18-19). Tra gli interlocutori di Leopardi trovo : dire di : Giordani 56, 63, 70, 112, 192 ; Monaldo 1321, 979, 1267 ; Carlo 461, 859, 937, 493, 753 ; Paolina 499, 556, 771, 794, 1108, 1170 ; Brighenti 236, 322, 411, 623, 898 ; Melchiorri 575, 673 ; dire : Paolina 499, 996, 1108 ; Brighenti 206, 230, 278 ; Melchiorri 436, 565, 658, 665, 673. Cfr. Savini 2002 : 134 che nota come il costrutto senza preposizione venga abbandonato presto dal Manzoni epistolografo. 5 Pochissimi i riscontri tra i corrispondenti : favorire in Brighenti (« Ella favorirà accreditarmi » 224, « quelle che favorite scrivere a me » 686) ; favorire di in Melchiorri (« mi favorirono di accettare » 433). Segnalo che TB indica favorire a come non comune.
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– mostrare : due casi appena (« poiché Ella mostra desiderare il conforto dell’amicizia » 1085, « mostrando maravigliarti del mio lungo silenzio » 1249) rispetto ai 16 di reggenza genitiva. Per OM, Vitale 1992a : 110-111 nota invece la preferenza del costrutto con omissione della preposizione ; così in P dove trovo solo tre casi utili, e tutti con reggenza diretta (lxxii 12-13 e 15-16, lxxiii 7-8). Qualche riscontro in più per Zib (3404, 3697, 3973, 4005, 4088, 4142), ma il costrutto con di, vivo in tutto il diario, fa registrare 31 occ. 1 – parere : « come mi pare averle scritto » (485), « mi parrebbe vivere e parlare con un mio simile » (690), « mi pare ricordarmi » (772), « che paresse doverne sapere » (1085), « del secondo mi pare aver sentite non buone nuove » (1705) ecc., ma è prevalente comunque la reggenza con il genitivo (13 occ. solo negli autografi ) come del resto in OM e P mentre al contrario in Zib sembra maggioritario, sia pure di poco, il caso diretto 2 come nella lingua poetica (cfr. Vitale 1992a : 111n). 3 – pregare : tre soli casi, con la prima persona, nella primissima parte del carteggio : « la prego trasmetterci » (32), « la prego credere ch’io resto » (282), « la prego ragguagliarmi della spesa » (304) ; per il resto la reggenza con di (« ardisco pregar lei d’informarmi » 16 ecc.) e quella della tradizione toscana con a (« La prego ad informarmi » 14 ecc.) alternano per tutto l’epistolario, sia pure con una netta preferenza, stando ai rapporti quantitativi, per quella in a (anche se va segnalato un cedimento nell’ultima fase del carteggio). 4 Non così per OM che privilegia di (cfr. Vitale 1992a : 112), mentre per P l’unica occorrenza del verbo pregare porta la reggenza in a (« Vero imperatore prega Frontone suo maestro a scrivere » lxix 3-4). In Zib un caso a testa, ma distribuiti tra inizio e fine, per la reggenza con a (137) e per quella con il genitivo (4308). 5 – ricordarsi : una sola occorrenza (« non mi ricordo avervi veduto » 641), ma 8 sono gli esempi con di (439, 641, 1351, 1393, 1467 ecc.). Più frequente la reggenza diretta in
1 Trovo solo mostrare di per Carlo (« mostrarmi di crederlo 493, « egli mostrò di non saperne nulla » 945) e mostrare diretto per Paolina (« ha mostrato aver desiderato » 945). 2 Per P : « sempre alla prima giunta mi è paruto vedere uno che avesse sofferto qualche grande sventura » lxxx 2-3 ; ma « si adattano, ma non senza pena e difficoltà, parendo loro da principio di avere a tornare un’altra volta » lxx 11-12 ; « se l’uomo non si sforzasse di nasconderli, cioè non volesse parere di non averli » xcix 7-8. Per Zib segnalo solo i riscontri per « mi pare d’aver detto altrove » (3063, 3619) contro « mi pare aver detto altrove » (2815, 2973, 3429, 3684, 3999, 4012, 4014, 4053, 4121). 3 È maggioritario il costrutto con il genitivo anche tra i corrispondenti : parere di in Giordani 126, 143, 208, 426, 582 ; Monaldo 1275 ; Carlo 462, 462, 471, 846 ; Paolina 464, 851, 945, 1090, 1145 ; Brighenti 434 ; Melchiorri 649, 654, mentre parere con il quarto caso solo in Giordani 126, 148. Con la preposizione anche, in via esclusiva, il Manzoni epistolografo (cfr. Savini 2002 : 141), così come il romanziere. 4 Il fatto che l’oscillazione si registri in più di qualche caso nella stessa lettera (cfr. ad es. 1619, 1715, 1724, 1749, 1899 ecc.) e che la reggenza in a compaia sia in contesti molto formali (cfr. le prime lettere a Cancellieri o a Stella come 14, 26, 27, 31 ecc.) sia al contrario colloquiali (alla sorella ad es. : « Addio, cara Pilla : tu scherzi quando mi preghi a volerti bene » 1711), fa pensare che almeno per Leopardi i due tipi non fossero poi così marcati sul piano diafasico. 5 Anche tra gli interlocutori del poeta c’è molta oscillazione, ma con una prevalenza del costrutto con il genitivo : pregare a : Giordani 56, 63, 70, 153, 233 ecc. per 12 occ. ; Carlo 462, 493, 493, 524, 540, 1108, 1124, 1179 ; Paolina 478, 499, 851, 862, 862, 903, 1099 ; Brighenti 291, 305, 322, 325, ecc. per 28 occ. ; Vieusseux 616, 1433 ; Melchiorri 433, 433, 436, 437, 438 ecc. per 12 occ. ; pregare di : Giordani 56, 63, 63, 108, ecc. per 31 occ. ; Monaldo 549, 830, 830, 830, 1260 ; Carlo 462, 524 ; Paolina 523, 523, 550, 851, 937, 962, 966, 1145, 1229 ; Brighenti 213, 178, 278, 361, 434, 642, 1049, 1056 ; Vieusseux 616, 1134, 1171, 1441, 1496 ecc. per 12 occ. ; Melchiorri 427, 436, 437, 438, ecc. per 20 occ. ; pregare : Giordani 153, 573 ; Brighenti 898, 1027, 1056, 1128 ; Vieusseux 1524. Manzoni epistolografo sceglie ben presto il costrutto con il genitivo (Savini 2002 : 136-37).
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OM (cfr. Vitale 1992a : 114) e, per quanto i riscontri siano pochi, in P (« e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano » xxxix 33-34, « Io credo che ognuno si ricordi avere udito da’ suoi vecchi più volte » xxxix 49-50, e invece « a fare cogli uomini, ripensando un poco, si ricorderà di essere stato non molte ma moltissime volte spettatore » xcviii 2-4). Nessun riscontro utile in Zib. 1 Con il genitivo trovo invece riscontri interessanti per : – accadere : lo stesso numero di occorrenze per il costrutto con il genitivo, vivo anche oggi (« m’accaderà di scrivere qualche cosa » 136, « M’è accaduto parecchie volte di parlare con persone » 174, « non m’è accaduto di segnar altro » 442, « a tutti accade di ricevere una lettera » 1735, « mi è accaduto di arrivare » 1769) e per quello diretto, anche oggi più scelto (« m’accadde far memoria » 193, « di questo non accadde far lungo discorso » 398, « non accade protestarvelo » 596, « non accade soggiungere che verrò » 720, non accade il dire che i miei desiderii della […] » 1040). Il carteggio si colloca così in una posizione intermedia tra Zib in cui è nettamente maggioritaria la reggenza diretta (accad- di 639, 1308, 2562 3469 ; accad- 59, 1256, 1271, 2071, 3192, 3324, 3384, 3584, 3894) e OM in cui la reggenza a grado zero è presente solo in un caso (cfr. Vitale 1992a : 104). Nessun riscontro in P. 2 – affaticarsi : (« per molto ch’io m’affatichi di sbrigarmi » 720). 3 – convenire : appena tre casi e tutti di data piuttosto alta (« mi convenga di usurparmi » 194, « non mi convenga più di uscir fuori » 445, « quello che più convenga di scrivere » 483 ; ma al contrario senza prep. in 165, 241, 534, 544, 612, 1767, 1774). L’oscillazione è segnalata anche per OM (Vitale 1992a : 106) mentre in Zib a tre casi di reggenza con di (953, 3223, 3412) ne conto più di una decina a grado zero (770, 1462, 2256, 2435, 2614 ecc.). L’attacco diretto è assoluto in P (« convenisse placare » xv 9-10, « gli è convenuto aggirarsi » lxxxii 16). 4 – costringere : « sarebbe costretto di ammirare » (1821), « fui costretto ai 25 di questo, contro ogni mia precedente aspettativa e disposizione, di valermi » (1946) ; ma è attestata pure la reggenza diretta (« sono costretto usar teco » 1806), anche se è pur sempre
1 Sempre al genitivo anche tra i corrispondenti : ricordare di : Giordani 212, 283 ; Monaldo 851 ; Carlo 462 ; Paolina 851 ; Melchiorri 565. 2 Nella versione Piatti 1831 delle note alle canzoni, trovo inoltre « non accade avvertire », nota al v. 117 della Canzone IX, mentre per quanto riguarda la lingua poetica l’unico caso da segnalare è la reggenza con il genitivo nei Paralipomeni : « Né d’appormi così m’accadde mai », V 24 7 (PP* 264). Riscontro appena un paio di esempi tra i corrispondenti, sempre con di (« Quando mai mi accadrà di potervi riverire di persona », 595 di Brighenti ; « E qui m’accade in acconcio di parlarle », 1022 di Stella). Cfr. Serianni 1989b : 565. La reggenza diretta spesseggia in Croce (cfr. Colussi 2007 : 103). 3 Con il dativo invece, più comune (due casi di questo tipo per Giordani, cfr. 244, 1968), trovo « Non ti affaticare a scrivermi » 307 ; « coglione chi si affatica a pensare e a scrivere » 1224 ; « ti prego che non pigli troppa fatica a scrivermi » 412. Solo tre casi in Zib, ma nessuno con il gen. : « si affatica a produrre » (4421), « affaticandosi per arrivare » (4272), « nè si vogliono affaticare ad indagare » (2509). Per OM (in cui si riscontra solo « affaticarsi di scrivere » xiii 36) cfr. Vitale 1992a : 104 (« Certamente più rara è la reggenza di », aggiungendo in nota che « il Manzoni nel romanzo usa il verbo solo con la preposizione a »). Casi con di anche nelle Annotazioni alle canzoni e nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto (« s’affatichi di correr dietro », C 674 ; « s’affaticano di promulgare », C 680). 4 Nettamente maggioritaria la reggenza diretta anche nel resto della prosa leopardiana : cfr. PR (PP** 405, 414), Operette morali d’Isocrate (PP** 1090, 1103 1112 1133, ma con di in 1083) ME (PP** 1056), Martirio de’ santi padri (PP** 1031) ecc. Si veda poi convenire di Monaldo, 862 ; Brighenti, 291, 686 ; e convenire Giordani, 52 ; Monaldo, 495, 815, 821, 821, 968 ; Carlo, 462 ; Vieusseux, 1468 ; Melchiorri, 449, 654.
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quella in a a prevalere largamente, così come per Zib in cui noto tuttavia due casi per di (2838, 3268) e uno per la reggenza diretta (2488). Per OM cfr. Vitale 1992a : 106-07 con riscontri anche per la lingua poetica. 1 – intraprendere : costante con di (« egli avendo intrapreso di fare un viaggio » 7, « intraprenderei di copiare gli Scoli Ravennati » 641, « io non posso intraprendere di consolarla » 1262). Vitale 1992a : 110 sottolinea per le Operette l’« adozione singolare da parte del Leopardi della rara reggenza con di davanti a infinito oggettivo, contro l’uso tradizionale, anche toscanista, della reggenza con a ». Due casi si segnalano anche per Zib (« quando ella intraprendesse di ristorare la sua quasi spenta letteratura » 3324, « intrapreso di seguire » 3521). 2 – persuadere : anche per questo verbo il genitivo è costante : « benchè non mi per suada di potervi dare nessun conforto » (401), « ti dovresti fermamente persuadere di essere » (466), « lo Stella si persuada di non potermi indurre a dirigere » (720), « benchè io sia persuaso di nol poter meglio in altra guisa che tacendo » (22*), « Ella si persuada di avere in me » (765*), « persuaso di poterlo con una parola rimuovere » (168*). La reggenza con il dativo, prevalente all’epoca, 3 ha due sole occorrenze (« l’aveva persuaso a non farne altro » 534, « persuasi a trasferircisi tutti i suoi fratelli » 168*). Situazione analoga si riscontra in Zib : persuad- di (208, 507, 532, 1788, 3108, 3109, 3167, 3272, 3274, 3480, 3770) ; persuad- a (363, 3311). 4 – provare : « proveremo di combattere » (412), « ch’io provassi di ringraziarla » (480), « per provare di curarmi seriamente » (1600), « avendo provato di mandare » (149*), « provi di darmi qualche comando » (122*) ; ma tre casi con a : « non essendomi mai provato a tradurre » (693), « mi proverò a tradurre una Orazione » (693), « essendosi provato a tradurre gli Uffici » (819). Tre riscontri con di per OM sono segnalati da Vitale 1992a : 113, mentre in Zib oltre a quattro casi con il genitivo (99, 1111, 2225, 4387) se ne trovano tre con il dativo (8, 30, 1691). Nessun riscontro utile per P. 5 – restare : l’unica occorrenza con di è « Mi resta ora di pregarla » (713) ; poi sempre il costrutto letterario e tradizionale con a (« non mi resta a raccomandarle altro » 27, « non restando a far altro » 544, « che mi resta a far qui » 720 ecc.), così come per OM (cfr. Vitale 1992a : 113), e Zib (3, 279, 299, 307, 855 ecc.) che ha pure un paio di casi con la forma oggi corrente (« che ancora mi resta da vedere » 146, « che ci resta da fare » 4284). Nessun riscontro utile per P. 6 – risolversi : gli esempi con il genitivo sono quasi tutti di data piuttosto alta (« ha fatto risolvere il Zio Momo di allungare d’un giorno » 455, « se mi risolverei di prender
1 Savini 2002 : 132 : « come già nel romanzo, Manzoni nella corrispondenza opta sempre più spesso col trascorrere degli anni per a, senza tuttavia abbandonare del tutto di ». 2 Altrove in prosa riscontri utili solo in SA in cui di è costante (Binni 678.i, 696.i, 696.ii ecc.). L’uso della reggenza con di è confermato anche da SPM. Due casi di intraprendere a tra i corrispondenti : Vieusseux (« ch’ho intrapreso a correre » 616) ; Melchiorri (« vuole intraprendersi a stampare » 673). 3 Si veda inoltre persuadere a in Giordani (« fui persuaso a differire » 147, « vorrei poterti persuadere a ritornare qui » 1405) e Brighenti (« da persuadere i più schivi a leggerlo » 686), persuadere di in Giordani (« ti persuadi di non perder nulla » 309). 4 Un caso con di in P (« il suo stato sarebbe troppo misero, se egli fosse persuaso compiutamente di essere escluso in tutto e per sempre » liv 10-11). Sia per persuadere di sia per intraprendere di Vitale 1992a : 106 e 112 segnala la precedenza alfieriana. 5 Provare a in Monaldo (« provaste a dividere » 1425) ; provare di in Carlo (« ha provato di lasciarci » 532). 6 Trovo poi tra i corrispondenti restare da (Giordani : « che altro vi resti da intendere » 92) e restare a (Giordani : « quanto ti resta a vivere » 262 ; Carlo : « resterà a provare che […] » 108).
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l’abito di Corte » 538, « s’Ella si risolvesse di pubblicarli » 1519*, « Basta che Ella si risolva di venire » 74*), al contrario di quelli con reggenza dativa (« bisogna risolversi a lasciar la pelle » 574, « tu dovresti risolverti a passare la stagione fredda » 857, « egli non si risolva ad entrare in comunicazioni » 1366, « risolvendosi, come pare, il mio amico Ranieri a partire per Roma » 1888, « e io mi risolvo a tentare la benignità » 226*, « se io non mi risolvo a morir di fame » 689*, « non mi so risolvere a pubblicare » 1463*). L’oscillazione è comunque anche di OM (Vitale 1992a : 114) e di Zib, 1 mentre P ha una sola occorrenza con a (« è necessario che ciascuno si risolva a dir cose » cvii 8-9) ; 2 – riuscire : sia pur di poco ma la reggenza con il genitivo (« mi riuscisse di farne » 525, « quando mi riesca di averne » 634, « non mi è riuscito d’intenderla » 681, « non mi è riuscito di trovare » 1247 ecc.) è minoritaria rispetto alle dieci occorrenze che fa registrare quella, oggi normale, con il dativo (« facilmente riesco […] a dare alla traduzione un’aria d’originale » 60*, « sono riuscito a leggere l’Apologia » 234*, « mi riuscirebbe difficile ad intraprendere » 761 ecc.). Così è anche in Zib in cui anzi la reggenza con a è assoluta eccetto che per il participio passato accordato al maschile sing. in cui è sempre con di (riuscito di : « riuscito di possedere » 2725, « riuscito di assuefarmi » 4275 e poi 757, 1802, 4276) e in P. Per OM registro solo due occorrenze con a (xiii 2.98, xxii 203-04) e una con di (vii 58-59) ; 3 – supplicare : ai due casi con il genitivo (« supplicarla di perdonarmi » 391, « supplicarla umilmente di volere stendere » 580) se ne riscontrano ben 29 con il dativo (15, 23, 27, 31, 167 ecc.). Una occorrenza per tipo in Zib (« lo supplica miserevolmente di lasciarlo » 2760 ; « per supplicare a credere » 474). Nessun riscontro utile per OM, P e C. 4 – vergognarsi : pressoché assoluto il genitivo (« mi vergogno di parlare » 396, « mi vergogno di non avere » 483, « vergognerei di attribuirmi » 1141, « io mi vergognerei di vivere » 1330, « mi vergogno veramente di averle fatto attendere » 1372, « vergognandomi di non poterle avvisare » 1886 ecc.) dal momento che l’unica occorrenza con il dativo è in una copia (« mi vergogno a cacciarle fuora » 66*). 5 Con di inoltre gli unici tre casi in Zib (« non si sono vergognati di non saper comandare » 1912, « si vergognerebbero di
1 Tre occorrenze per ciascun tipo : « condurlo ad operare o a risolvere efficacemente d’operare » (98), « non lo fa risolvere di concedere » (2768), « a operare o a risolversi di operare » (4110) ; « si risolverebbe a privarsene » (66), « non si sanno risolvere a lasciar » (375), « questa facilità di risolversi a non credere » (540). 2 Poche alternanze tra i corrispondenti : risolvere di (Giordani : « non saprei mai risolvermi di partire » 589 ; Brighenti : « dovetti risolvere di recarmi » 920, « qualche volta ti risolverai di ripassare l’appennino » 1287) ; risolvere a (Melchiorri : « si risolva a stamparlo » 565). 3 Prevale il costrutto con il secondo caso tra i corrispondenti : riuscire di in Giordani (63, 496), Monaldo (463), Carlo (493), Brighenti (291, 452, 1056), Vieusseux (1492, 1690) ; Melchiorri (817, 1750) ; riuscire a in Monaldo (821), Carlo (462, 471, 540), Brighenti (277, 404). 4 Serianni 1989a : 179 : « di ascendenza latina (supplico + dativo) il costrutto intransitivo di supplicare ». Savini 2002 : 140 mette in relazione l’unico esempio registrato nel carteggio di Manzoni allo « stile ossequioso e al destinatario di alto rango ». Segnalo che anche per Leopardi i due riscontri si trovano in lettere indirizzate a personaggi di spicco come Angelo Mai e Ettore Consalvi. Oscillazioni tra gli interlocutori : supplicare a Giordani (52) ; Brighenti (190, 294, 302, 399, 452, 619, 1532, 1737) ; supplicare di Giordani (349, 700), Brighenti (180, 302, 305, 305, 428) ; supplicare Brighenti (« vi supplico fargli conoscere » 1473). 5 Va tenuto conto che nella lingua odierna oltre che da di, « con persuadersi e vergognarsi l’infinito può essere retto anche da a » (Serianni 1989b : 553). Vitale 1992a : 116, dopo aver segnalato in nota che RF e GB indicano soltanto la reggenza con a, nota che la costruzione con a era « più recente e meno elevata e in corso di più larga affermazione » : ciononostante sia i giornali milanesi sia il romanzo di Manzoni presentano soltanto esempi di reggenza con di. Sempre al genitivo comunque anche negli interlocutori di Leopardi : vergognarsi di Giordani (47, 52), Monaldo (821, 851, 979), Carlo (507), Paolina (499).
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pronunziar » 1284, facendoci vergognar di mostrarlo » 4245) e uno nella dedicatoria al Monti del 1818 (C 665-66). In OM si registra una sola occorrenza con a (xx 137) anche se va considerato che tra le operette in appendice si hanno due casi con di (App. i 46, App. v 146). Per il dativo segnalo : – pensare : la reggenza dativa (« io non avrei pensato a disturbarla » 173 e 183, « la quale pensa anche a farmi servire e a darmi da mangiare » 737, « se Ella pensa più a stampare » 752, « penserà egli a farcela » 768, « pensava a nominarmi » 1141, « Brighenti penserebbe a mandarlo a Firenze » 1173, « ed io penserò a farlo venire qua » 1616, « non ho neppur pensato a farli venire » 1923) oscilla con quella genitiva (« ho pensato dunque di fermarmi » 3, « pensando di far dispiacere a lei » 242, 310, 504, 637 ecc. per nove volte). La reggenza diretta è invece utilizzata, sia pure in un minore numero di casi, in OM (cfr. Vitale 1992a : 111) e altrettanto sporadicamente in Zib (« ei pensa esser necessario alla sua felicità » 2936, « Essi pensano aver diritto esser felici » 4071) e P (« si pensa aver perduta la stima » lxxi 3) ; 1 – usare : per l’unico riscontro in OM (xiii 82), Vitale 1992a : 116 parla di « inusitata e singolare reggenza con a ». Nel carteggio le occorrenze raddoppiano (« non le bisogna usare molte parole a persuadermi » 612, « quanto più sollecito fosse il mezzo che Ella usasse a spedirmelo » 833). Nessun caso in Zib né in P. Altri tipi di reggenze. Culta e latineggiante è la costruzione con il dativo per compatire presente in alcuni casi in E (« compatisco ben di cuore alla molestia terribile » 1111, « spesso m’è avvenuto di compatire all’Alfieri » 49*, « internandosi ne’ misteri della nostra lingua compatirà alle altre e agli Scrittori a’ quali bisogna usarle » 49*, « compatendo alla debolezza e piccolezza de’ pensieri miei » 60*) 2 come in OM (« non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana » xx 203 ; che ha pure « Giove compassionando alla nostra somma infelicità, propose […] » i 441), ma non in Zib (solo diretta : 221, 308, 3613), né in P. 3 Se per riguardare in senso traslato andrà notata l’assoluta prevalenza della più normale reggenza diretta (non così in OM), 4 si può segnalare qui che per la locuzione in riguardo (cioè ‘in merito’, ‘per quanto concerne’) alla reggenza dativa (« in riguardo a quella occupazione » 5, « in riguardo a sé » 167 ecc.) si affianca in un caso quella con il genitivo (« in riguardo dell’amicizia » 181). Con il terzo caso segnalo anche scampare con una sola occorrenza (« scampi al
1 Nel diario si alternano poi le altre due reggenze con una certa maggior frequenza per di, che è quella dell’unico altro caso utile per P. Più frequente il genitivo tra i corrispondenti : pensare di è in Giordani 56, 121, 134, 519, 1507 ; Monaldo 1429 ; Paolina 1157 ; Brighenti 325, 1117 (2 v.) ; Vieusseux 1492, 1707 ; Melchiorri 436, 438 ; pensare a in Giordani 52, 56, 56, 113, 120 ; Monaldo 830 ; Vieusseux 853, 1164 ; Melchiorri 562, 670, e infine pensare diretto in Giordani 100 (« penso rimanervi pochissimo »). 2 Ma « la compatisco della sventura » (1303), « la sua medesima indegnità, la quale è senza sua colpa, dee muovere gli animi buoni a compatirla e soccorrerla » (606), « quanto compatisco Lei e la Mamma » (1351). Diretto anche in Brighenti (« compatite i miei molti imbarazzi » 626), ma con il dativo in Giordani (« quella bontà che vi fa compatire a’ mali altrui » 143) e con il genitivo in Carlo (« Non ti compatisci tu dell’esser così all’oscuro » 887). Per la reggenza con il genitivo nell’epistolario di Manzoni cfr. Savini 2002 : 132. 3 Unica altra occorrenza che riscontro è nelle annotazioni all’Inno ai Patriarchi del 1826 (« Siamo noi sì felici che dobbiamo compatire allo stato loro, s’è diverso dal nostro ? », Binni i 75.ii). 4 Il terzo caso è utilizzato anche in OM xiii 7.11, 11.7, 11.47 (cfr. Vitale 1992a : 120) e nella Comparazione di Bruto e Teofrasto (cfr. Binni i 208.1 e 208.2). In Zib è pressochè costante in riguardo a (121, 134, 143, 152, 162 ecc.).
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solito naufragio » 204) contro la maggioranza di casi che reggono da (« questa volta è scampato dal pericolo prossimo » 988, « Se scamperò dal cholera » 1966*) ; 1 e infine sottrarsi (« sottrarsi per sempre alla perpetua felicità » 292, « sottrarsi al loro dolore » 1262) che ha un caso anche in Zib (« sottrarsi al dominio forestiero » 924) e in P (« non si può sottrarre al potere » lxxxiii 5), mentre in OM presenta solo un esempio con la reggenza meno comune, cioè da (« stimarono che l’uomo si possa sottrarre dalla potestà della fortuna » xv.2 96-97). Con il compl. di provenienza, anche figurato, oscillano cavarsi (« verrà a cavarmi di grande ansietà » 38, « mi caverà di questa prigione » 422, « Mi cavi di questa pena, la supplico » 833, « mi può bene cavar di bocca » 74* ; e « trovar modo di cavarti […] dal tuo deserto » 890, « prima si caverebbero loro tutti i denti dalla bocca », 622) ; 2 levare (« mi hanno levato di quel sospetto » 334, « levata come di bocca » 474, « levarmi al più presto di questo dubbio » 479, « per levarmi di dubbio » 631, « per levarmi di pena » 724, « levarmi di questa incertezza » 1329, « verrà a levarmi affatto di q.ta pena » 101* ; ma « per levarmi stabilmente da Recanati » 543, « levarla dal pacco » 1131, « levatemi dalle spine » 340*) ; 3 uscire (« di bocca » 242 ; « di qua » 323, 391, 118*, 205*, 218* ; « di questa miserabile città » 398 ; « di casa » 419, 458, 788, 1095, 1141 ecc. per 15 volte ; « delle città piccole » 466 ; « di là » 534 ; « di me stesso » 137* ; « di Recanati » 168*, 218* ; « di mente » 107* ; « di questa caverna » 205* ; « di questa miseria » 218* ; e però « da recanati » 299 ; « dalle mie mani » 407 ; e invece « dall’inverno » 1079 ; « dalla fanciullezza » 1198 ; « da q.ta » 103* ; « dalla memoria » 115* ; « dalla penna » 290*). 4
7. Altri fatti Sono innanzitutto da segnalare alcuni sporadici casi di mancato accordo che riguardano il numero, spesso per la preminenza del soggetto logico su quello sintattico : 5
1 OM oscilla tra il genitivo e il dativo (cfr. Vitale 1992a : 120). Solo da invece in Zib (356, 1806, 1985, 4072) e in P (« nessuna paura e nessuna viltà è bastante a scamparti dalle persecuzioni segrete » i 30, « gli promette scampo dal pericolo presente » liv 24). « Scampare alla disavventura » in Giordani (303). 2 Secondo Vitale 1992a : 121 (a cui rinvio per i riferimenti ai lessici e ai vocabolari) l’uso della preposizione di sarebbe « singolare nel Leopardi ». In Zib è costante cavare da. Oscilla comunque anche Giordani : « Mi dispera quel non poterti cavare di cotesto speco senza spesa » (212), « Oh se ti potessi cavar di tanto dolorose tenebre » (415) ; ma « Così potessi cavarti da tante pene » (270). 3 Oscillazioni anche in OM, per cui cfr. Vitale 1992a : 121 : « ma la natura stessa par che c’insegni che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa » (xxii 228-29), « e però levatevi di casa mia » (xiv 53-54). In Zib trovo solamente « levar di mano » (4421) mentre in P nessun esempio con di. Carlo ha « levarti di dubbiezza » (490). 4 Solo la forma più scelta invece in OM (cfr. Vitale 1992a : 121) e in P : « Uscendo della gioventù » lxi 1, « all’uscire di un amor grande e passionato » lxxxii 15, « Chi non è mai uscito di luoghi piccoli » xciv 1. In Zib le due forme sono quasi in parità (uscire di 22 occ. ; uscire da 20 occ.). Per i corrispondenti segnalo uscire da in Paolina (« uscire da Recanati » 862) e Brighenti (« uscito da Firenze » 277, « usciste pur dunque dall’antico e brutto Recanati » 492) ; uscire di in Brighenti (« non sono più uscito di casa » 325, « che una volta usciste di codesto scoglio » 411). 5 Da un punto di vista quantitativo le sconcordanze sono molto più circoscritte rispetto a Zib in cui « assai frequenti sono, in ispecie, gli accordi ad sensum tra sostantivo e verbo e tra sostantivo e aggettivo (o participio), i quali, come è noto, costituiscono una delle spie più evidenti del prevalere della semantica sulle regole morfosintattiche » (Ricci 2001 : 185-213, con un’ampia rassegna di esempi). Si veda anche Timpanaro 1958 : 612. Antonelli 2003 : 205 osserva : « sarà difficile considerare come fenomeni dovuti a una scrittura “di getto” o a un’insufficiente competenza linguistica gli esempi di mancato accordo nel numero, perché in molti casi particolari questi tipi di concordanza erano avallati dalla tradizione letteraria e, in forza di questa,
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« dove si può dire con piena verità che commettendo qualunque oggetto alla posta con qualunque direzione, si commettono intieramente al caso » (164, il riferimento va alle “lettere” della reggente la relativa), « quelle stesse poche righe che ponesti sotto la lettera di mia Madre, furono per me come un lampo di luce che rompessero le dense e mute e deserte tenebre che mi circondavano » (466), « Quanto al prezzo degli esemplari, che tutto insieme verrebbero a essere 17 scudi » (600) ecc. 1 Nella stessa lettera da cui è tratto l’ultimo esempio si legge inoltre : « Farei torto al vostro buon giudizio se vi ricordassi che le donne non vagliono la pena di amarle e di patire per loro » ; in cui in una frase che ricalca la struttura di una tipica dislocazione a sinistra la coniugazione del verbo al plurale può essere dovuta all’attrazione del soggetto logico anticipato (soggetto logico che diventa così anche soggetto grammaticale, ma che avrebbe richiesto una costruzione passiva e l’eliminazione del pronome = *le donne non vagliono la pena di essere amate). Sia pur raramente si riscontra l’uso transitivo di verbi intransitivi come giovare (ma nel significato di ‘aiutare, favorire, avvantaggiare’ è costrutto di tradizione : « I miei distinti complimenti e saluti al suo Consorte, e cento baci al bravo Emilietto, futuro emulo di Emilio, se non nelle imprese militari, che non convengono ai nostri tempi, certo nell’amor della patria, e nella virtù e volontà di giovarla in altri modi » 1061) ; 2 fuggire (« affine di fuggire la considerazione di me stesso » 241, « io sono costretto a fuggire in ogni modo il freddo » 983, « in vece d’essere disprezzato e fuggito come sono
dalla coeva norma grammaticale ». Interessante, e da riprendere qui, anche la citazione che Antonelli fa, in nota, di Moise 1878 : 1076, secondo cui la sillessi « avviene ogni qualvolta non si osservano materialmente le regole della concordanza, accordandosi le varie parole del discorso non già con quelle che le precedono o le seguono, ma sì con quelle che la nostra mente immagina comprese nelle medesime ». Il fenomeno è segnalato anche nel carteggio di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 170-72). Il rinvio va in ogni caso a D’Achille 1990 : 277-94. 1 Altri scambi pronominali in § 4.2. 2 Qui il costrutto segue quello latino (IUVA¯ RE). Ma è da rileggere il passo delle Annotazioni alle Canzoni del 1824 relativo ai vv. 14-15 dell’Ultimo canto di Saffo (« Noi per le balze e le profonde valli / natar giova tra’ nembi ») che recupera la costruzione con l’accusativo (nell’accezione della poesia) da un verso petrarchesco ambiguamente riportato dalla stessa Crusca : « Ora lasciando da parte i Latini, i quali dicono iuvare in questo medesimo sentimento col caso quarto ; e lasciando altresì che giovare, quando suona il contrario di nuocere, non rifiuta il detto caso, come puoi vedere nello stesso Vocabolario, e che l’accidente di ricevere quell’altra significazione traslata, o comunque si debba chiamare, non cambia la regola d’esso verbo ; dirò solamente questo, che in uno dei luoghi del Petrarca citati qui dalla Crusca, il verbo giovare, costruito col quarto caso, non ha la significazione sua propria, sotto la quale è recato il detto luogo nel Vocabolario, ma ben quella appunto di piacere o dilettare, come ti chiarirai, solamente che il verso allegato dalla Crusca si rannodi a quel tanto da cui dipende : Novo PIACER che negli umani ingegni spesse volte si trova, D’AMAR qual cosa nova Più folta schiera di sospiri accoglia. Ed io son un di quei CHE ’l pianger GIOVA ». Sullo stesso verso petrarchesco Leopardi tornerà per risolvere un dubbio di A.F Stella (lettera n. 896) in merito al proprio commento, rinviando (906) proprio alle Annotazioni. Per OM si veda invece Vitale 1992a : 124 che segnala l’uso « transitivo (e passivo) » di xx 70 aggiungendo comunque che « frequentemente il verbo è utilizzato intransitivamente nelle Operette ». Qualche caso si riscontra anche in Zib (« giovando l’immaginazione » 1352, « giovar loro » 2258, 1365, 2170, 2629 ecc.) e P (« quello che può loro giovare o nuocere » li 2). Per TB « si costruisce per lo più col terzo caso » ; non com. per GB e P, ammesso da RF. Qualche riscontro tra i corrispondenti : « con quanto affanno di non poterti nulla giovare » (424) di Giordani ; « sarò contentissimo di poterla giovare » (562), e « mi trovo nella impossibilità di poter giovare la tua venuta costì » (665) di Melchiorri, e anche con una costruzione passiva « i Fratelli vostri vennero assai giovati dalla regolare aspersione di China polverizzata » (495) di Monaldo.
