Il messaggio sociale del cristianesimo
 8831124242, 9788831124249

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«In questa opera Giordani dimostra come le norme evangeliche sia­ no state via via applicate alla vita sociale, e le conseguenze che da queste applicazioni derivarono. Espertissimo conoscitore della letteratura cristiana delle origini, la valorizza per trarne le conclusioni necessarie al caso specifico, e si giova delle copiose pubblicazioni moderne al riguardo. Ma un lavoro così organico ed esteso a tutti gli istituti e forme dell'attività·spciale, prima di lui non era stato compiuto. Egli getta così le basi per la costruzione di quella scienza di cui og­ gi si sente acuto bisogno: il sociologo del cristianesimo che ancora ha da venire, dovrà fermarsi dinanzi a questo libro di Giordani· e considerarlo in tutte le sue parti. Il materiale ch'egli ha raccolto con molta oculatezza è sceltissimo, le conclusioni cui giunge sono chia­ re, precise, corroborate abbondantemente da riferimenti storici.

È

un lavoro di interesse attuale e di aggior­

nar.memto sl!l ql!.lestioni liTilodemissimej che mette in r.ilievo la sensiiDilità d:li 6iordami d:li' fronte alla situazione mondiale moderna».

Ennio Francia

ISBN 88-311-2424-2

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788831 124249 € 34,00 i.i. L. 65.833

Igino Giordani

IL MESSAGGIO SOCIALE DEL CRISTIANESIMO Prefazione alla IX edizione di Tommaso Sorgi

o

Città Nuova

il testo della VIII edizione 1963 pubblicato da Città Nuova Editrice

D pre sente volume riproduce

IX edizione, novembre 2001

Grafica di copertina di Rossana Quarta © 1960, Città Nuova Editrice via degli Scipioni 265- 00192 Roma tel. 063216212 -e-mail: [email protected]

ISBN 88-311-2424-2 Finito di stampare nel mese di dicembre 2001 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma- tel. 066530467 e-mail: segr. [email protected]

PREFAZIONE ALLA IX EDIZIONE

Igino Giordani aveva programmato una Storia soa'ale del cristianesi­ mo in nove volum�· ma per vicende editoriali e di vita, si fermò ai primi quattro, con un titolo diverso - Messaggio sociale - che meglio ne esprime il contenuto. Bisogna però tener presente l'intento origt'nario, per compren­ dere che anche di storia si tratta, e non di sola esposizione teorica della dot­ trina. L:Autore analizza infatti l'annuncio di Gesù e della Chiesa e la vita che ne consegue, come civiltà che nasce e si confronta con la cultura e con le realtà soda/i del popolo ebraico e del mondo greco-romano nei primi cinque secoli dell'era cristiana. I:analt"si è condotta con criteri che si direbbero dettati dal concetto odierno di soaologia, e passa in rassegna i costumi e le istituzioni che il cri­ stianesimo incontra e con cui interagisce: famiglia, lavoro, uso dei ben� leg­ gi e istituzioni politiche, istituzioni religiose, educazione, assistenza soda/e e sanitaria, arte e spettacolt� classi sociali. Si esamina l'uomo come ((sogget­ to sociale" con la sua coscienza dvile e nel suo partecipare alla comunità ec­ clesiale. Vengono trattati problemi quali il rapporto tra libertà e autorità e tra la Chiesa e lo Stato, la guerra e la pace, la solidarietà universale. L'Au­ tore sviluppa così una tematica per alcuni aspetti ancora oggi alla ricerca di soluzzoni razionali. I:Editore ha pensato perciò di far cosa utile e gradita all'uomo e alla società del Terzo Millennio riportando all'attenzione di chiunque questo la­ voro, che viene considerato l'opus magnum di Igino Giordani. Al suo ap­ parire come primo volume incontrò ampio gradimento, fu tradotto in varie lingue, dall'Argentina al Giappone, e fu anche testo di studio presso l'Uni­ versità Cattolica di Washington. I.:opera consta di quattro libri, corrispondenti ad altrettanti volumi editi separatamente con questo ritmo: TI messaggio sociale di Gesù, 1935, degli Apostoli, 1938, dei primi Padri della Chiesa, 1939, dei Grandi Pa­ dri della Chiesa, 1947. Si è ritenuto opportuno reinserire la Introduzione del 19 35, che nel­ l'edizione de/1960 era stata omessa. Sono state apportat' e anche alcune mo-

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Il messaggio sociale del cristianesimo

di/iche e aggiunte che l'Autore aveva indicato di suo pugno sulle pagine di una copia conservata nell'archivio personale. Nell'opera manca la ricchissima bibliografia presente in ciascuno dei quattro volumi distint� per un totale di 34 pagine (formato grande); avreb­ be costituito un appesantimento forse qui inutile, mentre si trova nelle bi­ blioteche, a disposizione di studiosi e specialisti. Per loro e per ogni lettore appassionato rimangono, comunque,. nel volume unificato a piè di pagina riferimenti bibliografici puntuali e abbondanti. TOMMASO SORGI

INTRODUZIO.NE

«Vedesti il/rate/lo} vedesti il Signore». dai Logia Iesu

LA QUESTIONE SOCIALE E

IL

CRI STIANESIMO

C'è un cristianesimo sociale? E se c'è, può legittimarsi col Vangelo? La domanda è stata posta più volte negli ultimi tempi. L'insorgere della «questione sociale», portata dai rivolgimenti indu­ striali dell'Inghilterra e quindi degli altri paesi nella seconda metà del se­ colo diciottesimo, dopo le applicazioni delle dottrine materialistiche del­ la scuola liberale e del socialismo, ridiscoprendo la necessità di porre alla base anche dei fatti economici un principio morale teologico, ha messo in gioco, come non mai per l'innanzi, il Vangelo sotto l'aspetto sociale. ll Medioevo aveva minutamente applicato il Vangelo ai rapporti so­ ciali: nell'integrale visione cattolica della vita, anche i problemi politici ed economici erano stati vagliati e risolti dalla scolastica. I teologi studiava­ no tanto l'essenza del Dio Trino quanto l'eticità dell'usura; e al confessio­ nale i cristiani si dichiaravano tanto sulle colpe di fede quanto sulle viola­ zioni del giusto prezzo o della merce pattuita, sui rapporti coi propri pa­ droni o i propri dipendenti, sui prestiti o sui contratti. Ma Umanesimo e Riforma spezzarono questa unità; e nuovi problemi insorsero e i dibattiti verterono necessariamente più sui principi di Chie­ sa, Papato, grazia, libero arbitrio... Più tardi, definito il dogma anche in confronto delle ultime controversie teologali, la Chiesa si trovò investita da un assalto di nuovo genere; il quale non impugnava tanto i suoi dogmi teologici quanto le sue capacità attuali nell'ordine politico-economico e proveniva da un movimento tendente a dare alla società tutta quanta un contenuto antropocentrico e un indirizzo autonomo, che necessariamente erano se non sempre anticristiani, certo spesso estranei al Vangelo. Di fronte a questo nuovo urto, uomini di dottrina e d'azione tornarono con più impegno a svolgere e applicare la norma cristiana ai fatti nuovi della vita collettiva, riprendendo la tradizione medievale e cercando di costrui­ re sui principi evangelici e sugl'insegnamenti dei Padri e dei Dottori un si­ stema cristiano-sociale da opporre ai sistemi liberale e marxista.

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Il messaggio sociale del cristianesimo

Questo movimento nacque primamente come reazione alla scuola classica, detta pure liberale, di economia, il cui sistema era legato ai nomi degl'inglesi: Adam Smith, Ricardo, Malthus, ma le cui origini vanno ri­ cercate nelle dottrine dei fisiocratici francesi. Essi partivano dal principio di Rousseau che l'uomo fosse naturalmente buono e quindi, per raggiun­ gere il benessere della vita non avesse da seguire le tendenze della sua na­ tura, foggiando anche la legge economica in modo da lasciare piena li­ bertà al loro svolgimento. Laissez-/aire: lo Stato stesso doveva disinteres­ sarsi dei fatti economici, limitandosi a proteggere questa libertà nei rap­ porti dei cittadini. Fu la canonizzazione dell'individualismo, applicato al fatto sociale: fu la lotta ad armi impari dei forti contro i deboli e l'affermazione delle ragioni del capitalismo nell'impiego arbitrario delle classi lavoratrici. Gli economisti britannici, seguendo lo Smith, accolsero il principio della «li­ bertà naturale», le classi dirigenti vi aderirono senza sforzo: teoricamen­ te, per esso, l'interesse della collettività avrebbe dovuto formare la som­ ma degl'interessi dei singoli; praticamente furono gittate le basi della schiavitù proletaria, estesa anche ai bambini e alle donne, sotto gli occhi dello Stato indifferente. La libertà del lavoratore si contenne nelle morse del dilemma: o accettare il contratto del capitalista o rischiar la fame. E questa si disse la nuova economia politica. Per lunghe ore, uomini e don­ ne, ragazzi e vecchi dovettero lavorare in officine, ammucchiarsi, dalla campagna, in quartieri urbani miserabili, fornendo materiale alla miseria, al tifo, al vaiolo, al colera e alla degradazione. La dottrina di Karl Marx e di Engels reagì all'individualismo· capita­ listico ricercando, nei fatti sociali, un principio detto di materialismo sto­ rico secondo cui essi sarebbero ferreamente determinati da leggi naturali assolute e sospinti verso uno svolgimento sempre migliore: dal capitali­ smo si sarebbe passati alla socializzazione della terra e dei mezzi di pro­ duzione, mercé la dittatura del proletariato, e quindi alla distruzione del­ le classi sociali e dello Stato, al comunismo. Dottrina anch'essa materiali­ stica, che poneva a centro della vita il fatto della produzione - il lavoro -, e atea, che metteva al posto del Creatore una legge di natura fissa e supe­ riore all ' uomo, e negante deterministicamente il libero a_rbitrio l,

l D tema dei rapporti tra cristianesimo e comunismo, negli ultimi anni, è stato largamente dibattuto. Ci contentiamo di citare uno dei più recenti libri: Le communi­ sme et /es chrétiens, par MAURIAC, DUCATILLON, BERDIAEFF, MARe, de ROUGEMONT, DANIEL-ROPS, Paris 1937.