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stato » 1198, « la malinconia dolce fugge le sventure reali » 1225). 1 In un caso parlare è usato con il passivo in luogo dell’impersonale (« ma non fu parlato punto di Recanati » 581), 2 mentre ammalare è impiegato assolutamente in « Ammalai dal dolore » (1277), « io non corro pericoli, e se anche ammalassi […] » (1821), « ammalai di un attacco di petto » (1957), e con il passivo « Sono stato ammalato dal reuma » (1537). L’uso assoluto di ammalare, se non erro, ha un solo riscontro nel resto dell’opera leopardiana nei Sonetti in persona di ser Pecora (« Sbarralo, e tra’ budella e tra’ corata, / Tra’ milza, che per fiel più non ammale », V vv. 9-10, cfr. P* 379-80). 3 Con l’accusativo della cosa e il dativo della persona a cui ci si rivolge è costruito in più casi avvisare (« basterà che me lo avvisiate » 389, « Questo io le doveva avvisare » 720, « Se v’è spesa, avvisamelo » 1744, « vergognandomi di non poterle avvisare l’epoca della mia partenza » 1886). 4 Caratteristico di OM (cfr. Vitale 1992a : 90-91), ma non estraneo neppure ad E e Zib, 5 l’uso pleonastico dei pronomi con alcuni verbi transitivi e intransitivi tra cui rimanere (« la supplico a permetter che la si rimanga qual è » 19*, « si rimane e rimarrà nelle tenebre » 69*), ridere (« forse il Mai si riderà di me » 103*, « anche i francesi […] si ridono […] degl’italiani che li portano » 868), pensare (« E la spesa è stata maggiore a più doppi di quello ch’io mi pensava e che m’aveano detto » 168*), avere (« la più cara cosa che m’abbia al mondo » 93*), avanzare (« La nostra Antologia si avanza rapidamente » 1034). Per Zib riscontro si rimanga (65), rimanersi (« mentire e fingere le presenti [glorie] è conforto all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione » 866), si rimane (4388) ; si ridono (1383, 1652, 1788), ridendosi (1976), si rida (2846), ridersi (3990), si pensino (3746), s‘avanzava (2118), avanzarmi (4273), avanzarsi (1976, 3191), s’avanzano (1356), s’avanza (1561, 1731, 1896, 2981, 3181), s’ardirebbe (1984), si ardiscono (4037), s’ardisse (1840), s’ardivano (2539). In P solamente si rimane (xx 33), si pensa (lxxi 3 : « dalla sopraddetta opinione […] nasce che chi si sgomenta ad ogni suo fallo, e si pensa aver perduta la stima di… » forse per attrazione), si pensano (xxxiv 5-6 : « contro a quello che si pensano i giovani »). 6 Compare lungo tutto l’epistolario, anche se in modo sporadico, l’uso della forma
1 L’uso transitivo è considerato meno comune da GB ; anche in SPM l’uso transitivo è minoritario. Per OM : xii 163, xx 127, xii 52 (cfr. Vitale 1992a : 124 con riferimenti, in nota, anche alla poesia) ; per P : civ 4, cix 4 ; per Zib 140, 1685, 2503, 3174, 4132 ecc. 2 Nessun caso utile in OM, in P o altrove nel corpus leopardiano, tranne che in Zib in cui trovo almeno « quelle mostruosità e stranezze […] non furono mai parlate da alcuno in Italia » (2720). Carlo ha : « mi fecero scrivere a Fano per cercare informazioni sopra un partito di cui m’era stato parlato » (753). 3 Cfr. Corticelli 1828 : 237 che pone questo costrutto (allegando anche un es. di Giovanni Villani) sotto il titolo Verbi neutri passivi, usati da’ Toscani come assoluti. Normale in ogni caso per TB. Per l’uso antico invece si veda Ageno 1964 : 114-15. Nessun caso utile tra gli interlocutori di Giacomo. 4 Qualche caso si riscontra anche tra i corrispondenti. In particolare Giordani (« Cercherò diligentissimamente del Senofonte ; e vi avviserò il successo » 100, « Dovrebb’esservi giunta un’altra mia che vi avvisava il mio presto partire » 126, « Vi scrissi l’altro dì, avvisandovi l’arrivo finalmente delle canzoni » 172, « Poi t’avvisai la mia dipartita da Vicenza » 244), ma anche Monaldo (« quando dovrò cambiare direzione avvisatemelo precisamente » 1267) e Carlo Leopardi (« Io poi ti lasciai stare in agitazione tanto tempo perchè non sapeva niente del tuo dubbio, e la tua lettera in cui me lo palesavi, giunta qui il 30 Xbre dormì fino al 6 Gennaio, e dormirebbe ancora se Regini non mi avesse usato l’attenzione di avvisarmelo » 493). 5 Cfr. anche qui § 4.4. 6 In poesia : si rimane Traduzione del II libro dell’Eneide v. 635 (PP* 575) ; si ridea « Paralipomeni » vi.18 v. 1 (PP* 275) ; si pensano « Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824 » (PP* 166) ; si pensaro « Paralipomeni » ii.18 v. 7 (PP* 224), mentre Io mi pensava ne « Le ricordanze » v. 23.
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riflessivo-passiva con agente espresso : 1 « Il prezzo della stampa che si richiede dal Contedini mi avea già distolto dall’impresa quando ho veduto quello che si cerca dal Sig. De Romanis » (27), « Ma quello che si chiede da cotesti stampatori » (31), « A norma di quanto si brama dall’Acerbi » (32), « Contuttochè si credesse da molti che il mio intelletto » (242), « Da qualche tempo si sta qui pensando da alcuni miei conoscenti ad un’impresa » (961), « Si pubblica mensualmente in Londra dalla tipografia EffinghamWilson » (991), « non si può mai credere da chi non vi è stato » (1957), « il partire a cholera avanzato si disapprova da tutti i periti » (1966*), « una di quelle vite degl’Italiani illustri che si stampano dal Bettoni » (103*). Dalle prime lettere all’abate Cancellieri, sempre molto controllate e formali, al tono risentito e insieme commosso della missiva al padre prima del tentativo di fuga, a quella a De Sinner impegnata nei temi nelle argomentazioni e nello stile, all’ultima dell’epistolario, ancora al padre ma ormai lontana, fredda anche se pur sempre cordiale : i contesti, pur nella loro eterogeneità, si muovono nell’ambito di un uso molto sorvegliato della lingua, confermando il carattere letterario del costrutto. Per rimanere nell’ambito dei riflessivi o pseudo riflessivi, i pochi casi del tipo « Se m’avessi potuto certificare » (369), « cagionatomi da quello che meno m’avrei aspettato » (1161), « La mia salute è migliore che io non mi avrei aspettato » (1196), ai quali è da accostare « tanto più mi avrebbe piaciuto e rallegrato » (373), 2 si possono senz’altro commentare rinviando alle riflessioni, lucide e dal tono quasi prescrittivo, di Zib 4083-84 (ma si veda già Zib 2923) :
circa il nostro uso italiano di adoperare pleonasticamente e per idiotismo e grazia di lingua il pronome si, mi, ti, dativo, uso che abbiamo pur trovato nell’antico e familiare latino, aggiungi che noi italiani adoperiamo detto pronome in molti verbi neutri, o attivi, che quando sono congiunti con esso, mal si chiamano da’ grammatici e vocabolaristi, neutri passivi, come dimenticare che anche si dice dimenticarsi col genit. o accusativo o col che ec., immaginare che anche si dice immaginarsi coll’accus. o col che ec. Questi verbi col si che sono moltissimi, non sono punto neutri passivi, perché il si in essi non è accusativo, e però non indica passione né transizione dell’azione nel suggetto stesso che la fa, ma è dativo e assolutamente ridondante per grazia di lingua, come in lat. il sibi, onde essi verbi col si, restano quali sono senza di esso, neutri assoluti o attivi […] E però quando i detti verbi sieno attivi, accoppiati col si, non debbono p.e. nel più che perfetto, fare io me l’era immaginato, come è regola de’ neutri e de’ neutri passivi, ma io me lo aveva immaginato, io me lo aveva dimenticato, perché quivi il verbo è tanto attivo quanto se senza il pronome si, mi, ti, che nulla altera e nulla vale in questi casi, si dicesse io l’aveva dimenticato ec. E così in fatti scrivono i buoni scrittori, cioè io me lo aveva immaginato ec. e così si dee scrivere […].
Le indicazioni formulate nell’appunto linguistico di Leopardi, pur esprimendo forza e autorità di norma, non riescono tuttavia ad imporsi nella prassi dello scrittore. 3
1 Cfr. Serianni 1989b : 386. Per la prosa del secondo Settecento si veda Patota 1987 : 216-18. Fornaciari 1881 : 233 : « modo da preferirsi coi verbi che involgono un compimento d’azione » ; cosa che almeno per E non accade mai. Nelle Operette « ricorre talora » (cfr. Vitale 1992a : 137-38). Raro invece nell’epistolario di Manzoni il quale secondo Savini 2002 : 148 « dimostra di non gradire affatto questo costrutto non usandolo che in maniera occasionale ». Conferma il regresso della forma anche Antonelli 2003 : 177-78. 2 Per dis-/piacere segnalo tra i fratelli del poeta anche questi altri casi con l’ausiliare avere : Carlo « se dovessi dirti quanto mi ha dispiaciuto la tua partenza » (464), « La morte di Giuseppe mi ha dispiaciuto estremamente » (493), « Tu dici che ti ha dispiaciuto di non aver fatto con noi la festa » (783) ; Paolina « mi ha piaciuto il sentirvi sparlare di cotesti Romani » (470). 3 Significativo che gli esempi riscontrati in OM da Vitale 1992a : 127 appartengano a operette « non solo
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fabio magro 6. Sintassi del periodo
Nei paragrafi precedenti sono stati registrati alcuni fenomeni, relativi in particolare alla sintassi del verbo e all’uso dei pronomi, che già ovviamente riguardano il legamento delle frasi e l’organizzazione del periodo. Si tratta di strutture che, sfruttando il serbatoio linguistico e stilistico della tradizione letteraria (accusativo con l’infinito, gerundio assoluto ecc.) o al contrario piegando la scrittura in direzione più schiettamente colloquiale (come certi usi del relativo), assumono valori diversi anche se non sempre svolgono diverse funzioni : si pensi ad esempio ad un costrutto come quello dell’accusativo con l’infinito, il cui valore di letterarietà sul piano diafasico è certo innegabile e tuttavia, come nota giustamente Tesi, 1 è pur sempre « inquadrabile nella medesima area di sfruttamento dissimulato di mezzi coesivi che accrescono la linearità sintattica del periodo ». 2 Proprio questa ricerca di alleggerimento, o se si vuole di semplificazione prospettica, che Tesi individua come elemento fondamentale nella costruzione del periodo delle Operette, e che configura quello leopardiano come un « periodo cinquecentesco semplificato e razionalizzato » (p. 21), rappresenta un aspetto che caratterizza in modo evidente anche la sintassi dell’epistolario. Se si volessero poi più specificamente individuare le coordinate attorno a cui si costruisce il periodo si potrebbe dire che in generale quella dell’epistolario leopardiano è una sintassi che risponde a criteri di funzionalità e linearità espressiva, che mette a fuoco con immediatezza le proprie strategie comunicative procedendo per dilatazione e accumulazione di preferenza a destra del tema (espresso dalla principale o da un suo membro) : il risultato tende nel complesso ad un equilibrio tra la chiarezza razionale del messaggio, sempre disponibile comunque al coinvolgimento del cuore, e l’eleganza musicale del dettato. 3 Bisogna naturalmente dare al genere quel che gli è proprio, considerando che per sua natura la lingua di un epistolario tende ad essere mediamente più semplice e svelta rispetto ad altri tipi di scritture, soprattutto se si tratta di una corrispondenza, come quella leopardiana, in larga parte di carattere privato : 4 in tale contesto infatti
di stile alto ». In ogni caso Fornaciari Gramm8 : 159 sottolinea che il costrutto era sentito nell’Ottocento come proprio della poesia e della prosa elevata. 1 Tesi 1989-90 [2009 : 45]. 2 Lo stesso Tesi 1989-90 [2009] insiste molto sulla rifunzionalizzazione in senso analitico e razionale, e dunque moderno, di strutture sintattiche della tradizione letteraria anche antica da parte di Leopardi nelle Operette. Sul processo di semplificazione sintattica della lingua dell’Ottocento cfr. anche, tra l’altro, Migliorini 1960 : 595-600, Herczeg 1972 : 277-316, Serianni 1993 : 551-57. 3 Vale forse la pena di riprendere a questo proposito le conclusioni di Herczeg 1994 : 525 : « Il “rompere il discorso” come fanno i francesi, procedimento che al Leopardi poco piace, può essere evitato mediante l’impalcatura, fondata a volte sulle simmetrie e sul ritmo, attraverso i quali non viene meno, nello stesso tempo, la chiarezza e la trasparenza del discorso, dignità e chiarezza che il Leopardi voleva, contemporaneamente, realizzare ». 4 Bisogna tener conto però che anche la pesantezza di alcune formule è tipica del genere. Nella prima parte dell’espistolario infatti, quella in cui la distanza tra l’io e l’interlocutore è ancora fortemente avvertita da Leopardi, abbondano espressioni enfatiche e ridondanti, o costrutti per così dire da cerimoniale di rappresentanza. Ne è prova il fatto che quando cambia il registro, Leopardi lo segnala : « Scrivo senza cerimonie, da parente e da amico, perchè m’avete mostrato che così vi piace » (96). Soprattutto nelle zone deputate, come in apertura e in chiusura di lettera, la formalità è talvolta un esercizio di stile : « Tutta la mia riconoscenza e la mia stima mi vengono ora nella mente e sulla penna per dirle che io sono e sarò sempre Suo Dev.mo Obbl.mo Servitore » (27), « E ringraziandola e pregandola che perdoni al mio ms. l’incomodo
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non trova solitamente molto spazio una prosa di tipo argomentativo – anche se per Leopardi rimane comunque una necessità ineludibile quella di marcare i passaggi logici e le concatenazioni di fatti e pensieri –, mentre sono naturalmente più evidenti le esigenze denotative e informative, nonché quelle espressivo-affettive legate alla movenza degli affetti. 1 E tuttavia, la molteplicità di toni e di registri che si riscontra in questo carteggio testimonia della capacità di Leopardi di piegare una grande varietà di forme e costrutti ad un progetto stilistico che se non si ridefinisce davvero da capo ad ogni nuova lettera, si può dire senz’altro che sia sempre declinato con grande attenzione in base alla personalità e alle esigenze dell’interlocutore. 2 Tra i costrutti che, pur facendo parte del repertorio tradizionale e scelto della lingua scritta, sembrano rispondere più efficacemente alle esigenze di linearità della struttura periodale c’è senza dubbio « quel modo di reinterpretazione vagamente ipotattica del nesso coordinante che è la cd. coniunctio relativa ». 3 Frequente nelle Operette, e del resto ancora ben diffusa nella lingua scritta dell’Ottocento, la coniunctio relativa attraversa tutto l’epistolario : in realtà la distribuzione del costrutto conferma quanto la lingua del carteggio sia più sensibile alla variazione diacronica rispetto a quella diafasica, 4 dato che l’incidenza della figura diminuisce nel tempo, ma è pur vero che essa ricorre indipendentemente dal tono della lettera e sia con interlocutori con cui Leopardi cerca sempre un registro più sorvegliato, sia ad esempio con i fratelli, nei confronti dei quali lo scrittore è più disponibile ad accogliere elementi colloquiali di vario genere. La coniunctio è presente del resto in una larga varietà di forme. La coesione anaforica infatti, su cui si concentra la figura, 5 può essere realizzata mediante ripresa del semplice relativo variamente declinato (qui e in seguito il corsivo è mio) :
mal di lui grado recatole, e offerendomi per quanto vaglio a Lei e al suo Celebrato Giornale, mi dico Suo […] » (48*), « A ogni modo mi rallegrerò di avere avuto occasione di protestarle la mia piena e sincera stima, e dichiararmi con verità e senza riserva alcuna Suo […] » (106) ecc. 1 Pur confermando questi tratti, che spingono in generale verso una lingua più semplice e moderna, Savini 2002 : 173 nota per la sintassi dell’epistolario manzoniano « un carattere più composito, un livello di elaborazione sintattica, o meglio di progettazione testuale, superiore rispetto alla corrispondenza di diversi scriventi colti dell’Ottocento ». 2 Questa capacità di cambiar pelle, di mutare lingua e stile in relazione al contenuto del singolo pezzo si coglie bene del resto anche in OM. Per quanto riguarda proprio la sintassi del periodo cfr. Tesi 1989-90 [2009 : 16-17] : « la variazione dell’argomento comporta un adeguamento formale che crea sul piano delle scelte linguistiche una casistica molto variabile di soluzioni sintattiche, programmata per riprodurre, nelle intenzioni dell’autore, quella “immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana” (Zib. 1313) ». 3 Su cui cfr. Tesi 1989-90 [2009 : 39-43] per OM ; ma poi si vedano anche Segre 1976 : 211 e 256, Durante 1981 : 195, Serianni 1989a : 122. Migliorini 1960 : 544 collega il successo del costrutto nel Settecento ad un’influenza francese. Per gli epistolari ottocenteschi cfr. Antonelli 2003 : 175-76 e Savini 2002 : 180-84 che nota la diminuzione del ricorso a questa struttura (tranne che nella variante del neutro sostantivato, il che) nel carteggio manzoniano dopo il 1840. 4 Anche in questo caso tuttavia la questione pare un po’ più complessa, e il singolo dato va contestualizzato : la diminuzione in diacronia della coniunctio va cioè messa in relazione alla generale contrazione del periodo e all’imporsi di una scrittura che si costruisce per membri brevi e giustapposti, adottando uno stile più moderno, coupé o, come forse avrebbe preferito Leopardi stesso, “da conversazione”. 5 Da un punto di vista stilistico-testuale si potrebbe forse indicare un corrispettivo di questa figura nei « botta e risposta che si collegano spesso a eco per questo o quell’elemento » tipici delle Operette di più spiccata struttura amebea (cfr. Mengaldo 2008 : 163-66).
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« Ella esigeva da noi due il sacrifizio, non di roba nè di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch’Ella nè da Carlo nè da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo » (242, a Monaldo), « Ma tutti gli esemplari ch’io n’aveva, sono spariti ; e così m’è tolto anche materialmente il poter soddisfare alla sua benevola richiesta. // Della quale, come di tutto l’altro mi corre l’obbligo di ring raziarla specialissimamente » (342, con cambio di capoverso, a Trissino), « Non mancherò, com’Ella amorosamente mi ordina, di fare che ogni ordinario parta qualche mia lettera diretta alla mia famiglia. Nella quale, Ella dice troppo bene che regna un ordine veramente raro, il qual ordine tanto più si stima, quanto più si conosce il disordine delle altre famiglie nel loro interno » (485, a Monaldo), 1 « Ti dico in genere che una donna nè col canto nè con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo : il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino » (514 a Carlo) ecc. ;
oppure con ripresa di un sostantivo antecedente e il relativo in funzione aggettivale :
« L’argomento non ha nulla che non istia bene, eccetto forse una certa tinta un poco declamatoria, ed un cenno di censura che vi si fa sopra una parte dell’Orazione. Alla qual censura forse si potrebbe rispondere molto bene » (693, ad A. F. Stella), « Ma debbo confessarle che in questi momenti mi sarebbe assolutamente impossibile di pormi in viaggio, perchè alle altre mie disgrazie si è aggiunta ora una malattia intestinale, prodotta dal calore che ho sofferto nel viaggio di Milano questa estate. La qual malattia, quantunque non grave finora, mi è però molto incomoda […] » (772, a K. Bunsen), « non si va allo spettacolo se non puramente per veder lo spettacolo (cosa noiosissima), oppure per trattenersi con quelle tali poche persone che formano il piccolo circolo di ciascheduno ; il qual piccolo circolo s’ha nelle città piccole meglio ancora che nelle grandi » (474, a Carlo), « Vorrei che fossero in me veramente quelle facoltà che la sua gentilezza mi attribuisce, per poterle bastantemente esprimere la vivissima e profondissima gratitudine che io porto a tutta l’Accademia, ed a ciascuno accademico in particolare, ed a V.S. nominatamente, di tanto onore che hanno voluto farmi. La qual gratitudine è tanto maggiore, quanto io riconosco minore il mio merito » (1731, a G.B. Zannoni) ; 2
infine con il relativo ad accompagnare un nome generico che riassumendo ancora una volta l’intera frase o concetto precedenti funziona da incapsulatore nominale :
1 Si può notare qui una sorta di ‘doppio gradino’ determinato dalla ripresa del medesimo costrutto, tra due periodi diversi e all’interno dello stesso periodo (ma con appoggio del sostantivo) : un eccesso forse di coesione, che toglie spontaneità e vivacità al dettato. 2 Per OM si veda anche Vitale 1992a : 93-94. Benchè in genere la coniunctio sia meno sfruttata in P, se ne può dare almeno qualche riscontro per questo tipo : « un sentimento che l’uomo, finchè ha il padre vivo porta perpetuamente nell’animo […]. Dico un sentimento di soggezione e di dependenza […] Il qual sentimento […] è quasi impossibile che vada insieme, non dirò col fare, ma col disegnare checchessia di grande » (ii 16-26), « Sebbene in difesa del risparmio della carta nei libri, si può allegare che l’usanza del secolo è che si stampi molto e che nulla si legga. Alla quale usanza appartiene […] » (iii 3-5), « e sopra la seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rocca da filare, che pareva il capo dell’ombra : la quale rocca il Ranieri presa in mano […] » (iv 26-28), « È assurdo l’addurre quello che chiamano consenso delle genti nelle quistioni metafisiche : del qual consenso non si fa nessuna stima nelle cose fisiche » (v 2-4), « è osservabile più che altrove una cosa che in qualche modo si verifica in tutti i luoghi : cioè che l’uomo riputato senza danari, non è stimato appena uomo ; creduto denaroso, è sempre in pericolo della vita. Dalla qual cosa nasce, che in sì fatti luoghi è necessario […] » (xxxv 2-5), « Ma i vecchi […] credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginando che il calore che va scemando in loro, scemi nell’aria o nella terra. La quale immaginazione è così fondata, che […] » (xxxix 66-70).
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« Ma dimmi, non potresti tu di Eraclito convertirti in Democrito ? La qual cosa va pure accadendo a me che la stimava impossibilissima » (406, a Giordani), « Ma io non ho dubitato che al valore di V. S. particolarmente nelle lettere, non s’unisse una squisita cortesia, la quale è ragione che non sia trascurata dai cultori di tali studi, e in Lei non solamente credo ma so in effetto ch’è singolare, e tanta che forse V. S. non isdegnerà d’accettarmi per suo, così poco meritevole come io sono, e in ogni modo mi perdonerà la confidenza ch’io mi son presa. Colla quale speranza, assicurandola ch’io le avrò sommo obbligo di questa sua benignità come di un gran favore, mi fo ardito a dichiararmi […] » (201*, ad A.A. Calciati), « Alessandro Poerio […] non ebbe agio di rivedere gli amici, non mi recò di Voi altre nuove, se non che eravate definitivamente ed onorevolmente collocato costì : della qual cosa, se è vera, come spero e credo, sono veramente lieto » (1915, a de Sinner) ecc. 1
Andrà inoltre ricordato il collegamento, con la consueta valenza riepilogativa, ottenuto mediante il ricorso al pronome relativo usato come neutro sostantivato :
« Il che è gran tempo che bramo di fare » (36*, a Giordani), « Ho preso questo incarico colla speranza di far qualche scoperta, e di potermene servire, in caso che mi riuscisse di farne. Il che è difficilissimo in questa città […] » (525, a Monaldo) « Il che spero anche de’ tuoi » (409, a Giordani), « Non mi manca che rivederla ; il che fatto […] » (906, ad A. F. Stella), « La mia intenzione era di far del bene ad alcuni amici avviando il Giornale ; il che fatto […] » (1765, a Paolina) ecc. 2
1 Qualche esempio da P anche per questa tipologia : « Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerato questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità particolare. Al quale effetto in breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo […] » (xx 71-76), « Quello che si dice comunemente, che la vita è una rappresentazione scenica, si verifica soprattutto in questo, che il mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera costantissimamente in un’altra. Della quale commedia oggi essendo tutti recitanti […] » (xxiii 1-4), « Non è dubbio che, al far de’ conti, la malvagità e la doppiezza non sono utili se non quando o vanno congiunte alla forza, o si abbattono ad una malvagità o astuzia minore, ovvero alla bontà. Il quale ultimo caso è raro […] » (xxxviii 6-9), « E veramente non per ciò che l’occultare con istudio manifesto i propri difetti è cosa ridicola, io loderei che si confessassero spontaneamente, e meno ancora, che alcuno desse troppo ad intendere di tenersi a causa di quelli inferiore agli altri. La qual cosa non sarebbe che un condannare se stesso con quella sentenza finale, che il mondo […] non verrà mai a capo di profferire » (c 4-10), « Più notabile è, che mai padre né madre, non che altro istitutore, non sentì rimuovere la coscienza del dare ai figliuoli un’educazione che muove da un principio così maligno. La qual cosa farebbe più maraviglia, se già lungamente, per altre cause, il procurare l’abolizione della gioventù, non fosse stata creduta opera meritoria » (civ 31-36) ecc. Per OM cfr. Vitale 1992a : 203-04. 2 Cfr. anche Herczeg 1994 : 498-501 in cui sono registrati anche altri tipi di ripresa con nessi relativi che hanno il medesimo valore di quelli visti qui. Va detto in ogni caso che il collegamento con il che sembra perdere rilievo nel corso del tempo, almeno per quanto riguarda la lingua letteraria. P infatti fa registrare solo tre casi : « colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo senza facoltà ; e per conseguenza non può nulla nel mondo : tanto più che nel tempo stesso è facoltoso in aspettativa, onde non si dà pensiero di procacciarsi roba coll’opera propria ; il che potrebbe essere occasione a grandi fatti ; caso non ordinario però […] » (ii 4-8), « uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse : s’i’ avessi qualcuno che mi sostenessi ’n sulle spalle, i’ vi monterei, per guardare che v’è la drento. Al che soggiunse il Ranieri : se voi mi sostenete, monterò io » (IV 19-22), « E nessuna materia di chiacchiere è più rara che una che svegli la curiosità e scacci la noia : il che fanno le cose nascoste e nuove » (viii 16-18). Per OM invece registro un numero di occorrenze decisamente maggiore : ix 81, x 188, xiii 2.141, xiii 4.38, xiii 5.12-13, xiii 10.24, xv 5.78, xv 6.91, xx 107, xx 257, xx 285, xxii 438, xxiv 181 ; del che iv 16, xviii 20-21 ; nel che xiii 8.72, xv 1.79 ; al che i 446, xv 1.69 ; dal che xx 288.
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Accanto alla coniunctio relativa Leopardi utilizza anche un altro costrutto sintattico di sicura tradizione letteraria per saldare e rendere coeso il discorso senza accrescere la complessità del periodo : si tratta dell’introduttore verbale dico, usato come segnale discorsivo, che anticipa la ripresa di un termine precedente.
« De’ molti fratelli ne ho uno con cui sono stato allevato fin da bambino […] è il mio confidente universale, e partecipe tanto o quanto degli studi e delle letture mie ; dico tanto o quanto, perchè discordiamo molto non p[er] l’inclinaz.e amando lui gli stessi studi che io, ma p[er] le opinioni » (93*), « Veramente io non credo che l’Italia abbia altra opera di q.to genere così bella. Dico bella p[er] le cose e p[er] le parole o pel modo di esporre le cose » (95*), « Dalla risposta dell’Angelelli vedo che anche lo Strocchi dovrebbe avergli avuti, e il non rispondermi dopo un mese e mezzo, l’attribuisco a mio demerito : dico demerito assolutamente, non già rispetto a lui, perch’io non penso ch’altri possa scrivergli più riverentemente e umilmente ch’io non feci » (205*), « Scusatemi per questa volta, e datene la colpa a’ miei maledetti studi. Dico maledetti, perchè i pensieri che mi si affollano tutto giorno nella mente, in questa mia continua solitudine, e a’ quali io voglio in ogni modo tener dietro colla penna, non mi lasciano un’ora di bene » (413), « La tua lettera m’è stata molto gradita, come sempre mi saranno quelle che mi scriverai, ma mi dispiace pur molto di sentirti così travagliata dalla tua immaginazione. Non dico già alla immaginazione, volendo inferire che tu abbi il torto, ma voglio intendere che di là vengono tutti i nostri mali » (508), « Ogni ora mi par mill’anni di fuggir via da questa porca città, dove non so se gli uomini sieno più asini o più birbanti ; so bene che tutti son l’uno e l’altro. Dico tutti, perchè certe eccezioni che si conterebbero sulle dita, si possono lasciar fuori del conto. Dei preti poi, dico tutti assolutamente » (1062*), « Voi mi fate insuperbire con quel che mi dite del desiderio che provate della mia compagnia. Dico insuperbire, perchè oramai fo molto più conto dell’affetto che della stima degli uomini » (1167), « Ammalai dal dolore, e non sono ancora bene ristabilito : dico ristabilito dalla malattia, chè dal dolore non posso esserlo finchè vivo » (1277), « Ditemi con tutta sincerità se credete che costì potrei trovar da campare dando lezioni o trattenimenti letterarii in casa ; e se troverei presto ; perchè poco tempo mi basteranno i danari per mantenermi del mio. Dico lezioni letterarie di qualunque genere » (1522), « Considera bene e freddamente le tue proprie convenienze, ma senza entusiasmo : dico senza troppo entusiasmo : e poi risolviti » (1833), « Mi è stato molto doloroso di sentire che la legittimità si mostri così poco grata alla sua penna di tanto che essa ha combattuto per la causa di quella. Dico doloroso, non però strano : perchè tale è il costume degli uomini di tutti i partiti […] » (1923) ecc.
La struttura è stata osservata e analizzata per Zib da Ricci 2002 : 54-59. 1 Proprio il
1 Alle pagine di Ricci rimando anche per la contestualizzazione della materia, per i rinvii bibliografici e per altri riscontri nell’opera leopardiana. In merito a tali riscontri tuttavia segnalo che Ricci non sembra contemplare nella struttura alcune forme di correctio, che da parte mia non sento la necessità di escludere, soprattutto in quei casi in cui la precisazione rilancia comunque il discorso. Conta mi pare il fatto che davanti alla possibilità di costruire un ragionamento tutto filato, complicando ulteriormente il profilo sintattico, si scelga invece di posare e poi di riprendere. Tenendo presente questa considerazione si possono recuperare alcuni casi di impiego della figura anche in OM : « Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici : dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente ; cioè libri destinati a muovere la immaginazione » (OM xx 59-62), « perchè il godimento e il piacere, a parlare proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità » (OM xxii 373-77), « lascia ch’io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo ; la quale […] » (OM xxii 425-28). Scarsi in ogni caso gli esempi per P : ii 16-20, xx 3 (« vizio ») e 54 (« questo vizio ch’io dico »), l 8-10.
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confronto con il diario ci permette di notare la diversa funzione che assume il costrutto nelle lettere : in Zib infatti questo tipo di ripresa lessicale non solo si inserice in genere nel contesto di periodi complessi, o comunque ben più complessi di quelli dell’epistolario, ma è spesso arricchito da altre riprese anaforiche ; inoltre non solo nel diario la ripresa molto raramente è ravvicinata come negli esempi qui a testo, ma altrettanto poco frequente rispetto alle lettere è il cambio di periodo, con il compimento della figura che si realizza dopo punto fermo, a cavaliere appunto delle due campate periodali. Se dunque è pur vero che il costrutto « ben si attaglia alla natura prevalentemente argomentativa e speculativa dello Zibaldone, stanti le sue funzioni essenziali di ripresa e prosecuzione del testo » (sempre Ricci, p. 58), nel carteggio, pur confermando questi valori, la figura pare essere utilizzata soprattutto per alleggerire con vivacità la sintassi, spezzando l’argomentazione, distribuendola su due periodi comunque saldati e coesi, e introducendo un elemento discorsivo tutt’altro che estraneo al genere epistolare. Su questa scia si possono inserire le strutture correlative – anch’esse naturalmente ben attestate nella tradizione letteraria – che contribuiscono alla medesima ricerca di linearità sintattica ma nel contesto di una maggiore orchestrazione armonica del periodo, costruito su due movimenti contrapposti – ascendente l’uno e discendente l’altro – che si elidono vicendevolmente. Si tratta in ogni caso di una tra le figure che meglio si adattano a rappresentare il pensiero leopardiano, il quale ama decisamente procedere per strutture binarie. 1 In questo caso la specificità dell’epistolario rispetto alle Operette si coglie considerando in diacronia la generale riduzione dell’ampiezza del periodo, per cui spesso la figura correlativa costruisce da sola l’intera campata sintattica, ciò che tra l’altro evidenzia maggiormente la sua funzione musicale. 2 La correlazione può come noto veicolare un nesso sintattico comparativo. Negli esempi che seguono mi pare sia particolarmente evidente tanto la breve gittata del periodo quanto il risultato armonico che ne consegue, in particolare quando la figura si concentra alla fine del periodo, svolgendo quasi le funzioni di clausola ritmicomelodica (ciò vale naturalmente anche per le tipologie successive) :
« Ma stante questa difficoltà, e considerando l’infinita gentilezza e l’affetto dimostratomi in altre occasioni da V. S., ho preso confidenza, e sperato che V. S. mi perdonerebbe tanto la libertà quanto la piccolezza del dono » (320, a L. Trissino), « V. S. m’adopri, non dirò quanto io
1 Cfr. Besomi 2007 che si occupa del fenomeno a vari livelli, dalle dittologie all’opposizione che si registra nel nome dei protagonisti di alcuni dialoghi (il Dialogo di Timandro ed Eleandro) ; dalla semantica di alcune coppie di sostantivi alla struttura stessa di alcune Operette (Il Parini) ecc. Ma si veda anche Mengaldo 2008 : 159-60 per alcune figure dello Zibaldone. Per OM si vedano naturalmente gli esempi di Vitale 1992a : 196-98. 2 Cfr. per OM Vitale 1992a : 189 che parla di « profusione dei nessi correlativi » : abbondante è poi l’esemplificazione, a cui rinvio. Si veda anche Tesi 1989-90 [2009 : 31-36] secondo cui inoltre : « Gli usi correlativi di congiunzioni causali, concessive e temporali andranno progressivamente diradandosi nella prosa letteraria ottocentesca : risultano per questo decisamente evitati da quei prosatori che aspirano ad una scrittura svincolata da schemi tradizionali e che, al contrario, mirano a rappresentare in maniera viva e spontanea lo svolgimento o l’argomentazione di un pensiero » (p. 34n) ; gli esempi che poi lo stesso autore cita di seguito (Alfieri, Manzoni, Pellico, Settembrini, D’Azeglio ecc.) più che eccezioni alla regola possono essere utilizzati per notare come le strutture correlative escano dallo strumentario tipico di una prosa argomentativa per sopravvivere, in opere narrative di vario tipo, come figure musicali o dell’ornatus.
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vaglia, ma secondo la misura del mio desiderio » (344, ad Angelo Mai), « E considerate che se forse io v’annoio con questa domanda, non è tanto il fastidio vostro, quanto sarà il diletto mio leggendo le cose vostre. Addio » (346, a F. Cassi), « Non mi potevi ragguagliare di cosa che tanto mi consolasse quanto della salute migliorata » (369, a Giordani), « Mi lusingo che l’inverno sia tanto amico e benigno al suo stomaco quanto è fatale al mio e che Ella abbia recuperato quell’appetito che il caldo le aveva tolto, e che io pel freddo ho perduto » (661, a C. Antici).
Si noti nel primo esempio come la figura giunga al termine di un periodo che si amplia, e quasi si gonfia, per aggiunzione (vedremo più avanti come), ma sempre puntando ad un bilanciamento il quale, se ha certo a che fare anche con le cautele e le cerimonie tipiche del genere, pare comunque finalizzato ad un compiuto effetto di equilibrio musicale. Nell’ultimo esempio del resto spicca quella sorta di ‘rispecchiamento oppositivo’ determinato dal continuo passaggio dall’io al tu che si accompagna efficacemente alle diverse figure binarie impiegate, dalla coppia in funzione aggettivale alla stessa struttura del periodo con il riflessivo che regge due circostanziali costruite nel medesimo modo : una insistita struttura parallelistica che smorza il formalismo con un tono canzonatorio, e si rivela perfettamente adatta al destinatario, l’influente zio avvocato e letterato di stanza a Roma al quale Giacomo cerca sempre di proporre una scrittura tornita, di valore letterario, pur non rinunciando all’espressione dei propri pensieri e sentimenti. Correlazioni e costrutti bimembri sono utilizzati dunque con frequenza nel carteggio, sia nella forma più elaborata con distacco degli elementi (tra cui anche, ad es., un aggettivo dimostrativo) che formano le locuzioni congiuntive, sia più spesso con il sintagma unito :
« Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo […]. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo » (242, a Monaldo), « Resterà ch’io mi sforzi di mostrarmi riconoscente alle Signorie Loro col fatto, vincendo la mediocrità mia, perchè l’onore che mi hanno conferito, non mi ridondi piuttosto in vergogna che in ornamento » (314, a G. Zacchia), « Ma pur troppo io non vedo quale si possa chiamare il corpo vivo oggidì ; perchè tutte le classi sono appestate dall’egoismo distruttore di tutto il bello e di tutto il grande ; e il mondo senza entusiasmo, senza magnanimità di pensieri, senza nobiltà di azioni, è cosa piuttosto morta che viva » (327, a P. Brighenti), « Riconosco dalla benignità di V. S. che m’abbia voluto scrivere in modo come se la mia confidenza fosse piuttosto degna di ringraziamento, che bisognosa di perdono » (328, a L. Trissino).
Dalla lettera scritta al padre prima del tentativo di fuga è tratto il primo esempio : il passo ha i toni accesi e drammatici propri di quel testo, il quale tuttavia non manca affatto di un’organizzazione retorica che accompagna, ordina e sottolinea di volta in volta la rabbia e il rancore pur evitando con cautela di giungere ad una lacerazione definitiva. Ne esce una straordinaria capacità di restituire con forza la propria situazione, non tacendo le colpe ma assumendo in prima persona ogni responsabilità. In linea con Zib (cfr. Ricci 2002 : 38-39), anche nel carteggio si nota una minore incidenza della correlazione con subordinate temporali, in particolare per quelle in cui vi sia separazione tra gli elementi che formano il nesso :
« mi consolerò con voi e col pensiero d’aver trovato un vero amico a questo mondo, cosa che ho prima conseguita che sperata » (118*, a Giordani), « quando anche v’occorresse di passare
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un anno intiero senza mie lettere, quando anche, pregando scong iurando minacciando, non arrivaste a vedere una parola di risposta, prima crederete tutte le cose impossibili, di quello che sia cambiata punto la mia volontà verso voi » (144*, a Giordani), « E la spesa è stata maggiore a più doppi di quello ch’io mi pensava e che m’aveano detto, in maniera che essendosi fatta delle mie proprie facoltà, che sono così laute come sapete, m’ha spiantato affatto, lasciandomi questi versi inediti, giacch’io voglio assai prima non esser letto ch’esser letto in questa sucida forma da fare scomparire qualunque composizione angelica non che mia » (168*, a Giordani), « Contuttociò non vedendone, e dubitando che la mia lettera non sia smarrita, vi scrivo solamente perchè sappiate ch’io non lasciai quella vostra amorevolissima e gentilissima senza risposta, anzi volli prima abbondare e mettermi a rischio di parervi molesto, che poco grato della vostra cortesia » (219*, a G. Perticari).
Rimanendo nell’ambito di elementi che evidenziano una ricerca di razionalizzazione della scrittura, e insieme di orchestrazione armonica della stessa, il passo successivo ci porta a considerare il ricorso a figure di ripetizione e a strutture parallelistiche. 1 L’assenza in larga parte del carteggio di uno stile periodico tipico di una prosa argomentativa si accompagna alla ricerca di elementi d’ordine attraverso cui scandire con maggior chiarezza il proprio pensiero : tale atteggiamento spinge a dare maggiore spazio ad espedienti di natura più schiettamente retorica, usati tuttavia con una discrezione e naturalezza in grado sempre di piegare quelle figure alle necessità espressive contingenti, ossia volgendo immediatamente la retorica in stile. È il caso dunque di segnalare almeno un paio di casi per una tipica figura di rilancio del discorso come l’anadiplosi (« Questo sarebbe utile mio. Utile pubblico sarebbe […] » 48*, « Ed io non posso se non raccomandarmi a questa stessa benignità, perchè mi perdoni se la soprabbondanza dei beneficj mi toglie i mezzi di renderle grazie proporzionate. Ma se mi toglie i mezzi di ciò, non mi toglie il desiderio di mostrarmele grato e di corrispondere il meglio ch’io sappia […] » 165), 2 e per una invece che implica apertura e chiusura come l’epanadiplosi, ma che qui è utilizzata con valore conclusivo e riassuntivo, o meglio – e sarà significativo – svolge in economia una funzione argomentativa (« Ubbidirò : benchè vorrei potervene pagare in altra maniera, e perchè il dirvi il mio giudizio mi costa più che qualunque altra cosa, e perchè a voi ne viene pochis.o utile : ma insomma ubbidirò » 95*, a Giordani). La figura che tuttavia sembra rispondere meglio e con più varietà d’uso a questa esigenza di linearità è l’anafora che permette di costruire serie aperte modulando l’ampiezza del periodo senza complicarne l’architettura. 3 Una prima tipologia con
1 Nota giustamente Serianni 1993 : 553 che la « reazione al periodare franto, di gusto francesizzante, comporta nel Leopardi e negli altri classicisti l’ampio ricorso a elementi correlativi che stringano sul piano logico due proposizioni e insieme ne calibrino armonicamente i rapporti ritmici ». 2 La seconda lettera (156) è indirizzata a Francesco Cancellieri, abate romano con cui il giovane Giacomo corrisponde con frequenza all’inizio del carteggio, ma sempre con deferenza e con un tono piuttosto sostenuto. Si noti qui l’elaborata chiusa, che risponde del resto ad un topos del genere. 3 Va da sé che l’anafora agisce pure all’interno del singolo periodo come elemento di raccordo di vari sintagmi in serie aperte, anche se spesso nella veste classica del tricolon. Pure in questo caso andrà rilevato il valore di legante fonico della figura. Ecco qualche rapido esempio : « Ci trovo molta forza d’immagini, molta evidenza, molta efficacia, colla conveniente nobiltà ed eleganza » (251), « Io non mi fido già di questo mio parere, giacchè oramai credo che tutto sia falso in questo mondo, anche la virtù, anche la facoltà sensitiva, anche l’amore » (307), « Quante miserie, quante pazzie, quanti intrighi in questo povero mondo » (334), « Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere » (407), « Lontano o vicino, noto o ignoto di persona io v’amerò sempre a un modo,
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templa modi che ricalcano le strutture correlative che abbiamo visto sopra – ribadendone quindi la centralità nel processo di formalizzazione del pensiero di Leopardi –, in cui il parallelismo è determinato dalla semplice ripetizione della congiunzione subordinativa, nella maggior parte dei casi attraverso l’appoggio di una congiunzione coordinante, copulativa o avversativa che, per così dire, mette uno scivolo al gradino :
« Quando poi egli le rimandasse senza variazione, o quando senza averle vedute, le scrivesse di farle stampare, ella farà quello che le piacerà, essendo io in questo caso del tutto indifferente » (296), « Spererei anche di non incontrare troppe difficoltà per parte dei Bibliotecari, perchè ho alcune amicizie in Romagna, e perchè i Romagnuoli generalmente sono meno gelosi che i Romani, verso i loro connazionali » (641), « Chi ti potrebbe dire quanto io t’amo, e quanto mai smanio di ribaciarti ! » (744), « Vi ringrazio dell’onore […], benchè io m’avvegga di non aver saputo spiegare a Giordani il mio desiderio in questo proposito, e benchè mi abbiano un poco umiliato i molti e tremendi errori che sono corsi nella stampa » (855), « La stagione anche qui è ottima, e io mi diverto veramente più del solito, perchè grazie a Dio mi sento bene, e perchè quest’essere uscito dall’inverno non mi può parer vero, e non finisce di rallegrarmi ; e perchè gli amici mi tirano » (1079), « Vorrei che facesse dire a Morici che ho ricevuto la sua del 16, e lo saluto ; che non ho risposto perchè pochissimo, al solito, posso scrivere, e perchè gli avvenimenti rispondono abbastanza » (1604).
L’ultimo esempio dimostra bene, mi pare, come il periodo si sviluppi aggregando proprio attraverso la congiunzione i singoli addendi, ordinando come per punti e sveltamente l’argomentazione, mentre altrove la figura è utilizzata per sottolineare la partecipazione emotiva dell’io :
« È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna ; la più orrenda cosa che possa fare il giovane » (296), « Oh quanto ti amo, quanto ti desidero, quanto ti vorrei vedere allegro, o almeno vicino a me » (762*), « Quanto immensamente io ti voglia bene, quanto pensi a te, quanto desiderio di te mi stia sempre nel cuore » (1068*, con climax), « Vorrei poterti consolare da vicino, vorrei che questa cosa non si opponesse alla congiunzione, da noi tanto meditata e desiderata, dei nostri destini » (1809*) ecc.
Altrettanto evidente nell’esempio che segue è il valore intensivo-patetico della ripetizione del verbo – un’epanalessi, in realtà, in veste di anafora :
« Vedi, Ranieri mio, poichè dobbiamo ricongiungerci in eterno, volendo io poi seguirti in qualunque parte di questo o dell’altro mondo, vedi di non impedir tanto bene colla precipitazione » (1813)
Il rapporto di corrispondenza in ogni caso può distendersi in vera e propria catena anaforica che guida la scansione dell’intero periodo o di una sua significativa parte :
« Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per se, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de’ propri studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel sollazzo ? […] Se le dirò che essi diedero stabilità e forza alla mia conver
perchè se non vi conosco di vista, vi conosco di virtù, di bontà, di meriti e ornamenti d’ogni sorta » (637), « In particolare poi ti ringrazio delle Memorie d’Antichità, delle quali ti dico sinceramente che sono rimasto contentissimo, sì quanto all’idea dell’opera, sì quanto all’esecuzione » (662), « E dammi notizia de’ tuoi viaggi, de’ tuoi studi, de’ tuoi pensieri » (1082) ecc.
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sione che era appunto sul cominciare, che gustato quel cibo, le altre cose moderne che prima mi pareano squisite, mi parvero schifissime, che attendea la Biblioteca con infinito desiderio e ricevutala la leggea con avidità da affamato, che avrò letti e riletti i suoi articoli una diecina di volte, che ora che non ci son più mi vien voglia di gittar via i quaderni di quel giornale, ogni volta che ricevendoli non vi trovo niente che faccia p[er] me, la sua modestia s’irriterà » (60*), « Io sospiro però per Bologna, dove sono stato quasi festeggiato, dove ho contratto più amicizie assai in nove giorni, che a Roma in cinque mesi, dove non si pensa ad altro che a vivere allegramente senza diplomazie, dove i forestieri non trovano riposo per le gran carezze che ricevono, dove gli uomini d’ingegno sono invitati a pranzo nove giorni ogni settimana, dove Giordani mi assicura ch’io vivrò meglio che in qualunque altra città d’italia, fuorchè Firenze ; dove potrei mantenermi con pochissima spesa, e per questa avrei parecchi mezzi già stabiliti e concertati, dove ec. ec. » (710 : qui il dove seguito dall’ec. dice bene il senso di serie aperta che assume la figura), « Non conosco lo stampatore ; non ho da lui nessuna sicurezza dell’esecuzione sì della stampa, come delle condizioni aggiunte ; può stamparne poche copie in vece del numero 500 promessomi da voi nella vostra de’ 26. Novembre passato ; può farmi un’edizione vergognosa per la carta o pei caratteri ; può farmi aspettare il suo pieno comodo ; può anche, ricevuti i danari, dispensarsi affatto dall’edizione » (624), « La letteratura è annientata in Europa : i librai, chi fallito, chi p[er] fallire, chi ridotto ad un solo torchio, chi costretto ad abbandonare le imprese meglio avviate » (1767) ecc. 1
Vale la pena di insistere ancora con tre esempi in cui si può notare come sulla spinta di stati d’animo in parte diversi vi sia la medesima capacità di organizzare il proprio discorso affidandosi ad un’unica strategia formale : l’esigenza di chiarezza è dunque sempre in primo piano. La prima lettera, vibrante e risentita, è indirizzata a Saverio Broglio d’Ajano, l’amico di famiglia a cui Giacomo si era rivolto per ottenere il passaporto che doveva consentirgli la fuga : una volta scoperto, e supponendo che il padre avesse già dato all’amico la propria versione dei fatti, con orgoglio e grande senso di dignità Giacomo scrive per chiarire la propria posizione e ribadire senza troppe cautele le proprie accuse al padre. 2 La seconda invece, distante 17 anni e tra le ultime dell’intero carteggio, è rivolta allo stesso Monaldo e si caratterizza per un tono più drammatico, anche se non mancano accenti sconsolati per la messa in dubbio da parte dei genitori della propria sincerità in merito alle difficoltà fisiche ed economiche in cui si trovava : in questo caso, oltre a sottolineare il fatto che la figura è in qualche modo anticipata dal poliptoto che chiude il periodo precedente (mentre la chiusura della stessa configura un chiasmo), vanno notate le sottili variazioni che scalano anche temporalmente il discorso e configurano una sorta di climax sia nell’ottica dei genitori (« Quando la Mamma conoscerà […] ; quando saprà […] ; quando vedrà in che panni io le tornerò davanti ») sia in quella dello stesso figlio (« significa pronto arresto mio personale »).
1 Per altri esempi di ripetizione della congiunzione che nelle subordinate oggettive, si veda anche Herczeg 1994 : 495. Sulla massiccia presenza dell’anafora in OM rinvio all’ampia esemplificazione di Vitale 1992a : 194-96. 2 Poiché la lettera che Giacomo scrisse per motivare le ragioni della fuga non fu recapitata a Monaldo (ma trattenuta da Carlo), si può anche pensare, a mio avviso, che Giacomo volesse comunque far arrivare al padre le sue ragioni, confidando nel fatto che il suo interlocutore (il conte Saverio Broglio d’Ajano appunto) avrebbe mostrato a Monaldo la lettera che gli aveva scritto il figlio : si spiegherebbe così il tono duro e secco, che pare appunto rivolgersi al padre piuttosto che al reale destinatario. Ma è certo in ogni caso che la difficile relazione con il padre continua anche in absentia.
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« Domando se questo è il premio che mi dovea aspettare : domando se c’è un altro padre nella stessa Recanati in circostanze molto più incomode del mio, che avendo un figlio delle speranze ch’io dava, non avesse fatto tutti gli sforzi possibili per procurargli quello che a chiunque mi conosce è sembrato naturale e necessario fuorchè a mio padre : domando se i Galamini, se i Giaccherini, se gli altri tanti di questa specie che di 16 anni ebbero già più libertà che non ho io di 21, sono migliori di me : domando se io ho perduto il fiore della mia gioventù, spargendo fatiche e sudori incredibili, fuggendo ogni altro piacere, rovinandomi assolutamente e p[er] sempre la salute negli studi, p[er] vivere in Recanati e ottener quello che ottengono tutti i miei compatrioti : domando se io dopo tanti travagli e danni, non debbo formare sulla mia vita futura altra speranza che quella che resta ai Galamini e ai Giaccherini, che menano la loro gioventù come ognun vede » (246*), « Ella crede certo ch’io abbia passati fra le rose questi 7 anni, ch’io ho passato fra i giunchi marini. Quando la Mamma conoscerà che il trarre per una sovvenzione straordinaria non può accadermi e non mi è accaduto se non quando il bisogno è arrivato all’articolo pane ; quando saprà che nessuno di loro si è mai trovato in sua vita, nè, grazie a Dio, si troverà in angustie della terribile natura di quelle in cui mi sono trovato io molte volte senza nessuna mia colpa ; quando vedrà in che panni io le tornerò davanti, e saprà ancora che il rifiuto di una cambiale significa protesto, e il protesto di una mia cambiale, non potendo io ripagare l’equivalente somma, significa pronto arresto mio personale ; forse proverà qualche dispiacere dell’ostile divieto che lo Zio Antici mi annunzia in una dei 6 Nov. che mi giunge insieme colle due sue » (1949).
Nel terzo esempio invece il periodo, nel contesto di una più ampia struttura anaforica, si compone di frasi costruite a mo’ di scatole cinesi, 1 ciò che mette ancora una volta in primo piano la tendenza alla linearità e consente di cogliere come la figura risponda bene sia all’intonazione colloquiale del discorso, sia alle esigenze di brevità del genere, in cui spesso ci si ritrova a dover riassumere notizie e fatti a beneficio del destinatario o di terzi :
« Dì a Paolina che Vittorina la saluta tanto ; che si è fatta grande ma non più di lei […]. / Dì a Mamma che vidi a Imola Elia Finocchio, che venne a trovarmi alla locanda, e mi pregò di far sapere al padre le sue notizie, cioè che sta bene, che ha moglie, e cinque o sei figli ; che fa il barbiere con applauso ; che è matto come prima, perchè mi parlò della nobiltà della casa Finocchio […]. Dì ancora a Paolina che le Brighenti la salutano infinitamente […] » (1068* a Carlo). 2
1 La struttura, dopo il primo punto, prevede : principale e reggente + oggettiva esplicita + subordinata relativa (o ancora un’oggettiva esplicita ? Qui il che può avere un doppio valore) ; coordinata alla reggente + finale implicita che regge le oggettive esplicite successive. La cosa notevole è però l’inserto commentativo, con sfumatura ironica, che chiude la sequenza. Pur inserendosi perfettamente nella modularità della serie anche l’ultimo membro potrebbe essere interessato dall’ambiguità segnalata sopra : il che infatti può rappresentare sia un pronome relativo sia la congiunzione di attacco dell’oggettiva : « che venne a trovarmi » così come « che è matto » possono in sostanza dipendere entrambi dalla principale « Dì a Mamma » ma anche legarsi direttamente al nome del personaggio in funzione di relative esplicative. Se tuttavia si prende in considerazione la punteggiatura si può giungere ad una terza lettura, secondo cui a rientrare nel commento dello scrivente non sarebbe solo l’ultimo membro ma anche quello precedente. 2 Sulla ricerca di mimesi dell’oralità di questa struttura si veda Tesi 1989-90 [2009 : 28-29] : « Tra i fattori sintattici che contribuiscono a connotare il carattere decisamente coordinante e lineare del “parlato-ricreato” delle Operette si nota, per la sua frequente applicazione proprio in contesti dialogici, l’uso in successione del che subordinante “seriale”, espediente retorico-grammaticale ben acclimatato nei testi letterari cinquecenteschi, specie nelle zone a più spiccato andamento dialogico ».
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Proprio la capacità di attribuire significati diversi a queste figure della razionalità ne giustifica probabilmente la frequenza lungo tutto l’epistolario, al contrario invece di quanto accade in OM in cui tali strutture sembrano meno presenti, e comunque circoscritte ad alcune Operette (cfr. Tesi 1989-90 [2009 : 36-39]). 1 Adempie alla medesima duplice funzione di elemento d’ordine e di meccanismo di ampliamento orizzontale del periodo un’altra tipica figura per aggiunzione come il polisindeto, 2 utilizzato con una certa frequenza soprattutto nella prima parte del carteggio per sottolineare alcuni passaggi più sensibili sul piano della partecipazione emotiva. Frequente, come del resto in tutte le figure viste finora, è il modulo classico del tricolon :
« quando un pedante suda sopra un’opera cattiva, o non vede quello che gli altri vedono, e si persuade che quella che non vale a niente, vaglia a qualche cosa ; o anche, persuaso che non vaglia, si sforza di persuadere agli altri che vaglia ; o alla più trista non confessa quello che è » (122*), « E il tentare così com’io posso, cioè disperatamente e alla cieca, non mi costa più niente, ora che le antiche illusioni sul mio valore, e sulle speranze della vita futura, e sul bene ch’io potea fare, e le imprese da togliere, e la gloria da conseguire, mi sono sparite dagli occhi, e non mi stimo più nulla, e mi conosco assai da meno di tanti miei cittadini, ch’io disprezzava così profondamente » (237*), « Se verranno lettere del mio Giordani per me, aprile e rispondi, e salutalo per mio nome, e informalo della mia risoluzione » (241), « le spedisco franco per più sicurezza un esemplare a stampa di esse Canzoni, riveduto e corretto e migliorato in alcuni luoghi » (284), « Del resto o vinto o vincitore, non bisogna stancarsi mai di combattere, e lottare, e insultare e calpestare chiunque vi ceda anche per un momento » (407), « Mi ami, caro Sig. Padre, ch’io l’amo di tutto cuore, e desidero di servirla e di compiacerla e d’ubbidirla in ogni cosa » (460), « Ma qui, dove niuno si vuole incomodare ; dove i figli alla Madre, la Madre ai figli, il marito alla moglie, la moglie al marito si contrastano abitualmente e sinceramente le pagnotte di pane, i sorsi di vino, i migliori bocconi delle vivande, e se li negano scambievolmente, e se li tolgono di bocca, e se li rimproverano, e si danno dei ghiotti gli uni cogli altri ; ciascheduno è incomodato da tutti e tutti da ciascuno » (485), « Ora i freddi eccessivi e la mia malattia ostinatissima che mi tormentano, mi obbligano spesso al letto, e mi rendono stranamente penoso il tavolino, e mi fanno più pigro che io non vorrei » (826*), « Non guardate, o mio Carissimo a quello che la malinconia e molto più l’amore immenso m’ha potuto far dire, e p[er] l’avanti scrivetemi a vostro agio e brevemente e come vi piace » (118*) ecc. 3
1 Sulla « coesione e coerenza » che i « richiami interni come l’anafora lessicale, oppure il gioco semantico dei termini antitetici posti specularmente all’interno del periodo » assicurano ai Pensieri, cfr. Tesi 1994 : 453. 2 Alla varietà e diversa distribuzione, sia in termini quantitativi che qualitativi, di questa figura (e del suo corrispettivo opposto) dà largo spazio nell’analisi della sintassi dei Canti Mengaldo 2009. Del resto la figura esprime bene, anzi mima il pathos del giovane scrittore già in PR : di « struttura paratattica tutta asindeti e polisindeti enfatico-accumulativi » parla in effetti Bonavita 2001 : 489 (ecco un paio di es. almeno : « Nelle usanze e nelle opinioni e nel sapere del tempo nostro cercheremo la natura e le illusioni ? Che natura o che leggiadra illusione speriamo di trovare in un tempo dove tutto è civiltà, e ragione e scienza e pratica e artifizi […] » PP* 361 ; « e quella natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella come in principio, e farcela vedere e sentire, e cagionarci quei diletti soprumani di cui pressochè tutto, salvo il desiderio, abbiamo perduto […] » PP** 365 ecc.). 3 Così come si è visto per l’anafora, anche il polisindeto agisce all’interno del periodo, come legante di singoli sintagmi : « Perchè il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere così bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano » (66*), « risposi e rispondo d’essere intieram. soddisfatto sì dei caratteri e della carta tanto mezzana che soprafina, come del numero delle copie, e
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Il passo successivo, nella direzione di una maggiore linearità del periodo riguarda la coesione tra proposizioni coordinate : vediamo innanzitutto il caso in cui sono coinvolti infiniti preposizionali. 1 In particolare nella prima parte del carteggio si riscontra con una qualche frequenza l’ellissi della preposizione davanti al secondo verbo, modo sancito dalla tradizione e imputabile anche alla prassi scrittoria caratteristica del genere, ma indubbiamente in grado di dare un effetto di maggiore legame e unità ai membri coordinati, soprattutto quando tra i due infiniti vi sia l’interposizione di altri elementi : 2 « Il ms. ch’io vi mandava era dedicato al Monti, e vi pregava di farlo stampare costì, e [di] scrivere al Monti perchè mi concedesse d’intitolarglielo, aggiungendo ch’io gli avrei scritto, stampato che fosse, nel mandargliene copia » (154*), « Avrò ben caro che V.S. si compiaccia di riverire a nome mio cotesto Signore, e [di] pregarlo che m’abbia nel numero de’ suoi » (366*), « Supplico V.a Sign.a Illma a volerne esprimere da mia parte al Sig. Ministro la più viva riconoscenza, e nel tempo stesso [a] raccomandarmegli e [a] presentargli i miei rispetti » (581) ecc. Significativo in questo contesto il rovesciamento che si ha in
« Si compiaccia [di] ricordarmi al suo valentissimo consorte, e di tenermi raccomandato alla sua amicizia ; e così egli come la S.a Vostra mi tengano da ora innanzi per loro cordialissimo e devoto servo » (1663).
La spinta verso una più forte coesione tra le proposizioni coordinate, a scapito di una maggiore analiticità che è tipica questa volta della lingua moderna, si nota in particolare quando ad essere sottinteso è un ausiliare o un servile. L’occasionalità con cui tale situazione si verifica nel carteggio, ne sembra testimoniare il carattere di relitto in via di eliminazione dal sistema. 3 In ogni caso è opportuno segnalare almeno qualche esempio, sia per il caso meno marcato ma più diffuso, in cui ad essere sottinteso è lo stesso ausiliare (« O sia benedetto Iddio (e con pieno spargimento di cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che domandava, e [mi ha] fatto conoscere l’error
del prezzo, e della stampa in ottavo piuttosto che in 12, e parimente delle legature in cartoncino colorito e stampato, e delle 16 copie in velino sopraffino » (288), « quelle stesse poche righe che ponesti sotto la lettera di mia Madre, furono per me come un lampo di luce che rompessero le dense e mute e deserte tenebre che mi circondavano » (466), « Addio, mio carissimo e preziosissimo e incomparabile amico » (1610), « E non mi fa punto meraviglia che la Germania, solo paese dotto oggidì, sia più giusta verso di Voi, che la presuntuosissima, e superficialissima, e ciarlatanissima Francia » (1811) ecc. 1 Vitale 1992b : 246-47 segnala che nelle correzioni alle Operette, si trovano vari casi in cui Leopardi introduce in seconda battuta l’articolo o la preposizione tra i membri nominali o verbali di una sequenza coordinata. Lo stesso Vitale, in nota a p. 246, sottolinea come « nei giornali milanesi del primo Ottocento risulta pressochè assoluta la non omissione dell’articolo e della preposizione nelle sequenze in questione ». Alcuni casi di ellissi della preposizione tuttavia rimangono nella redazione definitiva delle Operette (e spesso proprio del tipo visto qui, che coinvolge infiniti coordinati), come testimonia lo stesso autore (cfr. Vitale 1992 : 146-47). 2 Qui e in seguito tra parentesi quadre e barrata la preposizione o l’elemento o sintagma mancante. 3 Il fenomeno si verifica anche nelle Operette, per cui si veda Tesi 1989-90 [2009 : 52-57], a cui rinvio anche per le indicazioni relative alla lingua del tempo (« Fenomeni coesivi (o non analitici) del genere […] sono piuttosto rari, né si può parlare a questo proposito di veri e propri arcaismi : esempi di questo tipo, pur in continuo regresso nelle scritture più correnti, erano infatti ancora contemplati nell’italiano letterario più scelto dell’Ottocento »). Fornaciari 1881 : 165-66 nota che « se gli ausiliari sono differenti, bisogna esprimerli tutti. Pur talvolta si trova fatto il contrario e potrebbesi con giudizio fare anc’oggi » (Fornaciari cita poi ad es. passi di Boccaccio e Ariosto).