Introduzione

Così tra la seconda metà del secolo XVIII e la seconda metà del se­ colo XIX, si affermarono, fuori dell'influsso cristiano, due correnti mate­ rialistiche: la prima, liberale, si dichiarava areligiosa; la seconda, affer­ mando che la religione è l'oppio dei popoli, si dichiarava antireligiosa. Da queste premesse, non ci volle molto, per i marxisti, ad arrivare alla conclusione che la religione fosse la guardiana del capitalismo, la nemica del progresso sociale, da spazzarsi via insieme con le altre forme di op­ pressione sociale, «soprastrutture» d'un regime destinato a soccombe­ re 2 . Intanto, la si escludeva dalla vita economica e sociale, e, contro la sua legge, si predicava l'odio di classe e si praticava la lotta di classe. Gli spiriti religiosi più sensibili ritennero che, tanto con la scuola li­ berale quanto con quella marxista, la nuova storia andasse volgendosi a uno sbocco antireligioso e antisociale: che l'individualismo dell'una di­ sgregasse l'organismo sociale, il collettivismo della seconda annullasse la personalità umana; e tutte due rinnegassero, implicitamente ed esplicita­ mente, le leggi dell'Evangelo, e prima di tutte, quella dell'amore, essen­ ziale del cristianesimo. E allora reagirono contro il liberalismo prima e contro il socialismo poi, cercando di precisare positivamente una dottrina cristiano-sociale capace di offrire una soluzione ai problemi economici nuovi e ai nuovi rapporti di classe, che s'armonizzasse con la legge della carità e con l'a­ zione della Prowidenza. I tentativi tumultuari prima, e via via più siste­ matici, per enucleare dal Vangelo norme pratiche d'attività sociale meri­ terebbero da soli una trattazione storica 3: ma essa non rientra nel nostro compito, per il quale basti dire che subito si scontrarono varie tendenze, tra gli estremi di coloro, che negavano all ' insegnamento di Cristo qual­ siasi presupposto sociale, e di quegli altri, che presumevano di trovarvi addirittura le soluzioni concrete dei problemi più immediati di economia e di politica.

2 Da discepoli di Hegel, Marx e Engels consideravano la religione una proiezio­ delle condizioni economiche della società classista: quella dello sfruttamento di classe. Noh è la coscienza (e quindi neppure la religione) che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza. n primo principio è il fatto materiale del mangiare, vestire, ecc., quindi della produzione: la terra, non il cielo; l'uomo lavoratore, non Dio creatore. 3 Un primo abbozzo è stato fatto, per i cattolici, da M. ZANAITA, I tempi e gli uo­ mini che prepararono la «Rerum Novarum», Milano 193 1.

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Il messaggio sociale del cristianesimo PRINCIPI PROTESTANTI E CRITICA INDIPENDENTE

All ' origine della negazione dalla prima tendenza era l'individuali­ smo luterano, che, avendo sciolta la società ecclesiastica, l' ecclesùz visibi­ le, e annullato il merito delle opere ai fini della salvezza, aveva fatto della religione di Cristo una esperienza interiore di rapporti diretti, svolti da ciascuno col Creatore, con la sola adozione semplice e costante della fede nei meriti del Cristo. Cessavano i meriti dell'uomo, anzi praticamente si presentavano come pericolose alla salvezza le opere, si perdeva il senso relavitistico della ricchezza intanto che s'infrangeva il concetto dell'unità sociale nel regno di Dio, attuato dalla Chiesa, e concretato in una autorità visibile e in una organizzazione gerarchica, e al principio dell'uno per tut­ ti e tutti per uno si sostituiva l'altro di ognuno per sé e Dio per tutti: la cristianità, come unità anche praticamente solidale, era divisa e gli uomi­ ni non si sentirono più saldati l'uno alla sorte dell'altro, come organismo umano-divino, ma giustapposti, come aggregato politico, sociale, contin­ gente; ciascuno la sua Bibbia, ciascuno prete a se stesso, regolandosi co­ me la coscienza individuale gli dettasse. Non più una famiglia, con capi il Papa e l'Imperatore; ma gruppi chiusi e Stati indipendenti. Non più soli­ darietà universale, ma giustapposizione generale. La religione cristiana, con un'abdicazione che la riconduceva al rango delle religioni antiche, ri­ nunziava a influire sulla società, ritenendo che un tale influsso non spet­ tasse a lei, non più coordinando, ma scindendo il regno di Dio da quello dell'uomo. TI determinismo morale di Lutero, che preparava il predesti­ nazionismo, distruggeva la virtù sociale del cristianesimo 4. A ogni buon conto, il criterio di tutte le relazioni fra uomini e classi fu rimesso allo Stato, fatto alcunché di divino; e si ravvivò, nei tempi nuovi, la religione topografica delle civiltà antiche. Dove il Vangelo aveva distinto la religione dalla politica, i riformato­ ri le riunirono; dove il Vangelo aveva riunito la morale con la religione, i riformatori le risepararono. Contro le sue stesse intenzioni, il cristiano riformato, spesso, seguendo il pendio del proprio individualismo, fece di sé centro e scopo unico della vita. Di questo individualismo si spaventò Lutero stesso, ancor vivo. Presto si cercò reagirvi con l'azione esterna della legge civile, opponendosi al protestantesimo di ciascuno il prote­ stantesimo di Stato: alla Chiesa si sostituirono delle chiese; alla libera in­ �erpretazione s'ovviò con le confessioni d'autorità; all'individualismo li4 Vedi: P. IMBART E LA TOUR, Les origines de la ré/orme, Paris 1914, III, p. 40.

Introduzione

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bero s'oppose il servo arbitrio: equilibrio instabile d'una antinomia da cui discesero le dottrine libertarie, liberali, nichiliste da un lato, e le dot· trine statolatriche, socialiste e comuniste dall'altro 5. Una volta che lo Stato - concepito a priori come cristiano - doveva interamente occuparsi delle questioni etico·sociali, la Chiesa doveva ri· nunziare a ogni influsso sulla vita pubblica e sulla vita economica. Quan· do lo Stato non fu più cristiano, la Chiesa si trovò a essere messa al han· do dalla vita sociale. Conseguentemente, non mancarono né sociologi né esegeti luterani che negassero al Vangelo un contenuto sociale. Al par di costoro non po· chi studiosi razionalisti, sottratto al Nuovo Testamento il carattere di sto· ricità per fame un centone di Logia allegorici, di apocalissi spirituali, di aspirazioni escatologiche, gli sottrassero pure ogni capacità e intenzione di prassi concreta su questo mondo, facendone un messaggio di fuga e di ascesi, di ribellione alla vita terrena e di rifugio nei sogni del celeste regno. Alcuni poi, pur non potendo negare un interesse di Gesù alle cose 5 Lo scrittore protestante L.F. Woon, così si esprime in un articolo Soàal hu­ manism, apparso in: The Colgate-Rochester Divinity College Bull. (IV, 193 1 , pp. 123-

135): > 30 . GIUSTIZIA E CARITÀ

Attraverso la giustizia, siamo arrivati al cuore del cristianesimo: alla carità; e siamo al cuore della vita della Chiesa, al fattore costitutivo del re­ gno di Dio in terra, all'elemento di più vitale originalità introdotto dal Vangelo nel rapporto degli uomini. Questa virtù è d'ordine sovrann aturale, avendo origine e termine in Dio. Abbiamo accennato che già nell'Antico Testamento Dio è contem­ plato - come diceva Rabbi Meir - tanto come avvocato, quanto come accusatore 3 1 . Dio, come Padre - e l'abbiamo visto - ama gli uomini, suoi figli; li ha amati al punto da inviare il suo Unigenito a riscattarli, col prezzo di san­ gue; anzi a salvarli, prima che a giudicarli. Gli uomini, dal loro conto, debbono anch'essi al loro Padre amore: amore sopra tutte le cose.

29 Prv l O, 22. 30 Mt 5 , 20.

3 1 Pesikta, ed . Buder, f. 164a.

La legge antica rinnovata: la giustizia

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Era questo sentimento introdotto nei rapporti con Dio un elemento, se non nuovo, almeno rinforzato e universalizzato con una forza nuova, dacché, malgrado le illuminazioni dei profeti e la pratica dei migliori israe­ liti dell'antichità, la massa dei giudei intendeva i rapporti con la divinità come uno scambio di prestazioni. Così presso gli altri popoli, la preghiera era soprattutto espressione di timore e richiesta di benefici, quantunque non mancassero, nei migliori di loro, anche accenti di devozione 32. La giustizia fonda le società, la carità le nutrisce; una è il cervello, l'altra è il cuore; una è lo scheletro, l'altra il sangue. Una è umana, l'altra è divina. Roma col suo diritto arrivò molto innanzi nel cammino della civiltà: «da' a ciascuno il suo»; ma non arrivò dove giunse Cristo, che disse: «da' agli altri il tuo». E la giustizia civile, al paragone della carità cristiana, è una «carità dimezzata, spossata, vuota; e la carità è giustizia vigorosa, piena, universale, infinita. E però la morale del discorso della montagna tanto si alza sopra il concetto dei giureconsulti romani, quanto l'infinito sopra qualunque grandezza finita. Anche il Decalogo, benché divino, benché eternamente obbligatorio, è superato da questo bando di Cri­ sto . . . ll timore che è la sanzione del Decalogo contiene e comprime l'a­ more; così che quella divina forza che è dimezzata e alterata nel gius civi­ le, quella medesima nel Decalogo è contratta e velata» 33. La giustizia dice: - Non rubare la roba d'altri; - la carità intima: Da' a chi ha bisogno la roba tua. - Cioè, con la giustizia diamo ad altri ciò che è suo; con la carità gli diamo quel che è nostro. È quindi non solo un ristabilimento dell'equilibrio preesistente o presupposto, ma anche un accrescimento o miglioramento di esso, verso una equità a cui il diritto non arriva. Un padrone che dà all'operaio la mercede pattuita, resta nella giustizia; ma se al salario, che è insufficiente alla famiglia, aggiunge più di quanto ha pattuito, entra nella carità. Quel­ la non toglie; ma questa aggiunge. Quindi la carità non è una sottrazione alla giustizia, ma un'addizione. Insomma nel diritto, come è codificato e come è inteso, si può mori­ re di fame e d'abbandono; nella carità, no; finché c'è uno che mangia e vive, dà del suo pane e dd suo aiuto anche agli altri. E se la forza della 32 La religione babilonese e assira si esauriva, essenzialmente, nel culto ed era stata, col tempo, invasa dalla magia, sì che valeva come strumento per captare e pie­ gare la divinità. 33 FORNARI, Della vita di G. C. I, II, vol. l, p. 304. - Qualche bagliore si coglie nell'A. T. Per es. : > e rimettendolo quindi in mano ai giudici che, in qud tempo, erano pagani. Idealmente le contese fra cri­ stiani dovrebbero dirimersi dentro la Chiesa: e ciò venne praticato e in parte ancora si pratica con molto vantaggio della società civile, a cui si ri­ sparmiano dissidi prolungati indefinitamente dal sentimento di odio e di rivalsa. Comunque la carità non va a scapito della giustizia. Aggiunge, non sottrae. La carità esorta a offrire l'altra guancia a chi ti colpisce; ma tale carità non menoma il reato dell'offensore, anzi lo distacca in una crudez­ za maggiore. Quando Gesù ricevette uno schiaffo dallo sgherro di Anna, la notte dell'iniquo processo, non si ribellò; ma, dopo aver tollerato l'ol­ traggio, mise in rilievo la nequizia di una tale procedura: «Se ho parlato male, fammelo conoscere; ma se ho parlato bene, perché mi percuo­ ti?» 43 , affermando il dovere della razionalità e della retta procedura an­ che verso un prigioniero. Chi viola la giustizia vien meno alla sua dignità e ai suoi obblighi; chi patisce l'ingiustizia conserva, con la sua carità, tut-

4 1 LAGRANGE, judaisme, p. 3 06. 42 Mt 5 , 25 . 43 Gv 1 8, 23 .