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mio » 60*, « Le cose nostre vanno di male in peggio, e avendo provato di mandare a effetto quel disegno che avevamo formato insieme del modo di andare a Roma, e [avendo] proposto un espediente così facile che a volerci fingere una difficoltà non parea che fosse possibile, [...] ci siamo visti abbandonati scherniti, trattati da ignoranti da pazzarelli da scellerati […], in maniera che persuasi finalmente che bisogna farla da disperati e [bisogna] confidare in noi soli solissimi al mondo, siamo oramai risoluti di vedere che cosa potremo » 149*), sia per quello più marcato in cui l’ellissi riguarda un ausiliare diverso (« Dopo una giornata intiera di sudore, nella quale non pranzai, feci quattro volte la strada di Monte Cavallo con un sole che smagliava, e in ultimo non conclusi nulla ; finalmente la mattina dopo essendomi alzato a giorno, e [avendo] fatta altre due volte la stessa strada, potei vedere l’Ab. Capaccini » 538). Altrettanto rari sono gli esempi – inquadrabili nel settore relativo questa volta al rafforzamento dei legami coesivi tra reggente e subordinata – che riguardano l’ellissi della congiunzione nelle proposizioni completive : 1 ai casi, comunque minoritari, in cui il che manca (« Infinite grazie le rendo poi delle cure che si è prese per la stampa del II° della Eneide, e di quelle che, conforme si compiacque scriverci, spero [che] vorrà prendersi p[er] lo spaccio del med.mo, il quale se non fosse la sua gentilezza, stampato e non divulgato nè annunziato in verun luogo, si varrebbe nè più ne meno come se restasse manoscritto » 39, « La tua compagnia mi confortava, e mi rallegrava sopra tutto il vedere un giovane che credo [che] abbia pochi pari al mondo » 781, « Il ne (o piuttosto il n’è) interrogativo, non mi ricordo di averlo trovato negli scrittori ; ma nello stile familiare, credo [che] possa adoperarsi » 1393), se ne possono affiancare alcuni in cui è tollerata la vicinanza di due forme uguali (si veda invece la dissimulazione di 781 appena citata), una per il pronome e una per la congiunzione (« Non so che vi sarà sembrato dell’articolo sopra il Thesaurus, che credo che abbiate ricevuto da Vieusseux nell’ultimo quaderno dell’Antologia » 1811, « come lasciai quivi scritto in un fogliolino, che credo che ancora si conservi » 1951, « Ancora qui abbiamo avuto il caldo preciso di 29 gradi, eccetto forse qualche giorno di luglio, che credo che passasse il 30 » 1783*, ecc.). Semplificazione dei nessi subordinanti, utilizzo di figure d’ordine in vista di una gestione più razionale del periodo, paratassi e costrutti aggiuntivi, rappresentano dunque i modi più diffusi di organizzazione del discorso nell’epistolario leopardiano. Se osserviamo le cose sul piano diacronico dobbiamo tuttavia notare che questi procedimenti sono progressivamente meno pervasivi. Ciò non accade però a causa di un recupero da parte dell’ipotassi, ma al contrario per un’ulteriore contrazione della gittata del periodo. In realtà nell’ultima parte dell’epistolario è la lettera stessa a subire una progressiva riduzione di ampiezza, in corrispondenza di una diversa funzione svolta dalla scrittura epistolare : non più necessaria in generale per stabilire nuovi contatti, bensì utile a mantenere quelli già avviati, la lettera si limita spesso ai ragguagli indispensabili, in una sempre maggiore ricerca di essenzialità rispetto alla quale non
1 Secondo Savini 2002 : 180 : « Benché continui con taluni verbi fin nell’italiano contemporaneo, l’omissione della congiunzione che in apertura delle subordinate soggettive e oggettive si segnala fin dall’Ottocento come tratto connotato in senso colto, di ascendenza letteraria, ricorrente nella prosa di stile elegante, ma molto meno diffuso in quella giornalistica ». L’elllissi della congiunzione è rara anche nelle lettere di Manzoni.
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saranno poi neppure estranee le non buone condizioni di salute del mittente. 1 In tale situazione si può dire che la propensione alla linearità si sposta dai legami all’interno del periodo ai periodi stessi, che nel loro corto respiro volentieri si allineano scegliendo di ridurre al minimo i legami di coesione, secondo uno stile giustappositivo che nella sua funzionalità è decisamente di carattere moderno. 2 Vediamo qualche esempio, anche se a partire all’incirca dal 1830 la situazione è evidente ad apertura di pagina :
« Mia cara Antonietta / Io parto domani per Firenze. Passerò per Bologna, dove mi fermerò due o tre giorni, all’albergo della Pace. Quanto godrei di rivedervi ! Ma la scarsità de’ miei mezzi non comporterà ch’io faccia quella piccola diversione a Parma » (1528), « Io sto benino. Gli autriaci sono a Rimini. Io le scrissi già pochi ordinari addietro » (1604), « Caro Peppino, Tu m’hai a fare il piacere di far subito subito inserire nel Diario di Roma la lettera annessa. Se v’è spesa, avvisamelo, e ne sarai immediatamente rimborsato. Ma per amor di Dio non mancare di farmi questo piacere in ogni modo. La cosa non compromette nessuno : è sempre lecito di annunziar la verità in questo genere. Lo stesso mio padre troverà giustissimo ch’io non mi usurpi l’onore ch’è dovuto a lui. D’altronde io non ne posso più, propriamente non ne posso più » (1744), « Voi mi dite che la nostra amicizia deve durare al di là della vita. Io non so esprimervi quanto queste parole mi consolino. Sì certo, mio prezioso amico, noi ci ameremo finchè durerà in noi la facoltà di amare. L’amor mio sarà pieno di gratitudine, il vostro avrà quel nobile compiacimento che nasce dalla coscienza di aver fatto del bene. / Ho finalmente il primo fascicolo del Thesaurus. L’opera corrisponde alla grandissima aspettazione ch’io ne aveva » (1763), « Chi sa se e quando sarà dato a noi tre di ritrovarci insieme ? Intanto, qualunque sia la nostra scambievole lontananza, non mi dimenticate. Sarò contento se serberete di me quella memoria ch’io serbo di Voi. Scrivetemi lungamente, se volete farmi piacere. Datemi nuove letterarie più che potete, e specialmente filologiche. Non leggendo giornali io sono al buio d’ogni cosa. Da me so bene che non aspettate nuove di filologia, perchè qual filologia in Italia ? È vero che Mai è sul punto di vestire la porpora, e Mezzofanti gli verrà appresso ; ma essi ne sono debitori al gesuitismo, e non alla filologia. Addio, mio rarissimo amico. Avete voi nuove di Gioberti ? Addio : amatemi, e credetemi per la vita » (1915, a De Sinner), ecc.
Una conferma di questa situazione si può cogliere in quei casi in cui l’anafora, da meccanismo che consente l’ordinamento e la semplificazione all’interno del periodo viene impiegata con un più marcato valore testuale, coinvolgendo non i singoli membri di una sola unità sintattica, ma periodi diversi e successivi :
« Mangio ad ore fisse, digerito o non digerito : per lo più quattro volte il giorno, cioè fo anche merenda. Mangio qualunque sorta di cose, carni, latti, frutta (compresi i fichi, ch’io non provava più da sei anni), in somma tutto, fuori solamente lardi e brodi grassi. Mangio anche fuor d’ora, e prendo bibite ogni volta che voglio, e gelati ogni sera. In fine, tutti mi dicono ch’io sono diventato [come un] altro » (1639), « Ti ripeto ch’io ho scritto due volte a Francesco Pane, le altre volte a te. Ti ripeto ch’io t’amo quanto si può amare in questa vita, e che ogni giorno, ogni ora ti sospiro » (1807), « Salutate tanto la Franceschi a mio nome. Ditele ch’io la stimo e l’onoro già da qualche tempo che la conosco di riputazione. Ditele che il volgarizzamento che
1 Fanno comunque eccezione alcune lettere al padre spedite da Napoli (su cui cfr. qui le conclusioni). 2 A questo assetto ovviamente si accordano anche altri settori della lingua, come ad esempio l’aggettivazione. Nella parte finale del carteggio infatti si riducono notevolmente quelle clausole aggettivali (coppie coordinate, terne, altre figure elencative) che in un primo momento accompagnavano e sottolineavano con assidua precisione la ricerca di armonizzazione musicale di questa scrittura.
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ha lo Stella nel libro de amicitia, è quello di un Del Bene ; che se a lei piacesse, io proporrei allo Stella la sua nuova traduzione ; […] » (891*) ecc.
A guardar bene tuttavia lo sfruttamento di moduli paratattici non rappresenta una novità assoluta dell’ultima parte del carteggio, se non forse per i fini di essenzialità e sveltezza a cui ulteriormente si piega. Questo tipo di periodo, fatto di poche cose, è presente infatti anche in molte lettere della giovinezza. Il contesto tuttavia è del tutto diverso e la commistione dello stile spezzato e di quello periodico tradizionale dà vita ad un impasto che costituisce uno dei principali motivi di fascino di quelle missive, capaci di slanci prolungati e di rapidi e umorali incisi. 1 Basta infatti confrontare le lettere a Giordani, « che riempiono lo stomaco » (154*), con i biglietti indirizzati a Ranieri per cogliere il cambio di valore che subisce ad esempio la sintassi nominale, già di per sé poco presente nel carteggio. 2 In alcune zone delle prime lettere allo scrittore piacentino, in effetti, la scelta di una struttura a ‘botta e risposta’, con replica o commento nominale, si rivela uno strumento efficace per conferire immediatezza e vivezza espressiva all’argomentazione :
« Crede Ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato ? Come la gemma nel letamaio. […]. Parrebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle chiedermi notizia dei letterati della età nostra. Per appunto. […]. Ora quanti pensa Ella che la frequentino ? Nessuno mai. […]. Chi m’ha fatto strada a imparare le lingue che m’erano necessarie ? la grazia di Dio. Chi m’assicura ch’io non ci pigli un granchio a ogni tratto. Nessuno. […]. Che cosa è in recanati di bello ? che l’uomo si curi di vedere o d’imparare ? niente » (60*)
Per il resto la sintassi nominale, al di là di alcune formule tipiche del genere epistolare, 3 compare sporadicamente nel carteggio, a sottolineare alcuni momenti di particolare partecipazione emotiva (« O mio caro e doloroso amico » 310, « Oh povero
1 Dopo il fallito tentativo di fuga, come abbiamo visto più sopra Giacomo scrive una lettera molto articolata a Saverio Broglio d’Ajano per chiarire le ragioni che l’avevano portato ad ordire un tale inganno (246, del 13 agosto 1819). Pochi giorni dopo riprende in mano la penna per scrivere a Giordani, presso il quale non cerca giustificazioni bensì la vicinanza del cuore. Il tono è mesto e addolorato, arreso ; il respiro è corto, e così la scrittura, che solo in forza di un discorso sul fratello riesce a distendersi maggiormente : « Io fuggiva di qua p[er] sempre, e m’hanno scoperto. Non è piaciuto a Dio che usassero la forza : hanno usato le preghiere e il dolore. Non ispero più niente, benchè m’abbiano promesso molto : ma io confidava in me solo, e ora che son tolto a me stesso non confido in veruno. A Carlo rimangono le stesse speranze, forse anche minori, p[er]chè in lui non hanno ancora conosciuta una disperazione capace di risolversi in qualche fatto dispiacevole. Ma poco staranno ad avvedersene » (248, del 20 Agosto). 2 Si può dunque estendere anche all’epistolario quanto osservato per OM : « Leopardi in tutte le zone del testo si mantiene ancorato alla costruzione canonica della frase accentrata sul verbo » (Tesi 1989-90 [2009 : 40-41]). Sullo « stile nominale » si veda anche Herczeg 1994 : 521 secondo cui « gli esempi di questo tipo nelle Lettere non sono molti ». 3 Come ad esempio in apertura o in chiusura di lettera (« Addio, anima mia, mille volte » 1829, « Addio, mio eccellente Amico » 1878*, « Addio, mio preziosissimo ed incomparabile amico » 1883*, « Addio, mia cara Antonietta 1965* ecc.), o per veloci riferimenti ad altri interlocutori (« I miei complimenti al Sig. Luigi e a tutti i suoi » 792*, « I miei complimenti a tutti i suoi, e in particolare al Sig. Luigi » 826*, « Saluti distinti alla sua amabile famiglia » 849*, « I miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. I miei rispetti alla Msa Roberti e a Broglio se Ella ha occasione di scrivergli » 948*, « Mille cari saluti a Poerio ed a Gioberti » 1883* ecc.). Formule che si ritrovano ad esempio anche nelle lettere di Manzoni, il quale anzi « sempre più frequentemente col passare degli anni, fa volentieri ricorso alla sintassi nominale, tanto che essa arriva a configurarsi come uno dei tratti stilistici più significativi della prosa epistolare dello scrittore » (Savini 2002 : 190).
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il nostro Colletta ! anzi poveri noi, beatissimo lui ! » 1689), oppure per riepilogare brevemente informazioni di contorno (« Dopo la mia ultima dei 22 Novembre, altissimo silenzio » 674, « Eccole la Prefazione della Crestomazia » 1107*, « Pazienza, quanto a me » 1120*, « Grazie mille al Papà e a Pietruccio della nota » 1665, « Savissimo nella pratica, e fortunatissimo fra mille giovani ! » 1785 ecc.), o anche le due cose insieme (« La mia salute, al solito. Al solito anche il mio cuore, e la mia affezione verso di voi, mia cara e pietosa Adelaide » 1469*). Riguarda ancora un’esigenza di brevità ed immediatezza, tra le più tipiche del genere, un’altra struttura particolarmente diffusa nell’epistolario leopardiano, che prevede la collocazione in prima posizione dell’argomento in funzione di richiamo per l’interlocutore, a cui segue il contenuto informativo : 1
« Dell’articolo sopra la Batracomiomachia che l’è piaciuto di farmi avere la ringrazio cor dialmente (50*), « Di quello che mi dite, e che avete fatto intorno alla mia Canzone, vi ringrazio cordialmente » (334), « Della dedica vi ringrazio cordialmente » (365), « Della informazione sulla B. Universale, vi avrò sommo obbligo » (373), « Della lettera che spediste a Giordani per me, non ho saputo mai nulla » (382), « Della gonfiezza di stile del vostro Babini, io non mi accorgo (407), « Di quello che mi dite in favore della traduzione, non posso altro che ringraziarvi » (432), « Della mia salute e del mio stato permettimi ch’io non dica nulla » (1475), « Cara Pilla. Della salute io soffro meno del solito perchè quest’inverno non è che una prolungazione dell’autunno e della primavera, sole stagioni nelle quali, quando vanno bene, io vivo tollerabilmente » (1593*). 2
Si tratta di un meccanismo di messa in rilievo utilizzato per scorciare la presentazione del tema ; in sostanza una dislocazione a sinistra senza ripresa pronominale, che comporta un controllo maggiore della struttura sintattica rispetto alla forma più colloquiale con ripresa del sintagma dislocato. Tra le due tipologie si possono forse collocare casi come i seguenti :
« Dell’Eneide, ella mi dà una carissima notizia avvisandomi che l’ha quasi finita di tradurre » (193), « Del Parini, quando non abbia ad essere con troppo vostro fastidio, gradirò molto che lo proccuriate da Milano » (432),
in cui la ripresa del compl. di argomento tematizzato in avvio c’è, ma è in accusativo. Pur non rappresentando un vero e proprio cambio di progetto, perché il sintagma in prima posizione può essere considerato anche una sorta di avverbio di frase, la struttura sfiora comunque, da un punto di vista sintattico, l’anacoluto. Su questa scia, sempre con un compl. di argomento ad aprire il periodo, si riscontrano anche alcuni casi di dislocazioni a sinistra vere e proprie : 3
« Dei caratteri carta ec. del Secondo dell’Eneide son rimasto soddisfatissimo, e ne la ringrazio di nuovo » (50*), « Della traduzione latina della mia Canzone, crederete facilmente che la notizia che voi me ne date, è la prima che ne sento » (365), « Delle Osservazioni Eusebiane non so se l’Effemeridi n’abbiano pubblicato altro » (570), « Dell’articolo sopra Leoni che n’è stato ? »
1 Sul « continuo riferimento a cose già dette nelle lettere precedenti » come spia della tensione dialogica insita nel genere epistolare cfr. Antonelli 2003 : 76-77. 2 Significativo invece il caso seguente, in una breve lettera a Paolina mistilingue e di tono leggero : « Mi rallegro del Villani acquistato : è un ottimo acquisto » (1828*). 3 Su cui cfr. D’Achille 1990 : 89-203, e Antonelli 2003 : 211-14.
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(574, con efficace mimesi dell’oralità), « Della mia situazione, poichè Ella amorosamente desidera di esserne informata, le dirò che io vivo qui ben voluto » (917) ecc. 1
Alla serie di elementi che in vario modo convergono in direzione di una sintassi agile e lineare, funzionale ad un genere letterario che forse per primo mette in campo una lingua decisamente orientata verso la modernità, 2 se ne devono aggiungere altri che vanno invece in senso contrario, e accentuando sostanzialmente la complessità del periodo rinviano a moduli costruttivi e architettonici di stampo più tradizionale. Alla base di questi fattori si coglie sostanzialmente una tendenza all’accumulo degli elementi informativi che conduce alla dilatazione e al rallentamento nella gestione del contenuto del messaggio : due aspetti che – è naturale – si condizionano reciprocamente, ma che possono essere in via generale individuati da un lato nella prolessi delle subordinate, tipicamente costruite con le forme nominali del verbo, dall’altro nel ricorso frequente alle incidentali, di varia ampiezza e struttura. 3 Vediamo innanzitutto qualche esempio in cui il periodo prende avvio con una – ma anche più di una – subordinata prolettica (consecutiva, causale, temporale, di altro tipo), iniziando dunque con un movimento melodico sospeso :
« Siccome quello che Ella mi scrive intorno alla nota spedizione N. 8 mi dà speranza di riceverla finalmente, e ricevutala io debbo subito por mano al promessole articolo sul Bellini, vorrei che Ella si compiacesse dirmi in quattro parole se […] » (55), Benchè non possa approvare la scelta che avete fatta di me a vostro Socio Corrispondente, nondimeno bisogna che ve ne ringrazi » (80), « Ora perchè mi dorrebbe soprammodo ch’Ella dovesse stimarmi così negligente e inurbano da lasciare per sì lungo tempo senza risposta una lettera tanto cortese, per questo solo motivo torno a scriverle […] (164), « Se bene agli scrittori e artefici insigni spesso vennero non discare, e talvolta desiderate le lodi anche dell’ultima plebe ; e io non per lodare, ma per mia propria consolazione e sfogo, direi quant’allegrezza m’abbia cagionato il suo libro sulla lingua […] » (174), « Ma perchè l’onore anche non meritato può servire agl’ingegni più tardi per isvegliarli, e da un altro canto il favore usatomi da V.E. e da’ suoi compagni mi dimostra apertamente la benignità loro verso di me, non posso fare ch’io non la ringrazi vivamente […] » (286*), « Ma dovendo in tali circostanze tutto farsi a forza di danari, essendo smisuratam.e accresciuti i prezzi d’ogni cosa, ognuno tenendo il suo danaro chiuso, e parendo imminente una stretta, in cui non sia neppur possibile di trarre più sopra l’estero, fui costretto ai 25 di questo, contro ogni mia precedente aspettativa e disposizione, di valermi straordinariamente sopra lo Zio Carlo per la somma di 41 colonnati, con una tratta che solo p[er] favore singolarissimo potei negoziare » (1946) ecc.
Grazie all’ultimo esempio è possibile sottolineare come la semplificazione che sul piano diacronico si registra in tutti i settori contempli qualche eccezione, in particolare 1 Per Nievo cfr. Mengaldo 1987 : 85 e bibliografia citata. Antonelli 2003 : 209 nota giustamente che « dato il loro ruolo nella segnalazione del ‘cambiamento di topic’ e nella disposizione dei contenuti secondo una gerarchia immediatamente accessibile all’interlocutore, la dislocazione e gli altri processi di tematizzazione si mostrano particolarmente congeniali alle strategie pragmatiche messe in atto nella comunicazione epistolare ». Per altri fenomeni del genere rinvio a § 4.6. 2 Gli stessi manuali epistolari diffusi al tempo ne sembrano consapevoli, come ricorda Antonelli 2003 : 28 : « la precettisca epistolare [è] un esempio sui generis di retorica dell’antiretorica, con continui richiami – soprattutto per quello che riguarda le lettere familiari – alla naturalezza, alla (apparente) spontaneità, alla disinvoltura dello stile e, per contro, rende l’affettazione il vero pericolo da cui guardarsi ». 3 Sul contributo che anche i brevi incisi di carattere attenuativo o con funzione commentativa portano al « tempo lento della prosa leopardiana » delle Operette, cfr. Bigi 1954 : 132-33. Su alcuni aspetti legati più in generale all’uso delle incidentali si veda anche Durante 1981 : 198-200.
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proprio verso la fine dell’epistolario. In una lettera in cui Giacomo è costretto ancora a chiedere un sostegno economico ai genitori, e in cui si legge addirittura « M’inginocchio innanzi a Lei ed alla Mamma per pregarli di condonare al frangente nel quale si trova insieme con me un mezzo milione d’uomini […] », l’affollamento di costrutti con il gerundio sembra assumere un ruolo strategico : mentre sul piano argomentativo sono messe innanzitutto in evidenza le circostanze avverse al fine di contestualizzare le responsabilità dell’io, sul piano più propriamente stilistico la pesantezza dell’enunciato, la sua ampia e tesa linea ascendente che ritarda la principale, preparando lo spazio benevolo per una richiesta, esprime tutta la difficoltà e l’imbarazzo di Giacomo. Del resto, che l’anticipo delle subordinate, in particolare al gerundio e al participio, fosse il segno per eccellenza di una scrittura sorvegliata, che si innesta nel grande filone della tradizione classicista ciceroniana e cinquecentesca, sembra confermarlo indirettamente il brano di una lettera indirizzata a Karl Bunsen (noto filologo, al tempo segretario dell’Ambasciata prussiana a Roma), scritta da Leopardi su sollecitazione dello zio Carlo Antici che così lo esortava : « Spiegate in quella lettera una soave eloquenza, parlate con effusione di cuore, e mostratevi zelatore dei buoni principj non che avverso a quello spirito regnante d’incredulità, che in tante guise prostituisce le scienze […] » (704). Sui contenuti Giacomo non poteva accontentare pienamente lo zio, ma la lettera, che avrebbe dovuto favorire la ricerca di un impiego presso la corte romana, è senza dubbio scritta con somma attenzione :
Venendo subito all’oggetto principale della sua gentilissima, le dirò che io ne’ miei studi non ho, già da gran tempo, altra mira, che quella di congiungere colla bella e classica letteratura, la vera e sana filosofia, senza la quale tutti gli altri studi mi paiono poco capaci, non solo di giovare agli uomini, ma anche di dilettarli durevolmente. Attendendo, come ho fatto, alle ricerche filosofiche, e leggendo i libri di quei moderni che portano il nome di filosofi, non ho potuto a meno di non compiangere la orribile incertezza nella quale tanti buoni ingegni moderni sono stati gettati da una malintesa libertà di pensare, e soprattutto l’infelice stato della morale pubblica ai nostri tempi, e quella totale rovina e dissoluzione dalla quale è minacciata al presente la società, per la diffusione di principi incompatibili colla vita sociale degli uomini. Riflettendo sopra gli andamenti dello spirito umano e sopra lo stato del nostro secolo, mi sono intimamente convinto che la pura ragione umana, secondo un bel detto dello stesso Bayle, è uno strumento di distruzione e non di edificazione (713, 3 agosto 1825). 1
Se i tre periodi iniziano tutti “in levare”, con una gerundiva, evidente è poi la ricerca di variatio : nel primo alla gerundiva segue direttamente la principale (« Venendo […] le dirò che […] »), nel secondo la gerundiva si doppia rallentando ancor più il dettato (« Attendendo […] e leggendo […] »), nel terzo invece a doppiarsi non è la gerundiva ma il suo complemento (« Riflettendo sopra […] e sopra »). Si dirà ancora che all’esattezza del giro armonico del primo periodo concorre la doppia coppia di aggettivi che
1 Per il rapporto tra la lettera di Leopardi e quella dello zio Carlo Antici cfr. l’analisi di Blasucci 1965 (2011 : 223-34), che nota la « riproduzione di interi periodi stesi dall’Antici ». Pur portando nel titolo l’indicazione di lettera « insincera » (ma si notino le virgolette), Blasucci conclude il suo intervento confermando lo sforzo fatto da Giacomo « di non contraddire esplicitamente in nessun punto della lettera alle sue vere convinzioni e ai suoi effettivi propositi » (p. 96). Mi pare importante e ben significativo dell’uomo (oltre che dell’epistolografo) questo impegno di coerenza, tanto più se si considera la necessità di scrivere una lettera quasi sotto dettatura, per un impiego in una città e nell’ambito di una corte che aveva già conosciuto e imparato a disprezzare.
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designano « letteratura » e « filosofia » e la struttura chiastica che si determina nell’incrocio tra i concetti relativi all’utile e al dilettevole. Ancora nel secondo periodo andrà notato il poliptoto (« filosofiche […] filosofi ») che chiude le due gerundive (in epifora quindi), e soprattutto il fatto che il rallentamento dovuto alla prolessi delle gerundive (con l’aggiunta dell’inciso) è in qualche modo bilanciato dall’espansione a destra della principale ottenuta mediante la triplicazione del complemento oggetto (« la orribile incertezza […] l’infelice stato […] quella totale rovina e dissoluzione ») ; ulteriore elemento sviluppato in parallelo consiste nell’espressione della causa (« da una malintesa libertà di pensare […] per la diffusione di principi incompatibili ») che sta all’origine del primo e del terzo dei complementi oggetto : ne esce una struttura ampia e ricca ma perfettamente bilanciata nella ricerca di rapporti armonici tra le singole parti. Data implicitamente in questo modo una chiara dimostrazione delle proprie abilità retoriche e linguistiche, nel terzo periodo tutto può orientarsi, più brevemente, verso la citazione o massima di Bayle, che costituisce sul piano argomentativo il ricorso, da manuale, all’auctoritas. In linea con quanto si è già detto sul mutamento diacronico della scrittura epistolare leopardiana, non sarà irrilevante notare che se è possibile riscontrare casi di anticipo della subordinata gerundiva o participiale lungo tutto il carteggio è pur vero che nella seconda parte di esso la loro presenza è non solo minoritaria (lo è sempre stata), ma del tutto occasionale (con una sensibile ripresa tuttavia nell’ultimissima fase). I contesti stessi inoltre ci dicono che il recupero di una certa complessità del periodo è legata a fattori specifici, come ad esempio la caratura dell’interlocutore (nelle lettere a De Sinner e a Bunsen non mancano quasi mai periodi con prolessi), o anche lo stato d’animo dello scrivente, soprattutto nei casi in cui si dimostri turbato da particolari necessità. Sia pure con minor frequenza, o meglio nel contesto di una maggiore variabilità di usi, accade dunque anche nell’epistolario ciò che Tesi (1989-90 [2009 : 24]) ha osservato per OM, e cioè che « spesso nei periodi sintatticamente complessi i capisaldi logici del discorso (posti ben in rilievo dalla punteggiatura analitica) sono intervallati da una serie di subordinate prolettiche o determinative di singoli elementi che tendono a rallentare sensibilmente il ritmo della narrazione ». Ecco un altro caso esemplare (il corsivo è mio) :
I miei genitori i quali vedono ch’io mi consumo e distruggo in questa prigione, e che vivendo sempre sepolto in un paese, dove non è conosciuto neanche il nome delle lettere, se avessi l’ingegno di Dante, e la dottrina di Salomone, non potrei conseguire una menoma parte di quella fama che ottengono i più scioperati e da poco ; sono immutabilmente deliberati di non lasciarmi partire di qua, s’io non trovo provvisione da potermi sostenere a mie spese » (392, a G. Perticari).
Tra soggetto e predicato verbale è interposta una relativa (« i quali vedono ») che regge due oggettive esplicite coordinate (« che io mi consumo » e « e che […] non potrei conseguire […] »), la prima ulteriormente bipartita (« mi consumo e distruggo ») mentre la seconda, che è anche l’apodosi di un periodo ipotetico (« se avessi […] non potrei conseguire […] ») e regge un’altra relativa (« quella fama che ottengono i più scioperati […] »), è a sua volta intervallata da una gerundiva di valore temporale (« vivendo sempre sepolto […] ») con annessa relativa (« in un paese, dove non è co
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nosciuto […] »). 1 Si può inoltre notare come il punto e virgola risulti decisivo per la chiarezza logica del discorso : in assenza di una qualsiasi ripresa argomentativa, il segno interpuntivo si pone come argine ad ogni possibile dispersione del senso, segnalando la compattezza di quella che è in buona sostanza un’espansione del soggetto, o meglio una contestualizzazione per l’io, per ciò che l’io vuole dire, di quel soggetto. Tutto ciò che sta tra quel sintagma nominale e il verbo si regge perfettamente da solo, ed è del tutto ininfluente in merito alla correttezza e compiutezza del senso, che si risolverebbe in sostanza in un periodo ipotetico del primo tipo o della realtà : *« I miei genitori sono immutabilmente deliberati di non lasciarmi partire di qua, s’io non trovo provvisione da potermi sostenere a mie spese ». Altro caso interessante, che rispetto al precedente segna un grado in più di complicazione, è quello in cui il periodo inizia con la prolessi di una gerundiva (più relativa), enuncia il soggetto, ma inserisce tra questo e il predicato verbale una incidentale con funzione di avverbiale di frase, con un disteso effetto di rallentamento :
« Ora, lasciando stare il contraggenio che tutti sogliono avere a queste tali fatiche, i detti frammenti, secondo ch’io penso e fu parimente opinione del sommo Ennio Quirino Visconti, non sono altro che un vero e formale Estratto o Spoglio dell’opera grande di Dionigi […] » (145, a G.B Sonzogno). 2
Se una delle caratteristiche tipiche delle proposizioni incidentali è di soddisfare « quella tendenza all’esattezza delle definizioni » che ha come fine « la chiarezza espositiva », 3 è pur vero che ciò pare anche intimamente legato al modo di procedere del pensiero leopardiano, e insieme, come ricaduta nell’epistolario, alla peculiare e coinvolgente modalità di relazione che Leopardi tende quasi sempre ad instaurare con il suo interlocutore. Sul contributo alla chiarezza del singolo termine come del ragionamento complessivo si vedano almeno questi esempi :
« Ecco le due cose, voglio dire il Ms. e questo paragrafo, sulle quali mi premerebbe assai d’avere pronto riscontro » (50*), In questi giorni passati sono stato molto meglio (di maniera però che chiunque sta bene, cadendo in questo meglio, si terrebbe morto) ma è la solita tregua » (82*), « Ho separate tutte quelle di questo genere, sì mie, che altrui (cioè lettere scrittemi) e postele tutte insieme sul comò della nostra stanza » (241), « Ella dee perdonarmi la libertà del mio scrivere, la quale, come di uomo che vive fuori d’ogni commercio civile, tiene forse del selvaggio » (612), « Il voler dunque fare un’opera regolare e completa sopra questo genere, voglio dire un regolare e completo Cinonio, importa il fare un completo vocabolario italiano » (984), « Sono quasi cinquanta giorni, cioè da’ 27 di Maggio in poi, che abbiamo una serenità, si può dir, continua, cioè non interrotta se non per pochi momenti in alcuni giorni » (1312), « Passati però pochi mesi, il padre, uomo di natura inferma e totalmente passiva, circondato
1 Anche se a rigore da un punto di vista sintattico le oggettive dipendenti da « i quali vedono che […] » sono tre, va sottolineata anche in questo caso la scansione in costrutti bimembri, marcata dalla punteggiatura e dalla ripetizione della congiunzione. 2 Un caso che sembra far convergere le due soluzioni appena viste è quello in cui il soggetto in prima posizione è separato dal verbo prima da una gerundiva causale e poi da una parentetica : « Il conte Mourawieff-Apostol, Senatore dell’Impero Russo, avendo qui fatto tradurre in italiano il suo Viaggio in Tauride (opera annunziata con lode nei giornali esteri, e nell’Antologia, se non erro, di Marzo o Aprile 1830), mi ha raccomandato di trovare a collocare il ms. di questa traduzione presso qualche libraio di Milano » (1605, ad A. F. Stella). 3 Mortara 1956 : 34-35 (qui a proposito delle incidentali nel Convivio di Dante).
sintassi
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ora e dominato da acerbissimi nemici del giovane, il quale colla morte della madre ha perduto ogni suo appoggio, si ostinò a volere che il figlio tornasse […] (1726) ecc.
Sottolineate nella loro autonomia dalla parentesi o individuate solo dal segno di interpunzione, le incidentali possono naturalmente essere di varia natura e diversa ampiezza, dal semplice inciso nominale con valore puramente discorsivo, « Ora io posso ben chiedere il benefizio, ma non meritarlo, nè generalmente parlando, nè (in questa mia condizione) con veruno in particolare » (392),
allo svolgimento di strutture più complesse, « ma poichè non posso morire (che se potessi, vi giuro che non finirei questa lettera, anzi che sarei morto da lungo tempo) io domando misericordia alla natura […] » (392, appena un paio di righe più sotto al precedente),
fino al caso più rilevante in cui è l’intero periodo ad essere ‘vestito’ da incidentale, e la parentesi più che un valore sintattico-prosodico, di modulazione della voce e del pensiero, assume una evidente funzione testuale :
« Cara Pilla. Del fazzoletto tutto ciò che ricordo si è che costò 14 paoli : ma bisogna avvertire che era stragrande, e che lo spenditore fu Paccapelo. (Il qual Paccapelo mi pare di avere incontrato giorni sono per Roma, che mi salutò a nome : è egli a Roma ? o io m’ingannai ?). Il mio raffreddore continua ad andare piuttosto meglio […] » (1725).
Le strutture che spingono verso un periodo più lineare e razionale e quelle che invece lo complicano possono anche ovviamente cooperare, come accade spesso. A prima vista si ha l’impressione di un periodo ampio e prospettico mentre lo sviluppo rimane in realtà in superficie poiché l’accumulazione dei diversi elementi, accompagnata e scandita come sempre da un’attenta punteggiatura analitica, si svolge tutta orizzontalmente :
« Ma perchè, quanto è possibile all’amore, Ella stia coll’animo riposato sul conto mio, le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io m’aspettassi ; e le ripeterò quello ch’io le dissi poco avanti di partire, cioè ch’io sono molto più ostinato che volubile, e molto più disprezzatore che ammiratore : e non ostante la poca pratica fatta nella conversazione degli uomini, pure mi riprometto (e in questa lusinga mi conferma anche una certa esperienza) di scoprire almeno una gran parte degli artifizi che s’adoprano per sedurre, ingannare, schernire e perdere i giovani e ogni sorta d’uomini » (460, mio il corsivo).
Leopardi tiene qui aperto un periodo che sia da un punto di vista sintattico che melodico era compiuto. Il discorso riparte con la coordinata alla principale (« e le ripeterò quello che […] ») con cui si costruisce la seconda parte del ragionamento che ricalca, più brevemente, la struttura comparativa precedente, ma rovesciando la prospettiva, dall’esterno (le qualità di Roma e dei romani) all’interno (le qualità dell’io). Anche in questo caso si giunge ad un punto in cui senso e organizzazione formale e musicale trovano equilibrio e potrebbero trovare chiusura : se ciò non avviene è perché manca la pars construens, ossia manca la formulazione del proposito senza il quale evidentemente le osservazioni fatte in precedenza, speculari l’una all’altra, non avrebbero potuto trovare il collante necessario a reggere l’accostamento. Scandito su tre movimenti l’intero ragionamento trova così – e prima nella mente che sulla penna – la
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sua unità. Nell’ultima parte del periodo si può comunque ancora notare come la proposizione che regge l’intero discorso sia intervallata da una incidentale parentetica, e come ritorni in chiusura la struttura elencativa asindetica e sindetica usata nella prima parte. A questo proposito si può ribadire che si tratta di formule elencative che in realtà confermano la preferenza accordata da Leopardi alle strutture binarie : i singoli membri infatti si dispongono sul piano formale a coppie, anche in base alla presenza o all’assenza della congiunzione (« sciocchezza, insulsaggine », « e nullità, e minore malvagità » ; « sedurre, ingannare, « schernire e perdere »). Ecco invece un esempio in cui all’ampliamento del periodo contribuiscono in modo sostanziale le figure di ripetizione viste in precedenza :
« Non bisogna dar gran fede a Cancellieri, ma io vedo realmente che la cosa non è difficile, so che le incette di letterati italiani ancora durano, conosco i nomi di parecchi letteratucci romani che hanno fatto fortuna o, se non altro, campano bene in quei paesi ; altri ne vedo e ne conosco di persona, i quali sono stati in germania, in inghilterra ec. andati e tornati a spese d’altri, e là sono stati molto ben trattati e pressati a fermarsi ; so che alcuni dei nostri sono stati invitati da Italinski ministro di Russia e da altri simili, a trasferirsi e stabilirsi ne’ loro paesi con emolumenti ec. ; e finalmente vedo cogli occhi miei quanto poco ci vuole per far fortuna con questi Signori forestieri, quanto piccole abilità sono pagate da loro a gran prezzo, quanta stima concedano a ogni piccola dote letteraria che uno sappia mostrare » (504, a Carlo).
In questo caso il periodo si complica interamente a destra della principale, anche se in realtà esso procede per semplice coordinazione e giustapposizione, con il ricorrere di alcuni termini attorno a cui si sviluppano gli snodi fondamentali dell’argomentazione : ma si noti come, nella sequenza delle anafore, la seconda occorrenza di « vedo » si smarchi dalla prima (« vedo […] che la cosa non è difficile ») agganciandosi perfettamente al nuovo filone del discorso : una sorta di variazione nella ripetizione dovuta alla ricerca di armonizzazione musicale del periodo. Possiamo dire o ribadire a questo punto che il periodo di questo carteggio, anche il più esteso, si configura come il risultato dell’ampliamento dei suoi vari costituenti, o insomma come crescita interna ai singoli elementi, poiché in larga parte gli snodi fondamentali procedono sempre per coordinazione o per giustapposizione asindetica. È insomma l’esempio altissimo di un’« arte [che sa] rompere il discorso, senza però slegarlo » (301*, a Giordani). 1
1 Ricordo che Leopardi usa queste parole per indicare la funzione fondamentale della punteggiatura (su cui cfr. qui § 2.1.).
6. Lessico e formazione delle parole 1. Lessico 1. Aulicismi e arcaismi
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’alto tasso di formalità che anche sotto l’aspetto lessicale si riscontra nella prima parte del carteggio andrà imputato certo ad un apprendistato ancora in fase di assorbimento, come dimostrano alcune tangenze con la produzione leopardiana coeva già più volte sottolineate, ma anche al fatto che la comunicazione epistolare rappresenta per Leopardi a quell’altezza l’unico mezzo di contatto con una società letteraria che pare fiorire e splendere appena al di là delle mura sempre più soffocanti del ‘paterno ostello’, e alla quale il giovane conte rivolge tutte le proprie aspettative e ambizioni. In questa primissima fase dunque l’attenta cura formale delle lettere vale anche come biglietto da visita, credenziale del proprio curriculum studiorum. Si tratta di missive non solo accuratamente meditate sul piano della lingua, ma anche in perfetta aderenza alle norme di un genere di lunga codificazione, su cui Leopardi aveva posto fin da subito la sua attenzione. 1 Nell’ambito di queste norme Giacomo sceglie comunque per le sue prime lettere – e non poteva certo essere altrimenti – un’impostazione rigida : la scrittura instaura così una serie di rapporti che non escono da un gioco retorico e linguistico teso all’innalzamento del destinatario e al contemporaneo abbassamento del mittente. Attingendo ad un ricco formulario afferente al topos della captatio benevolentiae, 2 la lettera poggia essenzialmente su elementi costruiti in parallelo, attraverso cui si delinea sulla pagina una sorta di equilibrio degli opposti. Si può illustrare il procedimento con l’apertura di due lettere del 21 febbraio 1817, entrambe accompagnatorie della Traduzione del libro secondo della Eneide : la prima è indirizzata a Giordani,
Al Signor Pietro Giordani - Milano Odiando io fieramente il mezzano in Letteratura (con che non vengo a odiar me stesso che sono infimo) ben sò che appena a due o tre altri potrei rivolgermi in Italia se non mi volgessi a Lei (36*) ;
la seconda a Monti :
Stimatissimo Sig. Cav. se è colpa ad uomo piccolo lo scrivere non provocato a Letterato grande, colpevolissimo sono io perchè a noi si convengono i superlativi delle due qualità (38).
Se la missiva a Giordani gioca anche con la parentesi, come fosse scenograficamente una quinta, e con la variatio (« rivolgermi / mi volgessi »), mentre quella a Monti
1 Rinvio, per questo aspetto, a quanto si è già detto nell’Introduzione. 2 Ma si ricordi, per questo atteggiamento, anche l’attacco di PR : « Se alla difesa delle opinioni de’ nostri padri e de’ nostri avi e di tutti i secoli combattute oggi da molti intorno all’arte dello scrivere e segnatamente alla poetica si fossero levati uomini famosi e grandi, e se agl’ingegni forti e vasti si fosse fatta incontro la forza e la vastità degl’ingegni, e ai pensieri sublimi e profondi, la sublimità e profondità dei pensieri, né ci sarebbe oramai bisogno d’altre discussioni, né quando bene ci fosse stato, avrei però ardito io di farmi avanti » (PP** 347).
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sfrutta il parallelismo, con gradatio (« se è colpa […], colpevolissimo sono io »), va sottolineata la medesima curva intonativa della frase, ascendente e poi discendente, determinata dall’attacco con la subordinata. Certo qui l’io non c’è ancora – e ci vorranno le prime vere lettere a Giordani e quelle ai fratelli in occasione del soggiorno romano perché l’io, il soggetto, irrompa con tutta la sua forza sulla pagina –, ma c’è comunque la straordinaria padronanza dello strumento linguistico da parte del giovanissimo Leopardi, e la sua capacità di sfruttare con perizia alcuni peculiari stilemi del genere. 1 Oltre alle due lettere citate va ricordata tuttavia anche l’accompagnatoria al Mai della medesima Traduzione, che denuncia tra l’altro una certa imprudenza, magari dovuta ad un eccesso di zelo, nel dosare i singoli elementi di uno schema bipolare che viene comunque ribadito :
Stimatissimo Sig.re Sarei pazzo se avendo avuto il passato anno la buona ventura di conoscere i suoi caratteri e la sua cortesia, non istudiassi quanto è a me di prolungarne gli effetti (37*). 2
In tale contesto, le potenzialità della lingua leopardiana incrociano naturalmente quelle del suo tempo, e in particolare la preferenza accordata alle circonlocuzioni, a un linguaggio indiretto, costantemente alla ricerca di dilatare i processi linguistici fuggendo la parola concreta o il termine proprio in vista di un brusìo di sottofondo teso a blandire l’interlocutore ; preferenza che non è solo dello stile epistolare, ma di tutta la scrittura letteraria e della lingua poetica in particolare almeno per la prima parte del secolo. 3 L’alta concentrazione di locuzioni sovrabbondanti o di formule a vario titolo attenuative, nel segno di una cortesia che tende a sfumare l’espressione concreta, rientra dunque nello strumentario prescritto : 4 « sperando però che ella non vorrà prendersi per l’incommodo che le do, maggior briga […] » (14), « ardisco pregar lei d’informarmi se può […] » (16), « Cavo la prima prova dalla fascia che le è piaciuto di mandarmi » (57*), « le lodi che le piace di dare al mio scritto » (57*), « Ella prende piacere d’insistere » (167), « ho preso il partito di scriverle questa assicurata, per certificarmi ch’Ella sia
1 Sulla formularità tipica del genere epistolare, riscontrata in particolare sui carteggi primottocenteschi, si veda l’interessante capitolo sulla « Grammatica epistolare » in Antonelli 2003 : 25-88 (e anche Antonelli 2004 : 27-49). Ma sulla priorità data allo studio della lingua è da rileggere invece l’alta lezione, anche pedagogica, di 356 (a Giordani, del 20 novembre 1820) : « Vengo leggendo e scrivacchiando stentatamente, e gli studi miei non cadono oramai sulle parole ; ma sulle cose. Nè mi pento di aver prima studiato di proposito a parlare, e dopo a pensare, contro quello che gli altri fanno ; tanto che se adesso ho qualche cosa da dire, sappia come va detta, e non l’abbia da mettere in serbo, aspettando ch’io abbia imparato a poterla significare. Oltre che la facoltà della parola aiuta incredibilmente la facoltà del pensiero, e le spiana ed accorcia la strada. Anzi mi sono avveduto per prova, che anche la notizia di più lingue conferisce mirabilmente alla facilità, chiarezza e precisione del concepire. La poesia l’ho quasi dimenticata, perch’io vedo ma non sento più nulla » (sui vantaggi di conoscere più lingue, rinvio naturalmente a Zib 95). 2 La lettera è dello stesso giorno delle due precedenti (21 febbraio 1817) ed ha sostanzialmente il medesimo contenuto, il che ci permette di cogliere l’esercizio di variatio messo in atto dal giovane autore. 3 Su questi aspetti sono da vedere in prima battuta De Lollis 1929, Serianni 1989a, e Coletti 1993 : 24755 (per la lingua di Leopardi), 267-79 (per la lingua di Manzoni e in generale della prosa ottocentesca). 4 Un’ampia rassegna di locuzioni verbali di carattere ridondante presente in OM si trova in Vitale 1992a : 207-11. Per quanto riguarda specificamente il genere epistolare, si rinvia alla manualistica dell’epoca, che suggerisce spesso modi ed espressioni di carattere ridondante con il fine di attenuare ogni impressione di asciuttezza e perentorietà (cfr. Serianni 1989a : 177-80, Antonelli 2003 : 25-35).
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prevenuta di quanto ebbi a significarle, ed abbia nuove proteste della perfetta stima con cui mi dichiaro […] » (247), « Ella nella soavissima sua dei 15 Aprile discende a parlarmi degli studi » (60*) ecc. ; così come l’uso della litote che attraverso la dissimulazione rappresenta in sostanza un altro modo per nascondere o oscurare la presenza (l’assenza) del soggetto : « le osservazioni che ella non ha sdegnato di fare sopra il mio lavoro » (19*), « se le piacerà di non rigettare la mia povera offerta » (36*), « vorrei che non le fosse inutile » (64), « supplicandola a valersi di me senza risparmio dovunque mi giudicasse non inetto a servirla » (779) ecc. Una conferma al fatto che il gusto per l’espressione ridondante, che esaurisce tutte le sue possibilità, rientra tra le movenze tipiche del sistema sta, oltre che negli ampi riscontri tra gli interlocutori, anche nella sua presenza in lettere tutt’altro che formali, come nel seguente esempio in cui la confidenza e l’intimità con l’interlocutore permettono il ‘tu’ e un attacco quasi brusco, privo del vocativo (« Odo che tu sei costì ») : « Ho voluto scriverti queste ciance per soddisfare all’amorevolezza che ti suol condurre a desiderare informazione delle cose mie » (406, a Giordani). 1 In tale contesto, tra le formule tipiche della scrittura epistolare, secondo quanto già evidenziato da Mengaldo 1987 : 224 per Nievo, si trovano costruzioni “di cortesia” con pregio, pregiarsi (« mi fo e mi farò costantemente un pregio e un dovere di dichiararmi » 167, « mi fo un pregio di spedirlene una copia per la posta » 225, « nè mi reputerò mai sciolto dall’obbligo che mi pregio di professare a V.S. Illustrissima » 627, « fin da ora mi pregio e mi pregerò sempre di esserle un amico obbligatissimo e pieno di gratitudine » 788 ecc.) ; 2 e con professarsi (« me le professo particolarmente obbligato » 421*, « me le professo gratissimo della conoscenza che Ella mi ha proccurata » 1085 ecc.) ; oppure l’utilizzo di significare con il valore di ‘riferire, comunicare’ (« Sommo favore mi farà ella se vorrà significare all’illustre Sig. Cav. Akerblad i miei più vivi ringraziamenti » 9, « quando avessi desiderato di prevalermi anche in ciò della sua cortesia, glielo avrei significato in seguito » 288, « Difficilmente le potrei significare quanto mi pesino e mi attristino questi incomodi che sono obbligato a recar loro » 1886) ; 3 o anche di favorire eufemistico per ‘dare gentilmente’ (« Le sarò ancora infinitamente tenuto se vorrà favorirmi i fogli dei giornali stranieri nei quali si parla del Frontone » 32, « ho risposto alla sua leggiadrissima de’ 6 di Settembre favoritami questi giorni passati dal March. Ricci » 342, « l’ultimo fascicolo dell’Antologia ch’Ella mi ha favorito » 612, « ricevo da Vieusseux il vol. 7. del Monti, che tu mi favorisci » 1277), 4 verbo che poi entra anche spesso in formule perifrastiche del tipo : « V.S. mi voglia favorire di farle legare costì » (316), « Le notizie che V.S. ha favorito di comunicarmi » (398), « Ho veduto l’esemplare ch’Ella ha favorito mandare in casa » (445) ecc.
1 La sfumatura potrebbe qui anche essere ironica, ipotesi che non può che confermare la profonda consapevolezza e maturità stilistica dell’autore. Un esempio analogo è quello di 296, nel contesto di un puro sfogo contro il padre intervenuto a sua insaputa per ostacolare la pubblicazione di alcune canzoni (Ad Angelo Mai, e le due rifiutate Nello strazio di una giovane […], e Per una donna inferma […]) : « Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli ». 2 Lettera, la 788 (del 5 dicembre 1825, a Karl Bunsen), dopo la quale questa forma esce quasi del tutto dall’uso. 3 In TB il primo esempio in questa accezione è già di Boccaccio. 4 Entrambe queste ultime due costruzioni, pur rarefacendosi nel tempo, si riscontrano lungo tutto l’epistolario. In TB si ha, tra l’altro, Dare per favore.
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Anche l’uso del verbo umiliare nel senso di ‘presentare una supplica’ – che è modo escluso da GB, giudicato scorretto (con croce di ‘cattivo neologismo’) da RF e chiosato dal Meini in TB come « di troppo smaccata adulazione » – rientra in una logica dell’abbassamento che caratterizza soprattutto la prima parte del carteggio, in cui più rigorosa è l’adesione del giovane conte al formulario richiesto dal genere : « E quando fosse volontà dell’Emin. Sua che questo traslocamento avesse luogo, verrebbe a vacare in Rimini il posto di Cancelliere del Censo, la qual carica è l’oggetto della Supplica che io ebbi l’onore di umiliare per di Lei mezzo all’Em. Sua » (558), « mosso dalle insinuazioni del Sig. Ministro di Prussia, ardii nel passato Marzo di umiliare all’Em. V. per mezzo del Sig. Ab. Capaccini una mia Supplica » (580). 1 Analoga è la situazione sul piano più propriamente lessicale, con la disponibilità di una grande varietà di voci collocabili a una distanza molto ravvicinata su un’ipotetica scala di varietà diafasica : non di aulicismi veri e propri si tratta, caratterizzanti, ma delle spie di una letterarietà diffusa. Seguendo ancora la distinzione di Mengaldo 1987 : 231-34, 2 tra allotropi e sinonimi aulici, darò solo pochi esempi tenendo sempre in considerazione il rapporto tra E ed il resto dell’opera leopardiana : le voci scelte dunque o sono attestate unicamente in E (siglate ‘un. att.’, cioè unica attestazione), o compaiono comunque solo in pochissimi casi nelle altre opere di confronto (in nota le eventuali occorrenze). Anche se alcune delle forme sono diffuse nella lingua ottocentesca, la loro presenza qui può essere utile per dare un’idea di come si distribuiscano all’interno della produzione dell’autore. Ecco allora una prima serie, puramente indicativa, di termini catalogabili tra allotropi (e categorie vicine) di voci comuni e sinonimi letterari :
a bell’agio 49* (« l’aspettazione e il sapere ch’Ella ha scritto a suo – mi accresceranno il piacere »), 60*, 114* ; 3 consecrazione 10 ([un.att.] ; TB : croce d’arcaismo) ; 4 cotale 118* (« dandomi una – apertura d’intelletto ») ; 5 defraudare 11 (« per non -armi di una soddisfazione che mi dispiacque di non aver potuto proccurarmi »), 1106 (-armene), 1934 (-ata), 19* ; 6 eziandio 194, 205* (qui andrà sottolineata soprattutto la povertà di attestazioni in E ; la forma non è presente in
1 Nel primo esempio andrà inoltre notato l’uso del suffisso -mento per il deverbale traslocamento ; mentre nel secondo l’uso di insinuazione, in un’accezione non comune (in questo senso il GDLI chiosa : disus.). Va segnalato anche l’uso di umiliare nel senso di ‘dare’, ‘consegnare’, e anche ‘regalare’, che si trova in una lettera di Paolina : « Quando voi ci parlavate di un opera del Manzoni, noi non sapevamo che diavolo di opera fosse, e se non giungeva lo stesso g[ior]no il Corr. delle dame, noi eravamo disperati. Spero che il sig. Manzoni ve ne avrà umiliata una copia ; non è vero ? » (1145). 2 Naturalmente alle voci sommariamente indicate qui andranno aggiunte quelle sparse negli altri capitoli di questo lavoro. Sulla componente aulica nella stampa milanese di primo Ottocento si veda Bonomi 1990a : 53-94. 3 OM xv 6.25 ; « Ragionamento d’Isocrate » (PP** 1159) ; in poesia cfr. Canto notturno v. 130 (« Dimmi : per4 Cfr. qui 2.1.2. chè giacendo / A bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale »). 5 Per cotal (che è la forma più diffusa) trovo Zib 2731, 2819, 3092, 3133, 3170, 3619, 4163, 4514 ; PR (PP** 372) ; « Sopra l’origine e i progressi dell’Astronomia » (Binni 758.ii) ; SA 1.13, 2.61 (Binni 604.i) ; Su un’orazione di G.G. Pletone (PP** 1140) ; ME (PP** 1053, 1063, 1064, 1065, 1066) ; « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1091, 1130, 1133, 1135) ; « Frammento da Senofonte » (PP** 1154) ; « Martirio dei santi padri » (PP** 1039, 1040) ; OM viii 41, ix 152, xv 3.55 e 4.93, xix 39, 70, 114. « Annot. 1824 » (PP* 186 e 191) ; « Odi Melisso » v. 19 ; « Paralipomeni » iii.9, iv.18, iv.23, vii.39 ; « Appressamento della morte » iii v. 115 ; Nella morte di una donna v. 67. Da segnalare : TB « lo stesso che tale », ma più oltre « Non com. oggidì se non per dispr. », con croce d’arcaismo nel caso in cui vi sia il « sost. postovi appresso » ; RF « più comunemente tale » ; P « spreg. e non com. ». 6 EPA (PP** 638, 689, 859), OM xv 3.99. Non attestato in poesia.
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P) ; 1 fausto 32 (« Augurandomi -i incontri per servirla »), 12* ; 2 fraudare 66* (« e non -i l’aspettazione mia ») ; 3 inchiesta ‘domanda’ 7 (« da’ Lacedemoni, e dagli altri popoli della Grecia, i quali dovendo rispondere in lettera ad alcuna – non iscrivevano talvolta, che la semplice parola “nò” ») ; 4 incom(m)odare ‘scomodare’ 9 (« desidero che ella mi accordi il diritto d’-arla ancora qualche volta »), 10, 27, 698* ecc. ; 5 indarno 216* (« E aspettatala molto tempo – ») ; 6 laonde 60* (« – ho cianciato tanto p[er] mostrarle che io ho p[er] certissimo quello che Ella ha p[er] certissimo ») ; 7 mentovato 27, 28 (« potrà al momento far cominciare la stampa notificandolo al Sig. Ab. Francesco Cancellieri – ») ; 8 novellamente ‘recentemente’ 237* (« una censura domestica istituita – p[er] le lettere che vanno » ; ampiamente attestato in prosa e in poesia) ; novelle ‘notizie’ 356 (« ogni volta che mi mancano le tue -e »), -a 983, 1715 ; paro (a/al) 34* (« degnissimo d’essere conosciuto e letto in Italia l’Alicarnasseo del Mai al paro degli altri Classici »), 174 (« quei rarissimi italiani viventi che dalla posterità saranno messi nella gloria delle lettere a – cogli antichi ») ; 9 picciol 7 (« il mio – Compendio di Logica » ; un.att. per la forma apocopata) ; 10
1 Ben dieci occorrenze si riscontrano nelle « Annot. 1824 ». Nessuna occ. in poesia. Secondo TB « vive nel ling. scritto. Ma gioverebbe serbarlo là dove l’idea di Dio non sia profanata ». 2 TB : « Sottintende dunque, in modo più chiaro che Favorevole, il favore del cielo o di superiore potenza qualsiasi ». Si vedano anche i riscontri in EPA (PP** 679, 694, 696, 697, 823, 829), « Agli italiani per la liberazione del Piceno » (PP** 897). In poesia : « Paralipomeni » viii.38 ; « Eneide libro ii » v. 232 ; « La virtù indiana » (PP* 815, 816, 820, 821, 822, 830) ; « Pompeo in Egitto » (PP* 866) ; -a in All’Italia v. 20. 3 Il sostantivo sarà utilizzato poi nell’Inno ai Patriarchi, v. 101, in Zib 1111 e in P civ 17-18. Si tenga presente Mengaldo 2005a [2006 : 79-114]. 4 In Zib 4087 sia il sost. inchiesta che il verbo inchiestare sono derivati dal francese enquête e s’enquêter « (quasi inquisitare, inchiestare) ». È l’unica altra attestazione oltre a quella di E e a quella presente nella traduzione del ii libro dell’Eneide (v. 397). 5 Come sostantivo o come aggettivo in EPA (PP** 693, 772, 841, 870) ; « Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana » (PP** 431), mentre il participio in SA 4.46 (Binni 693.ii). Non è presente in poesia. 6 Zib 22, 1822, 1856, 2464, 3130, 3270, 3519, 3520, 3776 ; OM xiii 10.34, in un verso tradotto da Simonide ; SA 1.10 (Binni 601.ii). In poesia : Ultimo canto di Saffo v. 59, Il primo amore v. 45, Il sogno vv. 28 e 90, Consalvo v. 96, Al conte Pepoli vv. 29 e 86, Le ricordanze v. 102, Palinodia v. 165, La ginestra v. 307, Da Simonide v. 12 ; « Paralipomeni » 3.13 ; « I Nuovi credenti » v. 93 ecc. Cfr. Bricchi 2000 : 65. 7 Mi pare sia da sottolineare che la congiunzione, dopo aver fatto segnare ben 12 occorrenze (145, 194, 225, 241, 314, 321, 327, 50*, 111*, 279*, 286*), esce di scena alla fine dell’estate del 1820 (l’ultima presenza è nella lettera del 28 agosto). Variamente utilizzata in prosa, soprattutto in quella giovanile non è però presente in P. Per OM si veda Vitale 1992a : 83, mentre per Zib si può dire che la forma resiste più a lungo rispetto al carteggio, se 17 occorrenze, su 47 totali, si collocano tra il 1823 e il 1824 (l’ultima è a p. 4065). 8 Interessante è la notazione a Giordani di 66* : « E non mi fa meno stupore il sentire in bocca de’ contadini e della plebe minuta parole che noi non usiamo nel favellare p[er] fuggire l’affettazione stimandole proprie dei soli Scrittori, come mentovato ingombro recare ragionare ed altre molte ed alcune anche più singolari di cui non mi sovviene ». Si ha qui la testimonianza di una convergenza tra usi locali ed usi letterari che soprattutto in un genere come quello epistolare potrebbe favorire la commistione o il travaso di materiale tra i due settori. Si veda anche Vitale 1992a : 164 n. 26. Mentovato è utilizzato nelle note all’« Inno a Nettuno » (PP* 333) ; -e nella « Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto » (C 675). 9 Zib 759, 1265, 1894, 2572, 3333, 3829, 4045 ; ME (PP** 1056) ; « Della fama di Orazio » (PP** 929) ; PR (PP** 352). In poesia si trova in Alla primavera v. 84 (« Gl’iniqui petti e gli innocenti a paro / In freddo orror dissolve ») e nel « Frammento del Libro di Giobbe » (PP* 600). TB : croce d’arcaismo e rinvio a pari, eguale. 10 Solo tre attestazioni in prosa per la forma apocopata : « Dialogo filosofico sopra un moderno libro […] » (PP** 531), SA i.18 (Binni 608.ii), « Sopra la virtù morale in generale » (Diss 257) ; otto occ. invece in poesia : Lo spavento notturno v. 25, La ginestra vv. 202 e 264, « Odi Melisso » v. 25, Dal greco di Simonide. Dello stesso v. 1, « Paralipomeni » vi.28 e 30, « Epistola di Francesco Petrarca » v. 64. Andrà qui ricordata l’osservazione, riferita a OM, di Della Giovanna 1957, xxv : « Artista della parola e coll’orecchio adusato al verso, studia anche gli effetti dei suoni, ai quali spesso subordina i criteri della lingua ; egli correggendo le sue prose, sostituisce piccolo a picciolo, ma quando segue una parola che comincia in co, lascia l’affettato picciolo e dirà per es. picciolo conto ». La regola non sembra comunque funzionare, in E almeno, per il femminile (piccola cosa 328, 600, 693, 1351, 1395, 182*, 290* ; piccola corsa 765 ; piccola consolazione 1116). Si registra comunque anche « picciolo
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profferire 174 (« Ora se io mi facessi animo di – una sola parola in sua lode, non avrei cosa che mi scusasse »), 60*, 286*, e profferta 396, 168* (variamente attestato lungo tutto il corpus) ; 1 querelarsi ‘lamentarsi’ 181 (« quando la mia piccolezza superi la sua cortesia, non potrà – di me »), 202 (diverse occorrenze nel corpus, ma in particolare il verbo è presente in OM) ; 2 sceverato 675* (« contenere tutto il bello e l’eloquente di Platone, – da quella sua eterna dialettica ») ; 3 sicurtà 69* (« piglio – di dirle », ad Angelo Mai) ; 4 sovvenirsi 66*, 255, 257*, 347, 606 (« l’Italia ha grandissima necessità d’esser sovvenuta e beneficata »), 1555, 1905 (« ma non essendomi sovvenuto per il momento alcun mezzo opportuno ») ; 5 testificare 5 (un. att. ; RF : voce di poco uso) ecc. ; uopo 5 (« per condurli a termine ho d’– di anni » ; variamente attestato in tutto il corpus) ; 6 verbigrazia 474 (« Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, – che il Card. Malvasia b. m. metteva le mani in petto alle Dame ») ; 7 ecc.
Il termine scelto o la perifrasi latineggiante possono anche naturalmente piegarsi a intenti ironici, o ironico-affettuosi, come per aureo (« Non vi posso esprimere la gioia che mi recò il rivedere qui l’–, anzi divino professor Tommasini » 1692), e orbe terracqueo (« Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’– » 407), mentre molto seriamente andrà presa l’elaborata chiusa di 12* : « Io chiamerò compensate le primizie dei miei travagli, e fausti gli esordii della mia letteraria carriera, avendone potuta desumere l’opportunità di umiliarmi al bacio della Sacra Porpora, e segnarmi con profonda venerazione […] » (datata 28 dic. 1815, la lettera accompagna il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ed è indirizzata al cardinale Alessandro Mattei, zio di Marianna Mattei Antici). 8 Si tratta in ogni caso di un materiale che attraversa E, come almeno OM, Zib e P, interagendo in modo diverso a seconda del contesto, ma costituendo ugualmente un terreno comune, un fondo condiviso di letterarietà. La peculiarità di E sta nel
ed umil dono » in cui l’allotropo palatalizzato non è motivato dal contesto fonico ma dal tono affettuoso ed ironico della lettera. Tra i corrispondenti di Leopardi, ad usare picciol/-o, accanto al tipo con palatale, sono soltanto Melchiorri (« picciolissima spesa » 433 ; « picciolo prologo » 438 ; « picciolo compenso » 457 ecc.) e una volta a testa Brighenti (« picciol volume » 1287) e Cancellieri (« picciolo aumento » 157). Savini 2002 : 230-31 sottolinea che il passaggio dalla forma con palatale a quella con velare nel carteggio manzoniano rispecchia le correzioni effettuate dallo scrittore nella Quarantana. 1 Ma in poesia cfr. « Paralipomeni » viii.28 ; « Eneide libro ii » v. 889. 2 Con il senso di ‘accusare, denunciare’ il verbo è presente nelle « Annot. alle Canzoni 1824 » (PP* 201). 3 -are Zib 1920 ; PR (PP** 387) ; « Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai » (PP** 963) ; -andole OM x 160. TB : « Il com. è Separare ». 4 OM xxii 110 ; « Martirio dei santi padri » (PP** 1037, 1041) ; « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1090, 1128) ; CI (PP** 459). In poesia cfr. « Paralipomeni » ii.19 ; « Inno a Nettuno », note (PP* 334). 5 Zib 39, 427, 1186, 1766, 2987, 3154, 3276, 3361, 4150 ; ME (PP** 1049, 1053, 1065) ; « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1086, 1090, 1122) ; PR (PP** 426) ; « Volgarizzamento da Luciano » (PP** 1150). In poesia : sovvengo (« Le rimembranze » v. 85) ; sovvenir (Alla luna v. 13, Le ricordanze v. 57, Per una donna inferma v. 70, Nella morte di una donna v. 84) ; sovvenne (Nella morte di una donna v. 69) ; sovvien (L’infinito v. 11, La vita solitaria v. 43) ; andrà poi ricordato l’attacco di A Silvia del 1831 (« Silvia, sovvienti ancora » poi mutato in « Silvia, rimembri ancora »). 6 « Altri anni ed altro seggio / È d’uopo agli alti ingegni » della versione 1820 di Ad Angelo Mai sarà poi mutato nel testo definitivo in « Altri anni ed altro seggio / Conviene agli alti ingegni ». Altre occ. di uopo in poesia : « Appressamento della morte » iv v. 42 ; « Guerra de’ topi e delle rane » ii.6 ; « Saggio di traduzione dell’Odissea » i v. 342 (PP* 526) e ii v. 54 (PP* 534) ; « Odi di Orazio » i, xviii v. 2 (PP* 710) ; « L’arte poetica di Orazio » 3 v. 7 (PP* 792) ; « La virtù indiana » (At. I vv. 243, 251 ; At. ii v. 396 ; At. iii v. 736) ; « Pompeo in Egitto » (At. ii vv. 383, 568, 623 ; At. iii v. 949). 7 OM iii 44, viii 152, xiv 95 ; Zib 640, 3349, 3957, 3997 ; « Annot. Canzoni 1824 » (PP* 164 e 189) ; « L’arte poetica di Orazio » 10 v. 4 (PP* 793). 8 Cfr. E 2125, 12 n. 1. Interessanti sono anche le osservazioni di Damiani in E2 : 1127.