La legge antica rinnovata: la giustizia

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ti i diritti e titoli della sua dignità. Il perdono non annulla la giustizia: il perdonato deve render conto agli uomini e, in tutti i casi, a Dio, del torto fatto. Riassumendo: la carità completa la giustizia; o, se si vuole, la giusti­ zia è anch'essa carità; e la carità è anche una legge (la > per antonomasia 9. ' Lc 7, 22 . 6 Mt 25 , 36-39.

7 Gesù «predica la religione della salute ai poveri, agli afflitti, ai malati, ai biso­ gnosi; insomma a tutta la diseredata folla umana, verso la quale le antiche religioni erano mute, fatte, com'esse erano, pei ricchi, non per i poveri, per i sani, non per i malati, pei giusti, non per i peccatori» (G. DE RUGGIERO, Sommario di storia della fi­ losofia, Bari 1927, p. 1 14). 8 Gli Assiri, al pari dei semiti, e al pari degl'indiani d'America, credevano ·che le malattie fossero punizioni di peccati. 9 Divinità mediche erano già note alle antiche mitologie; basti ricordare le principali: lside, Ishtar, Rudra, Salus, Grammos, oltre allo stesso Asclepio. > (2 Pt l , 4).

Il. I.:insegnamento sociale degli apostoli

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esistenza; ma è un Essere che ama gli uomini perché li ha creati e redenti e si pone ad essi come archetipo, perché si elevino a lui conformandosi alle sue perfezioni e ne vuole la convivenza plasmata su un'etica che inve­ ste sin dalla radice del sentimento. L'ideale del pagano non può esser Giove 3 1 . Quello del cristiano de­ ve essere Cristo: da lui prende nome e norma; gli apostoli si fanno imita­ tori di lui, e chiedono ai discepoli di farsi imitatori d'essi che han già pre­ so Cristo come esemplare. La fusione della morale con la religione fa che gli atti della vita terrena siano indirizzati mediatamente o immediatamen­ te alla vita celeste; «nessuno infatti di noi vive per se medesimo, e nessu­ no muore per sé; ma se viviamo, viviamo pel Signore; se moriamo, moria­ mo pel Signore. O moriamo adunque o viviamo, siamo nel Signore» 32 . Non solo dunque per la famiglia, per lo Stato, o per la stessa umanità: ma, per un valore più alto, Dio stesso, in cui gli altri si raccolgono. «La pienezza della legge è l'amore» H e l'amore «sia senza ipocrisia. Odiando il male, siate attaccati al bene; con amor fraterno, amandovi gli uni gli altri, e quanto a rispetto, anteponendo ciascuno gli altri a se stes­ so . . . ; nella speranza rallegrandovi, nelle tribolazioni pazienti, nella pre­ ghiera perseveranti . . . Benedite quelli che vi perseguitano, benedite e non maledite. . . A nessuno rendete male per male, ricercando il bene a tutti . gli uomm1. . . » 34 . È una morale ardente e operosa, che sull a sua traccia scompone e annulla ogni concrezione di male, e restaura senza posa i valori della vita. Gli intoppi dell'odio, dell'invidia, della vendetta sono dissolti, in una lot­ ta incessante, nella quale il cristiano non si lascia vincere dal male, ma vince nel bene il male. E il male è morte. «Chi dice di esser nella luce e odia il fratello, è ancora nelle tene­ bre»: non è cristiano, è pagano.· «Non vi stupite, fratelli , se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo stati trasportati dalla morte alla vita, per­ ché amiamo i fratelli. Chi non ama, rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida . . . » 35. .

3 1 Né tanto meno Adone e Mrodite, il cui culto comportava la prostituzione sa­ cra, la castrazione e riti fallici. Più idealistica la concezione di SENECA: «Vis deo pro­ pitiare? Bonus esto. Satis ille coluit, quisquis imitatus est» (Ep. ad Luc. 15, 3, 50). 32 Rm 14, 7-8. 33 Rm 1 3 , 10. 34 Rm 12 , 9-10. 35 l Gv 3 , 13-15.

\La società cristiana e la civiltà pagana

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Poiché anche Satana è chiamato omicida - cioè colui che vuole la morte dell'uomo - si vede che l'odio è sostanza della natura satanica: che Satana è odio; e suo frutto è la morte. L'apostolo dell'amore, Giovanni, prediletto dell'amore di Cristo, fa considerare che «nessuno ha mai veduto Dio», ma che tutti in compenso possono vedeme l'immagine - il ritratto vivo - nell'uomo, in ogni uomo: e amare Dio nell'uomo, in cui si specchia e alla cui natura comunica del­ la sua natura. Sì che praticamente si vede Dio nell'uomo; e trattando con l'uomo si tratta con Dio. n bene che si fa al prossimo è come fatto a Dio; e il male fatto al fratello è un male fatto, per interposta persona, al Padre comune. Difatti Cristo, al giudizio, compensa o castiga a seconda delle nostre relazioni sociali, identificandosi egli col fratello con cui queste re­ lazioni sono svolte. «Infatti chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede?». «Se ci amiamo l'un l'altro Dio abita in noi». L'amore, insomma, partecipazione dell'essenza divina («Dio è carità») è Dio in noi 3 6 . E quindi è vita dell'uomo. L'uomo vive - questa è la lezio­ ne - e con l'uomo vive la società fin quando ama, in proporzione dell'a­ more che raccoglie e che produce. La forza della vita sociale, nel tempo e nell'eternità, sta qui, perché qui è Dio, che è Dio dei vivi: fuori e contro agisce una forza di disgregazione, un precipitato d'irrazionalità, il cui frutto è rovina. Amare l'amore è odiare l'odio, per salvare sé e i fratelli: questo il compito dell'uomo redento. n male sociale è frugato alla radice del sentimento e n cauterizzato. L'odio è omicidio: e questa severità è rivoluzionariamente nuova nel mondo antico. n suo principio deriva da Dio stesso, perché se «Dio è amore», tutto ciò che non è amore, è ateismo, è attentato a Dio; e la pro­ va della verità e della fedeltà cristiana è appunto la carità. Essa svelle l'uo­ mo dal suo sé e lo mette a servizio degli altri, estraendo dalla natura uma­ na le forze più ricche di socialità. Ma questa solidarietà, con cui si lega a tutti gli altri e tutti gli altri si legano a lui fondendosi in organismo mano­ corde, è un'operazione spontanea della volontà del cristiano, un sacrifi­ cio che fa per amore di Dio. Però, nell'atto stesso che lo fa, egli afferma la propria coscienza. La comunità dei fratelli - considerata, in senso lato, come la famiglia umana - è il campo dove gioca la responsabilità indivi­ duale, che ha una risultante infinita, strettamente personale: «ciascuno renderà conto a Dio per se stesso» 37; e un tal principio eccita le energie 3 6 J Gv 4.

37 Rm 14, 12.

II. I:insegnamento soci'ale degli apostoli

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personali, il senso del bene, l'attività ingegnosa: crea il carattere; mentre impedisce che l'individuo, sommergendosi nella massa, pesi come in­ gombro amorfo. Le opere - insegna Paolo ai romani - sono il solo crite­ rio applicato da Dio nella sanzione del suo giudizio eterno; e non si tien conto d'altri elementi. Così si realizza quella complexio oppositorum, o meglio quell'accor­ do di elementi umani e divini, individuali e sociali (grazia e libertà, fede e ragione, Chiesa e individuo) , nel cui equilibrio è l'integrità vivida del va­ lore cristiano, e il cui menomo squilibrio porta agli eccessi dell'individua­ lismo o del collettivismo, dell'anarchia o dello statalismo, nell'ordine ci­ vile-sociale; del determinismo o dello scetticismo, del predestinazioni­ smo o della negazione della Provvidenza, nell'ordine etico-teologale. Così grande è il compito che gli è imposto, verso Dio, verso il pros­ simo e verso se stesso, che l'uomo ha bisogno di continuo aiuto dal Si­ gnore e dai fratelli; e la coscienza delle proprie limitazioni impedisce che l'idea della sua dignità e responsabilità gli tumefaccia il giudizio di se stesso e lo renda, da membro sociale, fattore di contrasto. Per il servizio sociale, occorre l'umiltà. L'orgoglio dissolve; l'umiltà, che è poi la co­ scienza dei propri limiti, raccoglie, federa, affratella per un bisogno di so­ stegno reciproco, di integrazione mutua nella solidarietà. Quando il cri­ stiano non si considera superiore al fratello, ma inferiore, non in credito ma in debito verso di lui, lo serve: se no, se ne serve. E l'umiltà predispo­ ne alla concordia nei rapporti di tutti i giorni, suscitando quell'atmosfera tersa in cui si ricompone di continuo la linea delle virtù, attorno al richia­ mo della carità; muovendo il cristiano a ricercare tra i fratelli il bene, pri­ ma che la scienza e la ricchezza. La scienza gonfia, determina le caste: ta­ li i filosofi platonici, gli stoici, i neopitagorici, le consorterie dei misteri, gli gnostici, ecc. : tutta gente la quale crede di possedere la saggezza al di sopra e contro la massa. E invece pel cristiano la sapienza vera è la carità in atto: «chi ama è nato da Dio e conosce Dio» 38; mentre l'umiltà sgon­ fia, tenendo aderenti al principio dell'azione sovrannaturale, con la co­ scienza della grazia gratuitamente data da Dio a ciascuno. Mentre nell'Impero la burocrazia sta introducendo epiteti di distin­ zione, gli apostoli si danno l'epiteto di servitori, schiavi; per cui la scala dei valori della dignità cristiana prende un indirizzo antipodico a quella delle dignità romane. Schiavi, proletari e altri disgraziati delle classi che formavano lo stato bruto su cui borghesia urbana e caste militari costrui3 8 1 Gv 4, 7.

La società cristiana e la civiltà pagana

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vano le loro fortune, s i trovavano di colpo al livello dei capi della Chiesa e sorprendevano un rovesciamento di valori senza nessuna di quelle guerre servili da cui era stato versato tanto loro sangue e ribadite le loro catene. Paolo scapolo, digiunatore; Giacomo, parente di Gesù, penitente e orante; la vendita dei beni pei poveri, il farsi umile, il recalcitrare ai sensi, sono esempi e atti dell'ascetismo cristiano. Anche l'ascetismo esercita la sua reazione sociale, in quanto decongestiona il corpo saturo di avarizia, ambizioni e libidini; e prepara il monachesimo, come selezione di uomini che rinunziano ai beni della terra per il servizio di Dio e quindi del pros­ simo. Nello spirito evangelico, gli scrittori neotestamentari fanno vedere come la santificazione propria sia tanto più grande quando più attenda alla santificazione altrui; ché questa è opera d'amore; e l'amore è il fuoco primordiale nel cosmo religioso del cristianesimo. Alla virtù l'insegnamento degli apostoli dà un sostegno divino, ri­ portandola, come tutto, alla matrice dell'Eterno. Pei romani la virtus era soprattutto il valore militare. I filosofi avevano magnificato l'àpe-ri}, in cui Aristotele aveva visto la potenza generatrice e custode del bene, se pur la intesero molto spesso in senso civico: sorta di galantomismo, che realizzava l'equilibrio della sanità fisica, della ricchezza patrimoniale, d'una sufficiente cultura e soprattutto di buone qualità oratorie, riserva­ te ai liberi. Orazio l'aveva esaltata 39, al pari di Virgilio e dei p rischi ro­ mani. Nerone ne detestava anche il nome, vedendoci un'ipocrisia, oltre che una rampogna, e ritenendo uomo perfetto quello che agiva senza pu­ dore, senza temperanza, senza risparmio. Egli esasperava una concezio­ ne materialistica dell'esistenza, a cui lo stoicismo e in generale la filosofia ponevano freni, sì, ma deboli; e a petto a quella concezione popolare, che il capo dello Stato incarnava e la letteratura del Satyricon metteva in caricatura, la concezione cristiana costituiva un capovolgimento: «se ta­ luno di voi si trova savio secondo il mondo, diventi stolto al fine di poter essere davvero saggio; la saggezza di questo mondo è vera follia dinanzi a Dio». «Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio», con la sua morte in croce, è «scandalo ai giudei e follia ai gentili», ma «questa pazzia di Dio è più sapiente degli uomini» 40. A un giudizio assoluto, però, è vero il contrario 41 .

39 «Oderunt peccare boni virtutis amore» (Epist. XVI , 52).

40 l Cor l, 18. 41 Rm l, 22.

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Per siffatto capovolgimento, consapevolmente accettato, i cristiani ingiuriati, benedicono; perseguitati, sopportano; calunniati, esortano: fatti «spazzatura del mondo, rifiuto di tutti» 42. La virtù viene specificata nelle varie virtù, rispondenti alle varie rela­ zioni; e specialmente Paolo ne stila dei cataloghi, in cui rinnova procedi­ menti in uso nelle scuole di Grecia e di Roma, oltre che nelle scuole ebraiche, dove s'insegnavano e svolgevano i libri sapienziali della Bibbia. Paolo insegna la condotta, che forma l'uomo pio, come Tobia la insegna­ va al figlio, quasi in testamento religioso e morale. Prima virtù è l'amore, dovuto anche al nemico. Esso impone. il per­ dono, e genera la pace. Per mantenere la pace, bisogna innanzi tutto non far offese al p rossi­ mo. Se l'offesa la riceviamo, non bisogna vendicarsene. «A nessuno ren­ dete male per male; cercate di far bene a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto è da voi, abbiate pace con tutti gli uomini, non vendicandovi da voi stessi, o carissimi; ma date luogo all'ira divina, secondo sta scritto: - A me la vendetta, io farò ragione, dice il Signore. - Anzi, se ha fame il tuo nemico dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere; poiché così fa­ cendo, gli adunerai carboni ardenti sulla testa» 43. La pace è condizione d'una ordinata vita della comunità; ed è l'idea­ le della vita di tutta l'umanità, essendo il Vangelo «un annunzio di pa­ ce>> 44; e reciprocamente va condannato lo spirito di discordia. Sin dalle prime generazioni, s'era infiltrato nelle comunità tanto lo spirito libresco dei giudei quanto quello critico dei greci, introducendo discussioni e par­ titi. La condanna di questi seminatori di discordia è assidua e appassio­ nata, perché l'evangelizzazione riceveva più danno dalla loro opera insi­ diosa che dalle persecuzioni palesi. Cristo ha riconciliato i gentili coi giu­ dei, ha demolito il muro divisorio fondendoli in una sola famiglia: chi quindi introduce scissioni, spacca la famiglia di Dio, è reo contro Cristo «artefice di pace», il quale «distruggendo in se stesso le inimicizie, venne a evangelizzare la pace a voi che eravate lontani, e pace ai vicini» 45 . 42 1 Cor 4, 13 . 43 Rm 12, 17-2 1 . 44 A t 10, 36. 45 L'immagine bruciante viene da Pro 25, 2 1 -22. Secondo una concezione diffu­ sa nella mentalità ebraica, il beneficio ai nemici è inculcato spesso in vista d'un corri­ spettivo immediato, terreno. Reciprocamente: «Chi rende male per bene non vedrà mai la sventura uscire di casa sua» (ibid. 17, 13 e cf. 24, 29). Ma anche la risultante di­ vina è messa in risalto, Eccli 28, 1 ss . Cf. Sal 108 e Sa/ 136, 7ss. -

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«Trionfi nei cuori vostri la pace di Cristo, alla quale siete stati chia­ mati per (fare) un solo corpo» 46. Pace e ordine son fatti sinonimi nella Chiesa: «Dio non è un Dio di disordine, ma di pace» 47. Riprovevole perciò l'ira. Per Aristotele l'ira era stimolo necessario, tranne che bisognava valersene come d'un milite e non come d'un capita­ no: ma una tale sentenza era giudicata falsa da Seneca, il quale aveva di mira l'atarassia storica, e non reputava necessaria la collera neppure coi nemici. «Nell'ira non peccate - insegnava Paolo - e il sole non tramonti sulla vostra collera» 48. Ma Paolo andava oltre il filosofo suo contempora­ neo, perché non si limitava a considerar l'atarassia o la necessità, ma vo­ leva col perdono la sutura della ferita, prodotta dalla collera. Comunque, l'insistenza di Paolo e di Seneca a raccomandare la cle­ menza e a scongiurare la collera colpiva uno dei difetti più rovinosi del carattere degli antichi, tanto più quando si riscontrava in chi era prowi­ sto d'un potere grande, come il pater /amilias, o illimitato, come il capo dell'Impero o qualche suo favorito, e sotto l'azione della collera poteva procedere ad atti folli. La differenza delle classi, l'odio che covava tra di esse, provocavano, al minimo urto, esplosioni; sì che la reazione cristiana, agendo su strati più vasti e profondi che la predicazione di Anneo Sene­ ca, tendeva a eliminare uno degli elementi di maggior debolezza nella psiche della società contemporanea. La virtù per eccellenza è, per gli stoici, la giustizia; e, in altro senso, era lo stesso per giudei e cristiani. TI peccato, per Musonio, era una viola­ zione della giustizia; e Paolo scrivendo ai Romani - il popolo del giure annunziava il messaggio della giustizia: «poiché l'ira di Dio si manifesta dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini, che soffocano la verità nell'ingiustizia» 49. Nessuno è esonerato dalla giustizia: neppure i giudei e i gentili, giacché i primi hanno la legge positiva e i secondi la leg­ ge naturale che li guida: «quelli che non ·hanno legge, son legge a se stes­ si; i quali mostrano scritto nei loro cuori il tenor della legge, testimone la loro coscienza . . . » 5 o . La legge cristiana completa la legge positiva ebraica 46 E/2, 17. - Cf. 2 Tm 2, 14, 22-23 : «Fuggi le dispute di parole . . . Segui la giu­ stizia, la fede, la carità, e la pace con quelli che invocano il Signore con puro cuore. Schiva le dispute stolte e inutili, sapendo che generano liti». - Un segno che tutti gli uomini sono peccatori è nel fatto che, tanto i giudei quanto i pagani, «non hanno co­ nosciuto il cammino della pace» (Rm 3 , 17). La guerra è effetto del peccato. 47 Co/ 3 , 15 . 48 1 Cor 14, 33. 4 9 Rm l, 18. - Cf. 1 Gv 2, 28 e 3 , 4, 7. 50 Rm 2, 14- 15.

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e quella naturale pagana, intanto che le virtù evangeliche di benignità, ca­ stità, carità cominciano a permeare i costumi per poi via via modificare anche gli istituti giuridici come avverrà specialmente con l'assunzione di cristiani al governo dell'Impero. Sobrietà nel cibo e nella bevanda; temperanza dei sensi, castità, pu­ rezza, onestà, benevolenza nel giudizio, senza invidia; condiscendenza verso i deboli, compassione; tolleranza; pazienza, magnanimità . . . ; tutti tratti del carattere cristiano, il quale, per essi, nell'ordine naturale, dive­ niva la realizzazione completa delle virtù personali e sociali vagheggiate in larga misura anche dalla sapienza pagana e giudaica. Insomma, Paolo e gli altri apostoli miravano a plasmare il santo, me­ diante una radicale riforma interiore, sì che fosse in regola con Dio e con gli uomini: buon cristiano e buon cittadino, probo padre, lavoratore, commerciante . . . : piccola immagine di Dio in terra. I filosofi miravano a formare il saggio, e più spesso il retore perché fosse un cittadino più ono­ rato e un professionista più ricco: la pedagogia di Quintiliano e di tanti maestri greci e romani non mirava che a far l'oratore; la pratica quotidia· na della più gran parte del popolo mirava a realizzare i maggiori guada­ gni economici col minor dispendio di lavoro.