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fatto che questi elementi non fanno gruppo o sistema, ma dialogano liberamente, almeno da un certo punto in poi, con tutte le altre componenti del lessico e della lingua leopardiani, come poli di attrazione per il linguaggio più informale oppure come elementi di recupero in un contesto neutro, forzando il dettato per un intento di maggiore espressività. Ma vediamo nel dettaglio una selezione di voci più marcate sia sul versante dell’aulicismo sia su quello dell’arcaismo (in cui è stato inserito anche qualche latinismo già non corrente al tempo), 1 tenendo presente che la distinzione tra le due categorie, certo importante, è particolarmente complessa soprattutto per il primo Ottocento, così ricco sul piano lessicale di opzioni che non sempre sono con sicurezza attribuibili all’uno o all’altro scomparto. 2 La scelta in ogni caso è stata fatta tenendo conto non solo del valore in sé del singolo lemma, ma anche dei riscontri nel resto dell’opera leopardiana, in prosa e in poesia. Pur considerando infatti le opportune precisazioni e i distinguo che la critica anche recente ha avanzato in proposito, 3 mi auguro che i riscontri offerti diano almeno l’idea dell’atteggiamento dell’autore nei confronti della materia, se non proprio della singola voce. Molto all’ingrosso si potrà infatti già notare la netta prevalenza per il settore in esame di parole utilizzate soprattutto in varie opere giovanili, sia in prosa che in poesia (e allora sarà la data in cui si colloca la singola lettera che ci dirà se si tratta di un uso ancora vivo nell’autore o se abbiamo a che fare con sopravvivenze e recuperi) ; per i colloquialismi invece, così come per i francesismi, aumenteranno le attestazioni uniche di E, a sancire un tono di maggiore libertà e spigliatezza, mentre ritorneranno ad essere presenti la poesia e la produzione giovanile con i toscanismi. Si può notare ancora come lo Zibaldone segua bene tutte le tipologie ; come le occorrenze che i colloquialismi di E condividono con OM facciano parte in maggioranza di Operette relegate in appendice ; e infine come un testo impegnativo e forse irrisolto come la Storia dell’astronomia riveli tutta la sua importanza di laboratorio (o magari solo di contenitore, magazzino) anche linguistico. 4
1 Latinismo che pare comunque, almeno a me, quasi sempre marcato sul piano diafasico (cfr. anche Antonelli 2001c : 108). 2 In linea generale, non è affatto detto che un aulicismo sia caratterizzato da quel tratto di discontinuità nell’uso che permetterebbe di connotarlo anche come arcaismo, viceversa un arcaismo non ha sempre i tratti del termine letterario. Antonelli 2001c : 106 : « Ma tutto questo può valere per la lingua della prosa letteraria ottocentesca ? A ben guardare, la straordinaria familiarità degli scrittori (e in genere delle persone colte) con la lingua antica e il gusto conservativo dominante fanno sì che – ancora per tutta la prima metà del secolo – il rapporto col passato sia impostato in termini di continuità : nel circuito della lingua letteraria molti “arcaismi” possono vantare una tradizione ininterrotta. Ciò che conta, dunque, è soprattutto il loro valore d’uso […] la percezione sincronica condivisa dalla coscienza linguistica collettiva, ovvero il pendant di quella che si chiama di solito coscienza neologica ». Certo il tutto va fatto reagire con la posizione di Leopardi, che aveva da questo punto di vista le idee piuttosto chiare : si veda ad es. tra l’altro Zib 1098-99, oppure 3866-68, o ancora queste parole di p. 1321 « così dite degli arcaismi i quali non ci offendono punto, né ci producono verun senso di mostruosità in uno scrittore antico, perché sappiamo che allora si usavano ; e ci fanno nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all’antico, che quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più che negli scrittori antichi (14. Luglio 1821) ». 3 Sulla distinzione si tenga presente Bricchi 2000 e ancora la recensione che ne ha tratto Antonelli 2001c. 4 Naturalmente tali considerazioni non fanno che confermare quanto già emerso negli altri capitoli di questo lavoro.
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ABBISOGNARE 19* (« Tutto abbisognerà di emendamento », ad A. Mai), anche come variatio in 435 (« Non ripeterò le cose ch’io vi diceva allora intorno ai vostri studi, perchè m’avvedo benissimo che non avete bisogno d’incitamenti ; e d’ammaestramenti, se n’abbisognaste (che tutti per verità n’abbisognano), non potrei soddisfarvene io », a G. Melchiorri), 788 (a K. Bunsen) ; -a « La Torta » v. 92 (PP* 551), Zib 402, 1557, 1560, 1595, 1636, 1649, 1953, 2901, 4060, -i « Saggio di trad. dell’Odissea » i 172 (PP* 521). 1 GB rimanda a ‘bisognare’ così come RF che pone a lemma le due forme ma dà ess. solo con ‘bis-’ ; TB § 3 : ‘far di bisogno, esser necessario’ (in questo senso men com. di bisognare e far di bisogno).
ACCHIUDERE 62* (« Le acchiudo pure cinque Sonetti in istile Fiorentino », ad A. F. Stella), 19*, 114*, 27, 32, 94 ecc., e ACCHIUSA s.f. 1666 (« Fatemi il piacere di recapitar subito l’acchiusa », ad A. Maestri). Attestato solo in E, dove alterna in posizione però di minoranza con l’allotropo più comune. 2 GDLI : s.f. ess. di Baretti, Monti, Giordani ; GB : « più comunem. Accludere ; P in seconda fascia ; RF : non att. 3
ACCONCIO (IN) ‘venire in –’, ‘venire a proposito’ 136 (« se in questo mezzo ch’Ella farà stampare la sua Collana, m’accaderà di scrivere qualche cosa che venga in acconcio, sarò molto contento di metterla in suo potere », a G.B. Sonzogno) ; Zib 17, 82, 758 ; « Operette Morali d’Isocrate » (PP** 1097, 1134) ; « Rifacimento di un saggio sopra gli EPA » (PP** 886). 4 GDLI : ant. ; GB : « Acconcio (In). Modo avver. del linguaggio scelto » ; per RF « son maniere che hanno del pedantesco » ; per P è arcaico.
ADACQUARE ‘innaffiare, irrigare’ 132 (« Dopo la mietitura vorrebbe il tempo piovoso, ma non s’adacqua nè se le fa intorno altro lavoro che tagliarla », a Giordani) ; un. att. RF : non comune ; anche GB invita ad usare sinonimi ; P : letter.
AGGRADIRE 345 (« voi siete padrone di disporre del mio nome, e porlo in fronte a qualunque cosa vi aggradi », a Brighenti), -ada 659 (a Melchiorri), -evoli 542 (a Monaldo), -ire 545 (a B.G. Niebuhr), 591 (a B.G. Niebuhr) ; -ada Zib 840, « Poesie di Mosco » ii 208, « Saggio di trad. dell’Odissea » i 466, -evole Zib 92, 1251, 4032, -isce « Paralipomeni » iii 34 v.6 ecc. 5 GDLI : disus. RF : « presso che disusato » ; GB rimanda semplicemente a ‘gradire’ ; MorandiCappuccini : « volgare e letterario in tutte le voci » ; per le correzioni manzoniane si veda Boraschi 1899 x, ccliii.
ALLA PIÙ TRISTA locuz. ‘alla meno’ (TB e Crusca iv) 122* (« si dee dire che si sia portato peggio che da pedante, perchè quando un pedante suda sopra un’opera cattiva, o non vede quello
1 Trovo qualche esempio anche tra i corrispondenti : Paolina (771), Giordani (42, 56, 63), Brighenti (385), Vieusseux (607). Il termine si riscontra anche nel carteggio di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 232-33). 2 Per l’alternanza con acclud- si veda qui § 2.2.5. 3 Il vocabolo è del resto tipico della terminologia epistolare, cfr. Antonelli 2001b : 55-57. Tra i corrispondenti è senz’altro più diffusa la forma acclu-sa, -dere, ma usano comunque l’allotropo più scelto Giordani (56, 113), A. F. Stella (43), Pietro Colletta (1385). Interessante la precisazone di TB : « Acchiudere una lettera in altra lettera è d’uso, e par che dica : Chiuderla perché sia data ad altri. Però non sarebbe forse proprio Acchiudere foglio, o altro, non diretto a determinata persona, come direbbesi Includere ». 4 Tra i corrispondenti, trovo solo in A. F. Stella « E qui m’accade in acconcio di parlarle di quella Raccolta di moralisti Greci che volevamo dare » (1022). Cfr. Vitale 1992a : 164. 5 Tra gli interlocutori : Monaldo (815), Carlo (471, 493), Cancellieri (25), Melchiorri (437, 610, 658), Stella (33, 775, 810, 907, 1039 aggradimento, 1133, 1162, 1292, 1563). Per Manzoni cfr. Savini 2002 : 233 ; per Nievo invece Mengaldo 1987 : 234.
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che gli altri vedono, e si persuade che quella che non vale a niente, vaglia a qualche cosa ; o anche, persuaso che non vaglia, si sforza di persuadere agli altri che vaglia ; o alla più trista non confessa quello che è », ad A. Mai) ; « Titanomachia di Esiodo » (PP* 589, ai lettori). GDLI : esempi da Della Casa, Piccolomini, Bartoli, Guerrazzi.
APPARARE ‘preparare’ 948* (« Il tempo ha favorito la festa degli addobbi, […], specialmente la sera, quando tutta una lunga contrada, illuminata a giorno, con lumiere di cristallo e specchi, apparata superbamente, ornata di quadri, piena di centinaia di sedie tutte occupate da persone vestite signorilmente, par trasformata in una vera sala di conversazione », a Monaldo) ; nel « Dialogo filosofico sopra un moderno libro » (PP** 530) e in Zib 3329 e 3332 è usato con il valore altrettanto disusato (GDLI) di ‘imparare’. TB : « nel senso lat., per Apparecchiare » pone la croce d’arcaismo ; P : seconda fascia. GDLI : disus. Cfr. Migliorini 1960 : 563.
APPICCARE 720 (« Mi trovo colle mani nel vischio, e non ne arrivo a spiccar l’una, che non vi resti appiccata l’altra », ad A. Papadopoli) ; Zib 4490, OM v 28, xiv 149, Annot. Canz. i, vi v.14 (PP* 167) ecc. P lo colloca in seconda fascia ; GB ha solo appiccare il fuoco a una casa, appiccarsi il fuoco a una casa ; RF : più comunemente si dice Attaccare e Appiccicare. 1
APPORRE ‘indovinare’ 49* (« Ella ben s’appone che sia stata causa la sua Eccellenza negli studi amati da me », a Giordani) ; -ongano nelle note all’« Inno a Nettuno » (PP* 325), -ormi « Paralipomeni » v 24 v. 7, Zib -one 943, -orsi 3243, -orrebb’ 2783, -orremmo 3240. P : per ‘ci ò indovinato’ chiosa « non pop. ».
ATTRISTARE 158 (« mi attrista fortemente la notizia della continuazione dei suoi dolori », a F. Cancellieri), 345 (a Brighenti), -isti 307 (a Giordani), -istano 365 (a Brighenti), -istino 1886 (a Monaldo) ecc. ; -ista Zib 89, 4278 « Saggio di trad. dell’Odissea » i 456, -arci Zib 102, -are Zib 2366, -arlo Zib 278, -arsene Zib 354, -assero Zib 116, -avano « Discorso sopra Mosco » (PP* 472), -isti Zib 369. 2 GDLI : letter. ; TB : « Dare tristezza, meno di Contristare » ; P : « non com. » ; RF : « più comunem. Rattristare ».
AUGUSTO 12* (« Rispetto l’augusto e sacro carattere che la veste, amo le virtù somme che ne la rendono degna, e professo devota gratitudine alla parzialità con cui le è sempre piaciuto di riguardare mè stesso, e la mia Famiglia ») ; l’aggettivo è utilizzato solo altre due volte in prosa, nel discorso Il trionfo della croce (« l’augusto trionfo », PP** 547), e nell’orazione Agl’Italiani in occasione della liberazione del Piceno (« quel monarca augusto », PP** 900), mentre in poesia i riscontri sono più numerosi : Paralipomeni (« gli augusti frutti » v.1 v. 7, PP* 258), Odi di Orazio (« un tempio augusto » i, 2 v. 20, PP* 695 ; « gli augusti consolari fasci » ii, 11 v. 9, PP* 734), Catone in Affrica (« il Sacerdote augusto » viii v. 71, PP* 762), La virtù indiana (« l’augusto stuol » at. iii, sc. vi v. 678, PP* 836 ; « sacri / Augusti nomi » at. iii, sc. ii vv. 549-50, PP* 831). P : non pop. di cose religiose o regie ; RF : non si dice che di cose appartenenti alla religione o alla persona dei re. 3
1 Nell’epistolario di Manzoni si trova appicco nel senso di ‘appiglio’, cfr. Savini 2002 : 226. 2 Si riduce a ben poca cosa l’oscillazione attristare/rattristare : trovo infatti solo rattrista, per tre volte (296, 313, 1225) ; nel resto del corpus trovo solo rattristano nelle « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1102). Se per Leopardi la forma normale sembra dunque essere attristare, tra i corrispondenti si ha solo rattrist-, tranne in una lettera, struggente, di Pietro Colletta : « Vi dico ciò, non certamente per attristarvi, ma perchè, senza queste mie necessità, conoscer Voi ed abbandonarvi, mi sembrerebbe peccato » (1607). 3 Gli usi leopardiani in effetti rimangono sempre in questi ambiti.
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BRUTTARE 142* (« Potrei ricordarvi le promesse vostre tali e tante, che non le potete man dare a male p[er] qualsivoglia motivo, senza bruttare la vostra fede », a Giordani) ; -an ne « Le notti puniche » iii v. 85, brutti part. pass. in All’Italia v. 114 del 1818 (« intrisi e brutti », poi mutato in « infusi e tinti »). 1 GDLI : prima di quello leopardiano ess. di Dante, Boccaccio, Capellano, Machiavelli, Tasso, Goldoni ; GB : « dello stile elevato ».
CALERE ‘importare’ 110* (« Ma ora nè di Biblioteche nè di dissertazioni nè di furori nè d’altre tali cose non mi cale nè mi può calere nè poco nè punto », a Giordani). Il verbo è qui usato secondo le indicazioni di Fornaciari gramm. 193 : « In prosa si usa soltanto qualche volta càle, per lo più in frase negativa ». Cale è utilizzato anche in Ad Angelo Mai v. 46, Canto notturno di un pastore errante v. 60, « Paralipomeni della Batracomiomachia » vii.16 v. 8 (PP* 287), « Telesilla » (PP* 652, anche caglia 649), Zib 615, 4223, « Lettera in risposta a Mad. di Staël » (PP** 440), « Parere sopra il Salterio ebraico » (PP** 910), « Ragionamento d’Isocrate » (PP** 1161). 2 Cfr. anche P e GDLI (ant. e letter.) i cui ess. sono soprattutto di poesia ; TB : « Rado anco nella lingua scritta ». Per Nievo vedi Mengaldo 1987 : 236.
CAPERE ‘essere contenuto’ 594 (« Solamente bisognerebbe che si potessero diminuire alquanto i margini laterali, perchè altrimenti molti versi non caperebbero in una riga », a Brighenti) ; cape anche in Aspasia v. 52, P lxiv 10, « Paralipomeni » viii.3 v.7, SA (ma nel senso di ‘capire, comprendere’ : « si non te capio, tu me cape », messo in bocca ad Aristotele, cfr. Binni 637.2), Zib 3438 ; -ebbero PR (PP** 397) ; -eva Zib 3459. 3 GDLI, che chiosa il termine ‘ant. latin.’, ha solo l’accezione di ‘prendere, afferrare, fare prigioniero, catturare’ ; TB pone la croce d’arcaismo e segnala solo l’uso del participio ‘catto’ (pigliato) ; P pone il lemma in seconda fascia ; GB : fuor d’uso ; RF : non att.
COMMETTERE ‘affidare’ 16 (« Io avea commessa in Roma la totale collazione di quell’opera », a F. Solari), 155 (« ardisco pregarla che voglia commettere la correzione della stampa a persona diligente », a F. Cancellieri), 164 (« commettendo qualunque oggetto alla posta con qualunque direzione, si commettono intieramente al caso », a F. Cancellieri), 131*, 182*, 194, 220, 304, 439, 557, 734, 797*, 857, 861, 1379 ; Zib -esso 1939, -endola 1142, -erla 557. In poesia : -esso in Ad Angelo Mai, v. 81, « Paralipomeni » vi.14, v. 2. ; -er « Paralipomeni » i.20, v. 2 ; -iamo in Al conte Carlo Pepoli, v. 45. 4 P : letter. ; RF : « non è d’uso assai comune ».
COMPORTABILE ‘tollerabile’ 714 (« Ma questa lettera pessimamente scritta e non comportabile se non da un amico suo pari, desidero che Ella non voglia mostrarla ad alcuno », ad A. Papadopoli), 543 (a Carlo) ; OM i 165-166, xviii 90 ; P i 56 ; Zib 1768, 2172, -i 2127. COMPORTABILMENTE avv. 693 (« e dubito ancora che una tal cosa ai tempi nostri si sapesse fare in Italia comportabilmente », ad A. F. Stella), 1029 (a P. Brighenti). 5 GDLI : ant. e letter. Cfr Bricchi 2000 : 36 e 90.
COMPRENDERE 1834 (« Ranieri mio. tu solo intendi come io resti alla tua de’ 19. Il dolore
1 Monaldo ha imbruttirsene (476). 2 Il congiuntivo in una lettera di Giordani : « se mai fosse mutata la vostra intenzione, e più non vi calesse che io venga da voi […] » (140). 3 In Colletta trovo « piccola mente non cape materie diverse » (1407). 4 Corrispondenti : Carlo (540), Melchiorri (449, 610), Stella (804), Antici (128, 869), Brighenti (213, 291, 317), Cancellieri (184). Per Manzoni cfr. Savini 2002 : 227, per Nievo cfr. Mengaldo 1987 : 236. 5 Tra i corrispondenti : Carlo (540), Giordani (63, 1437, incomportabile 83), P. Colletta (1515). Cfr. anche Vitale 1992a : 166.
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della tua situazione, ch’io capisco e mi rappresento al vivo, mi comprende tutta l’anima ») ; un. att. in questa accezione e in abbinamento con anima. RF : « nel significato primitivo di Prendere, o Prendere insieme con più o men forza, è fuor d’uso, salvo che ne’ tempi composti, e nel senso figurato, come : “A questo spettacolo fu compreso di maraviglia e terrore.” Ma è sempre dello stile elevato » ; in questa accezione P lo colloca in seconda fascia e TB lo giudica « men. com. ». GDLI : con il senso di ‘sopraffare l’animo di dolore’ ha esempi solo di Bono Giamboni, Chiaro Davanzati, Lapo Gianni.
CONTEZZA ‘notizia’ 7 (« ritrovata cammin facendo un opera di Cicerone, di cui non avea per anche contezza », a Paolina), 14 (« La prego dunque istantemente a darmi le notizie che potrà intorno al programma di Freytag, di cui nè il Mai fa parola, nè io ho alcuna contezza », a F. Cancellieri), 201 (ad A.A. Calciati) ; OM xiii 11.6, xv 5.8 ; « Discorso sopra la Batracomiomachia » (PP* 409) ; « Iscrizioni greche triopee. Prefazione » (PP* 537) ; « Operette morali d’Isocrate » i (PP** 1089) e iv (PP** 1121) ; ME (PP** 1062) ; « Discorso in proposito di una orazione greca di G.G. Pletone » (PP** 1141) ; SA (Binni 609.ii e 723.ii) ; EPA (PP** 694, 714, 717, 726, 790) ; « Sopra la virtù morale » (Diss 251 e 255) ; Ad Angelo Mai, annotazioni (PP* 177) ; « Paralipomeni » ii.45 v.2 (PP* 232). 1 GDLI : letter. (in questa accezione) ; TB precisa « Vale cognizione più determinata che Notizia ». Cfr. anche Bricchi 2000 : 37.
DELUDERE ‘eludere, ingannare’ 535 (« ho trovato un’operetta greca […] sono ora occupato a copiarla, nel che debbo superare infinite difficoltà, perchè da una parte mi conviene combattere coll’oscurità del codice, e dall’altra sfuggire o deludere continuamente con vari pretesti la vigilanza del Bibliotecario », a Monaldo) ; in questo senso cfr. Le rimembranze v. 121 (PP* 348), « Pompeo in Egitto » at. 2, sc. i (PP* 389) e sc. iv (PP* 569), ne « La flagellazione » trovo « cercato a morte dai Farisei, ma delusore delle loro insidie » (PP** 556). GDLI : in questa accezione, letter. Cfr. anche Crusca V. Normale per TB ; P : « non pop. », mentre con il significato di ‘beffare’ in seconda fascia.
DICIFERARE 48* (« La sua pregiatissima dei 12 corrente mi presenta un enimma che non so diciferare », a G. Acerbi) ; Zib 341 ; SA (Binni 699.i). GDLI pone a lemma ‘decifrare’ e tra parentesi chiosa ‘ant’ diciferare ; TB rinvia a decifrare ; RF e GB non att.
DISAGGRADIRE 316 (« donandone, se le piacerà, a’ suoi amici, o a chiunque Ella crederà che non sia per disaggradirle », a Brighenti) ; -evole Zib 3365, 4241 ; -evoli SA (Binni 722.ii). GDLI : letter. TB : « pare concerna più il sentimento che il giudizio » (segue un es. dalle lettere del Magalotti).
DISPREGIARE 396 (« Era un tempo ch’io mi fidava della virtù, e dispregiava la fortuna », a G. Perticari) ; -ar « Paralipomeni » i.28 v.6, -ata in Ultimo canto di Saffo v. 25 ; Zib 255, 455, 1083, 2541, 3384, 3545, 3546, 4169, -egio ‘sost.’ 1083, 3107, 3840, 4038, 4499. 2 GDLI : dispregiare ; GB : dell’uso letterario ; RF : è più proprio del nobile linguaggio ; TB : « Disprezzare dice peggio e col suono stesso, e perché Prezzo ha men nobile senso di Pregio ».
DIVERTIRE ‘distrarre, distogliere’ 307 (« m’assicuro che a questi mali non si trovi altro rimedio che un divertimento straordinario dell’animo e del corpo », a Giordani). Anche in OM, e in Operette dallo stile elevato come i 157 (-irli), xv 40 (-ire).
1 Appena due casi tra gli interlocutori : Monaldo (839) e Antici (726). Il termine si trova anche in Manzoni (Savini 2002 : 227) ; si veda pure Vitale 1992a : 166. 2 Il verbo è usato anche, ma una volta sola, da Giordani (1968). Monaldo ha dispregevole (476), mentre Melchiorri dispregiabile (438).
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GDLI : s.v. § 2 ; per P si tratta di un arcaismo. In questo senso non è presente nel romanzo manzoniano. TB : « allontanare l’animo, il pensiero dalle cure, dagli affanni ».
ESQUISITO 60*, in un contesto scherzoso (« tutti hanno che dire sul suo stile che ha troppo dell’esquisito, al che egli risponde modestamente che lo stile del cinquecento è un bello stile », a Giordani) ; trovo esquisito artifizio nella prefazione alla « Titanomachia di Esiodo » (PP* 593). GDLI : ant. e letter. ; GB e RF non att. ; P lo pone in seconda fascia ; TB ha una nota del Tommaseo secondo cui « dove trattisi di cura che cerca il meglio, questo latinismo può nella ling. scritta avere qualche uso ».
ESULTAZIONE 60* (« Vedo con esultazione che Ella nella soavissima sua dei 15 Aprile discende a parlarmi degli studi », a Giordani) ; « Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai » (Binni 957.ii). GDLI : letter., con es. da Belcari, autore che ricorre nella corrispondenza con Giordani di questo periodo. GB rimanda a ‘esultanza’ ; RF : « lo stesso, ma men comune, che Esultanza ».
FERIATO nel significato latino di ‘ozioso’ 1095 (« Sono obbligato a rifiutare tutti gli inviti che mi vengono fatti, e la gran festa fiorentina di domani (giorno di S. G. Battista) sarà per me un giorno feriato », a Monaldo) ; un. att. Nel senso di ‘ozioso, inattivo’ GDLI lo definisce ant. e TB, nella stessa accezione, pone la croce di arcaismo.
GRADO ‘saper –’ vale ‘essere grato’ 38 (« Ed io le ne saprò grado assaissimo », a Monti), 306 (« non so se quelli a cui le ho indirizzate mi saprebbero buon grado s’io le pubblicassi », a Brighenti) ; nella stessa accezione – « possano almeno sapermene grado le ombre sacre di coloro […] » – in SA (Binni 729.ii) . TB : « Saperne mal grado, senza l’art., non sarebbe locuz. morta », ma in casi affini pone la croce d’arcaismo. Bricchi 2000 : 84 segnala che P registra la forma come « fuori dall’uso, sotto la rubrica “riconoscenza” ».
GUSTO ‘andare a –’, vale ‘essere gradito, andare a genio’ 49* (« E quando qualche cosa che a me piace non va a gusto ai pochi ai quali la fo leggere, appello alla sentenza di Lei e dell’amico suo », a Giordani) ; mi va a gusto anche nella prefazione della traduzione al ii libro dell’Eneide (PP* 556), e nel discorso sulla fama di Orazio (PP** 926). GDLI : ‘andare a genio’ ha ess. soprattutto poetici, tra cui Boiardo e Berni ; P in seconda fascia.
IMMALINCONICHIRE 762* (« il bestialissimo freddo di questo paese, che mi ha talmente avvilito da farmi immalinconichire e disperare », a Carlo) ; un. att. 1 GDLI : letter. (riporta, con esempi di Tanara e Siri, anche quello leopardiano).
IMPETRARE ‘ottenere’ 154* (« vi prego di nuovo che scriviate al Monti, avendo fatto ricopiare il libricciuolo e mandatolo a Roma, dove non lo farò pubblicare, se prima non saprò che m’abbiate impetrata la licenza che ho detto », a Giordani), 176 (« Dirò solo che non volendomi arrischiare in nessuna maniera di porre il suo nome in fronte al mio libricciuolo senza sua licenza, scrissi al Giordani acciò con meno fastidio di V.S. me l’impetrasse scrivendole in mia vece », a Monti), 624, 1550 ; -a ME (PP** 1064) ; -ano Zib 4038 ; -ar OM xv 3.38, Zib 474, CI (PP** 451), P xv 7 ; -are Zib 3599, « Martirio dei santi padri » (PP** 1030) ; -ato P c 40 ; -ò « Sopra
1 Qui è interessante il fatto che la lettera è indirizzata a Carlo (oltre che a Paolina e Luigi) ed ha il consueto tono conversevole e affettuoso (ne è testimone il « camminaccio porco » della frase immediatamente successiva).
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l’anima delle bestie » (PP** 510), « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1096) ; Il passero solitario, v. 52. 1 GDLI : letter.
INANIMIRE ‘dar animo’ 49* (« Il suo giudizio m’inanimisce e mi conforta a proseguire », a Giordani) e INANIMARE 193 (« Nondimeno ho pensato un’altra maniera d’inanimarla e rinvigorirla », a C. Arici, per variatio ?) ; Zib non attestato. Altrove sempre il part. pass. inanimat- (per lo più con valore aggettivale), eccetto che in « Paralipomeni » vii.21 v. 1 (PP* 289) in cui si ha inanimito. TB su -ire : « da prescegliere oggidì il più sovente » ; RF ha solo -ire ; P ha -ire « non com. » e -are in seconda fascia ; GDLI : letter.
INDOVINATORIO ‘divinatorio’ 151* (« Questo perchè crediate alla ispirazione indovinatoria, e a quella certezza intima, che per quanto non si possa trasfondere facilmente in altrui, con tutto questo è fortissima », a Giordani) ; un. att. TB : croce d’arcaismo. Non att. in GB e RF. GDLI : ant. e letter.
INUDITO 60* (« Letteratura è vocabolo inudito », a Giordani) ; OM ha solo inaudito (anche nel senso di ‘straordinario’) ix 24, xiii 31, xv 63, xix 121. Per d’inudito fragor si veda in poesia il v. 29 dell’Inno ai Patriarchi, mentre in prosa è usato nel « Discorso su Frontone » (PP** 951) e nell’abbozzo dell’« Inno ai Patriarchi » (PP** 676). GDLI : prima di un es. leopardiano ha solo un’attestazione di Varano ; TB : « meno com. » di ‘inaudito’. E anche gli altri voc. rinviano alla voce oggi corrente.
LOCO ‘luogo’ in senso fig. 60* (il contesto è chiaramente ironico : « Un grand’ingegno si fa largo : v’è chi l’ammira e lo stima, v’è chi l’invidia e vorrebbe deprimerlo, v’è una turba che dà loco e conosce di darlo », a Giordani) ; Zib 2343, 2344, frequente in poesia (13 occorrenze nel testo definitivo dei Canti). 2 TB pone la croce d’arcaismo e lo dice « raro anco nel verso » ; P : lett. poet. ; RF : non att.
LUNGAGNOLA ‘discorso lungo e noioso’ 110* (« aveva arricchito di molte osservazioncelle sopra alcuni particolari dell’opera, cavate dalle postille fatte alla traduzione, e sgomberatala di parecchie inezie e lungagnole », a Giordani) ; un. att. RF : non att. ; GB ha lungagnata ; TB : « meno comune di lungagnata » ; GDLI : ‘lungagnata’, ‘lungaggine’, con vari ess. di commediografi tra cui G.M. Cecchi e G.B. Fagiuoli ; P pone il lemma in seconda fascia ma non in questa accezione.
MENSUALMENTE 991 (« Il titolo è The Panoramic Miscellany, ossia Miscellanea Universale. Si pubblica mensualmente in Londra », ad A. F. Stella) ; un. att., ma mensuale in CI (PP** 478n.) -i SA (Binni 603.2). 3 GDLI : disus., al § 2 l’es. di Leopardi. P : più com. mensilmente ; RF : « lo stesso, ma men comune che mensilmente ».
MERCÈ 98* (« la mia vista, la quale mercè di Dio è forte e buona, ma corta », a Giordani), 205* (« neppur una mercè di Dio se n’è smarrita finora », a Giordani) ; Zib 1993, 2001, « Titanomachia di Esiodo » (PP* 591 ai lettori), « Martirio dei santi padri » (PP** 1033), SA (Binni 601.ii, 683.i, 686.ii), PR (PP** 396, 401), « Sopra le doti dell’anima » (Diss 335), « Ricordi d’infanzia e di adolescenza » (PP** 1192), « Prose varie 1809 » (Edg 36), per il resto è ampiamente attestato in poesia. 4 P : letter ; GDLI : ess. poetici soprattutto. Per Nievo si veda Mengaldo 1987 : 241.
1 Monaldo 821, 892 ; Carlo 727. 2 In senso geografico, trovo lochi in Brighenti 592. 3 Mensuale è utilizzato da P. Colletta (1460) e si trova inoltre nel carteggio di Manzoni (cfr. Savini 2002 : 237). Carlo Antici (1901) ha mensualità. 4 Poche occorrenze per gli interlocutori : Melchiorri (433, 449), Brighenti (259, 1752), Antici (386, 869).
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OBBLIVIONE 9 (« dar qualche prezzo alle mie tenui fatiche, che non poteano attendere se non di esser sepolte nell’obblivione », a F. Cancellieri), 348 (a G. Grassi), 350* (a B. Borghesi) ; Zib non att. mentre in poesia è in Ad Angelo Mai v. 51, Il Sogno v. 21, « Paralipomeni » i.19 v. 8, -on in A un vincitore nel pallone v. 48, La ginestra v. 270, « Appressamento della morte » v 63. 1 Cfr. Migliorini 1960 : 652. GDLI : letter. (disus. con la doppia) ; TB e RF : non att. ; P : lett.
OMAI 7 (« Ma è omai tempo di finirla », a Paolina), 16 (« le bellissime stampe di Milano che omai non cedono in nulla alle Bodoniane », a F. Solari) ; al di là di Zib 42, 1857, 2395, 2469, 4267, va sottolineato il fatto che le altre presenze in prosa di questo avverbio (26 in totale) sono tutte confinate entro il 1815-16 (e la lettera 16, a Filippo Solari, è del giugno 1816) ; non compare dunque né in OM né in P. Nei Canti ritorna 12 volte ed è in genere largamente diffuso in poesia. TB offre una descrizione articolata non meno che suggestiva : « lo stesso che Oramai ; [T.] ma Oramai e Ormai sono nel ling. parl. più com. oggidì. Nello scritto Omai può dire di più. Ma di tempo passato, più pr. l’Omai che non fa sentire l’Ora, nè reca al tempo presente il pensiero » ; GB : « meno com. di Ormai ». RF lo limita alla lingua scritta poiché commenta che « parlando, sarebbe voce affettata » ; P : letter. 2
ONNINAMENTE ‘del tutto’ 145 (« L’altra ragione è che io prima dell’anno futuro, come le scrissi nell’altra mia, non posso onninamente nè pur pensare a nessun altro lavoro eccetto quelli che ho fra le mani », a Sonzogno), 174, 182*, 216*, 227, 445, 961, 1147 ; Zib 949, 1022, 2215, 2656, 2791 ecc. per 28 occ. ; PR (PP** 353, 369) ; CI (PP** 462, 480) ; Dedicatoria a Monti (PP* 156) ; Annot. Canz. 1824 (PP*187). 3 TB : « non è del ling. parl. ; pesante anche nello scritto » ; RF : lett.
PARTITA ‘partenza’ 1503 (« Mio carissimo. Ti scrissi a Firenze prima della tua partita, ti scrissi a Piacenza », a Giordani) ; in questa accezione trovo riscontri solo in poesia : Elegia ii v. 21 ; Per una donna inferma di malattia lunga e mortale v. 150 ; Nella morte di una donna fatta trucidare […] v. 109. GDLI : letter. ; TB : ess. da Dante, Boccaccio, Dino Compagni, Guicciardini, Tasso (Ger. Lib.). P e RF : non att. in questa accezione.