Capitolo V CONDIZIONI POLITICHE ED ECONOMICHE

ORGANIZZAZIONE IMPERIALE E LIBERTÀ CIVILE

Nella storia delle condizioni economiche e politiche dell'Impero ro­ mano, poco si nominano il cristianesimo e la Chiesa; come se in tutto il dramma culminato nel collasso di Roma antica la nuova religione non avesse compiuto molto di notabile in ordine alla politica e all'economia. Pure, se già all'epoca di Nerone i cristiani erano a Roma un'ingente mas­ sa, e se scrittori e popolo insorgevano contro di essi, le loro idee e la loro opera necessariamente dovevano in qualche modo reagire sulle idee e sull'attività degli altri. Le persecuzioni erano atti dell'autorità politica, per colpire avversari politicamente pericolosi. Se agirono, nella possa con cui agirono, segno è che il pericolo appariva proporzionato. Augusto (27 a.C. 13 d.C.) era stato l'agente di quell'immenso desi­ derio di pace che aveva preso tutti dopo il cinquantennio di guerre civili. Poiché diede all'Impero straziato la pace, l'Italia e le province rifiorirono economicamente. ll tempio di Giano fu chiuso, e nel campo di Marte uno stile raffinato, espressione di benessere, modellò quell'Ara pacis, in cui la società romana parve cesellare i motivi della sua letizia. Preso il co­ mando dell'esercito, che finora risiedeva nelle mani del Senato e si pre­ stava perciò a sollecitare e rinforzare le competizioni degli ottimati, Au­ gusto governò senza toccar le istituzioni repubblicane; tranne che, accan­ to e sopra l'autorità del Senato, stabilì quella dell'imperatore, divenuto, a seguito delle vittorie riportate, signore di interi regni, come l'Egitto, cui governava per mezzo di agenti diretti ritraendone una ricchezza utile ad affermare, sopra tutto in Roma, il proprio prestigio fra il popolo. Peraltro anche nell'amministrazione delle province senatoriali intervenne me­ diante funzionari di controllo. Impersonando l'autorità di Roma, a capo dello Stato più grande dell'antichità, erede di regni, circondato di poeti laudatori e di artisti che lo immortalavano, amato, almeno apparente­ mente, dalle classi diverse per la pace ridonata, egli apparve il salvatore, espressione viva dello Stato. Virgilio, Orazio e Ovidio lo chiamarono dio; -

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e nelle province asiatiche e africane, dove l'autorità regia era stata sempre deificata, apparve facilmente la reincarnazione di Mercurio, Ercole e, più spesso, di Apollo. Sotto di lui l'Impero, o almeno l'Italia, visse, gli anni più prosperi, per lo sviluppo dell'agricoltura, che la faceva apparire una rigogliosa di­ stesa di vigne, oliveti, orti, giardini e piantagioni di frumento, con ville, città industri, strade, canali, acquedotti . . . L'autorità centrale non fu as­ sorbente; anzi mantenne l'autonomia amministrativa delle città, rette cia­ scuna dalla propria J3ouA.t1 (consiglio municipale) sì che l'Impero risultò piuttosto una confederazione di città-stati, tendenti a modellarsi su Ro­ ma; e la fioritura urbana favorì lo sviluppo d'una borghesia che costituì per generazioni la forza più cospicua del regime. Sopravvivevano nume­ rose famiglie senatoriali dell'antica aristocrazia romana, ma insidiate dal­ la minaccia del potere personale del sovrano, oltre che dalle tare d'una vita dissipata. Nuovo vigore trassero i membri dell'ordine equestre. E i due ordini si ripresentarono nelle città, dove sotto una aristocrazia locale cresceva una borghesia benestante. L'esercito fu composto, di regola, con leve di volontari; e assunse ca­ rattere di armata permanente, sì che il cittadino non fu più distratto dal­ le sue attività con chiamate per guerre periodiche. N e fu avvantaggiata la sua condizione economica, intanto che l'alienazione dell'attività politica a beneficio d'uno solo, e d'una burocrazia di sua fiducia, distaccava gli spiriti via via dallo Stato e da Roma, il cui fascino si coltivava nei cenaco­ li letterari, ma decadeva nei cuori dei sudditi . . Sotto Tiberio ( 14-37) si intensificò il movimento iniziato da Augusto di sottrarre a mano a mano al Senato le attribuzioni amministrative per rimetterle a funzionari imperiali, il cui centro era nel palazzo del sovrano a Roma. Tutto questo accentuò, tra imperatore e Senato, un dualismo che venne esasperato dal carattere sospettoso del primo e dalle velleità del secondo, risorte dopo la morte di Augusto. Ebbe inizio una politica di terrore, la quale culminò con imperatori efferati e folli, Caligola e Nero­ ne, nello sterminio della vecchia aristocrazia senatoriale e nella confisca dei suoi beni. Caligola fu ucciso dopo quattro anni di sgovemo, nel 4 1 , e sostituito da Claudio, debole di carattere, tanto che, specialmente gli ultimi anni, si lasciò dominare da femmine e da liberti; ma buon amministratore. Con questi sovrani che avevano dimorato personalmente a Roma, s'era pro­ dotto un distacco, almeno morale, dall'esercito, rimesso a generali, e di­ slocato nelle province, ai confini. A Roma era andata crescendo la milizia pretoriana, divenuta milizia del corpo. D distacco s'accrebbe con Nerone

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(54 -68), il quale se andò in Grecia, fu per farsi acclamare in veste d'i­ strione e d'auriga, e ne ritornò per celebrare ridicoli trionfi che la pleba­ glia accordava in proporzione dei donativi e degli spassi (panem et circen­ ses) . Sotto .di lui, furono uccisi o condannati a uccidersi i più illustri rap­ presentanti deli' antica aristocrazia romana, sostituiti via via, nel Senato da membri dell'ordine equestre, di Roma e delle città italiane. Matricida e uxoricida, carico di delitti e di follie, rovesciato dall'insurrezione mili­ tare, si uccise nel 68; e per due anni si contesero l'impero Gaiba, Ottone, Vitellio, finché Vespasiano, nel 69, afferrato il potere, lo tenne per un de­ cennio con polso saldo. Riformò l'esercito, dal quale escluse i volontari proveniençi dal proletariato d'Italia troppo indisciplinati, mentre v'immi­ se gioventù delle province; e in queste di pari passo suscitò una più ricca vita municipale ed economica, allo scopo di stabilirvi una base più vasta al potere imperiale. Dalle province pure prese nuovi elementi per rinsan­ guare il Senato, scegliendoli tra i funzionari distintisi nell'esercito e nelle carriere amministrative; e questo movimento periferico coincise con uno spostamento della ricchezza dall'Italia alla Spagna, Gallia, Asia Minore, Egitto, Mrica. Dal 79 all'81 regnò suo figlio Tito, il vincitore dei giudei; ma la casa dei Flavi finì ignominiosamente con Domiziano, che governò tra i delitti e finì nel 96 pugnalato. Il nuovo imperatore, Nerva, fu creatura del Senato, al quale per un momento ritornò la fonte dell'autorità, pur essendo un Senato imbor­ ghesito, creato dall'imperatore stesso. Si applicò nella successione il cri­ terio della designazione, che diede una lunga serie di buoni sovrani: gli Antonini. In questa fase della politica imperiale, il cristianesimo non appare implicato, coi suoi membri, nelle più importanti vicende politiche: solo durante l'impero di Domiziano si vedono personaggi consolari cristiani tirarsi piuttosto da parte, per quel sentimento così vivo nelle prime gene­ razioni d'essere, in mezzo al mondo, dei pellegrini, bramosi d'astenersi dai negozi pubblici. Dopo Augusto, la vita politica, oltre a caricarsi di cri­ mini, aveva preso a colorirsi d'idolatria sempre più, per la velleità e quasi la necessità dei Cesari di stare dinanzi ai sudditi come numi e rinforzare il proprio prestigio con un rituale religioso. Tutto ciò era satanico agli oc­ chi dei cristiani; ed essi vollero esser fuori da un tal mondo. «Ma si può dire che il cristianesimo ha trasformato nella sua essenza il governo dello Stato proprio per non esservisi ingerito» t . t FusTEL DE

COULANGES, La cité antique, V, III.

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II. /;insegnamento sociale degli apostoli

E primamente l'ha trasformato col lievito della libertà. Non si esagera dicendo che il mondo antico ignorava la libertà poli­ tica, come oggi s'intende. Di solito, ignorava la stessa libertà naturale. La esaltavano gli epicurei, ma in sede filosofica, senza applicazioni concrete. E la esaltavano anche gli stoici, ma negandola in radice, in quanto l'in­ chiodavano a un determinismo che involgeva anche gli dei e assorbiva la personalità umana nel panteismo statale; rinforzato dall'astrologia fatali­ stica che era la religione più popolare fra tutte le religioni. E queste stes­ se, poiché erano di solito riti e non sentimento, formule e non idee, tene­ vano piuttosto incatenata l'anima col terrore immanente d'una deità so­ spettosa e vendicativa 2 . n libero arbitrio era un principio virtualmente sconosciuto, e di fat­ to negato, poiché si viveva sotto il dominio d'un Fato che traeva a suo li­ bito volenti e nolenti; e praticamente si riconosceva all'autorità politica il potere di limitare o stroncare la volontà personale senza riserve. La città antica, nei primi tempi, aveva incarnato un potere religioso immanente; il sacerdote era stato anche capo della famiglia, della città, dello Stato. Ora, svanita la religiosità antica, il capo della società era an­ che sacerdote; anzi assorbiva la deità; l'incarnava: e l'individuo seguitò a non aver diritti di sorta verso di lei. Gli antichi non conoscevano né la li­ bertà dell'educazione, né la libertà di pensiero e di culto. Nei regimi orientali l'uomo era suddito, non cittadino, e apparteneva al re, che era un padrone assoluto, a somiglianza dei suoi dei. Al pari dei semiti in Oriente, i germani in Occidente erano verso i capi in una condizione si­ mile a quella degli schiavi verso i padroni. Nello Stato che vagheggia Pla­ tone «la libertà è sconosciuta, e lo scopo che il legislatore si propone non è tanto il perfezionamento dell'uomo quanto la sicurezza e la grandezza dell'associazione. La stessa famiglia vi è come sommersa . . . Lo Stato solo è proprietario; esso solo è libero; esso solo ha una volontà; esso solo ha una religione e dogmi, e chi non la pensa come lui deve perire» 3. 2 I:etica antica, e, in genere, l'etica non cristiana e acattolica è deterministica e perciò fondamentalmente pessimistica. FESTUGIÈRE, I:idéal religieux des grecs, Paris 1932 , pp. 162ss., condensa la religione ellenica nell'aforisma: «L'uomo è schiavo; poi muore». Essa cioè si dibatte tra il Fato e la Morte. Anche presso gli antichi germani era così. Presso gli scandinavi «la religion primitive reposait essentiellement sur le fa­ talisme. Toutes les croyances étaient imprégnés de la résignation stoi'que à l'inévitable destinée, au sombre et écrasant Fatum» (F. WAGNER, Les poèmes mythologiques de tEdda, Liège 1936, p. 5). 3 FUSTEL D E COULANGES, op. cit., m, XVIII; e V, I.

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Per questo dominio assoluto sulla vita privata e pubblica, Sparta pu­ niva chi non si sposava o si sposava tardi; Roma puniva le donne che be­ vevano vino; altre città punivano chi si lasciava crescere o chi non si la­ sciava crescere la barba e arrivavano a regolare la foggia dei capelli. La politica di Platone e di Aristotele, modellata su antiche legislazioni, stabi­ liva la selezione della specie, con l'uccisione dei nati deformi. Il cristianesimo, che era liberazione (redenzione) da ogni forma di schiavitù (che è forma di peccato, essendo usurpazione idolatrica di attri­ buti e valori concessi da Dio all'uomo per il suo necessario perfeziona­ mento) attese a sciogliere l'individuo da ogni soggezione esterna, per tut­ to quanto concerne la vita dello spirito e lo liberò dal controllo statale e lo mise a fronte, come a solo giudice, a Dio. Così, la libertà verso lo Stato nacque sia dal principio originario della libertà cristiana individuale sia dal principio, all'altro connesso, della distinzione dello spirituale dal temporale. L'uomo è servo e figlio solo di Dio: verso l'altro uomo è sem­ pre libero, essendo fratello ed .eguale. Posto all 'esistenza come scopo un obiettivo - la salvezza eterna - che è al di là dello Stato, l'individuo, per poter meritare o demeritare, è libe­ ro di credere anche contro la rdigione pagana statale, è libero di educare sé e i suoi figli (per la responsabilità che porta) come crede; è libero di or­ ganizzare la famiglia nella maniera più corrispondente ai fini stessi. Quando, per esempio, il diritto romano dichiara che, cessato l'affetto maritale, è terminato il coniugio, il cristiano, in omaggio a una legge che non è quella del diritto romano, mantiene il coniugio anche oltre l'affetto maritale. Insomma egli per realizzare il bene ed eliminare il male, in ogni circostanza della vita, professa e attua anche una libertà civile, che si tra­ duce in limitazioni varie dell'ingerenza dello Stato nel campo delle atti­ vità assoggettate dal Vangelo alla legge morale-religiosa. Questa libertà di cittadino e di uomo, la giustifica e asserisce con la stessa dottrina della origine divina del potere politico; la quale dottrina ne pone la fonte non più nell'imperatore stesso ma in Uno superiore all'imperatore, il quale è così sottoposto, anche lui, alla legge morale dei sudditi, suoi eguali e fra­ telli. Nel cesarismo, il solo principe è libero: egli è la scaturigine del dirit­ to e della morale: può far valere per legge il capriccio, per lecito il libito; scomporre le famiglie, ucciderne i membri, confiscarne i beni, violentar­ ne le donne . . . Nel cristianesimo tutti sono liberi, perché solo Dio è Si­ gnore ed è onnipotente e la libertà ha un limite proprio nell a scelta del bene e nel ripudio del male. Chi governa è un servitore - non più un pa­ drone - della collettività. n cristiano dipendeva direttamente quanto al corpo, cioè a una por-

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zione, la inferiore, di sé, e indirettamente anche quanto allo spirito per gli obblighi civili che la sua coscienza gli dettava in ordine alla giustizia, la pace e il benessere materiale e morale della società, ma quanto alla co­ scienza stessa, all'anima immortale - alla porzione eterna, superiore, pri­ maria - restava libero, e non dipendeva se non dal giudizio di Dio. Se si considera quindi l' onnipotenza dello Stato antico, che voleva per sé corpi e anime, in dedizione assoluta, si vede come il principio nuo­ vo della distinzione della sfera politica da quella spirituale «sia stato la fonte da cui è potuta venire la libertà dell'individuo. Una volta che l'ani­ ma s'è trovata emancipata, il più difficile era fatto, e la libertà è divenuta possibile nell'ordine sociale» 4. Tanto vero che parecchi cristiani, ancora non compresi dd valore particolare di questa libertà che essi, battezzan­ dosi, acquistavano in Cristo, la spingevano sino a rompere i doveri socia­ li e civili, anarchicamente: ciò di cui Paolo e Pietro dovettero riprenderli. Riducendo d'una larga porzione l'autorità dello Stato, la personalità umana conquistò d'una pari misura la sua autonomia; la quale restava la condizione della difesa della sua dignità; e questa era così grande che, nell'ordine divino, valeva più la salvezza di un'anima che una vittoria mi­ litare, la vita stessa dello Stato. Reciprocamente l'enorme valore dell'ani­ ma individuale importava l'esigenza inderogabile della sua completa li­ bertà interiore. Insomma, la persona umana aveva prima dei debiti verso Dio, poi verso lo Stato: prima la coscienza religiosa, poi quella civica. Una tale autonomia e una tale gradazione portarono a un conflitto tra il cristiano e il romano; tra la religione e il civismo, e l'Apocalisse raccolse l'eco di un tal conflitto; da cui necessariamente il cristiano voleva uscire, nd solo modo concesso, col riformare lo Stato, !imitandone il potere. In tal maniera, necessariamente la dialettica cristiana premeva per una solu­ zione di libertà, proprio quando lo Stato andava tumefacendosi· di attri­ buti di potenza. SPEREQUAZIONI SOCIALI E LOTTA DI CLASSE Origene scolpisce bene il diverso atteggiamento sociale della filoso­ fia antica e del cristianesimo verso le varie classi, quando, confutando l'attacco di Celso, scrive: «Platone e gli altri saggi tra i greci, con le loro belle massime, somigliano a quei medici che non prestano cure se non al4 FuSTEL DE COULANGES, op. cit., V, ill .

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le persone d'alto rango e dispregiano l'uomo del volgo; mentre i discepo­ li di Gesù si adoperano e lavorano perché la massa tutta degli uomini ri­ ceva nutrimento di vita» .5. La società antica era basata sul privilegio; l'eguaglianza di classe era ignota, o mal nota anche in teoria: da Aristotde a Cicerone troppi filoso­ fi vollero dare una giustificazione metafisica alle differenze sociali, e col­ pire di condanna le classi lavoratrici. La disuguaglianza nasceva nel seno della famiglia, dove il padre go­ deva di maggiori diritti, e il primogenito, per molte generazioni, era stato privilegiato verso i fratelli, e i maschi verso le femmine; e si manteneva nella compagine imperiale, dove le varie categorie godevano di un tratta­ mento diverso di fronte alla legge, al fisco, alla sepoltura, ecc.: liberi, ser­ vi, cittadini romani e aventi la cittadinanza latina, alleati, peregrini, bar­ bari, villici, ecc. A sua volta, l'Italia godeva d'un trattamento giuridico privilegiato, con esenzione dall'occupazione militare e dalla imposta fon­ diaria, col diritto di proprietà quiritaria sul suolo ecc. La differenza era marcata anche dal modo di vestire. Agli schiavi non era consentita la to­ ga e le loro tuniche erano di colore grigio o scuro. Senatori e cavalieri fre­ giavano la tunica di una balza di porpora, più larga nei primi Oaticlavio): e portavano un anello d'oro al dito; nei teatri disponevano di seggi spe­ ciali. I senatori avevano anche una calzatura particolare. Erano esenti da certe imposte, godevano di privilegiato trattamento giudiziario, e non potevano unirsi, né potevano unire in matrimonio i membri delle proprie famiglie con donne e uomini schiavi o liberti, attori o attrici, ecc. Già en­ trava nell'uso un titolo onorifico nel designarli, cui Marco Aurelio darà una regolamentazione fissa. I cavalieri fornivano il nerbo della magistra­ tura e coi senatori avevano accesso a dignità riservate a loro esclusiva­ mente. Certe penalità criminali erano comminate e applicate ai soli humi­ liores. L'uguaglianza politica realizzata sotto la repubblica, attraverso lunghe lotte, decadeva di nuovo; e contro i due ordini privilegiati si rico­ stituiva la plebe. In varia misura questo stato di cose si ripeteva nei muni­ cipi e colonie, dove le famiglie dei decurioni - l'aristocrazia locale - go­ devano dei privilegi in ordine al diritto criminale. La disuguaglianza ve­ niva sigillata sulle tombe. Le ceneri degli schiavi erano deposte in un co­ lumbarium a parte, e di solito si segnalava la qualità di schiavo o di liber­ to defunto .

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C. Ce/s., VII, 60.

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Tali disuguaglianze si ripetevano e si moltiplicavano, di solito, nella prassi delle religioni pagane 6 . Qualcuno tra gli stoici cominciava a parlare di eguaglianza morale e naturale, ma, al solito, in sede teorica, con scarsa efficacia sulla vita prati­ ca, anche perché, nel primo secolo, gli stoici costituivano una minoranza, mal tollerata da vari imperatori, e appartenevano di solito alle classi ric­ che e reazionarie; e neppure più tardi arrivarono mai a comprendere un'eguaglianza sociale e giuridica, perché, ad esempio, malgrado le loro dottrine sulla dignità dell'uomo, fecero escludere dall'usufrutto i figli della schiava 7. Nel primo secolo, conservatori com'erano, non avrebbero capito un'elevazione delle classi inferiori. Trasea e altri stoici si tenevano lontani dagli affari pubblici anche perché non accettavano la politica di allivellamento di cui scorgevano i segni nel programma dei Claudi. Nello stesso regime repubblicano, ad essi conveniva l'astensione per non venir a patti col volgo; mentre nd regime monarchico, conveniva anche per non dover tener conto della venale plebe di Roma. In un discorso, Trasea stigmatizzò l'uso introdotto di servirsi di forestieri delle province e di ac­ cettarne i ringraziamenti e persino le accuse stÙ conto di funzionari ro­ mani s. Per lui e per gli altri «saggi» del tempo l'uguaglianza non aveva senso. n potere romano s'era sostenuto di regola sulle caste ricche; dovun­ que era arrivato, i suoi agenti e alleati li aveva coscritti tra gli ottimati. Con l'Impero, all'aristocrazia si aggiunse una ricca borghesia, favorita nelle città d'Italia e delle province, quale sostegno della nuova organizza­ zione imperiale; e aristocrazia e borghesia vivevano più o meno in ozio, o almeno aspiravano a vivere in ozio, stÙ lavoro sfruttato delle classi infime: proletari, liberti e schiavi. Era il censo che dava diritto a entrare nel ran­ go senatorio ed equestre: per il primo si esigeva un capitale minimo di un milione di sesterzi, per il secondo di 400 mila. Del resto, anche nel periodo democratico delle città greche, una eguaglianza civile intera non s'era mai avuta; d'ordinario tra i ricchi e i 6 Gli stranieri e gli schiavi non erano ammessi nel temenos del santuario. In mol­ ti casi erano escluse le donne; oppure gli uomini. Ai misteri erano ammessi solo gl'i­ niziati, e questi appartenevano solo a classi agiate: ne erano esclusi i contadini, gli ar­ tigiani, ecc. Peggio le cose andavano nel bramanesimo, la cui religione spartisce gli uomini in caste ermeticamente chiuse. 7 Cf. Dig. XXII, l, 28. Vedi: F. LAFERRIÈRE, De l'influence du stoicisme sur la doc­ trine des jurisconsultes romains, Paris 1860. 8 TACITO, Ann. 15, 20.