PRECLARISSIMO 22* (« Perciò Ella non ha potuto mandar fuori veruno de’ miei articoli, ma molto più per quello che Ella non dice e debbo dir io, cioè che ambedue erano indegni di venire in luce nella sua preclarissima Biblioteca », a G. Acerbi) ; preclara nella prefazione alle « Inscrizioni greche Triopee » (PP* 536), -aro nel « Saggio di trad. dell’Odissea » i 39 e ii 56 ; Zib non att. GDLI : letter. ; P : « sup. lett. di preclaro » ; GB ‘preclaro’, t. letter.
PRESTAMENTE 1785 (« Studiare, bere, fumare e usar con donne l’hanno prestamente consumato », a Giordani) ; « Paralipomeni » iii.21 v.4, iv.33 v.1, v.13 v.8, vi.9 v.6 ; « Guerra dei topi e delle rane » ii.7 v. 2 ; Zib non att. 4 GDLI : ant. e letter. ; P : lett.
1 Solo A. F. Stella ricorre al termine (65). 2 Una occorrenza a testa per Carlo (1108), Giordani (153), Brighenti (676). 3 La forma compare sporadicamente ma sempre in missive di un certo impegno. L’ultima occorrenza, del 1827, è in una lettera all’ambasciatore di Prussia, ma anche grande filologo e antiquario, Barthold Georg Niebuhr. In Zib invece è largamente presente e in svariati contesti, anche di pura esemplificazione, come a p. 2656 : « Quod quantae fuerit utilitati post videro (onninamente per videbo) ». Tra i corrispondenti la ritrovo in P. Brighenti (278, 425), C. Antici (847, 869), G. Melchiorri (885). 4 Monaldo (547).
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PROFONDARE ‘sprofondare’ 553 (« Bisogna che vi lasciate un poco portare dalla volontà della fortuna, e che sperando, non vi profondiate tanto nella speranza, che non siate pronta a quello che può succedere », a Paolina) ; OM xi 19 ; « Traduzione dal libro II dell’Eneide » v. 749 (« E nel fianco la spada profondogli / insino all’elsa »). GDLI : Ant. e letter. ; P : letter. ; RF : « voce del nobile linguaggio ».
QUERELARSI 181 (« Ella, quando la mia piccolezza superi la sua cortesia, non potrà querelarsi di me, che ho fatto il volere di un suo amico », a M. Angelelli), 202 (a E. Pollastrelli, riprende la stessa formula della lettera precedente) ; OM xv 102, -avano i 64, -ava ix 71, -ndomi xii 194 ; -arti ME (PP** 1060) ; e QUERELE 7 (a Paolina), 392 (a G. Perticari), 659 (a G. Melchiorri), 927 (a L. Mazzanti), 1610 (a de Sinner), 1900 (ad A. Tommasini) ; OM i 291, xiii 58, xv 65 ; p xxxix 74 ; Zib 3729, 4070, 4071, 4241, 4329 ; varie le occorrenze in poesia (cfr. Vitale 1992a : 177). 1 Per il verbo : P : letterario e poetico » ; per il sost. : P : letter., GB : « T. letterario ».
SAPUTA 49* (« le cose mie […] nè so perchè si ristampino con più danno mio, che utile di chi senza mia saputa le ridà fuori », a Giordani), 78* (« il Custode di quella biblioteca giura che scoprirà chi ne l’abbia cavato senza saputa sua », a Giordani), 543 (a Carlo), 931 (a F. Puccinotti) ; « senza mia saputa » nel Dialogo della Natura e di un Islandese (OM xii 208) ; « con saputa sua » nei « Paralipomeni » (vi.18 v. 4). 2 GDLI : ant. ; TB : « senza saputa, omesso l’art. ; e questa è la forma it., no All’insaputa, che ci viene di Francia ».
SCHIFOSO ‘schifiltoso, schivo’ 494 (« Ti saluta Donna Marianna che si fa sempre più schifosa », a Carlo) ; un. att. in questa acc. GDLI : s.v. § 10 disus., in questa accezione ha l’es. leopardiano preceduto da attestazioni di Pescatore, Lemene, Baretti. In questo senso comunque TB ha una croce d’arcaismo. P e RF : non att. in questa accezione.
SFOGAGIONE 1283* (« Spero in Dio che a quest’ora sarete guarito della sfogagione », a Pierfrancesco Leopardi). Un. att. Non att. in TB, GB, e RF. GDLI : ‘eruzione cutanea’, disus., l’unico es. è quello leopardiano.
SORTIRE ‘avere in sorte’ 407 (« Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che se stesso. Eccetto quei pochissimi che sortiscono le facoltà del cuore », a Brighenti), 460 (« mi rallegro di aver sortito un cuore sensibile e pieno d’amore », a Monaldo). Con lo stesso valore anche in OM xiii 12.25 ; per ‘dare in sorte’ si veda invece « Ad altri / Il passar per la terra è oggi sortito », Le ricordanze 150. 3 TB : « non è dell’uso parlato » ; P : letter. ; RF : « trans. Eleggere in sorte ; ma ora si dice più comunemente Sorteggiare ». Cfr. Mengaldo 1987 : 245.
SPREZZARE ‘disprezzare’ 1360 (« Circa alla questione propostami, io credo per verità che il secolo abbia gran torto di sprezzare e trascurare, come fa, la letteratura amena », a M. Missirini) ; -ar in Consalvo v. 64, « Paralipomeni » v.47 v. 3 (PP* 270) ; -ando « Appressamento della morte » i 19 ecc., Zib usato solo al part. pres 1431, 4037. 4 RF : « Lo stesso, ma men comune, che Disprezzare » ; GDLI : ant. e lett.
1 Riscontri solo in Giordani (162, 573, 582). 2 Forma utilizzata sia da Paolina (721), sia da Giordani (63 « contro mia volontà e saputa »). Cfr. anche Vitale 1992a : 170. 3 Vicino all’uso di Giacomo è quello del fratello Carlo in 540 : « la prelatura […] per trovarci qualche compiacenza bisogna assolutamente aver sortito dalla natura una di quelle ambizioni vili, l’espressione di cui, secondo me, ha lasciato la più gran macchia sul carattere di Cesare ». 4 Giordani (208) ha il sostantivo : « Arici è perfetto egoista e sprezzatore ».
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SUPPLICIO 36* (« la lettura di un migliajo di versi cattivi è supplicio intollerabile a un vero letterato », a Giordani) ; -ii OM xxii 145, « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1091). GDLI : pone a lemma ‘supplizio’ e, tra parentesi, chiosa ant. e letter. supplicio ; TB rinvia a ‘supplizio’ ; P : « t. lett. » ; RF : non att.
SVOLGERE ‘distogliere’ 19* (« Veggo bene che io usurpo momenti che dovrebbono esser sacri a tutta la Repubblica delle lettere, svolgendola da occupazioni utili alla universale letteratura », ad A. Mai) ; Zib 3839. 1 GDLI : ant. e letter. ; P : in questa accezione in seconda fascia ; TB per ‘ritrarre, distorre’ ha un solo es. di Petrarca.
TAPINARSI ‘affaticarsi’ 671 (« Ma poichè a Roma non si trova il libro, e conviene tapinarsi per trovarlo, non v’è necessità di prendersi questa pena », a G. Melchiorri) ; un. att. (Zib ha solo il sost. tapino a p. 3343 : « Tapino donde se non da tapeinov~ ? (3. Settembre 1823) »). GDLI : ant. e letter., al § 7 prima dell’es. leopardiano, una sola citazione di Goldoni ; RF « più spesso attapinarsi » ; GB « più com. attapinarsi » ; P : letter.
TARDANZA 26 (« sulla tardanza dei formaggi », ad A. F. Stella), 413 (« nella tardanza della risposta », a Brighenti), 435 (« della tardanza della presente », a G. Melchiorri), e poi 483, 537, 663, 978, 1125, 1610, 1888, 1934 ; Zib 2403. 2 GDLI : ant. e letter. ; P : non com.
TEMA ‘timore’ 36* (« il che è gran tempo che bramo di fare, ma non ho ardito mai ed ora fo con tema », a Giordani) ; Il Sogno 19, « Paralipomeni » 1.10 v. 2, 1.11 v. 3, 1.19 v. 4, 3.20 v. 6, « Inno a Nettuno » 37, 149, « Appressamento della morte » i 30, iv 201, « Saggio di traduzione dell’Odissea » i 354, ii 79, « Traduzione dal libro ii dell’Eneide » 108, 821, Zib 3492, 4038, 4039, 4427. 3 GDLI : ant. e letter. ; P : non pop.
TRALUCERE ‘risplendere, rilucere’ 310 (« Ma io giaccio immobilmente sotto un cumulo di sventure, dove non traluce nessun raggio di speranza », a Giordani) ; -e in La sera del dì di festa 6 ; -ente « Paralipomeni » vi.44 v. 5 ; non att. in prosa.
TRANQUILLARE 1825 (« Vedi più che puoi di tranquillarti, anima mia », a Ranieri), 1946 (« Mi benedica e mi raccomandi al Signore Ella e la Mamma, e se può tranquillarmi circa lo stato di cotesti luoghi, mi dia tanta consolazione », a Monaldo) ; un. att. 4 TB : non com ; P : in seconda fascia ; GDLI : ant. e letter. Il termine è att. anche in GB ; RF : « voce oggi non molto comune, ma preferibilissima a tranquillizzare » ; dello stesso parere (e anche in questo caso forse per reazione ‘antifrancese’) FA : « voce di buon conio ».
VEDUTA (di) ‘di persona’ 366 (« Ma io non ho la buona fortuna di conoscere il Cav. Fabbri di veduta », a G. Roverella) ; Zib 668, 1667. RF non attestato in questa accezione ; TB § 11 : « ora diremmo : Conoscerlo di vista o per vista ». GDLI ‘conoscerlo personalmente’, ess. di Cavalca, Ottimo, Machiavelli. Cfr. Bricchi 2000 : 47.
VENTURA 19* (« già vi vorrebbe molto, perchè le lodi date […] alla sua, per nostra mala ventura, straordinaria dottrina, fossero adulazioni », ad A. Mai), 37* (« Sarei pazzo se avendo avuto
1 Anche in una lettera di Melchiorri (673). 2 Due occorrenze appena, in Giordani (100, 116). Cfr. Mengaldo 1987 : 245, Savini 2002 : 239. 3 Scarse le presenze tra i corrispondenti : Giordani (235), Brighenti (898, 1117). 4 Vieusseux ha « Mi tranquillava per voi la compagnia del buon Gioberti » (1398). Cfr. anche Savini 2002 : 239.
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il passato anno la buona ventura di conoscere i suoi caratteri e la sua cortesia, non istudiassi quanto è a me di prolungarne gli effetti », ad A. Mai), 3, 241, 690 ; Zib 532, 794, 1580, 2529, 3161 ; rea ventura in « Saggio di trad. dell’Odissea » ii 55, mala ventura nella prefazione alla « Traduzione del libro ii dell’Eneide » (PP*556). 1 P : « non pop. », inoltre in seconda fascia è posto « venire in mala ventura ».
2. Colloquialismi A bilanciare il materiale appena esaminato interviene in primo luogo il lessico proprio di un carteggio che è costruito in gran parte su rapporti familiari e di amicizia. 2 Da questo punto di vista l’epistolario ci dice molto sulla costante ricerca di solidarietà umana da parte di Leopardi, sull’urgente necessità di instaurare una rete di rapporti affettivi che in qualche modo permettano di sostenere, con il conforto dell’amicizia se non con l’aiuto concreto, la desolante situazione di una difficile e concretamente precaria esistenza. L’epistolario e lo Zibaldone in tal senso sembrano davvero collocarsi sulle due facce di una stessa medaglia : condividono la medesima sostanza ma non possono guardarsi. La stessa ansia di comprensione di sé e degli altri, e insieme di espressione della propria intimità, è infatti rivolta tutta all’interno nel diario e all’esterno nel carteggio ; due movimenti opposti in sostanza, di concentrazione e distensione, che nascono però dal medesimo pressante bisogno di scarto dalla propria condizione di solitudine, che è esistenziale nel carteggio, fondamentalmente speculativa e metafisica nel diario. Per quanto riguarda l’epistolario, la disponibilità, qualora l’intimità con il corrispondente lo consenta, a coinvolgere nel proprio discorso elementi della realtà concreta, giornaliera, è anche una disponibilità linguistica a lasciar cadere sulla pagina le parole più proprie e domestiche. Ciò è inevitabilmente legato alla mimesi dell’oralità che è tipica del genere, ma deve anche più di qualcosa alla natura fondamentalmente dialogica dell’animo leopardiano, in cui la presenza e forza dell’io chiede e si aspetta di essere bilanciata da un tu all’altezza. In questo senso il lessico non rappresenta che uno degli aspetti (accanto alla sintassi e alla punteggiatura, su cui si veda qui 1.2.4) 3 attraverso cui si concretizza quella specie di salto di varietà sull’asse diamesico che punta ad avvicinare molta parte di queste lettere ad una conversazione in praesentia. Qualcosa che pare restituire la finzione di un dialogo è già evidente ad esempio nel frequente botta e risposta interno, nelle obiezioni, rilievi, appunti che il mittente pone a carico del destinatario e a cui si propone di dare risposta (si vedano in particolare le lettere 60* e 66* a Giordani). E soprattutto nelle domande tipiche di chi immagina vicino a sé l’interlocutore : « Il nostro Giordani che fa ? » (453, a Brighenti), « se io ti voglio più bene ? » (908, a Paolina), « Dei dialoghi che vuoi che ti dica ? » (1082 ad A. Papadopoli), anche incalzanti, in sequenza « Tu come stai ? e che pensi ? » (1023, a F.
1 « Gran ventura » in Giordani (262). 2 Per quanto concerne il concetto di colloquialismo ho tenuto naturalmente conto di Antonelli 2001a : 174-88 e di Savini 2002 : 279-94. 3 Tra sintassi e punteggiatura si colloca ad esempio, in 323 (del 14 agosto 1820, a Brighenti), l’uso del punto fermo da cui si riparte per tre volte con il che di una oggettiva esplicita, creando così una sorta di elenco che permette di mantenere sottinteso il verbo principale.
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Puccinotti), « Tu come stai ? che fai ? che studi ? » (800, a Melchiorri), « Tu come stai di salute ? come sta Babbo e Mamma ? come stanno i fratelli ? Pietruccio che fa ? » (941, a Paolina) ecc. Anche l’uso insistito delle interiezioni intende mimare i tratti prosodici tipici dell’oralità : « Oh ! Costa ? Costa ? già me lo ero immaginato » (334, a Brighenti), « Oh oh quest’è un silenzio troppo lungo, ch’è più d’un mese ch’io non vedo lettere vostre » (229*, in attacco di lettera a Giordani), 1 « Oh no per Dio, V. S. non mi scriva ch’io mi sia raffreddato nell’amicizia verso di Lei » (304, a Brighenti), « Oh gli è pur questo un lungo silenzio, mio caro Brighenti » (413) ecc. ; così come gli incisi colloquiali del tipo : « qualunque libro io commetta, poniamo caso, a Milano, mi conviene aspettarlo […] » (194, a G. Perticari) ; « Oggi abbiamo, come sai, la vigilia del gran S. Giovanni, e domani la festa » (1094, a Brighenti) ecc. Su questa strada, si può far rientrare in un ambito di conversazione privata anche l’attacco con il vocativo posposto di 382 (« Il dispiacere che vi cagiona, carissimo amico mio, la perdita di quella lettera dove mi parlavate delle cose vostre, non è certo maggiore del mio », a Brighenti) in cui, pur nel contesto di una costruzione che spicca tutt’altro che per l’immediatezza, il cambio di posizione del più tipico segnale di avvio vale a mio avviso ad impostare la lettera sul tono di un colloquio immediatamente intimo e affettuoso. Su questa linea si può dire che in genere il registro informale è già dato dall’apertura del turno di battuta, che può anche tralasciare il vocativo usuale, quasi dimenticandosi dell’interlocutore o meglio come proseguendo un dialogo che non si è mai interrotto (« In somma è un pezzo che mi sono avveduto ch’io sono disgraziatissimo in tutto e p[er] tutto, e non c’è cosa che mi prema e non mi vada a rovescio » 154*, a Giordani), 2 oppure può sfruttare sapientemente la sintassi nominale (« Caro Amico. Dopo la mia ultima dei 22 Novembre, altissimo silenzio » 674, a Brighenti). 3 Le ripetizioni ravvicinate poi rappresentano un mezzo per sottolineare l’intonazione colloquiale, anche quando premono sul tasto del patetismo : « Dio solo solo comprende quanto mi costi il darle cagione d’incomodo » (1808, ad Adelaide) ; « Oh Ranieri mio, Ranieri mio, un troppo gran bene, com’è la tua amicizia deve costare straordinarii dolori » (1813, a Ranieri) ; « Non ti dico altro, non ti dico neppure immagina. Chi può immaginare al mondo la qualità di questa settimana di morte ? » (1813, a Ranieri) ; ma si veda ancora la giustapposizione che gioca enfaticamente sul piano morfologico in « V’accerto ancora che quanto alle donne, qui non si fa niente nientissimo più che a Recanati », e più avanti ancora nella stessa lettera ma sostanzialmente per chiudere il medesimo concetto, « quanto al sostanziale (in materia di donne) si fa molto più a Recanati che a Roma […] escluso quello che si fa per puro purissimo denaro » (474, a Carlo) ; « questi è il solo solissimo con cui apro bocca p[er] parlare degli studi » (93*, a Giordani) ; la ripetizione può mantenere lo stesso valore anche nel caso in cui la materia sia di rilievo (« Non dona ella niente niente a quella mens divinior di Orazio ? » (60*, a Giordani) ecc. Il lessico dunque appoggia queste movenze, e addirittura talvolta le rafforza, co
1 Il testo della lettera è una copia fatta da Paolina. Nell’edizione a cura di Brioschi Landi si legge « letter vostre ». Moroncini e ora Damiani concordano nel dare la forma qui a testo. 2 Qui la ricorrente perdita di contatto con l’interlocutore dovuta al mal funzionamento delle poste fa scattare l’insofferenza di Leopardi che sbotta tralasciando qualsiasi segnale di avvio. 3 In questo caso il porgere informale è sostenuto espressivamente dall’impuntatura del superlativo.
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me nel caso del turpiloquio che caratterizza in particolare il carteggio con il fratello amato. Si rileggano queste parole di Carlo in relazione alla lontananza di Giacomo da Recanati :
Sai una cosa ? io sento molto la tua assenza anche in ciò che non posso in tutto il giorno sfogarmi in un linguaggio un poco libero, non ho uno con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i cazzi, i per D. ec. sempre bisogna ritener la parola sulla bocca : non passa adesso giorno che non stia qualche ora con Peppe, si discorre, si disputa, ma dover far il cappuccino anzi la cappuccina per la lingua, che mal di stomaco ! (471).
Certo qui il linguaggio diciamo colorito più che un’accentuazione di espressività, vale come una sorta di recupero di un ‘lessico familiare’. Lo stesso però non può dirsi per la sorella Paolina, la quale a sua volta sottolinea imbarazzata le ‘arditezze’ del fratello maggiore :
Delle lettere che voi gli scrivete [a Carlo] poche me ne fa vedere ; l’ultima è stata quella dove parlavate dei balli, e di quanto vi sono seducenti le donne ec. – che mi piacque molto, benchè fosse un poco libera ; ma mi avete avvezzato a tanta libertà che ormai poco più fastidio mi dà (523) ;
provocando di rimando da parte di Giacomo un moto di ironica autocensura, come in 1609 (« i bravi uomini si distinguono dai c...ni nella circostanza », ma anche 1665 « corro qualche pericolo prossimo di mandarlo a far f. »). In questo caso, nelle lettere cioè rivolte alla sorella, il linguaggio familiare sarà di tenore ben diverso e riguarderà le descrizioni di luoghi, ambienti, amicizie e stili di vita, indulgendo a quegli aneddoti di società che sapeva graditi a Paolina, sempre con un tono ironico ed affettuoso. Ciò permette di sottolineare come la ricchezza umana, la tensione verso l’altro, spingano Leopardi a cercare, oltre agli argomenti, anche i modi più adatti per avvicinarsi al suo interlocutore. In diacronia si assiste ad una sorta di rovesciamento delle parti : se dapprima il termine colloquiale (che può anche essere semplicemente, come anzi tipico, un alterato : libricciuolo, libretto, libercolo, libercoletto, operetta, opericciuola ecc.) compare sulla pagina come elemento estraneo ad un contesto sorvegliato e formale, in un secondo momento sarà la parola di più marcata letterarietà a maculare la pagina rendendosi visibile proprio grazie alla sua singolarità. 1 Nel primo caso il termine rappresenta un modo per avvicinare l’interlocutore, così come per gli inserti latini o per la fraseologia proverbiale (di cui più sotto), 2 mentre successivamente l’espressività sarà cercata proprio attraverso l’inserzione di elementi letterari o comunque marcati che assumono magari una connotazione patetica (così è ad esempio per la citazione petrarchesca – Canzoniere cxxvii v. 61 – in una lettera a Giordani, 3 oppure per il recupero
1 Certo l’interlocutore ha una qualche importanza nel determinarsi di questa dinamica. 2 Cfr. ad es., nel contesto della consueta lamentatio nei confronti di Recanati : « Io non sono certo una gran cosa : ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa : tutto questo non ha fatto mai altro recanatese a recineto condito » (60* a Giordani, corsivo dell’autore). 3 Una citazione che chiude un passo di particolare intensità, con il ricorso anche ad un sintagma (« ara di rifugio ») che non ha altre occorrenze nel corpus leopardiano : « E sappi (o ricòrdati) che fuori della mia famiglia tu sei il solo uomo il cui amore mi sia mai paruto tale da servirmene come di un’ara di rifugio, una colonna dove la stanca mia vita s’appoggia » (1249).
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della forma monottongata core nelle lettere appassionate a Ranieri) 1 o, come anche talvolta, ironica. 2 Prima di esaminare più in dettaglio una serie di voci afferenti al linguaggio colloquiale è opportuna ancora una considerazione che chiama in causa gli interlocutori. Da un lato infatti Leopardi utilizza con una larga parte dei suoi corrispondenti i termini inseriti nella lista che segue, dall’altro invece – e soprattutto in rapporto al settore precedente, degli aulicismi e arcaismi – diminuiscono i referenti che condividono la medesima parola : la cerchia tende anzi a stringersi all’ambito familiare, compreso Giuseppe Melchiorri, con l’aggiunta semmai del solito Giordani e di Brighenti (come si può notare dai riscontri segnalati in nota). 3
ASINO 114* (« un’asino di libraio », a Giordani), 1915 (« assorto nella profonda sapienza di un asino italiano », a de Sinner), mentre in 66* il riferimento è letterario (« tanto ha che far la mia mente con quella intesa e voluta da Orazio quanto la luna co’ granchi e l’asino colla lira », a Giordani) ; si vedano ancora 1062* (a F. Puccinotti) e 1430* (a Ferdinando Maestri) ; nel resto dell’opera leopardiana è usato sempre in senso proprio, ad indicare l’animale, oppure in riferimenti letterari (l’Asino d’oro ecc.). 4
BAGATTELLA 3 (« vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli », a V. Roberti), 136 (« nè pur questa la posso rilasciare in proprietà dovendosi forse collocare in una piccola Raccolta di varie mie bagattelle », a G.B. Sonzogno), 435, 468, 474, 494 ecc. ; -a Zib 176, 2537, OM v 99, « Della fama di Orazio » (PP** 930) ; -e Zib 145, 624, 1393, 1906, 2529, 3191, 3943, CI (Binni 973.i, con la scempia in PP** 457), « Ricordi d’infanzia… » (PP** 1187). 5 Cfr. Antonelli 2001a : 176 ; per Manzoni si veda Savini 2002 : 281.
BALORDO 1689 (« Qui è stata molto applaudita la vostra forte e dignitosa risposta a quei balordi Liguri », a Vieusseux), 111* (« vi chiamiate amicissimo di gente che vi reputa tutt’altro da quello che siete, di maniera che è o balorda o maligna, e non è possibile che voi la stimiate », a Giordani) ; Zib non att., PR ha balordamente sottolineato (PP** 350). 6 Cfr. Antonelli 2001a : 176.
BESTIA 93* (« e certo mi darete della bestia pel capo quando verrete qua », a Giordani), 574 (a G. Melchiorri), 1198 (« quella bestia di Melchiorri », a Monaldo), 1951 (« quella pazza bestia di Tommaseo », a de Sinner) ; da vedere anche gli alterati Bestialissimo 530 (a Carlo), 762* (a Carlo), Bestialmente 537 (a Paolina), Bestialità 855 (a Vieusseux) ; Zib 18, 112 ; poi sempre e solo
1 Allo stesso Ranieri è indirizzata la lettera 1806 che dopo un crescendo di patetismo – « Intanto io t’amo come tu solo puoi intendere, e darei anche i miei occhi per consolarti, se valessero » – si chiude con il ricorso, un po’ straniante, ad una formula latina : « Ti abbraccio come mia unica causa vivendi ». Ma si veda anche l’incipit di un altro biglietto all’amico napoletano : « Credimi, Ranieri mio, che questo nulla ch’io scrivo, è più che il maximum del mio potere » (1844). 2 Così ad es. per il riferimento alle beatitudini in una lettera al fratello Pierfrancesco (« il medico ride ancora della mia opinione che questo malanno mi divenga cronico e perpetuo, come l’altre mie beatitudini » 1539), oppure per l’uso di querele in un attacco di lettera ad Antonietta Tommasini di tono affettuoso (« Mia cara Antonietta. Ricevo da madama Uccelli le vostre gentili querele del mio lungo silenzio » 1900) ecc. 3 I quali certo ne possono avere altre che appartengono al medesimo registro (per una rassegna cfr. Antonelli 2001a : 174-85). 4 Il termine è utilizzato solo da Giordani (92, 99) il quale ha anche asinità (« Io poiché non volli accettare quel bel decreto di asinità », 99). 5 Si trova in F. Cancellieri (394), G. Melchiorri (437), C. Antici (456) e in Paolina (487, 851, 862). 6 Balordo è in G. Melchiorri (572) e Giordani (113) che nella stessa lettera ha anche balordaggine, così come Monaldo (839, 1067).
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come sinonimo di ‘animale’ eccettuati i seguenti casi : OM App. iv 202 ; « Appressamento della morte » iii 223 ; « Sonetti in persona di ser Pecora » iii 6. 1 Cfr. Antonelli 2001a : 177.
CANAGLIA 458 (« Fa leggere questa lettera al Signor Padre, al quale io non so quello che mi scrivessi da Spoleto : perché dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini ec. », a Carlo), 468 (a Monaldo), 845 (a G. Melchiorri), 1223 (a Paolina), 1660 (a Carlo), 1957 (a Monaldo) ; Zib 4514 (in un appunto linguistico). Cfr. Antonelli 2001a : 178. Anche marchigiano, in Nepi 1973.
CAVARE ‘togliere, levare’ 38 (« verrà a -armi di grande ansietà », a Monti), 241 (« vedrò se da lui potrò cavare maggior vantaggio », a Carlo), 296 (« quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col crivello », a Brighenti), 422 (« allora forse mi caverà di questa prigione », a Brighenti) 74*, 78*, 234*, 474, 483, 833, 890, 927, 941, 1106, 1136* ; con il senso di ‘ricavare’ 19* (« se io ne abbia cavato profitto ella ne giudicherà », ad A. Mai), 439 (« non posso precisare il significato di quel passo, perchè, leggendolo così, non se ne cavano i piedi », a G. Melchiorri), 71*, 107*, 168*, 358*, 504, 1025, 1763 ; OM : ii 89, v 27, xx 174 ; Zib 4, 32, 50, 714, 763, 1132, 1133 ecc. ; Annot. 1824 (PP* 183) ; -arle « Iscrizioni greche triopee » prefazione (PP* 536) ; -ata « Paralipomeni » iii.2 v. 6 ; -ate Notizia premessa ai « Canti » 1835 (PP* 154), « Iscrizioni greche triopee » (PP* 540) ; -ati « La ginestra » v. 206 ; -ato Annot. 1824 (PP* 172), « Iscrizioni greche triopee » (PP* 537) ; -avano « Iscrizioni greche triopee » (PP* 543). 2 P : « spesso dal popolo è preferito a Levare ». Cfr. Mengaldo 1987 : 186.
CHIAMARSI + agg., loc. verb. che vale ‘dichiararsi’, 71* (« Vi ripeto però che non ve ne domando scusa, perchè poi anch’io e con più ragione di voi me ne chiamo contento, avendomi data occasione di scrivervi la prima volta », a F. Cassi), 287 (« non potendo con altri, discorro con te di questi miei sentimenti, che p[er] la prima volta non chiamo vani », a Giordani), 515 (« Baciate ancora la mano alla Mamma, e ditegli che il Zio Carlo la saluta tanto, e si chiama confuso del suo biglietto », a Pierfrancesco Leopardi). GB, cfr. Mengaldo 1987 : 159-60.
CINTOLA 60* (« sopporto spesso per molte e molte ore l’orribile supplizio di stare colle mani alla cintola », a Giordani) ; Zib 3998 (per l’etimologia). Cfr. F ‘star con le mani a cintola’ ; ma si veda anche GB (‘tenersi le mani a o alla cintola’) e P.
COGLIONE 296 (« Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente », a Brighenti), 458, 474, 1224, -i 407, 1050 ; Zib 4440, OM App. v.c 70, -eria OM App. iv.a 7. 3 COGLIONESCO 514 (« la natura umana, per coglionesca che sia », a Carlo) ; un. att.
CORNA 474 (« mettergli tre braccia di corna », a Carlo), ma anche SCORNO 1744 (« È impossibile ch’io ti narri tutti gli scorni che ho dovuto soffrire per quel libro », a Melchiorri) ; Zib scorno 2582, non altrimenti attestato in questa accezione nel corpus leopardiano. 4 Cfr. Antonelli 2001a : 178.
FIASCO ‘fare –’ 1715 (« se la pièce fu applaudita a Pisa per testimonianza dell’autore, a Firenze
1 Bestia solo in Giordani (109, 116, 153, 573) che ha anche bestiaccia (1458) e bestiali (105). L’aggettivo, al sing., anche in Brighenti (333, 623), Paolina (523), Carlo (524) e Monaldo (830). 2 Variamente attestato anche tra i corrispondenti. 3 Carlo (462, 471, 507, 546, 548, 753, 1118 coglionerie), Giordani (109, 172). 4 Carlo ha corne (« finchè non mi mette le corne alte, io non devo inalberar le sue » 507), mentre Paolina ha -i (523) e -o (962).
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ultimamente ha fatto fiasco completo », sottolineato nel testo, a de Sinner) ; Zib 4034, 4149 (ma in senso proprio nel contesto di un appunto linguistico « Fiasco-flacon […] »). 1
FICO ‘valere un –’ 299 (« giungere a scriver cose che non vagliono un fico », a Brighenti) ; OM App. ii 19, Zib 22 (‘importare un fico’) ; Zib 192 (‘intendere un fico’) ; Zib 799 (‘conseguire un fico’). Cfr. Antonelli 2001a : 179.
MANCO 98* (« Non mi curo che la stampa sia freschiss.a : già s’intende che manco vorrebbe essere del cinquecento o lì presso », a Giordani), 111* (« per divenire insigne traduttore convenga prima aver composto ed essere bravo scrittore, e che in somma una traduzione perfetta sia opera più tosto da vecchio che da giovane. Sì che vedete che non sono manco ben certo se tradurrò », a Giordani) ; in questa accezione in « Guerra de’ topi e delle rane » (1821-22) iii.13 v.2 ; largamente presente anche in prosa. 2 TB : « Manco per Nemmanco, Nemmeno, modo del popolo » ; ma per P è « lett. e cont. ». È registrato però anche in Spotti 1929.
Locuz. manco male : 60* (« So che la noia può farmi manco male che la fatica », a Giordani), 154* (« manco male che le poste rispettano tutte le vostre, sicchè poco mi dorrebbe che le mie se n’andassero al diavolo », a Giordani), 366* (« manco male se almeno i libri e gli studi nostri ci restassero intatti e sicuri », a G. Roverella) ; Zib 3524. GDLI : avv. ‘meno’ ant. e popol. ; RF : « comune è poi il modo manco male per Meno male » ; GB giudica invece più comune meno male.
MARIOLERIA 1966* (« i padroni di casa hanno il diritto non solo di ritenere il mobile, ma d’impedire il passaporto, protetti dalle leggi in ogni maniera e diffidentissimi per la grandezza della città e per la marioleria universale », a Monaldo) ; un. att.
MICA 432 (« Di Giordani appunto mi dite alcune cose, ma non mi dite mica se gli avete scritto ch’io gli ho scritto, come vi scrissi », a Brighenti), 744 (« sappi che io desidero infinitamente di saperla, non solo mica per affetto, ma proprio anche per curiosità », a Carlo), 114*, 131*, 151*, 154*, 175* ; Zib 41 occ., OM xxi.1 84, xxi.4 252 e 258, xxii 281 ecc. 3 Condannato da FA ma solo come negazione assoluta ; e così per RF si adopra familiarm. come particella riempitiva che aggiunge alla negazione efficacia ». Cfr. anche Mengaldo 1987 : 185.
MINCHIONERIA 510 (« l’ingresso a questa funzione è molto ricercato, come sono qui tutte le minchionerie », a Monaldo, si tratta dei funerali di Canova) ; un. att., ma minchione si trova in Zib 23 e in OM App. vc 95. 4 GDLI segnala la sostituzione con corbellerie nella revisione dei Promessi sposi. E corbelleria è tra i sinonimi di minchioneria nel Vocabolario dell’uso toscano di Fanfani.
MIRACOLO ‘fare i -i’ 154* (« Le due lettere del Canova io le mandai a Bologna e ve ne scrissi p[er] lo stesso ordinario parimente a Bologna : voi riceveste la mia, e nell’ultima vostra di colà mi diceste che quelle del Canova s’erano smarrite : ora poi che vi sono state rendute a Piacenza, fate i miracoli perchè non sono accompagnate da una mia », a Giordani) ; un. att. in questa accezione. RF ha « Quanti miracoli ! Suol dirsi di chi fa atti di maraviglia ad ogni poca cosa, o di chi fa lezj e smancerie per cose da nulla ».
1 Giordani (754), Vieusseux (1707). 2 Carlo (507), Paolina (1090), Giordani (121, 196, 280, 303), Brighenti (305). 3 Paolina (851, 945). 4 Solo Giordani ha minchione (99, 123) e minchionaggine (99).
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PIANELLA 845 (« Molendina dà luogo a una curiosa osservazione. Tu sai che in francese moule vuol dire pantoffola o pianella […]. Cerca nel Forcellini e nei Glossari del Ducange, Charpentier ec. (io qui non ho niente) la voce mola, e forse la troverai usata in senso di pianella o scarpa o simile », a G. Melchiorri) ; un. att. Voce presente nel Voc. Toscano del Fanfani, e in RF e P.
POLTRONE 200* (« io sono un poltrone che perdo mezza giornata in dormire », a Giordani) ; OM App. ii 1 ; -i Zib 4502 (due occ., di cui una in francese : poltron), « L’Arte poetica travestita ed esposta… » xxix v. 8 ; -eria « Discorso sopra Mosco » (PP** 476) ; Zib 44 ha anche poltronescamente. 1
PORCO 514 (« vita -a, della quale vorrebbero a parte anche me », a Carlo), 762 (« fuoco che arde per dispetto in un camminaccio porco », a Carlo), 69* (qui il riferimento è culturale : « se io volessi dar consigli a Lei, farei come la porca a Minerva », ad A. Mai), 60* (« crederebbero che s’intendesse di qualche brava lingua di porco », a Giordani), 110* (« Ho certe opere io nella mia porca bicocaccia », a Giordani), 1062 (« Ogni ora mi par mill’anni di fuggir via da questa porca città », a F. Puccinotti) ; Zib solo in riferimento all’animale, mentre nei « Ricordi d’infanzia e di adolescenza » trovo porca buzzarona. 2 Cfr. Antonelli 2001a : 180.
ROZZO 246 (« Ma conviene ch’egli mi creda ben rozzo, se giudicò che dovesse durare un inganno così grossolano », a S. Broglio d’Ajano), 392 (« E prima di tutto vi chiedo perdono della rozzezza di questo mio scrivere », a G. Perticari) ; Zib rozzo 1811, 2414, 1125, 1138, 1188, 1369, 1417, 1811, 2414 ecc. 3 Cfr. Antonelli 2001a : 180.
SCHIUMA ‘feccia’ 114* (« nè io sarò meno virtuoso nè meno magnanimo (dove ora sia tale) perchè un’asino di libraio non mi voglia stampare un libro, o una schiuma di giornalista parlarne », a Giordani) ; « la schiuma degli scellerati » nelle « Operette morali d’Isocrate » (PP** 1133). TB che pone a lemma schiuma e spuma chiosa : « qui Spuma non avrebbe luogo » ; RF : « dicesi familiarm. ad uomo sciaguratissimo, ribaldissimo » ; la voce è anche del Voc. Toscano di Fanfani. Cfr. GDLI § 6.
SPIANTARE ‘annientare, distruggere’ 154* (« vedrete chiaramente che ciascuna delle mie fa p[er] tre delle vostre, sicchè il mio credito è tale che s’io l’esigessi a rigore vi spianterei », a Giordani), 168* (« E la spesa è stata maggiore a più doppi di quello ch’io mi pensava e che m’aveano detto, in maniera che essendosi fatta delle mie proprie facoltà, […], m’ha spiantato affatto, lasciandomi questi versi inediti », a Giordani) ; Zib -are 953 (nel contesto di un lungo parallelo tra la vita della pianta e quella della lingua), 2705, -a 3470, -ata 953, 995, -andone 1079. Cfr. GB e RF. La voce è anche del Voc. Toscano di Fanfani.
SPIZZICO ‘a –’ vale ‘a stento’ 234 (« Vedete […] se par credibile che l’uno e gli altri abbiano seguìto la stessa forma d’eloquenza. Dico la greca e latina che quei poverelli a forza di sudori e d’affanni trasportavano negli scritti loro così a spizzico e alla stentata ch’era uno sfinimento », a Giordani) ; la stessa locuzione, « a spizzico e alla stentata », anche nell’introduzione alla « Titanomachia di Esiodo » (PP* 591), Zib non att.
STIZZA 1291* (« Mi viene una gran voglia di terminare una volta tanti malanni, e di rendermi immobile un poco più perfettamente ; perchè in verità la stizza mi monta di quando in quan
1 Cfr. G. Melchiorri (649), che ha anche poltroneria (603). 3 Brighenti (322, 619).
2 Paolina (1170).
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do », ad A. Maestri) ; « Guerra de’ topi e delle rane » (1826) iii.9 v.4, « L’Arte poetica… » xviii v.2 ; per il verbo stizzare invece si veda « Sopra due voci italiane » (PP** 982) ; -ita « Guerra de’ topi e delle rane » (1826) ii.25 v. 3 ; -irsi Zib 4419 ; e poi anche -oso « L’Arte poetica » xxi v. 7, « Traduzione ii Eneide » v. 519, « Condanna e viaggio del Redentore… » (PP** 564) ; -osi « Crocifissione e morte di Cristo » (PP** 552) ; -osamente P xlviii 7. Cfr. GB, RF e TB, GDLI : « in senso generico : collera, rabbia, ira ».
STRACCARE 1691 (« Ieri uscii di casa, e fui alla mia favorita piazza del popolo. Mi straccai un poco, e per riposarmi, non esco oggi », a Paolina) ; un. att. P : pop. più com. Stancare.
STRACCO 969 (« Mio caro Antonino, Sono arrivato qui poche ore fa, stracco ma sano », ad A. Cavalli) ; OM ii 2. 1 P : agg. pop., ma si veda pure F. Cfr. Verducci 1994 : 577.
TROMBETTARE 1587 (« Quel forestiero mi ha trombettato in Firenze p[er] tesoro nascosto, p[er] filologo superiore a tutti i filologi francesi (degl’italiani non si parla, ed egli vive a Parigi) ; e così dice di volermi trombettare p[er] tutta l’Europa », a Paolina) ; Zib 4151 in un appunto linguistico (« Prezzolare. Trombettare e strombettare, coi derivati »). P : seconda fascia ; cfr. GDLI § 6. Di provenienza dialettale secondo Verducci 1994 : 577.
Nello stesso scomparto mi pare si possano inserire anche quelle espressioni idiomatiche o squisitamente proverbiali più frequenti nella prima parte del carteggio, ed anzi particolarmente fitte proprio nelle lettere a Giordani, dopo le primissime e ingessate. Così come i termini di carattere colloquiale attenuano la formularità della scrittura, anche questi inserti ammiccano all’interlocutore mostrandogli la disponibilità del mittente ad un dialogo più libero e ravvicinato. Si intrecciano, è il caso di sottolinearlo, tessere di derivazione letteraria di varia estrazione (« Se non vuol fare la morte di Margutte » 60*, « farei come la porca a Minerva » 69* » ecc.) ad altre più neutre o popolari, ma l’effetto va comunque in direzione di un livellamento delle fonti e in favore di una sfumatura ironica del discorso. Qualche esempio :
« balzatami la palla » (58*), « pigliare un granchio (58*, 60*), « come la gemma nel letamaio » (60*), « non ti salti in capo » (60*), « la fretta del dettare mi può bene cavar di bocca molte cose […] » (74*), « facea qualche castello in aria » (85*), « aspetto a braccia aperte » (85*), « mi darete della bestia pel capo » (93*), « se ne sentono alla giornata » (93*), « di muoversi di qua nè anche si sogna » (93*), « ci ho fatto il callo » (93*), « Ma questo è veramente un fare il conto senza l’oste » (107*), « v’ingannate a partito » (107*, anche in Zib 2429), « Poi che abbiate così facilmente creduto il vostro amico o sciocco o vano o scortese, e pigliato ombra p[er] così poco » (111*), « tutti, com’è naturale, mi riprendono, e dicono che bisogna dire il proprio parere, e altre cose belle ; ma predicano ai porri » (111*), « si rassomiglia come uovo ad uovo […] allora ogni vena più scarsa mette acqua che basta » (234*), « li posso accertare che cavano acqua col crivello » (296, GDLI : § 2, locuz., un solo es., di Galileo, prima di quello di Leopardi). 2
In alcuni casi inoltre l’inserto colloquiale o proverbiale può essere ulteriormente caricato e sottolineato da Leopardi per accentuarne l’espressività o la carica ironica, come in 74* (« quando le parlo, vorrei parlarle a quattr’occhi e che non ci fosse sempre la Signoria in mezzo che mi sentisse », a Giordani), 78* (« ma io sono come la montagna di Maometto, che tutto si può muovere eccetto lei, e bisogna venirla a trovare »,
1 Giordani (162).
2 Per altri riscontri si veda Nencioni 2000 : 563-64.
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a Giordani), o anche 71* (« e se fate qualche nuovo viaggio per l’insù di Parnaso, lasciandovi sotto le radici alle quali mi vorreste dar bere, che vi siete impantanato non abbiate a noia di farmelo sapere », a F. Cassi). I primi due esempi, e così la larghissima parte di quelli riuniti in gruppo, si riscontrano come detto in missive indirizzate a Giordani. Poiché al medesimo destinatario, e in particolare ancora nella fase iniziale del rapporto epistolare, sono rivolte la maggior parte delle citazioni latine e greche che si incontrano nel carteggio, può risultare utile, anche se l’ordine e la compattezza della descrizione ne risentirà un po’, raccogliere qui il materiale relativo a questo tipo di inserzioni. 1 Mettendo insieme la generale tensione verso un registro alto, formale, l’utilizzo in funzione ammiccante di colloquialismi e locuzioni idiomatiche e questo ulteriore aspetto di gioco culturale e letterario, ne emerge una straordinaria ricchezza di toni che dice innanzitutto del felice entusiasmo che coglie il giovane conte nei confronti del maestro, con la conseguente ricerca di accumulo sulla pagina di quanti più stimoli possibile nel tentativo di bruciare le tappe di una comunicazione che finalmente Giacomo sentiva poter essere, o essere di già, autentica e totalizzante. La molteplicità delle voci non produce tuttavia un effetto di inselvamento o di eccesso poiché il dettato è sempre strettamente aderente ai motivi, che dalle incursioni di elementi allotri ricevono semmai luce e colore. Gli inserti latini dunque appartengono a due settori distinti, uno di derivazione letteraria, l’altro caratterizzato da tessere più neutre sul piano del rapporto con le fonti, ma dotate comunque di una certa espressività. Una selezione dalle due serie è sistemata qui di seguito (in corsivo solo quando lo è a testo) :
« p[er] un trattato dell’Odio della patria, p[er] la quale se Codro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere », 49* (HOR. Carm. iii, xix, 2) ; « si Pergama dextra », 60* (VERG. Aen., II, 291-92) ; « mens divinior di Orazio », 60* (HOR. Serm., i, iv, 43), e anche in traduzione « divina mente », 66* ; « Di, meliora piis : miglior vita al mio dolcissimo Giordani ! », 78* (VERG. Georg., iii, 513) ; « Nondimeno perchè l’incertezza produce o accresce l’aspettazione, e io temo sempre il Parturient montes, ve lo dirò : è il Frontone », 118* (HOR. Ars, v, 139) ; « Quis desiderio sit pudor aut modus tam cari capitis ? », 137* (HOR. Carm., i, xxiv, 1-2) ; « Sic te servavit Apollo, ma solamente quanto al farlo stampare […] », 154* (HOR. Sat., i, ix, 78 “sic me”) ; « O cara anima, o sola infandos miserata labores di questo sventurato », 268 (VERG. Aen., i, 597) ; « Io credo che nessun uomo al mondo in nessuna congiuntura debba mai disperare il ritorno delle illusioni, perchè queste non sono opera dell’arte o della ragione, ma della natura, la quale expellas furca, tamen usque recurret, Et MALA perrumpet furtim FASTIDIA victrix », 310 (HOR. Epist., i, x, 24-25) ; « E questo paese è tale che si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae, o piuttosto non impavidum anzi tremante, ma immobilem, perchè non avrebbe tanta lena da scostarsi un mezzo passo in modo che quei rottami non gli venissero a dirittura nella testa », 380 (HOR., Carm., iii, iii, 7-8) ; « quod maximum dictu est », 60* ; « a recineto condito », 60* (“dalla fondazione di Recanati”) ; « Sufficit talem amicum habuisse », 85* ; « Quod bonum faustumque sit », 95* (in avvio di lette
1 Qualche citazione è tratta anche dalla letteratura italiana, come in questo passo di una lettera a Ranieri : « Ranieri mio. Pensa, mi dici, che presto dobbiamo riunirci per sempre. Ben sai che questo pensiero è il mio pane quotidiano, E questo solo ancor qui mi mantene » (1831, il corsivo riprende il v. 33 della canzone cclxviii di Petrarca). Se ci fossero dubbi sul senso del passo, si potrebbe aggiungere che nel suo commento al Canzoniere Leopardi chiosa quel qui con in terra.
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ra) ; « Io non so veramente come domine vi sia potuto cascare in testa di mettervi in parata », 111* ; « Del resto l’Acerbi lo raccomandava già al diavolo conceptis verbis nella seconda lettera che gli scrissi », 114* ; « Della salute sic habeto », 118* ; « Mi domandate che leggerò questo inverno : scilicet, libri antichi, perchè i moderni qua non arrivano », 154* ; « ottenere il fine della stampa, cioè farle andare per manus hominum », 159*.
3. Toscanismi e altri regionalismi Si tratta di un settore che può considerarsi affine a quello precedente anche per la penetrazione di molte forme che trovavano riscontro sia in letteratura sia nel linguaggio vivo. 1 La provenienza sarà dunque duplice. Al desiderio espresso da un Leopardi diciannovenne di recarsi a Firenze per approfondire lo studio della lingua, Giordani, classicista illuminato o progressista in fatto di lingua e non solo, 2 ribatteva risoluto che « non ci è paese in tutta Italia dove si scriva peggio che in Toscana e in Firenze ; perchè non ci è paese dove meno si studi la lingua, e si studino i maestri scrittori di essa […] ; ed oltre a ciò non è paese che parli meno italiano di Firenze. Non hanno di buona favella niente fuor che l’accento : i vocaboli, le frasi vi sono molto più barbare che altrove. Perchè ivi non si leggono se non che libri stranieri » (63). Da buon discepolo Leopardi risponde adeguandosi alle opinioni del maestro, ma non senza dichiarare le proprie intenzioni :
Facea conto però d’imparare dagli idioti o più tosto di rendermi famigliare col mezzo loro quella infinità di modi volgari che spessissimo stanno tanto bene nelle scritture, e quella proprietà ed efficacia che la plebe p[er] natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole : pensando a Platone che dice il volgo essere stato ad Alcibiade, e dover essere maestro del buon favellare, e alla donnicciuola Ateniese che alla parlata conobbe Teofrasto p[er] forestiere, e al Varchi che dice come anche al suo tempo p[er] imparare la favella Fiorentina bisognava tratto tratto rimescolarsi colla feccia del popolazzo di Firenze. Ma poichè Ella non crede che gl’idioti Fiorentini mi possano insegnar niente di buono, mi acquieto alla sua sentenza (66*). 3
Leopardi avrà modo di lì a qualche anno di precisare ed arricchire il suo pensiero in alcune splendide pagine dello Zibaldone (1243-1252) in cui, dopo aver dato ampio riconoscimento alla favella toscana di aver saputo ravvivare la lingua letteraria di modi popolari grazie al brio e alla vivacità dell’ingegno dei suoi scrittori, con l’intelligenza di un classicista sensibile alle esigenze di rinnovamento di una lingua in continua evoluzione (in questo dando ragione a Giordani, e anzi andando, da par suo, oltre il maestro) condanna fermamente gli abusi e aggiunge che 1 Sul rapporto tra lessico informale e letteratura comico-giocosa di provenienza toscana cfr. Antonelli 2001a : 174-75. 2 Sulla figura di Giordani si veda l’ormai classico Le idee di Pietro Giordani in Timpanaro 19692 : 41-117, o Il Giordani e la questione della lingua in Timpanaro 1980 : 147-223, ma importanti sono anche Dionisotti 1988 : 79-101, e Serianni 2000 : pp. 239-69. 3 Più sotto nella stessa lettera, dopo un entusiastico elogio della pronuncia recanatese (la quale « non tiene punto né della leziosaggine Toscana né della superbia Romana »), Leopardi aggiunge : « ma quello che mi pare più degno d’osservazione è che la nostra favella comune abbonda di frasi e motti e proverbi pretti toscani sì fattamente che io mi maraviglio di questi modi e idiotismi che ho imparati da fanciullo », anche se poi in chiusura al giovane conte che non è « uscito mai del suo nido » sorge il dubbio « che quello che io credo proprio di Recanati, sia comune a tutta l’Italia o a molte sue parti » (66*).
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la lingua italiana scritta può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca, anzi la stessa attica) ; e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i toscani sulla lingua comune ; se non in quanto non si possano torre da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune. Parimenti soggiungo. Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec. da per tutto, che convenisse all’indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta, che potesse comunicarsi alla nazione, e di toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata. Ha fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo però non s’hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero anche, se così posso dire, oppidani (Zib 1252).
Ai toscanismi già visti nei capitoli relativi alla fonologia e morfologia, si affianca dunque il lessico con una serie di termini che in qualche caso possono anche contribuire ad un’aggiunta di espressività alla lingua dell’epistolario leopardiano :
ABBRUCIARE 483 (« Non ho molto garbo nella galanteria, e di più temo che se volessi usarla con voi, la Mamma non abbruciasse le mie lettere », da Roma a Paolina), 706 (« dovendo girare continuamente nelle ore più abbruciate mi sono strutto e mi struggo ogni giorno in sudore », da Bologna a Monaldo) ; in OM ii 46, ix 178 ecc., xxi 369, Zib 1422, 1461, 3065, 3430, 3432, 3703, 3798, 4218, 4493, « Descrizione di un incendio » 1809 (EDG 21), « Pompeo in Egitto » At.iii, nota ultima (PP* 873). 1 GB : « modo volgare, che serve a rinforzare l’affermazione » ; RF e P rinviano a bruciare, ma F lo accoglie senza giunte.
APPUNTINO 60* (« Così appuntino accade in Recanati e in queste provincie », a Giordani), 66* (« Io sapeva appuntino quanto Ella mi dice dei non idioti Fiorentini e toscani », a Giordani) ; Zib 19, 55, 153, 348, 898, 1845, 1971, « Sull’Eusebio del Mai » (PP** 973), « Dell’errore attribuito a Innocenzo… » (PP** 985), « Memorie del primo amore » (SFA 19, 32). Cruca iv : « Lo stesso che Appunto, ma ha alquanto più d’espressione » ; TB :« dice più che Per l’appunto, quanto alla precisione minuta ; è più fam. e ha usi men varii » ; per Manzoni, GDLI attesta con due ess. la sostituzione del termine nella versione definitiva dei Promessi sposi.
BABBO 481 (« E voi baciate forte i fratelli per me, e la mano a babbo e a Mamma », da Roma a Pierfrancesco Leopardi), 710, 768 ecc. 2 RF : « Padre, ma è voce del linguaggio familiare, o dei bambini, s’intende di quelli del popolo ; ché per quelli de’ signori c’è la voce meno triviale Papà » ; così, anzi con ancor maggior vigore, F. Sull’origine francese di papà cfr FA : « questa voce [mammà] e l’altra Pappà e Papà che abbiamo prese ai Francesi, in iscambio delle amorevoli Babbo e Mamma, ora com’ora pur troppo in tutta Italia, salvo che la Toscana, e nell’Umbria sono sulla bocca de’ signori, e anche in quella di coloro che tali voglion parere ». 3 Egidi 1965 e Ginobili 1965, per la zona dialettale più vicina a Leopardi, registrano babbu.
BAIA ‘burla, scherzo’ 74* (« Son persuaso che in queste baie non istà l’amicizia », a Giordani, sull’uso del voi anziche del lei), 154* (« Confessate dunque formalmente nella prima che mi
1 Cfr. Vitale 1992a : 183. 2 Mi pare interessante notare che Zib ha solo padre (niente papà o babbo), mentre accanto a madre c’è anche mamma. 3 Savini 2002 : 273-74 segnala che babbo è presente solo (tranne in un caso particolare) nelle lettere di Manzoni successive alla quarantana.
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scriverete d’esservi sbagliato nel sospettare ch’io fossi fatto più severo, e tali baie, se no, aspettatevi infallibilmente tre o quattro mie p[er] ogni ordinario », a Giordani) ; -e Zib 4259, OM iii 93, SA (Binni 592.i), EPA (PP** 753), « Lettera in risposta a quella di Mad. de Staël » (PP** 434), « Della fama di Orazio » (PP** 921), PR (PP** 414). Cfr. GB e RF ; P : non pop. (si veda qui sotto bazzecola). Registrato in Puoti Voc. dom. 1
BANDA 14 (« Sopra tutto la scongiuro […], e a lasciare anche da banda l’affare che le ho raccomandato, quando avesse a riuscirle troppo molesto », a Cancellieri), 49* (« Ma ad un cieco è poca cosa dire, Tu esci di strada ; se non se gli aggiunge, Piega a questa banda », a Giordani), 66* (« non p[er] questo mi pare che io anche coltivando la poesia, abbia a lasciare da banda la prosa », a Giordani), 110* (« vedendomi così fuor del mondo letterato, colle mani legate, senza, p[er] così dire, potermi voltare da nessuna banda », a Giordani) ; OM iv 89, xviii 49, Zib 1544, La ginestra v. 228 (« Sorgon dall’altra banda »), Spento il diurno raggio… v. 7 (« Spandeva il suo chiaror per ogni banda ») ecc. 2 RF ha « Lasciare, Porre, Mettere da banda » ma aggiunge che « si adopera assai meno nel comune discorso » ; P pone lasciare da banda nella fascia della lingua fuori dell’uso ; GB : « del linguaggio scelto », mentre F : « è del popolo e degli scrittori ». Cfr. Mengaldo 1987 : 142 che, richiamando Boraschi 1899 : xxxiii, sottolinea anche la censura manzoniana. 3
BAZZECOLA 412 (« rivolto a soggetti molto più gravi che non sono le bazzecole grammaticali a cui lo adatta il Monti », a Giordani), 111* (« Le mie noterelle sui vostri articoli ve le scriverò una volta che la carta sia men piena. Ma sono bazzecole », a Giordani), 182* (« Non mi porto io così, che avendo pubblicata quella bazzecola, ve n’ho scritto più volte e più cose », a Giordani). Anche in OM iii 46, Zib 710. 4 Cfr. F (che però rinvia a bazzicature), GB e RF.
BUFALO ‘vedere un b. nella neve’ 66* (« nella prosa l’affettazione e lo stento si vedono (dirò alla fiorentina) come un bufalo nella neve », a Giordani) ; un. att. Crusca iv : « Dicesi a chi non vede alcuna cosa assai visibile » ; GDLI : locuz. « ‘non vedere un bufalo nella neve’ : non vedere qualcosa di molto appariscente », segue un es. di L. Salviati ; RF : « dicesi proverbialm. » ; TB, che ha bufolo, « dicesi in prov. ». Anche in P.
CHIASSO ‘baldoria, baccano’ 1705 (« egli [il prof. Michele Medici] ama meglio andar dietro ai buoni pranzi che riceve da’ suoi molti amici di chiasso », a Vieusseux) ; Zib 195, OM App. ivb 89 e 243, App. va 2. 5 F : « è di uso comune fra noi », ma nelle giunte del Rigutini trovo « è dell’uso anche appresso i Veneti » ; è censurato da UF.
CIANCIA 193 (« mi perdoni la lunghezza di queste ciance », a Cesare Arici), 406 (« Ho voluto scriverti queste ciance per soddisfare all’amorevolezza che ti suol condurre a desiderare informazione delle cose mie », a Giordani), 1440 (« In fine, queste non sono altro che ciance, ed io di tanti disegni, secondo ogni verisimiglianza, non farò nulla », a Colletta) ; Il pensiero dominante v. 61, OM iii 116, viii 122, xxi 153, Zib 497, 1917 ecc. 6
1 Pur sostituendolo con bazzecola nel corso del romanzo, Manzoni usa baia nel carteggio (cfr. Savini 2 C. Antici (718). 2002 : 227). 3 Il carattere scelto del termine, sottolineato dai repertori dell’epoca, sembrerebbe confermato dal fatto che le occorrenze dell’epistolario sono tutte nella prima parte e tra l’altro affiora (tre casi su quattro) tra le prime e più impegnative lettere a Giordani, anche se il tono piega qui verso l’informale (un informale comunque molto sorvegliato). 4 Cfr. Vitale 1992a : 183. 5 Carlo (540), F. Cancellieri (166). 6 Cfr. Vitale 1991 : 152 e 183. Tra i corrispondenti trovo solo il plurale in Paolina (-ie 556, -e 753), Giordani (-ie 47, 52, 99, -e 700), Brighenti (-e 325, -ie 404), G. Melchiorri (-ie 457).
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CIANCIARE 60* (« Laonde ho cianciato tanto p[er] mostrarle che io ho p[er] certissimo quello che Ella ha p[er] certissimo », a Giordani), 66* (« Quello che io le cianciava nell’ultima mia », a Giordani), 69* (« secondo me Ella savissimamente fa a non darsi pensiero di quello che altri si cianci delle cose sue », a Mai), 175* (« Ma ho detto di voler esser breve, e seguito a cianciare secondo il mio solito », a Giordani) ; -ano EPA xii (PP** 778) ; -are « Operette morali d’Isocrate » ii (PP** 1102), « Ragionamento d’Isocrate a Filippo » (PP** 1161), « Guerra de’ topi e delle rane » (1826) iii.16 v. 1. GDLI : ant. anche con particella pronominale.
CIARLARE 468 (« ciarlano e disputano », a Monaldo), 504 (a Carlo), 543 (a Carlo), 570 (a Melchiorri), 594 (a Brighenti), e CIARLE 327 (a Brighenti), 439 (a Melchiorri), 458 (a Carlo), 543 (a Carlo), 730 (a Paolina), 1082 (a Papadopoli), 1431 (a Monaldo), 1660 (a Carlo), ciarlatanissima 1811 (a de Sinner) ; -are Zib 340, 4183 ; -a Zib 59. 1 Cfr. F ; Arl : « nell’uso comune, si dice per Parole di maldicenza che altri sparge contro alcuno ».
DIASCOLO ‘diavolo’ 110* (« In verità ne’ giorni addietro, vedendomi così fuor del mondo letterato, colle mani legate, senza, p[er] così dire, potermi voltare da nessuna banda, scrivendo lettere inutilmente, interrogando senza risposta, mandando, nè sapendo chi nè se nè quando nè come diascolo riceva, pigliavami una rabbia ch’io n’indiavolava », a Giordani) ; 2 Zib 193. Cfr. F. ; P : fam. ; Voc. Toscano : « lo stesso che diavolo » ; GDLI : ‘tosc. per diavolo’. Verducci 1994 : 571 ne segnala la diffusione anche nel marchigiano.
DIRITTURA ‘a d.’ vale ‘direttamente, senza deviazione’ 57* (« io lo spedii da Recanati a Milano a dirittura », a Giuseppe Acerbi), 697 (« per risparmio di tempo e di spesa, credo che sarà meglio spedirgli a dirittura di qua un esemplare corretto », a Melchiorri), 85* (a Giordani), 132* (a Giordani), 159* (a Giordani), 380* (a Leonardo Trissino) ; Zib 781, 2078, 2261, 2777, 3006 ecc. F : « questo modo avverbiale nell’uso comune si adopera assolutamente, senza contradire minimamente alla volontà », ma meglio le giunte del Rigutini secondo cui è « la linea che dal luogo ove siamo va ad un altro che si accenna ».
DOZZINA ‘stare a d.’ vale ‘stare in affitto ; a pensione’, 1066 (« Io sono qui alla locanda della Pace nel Corso, dove ho combinato una dozzina per un mese », a Monaldo), 1106 (a Paolina), 1539 (a Pierfrancesco Leopardi), 1581* (a Monaldo), 66* (a Giordani), 74* (a Giordani), 798* (a Paolina) ; un. att. 3 Cfr. P : e Novo Voc. Vedi anche Mengaldo 1987 : 254 e F ‘tenere a dozzina’.
GARBARE 182* (« non mi garbava », a Giordani), e GARBO 483 (« Non ho molto garbo nella galanteria », a Paolina) ; « Operette morali d’Isocrate » i (PP** 1087), « Dialogo filosofico » (PP** 530), « Lettera al Giordani sul Frontone » (PP** 962). 4 Cfr. Puoti, Voc. Dom.
GHIOTTO 3 (« Frattanto state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e restateci finche [sic] non torno ghiotti, indiscreti, somari scrocconi dal primo fino all’ultimo », a Volumnia Ro
1 Monaldo (901) ha -ato, mentre per il sostantivo cfr. Monaldo (902), Carlo (548, 846), Paolina (499, 740, 1072). Cfr. anche Savini 2002 : 274-275. 2 Qui forse conta anche la ricerca di variatio, ciò che permette di notare come l’attenzione formale sia sempre vigile, anche quando si tratta di uno sfogo di carattere intimo e personale. 3 Discretamente attestato tra i corrispondenti : Carlo (493), Giordani (63), Melchiorri (1505), Brighenti (676, 1250), Vieusseux (1232), Cancellieri (163), Colletta (1523). 4 Solo Antici ha garbo (1901). Utilizzato anche nelle lettere da Manzoni (cfr. Savini 2002 : 275).
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fabio magro
berti) ; -o « Paralipomeni » vii.21 v.3 ; -a EPA xv (PP** 833), PR (PP** 368) ; -e « L’Arte poetica di Orazio » 52 v. 7 (PP* 805) ; -i EPA xv (PP** 817) ecc. 1 TB, GB e RF abbondano di forme proverbiali toscane. Per l’uso di indiscreti, anche per la sua posizione chiastica all’interno della serie, nel senso di ‘incapace di discernimento’ si veda TB. ; anche marchigiano cfr. Nepi 1973.
GIACCHETTO 1239* (« Fate dire a Montaccini che se vuol darsi pace, non faccia digiunare la donna o il giacchetto o la gatta, ma digiuni egli dopo pasqua per ottanta giorni, che vedrà che gli farà bene », a Pierfrancesco Leopardi) ; un. att. Non att. in GB, RF, TB e P. Ma Puoti Voc. Dom. : « giovane servitore, che sovente i signori, cavalcando, si menano dietro pure a cavallo ». GDLI : region., dopo aver dato i due esempi di Puoti e di Leopardi, indica l’etimo « dal fr. Jaquet, nel senso di ‘servitorello’ dimin. di Jacques ‘Giacomo’, il nome con cui si indicavano i contadini ». 2
INCOCCIARE ‘intestardirsi, ostinarsi’ 110* (« Ma lo Stella che pure ha p[er] costume di rispondermi, questa volta s’è incocciato di non fiatare », a Giordani) ; un. att. GDLI : Tosc. ; F : « Pigliare i cocci, Aversi a male qualche cosa » ; RF : « voce del linguaggio familiare ».
MATERASSA 1846 (« Le materasse ben ribattute ti aspettano già da più mesi in tua camera », a Ranieri da Firenze) ; un. att. Solo femm. in GB e RF. TB : « più com. in Fir. il femm. » ; FA su materazzo : « chi dicesse fra noi Materazzo la Materassa, si farebbe tosto conoscere per non toscano, né scrivendo si userebbe certo tal voce da nessuno ». GDLI : ant. e region.
MENARE 242 (« la miserabilissima vita ch’io menava », a Monaldo), 296 (« mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano », a Brighenti), 299 (« fuori di qui non s’ha idea della vita che vi si mena », a Brighenti), e 114*, 246*, 260*, 407, 1726, 1810. Voce anche di tradizione, e impiegata da Leopardi anche in poesia (Le Rimembranze v. 132 ; A Silvia v. 14) ; per OM si veda i 279, vii 108, xi 83 e 147, xv 51 ; Zib 298, 1286, 1299, 1300, 1422, 1502, 1630, 4044, 4055, 4075, 4198, 4473, 4518 ; EPA v (PP** 680) ecc. 3 Per GB è famili