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poveri era corso un odio implacabile; e i primi facevano un giuramento d'odio classista, ricordato da Aristotele: «Giuro di essere sempre il nemi­ co dd popolo e di recargli tutto il male che potrò» 9; i secondi intendeva­ no la lotta . politica come conquista del potere per spogliare gli abbienti, per quelle redistribuzioni dei beni che diventavano pazzi sperperi della ricchezza e larghi contributi al depauperamento generale. I delitti con cui si combattevano erano orrendi: dalla vittoria dei partiti popolari balzava­ no fuori tiranni, che si tenevano col terrore, mentre l'oppressione dei partiti ricchi era bramata come conquista della libertà. La libertà per chi vinceva. Le lotte fra eupatridi e teti, patrizi e plebei furono le lotte di classe dell'antichità. Se le caste ricche erano d'accordo nello sfruttare le classi, da loro remote, separate e conculcate, dei liberi contadini e artigiani, dei coloni semiliberi e degli schiavi, erano poi profondamente scisse e avver­ se tra di loro: l'aristocrazia romana guardava con disprezzo, come a villa­ ni rifatti, ai cavalieri saliti al rango senatorio; e i senatori e i cavalieri ghi­ gnavano sull'aristocrazia dei municipi. Nei primi due secoli poi i villaggi rurali (p agi, vici) furono vivai miserabili di mano d'opera, senza diritti ci­ vili, assoggettati alle città. Se uno schiavo diveniva liberto, come Trimal­ cione, si sforzava di allontanare nel ricordo e nei rapporti la sua prece­ dente condizione sociale, soprattutto trattando con disprezzo gli ex com­ pagni di servitù. E così faceva il borghese che diveniva cavaliere, e il ca­ valiere che diveniva senatore. Furono i Severi a cercare un accordo tra gli honestiores (la ricca bor­ ghesia e la nuova aristocrazia) e gli humiliores (la massa del proletariato che difficilmente s'arrampicava al ceto superiore); ma non ci riuscirono; e ne seguì una guerra civile e sociale con quell'anarchia militare, che de­ cimò le classi benestanti e aumentò la miseria. Spesso la storiografia del mondo antico, indugiandosi sulle corti e sulle guerre, ha presentato anche le capitali, e sopra tutto Roma, come il centro sardanapalesco d'un dominio fantasticamente dovizioso. Invece, la ricchezza nel mondo antico scarseggiava, e il capitalismo, se di capitalismo si può parlare, era gretto e quasi inerte; sì che l'economia si muoveva a fa­ tica entro un circolo chiuso di scarso lavoro, scarsa produzione e scarsa capacità d'acquisto. Sotto i Giulii la massa di denaro era concentrata nelle mani di pochi multimilionari, tra cui, in testa, l'imperatore e i senatori. Al­ l'epoca di Cicerone, quando Roma costituiva il più gran mercato d'impor9 Polit. V, 7, 19.

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tazione dell 'Impero, e ci vivevano le personalità più facoltose, non supera­ vano i 2.000 quelli qui 'rem haberent, cioè che possedessero 400.000 se­ sterzi. Ciò vuoi dire che al suo tempo già, su circa mezzo milione di citta­ dini liberi, la gran massa costituiva una poveraglia. Nel secondo secolo, col distribuirsi della ricchezza attraverso le province, e con la progressiva svalutazione del denaro, di nababbi del tipo dei favoriti imperiali, Mece­ nate, Agrippa, Seneca senatore e Atte, Narcisio, Pallade liberti, non se ne incontrano più in Italia. Se ne incontra qualcuno nelle province. Tutti costoro e gl'investitori di minor forza non avevano in mente di accrescere i loro proventi, sviluppando l'agricoltura, migliorando le tec­ niche, intensificando i commerci; non foss'altro perché una maggior pro­ duzione non era sollecitata dalla domanda; ma aspiravano a sfruttar case e terreni e soprattutto a estorcer proventi dalla guerra e dall'usura, in vi­ sta d'una vita di ozi. Incantati su una tale concezione statica dell'esisten­ za, non frenati da una morale austera, non è da sorprendersi che spesso, circondandosi d'un lusso sproporzionato alle entrate, si indebitassero gravemente. Si acquistavano perle da 410 milioni di sesterzi; s'importava dall'Oriente, dall'Arabia, dall'India per 100 milioni di sesterzi all'anno di sete, lini, profumi, ecc.: «tanto il lusso e le donne ci costano !», lamentava Plinio 10. ll sibarita Gaiba usciva sempre con un carro carico d'un milio­ ne di sesterzi. Ma il tipo di questi plutocrati, che ammassavano nei palazzi statue, vesti, gioie e branchi di schiavi e costruivano ville sontuose, per godervi con gli amici e donne ozi prolungati, non ha nulla in comune con il mo­ derno capitalista, febbrilmente attivo e in cerca d'un continuo amplia­ mento della propria sfera d'affari. Già nel primo secolo si lamentava che l'accentramento delle terre in mano di pochi (latz/undia) rovinasse l'Ita­ lia. Sotto Domiziano già la produzione di vino italiano era eccessiva sì che si dovette proibire la piantagione di nuove vigne e imporre la distru­ zione di molte esistenti. n governo imperiale, solo di fronte a crisi economiche gravissime, prendeva qualche rimedio empirico; ma di solito non si curava di pro­ muovere l'agricoltura, l'industria o i commerci come farebbe un governo d'oggi: sua cura era l'esercito, per cui prelevava tasse specialmente dalle province. Non praticò, almeno nel primo secolo, una politica economica; lasciò fare, e, se emanò leggi suntuarie per frenare il lusso, lo fece per un motivo morale, e non economico. lO Hist.

Nat., VTI, 18.

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L'Italia difettava di cereali; e Roma agiva come massimo centro di consumo, enormemente accresciuta (1 .600.000 abitanti) sopra le magre risorse della Campagna Romana. Uno degli assilli maggiori dell'annona divenne appunto il vettovagliamento dell'Urbe, a cui le province, con in testa l'Egitto, inviavano grani a titolo di tributi: ma i veicoli tornavano, il più delle volte, scarichi. Queste importazioni, per le difficoltà di traffico soprattutto terrestri, non evitarono gravi carestie; e in genere non furono mai così abbondanti che potesse sfamarsi a sufficienza la misera ac ieiuna plebecula 11, stipata in quelle case sordide (vilia tecta) nelle quali si paga­ va l'alloggio, sera per sera, a uno schiavo incatenato all'uscio ( ostiario), moneta che andava ad accrescere il fondo di speculazione di senatori (compreso Cicerone) e liberti. D lusso luccicava in alto: in basso brulica­ va l'indigenza, che faceva del popolo romano una casta di mendichi. La ricchezza non circolava. Senza contare la masnada di schiavi che viveva­ no di solito una vita miserabile, la moltitudine di proletari, la faex urbana di Cicerone, stentava a risolvere la questione del vitto d'ogni giorno, quantunque non si cibasse che di pane e verdura, essendo la carne riser­ bata ai sacrifici e all'alimento dei gladiatori, minatori e . . . retori. Il fastigio dei palazzi, archi, fori, templi e dei cortei e feste era so­ vrammesso a una miseria cenciosa di fuori, ignobile di dentro: già nel­ l' anno 629 Caio Gracco aveva dovuto far approvare quella lex frumenta­ ria che dava il pane quasi gratis (5/6 d'asse per moggio) ai cittadini; e pri­ ma della dittatura di Cesare 320.000 cittadini romani, su 450.000, viveva­ no delle distribuzioni gratuite di viveri e, se clienti, esercitavano l' accat­ tonaggio della sportula, alle porte dei patroni. Cesare ridusse a 150.000 i beneficiari delle distribuzioni; ma poi crebbero ancora e si mantennero sui 200.000: enorme accattonaggio mantenuto con la pretesa che i citta­ dini di Roma dovessero essere nutriti dai popoli conquistati e più ancora determinato dalle condizioni economiche dell'infruttuosa capitale, che, consumando e non producendo, era divenuta una sorta di basso ventre dell'Impero 12 . Non era questa massa proletaria, costretta a una vita torbida e irre­ quieta, per le strade, e far da materiale coreografico per le parate dei Ce11 CICERONE, Ad. Att., l , 16, 1 1 . 1 2 Cf. DENIS VAN BERCHEN, Les distributions de blé et d'argent à la plèbe romaine .wus l'Empire, Genève 1939. Questa plebe frumentaria nel sec. I e II non rivestiva ca­ rattere di mendicità poiché pretendeva le distribuzioni come un diritto politico riser­ vato ai romani con civitas e origo romana. La plebs frumentaria si considerava classe. privilegiata. Finl, però, sotto Settimio Severo, come classe di pitocchi.

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sari, che potesse offrir capacità d'acquisto. Sullo stesso livello si trovava­ no i clienti, facce pallide di affamati, cui il patrono elargiva i rifiuti della mensa a prezzo di scherni sanguinosi, riferiti poi largamente in giro, per maggior dileggio, dai poeti satirici di Roma. I lavoratori dei campi, schiavi o liberi, non stavano meglio: se la ple­ be urbana era detta egena da Cicerone, essi erano chiamati pauperculi da Varrone. Pane e qualche legume mal condito formavano il cibo ordinario d'entrambi; sì che l'Italia con 6 milioni d'abitanti in 437 centri urbani si poteva dire un Paese quasi interamente vegetariano. . Le condizioni della capitale si ripetevano, in misura proporzionale, nei centri rurali, dove s'inurbavano, spontaneamente o espulsi dalle pro­ prie terre, anche i lavoratori dei campi, preferendo l'elemosina pubblica ma oziosa allo scarso reddito delle braccia. E col parassitismo cresceva la miseria; i campi si spopolavano, si riducevano a pascoli, s'intristivano in maremme o si sterilivano in deserti, come quelli che, per un raggio di 20100 chilometri, aduggiarono via via Roma di tristezza. Mancava il concet­ to di quella che oggi si chiama la funzione sociale della proprietà, il qua­ le avrebbe concorso a reagire a quella progressiva diserzione dai campi, conservandosi ancora il sentimento ereditato dalle prische età del posses­ so assoluto - ius utendi atque abutendi - limitato da alcune servitù giuri­ diche e politiche, ma non da obblighi morali e sociali. n cristianesimo, poiché accetta la concezione dell'origine della ric­ chezza da Dio, accetta il debito di usarne, come d'un usufrutto, in conformità alla legge morale, che non è solo quella della giustizia, ma an­ che e soprattutto quella della carità. Una carità eroica porta alla rinunzia, alla povertà volontaria, per alleviare le strettezze dei fratelli. Si ha la con­ vinzione che tra un ricco giusto e un povero giusto sia da preferire il se­ condo: il primo per raggiungere la perfezione dovrebbe vender tutto e dare il ricavato ai poveri. Si capisce come, con tali principi, il cristianesimo urtasse contro la concezione pagana del traffico del denaro (usura, interesse) e della pro­ prietà assoluta. Esso oppone la relatività dei beni e d'ogni proprietà, come di ogni altro elemento terreno, e la loro subordinazione ai fini ultimi della vita, quindi all'obbligo onnipresente della carità verso il prossimo. Gli aposto­ li non contestano mai il diritto di proprietà (proprietà relativa, rispetto al Signore), ma ritengono, con la sapienza giudaica, che i frutti appartenga­ no a tutti gli uomini, essendo tutti figli di Dio, il padrone. Quindi la pro­ prietà è giusta, è cristiana, in quanto, e sino a quando, permette a tutti di nutrirsi, vestirsi, alloggiare ecc.: in quanto è un servizio sociale.

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Al fine di estendere a tutti l'usufrutto dei beni creati, vediamo i più abbienti, o i meno poveri tra i fedeli, vendere o almeno elargire contribu­ ti liberalmente, aiutando pupilli e vedove, ospitando la chiesa, i pellegri­ ni, dando banchetti ai poveri in certe circostanze; considerando negli at­ ti la ricchezza, non come un fine, ma come un mezzo. Genesi legittima della proprietà - come si deduce dalle spiegazioni di Paolo è il lavoro; fonte illegittima è la disonestà: «Chi rubava, non rubi più: anzi lavori con le proprie mani, a qualche cosa di onesto, in mo­ do che abbia da dare a chi versa in necessità» 13. «Nessuno soverchi o fac­ cia frode al proprio fratello negli affari» 1 4. La smania di arricchire porta alle crisi di sopraproduzione, d'egoi­ smo, d'individualismo: non si deve amare il denaro pel denaro, facendo­ sene un dio: l'avarizia è un'idolatria; e quindi chi fa scopo della vita l'ar­ ricchimento non può essere seguace di Cristo 15. La ricchezza deve servi­ re a noi: non noi alla ricchezza: verso di essa il cristiano deve sentirsi libe­ ro, come a dire signore e padrone 1 6 . Alla ricchezza materiale va anteposta quella spirituale, che si accu­ mula con le buone opere. Il cristiano, come il saggio razionale del paga­ nesimo, si contenta di poco: conosce la relatività, l'incertezza e i rischi morali dei beni di fortuna: «nulla abbiamo portato in questo mondo, e nulla, senza dubbio, possiamo portame via. Se abbiamo gli alimenti e di che coprirci contentiamoci . . . Radice di tutti i mali è la cupidigia» 17. -

INDUSTRIA, COMMERCIO, USURA

Questo precetto ascetico va di pari passo con l'altro sul dovere del lavoro: e vuoi dire che si deve, lavorando, acquistar una ricchezza, ma non per sé soli (per sé basta il necessario) , bensì anche per chi non è in 13 E/4 28. ,

14 l Ts 4, 6. 15 «Avaro è lo stesso che idolatra» (E/ 5, 5. Cf. 1 Cor 5, l 0- 1 1 ; Co/ 3 , 5-6) .

16 L' idea

-

è presente alla buona speculazione classica, specie degli stoici. Aveva detto ORAZIO (Epist. 10, 39-4 1 ) : Sic qui pauperiem veritus, potiore metalli's Libertate caret, dominum vehit improbus atque Serviet aeternum, quia parvo nesàet uti. E anche: Impera! aut servit collecta pecunia cuique (ib., 47). 17 1 Tm 6, 7 .8. 10.

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grado di procurarsi questo necessario. Una ricchezza fluida quindi, . che non s'accumula e non s'accentra mai, poiché si redistribuisce via via che si forma, refluendo in rigagnoli numerosi per un continuo sforzo di pari­ ficazione economica 1s. Non può quindi collocarsi nel sistema di questa economia laboriosa e disinteressata un capitalismo che affoghi nell'abbondanza in mezzo a un proletariato che soffra di penuria: un Vitello saturo, in mezzo a schia­ vi macilenti. La ricchezza insomma è come il seme che è fatto per spandersi in frutto e non per rinchiudersi: chi più ne prodiga, più raccoglie. n più ric­ co è chi più dà. Il migliore investimento dei propri capitali si fa elargen­ done, quanto più grande porzione si può, a sollievo dei diseredati; sem­ pre per la funzione sociale, che, per la dipendenza dell'etica dalla religio­ ne, di tutto l'umano dal giudizio divino, diviene funzione religiosa della proprietà, i cui proventi possono e debbono fornire il prezzo «d'acquisto della vera vita» 19. n lavoro si svolgeva normalmente nell'industria, nell'agricoltura e nel commercio. L'industria era scarsa; anche se non proprio stagnò, come si è preteso, in semplice economia domestica. Ma fu certo un cespite di ricchezza assai inferiore all'agricoltura, che rimase il nerbo dell' econo­ mia. Lo stesso si dica di altre fonti, come le miniere, possedute in gran parte dallo Stato, in Italia, Spagna, Macedonia, Asia Minore, e poi in Dal­ mazia, Gallia, Norico, Britannia, Dacia, Egitto. Talune vennero affidate allo sfruttamento privato, come in Sardegna e Spagna, esercito con mano d'opera servile. In Macedonia predominavano i salariati liberi. In Egitto si adibivano i forzati. Ma lo Stato tendeva al monopolio, mediante una gestione diretta, per mezzo di funzionari imperiali e di mano d'opera di condannati. Nel primo secolo i commerci erano fiorenti soprattutto da e con l'I­ talia. Pozzuoli, quando Paolo vi sbarcò in catene, era il primo porto della penisola; poi subì la concorrenza vittoriosa di Ostia. Nell'Adriatico, fiori­ vano Aquileia per le regioni danubiane e Brindisi per la Grecia. Vi afflui­ vano merci da tutte le province dell'Impero, e da regioni estraimperiali, çome l'India, la Persia, l'Arabia; soprattutto grano e articoli di lusso. All'epoca di Domiziano, l'Egitto era direttamente unito all'India, da cui importava cotone e seta che si lavorava in Alessandria e si rie1 8 Cf. 2 Cor 8, 13 . 1 9 1 Tm 6, 19.

·:.. .

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sportava pel Mediterraneo insieme con vetrerie, gioielli, carta, profumi, manufatti di metallo. Manufatti erano esportati, insieme con vino e olio, dall'Italia: ma l'evoluzione della Gallia e Spagna, e la concorrenza della Grecia e dell'Asia Minore stavano inaridendo anche questo cespite. In Gallia prosperava il porto di Marsiglia; in Grecia quello di Corinto, con un esercito di più di 400.000 schiavi, e rimescolio di razze, e 1 .000 corti­ giane al tempio di Venere. In quel centro Paolo riuscì a impiantare una fiorente comunità. Pei commerci Roma, coi suoi milionari, e la plebe da sfamare e di­ vertire, e l'esercito da equipaggiare, costituiva il maggior mercato. L' au­ tore dell'Apocalisse, da buon giudeo, sa valutare il traffico di quella Ba­ bilonia, i cui mercanti erano i grandi della terra, importando ed espor­ tando a tutte le nazioni, intossicandole; e prevede che la rovina della città causerà la rovina del commercio. La carestia, che l'Apocalisse antivede e preannunzia, si doveva soprattutto alla difficoltà dei trasporti, da cui era­ no colpite maggiormente le città lontane dalla costa, nelle quali la carica pubblica del capo dell'annona, il ottrovnç (compratore di frumento) , era tanto importante quanto ardua e, in certe crisi, pericolosa. Nelle carestie periodiche che affliggevano l'Italia e le province 2o il sistema di assistenza caritativa, mediante collette raccolte tra le comunità lontane non afflitte dalla crisi, sollevò le condizioni dei cristiani e venne in soccorso anche dei non cristiani. Da Cicerone a Plinio, disprezzandosi il commercio e l'industria, ol­ tre il lavoro manuale, chi aveva ricchezze le investiva in terre, soprattutto in Italia, o le imprestava a usura 2 1 , I fondi rurali, con ville , tendevano ad allargarsi, includendo le terre dei piccoli proprietari vicini, costretti, spesso, a passare alla condizione di coloni semiliberi; sì che di quanto s'arricchivano i primi, di tanto s'impoverivano i secondi; e le distanze au­ mentavano. Seneca, saepe noster, ed effettivamente un'anima nobile ac­ canto a un sovrano criminale, predicava il distacco dai beni, ma ne accu­ mulava quanti più poteva, e prestava a usura, esigendo restituzioni e inte20 Circa la fame minacciata dall'Apocalisse, va ricordato che nel 1 924 fu scoper­ ta, da W. Ramsay e dalla Michigan Expedition, in Antiochia di Pisidia, un'iscrizione latina dell'anno 93 relativa appunto a una grande carestia e fame nell'Asia Minore. La difficoltà dei trasporti era prevalentemente dovuta al difettoso impiego del traino ani­ male (per l' «attacco» irrazionale delle bestie da soma e l'ignoranza del loro impiego collettivo): difettosa tecnica, che sarebbe stata la causa principale della schiavitù, se­ condo R. LEFEBVRE DES NOETIES, La force animale à travers les ages, Nancy-Paris 1.924. 21 Cf. TACITO, Ann. XIV, 42.

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ressi con una rapacità nociva allo stesso interesse statale 22; ed era uno dei maggiori capitalisti del suo tempo. Insegnava che basta possedere quan­ to è necessario e sufficiente, ma coltivava l'ideale dell'uomo felice, come d'un ricco che dispone anche di molti prestiti con un rigoroso registro delle scadenze 23 . Al pari degli altri filosofi, fu, insomma in economia co­ me in politica, un reazionario: e la loro opposizione, sotto i Flavi, era di­ retta, non a rinnovare la repubblica, ma soprattutto a combattere le in­ novazioni democratiche. Plinio, ottimo funzionario nel senso romano, fa­ ceva lo stesso: ammassava denaro, sperando d'arrivare a un capitale tra i maggiori nelle amministrazioni, e piaggiando vecchie vedove per eredita­ re; prestava e investiva in terreni: latifondista e creditore, secondo l'idea­ le suo e di tutti. Intanto era arrivato a un reddito di 900.000 sesterzi, con una proprietà immobiliare di circa 40 milioni, e denaro liquido per un milione di sesterzi. Cicerone era amico e avvocato di usurai d'alto rango e pubblicani e banchieri rapaci. Il Salvioli, che ci presenta sotto la luce dell'interesse economico tante figure di solito prospettate solo sotto l'aspetto politico, racconta che Attico, già ricco, ereditò 10 milioni di sesterzi da uno zio usuraio, astutamente alternò atti di vivace speculazione con atteggiamen­ ti di letterato mecenate, fece un allevamento di gladiatori per affittarli, e si associò al fiero Catone, autore della formula capitalistica che «scopo di vivere è la concentrazione di denaro e di terra, il creare per mezzo di spe­ ·Culazioni nuovi capitali per comprare altra terra». In vecchiaia, Attico di­ sponeva d'una rendita di 12 milioni di sesterzi; e non si contentava. n suo amico Cicerone «si vantava di aver ricevuto legati per 20 milioni di se­ sterzi. Augusto per 4 miliardi ! Parassitismo disonorevole in ogni società, dove gran parte della ricchezza era parassitaria: dalla guerra allo sfrutta­ mento delle province» 24. Operazioni oneste, che si potevano apprendere alla scuola di Cato­ ne, erano: assicurar navi, prestare a cambio marittimo, associarsi con ca­ pitani di mare, addestrare schiavi per venderli come cuochi o ballerini, medici, pedagoghi, eunuchi, scartando gl'inidonei che erano inviati agli ergastoli dei campi. Egli vendeva i servi vecchi: