Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all'opera di Giovanni Colonna. Ediz. italiana, francese e inglese 9788862272353, 9788862274098

Il volume è dedicato a Giovanni Colonna, uno studioso che ha profondamente marcato le vicende e lo sviluppo degli studi

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Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all'opera di Giovanni Colonna. Ediz. italiana, francese e inglese
 9788862272353, 9788862274098

Table of contents :
SOMMARIO
TABULA GRATULATORIA
STORIA E ANTICHITÀ
AMBER ABROAD Larissa Bonfante
RIPENSANDO POMPEI ARCAICA Maria Bonghi Jovino
LAUSUS, FILS DE MÉZENCE ET LE LAUCIE MEZENTIE DE L’INSCRIPTION DU LOUVRE Dominique Briquel
MAESTRI D’ARTE E MERCANTI D’ARTE AI PRIMORDI DELLA STORIA ETRUSCA Giovannangelo Camporeale
IL DIRITTO DELLA CITTÀ E LE SITUAZIONI MARGINALI Luigi Capogrossi Colognesi
L’AGGUATO DI HAMAE Luca Cerchiai
LA TOMBA 722 DI CAPUA LOC. LE FORNACI E LE PREMESSE DELL’ORIENTALIZZANTE IN CAMPANIA Bruno d’Agostino
UN NOME PER PIÙ REALTÀ: TIRRENIA E TIRRENI NEGLI ETHNIKÁ DI STEFANO BIZANTINO Daniele F. Maras · Laura M. Michetti
APUNTES SOBRE LA INTERVENCIÓN DE PORSENNA EN ROMA Jorge Martínez-Pinna
LOCUS ARDEA QUONDAM DICTUS AVIS OU VARIATIONS SUR LE SUJET D’UNE HISTOIRE Françoise-Hélène Massa-Pairault
UN SITO DI FRONTIERA DELLA PRIMA ETÀ DEL FERRO NEL TERRITORIO DI TUSCANIA Anna Maria Moretti Sgubini
MANUFATTI ETRUSCHI E ITALICI NELL’AFRICA SETTENTRIONALE (IX-II SEC. A.C.) Alessandro Naso
I LIBRI DI NUMA POMPILIO Giovanna Rocca
IL TYPPHNIKON EQOS DI DION. HAL. III, 61, 2. NUOVI ELEMENTI SULL’ORIGINE E LA NATURA DELL’IMPERIUM Elena Tassi Scandone
RELIGIONE
FUNZIONE DEI GRANDI DONARI ATTICI DI VEIO-PORTONACCIO Maria Paola Baglione
UN RITO DI OBLITERAZIONE A POPULONIA Gilda Bartoloni
UN PROGRAMMA FIGURATIVO TROIANO A VOLTERRA NEL I SEC. A.C. Marisa Bonamici
UN NUOVO SANTUARIO DEL TERRITORIO FIESOLANO. SU UN RITROVAMENTO DI ETÀ RINASCIMENTALE A SAN CASCIANO IN VAL DI PESA Stefano Bruni
SEEFAHRERGESCHICHTEN − GÖTTERGESCHICHTENO DER DER HUNGER NACH BILDERN. ZUR FASZINATION DES GRIECHISCHEN MYTHOS IN DER ETRUSKISCHEN KULTUR Ingrid Krauskopf
TLUSCHVA, DIVINITÀ CTONIE Adriano Maggiani
CITTÀ ETRUSCA DI MARZABOTTO: UNA FORNACE PER IL TEMPIO DI TINA Giuseppe Sassatelli
ZUM TERRAKOTTA-GIEBEL VON DER VIA DI SAN GREGORIO Erika Simon
LE AMAZZONI DI EFESO E L’ITTIOMANZIA DI SURA. APPUNTI SULLA DECORAZIONE PITTORICA DEL TEMPIO DI PORTONACCIO DI VEIO Mario Torelli
LINGUA ED EPIGRAFIA
FELUSKES O QELUSKES SULLA STELE DI VETULONIA? Luciano Agostiniani
LETTERE E IMMAGINI: ESEMPI ETRUSCHI DI PAROLA ISPIRATA Giovanna Bagnasco Gianni
‘VORNAMENGENTILIZIA’. ANATOMIA DI UNA CHIMERA Enrico Benelli
I NUMERALI ETRUSCHI E D. STEINBAUER: ANCORA «L’ORIGINE DEGLI ETRUSCHI» Carlo de Simone
AESERNIA: APPUNTI PER UN’ETIMOLOGIA Maria Pia Marchese
SUL TIPO ATTA ‘PADRE’ IN ALCUNE TRADIZIONI INDEUROPEE: TRA LESSICO ISTITUZIONALE E FUNZIONALITÀ ONOMASTICA Aldo Luigi Prosdocimi · Anna Marinetti
LO STRANO VASO DI CAVIOS FRENAIOS Francesco Roncalli
UN BOLLO LATERIZIO DAL SANTUARIO DEL MONTE SAN NICOLA DI PIETRAVAIRANO (CE) Gian Luca Tagliamonte

Citation preview

S TUD I A ERU D I TA 14.

C O RO LLA R I Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all’opera di Giovanni Colonna promossi da gilda bartoloni, carmine ampolo, maria paola baglione, fr ancesco roncalli, giuseppe sassatelli

a cur a di daniele f. mar as

PISA · ROMA FABRIZ IO S E RRA E D ITO RE MMX I

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] www.libraweb.net issn 1828-8642 isbn 978-88-6227-235-3 isbn elettronico 978-88-6227-409-8

SO MMARI O storia e antichità Larissa Bonfante, Amber abroad Maria Bonghi Jovino, Ripensando Pompei arcaica Dominique Briquel, Lausus, fils de Mézence, et le Laucie Mezentie de l’inscription du Louvre Giovannangelo Camporeale, Maestri d’arte e mercanti d’arte ai primordi della storia etrusca Luigi Capogrossi Colognesi, Il diritto della città e le situazioni marginali Luca Cerchiai, L’agguato di Hamae Bruno d ’ Agostino, La tomba 722 di Capua loc. Le Fornaci e le premesse dell’Orientalizzante in Campania Daniele F. Maras, Laura M. Michetti, Un nome per più realtà: Tirrenia e Tirreni negli Ethniká di Stefano Bizantino Jorge Martínez-Pinna, Apuntes sobre la intervención de Porsenna en Roma Françoise-élène Massa-Pairault, Locus Ardea quondam dictus avis ou variations sur le sujet d’une histoire Anna Maria Moretti Sgubini, Un sito di frontiera della prima età del Ferro nel territorio di Tuscania Alessandro Naso, Manufatti etruschi e italici nell’Africa settentrionale (ix-ii sec. a.C.) Giovanna Rocca, I Libri di Numa Pompilio Elena Tassi Scandone, Il T˘ÚÚËÓÈÎeÓ öıÔ˜ di Dion. Hal. iii , 61, 2. Nuovi elementi sull’origine e la natura dell’imperium

1 4 14 19 24 29 33 46 56 61 70 75 84 87

religione Maria Paola Baglione, Funzione dei grandi donari attici di Veio-Portonaccio Gilda Bartoloni, Un rito di obliterazione a Populonia Marisa Bonamici, Un programma figurativo troiano a Volterra nel i sec. a.C. Stefano Bruni, Un nuovo santuario del territorio fiesolano. Su un ritrovamento di età rinascimentale a San Casciano in Val di Pesa Ingrid Krauskopf, Seefahrergeschichten – Göttergeschichten oder der Hunger nach Bildern. Zur Faszination des griechischen Mythos in der etruskischen Kultur Adriano Maggiani, Tluschva, divinità ctonie Giuseppe Sassatelli, Città etrusca di Marzabotto: una fornace per il tempio di Tina Erika Simon, Zum Terrakotta-Giebel von der Via di San Gregorio Mario Torelli, Le amazzoni di Efeso e l’ittiomanzia di Sura. Appunti sulla decorazione pittorica del tempio di Portonaccio di Veio

95 102 111 121 133 138 150 159 163

lingua ed epigrafia Luciano Agostiniani, Feluskes´ o £eluskes´ sulla stele di Vetulonia? Giovanna Bagnasco Gianni, Lettere e immagini: esempi etruschi di parola ispirata Enrico Benelli, ‘Vornamengentilizia’. Anatomia di una chimera Carlo de Simone, I numerali etruschi e D. Steinbauer: ancora «L’origine degli Etruschi» Maria Pia Marchese, Aesernia: appunti per un’etimologia Aldo Luigi Prosdocimi, Anna Marinetti, Sul tipo atta ‘padre’ in alcune tradizioni indeuropee: tra lessico istituzionale e funzionalità onomastica Francesco Roncalli, Lo strano vaso di Cavios Frenaios Gian Luca Tagliamonte, Un bollo laterizio dal santuario del Monte San Nicola di Pietravairano (ce )

177 185 193 199 206 210 223 232

(foto B. Belelli Marchesini)

«Praecipuus autem discendi gradus est, mutuus inter docentem ac discentem amor» (Erasmo da Rotterdam, Colloqui − La puerpera)

TA B U LA G R AT U LAT O R I A Luciano Agostiniani Luciana Aigner Foresti Archäologisches Institut der Albert-Ludwigs-Universität Maria Paola Baglione Giovanna Bagnasco Gianni Lyn Bailey, Classical Faculty Library University of Cambridge Gilda Bartoloni Enrico Benelli Martin Bentz, Archaologisches Institut der Univ. Bonn Biblioteca di Etruscologia e Antichità Italiche, Dipartimento di Scienze dell’Antichità Biblioteca Interdipartimentale ‘Tito Livio’, Università di Padova Marisa Bonamici Larissa Bonfante Maria Bonghi Jovino Dominique Briquel Stefano Bruni Paolo Bruschetti Slobodan Cace, Filozofski Fakultet Giovannangelo Camporeale Luigi Capogrossi Colognesi Piero Cavicchi Luca Cerchiai, Università di Salerno, Dipartimento di Beni Culturali Antoine Charlot, École Normale Supérieure, cnrs Mario Colonna Alessandro Conti Michael Crawford, Hewson Department of History, University College London Irene Cucchiarini Bruno d ’ Agostino Filippo Delpino Dipartimento di Scienze del Testo Università di Urbino ‘Carlo Bo’ Sergio Donadoni Anna Eugenia Feruglio Fondazione Famiglia Rausing Fondazione Museo ‘Claudio Faina’, Direzione Institutum Romanum Finlandiae, Villa Lante Istituto Archeologico Germanico, Biblioteca Istituto Nazionale di Studi Etruschi Ed Italici Istituto Svedese di Studi Classici a Roma Ingrid Krauskopf, Institut für Klassische Archaologie Adriano La Regina, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia Dell’arte Elisa Lissi Caronna Beniamino Lazzarin Patricia Lulof, Amsterdam Archaeological Center University

Francesco Marcattili Roberto Macellari Adriano Maggiani, Università Ca’ Foscari, Venezia Carolina Maggio Vincenzo Manniello Daniele Federico Maras Maria Pia Marchese Bastianini Jorge Martinez-Pinna Françoise-Hélène Massa Pairault Max-Planck-Gesellschaft zur Forderung der Wissenschaften E.V.Kunzsthist. Laura Maria Michetti Mette Moltesen, NY Carlsberg Glyptotek Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie, Direzione Generale Musees Royaux d’Art et d’Histoire Bibliotheque Antique Alessandro Naso, Institut für Archaeologien Marjatta Nielsen Friedhelm Prayon, Institut für Klassische Archäologie Schloss Cristoph Reusser, Archaeologisches Institut Giovanna Rocca Francesco Roncalli Maurizio Sannibale Giulia Sarullo Giuseppe Sassatelli, Università di Bologna, Dipartimento di Archeologia Scienze dell’Uomo, del Linguaggio e dell’Ambiente, Libera Università di Lingue e Comunicazone, iulm Erika Simon Stephan Steingraeber Christopher Smith, British School at Rome Janos Gyorgy Szilagyi, Museo di Belle Arti Gian Luca Tagliamonte Pietro Tamburini Elena Tassi Scandone Mario Torelli Università degli Studi di Catanzaro ‘Magna Grecia’, Centro Gestione Bibliotecaria, Facoltà Giurisprudenza Università Cattolica S. Cuore, Biblioteca Università Italiana per Stranieri, Biblioteca Universitäts und Landesbibliothek Tirol Universität Bern, Institut für Archäologische WissenschaftenAbt. Arch. des Mitte Université de Strasbourg, Bibliothèque de la Misha Bouke L. van der Meer Frank van Wonterghem & Katrien Maes Cornelia Weber-Lehmann, Institut für Archäologie Fausto Zevi

S TORIA E AN T I C H I T À

AMBE R ABROAD Larissa Bonfante

F

or Giovanni Colonna, who has traced the history and movements in antiquity of peoples and objects in Italy, I bring news of Italic amber in places far from the usual amber routes. Scholars have learned a great deal about the ancient trade and exchange mechanisms that moved this precious material to Italy and within the peninsula, from the Iron Age to the fifth century and later, into Roman times.1 All this amber came from the Baltic, and scholars have traced the ancient routes, from 2,000 BC on,2 along which Etruscan exchanges with the chieftains of northern and central Europe took place. Huge amounts of amber were buried in the eighth- and seventh-century graves of important women in the necropoleis of the Etruscan cities and beyond – from Verucchio in the north, on the route through which the amber traveled, to Capua in the south.3 The amber display in the new Etruscan gallery of the Metropolitan Museum features fibulas from this early period decorated with huge pieces of amber, as well as a remarkable piece of carved amber from the sixth century, a small sculptured group of a loving couple reclining on a kline. It represents a tour de force by one of the Italic craftsmen who had adapted a new way of working amber, no doubt learned from ivory carvers of the Archaic period.4 Similarly carved, smaller, less ambitious amber pieces were found in the fifth- to fourth-century graves of women in the Basilicata and inland areas of southern Italy where amber was imported from the northern regions by way of the Picene, on the Adriatic coast.5 Skilled craftsmen carved the material into human and animal images in an archaic

style like that of their Etruscan and Greek neighbors to the North and to the East, in a period when these had stopped importing amber.6 The women in whose graves they were found were members of an elite of a region that was far wealthier and more sophisticated than scholars had heretofore realized. These great ladies wore the amber amulets as pendants in life for their weddings and then at the final funeral rites,7 at moments when they needed the protection of amber’s magical power, and when their beauty and great value of these jewels glorified their elite status and the importance of their families. Comparison with carved amber from recent excavations are allowing scholars to recognize types of unprovenanced material and even to re-contextualize objects from older collections.8 I would like to draw attention to two pieces of carved amber from a collection recently acquired by the Nasher Museum in Duke University,9 whose style and iconography are typical of carved amber from a well-defined region of southern Italy. The first (Figs. 1-2) is a golden-brown dolphin, sinuously rounded, three-dimensional and full of movement, so that it almost gives the impression of hovering over the sea.10 It is one of the handsomest examples of carved amber dolphins and fish from this area.11 This sea creature and others are no doubt symbols of Dionysus, as are an amber grape cluster and other carved amber pieces from Basilicata, such as the heads of maenads, satyrs, and the satyr and maenad group in the British Museum,12 all of which were evidently felt to have been efficacious in protecting the women in whose graves they were placed. The relationship of dolphins and the sea to Dionysos13 is

Fig. 1. South Italian amber dolphin, Nasher Museum in Duke University. 4th century BC. Inv. 2006.1.232. L. 6.6 cm, H. 1.5 cm approx., W. 1.3 cm approx. (Museum photo).

Fig. 2. South Italian amber dolphin (Drawing by Elisabeth Vitale).

1 Negroni Catacchio 1976, 1978 a-b, 1989a, Mastrocinque 1991. Recent conferences, exhibits and publications have made information about ancient amber available: Ambra, oro del Nord 1978; von Eles 1994; Magie d’Ambra 2005; Treasures 1999; Trésors antiques 2005; Palavestra 2006; Nava, Salerno 2007; Palavestra 2009. 2 Beck 1965, pp. 52-55; 1995, pp. 125-135; Wells 1996, p. 262; Negroni Catacchio 1976, p. 23: «…lo sbocco di questa via [la più orientale] si trovava ad essere, durante l’età del ferro, il punto di contatto tra le genti europee e quelle del mondo mediterraneo, dagli Italici, agli Illiri, ai Greci». 3 Verucchio: von Eles 1994. Capua: Allegro, Santaniello 2008, pp. 19-20, and pp. 27-30, remarking on the wealth of the woman’s graves (20). 4 Causey Frel 1984, pp. 38-64; Picòn et al. 2007, pp. 284, and p. 471, No. 326. For the relation to the ivory carvers see Warden 1994, pp. 134-143. 5 Randall-MacIver 1927: «Picenes look not to the west and north so much as to the south and east…» (109). 6 Strong 1966, p. 23: «After about 600 BC the taste for amber seems to have shifted entirely to the peripheral regions of the Greek colonial area».

7 Negroni Catacchio 2007; Bottini 2007, p. 232. 8 Strong’s catalogue of the Italic ambers in the collection of the British Museum has been the standard publication on carved amber. The large collections of the Getty Museum and the Metropolitan Museum await fuller publication. 9 The gift of an anonymous donor in 2006, from a private collection assembled between the 1920s and the early 1970s. 10 South Italian amber dolphin, 4th c. BC, Inv. 2006.1.232 (L: 6.6cm, H: 1.5 cm approx. w: 1.3 cm approx.). 11 A fish from a sixth-century tomb in Basilicata with incised anatomical details, eyes, mouth and fins is flatter than the dolphin in North Carolina. Bianco, in Magie d’Ambra 2005, pp. 101-102: «Raffigurazioni di pesci in ambra sono note in area etrusca e nel Vallo del Diano». 12 Bottini 2007, pp. 233-235. Grape cluster: Magie d’Ambra 2005, p. 104 and 108. 13 Dionysos and the sea: Slater 1976, pp. 161-170; Davies 1978, pp. 72-95.

2

larissa bonfante

Fig. 4. South Italian amber female head, Nasher Museum in Duke University. 6th century BC. Inv. 2006.1.231. H. 4.7 cm, W. 5.4 cm, D. 2 cm (Museum photo).

Fig. 3. Etruscan black figure hydria, Toledo Museum of Art, 510-500 BC. Inv. Toledo 1982.134. H. 46 cm (Museum photo).

Fig. 5. South Italian amber female head (Drawing by Elisabeth Vitale).

confirmed by the iconography of a number of sixth- and fifth-century monuments in Italy. Dolphins appear on a remarkable black-figure Etruscan vase in Toledo. (Fig. 3) It 14 Martelli 1987, p. 311, Cat. No. 130, figs. on pp. 176-177. Attributed to the Painter of Vatican 238 (Kaineus Painter). See also Cat. No. 119 for a dolphin on an amphora belonging to the Ivy Leaf group, representing festivals dedicated to Dionysos: Werner 2005. 15 Hymn. Hom., Dion., 38-42. 16 South Italian amber female head, 6th c. BC, Inv. 2006.1.231. (h: 4.7cm, w: 5.4cm, d: 2cm). Purchased on May 14, 1970 from the Mathias Komor Gallery (19 East 71st Street New York, NY 10021), ex-Collection Blackford.

represents a series of miraculous events described in the Homeric Hymn to Dionysos, when the god’s power turns into dolphins the pirates who – unaware of his divine identity – have kidnapped him in order to hold him for ransom.14 On the vase, the men are undergoing their metamorphoses one at a time, even as they jump into waves. The great ivy branches that are said in the Hymn to have miraculously spread over the ship’s mast symbolize the power of the god, who is otherwise invisible.15 The second piece (Fig. 4), carved of a darker, brownishred amber, represents the head of a woman in profile, perhaps a maenad and thus also a Dionysiac symbol.16 It is cut off at the neck, turns to the right, and has distinctive features, with small nose and mouth and enormous eyes. The hair is tied up into a head cloth, through which appears the shape of a high bun, the typically archaic, sixth-century Etruscan tutulus hairstyle.17 A coronet headpiece holds it in place over her forehead, while some hair appears in parallel lines below it over her temples. Similar striations above the neck appear to be the border of the cloth tied around the head. The piece belongs to a distinctive group of carved amber heads with huge eyes. Strong had already identified a group of such female heads with enormous almond-shaped eyes, small nose, head cloth and hair falling in deep waves on the forehead, attributing them to Campania, and noting the wide distribution that testified to their popularity.18 They are carved in a flat piece of amber, more like reliefs than sculpture in the round (Fig. 5).19 Excavated examples have shown the type to be typical of Roscignano, or Roccanova.20 While the surface of the dolphin preserved its original flawlessly smooth polish, the female head has abrasions and chipping on the hair and head covering, above the ear and on the hair above the forehead. Furthermore, a round plug was drilled out of an area just behind the ear, and filled in with a round piece of a different color. This was done in antiquity, and is a feature of many of these amulets that is not easy to explain: perhaps it was a way to extract a small piece 17 Bonfante 2003, pp. 75-76. 18 Strong 1966, pp. 30-31, figs. 44-53. «Lucania …is the most likely centre but one cannot rule out the possibility of centres in Apulia where such fine pieces as the head from Roccanova… have been found» (31). 19 Compare Strong 1966, p. 52; Alfonsina Russo, in Magie d’Ambra 2006, p. 115; and Bottini 2007, p. 235, fig. 4. 20 Salvatore Bianco, in Magie d’Ambra 2006, pp. 103-107.

amber abroad of amber to use for medicinal purposes, to burn it, or for some other reason not clear to us today. There are cases where the extractions are much more destructive, and seem to have been carried out without any regard for the esthetic quality of the image.21 Amber was valued more than gold or silver for thousands of years in many parts of the world. Amber jewels protected their owners because of its special magical and medicinal qualities, adorned great ladies, and proclaimed the wealth and status of their families. These two small amber amulets reflect the specialized craft of amber carving in a particular region of Italy during the fifth century BC, using an archaic style that preserved much of its religious, ritual character, with an Dionysiac symbolism that enhanced their protective power. Even today, when we admire the translucence, color and textures of the amber amulets these great ladies took to their graves and the symbolic images into which they were carved, we can understand some of their ancient power.

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Allegro, Santaniello 2008 = Nunzio Allegro, Emanuela Santaniello, L’abitato della prima fase di Capua. Prime testimonianze, Pisa-Roma, Serra, 2008 («Biblioteca di Studi Etruschi», 44). Ambra 1978 = Ambra, oro del Nord, Exhibit Cat. (Venice, Palazzo Ducale, 1978), Venice, Alfieri, 1978. Beck 1995 = Curt W. Beck, The Provenience Analysis of Amber, in Science in Archaeology: A Review, «AJA», 99, 1995, pp. 125-135. Beck, Langenheim 1965 = Curt W. Beck, Jean H. Langenheim, Infrared Spectra as a Means of Determining Botanical Sources of Amber, «Science», 149, No. 3679, Jul. 2, 1965, pp. 52-55 («American Association for the Advancement of Science»). Bonfante 2003 = Larissa Bonfante, Etruscan Dress, Updated edition, Baltimore, John Hopkins University Press, 2003. Bonfante 2009 = Larissa Bonfante, Some Thoughts on Orientalizing Amber in Italy, in Palavestra 2009. Bottini 2007 = Angelo Bottini, Le ambre nella Basilicata settentrionale, in Nava, Salerno 2007, pp. 232-237. Causey Frel 1984 = Faya Causey Frel, Studies in Greek, Etruscan, and Italic Carved Ambers, PhD diss., University of California, Santa Barbara, 1984. Davies 1978 = Mark I. Davies, Sailing, Rowing, and Sporting in One’s Cups on the Wine-Dark Sea, in Athens Comes of Age. From Solon to Salamis, ed. William Childs, Princeton, Princeton University Press, 1978, pp. 72-95. Gaultier, Metzger 2007 = Françoise Gaultier, Catherine Metzger (eds.), Les Bijoux de la Collection Campana. De l’antique au pastiche, Actes du Colloque International (Paris, Ecole du Louvre, 2006), Paris, 2007. Magie d’Ambra 2006 = Magie d’Ambra. Amuleti e gioielli della Basilicata antica. Exhibit Cat. (Potenza, Museo Archeologico Nazionale della Basilicata, 2 dicembre 2005 - 15 marzo 2006), Lavello (Potenza), Museo Archeologico Nazionale della Basilicata «Dinu Adamesteanu», 2006. Mastrocinque 1991 = Attilio Mastrocinque, L’ambra e l’Eridano. Studi sulla letteratura e sul commercio dell’ambra in età preromana, Este, Zielo, 1991 («Pubblicazioni di Storia antica, Università di Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche» 3). Nava, Salerno 2007 = Maria Luisa Nava, Antonio Salerno, Ambre. Trasparenze dall’Antico, Exhibit Cat. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 2007), Milan, Electa, 2007.

Negroni Catacchio 1976 = Nuccia Negroni Catacchio, Le vie dell’ambra. I passi alpini orientali e l‘alto Adriatico, in Aquileia e l’arco alpino orientale, Atti della Giornata di Studi (Aquileia, 1975), Udine, Arti Grafiche Friulane, 1976, pp. 21-59. Negroni Catacchio 1978a = Nuccia Negroni Catacchio, L’ambra nella protostoria italiana, in Ambra 1978, pp. 00-00. Negroni Catacchio 1978b = Nuccia Negroni Catacchio, Le ambre figurate protostoriche nel quadro di uno studio generale dell’ambra nell’antichità, estratto da: Un decennio di ricerche archeologiche, «Quaderni de la ricerca scientifica», 100, Rome, cnr, 1978. Negroni Catacchio 1989a = Nuccia Negroni Catacchio, L’ambra: produzione e commerci nell’Italia preromana in Italia omnium terrarum parens, Milan, Scheiwiller, 1989, pp. 659-696. Negroni Catacchio 1989b = Nuccia Negroni Catacchio, Le vesti sontuose e gli ornamenti. Monili d’ambra. Monili d’ambra e di materie preziose nelle tombe femminili di età orientalizzante in Italia, in Scripta Praehistorica in Honorem Biba Terzan, eds. Martina Blecic et al., Ljubljana, Narodni Muzej Slovenja, 1989 («Situla», 44), pp. 533-556. Palavestra 2009 = Aleksander Palavestra, in Fifth International Amber Conference, Belgrade (Belgrade, National Museum of Art, May 2006), Belgrade, National Museum, 2009. Palavestra, Krstic 2006 = Aleksander Palavestra, Vera Krstic, The Magic of Amber, Exhibit Cat. (Belgrade, National Museum, 2006), Belgrade, National Museum, 2006. Picòn, Mertens, Milleken, Lightfoot, Hemingway 2007 Carlos A. Picòn, Joan R. Mertens, Elizabeth J. Milleken, Christopher S. Lightfoot, Seàn Hemingway, Art of the Classical World in the Metropolitan Museum of Art. Greece, Cyprus, Etruria, Rome, New York, The Metropolitan Museum of Art, 2007. Randall Maciver 1927 = David Randall Maciver. The Iron Age in Italy, Oxford, Clarendon Press, 1927. Richter 1940 = Gisela M. Richter, Handbook of the Etruscan Collection, New York, Metropolitan Museum of Art, 1940. Serra Ridgway = Francesca Serra Ridgway, Review of Ingrid Werner 2005, «Etruscan News», 5, 2006, 14. Shefton 1969-1970 = Brian Benjamin Shefton, The Greek Museum, Newcastle Upon Tyne, «Archaeological Reports», 16, 19691970, pp. 52-62. Slater 1976 = William J. Slater, Symposium at Sea, «Harvard Studies in Classical Philology», 80, 1976, pp. 161-170. Strong 1966 = Donald E. Strong, Catalogue of the Carved Amber in the Department of Greek and Roman Antiquities, London, British Museum, 1966. Treasures 1999 = Treasures. Treasures from the South of Italy: Greeks and Indigenous People in Basilicata, Milan, Skira, 1999. Trésors antiques 2005 = Trésors antiques. Bijoux de la Collection Campana. Exhibit Cat. (Paris, Musée du Louvre, 2005), ed. by Françoise Gaultier, Catherine Metzger, Paris, Musée du Louvre, 5 Continents Editions, 2005. von Eles 1994 = Patrizia von Eles, Il dono delle Eliadi. Ambre e oreficerie dei principi etruschi di Verucchio, Rimini, Provincia, 1994 («Studi e Documenti di Archeologia. Quaderni», 4). Warden 1994 = P. Gregory Warden, Amber, Ivory, and the Diffusion of the Orientalizing Style Along the Adriatic Coast. Italic Amber in the University Museum (Philadelphia), in Murlo and the Etruscans. Art and Society in Ancient Etruria, eds. J. Penny Small, Richard D. De Puma, Madison, WI., The University of Wisconsin Press, 1994, pp. 134-143. Wells 1996 = Peter S. Wells, Review of Archaeological and Scientific Studies of Amber in the Swedish Iron Age, «Journal of Field Archaeology», 23, 1996, p. 262. Werner 2005 = Ingrid Werner, Dionysos in Etruria: The Ivy Leaf Group, Stockholm, Paul Aarström, 2005 («ActaRom», 58).

21 Shefton 1969-1970, pp. 58-59, figs. 11-12, for an image of a winged draped woman with several such holes, forming a pattern: “The holes… are a puzzling feature of much Italic carved amber, particularly as they seem to be placed with little regard for the disfigurement they cause”.

They were sometimes plugged in with amber of a different color, as in the case of the amber head in the Nasher collecton. Cf. Strong 1966, Nos. 3536, 49-59. They are not to be confused with the suspension hole, which is narrower.

Bibliography

R IPENS ANDO P O MP E I ARCAI CA Maria Bonghi Jovino A Giovanni Colonna per il suo alto magistero: che colga in queste pagine il ‘profondo’ di un antico rapporto nato alla scuola di un comune Maestro!

riflessioni su Pompei arcaica sono dovute alle Q ueste sollecitazioni che presenta l’ultimo contributo sulla

lato lascia registrare positivamente l’avanzamento delle nostre conoscenze. La serie degli interventi, esplicati fino ai nostri giorni attraverso una serie di sistematiche campagne di saggi, ha offerto un contributo di notevole interesse per una più adeguata conoscenza della storia di Pompei e dimostrato come, passo passo, si possano apportare piccole e grandi modifiche nel percorso speculativo alimentando il dibattito che ha sempre caratterizzato la città vesuviana. Queste ragioni mi hanno spinto a prendere in considerazione lo status quo delle nostre conoscenze almeno per qualche questione aggrovigliata e complessa.

città1 perché apporta numerosi elementi di valutazione, significativi e impegnativi. Per chi scrive è anche una buona occasione per ritornare indietro nel tempo quando, circa trent’anni fa, ebbi modo di condurre uno scavo nell’insula vi, 5 e per ripensare Pompei arcaica (questo il segmento di tempo prescelto) alla luce dei numerosi dati che sono stati registrati in tutti questi anni. Va da sé che ogni intervento nasce da problemi emergenti nel tentativo di dare risposta a quesiti che si moltiplicano in una ragnatela difficile da dipanare, allora2 come ora. L’inizio dello scavo nell’insula vi, 5 segnò la prima ripresa dell’operato di A. Maiuri dopo che, per un numero considerevole di anni le sue importanti indagini, per ragioni dettate prevalentemente da motivazioni di carattere culturale, ideologico e politico, erano state misconosciute e sottovalutate da correnti di pensiero che avevano appuntato principalmente le loro ricerche sulla grecità campana come si evince dalla letteratura di quel periodo.3 Dai dibattiti di quel tempo sono trascorsi molti anni.4 Oggi ci si trova di fronte a conferme di dati articolati decenni addietro e a convalide di prospettive interpretative messe a fuoco man mano nel corso degli anni, altre ipotesi vengono ad essere modificate dai risultati delle nuove indagini, altre proposte di lettura emergono ancora all’attenzione. Tutto ciò segnala da un lato la difficoltà delle ricerche e dall’altro

La fondazione della città e le mura in pappamonte Nel passato il dibattito sulla prima storia di Pompei si era articolato intorno ad alcune ipotesi: il primo insediamento sarebbe avvenuto alla fine del vii secolo nella cornice culturale complessiva della Campania meridionale costiera e della mesogeia; veniva prefigurata un’occupazione iniziale del pianoro a quell’epoca onde creare uno spazio temporale durante il quale gli individui e i gruppi agenti potessero predisporre e mettere in atto quanto occorreva per la fondazione della città e la realizzazione del circuito muraneo in pappamonte (Bonghi Jovino 1984);5 altra ipotesi riteneva che il costituirsi di un insediamento fosse avvenuto nei primi decenni del vi secolo sulla base della data della cinta in pappamonte (De Caro 1992);6 altra ipotesi ancora prospettava

1 Nuove ricerche archeologiche nell’area vesuviana (scavi 2003-2006), Atti del Convegno Internazionale (Roma, 1-3 febbraio 2007), a cura di P. G. Guzzo, M. P. Guidobaldi, Roma, 2008. 2 Alla luce delle discussioni dell’epoca sulla storia di Pompei, mi posi l’obiettivo di individuare lo strato arcaico documentato con i relativi materiali nell’attività di vita, e quale ne fosse il significato ed il rapporto con la cornice storica del tempo in una migliore correlazione tra strati e strutture, problema che si era posto già il Maiuri, complicato da risolversi con gli strumenti dell’epoca che non consentivano una puntuale registrazione dei dati. In effetti gli interventi di A. Maiuri indussero a porsi il problema della Pompei arcaica, aspetto che fino a quel momento era stato mantenuto nel solco delle dispute teoriche concernenti soprattutto la sequenza delle popolazioni (per Maiuri: Opici, Greci, Etruschi, Sanniti) che si erano avvicendate nella città. Com’è largamente noto, nell’ambito delle ricerche sui più antichi orizzonti cronologici un ruolo di primo piano spetta all’attività di A. Maiuri che, dal 1930 al 1951, eseguì numerosi saggi stratigrafici nelle Regiones vi (Casa della Fontana Grande e Domus vi, 10, 6 della va di Mercurio), vii, viii, nell’area e negli edifici del Foro, nell’area del Tempio di Apollo, nella Basilica e nelle Terme Stabiane. Tali esplorazioni, ripubblicate nel 1973 nel volume Alla ricerca di Pompei preromana, ebbero una significativa ripercussione nelle posteriori vicende degli scavi pompeiani. Nello specifico furono prescelte la Regio vi per i numerosi problemi che aveva sollevato, rimasti senza soluzione e, in particolare, l’insula 5 per le diatribe intorno alla ‘colonna etrusca’ delle quali si trova un riepilogo in Bonghi Jovino 1984, pp. 22-23, 329, 364-365. 3 Non condivido alcune affermazioni di F. Coarelli: «A questo proposito, si deve in primo luogo riconoscere che l’esistenza di questa fase arcaica nella Regio vi era stata documentata da Amedeo Maiuri … Tuttavia, la metodologia di scavo e di pubblicazione, non adeguata ai canoni attuali, si è tradotta in un radicale discredito di quelle indagini, e nella loro esclusione dal dibattito scientifico. In realtà, i nostri risultati hanno definitivamente confermato … le conclusioni di Maiuri, che del resto sarebbero state di per

sé attendibili, se solo si fosse evitato di rinchiudersi in uno sterile purismo “stratigrafico”» (Coarelli 2008, p. 174). In realtà si vd. l’interesse per le ricerche di Maiuri: «… l’aspetto per noi oscuro della prima Pompei etruscoitalica è quello dell’edilizia privata; disponiamo dei pochi resti di edifici in pappamonte, non precisamente databili, rinvenuti nel corso dei saggi di Maiuri nella Regio vi, resti peraltro molto significativi …» (Chiaramonte Treré 1995, p. 10). La mia percezione del ‘problema Maiuri’ è alquanto diversa e non addebita il ‘radicale discredito’ alla ragione invocata quanto piuttosto al clima che ne ha sempre circondato l’opera fino al momento dello scavo nell’insula vi, 5 portando a sottovalutare il suo operato, situazione che traspare indirettamente e direttamente anche nel volume sulla figura di Ranuccio Bianchi Bandinelli (M. Barbanera, Ranuccio Bianchi Bandinelli. Biografia ed epistolario di un grande archeologo, Milano, 2003, pp. 237, 341). Altra cosa è il rispetto delle stratigrafie. 4 Cfr. Lepore 1989, pp. 181-183; un recente riepilogo in Geertmann 2007, pp. 82-97. 5 Bonghi Jovino 1984, pp. 367-370; vedi in seguito Cristofani 1991, p. 12: “L’emergere intorno al 600 a.C. di centri come Stabia e Nocera, posta a controllo del passaggio interno con il golfo di Salerno, attesta una profonda trasformazione delle attività produttive fino ad allora limitate alla produzione agricola dei centri dell’entroterra … il controllo di scali affidabili … si accorda con più diffuse esigenze di scambio sistematico nate probabilmente da un nuovo tipo di gestione delle risorse e delle eccedenze agricole. Ed è in questo contesto che dobbiamo porre la prima occupazione stabile del sito di Pompei”. Quanto alla costruzione delle mura F. Zevi ha pensato ad una vera e propria ktisis che sarebbe avvenuta alla fine del vii secolo: Zevi, in Guzzo-Guidobaldi 2008, p. 504. 6 La cronologia delle mura, inizialmente indicata al volgere della prima metà del vi secolo a.C. (Bonghi Jovino 1984, p. 368) è stata in seguito ristretta nell’ambito della prima metà (De Caro 1985, p. 105), poi ristretta an-

ripensando pompei arcaica una semplice frequentazione del pianoro alla fine del vii e l’insediamento soltanto nel vi secolo a.C. sulla base dell’assenza di necropoli arcaiche e strutture databili a quell’epoca (Murolo 1995; Cerchiai 1995; Horsnaes 1997).7 Sotto questo profilo i recenti scavi hanno fornito elementi utili per sostenere un’occupazione del pianoro ancora nell’ambito delle fasi terminali protostoriche sicché la definizione cronologica delle mura in pappamonte al primo quarto del vi, a mio avviso, offre ancora motivo di riflessione per supporre una più antica occupazione tattica. In effetti, se ci rivolgiamo alla testimonianza archeologica dobbiamo ammettere che non esistono indicatori precisi per una anticipazione cronologica degli inizi dell’abitato «storico» (vi sec. a.C.), mentre la presenza dei materiali preistorici, protostorici e arcaici recuperati sul pianoro, le tracce di una capanna (?) nell’insula viii, 2, il ricorso alla tradizione mitica e storica che collegava la nascita di Pompei alle imprese di Eracle in Italia, l’idea di una notevole estensione della faggeta nell’areale del lucus nella Regio vi8 attestano piccoli insediamenti protostorici. Continuo a pensare che non debba essere sottovalutata la grande portata della costruzione delle mura in pappamonte, che includevano ben 66 ettari, perché mi sembra troppo faticosa l’ipotesi che la pianificazione del circuito, e il consistente spostamento sul pianoro di una cospicua mano d’opera, possano aver avuto luogo senza una precedente presenza strumentale sul posto in una forma che non è possibile tratteggiare, ma non frequentativa. Ritornando indietro nel tempo, alla fine degli anni Settanta, si possono qui utilmente riassumere gli sviluppi della speculazione scientifica non senza aver precisato le lineeguida che indirizzarono lo scavo nell’insula vi, 5 quando venne elaborato un progetto ad hoc di cui i volumi del 1984 rappresentano soltanto una parte della ricerca così com’era stata predisposta.9 Agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, in base alle risultanze dello scavo nell’insula vi, 5 venivano quindi presentati dati e ipotesi di lavoro. Tra i risultati vi furono l’individuazione dello strato di vita di fine vii - vi secolo a.C. e della esistenza di un lucus all’interno di una faggeta ove era stata collocata la ‘colonna etrusca’ con funzione votiva onde ai templi più importanti (tempio di Apollo e tempio del Foro Triangolare) si aggiungeva un nuovo spazio sacro benché di dimensioni ridotte. Emergeva la sostanziale omogeneità dell’aspetto culturale di Pompei (fine vii-fine v) con quello dei centri della Campania meridionale costiera soprattutto per alcune classi di reperti.10 Il materiale ceramico al contempo consentì di riconoscere gli agenti cui attribuire le relative attività per i quali si pensò agli Etruschi cora al primo quarto (De Caro. 1992, p. 69). Presso altri studiosi si trova una datazione al secondo quarto (Carafa, D’Alessio 1997, p. 141). 7 Murolo 1995; Cerchiai 1995; Horsnaes 1997, p. 218. 8 Carafa, D’Alessio 1997, pp. 138, 141; Carafa 1999, pp. 17-44. 9 Vorrei chiarire anche a beneficio di alcune recenti valutazioni (Coarelli-Pesando 2006, pp. 16-17) che il progetto prevedeva a monte l’elaborazione di piante e sezioni dell’insula vi, 5, considerate una operazione preliminare perché fosse possibile, nel prosieguo della ricerca, attuare il collegamento tra strutture murarie e scavi in profondità e per predisporre una corretta rappresentazione altimetrica degli scavi effettuati nel tempo o da effettuare nel futuro (nota di costume relativa a qualche difficoltà che si dovette superare: l’Ufficio Scavi non conosceva la collocazione del contrassegno geodetico dell’IGM che fu individuato nel cortile della Vecchia Direzione); le piante a disposizione dell’Ufficio Scavi erano state redatte in scala diversa l’una dall’altra e quindi da conguagliare (nota di costume: alcune piante erano in scala 1:33). Dunque un grande lavoro preliminare che testimonia la strategia della ricerca che purtroppo non fu possibile portare avanti per mancanza di fondi.

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delle sedi storiche e alle popolazioni indigene. Vennero messi a fuoco i contatti sia con i centri della Campania etruschizzata interna sia con altre aree culturali. In sostanza si ipotizzava in epoca arcaica un insediamento etrusco-indigeno nell’area del circuito von Gerkan senza supporre necessariamente l’esistenza di mura. Veniva attribuita agli Etruschi la spinta al processo di urbanizzazione.11 Quanto all’abitato vero e proprio si stimava che avesse avuto, all’interno di quelle, un perimetro abbastanza ristretto e all’intorno grandi spazi verdi e coltivabili.12 Si ritenne, sulla base dei dati di cui si era in possesso, che la pianificazione urbanistica della Regio vi avesse avuto luogo in epoca sensibilmente posteriore rispetto alla prima metà del v senza ulteriori precisazioni. Si prospettava il contemporaneo inizio di forme preurbane di agglutinamento di unità abitative sparse che andavano assumendo il carattere di insediamenti organici stabili, la funzione prevalentemente emporica, data la scarsa presenza di armi, di Pompei in analogia con i dati provenienti dalle necropoli di Castellammare di Stabia e della penisola sorrentina (Bonghi Jovino 1984).13 Nell’incertezza restavano le motivazioni che spinsero alla costruzione delle grandi mura in pappamonte la cui funzione, indicata in seguito, fu senza dubbio quella di controllare dall’alto della c.d. Altstadt le vie di comunicazione che si incrociavano a valle (Cuma-Nocera/Stabia-penisola sorrentina) (De Caro 1992).14 La questione dell ’ Altstadt Anche per questo tema così discusso vale la pena, a mio avviso, di ripercorrere l’iter delle conoscenze e del dibattito. Nel passato l’eventualità di una città più antica rispetto alla Neustadt è stata dibattuta a lungo senza prove determinanti a livello stratigrafico quanto piuttosto inseguendo modelli urbani e considerazioni topografiche. La questione relativa al circuito von Gerkan, benché di grande spessore, interessò solo marginalmente gli scavi nell’insula vi, 5 in quanto erano rivolti ad altri obiettivi, in primo luogo all’individuazione dello strato di vita di epoca arcaica; ci si limitò a tentare un raccordo con la presenza del nucleo ritenuto più antico mettendo in dubbio soltanto la presenza di un circuito muraneo e a formulare l’ipotesi che, limitatamente all’area dello scavo, l’edificazione fosse avvenuta in epoca sensibilmente posteriore alla prima metà del v secolo a.C., indicazione stratigrafica erroneamente interpretata come fosse estesa a tutta la Regio o addirittura a tutta la città. Anche la presenza di un lucus nella faggeta non comportava così decisamente una sua notevole estensio10 Per la forte significativa presenza del bucchero fino al terzo quarto del v secolo a.C.: Locatelli 1993, 172-175; per i rapporti con i centri costieri e collinari della penisola sorrentina: Bonghi Jovino 2008. 11 Bonghi Jovino 1984, in part. p. 368, tesi presente successivamente in d ’ Agostino 1987, in part. p. 32. 12 La tesi (Bonghi Jovino 1984, pp. 367-368) fu ripresa da S. De Caro e M. Cristofani (De Caro 1985, p. 109; Cristofani 1991, p. 14). In essa peraltro si prendeva atto dei saggi che S. De Caro e C. Chiaramonte Treré conducevano alle mura presso Porta Nocera portando in luce altri avanzi della più antica cortina muraria in pappamonte con un preciso contesto stratigrafico ed una cronologia alla prima metà del vi secolo a. C., e confermando così come le mura in pappamonte avessero cinto sin dall’età arcaica tutti i 66 ettari del pianoro di Pompei: De Caro 1985, pp. 75-114; Chiaramonte Treré 1986, pp. 18-19. 13 Tra le varie ipotesi Pompei quale port of trade (Arthur 1986, p. 39). Per il santuario di Apollo come santuario emporico non prima del vi secolo, cfr. anche Tagliamonte 1994, p. 70. 14 De Caro 1992, p. 69.

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Fig. 1. Pompei, Ricostruzione dell’Altstadt (da A. von Gerkan, Der Stadtplan von Pompeji, Berlin 1940, tav. 2).

ne.15 Quanto alla faggeta stessa si affermava una duplice eventualità: che a Pompei esistessero propaggini di bosco mesofilo che si spingevano sino alle più basse pendici del Vesuvio oppure che si piantassero boschi puri o quasi di faggio.16 Quindi la questione restava aperta nella sua incertezza. Così fino ai risultati dei recenti scavi.17 La situazione agli inizi degli anni Novanta si può riassumere come segue: «La complementarietà fra la distribuzione dei frammenti arcaici e l’impianto urbano con il suo reticolo ancora visibile, che funge quasi da palinsesto, permette di isolare una ‘città vecchia’ all’interno della Regio vii: il centro può essere individuato nell’area del successivo Foro, sul quale si sarebbero venuti a incrociare gli assi poi costituiti dalla via Marina con il suo proseguimento della via dell’Abbondanza, in direzione SO-NE e dalla via del Foro e dalla via delle Scuole in direzione NO-SE. L’anello di piccole strade che circonda questo nucleo (vicolo dei Soprastanti, via degli Augustali, via del Lupanare, via dei Teatri) coinciderebbe con il primitivo perimetro urbano, che racchiudeva un’area non superiore ai 10 ettari. L’estensione di questo nucleo, la cosiddetta ‘città vecchia’, può essere paragonata con quella di altri siti marittimi dell’area medio-tirrenica, quali Pyrgi e Gravisca, sorti nel corso del vi secolo come proiezioni di grandi città come Caere e Tarquinia» (Cristofani 1991).18 Poco dopo il problema fu affrontato da S. De Caro con una rivisitazione delle varie tesi e dei vari punti di vista, quando venne avanzata l’ipotesi che l’area compresa nel circuito von Gerkan fosse stata un luogo privilegiato forse

coevo al resto dell’abitato nel quale, riprendendo un’ipotesi già formulata,19 esistevano ampi spazi a verde. Nel contempo lo studioso si proponeva il quesito: «Ma ha mai poi avuto un suo muro l’Altstadt, visto che era già all’interno della cinta in pappamonte? Invece di un muro, potrebbe aver fissato il suo andamento perimetrale qualcos’altro, una palizzata, o forse, come preferisco pensare, una strada con un canale di drenaggio» (De Caro 1992).20 Inoltre l’esistenza di strutture di pappamonte, al di sotto delle case sannitiche, spesso associate con bucchero, appariva già abbastanza significativa per dedurre la presenza di abitazioni arcaiche (casa del Gallo viii, 5, 2; casa viii, 5, 9; casa della Calce viii, 5, 28; casa della Fontana Grande vi, 8, 22; e la casa vi, 10, 6; casa di Pansa vi, 6, 1). Infatti si scriveva: «Forse delle case di Pompei di v e iv secolo non è sopravvissuto nulla ma ciò non significa che l’ampia superficie intramuranea non fosse edificata … sporadiche attestazioni non ancora ben inquadrabili ma sufficienti di per sé ad escludere la tesi di una città in quanto tale sorta tout court nel iii secolo e fino ad allora priva di abitazioni in muratura …» (Chiaramonte Treré 1995).21 Quanto al rapporto cronologico tra l’Altstadt e le mura in pappamonte ipotesi migliore sembrava configurarsi nella contemporaneità.22 A queste proposte di lettura hanno fatto seguito i numerosi interventi sul campo espletati nell’ultimo decennio che hanno fornito nuovi elementi di valutazione e contribuito anche all’avanzamento del dibattito sull’Altstadt perché «si percepisce ora vagamente una cronologia diversa da quella

15 Tant’è che in Bonghi Jovino 1984, p. 366 si legge come una rilettura dei saggi del Maiuri avrebbe potuto «fornire elementi sia in merito alla dislocazione dei resti più antichi che in relazione all’estensione della faggeta …». 16 L. Castelletti, Analisi dei legni, in Bonghi Jovino 1984, spec. p. 355. Interessante è l’ipotesi di Coarelli, benché non abbia un riscontro archeologico, della possibile dedica a Iuppiter Vesuvius in analogia con lo Iuppiter Fagutalis che si riannoda alle indicazioni di L. Castelletti circa l’esistenza di faggete anche a bassa quota come il colle Fagutale e il lucus di Ferentino. 17 Coarelli 2008, p. 174. 18 Così: Cristofani 1991, p. 14. 19 Bonghi Jovino 1984, p. 368. 20 De Caro 1992, spec. p. 71 con bibliografia precedente. In seguito un’altra ipotesi di lavoro si configurò nel concetto che l’Altstadt, ritenuto il

nucleo più antico, nella sua conformazione potesse essere accostata ad un oppidum (Carafa 1999; Esposito 2008, p. 76). Penso tuttavia, per incidens, che abbia scarse risorse tale lettura perché una struttura del genere era assai improbabile sulle coste campane per la vocazione marittima e commerciale dei vari siti costieri che richiedeva altro genere di vivibilità. L’impraticabilità dell’ipotesi risulta palese dalle caratteristiche tipiche degli oppida; cfr. in part. con ricerche recenti, ad esempio, per i centri fortificati preromani del Monte Cesima (Ager Rufranus): Caiazza 1995, pp. 85-114. Per le attività dei siti costieri: Bonghi Jovino 2008, pp. 117-121. 21 Chiaramonte Treré 1995. 22 De Caro 1992, p. 73. 23 Zevi, 2008, p. 504. 24 Carafa, D’Alessio 1995-1996, p. 140.

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Fig. 2. Pompei. Planimetria schematica (da D’Ambrosio, De Caro 1989, fig. 37, 1).

che eravamo abituati a considerare» per dirla con Fausto Zevi.23 I dati acquisiti attestano, nei punti esplorati, l’assenza del muro che avrebbe dovuto segnare il perimetro della supposta Altstadt, la presenza di ulteriori strutture murarie venute a luce sia all’interno sia all’esterno della c.d. Altstadt, la medesima cronologia arcaica dei reperti mobili rinvenuti in tutta l’area cinta dalle mura in pappamonte. La situazione attuale appare piuttosto complessa e, sia pure in una forma drasticamente sommaria, merita una disamina dei singoli interventi condotti. Si può osservare come gli scavi nella Casa di Giuseppe ii (viii, 2, 38-39), con lo scopo di ottenere «una sezione significativa tra l’area della supposta Altstadt e la piazza del santuario sottostante», ed il rinvenimento della piccola capanna di pianta rettangolare con gli angoli arrotondati, sulla sommità della collina, non abbiano intercettato strutture murarie o altri elementi atti ad illuminare la questione.24 I materiali raccolti nell’area, databili ad età compresa tra l’Età del ferro e la metà del vii secolo a.C. possono essere tuttavia invocati in tema di presenze significative. Lo stesso dicasi per lo scavo della taberna vii, 11, 17 ove non sono stati rinvenuti muri di pappamonte ma reperti mobili databili tra l’Età del ferro e il vi secolo a.C. non contestuati.25 Le esplorazioni condotte nell’insula vi, 7 hanno recuperato materiali arcaici e bucchero ma si è in attesa della definizione del loro rapporto con le strutture murarie.26 I saggi effettuati ancora lungo il perimetro del supposto muro dell’Altstadt hanno fornito vari argomenti circa l’ipotesi del circuito von Gerkan. È stata registrata infatti assenza della struttura muraria nello scavo nell’insula vii, 2, 20 (Casa di N. Popidius Priscus) ove si prospetta per la fase arcaica uno spazio libero «se si eccettua la possibilità che passasse da lì la linea del muro interno dell’Altstadt, di cui peraltro non è stata trovata traccia».27 25 26 27 29

D’Alessio 2008, pp. 275-282. Zaccaria Ruggiu, Maratini 2008 pp. 177-187. Pedroni 2008, p. 240. 28 Pedroni 2008, pp. 245-246. De Simone et al. 2008, pp. 289-290.

La presenza nella Casa di Mercurio (vii, 2, 35) di un muro, con direzione est-ovest, in blocchi di travertino e di tufo beige di Nocera non sembra anteriore al iv secolo a.C. facendo supporre una scarsa urbanizzazione a ridosso della c.d. Altstadt e ponendo alcune domande insidiose: tale muro, in corrispondenza del limite dell’Altstadt, potrebbe essere un muro di cinta? Perché allora due cinte muranee? Rimaneggiamento della cinta arcaica in quel punto? Bisogna prendere in considerazione il fatto che il Vicolo Storto non sarebbe un relitto ma una realizzazione posteriore al ii secolo a.C. e forse post-coloniale?28 Il muro in blocchi regolari di pietra lavica tenera venuto a luce nella Regio vii, insula 14 correva parallelo al tracciato di via degli Scheletri ed al primo tratto di via dell’Abbondanza prima che quest’ultima piegasse in direzione nordest/sud-ovest.29 È stato datato ad epoca arcaica in quanto dalle fondazioni e dal piano di lavorazione relativo, che poggiavano su strati con materiali databili tra viii e vii secolo, sono pervenuti un frammento e un’ansa di skyphos in bucchero. Ciò vuol dire che era inserito nella rete delle strade della c.d. Altstadt. Gli scavi tedeschi nella Domus dei Postumi hanno portato alla scoperta di un fossato, che per la prima volta permette di accertare l’esistenza di un’area fortificata corrispondente al perimetro dell’Altstadt fissandone la data agli ultimi decenni del v secolo a.C.30 Sulla base di tali elementi la recente interpretazione si concentra in due punti salienti: che è da escludere definitivamente l’ipotesi tradizionale dell’Altstadt al centro di un’area in gran parte disabitata; che il c.d. perimetro dell’Altstadt non racchiudeva un insediamento primigenio ma segnala un restringimento della Pompei arcaica avvenuto con la fase sannitica (Coarelli 2008).31 Le proposte aprono altre possibilità di lettura.32 Attualmente si prende atto che la testimonianza archeo30 Dickmann, Pirson 2005. 31 Coarelli 2008, pp. 174-175. 32 Nel contempo si vorrebbe sapere di più circa quel tratto di muro di v secolo rinvenuto nella Casa di Mercurio nel dubbio che possa appartenere

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Fig. 3. Pompei. Schema ricostruttivo dei momenti principali dello sviluppo urbanistico: a linea puntinata, gli assi dell’Altstadt e della via di Mercurio; a tratto e linea, il sistema degli assi di via Stabiana, via dell’Abbondanza e via della Fortuna-via di Nola; a tratteggio l’asse di via Nocera (da D’Ambrosio, De Caro 1989, fig. 37, 2).

logica sembri militare nella direzione di un impoverimento della città arcaica ma, nel contempo, si registrano vari tentativi di spiegare la configurazione dell’Altstadt che appare come corpo estraneo nel contesto generale. Perché il vero problema che oggi si pone passa per la necessità di risolvere questa questione. Alcuni interrogativi: quale è la ragione per cui il restringimento dell’abitato sannitico avrebbe assunto quella specifica forma pseudo-circolare? Quale valore attribuire oggi all’ipotesi che l’area entro il c.d. circuito von Gerkan non sia stata marcato da mura in quanto sarebbe bastata una semplice palizzata di recinzione soprattutto se avesse avuto un valore civile-religioso-rituale? Lo sforzo di trovare delle risposte adeguate è testimoniato dalla lettura di S. De Caro che avanzava alcune ipotesi: come l’andamento curvilineo del perimetro avesse svolto la funzione di canale di drenaggio spiegando la stessa configurazione dell’Altstadt vista come una zona privilegiata (santuariale, civile, monumentale?); come l’Altstadt risultasse una fossilizzazione all’interno di un altro tipo di sistema; come la ‘città vecchia’ potrebbe configurarsi quale una struttura di villaggio in qualche modo ricollegabile all’esistenza di un gruppo di villaggi o di nuclei di individui agenti sul pianoro nelle Età del bronzo e del ferro.33 Volta a giustificare l’anomalia, è interessante il quesito che pone P. G. Guzzo che si articola in due ordini di pensiero: il restringimento del perimetro, più che segnare l’abbandono della città arcaica, potrebbe essere dovuto ad una più ridotta strutturazione urbana; che l’area perimetrata più ristretta e quella perimetrata dalle mura di pappamonte potessero appartenere a due culture diverse.34 C’è da dire che le poche testimonianze esistenti nel v secolo erano già state ad un rimaneggiamento della cinta arcaica come osservano gli stessi scavatori. Altrettanto intrigante è lo scavo nella Domus dei Postumi: il fossato emerso potrebbe ricalcare una struttura più antica?

ritenute un riflesso della frattura verificatasi dopo il 490/480 in ragione di un nuovo sistema politico organizzato intorno ai centri di Neapolis, Nola e Nuceria.35 Esiste un eventuale nesso? E se esiste, in qual modo può dar conto della conformazione così particolare dell’Altstadt? L’organizzazione urbanistica e la questione dell ’ orientamento Mi limito a riassumere le più recenti speculazioni rimandando ad esse per la bibliografia precedente. L’analisi di C. Chiaramonte Treré a metà degli anni Ottanta portava a considerare l’assenza di una pianificazione edilizia, nell’insula vi, 5, anteriormente al iii secolo a.C. e, sulla scala dell’intera città, a ritenere che un intensivo sviluppo edilizio fosse da porre grosso modo alla fine del iv- inizi del iii secolo a.C.36 Alla fine dello stesso decennio S. De Caro ritornava sull’argomento sottolineando, a seguito di un intervento di scavo nell’insula vii, 4, 62 condotto con la collaborazione di A. D’Ambrosio, come non corrispondesse a realtà la presenza delle strade ipotizzate da von Gerkan perché non ne esistevano tracce ove era stata condotta l’esplorazione; come i dati emersi inclinassero verso l’ipotesi della contemporaneità tra Altstadt e area intra-moenia; come esistessero fin dall’epoca arcaica la via di Mercurio, la porta sotto la torre xi e le case finitime alla torre e alla via Consolare. Ed ancora osservava come il piano urbanistico della Regio vi si fosse sviluppato con la creazione dell’asse via della Fortuna-via di Nola e pertanto risultasse databile tra la fine 33 De Caro 1985, p. 109; Idem 1992, p. 70; Idem, in Guzzo, Guidobaldi 2008, p. 512. 34 Guzzo 2008, p. 505. 35 Zevi 2008, pp. 504-505. 36 Chiaramonte Treré 1986, p. 19.

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del iv e gli inizi del iii secolo a.C.; che la parte urbana ad est della via di Stabia, la Regio vi e le aree di raccordo all’Altstadt fossero state influenzate dal sistema difensivo e quindi databili, con maggior riscontro nella realtà dell’epoca, tra la fine del iv e gli inizi del iii secolo a.C.; come, a parte le strutture in pappamonte al di sotto delle case sannitiche già menzionate, fosse inurbanizzata la vasta estensione tra il nucleo occidentale e le mura ad est. In buona sostanza la città arcaica era dotata di zone alberate all’interno, di santuari intra- ed extramurari, definita da mura, da un reticolo stradale intraurbano e da vie extraurbane e piazze.37 Agli inizi degli anni Novanta lo studioso ricapitolava alcuni dati salienti per la fase arcaica: le diverse fasi di organizzazione urbanistica basate su assi incrociati e il carattere dell’urbanistica pompeiana fondato su incroci ortogonali, abbastanza simile a quanto si trovava in Etruria già agli inizi del vi secolo a.C.; la costruzione delle mura in pappamonte nel primo quarto del vi secolo; il costituirsi di un insediamento tra fine vii e i primi decenni del vi secolo sulla base della data della cinta muraria la cui funzione risiedeva nel controllo dall’alto dell’Altstadt delle vie di comunicazione che si incrociavano a valle (Cuma-Nocera/Stabia-penisola sorrentina).38 Sakai39 e Nappo40 riprendevano le tesi or ora esposte. Alcune difficoltà di lettura relative alle testimonianze antiche venivano tuttavia segnalate pur rifacendosi nuovamente alla esistenza dell’Altstadt: “…uno dei punti da chiarire riguarda la forma irregolare e le dimensioni variabili delle insulae della Regio vi, sia all’esterno che all’interno di quello che consideriamo il nucleo primitivo dell’abitato … Le anomalie sono state considerate esito del mantenimento dei più antichi percorsi stradali, ma certo sulla loro origine e sul perimetro della città vecchia … sappiamo tutt’ora troppo poco”.41 La questione si era arrestata a questi punti di arrivo. Vediamo ora i dati conquistati con le recenti indagini sul campo. Ad esempio, si possono prendere in considerazione le stratigrafie e gli orientamenti di alcuni tratti di muri della fase arcaica sparsi nell’area recinta dalle mura di pappamonte:42 – i saggi espletati nella Casa di Faventino (vi, 5, 16) hanno portato a luce una struttura in pappamonte con orientamento est-ovest datata con sicurezza sulla base del raccordo stratigrafico con il lucus della Casa della Colonna Etrusca; – un muro analogo è ancora emerso nell’insula v, 3, e in particolare nella bottega v, 3, 3, di cui resta un solo blocco con le fondazioni che scendevano fino a 90 cm, di cui non è chiaro l’orientamento;43 – lo scavo nell’insula v, 5, 1-2 ha portato a luce una grande struttura muraria in pappamonte. La sequenza stratigrafica era come segue: “uno strato di terra marrone mista a piccolissime schegge di calcare, al di sotto della quale si conserva uno strato di terra marrone-giallognola mista a cruma di lava con molti inclusi di leucite che poggia diret-

tamente sul paleosuolo di età arcaica, al di sotto del quale si intercetta il terreno grigio di origine vulcanica, sul quale erano adagiati i blocchi di fondazione della struttura in pappamonte.44 La cronologia ad epoca arcaica è attestata dalla sequenza stratigrafica che risulta coerente anche con quella degli strati arcaici dell’insula vi, 5. L’orientamento era direzionato nord-est/sud-ovest, grosso modo analogo a quella della via di Nola; – la struttura in blocchi di pappamonte con andamento nord-sud nella domus vi, 13, 19 ha una datazione sicura ad epoca arcaica così descritta: «potente strato di terreno tufaceo grigio che si addossava ai blocchi di pappamonte. I reperti associati, un numero assai limitato di frammenti di impasto a superficie rossa e di materiale edilizio, rimandano ad un orizzonte cronologico del vi secolo a.C.» con chiaro terminus ante quem;45 – risultano sicuramente datati dai materiali e dalla colonna stratigrafica i muri in pappamonte rinvenuti nella Casa delle Nozze di Ercole (vii, 9, 47). Le strutture murarie erano allogate entro fosse di fondazione e solo in un caso scendevano oltre il livello di fondazione. Non è stato possibile, perché distanti tra di loro, individuare una pianta né se appartenessero ad uno o più edifici. La cronologia assoluta è basata sul materiale ceramico delle fosse di fondazione dei muri e nei piani ad esse associati. Si tratta di frammenti in impasto e in bucchero databili genericamente nel corso del vi secolo a.C.;46 peraltro è interessante rilevare come tali strutture avessero lo stesso orientamento degli assi dell’Altstadt; – di incerta cronologia le strutture in pappamonte venute a luce nell’insula ix, 3, 5-24, Casa di M. Lucrezio Frontone in quanto nel saggio BD il ‘livello’ scavato fino alla base del blocco di pappamonte era sconvolto con materiali databili dal vi al ii secolo a.C.47 Ad ogni modo può dirsi che il muro del saggio BD era orientato nord-ovest/sud-est, dunque con orientamento simile a quello degli assi più tardi dell’insula, e che l’altro blocco di pappamonte con direzione nord-sud, rinvenuto nel saggio BC, non aveva indicazioni cronologiche né erano stati rinvenuti piani pavimentali. Resta il dubbio che qualora lo scavo avesse proceduto per ‘livelli’ i reperti diagnostici sarebbero andati forzosamente dispersi. In conclusione le strutture in pappamonte sono state datate alla fine del vi secolo a.C. solo in base alla qualità del materiale impiegato; – le esplorazioni nella Casa di Amarantus (i, 9, 11-12) hanno portato a luce alcune fosse di fondazione che presentavano lo stesso allineamento delle posteriori strutture dell’insula donde gli scavatori hanno arguito che il reticolo di strade attualmente visibile nel settore orientale della città dovesse risalire ad epoca arcaica.48 Gli altri saggi non hanno fornito elementi diagnostici per la fase cronologico-culturale che qui interessa. In buona sostanza l’orientamento di alcuni tratti di muri risulta uguale a quello degli edifici di epoca sannitica e di epoca ellenistica, l’orientamento di altri muri diverso da entrambi. In base agli scavi sopra riportati, al saggio di Maiuri nella

37 D’Ambrosio, De Caro 1989, pp. 194-204. 38 De Caro 1992, p. 70. 39 Sakai 1991. 40 Nappo 1993-1994. 41 Chiaramonte Treré 1995, p. 12. 42 Pesando 2005, p. 18 ss., e fig. a p. 14. 43 Pucci, Chirico, Salerno, Marri 2008, p. 234, fig. 14. 44 Esposito 2008, p. 74. L’indicazione è interessante perché, anche se a grande distanza, viene a corrispondere alle stratigrafie rilevate nell’insula vi, 5 per la fase arcaica: Bonghi Jovino 1984, tavv. 42-45. Si vorrebbe tuttavia comprendere meglio il significato dell’espressione: «… i materiali asso-

ciati alla struttura – ceramica di impasto, bucchero, ceramica attica – indicherebbero un momento di fondazione nel primo venticinquennio del vi secolo a. C., con un orizzonte di vita che giunge almeno sino a tutto il vi secolo a.C.» (Esposito 2008, p. 73), in altri termini sarebbe stato indispensabile, per una migliore comprensione, una sezione trasversale che tagliasse la struttura muraria e gli strati di pertinenza e dei relativi materiali. 45 Verzár Bass, Oriolo, Zanini 2008, p. 191. 46 D’Alessio 2008, pp. 276, 280. 47 Castrén et al. 2008, in part. pp. 332-333. 48 Esposito 2008, p. 76.

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via di Mercurio49 e agli allineamenti delle strutture murarie portate a luce, F. Coarelli ha confermato le letture precedenti ipotizzando che l’asse arcaico passasse per la via di Mercurio, via del Foro, via delle Scuole e che fosse ortogonale alla via dell’Abbondanza e che la scansione interna dell’abitato medio-repubblicano (con muri arcaici negli spazi vuoti) fosse diversa da quella di epoca arcaica indicando una rottura, una soluzione di continuità radicale con l’abitato più antico. Dubbi permangono sull’orientamento quando si afferma che l’orientamento di Pompei arcaica non si differenziava da quello delle fasi successive di epoca medio-repubblicana.50 La questione è abbastanza complessa per le oscillazioni e le incertezze dovute alle dimensioni delle strutture murarie e alla sensibile distanza che le separa. Ad ogni modo, tenendo conto dell’orientamento degli assi longitudinali dell’abitato corrispondenti alla via di Nola ed alla via dell’Abbondanza (direzione nord-est/sud-ovest) solo indicativamente, ed a puro titolo esemplificativo, potremmo prendere in considerazione alcuni elementi a favore della continuità e quelli contrari. Le strutture che sembrano rispettare lo stesso orientamento degli assi longitudinali sopra indicati sono: – il muro nell’insula (v, 5, 3); – le fosse di fondazione nella Casa di Amarantus (i, 9, 11-12); – il muro nella casa di M. Lucrezio Frontone (ix, 3, 5-24); – le strutture in pappamonte delle indagini di F. Seiler. Diversa la situazione dei muri venuti a luce nella Casa delle Nozze di Ercole (vii, 9, 47) perché hanno lo stesso orientamento degli assi dell’Altstadt. Altre strutture murarie sembrano militare a favore di una differenziazione rispetto al reticolo di iii secolo con orientamento diverso, est-ovest: – il muro nella domus (vi, 13, 19); – il muro nella Casa di Faventino (vi, 5, 16); – il muro nell’insula vi, 14, 40; – il muro nell’insula vii, 14. Inoltre bisogna tenere presente che l’edificio pubblico nell’insula vii, 4, 62, datato al iv-iii secolo aveva i muri diversamente orientati (est-ovest) da quelli ad essi sovrastanti. Tali muri avevano corrispondenza nel taglio tra l’insula 3 e l’insula 4 della Regio vi, cadevano quasi paralleli a via della Fortuna-via di Nola e perpendicolari alla via di Mercurio. Da ciò deriverebbe una medesima indicazione cronologica per tutte le strutture menzionate. Esisterebbe quindi una discrasia con le indicazioni provenienti da alcuni dei saggi recentemente espletati che tendono a datare quell’asse stradale ad epoca arcaica. E dubbi sembrano pervenire anche dai saggi effettuati nel 2005 sotto una delle vie nord-sud della Regio vi i quali hanno mostrato come l’asse non fosse precedente alla fine del iv secolo a.C.51 Allora ci si chiede quale valore dare alla testimonianza archeologica.52 Del resto il problema è stato già sollevato a mitigare alcune certezze. Sulla scorta degli allineamenti dei muri in pappamonte P. G. Guzzo ha avanzato molte per-

plessità «questi allineamenti di vi o di v secolo che ripetono quelli di iii a.C. non convincono. … questa somiglianza di orientamento … non è reale».53 «Come abbiamo visto esiste in effetti in planimetria, in vari casi, un piccolo delta che non è da sottovalutare benché A. Wallace-Hadrill continui a sostenere la tesi dell’allineamento arcaico di via dell’Abbondanza».54 «Allora, una cosa sono gli orientamenti di massima, altra cosa sono gli allineamenti di strutture divise da 250-300 anni l’una dall’altra».55 Sono dati difficili da organizzare per i quali va trovata una soluzione. In definitiva bisogna prudentemente constatare che si sta ragionando su pochi residui di strutture murarie. Ad esempio, sulla base di quanto si può evincere dai muri in pappamonte, nella quasi totalità dei saggi non è stato possibile tentare una ricostruzione delle piante degli edifici. Quanto all’ipotesi di aree a verde e/o libere, al momento sembra che le abitazioni arcaiche convalidate stratigraficamente siano poche e che i rinvenimenti, incertezze a parte, siano abbastanza distanti tra di loro per escludere la proposta. È utile a tal proposito volgere lo sguardo al saggio A realizzato nel marciapiede meridionale della via degli Augustali (ix, 7, 25) (Giglio) ove sono venuti a luce due piani pavimentali datati fine vi-inizi v secolo a.C. che coprivano «uno strato di terreno estremamente humificato presente su tutta la superficie del saggio» che conferma l’esistenza «di aree coltivate o a giardino» nel vii e nel vi secolo. Pertanto non ho l’impressione che i nuovi dati confliggano con la tesi di ‘ampi spazi verdi e coltivabili’. Analoga situazione nell’ambiente 10 della casa del Centenario (ix, 8).56 Ma ritorniamo alla viabilità nella fase arcaica. In buona sostanza emerge una pianta con una viabilità a più direzioni che lascia supporre come in quel periodo vi fossero edifici collocati su percorsi – organizzati nel quadro generale di un progetto urbanistico ma non negli specifici dettagli – di cui alcuni vennero ripresi e altri abbandonati. Ma sono ipotesi che servono a farci capire come sia indispensabile procedere nelle indagini sul campo. Sono state ricordate da D. Esposito le ragioni per le quali il pianoro di Pompei sarebbe stato caratterizzato da un fenomeno di urbanizzazione nel corso del vi secolo: definizione degli spazi pubblici e privati, prima definizione dei principali assi stradali e di un sistema di ‘percorrenze’ forse imperniate su percorsi naturali come si evince dagli allineamenti delle strutture arcaiche, esistenza di edifici in tutta l’area del pianoro.57 Non v’è dubbio che vi sia stata una definizione degli spazi nel vi secolo in quanto i dati si rivelano sufficientemente parlanti se si pone mente soprattutto alle aree sacre variamente dislocate nell’abitato, segnali di precise scelte; e vorrei aggiungere al concetto di ‘urbanizzazione’ anche quello di ‘regolamentazione’ che implica aggiustamenti successivi. Per converso mi sembra difficile allo stato attuale della documentazione, che non offre dati determinanti, stabilire una quasi sovrapposizione tra i principali assi stradali di età ellenistica e gli allineamenti delle strutture arcaiche data la loro esigua presenza e qualche contraddizione come emer-

49 A. Maiuri aveva ipotizzato il carattere originario della via di Mercurio. Alla estremità settentrionale della strada si apriva infatti una porta nelle mura più antiche (cortina di pappamonte e, in seguito, cortina in arenaria e materiali vulcanici del 300 circa a.C.) che fu chiusa al momento della costruzione della prima cinta sannitica intorno al 300. Inoltre i saggi realizzati nel 2005 sotto una delle vie nord-sud della Regio vi hanno mostrato che si tratta di un asse non precedente alla fine del iv secolo (Befani 2005). Nella campagna 2007, sono stati praticati altri saggi sotto il vicolo del Fauno ove si è rinvenuto un solido battuto stradale del iii secolo in corrispondenza della Casa vi, 11, 4 ed è stato individuato un piano di frequentazione più an-

tico utlizzato fin da epoca arcaica connesso con strutture provviste di fondazione con blocchi di pappamonte (Coarelli 2008, p. 175, nota 12). 50 Coarelli 2008, p. 174; Pesando 2005, p. 18 ss., e fig. p. 14. 51 D’Ambrosio, De Caro 1989; Befani 2005. 52 F. Coarelli, in Guzzo, Guidobaldi 2008, p. 509. 53 P. G. Guzzo, in Guzzo, Guidobaldi 2008, p. 509. 54 A. Wallace-Hadrill, in Guzzo, Guidobaldi 2008, p. 511. 55 P. G. Guzzo, in Guzzo, Guidobaldi 2008, p. 512. 56 Giglio 2008, pp. 342-343; per la casa del Centenario, «RSP» xvi, 2005, p. 225. 57 Esposito 2008, p. 76.

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Iniziando il nostro percorso dai tempi successivi all’attività di A. Maiuri ed evitando, come di norma, di interpretare elementi culturali in chiave etnica, possiamo osservare come permanesse uno spettro di opinioni in merito ai popoli

implicati nella fondazione di Pompei.61 Una lettura suggeriva, come abbiamo visto, che fosse scaturita dalla condivisione tra Etruschi e popolazioni locali, vera e propria sinergia politica e commerciale; si profilava l’ipotesi che obiettivo degli Etruschi fosse la creazione di nuovi scali a sostegno dei mercati della Magna Grecia, della Sicilia, della Campania interna e delle aree di penetrazione verso l’interno; si insisteva sul ruolo che potevano aver giocato gli elementi dei centri etruschizzati della ‘mesogaia’ volti e tesi ad espandersi verso il mare (Bonghi Jovino 1984).62 In sostanza sembrava sempre più possibile il coinvolgimento dell’ethnos ‘nucerino’ in quanto una realtà epigrafica induceva a vedere in quegli indigeni, dotati di una propria cultura, un certo grado di organizzazione politica e sociale.63 Si prospettava la tesi che Pompei fosse nata insieme con la strutturazione territoriale di altre sedi di quell’ethnos (Lepore 1979).64 Con qualche variante, che implicava un ruolo maggiore dei centri locali, questa prospettiva ritornava in campo (De Caro 1985): «L’onere, in forza-lavoro ed economico, di costruzione delle mura, di assetto del territorio dell’insediamento e della collettività destinata ad abitarlo implica una capacità di organizzazione sociale, una volontà precisa esplicata in forza di convinzione-coercizione che ci sembra superare largamente le possibilità di autoorganizzazione dei villaggi agricoli dell’Età del ferro della valle del Sarno o di quelli della fase preurbana dell’area di Pompei e del contesto emporico alla foce del fiume … ci sembra ad oggi doversi riconoscere nell’elemento etrusco ed in un preciso piano politico promanante da un suo nucleo già fortemente organizzato (Nola? Nuceria?) l’elemento decisivo per la fondazione della città di Pompei».65 Trovava intanto consenso la tesi, tempo addietro prospettata, di un impegno degli Etruschi di Etruria: «Pompei risulta una sorta di ‘fondazione’ riconducibile a un gruppo di Etruschi provenienti da un centro marittimo dell’area meridionale, come ci segnala il tipo di scrittura usato» ribadendo il principio che la città non aveva avuto solo funzioni emporiche (Cristofani 1991). In seguito L. Cerchiai, in un breve accenno, accreditò il fenomeno dell’aggregazione sinecistica che investì anche Pompei tra la fine del vii e la prima metà del vi secolo mentre B. d’Agostino aveva già sottolineato l’indispensabile collaborazione del fattore indigeno sulla scia di quella sinergia Etruschi – popoli indigeni che era stata proposta all’epoca dello scavo nell’insula vi, 5, sinergia che è riaffiorata quando si è parlato di «una possibile equivalenza Pelasgi = indigeni dell’età del Ferro della valle del Sarno e per la loro integrazione a livello urbano con gli Etruschi».66 Diciamo che per sommi capi il dibattito si era configurato in questi termini. Ad oggi si sono aperti nuovi orizzonti con la possibilità di approfondire alcune ipotesi. Ad esempio c’è da considerare

58 Pucci, Chirico, Salerno, Marri 2008, p. 227: «In quest’epoca nel quartiere sono testimoniate costruzioni con fondazioni in pappamonte ma v e iv secolo marcano un’interruzione nell’occupazione mentre nel iii secolo le insulae cominciano ad essere occupate da case di un certo livello di agiatezza». 59 Gallo 2008, pp. 321-327. 60 Fossa US 6 conteneva: strato compatto di cenere, terra bruciata e resti carboniosi; fossa us 9 conteneva: una mandibola, ossa di ovo caprini, orli e pareti di una tazza in bucchero di una coppa ionica; fossa us 12 conteneva: frammenti di ceramica di tipo corinzio, un pendaglio di collana in osso e due lekythoi acrome intenzionalmente fratturate. Al di sotto della fossa us 6, dei due piani di battuto e delle fosse era presente un altro piano pavimentale in cui una fossetta ha restituito avanzi carboniosi e ossa combuste, parte di una coppa decorata a bande ed i resti di due tazze di bucchero.

61 Per le varie opinioni, ivi compresa quella di Maiuri, si rimanda alla bibliografia più recente. 62 Bonghi Jovino 1984, pp. 357-368; peraltro non venne condivisa la teoria di Frederiksen che dava molto peso all’elemento greco nelle vicende della fondazione della città: Frederiksen 1979, p. 305. Il tema sembra appena accennato (Bonghi Jovino 1984, p. 368) ed accantonato nelle varie trattazioni (De Caro 1985); del resto la critica storica ben sottolineava la complessità della situazione in Campania nel periodo arcaico: Lepore 1979, pp. 13-15); E. Lepore, Nuove prospettive sugli Etruschi in Campania, in Lepore 1989, spec. pp. 51-56; Musti 1992, pp. 36-46; Russo 2007. 63 Colonna 1976, pp. 151-169. 64 Lepore 1979, pp. 13-19. 65 De Caro 1985, p. 111. 66 Cerchiai 1990, p. 312; d ’ Agostino 1987, p. 32; De Caro 1992, p. 74.

ge dalle esplorazioni or ora citate (scavo sotto una delle vie nord-sud della Regio vi, saggio praticato nel marciapiede meridionale della via degli Augustali) che attestano per le strade una cronologia ellenistica. Le aree sacre Per la fase arcaica esistono edifici, dati, attestazioni e materiali vari che sono oramai accertati. Tralasciando i grandi templi di Apollo e del Foro Triangolare abbiamo il piccolo santuario nella Regio vi, insula 5. È interessante il completamento dei dati fornito dagli scavi dell’Università di Siena che hanno portano in luce nell’ambiente 8 della Casa di Faventino (insula v, 3) una fondazione in pappamonte correlando altresì lo strato arcaico rinvenuto negli scavi milanesi con la us 26 e interpretando il muro quale limite meridionale del témenos.58 Altra area sacra con evidenze rituali, probabilmente in un recinto, è stata individuata nella insula (ix, 1, 12) ove sono stati recuperati dati molto significativi.59 Il rinvenimento di un blocco di pappamonte, per la sua configurazione con la sommità circolare e leggermente incavata, è da interpretarsi come un altare che riporterei alle pratiche di culto etrusche. In realtà altari siffatti sono attestati in quell’area ove sovente si presentano con cuppelle incavate sulla superficie superiore. I saggi hanno portato anche a luce, al di sotto di scarichi con intonaci dipinti di Primo Stile, una superficie grosso modo rettangolare, due piani di battuto pavimentali, tre fosse.60 Secondo la descrizione fornita e con i materiali ancora in corso di studio, si può evincere che le fosse us 6, us 9 (deposito di fondazione), us 12 (deposito di obliterazione) furono praticate da coloro che avevano steso i piani pavimentali di battuto tra l’epoca arcaica e l’impianto del peristilio di ii secolo a.C., con il coinvolgimento di materiali provenienti dai livelli arcaici (bucchero, coppe ioniche, ceramica di tipo corinzio, pendaglio di collana in osso, lekythoi acrome). Ad essi va ascritto anche il frammento spurio di ceramica corinzia di imitazione della us 7. In definitiva allo strato di attività del periodo arcaico vanno attribuiti l’altare, il piano pavimentale più profondo, i frammenti di bucchero e un aryballos forse di imitazione corinzia, il piccolo deposito votivo us 23 costituito da avanzi carboniosi, ossa combuste, parte di una coppa decorata a bande, resti di due tazze di bucchero. Tuttavia qui, come altrove, i materiali archeologici, editi solo in parte non consentono una certifica più approfondita e sicura. I gruppi agenti

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i rinvenimenti protostorici emersi in vari punti del pianoro di Pompei che fanno pensare ad un villaggio,67 rinvenimenti che vanno ad aggiungersi alla presenza, nell’area di Porta Nocera, di un insediamento ipotizzato alcuni anni or sono.68 La distanza cronologica che intercorre tra questi dati e gli inizi dell’abitato pompeiano di vi secolo permette di inserirli optimo iure nel processo fondativo della città. Più concretamente a questi dati e agli interrogativi che ne derivavano, ha offerto nuovi spiragli di luce la ben nota scoperta, a Longola di Poggiomarino, a circa 10 km da Pompei, di un insediamento «di ambiente umido frequentato a partire dalle fasi avanzate della media età del Bronzo fino agli inizi del vi secolo a.C.». Il dato è importante perché si arriva alle soglie iniziali dell’abitato di Pompei. Per gli abitanti le ipotesi sono state varie e, per fare qualche esempio, sono stati invocati gli indigeni Sarrasti probabilmente attratti dalle vicine città di Pompei e Nuceria.69 Inoltre dalla mappa geografica70 risulta abbastanza evidente l’interesse che potevano avere gli abitanti dell’antico centro della valle del Sarno nel contribuire alla fondazione di Pompei: accostarsi al mare per inserirsi in una più ampia rete commerciale. Questi sono alcuni dei temi in discussione ove le diverse ipotesi si intrecciano con i concreti dati stratigrafici anche se la documentazione sovente appare slegata. Talora le interpretazioni poggiano su precise testimonianze archeologiche, talaltra restano nel campo delle supposizioni mentre non sempre convincono i tentativi di riportare i rinvenimenti a precisi momenti storici nella logica di una archéologie événementielle. Nell’enorme sforzo e nell’impegno che caratterizza le indagini in corso a Pompei resta ancora molto da fare perché la fase arcaica risulti meno sfuggente. Concludo pertanto questi appunti in margine aggiungendo che i rinvenimenti degli scavi recenti sono tuttora in corso di studio rispetto ai dati provvisori attualmente a nostra disposizione. Di conseguenza, quanto è stato osservato potrà nel futuro subire delle modifiche come asseriscono gli stessi autori del volume che ha dato spunto alle mie riflessioni, ma è questa continua revisione che doverosamente accompagna il progressivo cammino della scienza. Seiano, dicembre 2008 Abbreviazioni bibliografiche Amoroso 2007 = A. Amoroso, L’insula vii , 10 di Pompei. Analisi stratigrafica e proposta di ricostruzione, Roma, 2007. Arthur 1986 = P. Arthur, Problems of the urbanisation of Pompeii: Excavations 1980-1981, «The Antiquaries Journal», 61, 1, 1986, pp. 29-44. Befani 2005 = V. Befani, Vico della Fullonica, «rsp», 16, 2005, pp. 183-186. Bonghi Jovino 1982 = M. Bonghi Jovino, La necropoli preromana di Vico Equense, Cava dei Tirreni, 1982. Bonghi Jovino 1984 = Ricerche a Pompei. L’insula 5 della Regio vi dalle origini al 79 d.C., a cura di M. Bonghi Jovino, Roma, 1984. Bonghi Jovino 1993 = Produzione artigianale ed esportazione nel mondo antico. Il bucchero etrusco, Atti del Colloquio internazionale (Milano, 10-11 giugno 1990), a cura di M. Bonghi Jovino, Milano. Bonghi Jovino 2008 = M. Bonghi Jovino, Mitici approdi e pae-

67 Robinson 2008, spec. fig. 1; Coarelli 2008, p. 511. 68 De Caro 1992, p. 68. 69 Guzzo 2003; Cicirelli, Albore Livadie 2008, pp. 473-475.

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L AU S U S, FIL S DE MÉ Z E NCE E T LE LAUCI E ME Z E NT I E DE L’ IN SCRI P T I O N DU LO UVRE Dominique Briquel

L

ausus, le fils du tyran Mézence que ses compatriotes, scandalisés par ses crimes, avaient chassé de Caeré, est sans conteste une des figures les plus attachantes de l’Énéide1. Mais le poète de Mantoue n’a pas inventé le personnage: il l’a trouvé dans la tradition antérieure, qui faisait déjà, dans certaines de ses formes, intervenir un Lausus, fils du roi de Caeré Mézence, à côté de son père. Il était déjà présenté comme tombant au cours du conflit, mais après la disparition d’Énée, dans la guerre où les Latins conduits par Ascagne luttaient victorieusement contre Mézence et ses Étrusques. Le récit le plus circonstancié est celui que donne Denys d’Halicarnasse. Dans les Antiquités romaines, dans le chapitre 65 du livre i qui relate les opérations menées par les Latins désormais commandés par Ascagne contre les forces du roi de Caeré qui les bloquaient dans Lavinium (i, 65, 1), Lausus tombe au cours de la vigoureuse sortie menée par les assiégés, scandalisés par l’exigence, formulée par le souverain étrusque lorsqu’ils avaient voulu traiter avec lui, que lui soit livré tout le vin du Latium (i, 65, 2). Ayant alors décidé de consacrer le vin à Jupiter – dans ce qui constitue une étiologie des Vinalia2 –, ils se jettent sur les ennemis surpris par ce sursaut inattendu, les mettent en déroute et forcent le roi cérite à conclure un accord avec eux: un des points cruciaux du retournement de la situation est la mort de Lausus, tombé dans la chute du point d’appui dont il exerçait le commandement (i, 65, 4-5). On a une présentation beaucoup plus rapide des événements dans l’Origo gentis Romanae, texte tardif3 mais qui se réfère à des sources bien antérieures, puisqu’il cite Lucius Caesar, consul en 64 av. J.-C., qui exerça la charge d’augure et avait écrit des libri auspiciorum,4 et surtout l’annaliste Aulus Postumius Albinus, qui fut préteur en 155 et consul en 151 av. J.-C., qui doit être la source ultime du récit.5 Dans ce passage, O.G.R., 15, 1-4 (= Postumius, fr.2 Chassignet), le rôle de Lausus n’est pas exactement celui qu’il a dans les Antiquités romaines. Alors que le fils du roi de Caeré n’apparaissait chez Denys qu’après l’affaire de l’exigence du chef étrusque sur le vin du Latium, pour la seule contre-attaque des assiégés, l’O.G.R. le mentionne beaucoup plus tôt,

avant la mention de la prétention sur les vendanges6 par laquelle les Latins estimeront que le roi de Caeré s’est arrogé ce qui ne pouvait revenir qu’au dieu souverain Jupiter et s’est comporté en contemptor deum, selon la réputation qu’il traîne encore dans l’Énéide (même si Virgile la justifie autrement,7 par la cruauté dont il avait fait preuve à l’encontre des Cérites8). Ce déplacement est en accord avec le fait que, dans l’opuscule, le rôle du fils du roi étrusque apparaît plus important, et nettement plus glorieux; il n’est pas seulement donné pour le chef de l’élite de la jeunesse cérite, affecté au commandement d’une position importante – l’avant-poste du camp ennemi –, comme c’est le cas chez Denys, mais il se voit crédité d’un haut fait exceptionnel: il se serait emparé de la citadelle de Lavinium.9 C’est lui qui, par cette opération, oblige les Latins à envoyer une ambassade auprès de Mézence et à envisager une capitulation, perspective à laquelle seule l’exigence excessive du souverain étrusque amènera les Latins à renoncer. Les deux versions ne sont donc pas identiques et il ne paraît pas de bonne méthode de vouloir faire disparaître la divergence en corrigeant le texte de l’O.G.R., comme le proposait E. Baehrens,10 qui corrigeait le collem Lauiniae arcis de la tradition manuscrite en collem Lauiniae arci uicinum, alignant ainsi la présentation de l’opuscule sur celle des Antiquités romaines. Il convient de prendre acte de ce que l’O.G.R. et sans doute la source primaire, Postumius Albinus, admettaient que le fils de Mézence se soit emparé de la citadelle de Lavinium. Mais il ne faut pas penser à l’existence de deux traditions différentes au départ, une qui aurait considéré que l’acropole de la cité latine était tombée au pouvoir de Lausus et une autre qui aurait fait état d’une lutte contre le fils du roi cérite où celui-ci serait tombé, mais qui se serait déroulée en dehors de la ville. Les deux versions sont trop proches pour qu’on puisse douter que Denys procède en dernier ressort de la même tradition.11 Mais il l’aura volontairement modifiée. En effet la version de l’opuscule représente certainement la forme de base de la tradition; si on applique le principe de la lectio difficilior, c’est celle-ci qu’il faut retenir, avec son acceptation d’un fait qui ne pouvait manquer d’être ressenti comme scandaleux par des Latins: la

1 Nous avons étudié le personnage de Mézence et sa transformation par Virgile dans La fabrication d’un tyran: Mézence chez Virgile, «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», 1995, pp. 173-185. 2 Sur ce point, nous pouvons renvoyer à l’étude de R. Schilling, La religion romaine de Vénus, Paris, 1954, pp. 91-155. 3 Pour une datation dans le dernier quart du ive siècle, avec présentation des diverses hypothèses, J.-C. Richard, Pseudo-Aurélius Victor, les Origines du peuple romain, Paris, 1983, p. 64-65. 4 Sur le personnage et son importance comme source de l’opuscule (avec rejet de la thèse voulant que le Caesar cité sans prénom dans l’O.G.R. soit le vainqueur des Gaules), J.-C. Richard, o. c. (n. 3), p. 139. 5 Sur l’existence d’un traité De aduentu Aeneae (cité également par l’interpolateur de Servius, ad Verg. Aen., ix, 707 = fr. 3 Peter, fr. 2 Chassignet), qu’aurait composé Postumius Albinus, J.-C. Richard, o. c. (n. 3), pp. 158159. Sur Postumius Albinus, voir M. Chassignet, L’annalistique romaine, i, Les annales des pontifes, l’annalistique ancienne, Paris, 1996, pp. lxxix-lxxxv. 6 L’exigence diffère par un détail dans la version de Denys d’Halicarnasse et dans celle de l’O.G.R.: il n’y a pas de limite de temps chez Denys (i, 65, 2: «chaque année»), alors que l’O.G.R. parle de «quelques années». 7 Le transfert est noté par Macrobe, iii, 5, 9, lorsqu’il commente cette

qualification de contemptor deum attribuée par le poète à Mézence (en vii, 648 et viii, 7); il rappelle que cette dénomination s’expliquait au départ par la réclamation sur la vendange, en se référant à la version des Origines de Caton (= fr. 12 Peter, fr. 1, 12 Chassignet), d’ailleurs un peu différente de celle qu’offrent les Antiquités romaines et l’O.G.R. (pour Caton, l’exigence porte sur les seuls prémices, est adressée aux Rutules et est posée en opposition expresse avec une offrande faite aux dieux; de peur d’une réclamation semblable, les Latins réagissent préventivement, en consacrant ce vin à Jupiter, sans que cela entre dans des négociations avec Mézence). 08 Sur cette question (et la manière dont Virgile transfère sur Mézence un grief qui était porté à l’égard des pirates tyrrhéniens, disculpant ainsi les Étrusques d’une accusation traditionnelle), voir notre article cité à la n. 1. 09 Voir F. Castagnoli, Lavinium, i, Topografia generale, fonti e storia delle ricerche, Rome, 1972, pp. 8-11. L’acropole de Lavinium s’élevait sur un éperon rocheux relié au reste de l’habitat par un isthme étroit. 10 Voir E. Baehrens, Zur Origo gentis Romanae, «Neue Jahrbücher für Philologie und Pädagogik», 135, 1887, pp. 769-782, ici p. 780. Pour la critique de cette proposition, J.-C. Richard, o. c. (n. 3), p. 157. 11 Voir dans ce sens V. Fromentin, Denys d’Halicarnasse, Antiquités romaines, i, Paris, 1998, p. 263, n. 279, et p. 174, n. 280.

lausus, fils de mézence et le laucie mezentie de l ’ inscription du louvre 15 reluisant que représentait la chute de leur citadelle. Cela déprise par l’ennemi de la citadelle de la cité d’Énée, cette Latonne même par rapport à la figure de Mézence qui, dès le vinium qui restait à époque historique, alors même qu’elle départ, y compris dans la version de Postumius Albinus, est était complètement déchue, une des métropoles religieuses un personnage négatif: sa caractérisation de contemptor de Rome, où ses consuls et pontifes se rendaient chaque andeum et sa réclamation impie sur le produit des vignes lanée.12 Une telle incongruité n’aurait certainement pas pu tines qui justifie cette appellation appartiennent au stade le être introduite dans une forme de légende qui ne l’aurait pas plus ancien de la tradition, puisque nous en avons trace aussi comportée au départ et il faut donc tenir comme seconde la bien chez Caton que Postumius. version de Denys, qui édulcore les faits en faisant se dérouCependant, Lausus n’apparaît que dans une partie de la ler le combat contre Lausus dans le camp ennemi. Il faut tradition et, déjà à ce stade ancien, Caton offre une forme avouer d’ailleurs que sa présentation n’est pas très satisfaide récit dans laquelle le fils du roi de Caeré ne paraît pas sante et donne l’impression de rester tributaire d’une veravoir sa place. Sans doute le peu qui nous est parvenu des sion qu’il ne suit plus, mais qui continue à imposer au récit Origines ne suffit-il pas à garantir que Lausus ait été inconnu un cadre qui n’a plus de véritable justification. Ainsi, que de son auteur; mais la présentation des faits qu’on peut atLausus soit crédité de la défense d’une position particulièretribuer à Caton semble l’exclure dans la mesure où elle fait ment forte de l’ennemi (i, 65, 3) apparaît un peu gratuit: on jouer à Mézence le rôle dévolu à son fils dans la forme de léy verra le résultat du transfert à l’extérieur de la cité, dans le gende où il apparaît: dans les Origines, c’est à Mézence que camp des assiégeants, de la place qui avait été la sienne au se heurte Ascagne et c’est lui, non son fils, qui meurt dans cœur même de Lavinium. De même, plus loin dans le texte, cet affrontement.14 Le souverain étrusque est donc châtié que Mézence s’empare d’une colline13 et y soit bloqué par personnellement par le fils du héros troyen pour sa prétenl’ennemi (i, 65, 5), alors que cette précision ne présente pas tion jugée sacrilège: dans ces conditions bien sûr il ne peut vraiment d’intérêt, peut suggérer qu’il s’agisse d’une trace plus être question de réconciliation finale avec les Latins, de la forme de tradition où il était question d’une hauteur subséquente à la mort de son fils.15 autrement importante, l’acropole de Lavinium dont Lausus Dès lors, le problème de l’appréciation de la signification se rendait maître: on aurait cette fois un double transfert, du personnage de Lausus se pose dans les termes suivants: géographique, par le rejet à l’extérieur de la cité, et quant au qu’est-ce qui peut rendre compte du fait que, dès le iie sièpersonnage impliqué, puisque la prise d’une hauteur attricle av. J.-C., au moment où le personnage de Mézence nous buée au fils l’aurait été dans cette version au père, et cela devient perceptible, une partie de la tradition fasse état de hors de tout contexte glorieux, puisqu’il ne serait plus agi de Lausus, alors qu’une autre partie l’ignore? En d’autres la conquête de la colline qui dominait la cité ennemie, mais termes, qu’est-ce que la figure du fils apporte à la légende d’une opération de repli à la suite d’une défaite. Autre prédu père? cision concernant Lausus qui ne semble plus vraiment à sa Un détail du récit de l’O.G.R. suggère un premier élément place chez Denys: celui-ci insiste sur sa valeur, sur le fait de réponse. Lausus se voit crédité d’un exploit remarquable, qu’il est à la tête d’une troupe d’élite. Mais ces traits ne sont la prise de la citadelle de Lavinium — et sur ce point l’alluguère mis en relief dans le texte, où Lausus périt sans avoir sion, dans la version de Denys, à la position forte qu’il occuparticulièrement brillé: là encore ces notations semblent pait avec ses jeunes soldats d’élite paraît être une réfection privées de ce qui aurait pu les justifier, c’est-à-dire un exploit de la forme primitive de la narration. Le fils du roi de Caeré comme celui dont l’autre version crédite le fils de Mézence. était donc mis en relation avec l’arx de Lavinium. Or cette Ainsi la forme ancienne de la tradition, telle que Postucitadelle a donné lieu à des récits servant à expliquer le nom mius Albinus l’avait présentée au iie siècle av. J.-C., admetdes Laurentes ou de Laurentum: le témoignage le plus clair tait que le fils du roi de Caeré se fût emparé de la citadelle est un passage du grammairien Priscien qui évoque un laude Lavinium au cours de la lutte entre son père et Ascagne rier trouvé dans la citadelle de la ville, d’où aurait été tiré le et que ce fût lors de la reprise de celle-ci, non lors d’une simnom de Laurentum qui lui avait été donné.16 Ce texte est ple sortie des assiégés, qu’il ait péri. À une date haute de la tardif – Priscien vivait dans la Constantinople de Justinien –, tradition – puisqu’avec cet auteur nous sommes encore au mais il se réfère à Virgile: en effet le poète, dans l’Énéide, raniveau de l’annalistique ancienne –, Lausus se voyait crédité contait l’histoire du laurier qui se serait dressé dans le palais d’un rôle important, et d’un certain panache: sans doute du roi Latinus, et donc vraisemblablement dans la citadelle meurt-il, mais après avoir accompli une prouesse remarquade sa ville, et le mettait en rapport, sinon avec le nom Lauble, la prise de l’acropole de la ville ennemie. Cela mérite rentum qui n’apparaît pas dans l’épopée, du moins avec celui qu’on s’y arrête: il n’est pas évident a priori que la tradition des Laurentes, sujets du père de Lavinia.17 On a trace de la ait accepté de donner un rôle aussi brillant à un personnage même explication, mettant en relation ces noms avec le lauqui appartenait au camp des «méchants» et qu’inversement rier,18 chez Servius, qui pour sa part donne à la ville le nom les «bons», c’est-à-dire les Latins, aient admis le revers peu 12 Voir en part. interpolateur de Servius, ad Verg. Aen., i, 260. Sur le rôle religieux de Lavinium vis-à-vis de Rome, voir p. ex. A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor, 1964, pp. 246-270, A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Rome, 1989, pp. 155-380. 13 Dans la version de Denys, si Lausus est mis en relation avec une position défensive, les termes employés ne la connotent pas comme située sur une hauteur. Le motif de la colline n’apparaît explicitement qu’à propos de Mézence: ce peut être dû à un transfert du fils au père si on admet, comme nous serions porté à le croire, que Denys (ou une source intermédiaire) a modifié sur ce point la forme initiale de la tradition, qui serait celle rapportée dans l’O.G.R. 14 Sur ce point au moins l’accord règne entre les fragments catoniens (fr. 9 Peter = 1, 9 a Chassignet; fr. 10 Peter = 1, 10 Chassignet; fr. 11 Peter = fr. 1, 11 Chassignet; resp. Servius, ad Verg. Aen., i, 267, iv, 620, et vi, 760).

15 Tite-Live également fait état d’un accord final entre Mézence et les Latins (i, 3, 4-5), mais Lausus n’apparaît pas dans son récit et la défaite étrusque qu’il évoque est le combat où Énée disparaît (i, 2, 3). Dans cette version, Ascagne est encore un enfant et Lavinia exerce la régence (i, 3, 1) quand la paix est établie avec les Étrusques et Mézence: on a donc affaire à une autre forme de la tradition, qui devait elle aussi ignorer la figure de Lausus. 16 Priscien, GLK, iii, 498, 7. 17 Virgile, Énéide, vii, 59-63. La référence aux arces du Latium fondées par Latinus (au v. 61) ne s’applique pas spécialement à l’arx de sa ville, mais le poète a pu jouer sur le fait que l’arbre sacré s’élevait dans la citadelle. 18 La même explication se retrouve dans le cas du Loretum de Rome, sur l’Aventin (Varron, cité par Macrobe, iii, 12, 3; Denys d’Halicarnasse, iii, 43, 1; Pline, xv, 40, 138). En De lingua Latina, v, 152, Varron présente cette explication conjointement avec celle voulant que le toponyme ait reçu son

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de Laurolavinium et la considère comme une extension, réalisée par Latinus, de Lavinium, qui pour lui aurait été le plus ancien nom de la cité, pour lequel il avance une explication originale, ne faisant pas appel à Lavinia, fille de Latinus donnée en mariage à Énée,19 mais à un Lavinius, frère de Latinus, qui serait mort au moment de cet agrandissement.20 On la retrouve chez Hérodien qui, à l’occasion d’un séjour fait par Commode à «Laurentum» pour éviter une épidémie, évoque le fait que la région devait son nom non à un laurier précis, mais à la présence de forêts de lauriers.21 Cette question fait bien sûr intervenir le problème, discuté, de l’appellation de la cité, puisque qu’à côté de Lavinium on trouve la forme Laurentum,22 pour ne pas parler de la combinaison des deux noms en Laurolavinium qu’on rencontre à époque tardive.23 Nous n’avons pas entrer ici dans la discussion à ce sujet:24 contentons-nous de dire que l’opinion, généralement admise aujourd’hui, selon laquelle il n’aurait jamais existé une ville Laurentum distincte de Lavinium et que l’invention d’une cité de ce nom, qui pouvait permettre de donner un nom à la ville habitée par Latinus, père de Lavinia, avant l’arrivée d’Énée, son mariage avec la fille du roi latin et la fondation de Lavinium, nommée d’après elle, serait due à la distorsion existant entre le nom de la ville et celui du peuple qu’on a dans la dénomination, certainement ancienne, des Laurentes Lavinates nous paraît emporter la conviction. Mais il ne s’ensuit pas nécessairement, à partir du moment où on admettait comme toponymes aussi bien Laurentum que Lavinium, que le premier ait été ressenti comme antérieur au second, Laurentum ayant été la ville de Latinus25 et Lavinium celle fondée par le héros troyen et ainsi appelée à partir de Lavinia. Dans la présentation de Servius, commentant Virgile, Énéide, vii, 59, Lavinium préexiste avec son nom (dû dans cette forme de légende à un frère de Latinus) et le nom de Laurentum (à travers la combinaison Laurolavinum) n’apparaît qu’ensuite, lors de la découverte du laurier.26 Quoi qu’il en soit, il existait une légende sur un laurier qui aurait été trouvé sur le site de Lavinium, et plus précisément dans l’acropole, là où s’élevait le palais de ses rois, et cette légende permettait de rendre compte de l’appellation Laurentes de ses habitants; il n’est pas exclu non plus qu’on ait fait intervenir un nom de Laurentum qui aurait été donné, à partir de là, la citadelle de la ville: c’est au moins ce que suggère, chez Priscien, l’insistance sur l’arx, terme

référé précisément à cette ville et non, comme dans le texte de Virgile, à l’ensemble des arces latines. Or, nous l’avons vu, Lausus, dans la forme la plus ancienne de la tradition, est mis en relation spécifiquement avec la citadelle de Lavinium: on peut donc se demander s’il n’y aurait pas là une autre manière d’expliquer le nom de Laurentum, et par là celui des Laurentes. Ces appellations seraient issues du nom du fils de Mézence, tombé dans la guerre entre son père et Ascagne, sur la citadelle de Lavinium dont il s’était emparé.27 On pouvait rendre compte des formes Laurentum ou Laurentes, avec leur [r], par Lausus, avec un [s]: le phénomène du rhotacisme était bien connu et une telle différence quant à la consonne intervocalique n’a pas gêné lorsqu’on a tiré du nom de Faléries la figure d’un éponyme Halesus.28 Cependant, si on admet que, selon un procédé éponymique banal, Lausus a pu fournir une étiologie du nom de Laurentum, qui aurait été porté par la colline où il était tombé – ce qui effectivement rend bien compte de l’insistance, autrement étrange, de la tradition sur son lien avec la citadelle de Lavinium –, il n’en reste pas moins toujours surprenant que, dans ce cas, on ait fait appel pour rendre compte du nom de l’acropole de la métropole latine à un Étrusque, et donc à un ennemi, et non à un héros latin. On ne s’attend pas à voir jouer un tel rôle à un personnage qui, pour les Latins, appartenait au camp adverse. Cela présente une nouvelle singularité qui va nous obliger à reprendre la question de l’insertion du fils de Mézence dans la tradition. Nous l’avons vu, le personnage de Lausus se manifeste dans une forme particulière de la tradition, existant dès le stade de l’annalistique ancienne, mais différente de celle représentée au même moment par Caton. Or cette forme de tradition ne se caractérise pas seulement par l’apparition du fils du roi de Caeré, mais également par la fin différente de l’histoire: dans cette version, Mézence ne meurt pas, tué par Ascagne29 – et en un sens cette fonction de victime de la prouesse du fils d’Énée est assumée par le fils, non par le père –, mais conclut la paix avec les Latins avec qui il va dès lors vivre en bonne intelligence, devenant, ainsi que le souligne Denys d’Halicarnasse en i, 65, 5, leur fidèle allié. On a donc affaire à une forme de la légende où, d’une manière inattendue, celui qui avait été l’ennemi acharné des Latins, dont l’intervention avait donné lieu à la bataille où Énée avait disparu, qui s’était comporté en impie en réclamant que le vin qui revenait de droit au dieu suprême, qui avait

nom du fait que Titus Tatius y avait été enseveli après son assassinat par les Laurentes à Lavinium. L’explication par la mort de Titus Tatius se retrouve seule chez Festus, 360 L.

23 Voir Servius, ad Verg. Aen., i, 35; iv, 60; vi, 760; vii, 59, 131 et 170; xi, 100; Symm., Ep., i, 71; Liber coloniarum, 234. 24 La question est traitée en détail par A. Grandazzi, dans Alba Longa, histoire d’une légende, Rome, 2008; voir déjà, du même, Virgile et le Latium archaïque, «bagb», 1979, pp. 301-311 (et Association Guillaume Budé. Actes du xe Congrès [Toulouse, 8-12 avril 1978], Paris, 1980, pp. 446-449). 25 Le passage de l’Énéide ne permet pas de conclure que le nom de la cité de Latinus ait été Laurentum: sa ville n’est nommée nulle part dans l’épopée et la légende du laurier est mise en rapport avec l’ensemble des arces Latinae fondées par Latinus et la dénomination de Laurentes des habitants. Il est possible tout au plus que la citadelle, où s’élevait le palais, ait été appelée Laurentum. 26 En revanche, O.G.R., xiii, 4 (où le nom Lavinium apparaît dès le débarquement d’Énée du fait qu’il s’est lavé en cet endroit), ne permet de rien conclure quant à une antériorité de Lavinium par rapport à Laurentum: il n’est pas exclu que la région se soit appelée Laurentum ou ager Laurens. 27 Comme nous venons de la voir, les dénominations Laurentum ou Laurentes n’étaient pas nécessairement considérées comme antérieures à celle de Lavinium. 28 Sur le rhotacisme, Varron, De lingua Latina, vii, 26; Quintilien, i, 4, 13; P. Festus, 323 L. Sur la légende d’Halésos, fils d’Agamemnon, S. Eitrem, «re», vii, 1912, s.v. Halesus, 2, cc. 2229-2230. 29 Nous n’avons pas à tenir compte ici de la forme de légende où Mézence est tué par Énée (Virgile, Énéide, x, 867-908; Ovide, Fastes, 4iv, 879895). Il s’agit d’une innovation virgilienne.

19 La célébrité de la légende de Lavinia n’a pas empêché d’imaginer d’autres formes d’explication du nom de Lavinium. L’O.G.R., qui en 13, 4, suit l’étiologie classique, présente en 12, 4, une interprétation par le verbe lauare, faisant appel aux deux étangs trouvés par Énée à son arrivée sur le sol latin, dans lesquels il se serait lavé (urbem in eo loco condidisse quod in illis stagnis lauauit Lauinium nominasse; J.-C. Richard, o. c. (n. 3), p. 150, n. 11, note que cette explication néglige la quantité du [a], longue dans le verbe lauare, brève dans Lauinium). 20 Servius, ad Verg. Aen., vii, 59. 21 Hérodien, i, 122. Le terme Laurentum désigne ici la région. 22 Il convient de tenir compte ici des seuls textes où Laurentum semble désigner une ville et non la région. On trouve le nom chez Strabon, v, 3, 2 (229), disant qu’Énée aborde à §·˘Ú¤ÓÙÔÓ et y fonde une ville et surtout v, 3, 5 (232) où le nom s’applique à une ville, distincte de Lavinium; la mise en relation avec une ville apparaît peut-être, outre chez Priscien, l. c., dans le fr. 8 Peter = 1, 8 Chassignet (=Servius, ad Verg. Aen., xi, 316) des Origines de Caton (sur le territoire entre Laurentum et les castra Troiana); cf. également l’appellation de uicus Augustanus Laurent(i)um dans l’Itinéraire Antonin, 30, 1, et sur la table de Peutinger (si on ne l’interprète pas par un génitif pluriel de Laurentes). Mais ailleurs, le mot s’applique plutôt à la région (p. ex. §·˘Ú¤ÓÙÔÓ dans Denys d’Halicarnasse, i, 45, 1, et 63, 3, distinct de la ville de Lavinium évoquée en i, 59, 3-4; 63, 1; 64, 4; 65, 1; 67, 1; 67, 2-4).

lausus, fils de mézence et le laucie mezentie de l ’ inscription du louvre 17 tive du souverain cérite n’explique pas l’insertion dans la léété justement châtié par la défaite de son armée devant Asgende d’un fils appelé Lausus. Sans doute le schéma d’une cagne, finit ses jours dans une amitié sans ombre avec ses évolution du père, qui devient l’allié fidèle des Latins après anciens adversaires. la mort de son fils, tué dans une bataille, est-il susceptible Ce n’est, il faut l’avouer, pas très logique, ou plutôt il d’avoir été inspiré par un modèle tiré de l’histoire de Rome. convient de voir là l’effet d’une transformation de la forme On connaît un roi étrusque, ancien ennemi, dont le fils est ancienne de la tradition, où Mézence était un être purevaincu dans un combat et qui se réconcilie alors avec ses anment négatif, tué comme il le méritait par Ascagne dans un ciens adversaires: Porsenna, dont l’évolution d’ennemi en combat singulier, selon ce qu’on a chez Caton. On aura inallié de Rome ne s’achève qu’après la bataille d’Aricie qui a troduit le motif d’une réconciliation avec les Latins, ce qui vu la défaite de son fils Arruns et l’accueil réservé alors par obligeait du coup à lui substituer son fils dans son rôle de les habitants de l’Urbs aux débris de ses troupes –  qui fourvictime d’Ascagne. On a affaire à une réfection partielle: le nit une étiologie du Vicus Tuscus. En dépit de certaines différoi de Caeré ne se voit pas pour autant débarrassé de son rences,34 il est effectivement possible que le souvenir de aspect d’impie et de l’étiologie des Vinalia qui la justifiait – cette histoire ait joué dans la mise en place, dans la légende ce qui introduit, on en conviendra, une certaine incohéde Mézence, d’un personnage de fils à côté du père, perrence, avec une transmutation de Mézence en modèle de mettant de transférer sur lui le motif de la mort au combat fides qui peut paraître forcée. Mais sans doute cette histoire et rendant possible, à terme, sa transformation en allié et de réclamation sur le vin était-elle trop ancrée dans la traami des Latins. Cependant cela ne rend pas compte du dition pour qu’on pût en faire abstraction. Quoiqu’il en choix, pour ce fils, du nom de Lausus – alors qu’on aurait soit, par la volte-face finale du roi cérite et également par pu lui donner un nom étrusque aussi banal que celui, Arl’exploit prêté à Lausus dont il n’y a aucune raison de penruns, qui est attribué au fils de Porsenna. ser qu’il existait auparavant, les Étrusques sont présentés La fonction étiologique vis-à-vis des désignations de beaucoup plus favorablement qu’ils l’étaient dans la version Laurentum et Laurentes qui est envisageable dans la tradiprimitive de l’histoire, dont les fragments des Origines peution qui s’est créée sur Lausus ne suffit pas à non plus à jusvent nous donner une idée. tifier entièrement l’apparition de ce nom. Lausus est un Une telle réfection de la légende relève d’un phénomène nom trop particulier pour qu’il soit apparu pour cette seule dont D. Musti nous a fait prendre conscience de l’imporraison et par ailleurs il est quand même assez étonnant tance dans la formation de la tradition:30 le débat qui s’est qu’on ait été chercher une référence à un Étrusque pour exinstauré à Rome vers la fin de la République autour de la pliquer des réalités géographiques latines. Autrement dit, place des différents peuples de la péninsule dans la construcl’hypothèse d’une création ad hoc d’un Lausus fils de Métion du monde romain et qui s’est tout spécialement focazence suscite des difficultés. lisé autour du rôle assumé par l’élément étrusque. Les Y aurait-il alors d’autres raisons qui auraient poussé à inÉtrusques sont intervenus eux-mêmes dans la controverse: troduire dans cette variante de la légende de Mézence la fiG. Colonna a remarquablement montré que le retournegure de son fils Lausus? Il faut souligner la rareté extrême, ment en faveur des Étrusques dans la distribution des peudans l’onomastique étrusque, de formes qui peuvent expliples entre alliés et ennemis d’Énée dont témoigne l’Énéide quer ce nom donné au fils du roi de Caeré. W. Schulze, en trouve ses racines dans une forme de tradition qui s’est dé1904, ne trouvait comme correspondant véritable que le veloppée autour de Cortone.31 Dans le cas qui nous occupe, Lavsies´ qui se lit sur un ossuaire archaïque de Fiesole.35 Deon peut estimer que ce sont des Étrusques de Caeré, ville dipuis la situation n’a guère changé, puisqu’on ne peut ajourectement concernée par Mézence et dont les liens avec ter que l’attestation indirecte du même Lausie par deux déRome sont connus,32 qui ont ainsi procédé à l’édulcoration rivés en –s´a sur la table de Cortone. Cette rareté n’est en fait de la légende. Que les Étrusques se soient manifestés en inpas étonnante, puisqu’il ne s’agit pas d’un véritable nom troduisant une variante qui leur soit moins défavorable dans étrusque, mais du rendement dans cette langue du prénom une tradition dans laquelle ils n’avaient pas le beau rôle n’est italique courant Loucios, et encore sous une forme particupas sans exemple: nous avons cru pouvoir interpréter dans lière, avec [au] pour la diphtongue originelle [ou], pour lace sens la version de la mise à mort des ambassadeurs roquelle on trouve plus fréquemment [uv], et une évolution, mains à Fidènes par Lars Tolumnius où celle-ci est due non elle-même italique, du groupe [ky] en [sy], la forme habià la cruauté du roi véien, mais à une méprise sur l’expression tuelle en étrusque étant plutôt du type Luvcie.36 Mais les du jeu de dés «Tue-les!» qu’il venait d’employer.33 On aurait correspondants étrusques de ce prénom italique, sous ici un cas analogue, vraisemblablement explicable par une quelque forme qu’ils apparaissent, ne sont eux-mêmes pas élaboration due à des Cérites, bien placés par leurs relations très fréquents: la liste dressée par J. Hadas-Lebel ne comprivilégiées avec Rome pour diffuser leur version des faits. prend au total que 25 exemples. Mais que cette version ait visé à redresser l’image néga30 Voir D. Musti, Tendenze nella storiografia greca e romana su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d’Alicarnasso, Rome, 1970. 31 Voir G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda di Dardano, «ArchCl», xxxii, 1980, pp. 1-14 (= Italia ante Romanum imperium, Pise-Rome, 2005, i, 1, pp. 189-199). 32 Le renvoi est de rigueur au travail de M. Sordi, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Rome, 1960. 33 Voir sur ce point notre article Le coup de dés du roi de Véies: une parole efficace à contre temps, dans Parole, media, pouvoir dans l’Occident romain. Hommages offerts au Professeur Guy Achard, dir. M. Ledentu, Lyon, 2007, pp. 125-146. 34 La réconciliation de Porsenna avec les Romains est très progressive, a commencé avec l’exploit de Mucius Scaevola, s’est poursuivie avec celui de Clélie qui l’a incité à conclure déjà à ce moment un accord avec la jeune république; le fils de Porsenna affronte non les anciens adversaires de son

père, les Romains, mais d’autres ennemis, les Latins, soutenus par Aristodème de Cumes. 35 Voir W. Schulze, Zur Geschichte des lateinischen Eigennamen, Berlin, 1904, p. 85; inscription ET Fs 1.8: mi lavs´ies´. Le correspondant latin Lausius apparaît dans CIL, vi, 21173. 36 Il nous est impossible dans le cadre de cet article d’examiner en détail la question des rendements en étrusque de l’italique Loucios; nous pouvons renvoyer à l’étude faite par J.  Hadas-Lebel, Le bilinguisme étrusco-latin. Contribution à l’étude de la romanisation de l’Étrurie, Louvain-Paris-Dudley, 2004, pp. 99-116. Qu’on ait en latin Lausus et non Lausius n’est pas vraiment gênant, le [y] ayant pu être absorbé par l’élément sifflant [s] lors de la palatalisation du [k] (on songera, pour le rendement de formes italiques, au nom des Marses où [Martyos] donne Marsus ou à la forme originelle du nom d’Appius Claudius, donnée comme Atta Clausus).

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Or cette situation rend d’autant plus significatif que nous connaissions maintenant, à Caeré, un Laucie qui appartenait à la famille Mézence.37 La rareté des prénoms de ce type en étrusque38 oblige à se demander s’il n’y a pas un rapport entre le fait que la tradition littéraire connaisse un Lausus fils de Mézence et que nous ayons cette attestation, au viie siècle av. J.-C., d’un Laucie Mezentie. Assurément, il serait hasardeux d’affirmer que ce Laucie Mezentie est le Mézence de la tradition: il n’en atteste pas moins l’existence d’une famille de ce nom dans la Caeré de l’époque et suggère qu’il se fût agi d’une gens puissante, pourquoi pas celle d’une famille ayant donné des rois la cité. Dans ces conditions, le souvenir non seulement d’une famille Mézence, mais même d’un Laucie Mezentie aurait pu se

maintenir dans la Caeré des temps ultérieurs et donner lieu à l’élaboration de la figure du Lausus fils de Mézence, tel que nous le connaissons par la tradition littéraire.39 Le fait que le nom du personnage littéraire soit Lausus et non une forme du type Laucius n’est pas vraiment un obstacle: les formes Laucie et Lausie coexistant en étrusque (et cela dès époque ancienne), un Laucie originel a pu être modifié en Lausie (ou les deux formes ont pu être employées conjointement dès le début). Ainsi donc le Lausus de la tradition reflèterait-il le Laucie Mezentie de l’inscription du Louvre, ou un homonyme? Ce ne peut être qu’une hypothèse. Mais elle pourrait rendre compte du choix de ce nom, si particulier, pour le fils du roi cérite qu’ont eu à combattre Énée et son fils Ascagne.

37 Sur cette inscription, que la perspicacité de F. Gaultier a permis de retrouver dans les réserves du musée du Louvre, voir F. Gaultier, D. Briquel, Réexamen d’une inscription des collections du Musée du Louvre: un Mézence à Caeré au vii e s. av. J.-C., «Comptes-Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres», 1989, pp. 99-115; voir également notre article À propos d’une inscription redécouverte au Musée du Louvre: remarques sur la tradition relative à Mézence, «Revue des Études Latines», 67, 1989, pp. 78-92. Il semble que le nom Mezentie soit lui-même d’origine italique, ce qui s’accorde avec le choix d’un prénom comme Laucie, lui aussi d’origine italique (C. de Simone, Etrusco Laucie Mezentie, «ArchCl», xliii, 1991 (= Miscellanea etrusca e italica in onore di Massimo Pallottino), pp. 559-575).

38 Les formes avec diphtongue [au] et maintien du [k] sont ellesmêmes rares: un prénom laucie dans la nécropole archaïque du Crocefisso del Tufo (ET Vs 1.31), plus tard un lauci à Populonia (ET Po 1.1), un lavcies´ à Sienne (ET AS 2.6), à Fiesole un laucis´ (ET Fs 7.1) et le dérivé lavcis´la (ET Fs 7.2). 39 Deux types d’hypothèse sont envisageables: soit on aurait connu un Laucie Mezentie précis, et donc éventuellement celui de notre inscription, soit ce prénom, d’origine italique et exceptionnel en étrusque, aurait été traditionnel dans cette famille (un peu comme pour, à Rome, le prénom Appius chez les Claudii) et aurait été senti comme typique des Mezentie.

M AES TR I D’ ART E E ME RCANT I D’ART E AI PR IM OR DI DE LLA STO RI A E T RUSCA Giovannangelo Camporeale

L

’Etruria, terra ricca per le risorse del suolo e del sottosuolo, fin dai primordi della sua storia è stata meta di stranieri di varia estrazione sociale, che vi trovavano lavoro e buone possibilità di guadagno. Fra questi sono da annoverare anche maestri d’arte e mercanti d’arte, i quali rifornivano di beni pregiati la facoltosa clientela locale. Viene fatto di chiedersi: fra il maestro e l’acquirente dei suoi prodotti esiste un rapporto di dipendenza diretta e duratura o il maestro lavora in piena autonomia per clienti diversi? E, nell’ambito della seconda possibilità prospettata, fra maestro e acquirente (o committente) esiste un personaggio intermedio, il mercante (ed eventuali suoi agenti), che controlla la produzione e il mercato? In caso positivo qual è il rapporto che corre tra maestro e mercante? La documentazione al riguardo per il mondo etrusco non è né molta né tanto eloquente, ma da alcune notizie sparse si possono raccogliere elementi utili per tentare di ricostruire un quadro che ha risvolti di carattere economico e sociale. È molto probabile che la situazione abbia avuto aspetti diversi nei vari momenti storici e nei vari centri. È mio intento limitare la presente indagine ai primi secoli della civiltà etrusca, in modo da creare una sorta di griglia che possa offrire orientamenti per ricerche sui secoli recenziori. In alcuni settori, in particolare in quelli che riguardano manufatti fabbricati con materie prime arrivate da fuori, all’inizio dell’attività produttiva i maestri di norma sono stranieri che arrivano in Etruria insieme con la materia prima, con gli attrezzi necessari al lavoro e con l’esperienza di un mestiere appreso altrove, ovviamente nel luogo di produzione della materia prima. Si pensi alla lavorazione dell’avorio o dell’ambra: due materie, queste, che dall’viii secolo a.C. hanno avuto un largo impiego nella produzione di manufatti in Etruria e che senza dubbio sono arrivate rispettivamente dal bacino orientale del Mediterraneo e dall’area baltica. L’impianto delle prime botteghe in Etruria è da ascrivere con tutta verosimiglianza a maestri stranieri, i quali avranno avuto allievi che possono essere stati locali e che nel prosieguo degli anni hanno continuato la tradizione.1 La stessa cosa si può dire dell’oro, un metallo non ricavato dai minerali estratti nelle miniere d’Etruria e usato in questa regione fin dall’viii secolo a.C. e sempre più largamente nei secoli successivi: le tecniche di lavorazione e di decorazione (laminatura, sbalzo, granulazione, filigrana) riportano a modelli di ambito egeo e vicino-orientale.2 Anche i ceramisti greci, attivi in Etruria fin dall’viii secolo a.C., hanno introdotto nella produzione ceramica locale un repertorio di forme e di decorazione e novità tecniche (uso del tornio, largo impiego della pittura), che hanno avuto ampia fortuna nei secoli successivi.3 In questo contesto un

mercante, che redistribuisce alla clientela i prodotti, può essere ammesso, ma non si dispone di elementi per affermarlo con certezza. Un discorso più circostanziato si può fare con le patere d’argento e d’argento dorato di produzione fenicio-cipriota, restituite dalle tombe principesche etrusche di età orientalizzante.4 Due, dalla tomba Bernardini di Praeneste e da Pontecagnano (tomba sconosciuta), riportano l’iscrizione con l’indicazione del nome del maestro e della sua qualifica: ‘šmny’d bn ‘št’: Esmunya’ad figlio di ‘Asto; Blš bn nask: Bls’ appartenente ai fonditori;5 va sottolineato che l’alfabeto e la lingua del testo e il nome del maestro sono fenici, perciò relativi all’ambiente di produzione dei manufatti. Un’altra patera dello stesso gruppo dalla tomba Regolini Galassi di Caere riporta sul bordo esterno un’iscrizione di possesso in lingua e alfabeto etruschi e con il nome etrusco del possessore (larıia velıurus), eseguita a sottile incisione e con un cesello diverso da quello usato per la decorazione,6 quindi apposta in un ambiente diverso da quello di produzione del manufatto e da un incisore diverso da quello che ha decorato il pezzo, dopo che questo era arrivato a Caere e aveva trovato l’acquirente. Si tenga presente che nelle suddette patere le iscrizioni fenicie, anche quelle con geroglifici (senza senso) limitati ad uso ornamentale, si trovano in appositi spazi e rientrano nella sintassi decorativa del vaso, ergo sono concepite (e realizzate) dal maestro che esegue la decorazione, mentre quella etrusca di cui si sta dicendo è scritta sul bordo, in uno spazio rimasto libero dalla decorazione. Pertanto, almeno in questo caso, si può pensare più fondatamente a una figura intermedia, un mercante, che abbia portato (o fatto arrivare) il vaso a Caere e lo abbia ceduto (o donato) all’acquirente: a questa fase risalirebbe l’iscrizione etrusca. Ciò non vuol dire che non siano arrivati in Etruria dall’ambiente fenicio, oltre a vasi e manufatti vari, anche maestri, che vi hanno aperto bottega: si conoscono vasi di metallo prezioso – si pensi ad alcune kotylai dalla tomba Barberini di Praeneste, dalla tomba del Duce di Vetulonia, dal Circolo degli Avori di Marsiliana d’Albegna, al secchiello di Plikas´na da Chiusi –, che per la fattura in metallo prezioso, per il largo uso dell’incisione, per la distribuzione della decorazione in fasce strette, per il repertorio decorativo, per lo stile dei motivi figurati si rifanno alle patere feniciocipriote,7 ma per alcuni particolari della forma o dell’iconografia delle raffigurazioni ed essenzialmente per il contenuto delle scene si rifanno a tradizioni corinzie o locali.8 Anche se si ammette che i prodotti fenici rientrano in un movimento di scambio di doni fra capi,9 più (e oltre) che di commercio, i termini della questione sostanzialmente non cambiano.

1 Camporeale 2004, pp. 78, 109. 2 V. Hase 1975; Cristofani, Martelli 1983. 3 I rimandi che si potrebbero fare sarebbero molteplici, preferisco farne uno solo, il primo della lunga serie, per sottolineare l’antichità dell’acquisizione nella letteratura storico-archeologica (Blakeway 1935). 4 Su cui, con bibliografia, Markoe 1985, pp. 188-202. 5 Markoe 1985, pp. 189, e1; 199, e10; (d’Agostino), Garbini 1977, pp. 58-62; Camporeale 2006, pp. 100-101.

6 Buranelli, Sannibale 2005 [2006]. 7 Camporeale 2006, pp. 100-104. 8 Brown 1960, pp. 27-30; Camporeale 1967, pp. 99-107; Martelli 1973; Camporeale 2006, pp. 100-104. 9 Su cui si vedano Cristofani 1975; Bartoloni, Cataldi Dini, Ampolo 1980; ultimamente, con bibliografia, Sciacca 2003, pp. 112-116; Cappuccini 2007, pp. 233-238.

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Un’ulteriore informazione può venire dal carico dei relitti. Si prenda quello dell’Isola del Giglio, databile agli anni finali del vii secolo a.C.:10 la varietà del materiale trasportato – si va dalle anfore d’impasto da trasporto ai lingotti di metallo, dagli unguentari corinzi ai vasi di bucchero del servizio da vino, dagli strumenti musicali di legno ai manufatti bronzei – e la diversa provenienza degli stessi oggetti sono indicative di un traffico che si svolgeva spostandosi nei vari porti sbarcando e imbarcando merce diversa. In queste operazioni il protagonista è l’impresario-mercante, il ‘naukleros’, il quale doveva essere in contatto con i produttori dei vari manufatti e con altri commercianti della terraferma, impegnati nel loro smistamento. A tutti è assicurato il debito profitto. La nazionalità di questi, etrusca o non etrusca, ha un’importanza secondaria; ciò che importa è la loro presenza (attiva) nell’operazione. Il fatto che, per esempio, alcuni lingotti metallici destinati al commercio ci siano pervenuti con una sigla commerciale in alfabeto etrusco e altri con una in alfabeto greco11 può indicare che, indipendentemente dalla natura del prodotto, i primi rientravano nella merce di un mercante etrusco e gli altri in quella di un mercante greco, senza necessità di un rapporto tra prodotto commerciabile (e attività commerciale) da una parte e nazionalità del mercante dall’altra. Altri lumi vengono dalle fonti storiografiche. Esiste una tradizione compatta su Demarato, ricco commerciante di Corinto che intorno al 657 a.C. sarebbe stato costretto ad abbandonare la sua patria a causa della perdita del potere politico da parte dei Bacchiadi e ad emigrare a Tarquinia, dove avrebbe trovato accoglienza, avrebbe sposato una nobildonna locale, dalla quale avrebbe avuto due figli, uno dei quali sarebbe diventato re di Roma con il nome di Lucio Tarquinio Prisco.12 Egli, benché Cicerone (de re publ. ii 19, 34) lo definisca civis della nuova patria e benché abbia sposato una ricca donna di Tarquinia, non si sarebbe mai integrato in pieno nella struttura socio-politica tarquiniese, perché non ha preso un ‘nomen’ etrusco13 né ha etruschizzato il suo nome greco, come invece hanno fatto i contemporanei Rutile Hipukrates (TLE 155) o Ları Telicle (TLE 761);14 d’altra parte, anche il figlio quando, diventato re di Roma, ha preso un gentilizio (Tarquinius), ne ha preso uno non di schiatta. Sarà il caso di precisare che il logos su Demarato, relativo agli anni centrali del vii secolo a.C., è quasi certamente un’elaborazione tarda, forse di ambiente ellenico o filellenico (storiografia annalistica?), e che secondo l’opinione comune Demarato e i personaggi del suo seguito sono un’invenzione storiografica e che sono una proiezione in età antica di fatti recenziori, ma è altamente probabile che la tradizione rifletta una situazione effettiva dei decenni centrali del vii secolo a.C.: le fonti utilizzate da Plinio – come si dirà fra breve – sono diverse e convergenti, l’arrivo in Etruria di prodotti e maestri corinzi è provato e massiccio.15 Fra le varie testimonianze su Demarato nel nostro discorso ne vanno richiamate tre: Strab. v 2, 2 (c219): 10 Su cui Bound 1985; Cristofani 1992-1993 [1998]. 11 Colonna 2006, p. 662, nota 1. 12 Sul personaggio (e sul suo seguito) Blakeway 1935, pp. 147-149; Ampolo 1976-1977; Torelli 1979; Torelli 1983; Musti 1987; Briquel 1988; De Cazanove 1988; Cristofani 1991; Mele 1988 [1993]; Ridgway 1992; Ridgway, Ridgway 1994; Torelli, Menichetti 1995 [1997]; Zevi 1995; Mertens Horn 1995 [1997], pp. 274-276; Colonna 2000, pp. 62-63, Torelli 2000, pp. 392-393; Cerchiai 2006; Ridgway 2006; Rendeli 2007; Martinez-Pinna Nieto 2009, pp. 22-23; Winter 2009, pp. 556, 578-581. 13 Su ciò Zevi 1995, p. 295; Ridgway 2006, pp. 30-32.

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“Dopo la fondazione di Roma arrivò Demarato da Corinto con un largo seguito e, accolto dagli abitanti di Tarquinia, generò da una donna del luogo Lucumone. … Questi divenne re e cambiò nome in Lucio Tarquinio Prisco. Egli, come anche suo padre, diede lustro all’Etruria: il primo per gli artigiani che aveva condotto con sé dalla patria, l’altro con le risorse di Roma”. Plin. nat. hist. xxxv 5, 16: Hunc eodem nomine (Ekphanto) alium fuisse quam quem tradit Cornelius Nepos secutum in Italiam Damaratum Tarquinii Prisci regis Romani patrem fugientem a Corintho tyranni iniurias Cypseli mox docebimus “Cornelio Nepote tramanda che un altro Ekphantos seguì in Italia Demarato, padre del re di Roma Tarquinio Prisco, esule da Corinto per sfuggire alla persecuzione del tiranno Cipselo: di ciò si parlerà dopo”. Plin. nat. hist. xxxv 43, 152: Damaratum vero ex eadem urbe profugum, qui in Etruria Tarquinium regem populi Romani genuit, comitatos fictores Euchira, Diopum, Eugrammum, ab iis Italiae traditam plasticen “[si racconta] che i cloroplasti Eucheir, Diopos, Eugrammos, che in Italia introdussero la plastica, furono al seguito di Demarato, esule dalla stessa città [Corinto], egli che in Etruria fu padre del re di Roma Tarquinio”.

Fra i titoli di merito di Demarato è il fatto che egli conferì lustro all’Etruria con numerosi maestri che lo avevano seguito nel suo viaggio di emigrazione: è evidente che la notizia alluda anche a un riconoscimento ufficiale della componente corinzia nell’arte etrusca del vii secolo a.C.16 Plinio, rifacendosi a tradizioni diverse (Cornelio Nepote e Varrone), fa i nomi di alcuni di questi maestri: Ekphantos, Eucheir, Eugrammos, Diopos, chiaramente nomi d’arte di origine greca, che questi avrebbero assunto quando erano maturi nel mestiere o comunque già avviati al mestiere. Nei due passi di Plinio la citazione dei nomi dei maestri ha un valore solo esemplificativo: Ekphantos è menzionato solo per precisare che il nome ricorre spesso fra gli artisti; Eucheir, Eugrammos, Diopos sono citati solo come innovatori in Etruria della coroplastica, un’arte che secondo lo stesso Plinio (nat. hist. xxxv 45, 156) è la madre di ogni forma di scultura (plasticen matrem celaturae et statuariae sculpturaeque). Ciò vuol dire che i maestri al seguito di Demarato, come del resto precisa Strabone, potevano essere stati molto di più di quelli di cui ci è arrivato il nome. Il rapporto del commerciante con i maestri doveva essere molto stretto se questi lo seguono quando egli per motivi contingenti (e personali) abbandona la propria patria e se essi, con tutta 14 Per questi due personaggi non si hanno altri elementi chiari all’infuori dell’origine greca, ma che ruolo avranno avuto nella società tarquiniese del vii secolo a.C. non si sa. Non è improbabile che siano operatori commerciali stranieri, integrati nella società locale. Per il primo si vedano ultimamente Mandolesi 2008 [2009], pp. 19-20; Palmieri 2009, pp. 172-175. 15 Biffi 1988, p. 249, nota 121. 16 Su questo, con particolare riferimento alla coroplastica, si vedano Williams ii 1980; Winter 1990; Wikander 1993; Winter 2000; Winter 2009, pp. 556, 578.

maestri d ’ arte e mercanti d ’ arte ai primordi della storia etrusca 21 croce, che sono importate dall’area di cultura hallstattiaprobabilità, avranno continuato a lavorare nella nuova sena25 e situle di tipo Kurd, che sono probabilmente imitaziode. A loro è garantito il lavoro da parte del mercante-patroni locali di modelli hallstattiani;26 inoltre a una bottega attinus. In altri termini, si stabilisce un rapporto di dipendenza va a Vetulonia, ma gestita da un bronzista di formazione tra grande e ricco mercante e produttori d’arte, i quali lavohallstattiana, sono stati attribuiti alcuni lebeti, che sono staravano su commissione del primo fornendogli manufatti ti esportati in varie località dell’Italia antica e addirittura ad che egli esportava sui mercati o smistava direttamente a Olimpia.27 Il fenomeno, a prescindere dai risvolti di caratteclienti di cui conosceva esigenze e gusto. La situazione non re socio-antropologico (riferimento alla sfera simposiaca), è diversa da quella che si può evincere da alcune forme vaha diverse facce, anche se l’orientamento culturale è lo stesscolari affermate nella ceramica attica a figure nere e rosse, so (area hallstattiana): arrivo di prodotti, di modelli, di maecome le anfore nicosteniche o i sostegni a corpo semicilinstri. La situazione è decisamente complessa, anche se chiadrico o certi kantharoi, kyathoi e stamnoi: i vasai attici rera nelle linee di sviluppo. Proprio per ciò non escluderei che plicano in ceramica dipinta, e pertanto pregiata, per il mersia stata nelle mani di uno o anche più impresari, poco imcato etrusco modelli che appartengono alla produzione porta se stranieri o locali. Anche in questo caso i maestri saetrusca di bucchero e che godevano di un buon piazzamenrebbero dei produttori d’arte, alle dipendenze del mercante to sul mercato etrusco.17 Ne consegue che la posizione soche organizza il mercato degli oggetti d’arte e che diventa ciale del maestro d’arte non doveva essere elevata: egli, anresponsabile del conseguente processo di acculturazione. che se era titolare di una bottega, era un artigiano alle Nel vi secolo a.C. il panorama generale non è diverso. È dipendenze di un mercante-imprenditore.18 Il panorama significativa al riguardo la tradizione su Sostrato, anch’egli non cambia neppure da quando, intorno alla metà del vii un ricco mercante, originario di Egina, che negli anni finali secolo a.C., i maestri dell’Italia centrale tirrenica, avendo di quel secolo s’era procacciato un notevole patrimonio freacquisito coscienza della propria professionalità, seguendo quentando i mercati del Mediterraneo occidentale e centrauna prassi invalsa fra maestri vicino-orientali e greci, cole (Herod. iv 152). In Etruria i segni del suo passaggio sono minciano a firmare le loro opere: essi hanno di norma solo registrati nel santuario emporico di Gravisca, dove il meril nome personale e non il gentilizio o un nome d’arte.19 Racante offre come ex voto ad Apollo Egineta un ceppo d’anrissime e poco sicure sono le eccezioni.20 cora, un attrezzo legato alla sua (proficua) attività, evidenL’arrivo e la relativa permanenza a Tarquinia di Demaratemente dopo un’operazione commerciale andata a buon to provano che egli doveva conoscere piuttosto bene l’amfine.28 Sostrato sigla come impresario (™O, ™O™, ™) molti biente, ovviamente per averlo frequentato come impresario di commercio, esercitato – dati i tempi – nella forma vasi attici a figure nere tarde arrivati sui mercati etruschi.29 della “prexis” aristocratica.21 Che cosa egli importasse ed I termini della questione sono ancora una volta gli stessi: esportasse nella totalità e varietà è difficile precisarlo, certo impresario e maestri greci, impegnati in un lavoro destinato è che era coinvolto nel traffico di manufatti d’arte o più in al mercato etrusco, in cui il primo smista (e commissiona?) generale di oggetti di pregio: non a caso a lui viene riportata i prodotti dei secondi. I mercanti greci impegnati nel comuna tradizione (oggi contraddetta dai dati a disposizione e mercio di vasi greci in Etruria nei secoli vi e v a.C. non sono perciò non accolta), che gli fa introdurre l’alfabeto in Etrupochi;30 ma va aggiunto che sono stati riscontrati su vasi ria (Tac., Ann. xi 14, 3), un fatto che nel vii secolo a.C. è una greci dello stesso periodo anche casi, benché non molti in connotazione di alto rango sociale.22 Oggetti d’arte o di verità, di sigle commerciali in lingua etrusca, che riporteprestigio e tradizione litterata sono fatti da considerare sulrebbero a mercanti etruschi.31 lo stesso piano, ambedue pertinenti alla classe aristocratica. I santuari emporici possono essere frequentati da persoDagli elementi raccolti possono essere intanto fissati alnalità di spicco dell’economia del mondo antico: è il caso di cuni punti, relativamente al vii secolo a.C.: Pactyes, forse il tesoriere del re di Lidia Creso, attestato a – l’arrivo in Etruria di prodotti allotri; Gravisca.32 L’interesse primo della frequentazione, benin– l’arrivo in Etruria di maestri allotri;23 teso se l’ipotesi di identificazione del personaggio è valida, – la presenza in Etruria di mercanti allotri (o anche locali). sarà stato di organizzazione di una qualche attività comUna situazione grossomodo analoga si riscontra se si merciale. passa all’area transalpina, un’area interessata a rapporti con A questo punto non si possono passare sotto silenzio le l’Etruria fin dal primo Villanoviano.24 Il quadro è non così tessere hospitales con iscrizione etrusca o di provenienza chiaro come quello del Mediterraneo orientale, ma non etrusca (vi secolo a.C), il cui numero è cresciuto sensibilmeno parlante. Vorrei richiamare l’attenzione su una situamente negli ultimi anni.33 Quella più significativa nel nozione che si profila a Vetulonia nel corso della prima metà stro discorso proviene da Cartagine (mi puinel karıazies vedel vii secolo a.C. Qui sono segnalate situle con attacchi a squ[…]na): il segno dell’accoglienza nell’ambiente etrusco 17 La questione è stata più volte proposta, anche ultimamente (Martelli 1985, p. 180). Si vedano per le anfore: Hirschland Ramage 1970, p. 22; Verzár 1973, pp. 51-52; Rasmussen 1979, pp. 74-75, tipo 1g.; Gran Aymerich 1982, p. 39; Rasmussen 1985, pp. 34-35; per i sostegni a corpo semicilidrico: v. Bothmer 1972; Paribeni 1974, p. 132; per i kantharoi, i kyathoi, gli stamnoi: Isler-Kerényi 1976; Rasmussen 1985; Ortenzi 2006, p. 203. 18 Nella stessa linea Colonna 2000, p. 61. Per una posizione sociale analoga dell’artista nel mondo greco Bianchi Bandinelli 1957. 19 Colonna 1975. 20 Potrebbe essere il caso dell’iscrizione sull’incensiere da Artimino («StEtr», XL, 1972, pp. 398-399, n. 1 [ree ] ), beninteso se il testo contiene una firma d’artista. 21 Su cui Mele 1979. 22 Colonna 1976, pp. 19-22; Cristofani 1978, pp. 20-30; Cristofani 1987, p. 30; Pandolfini 1990, pp. 5-10; Bagnasco Gianni 1996, pp. 345-353. Una buona messa a punto della questione è in Sassatelli 2000.

23 La presenza su lingotti di piombo di provenienza etrusca di sigle commerciali in alfabeto sia etrusco sia greco indica la presenza di mercanti sia etruschi sia greci nel traffico di prodotti etruschi in Etruria (Colonna 2006, p. 662, nota 1). 24 Hencken 1959; Hencken 1968; Hencken 1971; Iaia 2005, passim. 25 v. Merhart 1952, pp. 3-14 [= 1969, pp. 284-300]; Camporeale 1967, pp. 87-88; Camporeale 1969, pp. 28-29. 26 v. Merhart 1952, pp. 29-33 [= 1969, pp. 321-327]; Camporeale 1969, p. 30; Cerchiai 1987, p. 31; Cerchiai 1988. 27 Camporeale 1986 [1988]. 28 Torelli 1971; Torelli 1986, p. 51. 29 Johnston 1972; Johnston 1979, pp. 80-83; Cristofani 1999; Pandolfini Angeletti 2007, p. 61. 30 Johnston 1979. 31 Johnston 1985. 32 Torelli 1986, p. 54. 33 Maggiani 2006.

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giovannangelo camporeale

(Tarquinia? Vulci?) di un Cartaginese, il quale l’aveva riportata in patria a memoria del suo viaggio o dei suoi viaggi.34 Ma quale sarà stato il motivo di questo viaggio in Etruria? Non è inverosimile pensare a motivi commerciali, anzi di organizzazione commerciale. Il problema di fondo affrontato in queste brevi note riguarda il rapporto tra maestro d’arte e mercante d’arte nell’Etruria dei primi secoli, un fatto che coinvolge insieme gusto e organizzazione commerciale. Gli artisti risultano in una posizione per così dire subordinata rispetto al commerciante. Accanto a questa figura sono da ammettere alcune infrastrutture, come agenzie o magazzini o mezzi di trasporto, di cui finora non si hanno testimonianze chiare né nelle fonti scritte né nei resti archeologici; i relitti finora noti, se si esclude quello dell’Isola del Giglio, sono tutti del vi secolo e costituiscono un problema che non è mai stato affrontato globalmente. Il quadro presentato, limitato alla raccolta di pochi dati, è solo orientativo di una situazione generale, quadro che alla luce di nuovi dati può essere ampliato approfondito puntualizzato rettificato. Gli elementi acquisiti possono valere ovviamente come base di partenza per indagini in altri settori di produzione e commercio, in cui è coinvolta l’antica Etruria. Caro Giovanni, oltre cinquanta anni fa contemporaneamente tu ed io abbiamo cominciato la nostra esperienza etruscologica. L’intento di fondo tuo e mio, sulla scia dell’insegnamento dei nostri Maestri e delle direttive dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, è stato quello di attirare l’attenzione su problemi dell’Etruria e dell’Italia preromana. Mi è gradito offrirti un piccolo contributo che rientra in questo filone di studi, con l’augurio che da esso tu possa prendere lo spunto per considerazioni e – perché no? – rettifiche, che segneranno senza dubbio un ulteriore progresso alla conoscenza di quei problemi a cui ci siamo dedicati con impegno e passione. Giovannangelo Referenze bibliografiche Ampolo 1976-1977 = C. Ampolo, Demarato. Osservazioni sulla mobilità sociale arcaica, «DialArch», ix-x, 1976-1977, pp. 333-345. Bagnasco Gianni 1996 = G. Bagnasco Gianni, Oggetti iscritti di epoca orientalizzante in Etruria, Firenze, Olschki, 1996. Bartoloni, Cataldi Dini, Ampolo 1980 = G. Bartoloni, M. Cataldi Dini, C. Ampolo, Periodo iv a (730/20-640/30), «DialArch», n.s., ii, 2, 1980, pp. 136-145. Bianchi Bandinelli 1957 = R. Bianchi Bandinelli, L’artista nell’antichità classica, «ArchClass», ix, 1957, pp. 1-17. Biffi 1988 = N. Biffi, L’Italia di Strabone, Genova, d.ar.fi.cl.et., 1988. Blakeway 1935 = A. Blakeway, “Demaratus”. A Study in some Aspects of the earliest Hellenisation of Latium and Etruria, «JourRomStud», xxv, 1935, pp. 129-149. Bound 1985 = M. Bound, Una nave mercantile di età arcaica all’Isola del Giglio, in Il commercio etrusco arcaico, a cura di M. Cristofani et al., Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1985, pp. 65-70. v. Bothmer 1972 = D. v. Bothmer, A unique Pair of Attic Vases, «Revue Archéologique», 1972, pp. 83-92. Briquel 1988 = D. Briquel, Une vision tarquinienne de Tarquin l’Ancien, in Studia Tarquiniensia, Roma, Giorgio Bretschneider, 1988, pp. 13-32. Buranelli, Sannibale 2005 [2006] = F. Buranelli, M. Sanni-

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23

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I L DIR ITTO DEL L A CI T T À E LE SI T UAZ I O NI MARG I NA LI Luigi Capogrossi Colognesi

l titolo di questo breve studio dedicato ad uno dei più acuti e fecondi indagatori dell’antichissimo mondo italico entro cui si venne affermando il nuovo modello cittadino, mira a sottolineare la presenza, nell’esperienza organizzativa romana delle origini, di un insieme di situazioni che difficilmente appaiono riconducibili all’interno della categorie giuridiche che la nuova città veniva costruendosi. Da tempo ho insistito sull’eterogeneità, rispetto ad esse ed alla conseguente polarità ‘terre pubbliche – terre private’, dell’antichissimo demanio delle antiche strutture gentilizie. Ovviamente quest’ager gentilicius è più che dubbio: ma se ha un senso (anche per interpretare il contenuto del conflitto patrizio-plebeo di v secolo) allora esso difficilmente appare rientrare nelle categorie proprie della città. Il che potrebbe spiegare in parte l’oscurità e le incertezze delle fonti antiche, risalenti in genere alla fine dell’età repubblicana o anche più recente, quando ormai sfuggiva la sostanza di queste forme primitive d’appartenenza.1 Non meno interessante e sicuramente non molto più recente appare un’altra di queste ‘situazioni senza diritto’, costituita dall’ager compascuus: anch’essa difficilmente inquadrabile negli schemi del diritto romano. Mentre poi la figura dell’ager gentilicius si sfuma nell’ombra della leggenda e non supera certo la prima metà del iv secolo, diversa e più prolungata è la vicenda di quest’altro tipo di terra che esiterei a chiamar pubblica, anche se ancor meno la possiamo considerare privata. Per chi voglia approfondirne il significato converrà rifarsi ad un fondamentale saggio di Laffi da lui pubblicato nel 1998 su tale argomento,2 dove è anzitutto da segnalarsi l’utile impiego dei testi dei Gromatici veteres. Com’è noto è il corpus degli scritti degli agrimensori romani una materia ricca di molteplici informazioni, ma di non facile interpretazione, sovente quasi inaccessibili anche ai fini di una mera comprensione letterale. Materia di confine, d’altra parte, tra noi giuristi e gli storici, e poco esplorata nel corso del secolo e mezzo che ci separa dalla prima grande edizione di Blume e Lachmann. Ma anche testimonianza fondamentale per la conoscenza di settori particolari ma importanti della organizzazione giuridica delle campagne romane. Penso in primo luogo alla intera categoria di quell’ager publicus su cui tanto poco si è lavorato da parte dei moderni romanisti, a causa forse della relativa insignificanza in proposito della documentazione giuridica tradizionale: e anzitutto dei testi dei giuristi romani. Ora, con una singolare concordanza non solo cronologica, sia da parte mia che di Laffi s’è evidenziato l’insieme di

difficoltà che si oppongono alla tendenza tradizionale a collocare il compascuo tra le varie figure di terre pubbliche.3 In effetti lo specifico regime di questa figura lo distingue da tutti gli altri tipi rientranti all’interno di questa più generale categoria. Non è tanto la loro appartenenza al demanio municipale che rileva infatti, ma la presenza di un vincolo permanente del compascuus alla sfera della proprietà privata, essendo esso pertinenza di un insieme di fondi sfruttati individualmente dai loro domini. Un rapporto che non a caso, nell’unica importante testimonianza proveniente dai giuristi romani ad esso relativa, sembra collocato nell’ambito delle servitù prediali. Mi riferisco al passo di Scevola, riportato in D., 8, 5, 20, 1 (lib. 4 dig.): plures ex municipibus, qui diversa praedia possidebant, saltum communem ut ius compascendi haberent, mercati sunt idque etiam a successoribus eorum est observatum: sed nonnulla ex his, qui hoc ius habebant, praedia sua illa propria venum dederunt, quaero, an in venditione etiam ius illud secutum sit praedia, cum eius voluntatis venditores fuerint, ut et hoc alienarent. Respondit id observandum, quod actum inter contrahentes esset: sed si voluntas contrahentium manifesta non sit, et hoc ius ad emptores transire. Item quaero, an, eum pars illorum propriorum fundorum legato ad aliquem transmissa sit, aliquid iuris secum huius compascui traxerit. Respondit, cum id quoque ius fundi, qui legatus esset, videretur, id quoque cessurum legatario. Inserito dunque nel libro viii del Digesto relativo alle servitù prediali, questo testo appare seguire una logica sostanzialmente estranea al sistema entro cui tali figure erano state inquadrate dai giuristi romani. Da ciò la sua secondaria rilevanza nella letteratura romanistica sulle servitù prediali. D’altra parte, data la tradizionale debolezza degli studi storico-giuridici sulla più generale categoria delle terre pubbliche che ho già menzionato, è egualmente comprensibile che neppure in quest’ambito s’incontrino contributi significativi in ordine al suo contenuto.4 Tuttavia, come già aveva ben visto Brugi, non sono solo gli schemi propri delle servitù inadeguati ad organizzare tale figura. Nessuno infatti degli schemi che il diritto privato era venuto organizzando in funzione del regime fondiario appaiono adeguati: in particolare non lo è il regime della pertinenza, che non può assicurare pienamente la relazione funzionale e permanente tra un pascolo comune ed un insieme predeterminato e circoscritto di fondi in proprietà privata. Sotto questo profilo era proprio quello delle servitù lo schema più adeguato a realizzare una relazione giuridica del genere. Solo che mancava nel nostro caso la titolarità della proprietà sul pascolo ad un soggetto estraneo. Di qui l’incertezza che è dato di cogliere nel testo di Scevola. Dove il punto non mi sembra quello di un’oscura for-

1 Su tutto ciò si rinvia a L. Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio, Roma, 2000, capp. v-vii. 2 Cfr. U. Laffi, L’ager compascuus, «rea», 100, 1998, ora in Id., Studi di storia romana e di diritto, Roma, 2001, p. 381 sgg. Esso è apparso contemporaneamente ad un mio contributo sullo stesso argomento: L. Capogrossi Colognesi, Spazio privato e spazio pubblico, in La forma della città e del territorio (Atti del Convegno, S. Maria Capua Vetere, 27-28 novembre 1998), Roma, 1999, p. 17 sgg. 3 Cfr. già L. Capogrossi Colognesi, art. cit. (nota prec.), passim, spec. nota a p. 17, nonché le indicazioni contenute ora in U. Laffi, Studi, cit. (no-

ta prec.), p. 412, postilla. Vedi infine L. Capogrossi Colognesi, Persistenza e innovazione nelle strutture territoriali dell’Italia romana, Napoli, 2002, cap. i, §§ 4-5. 4 Fanno eccezione anzitutto il vecchio commento di Brugi alle Pandette di Glück, nonché gli studi più recenti da me già richiamati: B. Brugi, note a F. Gluck, Commentario alle Pandette (trad. italiana), viii, Milano, 1900, p. 310 sg.; U. Laffi, art. cit. (nota 2), p. 386 sgg., con la sua consueta incisività; nonché L. Capogrossi Colognesi, op. cit. (nota 3), p. 29 sg., dove si sottolinea soprattutto il fatto che Scevola non costruisse questo compascuo privato in termini di servitù.

1.

I

il diritto della città e le situazioni marginali mulazione del negozio istitutivo (come invece sembrerebbe indicare l’accento posto sul problema interpretativo dell’effettiva volontà: …cum eius voluntatis venditores fuerint… id observandum, quod actum inter contrahentes esset: sed si voluntas contrahentium manifesta non sit…). Il punto che resta in ombra infatti è che, ove la voluntas contrahentium fosse invece stata manifesta, allora essa avrebbe potuto esprimersi anche nel senso di non far seguire il diritto di compascolo alla trasferita proprietà del fondo ‘dominante’. Il che, tuttavia, rende affatto aleatoria la stessa figura del compascolo, giacché esso sarebbe così dipeso dal persistere della volontà delle parti contraenti. Restando quindi un diritto personale, ben diversamente dunque dalle servitù prediali in cui l’alienante non avrebbe mai potuto riservarsi il contenuto del diritto di servitù privandone il fondo dominante da lui trasferito ad altri. Scevola si impegna certo, per quanto è possibile, a rafforzarne l’efficacia: tuttavia solo nei limiti delle possibili interpretazioni della volontà negoziale, giacché non v’era evidentemente alcun tipo di rapporto privato, previsto dai giuristi romani e dal pretore, che permettesse di vincolare il destino del compascuo a quello delle terre private a favore delle quali esso era stato originariamente costituito.

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E così proprio questo testo conferma l’idea, del resto ampiamente diffusa, del fondamento pubblicistico del compascuo. Un’idea, del resto, che trova conferma nella specifica letteratura gromatica, riferita ad una realtà non anteriore alla fine repubblica ed all’età imperiale. In essa il compascuo appare collocarsi all’interno di un sistema territoriale, disegnato o ridisegnato dalle autorità coloniarie nel momento dell’installazione di nuovi insediamenti coloniari e delle relative distribuzioni territoriali. È infatti coerente all’articolarsi delle terre arcifinali, dei pascua publica e delle altre terre di pertinenza della comunità locale, seppure a vario titolo, del definirsi di vincoli pubblicistici sulle terre private (per la viabilità, per il controllo delle acque, etc.), l’affermazione di un peculiare rapporto tra minori comprensori di terre private e questi stessi compascua. Un rapporto autoritativamente sancito dagli auctores divisionis, appunto. È questo ciò che ci dice lo stesso Igino a proposito di una formula che tanto spesso incontriamo nelle leggi coloniarie. Si tratta di Hyg. Grom., cond. agr., 83, 13 sgg. Th. (= 120, 12 L.): illud vero observandum, quod semper auctores divisionum

sanxerunt, uti quaecumque loca sacra, sepulchra, delubra, aquae publicae ac vicinales, fontes fossaeque publicae vicinalesque essent, item siqua conpascua, quamvis agri dividerentur, ex omnibus eiusdem condicionis essent cuius ante fuissent. Il rapporto funzionale del compascuo con uno specifico comprensorio predeterminato di proprietà fondiarie appare sancito autoritativamente da quegli auctores divisionis preposti alla limitatio del territorio coloniario in modo da vincolare l’autonomia dei privati. Si tratta di una pratica certo più antica, definitasi nelle sue linee costitutive in età repubblicana, all’interno dei colossali processi di centuriazione con cui i Romani plasmarono gran parte dell’Italia. Su di essa, come poi nelle varie terre provinciali, si venne disegnando un complesso mosaico di realtà fondiarie pubblicistiche e comunitarie destinate ad integrare le risorse specifiche delle varie comunità: le terre arcifinali, i susbseciva, le silvae ed i pascua a vario titolo ‘pubblici’, i communalia ed i compascua. Si trattò di un intreccio né semplice né univoco e di tale carattere resta ampia evidenza nei testi dei gromatici: qui ancora più oscuri di quanto non siano già abitualmente. Dove anzitutto si cercherà invano un aspetto che apparentemente dovrebbe essere in primo piano, appartenendo sovente tali passi a commenti alle controversiae agrorum: la natura giuridica di queste varie terre.5 Così continuiamo a chiederci se i compascui fossero terreni privati accedenti alle varie sortes in pieno dominio individuale, o non conservassero il loro carattere pubblicistico, divenendo solo meri possessi dei proprietari delle terre ‘dominanti’.6 Non solo non incontriamo nei numerosi testi dei gromatici una risposta certa: in essi cogliamo piuttosto l’accentuazione del loro carattere comunitario: una connotazione non chiara, sotto il profilo strettamente giuridico, anche se molto significativa per noi storici. In effetti, se da un lato Frontino sembra orientato a favore della natura privata delle terre di compascuo,7 seguito forse da Agennio Urbico,8 opposta è la prospettiva che ci propone il commentario dello pseudo-Igino.9 E l’incertezza aumenta ove ci si volga ad un altro testo di Siculo Flacco: cond. agr., 116, 13 sgg. Th. (= 152, 12 sgg. L.). In esso la visuale sembra allargarsi al di là della specifica categoria del compascuo poiché in esso leggiamo che quorundam etiam vicinorum aliquas silvas quasi publicas, immo proprias quasi vicinorum, esse comperimus, nec quemquam in eis caedendi pascendique ius habere nisi vicinos quorum sint; ad quas itinera saepe, ut supra diximus, per alienos agros dantur.10 Sebbene vi si parli di silvae, è indubbio che ci si riferisca anche ai compascua, come è confermato

5 Per quanto concerne la natura giuridica delle terre del compascuo si veda già L. Mitteis, Römischen Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, i, Leipzig, 1908, p. 344 e nota 13; M. Kaser, Die Typen der römischen Bodenrechte in der späteren Republik, «ZSav», 62, 1942, p. 51 e nota 163, nonché E. Levy, West Roman Vulgar Law, Philadelphia, 1951, p. 85 sg. 6 Si noti che nel primo caso la situazione sarebbe da ricondurre all’interno dei rapporti di pertinenza, nel secondo sarebbe piuttosto da far riferimento al paradigma delle servitù. 7 De Controversiis di Giulio Frontino: un trattato, si noti, relativo anzitutto agli aspetti legali. Ivi, infatti, Front., contr., 6, 7 sgg. Th. (= 15, 4 sgg. L.), leggiamo: est et pascuorum proprietas pertinens ad fundos, sed in commune; propter quod ea conpascua multis locis in Italia communia appellantur, quibusdam provinciis pro indiviso. Nam et per hereditates aut emptiones eius generis controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur. In effetti proprietas è un termine univoco e parrebbe qualificare queste terre comuni, non solo come private, ma come in piena proprietà, e quindi rientranti nella sfera di beni possibili oggetto di eredità o di compravendita. Sotto questo profilo il contenuto di questo passo non appare smentito dalla precisazione che incontriamo in comm. ad Front. contr., 63, 12 sgg. Th. (= 15, 23 L.): Haec fere pascua certis personis data sunt depascenda, sed in communi. 8 Agenn. Urb., contr. agr., 39, 14 sgg. Th. (= 79, 19 sgg. L., e 48, 21 L.): relicta sunt et multa loca, quae veteranis data non sunt. Haec variis appellationibus

per regiones nominantur: in Etruria communalia vocantur, quibusdam provinciis pro indiviso. Haec fere pascua certis personis data sunt depascenda tunc cum agri adsignati sunt. Come sono stati dati questi pascua: nella stessa forma delle assegnazioni dei fondi cui essi si collegano o come destinazione di terre pubbliche delle colonie? Nella parte immediatamente successiva del passo tuttavia sembrerebbe che l’autore riferisse la controversia de proprietate anche a tali pascua: et de eorum proprietate solet ius ordinarium moveri non sine interventu mensurarum, quoniam demonstrandum est, quatenus sit adsignatus ager. Nam per emptiones quasdam solet proprietas quarundam possessionum ad personas pertinere. Quae iure magis ordinario quam mensuris explicantur. 9 Hyg. Grom., cond. agr., 79, 22 sgg. Th. (= 116, 21 sgg. L.): Mancipes autem, qui emerunt lege dicta ius vectigalis, ipsi per centurias locaverunt aut vendiderunt proximis quibusque possessoribus. In his igitur agris quaedam loca propter asperitatem aut sterilitatem non invenerunt emptores. Itaque in formis locorum talis adscriptio, id est IN MODUM CONPASCUAE, aliquando facta est, et TANTUM CONPASCUAE; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis. Quod [que] genus agrorum, id est compascuorum, etiam nunc in adsignationibus quibusdam incidere potest. Compascui, dunque, come terre marginali, fuori delle assegnazioni e che solo di fatto parrebbero seguirne le condizioni. 10 È di particolare interesse il fatto che in Siculo Flacco l’impiego del quasi, riferito al compascuo trovi un’ulteriore applicazione in Sic. Flac.,

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dal successivo riferimento al pascolo, oltre che al legnatico11. Ma l’aspetto significativo di questo testo è il duplice impiego del quasi, sia rispetto al publicus che al privatus. In tal modo infatti si esprime immediatamente ed efficacemente l’indeterminatezza del regime giuridico di tali territori. Giacché esso a me sembra evocare proprio la tensione cui facevo riferimento più sopra: da un lato un tipo di sfruttamento vincolato ed un rapporto giuridico di carattere ‘semiprivatistico’ tra il compascuo e le terre di un gruppo predeterminato di proprietari ‘vicini’12 (un vincolo analogo insomma a quello proprio delle servitù prediali). Ma un vincolo che, come s’è detto, è efficace solo in virtù di un intervento pubblico (o ‘semipubblico’) quale quello degli auctores divisionis di cui s’è detto.13 Di non minore interesse è un altro richiamo in Igino che evoca la preesistenza dei compascui alla nuova sistemazione romana effettuata mediante limitatio. Dove abbiamo la traccia di pratiche gromatiche che non di rado dovettero semplicemente rifarsi a quanto già esisteva prima della colonizzazione. Si tratta di Hyg. Grom., cond. agr., 83, 13 sgg. Th. (= 120, 12 L.), che ho già riportato e dove si afferma il mantenimento dei compascui «nella stessa condizione in cui erano già», con una formula che incontriamo sovente nelle leggi coloniarie. Ma cosa significa dunque questa ‘condizione’: e, anzitutto, essa indica una continuità legale o funzionale? Sebbene io abbia frequentemente richiamato questa clausola nelle mie ricerche, è questo un punto restato in ombra (trascurato del resto anche dagli altri studiosi), che converrà meglio chiarire.14 Mi sembra dunque inevitabile interpretarla nel senso che essa sancisse, proprio in considerazione del mutamento istituzionale (oltre che in parte materiale) intervenuto con la fondazione coloniaria, la destinazione funzionale di una serie di elementi strutturali e, salva una diversa disposizione, la stessa preesistente disciplina. Questa destinazione funzionale è bene indicata da Agenn. Urb., loc. cit. (supra, nota 8), allorché scrive dei pascua certis personis data sunt depascenda tunc cum agri adsignati sunt: appunto le terre assegnate dei vicini. Da essa era così ingenerato un vincolo nel tipo di sfruttamento del tutto peculiare a tale rapporto. Né avrebbe potuto chiedersi lo scioglimento del condominio per quote, né sarebbe stato possibile trasformare il ‘compossesso’ come lo chiama Burdese, in possessi individuali su lotti del compascuo. È forse possibile associare l’origine di tali tipi di vincoli a pratiche con-

suetudinarie, recepite poi, o imitate talora, dagli statuti coloniari, da quelle leges emanate dagli auctores divisionis, registrate nelle stesse mappe catastali della colonia. Ed è altresì probabile che molti aspetti particolari di tali assetti (quanto e che tipo di bestiame poteva condurvi a pascolare ciascun proprietario, etc.), continuassero ad avere un carattere consuetudinario. Costituendo la realtà concreta di quei mores regionis che appaiono talvolta all’orizzonte dei testi giuridici romani, ma sporadicamente e in modo inadeguato a darci la misura della loro effettiva importanza.

cond. agr., 121, 16 sgg. Th. (= 157, 7 sgg. L.): Inscribuntur et COMPASCUA; quod est genus quasi subsecivorum sive loca, quae proximi quique vicini, id est qui ea contingunt, pascua…

aventi diritto ad accedere al compascuo che non la limitazione a dieci pecore per il libero accesso al pascolo senza pagamento del vectigal. Ma su questo punto la lex epigraphica è muta. 16 Si consideri, tra l’altro, che questa prescrizione di carattere generale, valida per tutti i tipi di compascua nell’ambito territoriale cui si riferiva la lex agraria, appare contraddittoria con il carattere stesso del compascuo, anche quello pubblico, di pertinenza della comunità locale e amministrato secondo le forme di volta in volta stabilite a livello locale. E tuttavia proprio la presenza di tale disposizione ci fa pensare che, in tali contesti, dovessero preesistere norme e criteri che regolavano l’utilizzazione comune delle terre del compascuo da parte degli aventi diritto: in primo luogo il numero e la qualità degli animali che ciascuno di essi poteva introdurre nel compascuo. Resta poi il fatto che la libertà di fruizione di tale figura per un numero limitato di capi di bestiame ben ci riconduca alle forme originarie di comunità piccole e di piccoli proprietari. 17 Cfr. anche: L. Zancan, ‘Ager publicus’. Ricerche di storia e di diritto romano, Padova, 1935, p. 70, ed ora U. Laffi, art. cit. (nota 2), p. 394 sg., anche in ordine alle ragioni della disposizione qui esaminata. Sul punto a me sembra che il divieto di trasformazione dei pascoli pubblici in nuovo compascuo possa rispondere a due diversi criteri: o un’ostilità verso le forme comuniterie più accentuate da questo rappresentate, oppure – e forse è più probabile – la preoccupazione di impedire l’accaparramento esclusivo di comprensori di terre pubbliche da parte di un gruppo più ristretto di proprietari vicini.

11 Cfr. anche U. Laffi, art. cit. (nota 2), p. 385 e nota 12. 12 Questo è anche il riferimento contenuto in Fest., verb. sign., 35 L., s.v. conpascuus ager: questa figura è indicata come un terreno relictus ad pascendum communiter vicinis. 13 Di esse si fa riferimento rapido, ma non insignificante in alcuni passi del Digesto, ma la loro importanza dovette essere assai maggiore della rilevanza quantitativa assunta nel nostro sistema delle fonti. Sul punto cfr. Capogrossi Colognesi, La struttura nella proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ in età repubblicana, ii, Milano, 1976, p. 523 sgg. 14 Cfr. ad es. L. Capogrossi Colognesi, I rapporti fondiari fra ordinamenti locali e integrazione giuridica, in Continuità e trasformazioni nell’Italia romana. Istituzioni, politica, società, a cura di M. Pani, Bari, 1991, p. 245 sg. e nota 22. 15 Tuttavia, a ben vedere, ho qualche dubbio che la clausola qui considerata esprimesse semplicemente l’aggressione dell’oligarchia romana alla piccola proprietà agraria che i Gracchi avevano cercato di restaurare. Giacché l’esonero dal pagamento del vectigal concerneva proprio i piccolissimi greggi di pecore, quelli che ben potevano corrispondere al piccolo proprietario fondiario, associato quasi integralmente agli autoconsumi. D’altra parte era forse più importante una rigida regolamentazione di quei vicini

3. Se, da quanto s’è detto, appare relativamente chiaro il fondamento pubblicistico del vincolo di destinazione gravante sul compascuus, diverso è il problema del giuridico costituito a favore dei suoi fruitori: se fondato sullo schema proprietario o se mero godimento di un terreno pubblico. Quasi che entrambi gli schemi fossero possibili e praticati nei vari contesti. Almeno questo in età imperiale. Ma allora, non dobbiamo dimenticare, il compascuo era una figura già antica, se si considera come esso fosse stato richiamato come un elemento ovvio nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. Un richiamo un po’ particolare, in verità, giacché con questa legge, alle ll. 14 sg., si statuiva che quei in agrum compascuom pecudes maiores non plus X pascet… [pro iis pecudibus populo aut publicano vectigal scripturamve nei debeto, neive de ea re sati]s dato neive solvito. Si è giustamente visto in questa clausola un meccanismo limitativo di pratiche relativamente diffuse e che evidentemente mal s’inquadravano nel carattere della sistemazione legislativa postgraccana. Era in generale l’espansione della proprietà quiritaria e delle forme individualistiche, liberate da ogni vincolo pubblicistico o comunitario, quella allora perseguita.15 Va anche detto come fosse proprio il canone così introdotto legislativamente e di cui ignoriamo i possibili precedenti, ad assimilare il carattere del compascuo alla generale categoria dell’ager publicus, modificandone in sostanza l’originaria disciplina.16 La lex agraria, non dobbiamo dimenticarlo, non costituisce tanto un provvedimento volto a fotografare una realtà agraria e giuridica preesistente, disciplinandone e formalizzandone la fisionomia, ma a incidere su strutture antiche, modificandole in profondità, anche attraverso la trasformazione della loro natura giuridica.17 Per questo,

il diritto della città e le situazioni marginali

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come accennavo, è verosimile che essa tendesse ad emarginare o, comunque, a modificare e ‘normalizzare’ una forma di organizzazione territoriale e di relazione funzionale tra terre di diversa natura precedentemente assai più diffusa e che poteva trarre le sue radici dalle prime forme di emersione della stessa proprietà individuale ancora non pienamente autosufficiente. E con ciò ci volgiamo inevitabilmente alle radici preromane e romano-arcaiche del paesaggio italico. È in esse, infatti, una possibile chiave interpretativa di quell’ambiguità che, per l’età successiva abbiamo visto caratterizzarne la natura. E tale chiave è offerta, a sua volta, dall’accento che, ancora in quest’epoca tarda, appare posto sulla sua fisionomia di terra ‘comune’. Ho già richiamato l’attenzione del lettore sull’importanza di tale riferimento. Ma anche sulla sua ambiguità, tale da renderlo estraneo al binomio ‘pubblico-privato’ che domina in epoca storica tutto l’universo giuridico romano, relativamente agli immobili.18 È proprio questo carattere, d’altra parte, che rende tale connotazione singolarmente congrua alla più importante, se non più antica testimonianza relativa ai compascua in età repubblicana. Mi riferisco a quanto è dato di leggere nella ben nota Sententia Minuciorum, dove tale figura appare richiamata alle ll. 33 sg.19 Quei ager compascuos erit, in eo agro, quo minus pecus pascere Genuates Veituriosque liceat ita, utei in cetero agro Genuati compascuo, niquis prohibeto nive quis vim facito neive prohibeto, quo minus ex eo agro ligna materiamque sumant utanturque. È un testo che fotografa una realtà indigena, estranea sicuramente agli schemi romani, oggetto di una complessa controversia territoriale tra comunità liguri. Esso ricorda come venisse sottoposta all’arbitrato effettuato dai magistrati romani nel 117 a.C. ex Senati consulto.20 Il riferimento al compascuo, da parte dei Romani, dovette essere effettuato con una accezione molto ampia, giacché corrispondeva ad una situazione diversa21 da quella per essi più significativa (ma non unica), corrispondente ad una utilizzazione esclusiva del compascuo da parte dei vicini, i ‘proximi possessores’.22 È però per noi sufficiente constatare come i Romani avessero colto in queste situazioni un’analogia con le forme loro consuete, tanto da individuarle con la loro terminologia.23

Non è certo questo l’unico caso in cui i Romani, nella loro espansione, a contatto con le forme autoctone abbiano cercato di tradurle nei loro canoni e schemi istituzionali: tutta la vicenda dei pagi ci ricorda esperienze analoghe, per restare in un tema territoriale da me particolarmente esplorato. È almeno possibile pensare, a proposito di questa figura, che la vicenda ligure non sia isolata, ma rifletta una esperienza più diffusa. E cioè che, in alcuni casi e in certe aree, i Romani, nella loro espansione, abbiano piuttosto sussunto che non esportato le varie forme organizzative di pascoli comuni, riconducendole all’interno di un’unica figura e unificandone la terminologia piuttosto che la sostanza.24 Si dovette trattare di situazioni non omogenee, dove tuttavia dovette essere determinante non tanto la ristrettezza delle consorterie proprietarie ammesse allo sfruttamento di tali terre, ma la forma comunitaria della partecipazione i questo stesso sfruttamento. Per questo il carattere artificiale del gruppo dei proprietari ‘vicini’ appare solo come un momento terminale o molto avanzato di una vicenda che ha radici più antiche.

18 Ad eccezione, ovviamente, delle res sacrae, religiosae etc.: ciò che tuttavia qui non rileva. 19 CIL, v, 7749 (i2, 584; ILS, 5946; FIRA, iii, n. 163; Bruns, n. 184, p. 401 sgg.). 20 Trad. italiana: «per quanto concerne le terre a compascuo, nessuno impedisca ai Genuati ed ai Viturii di portare le pecore al pascolo, come nell’altro compascuo dei Genuati nessuno impedisca né faccia violenza impedendo che da quella terra si possano prendere e usare legna o materiali». 21 Dove sembra addirittura, come vuole E. Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica, Roma, 1955, p. 441, aversi una partecipazione di più comunità alle stesse terre. 22 Cfr. E. Sereni, art. cit. (nota prec.), p. 449 sgg., secondo cui ci si troverebbe di fronte ad una realtà non interpretabile secondo gli schemi giuridici strettamente romani, riguardando una fase più arretrata dell’evoluzione sociale di tali popolazioni. Pertanto egli, in polemica a mio avviso giusta con Bognetti, tende a escludere che in questo caso ci si trovi di fronte ad una situazione analoga al ‘classico’ compascuo romano per cui solo alcuni membri della comunità a ciò qualificati dalla loro proprietà di fondi vicini avevano diritto al compascuo. Al contrario, gli stessi Romani, pur modificando formalmente la condizione preesistente del compascuo e attribuendone la titolarità ad una sola comunità, quella dei Genuati, tuttavia, non potendo «sconvolgere la vita economica delle comunità indigene», recepivano la sostanza degli antichi compascui ‘intertribali’, riconoscendo «l’antico regime di comunanza tra più comunità (e non semplicemente fra più fondi)» (op. cit., p. 458). Questa ricostruzione appare del tutto funzionale alla tendenza di Sereni a ricongiungere il compascuo preromano alla realtà medievale, con la presenza di terre comuni a più pievi, identificate

dall’a., come meglio vedremo in seguito nella continuazione dei pagi romani. 23 Non diversamente dalla stessa presenza di terre pubbliche, anche se dubito che l’impiego in tale documento del termine publicus, possa egualmente essere riferito a Roma e non invece alle comunità minori esistenti nell’ambito del suo ordinamento politico. Cfr. Sent. Minuc. (CIL, v, 7749 ; ILS, 5946), capp. 4 e 5. In effetti E. Sereni, op. cit. (nota 21), pp. 42, 468 sgg., 477, 482 e 485, sviluppa in modo estremamente approfondito e argomentato, una tesi già sostenuta da Bognetti, nel 1926. Egli tuttavia non mi sembra riesca a dissolvere pienamente i dubbi sulla stessa condizione autonoma delle comunità liguri, ancora al tempo della Sententia, e in particolare della stessa Genova. D’altra parte il riferimento ivi effettuato al valore e alla portata del Senatoconsulto, richiamato nel testo della sentenza non mi sembra possano veramente confermare l’interpretazione di Sereni: tra l’altro il valore dei senatoconsulti attestato in Gai., 1, 4, è inapplicabile al ii sec. a.C. Non solo, più in generale la ricostruzione politico-istituzionale suggerita da questi due autori di un precoce assorbimento delle comunità liguri all’interno dell’ordinamento romano e di una formale adtributio dei Langates, come di altri pagi liguri all’oppidum dei Genuati postula conferme che appaiono tuttora insufficienti. Mi sembra dunque tuttora più convincente la diversa opinione già espressa da A. Rudorff, Ueber den Rechtspruch der Minucier, «ZSav», 1, 1861, p. 178 sgg. 24 Già U. Laffi, art. cit. (nota 2), p. 395 sgg., aveva impostato con grande equilibrio il problema della possibile derivazione da forme preromane del compascuo romano mostrando in ultima analisi come ci si trovi ancora una volta più di fronte a ipotesi relativamente ragionevoli che ad una realtà sicuramente attestata nelle fonti.

4. Quale che sia stato il carattere delle realtà preromane ed il loro possibile assorbimento all’interno dei nuovi assetti dell’Italia romana, un punto mi sembra si possa ricavare proprio dall’impiego del termine compascuo nella Sententia ora considerata. L’ho già richiamato: si tratta del fatto che ivi gli autori romani del testo indicassero con tale termine una partecipazione collettiva allo sfruttamento dei pascoli da parte dell’intera comunità. Una situazione ben diversa da quella che abbiamo visto in un contesto più specificamente romano, dove questo stesso termine sembra in generale evocare uno sfruttamento ristretto ad un più limitato comprensorio di proprietari vicini. Questa prima forma si presenta con caratteristiche, diciamo così, più ‘arcaiche’ del secondo tipo: legata al mondo ‘precivico’ dei populi praticanti forme di allevamento, di contro alla rigida funzionalità del secondo tipo all’organizzazione agraria ed alla proprietà individuale della terra. Questo non significa necessariamente che, anche nella storia di Roma, la prima forma abbia preceduto la seconda:

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senza adeguate testimonianze uno schema del genere si fonderebbe infatti solo su un più generale presupposto di tipo evoluzionista. Possiamo però dire che, con ogni probabilità, nella loro espansione italica, i Romani estesero e moltiplicarono il secondo modello che si trovò pertanto a coesistere, in certe aree, con sopravvivenze degli antichi pascoli comuni. La formazione di questi compascui tra vicini non solo non dovette essere anteriore alla piena affermazione della proprietà individuale della terra. Probabilmente essa presuppone anche quel progresso, delineatosi peraltro molto precocemente nell’esperienza romana, che associò tali forme alla costruzione di quello che io definirei un sistema di ‘microunità agrarie organizzate’. La prima evidenza di esso la incontriamo nell’ordinamento decemvirale. Contrariamente infatti a quanto ritenevano gli studiosi ottocenteschi, questo mondo di piccoli proprietari fondiari non era caratterizzato dalla separatezza ed esclusività di tanti minuscoli sovrani territoriali ma dal coordinamento e dall’integrazione. È in funzione di ciò che, ferma restando la sacralità dei confini, una serie di norme regolano sia le pratiche agrarie onde garantirne la relativa stabilità, lasciando incolte le aree di confine, sia le possibili interferenze tra proprietari fondiari onde minimizzare le turbative in funzione del pieno godimento agrario, sia infine la stessa viabilità all’interno dei vari comprensori dei proprietari. Così come, in questo stesso ambito, quello straordinario strumento costituito dall’actio aquae pluviae arcendae non solo regolò i comportamenti dei singoli rispetto alla grande turbativa costituita dalle acque torrentizie, ma assicurò il presupposto istituzionale per il programmato intervento con opere collettive onde realizzare la miglior difesa comune contro queste stesse acque. Solo comprendendo gli effetti di lungo periodo di questo processo istituzionale si coglie il significato, quasi di logico sviluppo, di quella pratica così caratteristica e così importante rappresentata dall’organizzazione gromatica del ter-

ritorio. La limitatio con cui i Romani, probabilmente a partire dal iv sec. a.C., ridisegnarono tanta parte delle terre italiche prima e del mondo provinciale poi non esprime affatto un’ossessiva esigenza di unificazione cartesiana di sistemi territoriali. Essa costituisce piuttosto il logico sviluppo organizzativo delle premesse istituzionali che ho ora richiamato. Essa infatti realizzava la condizione materiale per l’affermazione di tre esigenze, anzitutto di carattere economico-sociale, volta a massimizzare il valore della proprietà individuale. La certezza dei diritti, con il chiaro disegno delle vaste aree entro cui collocavansi le acceptae, le singole unità fondiarie, il permanente e pervasivo reticolo viario che univa la campagna alla città, il controllo delle opere di assestamento territoriale, di imbrigliamento delle acque25 e le varie pratiche e figure di sfruttamento delle terre restate al di fuori delle assegnazioni proprietarie, a integrarne la funzioni con tutte le produzioni necessarie: dalla legna all’allevamento. In questo sistema integrato è così possibile, tra l’altro, la costruzione del compascuo come pertinenza stabile di comprensori di piccoli proprietari. È questo un mondo integrato di piccoli proprietari fondiari, dove le unità poderali sono ancora interamente legate all’agricoltura, anteriore ai precoci sviluppi del iv sec. a.C. In esso si dovette svolgere la vita iniziale di tale figura, riportandoci alla precoce fioritura della proprietà romana nella prima età repubblicana. Si trattava di un tipo d’integrazione le cui radici organizzative, forse dovevano preesistere alle forme di un diritto ‘statale’ compiuto, destinate a rifluire nel grande corpo consuetudinario che si sostanzierà nei mores della città primitiva. Del resto questo, in ultima analisi, è il carattere fondamentale di tutte le realtà comunitarie, in qualche modo preesistenti alla città. Quando poi esse – nel mondo antico come agli albori dell’età moderna – verranno riconosciute e recepite da questi stessi ordinamenti, tenderanno ormai ad appannarsi, sopravvivendo piuttosto nelle aree marginali e più impervie del mondo rurale.

25 Coincide temporalmente anche la diffusione dei cunicoli con funzioni di drenaggio sparsi nelle aree laziali controllate da Roma.

L’ AGGUATO DI H AMAE Luca Cerchiai

I

n una relazione tenuta nel 1980 al congresso di Palermo G. Colonna imposta in modo memorabile la storia del mercenariato campano, con particolare riguardo alla Sicilia.1 Tale studio, contraddistinto dalla sapiente interazione tra dati archeologici e tradizione storica, ha inaugurato una feconda serie di ricerche tra le quali vanno innanzitutto annoverate quelle di G. Tagliamonte:2 nella stessa scia tenta di inserirsi il presente contributo.

1. Nel 215 a.C. Tiberio Sempronio Gracco infligge una durissima sconfitta ai Campani di Capua presso il santuario di Hamae (Liv. xxiii, 35). La vittoria non è conseguita con una battaglia in campo aperto, ma attraverso l’agguato: l’esercito romano colpisce nel cuore della notte, dopo una marcia notturna, e sbaraglia i nemici sorprendendone una parte addormentata nell’accampamento e l’altra disarmata di ritorno dalla celebrazione del sacrificium. Livio giustifica questa strategia come reazione alle trame dei Campani che, passati ad Annibale dopo Canne, mirano a tradire Cuma, attirandone il senato in un tranello durante la festa connessa al nomen federale. Per non lasciare dubbi, Livio cita la preparazione del meddix tuticus Mario Alfio, impegnato instruendae fraudi più che a proteggere l’accampamento. Anche se con un’ottica di parte, lo storico inserisce le modalità dello scontro in una prospettiva antropologica di lunga durata: nella struttura topica con cui la tradizione antica innanzitutto configura le conquiste campane di Capua (423 a.C.) e Cuma (421 a.C.) nei termini di un’aggressione a tradimento. Come ha sottolineato G. Tagliamonte, le coordinate di questo topos prevedono il “tradimento della fiducia … con conseguente attacco notturno a sorpresa, talora portato a compimento in un giorno di festa (tanto per sottolineare ulteriormente la nefandezza del paraspondema)”:3 ciò significa che i Romani sul campo di Hamae hanno sconfitto i Campani con le loro armi, in una sorta di nemesi storica in cui la vittoria del più forte segna la conferma di una discriminazione etnica. Ma le origini della perfidia campana rimontano indietro nel tempo, come indirettamente può ricavarsi dallo stesso racconto di Hamae: per un attacco simile ad un agguato, i Romani utilizzano un esercito particolare, composto da schiavi volontari (volones) arruolati per reintegrare i ranghi falcidiati dai Cartaginesi; come evidenzia Livio, le reclute sono spinte ad un comportamento “generoso e onesto” per emulare i compagni liberi. L’arruolamento di schiavi liberati e prigionieri di guerra ricorre in un altro momento cruciale della storia campana: nella formazione della guardia del corpo di Aristodemo 1 Colonna 2005. 2 Tagliamonte 1994; Id. 1999; Id. 2006. 3 Tagliamonte 1999, p. 556; importanti considerazioni sulla logica di questo modello storiografico sono sviluppate in Moggi 2003. 4 A. Mele, Aristodemo, Cuma e il Lazio, in M. Cristofani (a cura di), Etruria e Lazio arcaico, Atti incontro di studio, (Roma, 1986), «Quadaei», 15, 1987, pp. 155-77, spec. p. 160, nota 79.

che, a sua volta, è abbattuto dai figli degli aristocratici uccisi o esiliati, ridotti al ruolo di schiavi di campagna. La tirannide, che inizia con il putsch all’interno della boule, si conclude con lo sterminio della famiglia di Aristodemo grazie all’astuzia di un assalto notturno e, come nel caso di Hamae, l’assassinio del tiranno assume il significato di una vendetta riparatrice.4 Il fil rouge da Aristodemo ad Hamae trova conferma nelle tappe intermedie della conquista campana di Capua e Cuma: nella prima Livio (iv, 37, 2) narra che i Samnites novi coloni sterminano nel sonno gli incolae veteres storditi dal vino in un giorno di festa, come accade ad Aristodemo e alla sua famiglia; a Cuma, secondo Strabone (v, 4, 4), i Campani, eliminati i maschi, si impadroniscono delle case e delle donne, come fanno i phylakes di Aristodemo nella tradizione riportata da Dionigi di Alicarnasso (vii, 8, 4; 9, 2-3).5 L’episodio di Hamae serve, dunque, a risarcire una ferita storica: la vittoria sui Campani, che duecento anni prima hanno tradito ed espulso i legittimi abitanti, violando le regole ospitali, nasce dalla capacità dei comandanti romani di amalgamare soldati di origine e condizione sociale diversa, instillando la disciplina e la concordia inter ordines: tra liberi e schiavi, veteres milites e tirones. Da questa chiave di lettura deriva che la storia campana è interpretata secondo un paradigma ciclico che omologa la conquista dei Campani alla tirannide: entrambe scandiscono le tappe di una progressiva anomia che affligge la regione e per più generazioni destruttura l’ordine politico e le regole civili, infine ripristinati dall’intervento di Roma. Per debellare Aristodemo e i barbaroi non si può ricorrere ad un confronto in campo aperto, ma si devono applicare le armi dell’insidia e del tradimento da essi utilizzate per ottenere il potere: occorre tramutare la guerra in un agguato e in una caccia all’uomo e magari profanare una cerimonia sacra proprio come avrebbe fatto un tiranno.6 2. La connessione tra Campani e tirannide diviene più trasparente in rapporto al fenomeno del mercenariato, da Dionigi i ai Mamertini, e all’episodio, per tanti versi correlato, della legio campana a Reggio:7 la contiguità si fonda non solo su una concreta convergenza di interessi ma su una affinità più profonda, sulla condivisione di una dimensione antropologica costruita in opposizione all’universo della polis in quanto sistema regolato di cittadinanza e cooperazione. In questa prospettiva può essere interessante riconoscere nella tradizione storica il funzionamento di un modello interpretativo che accomuna i mercenari campani al tiranno attraverso il ricorso ad una logica di connotazione che li omologa alla figura del lupo. Il punto di partenza è costituito dallo studio, ormai clas5 La contiguità istituita dalla storiografia tra i Campani e Aristodemo è valorizzata da B. d ’ Agostino, Cuma, in Museo Archeologico dei Campi Flegrei. Catalogo generale. Cuma, a cura di F. Zevi, F. Demma, E. Nuzzo, C. Rescigno, C. Valeri, Napoli, 2008, p. 79. 6 Ad es. Policrate di Samo, secondo la tradizione storica approfondita da Detienne, Svembro 1979, pp. 232-233. 7 Cfr., ad es., Tagliamonte 1994, pp. 199-201.

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sico, di M. Detienne e J. Svembro sull’immaginario del lupo in quanto specchio del lato oscuro dell’ethos umano.8 Se si confronta il comportamento dell’animale durante la caccia e nella vita di branco con l’immagine dei mercenari campani in rapporto alla guerra e all’attività politica, si possono ottenere risultati sorprendenti. 2. 1. Si può iniziare con la sfera della caccia. In quanto dotati di una metis naturale, i lupi cacciano sfruttando le doti del branco:9 si lanciano in muta come le schiere di guerrieri che nell’epos omerico si scontrano, corpo a corpo, in attacchi all’ultimo sangue:10 la loro azione collettiva è simile a quella di una falange, ma per la capacità di aggirare le difese e sorprendere la preda con agguati e diversioni, sono da Senofonte additati ad esempio per la tattica della cavalleria.11 I mercenari sanno battersi con coraggio,12 grazie ad una competenza di cui sono consapevoli13 e che è loro riconosciuta;14 possono affrontare i nemici in combattimenti senza quartiere dove è difficile distinguere i compagni dagli avversari,15 in scontri frontali a ranghi serrati,16 ma, come conviene a corpi di cavalieri,17 utilizzano soprattutto le armi della velocità e della sorpresa,18 sapendo sfruttare l’occasione opportuna.19 La forza dei lupi è costituita dalla capacità di cooperazione della banda che consente di superare difficoltà altrimenti insormontabili come, ad es., il guado di un fiume impetuoso;20 in un apologo di Esopo il cane greco eletto strategos per vincere la guerra contro i lupi, indugia ad attaccare i nemici, opponendo l’asymphonia causata dal particolarismo dei suoi alla compattezza del branco selvaggio unito da genos e chroia.21 S. Péré-Noguès ha ultimamente ribadito come la tradizione antica insista sulla coesione dei mercenari, cementata dalla solidarietà del comune servizio militare;22 tale spirito di corpo può concretarsi nella complicità di azioni delittuose,23 ma anche nella pratica politica di assumere decisioni collettive in assemblee militari, come nelle due ekklesiai notturne convocate dai Campani a Siracusa sotto l’urgenza 08 Detienne, Svembro 1979. 09 Emblematica a tale proposito la descrizione in Ael. nat. anim. viii, 14 delle modalità di caccia escogitate dai lupi per catturare un bovino caduto nella palude o un vitello recalcitrante. 10 Detienne, Svembro 1979, pp. 216-218. 11 Xen. Eq. Mag. iv, 18-20. Indicative sono anche le osservazioni di Ael. nat. anim. v, 19, a proposito della caccia del lupo al toro: anche se non teme di affrontarlo kata prosopon, preferisce vincerlo grazie all’astuzia innata (sophia physike), saltandogli in groppa con una finta. 12 Diod. Sic. xiii, 55, 7: epiphanes ti praxai; xvi, 12, 3: andragathia, arete; xvi, 18, 3: prothymia; Plut. Dio xxx, 5: thrasos kai thorybos. 13 Diod. Sic. xiii, 62, 5: atiotatoi ton euemerematon. 14 Diod. Sic. xiii, 80, 4: chreia … megala symballomene. 15 Cfr. ad es. Plut. Dio xli, 6; xlvi, 5. 16 Diod. Sic. xvi, 12, 2-5: il combattimento si svolge all’interno delle mura di Siracusa come in uno stadio e, al termine dell’agone vittorioso, i Siracusani erigono il trofeo. 17 Sul tema cfr., da ultimo, Tagliamonte 2006, cui si rimanda per l’ampia bibliografia. 18 Diod. Sic. xiii, 44, 4: aprodoketos e ephodos; xiii, 55, 8: tacheos eispiptein; xiv, 9, 3: aprodoketos epiphanein; xvi, 19, 1: paradoxos prospiptein; Plut. Dio xxx, 6: prosbole anelpistos; xxx, 11: te prote rhume ten polin katexein. 19 Polyb. i, 7, 2: labein kairon; i, 4: paranomias kairos; Plut. Dio xli, 5: to kairo chresamenos. È interessante notare come la capacità di cogliere il kairos caratterizzi anche il comportamento del lupo: Aesop. Fab. 229 (ed. Chambry, 20025 ). 20 Ael. nat. anim. iii, 6: la tecnica di attaccarsi alla coda del compagno è la stessa utilizzata per recuperare la carcassa del bue annegato nella palude, cit., supra, nota 9. 21 Aesop. Fab. 215, valorizzato da Detienne, Svembro 1979, pp. 218-219. 22 Péré-Noguès 2006, p. 487. Il motivo della “dimensione etnica e ‘na-

dell’assedio di Dione e in seguito all’arrivo di Nipsio.24 Secondo una non dissimile procedura Decio convoca a Reggio un synedrion segreto dei comandanti e delle truppe scelte per deliberare il tradimento contro la città.25 Il lupo è agrios26 e spinto da una fame insaziabile che Eliano paragona all’avidità di denaro da parte dei kakoi;27 lo stesso autore ricorda l’abitudine dei pescatori peri to Konopion di condividere parte del pescato con i lupi, per stipulare una sorta di armistizio (eirenaia kai ensponda).28 Il topos del lupo famelico è, comunque, più antico: l’immagine del branco sporco di sangue, dopo avere divorato la vittima, ricorre gia in Omero,29 mentre Esopo designa l’azione predatrice dell’animale con il verbo arpazein.30 I mercenari in combattimento esprimono una bie31 che li rende apegriomenoi:32 il loro statuto, marcato da abebaiotes,33 è evocato dall’immagine di guerrieri selvaggi che vanno all’assalto riempiti di vino puro.34 Il rischio di essere presi per fame a causa della mancanza di sitos è, d’altra parte, sempre incombente per i mercenari:35 le bande armate si muovono sotto le promesse di ricompensa36 e la garanzia del saccheggio consentito in una guerra di rapina:37 la loro avidità è omologata alla rapacità del lupo attraverso l’uso di termini come diarpazein e (di)arpage.38 Il lupo è l’animale dotato della vista più acuta, in grado di penetrare il buio più fitto:39 questo dono naturale costituisce un’arma efficace per la sua attività di predatore.40 La tradizione sulla conquista mamertina di Messina e su quella campana di Reggio evidenzia esplicitamente il ruolo della vista, in quanto collega il tradimento alla visione dell’eudaimonia delle due città: è proprio l’atto del vedere – reso con il verbo ophthalmiao per i Mamertini41 e con horao per Decio42 – che scatena lo phthonos e innesca il delitto. Che il senso della vista rappresenti un elemento chiave nei due episodi è confermato dal seguito della storia di Decio che si ammala agli occhi, definiti ta kyriotata tou zen nella più ampia versione di Dionigi di Alicarnasso.43 La malattia apre la strada alla punizione inflitta dal medico Dexicrate che, per vendicare la sua città, brucia gli occhi di Decio con un kaustikon pharmakon, facendo finta di curarlo: evidente zionale’ della presenza campana in Sicilia” è valorizzato anche da Moggi 2003, p. 980. 23 Come, ad es., nella relazione tra Campani e Mamertini (Diod. Sic. xxii, 2: synergein; Polyb. i, 7, 8: synergoi; Dion. Hal. xx, 4, 8: symmachia). 24 Diod. Sic. xvi, 18, 2-3. 25 Dion. Hal. xx, 4, 4. 26 Agrios per Arist. hist. anim. i, 1, 488 b e addirittura agriotatos per Ael. nat. anim. vi, 65. 27 Ael. nat. anim. vii, 20. 28 Ael. nat. anim. vi, 65. In iv, 15, lo stesso autore ricorda che il lupo, quando è sazio, cessa di essere pericoloso, ma poi “torna ad essere un lupo”. 29 Il. xvi, 156-63. 30 Aesop. Fab. 313, 315. 31 Per designare l’azione dei mercenari Diodoro ricorre al verbo (eis)biazesthai: xiii, 55, 8, e xiv, 9, 3; l’esercizio della bie suscita spavento (kataplessein: xiii, 55, 8; kataplexis: xvi, 12, 1) e paura (ta … phobera: Plut. Dio xlvi, 3). 32 Plut. Dio xlv, 3. 33 Diod. Sic. xiv, 9, 8. Nel caso dei Campani di Reggio, Diod. Sic. xxii, 3 usa il concetto di omotes. 34 Plut. Dio xxx, 5. 35 Diod. Sic. xiii, 88, 2; xvi, 18, 2; Plut. Dio l, 2. Sul tema del sitos, cfr. Tagliamonte 1994, pp. 160-161. 36 Designate attraverso il verbo epangellein (Diod. Sic. xiii, 55, 5; xiv, 8, 3; xiv, 61, 4 ) o il sostantivo epangeliai (Diod. Sic. xiv, 9, 2; xvi, 12, 2). 37 Eloquente è, ad es., l’ordine di Nipsio in Plut. Dio xli, 4. 38 Diod. Sic. xvi, 20, 3-4; Plut. Dio xliv, 5 (diarpazein); Diod. Sic. xiii, 55, 5 (diarpage); xvi, 20, 4 (harpagai). La connessione tra il lupo e la guerra di rapina è valorizzata da Detienne, Svembro, p. 221. 39 Ael. nat. anim. x, 26. 40 Emblematica, a tale proposito, è la figura di Dolone che “rivestito di una pelle di lupo, va a caccia, solitario, di notte”: Detienne, Svembro 1979, p. 230. Cfr. anche Aen. ii, 355-356: lupi … raptores in atra nebula). 41 Polyb. i, 7, 2. 42 Dion. Hal. xx, 4, 3. 43 Diod. Sic. xxii, 1-2 (ophthalmia); Dion. Hal. xx, 5, 2-3.

l ’ agguato di hamae è il contrappunto per il quale contro il comandante della legio campana si ritorcono le armi che lo hanno portato al potere: prima la vista, poi l’inganno.44 I lupi sgozzano (sphazein) le vittime grazie ai denti affilati come una machaira; animali-coltello, con la forza dell’istinto sanno tagliare la preda e ripartire (diairesthai) le parti.45 I mercenari sgozzano i maschi adulti delle città di cui si impadroniscono a tradimento;46 nel caso di Messina e Reggio, le fonti insistono sulla successiva diairesis dei kleroi, dei figli e delle donne dei cittadini assassinati.47 2. 2. I lupi e i mercenari condividono la vita feroce delle bande e sperimentano il confine ambiguo tra la guerra e la caccia, in un’esistenza di rapina dove, per sopravvivere, è necessaria la metis del predatore. La stessa affinità uomini e animali sperimentano nel campo delle relazioni politiche: nel confronto con gli altri gruppi, come pure nelle dinamiche interne, non possono sfuggire ad una logica di sopraffazione. Per quanto riguarda il lupo, di particolare interesse appare la tradizione di Esopo. Nella favola Lykoi kai kynes (pros autous katallagentes) si narra dell’espediente con cui i lupi ingannano i cani, facendosi ammettere nelle stalle: il trucco risiede nel rivendicare una condizione di homoioi e impegnarsi ad “andare d’accordo come fratelli” (homophronein hos adelphoi) al patto di mettere il gregge in comune. I cani abboccano e la conclusione è inevitabile: come misthos, essi sono messi a morte.48 La stessa trama del dolos ricorre in due apologhi dove gli ambasciatori dei lupi mirano a convincere le pecore a sbarazzarsi dei cani, offrendo in cambio la pace;49 in un terzo è un ingenuo pastore che scambia il lupo per un phylax e gli affida il gregge come a un cane da guardia.50 Le storie sono chiosate da una morale che omologa i nemici (echthroi, anche quando parlano di eirene e orkoi) agli avidi philargyroi: prestare fiducia agli uni o agli altri conduce ad una rovina certa. Il topos della violazione dei patti e dell’attacco a tradimento (paraspondema) marca in modo costante l’immagine dei mercenari campani nella tradizione antica: negli episodi strutturalmente correlati della conquista di Entella, Messina e Reggio assume un particolare rilievo il ricorso di parole chiave che rinviano al sistema semantico delineato per il lupo. Ad Entella i Campani “persuadono” (peithein) i cittadini ad accoglierli come synoikoi;51 a Messina i Mamertini si inseriscono come philoi e symmachoi in una città che li ospita philophronos;52 a Reggio Decio è inviato da Roma in quanto phylax53 e, all’inizio, è meritevole di pistis.54 Non meno significativo è il richiamo al vincolo dell’ho44 Tale logica è esplicitata da Dionigi di Alicarnasso che attribuisce la malattia di Decio all’intervento di una tou daimoniou pronoia. Anche il ricorso all’ustione per accecare Decio appare significativa se si ricorda che il lupo è connesso alla fiamma come una sorta di ‘porta-fuoco’ naturale (Detienne, Svembro, pp. 224-225) e che in Plut. Dio xliv, 8 i mercenari di Nipsio, in una parossistica battaglia notturna, appiccano le fiamme a Siracusa con torce e frecce incendiarie. 45 Detienne, Svembro 1979, p. 225. 46 Sphazein: Diod. Sic. xxii, 2; aposphazein: xiv, 9, 9; Polyb. i, 7, 3; sphagas: Cass. Dio ix, fr. 40, 8. Anche i Campani di Decio uccidono i Reggini sgozzandoli: Polyb. i, 7, 8 (aposphazein); Diod. Sic. xxii, 2; Dion. Hal. xx, 4, 6 (katasphazein). 47 Sui Mamertini: Polyb. i, 7, 5 (bious kai … choran … dielomenoi); su Decio e la legio campana: Diod. Sic. xxii, 2-3; Dion. Hal. xx, 4, 4 e 7. 48 Aesop. Fab. 216. 49 Aesop. Fab. 217-218.

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mophylia avanzato dai Mamertini nei confronti di Roma al momento della deditio del 264 a.C.55 Sia per i lupi che per i mercenari la tendenza all’avidità e al tradimento costituisce un carattere connaturato che avvelena i rapporti anche all’interno della banda: l’istinto incontrollabile alla prevaricazione scopre le affinità con il tiranno. M. Detienne e J. Svembro hanno esplorato la contraddizione del lupo, in grado di diventare mageiros ma non nomoteta, di spartire la preda ma non di perseguire l’isomoiria indispensabile al politikos aner: l’animale non può superare la soglia ferina perché, al momento della ripartizione che fonda la comunità politica, è vittima della pleonexia, del desiderio di volere di più della sua parte.56 Al lupo si omologa il tiranno che disprezza le regole della divisione egalitaria e divora i beni della comunità come un cannibale portato a “cibarsi di carne umana e bere il sangue dei suoi simili”: solitario e vorace come un animale feroce, egli si colloca al di fuori del consorzio umano.57 Una relazione tra il lupo e Dionigi ii è indirettamente istituita nell’episodio, riportato da Plutarco, del furto da parte dell’animale della borsa contenente il messaggio di Timocrate al tiranno: il furto è suscitato dall’odore della carne che, porzione (moira) di un sacrificio, è incautamente riposta insieme al dispaccio.58 In maniera più esplicita la tradizione definisce Decio un tiranno,59 marchiandolo con caratteri inequivocabili: il chiliarchos è affetto da pleonexia, si macchia di asebeia contro i Reggini e tradisce i compagni, suoi complici, proprio nella spartizione del bottino (ten diairesin adikon poiesamenos). Ancora una volta la fine scontata è l’espulsione dal corpo civico e la via dell’esilio.60 2. 3. La parabola di Decio conclude con efficacia paradigmatica il sistema: da misthophoroi per tiranni e barbaroi come i Cartaginesi, i Campani divengono essi stessi tiranni, svelando la loro vera natura celata sotto il travestimento di una guarnigione di soccorso. Se il filo della dimostrazione è accettabile, il significato dell’operazione di propaganda attuata dalla storiografia è lampante: attraverso la connessione con il lupo, la fiera più pericolosa perché dotata dell’istinto di branco più simile a quello dell’uomo, si intende respingere ai margini del mondo civile il sistema dei mercenari, discriminandolo, per ragioni di manifesta inferiorità etnica e antropologica, proprio nell’aspirazione a condividere lo statuto di cittadinanza.61 L’obiettivo dei misthophoroi di essere integrati nella polis è destinato a fallire perché contro natura, proprio come il sogno dei lupi di fondare una “città impossibile”. 3. Il ricorso all’immaginario del lupo come categoria semantica per connotare la sauvagerie dei mercenari può esse50 Aesop. Fab. 229. 51 Diod. Sic. xiv, 9, 9. 52 Diod. Sic. xxi, 2-3; xxii, 3. Polyb. i, 7, 3. La phylophrosyne degli ospiti è ricordata da Dion. Hal. xx, 4, 3. 53 Diod. Sic. xxii, 2. Phylakes sono anche i Campani al servizio dei Cartaginesi in Diod. Sic. xiv, 8, 5. 54 Polyb. i, 7, 7. 55 Polyb. i, 10, 2. 56 Detienne, Svembro 1979, pp. 229-230 e p. 230, note 1 e 3. 57 Detienne, Svembro 1979, pp. 228-229. 58 Plut. Dio xxvi, 7-10. 59 Dion. Hal. xx, 4, 8. 60 Diod. Sic. xxii, 2-3. 61 Moggi 2003, p. 980, che opportunamente ricorda come alla base del fenomeno mamertino esista il rifiuto da parte dei Siracusani di riconoscere ai mercenari il diritto di voto (Diod. Sic. xxi, 18, 1). Sul valore cruciale del tema dello statuto di cittadinanza, cfr. anche Colonna 2005, p. 176, Tagliamonte 1994, p. 191.

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re investigato anche in rapporto ad un filone di tradizioni in cui l’animale (o il suo nome) si connette all’origine delle popolazioni italiche: dagli Hirpi Sorani agli Irpini, dai Dauni ai Lucani.62 La critica storica ha sottolineato come questa relazione possa sottendere un modello rituale proprio del mondo italico, in cui l’animale totemico è posto a fondamento del mito delle origini: la connessione con il lupo non si carica solo del segno negativo della discriminazione, ma si associa al processo di autocoscienza etnica. Appare significativa la tradizione sui Lucani attribuita ad Eraclide Lembo (Excerpta politiarum, p. 28 Dilts = Arist. fr. 611, 48 Rose) dove il rapporto con l’animale, istituito attraverso il piede da lupo del basileus Lamisco, è inserito nel quadro di un giudizio positivo sull’ethnos: i Lucani sono philoxenoi kai dikaioi con una inversione rispetto alla proverbiale caratterizzazione negativa della bestia. Ci si può allora domandare se una simile dialettica non possa celarsi dietro alla connotazione dei mercenari campani come lupi: se la prospettiva negativa adottata dalle fonti non possa caratterizzarsi anche come il rovesciamento di un modello di autorappresentazione radicato nel patrimonio culturale dei misthophoroi in rapporto al tema della conquista dell’identità politica. Tale ipotesi incontra una difficoltà che è necessario esplicitare per chiarezza di metodo: che all’ethnos dei Campani in quanto tale non è riconducibile una tradizione delle origini connessa alla figura del lupo. Si può, tuttavia, ricordare come la critica storica abbia sottolineato che l’etnico “campano” con cui sono designati i mercenari in Sicilia sia utilizzato dalle fonti in un’accezione ampia, estesa a rappresentare complessivamente i misthophoroi italici di iv sec. a.C.:63 la percezione delle poleis siceliote riflette un’ottica unificante che omologa il nemico e non ricerca distinzioni tra le specifiche tradizioni etnogenetiche. Del resto, già G. Colonna ha richiamato le origini composite dei mercenari campani, attribuendo una funzione di bacino di approvvigionamento al distretto della Campania meridionale popolato dai Tyrrhenoi di Ps.-Scilace.64 Se si accetta questo punto di vista, è possibile valorizzare la tradizione sui Mamertini.65 La conquista di Messina da parte dei campani è rappresentata sotto la forma di ver sacrum: se il rituale nella versione di Alfio è dedicato ad Apollo,66 esso è ugualmente riconducibile al modello italico della consacrazione militare a Marte mediante la connessione tra l’etnico e il nome del dio.67 È importante sottolineare come Marte ed Apollo vantino un rapporto privilegiato con il lupo: nella tradizione latina l’animale è Martius (Aen. ix, 566; Liv. x, 27, 9; Sil. vii, 717-

718) o posto in tutela Martis (Hor. ep. ii, 2, 28)68; nella tradizione greca è connesso con l’Apollo delfico ed, in particolare, con l’aspetto ‘nero’ del suo culto legato al sacrificio umano.69 La relazione tra il lupo ed Apollo consente di mettere a fuoco la pertinenza significativa della tradizione filomamertina di Alfio: come riferisce anche Zonara (viii, 8), la presa di Messina si configura nei termini di una apoikia promossa da un gruppo militare che si richiama all’animale sacro al dio di Delfi.70 Come nel caso dei Lucani in Eraclide Lembo, i Mamertini si contraddistinguono in Alfio per la giustizia e il rispetto delle relazioni ospitali: dopo essere intervenuti in aiuto dei cittadini di Messina, da loro sono integrati nella costruzione di un unico corpo civico che condivide il nome e le terre.71 Il concetto chiave è quello del meritum militare: un concetto che rimanda all’ideologia della charis bellica che informa anche l’immaginario dei Pitanati72 e da ultimo rinvia al modello eroico dell’ethos dei guerrieri che nell’Iliade combattono feroci e compatti come lupi.

62 Cfr., ad es., la sintesi di A. Carandini, La nascita di Roma. Dei, Lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino, 1997, pp. 186-187 nota 21; sul piano iconografico cfr. S. Bruni, Nugae de Etruscorum fabulis, «Ostraka», xi, 1, 2002, pp. 7-28 (Hirpi Sorani); W. Johannowsky, L’Irpinia, in Studi sull’Italia dei Sanniti, Milano, 2000, p. 27 (Irpini); L. Cappelletti, Le monete “lupine” dei Lucani, «Tyche», 20, 2005, pp. 11-21 (Lucani). 63 Cfr., ad es., Pére-Nogués 2006, p. 484. 64 Colonna 2005, pp. 177-178; Tagliamonte 1994, p. 159. 65 Tagliamonte 1994, pp. 191-198. 66 Fest., p. 150 L., s.v. Mamertini. Una nuova edizione del passo è stata presentata da A. La Regina, Ver Sacrum, in Valerio Cianfarani e le culture medioadriatiche, Atti convegno internazionale (Chieti, 2008), in corso di stampa: ringrazio l’amico Gianluca Tagliamonte che mi ha fatto conoscere il testo. 67 Tagliamonte 1994, pp. 62-66. 68 A. Mastrocinque, Romolo (la fondazione tra storia e leggenda), Este, 1993, p. 173, nota 703. 69 Cfr., ad es., la recente messa a punto di A. Mastrocinque, Influenze

delfiche su Soranus Apollo, dio dei Falisci, in Stranieri e non cittadini nei santuari greci, Atti convegno internazionale (Udine, 2003), a cura di A. Naso, Firenze, 2006, pp. 85-97. 70 Il concetto di ‘colonizzazione’ è richiamato da Tagliamonte 2006, p. 466. Sulla prospettiva del culto di Apollo, cfr. anche il modello di lettura applicato nel caso di Halaesa da A. M. Prestianni Giallombardo, Divinità e culti in Halaesa Archonidea tra identità etnica e interazione culturale, in Atti delle quarte giornate internazionali di studi sull’area elima (Erice, 1-4 dicembre 2000), Pisa, 2003, pp. 1080-1081. 71 L’esistenza di tradizioni discriminanti contro l’elemento campano è stata valorizzata anche a proposito della conquista romana di Crotone nel 277 a.C.: A. Mele, Crotone greca negli ultimi due secoli della sua storia, in Crotone e la sua storia tra iv e iii sec. a.C., Atti Seminario Internazionale (Napoli, 1987), Napoli, 1993, pp. 282-285. 72 Il motivo della charis in rapporto all’impresa militare è esplicitamente richiamato dai Campani in polemica con i Cartaginesi dopo la distruzione di Selinunte: Diod. Sic. xiii, 62, 5. Sui Pitanati cfr., da ultimo, L. Cerchiai, Pitanatai Peripoloi, «aion ArchStAnt», n.s., 9-10, 2002-03, pp. 159-161.

Abbreviazioni bibliografiche Colonna 2005 = G. Colonna, La Sicilia e il Tirreno nel v e iv sec. a.C., in Italia ante romanum imperum. Studi di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), i, Pisa-Roma, 2005, pp. 161-180 (ediz. orig. in: Atti del v congresso internazionale di studi sulla Sicilia antica [Palermo, 1980], «Kokalos», xxvi-xxvii, 1980-1981, pp. 157-183). Detienne, Svembro 1979 = M. Detienne, J. Svembro, Les loups au festin ou la Cité impossible, in La cuisine du sacrifice en pays grec, a cura di M. Detienne e J.-P. Vernant, Paris, 1979, pp. 215-237. Guerra e pace 2006 = Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (viii-iii sec. a.C.): arte, prassi e teoria nella pace e della guerra, Atti delle quinte giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale (Erice, 12-15 ottobre 2003), Pisa, 2006. Moggi 2003 = M. Moggi, I Campani: da mercenari a cittadini, in Atti delle quarte Giornate Internazionali di Studi sull’area elima (Erice, 1-4 dicembre 2000), Pisa, 2003, pp. 973-986. Péré-Noguès 2006 = S. Péré-Noguès, Mercenaires et mercenariat en Sicilie: l’exemple campanienne et ses enseignements, in Guerra e pace 2006, pp. 483-490. Tagliamonte 1994 = G. Tagliamonte, I figli di Marte. Mobilità, mercenari e mercenariato italici in Magna Grecia e in Sicilia, Roma, 1994. Tagliamonte 1999 = G. Tagliamonte, Rapporti tra società di immigrazione e mercenari italici nella Sicilia greca del iv sec. a.C., in Confini e frontiera nella Grecità di Occidente, Atti del xxxvii Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, 1997), Taranto, 1999, pp. 547-572. Tagliamonte 2006 = G. Tagliamonte, Tra Campania e Sicilia: cavalieri e cavalli campani, in Guerra e pace 2006, pp. 463-481.

L A TOM BA 722 DI CAP UA LO C . LE F O RNACI E L E PR EM ES S E DEL L’ ORI E NTALI Z Z ANT E I N CAMPANI A* Bruno d ’ Agostino ricerca nasce, per me, dopo un lungo periodo deQ uesta dicato alle riflessioni e alle sintesi, dal bisogno di tor -

nare a far parlare i dati. È questa una tra le cose importanti che, con il suo esempio, G. Colonna ci ha insegnato. È quindi ‘naturale’ dedicargliela, come piccolo segno di un’amicizia durata ormai cinquant’anni. Come è noto, la documentazione di cui si dispone per le necropoli di Capua è largamente carente e diseguale. Per quel che concerne la fase avanzata della prima Età del Ferro (Fase ii dello Johannowsky1), sono abbastanza numerosi i corredi che ne documentano lo sviluppo, caratterizzati fra l’altro dalla evoluzione dell’ansa a lira nelle tazze d’impasto, e dalla presenza di coppe greche o di tipo greco del mg ii e del lg i. Il momento finale, denominato ii c, corrispondente al terzo quarto dell’viii sec., è ben rappresentato; valga ad esempio una tomba che – come si vedrà – presenta sostanziali analogie con quella che qui viene esaminata: si tratta della tomba 200,2 di cui si può stabilire una precisa cronologia relativa per la presenza delle fibule con arco in filo di bronzo, rivestito, e staffa lunga,3 che comprendeva nel suo corredo, oltre a «vaghi di pasta vitrea policroma di

provenienza orientale» anche una «coppa di bronzo di tipo cipriota». Assai più scarna è la documentazione relativa al periodo Orientalizzante, antico e medio, e soprattutto non appare documentato il fenomeno delle ‘tombe principesche’, che nasce e si esaurisce tra a fine dell’viii e la metà del vii sec. a.C.4 La situazione appare tanto più sconcertante, perchè non mancano, nelle tombe della fase ii c, segni precoci di quel processo di acquisizione di oggetti di lusso orientali, e di raffinati elementi di parure, che dimostrano l’avvenuta adozione delle tecniche proprie delle oreficerie orientalizzanti, come la filigrana. Il contesto che sembra documentare al meglio il momento formativo della cultura delle ‘tombe principesche’ è certamente quello della tomba 722, rinvenuta nell’aprile del 1967 nella necropoli in loc. Fornaci (Fig. 1):5 debbo all’amicizia e alla liberalità del rinvenitore, W. Johannowsky, e di V. Sampaolo, responsabile del Museo e del territorio dell’antica Capua, il permesso di studiare e pubblicare questo contesto, esposto al pubblico nelle vetrine del Museo di S. Maria Capua Vetere.

Legenda 1. Fondo Tirone. 2. Quattro Santi. 3. Alveo Marotta. 4. Curti. Fondo Patturelli. 5. Madonna delle Grazie; 6. Cappella dei Lupi; Quattordici Ponti. 7. Arcofelice. 8. Fornaci.

Fig. 1. Capua: ubicazione delle necropoli.

* Esprimo la mia gratitudine alla dr.Valeria Sampaolo per l’aiuto prestatomi durante lo studio del corredo della T.722, e per avermi fornito le foto e le piante. Ringrazio inoltre il personale del Museo archeologico dell’antica Capua, per la sua cortesia e la sua disponibilità. Il trattamento delle immagini per la stampa è opera del sig. R. Bocchino, del cisa (Università di Napoli «L’Orientale»). I disegni della Fig. 4 sono opera della dr. Valeria Valerio. 1 Cfr. Johannowsky 1967; Johannowsky 1969; Capua 1983, p. 46 sgg.

2 Presentata da M. R. Borriello, in Trasparenze 2007, p. 202 sg. Ringrazio la dr. Borriello per avermi messo a disposizione le fotografie della coppa. 3 Gastaldi 1979, p. 38, e5. 4 Questo stato di fatto è confermato da G. Melandri, che ha in corso di pubblicazione un gruppo di tombe dell’Orientalizzante antico e medio, e che ha potuto prendere visione dell’evidenza finora disponibile. Con grande liberalità l’A. mi ha permesso di leggere il suo lavoro. Sulle tombe principesche, cfr. d ’ Agostino 1998 e, da ultimo, Cuozzo 2008, p. 233 sgg. 5 Propr. Melone, settore k.

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Fig. 2. Capua, loc. Fornaci. Stralcio della pianta generale redatta durante lo scavo (scala 1:50).

Si tratta di un contesto problematico. Come si ricava dalla pianta (Figg. 2-3),6 la tomba consisteva di una grande fossa, misurante all’incirca m 2 × 4,70, orientata NE-SW; essa era munita di una controfossa7 marcata da una traccia lignea larga cm 20/15. Nell’articolo del 1969 la tomba viene definita ad ustrinum8; tale definizione viene illustrata nell’unica descrizione che se ne possiede,9 nella quale Johannowsky spiega che «la controfossa è stata evidentemente usata per poggiarvi il feretro, mentre nella fossa vera e propria era stato sistemato il rogo». Nel disegno redatto al momento dello scavo, a ridosso del lato NW della grande fossa, è indicato il «taglio di 1 ustrinum». Inoltre sul retro, a proposito della T.722, si dice «parzialmente caduta nel taglio dell’ustrinum». Tuttavia, a giudicare dalla pianta, l’ustrinum sembra tagliato dalla fossa della tomba, il cui piano di deposizione dovrebbe trovarsi più in basso dell’ustrinum medesimo. Inoltre non si comprende come la fossa potesse contenere il rogo, per la posizione dei reperti al suo interno: colpisce subito, infatti, la presenza di due parti di un «grossissimo ziro», che circoscrivono la metà NE della tomba, quella nella quale si concentrava la maggior parte degli oggetti di corredo di cui è segnalata la posizione in pianta. Questa presenza non sembra funzionale all’allestimento di un rogo collocato all’interno della fossa, ed inoltre gli oggetti di corredo non presentano chiare tracce di contatto con il fuoco. Infine non è trascurabile il fatto che le tombe a cremazione primaria10 non ap-

paiono in Campania prima del periodo arcaico, e Capua non fa eccezione alla regola.11 La situazione non viene chiarita dall’esame delle ossa conservate insieme al materiale dalla sepoltura: risulta infatti che esse furono sottoposte ad una combustione sommaria quando erano già prive dei tessuti molli. Poichè in museo esse giunsero insieme ad un assortimento eterogeneo di ossa di animale, non sappiamo se questo accostamento rispecchi una promiscua giacitura all’interno della tomba, o non si sia determinato occasionalmente, dopo la loro rimozione.12 Questo interrogativo impedisce di stabilire se si tratti di materiale rimescolato, e quindi scarsamente significativo per lo studio del rituale funerario adottato per questa sepoltura.13 Tanta cautela è determinata dal fatto che – a quanto pare – esiste almeno un altro caso di analogo trattamento del corpo, in una tomba databile intorno alla metà dell’viii sec. rinvenuta di recente a Caudium.14 A quanto è dato di capire, qui le ossa erano deposte sul piano di campagna dell’epoca e ricoperte da un tumulo di ciottoli. Anche in questo caso solo alcuni resti scheletrici risultavano combusti, e inoltre sembra che le ossa combuste fossero state esposte al fuoco già prive di tessuti molli.15 Questi due casi sembrano dunque attestare un trattamento del corpo molto elaborato, giustificato in entrambi i casi dalla condizione particolarmente ‘eminente’ della defunta. L’estremità SW della fossa risultava ricoperta da alcune sepolture più recenti che, a quanto pare, non raggiungeva-

06 Si è preferito riprodurre qui la documentazione redatta al momento dello scavo, a cura di W. Johannowsky: essa risulta infatti assai più attendibile e informativa di un eventuale versione ripulita a distanza di quarant’anni dallo scavo. Le annotazioni alle quali si fa riferimento, quando non sono sulle piante, sono riportate a tergo delle medesime. Lo scavo era articolato in quadrati di m.3 di lato, corredati di piante in scala 1:20; la pianta della T. 722 è stata costruita da chi scrive, con l’assistenza della dr. V. Sampaolo, assemblando le piante dei quadrati 171, 172, 182, 183, ed avendo come riferimento la pianta generale in scala 1:50. La costruzione al computer è opera del sig. R. Bocchino. 07 Per il piano di deposizione è indicata una profondità di m 2,65 dal p.d.c.; per la controfossa una profondità di m 2,25, ma allo stesso tempo è indicato che essa si trovava cm 50 al disopra del piano di deposizione. 08 Johannowsky 1969, p. 35, figg. 6, 8 c. 09 Capua 1983, p. 15 sg., nota 56. 10 Che dovrebbero essere denominate busta piuttosto che ustrina.

11 Capua 1983, p. 15 sg., nota 56. 12 È anche possibile che esse siano da identificare con quelle «ossa tomba sconvolta» di cui è annotata la presenza a ridosso del «taglio di 1 ustrinum». 13 V. infra la relazione in Appendice, nella quale si espongono i risultati degli esami condotti presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “L.Pigorini”. 14 Montesarchio T. 2920, la cronologia è determinata dalla presenza di una fibula a quattro spirali, associata – a quanto pare – a una fibula ad arco serpeggiante con disco intagliato. Cfr. M. Fariello Sarno, G. Di Maio, Dinamiche di occupazione antropica nel Sannio Caudino, in Samnitice loqui, a cura di D. Caiazza, Piedimonte Matese, 2006, ii, pp. 11-52 (p. 21 sg.); M. Fariello (a cura di), Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino, Avellino 2007, p. 19 sgg. 15 Questa interpretazione, anche qui, è suggerita dall’assenza di fratture trasversali concoidi. I dati antropologici sono desunti da una relazione inedita di Alessia Nava.

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania

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Fig. 3. T. 722: assemblaggio delle piante dei quadrati 171, 172, 182, 183, redatte durante lo scavo.

no il piano di deposizione della tomba.16 Non è possibile stabilire se invece abbia avuto conseguenze più importanti il taglio di una buca, per la quale non si possiede alcuna ulteriore indicazione. Sembra utile cercare di comprendere quale fosse la disposizione degli oggetti di corredo all’interno della fossa.17 Delle due parti di ziro18 già menzionate, una (nr. 13) era quasi addossata alla testata NE della tomba; l’altra (nr. 3), di cui viene sottolineata la giacitura in situ, si trovava all’incirca alla metà della fossa. Verso l’estremità nord-orientale dei due lati lunghi erano deposti due grandi contenitori d’impasto: su un lato l’olla con costolature elicoidali (nr. 11, Fig. 15), sormontata da una tazza (nr. 12) ed accompagnata da un’anforetta (nr. 4); sul lato opposto, l’olla biconica (nr. 15, Fig. 14), accanto alla quale si trovavano un “vaso protocorinzio” (nr. 7) ed una “olletta grande” (nr. 14), di cui si precisa che era all’interno dello ziro (nr. 13). Tra i due grandi contenitori trovava posto uno scodellone (nr. 10). Un altro gruppo di vasi si trovava ai due lati del grande frammento di ziro situato a metà della tomba (nr. 3): a NW un «piede di alto vaso» (nr. 5) ed un «amphoriskos» (nr. 6), a SE una grossa anfora (nr. 2) e una coppa baccellata (nr. 1, Fig. 16.10); al centro, accanto allo ziro (nr. 3), vari frammenti d’impasto e un vaso geometrico. Nella metà SW della fossa sono ricordati solo pochi oggetti: un coltello (nr. 16, Fig. 4.1), del legno bruciato a una quota di -1,50. Come si è già accennato, questa parte era stata disturbata dalla sovrapposizione di alcune tombe. Solo con la loro asportazione venne riessa in luce l’estremità SW, «con

un taglio assai ben definito di fossa e controfossa»; lungo quest’ultima si ricorda una «traccia lignea larga cm 20/15». In questa circostanza si rinvenne la coppa d’argento (nr. 18 Fig. 11), che doveva essere stata spostata dal suo luogo di deposizione, così come un «Anubis di faïence» (Fig. 9.2), ed alcuni oggetti di pasta vitrea. Queste indicazioni dànno un’idea della disposizione dei vasi e della generale congruenza del corredo conservato in museo con quello indicato negli appunti di scavo. Poichè due sono i vasi di tipo greco menzionati, risulta confermata l’attribuzione al corredo dei due vasi di tipo corinzio del lg i (Figg. 17-18). Non si possiede invece alcuna informazione circa la giacitura della straordinaria parure rivenuta nella tomba: presso il frammento di ziro (nr. 3) viene ricordato un frammento di bronzo, presso l’anforetta (nr. 4) la presenza di bronzi vari e, presso il piede (nr. 5), la presenza di una o più armille.19 Non è possibile fornire in questa sede un catalogo completo del corredo di questa sepoltura. Ci si limiterà pertanto a ricordarne le pricipali componenti, con un inquadramento di massima, per poi soffermarsi sugli aspetti salienti riguardo alle premesse dell’Orientalizzante a Capua.

16 Si tratta delle tombe 719, 720 e 730. 17 I numeri sono quelli indicati nella pianta, e sono identificabili con gli oggetti di corredo solo quando le forme sono presenti in un unico esemplare. 18 Non è dato sapere se le due parti fossero pertinenti ad un medesimo vaso.

19 Nè il piede nè l’armilla (o le armille) sono oggi conservati tra gli oggetti del corredo. 20 Si tratta di 5 rocchetti interi e 4 frammenti (inv. 221765, 221770-221772, 221784, 221792-221795) e di 5 fusaiole (inv. 221778-221783).

Che si tratti di una tomba femminile apppare evidente in primo luogo dagli indicatori di genere, i rocchetti e le fusaiole (Fig. 5).20 particolarmente abbondanti come capita in genere in un momento avanzato della fase ii. A questi oggetti, che sono in primo luogo indicatori di

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Fig. 4. Parte degli oggetti di ornamento: 1-2. ferro, 3 e 14. bronzo, 4-8. argento, 9. pasta vitrea e argento, 6b, 10-12. ambra, 13. faïence, da sin.: a.verde scuro, b. nero, c. verde scuro, d. nero, e. verde scuro, f. verde chiaro, g. nero, h. verde chiaro, i. verde scuro, l. nero, m. verde scuro, n. nero, o. verde scuro, p. verde scuro, q. verde chiaro (scala 1:1; tranne i nn. 6 a-b in scala 2:1). (dis. Valeria Valerio).

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania

Fig. 5. Fusaiole e rocchetti d’impasto.

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Fig. 7. Pendagli d’argento in filigrana (da Catalogo Museo Antica Capua).

Fig. 6. Oggetti di ornamento in bronzo.

funzione, va accostata una conocchia, della quale si conservano due elementi, della lungh.max. di cm 6 ed 8, composti da un’anima probabilmente di ferro, ricoperta da un fusto cilindrico in pasta vitrea (Figg. 4.9 e 10), con superficie solcata da scanalatura tortile; al fusto si sovrappongono fascette distanziate in argento. Nell’elemento più completo, il diametro è costante (cm 1,2) e le due fascette situate alle estremità chiudono verso l’anima interna; nell’altro elemento il diametro decresce sensibilmente verso una estremità. L’attribuzione dei due frammenti a una conocchia è suggerita dal confronto con esemplari dell’Orientalizzante

Recente da Cerveteri, Cales e Campovalano;21 più vicino al nostro per cronologia, ma di tipo diverso, è l’esemplare dalla T. 2 della Banditella di Marsiliana d’Albegna,22 la più eminente sepoltura femminile della necropoli, datata al primo quarto del vii sec. a.C., con un ricchissimo corredo che comprendeva tra l’altro un’urna d’argento simile a quella della tomba capuana. Anche nell’Orientalizzante Recente questo tipo di conocchia rimane appannaggio di sepolture eccezionali. Oltre alla tomba 445 della necropoli di Banditaccia-Laghetto, dalla quale prende le mosse il fondamentale articolo di M.

21 Martelli 1994, p. 77 sgg.; Bartoloni 2000, con catalogo degli esemplari in ferro e pasta vitrea e di quelli in bronzo e ambra, dove manca peraltro l’esemplare ceretano; Bartoloni 2007. 22 Cfr. Bartoloni 2007, p. 19, Fig. 2. La tomba di Marsiliana è stata ri-

pubblicata da G.C. Cianferoni, in Etrusker in Toscana. Etruskischer Gräber der Frühzeit, Ausstellungs Katalog, (Hamburg, 1987), Hamburg, 1987, p. 97 sgg. e p. 21 (con immagine a colori). La conocchia nr. 20 era stata interpretata in precedenza come scettro.

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Fig. 8. 1. Vaghi di pasta vitrea bianca e azzurra; 2. vaghi di pasta vitrea blu scuro; 3. vago d’ambra con decorazione “a melone” (che completa il pendaglio fig. 7); 4-6. vaghi d’ambra.

Martelli23 sui vetri di età Orientalizzante, si tratta della tomba 119 di Campovalano24 e della T. 89 della necropoli di Cales,25 accomunate da un corredo fastoso e da un particolare insolito: la presenza di una coppia di sandali bordati di fasce di bronzo; gli esemplari da Campovalano sono impreziositi da una decorazione a sbalzo con figure umane e di animali fantastici, forse di produzione etrusco-meridionale. Vale la pena di soffermarsi sulla tomba di Cales poichè in questo caso la fastosità del corredo è resa più appariscente dalla età della defunta, di appena 8 anni. Insieme alla conocchia26, esso comprendeva tra l’altro tre fibule d’argento decorate con granulazione, una taenia d’argento con decorazione figurata a sbalzo, e alcuni elementi chiaramente importati dal Vicino Oriente: 5 scarabei egiziani, perle di pasta vitrea blu ad occhioni e una perla in cristallo di rocca. Forse va messo in relazione con il ciclo della filatura e tessitura anche un piccolo coltello in ferro (Fig. 4.1),27 menzionato nelle note di scavo, e per questo riconoscibile in un

frammento di impugnatura, che reca traccia del rivestimento in materia fibrosa, fissato con un chiodetto. Sono inoltre tipicamente femminili le fibule, tutte del tipo con staffa lunga ed arco rivestito di osso ed ambra. Una eccezione potrebbe essere costituita da un frammento di arco, forse appartenente ad una fibula in ferro ad arco serpeggiante di grandi dimensioni (Fig. 4.2).28 E tuttavia l’interpretazione del frammento è incerta. Ad una fibula da parata, come quelle dalla T. 365 o dalla T. 502,29 o ad un presentatoio in lamina di bronzo simile a quello dalla T. 465,30 potevano appartenere le 6 figurine di anatrelle con anellini infilati nel becco (Fig. 6.2).31 La parure in bronzo doveva essere particolarmente sontuosa: la defunta indossava infatti una veste, o una stola, ricoperta di cuppelle a calotta con appiccagnolo (Fig. 6.1)32. Si conservano inoltre saltaleoni conici e fusiformi (Fig. 6.3), pendaglietti desinenti con spirali contrapposte, sospesi a saltaleoni tubolari (Fig. 4.3, 6.4).33 Due coppie di anelli ad

23 Martelli 1994. È difficile approfondire il discorso sul contesto di questa conocchia, poichè essa è stata rinvenuta in una «tomba a due camere, con numero di deposizioni non rilevato al momento dello scavo». 24 Cfr. Martelli 1994, p. 77, con descrizione del corredo, solo parzialmente edito. 25 Datata tra le fine del vii e la prima metà del vi sec. a.C.: cfr. C. Passaro, G. Ciaccia, Cales: La necropoli dall’Orientalizzante Recente all’età ellenistica, in Studi sull’Italia dei Sanniti, Roma, 2000, pp. 20-25: T. 89: facevano parte del corredo, tra l’altro, un’ anfora da trasporto etrusca Py3A, un calice chiota e diversi vasi di bucchero. 26 Anche questa, come quella di Marsiliana, è stata interpretata come uno scettro. L’interpretazione corretta è in Bartoloni 2007. 27 Pacciarelli 2007, p. 110. 28 Delle fibule di bronzo nessun esemplare è ricostruibile. La fibula in ferro sembra del tipo 32e3 di Pontecagnano: d ’ Agostino, Gastaldi 1988, p. 61, Fig. n (p. 106), nr. 63. 29 Gli Etruschi 2000, p. 160 sg., figura a p. 161 (T. 365); Capua 1983, p. 515 tav. xix (T. 502).

30 Capua 1983, T.465, p. 140 sg., tav. xxxviii. Sul tipo, cfr. A. Naso, Un carrello cultuale bronzeo da Veio, in Gli Etruschi da Genova a Ampurias, Atti xxiv Convegno di Studi Etruschi e Italici (Marseillle-Lattes, 2002), Pisa-Roma, 2006, pp. 357-370: tipo i b; per Capua, cfr. p. 363, nota 5. 31 Potevano appartenere ad esso i frammenti in lamina con decorazione a borchiette e puntini inv. 221835. 32 Qualcosa di simile doveva trovarsi nella T.573: Capua 1983 tav. xxvii, 9-14. A Pontecagnano, vestiti simili venivano adottati da ‘principesse’, come quelle sepolte nelle tombe 45 e 2465: cfr. Cuozzo 2003, p. 111 nota 41. La disposizione, con le cuppelle raccolte in motivi triangolari con andamento alterno, è stata suggerita solo da esigenze di presentazione museale. 33 Questo genere di pendaglietti è largamente diffuso alla estremità di catenelle o di pendagli nella cultura delle tombe a fossa e in area «circumadriatica», cfr. p.es. C. Iaia, Identità e comunicazione nell’abbigliamento femminile dell’area circumadriatica fra ix e vii secolo a.C., in Verucchio 2007, pp. 25-36, figg. 1 e 5. A Capua, 6 esemplari identici nella T. 865: Capua 1983, p. 150, nr. 27, tav. xliv: sepoltura maschile.

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania

Fig. 9. 1. Vaghi fusiformi di faïence; 2. base di figurina di faïence.

astragali (diam. cm 3,00), divisi da un anello più sottile, decorato all’esterno con solcature trasversali accostate, aderiscono a un supporto organico di aspetto carbonioso (Fig. 6.5). Il tipo è ben noto in Campania, ed è presente a Pithecusae in tombe dell’ultimo quarto dell’viii sec.34 Non mancavano gli oggetti in metallo prezioso: in argento sono 6 vaghi (Fig. 4.5), a corpo ovoidale tra due collarini espansi; si tratta di importazioni forse dal Vicino Oriente: esemplari identici provengono infatti dall’Etruria e dalla Sardegna.35 Alla stessa collana potevano appartenere un pendente a globetto, munito di un fusto cilindrico che doveva terminare con un tubicino di sospensione (Fig. 4.7),36 ed un altro munito di appiccagnolo (Fig. 4.8). Ma un vero capolavoro nella tecnica di lavorazione dell’argento è costituito da una coppia di pendagli eseguiti interamente a filigrana (Figg. 4.6a, 7).37 Il fusto sottile è delimitato, alle due estremità, da un ornato a treccia tra coppie di elementi orizzontali. Sul fusto corrono motivi verticali a treccia divisi da coppie di elementi verticali. In alto il fusto di apre a calice con cinque fili desinenti a ricciolo. Essi racchiudono un globetto cavo, a melone, sormontato da un anello. Nell’esemplare più completo in uno dei riccioli è infilato l’attacco di una catenella. Negli elementi orizzontali si vede che il filo è ritorto; nei pannelli verticali sembra appiattito. I pendagli terminano con un ago che si inseriva in un tubicino posto all’interno di un vago d’ambra con scanalature a melone (Figg. 4.6b, 8.3).38 Numerosi sono i vaghi e pendenti d’ambra, tra i quali si segnalano il pendente cuoriforme con foro passante all’estremità superiore (Fig. 4.12),39 un vago ovoidale (Figg. 4.11, 8.5) simile agli esemplari d’argento ed un altro con fusto cilindrico terminante con un collarino (Figg. 4.10, 8.6). I pochi elementi superstiti, in ambra e metallo prezioso, non rendono l’idea dello sfarzo della parure, che aveva nel34 Si tratta di anelli a matrice; sul tipo cfr. E. McNamara, Pithecusan gleanings ii : other bronze objects, in Across Frontiers. Studies in honour of D. and F.R.Serra Ridgway, London 2006 (Accordia Specialist Studies on the Mediterranean), p. 273, Fig. 2.12 a. 35 «NSc», 1965, p. 132 sgg., Fig. 52: Veio, Quattro Fontanili: dalla T. hh 11-12 1, più volte ricordata in seguito per la sua affinità con la T. 722; e, più simili: «NSc», 1967 p. 132, n. 19/3, Fig. 26: Veio, Quattro Fontanili: dalla T. ee 7-8, associato, tra l’altro con un pendente di stile egizio: p. 132, n. 18, Fig. 26; «NSc», 1975 p. 106, n. 55, Fig. 29: Veio, Quattro Fontanili: dalla T. g 8-9; Trasparenze 2007, p. 102: T. 3 di Antas, Fluminimaggiore. Sull’origine orientale del tipo, cfr. M. Botto, I primi contatti tra i Fenici e le popolazioni dell’Italia peninsulare, in Contacto cultural entre el Mediterraneo y el Atlantico (Siglos xii-viii ane ) in La precolonizaciòn a debate, edd. S. Celestino, N. Rafael, X. L. Armada, Madrid, 2008, pp. 123-148. 36 Cfr. «NSc», 1967, p. 250, n. 25/2, Fig. 97, da Veio Quattro Fontanili T.

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Fig. 10. Elementi di pasta vitrea con fascette trasvesali in argento.

Fig. 11. Coppa d’argento con decorazione a scaglie sotto l’orlo.

le collane il suo punto di massimo effetto. Lo si intuisce dalla collana composta da almeno quattordici elementi fusiformi in faïence (Figg. 4.13, 9.1), che si disponevano probabilmente con una lunghezza decrescente dal centro verso i lati,40 con una alternanza di elementi con superficie bianco-verdognola con altri di colore bruno.41 Anche in faïence è una statuina di divinità egizia, di cui si conserva solo la base (Fig. 9.2). Il gioco dei colori, dal bianco, al celeste al blu intenso, si ritrova in una collana composta di numerosi vaghi in pasta vitrea, di fabbricazione orientale (Fig. 8.1-2).42 Vaghi di pasta vitrea sono presenti a Pontecagnano fin dalla fase i a della prima Età del Ferro,43 e tuttavia essi si diffondono – qui gg 5-6. Di un altro vago sferico (Fig. 4.4) con collarino e fondo sagomato è difficile determinare la funzione. 37 Il Museo Archeologico dell’Antica Capua, Napoli 1995, p. 25. 38 L’esemplare meglio conservato si adatta perfettamente al vago inv. 221810. 39 Inv. 221809, alt. cm 2,9. 40 La lunghezza oscilla tra cm 3,7 e cm 5,3. 41 La differenza di colore potrebbe anche dipendere dall’esposizione di alcuni esemplari al fuoco. 42 A titolo di esempio cfr. Anatoliki Mesogeios, p. 225, nr. 266, Ialysos, t. a cremazione nr. 265 Drakidis = Ploes, p. 522, nr. 1019. Si conservano almeno trenta esemplari di colore blu scuro (inv. 221803) ed almeno cinque esemplari in pasta azzurra, del tipo a fascia con superficie picchiettata. 43 d ’ Agostino, Gastaldi 1988, p. 69: T. 666 (fase i a), T. 174 (fase i b iniziale); Gastaldi 1998, p. 139 sgg.: T. 2066 (i b).

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bruno d ’ agostino

Fig. 12. Figurina in osso (da Catalogo Museo Antica Capua).

Fig. 13. Oggetto ricavato da un metatarso dipecora e foto del foro passante sulla faccia anteriore e posteriore (foto I. Fiore).

Fig. 14. Vaso biconico d’impasto a superficie rossa.

Fig. 15. Olla d’impasto con solcature elicoidali.

come negli altri centri dell’Italia tirrenica – solo nel corso della fase ii. Una collana simile a quella della T. 722, con le perle blu decorate con intarsi ad occhio, si trova nella tomba 200 di Capua, già ricordata, e numerosi sono i confronti nella Valle del Sarno. Una delle tombe più fastose da S. Valentino Torio (T.178)44 dimostra che alcuni fili di vaghi potevano decorare quella che sembra una stola, che parte dalla cintura e giunge fino ai piedi ed è tenuta in tensione da alcuni pendagli a rotella. Ma i confronti potrebbero estendersi agevolmente fuori della Campania: la tecnica, e la loro larga circolazione induce a ritenere questi athyrmata, come quelli in faïence, prodotti importati dal Vicino Oriente. Ma l’oggetto che, più di ogni altro, determina il particolare interesse di questa sepoltura è la coppa d’argento (Fig. 11)45 a calotta sferica con orlo leggermente rientrante ed estremità diritta. Sull’orlo corre una decorazione impressa con due file di squame e fila di cerchietti al contatto tra le squame della fila superiore. Si tratta di un tipo ben noto, caratteristico delle tombe «principesche» dell’Orientalizzante medio del Lazio e dell’Etruria: la sua presenza nel contesto capuano pone dunque un problema di cronologia, reso ancor più problematico dal fatto che la coppa fu rinvenuta lontano dagli altri oggetti del corredo. Ma sull’argomento si tornerà in seguito. Prima di procedere all’esame del corredo ceramico, oc44 Gastaldi 1979, p. 50, Fig. 6; Gastaldi 1982, Fig. 13, p. 235: Orientalizzante Antico i = terzo quarto viii sec. Nel giornale scavi i vaghi sono indicati come di cristallo di rocca, madreperla e faïence, ma l’indicazione andrebbe controllata. 45 Alt. cm 6,4, diam. cm 10. Cfr. Gli Etruschi 2000, p. 160 (M. Bonghi Jovino); Il Museo Archeologico dell’Antica Capua, Napoli 1995, p. 25.

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania

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Fig. 16. Vasi d’impasto.

Fig. 17. Coppa di tipo Aetos 666 e coppa di tipo Thapsos.

corre ricordare alcune placchette46 in lamina di bronzo lavorate a sbalzo, con fori per fissaggio negli angoli (Figg. 4.14, 6.6). Di forma rettangolare, esse sono decorate al centro da una borchia contornata da un anello. I bordi sono decorati con due file di borchiette alternate a puntini.47 Placchette simili, ma di dimensioni minori (cm 2/2,5) ricorrono nelle sepolture femminili coeve in Etruria.48 Date le dimensioni, è anche possibile che gli esemplari capuani rivestissero una scatoletta quadrangolare. Al coperchio potrebbe forse riferirsi un frammento al quale aderiscono due anellini.49 Sono conservati insieme al corredo della tomba due oggetti di cui è difficile determinare la funzione. Uno di essi ha un aspetto vagamente antropomorfo (Fig. 12):50 la ‘testa’ ha una forma sferica con due protuberanze cilindriche che potrebbero interpretarsi come le orecchie; il ‘collo’ è allungato, le ‘spalle’ squadrate e il braccio destro piegato con l’avambraccio sporgente; si nota inoltre un possibile accenno ai seni. Nonostante la povertà e la rigidità di questa “fi46 Inv. 221829, 229976. Le placchette misurano cm 5,3 × 5,3. 47 Lo schema decorativo è elementare: cfr. p.es. «NSc», 1967, p. 132, n. 26/1, Fig. 25 (da Veio, Quattro Fontanili T. ee 7-8); su manufatto diverso: «NSc», 1965, p. 129, w, figg. 50, 55 (da Veio, Quattro Fontanili T. hh 11-12). Per il tipo di placchetta, cfr. anche «NSc», 1965, p. 138, g1, figg. 59-60 (da Veio, Quattro Fontanili T. hh 14). 48 A giudicare almeno dalla necropoli di Quattro Fontanili a Veio; sulla disposizione nella parure è significativa la pianta della T. hh 14: «NSc», 1965, Fig. 59.

Fig. 18. Disegno della coppa di tipo Aetos 666 (da Johannowsky 1969).

gura”, qualcosa ricorda, nella forma della testa e del collo, per quel che si riesce a cogliere della gestualità, la statuetta femminile d’avorio dal Circolo della Fibula di Marsiliana 49 Non si può neppure escludere l’ipotesi, tuttavia meno probabile, che le placchette rivestissero un cinturone in materiale deperibile: cfr. S. Cosentino, V. d ’ Ercole, G.Mieli, La necropoli di Fossa, i, Pescara 2001, p. 171, tav. vii, 71, con comparanda. 50 Inv. 221840. Cfr. Il Museo Archeologico dell’Antica Capua, Napoli 1995, figura a p. 25. L’oggetto, definito «figurina d’osso», mi sembra piuttosto di legno, e misura cm 3,6. Si conservano anche altri frammenti che rendono problematica l’interpretazione dell’oggetto.

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bruno d ’ agostino sembra caratteristica di questo momento cronologico, non d’Albegna,51 contesto datato al secondo quarto del vii sec. soltanto a Capua. Per l’Etruria, valga come esempio la nea.C.: certo, la figurina di Marsiliana è di ben altro livello sticropoli di Quattro Fontanili di Veio, per la quale si dispone listico, e presenta una rotondità e una pienezza delle forme dello studio esauriente di J.Toms. La presenza di una ricca che ne denunciano l’ascendenza orientale, tratti del tutto parure caratterizza le tombe femminili già nel corso della assenti nel problematico esemplare capuano. prima metà dell’viii sec. a.C.:66 anche qui colpisce l’abbonDeve interpretarsi come un “manufatto” anche un osso di danza di vaghi di collana in pasta vitrea, ambra e, in quantità pecora: si tratta di un metatarso completamente combusto minore, di cristallo, oro, elettro ed argento; si moltiplicano (Fig. 13);52 la presenza di un foro trasversale passante induce inoltre gli indicatori di genere.67 Una situazione analoga si ad escluderne una utilizzazione pratica, ad esempio come riscontra a Pontecagnano, dove fastose tombe femminili manico, e sembra suggerirne una funzione di amuleto. compaiono già nel corso della fase ii a,68 come dimostra Il corredo vascolare della tomba era piuttosto sobrio.53 A l’esempio della T. 3211, valorizzata di recente da P. Gastalparte lo ziro, di cui non è possibile ricostruire la forma, i vadi.69 La situazione si presenta simile nella Valle del Sarno.70 si rientrano nel repertorio dell’impasto tipico della fase ii. È tuttavia il momento finale della fase ii quello in cui, in L’olla di forma biconica54 (Fig. 14) è eseguita in impasto a vari centri dell’Italia Tirrenica, compaiono sepolture partisuperficie rossa, una caratteristica che distingue questa forcolarmente fastose – come la tomba del Guerriero di Tarma fino dalla fase ii a; tra gli altri vasi d’impasto, con superquinia o le tombe 871-872 di Casale del Fosso di Veio –, che ficie bruna, alcuni trovano un preciso confronto nel correhanno indotto alcuni studiosi a proporre per questa facies la do della T. 697, edito dallo Johannowsky:55 la grande olla definizione di Proto-Orientalizzante.71 sferica (Fig. 15) con breve collo cilindrico e la caratteristica E la tomba 722 di Capua rientra a pieno diritto in questo decorazione a costolature elicoidali sulla spalla;56 le due anristretto gruppo di tombe emergenti, per la presenza nel suo forette (Figg. 16. 3-4) con stretto collo cilindrico e spalla decorredo di alcuni oggetti che diverranno caratteristici di corata con solcature oblique;57 le tazze con vasca carenata quelle particolari sepolture che vanno sotto la definizione di (Fig. 16.5-9)58 ed ansa riccamente traforata formante uno tombe «principesche»: essa sembra porre le premesse di un sperone sopra l’elemento tripartito di raccordo con il labdiscorso che peraltro a Capua sembra non aver avuto un sebro; una di esse59 presenta – come l’esemplare della T. 697 guito. Nella parure eccellono i pendagli in argento ed ambra – gruppi di linee disposti a croce sul fondo.60 A questi si ag(Figg. 4.6, 7), che denotano uno sviluppo assai avanzato delgiungono i due scodelloni (Fig. 16.1-2)61 privi di anse, con la tecnica della filigrana. Come è noto anche in Etruria la ampio labbro rientrante, a spigolo con la vasca, decorato comparsa di questa tecnica si pone nel terzo quarto dell’viii con un meandro continuo impresso a rotella; la kylix62 con sec., come dimostrano fra l’altro le armille e le fibule a drasuperficie bruna e labbro chiaro, e l’imitazione in impasto go con arco trinato in metallo prezioso72 presenti, ad esemdi una coppa baccellata in bronzo63 (Fig. 16.10), di piccole pio, nel corredo della tomba del Guerriero di Tarquinia, dimensioni. strettamente coeva con la tomba capuana.73 Per i nostri penCome la T. 697 il corredo della T. 722 include due vasi dagli, la completa assenza di confronti, il carattere misto del d’argilla figulina, tipici del repertorio corinzio del lg i: la materiale impiegato, fanno pensare all’attività di officine locoppa del tipo di Thapsos con pannello (Fig. 17.2) trova un cali, in un momento iniziale della loro produzione, quando preciso confronto nell’esemplare dalla T.697.64 L’altro vaso questa aveva ancora un carattere sperimentale: naturalè una «imitazione di kotyle del tipo Aetos 666» (Fig. 17.1,18) mente la definizione va intesa in senso lato, dal momento «attribuibile con ogni probabilità ad officine pitecusane»,65 che ancora si discute circa il ruolo giocato dai diversi centri alle quali va attribuita anche la coppa di Thapsos. campani nella lavorazione dei metalli preziosi.74 La tipologia delle fibule e della ceramica d’impasto e la Le coppa d’argento con decorazione a scaglie pone ultecronotipologia di questi vasi di tipo greco concorrono nelriori problemi. Essa evoca il confronto con le coppe di Cul’attribuire questa sepoltura al periodo ii c, ovvero al terzo ma e quelle dalle tombe principesche del Lazio e dell’Etruquarto dell’viii sec. a.C., periodo al quale si riferiscono anria. Si tratta tuttavia di un gruppo tutt’altro che omogeneo. che le tombe 200 e 697, già ricordate in precedenza per le loLe coppe cumane sono veri e propri lebeti,75 sia pur di riro analogie con la T.722. La fastosità del costume funerario 51 A. Minto, Marsiliana d’Albegna, Firenze, 1921, p. 86 sg., tav. xvi; Principi Etruschi, p. 132 sg., nr. 88. 52 Cfr.Appendice. 53 Una foto del corredo ceramico è stata pubblicata in Johannowsky 1969, figg. 6, 8a, 13c. 54 Inv. 221790. Alt. cm 41, diam. bocca cm 18,2. Sul tipo cfr.Capua 1983, p. 38. 55 Capua 1983, p. 143 sgg., nr. xlix. 56 Capua 1983, tav. xli, figg. 1. 57 Inv. 221766: alt. cm 17,5, diam. cm 8; 221767: alt. cm 15.5, diam. cm 8; cfr. Capua 1983, tav. xli, 3. 58 Inv. 221776, 221777, 221785-221788 cfr. Capua 1983, tav. xlii, figg. 6, 8. 59 Inv. 221776. 60 Capua 1983, tav. xlii, Fig. 8. 61 Inv. 221768: alt. cm 9,2, diam. cm 19,2; 221775: alt. cm 10,2, diam. cm 2,7. Cfr. Capua 1983 p. 38 sg. 62 Inv. 221796. 63 Inv.221789. Alt. cm 3,8, diam. cm 12,4. 64 Inv. 121774: alt. max. cm 7,1. La parte superiore della coppa non è conservata, ma la vasca interamente ricoperta da linee orizzontali si riscontra solo nel tipo con pannello. Per la T. 697, cfr. Capua 1983, p. 55, tav. xlii, Fig. 5: secondo Johannowsky l’esemplare della T. 697 è d’importazione corinzia. 65 Inv. 221773: alt. cm 9,6, diam. cm 13,4. Johannowsky 1969, p. 35, figg. 6, 8 c, 13 c; Capua 1983, p. 55, nota 276. 66 Toms 1986, p. 66, nota 103; 72, nota 142. 67 Ciò si verifica nelle fasi ii b-c. Si veda, per tutti, l’esempio della T. hh 11-12 datata, come la nostra «ad un momento finale del terzo quarto dell’viii

sec. a.C.», cfr. «NSc», 1965, p. 123 sgg.; Sgubini Moretti 2001, p. 100, nr. i.g.5.14; p. 103, nr. i.g.5.35, tav. v. Per la cronologia cfr. p. 105. 68 Cfr. d ’ Agostino, Gastaldi 1988, p. 234. 69 Gastaldi 2007, p. 114; per la cronologia relativa e assoluta della tomba cfr. N. Kourou, Greek imports in Early Iron Age Italy, in Oriente e Occidente 2005, pp. 497-516, spec. p. 504. Coeva alla T. 722 di Capua è ad esempio la tomba 211, d ’ Agostino, Gastaldi 1988, p. 145 sgg. figg. 42-43, 2-63. 70 Gastaldi 1979, p. 50. Le tombe dell’ultimo quarto dell’viii sec. mostrano una parure semplificata, e le collane di pasta vitrea sembrano scomparire, qui come altrove. 71 Cfr. Nijboer, «anes», Suppl., 28.09; Nijboer, «anes», Suppl. 28.11. Sulla critica all’uso del termine, cfr. il mio intervento in margine alla sessione 2 e del xvii International Congress of Classical Archaeology svoltosi a Roma nel settembre 2008 (in corso di stampa). 72 Toms 1986, p. 72: fibula da QF T. j8, fase ii b avanzata; Berardinetti, Drago 1997, pp. 56, nota 55, e 64, nota 22. tavv. vi b, vii a; Cristofani, Martelli 1983, p. 36, Fig. 2.4. 73 Formigli 2003, pp. 94-106, figg. 4-10. 74 Cfr. da ultimo P. G. Guzzo 2004, che fa il punto sulla situazione, esprimendo riserve su un possibile ruolo di Pithecusae. 75 Strøm 1971, p. 147, nota 435. L’esemplare dalla T. 104 (Pellegrini 1903, col. 240 sg., nr. xiv, Fig. 16) ha un diametro di cm 25,7; quello dalla T. i (Gabrici 1913, c. 214) un diametro di cm 23. Non sono note le dimensioni

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania 43 dotte dimensioni; anche il profilo è diverso: il bordo è infatti verticale, e privo di decorazione. Alla stessa classe della coppa capuana appartengono invece gli esemplari da Praeneste, Caere, Marsiliana d’Albegna e Vetulonia, simili anche per le dimensioni, e anch’essi ornati con una decorazione a squame, eseguita con la medesima tecnica dell’esemplare capuano.76 Gli esemplari etrusco-laziali sono stati attribuiti dal Camporeale a officina ceretana, e l’attribuzione all’Etruria è condivisa da Markoe.77 La loro genesi va ricercata in quelle stesse botteghe, probabilmente ceretane, dove operarono artigiani fenici o ciprioti che crearono le coppe figurate delle tombe principesche di Caere e di Praeneste.78 Il loro prototipo va riconosciuto in vasi come il piccolo lebete d’argento con fregi figurati e teste di serpente plastiche dalla tomba Bernardini, che giustamente è stato ricondotto da Canciani e von Hase ad ambiente cipriota.79 Tuttavia, se si accetta la pertinenza della coppa al corredo della T. 722, l’esemplare capuano precede di circa un cinquantennio quelli rinvenuti in Etruria e nel Lazio, in contesti databili al secondo quarto del vii sec. Ma forse è possibile riempire, almeno in parte, questo hiatus richiaFig. 19. Frammento di osso sacro con porzione mando una osservazione già fatta a suo tempo dal Pellegridell’articolazione sacro-iliaca. ni, e ripresa di recente dalla Strøm:80 la decorazione a squame e cerchietti impressi che ricorre sulle coppe di questo sta signora capuana: la conocchia, i rocchetti e le fusaiole le tipo si ritrova su due frammenti di vasi in argento dalla T. riconoscono il ruolo, di tutto rispetto, di filatrice e tessitri104 di Cuma, databile alla fine dell’viii sec. ce, funzioni che appaiono distinte nell’Età del Ferro,83 Si potrebbe supporre che il tipo sia stato introdotto in quando la filatrice sembra avere un ruolo sociale più modeCampania riprendendo modelli di ispirazione cipriota, costo, mentre un maggior prestigio sociale è riconosciuto alla me il piccolo lebete figurato della tomba Bernardini, già domina che riassume in sè entrambe le funzioni.84 menzionato. L’identità della coppa dalla T. 722, nella forma Quale sia la posizione sociale della domina della T. 722, rie nella tecnica, con gli esemplari rinvenuti in Etruria e nel sulta chiaramente dal suo costume funerario. Il vestito, riLazio andrebbe spiegata con l’esasperato conservatorismo coperto di cuppelle di bronzo, le collane o la stola ornata delle botteghe artigiane. Ma si tratta solo di una ipotesi, dalle vistose perle di pasta vitrea e di ambra, la collana di non del tutto soddisfacente. grossi pendenti e, forse, del pendente figurato in faïence, la Non molto diverso è il problema che pone la conocchia di integrano in quella élite che proprio nel terzo quarto delpasta vitrea: come si è visto la sua presenza, sul lungo periol’viii sec. emerge al vertice della gerarchia sociale nel mondo, si accompagna sempre al rango eccezionale della defundo tirrenico. I pendagli d’argento in filigrana ed ambra, e la ta e alla presenza nel corredo di ricercati athyrmata orientali. coppa d’argento con decorazione a squame la pongono in L’esemplare di Capua risulta il più antico di cui sia segnalata anticipo sul suo tempo, con tratti di quel fasto che sarà l’esistenza in Italia, di un tipo di strumento che trova le sue completamente dispiegato soltanto a partire dalla fine del radici in Oriente alla metà circa del ii millennio.81 Ma prosecolo. In questa prospettiva si pone anche la coppa bacceldotti simili, di pasta vitrea, non mancano, come è noto, nelle lata d’impasto: salvo che per le dimensioni, essa è una replitombe della fase ii della prima Età del Ferro, e non è da escluca fedele dei prototipi in bronzo85 che diverranno uno dei dere che l’isolamento dell’esemplare capuano dipenda dalla tipi più frequenti nei corredi delle “tombe principesche”, e fragilità stessa di questo genere di manufatti.82 la qualità dell’impasto è tale da favorire l’inganno. Anche la Qualche parola ancora va dedicata all’immagine di quedell’esemplare dalla T. xi (Gabrici 1913, c. 223) e di quello menzionato negli inventari del Museo Nazionale di Copenhagen (Strøm 1971, p. 132, nota 315). Del tutto diverso è l’esemplare dalla T. lix (Gabrici 1913, c. 264), che ha un coperchio-colino, ed è quindi assimilabile all’esemplare dalla tomba Bernardini, Canciani 1979, p. 41, nr. 27: sulla funzione di questi due vasi, cfr. Botto 2004, p. 182 sg., nota 74. 76 Strøm 1971, p. 152, nota 437. Praeneste, T. Bernardini: Lazio Primitivo, p. 234, nrr. 22-26; Canciani, von Hase 1979, nrr. 22-26, p. 39 sg., dove si trovano i rimandi agli esemplari da Caere e da Vetulonia. Sulla classe, cfr. Camporeale 1969, p. 83 sgg., Cristofani, Martelli 1983, p. 265, nr. 43. 77 Markoe 1992-1993, p. 14 sg. 78 Sull’argomento cfr. d ’ Agostino 1999. 79 Canciani, von Hase 1979, p. 36 sg., nr. 16: probabile importazione cipriota. Purtroppo la nostra conoscenza della produzione siriana in metallo prezioso è carente: lo dimostra la coppa la coppa d’argento da Tell Qatiné, da me più volte citata, che sembra simile nella forma alle nostre coppe con decorazione a scaglie, e che rimane finora – che io sappia – isolata (R. D. Barnett, A syrian silver vase, «Syria», xxxiv, 1956, pp. 243-248). Alla possibilità di precedenti fenici per il tipo, pensa anche Camporeale 1969, p. 84. 80 Strøm 1971, p. 147, nota 437; Pellegrini 1903, c. 245, figg. 21-22: la

Fig. 21 è il frammento dell’ansa di un’anforetta; Canciani, von Hase 1979, p. 39, commento al nr. 22. 81 Cfr. Martelli 1994, che ricorda esemplari in pasta vitrea e bronzo dalla Palestina. 82 Va segnalata la somiglianza di questi elementi con il tubicino in pasta vitrea 42e5, ed in particolare con l’esemplare con superficie «a onda» dalla T. 3214 di Pontecagnano eci: De Natale 1992, p. 27 e comparanda alla nota 35. 83 La bibliografia è vastissima. Ci si limita a segnalare, per l’area tirrenica, pochi esempi: Veio: Bartoloni, Berardinetti, De Santis, Drago 1997, p. 96 sgg.; Pontecagnano: Gastaldi 2007; Torre Galli: M. Pacciarelli, Torre Galli. La necropoli della prima Età del Ferro, Catanzaro, 1999, dove viene valorizzata la pertinenza a quest’ambito funzionale del piccolo coltello in ferro: v. supra, nota 27. 84 È merito di A. M. Bietti Sestieri aver sistematizzato questa distinzione, in Ricerca su una comunità del Lazio protostorico. Il sepolcreto dell’Osteria dell’Osa sulla Via Prenestina, Roma, 1979, p. 142 sgg., e, in seguito, in La necropoli laziale di Osteria dell’Osa, Roma 1992, p. 496 sgg. L’argomento è stato rinnovato dalla scoperta del trono di Verucchio: cfr. da ultimo Verucchio 2007. 85 Cfr. F. Sciacca, Patere baccellate in bronzo. Oriente, Grecia, Italia in età Orientalizzante, Roma, 2005.

44

bruno d ’ agostino - n. 1 frammento di osso sacro comprendente una larga porzione figurina in osso, se occorre intenderla realmente come tale, dell’articolazione sacro-iliaca di sinistra non può non considerarsi una versione – sia pure impoven. 1 frammento di base del cranio comprendente il condilo ocrita – di una creazione colta, che ha alle spalle esperienze ficipitale di sinistra gurative e religiose orientali. - n. 5 frammenti di vertebre Se si prescinde dal corredo vascolare, pochi sono i segni - n. 1 piccolo frammento di epifisi prossimale di omero destro che marcano l’appartenenza della domina al mondo campache preserva una piccola porzione del solco intertubercolare no: i pendagli a spirali contrapposte, le figurine di anatrelle, - n. 9 frammenti di osso corticale o trabecolare non attribuibili se esse provengono da una fibula da parata del tipo attestato con certezza. a Capua e a Suessula. Prendendo spunto dagli oggetti di corredo della tomba Stato di conservazione 722, si è avuto modo di mostrare come questa tomba, ed alI frammenti pertinenti lo scheletro appendicolare superiore ed intre sepolture analoghe databili nel terzo quarto dell’viii feriore (n. 1,2,3,8) presentano tracce di annerimento superficiale, sec. a.C., si inseriscono in un processo di crescita delle cosegno evidente di contatto col fuoco, ma non si evidenziano le timunità tirreniche avviato già nel corso della fase i b della piche fratture concoidi dovute alla cremazione di resti con tessuti prima Età del Ferro. Questo processo, caratterizzato dal molli ancora preservati. moltiplicarsi degli indicatori di genere e, per le donne, dalla Lo stato di conservazione suggerisce una combustione, cosontuosità della parure, si arricchisce nel corso della prima munque non intensa, di resti già scheletrizzati, ed è dubbio se il pemetà dell’viii sec. a.C., di ahtyrmata, importati o imitati dalrone sia stato esposto o meno all’azione del fuoco. Per i rimanenti resti sembra potersi escludere il contatto diretto con il fuoco. l’Oriente per rispondere a una esigenza di ‘visibilità’ e di fasto delle élites locali. Numero di individui, età alla morte e sesso È un processo che, in ambito tirrenico, si conclude con una profonda trasformazione nel repertorio della cultura I resti conservati non permettono di effettuare alcuna diagnosi di materiale, e con una integrazione di elementi orientali e sesso. L’aspetto dei frammenti di ossa lunghe e la porzione basale greci, ricontestualizzati secondo le esigenze proprie del codel cranio sono comunque gracili. Nell’insieme dei resti si evidenzia la presenza di un individuo stume locale: è il fenomeno che – con termine criticabile di età adulta (matura) rappresentato dal frammento di osso sacro ma ormai invalso nella tradizione degli studi – si definisce (n. 5) che presenta una superficie dell’articolazione sacro-iliaca come Orientalizzante.86 diagnosticabile come adulta matura se non anziana (Lovejoy, A Capua, dopo la T. 722, l’evidenza è scarsa e deludenMeindl, Pryzbeck, Mensforth 1985; Iscan, Kennedy, 1989). te.87 Certo, non è lecito fare alcuna concessione al determiGli altri resti, data anche la frammentarietà ed incompletezza, nismo culturale, e quindi assumere in via di principio che a non mostrano tratti che supportino un’ipotesi alternativa a quella Capua dovesse necessariamente verificarsi, come altrove il di un unico individuo. fenomeno delle «tombe principesche»; e tuttavia è difficile Paola Francesca Rossi - Luca Bondioli ammettere che la comunità capuana si ripiegasse interaSezione di Antropologia mente su sè stessa, mentre nella vicina Calatia emergevano Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico gruppi gentilizi dalle sepolture fastose.88 Luigi Pigorini – Roma Se l’immagine di ‘modestia’ dell’Orientalizzante Antico e Medio di Capua corrisponde a una reale lacuna dell’evidenza, si potrebbe piuttosto supporre che nuovi gruppi 2. Reperti faunistici gentilizi emergenti al volgere dell’viii sec. abbiano voluto Cavallo: tre denti incisivi e un molare inferiore di due individui marcare una discontinuità col passato, scegliendo nuove adulti. aree per le loro necropoli, così come è accaduto, per esemBue: frammenti di molare indet., un frammento di emimandibola pio, a Pontecagnano.89 Appendice I frammenti consegnati per l’analisi comprendono: - 22 frammenti ossei riconosciuti come umani; - 19 riconosciuti come di origine animale; - 1 frammento fittile di orlo/base.

senza denti, un frammento di radio prossimale e una diafisi d’individuo di età adulta; epifisi di femore prossimale di individuo giovanile, due prime falangi prossimali di individuo giovanile, una falange pima distale.

Ovicaprino: un frammento di diafisi di femore con tracce di macellazione riferibili a depezzamento. Pecora: un metatarso medio prossimale completamente combusto, con foro passante localizzato nella porzione prossimale.

1. Reperti umani I 22 frammenti ossei umani sono stati identificati per quanto possibile: -

n. 2 frammenti di diafisi di omero di sinistra n. 1 frammento diafisi di femore di destra n. 1 frammento diafisi di fibula probabilmente di destra n. 1 frammento di costa

86 V. supra, nota 71. 87 V. supra, nota 4. 88 Donne di età orientalizzante. Dalla necropoli di Calatia, a cura di E. Laforgia, Napoli, 1996; E. Laforgia, Il Museo Archeologico di Calatia, Napoli, 2003, p. 89 sgg. 89 Cfr. C. Pellegrino, Continuità/discontinuità tra Età del Ferro e Orientalizzante nella necropoli occidentale di Pontecagnano, «aion ArchStAnt», n.s., 6, 1999, pp. 35-58.

Taxa

Numero resti

Numero minimo d ’ individui ed età di morte

Cavallo

4

2 adulti

Bue

8

1 giovane e 1 adulto

Ovicaprino

1

1 adulto

Pecora

1

1 adulto

Suino

2

1 adulto –

1 adulto-senile

Indet.

3

la tomba 722 di capua loc. le fornaci e le premesse dell ’ orientalizzante in campania Ad una prima analisi sembra che il foro sia stato praticato partendo dalla faccia posteriore fino a interessare la faccia anteriore, quest’ultima risulta regolarizzata da piccole asportazioni di materiale osseo. Suino: un molare terzo inferiore di età adulto-senile; un metatarsale prossimale. Indet.: tre frammenti I reperti rinvenuti si riferiscono tutti ad animali domestici attribuibili in prevalenza ad individui adulti. Questi resti associati a sepolture rappresentano in genere offerte di cibo, costituite solitamente da porzioni con scarsa massa carnea come le porzioni craniali e dell’estremità delle zampe. In questo caso, per quanto riguarda gli ovicaprini e il bue, la presenza di ossa lunghe come il radio e il femore denota che furono deposte anche porzioni più ricche di carne. Il metatarso di pecora può essere considerato un elemento di corredo, anche se è difficile definirne la sua funzione Ivana Fiore Sezione di Archeozoologia e Paleontologia del Quaternario Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini – Roma

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U N NO ME P E R P I Ù RE ALT À: T I R R ENIA E TIR R ENI N E G LI ETH N I KÁ DI ST E FANO BI Z AN T INO Daniele F. Maras · Laura M. Michetti

I

l contributo che offriamo al nostro maestro Giovanni Colonna è un primo piccolo frutto del progetto dei “Fontes ad Res Etruscas Pertinentes” (per brevità citato con l’acronimo FaREP), che ha come finalità la raccolta del repertorio completo delle fonti letterarie greche e latine sulla storia degli Etruschi, progetto da Lui avviato e sempre fortemente sostenuto. L’idea di redigere un corpus sistematico delle fonti greche e latine, che preveda la scelta delle edizioni filologicamente più corrette, l’analisi scientifica di tutto il materiale, la sua sistemazione per temi e la stesura degli opportuni indici fu concepita fin dai primi anni ’50 da Massimo Pallottino, visto l’esito dell’impresa tentata da G. Buonamici (Fonti di storia etrusca tratte dagli autori classici, Firenze-Roma, 1939), unanimemente giudicato poco felice, anche a causa della scelta di dare i testi solo nella versione italiana. Si deve dunque a Pallottino l’impulso di dar corso nuovamente all’impresa, nell’ambito della sua attività didattica nell’Università di Roma.1 L’apporto di numerosi collaboratori, di per sé lodevole per l’ingente schedario cartaceo prodotto, ha tuttavia comportato un lento procedere del lavoro, con ritmi assai diseguali, fino ad arrivare praticamente ad un’interruzione nel 1980, in occasione della cessazione dell’attività universitaria dello stesso Pallottino. A partire dal 2002 Giovanni Colonna ha convogliato tale progetto in una ricerca di Facoltà creando allo scopo un gruppo di lavoro2 che riprendesse e portasse a compimento lo storico progetto di Massimo Pallottino e dei suoi collaboratori, partendo innanzitutto dalla verifica della schedatura cartacea e procedendo ad una ricognizione completa del lavoro già fatto, operazione che l’ausilio dei mezzi informatici attualmente disponibili rende senza dubbio molto più semplice. L’elaborazione e pubblicazione di tale strumento di ricerca, corredato da indici adeguati, ha quindi l’obiettivo di facilitare il lavoro di reperimento delle fonti letterarie greche e latine sulla storia degli Etruschi ed aprire non solo agli specialisti del settore ma anche agli studenti la possibilità di accedere agevolmente a tali fonti letterarie. Allo stato attuale, concluso l’inserimento di tutti i testi in 1 All’operazione di collazione del materiale fu preposto dapprima G. Baffioni, affiancato nel corso del tempo da diversi altri collaboratori, impegnati a vario titolo nel progetto. 2 Il progetto, coordinato da Giovanni Colonna e saltuariamente finanziato come Ricerca di Facoltà dal titolo “Analisi delle fonti letterarie antiche concernenti la storia degli Etruschi” tra il 2002 e il 2006 (proponente nel 2002: Luciana Drago), è stato riproposto tra il 2007 e il 2009 nell’ambito dei progetti finanziati dall’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente della Sapienza (“Documenti storici per la civiltà etrusca. Analisi comparata delle fonti letterarie greche e latine”), con il coordinamento di Laura M. Michetti. Partecipano attualmente al gruppo di lavoro Daniele F. Maras e Elena Tassi, con la collaborazione di allievi della Scuola di Dottorato in Archeologia, curriculum di Etruscologia (Magda Cantù), di dottori di ricerca della stessa scuola (Elena Foddai, Alessandro De Luigi), di allievi e diplomati della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici (Valeria Scocca, Iosetta Corda) e di allievi del corso di Laurea magistrale in Archeologia (Tania Bonifazi, Daniela Savoca). 3 La ricerca è stata condotta nel suo complesso in collaborazione ed in condivisione dai due autori, che per ragioni di chiarezza espositiva hanno

un database appositamente elaborato per le esigenze di sistematizzazione dei dati, si sta procedendo alla revisione critica e all’elaborazione tematica del materiale in vista della pubblicazione, cui farà seguito un’edizione informatica, per consentire un’agevole ricerca per argomenti o per parole chiave, attraverso un’indicizzazione complessa e chiavi multiple di accesso. Tra le tante suggestioni emerse nel portare avanti il progetto dei FaREP abbiamo pensato di scegliere un tema ben delimitato ma assai ricco di spunti di riflessione e finora poco valorizzato: il concetto di ‘Tirrenia’ e di ‘Tirreni’ nell’opera di Stefano Bizantino.3 La ponderosa opera di classificazione redatta da questo autore, pur nell’impostazione inevitabilmente ‘meccanica’ del compilatore,4 offre infatti uno squarcio sulle differenti accezioni del nome ‘Tirreni’, così da fornire l’occasione di portare un piccolo contributo al problema della distribuzione dell’etnico e del suo significato presso gli autori antichi. Le fonti che Stefano riassume nel suo compendio conoscono infatti Tirreni dell’Egeo,5 Tirreni di Macedonia6 e soprattutto Tirreni d’Italia, questi ultimi individuati da toponimi riferibili tanto all’Etruria storica7 – comprendendo anche le due estensioni in area padana e campana – quanto ad altre regioni d’Italia,8 con particolare riferimento, come è presumibile, alla fascia costiera tirrenica. Ci proponiamo dunque in questa sede di analizzare i riferimenti ai Tirreni nell’opera del compilatore bizantino, cercando di individuarne le fonti originarie e di ricostruirne il contesto, nel tentativo di ripercorrere la storia delle diverse accezioni e dell’estensione geografica che si è di volta in volta voluta intendere. D. F. M. · L. M. M. 1. L’Italia La maggior parte delle attestazioni relative ai Tirreni ed alla Tirrenia negli Ethniká riguarda effettivamente contesti dell’Italia antica, confermando l’intenzione delle fonti di riferirsi agli Etruschi d’Italia sia nello specifico che con un’accezione più estesa. poi scelto di occuparsi di due parti distinte, rispettivamente dedicate alle attestazioni riferibili all’Italia (§ 1, L. M. Michetti) ed alle connotazioni etniche dei Tirreni nel Mediterraneo (§ 2, D. F. Maras). Ci scusiamo delle inevitabili ripetizioni dovute all’aver affrontato i medesimi argomenti da diverse angolature. L’abbreviazione ‘sb’ seguita da un numero si riferisce all’elenco delle voci inerenti gli Etruschi nell’opera di Stefano Bizantino che riportiamo in calce al nostro testo. 4 Sul valore documentario degli Ethniká, specie relativamente agli autori antichi che non ci sono pervenuti, nonostante gli errori e a volte i travisamenti che è dato rintracciare nell’opera, cfr. in particolare Whitehead 1994. Sull’opera di Stefano, in relazione agli etnici greci, v. di recente Fraser 2009, pp. 241-311. 5 sb.23, e forse 3b. 6 sb.2 e sb.16. 7 sb.1, 6, 8, 10, 17, 18, 20, 22, 27, 29, 30, 34, 37, 38, 41, 42, 43, 45, 46; si riferiscono ad isole del Tirreno sb.3a, 9, 19, 28 (?), cui si aggiungono anche le °˘ÌÓ‹ÛÈ·È/Baleari di sb.13 e 11 (vedi infra, nota 135). 8 In Campania, sb.7, 14, 31, 32, 35, 39, 40; nell’Italia meridionale, sb.12, 24; nell’area tiberina, sb.26, 44; nell’Italia settentrionale, 36. Restano invece per ora incerti i casi di sb.4, 21, 25, 33.

un nome per più realtà: tirrenia e tirreni negli ethniká di stefano bizantino

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In primo luogo, va notata una differenza tra l’espressione fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜ e l’espressione fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ. Appartengono al primo gruppo Ágylla, Aíneia,9 Arrétion, Atría, Kairé, Oína, Ólkion, Pikentía, Potíoloi, Selénes, Syrréntion, Tarchónion, Telamón, Phalérion. Sono invece definite fiÏÂȘ T˘ÚÚËÓáÓ Bréttos, Okríkola, Perousía, Ploútion, Poplónion, Soútrion, Sýessa. Si distinguono dai due blocchi principali Tarkynía, definita fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›‰Ô˜,10 Kapínna e Týderta, per le quali si parla di T˘ÚÚËÓÈÎc fiÏȘ, Noukría, detta fiÏȘ T˘ÚÛËÓ›·˜, e Króton, che assurge al ruolo di T˘ÚÛËÓ›·˜ ÌËÙÚfiÔÏȘ. Particolare anche la citazione di Perrhaísion, fiÏȘ Ì›· ÙáÓ ·Úa ÙÔÖ˜ T˘ÚÚËÓÔÖ˜ àÚ¯ËÁÂÙ›‰ˆÓ ηÏÔ˘Ì¤ÓˆÓ. Quanto alle isole,11 sono definite ÓÉÛÔ˜ T˘ÚÚËÓÈ΋ Artemíta12 e le Banaurídes,13 mentre Aithále è ÓÉÛÔ˜ T˘ÚÛËÓáÓ; Pithekoûssai è detta in un caso ÓÉÛÔÈ ÂÚd T˘ÚÚËÓ›·Ó (al plurale, sb.31) ed altrove si fa riferimento a Tirreni ivi residenti (sb.7),14 così come Orgón15 è detta ÓÉÛÔ˜ ÏËÛ›ÔÓ T˘ÚÚËÓ›·˜. Diverso, infine, è il modo di nominare Korsís, ÓÉÛÔ˜ âÓ Ù† T˘ÚÚËÓÈΆ ÂÏ¿ÁÂÈ. Passando ai popoli, interessante la menzione degli Adriâtai, che per Stefano sono chiamati anche T˘ÚÚËÓÔ›, e dei Rhaitoí (Reti), che ricevono la qualifica di T˘ÚÚËÓÈÎeÓ öıÓÔ˜, mentre i Lígyres (Liguri) sono solo un öıÓÔ˜ ÚÔÛ¯b˜ ÙÔÖ˜ T˘ÚÚËÓÔÖ˜. Conviene a questo punto chiedersi se ci sia, e quale sia, il motivo dell’uso alternativo dei termini T˘ÚÚËÓáÓ, T˘ÚÚËÓ›·˜, T˘ÚÚËÓ›˜ e T˘ÚÛËÓÈÎfi˜ nella definizione geografica dei lemmi.16 Occorre innanzitutto risalire, per quanto è possibile, alle fonti cui Stefano, esplicitamente o implicitamente, attinge, al fine di verificare se questo utilizzo differenziato dipenda dalle fonti stesse. Allo stesso modo si cercherà di indagare quale uso egli faccia, a seconda delle varie voci, del concetto di Tyrrhenía e a quali contesti dell’Italia antica faccia riferimento. Tra quelle definite fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, ci imbattiamo innanzitutto in Ágylla (sb.1). Fonte esplicitamente menzionata per questo toponimo da Stefano (che ne riporta il testo) è Licofrone (Lycoph, Alex., v, 1355), mentre Strabone è citato solo a proposito dell’etnico (K·ÈÚÂÙ·ÓÔ›), anche se è palese che l’intero brano dipende da questo autore.17 Ciò è

particolarmente evidente nella spiegazione che viene offerta circa la dualità dei nomi, il primo dei quali, Ágylla, sarebbe da attribuire ai Pelasgi, mentre il secondo, Kaîre,18 sarebbe stato dato dai sopraggiunti Tirreni lidii: in una simile ricostruzione, Stefano si allinea alla tradizione di una successione di Pelasgi e di Tirreni lidii, che giustifica l’esistenza del nome greco di Ágylla, imputabile alla fase pelasgica della città.19 Si tratta, come è noto, di una tradizione che risale forse a Timeo – che a sua volta dipenderebbe da Filisto – e che è riferita anche da Virgilio e da Dionigi di Alicarnasso.20 Per il tema che ci siamo proposti di indagare, è interessante sottolineare come in quest’ottica ai Tirreni venga attribuito il secondo nome di Caere, per il quale D. Briquel ha evidenziato come sia apparentemente greco, ma in realtà esito di una incomprensione; gli abitanti di Caere non sono più Pelasgi – ovvero dei “quasi greci” –, ma dei barbari che li avrebbero cacciati.21 Anche un secondo grande centro dell’Etruria meridionale gode di un’attenzione particolare negli Ethniká, attraverso la duplice menzione Tarkynía/Tarchónion (sb.41-42), per le quali Stefano costruisce addirittura due voci differenti. Già M. Pallottino nel 1937 aveva affrontato il problema del doppio nome di Tarquinia, sottolineando come gli antichi fossero in difficoltà nel trascrivere in latino e in greco i nomi delle città etrusche: non riuscendo a fissare in modo definitivo le nuove parole in una determinata categoria morfologica, hanno finito per adattarle contemporaneamente a tre o quattro tipi di terminazione.22 Nella presentazione di Stefano, che attinge evidentemente a fonti diverse, Tarkynía è detta fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›‰Ô˜ “da Tarconte”, mentre Tarchónion è fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜ “da Tarconte figlio di Telefo”. Nel primo caso, Stefano dipende da Strabone,23 mentre nel secondo sembra attingere da Licofrone.24 D. Briquel ha richiamato l’attenzione sul fatto che Tarconte non appare nella letteratura greca che con Licofrone e Strabone, che a sua volta si rifà a Polibio: è dunque esclusivamente a loro che fanno riferimento gli autori successivi,25 tra i quali Eustazio.26 Da Licofrone Stefano attinge la singolare genealogia di Tarchon, che sarebbe figlio di Telefo. Secondo lo stesso Briquel, una serie di indizi – carattere eccezionale di tale genealogia, celebrità di Licofrone, frequente ricorso a questa fonte da

9 Vedi infra, nota 108. 10 Cfr. infra, nota 131. 11 Cfr. Cordano 2006, p. 310 sgg. e vedi infra, § 2. Per la nozione di isola, che in Stefano si sovrappone a volte a quello di città sul mare (cfr. il lemma NÉÛÔ˜, ì âÓ ı·Ï¿ÛÛ– ÔÏȘ), v. Whitehead 1994, pp. 122-123. 12 Stefano cita Erennio Filone (FGrHist, iii C, 790 F 28, 1); Ptol., v, 13, 21, 10: \AÚÙ¤ÌÈÙ·. Vedi infra, nota 134. 13 Vedi infra, nota 135. 14 Stefano fraintende il passo di Strab. (xiii, 4, 6, 12-17: ôÏÏÔÈ ‰\ âÓ KÈÏÈΛ0, ÙÈÓb˜ ‰\ âÓ ™˘Ú›· Ï¿ÙÙÔ˘ÛÈ ÙeÓ ÌÜıÔÓ ÙÔÜÙÔÓ, Ôd ‰\ ëÓ ¶ÈıËÎÔ‡Û۷Ș,

Erodoto, da Tyrrhenos: sull’argomento, cfr. Briquel 1984, pp. 171-172; Id. 1991, p. 241. 20 Serv. Dan., ad Aen., viii, 479; Dionys. Hal., ant. R., i, 20, 5, 1-6: ηd fiÏÂȘ ÔÏÏa˜, Ùa˜ ÌbÓ ÔåÎÔ˘Ì¤Ó·˜ ηd ÚfiÙÂÚÔÓ ñe ÙáÓ ™ÈÎÂÏáÓ, Ùa˜ ‰\·éÙÔd ηٷÛ΢¿Û·ÓÙ˜, +ÎÔ˘Ó Ôî ¶ÂÏ·ÛÁÔd ÎÔÈÓ” ÌÂÙa ÙáÓ \A‚ÔÚÈÁ›ÓˆÓ, zÓ âÛÙÈÓ ≥ Ù K·ÈÚËÙ·ÓáÓ fiÏȘ, òAÁ˘ÏÏ· ‰b ÙfiÙ ηÏÔ˘Ì¤ÓË, ηd ¶›Û· ηd ™·ÙÔÚÓ›· ηd òAÏÛÈÔÓ Î·d ôÏÏ·È ÙÈÓb˜, L˜ àÓa ¯ÚfiÓÔÓ ñe T˘ÚÚËÓáÓ àÊ–Ú¤ıËÛ·Ó. iii, 58, 1, 7-2, 11: âd ÙcÓ K·ÈÚËÙ·ÓáÓ fiÏÈÓ qÁ ÙcÓ ‰‡Ó·ÌÈÓ, m ÚfiÙÂÚÔÓ ÌbÓ òAÁ˘ÏÏ· âηÏÂÖÙÔ ¶ÂÏ·ÛÁáÓ ·éÙcÓ Î·ÙÔÈÎÔ‡ÓÙˆÓ, ñe ‰b T˘ÚÚËÓÔÖ˜ ÁÂÓÔ̤ÓË K·›ÚËÙ· ÌÂÙˆÓÔÌ¿ÛıË, Â鉷›ÌˆÓ ‰\qÓ Âå η› ÙȘ ôÏÏË ÙáÓ âÓ T˘ÚÚËÓ›0 fiÏÂˆÓ Î·d ÔÏ˘¿ÓıÚˆÔ˜. Sull’argomento, v. anche Briquel 1991, pp. 241-243; Camporeale 2004, p. 182. 21 Briquel 1991, p. 243. 22 Pallottino 1937, p. 345. 23 Strab., v, 2, 2: (T˘ÚÚËÓfi˜) âÏıgÓ ‰b Ù‹Ó Ù ¯ÒÚ·Ó àÊ\ â·˘ÙÔÜ T˘ÚÚËÓ›·Ó âοÏÂÛ ηd ‰Ò‰Âη fiÏÂȘ öÎÙÈÛÂÓ, ÔåÎÈÛÙcÓ âÈÛÙ‹Û·˜ T¿ÚΈӷ, àÊ\ Ôy T·Ú΢ӛ· ì fiÏȘ, nÓ ‰Èa ÙcÓ âÎ ·›‰ˆÓ Û‡ÓÂÛÈÓ ÔÏÈeÓ ÁÂÁÂÓÓÉÛı·È Ì˘ı‡ԢÛÈ. 24 Scolio a Licofrone, 1242: T·Ú¯ÒÓÈÔÓ fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, àe TËϤÊÔ˘ ·È‰e˜ T¿Ú¯ˆÓÔ˜. 25 Briquel 1991, p. 155, che a nota 120 osserva che, oltre ai due nomi ricordati da Stefano, le fonti conoscono T·ÚÎÔ˘›Ó·È (Ptol., iii, 1) e T·Ú·ÓÈÔÈ (Dionys. Hal., ant. R., iii, 46, 5; Plut., fort. Rom., 318b 4). 26 Nel quale ritornano le forme T·Ú΢ӛ· e T¿ÚΈÓ. Cfr. Eustath., in Dionys. Perieg., 347: (Tyrrhenós) àÊ\Ôy ì ¯ÒÚ· T˘ÚÚËÓ›· âÎÏ‹ıË, È‚ fiÏÂȘ ÎÙ›Û·ÓÙÔ˜, ·x˜ ÔåÎÈÛÙcÓ â¤ÛÙËÛ T¿ÚΈӷ, Ôy ηd §˘ÎfiÊÚˆÓ Ì¤ÌÓËÙ·ÈØ nÓ ‰Èa ÙcÓ âÎ ·›‰ˆÓ Û‡ÓÂÛÈÓ ÔÏÈeÓ ÁÂÁÂÓÉÛı·› Ê·ÛÈÓ, àÊ\Ôy ηd fiÏȘ T·Ú΢ӛ·.

ÔQηd ÙÔf˜ Èı‹ÎÔ˘˜ Ê·Ûd ·Úa ÙÔÖ˜ T˘ÚÚËÓÔÖ˜ àÚ›ÌÔ˘˜ ηÏÂÖÛı·ÈØ Ôî ‰b Ùa˜ ™¿Ú‰ÂȘ ≠æ‰ËÓ çÓÔÌ¿˙Ô˘ÛÈÓ, Ôî ‰b ÙcÓ àÎÚfiÔÏÈÓ ·éÙɘ), che in realtà riferi-

sce due notizie da una medesima fonte sulla collocazione a Pitecusa degli Arimoi e sulla glossa etrusca Arimoi = Èı‹ÎÔÈ. Vedi infra, nota 117. 15 Che probabilmente corrisponde a Gorgona, per la quale si conosce la forma Urgo in Plin., nat. hist., iii, 81, e Pomp. Mela, ii, 122; cfr. RE, vii, 2, 1912, coll. 1655-1656, s.v. Gorgon (Weiss). 16 Per la distinzione funzionale tra etnico e ctetico, vedi Fedalto 2009. 17 Strab., v, 2, 3: òAÁ˘ÏÏ· ÁaÚ èÓÔÌ¿˙ÂÙÔ Ùe ÚfiÙÂÚÔÓ ì ÓÜÓ K·ÈÚ¤·, ηd ϤÁÂÙ·È ¶ÂÏ·ÛÁáÓ ÎÙ›ÛÌ· ÙáÓ âÎ £ÂÙÙ·Ï›·˜ àÊÈÁ̤ӈÓØ ÙáÓ ‰b §˘‰áÓ, Ô¥ÂÚ T˘ÚÚËÓÔd ÌÂÙˆÓÔÌ¿ÛıËÛ·Ó, âÈÛÙÚ·ÙÂ˘Û¿ÓÙˆÓ ÙÔÖ˜ \AÁ˘ÏÏ·›ÔȘ, ÚÔÛÈgÓ Ù† Ù›¯ÂÈ ÙȘ â˘Óı¿ÓÂÙÔ ÙÔûÓÔÌ· Ùɘ fiψ˜, ÙáÓ ‰\ àe ÙÔÜ Ù›¯Ô˘˜ £ÂÙÙ·ÏáÓ ÙÈÓfi˜ àÓÙd ÙÔÜ àÔÎÚ›Ó·Ûı·È ÚÔÛ·ÁÔÚ‡۷ÓÙÔ˜ ·éÙeÓ ¯·ÖÚÂ, ‰ÂÍ¿ÌÂÓÔÈ ÙeÓ ÔåˆÓeÓ Ôî T˘ÚÚËÓÔd ÙÔÜÙÔÓ êÏÔÜÛ·Ó ÙcÓ ÔÏÈÓ ÌÂÙˆÓfiÌ·Û·Ó. Sul passo di Strabone, cfr. anche Campo-

reale 2004, p. 194. 18 Ripetuto come voce autonoma nella variante Kairé (sb.17). 19 Secondo la ricostruzione di Plinio nella quale a dei primi invasori Pelasgi avrebbero fatto seguito dei Lidii, condotti, in conformità a quanto dice

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daniele f. maras · laura m. michetti

parte di Stefano – rendono plausibile che ci si trovi di fronte ad uno sviluppo a partire dal testo stesso del poema, nel quale Tarquinia non compariva.27 Altra importante menzione è quella di Króton (sb.20), sotto la cui voce vengono elencate, come è noto, tre città, la seconda delle quali è detta T˘ÚÚËÓ›·˜ ÌËÙÚfiÔÏȘ.28 Il ruolo di Cortona nella storia del dibattito sull’origine degli Etruschi e la posizione occupata da Erodoto nel dibattito stesso erano stati già largamente valorizzati nel 1947 da M. Pallottino.29 Sappiamo infatti che, nella ricostruzione di Ellanico circa l’arrivo dei Pelasgi in Italia, il ruolo di metropoli, come dichiarato in modo esplicito da Stefano, spetta proprio a Cortona, che, come già evidenziato da G. Colonna, pur non essendo una delle principali città etrusche, ma anzi un centro appartato, è ritenuto il luogo dal quale i Pelasgi, trasformatisi in Etruschi, sarebbero partiti per ‘colonizzare’ l’intero paese.30 Sbarcati infatti a Spina, i Pelasgi si sarebbero divisi: pochi sarebbero rimasti e avrebbero poi dato origine alla città, la maggior parte di essi si sarebbero invece addentrati nella penisola andando ad occupare il centro umbro di Cortona, dove, definitivamente stabilitisi, si sarebbero trasformati in Tirreni/Etruschi.31 Coerente con una simile ricostruzione delle origini etrusche sarebbe la qualifica, assegnata quindi non a Spina ma a Cortona, di metropolis di quel popolo, una metropolis in senso genealogico e non politicogerarchico.32 Il ruolo particolare conferito a Cortona da Ellanico, e forse prima di lui da Ecateo, sarebbe dunque da spiegare, secondo G. Colonna, come il riflesso nella storiografia greca della nuova espansione padana degli Etruschi tra tardo vi e v sec. a.C.: fondamentale, nel racconto di Ellanico, sarebbe il concetto della parentela-diversità fra Etruschi padani ed Etruschi tirrenici, i primi, seppur barbari, meno etruschi e più greci perché derivanti dai Pelasgi e più aperti nel v secolo nei confronti della frequentazione e della cultura greca.33 Di particolare interesse, inoltre, la possibilità di fare luce su una possibile opposizione tra una tradizione perugina, che vede Felsina in testa all’Etruria padana e fondata dal perugino Ocnus, e una tradizione “cortonesevolterrana”, imperniata su Tarchon e sulla periferica Mantua.34 D. Briquel, intervenendo in più occasioni sul ruolo di

Cortona nella saga dei Pelasgi in Italia,35 ha richiamato l’attenzione sul fatto che per Dionigi i Pelasgi sono uno degli elementi greci che hanno formato Roma.36 Se dunque in Italia solo i Romani si possono dire discendenti dei Pelasgi, in Etruria solo Cortona, necessaria per la dimostrazione della tesi, è presentata collegata a questo popolo.37 Rimanendo all’ambito padano, molto interessante la menzione di Atría (sb.10) quale fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, ¢ÈÔÌ‹‰Ô˘˜ ÎÙ›ÛÌ·. Se ci soffermiamo innanzitutto sul ruolo di Diomede quale fondatore, possiamo osservare, con D. Briquel, che siamo di fronte ad una tradizione che fa intervenire quest’eroe non a caso proprio in un comparto territoriale, quello adriatico, nel quale egli è ben noto, sia nel settore settentrionale – basti pensare a Spina38 – che in altre aree costiere più meridionali.39 Una simile tradizione relativamente al ruolo di Diomede in queste aree risalirebbe a Strabone che dipende a sua volta da Timeo e forse da Filisto40 e, secondo A. Mastrocinque, fu ampiamente utilizzata dalla propaganda filodionisiana.41 Come fonte di Plinio per Spina colonia diomedea e di Stefano Bizantino per Adria, G. Colonna ha proposto Callimaco, che viene più di una volta citato a proposito delle popolazioni indigene affacciate su quel mare.42 Di notevole interesse è poi l’accezione di Adria come “città tirrenica”, accezione rispetto alla quale Stefano si dimostra del tutto isolato. Giustino (xx, 1, 9) la definisce infatti Graeca urbs, seguendo una tradizione ben più consolidata nell’ambiente storico-letterario di matrice greca.43 Ma, come ben illustrato da D. Briquel,44 la tradizione riferita da Stefano trova invece paralleli in ambienti di cultura latina: Adria è presentata come una città etrusca ad esempio da Livio,45 laddove egli descrive l’espansione etrusca in area padana, o da Plutarco,46 per il quale Adria è una colonia degli Etruschi, così come da Plinio (iii, 16, 120), che la considera un oppidum Tuscorum. Nel quadro della spiegazione dell’origine etrusca dell’atrium il cui nome deriverebbe da quello di Adria, anche Varrone,47 Paolo nel compendio a Festo e attraverso di lui Verrio Flacco (P. Fest., 12 L), nonché l’interpolatore di Servio,48 fanno menzione degli Etruschi di questa città.49 Prende dunque forma una tradi-

27 Briquel 1991, p. 188. Secondo lo stesso Briquel, le precisazioni supplementari che Stefano o Tzetzes hanno forse apportato rispetto al testo di Licofrone non sembrano testimoniare una conoscenza diretta delle fonti del poema. 28 Sulla confusione Crotone-Cortona, vedi in particolare Briquel 1984, p. 127, e Rix 1993, p. 132. G. Colonna (1980, p. 1, nota 2) ha osservato che la convinzione che Cortona avesse avuto due nomi, in successione cronologica, si trova già in Dionigi di Alicarnasso (i, 26, 1), che parla di Króton e Korthonía: ö͈ ÁaÚ KÚfiÙˆÓÔ˜ Ùɘ âÓ \OÌ‚ÚÈÎÔÖ˜ fiψ˜ àÍÈÔÏfiÁÔ˘, ηd Âå ‰‹ ÙÈ ôÏÏÔ âÓ Ù” \A‚ÔÚÈÁ›ÓˆÓ ÔåÎÈÛıbÓ âÙ‡Á¯·ÓÂ, Ùa ÏÔÈa ÙáÓ ÂÏ·ÛÁáÓ ‰ÈÂÊı¿ÚË ÔÏ›ÛÌ·Ù·. ì ‰b KÚfiÙˆÓ ô¯ÚÈ ÔÏÏÔÜ ‰È·Ê˘Ï¿Í·Û· Ùe ·Ï·ÈeÓ

38 Colonna 2005 (= 1974a), p. 85; Camporeale 2004, pp. 183-184. 39 Briquel 1991, p. 300. Sulla fondazione di Adria da parte di Diomede e sul culto dell’eroe in ambito adriatico, vedi anche Colonna 1988; Mastrocinque 1990, pp. 51-55; Colonna 2003b, p. 4 sgg.; Camporeale 2004, p. 183 sg. 40 Strab., v, 1, 3: Ù·ÜÙ· ÁaÚ ¿ÚÍ¿ÌÂÓ· àe Ùɘ §ÈÁ˘ÛÙÈÎɘ Âå˜ T˘ÚÚËÓ›·Ó âÌ‚¿ÏÏÂÈ, ÛÙÂÓcÓ ·Ú·Ï›·Ó àÔÏ›ÔÓÙ·Ø ÂrÙ\ àÓ·¯ˆÚÔÜÓÙ· Âå˜ ÙcÓ ÌÂÛfiÁ·È·Ó ηÙ\ çÏÈÁÔÓ, âÂȉaÓ Á¤ÓËÙ·È Î·Ùa ÙcÓ ¶ÈÛÄÙÈÓ, âÈÛÙÚ¤ÊÂÈ Úe˜ ≤ˆ ηd Úe˜ ÙeÓ \A‰Ú›·Ó ≤ˆ˜ ÙáÓ ÂÚd \AÚ›ÌÈÓÔÓ Î·d \AÁÎáÓ· ÙfiˆÓ, Û˘Ó¿ÙÔÓÙ· â\Âéı›·˜ Ù” ÙáÓ ^EÓÂÙáÓ ·Ú·Ï›0. Strab., v, 2, 1: T˘ÚÚËÓÔd

Û¯ÉÌ· ¯ÚfiÓÔ˜ Ôé ÔÏf˜ âÍ Ôy Ù‹Ó Ù çÓÔÌ·Û›·Ó ηd ÙÔf˜ Ôå΋ÙÔÚ·˜ õÏÏ·ÍÂØ Î·d ÓÜÓ âÛÙÈ ^PˆÌ·›ˆÓ àÔÈΛ·, ηÏÂÖÙ·È ‰b KÔÚıˆÓ›·. G. Colonna (ibid.)

osserva inoltre che il nome Corythus sembra preferito a Cortona, da Virgilio e da Silio, perché ritenuto più antico ed illustre, così come avviene per Ágylla rispetto a Caere, da parte di Virgilio, o per Ilio rispetto a Troia in Omero. 29 Cfr. sull’argomento Briquel 2007, p. 34. 30 Colonna 1996, p. 109. Sul ruolo di Cortona, cfr. inoltre Camporeale 2004, pp. 181-183. 31 Colonna 1980, pp. 5-6; Id. 1993, pp. 131-132. Cfr. Dionys. Hal., ant. R., i, 28, 3: Ôî ¶ÂÏ·ÛÁÔd ñ\ ^EÏÏ‹ÓˆÓ àÓ¤ÛÙËÛ·Ó, ηd âd ™ÈÓÉÙÈ Ôٷ̆ âÓ Ù† \IÔӛŠÎÔÏÅ Ùa˜ ÓÉ·˜ ηٷÏÈfiÓÙ˜ KÚfiÙˆÓ· fiÏÈÓ âÓ ÌÂÛÔÁ›ŠÂxÏÔÓ Î·d âÓÙÂÜıÂÓ ïÚÌÒÌÂÓÔÈ ÙcÓ ÓÜÓ Î·ÏÂÔ̤ÓËÓ T˘ÚÛËÓ›ËÓ öÎÙÈÛ·Ó.

32 Colonna 1993, p. 132. Sul ruolo di Cortona come “città madre” e sulla saga dei Pelasgi in relazione agli Etruschi della Padana, vedi Sassatelli 2008, pp. 79-81. 33 Colonna 1980, p. 6. 34 Colonna 1980, pp. 13-14. 35 Briquel 1984, passim (in particolare pp. 4-6, 22-23, 101-168). 36 Come già osservato da Musti 1970, pp. 7-20. 37 Briquel 1984, p. 329.

‰b ·‡ÔÓÙ·È ñ\ ·éÙÔÖ˜ ÙÔÖ˜ ùÚÂÛÈ ÙÔÖ˜ ÂÚÈÎÏ›ԢÛÈÓ âÎ Ùɘ §ÈÁÔ˘ÛÙÈÎɘ Âå˜ ÙeÓ \A‰Ú›·Ó, àe Ùɘ ÔåΛ·˜ àÚÍ¿ÌÂÓÔÈ ı·Ï¿ÙÙ˘ ηd ÙÔÜ TÈ‚¤ÚȉԘ.

41 42 43 44 45 46

Mastrocinque 1990, pp. 51-55. Colonna 1993, p. 134. Cfr. Briquel 1991, pp. 300-301. Briquel 1991, pp. 305-306. Liv., v, 33, 7-9: …Hatria, Tuscorum colonia… Plut., Cam. 16, 1-2: Oî ‰\ âÌ‚·ÏfiÓÙ˜ Âéıf˜ âÎÚ¿ÙÔ˘Ó Ùɘ ¯ÒÚÔ˜ ¬ÛËÓ Ùe ·Ï·ÈeÓ Ôî T˘ÚÚËÓÔd ηÙÂÖ¯ÔÓ, àe ÙáÓ òAÏÂˆÓ â\ àÌÊÔÙ¤Ú·˜ ηı‹ÎÔ˘Û·Ó Ùa˜ ı·Ï¿ÛÛ·˜ ó˜ ηd ÙÔûÓÔÌ· Ì·ÚÙ˘ÚÂÖ Ù† ÏfiÁÅØ ÙcÓ ÌbÓ ÁaÚ ‚fiÚÂÈÔÓ ı¿Ï·ÛÛ·Ó \A‰Ú›·Ó ηÏÔÜÛÈÓ àe T˘ÚÚËÓÈÎɘ fiψ˜ \A‰Ú›·˜, ÙcÓ ‰b Úe˜ ÓfiÙÔÓ ÎÂÎÏÈ̤ÓËÓ ôÓÙÈÎÚ˘˜ T˘ÚÚËÓÈÎeÓ ¤Ï·ÁÔ˜.

47 Varr., l.L., v, 33, 161: …Atriates Tusci… 48 Serv., ad Verg. Aen., i, 726: alii dicunt Atriam Etruriae civitatem fuisse. 49 D. Briquel osserva peraltro che in queste fonti il nome non è Adría, forma che si ritrova in greco a partire da Ecateo, ma Atría, dove l’uso della sorda appare in conformità con l’etrusco che ignora le sonore e ne conferma quindi in qualche modo il collegamento con il mondo tirrenico: Briquel 1991, p. 306. Sulle fonti greche e latine relative alle origini di Adria, vedi inoltre Camporeale 2008, pp. 25-26.

un nome per più realtà: tirrenia e tirreni negli ethniká di stefano bizantino

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zione latina, non greca, dell’etruscità di Adria, risalente a Varrone, senza che sia necessario pensare che Stefano attinga direttamente a tale tradizione, né che ci si trovi in presenza di una vera tradizione locale, nata in Etruria padana.50 L’importanza della voce Atría degli Ethniká risiede in conclusione nel fatto di riportare un filone di tradizione isolato, che collega Adria al mondo etrusco e ne fa risalire l’origine agli inizi stessi dell’Etruria, all’epoca dell’arrivo di Tirreno dalla Lidia: si tratta, con ogni probabilità, della rielaborazione tarda di una leggenda nata nel territorio di Adria, dove sopravviveva la coscienza di un passato etrusco.51 Secondo G. Colonna, infatti, dopo la parentesi eginetica Adria deve essere passata nel v secolo sotto il diretto controllo etrusco, circostanza che deve essere avvenuta, sul piano giuridico-politico, necessariamente prima del 385 a.C. circa, quando divenne una colonia siracusana, poi soppiantata da un insediamento di Galli Boi,52 come ricorda lo stesso Stefano (sb.10) oltre ad Esichio.53 In una fase più recente, dopo la metà del iv sec. a.C., Adria, Spina e Mantova devono aver rappresentato, per citare G. Colonna, “un’isola di etruscità nel gran mare gallico della Padania”.54 Si aggancia a questo argomento la menzione degli Adriâtai (sb.45) che, secondo Stefano, vengono detti anche T˘ÚÚËÓÔ›. G. Colonna ha richiamato l’attenzione sul fatto che, a latere di quella precedentemente esposta, sussista un’altra tradizione relativa ad una colonizzazione guidata da Tyrrhenos e imperniata su Adria, e collegata quindi ancora una volta all’ambiente etrusco-padano: il riferimento succitato di Varrone (de l.L., v, 161) fa pensare che essa risalga almeno al ii sec. a.C.55 In quest’ottica, il lessico di Stefano rifletterebbe una sorta di ribaltamento del ruolo delle due Etrurie che doveva essere opinione comune di certi ambienti di cultura greca dell’epoca: l’Etruria arriva qui ad essere definita come «paese presso l’Adriatico, (che ha preso nome) da Tirreno».56 La successiva menzione, all’interno della stessa voce, degli Adriâtai come Tyrrhenoí e il riferimento etimologico di týrannos da tyrrhanós,57 farebbero pensare che tale ribaltamento sia motivato dagli intensi rapporti di Atene con gli Etruschi dell’Adriatico tra v e iv secolo a.C.58 Il lemma, di complessa interpretazione, deriva con ogni probabilità, attraverso Filocoro,59 da una fonte siracusana ostile agli Etruschi.60 Collegata con movimenti migratori degli Etruschi padani è probabilmente anche la menzione dei Reti (sb.36) come

T˘ÚÚËÓÈÎeÓ öıÓÔ˜. Come ci ricorda G. Colonna, la progressiva ‘espulsione’ degli Etruschi dalla Padania è infatti ritenuta dalle fonti letterarie antiche alla base della formazione del popolo alpino:61 non solo per Stefano Bizantino, ma anche per Livio, Trogo, Plinio il Vecchio, i Reti non sono altro che discendenti degli Etruschi che, cacciati dai Galli, si sono rifugiati nelle vallate alpine.62 Ciò costiuisce per noi un’ulteriore conferma della consapevolezza, da parte degli antichi, che gli Etruschi avessero un tempo occupato un notevole settore della regione Transpadana.63 A differenza dei Reti, i Liguri (sb.22) sono ritenuti solo öıÓÔ˜ ÚÔÛ¯b˜ ÙÔÖ˜ T˘ÚÚËÓÔÖ˜.64 Una fonte di Stefano potrebbe essere Dionigi, secondo il quale gli Aborigeni sono dei barbari immigrati in Italia centrale, in particolare dei Liguri venuti a stabilirsi in questa zona della penisola.65 Come rilevato da D. Briquel, il legame tra Liguri e Siculi viene stabilito, in un quadro probabilmente adriatico, da Filisto, per il quale i Siculi sono degli antichi Liguri che il loro capo aveva portato in Sicilia; questa idea, tuttavia, sembra implicare che in origine gli Aborigeni del Lazio siano concepiti come Liguri e allo stesso tempo identificati con i Siculi.66 Tornando a quelle che Stefano definisce fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, se per la menzione di Arrétion, Telamón e Selénes (sb.8, 43 e 37) Stefano sembra dipendere rispettivamente da Tolomeo e Strabone,67 Diodoro Siculo68 e di nuovo Strabone,69 maggiore interesse suscita la presenza di Phalérion, detta appunto fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, in contrasto con la voce Phalískos, definita ôÔÈÎÔ˜ \AÚÁ›ˆÓ. Tale discrasia si spiega anche in questo caso considerando che Stefano si serve evidentemente di due fonti diverse, individuabili rispettivamente in Strabone70 e Dionigi.71 Riflettendo sul testo di Strabone, D. Briquel ha osservato come ci fosse la tendenza a confondere Falisci ed Etruschi: il fatto che Falerii compaia spesso come una città etrusca, e il popolo come un populus Etruriae,72 ci mostra con evidenza che agli occhi degli antichi la civiltà falisca appariva come un riflesso locale della civiltà etrusca.73 Da parte sua Dionigi, descrivendo lo stabilirsi dei Pelasgi e degli Aborigeni in Etruria, tratta in separata sede il caso di Falerii e Fescennium, mostrandosi dunque anch’egli consapevole del carattere particolare del popolo falisco: a differenza delle città dell’Etruria propria, abbandonate dai Pelasgi e occupate dai Tirreni autoctoni, gli preme sottolineare, come ancora visibili al suo tempo, le tracce delle origini pelasgiche dei Falisci.74 Il posto speciale accordato ai

50 Briquel 1991, pp. 308-309. Sulla precocità e solidità della presenza etrusca ad Adria documentata dai dati archeologici, cfr. Colonna 2003a e, di recente, Sassatelli 2008, pp. 83-85; su particolari prodotti della plastica bronzea locale e sui rapporti con le produzioni etrusche, cfr. inoltre Bruni 2008, pp. 314-321. 51 Cfr. Briquel 1991, pp. 311-312, 316. 52 Colonna 2005 (= 1974a), p. 90. Cfr. anche Mastrocinque 1990, p. 37. 53 Hesych., s.v. \A‰ÚÈ·ÓÔ›Ø KÂÏÙÔ›, Ôî ·Úa ÙcÓ \A‰Ú›·Ó ÂÚ›ÔÈÎÔÈ. 54 Colonna 1993, p. 141. Significativo il nome Hatria con il quale i Romani hanno chiamato, all’inizio del iii sec. a.C., la loro prima colonia adriatica, nome che riprende quello con il quale ormai i Greci indicavano anche il mare che bagnava la costa medio-adriatica italiana e che era noto ai Romani per tramite etrusco, come suggerito dal trattamento fonetico della dentale: Colonna 2003a, p. 161, nota 20, e Colonna 2003b, p. 9 sgg. 55 Colonna 1980, p. 14, nota 71. 56 Colonna 1989, pp. 11-12. 57 Vedi infra, nota 141. 58 Cfr. Colonna 1989, nota 11. 59 FGrHist, iii B 328 F 100: ÂúÚËÙ·È Ù‡Ú·ÓÓÔ˜ àe ÙáÓ T˘ÚÚËÓáÓ ÙáÓ ‚È·›ˆÓ ηd ÏËÈÛÙáÓ ÁÂÓÔÌ¤ÓˆÓ âÍ àگɘ œ˜ ÊËÛÈ ÊÈÏfi¯ÔÚÔ˜. 60 Sull’argomento, cfr. di recente Colonna 2008, p. 45, nota 32. 61 Colonna 1989, p. 13. 62 Liv., v, 33, 11; Iust., xx, 5, 7; Plin., nat. hist., iii, 20, 133. 63 Cfr. Colonna 1989, pp. 13-14. 64 Vedi in generale Cordano 2006, p. 306 sgg., riguardo al rapporto tra i mari ligure e tirreno e le rispettive coste.

65 Dionys. Hal., ant. R., i, 10, 3, 1-6: ôÏÏÔÈ ‰b §ÈÁ‡ˆÓ àÔ›ÎÔ˘˜ Ì˘ıÔÏÔÁÔÜÛÈÓ ·éÙÔf˜ ÁÂÓ¤Ûı·È ÙáÓ ïÌÔÚÔ‡ÓÙˆÓ \OÌ‚ÚÈÎÔÖ˜Ø Ôî ÁaÚ §›Á˘Â˜ ÔåÎÔÜÛÈ ÌbÓ Î·d Ùɘ \IÙ·Ï›·˜ ÔÏÏ·¯”, Ó¤ÌÔÓÙ·È ‰¤ ÙÈÓ· ηd Ùɘ KÂÏÙÈÎɘ. ^OÔÙ¤Ú· ‰\ ·éÙÔÖ˜ âÛÙÈ ÁÉ ·ÙÚ›˜, ô‰ËÏÔÓØ Ôé ÁaÚ öÙÈ Ï¤ÁÂÙ·È ÂÚd ·éÙáÓ ÚÔÛˆÙ¤Úˆ Û·Êb˜ Ô鉤Ó. 66 Briquel 1993, pp. 118-119; Colonna 2004, p. 10 sgg. 67 Ptol., iii, 1, 43, 16; Strab., v, 2, 9: \EÓ ‰b Ù” ÌÂÛÔÁ·›0 fiÏÂȘ Úe˜ Ù·Ö˜ ÂåÚË̤ӷȘ \AÚÚ‹ÙÈfiÓ Ù ηd ¶ÂÚÔ˘Û›· ηd \O˘ÔÏÛ›ÓÈÔÈ Î·d ™Ô‡ÙÚÈÔÓ. 68 Diod. Sic., bibl. hist., iv, 56, 6, 1-5 (da Timeo): ·Ú·ÏËÛ›ˆ˜ ‰b ÙÔÖ˜ ÂåÚË̤ÓÔȘ ηÙa ÌbÓ ÙcÓ T˘ÚÚËÓ›·Ó àe ÛÙ·‰›ˆÓ çÎÙ·ÎÔÛ›ˆÓ Ùɘ ^PÒÌ˘ çÓÔÌ¿Û·È ÏÈ̤ӷ TÂÏ·ÌáÓ·, ηÙa ‰b ºÔÚÌ›·˜ Ùɘ \IÙ·Ï›·˜ Aå‹ÙËÓ ÙeÓ ÓÜÓ K·È‹ÙËÓ ÚÔÛ·ÁÔÚ¢fiÌÂÓÔÓ. 69 Strab., v, 2, 5, 11-12: ÙÔ‡ÙˆÓ ‰c ÌbÓ §ÔÜÓ· fiÏȘ âÛÙd ηd ÏÈÌ‹Ó, ηÏÔÜÛÈ ‰\Ôî ≠EÏÏËÓ˜ ™ÂÏ‹Ó˘ ÏÈ̤ӷ ηd fiÏÈÓ. Cfr. Cordano 2006, p. 308

sg. 70 Strab., v, 2, 9: öÓÈÔÈ ‰\Ôé T˘ÚÚËÓÔ‡˜ Ê·ÛÈ ÙÔf˜ º·ÏÂÚ›Ô˘˜ àÏÏa º·Ï›ÛÎÔ˘˜.

71 Dionys. Hal., ant. R., i, 21, 1, 1-4: º·Ï¤ÚÈÔÓ ‰b ηd º·ÛΤÓÓÈÔÓ öÙÈ Î·d Âå˜ âÌb qÛ·Ó ÔåÎÔ‡ÌÂÓ·È ñe ^PˆÌ·›ˆÓ, Ì›ÎÚ\ ôÙÙ· ‰È·ÛÒ˙Ô˘Û·È ˙Ò˘Ú· ÙÔÜ ¶ÂÏ·ÛÁÈÎÔÜ Á¤ÓÔ˘˜, ™ÈÎÂÏáÓ ñ¿Ú¯Ô˘Û·È ÚfiÙÂÚÔÓ. Ptol., iii, 1, 43: º·Ï¤ÚÈÔÓ. 72 Cfr. Plin., nat. hist., iii, 51, 8: (colonia) Falisca … quae cognominatur Etruscorum; Serv., ad Verg. Aen. vii, 607 (civitas Tusciae); Liv., v, 8, 5. 73 Briquel 1984, p. 327. 74 Briquel 1984, pp. 328-329.

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Falisci da Dionigi è motivato dal ruolo stesso che egli attribuisce ai Pelasgi, come ha spiegato D. Musti:75 i Pelasgi sono uno degli elementi greci che hanno formato Roma. Poiché dunque in Italia per Dionigi solo i Romani possono rivendicare le proprie origini pelasgiche, ne consegue, secondo D. Briquel, che in Etruria la sola Cortona, sulla quale si regge l’intera impostazione dionigiana come si è visto in precedenza, viene collegata ai Pelasgi.76 Come è noto, Dionigi individua le tracce di un’antica origine pelasgica e quindi argiva dei Falisci in alcuni elementi ben precisi, tutti fondamentalmente legati ad un dato religioso, il culto della dea Hera: armamento, esistenza di una categoria di sacedoti incaricati di questioni belliche, culti locali.77 Proseguendo il nostro excursus, per Oína (Oinaréa) e Ólkion (sb.25 e 27) Stefano dichiara le fonti delle quali si è avvalso,78 così come fa a proposito di Pikentía (sb.32),79 la cui connotazione etrusca è desunta probabilmente da Plinio.80 La versione riportata da Plinio e Stefano è confermata, secondo il parere di D. Briquel, da Strabone, quando fa riferimento alla città etrusca di Marcina, fondazione dei Tirreni caduta nelle mani dei Sanniti, che dovevano trovarsi nelle immediate vicinanze dell’ager picentinus.81 Questa espansione etrusca interessa il settore meridionale della Campania, la penisola di Sorrento (pure annoverata da Stefano quale fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, sb.40) e la piana del Silaris, vale a dire il comparto territoriale coinvolto dalla saga dei Pelasgi, circostanza che conferma di nuovo la coincidenza tra questa leggenda e la presenza etrusca. Gli Etruschi cui fanno riferimento Plinio e Stefano Bizantino equivalgono quindi, secondo D. Briquel, agli Aminei di cui parlano Aristotele e Varrone, seguendo il parallelismo messo bene in rilievo nella notizia di Strabone su Pompei tra la nozione leggendaria di Pelasgi e quella storica di Etruschi.82 Rientra nel medesimo filone la menzione di Noukría come fiÏȘ T˘ÚÛËÓ›·˜ (sb.24), a proposito della quale Stefano dichiara di aver attinto da Filisto. Dando per acquisito che si faccia riferimento alla Nuceria campana e non ad una Nuceria del Bruttium come alcuni hanno pensato,83 D. Briquel ritiene che la definizione di Stefano debba essere intesa in senso puramente geografico: quindi una città della Tirrenía, non una città dei Tirreni, con riferimento alla parte del-

la penisola che non è in Italia.84 G. Colonna, invece, fa risalire proprio a Filisto l’idea di un “forte radicamento etrusco nella Campania meridionale”,85 sebbene sottolinei la mancanza di qualsiasi riferimento cronologico ed il minore sviluppo di questa rispetto alle grandi città della Campania.86 Rimanendo alla Campania, contraddittoria è infine la definizione di Potíoloi, detta fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, ÎÙ›ÛÌ· ™·Ì›ˆÓ, ≥ÙȘ ηd ¢ÈηȿگÂÈ· (sb.35), mentre la stessa città, con il nome Díkaia (sb.14) è ritenuta \IÒÓˆÓ ôÔÈÎÔ˜, facendoci intravedere anche in questo caso la presenza di due fonti diverse.87 Passando ad esaminare il secondo gruppo, quello dei centri indicati come fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ, non pone problemi la presenza di Poplónion (sb.34), a proposito della quale Stefano sembra avere come fonte Aristotele e Tolomeo,88 mentre per Perousía (sb.29)89 è da segnalare l’ulteriore citazione di Perrhaísion (sb.30), fiÏȘ Ì›· ÙáÓ ·Úa ÙÔÖ˜ T˘ÚÚËÓÔÖ˜ àÚ¯ËÁÂÙ›‰ˆÓ ηÏÔ˘Ì¤ÓˆÓ.90 Motivi di interesse suscita anche la menzione di Bréttos (sb.12), a proposito della quale possiamo supporre che Stefano abbia attinto ancora una volta a Strabone,91 oltre che agli autori da lui esplicitamente ricordati, Aristofane e Antioco di Siracusa. D. Musti ritiene che la notizia di Stefano secondo cui Antioco parlerebbe di una Brettia divenuta Enotria e poi Italia sia probabilmente un autoschediasma sul testo di Strabone.92 La sequenza cronologica BrettiaEnotria-Italia appare infatti altamente improbabile e, per giunta, se Brettos è figlio di Eracle non può essere un personaggio anteriore ad Enotro che sarebbe venuto in Italia diciassette generazioni prima della guerra di Troia, mentre Eracle la precede di una o due generazioni.93 Interessante, secondo Musti, anche la citazione, a noi nota grazie al lemma di Stefano, di Aristofane che parla della “pece brettia”, a testimonianza della consapevolezza, in ambito attico, di una simile designazione dell’area, e di almeno una parte dei suoi abitanti.94 Da questa analisi preliminare dei siti italiani accostati da Stefano ai Tirreni o alla Tirrenia, emerge una sostanziale fedeltà dell’erudito alle fonti delle quali si avvale, tranne eccezioni tra le quali il fraintendimento del passo di Antioco appena menzionato. Alla medesima conclusione è giunto

75 Musti 1970, pp. 7-20. 76 Briquel 1984, p. 329. 77 D. Briquel ha messo in evidenza come nella nozione di una fondazione argiva di Falerii Stefano sia preceduto da Catone in Plinio, Ovidio, Solino e, in qualche misura, anche Virgilio e Silio Italico: Briquel 1984, p. 347. 78 Rispettivamente Aristotele (mir. ausc., 837b, 32-33: öÛÙÈ ‰¤ ÙȘ âÓ Ù” T˘ÚÚËÓ›0 fiÏȘ OåÓ·Ú¤· ηÏÔ˘Ì¤ÓË, mÓ ñÂÚ‚ÔÏ” Ê·ÛdÓ ç¯˘ÚaÓ ÂrÓ·È) e Polibio (vi, fr. 11b.2). Per Oína, si ricordi il tentativo di identificazione con Volsinii da parte del Niebuhr (HistRom, 1, p. 126). 79 Citando Phlegon (paradox, fr. 585, 3). 80 Plin., nat. hist., iii, 4, 70: a Surrento ad Silarum amnem triginta milia passuum ager picentinus fuit Tuscorum. 81 Strab., v, 4, 13, 251. Cfr. Briquel 1984, p. 615, nota 155. 82 Briquel 1984, p. 616. 83 Ad esempio, F. Jacoby (FGrHist, 556 F 43, comm., p. 510), che ha negato che si tratti della Nuceria campana, accostando invece il frammento ad altri concernenti una città sannita sconosciuta, Tyrseta, e Mystia nel Bruttium; sull’argomento, cfr. Briquel 1984, p. 573; Maras 2007, p. 413, nota 35. 84 Briquel 1984, p. 573. 85 Colonna 2002, p. 101, nota 44. 86 Colonna 1974b, p. 381. Per quanto riguarda i dati epigrafici, si consideri la proliferazione della documentazione nella fascia costiera, dall’agro picentino alla penisola sorrentina, con particolare riguardo a Pompei, Stabia ed alle recenti scoperte da Pontecagnano; cfr. da ultimo Pellegrino 2008, spec. p. 426 sgg. 87 Cfr. ad esempio Strab., v, 4, 6, 12-16: ëÍɘ ‰\ ÂåÛdÓ ·î ÂÚd ¢ÈηȿگÂÈ·Ó àÎÙ·d ηd ·éÙc ì fiÏȘ, qÓ ‰b ÚfiÙÂÚÔÓ ÌbÓ â›ÓÂÈÔÓ K˘Ì·›ˆÓ â\ çÊÚ‡Ô˜ î‰Ú˘Ì¤ÓÔÓ, ηÙa ‰b ÙcÓ \AÓÓ›‚· ÛÙÚ·Ù›·Ó Û˘ÓÑÎÈÛ·Ó ^PˆÌ·ÖÔÈ Î·d ÌÂÙˆÓfiÌ·Û·Ó ¶ÔÙÈfiÏÔ˘˜ àe ÙáÓ ÊÚ¿وÓ. Vedi anche infra, nota 116.

88 Arist., mir. ausc., 837b, 26-32: \EÓ ‰b Ù” T˘ÚÚËÓ›0 ϤÁÂÙ·› ÙȘ ÓÉÛÔ˜ Aåı¿ÏÂÈ· çÓÔÌ·˙Ô̤ÓË, âÓ Õ âÎ ÙÔÜ ·éÙÔÜ ÌÂÙ¿ÏÏÔ˘ ÚfiÙÂÚÔÓ ÌbÓ ¯·ÏÎe˜ èÚ‡ÛÛÂÙÔ, âÍ Ôy Ê·Ûd ¿ÓÙ· ÎÂÍ·ÏÎÂ˘Ì¤Ó· ·Ú\ ·éÙÔÖ˜ ÂrÓ·È, öÂÈÙ· ÌËΤÙÈ ÂñÚ›ÛÎÂÛı·È, ¯ÚfiÓÔ˘ ‰b ‰ÈÂÏıfiÓÙÔ˜ ÔÏÏÔÜ Ê·ÓÉÓ·È âÎ ÙÔÜ ·éÙÔÜ ÌÂÙ¿ÏÏÔ˘ Û›‰ËÚÔÓ, > ÓÜÓ öÙÈ ¯ÚáÓÙ·È T˘ÚÚËÓÔd Ôî Ùe ηÏÔ‡ÌÂÓÔÓ ¶ÔÏÒÓÈÔÓ ÔåÎÔÜÓÙ˜. Ptol., iii, 1, 4, 8-9: ¶ÔÏÒÓÈÔÓ fiÏȘ … ¶ÔÏÒÓÈÔÓ ôÎÚÔÓ. 89 Cfr. Strab., v, 2, 9, 2 (vedi supra, nota 67), e Cass. Dio, hist. Rom., 48, 14, 1: ηd Ôî ÌbÓ Ù·ÜÙ\ öÚ·ÙÙÔÓ, ï ‰b §Ô‡ÎÈÔ˜ ó˜ ÙfiÙ âÎ Ùɘ ^PÒÌ˘ àÉÚÂÓ, œÚÌËÛ ÌbÓ â˜ ÙcÓ °·Ï·Ù›·Ó, ÂåÚ¯ıÂd˜ ‰b Ùc˜ ï‰ÔÜ Úe˜ ¶ÂÚÔ˘Û›·Ó T˘ÚÛËÓ›‰· fiÏÈÓ àÂÙÚ¿ÂÙÔ. 90 Sulle tradizioni relative alla dodecapoli etrusca delle origini, cfr. Torelli 1985 (spec. p. 41 sg., riguardo a Perusia), Briquel 2001, p. 12 sgg., e Camporeale 2001, p. 25 sg. Vedi anche Briquel 2002, p. 12 sgg., spec. le note 11 e 13, con riferimento ai legami di Perugia con Mantova e con la dodecapoli padana. 91 Strab., vi, 1, 5 e passim: \Ae ‰b §¿Ô˘ ÚÒÙË fiÏȘ âÛÙd Ùɘ BÚÂÙÙ›·˜ TÂ̤ÛË (T¤Ì„·Ó ‰\ Ôî ÓÜÓ Î·ÏÔÜÛÈÓ) AéÛfiÓˆÓ ÎÙ›ÛÌ·, ≈ÛÙÂÚÔÓ ‰b ηd AåÙˆÏáÓ ÙáÓ ÌÂÙa £fi·ÓÙÔ˜, ÔR˜ âͤ‚·ÏÔÓ BÚ¤ÙÙÈÔÈ, BÚÂÙÙ›Ô˘˜ ‰b â¤ÙÚÈ„·Ó \AÓÓ›‚·˜ Ù ηd ^PˆÌ·ÖÔÈ. La notizia sul figlio di Eracle, nota anche ad Eustath., In Dionys. Perieg., 362, 8: BÚ¤ÙÙÈÔÈ ‰b ηÏÔÜÓÙ·È àe BÚ¤ÙÙÔ˘ ˘îÔÜ ^HÚ·ÎϤԘ; vedi infra, note 125 e 132. 92 Musti 1994, p. 67, nota 5. Lo stesso Musti osserva, peraltro, che questa è l’unica volta che Stefano cita Antioco (ivi, p. 274). 93 Musti 1994, p. 274. 94 Musti 1994, pp. 276-277, che si chiede se la pece sia menzionata direttamente, o solo come elemento di confronto con una lingua, considerata nera di un nero come quello della rinomata pece.

un nome per più realtà: tirrenia e tirreni negli ethniká di stefano bizantino

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Fig. 1. Cartina della Macedonia: in evidenza la regione dell’Elimiotide con i centri di Aiané ed Elimía (rielaborato a partire da Papazoglou 1988).

Portando l’attenzione al di fuori della penisola italiana, i riferimenti di Stefano Bizantino ai Tirreni sono senz’altro meno frequenti: nella fattispecie, le fonti riassunte dal lessi-

cografo conoscono significativamente solo Tirreni dell’Egeo e Tirreni di Macedonia. Per i primi il compilatore bizantino non include che un accenno alla coincidenza onomastica tra il nome Aithále/Aitháleia dell’isola d’Elba e di Lemnos (sb.3b, da Polibio) ed il riferimento alla fondazione della lesbia Métaon da parte di un Métas Tirreno (sb.23, da Ellanico). I due riferimenti si collocano però in un più ampio contesto di riferimenti ai Tirreni dell’Egeo, comprendente principalmente gli abitanti dell’isola di Lemnos, la cui storia si intreccia con quella dei Pelasgi e con le tradizioni sulle migrazioni pre- e protoelleniche verso l’Italia.99 Anche per i Tirreni della Macedonia, Stefano non conserva che i due brevi riferimenti – peraltro privi di indicazione della fonte – alla fondazione delle città di Aiané ed Elimía (sb.2 e 16), poste in una regione interna che prende il nome di Elimiotide (Fig. 1),100 rispettivamente da parte di Aianos e di suo padre Elymos (o Elymas), re dei Tirreni. Nonostante l’isolamento, la fonte merita di essere presa in considerazione ed è indicativa dell’estensione del nome etnico, sia pure sul piano mitistorico, anche ad altre genti dell’area balcanica. Al di là della scarsità delle attestazioni, la presenza di Tirreni in tali sedi acquista un particolare valore in considerazione della distribuzione della voce T˘ÚÚËÓ›· (in un solo caso T˘ÚÛËÓ›·101), che sembra non ricorrere mai nei contesti

95 Whitehead 1994, pp. 102-103. Un diverso approccio è in Fraser 2009, pp. 283-311. 96 Cfr. L. Robert, in Hellenica 2, 1946, pp. 65-93: riferimenti in Whitehead 1994, p. 104. 97 Whitehead 1994, p. 105. 98 D. Whitehead ha calcolato, relativamente alla menzione delle poleis greche, un corretto uso delle citazioni di questi due autori, che arriva al 75%: Whitehead 1994, p. 119. Vedi anche di recente Fedalto 2009, p. 601 sgg.

099 Cfr. diffusamente Briquel 1991 e 1993, e vedi Rix 1993, p. 131 sgg. 100 Cfr. Papazoglou 1988, pp. 247 sg. e 249 sg. Il nome di Aiané è probabilmente continuato oggi da quello del villaggio di Kaliani; cfr. M. Errington, in Neue Pauly, 1, Stuttgart-Weimar 1996, col. 308 sg., s.v. Aiane, e vedi già Hirschfeld, in re , i, 1, 1893, col. 925, s.v. Aiane). 101 sb.24, da Filisto in riferimento a Noukría, da collocare in Campania ovvero in Calabria (bibliografia in Maras 2007, p. 413 sg., note 35 e 39, cui

D. Whitehead nella sua analisi relativa alla presentazione, nel lessico di Stefano, delle poleis greche,95 in antitesi con l’opinione largamente condivisa di una collazione acritica operata da Stefano nei confronti delle sue fonti, sia storiche che poetiche.96 L. Robert ha anche messo in evidenza l’abitudine di Stefano, nei casi in cui non aveva a disposizione l’etnico di una città, di fabbricarlo ex-novo per analogia, con la conseguenza che tali informazioni possono essere non esatte. Rispetto a questa posizione in larga misura critica nei confronti dell’erudito bizantino, D. Whitehead ha tentato al contrario di valorizzare l’opera di questo autore, che è spesso onesto nei confronti dei lettori, ad esempio quando ammette di aver ricostruito determinati etnici per analogia. Occorre dunque dare maggior credito al lessico, in particolare per ciò che concerne la classificazione dei siti.97 Stefano si dimostra fedele più agli storici che ai poeti (ad es. Callimaco) e tra gli storici è più fedele agli autori di opere simili alla sua, cui probabilmente si è in parte ispirato nella struttura dei suoi Ethniká: Strabone e Pausania.98 L. M. M. 2. Il contesto Mediterraneo

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extra-italiani,102 a dimostrazione del fatto che nelle fonti greche non esiste una regione con questo nome al di fuori dell’Italia. Ma è altrettanto interessante osservare come negli Ethniká anche la definizione fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ è utilizzata solo per l’Italia,103 mentre nei riferimenti extra-italiani gli unici ad essere qualificati come “tirreni” (o “re dei Tirreni”) sono gli ecisti eponimi e non le città stesse. Se ne può dedurre che il nome di Tirreni, nelle fonti raccolte (e selezionate) da Stefano Bizantino viene attribuito ad un vero e proprio ethnos, dotato di proprie città e di una propria sede, solo nel caso dei Tirreni d’Italia,104 mentre negli altri contesti in cui compare serve a fornire la qualificazione etnica di un personaggio miti-storico. Ma si può andare oltre: in tutte le occorrenze extra-italiane, si può riconoscere l’intenzione di riferirsi a quei Tirreni che in futuro si sarebbero trasferiti in Italia, come sembra chiaramente esplicitato nel caso dei Pelasgi rimasti nell’Egeo, citati in una notizia di Andron (sb.15: ÌÂÙa … ¶ÂÏ·ÛÁáÓ ÙáÓ ÔéÎ à·Ú¿ÓÙˆÓ Âå˜ T˘ÚÚËÓ›·Ó). Le due attestazioni del re dei Tirreni \EχÌÔ˜ ovvero *\Eχ̷˜,105 ricordato assieme al figlio \AÈ·Ófi˜ in qualità di fondatori di due città della Macedonia interna, vanno confrontate con ogni probabilità con le notizie della presenza di Elimo, eponimo dell’ethnos omonimo della Sicilia, fra i compagni di Enea,106 e con quelle relative al loro passaggio in Macedonia,107 che però in genere si riferiscono alla costa traco-macedone.108 Il collegamento tra l’eroe ed i Tirreni si giustifica probabilmente solo nell’ottica delle destinazioni occidentali, prima in Sicilia e poi sulla costa tirrenica, del viaggio degli Eneadi.109 Più complesso è il discorso relativamente al Métas Tirreno, fondatore di Métaon nell’isola di Lesbo (sb.23), tanto più significativa in quanto proveniente da una notizia del lesbio Ellanico. Da altre fonti sappiamo che per questo autore il nome di Tirreni fu assunto dai Pelasgi solo dopo il trasferimento in Italia,110 pertanto l’etnico di Métas può riferirsi solamente ad una contro-migrazione dall’Italia verso l’Egeo111 ovvero ad un’anticipazione del nome etnico alle sedi originarie, dovuta alla stringatezza della citazione.112

In base a quanto osservato, la menzione di Tirreni fuori d’Italia nelle fonti degli Ethniká può essere ragionevolmente imputata al riferimento a contesti mitistorici sulle origini dell’ethnos etrusco e sulle migrazioni di popoli che l’hanno preceduta. Accettando tale ipotesi, il dato serve a confermare ulteriormente la generale attendibilità dell’utilizzo delle fonti da parte di Stefano Bizantino, pur nella brevità delle citazioni, che a volte favorisce la possibilità di fraintendimenti.113 In quest’ottica, si possono ancora fare alcune considerazioni per tentare di spiegare la connotazione tirrenica di luoghi d’Italia esterni all’Etruria storica, che in alcuni casi si riferiscono a regioni lontane,114 senza dare per scontata la presenza di errori di attribuzione, a volte effettivamente riscontrati negli Ethniká.115 A questo proposito, per sgombrare il campo, vanno menzionati innanzitutto due casi in cui il nome della Tirrenia sembra essere stato utilizzato in modo improprio. Va infatti attribuito ad un tipico errore di collazione da parte del lessicografo il riferimento alla T˘ÚÚËÓ›· nei lemmi riguardanti Potíoloi (sb.35) e Pithekoûssai (sb.31), per il quale si trova una giustificazione in altre voci dello stesso lessico. Infatti Potíoloi era già stato dato come nome alternativo di Díkaia, definita colonia ionica âÓ Ù† T˘ÚÚËÓÈΆ ÎÔÏ† (sb.14) – un riferimento puramente geografico116 –, mentre Pitekoussai era stata menzionata a proposito dello òAÚÈÌ· ùÚË come sede di Tirreni, fraintendendo una notizia di Strabone.117 Per quanto riguarda i centri della Campania, va rilevato che le fonti degli Ethniká sono piuttosto eterogenee nell’attribuire all’Italía non solo Kýme, Neápolis, Teanón, ma anche l’etrusca Kápya, mentre sono definite fiÏÂȘ T˘ÚÚËÓ›·˜ Pikentía (sb.32) e Syrréntion (sb.40) ovvero fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ Ploútion (sb.33). Fonte principale per i lemmi ‘tirrenici’ sembra essere Strabone, che conosce i primi due nomi nella forma in cui sono riportati da Stefano Bizantino118ed al quale si può attribuire il terzo se emendabile in ÏÔ˘ÙÈÔÓ,119 mentre gli altri esempi citati vanno attribuiti ad altra fonte.120 Anche in tal caso la connotazione tirrenica dei centri sembra dipendere da un’applicazione estensiva del nome geo-

si aggiunga Mele 2010, p. 298). Sulla distinzione tra -ÚÚ- e -ÚÛ-, vedi anche Briquel 1993, p. 198, e Rix 1993, p. 131.

109 Limitativa e metodologicamente scorretta mi sembra la riduzione della fonte ad un doppio errore a partire da un etnico *T˘ÚÈÛ(Û)ËÓáÓ (genitivo) > T˘ÚÛËÓáÓ > T˘ÚÚËÓáÓ (cfr. RE, i, 1, 1893, col. 925, s.v. Aianos [Tümpel]), che chiamerebbe in causa la vicina città macedone di T‡ÚÈÛÛ·, menzionata da Ptol., iii, 12, 36, sulla quale vedi Papazoglou 1988, p. 158 sg. 110 Apud Dionys. Hal., ant. R., i, 28 (= FGrHist, i 4 F 4): ^EÏÏ¿ÓÈÎÔ˜ ‰b ï §¤Û‚ÈÔ˜ ÙÔf˜ T˘ÚÚËÓÔ‡˜ ÊËÛÈ ¶ÂÏ·ÛÁÔf˜ ÚfiÙÂÚÔÓ Î·ÏÔ˘Ì¤ÓÔ˘˜. âÂȉc ηÙÑÎËÛ·Ó âÓ \IÙ·Ï›0, ·Ú·Ï·‚ÂÖÓ mÓ ÓÜÓ ö¯Ô˘ÛÈ ÚÔÛËÁÔÚ›·Ó. 111 Come pensa Briquel 1984, p. 281 sgg., e Idem 1993, p. 183, sulla scorta di un altro storico lesbio, Mirsilo di Metimna (FGrHist, iii B 477 F 8-9), e con riferimento alla dottrina degli attidografi relativamente ai Pelargoí. 112 E forse sottintendente un collegamento con la fase finale della permanenza dei Pelasgi in Egeo, prima del trasferimento (parziale) in Italia. 113 Vedi supra, § 1, spec. nota 98. 114 Vedi supra, nota 8. 115 Cfr. Maras 2007, p. 408. 116 Va notato che nella compilazione delle voci Díkaia, Dikaiárcheia e Potíoloi Stefano Bizantino sintetizza diverse fonti che fanno della prima uno \IÒÓˆÓ ôÔÈÎÔ˜, della seconda una fiÏȘ \IÙ·Ï›·˜ e della terza una fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜, ÎÙ›ÛÌ· ™·Ì›ˆÓ. 117 Strab., xiii, 4, 6, 14-15, in cui il geografo riporta due diverse notizie dalla stessa fonte, secondo la quale il monte si troverebbe a Pitecusa e “le scimmie si chiamano àÚ›ÌÔÈ presso i Tirreni” (non necessariamente sottintendendo che detti Tirreni si trovino sull’isola). 118 Cfr. rispettivamente Strab., v, 4, 13 (¶ÈÎÂÓÙ›·: si noti che poco prima i Tirreni sono stati menzionati come primi abitanti di Marcina), e v, 4, 8 (™˘ÚÚÂÓÙfiÓ). 119 Strab., v, 4, 5. 120 Come dichiarato in alcuni casi dallo stesso compilatore: Ecateo per Capua (FGrHist, i 1 F 62) e Artemidoro per Teano (non compreso in FGrHist, iii B 438); relativamente alla prima, cfr. però Antonelli 2008, p. 107, nota 21, con bibl.

102 Unico caso non accertato è quello di Aíneia (sb.4), fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜ distinta dall’omonimo ÙfiÔ˜ £Ú2΢, per la quale non è data un’indicazione più precisa, ma che va probabilmente messa in relazione con le peregrinazioni occidentali di Enea; vedi infra, nota 108. 103 Si aggiunga il caso di Aithále, definita ÓÉÛÔ˜ T˘ÚÛËÓáÓ sulla base di una notizia di Ecateo (FGrHist, i 1 F 59). 104 Vedi supra, § 1. 105 Stefano riporta le due varianti rispettivamente a proposito di Aiané (sb.2) e di Elimía (sb.16), distinguendo in questo secondo caso esplicitamente il nome dell’eroe \EχÌÔ˜ (vedi però RE, v, 2, 1905, col. 2469, s.v. Elymos, 2 [Tümpel]); è interessante invece osservare però come il lemma Aiané degli Ethniká sia stato ripreso non solo dall’Etymologicum Symeonis (i, 136, 25-27) e da Herodian., i, 172, 1, e i, 288, 10-12, ma anche dal Lexicon dello PseudoZonara (A, 75, 16-19), che riporta una tradizione alternativa del nome, che ha tutto l’aspetto di una lectio difficilior: \IÏ˘Ì¿ÓÙÔ˜ (genitivo), evidente corruzione da Ï˘Ì¿ÓÙÔ˜, genitivo alternativo di *\Eχ̷˜. 106 Vedi p. es. Strab., xiii, 1, 53, 17-31. 107 Vedi p. es. il passo citato di Strabone, ma anche Lycophr., Alex., 1238-1239, ripreso da Stefano Bizantino (sb.5). Sull’argomento, cfr. anche Antonelli 2008, p. 106 sg. 108 A tale proposito, va menzionata di nuovo la coincidenza onomastica riportata dagli Ethniká tra Aíneia, ÙfiÔ˜ £Ú2΢ e un’omonima fiÏȘ T˘ÚÚËÓ›·˜ (sb.4), che rimanda evidentemente a luoghi toccati dal viaggio di Enea, il cui punto d’arrivo in Tirrenia è sancito da un frammento di Licofrone citato da Stefano Bizantino in relazione all’Almopía di Macedonia (sb. 5); per una proposta di identificazione con Veio della Aíneia tirrenica, cfr. Colonna 2009, p. 71, nota 108.

un nome per più realtà: tirrenia e tirreni negli ethniká di stefano bizantino

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T˘ÚÚËÓ›‰Ô˜ (sb.41), pertanto, fa riferimento al mare in quanto città costiera, ma dipende probabilmente da un uso erroneo del termine, se come sembra la fonte utilizzata è Strabone, che in tale occorrenza utilizza il nome T˘ÚÚËÓ›·.131 La dicitura T˘ÚÚËÓÈÎeÓ ¤Ï·ÁÔ˜ ricorre invece nella definizione della Corsica (sb.19), che riassume un mito di fondazione riportato più estesamente ancora una volta da Eustazio;132 il T˘ÚÚËÓÈÎe˜ ÎfiÏÔ˜ è invece menzionato a proposito della colonia ionica di Díkaia/Pozzuoli (sb.14).133 Ancora relativo al mare, infine, è l’uso dell’aggettivo T˘ÚÚËÓÈÎfi˜ per connotare le isole Artemíta (sb.9)134 e Banaurídes (sb.11), da emendare certamente in B·Ú›‰Â˜ sulla base di quanto riportato alla voce °˘ÌÓËÛ›·È (sb.13).135

grafico a tutta la Campania, in parte derivante dal metodo di estrazione delle notizie dalle diverse fonti. Dalla medesima qualifica tirrenica della Campania, dipende la definizione di Sýessa come fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ (sb.39), dal momento che Dionigi d’Alicarnasso considera gli Aurunci, coinvolti nelle vicende di Suessa Pometia, un popolo della Campania121 e che la confusione geografica è stata probabilmente facilitata dalla coincidenza onomastica tra il centro laziale122 e quello campano.123 La traccia di un’applicazione estensiva del nome ‘tirreno’ anche all’Umbria tiberina è costituita dalle definizioni di Okríkola e Týderta rispettivamente come fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ (sb.26) e fiÏȘ T˘ÚÚËÓÈ΋ (sb.44). In questo caso i lemmi hanno qualche probabilità di dipendere da una fonte corografica, per quanto non rintracciabile con certezza.124 Resta ancora da trattare il caso di Bréttos fiÏȘ T˘ÚÚËÓáÓ (sb.12), identificata come patria dei BÚ¤ÙÙÈÔÈ e probabilmente derivante da una retroformazione a partire dal nome etnico, al quale si riferisce l’eponimia da parte di Brettos figlio di Eracle, secondo l’anonima fonte di Eustazio.125 La coniazione del poleonimo è da attribuire presumibilmente allo stesso Stefano Bizantino, che potrebbe aver operato una sintesi tra diverse fonti, tra le quali Strabone126 deve aver avuto un ruolo di primo piano.127 In tale contesto, la connotazione tirrenica della supposta città potrebbe essere derivata da un riferimento alla costa del mar Tirreno, quale quello che ricorre in un passo di Antioco citato proprio da Strabone.128 In effetti, le denominazioni del mare dei Tirreni negli Ethniká sono varie e diverse fra loro e gettano luce sulle diverse accezioni delle fonti da cui derivano.129 Il nome più comune, attestato tre volte è T˘ÚÚËÓ›˜ (o T˘ÚÛËÓ›˜), utilizzato nell’ambito della definizione geografica delle Alpi (il cui arco va dal Tirreno all’Adriatico, sb.6: Úe˜ ôÚÎÙÔÓ Ùɘ T˘ÚÚËÓ›‰Ô˜ ηd \IÔÓ›·˜ ı·Ï¿ÛÛ˘) e delle isole °˘ÌÓËÛ›·È (da identificare con le Baleari secondo Stefano, che si trovano presso il mare Tirreno, sb.13: ÓÉÛÔÈ ÂÚd ÙcÓ T˘ÚÛËÓ›‰·),130 nonché come alternativa a T˘ÚÛËÓc ı¿Ï·ÛÛ· (sb.45). La definizione di Tarkynía fiÏȘ

Un’ultima riflessione va fatta a proposito dei lemmi degli Ethniká in cui è assente la menzione dei Tirreni, laddove invece sarebbe attesa (è il caso di Kapýa, Kurtónios, Spîna definite fiÏÂȘ \IÙ·Ï›·˜, cui si aggiunge il ÔÏ›¯ÓÈÔÓ Pýrgessa136) o sarebbe stata possibile (p.es. per Aríminon, Népetos, Rábenna e Phalískos, anch’esse fiÏÂȘ \IÙ·Ï›·˜; Adría è invece semplicemente una fiÏȘ presso l’omonimo ÎfiÏÔ˜ \A‰ÚÈ¿˜). È senz’altro ragionevole supporre che in tutti questi casi l’assenza di riferimenti tirrenici fosse già nelle fonti originarie, come si può facilmente immaginare per Ecateo, il cui unico riferimento accertato ai Tirreni riguarda l’isola Aåı¿ÏË (sb.3a);137 ma in almeno uno degli altri casi Polibio, chiamato in causa relativamente a Kyrtónios, parla esplicitamente della T˘ÚÚËÓ›·.138 Scorrendo la lista si osserva facilmente come essa comprenda alcuni dei centri chiamati in causa per le tradizioni pelasghe sulle origini etrusche, Cortona,139 Ravenna,140 Spina,141 ma anche Phalískos, doppione di Phalérion/Falerii, ricordato in quanto ôÔÈÎÔ˜ \AÚÁ›ˆÓ.142 Sembra evidente che in tali contesti, la menzione dei Tirreni poteva essere inappropriata, dal momento che per alcuni autori tale nome sarebbe stato assunto dai Pelasgi solo dopo essere giunti in Italia.143 Da questo punto di vista, si può forse aggiungere all’elenco anche Króton – altro nome greco di Cortona –,

121 Dionys. Hal., ant. R., vi, 32, 1-3. Sull’argomento mi propongo di tornare in altra sede. 122 Citato ad esempio da Strab., v, 3, 10; Dionys. Hal., ant. R., iv, 50, 2; iv, 51, 1-2; iv, 53, 2; iv, 59, 1; vi, 74, 2; Eutr., i, 8, 4. 123 Il solo presente in Ptol., 3, 1, 59, nella variante ™Ô‡ÂÛÛ·, nota anche a Strabone e Dionigi d’Alicarnasso. Si noti infine che la menzione di Tirreni, Campani e pianura Pometina compare in un altro passo dello stesso Dionigi (A.R., vii, 1, 3). 124 Si veda per confronto Ptol., iii, 1, 47: òOÌ‚ÚˆÓ Ô¥ ÂåÛÈÓ àÓ·ÙÔÏÈÎÒÙÂÚÔÈ TÔ‡ÛÎˆÓ … TÔ܉ÂÚ … \OÎÚ›ÎÔÏÔÓ. 125 Eustath., In Dionys. Perieg., 362; vedi infra, nota 132. 126 Che conosce BÚÂÙÙ›· e BÚ¤ÙÙÈÔÈ (passim), ma anche probabilmente B·ÏÂÙ›· (vi, 3, 6, 3, con correzione approvata da Meineke 1849, p. 186, nota ad l. 8, a partire da \AÏËÙ›·). 127 Vedi supra, nota 91. 128 Strab., vi, 1, 4 (= FGrHist, iii B 555 F 3a): Úe˜ ÌbÓ Ù† T˘ÚÚËÓÈΆ ÂÏ¿ÁÂÈ; vedi anche infra, nota 132. 129 Cfr. in generale Cordano 2006. 130 Vedi infra, nota 135. 131 Strab., v, 2, 2; vedi supra, nota 23. 132 Eustath., In Dionys. Perieg., 458: TcÓ ‰b K‡ÚÓÔÓ Î·d KÔÚÛ›‰·, ÊËÛd, ηÏÔÜÛÈÓ, j ηٿ ÙÈÓ· ÙáÓ àÓÙÈÁÚ¿ÊˆÓ KÔÚۛηÓ. … §¤ÁÂÙ·È ÁaÚ ¬ÙÈ ÓÉÛÔ˜ âÓ Ù† T˘ÚÛËÓÈΆ ÂÏ¿ÁÂÈ KÔÚÛd˜ àe KfiÚÛ˘ ‰Ô‡Ï˘ ‚Ô˘ÎÔÏÔ˘. Le fonti sul mito sono raccolte in Colonna 2004, p. 14 sg.; ci si può domandare se anche in questo caso, come per la notizia su Bréttos (supra, nota 128), la fonte comune a Stefano Bizantino e ad Eustazio non sia stata Antioco, come indiziato dall’uso della medesima locuzione. Per il lemma alternativo K‡ÚÓÔ˜, in cui l’isola è definita ÓÉÛÔÓ ÚfiÛ‚ÔÚÚÔ˜ \I·˘Á›·˜, da una notizia di Ecateo (FGrHist, i 1 F 60), cfr. Antonelli 2008, p. 214 sg. 133 Vedi supra, nota 116. 134 Da Heren. Phil., FGrHist, iii C 790 F 28, verosimilmente l’odierna Giannutri; vedi p. es. Plin., nat. hist., iii, 81, e cfr. Colonna 2000, p. 48 e nota 10 (con bibl.).

135 Cfr. già Holstenius, cit. in Meineke 1849, p. 157, nota ad l. 15, e v. Billerbeck 2006, p. 327, nota 18, con bibl. L’identificazione con le Baleari si ritrovava già in Dionys. Hal., ant. R., v, 17, 1, che va considerata fonte primaria dei lemmi, ma che non comprendeva il riferimento tirrenico. Per il prolungamento ad occidente dell’estensione del mare Tirreno, presente già in Eratostene (apud Plin., nat. hist., iii, 75), cfr. Cordano 2006, p. 313 sgg. Al nome del mare Tirreno si può collegare anche il riferimento alla pirateria tirrenica (sb.21, in relazione ai legami insolubili, ‘da marinaio’), sulla scorta di Serv., ad Verg. Aen., i, 67, su cui v. Camporeale 2004, p. 194. 136 Per la quale cfr. Colonna 2000, p. 48. 137 Nota anche nella variante Aåı¿ÏÂÈ·, che però per Polibio era anche uno dei nomi dell’isola di Lemno. 138 Polyb., iii, 82, 9. 139 Briquel 1984, p. 101 sgg., e Camporeale 2004, p. 185 sg. 140 Briquel 1984, p. 31 sgg. 141 Briquel 1984, p. 3 sgg. A Spina si lasciano facilmente associare Ariminum (ivi, pp. 33 e 36; e cfr. Camporeale 2004, p. 185) e Adria (ibid., p. 77 sg.; e cfr. Antonelli 2008, p. 161). Adria e l’Adriatico ritornano in causa negli Ethniká anche nella voce T˘ÚÚËÓ›·, definita ¯áÚ· Úe˜ Ù† \A‰Ú›0 (sb.45, vedi supra, § 1), presumibilmente sulla scorta di fonti ateniesi (e in seconda battuta siracusane), come sembra sottintendere il riferimento finale al dialetto dorico e all’etimologia del Ù‡Ú·ÓÓÔ˜ (cfr. Briquel 1993, pp. 182 e 197). A tale proposito proporrei di considerare la sequenza àe T˘ÚÚËÓÔÜ (l. 15) una ripetizione di l. 11 e di emendare pertanto l’intera frase finale in questo modo: ϤÁÔÓÙ·È Î·d T˘ÚÚËÓÔd Ôî \A‰ÚÈÄÙ·È Î·Ùa ¢ˆÚ›‰· ‰È¿ÏÂÎÙÔÓ, àÊ\ Ôs ηÙa àÊ·›ÚÂÛÈÓ Î·d ÁÚ¿ÌÌ·ÙÔ˜ ÚÔÛı¤ÛÂÈ Ù‡Ú·ÓÓÔ˜ âÎÏ‹ıË (cfr. Meineke 1849, p. 643, ll. 14-17, e nota, nonché Briquel 1993, p. 196, nota 87). 142 Vedi supra, nota 77, e cfr. Briquel 1984, p. 327 sgg., spec. p. 347 sg. 143 P. es. Ellanico; vedi supra, nota 110. Per la “geografia etrusca di Virgilio” che “tende a ricalcare quella pelasgica”, cfr. Colonna 1981, p. 159 sg., con osservazioni sui toponimi menzionati e su quelli tralasciati dal poeta.

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menzionata quale T˘ÚÚËÓ›·˜ ÌËÙÚfiÔÏȘ e distinta dall’omonima città magno-greca e da un’altrimenti ignota ÔÏȘ \IÙ·Ï›·˜ (sb.20), che però ha qualche probabilità di es-

sere una reduplicazione della medesima città, derivante dalla lettura di due fonti diverse. D. F. M.

Indice delle concordanze (da Meinecke 1849)144 SB.1

23, 11-18, s.v. òAÁ˘ÏÏ·

SB.16

267, 5-9, s.v. \EÏÈÌ›·

SB.32

523, 9-10, s.v. ¶ÈÎÂÓÙ›·

SB.2

37, 7-10, s.v. Aå·Ó‹

SB.17

347, 3-4, s.v. K·ÈÚ‹

SB.33

528, 1-2, s.v. ¶ÏÔ‡ÙÈÔÓ

SB.3, a

46, 6-9, s.v. Aåı¿ÏË

SB.18

356, 9-11, s.v. K·›ÓÓ·

SB.34

532, 22-23, s.v. ¶ÔÏÒÓÈÔÓ

SB.3, b

46, 9-19, s.v. Aåı¿ÏË

SB.19

376, 13-14, s.v. KÔÚÛ›˜

SB.35

533, 19-20, s.v. ¶ÔÙ›ÔÏÔÈ

SB.4

50, 11-19, s.v. AúÓÂÈ·

SB.20

386, 20-387, 5, s.v. KÚfiÙˆÓ

SB.36

543, 1, s.v. ^P·ÈÙÔ›

SB.5

76, 16-77,3, s.v. \AÏ̈›·

SB.21

391, 4-11, s.v. K‡˙ÈÎÔ˜

SB.37

560, 16-19, s.v. ™ÂÏ‹Ó˘ fiÏȘ

SB.6

78, 8-11, s.v. òAÏÂÈ·

SB.22

416, 10-11, s.v. §›Á˘Ú˜

SB.38

583, 7-8, s.v. ™Ô‡ÙÚÈÔÓ

SB.7

118, 12-15, s.v. òAÚÈÌ·

SB.23

448, 10-11, s.v. M¤Ù·ÔÓ

SB.39

590, 1-3, s.v. ™‡ÂÛÛ·

SB.8

125, 14, s.v. \AÚÚ‹ÙÈÔÓ

SB.24

478, 18-19, s.v. NÔ˘ÎÚ›·

SB.40

594, 15-16, s.v. ™˘ÚÚ¤ÓÙÈÔÓ

SB.9

128, 8-16, s.v. \AÚÙÂ̛ٷ

SB.25

485, 11-14, s.v. OúÓ·

SB.41

603, 21-25, s.v. T·Ú΢ӛ·

SB.10

143, 16-21, \AÙÚ›·

SB.26

488, 8-10, s.v. \OÎÚ›ÎÔÏ·

SB.42

607, 3-5, s.v. T·Ú¯ÒÓÈÔÓ

SB.11

157, 15-16, s.v. B·Ó·˘Ú›‰Â˜

SB.27

490, 1-2, s.v. òOÏÎÈÔÓ

SB.43

612, 3-4, s.v. TÂÏ·ÌÒÓ

SB.12

186, 7-11, s.v. BÚ¤ÙÙÔ˜

SB.28

494, 19-20, s.v. \OÚÁÒÓ

SB.44

640, 14-15, s.v. T‡‰ÂÚÙ·

SB.13

214, 11-215, 2, s.v. °˘ÌÓËÛ›·È

SB.29

518, 1-4, s.v. ¶ÂÚÔ˘Û›·

SB.45

643, 11-17, s.v. T˘ÚÚËÓ›·

SB.14

230, 14-18, s.v. ¢›Î·È·

SB.30

518, 8-10, s.v. ¶ÂÚÚ·›ÛÈÔÓ

SB.46

656, 12-13, s.v. º·Ï¤ÚÈÔÓ

SB.15

254, 6-19, s.v. ¢ÒÚÈÔÓ

SB.31

523, 1-2, s.v. ¶ÈıËÎÔÜÛÛ·È

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A P U N T ES S OBR E L A IN T E RVE NCI Ó N DE P O RSE NNA E N ROM A Jorge Martínez-Pinna

L

a figura de Porsenna ha experimentado en los últimos tiempos un inusitado interés, a lo cual han contribuido decisivamente los estudios que le ha dedicado Giovanni Colonna.1 Y la verdad es que el tema lo merece, ya que se sitúa en uno de los momentos más oscuros, y por tanto controvertidos, de la historia de la Roma arcaica, el tránsito de la monarquía a la República. Como dice Th. Piel, su participación en estos hechos, «allait assurer à Porsenna la plus remarquable posterité littéraire qu’ait jamais connue un homme politique étrusque».2 Pero dentro de la relativa abundancia, las noticias disponibles sobre Porsenna no dejan de ser contradictorias, y de ahí la variedad de interpretaciones que suscita este personaje y su célebre episodio romano. La narración analística sobre la aventura romana de Porsenna no es creíble.3 Por lo general el rechazo de su historicidad se justifica por tratarse de una manifestación de patriotismo, que llevó a los romanos a enmascarar un acontecimiento que les resultaba vergonzoso: la rendición de Roma ante Porsenna. Pero quizá este juicio no sea del todo justo. En realidad no se comprenden bien los motivos para ocultar tal hecho, de la misma manera que sucedería después tras la ocupación de Roma por bandas celtas a comienzos del siglo iv. Más bien al contrario, parece que tales momentos dramáticos para los romanos sirvieron de excusa a la tradición para exaltar determinadas virtudes nacionales. Y en cierto sentido algo similar ocurre con el episodio de Porsenna. Los verdaderos antagonistas del jefe etrusco no son los magistrados romanos,4 como cabría esperar en una situación de guerra, sino Horacio Cocles, Mucio Escévola y la doncella Clelia. Sus extraordinarias hazañas suscitaron en Porsenna tal sentimiento de admiración que le llevaron a desistir de sus propósitos, y esto es precisamente lo que hace que el relato sea inverosímil. Pero para los antiguos la sensación no es la misma. La instauración de la República tiene connotaciones fundacionales, significa el nacimiento de una nueva Roma, y exige por tanto la

intervención de figuras heroicas. Horacio, Escévola y Clelia – sobre todo el primero de ellos – cumplen esta función,5 y el episodio de Porsenna se ofrecía como el escenario más adecuado. En cualquier caso, y partiendo del hecho indudable que sitúa a Porsenna en Roma a finales del siglo vi, la nula fiabilidad del relato tradicional ha llevado a los modernos a conceder crédito a esa versión secundaria, contenida en Plinio y Tácito, según la cual Porsenna ocupó Roma y le impuso un tratado muy severo.6 Sin embargo tampoco estas noticias están libres de sospecha sobre su absoluta veracidad. D. Briquel ha podido mostrar con buenos argumentos cómo Tácito deriva de Plinio, y éste a su vez de escritos de carácter no histórico sino anticuario, sugieriendo además la posibilidad de que en última instancia proceda de fuente etrusca.7 Según creo, esta última sugerencia es más que una posibilidad. No hay duda de que en Etruria existían historias y leyendas sobre Porsenna, cuyos restos conocemos gracias al mismo Plinio, sirviendo Varrón como intermediario.8 Una de ellas se refiere al enfrentamiento religioso entre Porsenna y el monstruo Olta,9 y otra, en la que Plinio traslada palabras del priopio Varrón, describe el singular monumento construido por el jefe etrusco como su propia tumba.10 En ambos casos se trata de noticias fabulosas, que pretenden presentar a Porsenna como un hombre superior, casi como un héroe.11 Quizá no fuese aventurado pensar que la imagen de Porsenna como conquistador de Roma gozase de similares características, es decir una exaltación excesiva de la gesta del jefe etrusco. La noticia debe estar sujeta por tanto a una máxima cautela en su interpretación, y no forzarla con conclusiones extremas. Similar precaución conviene tener sobre otras noticias situadas asimismo al margen de la tradición analística romana. Así, el aition de Calímaco relativo a un Cayo romano que dio muerte al jefe peucetio que asediaba Roma, pero fue herido en una pierna provocándole una cojera que soportaba mal hasta que fue reprendido por su madre.12 Las

* Este artículo se encuadra en el proyecto de investigación hum200501598, del Ministerio de Educación y Ciencia, y en el grupo de investigación hum-696, de la Junta de Andalucía.

7 D. Briquel, Que savons-nous des Tyrrhenika de l’empereur Claude?, «rfic», 116, 1988, p. 463 sgg. 8 Cf. M. Sordi, Storiografia e cultura etrusca nell’Impero Romano, en Atti del ii Congresso Internazionale Etrusco (Roma, 1985), Roma, 1989, i, p. 41 sgg. (= Prospettive di storia etrusca, Como, 1995, p. 189 sgg.). 9 Plin. Nat. hist. ii 140. Quizá esta leyenda sea la reelaboración de un mito conocido por algunas representaciones funerarias de época helenística, procedentes de la Etruria septentrional interna, en las que aparece un monstruo con cuerpo humano y cabeza de lobo surgiendo de un brocal, si bien las opiniones al respecto son discordantes. Una detenida discusión en A. Cherici, Porsenna e Olta, riflessioni su un mito etrusco, «mefra», 106, 1994, p. 354 sgg. 10 Plin. Nat. hist. xxxvi 91-93. Sobre el particular, G. A. Mansuelli, Il monumento di Porsenna a Chiusi, en Mélanges J. Heurgon, Roma, 1976, ii, pp. 619-626; M. Sordi, Il monumento di Porsenna a Chiusi e un errore di traduzione del Filarete, en Studi Bellincioni-Scarpat, Parma 1990, pp. 235-239; M. Sordi, G. Castellani, Un frammento delle historiae tuscae e la struttura architettonica del monumenti di Porsenna a Chiusi, «ril», 124, 1990, pp. 91-98 (= Prospettive di storia etrusca, Como 1995, pp. 35-40 y 41-47, respectivamente); G. Capdeville, Porsenna, re del labirinto, en La civiltà arcaica di Chiusi e del suo territorio, Firenze 1993, p. 53 sgg.; J.-R. Jannot, Encore la tombe de Porsenna, «mefra», 117, 2005, pp. 633-649. 11 Cf. G. Capdeville, Porsenna, re del labirinto, cit. (nt. 10). 12 Call. Dieg. v 26.

1 Scriba cum rege sedens, en Mélanges J. Heurgon, Roma, 1976, i, pp. 187195; Società e cultura a Volsinii, «AnnFaina», 2, 1985, pp. 101-131; I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, en La Salaria in età antica, Roma 1999, pp. 147153; Due città e un tiranno, «AnnFaina», 7, 2000, pp. 277-289; Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, en La lega etrusca, Pisa-Roma, 2001, pp. 29-35. 2 Th. Piel, À propos de l’immage royale des Principes étrusques chez les auteurs grecs et latins: Porsenna rex Etruriae, en Grecs et Romains aux prises avec l’histoire, Rennes, 2003, ii, p. 528. 3 Las fuentes principales son Liv. ii 9-15; Dion. Hal. v 21-36; Plut. Popl. 16-19. 4 En Livio (xi 4-10), la acción de los cónsules P. Valerio Publícola y T. Lucrecio se limita a simples emboscadas; según Plutarco (Popl. 18, 5-6) estos mismos magistrados son heridos y se retiran; sólo Dionisio (v 23, 1-2) habla de una auténtica batalla. 5 Permítaseme remitir a mi artículo: El agua y el fuego en los héroes latinos, en L’eau et le feu dans les religions antiques, Paris 2004, p. 178 sgg. Últimamente, y desde una perspectiva diferente, D. Briquel, Mythe et révolution. La fabrication d’un récit la naissance de la république à Rome, Bruxelles, 2007, p. 29 sgg. 6 Tac. Hist. iii 72, 1; Plin. Nat. hist. xxxiv 139. No parece que Serv. Aen. xi 34, refleje la misma circunstancia.

apuntes sobre la intervención de porsenna en roma

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palabras de Calímaco han suscitado diversas interpretaciones en un plano histórico, centradas en el episodio al cual se refieren y la identificación de ese romano llamado con el nombre genérico de Cayo. La tradición analística no conoce en realidad ningún asedio de Roma por gentes peucetias, ni en general apulas o de cualquier otra región del Adriático, por lo que las propuestas son muy variadas y en el fondo arbitrarias.13 En lo que se refiere al protagonista, su identificación con una figura histórica documentada se ha dividido en dos opciones, Horacio Cocles y Spurio Carvilio.14 Como dice S. Mazzarino, «le due identificazioni sembrano avere dunque, ognuna, riscontro nelle fonti e argomentazioni valide»15 (aunque él rechazaba ambas), si bien la confrontación con un pasaje de Clemente de Alejandría que habla de un Póstumo romano, prisionero de los peucetios, que se quema voluntariamente la mano,16 inclina la balanza hacia el lado de Cocles, ya que el tal Póstumo no parece ser sino un trasunto de Mucio Escévola.17 El propósito de Calímaco no es otro que resaltar ciertas virtudes romanas, por lo que carece de todo objetivo histórico. El acontecimiento sobre el que se basa, sea cual fuere, le llega muy deformado. Las coincidencias entre el tal Cayo y Cocles se reducen prácticamente a dos, la presencia de un ejército extranjero bajo los muros de Roma y la cojera del protagonista, demasiado poco para considerar positivamente esta identificación. Se sabe por Plinio que Calímaco identificaba a los peucetios con los liburnios,18 esto es les situaba en el norte del Adriático, pero sus conocimientos de la etnografía itálica no eran muy precisos. No obstante, esta afirmación de Plinio ha dado pie a F. Della Corte para identificar a los peucetios con los etruscos y, en última instancia, con el episodio de Porsenna.19 En realidad, en el texto de Calímaco hay una mezcla desordenada de elementos de procedencia muy variada, por lo que resulta difícil aceptarlo como fuente fiable para la historia de Roma. Si verdaderamente se refiere al episodio de Porsenna, como así parece, todo lo más que se puede deducir es que un recuerdo de este acontecimiento llegó a oídos griegos en el siglo iv,20 pero ya sin saber exactamente de qué se trataba. En definitiva las posibilidades de interpretación son muchas, pero las certezas muy pocas. Otro tipo de problemas suscita la llamada “crónica cumana”, denominación que A. Alföldi otorgó a la digresión de Dionisio de Halicarnaso sobre la vida y los hechos del tirano Aristodemo de Cumas.21 Es opinión comúnmente admitida, sobre todo a partir de Alföldi, que esta “crónica cumana”, considerada un relato contemporáneo a los hechos que narra, proporciona el esqueleto cronológico e histórico que permite comprender los acontecimientos que se suceden en el Lacio a finales del siglo vi, incluyendo además

aquellas otras noticias que vinculan directamente a Tarquino el Soberbio con Aristodemo, como el último exilio y la muerte de Tarquinio en Cumas y la cuestión de los bona Tarquiniorum. Pero tampoco conviene exagerar su importancia. En un reciente artículo, A.B. Gallia resalta determinados aspectos de la “crónica” que ponen en entredicho tales consideraciones.22 Así, la composición del texto original, una obra histórica muy posterior a los hechos que trata; las dudas sobre la cronología de la batalla de Aricia; o las relaciones entre Aristodemo y Tarquinio, que parecen ser producto de la analística romana. El relato que se lee en Dionisio es muy apologético respecto a Aristodemo, a quien ensalza considerablemente, situando sus hazañas a la altura de una gesta heroica. En definitiva, resulta muy exagerado en casi todas sus apreciaciones. No puede haber duda de una intervención de Aristodemo en el Lacio, que culminó en la llamada batalla de Aricia, que significó la derrota y muerte de Arrunte, hijo de Porsenna. Este hecho es conocido no sólo por la “crónica cumana”, sino también por la tradición analística romana.23 Lo que conviene medir es la importancia de este acontecimiento. En la versión romana se destaca lo reducido del ejército de Arrunte y la oposición entre la táctica del contingente cumano y la fuerza de los etruscos (arte adversus vim, dice Livio); por el contrario, la tradición griega resalta la inconsistencia numérica del cuerpo expedicionario enviado por Cumas y la escasa preparación militar de sus componentes,24 sin duda para exaltar aun más la gesta de Aristodemo. No se tiene por tanto la impresión de que Arrunte fuese la punta de lanza de una gran expedición etrusca hacia el sur, frustrada por su inesperada derrota. Con razón se pregunta R. Werner por qué Porsenna no ayudó a su hijo si la empresa albergaba tanta importancia.25 Es posible que el ataque de Arrunte tuviese objetivos muy concretos y de alcance inmediato, bien conseguir un dominio propio, o más probablemente llevar a cabo una “razzia” para obtener botín.26 La intervención de Cumas, por su parte, no carece de lógica si se entiende como una operación de carácter preventivo, teniendo presente la amenaza sufrida veinte años atrás por una coalición de etruscos e itálicos y el vacío de poder creado en el Lacio tras la caída de Tarquinio. Según creo, la cuestión principal es cómo Clusium, a través de Porsenna, pudo imponerse a Roma. Se trata de algo que se da por hecho, pero falta una respuesta que sea por completo satisfactoria. A finales del siglo vi Roma era sin duda la entidad política de mayor peso en toda la Italia no griega, y se encontraba además en una cómoda situación de poder gracias al control que ejercía sobre el Lacio. No puede obviarse que Tarquinio el Soberbio fue el primero en

13 Puede verse una síntesis de las mismas en D. Briquel, Mythe et révolution, cit. (nt. 5), p. 72. Añádase L. Braccesi, Hellenikòs Kolpos, Roma, 2001, p. 107 sgg. 14 Hacia la primera ya G. De Sanctis, Callimaco e Orazio Coclite, «rfic», 13, 1935, pp. 289-301, y más recientemente G. Colonna, I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, cit. (nt. 1); Idem, Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, cit. (nt. 1), p. 32 sgg.; D. Briquel, Mythe et révolution, cit. (nt. 5), p. 72 sg. Por la segunda se inclinaban J. Stroux, Erzählungen aus Kallimachos, «Philologus», 89, 1934, p. 304 sgg.; M. Pohlenz, Der Römer Gaius bei Kallimachos, «Philologus», 90, 1935, pp. 120-122; G. Pasquali, Roma in Callimaco, en Terze pagine stravaganti, Firenze 1943, pp. 95-107. 15 S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Roma-Bari, 1994, ii, p. 258. 16 Clem. Alex. Strom. v 46, 5. 17 Atenodoro de Sandon, retor de época de Augusto, llama a Mucio Escévola con el nombre de Opsigonos (Plut. Popl. 17, 8), lo que parece indicar que conocía la misma tradición griega que aflora en Clemente. 18 Plin. Nat. hist. iii 139.

19 F. Della Corte, Callimaco e i Peucezii, «Aegyptus», 21, 1941, pp. 276-282. 20 Sobre la fuente de Calímaco, para unos es Timeo ( J. Stroux, Erzählungen aus Kallimachos, cit. [nt. 14], p. 304; G. Pasquali, Roma in Callimaco, cit. [nt. 14], p. 97 sgg.; L. Braccesi, Hellenikòs Kolpos, cit. [nt. 13], p. 112 sg.), para otros Filisto (G. Colonna, Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, cit. [nt. 1], p. 34). 21 Dion. Hal. vii 3-11; A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor 1965, p. 56 sgg. 22 A. B. Gallia, Reassesing the ‘Cumaean Chronicle’: Greek Chronology and Roman History in Dionysius of Halicarnassus, «jrs», 97, 2007, pp. 50-67. 23 Liv. ii 14, 5-8; Dion. Hal. v 36, 1-2 (aquí no deriva de fuente cumana). 24 Dion. Hal. vii 5, 2. 25 R. Werner, Der Beginn der römischen Republik, München, 1963, p. 385 sgg., quien erróneamente deduce, a partir de ésta y otras dudas, que la guerra de Porsenna y la batalla de Aricia fueron dos hechos por completo independientes. 26 Así parece deducirse de Liv. ii 14, 5. Dionisio, por el contrario, menciona expresamente el interés por apropiarse de Aricia (v 36, 2).

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jorge martínez-pinna

materializar la hegemonía romana entre los latinos. Por el contrario, Clusium era una pequeña y ruralizada ciudad de la Etruria interna, que aunque en esas fechas experimentó cierto auge en las actividades artesanales y comerciales, en modo alguno es parangonable a los grandes centros de la Etruria meridional.27 No parece pues que dispusiera de suficientes recursos por sí sola para llevar a cabo una empresa militar de tal envergadura, y tanto más si se admite que la conquista de Roma no era sino una etapa de un ambicioso proyecto de expansión hacia el sur. Para salvar esta dificultad se ha supuesto que Porsenna actuaba como comandante militar de la liga etrusca, o en todo caso de una alianza de varias ciudades.28 Cierto es que en algunas ocasiones Porsenna es llamado rey de Etruria o rey de los etruscos,29 pero parece evidente que tal calificativo no responde a una denominación institucional, sino que simplemente toma el todo por la parte. Más apropiada, desde un punto de vista territorial, es esa otra forma de rey de Clusium que figura sobre todo en los autores griegos. Sin embargo, aunque en un sentido cultural y religioso la liga etrusca podía ya existir en el siglo vi, es muy dudoso que entonces tuviera asimismo una vertiente político-militar, situación que posiblemente no llegó a definirse sino hasta el siglo iv.30 Se hace por tanto díficil poder imaginar a Porsenna al frente de un ejército federal etrusco. Otra solución, de la cual G. Colonna es el principal impulsor, es considerar a Porsenna como gobernante no sólo de Clusium, sino también de Volsinii, de manera que habría llegado a dominar sobre un gran Estado que se extendía desde la Valdichiana hasta el valle medio del Tíber. El único dato sobre el que se apoya esta reconstrucción es el mencionado texto de Plinio acerca de Porsenna y el monstruo Olta, que habría tenido lugar en el territorio volsiniense.31 En principio, la connotación de Porsenna como rey de Volsinii significa en sí un hecho sorprendente, y de ser cierto sería algo excepcional y necesariamente transitorio. Pero podrían contemplarse otras interpretaciones, no tan literales, del texto de Plinio. Así, y en referencia a las palabras suo rege que cierran el párrafo, G. Capdeville propone que la realeza de Porsenna no se aplica a Volsinii, sino a Etruria, mencionada a comienzos del texto.32 Sin embargo, si la noticia procede de fuente etrusca, como así parece, es díficil que en ella se llamase a Porsenna rex Etruriae, aunque es posible que Plinio – o su fuente inmediata – lo hu-

biese interpretado en tales términos. Pero según creo, es más probable que se trate de una confusión y que en realidad el episodio se escenificase en Clusium y no en Volsinii. A tal conclusión me llevan diversos indicios. Por una parte, el nombre del monstruo, Olta, en etrusco Ultha. Ya el mismo Colonna llamaba la atención sobre la identidad de este nombre con el de uno de los combatientes representados en la tumba François de Vulci junto a Mastarna y los Vibenna, Larth Ulthes, quien figura dando muerte al volsiniense Laris Papathnas. Y en efecto, este nombre es propio de los ámbitos clusino y perugino, por lo que Colonna no duda en considerarle un “condottiero chiusino”.33 En segundo lugar, la imagen reflejada en el texto de Plinio de unos campos despoblados. Teniendo en cuenta que la leyenda se creó en una época muy posterior a Porsenna, esta idea de un territorio con grandes vacíos demográficos se adapta muy bien a la situación existente en Clusium ya en el siglo v avanzado y sobre todo en el siguiente.34 Por último, no puede dejar de señalarse la singularidad de la unión de dos ciudades en un mismo Estado, y todavía más al tratarse de Clusium y Volsinii, dos facetas opuestas de la compleja realidad socio-política de la Etruria arcaica. En definitiva, admitir una interpretación de tanta importancia histórica exige mayores apoyos que únicamente el solitario pasaje de Plinio. Por el momento, resulta muy difícil aceptar que Porsenna ocupase Roma y destronase a Tarquinio, pasando así a ser un efímero “octavo rey” de Roma35 o creador de una República sometida a su tutela.36 El origen de la República representa un problema histórico muy difícil, pero la solución no pasa por sustituir la leyenda antigua por otra moderna. Sin necesidad de admitir el relato tradicional, la respuesta más viable quizá sea aquella que invoca factores internos, esto es el levantamiento de un amplio sector de la aristocracia contra un monarca despótico y contrario a sus intereses, pensando además que la misma institución monárquica había entrado desde hacía casi un siglo en un proceso irreversible de degradación que en nada justificaba su continuidad. La expulsión de Tarquinio no se hizo extensiva a sus partidarios, incluidos aquellos pertenecientes al patriciado. En Roma permaneció parte de la antigua gens real, aunque posiblemente sus miembros fuesen socialmente relegados tras la pérdida de la mayor parte de su patrimonio, como se puede suponer a partir de aquel L. Tarquinio nombrado

27 Pueden verse al respecto, con diferentes planteamientos, G. Camporeale, Irradiazione della cultura chiusina arcaica, en Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Firenze, 1974, p. 129; J.-R. Jannot, Les reliefs archaïques de Chiusi, Roma, 1984, p. 389 sgg.; A. Maggiani, La situazione archeologica dell’Etruria settentrionale nel v sec. a.C., en Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique, Roma, 1990, p. 25 sgg.; M. Di Fazio, Porsenna e la società di Chiusi, «Athenaeum», 80, 2000, p. 404 sgg. 28 La idea de Porsenna como jefe de la liga etrusca se encuentra, entre otros, en J. Heurgon, Recherches sur l’histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine, Paris, 1942, p. 70 sg.; Idem, L’État étrusque, «Historia», 6, 1957 p. 88 sg.; A. Alföldi, Early Rome and the Latins, cit. (nt. 21), p. 76; R. Werner, Der Beginn der römischen Republik, cit. (nt. 25), p. 385; G. Migliorati, Forme politiche e tipi di governo nella Roma etrusca del vi sec. a.C., «Historia», 52, 2003, p. 61. Por otra parte, la imagen de este personaje como comandante militar de una alianza de ciudades ha sido desarrollada por J.-R. Jannot, L’Étrurie intérieure de Lars Porsenna à Arruns le jeune, «mefra», 100, 1988, p. 603 sgg. 29 Una relación de testimonios acerca del título de Porsenna puede verse en Th. Piel, À propos de l’immage royale des Principes étrusques chez les auteurs grecs et latins, cit. (nt. 2), p. 535. 30 Sobre el particular, G. Camporeale, Sull’organizzazione statuale degli Etruschi, «ParPass», 13, 1958, pp. 5-25; Idem, Volsinii e la dodecapoli etrusca. Storia del problema, «AnnFaina», 2, 1985, pp. 11-37; Idem, Unione (etnica) e disunione (politica) ai primordi della storia etrusca, en La lega etrusca, Pisa-Roma, 2001, 19-28; G. Perl, Nomen Etruscum, en Die Welt der Etrusker, Berlin, 1990, 101-

109; L. Aigner-Foresti, La Lega etrusca, en Federazioni e federalismo nell’Europa antica, Milano, 1994, 327-350. 31 Plin. Nat. hist. ii 140: Vetus fama Etruria est impetratum, Volsinios urbem depopulatis agris subeunte monstro quod vocavere Voltam, evocatum a Porsina suo rege. 32 G. Capdeville, Porsenna, re del labirinto, cit. (nt. 10), p. 68; le sigue M. Di Fazio, Porsenna e la società di Chiusi, cit. (nt. 27), p. 396 sg. 33 G. Colonna, Società e cultura a Volsinii, cit. (nt. 1), p. 117. 34 M. Cristofani, Città e campagna nell’Etruria settentrionale, Novara, 1976, p. 12; A. Maggiani La situazione archeologica dell’Etruria settentrionale nel v sec. a.C., cit. (nt. 27), p. 27 sgg.; A. Cherici, Porsenna e Olta, riflessioni su un mito etrusco, cit. (nt. 9), p. 375. Recuérdese la impresión que causó a las tribus celtas la situación de los campos de Clusium a comienzos del siglo iv: Liv. v 36, 3; Dion. Hal. xiii 11, 2; Plut. Cam. 17, 3. 35 Así, últimamente, Th. Piel, À propos de l’immage royale des Principes étrusques chez les auteurs grecs et latins, cit. (nt. 2), p. 530. 36 A. Alföldi, Early Rome and the Latins, cit. (nt. 21), p. 72 sgg.; J. Heurgon, Roma y el Mediterráneo Occidental hasta las guerras púnicas (trad. esp.), Barcelona, 1971, p. 182 sgg.; M. L. Scevola, Conseguenze della deditio di Roma a Porsenna, «ril», 109, 1975, pp. 3-27; J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, Roma, 1978, p. 438 sgg.; E. Dovere, Contributo alla lettura delle fonti su Porsenna, «AAN», 95, 1984, pp. 69-126; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto, Trento, 1988, p. 213 sg. Con algunos matices, P. M. Martin, L’idée de royauté à Rome, i, Clermont-Ferrand 1982, p. 305. Cf. J. Poucet, Les rois de Rome, Bruxelles, 2000, p. 225 sgg.

apuntes sobre la intervención de porsenna en roma

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magister equitum por el dictador L. Quinctio Cincinato en el año 45837. Además, a comienzos de la República existía una factio Tarquiniana que, según Livio, tenía posibilidad de elevar al consulado a dos de sus partícipes.38 Todo esto parece sugerir que la situación en Roma en los momentos que siguieron a la destronización de Tarquinio debió estar marcada por conflictos entre diferentes facciones de la aristocracia, consecuencia del vacío de poder creado con la expulsión del rey. Esta misma sensación se extiende al Lacio, donde Tarquinio había ejercido la hegemonía, quizá más a título personal que no en representación de Roma. La (re)fundación de la alianza latina con centro en el lucus Dianium de Aricia, cuya inscripción conmemorativa se conserva parcialmente en un fragmento de Catón,39 no obedece a un deseo de enfrentamiento a Porsenna, como sostenía Alföldi,40 sino que viene a ser la expresión de la recuperada autonomía por parte de los latinos, no tanto en oposición directa a Roma, sino sobre todo como freno ante futuras aspiraciones de ésta.41 La intervención de Porsenna en Roma no fue causa, sino consecuencia de la caída de Tarquinio y la ausencia de poder que este hecho generó. Pero también se vio favorecida por otro factor, la crisis que en el último tercio del siglo vi arrastraba la Etruria meridional interna. La arqueología muestra cómo en esta época se producen fuertes convulsiones demográficas, con la desaparición o intensa contracción de no pocos asentamientos. Esta situación no afecta tanto a las ciudades como sobre todo a los centros menores de carácter aristocrático, que habían interpretado un papel relevante en el desarrollo económico de la región durante el orientalizante y comienzos del período arcaico.42 Estos cambios trajeron consigo una situación de inestabilidad, lo cual sin duda propició expediciones como la protagonizada por Porsenna. Otra cuestión que conviene plantear es si la empresa de Porsenna responde a una decisión pública, esto es que actuaba en nombre de la ciudad, o si por el contrario es sólo producto de una iniciativa privada. Como ya hemos visto, no hay razones para pensar que Clusium gozase de una posición hegemónica en Etruria, y la ciudad pos sí sola no disponía de suficientes recursos para emprender una guerra a larga distancia. Así las cosas, quizá la respuesta más probable es que se trate de una empresa privada, en la que Porsenna se presenta como jefe de una banda armada.43 La existencia de ejércitos privados es un hecho comprobado en el mundo etrusco-latino arcaico. Su presencia indica que la guerra no se circunscribía a un ámbito institucionalizado, sino que asimismo podía resultar de iniciativas dirigidas por un clan poderoso o una asociación temporal de varios cla-

nes, con unos objetivos inmediatos traducidos en acopio de botín e incremento de la gloria personal, de acuerdo con los valores esenciales de la tradición aristocrática. Tales empresas podían también perseguir la ocupación de tierras, pero siempre en un radio próximo a la base territorial del grupo, lo que ya no afecta al presente caso. El ejército de Porsenna, tal como es descrito en las fuentes, se ajusta a estas características. La tradición menciona la potencia de las tropas comandadas por Prosenna, incrementadas con contingentes romanos y latinos favorables a Tarquinio;44 pero la superioridad numérica del ejército etrusco era una condición necesaria para justificar la derrota romana. Hay sin embargo algunos detalles que resultan muy esclarecedores. Así, en el episodio de Mucio Escévola, el escriba que es confundido con el rey se encontraba pagando el salario a los soldados.45 Este hecho parace señalar que se trata de mercenarios, lo cual no es un caso extraño, aunque debe entenderse en el sentido de que no combatían al servicio de la ciudad, sino en función de un vínculo de dependencia personal hacia su jefe, quien les gratificaba con el producto del botín. Pero también hay que considerar la presencia de elementos dependientes, justificando así las palabras con las que Horacio Cocles increpa a sus enemigos, servitia regum superborum, en las que resalta el contraste entre el ciudadano-soldado romano y el siervo etrusco que combate en beneficio de su señor.46 Por otra parte, no deja de ser significativo que los fugitivos del ejército de Arrunte tras su derrota en Aricia se asentasen en Roma, dando al lugar al vicus Tuscus, lo que significa, siempre a ojos de la tradición, que no eran ciudadanos de Clusium, sino gentes sin patria. En resumen, la intervención de Porsenna en Roma parece haber sido producto de una iniciativa privada, desarrollada al amparo de una coyuntura favorable, caracterizada por una situación de inestabilidad en la Etruria meridional interna y por el vacío de poder en el Lacio surgido tras la expulsión de Tarquinio. Sus objetivos no podían ser otros que el botín y la gloria, pero una vez en Roma, Porsenna debió verse envuelto en los avatares que entonces sacudían el Lacio. La tradición etrusca recuerda una rendición de Roma ante Porsenna, lo cual, como el resto de las noticias etruscas referidas a este personaje, parece extraordinariamente exagerado. Por su parte, el relato analístico es muy ambiguo, pero no deja de señalar que la presencia de Porsenna significó un duro golpe al orgullo romano.47 A título de hipótesis, podría suponerse que una de las facciones romanas solicitaría la ayuda de Porsenna, llegándose a un acuerdo en el que se reconocía formalmente la superioridad del jefe etrusco y que incluso podría implicar la entrega de rehenes.

37 Liv. iii 27, 1; Dion. Hal. x 24, 3. Livio le define como un patricio empobrecido, por lo que había servido en la infantería, pero en posesión de los valores guerreros propios de su clase. Este Tarquinio representa un ejemplo característico de la situación señalada por H. Zehnacker, según el cual las multas que se imponían en el siglo v tenían como principal objetivo la degradación social, al afectar negativamente la posición ocupada en la clasificación censitaria (H. Zehnacker, Rome: une société archaïque au contact de la monnaie, en Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique, Roma, 1990, p. 316 sg.). Es frecuente sustituir Tarquinio por Tarquitio a partir de los fasti Capitolini, pero no hay razones de peso que justifiquen tal corrección: J. Martínez-Pinna, Tusculum latina, Roma, 2004, p. 139 sg. 38 Liv. ii 18, 4. 39 Catón, fr. 58 P = fr. ii 28 Ch (= Priscian. Gramm. iv 129 H, vii 337 H). 40 A. Alföldi, Early Rome and the Latins, cit. (nt. 21), p. 47 sgg. 41 Cf. J. Martínez-Pinna, Tusculum latina, cit. (nt. 37), p. 51 sgg. 42 Me permito remitir a mi trabajo Poblamiento y sociedad en la Etruria arcaica, en Emigrazione e immigrazione nel mondo antico, Milano 1994, esp. p. 20 sgg.

43 M. Di Fazio, Porsenna e la società di Chiusi, cit. (nt. 27), p. 389 sgg.; A.M. Adam, Des “condottieri” en Étrurie et dans le Latium à l’époque archaïque?, «Latomus», 60, 2001, p. 883. Cf. A. Cherici, Armi e società a Chiusi, «AnnFaina», 7, 2000, p. 189. 44 Liv. ii 9, 5; Dion. Hal. v 22, 3; Plut. Popl. 16, 2. 45 Liv. ii 12, 6-7; Dion. Hal. v 28, 2; Plut. Popl. 17, 2. Acerca de la historicidad de esta escena, relacionándola con relieves etruscos, véase G. Colonna, Scriba cum rege sedens, cit. (nt. 1). 46 Liv. ii 10, 8. 47 Así, algunos autores (A. Alföldi, Early Rome and the Latins, cit. [nt. 21], p. 73; E. Gjerstad, Porsenna and Rome, «OpRom», 7, 1969, p. 158) han querido ver en el relato analístico indicios de la sumisión de Roma a Porsenna, como la entrega de rehenes y la devolución de las insignias del poder, pero en realidad son argumentos muy débiles. La entrega de las insignias no deja de ser una expresión retórica de rechazo a la tiranía del último rey, ya que tales insignias permanecieron en Roma como parte del aparato ideológico (ornatus triumphalis) y religioso (ornatus Iovis) de la ciudad.

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Todo ello habría sido elevado por la tradición posterior a un verdadero pacto de subordinación firmado por Roma. Sorprende asimismo la forma en la que, según el texto analístico, se produce la retirada de Porsenna, una decisión dictada por la benevolencia y con la entrega a Roma de los rehenes y del botín acumulado. Esto último causó estupor en el mismo Livio,48 ya que la fórmula bona Porsennae regis vendendi era utilizada por los cuestores para la subasta del botín obtenido del enemigo. La explicación lógica sería la

opuesta a la tradicional, es decir que Porsenna fue finalmente rechazado.49 Al cabo de estas páginas, forzoso es reconocer que “el problema” de Porsenna no encuentra solución satisfactoria. Las cuestiones que se plantean son muchas y las respuestas siempre inciertas, pues si se cree hallar explicación a una de ellas, ésta puede fácilmente entrar en contradicción con otros aspectos no menos importantes. Aun así, cualquier intento sigue mereciendo la pena.

48 Liv. ii 14, 1-4; también Plut. Popl. 19, 9-10. Plutarco hace además referencia a la estatua de Porsenna elevada junto a la curia como muestra del reconocimiento de Roma, pero se trata de un hecho de dudosa historicidad: a favor, G. Hafner, Porsenna, «RdA», 1, 1977, pp. 36-43; G. Colonna,

Due città e un tiranno, cit. (nt. 1), p. 285; en contra, M. Sehlmeyer, Stadtrömische Ehrenstatuen der republikanischen Zeit, Stuttgart, 1999, p. 101 sgg., quien cree que se trata de una ficción de una fuente anticuaria. 49 E. Gjerstad, Porsenna and Rome, cit. (nt. 47), p. 159.

LO C US AR DEA QUON DAM D I CTUS AV I S O U VAR IATIONS S UR LE SUJE T D’UNE HI STO I RE Françoise-Hélène Massa-Pairault

A

u livre i de ses Antiquités Denys d’Halicarnasse évoque la fondation de Lavinium.1 Elle serait advenue après un traité stipulé entre Énée et Latinos, le roi des Aborigènes. Aux termes de ce traité, le roi des Aborigènes aurait concédé au Troyen un territoire (de quarante stades de rayon) tout autour de la colline où se serait édifiée la cité, à condition qu’Énée devienne son allié contre les Rutules et contre tout ennemi éventuel. Un échange d’otages (des enfants) aurait eu lieu entre les parties pour garantir la bonne foi réciproque. Une campagne aurait aussitôt été entreprise contre les Rutules et, après le succès de cette dernière, les Troyens auraient complété l’édification de la cité dont ils venaient juste de jeter les bases. Le récit de l’alliance latino-troyenne, de l’hostilité des Rutules alliés des Étrusques de Caere, des prétentions de Mézence, tyran de cette cité, à exiger un tribut des Latins et de leurs alliés (tout la récolte de vin de l’année), de la guerre et de la mort des principaux protagonistes (Énée, Latinus, Turnus, Mézence) a été conduit selon des variantes (concernant le mode d’exposition et l’ordre chronologique des faits) qu’il est inutile de rappeler: des analystes à Tite Live, de Caton à Denys, des historiens aux poètes.2 Ce récit et ces nombreuses variantes recouvrent évidemment une série de faits historiques fondamentaux (dont l’origine des vinalia), mais complexes et stratifiés, dont un au moins correspond à une réalité de l’orientalisant antique: la perte de la domination de la côte latine au Sud du Tibre par les Étrusques de Caere, ou du moins la fin de la mainmise de certains potentats de cette cité sur les communautés et les potentats latins au Sud du Tibre (conflits ayant pour fond la main mise sur un commerce d’emporia à hégémonie carthaginoise ou grecque);3 le caractère original de la communauté des Rutules et de la ville d’Ardée4 comme principaux alliés en territoire latin des potentats étrusques de Caere. Seul le récit de Denys semble évoquer un prodige que l’historien rapporte au «moment de la fondation de Lavinium». Dans la forêt un incendie se serait développé spontanément. Un loup aurait alors attisé le feu en y jetant des brindilles transportées dans sa gueule, tandis qu’un aigle, du mouvement de ses ailes, soufflait sur le feu, collaborant ainsi avec le loup. Mais un renard, après avoir trempé sa queue dans l’eau, aurait essayé par tous les moyens d’éteindre le feu. La lutte du loup et de l’aigle alliés contre le renard connut d’abord des succès alternés à des défaites, mais l’alliance des deux prévalut. Énée aurait interprété le prodige comme un omen de victoire en déclarant que la colonie des Troyens serait devenue illustre et aurait triomphé de tous

ses ennemis. Aux animaux qui avaient permis le défrichement des bois et l’édification de leur cité les Lavinates auraient dédié deux statues en bronze sur leur forum, encore visibles du temps de Denys. Les deniers de L. Papius Celsus représentent en effet les deux animaux, l’aigle et la louve (car le loup est interprété comme une louve, semblable à la nourrice de Romulus et Rémus) tantôt en opposition à une effigie de Junon Sospita, tantôt à une tête laurée et couronnée sous laquelle apparaît la légende triump[us]5 (Fig. 1). Ces deniers soulèvent d’ailleurs un certain nombre de questions sur lesquelles nous reviendrons. En tout cas le prodige sert à mettre en scène les différentes forces (amies et ennemies) qui s’opposent lors de la fondation de Lavinium. Le renard dont la couleur rouge peut désigner les Rutules (ainsi Alföldi comprend la présence de cet animal6), le loup (ou la louve) qui préfigure le rôle de la ville de Rome et l’aigle qui nous reporte sans aucun doute à Jupiter et à son triomphe. Il est possible que ce prodige ait été «réaménagé», réactualisé, au moment où l’on dressa des statues sur le forum de Lavinium: la présence de la louve est trop fonctionnelle à l’affirmation des liens de parenté entre Rome et Lavinium pour ne pas être considérée comme inspirée par une circonstance politique bien postérieure à la fondation de la cité latine. Les actions des animaux, en revanche, en particulier le mouvement des ailes de l’aigle définissables en termes techniques comme un présage au moyen d’alites, peut remonter à une antique pratique augurale;7 de même le battement de la queue du renard; en outre la mise en scène des animaux et de leurs oppositions semble comme issue d’un recueil d’ostentaria: ainsi l’opposition loup-renard (ce dernier de couleur fauve, couleur souvent prise comme de bon augure, mais en l’occurrence, couleur des ennemis Rutules), mais aussi la réunion d’animaux à poils et à plumes, comme pour symboliser l’ensemble du règne animal, dans une tentative totalisante de comprendre l’univers dans les rets d’une analogie démonstrative permettant de prédire une domination future. Peut-être ne pourrait-on aller au-delà de ce jugement critique si nous ne disposions d’un autre type de document remontant à l’orientalisant récent ou au haut archaïsme qui, mettant en scène des animaux et un personnage trônant, ne nous obligeait à reconsidérer l’ensemble du problème et à nous demander si Denys d’Halicarnasse, à travers une reconstruction «de genre», mais bien informée, ne nous a pas conservé tout un «fragment de mentalité» archaïque latinoétrusque.

1 Dion. Hal. i 59. 2 F. Castagnoli, Lavinium i-ii, Roma, 1972-1975, chapitre v, en particulier, test. 62, pp. 60-61; Enea nel Lazio: archeologia e mito: bimillenario Virgiliano, catalogo della mostra (Roma, Campidoglio-Palazzo dei Conservatori, 22 settembre-31 dicembre 1981), éd. par Maria Pia Muzzioli et al., Roma, 1981; M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimoniali tra archeologia e storia, Roma 1984 (abrégé par la suite Torelli 1984). 3 Voir Lazio arcaico e mondo greco, Napoli, 1977; Lazio arcaico e mondo greco: il convegno di Roma, «ParPass», xxxvi, 1977 (1981). 4 Sur Ardée, en dernier, F. Di Mario, Ardea: la terra dei Rutuli tra mito e

archeologia: alle radici della romanità: nuovi dati dai recenti scavi archeologici (Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio), Roma, 2007. 5 E. Babelon, Description historique et chronologique des monnaies de la République Romaine…, Paris, 1886, ii, pp. 282-285; cf. ibid. pp. 279-282; H.A. Grueber, Coins of the Roman Republic in the British Museum, Londres, 1910, i, pp. 519-525; cf. ibid. pp. 370-380. 6 A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Berkeley, 1964, p. 278. 7 re , i.2, 1895, s.v. alites, coll. 1497-1498 [Habel]; cf. re , ii.2, 1896, s.v. auspicia, coll. 2580-2587 [Wissowa]; voir encore infra note 17.

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Fig. 1. Deniers de L. Papius Celsus avec la figuration de l’omen des animaux lors de la fondation de Lavinium (au droit) et figuration d’une tête laurée (imberbe ou barbue) avec légende «triumpus» (d’après A. Alfoldi, op. cit., note 6, pl. xiii, 17-18).

Fig. 2. Bague provenant de Caere (collection Castellani, Musée de Villa Giulia) (d’après Oro 1983, fig. p. 185).

Fig. 3. Bagues de l’Ashmolean Museum: de droite à gauche, réplique avec variantes de la bague fig. 2, supra; bague à trois compartiments représentant un cheval marin entre deux «sirènes» tête-bêche; bague à trois compartiments représentant une «sirène» entre une figure ailée en appui sur le sol et un bouquetin (d’après Boardman, Vollenweider 1978, pl. xvi, 91, 90, 89).

Nous nous référons à des bagues en or dont le sujet n’a pas été compris de manière satisfaisante à ce jour, mais qui devait avoir une certaine importance s’il a été répliqué: les

deux exemplaires en question appartiennent l’un à la collection Castellani et l’autre à l’Ashmolean Museum d’Oxford8 (Figs. 2 et 3 à droite). L’exemplaire du Musée de Villa

8 M. A. Rizzo, in M. Cristofani, M. Martelli (éds.), L’Oro degli Etruschi, Novara 1983 (abrégé par la suite Oro 1983), p. 298, nº 177, fig. p. 185; J. Boardman, M. Vollenweider, Catalogue of the Engraved Gems and Finger Rings, i. Greek and Etruscan (Ashmolean Museum-Oxford), Oxford, 1978 (abrégé par la suite Boardman, Vollenweider 1978), nº 1, p. 21, pl. xvi; l’exemplaire

autrefois à Dresde («aa», 1889, pp. 170-171, nº 161) et provenant de Vulci n’offre pas une réplique de la scène et n’appartient pas au même atelier, même s’il s’insère dans des typologies orientales similaires: = J. Boardman, Archaic Finger Rings, «ak», 10, 1967, pp. 3-31 (abrégé par la suite Boardman 1967), p. 12, b i 32.

locus ardea quondam dictus avis ou variations sur le sujet d ’ une histoire

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Giulia provient de Caere et il est probable que celui d’Oxford issu d’une antique collection comme la Fortnum en provienne également. Le propre des chatons de ces bagues dont le style renvoie à la Méditerranée orientale (Phénicie, Rhodes)9 est d’être le plus souvent divisé en trois compartiments. Sur l’ensemble de la typologie de ces bagues et de leurs modèles inspirateurs, John Boardman a écrit une étude qui n’a pu cependant approfondir totalement la question des thèmes traités.10 C’est à ces derniers que nous revenons, en commençant par la scène encore obscure précitée. Les compartiments supérieur et inférieur représentent un palmipède déployant (et donc mouvant) une aile au-dessus du corps. L’oiseau est représenté sous une branche.11 L’exemplaire de Villa Giulia présente un noeud végétal devant cet oiseau; celui d’Oxford offre plus nettement deux motifs serpentiformes, en forme de noeud et lové, sur le registre supérieur, dressé, sur le registre inférieur. La partie centrale met en scène un personnage de profil trônant sur un siège «curule», les pieds reposant sur un tabouret. Il tient dans la main droite (le détail a été lu par John Boardman, à juste titre, croyons-nous sur l’exemplaire d’Oxford12), une baguette. Sur l’exemplaire de Villa Giulia le détail est moins lisible (et ne semble pas avoir frappé M. A. Rizzo13). Nous croyons qu’il existe cependant: il est plus incliné que sur l’exemplaire d’Oxford,14 tangent à la volute serpentiforme horizontale devant le personnage et semble même se terminer par un appendice recourbé à l’intérieur duquel s’inscrit cette volute. La baguette peut donc s’identifier à un sceptre ou plutôt à un lituus. La main gauche du personnage est tendue en direction d’un élément serpentiforme dressé à ses pieds et remplissant l’espace qui le sépare de l’oiseau qui lui fait face, tandis qu’un élément serpentiforme de même morphologie et dressé apparaît derrière cet oiseau. Sur l’exemplaire de Villa Giulia la volute serpentiforme devant l’oiseau est comparable, mais la seconde volute serpentiforme est couchée et semble se combiner avec la baguette-lituus du personnage. Cette différence est aussi commandée par la composition: en effet si un arbre apparaît dans les deux cas derrière le siège du personnage, seul l’exemplaire de Villa Giulia, double cet élément et le représente également comme conclusion de la scène à gauche (là où l’exemplaire d’Oxford présente le deuxième élément serpentiforme dressé). Il reste à examiner les animaux représentés ou suggérés appartenant à la scène. Au-dessus de la baguette du personnage un quadrupède «avec une longue queue» (Boardman), un chien? (Rizzo), forme le vis-à-vis du personnage, représenté à la hauteur de sa bouche. L’identification de ce quadrupède est en effet incertaine, mais cruciale, pour la compréhension de l’ensemble: l’animal n’est effectivement pas un chien. La longue queue est raide et pointue à l’extrémité sur l’exemplaire de Villa Giulia et on pourrait même penser à un rat si l’échelle de l’animal ne paraissait trop grande pour le rongeur. La queue s’élargit en touffe sur l’exemplaire

d’Oxford15. Les courtes pattes et l’arrondi du dos, le caractère affiné du facies renvoient plus sûrement à la morphologie de petits carnivores tels la fouine ou la martre, à la limite à la belette, qui possède cependant un appendice caudal plus touffu. Il s’agit donc à notre avis d’un animal appartenant à la famille des mustelidae et probablement d’une fouine. Par ailleurs, l’oiseau en vis-à-vis avec le personnage est clairement un échassier, une grue ou un héron, avec une préférence pour ce dernier, étant donné la longueur et la conformation du bec. Les volutes serpentiformes posent une question des plus ardues: s’agit-il en effet de simples éléments de «remplissage» ou veut-on suggérer la présence de serpents réels? Si M. A. Rizzo opte pour des «volutes de remplissage», Boardman hésite et parle tantôt d’un serpent, tantôt de volutes serpentiformes. Or si ces éléments semblent «remplir l’espace», et tout particulièrement la volute presque horizontale de l’exemplaire de Villa Giulia, l’impression est qu’ils forment une sorte de «couronne animale» entourant le personnage trônant, sorte de magicien charmeur, comme Orphée; même la volute presque horizontale de Villa Giulia n’est pas gratuite et peut s’interpréter comme un serpent se lovant autour de la baguette du personnage. Par ailleurs, si nous admettons la perspective réaliste dans laquelle a travaillé l’artiste et tenons compte de ses possibilités de caractérisation de l’animal, nous notons qu’il ne pouvait mieux évoquer le serpent que par l’attitude la plus impressionnante adoptée par ces animaux: quand ils se dressent ou se lovent autour d’un bâton (ce dernier motif, origine de bien des légendes, comme celle de la métamorphose du bâton en serpent). C’est pourquoi nous croyons non seulement à l’intention de symboliser des serpents, mais à la volonté de les représenter effectivement. À ce stade de notre analyse, nous concluons que la scène examinée se réfère à un acte de divination à partir de la manifestation d’un certain nombre d’animaux (rampant, volant ou marchant) qui sont un résumé du monde sauvage, que le personnage trônant est investi du droit augural (lituus) et qu’il se présente donc avec toutes les caractéristiques du rex latin ou du lucumo étrusque (sella curulis). D’ailleurs, on doit bien noter que le «support» de la représentation, un anneau en or, ne peut que nous orienter vers le vestiaire et l’ornementation royaux.16 La scène représentée est donc appropriée à la fonction symbolisée par l’anneau. Mais peut-on préciser encore la nature de l’ostentum? Nous l’avons vu, l’atmosphère pourrait évoquer la magie d’un Orphée (puisque tous les éléments du règne animal sont convoqués (être rampants, quadrupèdes et oiseaux). Mais il ne s’agit pas ici d’un monde «charmé», mais plutôt d’un monde «signifiant», bruissant de présages: arbores et branches, oiseaux battant de l’aile dans les marais, sifflements et cris aigus, bruits furtifs. Les animaux ne sont d’ailleurs pas neutres: la fouine et le héron sont des ennemis jurés des serpents qu’ils ne craignent pas d’attaquer et de détruire. Si nous examinons à présent les textes relatifs aux ani-

09 Oro 1983, pp. 56-57 [M. Cristofani]. 10 Boardman 1967. 11 Boardman complique la lecture de la branche sur le registre inférieur de la bague d’Oxford, arrivant à y lire un crocodile ou un lézard. 12 Loc. cit., supra note 8. 13 Ibidem. 14 L’autre élément proche de la main du personnage et formant une sorte de coude nous paraît la patte postérieure du quadrupède. 15 Pourtant Boardman voudrait y voir une queue de rat (Boardman 1967).

16 Sur la question, Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines... (abrégé par la suite DS), éds. Ch. Daremberg, E. Saglio, i, Paris, 1873, s.v. anulus, pp. 293-296 [E. Saglio] et s.v. anulus aureus, pp. 296-299 [G. Humbert]. Pour l’origine étrusque de cette coutume à Rome: Florus, i 1, 5-6: inde (scil. e Tuscia) fasces, trabeae, curules anuli, phalerae, paludamenta, praetextae. Pour l’anulus aureus de Numa et de Servius Tullius: Pline n.h. xxxiiii 4; Gell., x 10; Zon. Ann. viii 6; Isid., Orig., xi 32; cf. Macr. Sat. vii 13; pour la question des origines sabines de l’usage: Liv. i 11 et Dion. Hal. ii 38 (épisode de Tarpeia).

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maux donnant des présages,17 on ne peut qu’être frappé du signe généralement négatif donné par les serpents quand il se glissent dans les maisons et a fortiori dans les maisons des puissants, quand ils surgissent de dessous l’autel où s’accomplit un sacrifice.18 Ils donnent en général un présage de mort ou de perturbation de la maison ou de l’état. Ces animaux sont cependant associés à de meilleures fortunes quand ils symbolisent les dieux Mânes ou le genius de la naissance, y compris dans les récits, fort influencés par la culture grecque, relatifs à la manifestation d’un serpent à la mère en attente de l’enfant.19 Le problème est justement de savoir si les serpents de la bague sont des manifestations de «serpents favorables». M. A. Rizzo a pensé en effet à rapprocher la figure du personnage trônant en compagnie de serpents des stèles spartiates représentant des défunts trônant accompagnésd’unserpentsymbolisantcertainementsaforcevitale.20 Quand à la fouine, elle fait également partie des animaux qui peuvent donner des présages et son nom latin est d’ailleurs probablement mustela (nom désignant aussi la belette appartenant à la même famille); elle est un peu moins citée, à vrai dire, que le rat (donnant généralement des présages négatifs), mais précisément citée (sur le mode comique) en rapport avec les rats dans le présage du Stichus de Plaute: Auspicio hodie optumo exivi foras: mustela murem abstulit praeter pedes.21 La citation nous permet d’ailleurs de comprendre pourquoi la fouine était considérée, à l’égal du chat, un animal utile et pourquoi il est aussi représenté sur l’un des piliers de la Tombe des Rilievi de Caere.22 De même son utilité, comme nous l’avons rappelé, n’est pas négligeable contre les serpents. Quant au héron, comme tous les oiseaux il peut fournir un auspicium. Mais, dans un cas précis, il a fourni l’auspicium de la fondation d’une cité: celle d’Ardée, puisque le héron est ardea en latin. Virgile évoque ainsi cette fondation au septième chant de l’Énéide dans les vers célèbres: Locus Ardea quondam dictus avis: et nunc magnum tenet Ardea nomen / sed fortuna fuit.23 Dans ces vers Virgile condense les deux étymologies retenues par les Anciens pour la ville d’Ardée (à partir d’ardea, le héron, et à partir d’ardua, synonyme de magna). Mais à Virgile fait écho Hyginus dans ses Urbes italicae: Ardée devrait sa naissance à un augurium obtenu à partir de la mani-

festation d’un héron.24 Si tel est l’augurium de fondation, il ressemble à celui de la fondation de Capoue dont l’oiseau augural est le faucon (appelé capys par les Étrusques selon la reconstruction de la glossologie grecque).25 Revenons alors à notre bague cérite et à ses répliques. En représentant un personnage trônant entouré d’animaux auspicales, un personnage que son bâton ou son lituus désigne comme investi de la puissance augurale, la bague entend-elle illustrer une scène de culte funéraire dont le centre serait l’ancêtre trônant ou ne veut-elle pas plutôt évoquer une action remarquable ou mémorable du personnage trônant? Il nous a semblé que le monde animal autour du personnage n’a pas sa place dans une scène de culte, mais d’augurium. Le présage même soumis à l’interprétation n’est-il pas aussi à trois termes dont deux sont favorables (fouine et héron) et l’autre défavorable (serpents) et la structure de l’histoire implicite ne ressemble-t-elle pas à celle de l’omen lavinate? L’élimination du ou des serpents ne permettrait-elle pas alors de construire le pomerium et l’espace de la cité? En d’autres termes, la fonction de ce type de représentation nous semble celle d’exalter le pouvoir augural comme origine de la fondation d’une cité ou d’un espace civique.26 Il est remarquable que les animaux ominaux de Lavinium soient consacrés sur le forum de la cité, lieu inauguratus. De même on pensera que les statues d’augures ont été trouvées en des endroits sensibles de la définition auspiciale, comme l’augure du lapis niger, l’haruspice de Marzabotto ou probablement encore l’augure de Gabii.27 De même la statue voilée d’Attus Navius est consacrée au centre de l’espace civique et après manifestation de présages qui concernent les régions de la cité fonctionnellement liées aux tribus de cavalerie.28 Si telle est l’interprétation de base, la bague fournit alors une indication sur le moment où ce type de récit (qui fait de l’augure un «héros» lié à la fondation des murs ou du forum, ou d’un quelconque espace sacré et civique, devient fonctionnel à la représentation du pouvoir politique (début du vie siècle), mais devient effectivement représenté par les artistes (deuxième quart du vie siècle). Il s’agit alors de comprendre quel type d’artisans produit de telles oeuvres et quelle est leur formation culturelle. On commencera par les bagues en or à chatons ovales tripartites29 du même atelier ou du même groupe d’ate-

17 C.O. Thulin, Die Etruskische Disziplin, Göteborg 1906-1909, p. 98 sq., en particulier, pp. 103-104. 18 Cf. ThlL, s.v. anguis, pp. 53-54. Voir en particulier Cic. Div. ii 62: duobus anguibus domi comprehensis haruspices (sc. a T. Graccho) convocatos, qui magis anguibus quam lacertis quam muribus? Qui sunt haec cotidiana, anguis non item… at mors insecuta Gracchum est, causa quidem, credo, aliqua morbi gravioris non emissione serpentis; cf. Cic. Div. i 36; Val. Max. iv 6, 1; Plin. n.h. vii 172; Vir. ill. lvii 54; de cet épisode on remontera aux prodiges accompagnant la chute des Tarquins: Ov. Fast. ii 711-714: ecce, nefas visu, mediis altaribus anguis / exit et extinctis ignibus exta rapit. / Consulitur Phoebus: sors est ita reddita: «matri / qui dederit princeps oscula, victor erit; cf. Liv. i 56, 4: anguis ex columna lignea elapsus cum terrorem fugamque in regia fecisset, ipsius regis non tam subito pavore percutit pectus quam anxiis implevit curis. Itaque cum ad publica prodigia Etrusci tantum vates adhiberentur, hoc velut domestico exterritus visu Delphos ad maxime inclitum in terris oraculum mittere statuit; cf. Cic. Div. i 22. 19 Pour les textes, cf. ThlL, cit. supra note 18. 20 M. A. Rizzo, loc. cit., supra, note 8. Sur ces stèles voir C. M. Stibbe, Dionysos in Sparta, «BaBesch», 66, 1991, pp. 1-17. 21 Vers 460. 22 H. Blanck, G. Proietti, La Tomba dei Rilievi di Cerveteri, Roma, 1986, pp. 40-41, fig. 30, p. 40 et pl. xxi (pilier de gauche de la tombe). 23 Aen. vii 411-412. 24 Serv. ad Aen. vii 412. 25 Serv. ad Aen. x 145: Constat Capuam a Tuscis conditam de visu falconis augurio qui Tusca lingua capys dicitur. J. Heurgon, Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capoue preromaine: des origines a la deuxième guerre punique, Paris 1942, passim. 26 Sur le pouvoir augural et ses manifestations, essentiel M. Torelli,

Un templum augurale di età repubblicana a Bantia, «RendLincei», ser. 8, xxi, 1966, pp. 293-315; Idem, La religione, in Rasenna, éd. G. Pugliese Carratelli, Milan, 1986, pp. 159-237; Idem, La religione etrusca, in Gli Etruschi, Catalogo della mostra (Venise, 2000), Milan, 2000, pp. 273-289. 27 M. Cristofani (éd.), I Bronzi degli Etruschi, Novara 1985 (abrégé par la suite Bronzi 1985), p. 74 (i.1) p. 246: cf. Roma, Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra (Roma, 2000), éds. A. Carandini, R. Capelli, Roma, 2000; pour Gabii, P. Zaccagnini, M. Guaitoli, in Civiltà degli Etruschi, catalogo della mostra (Firenze, 1985), éd. M. Cristofani, Milan, 1985, pp. 287288; pour Marzabotto, G. A. Mansuelli, Sulle testimonianze più antiche di Marzabotto, in Studi in onore di L. Banti, Rome, 1965, pp. 241-247; cf. A. Gottarelli, Templum solare e città fondata. La connessione astronomica della forma urbana della città etrusca di Marzabotto, in Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto. Nuove prospettive di ricerca, Atti del Convegno di Studi (Bologna, 2003), «Studi e Scavi», 11, Bologna, 2005, pp. 101-138; cf. le bronze d’Isola di Fano: Bronzi 1985, nº 44. 28 Sur Attus Navius, re , xvi.2, 1935, s.v. Navius, coll. 1933-1936 [W. Kroll]; pour les sources principales: Liv. i 36, 2; Fest., p. 168, 32 L; Dion. Hal. iii 70, 1; Cic. Div. i 32. 29 Pour le type bipartite: voir Boardman 1967: b i 1*, 1a*, 3*, 4; ce type offre des oppositions héraldiques entre lion et sphinx et entre deux oiseaux, avis sinistra et avis dextra; on notera parfois sous les pattes du sphinx ou du lion, une rosette ou une croix, qui renvoient à des symboles astraux (comme sur le 21 à composition tripartite, une croix – stella augurale – près des oiseaux en vol.

locus ardea quondam dictus avis ou variations sur le sujet d ’ une histoire Registre médian

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Provenance

Registre supérieur

Registre inférieur

1. Collection Fortnum (Oxford F, 52) (Fig. 3 à gauche; Boardman 1967, b i 6)

Homme ailé tombé sur le sol ou se relevant du sol; dans la main gauche bâton; derrière lui, arbrisseau

Sirène

Bouquetin pliant le train avant (s’accroupissant sur le sol ou se relevant)

2. Collection Fortnum (Fig. 3 au centre)

Sirène

Cheval marin

Sirène (tête bêche par rapport aux autres représentations

3a. Collection Castellani, V.G. 3b. Collection Fortnum, Oxford F. 763 (Boardman 1967, b i 5)

Palmipède serpent lové sous une branche

Personnage trônant et animaux auspicales (serpents, fouine, héron)

Palmipède et serpent lové ou dressé sous une branche

4. V.G. 40876 Cerveteri (Boardman 1967, b i 21)

Disque solaire ailé

Sphinx

scarabée

5. VG. 40877 Cerveteri (Boardman 1967, b i 29)

Lion assis

Cheval ailé au galop accompagné par chien courant

Sanglier en course

6. A&V Museum (Londres) (Boardman 1967, b i 9*)

Sirène

Homme assis devant un sphinx, le bras tendu en direction du cou de ce dernier

Disque solaire ailé (inversé)

7. Louvre Bj. 1061 (ex collection Campana) (Boardman 1967, b i 8)

Oiseau au ras du sol vers la gauche

Trois hommes en marche vers la gauche, le premier tenant un bâton

Oiseau en vol, les ailes ouvertes

Tab. 1.

liers qui certainement travaille pour une clientèle homogène cérite. Le répertoire est intéressant à plus d’un titre. On compte en effet une majorité de sujets qui combinent des représentations d’oiseaux, en différentes postures, le plus souvent en vol ou mouvant une aile, à des représentations de sujets solaires et royaux (sphinx, lions ailés, etc.): ce sont les exemplaires 11*, 12, 13*, 14, 15*, 16, 17*, du type b i (Boardman 1967). On soulignera donc la parfaite homologie de ces scènes avec le monde des auspices, de l’observation solaire et du pouvoir augural en rapport avec ces deux réalités. Sur certaines bagues, comme la 18 du même type, le symbole solaire est représenté par des flèches (comme les rayons de cet astre dans l’art égyptien).30 Le bestiaire s’enrichit parfois d’un cheval marin, ou d’animaux sauvages (cerf, lièvres: le premier non sans rapport avec des prodiges), parfois d’un centaure (b i 7). Parmi ces bagues nous examinons plus particulièrement celles qui mettent en œuvre un système signifiant complexe qui nous semble caractériser «centre» de la production. Nous les avons réunies dans le tableau supra où nous retrouvons la première scène examinée (ci-dessus 3a et 3b) (Tab. 1). Le répertoire est de nouveau intéressant à plus d’un titre. En effet, nous notons que parmi les représentations de personnages trônant ou siégeant auxquelles appartiennent celles de la bague précédemment examinée, nous comptons 6 (supra) une exemplaire qui combine un symbole du

soleil ailé (médian ou levant) à un symbole (la sirène) qui est seulement une transcription du «ba» égyptien, l’âme active qui se confond avec l’idée d’ascension au ciel et d’étoile31. Mais la scène centrale (personnage assis devant le sphinx), équivalent de l’augure de 3a-b, peut nous intéresser à plus d’un titre car non seulement le sphinx est une traduction de Ré, le soleil et de Phré, le bienveillant maître et conservateur du monde, ıÂe˜ ̤Á·˜ ‰ÂÛfiÙ˘ ÔéÚ·ÓÔÜ,32 mais encore de la force et du pouvoir sapiential,33 Intéressante est aussi la scène de la bague du Louvre 7 (supra) puisque entre deux symboles auspiciaux, en relation avec le soleil, culminant (oiseau en vol) ou se couchant (oiseau à terre), elle offre une théorie d’hommes (s’agit-il d’un collège sacerdotal?) dont le premier est sûrement muni du pouvoir sapiential suprême (le bâton) et dont on veut peutêtre exalter la faculté augurale de limitatio de l’espace. La bague 4 (supra) ne comporte que des symboles solaires: disque ailé, sphinx et scarabée. Or le scarabée (Kheper) est plus spécialement en rapport avec le soleil levant tandis que le disque ailé est sûrement en rapport avec la culmination solaire d’Horus (non sans rapport d’ailleurs, comme l’analyse Champollion à partir d’images complexes et de leur commentaire hiéroglyphique, avec la sapience de Thot (le premier Hermès).34 Nous observons ensuite sur l’exemplaire 5 (supra) la présence d’un symbole royal, le lion, opposé à un animal de chasse héroïque et d’auspices, comme le sanglier. Le symbole central est certainement lié à l’immortalité car Pégase

30 Boardman se demande s’il s’agit d’un arbre ainsi stylisé. Peut-être pourrait-on dire qu’il s’agit d’une «végétalisation» consciente du symbole solaire pour représenter un arbre dont la signification est en rapport avec le soleil (laurus?). 31 L. Kákosy, A. Roccati, La magia in Egitto ai tempi dei Faraoni, catalogo della mostra (Milan, 1991), Modena, 1991, p. 17.

32 Horapollon, cf. Amm. Marc., xvii 4 (cité par Champollion – infra note 33 – à propos de l’obélisque du Circus Maximus). 33 J. F. Champollion, Le panthéon égyptien, Paris, 1992 (réimpression de l’ouvrage de 1823: éd. Firmin-Didot), 24 e (commentaire de l’image d’un sarcophage appartenant à la collection «du roi de Sardaigne» (maintenant à Turin). 34 J. F. Champollion, op. cit., 15b, 15c: cf. ibidem 3 ter.

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parcourt l’éther et il n’est pas impossible que le chien qui l’accompagne ne signifie le lever de la constellation homonyme au solstice. Ici, au code égyptisant de la représentation se substitue un code hellénisant, mais qui est équivalent, puisque le chien Sirius est en rapport avec la culmination d’Horus au solstice (soit en Égypte avec le début de l’inondation du Nil).35 Au cheval du ciel, en fonction de symbole d’immortalité répond le cheval marin du troisième exemplaire (2 supra) qui ne peut signifier que la pérennité des courants océaniques et l’immortalité, ou encore le voyage vers l’immortalité associé à l’élément liquide pérenne. Ce cheval marin est opposé à deux motifs de Sirènes qui corroborent la signification de l’ensemble, les Sirènes se situant de façon ambiguë entre l’immortalité et la mort, mais étant surtout, comme nous l’avons vu, des transcriptions de l’ascension céleste dérivées, pour la forme et la signification, du ba égyptien et de la symbologie astrale. L’ensemble du programme unit donc à la représentation du monde primordial liquide celle de deux astres ou de leur équivalent. Quant à l’exemplaire 1 (supra), il est des plus notables. Le motif central est ici la Sirène dont nous avons rappelé la signification. Le motif inférieur est clair, mais l’animal est représenté tandis qu’il se couche ou se relève et cette particularité nous semble moins banale que le motif de l’animal courant ou broutant. D’autant qu’on reconnaîtrait une sorte de correspondance magique entre l’attitude du personnage anthropomorphe du registre supérieur et celle de l’animal. Le personnage pourvu d’ailes est en effet allongé en appui (?) sur son avant-bras gauche, tandis que la main droite tient un bâton ou une branche. Boardman a pensé à une chute et à la légende d’Icare, même si les caractères de l’iconographie sont uniques36 comme est unique l’iconographie de l’exemplaire de Vulci où Furtwaengler a voulu reconnaître une allusion au mythe de Phaéton, puisque Phaéton serait représenté en train de tomber à côté d’une paire de chevaux ailés.37 Ces interprétations grecques de l’image sont cependant vraisemblables parce que l’idée essentielle est la représentation de la course du soleil et des levers et couchers des astres. À notre avis, le personnage ailé (de 1 supra) est en appui au sol, la main droite rejetée en arrière. Il nous semblerait alors plus logique de conclure qu’il se relève devant l’arbrisseau qui situe le paysage (et possède probablement aussi une valeur symbolique). Si telle doit être l’interprétation du motif, le personnage ailé se relevant ne peut que nous orienter vers la signification de l’àÓ·ÙÔÏ‹ d’un astre: mais il est certain que ce même astre a auparavant connu une ‰‡ÛȘ et que la considération de l’opposition sol exoriens/sol occidens est le vrai ressort du choix mythologique, quel qu’il soit. Les bagues examinées jusqu’à présent présentent donc un répertoire s’inspirant de modèles tardo-orientalisants d’ascendance phénicienne ou mixte, gréco-phéniciens. Ce

caractère ne saurait étonner si l’on considère la masse des objets (scarabées, amulettes, statuettes, plats, vases «du nouvel an» etc.) qui ont atteint les côtes du Latium et de l’Étrurie: de Pithécuses à Suessa Pometia (Satricum), de Cumes à Tarquinia, de Sardaigne à Caere et Vulci, de Carthage à la côte du Latium, pour ne citer que quelques unes des routes et des cités impliquées dans ce commerce.38 Mais il ne s’agit pas seulement de modèles, mais de compréhension de ces derniers; le répertoire utilisé n’est pas seul en cause, mais l’utilisation consciente d’un répertoire d’images créatrices de sens. Les sujets de ces bagues renvoient alors à une structure mentale et à une attitude religieuse que les textes nous livrent aussi à leur manière dans la stratification de notices qu’ils contiennent. Ainsi le culte solaire et funéraire de Sol Indiges, de Pater Aeneas ou du Soleil ancestral qui régit le courant du Numicus est le produit d’un imaginaire religieux similaire à celui qui s’exprime à travers les scènes ornant les chatons de ces bagues.39 Celles-ci comprennent non par hasard des scènes évoquant le pouvoir augural, et son application pratique à la création des espaces sacrés de la cité, mais aussi à l’investiture royale qui a lieu selon le rituel employé pour Numa et conservé par Tite Live, en orientant le roi vers le soleil de midi.40 Le personnage trônant de 6 (supra) fournit sans doute un exemple de cette intronisation-inauguratio. Mais ce culte solaire est aussi un culte funéraire «de fondation», puisque sont en cause la gens et le nomen, comme l’enseignent les dispositifs du culte près de l’Aphrodisium d’Ardée et près de celui de Lavinium à La Madonella, proche du tumulus considéré comme celui de l’ancêtre, Aeneas, Pater Indiges.41 Chevaux marins et cours d’eau liés à la topographie mythique ou réelle du tumulus ancestral, chevaux célestes et disques solaires pour le soleil à midi, et pour l’étoile du soir (vesperugo) se levant et se relevant: telles sont les images des bagues. Et le binome sol exoriens/sol occidens est aussi l’indication cultuelle du pulvinar Solis, comme on le connaît à Rome sur le Quirinal, colline de Quirinus ou de Romulus divinisé.42 Mais à ce culte solaire est également associée l’origine du singulier triomphe ou «prototriomphe» d’Énée consacré par l’institution des Vinalia dont la «contre-partie» est le culte du vainqueur qui a succombé dans la bataille. C’est pourquoi les deniers de L. Papius Celsus, frappés par le représentant d’une famille qui a des attaches à Lanuvium, mais aussi à Préneste,43 ne présentent pas une simple personnification du triomphe, selon l’interprétation couramment admise, mais bien une image de Juppiter Indiges, associé au triomphe d’Énée et s’identifiant à Énée. Aussi l’iconographie du denier est-elle aux luttes de la fin de la République romaine et aux sympathies partisanes des Papii ce que le triomphe d’Énée est à Juppiter Imperator et aux

35 Sur ces notions, A. Le Boeuffle, Les noms latins des astres et des constellations, Paris, 1977, pp. 133 sq., 202. 36 Boardman 1967, p. 9, qui renvoie à J. Boardman, Cretan collection in Oxford, Oxford 1961, 48, pl. 16 (Ikaros? Semble tomber à la renverse; en plus des ailes, chaussures ailées; de l’antre de l’Ida); cf. LIMC, iii.1, 1986, s.v. Daidalos et Ikaros, pp. 313-321 [J. E. Nyenhuis], en particulier 14 (hydrie attique à figures noires: Ikaros (inscription, en course, chaussures ailées aux pieds). f. sur le thème de Dedale et Icare, nos réflexions sur l’olla en bucchero de Ramtha Kansinaia: F.-H. Massa-Pairault, La fonction politique du mythe dans l’iconographie étrusco-italique: quelques exemples, in Iconografía ibérica. Iconografía itálica: Propuestas de interpretación y lectura, Actes du colloque international (Rome, 1993), éds. R. Olmos Romera, J. A. Santos Velasco, Madrid, 1997, pp. 43-59, en particulier, pp. 48-49, fig. 8, 9, 10, pp. 52-53.

37 Furtwaengler, ag , pl. 7.7; Boardman 1967, p. 9; cf. LIMC, vii.1, 1994, s.v. Phaeton, i , pp. 350-354 [F. Baratte], en particulier 21 (intaille du ive siècle av. J.-C). 38 Voir M. Gras, Gli scambi, in Gli Etruschi, cit., supra, note 26, pp. 97109; A. Naso, Le aristocrazie etrusche in periodo orientalizzante. Cultura, economia, religione, ibidem, pp. 111-129; F. De Salvia, La magia egizia in Italia, in La magia in Egitto ai tempi dei Faraoni, cit., supra, note 31, pp. 132-137. 39 Torelli 1984, pp. 157-173 et pp. 173-179. 40 Liv. i 18, 4; voir re , ix.2, 1916, s.v. Inauguratio, coll. 1220-1229 [Richter]. 41 Torelli, loc. cit., supra, note 39. 42 Torelli 1984, p. 213. 43 re , xviii.3, 1949, coll. 1075-1078 [Münzer]; pour la gens Papia à Praeneste, cil i2 236.

locus ardea quondam dictus avis ou variations sur le sujet d ’ une histoire élites prénestines antiromaines du ive siècle sur la ciste analysée par Mauro Menichetti.44 La séquence triomphe-mort-culte funéraire est indissoluble, même si l’interprétation postérieure à fond mythologique «régularisé» que nous trouvons dans les textes, tendra à refléter une structure religieuse modifiée par rapport à la mentalité la plus ancienne. Comme par exemple la substitution d’une «mythologie» évoquant le mariage d’Énée et de Lavinia à la religion solaire et astrale des premiers temps des emporia, marquée par la présence des Aphrodisia de la côte latiale. Mais cette substitution recouvre aussi, comme nous

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le savons, de nouvelles pratiques matrimoniales finalisées à l’expression des mariages interlatins.45 Or, l’examen des bagues et de la logique interne de leurs représentations, nous permet aussi de saisir une évolution notable qui correspond au passage d’une mentalité formée à l’école des modèles de souveraineté et de pratiques cultuelles d’origine orientale, à une mentalité qui est le fruit d’une société urbaine, à la transition entre le «despotisme oriental» de l’aristocratie et l’expression d’un modèle politique et social plus conforme aux comportements et aux idéaux des aristocraties des poleis grecques. Sans rien renier

Provenance

Brève description

1. Richter46 716 = Louvre 1072 (Campana) = Boardman 1967, b ii 14*

Personnage conduisant une triga, tenant les reines de l’attelage et un fouet; devant le char, une Sirène qui tourne la tête en direction du conducteur; rosette sous les chevaux.

2. Richter 717 = Louvre 1071 (Campana) = Boardman 1967, b ii 11*

Carpentum (type Castel San Mariano) conduit par un personnage tenant un fouet; à l’arrière, femme assise sur un siège à dossier circulaire (trône); l’attelage est composé d’un sphinx et d’un cerf; devant l’attelage, une biche broutant.

3. Richter 718 = Louvre 1070 (Campana) = Boardman 1967, b ii 10

Carpentumconduit par un personnage portant un tutulus; à l’arrière femme assise levant la main; l’attelage est composée d’un sphinx et d’un cerf. Devant l’attelage personnage ailé coiffé du tutulus, représenté en course «à genoux».

4a. Richter 719 = Louvre 1073 (Campana) = Boardman 1967, b iv 2* (technique en relief )

Apollon conduisant une bige traînée par des chevaux ailés. Il tend son arc dans sa poursuite de Tityos (en course «à genoux»), précédé de sa mère, Gè.47 Archer (Apollon) monté sur bige ailée et poursuivant homme; derrière la bige, autre homme courant.

4b. Cab. Méd. 2614 (ex-Durand) 5. Richter 720 = Louvre 1074 (Campana) = Boardman 1967, b ii 7*

Personnage masculin conduisant un char traîné par un lion et un sanglier; le char est précédé par un personnage portant le tutulus et représenté en course «à genoux»; à la rencontre du conducteur du char se tient un second personnage (entre l’attelage et le personnage coiffé du tutulus) tenant une branche dans une main. Une branche également devant le personnage en course.

6. Richter 721 = Naples 25089 (provenance inconnue, acheté à Gênes)

Bige conduite par un personnage portant un manteau et tenant un fouet. Devant l’attelage de chevaux, un cygne.

7. Louvre Bj. 1075 (ex Campana) = Boardman 1967, b ii 2*

Femme coiffée du tutulus et tenant un alabastron. Elle est suivie d’un jeune garçon et s’approche d’un «autel-fontaine» dont l’eau sourd d’une tête de lion: un monstre accroupi à tête de loup est perché sur la partie postérieure de l’autel et regarde un homme en embuscade derrière la construction. Nous identifions les personnages à Achille, Polyxène et Troïlos.48

8. Autrefois Feoli: ag, pl. 7.8 = Boardman 1967, b ii 1

Deux femmes et un enfant à la fontaine. L’eau sourd d’une tête de lion et retombe dans un bassin; un oiseau, des étoiles et un arbuste.

9. Villa Giulia (ex-Castellani), de Caere = Oro 1983, p. 298, n. 180 [M.A. Rizzo]

Réplique de la précédente.

Tab. 2. 44 M. Menichetti, Praenestinus Aeneas. Il culto di Iuppiter Imperator e il trionfo su Mezenzio quali motivi di propaganda antiromana su una cista prenestina, «Ostraka», 1994, pp. 7-30. 45 Torelli, 1984, p. 118 sq. 46 G. M. Richter, Engraved Gems of the Greeks and the Etruscans. A History of Greek Art in Miniature, i, Londres, 1968. 47 On peut hésiter parfois en effet sur l’identité de la femme qui court: Léto ou la mère de Tityos (dans certaines versions, il s’agit de Gaia, personnification de la Terre: d’où parfois les points de contacts avec la Gigantomachie).

48 Même si l’homme en embuscade n’est pas armé: détail que l’on peut objecter à la proposition d’identification à Achille (voir E. Simon, Die Tomba dei Tori und der etrusckischen ApollonKult, «jdai», 88, 1973, pp. 27-42, en particulier, p. 40), les autres détails, et particulièrement le monstre à tête de loup sont employés dans l’iconographie étrusque contemporaine comme l’amphore Astarita du Musée Grégorien, et ce détail ne peut que renforcer la conclusion précédente et en même temps enlever tout doute sur l’authenticité de la bague du Louvre: en dernier, F. Gaultier, C. Metzger (éds.), Trésors antiques. Bijoux de la collection Campana, Paris, 2005, p. 129, ii.42.

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françoise-hélène massa-pairault

Fig. 4. Bague du Musée du Louvre (ex collection Campana): Troïlos et Polyxène épiés par Achille à la fontaine du sanctuaire d’Apollon Thymbraios (d’après E. Simon, «jdai», 88, 1973).

Fig. 5. Bague provenant de Caere (Musée de Villa Giulia): scène de culte à la fontaine (couple, enfant, et symboles étoilés) (d’après Oro 1983, n. 180).

des premières expériences, la société accueille de nouveaux modèles de représentation, qui sont seulement la translation des premiers modèles, leur traduction, adaptée au nouveau cadre socio-religieux des cités, où priment les relations entre grandes gentes, constituées en corps politique homogène. Une autre série de bagues, attribuables en majorité à un atelier cérite, ou au même atelier, mais produites vraisemblablement environ une génération après la première série en porte témoignage (Tab. 2). Dans cette série frappe l’apparition de thèmes de la mythologie grecque comme le combat et le triomphe d’Apollon sur Tityos (4a-b supra).49 Mais ce n’est pas le seul thème mythologique qui affleure. En effet, l’exemplaire 5 (supra), s’inspire du mythe d’Admète qui, pour conquérir Alceste dut surmonter une épreuve singulière consistant à atteler ensemble un lion, un sanglier, soit à former un attelage impossible (à‰‡Ó·ÙÔÓ). Il faut reconnaître aussi le mythe de Troïlos à la fontaine, ou plutôt de Polyxène et Troïlos à la fontaine (autre variante du mythe50) selon une iconographie qui rappelle celle de la Tombe des Taureaux, mais présente aussi des détails intéressants qui nous arrêteront. Une autre caractéristique de cette série est constituée par la polarité représentative (masculin/féminin) avec une alternance de scènes en char (masculin) et de scènes en carpentum (féminin). Tous les carpenta51 sont traînés par des attelages «impossibles», sur le modèle de l’attelage du lion et du sanglier renvoyant au mariage d’Admète et d’Alceste. Il est évident que les femmes qui sont conduites dans ces véhicules sont des épouses et que la scène fait allusion à quelque mariage «héroïque». Elle n’est pas traitée sur le modèle réaliste (par exemple avec un attelage de mules, comme sur les plaques en terres cuites de seconde phase et en particulier à Murlo) mais encore avec le goût animalier oriental et sans doute ici gréco-oriental. Malgré cette irruption de la mythologie grecque (due probablement aussi au même courant «ionien-oriental»),

les représentations ne laissent pas d’être parfaitement en ligne avec la tradition précédente du milieu culturel de réception. L’exemplaire 1 (supra), en effet, restitue certainement l’image d’un vainqueur aux jeux (le véhicule, la triga étant caractéristique de l’institution52), mais la Sirène qui se retourne vers le conducteur ne peut que teinter la manifestation d’une couleur funéraire et l’image pourrait faire allusion à des jeux funéraires. Comme le rappelle d’ailleurs Isidore de Séville «trigas inferis sacraverunt».53 La présence du personnage à tutulus courant devant le char de l’homme sur l’exemplaire 5 et le même personnage, mais pourvu d’ailes devant le carpentum du 3 (supra) ne peut que nous orienter vers le monde solaire strictement en rapport au sosltice avec certains vents (étésiens54) ou encore à l’équinoxe de printemps avec les souffles zéphyréens et érotiques accompagnant les rites de l’hyménée.55 Les formes préfigurent ici les personnages des antéfixes des portiques du sanctuaire b de Pyrgi.56 Enfin on pourrait dire que la scène mythologique d’Apollon et Tityos est la parfaite transcription dans le langage anthropomorphique de la mythologie grecque des valences solaires associées au triomphe et à la mort dont nous avons vu la plus antique version orientalisante dans son revêtement iconique symbolique oriental-phénicien. Il n’est pas jusqu’à la scène de l’embuscade à Troïlos qui ne nous semble fonctionnelle à cette idée. Elle a lieu en effet dans un sanctuaire d’Apollon Thymbraios, soit dans un lieu solaire: sur l’exemplaire 7 (supra) on note la présence d’un monstre à tête de loup accroupi sur l’autel (Fig. 4). L’ascendance de ce motif nous fait retrouver l’Égypte. En effet c’est Anubis, l’un des fils d’Horus, qui préside au jugement des morts que l’on peut évoquer.57 Par ailleurs, il est évident que le monstre en position accroupie n’est pas sans évoquer la posture des singes cynocéphales, être lunaires.58 Dans le livre des Morts les quatre cynocéphales naviguent dans la barque solaire et conseillent à l’âme qui sera sou-

49 LIMC, viii.1, 1997, s.v. Tityos, pp. 37-41 [R. Volkommer]; sur les représentations du mythe en Étrurie voir en particulier G. Camporeale, Le raffigurazioni etrusche del mito di Apollo e Tityos, «StEtr», xxvi, 1958, pp. 3-16. 50 LIMC, viii.1, 1997, s.v. Troilos, pp. 91-94 [A. Kossatz-Deissmann]; cf. LIMC, i. 1, 1981, s.v. Achilleus, vii , pp. 206-388 (où d’ailleurs la bague ici examinée n’est pas recensée); voir pour les interprétations les plus récentes du mythe en Étrurie, L Cerchiai, La machaira d’Achille: alcune osservazioni a proposito della tomba dei Tori, «aion Arch», 2, 1980, pp. 25-39; B. d ’ Agostino, Achille e Troilo: immagini, testi e assonanze, «aion Arch», 7, 1985, pp. 1-8. 51 Pour le modèle, voir le char féminin de Castel San Mariano: en dernier Anna Eugenia Feruglio in Gli Etruschi, cit., supra, note 26, pp. 580-582, nº 127. 52 F. Coarelli, Il Campo Marzio: dalle origini alla fine della Repubblica, Rome, 1997, p. 70 sq.

53 Is. Sév. Etym. xviii 36, 1.1; F. Coarelli, op. cit., supra, note 52, p. 70. 54 Ainsi les vents étésiens et le solstice: A. Le Boeuffle, loc. cit., supra, note 35. 55 Torelli 1984, p. 88, note 62 (sur Zephyr-Favonius, Favores), p. 180. 56 Santuari d’Etruria, Catalogo della mostra (Arezzo, 1985), éd. G. Colonna, Milan, 1985, pp. 132-133, nº 6-7. Ultérieure bibliographie, impossible à citer entièrement ici. 57 R. O. Faulkner, C. Andrews, The Ancient Egyptian Book of the Dead (The British Museum), Londres, 1972, p. 112 figure et incantation 117, p. 113; cf. ibid. fig. p. 117 et incantation 124 (Horemheb devant les quatre fils d’Horus). 58 Horapollon, Hiéroglyph., lib. i 14; J. C. Champollion, op. cit., supra, note 22, 14 f; cf. ibid., 30 f et 30 g.

locus ardea quondam dictus avis ou variations sur le sujet d ’ une histoire

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mise au jugement et devra éviter les lacs de feu d’entrer par les portiques secrets de l’Ouest pour trouver pleine liberté et satisfaction de tous les désirs.59 C’est Thot également sous forme de singe qui rapporte l’oeil du Soleil (qui est aussi l’oeil du défunt Osiris).60 Ces réalités ne devaient pas être inconnues des Grecs de Naucratis et, par la «ionian connexion», se sont transmises en Étrurie qui déjà en avait connaissance antérieure. Polyxène et Troïlos apparaissent alors comme les dévôts d’un culte solaire et ancestral (car selon certaines versions Apollon Thymbraios est le père de Troïlos) dont il vont bientôt devenir les héros (après leur sacrifice-mort par l’intermédiaire d’Achille). Mais l’hommeloup, avatar d’Anubis, fils d’Horus, être solaire, n’est autre que l’Apollon noir chthonien, le S´uri des Étrusques, le pater Soranus des Falisques.61 Remarquables sont aussi les signes que l’on a voulu associer à la scène qui semble calquée sur l’embuscade d’Achille (exemplaire 8 supra), mais où l’embuscade, comme la présence d’Achille, est exclue. La scène se transforme ainsi en scène de culte solaire où figurent un couple et un jeune garçon, tenant peut-être un lituus. On reconnaît en effet le culte solaire, près de la fontaine aux symboles dessinés dans le champ: l’oiseau (exoriens), et l’étoile devant l’arbuste (Fig. 5). Nous sommes ici (et l’exemplaire 9 [supra] de Cerveteri revêt une grande importance) devant une scène qu’il ne nous déplairait pas d’imaginer dans le sanctuaire de S´uri et Cavatha à Pyrgi. Cavatha, oculus Solis, Solis filia n’est peut-être qu’une interpretatio etrusca de l’oeil

d’Horus (ugiat)62 née dans le contexte religieux de Pyrgi, entre influences carthaginoises et grecques. Et le culte solaire à travers lequel est interprété le mythe de Troïlos pourrait en être le produit aussi bien de ce milieu que de la «Grande Rome des Tarquins». L’examen de la seconde série de sujets permet donc de reconnaître la mentalité orientalisante antique sous son nouveau vêtement, emprunté de façon plus décisive au monde des aristocraties et des poleis grecques: aux grand rituels du mariage et des jeux de l’épos qui donnent prestige aux gestes personnelles des familles «tyranniques» comme celles des Cypsélides et de leurs émules sur le sol italien (les Tarquins). Aux nouvelles réalités des contacts commerciaux et emporiaux où compte l’Apollon de Delphes (Tityos),63 mais aussi toutes les réalités des cultes solaires dans les emporia, dont les systèmes religieux se reflètent l’un dans l’autre, d’une extrémité à l’autre de la côte entre Ardée, Lavinium et Pyrgi.64 Transcription, traduction, transposition infinie d’un langage nous assurant de la présence d’un même sujet mental qui nous a laissé pour traces de son existence aussi bien les reliques de son monde dans le corpus hétérogène, historiquement stratifié et artistiquement «déréalisé» des textes, que le témoignage de ses aspirations à travers les créations plus homogènes d’artisans65 travaillant au jour le jour selon la logique d’une même imagination d’une génération à l’autre. Locus Ardea quondam dictus avis...

59 Incantation 156: voir The Ancient Egyptian Book of the Dead, cit., supra, note 57, p. 115, fig. pp. 118-119. 60 Ibid. incantation 157: voir aussi La magia in Egitto, cit., supra, note 31, pp. 82-84. 61 G. Colonna, L’Apollo di Pyrgi, in Italia ante romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane, Pise 2005, pp. 2337-2355. Cf. F. Coa relli, Campo Marzio, cit., supra, note 52, pp. 377-391.

62 Supra note 60. 63 F. Coarelli, I Tarquinii e Delfi, in A. Mastrocinque (éd.), I Grandi Santuari della Grecia e l’Occidente, Trente 1993, pp. 31-41. 64 G. Colonna, Novità sui culti di Pyrgi, «rpaa », 57, 1985, pp. 57-88. 65 M. Torelli, Autorappresentarsi. Immagine di sé, ideologia e mito greco attraverso gli scarabei, «Ostraka», xi.1, gennaio-giugno 2002, pp. 101-155.

UN S ITO DI FRONTIE RA DE LLA P RI MA E T À DE L F E RRO NEL TERRI TO RI O DI T USCANI A Anna Maria Moretti Sgubini

N

el giugno del 2001 un privato proprietario consegnava all’assistente di Tuscania signor Elio Regni numerosi frammenti di impasto molti dei quali subito riconosciuti pertinenti ad un vaso di grandi dimensioni. Gli stessi erano stati riportati in luce nel corso di lavori di aratura in un terreno ubicato a San Giuliano Vecchio, in toponimo Longarina dell’Infernetto,1 località ubicata poco più a nord-ovest di Pian di Vico, in prossimità del fosso dell’Infernetto e a circa cinquecento metri dalla sponda destra dell’Arrone2 (Fig. 1, n. 1). Da quanto riferito dallo scopritore il vaso era stato rinvenuto a circa cm 50 di profondità dal piano di campagna con la base ancora “parzialmente alloggiata nel banco” naturale. Successive ricognizioni di superficie condotte sul terreno in tempi diversi non hanno portato ad ulteriori rinvenimenti di questo tipo.3 Sebbene a tutt’oggi non si siano purtroppo potute avviare le sistematiche indagini di scavo indispensabili per inquadrare il contesto topografico di provenienza dei materiali e per acquisire maggiori dati conoscitivi per quella che sembra configurarsi come l’area di un sepolcreto correlato ad un insediamento certo ubicato poco lontano, forse sullo stesso pianoro di Pian di Vico,4 l’importanza del ritrovamento che concorre a gettar nuova luce sul territorio di Tuscania, particolarmente avaro – com’è noto – di testimonianze della prima età del Ferro,5 mi ha spinto a darne notizia confidando di far cosa gradita a Giovanni Colonna cui siamo, fra l’altro, debitori di contributi fondamentali per la conoscenza dell’Etruria interna. A seguito dell’intervento di restauro di recente conclusosi6 i frammenti recuperati sono risultati pertinenti a due distinti vasi. Si tratta di una ciotola, a vasca profonda a profilo continuo, con ansa a bastoncello impostata poco sotto l’orlo7 (Fig. 2, d-e), e di un’anfora-cratere conservata quasi per intero8 (Fig. 2, a-c). Questa, realizzata in un impasto bruno-marrone ricco di inclusi lucidato a stecca e con vistose tracce di sfiammature in corrispondenza del collo e della spalla, ha corpo globulare, collo moderatamente alto, orlo

sviluppato e svasato, piede troncoconico e alte anse verticali, delle quali soltanto una conservata. Queste ultime risultano costituite da una coppia di bastoncelli verticali e paralleli decorati all’esterno da costolature orizzontali, che s’impostano sulla spalla e si saldano nella parte superiore all’orlo del vaso. Ricca la decorazione incisa a pettine a tre e a quattro punte ed impressa a punzone e a falsa cordicella e consistente sulle spalle in motivi a bande accuratamente eseguiti, sul corpo in un fregio di metope. Procedendo dall’alto (Fig. 2, a-b) si susseguono una fascia di segmenti obliqui continui a falsa cordicella,9 una fila di cerchi con motivi cruciformi impressi,10 una seconda fascia di segmenti obliqui a falsa cordicella che definisce superiormente un fregio di triangoli a falsa cordicella con punto impresso al vertice.11 Sul corpo sono sette metope a doppia cornice e punti impressi agli angoli con diagonali e angoli concentrici nei triangoli di risulta,12 angoli che in più di un caso trovano prosecuzione dando luogo, nello spazio riservato, ad una sorta di motivo a N. Se ciascuno di tali motivi trova confronto puntuale o comunque appare accostabile a elementi decorativi che in prevalenza ricorrono in prodotti vascolari provenienti dai centri di Vulci e Tarquinia, ma risultano in significative percentuali attestati anche a Caere, Veio e Bisenzio,13 un più utile apporto all’inquadramento della nostra anfora-cratere ci offre la forma. Questa trova infatti confronto in un circoscritto, più raffinato gruppo di vasi di Tarquinia14 che sembrano avere una diffusione piuttosto limitata e, risultando pertinenti a contesti riferiti ad un periodo compreso tra la fase IB2 e la fase iia1, si collocano nell’orizzonte di passaggio dal Villanoviano tipico a quello evoluto, come di recente puntualizzato.15 Tuttavia dagli esemplari tarquiniesi, cui sembra correlato anche il più recente vaso dalla tomba 36 della necropoli del più periferico centro di Poggio Montano,16 quello dal territorio di Tuscania differisce per le sue maggiori proporzioni e per la forma delle anse. La soluzione proposta da queste ultime trova tuttavia puntuali confronti

1 Cfr. Archivio saem, pos. Tuscania 7, prot. n. 6673 del 4-7-2001, relazione ass. E. Regni, con posizionamento del rinvenimento. Il terreno, di proprietà del signor Sante Serfustini, è distinto al Catasto di Viterbo al F. 43 del Comune di Tuscania, part. n. 5. 2 Per una prima notizia, cfr. Ricciardi 2006, p. 156. 3 Va peraltro segnalato che, nel corso di un sopralluogo di controllo del terreno effettuato dalla dottoressa Sara Costantini e dall’assistente Elio Regni, poche decine di metri più a sud è stata individuata un’area di frammenti (cfr. relazione della dottoressa Laura Ricciardi, prot. n. 10875 del 16-12-08, pos. 34-31-01) che sembrano riferibili ad un insediamento di età ellenistica, come è stato possibile riconoscere nel corso di un’ulteriore ricognizione effettuata l’11-02-2009. 4 Verso il quale fanno guardare i seppur numericamente modesti indizi disponibili: cfr. infra. 5 Moretti Sgubini 2005, p. 214; Petitti 2007, pp. 324-325, Colle San Pietro, Pian di Mola. 6 L’intervento di restauro si deve alla signora Marina Scoponi, la documentazione grafica è dei signori Simonetta Massimi e Giovanni Pellegrini Raho, le riprese fotografiche sono state effettuate dai signori Bruno Cioci e Mauro Benedetti, tutti della Soprintendenza che con Maria Letizia Arancio ringrazio. Un particolare pensiero va all’amico dott. Filippo Delpino al quale devo molti preziosi suggerimenti.

07 Inv. n. 146116. Ricomposta da numerosi frammenti e mancante di quasi metà; di impasto bruno marrone ricco di inclusi e lucidato a stecca, presenta tracce di sfiammature. Diam. bocca cm 22 circa. 08 Inv. n. 146117. Ricomposta da numerosi frammenti, manca di parti del collo, della bocca e, quasi per intero, di una delle anse. Alt. cons. cm 30,8; diam. bocca cm 27,4. 09 Motivo De Angelis tav. 45:19, A; cfr. De Angelis pp. 123-125. Il motivo ricorre a Barbarano (4 exx.), Bisenzio (1 ex.), Cerveteri (13 exx.), Gran Carro (11 exx.), a Tarquinia (30 exx.), a Veio (15 exx.) e a Vulci (23 exx.). 10 Motivo De Angelis tav. 32:3, B; cfr. De Angelis 2001, p. 81. Il motivo è attestato a Tarquinia (2 exx.). 11 Variante del motivo De Angelis tav. 43:5, F1; cfr. De Angelis 2001, p. 121, diffuso a Veio (1 ex.), a Torre Valdaliga (1 ex.), a Tarquinia (3 exx.) e a Vulci (6 exx.). 12 Accostabile al motivo De Angelis tav. 21:31, C; cfr. De Angelis 2001, p. 58, attestato a Bisenzio, Porto Madonna: Milani 1894, p. 133, fig. 17. 13 Cfr. note nn. 9-12. 14 Ascritti dalla De Angelis alle anfore tipo 1 della sua classificazione (cfr. De Angelis 2001, p. 217, tav. 71:1). 15 Babbi, Piergrossi 2005, pp. 294-296. 16 Ascritto alla fase iib iniziale: cfr. Piergrossi 2002, p. 10, fig. 2, 6.

un sito di frontiera della prima età del ferro nel territorio di tuscania

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Fig. 1.

più che in tre anfore-cratere di Veio che, pertinenti a corredi funerari inquadrabili nella locale fase iia, mostrano peraltro sostanziali varianti nella forma vascolare,17 in materiali di Bisenzio. Si tratta di un’anfora dalla tomba 7 della necropoli di Porto Madonna18 e di almeno altri due esemplari19 che, tutti collocabili fra la fine della fase i e gli inizi della fase ii di quel

centro, da un punto di vista morfologico si pongono a variante del tipo vascolare in esame. Anse della stessa forma ricorrono ancora in un’altra anfora dalla tomba 1 della necropoli di S. Bernardino: riccamente decorata a lamelle metalliche e a incisione a pettine, appartenente ad un corredo ascritto alla fase iia20 e accostata ad altri tre vasi pertinenti

17 Babbi, Piergrossi 2005, pp. 296-298, tav. 2. 18 Milani 1894, pp. 131-132, fig. 13. Devo la segnalazione alla dott. Flavia Trucco. 19 Uno pertinente alla tomba S. Bernardino 31, l’altro riprodotto dal

Montelius per i quali cfr. Iaia 1999, p. 98, fig. 25,5; 100, tab. 10, 103, tab. 11. 20 Delpino 1977, p. 469-471, tav. xii, c, fase ii; Iaia 1999, pp. 100, tab. 10, 103, tab. 11, 104: piena fase iia.

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Fig. 2.

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cente,32 come pure da considerare è la sua relativa vicinanza a Bisenzio, “centro protourbano”33 notoriamente legato a Vulci, ma aperto anche a relazioni con Tarquinia, con Veio e con i centri gravitanti sull’asse tiberino.34 E proprio di tale complesso quadro che registra fitti rapporti e intensi scambi fra i maggiori insediamenti dell’Etruria meridionale protostorica, il vaso in esame offre significativa testimonianza qualificandosi, grazie alle sue soluzioni formali e decorative, chiaramente mutuate da modelli diffusi nei centri maggiori, quale espressione di un’eterogenea quanto dinamica temperie culturale. Dunque, sebbene solo mirate ricerche di scavo potranno forse più compiutamente definire la natura e le interrelazioni del contesto topografico di pertinenza dell’anfora-cratere di Longarina dell’Infernetto, il suo ritrovamento schiude sin d’ora significative prospettive su un comparto territoriale ove accanto ad una nitida influenza tarquiniese sembra di poter cogliere un’impronta culturale promanante da Bisenzio, documentando così forse la presenza di quello che potrebbe configurarsi come un insediamento di frontiera, con ruolo dunque analogo, ad esempio, a Poggio Montano.

ai corredi delle tombe 3, 4 e 7 della necropoli dell’Olmo Bello,21 questa manifesta anche da un punto di vista morfologico affinità più che significative con il nostro esemplare. Per l’assenza del piede e la più organica e compatta tettonica l’anfora della tomba 1 di S. Bernardino sembrerebbe tuttavia più recente di qualche decennio del vaso di Longarina dell’Infernetto che riterrei di poter ancora collocare tra la fine della fase i e gli inizi della fase ii della prima età del Ferro, cioè tra la fine del ix e gli inizi dell’viii sec. a.C. secondo la cronologia convenzionale. Quanto alla destinazione d’uso del vaso, ferma restando la sua funzione di contenitore di liquidi22 ricollegabile al consumo del vino,23 malgrado i limiti derivanti dai dati a disposizione, si può pensare nel nostro caso ad un impiego come cinerario. In tal senso ci orientano l’associazione con la ciotola monoansata forse utilizzata con funzioni di coperchio, come pure quanto riferito circa la particolare collocazione della parte inferiore del vaso “alloggiata nel banco” naturale, in una situazione che farebbe pensare all’originaria presenza di una sepoltura a pozzetto. Saremmo quindi di fronte ad un caso analogo a quello delle anforette di Bisenzio24 o degli esemplari delle tombe 431 di Grotta Gramiccia e aa2a di Quattro Fontanili di Veio, entrambe pertinenti ad individui maschili,25 a differenza di quanto conosciamo per Tarquinia, ove tale forma, è utilizzata come vaso di corredo.26 Al di là delle problematiche connesse al rinvenimento, l’anfora-cratere in esame offre comunque un importante contributo per la conoscenza del popolamento di questa parte del territorio di Tuscania nella prima età del Ferro, contributo particolarmente prezioso specie se si pone mente ai dati sinora disponibili per il comparto di Pian di Vico (Fig. 1) ove, oltre ad attestazioni risalenti al Bronzo medio27 (Fig. 1, n. 2), erano in precedenza segnalate dagli archeologi della Scuola inglese aree di affioramento di materiali preistorici, protostorici e della prima età etrusca localizzate nel settore meridionale del pianoro28 (Fig. 1, n. 3). Alla fase di frequentazione del sito in età etrusco-arcaica potrebbe essere rapportata anche la notizia relativa alla presenza di tombe a camera con vestibolo a cielo aperto di tipo vulcente individuate nel passato poco più ad ovest rispetto al punto di ritrovamento del nostro vaso29 (Fig. 1, n. 4), punto a poca distanza dal quale sono stati ora raccolti altri materiali30 (Fig. 1, n. 5) che, al pari di un insediamento già noto posto più a sud-ovest31 (Fig. 1, n. 6), sono da porre in relazione con l’occupazione del territorio in età ellenistica. Peraltro la collocazione topografica del luogo di provenienza della nostra anfora cratere, se considerata nel più ampio contesto dell’Etruria interna, consente qualche ulteriore riflessione. Significativa appare infatti la contiguità del sito di Longarina dell’Infernetto alla sponda destra dell’Arrone, bacino fluviale tradizionalmente assunto quale linea di demarcazione tra il territorio tarquiniese e quello vul-

Babbi, Piergrossi 2005 = A. Babbi, A. Piergrossi, Per una definizione della cronologia relativa e assoluta del villanoviano veiente e tarquiniese (ic-iib ), in Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del Ferro in Italia, Atti dell’Incontro di Studi (Roma, 30-31 ottobre 2003), a cura di G. Bartoloni, F. Delpino, Pisa-Roma 2005 («Mediterranea», i), pp. 293-318. Barker, Rasmussen 1988 = G. Barker, T. B. Rasmussen, The Archaeology of an Etruscan Polis: a preliminary Report on the Tuscania Project (1986 and 1987 Seasons), «pbsr», lvi, 1988, pp. 25-42. Conti 2007 = A. M. Conti, Piano della Selva, in Repertorio 2007, pp. 325, 359-363. De Angelis 2001 = D. De Angelis, La ceramica decorata di stile “villanoviano” in Etruria meridionale, Soveria Mannelli, Regione Lazio, 2001. Delpino 1977 = F. Delpino, La prima età del Ferro a Bisenzio. Aspetti della cultura villanoviana dell’Etruria Meridionale interna, «MemLinc», xxi, 1977, pp. 453-493. Delpino 2007 = F. Delpino, Viticoltura, produzione e consumo del vino nell’Etruria protostorica, in Archeologia della vite e del vino in Etruria, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Scansano, 9-10 settembre 2005), a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, Siena, 2007, pp. 133-146. di Gennaro 1982 = F. di Gennaro, Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica: applicazione di un modello grafico, «DialA», 4, 1982, 2, pp. 102-112. di Gennaro, Barbaro 2008 = F. di Gennaro, B. Barbaro, Tabella riassuntiva degli insediamenti dell’età del bronzo dell’Etruria meridionale, in Preistoria e protostoria in Etruria. Paesaggi reali e paesaggi mentali. Ricerche e scavi, Atti dell’viii Incontro di Studi

21 Delpino 1977, p. 470, n. 64. Va peraltro rilevato come la foggia delle anse in discussione richiami soluzioni presenti, sempre in ambito visentino, anche in anfore provenienti dal Gran Carro ascritte dal Tamburini al suo tipo 2 (Tamburini 1995, pp. 261-263) per le quali sono state ripetutamente poste in evidenza analogie con gli esemplari attestati a Veio e con altri di poco più antichi noti in area laziale: cfr. Babbi, Piergrossi 2005, p. 297, n. 34 con rif. 22 Funzione che trova ulteriore conferma grazie ad una nuova, più antica anfora rinvenuta all’esterno del cinerario della tomba 155, maschile, a pozzetto di Villa Bruschi Falgari, come gentilmente mi informa la dott. Flavia Trucco. 23 Delpino 2007, pp. 139-140. 24 Iaia 1999, p. 97. 25 Cfr. nota 17. 26 Cfr. nota 15. 27 Per il sito di Pian di Vico, posto poco più a sud di Longarina dell’Infernetto, si vedano Mandolesi 1993, p. 246; Petitti 2007, Pian di Vico, p.

325; per un quadro complessivo delle testimonianze dell’età del bronzo nel territorio di Tuscania cfr. Conti 2007, pp. 325, 359-363; Persiani 2007, pp. 324, 355-359; Petitti 2007, pp. 324-325; Trucco 2007, pp. 324, 359; di Gennaro, Barbaro 2008, p. 135, n. 208. 28 Barker, Rasmussen 1988, fig. 4, ultimo quadrato a sin., strisce 2-6; Rasmussen 1991, fig. 6; Rendeli 1993, p. 278, fig. 109:C 98.17. Cfr. anche Ricciardi 2006, pp. 154-155, nota 125. 29 Attualmente non più visibili tali presenze, secondo quanto riferito dal proprietario del terreno, sarebbero state intercettate anni or sono in occasione di lavori per l’estrazione della pomice. 30 Cfr. nota 3. 31 Ricciardi 2006, pp. 155-156, fig. 13:23. 32 di Gennaro 1982, p. 110, fig. 3; Mandolesi 1993, pp. 245-252. 33 Pacciarelli 1994, p. 172. 34 Delpino 1977, p. 477; Iaia, Mandolesi, 1993, pp. 39, 42.

Abbreviazioni bibliografiche

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M ANU FATTI E T RUSCHI E I TALI CI N E L L’ AFR IC A S ETTE NT RI O NALE ( I X- I I SE C . A.C .) Alessandro Naso Introduzione

P

ur se le testimonianze delle relazioni etrusco-puniche furono esaminate nel Novecento negli anni Sessanta da M. Pallottino,1 negli anni Settanta da J. MacIntosh Turfa,2 negli anni Ottanta da J.-P. Morel e J.-P. Thullier3 e negli anni Novanta da Fr.-W. von Hase,4 che si sono dedicati esclusivamente ai manufatti di provenienza cartaginese, manca negli studi una sintesi aggiornata delle relazioni intrattenute dall’Etruria e altri distretti dell’Italia antica con le regioni dell’Africa del nord, basata su una lista dei ritrovamenti.5 Sembra quindi opportuno estendere l’area di indagine all’intera Africa settentrionale, paragonando la messe di dati disponibile per Cartagine con le scoperte effettuate in altre località. come le fondazioni greche di Cirene e Naukratis. Dopo una sporadica presenza nell’età del Ferro, si distinguono agevolmente due fasi principali, estese rispettivamente dall’epoca orientalizzante a quella arcaica e dal periodo tardo-arcaico all’ellenismo. Età del Ferro

Occorre almeno menzionare la spada ad antenne comprata in Egitto dal marchese di Courtance negli anni Settanta dell’Ottocento e donata al re d’Italia, che la destinò all’Armeria Reale di Torino, dove è tuttora conservata (App., n. 36) (Fig. 1). Manca qualsiasi indicazione sull’effettiva provenienza di questa Prunkwaffe, che appartiene a una foggia largamente distribuita in Italia e nell’Europa centrale nel ix-viii sec. a.C. Secondo la tipologia elaborata di recente da R. C. de Marinis, questo esemplare appartiene al tipo più antico, denominato Tarquinia-Vetulonia, risalente al ix sec. a.C.6 L’alta cronologia della spada e la mancanza di notizie su eventuali reperti coevi dalla regione orientano a esprimere grande cautela nell’accettarne la provenienza dall’Africa settentrionale. La possibilità dell’arrivo in Africa settentrionale di prodotti italici già in periodi così antichi è testimoniata direttamente dal rinvenimento in strati rimaneggiati di Cartagine di alcuni frammenti di una tipica forma vascolare della Sardegna quale la brocchetta askoide con collo obliquo (App., n. 3), la cui distribuzione fuori dell’isola comprende in Etruria specie Vetulonia, ma anche Vulci, Tarquinia e Caere, in Sicilia Mozia e Dessueri (nell’entroterra di Gela), Khaniale Tekke a Creta, Huelva, Carambolo e Cadice in Spagna. Lo stato frammentario non consente di riconoscere con esat* Mi è molto gradito offrire a Giovanni Colonna, che si è più volte occupato anche dei temi qui affrontati, un contributo che aggiorna e integra un testo edito in una sede eccentrica per gli studi dell’Italia preromana (Naso 2006). È doveroso rinnovare i ringraziamenti a Rosa Maria Albanese Procelli, Regina Attula, Vincenzo Bellelli, Gebhard Bieg, Massimo Botto, Brenda Breed, Dominique Briquel, Helga Bumke, Andreas Furtwängler, Volkmar von Graeve, Hermann Kienast, Alan Johnston, Phil Perkins, Pierre Rouillard, Brian Shefton, Stéphane Verger e Jaime Vives-Ferrándiz Sánchez. 1 2 3 5

Pallottino 1963. MacIntosh Turfa 1977, pp. 369-370, per la lista dei manufatti. Morel 1981, Thullier 1985. 4 von Hase 1992 e 1993. Si paragonino per esempio la profonda e documentata analisi di Gras

Fig. 1. Spada ad antenne (da Bianco Peroni 1970, p. 113, n. 305, tav. 45).

tezza il numero di esemplari, stimato da 1 a 4: sembra invece significativo ricordare che per queste caratteristiche forme ceramiche, risalenti all’età del Bronzo finale e alla prima età del Ferro, è stato ipotizzato un contenuto particolare, in grado di giustificarne l’ampia distribuzione.7 Dall ’ Orientalizzante recente all ’ epoca arcaica A partire dalla seconda metà del vii sec. a.C. le fondazioni di stanziamenti greci a Cirene8 (con le subcolonie di Taucheira, attuale Tocra,9 e Apollonia10) ed Euesperides11 nel settore occidentale nonché a Naukratis in quello centro-orientale dell’Africa settentrionale non portarono soltanto ondate di 1985 con la sintesi di Gras 1997, pp. 48-55, nella quale si menzionano Naukratis e Cirene nel quadro dell’espansione coloniale greca. 6 Per il tipo: de Marinis 1999, pp. 542-547. 7 Delpino 2002 analizza sistematicamente le brocchette rinvenute in Etruria, proponendone una classificazione tipologica e affrontando anche le principali questioni legate alla classe e alla distribuzione dei reperti sardi in Etruria e in altre regioni della penisola italica. Sarebbe interessante sfruttare le possibilità offerte dalle analisi gascromatografiche per indagare i residui degli originali contenuti delle brocchette. 18 Sulla fondazione di Cirene: Parisi Presicce 2003. 19 Boardman, Hayes 1966 e 1973. 10 Apollonia 1976. 11 Vickers, Gill 1986, Gill 2004.

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alessandro naso

Fig. 2. Frammento di bucchero da Naukratis (da Prins de Jong 1925).

coloni, ma anche nuovi flussi commerciali e nuove relazioni12. In questa epoca Cartagine non aveva ancora intrapreso la propria espansione nell’Africa nord-occidentale, ma aveva già stabilito rapporti commerciali con gli Etruschi, come indicano numerosi reperti, e forse anche con le genti italiche della Sicilia, come riporta la tradizione letteraria antica.13 A Cartagine sono stati trovati oltre 100 vasi in bucchero etrusco, databili almeno dal terzo quarto del vii sec. a.C., come un’oinochoe in bucchero sottile di una foggia tipica a Caere e nel territorio ceretano (App., n. 7). Le anforette, le oinochoai e le olpai documentano i contatti con l’Etruria meridionale e sono connesse al consumo del vino, come i vasi potori, quali le kotylai, le kylikes e i kantharoi. Questa forma costituisce in particolare il segno più efficace dei contatti diretti e indiretti con il mondo etrusco nell’intero bacino del Mediterraneo e oltre, come si nota nelle carte elaborate da Fr.-W. von Hase e nei successivi aggiornamenti.14 In Africa settentrionale kantharoi in bucchero nero sono noti a Tocra (App., n. 25) e Naukratis (App., nn. 26-27). A Naukratis sono stati rinvenuti almeno due kantharoi in bucchero nero del tipo Rasmussen 3e: di uno, già conservato nella collezione von Bissing, non si conosce l’attuale collocazione (Fig. 2), l’altro è a Boston nel Museum of Fine Arts (Fig. 3). Sul primo sono stati notati resti di argentatura, una decorazione che può consistere in vere e proprie lamine metalliche applicate sulla superficie15 o in una patina impalpabile, forse ottenuta prima della cottura con un’accurata ed energica levigatura della superficie, come ha ipotizzato K. Burkhardt.16 Poiché entrambi i metodi sono esclusivi delle officine di Caere, si può presumere la provenienza ce-

retana del kantharos da Naukratis. Nel Mediterraneo orientale sono note tracce di decorazione argentata soltanto su un frammento ancora inedito dall’Heraion di Samo.17 Alcuni kantharoi in bucchero argentato sono stati trovati sul relitto della nave naufragata a Cap d’Antibes nel secondo quarto del vi sec. a.C.: questi reperti, conservati in collezioni private, sono però mal documentati.18 Oltre che a Samo e Naukratis, vasellame in bucchero di provenienza ceretana è stato identificato anche a Mileto, tra gli anathemata dell’Aphrodision di Zeytintepe, grazie ai risultati di analisi a sezioni sottili, difrattometria e fluorescenza effettuate su campioni prelevati in quel sito.19 Cartagine ha anche restituito oltre 20 ceramiche etruscocorinzie, che J. G. Szilágyi ha considerato prodotti di Vulci e Tarquinia, risalenti alla prima metà del vi sec. a.C. (App., n. 8). Questi indicazioni sono state confermate dai più recenti ritrovamenti effettuati negli scavi vicino al decumano massimo diretti rispettivamente da Fr. Rakob e H.-G. Niemeyer, che hanno contribuito a incrementare il numero delle importazioni da Tarquinia, in specie per i vasi del Pittore senza Graffiti.20 A Cartagine sono state identificate anche anfore da trasporto etrusche.21 Diverso per le provenienze, ma simile per le forme risulta lo spettro delle importazioni etrusche identificate a Mileto, che ha restituito anche qualche vaso in bucchero di provenienza tarquiniese e l’unica anfora da trasporto etrusca di provenienza sicura nel Mediterraneo orientale.22

12 Tumuli funerari furono a lungo in voga nell’Africa settentrionale (Camps 1961, pp. 65-91). Sarebbe interessante raccogliere i pochi monumenti esplorati scientificamente per compararli con i sepolcri noti in Etruria e in Grecia. Una lista preliminare di tumuli della Cirenaica comprende almeno Rowe 1956, pp. 6-7, fig. 1 (5 tumuli con crepidine litica e camera lignea risalenti al vi sec. a.C.); Stucchi 1964, pp. 127-131 (tumulo vicino Messa); Stucchi 1975, 12-13; Bacchielli 1985, 10-12, fig. 1.4 (tumulo nell’agora di Cirene, eretto presumibilmente in onore di Batto, mitico ecista della città). 13 Il ruolo di Fenici e Cartaginesi è analizzato da numerosi studiosi in Phoenicians 1999. La tradizione letteraria è raccolta da Hans 1983. 14 Il vasellame in buccchero da Cartagine, studiato da Fr. von Hase (von Hase 1992 e 1993), è elencato (App., n. 7). Le carte di distribuzione sono presentate in von Hase 1992, Abb. 1 (distribuzione complessiva del bucchero) e 27 (distribuzione dei kantharoi 3e). Il progresso delle ricerche consente di integrare e in parte correggere la carta relativa alla distribuzione dei kantharoi, noti anche in Grecia a Megalopoli (Tripoli, Archaeological Museum, inedito) e Paros (Buschor 1929, Abb. 8), in Turchia a Mileto (Naso 2001, pp. 175-

176, fig. 4; Naso 2009b), Datça (Berges, Tuna 2000, pp. 198-201, Abb. 15b; Berges, Tuna 2001, p. 162, Abb. 13, da integrare con la scoperta di almeno altri due kantharoi inediti) e Didima (Naso 2009b, al quale rimando per un elenco aggiornato delle scoperte, che includono anche siti sul Mar Nero). 15 Hirschland Ramage 1970, p. 17, nota 45, per la decorazione con lamina d’argento; Naso 2005, pp. 196-197, tav. ii, a per la decorazione con lamina aurea. Il vasellame in bucchero con residui di lamine metalliche proveniente dal tumulo del Sorbo è stato oggetto di indagini presso l’Istituto Centrale del Restauro, sulle quali si riferirà in altra sede. 16 Burkhardt 1991, pp. 114-115. 17 Il frammento di kantharos (n. inv. So 91-208) è stato già menzionato altrove (Naso 2001, p. 175). 18 Boulomié 1982, pp. 14-16, pl. 2. 19 Naso 2009b. 20 Sono elencati in appendice (App., n. 8). 21 Commercio 1985. Le cosiddette anfore ZitA, che R. Docter considera di origine anche centro-italica (Docter 1998), sono state attribuite con certezza a produzione sarda (Oggiano 2000, pp. 241-242). 22 Naso 2001, p. 180, fig. 9.

Fig. 3. Frammento di bucchero da Naukratis (foto mfa, Boston).

m a nu fatt i et ru sc h i e ita lic i nell ’ afr ica s ettentr ionale (ix-ii s ec. a.c.) 77 Come interpretare i vasi in bucchero ed etrusco-corinzi rinvenuti a Cartagine, concentrati tra il terzo quarto del vii secolo e il 550 a.C.? Gli eventi storici posteriori inducono a connetterli non soltanto a flussi commerciali o a interessi per ceramiche esotiche, ma anche alla presenza di Etruschi nella città punica. La tradizione letteraria sottolinea la bontà e l’intensità delle relazioni tra Cartagine e le poleis dell’Etruria meridionale, Caere in primis; gli Etruschi dovettero quindi svolgere un ruolo “internazionale” di primo piano almeno attorno alla metà del vi sec. a.C., quando Cartagine con la spedizione guidata da Malco in Sicilia e in Sardegna intraprese quella politica espansionistica, che la fece divenire quasi un impero.23 Erodoto menziona l’alleanza tra Caere e Cartagine contro i Greci di Focea nella battaglia del Mare Sardo(nio) attorno al 540 a.C.24 Aristotele nei Politiká cita un trattato ufficiale tra Etruschi e Punici: la menzione sembra rimandare a documenti scritti (graphaí) relativi ad accordi militari e commerciali.25 L’esistenza di simili trattati tra Cartagine e gli Etruschi (di Caere) può essere confortata da altre tradizioni storiche, quali la menzione di Polibio del primo trattato tra Roma e Cartagine risalente al 509 a.C.26 Numerosi studiosi accettano l’esistenza di questo primo trattato, e solo pochi sostengono che si tratti di una retrodatazione del trattato stipulato tra Roma e Cartagine nel 348 a.C.27 Nel vi sec. a.C. le fruttuose relazioni tra Caere e Cartagine includevano un’alleanza militare: è opinione prevalente che nella seconda metà del vi sec. a.C. dopo la battaglia del Mare Sardo(nio), i Cartaginesi ottennero il controllo della SardeFig. 4. Tessera ospitale etrusca da Cartagine gna e gli Etruschi esercitarono una dominio sulla Corsica. (da Rasenna 1986, fig. 55). L’esistenza di strette relazioni personali tra Cartaginesi ed Etruschi è comprovata da un significativo reperto di che includeva anche Etruschi tra i possibili visitatori deluna tomba della necropoli di Santa Monica a Cartagine l’archivio statale di Cartagine, del quale rimangono i sigilli (App., n. 14). Sul rovescio di una tessera eburnera confordei documenti.31 mata a quadrupede è graffito uno dei pochi testi etruschi La fine del vi sec. a.C. coincide a Caere con il regno di rinvenuti al di fuori della penisola italica, che recita mi puiThefarie Velianas, promotore della costruzione del cd. temnel karthazies vesqu[vacat]na (Fig. 4). La tessera, datata alla pio B nel santuario di Pyrgi e dedicante delle tre lamine auseconda metà del vi sec. a.C., funziona come un documenree iscritte: il testo in lingua punica in uno dei principali santo di identità, poiché doveva aderire all’altra metà simmetuari di Caere, che costituisce un manifesto onore per tricamente rovesciata in possesso dell’ospite etrusco, di cui Cartagine, conferma in pieno la notizia erodotea dell’allerimane parte del gentilizio vesqu[—-]na. Non è un caso che anza etrusco-punica.32 I manufatti etruschi rinvenuti in un’altra tessera hospitalis sia stata trovata a Roma:28 a queAfrica nord-occidentale non sono quindi dovuti a semplici ste due tesserae grosso modo coeve si aggiungono i cinque relazioni commerciali etrusco-puniche, ma costituiscono la esemplari restituiti dalla residenza tardo-orientalizzante di contropartita della presenza punica in Etruria meridionale, Murlo, lievemente più antichi, per uno dei quali, mutilo, è che trova un riferimento proprio a Caere. stata proposta l’integrazione puinel[—-].29 Nella seconda Ben diversa è la consistenza dei manufatti etruschi restimetà del vi sec. a.C. forse dopo la battaglia del Mare Sartuiti dalle fondazioni greche in Africa settentrionale, ascrido(nio), sono quindi documentate relazioni personali vibili ai contatti indiretti innescati dal commercio a lunga dirette tra un Etrusco di Vulci o di Tarquinia, le aree alle distanza: a questo possono essere ascritti i kantharoi in bucquali rinvia la paleografia di questa iscrizione, e un Cartachero da Tocra e Naukratis e le oinochoai da Naukratis ginese, naturali alleati in funzione antigreca.30 In altre pa(App., nn. 28-29). I frammenti di bucchero da Karnak in role viene confortata la prospettiva evocata da D. Berges, 23 Su Malco, menzionato nella tradizione letteraria come generale cartaginese, è stata espressa un’interessante opinione da M. Gras, che ha proposto di identificarlo con il comandante della flotta cartaginese, sconfitta insieme alle navi etrusche da una flotta greca nella battaglia del mare Sardonio (Gras 2000, pp. 38-39). Questa ipotesi, stimolante e ben formulata, mi sembra però lontana dal quadro degli avvenimenti: preferisco quindi seguire Bondì 2000, pp. 63-65, Fantar 2000, pp. 77-78 e Krings 2000, secondo i quali i più probabili nemici di Malco furono le città fenice di Sardegna o meno convincentemente le comunità sarde. 24 Her. i 166, 1-2. Sulla battaglia del mare Sardonio si vedano le analisi di di numerosi studiosi dedicate ai popoli impegnati nella battaglia raccolte in MAXH 2000 e il denso contributo di Bernardini 2001. 25 Arist., Pol., iii 5 10-11. MacIntosh Turfa 1977, la cui cronologia al 580 a.C. del primo trattato tra Roma e Cartagine non è ora più seguita.

26 Polyb. iii 22, 4-13. 27 Ampolo 1987, pp. 80-84, Scardigli 1991, pp. 47-87. 28 App., n. 8; l’iscrizione è et , Af 3.1. L’iscrizione da Roma è et , La 2.3. 29 Le tesserae da Murlo sono edite in Maggiani 2006, che è divenuto il testo di riferimento per questo importante corpus di materiali (la tessera con puinel è a pp. 324-325, n. 6). 30 Krings 1998, p. 2. 31 Berges 1997, p. 52. 32 La sterminata bibliografia su Caere è esaminata da Colonna 2002. Ulteriori dati sui recenti scavi sono presentati in Vigna Parrocchiale 2003. Importanti novità su Thefarie Velianas sono state presentate da G. Colonna in un testo principale (Colonna 2006) e in contributi minori (Colonna 2007a, Colonna 2007b).

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Fig. 5. Cerniera conformata a rana pertinente a un infundibulum da Cirene (da Gregory Warden 1990).

Egitto (App., n. 34) e Tipasa in Algeria (App., n. 2) sono soltanto menzionati: grazie alla cortesia di P. Rouillard, è possibile affermare che a Karnak è stata identificata una minuscola parete di forma chiusa in bucchero sottile datata attorno al 600 a.C.33 Questo vasellame può quindi essere considerato merce di ritorno portata dai mercanti greci, che di ritorno dall’Etruria donavano i vasi nei santuari della propria patria, come indicano le poche ceramiche in bucchero con dediche greche dedicate nella prima metà del vi sec. a.C. a Perachora, a Ialisos (Rodi) e in Sicilia (a Selinunte e a Leontinoi): si conoscono un Néarchos a Perachora e forse un Leukios a Leontinoi.34 Stupisce l’assenza di bucchero a Cirene, che si può imputare meglio alla scarsa quantità di reperti ceramici arcaici pubblicati dal sito piuttosto che a un’effettiva situazione.35 Cirene è infatti il luogo di ritrovamento anche di un infundibulum etrusco, un manufatto bronzeo di elaborazione etrusca utile a travasare e filtrare il vino, attestato dalla cerniera conformata a rana (App., n. 21) (Fig. 5). Nella seconda metà del vi secolo tale utensili costituiscono il manufatto bronzeo etrusco in assoluto più diffuso nell’intero Mediterraneo: oltre 90 esemplari di produzione etrusca e 6 di altre fabbriche rendono giustizia alla fama goduta dai bronzi etruschi in Grecia.36 La distribuzione, pressochè capillare sulla penisola italica, comprende la Spagna, Cirene, Olimpia, Argos, Ialisos (Rodi) e Samo nell’Egeo.37 Da Cartagine proviene un frammento di manico (App., n. 11), che può appartenere a un infundibulum o a un colino, un’altra foggia 33 Il frammento trovato negli scavi del tesoro Thoutmosis i, condotti dall’Institut Français d’Archéologie Orientale (ifao) sotto la direzione di H. Jacquet-Gordon, è ancora inedito, tranne una breve menzione (Rouillard 1985, p. 24: ringrazio P. Rouillard per avermene fornito un disegno). Boardman 1958 ha presentato un’anfora clazomenia da Karnak. 34 I kantharoi iscritti da Perachora e Ialisos sono esaminati da von Hase 1997, pp. 317-318, fig. 24. Il vasellame iscritto in bucchero dalla Sicilia (Selinunte e Girgenti) è elencato in Gras 1985, p. 498; le nuove scoperte da Leontinoi sono illustrate da Rizza 2003, pp. 546-548, figg. 7-8, tav. vi. 35 Per ora è noto solo bucchero ionico (Schaus 1985, pp. 73-76 n. 446-468). 36 La tradizione letteraria antica sui manufatti etruschi è stata raccolta e discussa da Mansuelli 1984.

tipica dell’artigianato bronzeo etrusco, pure esportata in Grecia.38 Ho già esposto altrove i motivi che inducono ad attribuire la paternità di questi utensili a più di un’officina situata in Etruria meridionale, forse anche a Vulci, la città etrusca celebre per le proprie officine metallurgiche, responsabili anche della produzione di innumerevoli brocche a becco obliquo, le cosiddette Schnabelkannen, diffuse nel territorio a nord delle Alpi e a Cartagine (App., n. 13), ma non nell’Egeo.39 Dal tardo Arcaismo all ’ Ellenismo I manufatti di queste fasi, inseriti nell’elenco per completezza, confermano le linee di tendenza emerse in età arcaica, come il segnacolo che attesta la sepoltura di un personaggio di probabili origini ceretane a Cartagine (App., n. 15), nonché i piattelli Genucilia da Cartagine (App., n. 16) e Cirene (App., n. 23). Occasioni di altra natura, che non escludono anche vere e proprie fughe dall’Etruria settentrionale conquistata dagli eserciti romani, sono invece evocate dai cippi confinari da Uadi Milian (App., n. 17), e forse dallo stesso liber linteus (App., n. 37). I rapporti personali, sui quali erano basate le relazioni già in epoca arcaica, trovano un significativo epilogo nella tessera hospitalis da Gouraya (App., n. 1), datata al iii sec. a.C. La generale familiarità degli Etruschi con le diverse comunità dell’Africa settentrionale è quindi ben documentata. 37 Per brevità mi permetto di rimandare a quanto ho scritto altrove (Naso 2006b, pp. 367-370 e pp. 380-397; Naso 2009a). 38 Due colini bronzei etruschi (sui quali Donati 1998, pp. 163-166, Jurgeit 1999, pp. 439-447, nn. 740-756, e Naso 2003, pp. 105-106, nn. 159-161) sono stati rinvenuti di recente in Macedonia e a Nemea (Blackman 2002, p. 21, fig. 38). 39 I bronzi di Vulci sono esaminati nel classico articolo di Neugebauer 1943, ora affiancato dal recente studio di Riis 1998; utile anche la sintetica rassegna di M. Martelli (Martelli 1988). Il corpus delle Schnabelkannen è stato raccolto da Vorlauf 1997.

m a nu fatt i et ru sc h i e ita lic i nell ’ afr ica s ettentr ionale (ix-ii s ec. a.c.) Appendice Manufatti etruschi e italici dall ’ Africa settentrionale40 Algeria Gouraya 01. In una tomba punica vicino Gouraya, circa 130 km a ovest di Algeri, è stato rinvenuto un minuscolo disco bronzeo (diam. 7,7 cm) con un’iscrizione etrusca (pumpun larthal), datato al iii sec. a.C. e considerato una tessera hospitalis. Liébert 1996; Briquel 2004; Briquel 2006, con bibliografia precedente; Briquel 2007. Tipasa 02. È menzionato il rinvenimento di bucchero, ancora inedito. von Hase 1992, pp. 327-328, nota 2. Tunisia Cartagine 03. Ceramica nuragica: tre o quattro frammenti di brocchette askoidi a collo obliquo. Køllund 1996, pp. 210-212, fig. 5; Køllund 1998; Campus, Leonelli 2000; Lo Schiavo 2005; Lo Schiavo 2006a, p. 40; Lo Schiavo 2006b, tav. iii, per la distribuzione; Lo Schiavo 2007, p. 280 (cenno); Docter 2007, pp. 484-485, nn. 4257-4260, con altra bibliografia. 04. Fibule bronzee a sanguisuga. 0 Mansel 2007, p. 797, nn. 6401-6402. 05. Anfore da trasporto sarde. Docter 2007, pp. 635-640, nn. 5362-5401. 06. 5 skyphoi e due forme non identificate di ceramica italogeometrica. Docter 2007, pp. 475-476, nn. 4213-4219. 07. 28 (+ 1) anforette, 12 oinochoai, 2 kotylai, 11 kylikes, 11 kantharoi in bucchero dalle necropoli; frammenti di 9 kantharoi, 3 kylikes, 2 ciotole, 2 forme aperte, 1 anforetta, 2 oinochoai, 7 forme chiuse dall’area del decumano; frammenti di 15 forme dall’area urbana. von Hase 1992, pp. 383-392 (necropoli); Docter 2007, pp. 476480, nn. 4220-4247 (area del Decumano) e p. 476, nota 133 (area urbana). 08. Ceramica etrusco-corinzia. MacIntosh Turfa 1977; von Hase 1992, 377-378; Trias 1999, 264-266, nn. 26-7 (2 frammenti non relativi forse allo stesso piatto del Pittore senza Graffito): Docter 2007, pp. 481484, nn. 4251-4256 (frammenti). Szilágyi 1998, p. 375, n. 61 (coppa del Pittore delle Code Annodate), p. 414, n. 15 (aryballos vulcente), p. 444, n. 19 (piatto su piede del Pittore senza Graffito), p. 448, nn. 132-133 (piatti su piede del Pittore senza Graffito), p. 526, n. 34 (coppa del Gruppo delle Macchie Bianche), p. 532, n. 22 (coppa del Gruppo di Poggio Buco), p. 533, n. 42 (aryballos globulare del Gruppo di Poggio Buco), p. 601, n. 72 (alabastron del sottogruppo Michigan del Ciclo dei Galli Affrontati), p. 684, n. 98 (frammento non attribuito), p. 694 (considerazioni generali). 09. 3 frammenti di tazze in impasto bruno. Docter 2007, pp. 480-481, nn. 4248-4250. 10. Anfore da trasporto etrusche: 2 tipo Py 4; frammenti. Vegas 1997, p. 354; Docter 2007, pp. 641-643, nn. 5402-5413. 40 La lista è ricavata dallo spoglio di «AfrIt» (1, 1927/1928 – ??, 1941); «LibAnt» (1, 1964 – 16, 1979, n.s. 1, 1995 – 4, 1998); «LibSt» (1, 1970 – 33, 2002); «Monografie di archeologia libica» (1-19); «qal» (1, 1950 – 17, 2002); Karthago i-iii . Die deutschen Ausgrabungen in Karthago, hrsg. von F. Rakob, Mainz am Rhein, 1991-1997; Karthago: Die Ergebnisse der Hamburger Grabung unter dem Decumanus Maximus, hrsg. von H. G. Niemeyer, R. F. Docter, K. Schmidt, Mainz am Rhein, 2007. 41 Questi oggetti, parti dei servizi potori etruschi, erano prodotti anche nell’Italia meridionale (Jurgeit 1999, p. 462, nn. 778-779).

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11. Manico di bronzo con terminazione a protome di anatra, relativo a un colino o a un infundibulum. Mackensen 1999, pp. 540-541, n. 35, Abb. 1.1, Taf. 44.1. 12. Statuetta bronzea etrusca. von Hase 1992, p. 378. 13. 7 Schnabelkannen bronzee. von Hase 1992, p. 378. 14. Tessera hospitalis in avorio con iscrizione etrusca (fig. 4). Petersen 1903, p. 23; Martelli 1985a, p. 237 fig. 91; Martelli 1985b; von Hase 1992, p. 374; Maggiani 2006, pp. 319-321; Maggiani 2007, con nuova proposta di lettura: mi puinel karıazies vesqu[---]na. 15. Cippo funerario a colonnetta. Pallottino 1966, 12, tav. i, 2 (= Saggi 1979, p. 393, pl. viii:1); von Hase 1996. 16. Piattelli etruschi a figure rosse del Gruppo Genucilia (almeno 6 esemplari). von Hase 1996, p. 188, con letteratura precedente; Morel 1990, pp. 85-86, fig. 22 (3 ulteriori frammenti di piattelli); Poulsen 2002, p. 90. Uadi Milian 17. Tre cippi litici con otto iscrizioni etrusche. Heurgon 1969a-b; Carruba 1976; Colonna 1983, pp. 1-5. Utica 18. Coppa in bucchero. Morel 1981, pp. 484-485, nota 100, con bibliografia precedente. Ksour es Saaf 19. Corazza bronzea a tre dischi, Colonna 1980, 177-178, pl. viii; Guzzo 1994, pp. 167 e 172, n. 12, con bibliografia; Tagliamonte 1994, pp. 153-154; Carthage 1995, pp. 147-149; Ben Younès 1997 e 2001; Tagliamonte 2004, p. 161, nota 103. Libia Cirene 20. Manico bronzeo di colino dal secondo Artemision di Cirene, datato al 450-400 a.C. Pernier 1932, p. 214, fig. 40, e p. 226 per il contesto.41 21. Manico bronzeo di infundibulum (fig. 5). Gregory Warden 1990, pp. 8-9, n. 17, pl. 5. 22. Manico bronzeo di colino con decorazione incisa. Gregory Warden 1990, p. 55, n. 402, pl. 40. 23. Piatto etrusco a figure rosse del gruppo Genucilia. Bacchielli 1976; Colonna 1981, p. 183, nota 107; Bacchielli 1986, p. 375, nota 15. 24. Due coppe di ceramica di Gnathia. Kenrick 1987, pp. 3-4, nn. 20-1.42 Leptis Magna43 Tocra 25. Frammento di ansa pertinente a un kantharos in bucchero, da un contesto votivo (Deposit ii) datato al 590-565 a.C. Boardman, Hayes 1973, p. 3, per la datazione, p. 58, n. 2246, pl. 31, per l’ansa. 42 Questi vasi non sono di sicura importazione dall’Italia, poiché una produzione di ceramica simile a quella di Gnathia è stata identificata a Alessandria (Piekarski 2001, pp. 107-108). 43 A mio parere la kotyle dalla necropoli di Leptis Magna edita come etrusco-corinzia (De Miro, Fiorentini 1977, p. 31, fig. 38) non è etrusca, come ha giustamente notato J.-P. Morel (Morel 1981, pp. 484-485, nota 100).

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Egitto Naukratis44 26. Già nella collezione di Fr.-W. v. Bissing, collocazione attuale sconosciuta45 (fig. 2): frammento di bucchero relativo a un kantharos con resti della carena e della vasca. Argentatura e archetti intrecciati sulla carena. Dimensioni: mm 55 (altezza), mm 60 (larghezza). Prins de Jong 1925, pp. 55-56, n. v, 2, pl. 3 (in alto a destra). 27. Boston, Museum of Fine Arts, n. inv. 88.959 (fig. 3): frammento di kantharos in bucchero con tre solcature orizzontali sotto l’orlo e punte di diamante sulla carena a spigolo vivo. Naso 2006, p. 194, n. 21, fig. 4.

32. Londra, gr 1924.12-1.75: frammento di parete di forma non determinata. Perkins 2007, p. 75, n. 309.47 33. Due frammenti di skyphoi di Gnathia, datati al ii sec. a.C. Prins de Jong 1925, p. 70, nn. 1-2. Karnak 34. Karnak, deposito, n. inv. A 960: frammento di bucchero relativo alla parete di una forma chiusa (cortese informazione di P. Rouillard). Rouillard 1985; von Hase 1992, pp. 327-328, nota 2. Tell Defenneh (?)

28. Londra, bm 1888, 6-1.643a: orlo di oinochoe formato da tre frammenti ricongiunti (alt. cm 6,8). Attribuibile a un’oinochoe Rasmussen 3a, documentata alla fine del vii-vi sec. a.C. (Rasmussen 1979, pp. 78-79, pl. 7-8) o Rasmussen 7a, comune nella prima metà del vi sec. a.C. (Rasmussen 1979, pp. 84-85, pl. 16).46 Johnston 1982, p. 38, pl. 4, n. 1; Naso 2006, pp. 190-191, fig. 7; Perkins 2007, p. 60, n. 236. 29. Londra, bm 1888. 6-1.633: frammento di collo di oinochoe, di tipo non determinabile. Perkins 2007, p. 75, n. 277. 30. Londra, gr 1924.12-1.77: frammento di parete di forma non determinata. Perkins 2007, p. 75, n. 304.

35. Cairo, Museo Nazionale, n. inv. 27963: ansa bronzea con due protomi equine sulla cima, pertinente forse a un podanipter etrusco. Edgar 1904, p. 81, n. 27963, pl. x. 48 Loc. inc. (oggetti comprati in Egitto)49 36. Torino, Museo Nazionale, n. inv. A’ 43 (fig. 1): spada ad antenne. Angelucci 1876, p. 25; Bianco Peroni 1970, p. 113, n. 305, tav. 45; Arma 2002, pp. 36-37, n. A’ 43. 37. Zagrabia, Museo Nazionale, n. inv. 1: Liber linteus. Roncalli 1980a-b e 1985; Liber 1986. Per la cronologia: Srdoˇc et al. 1990.

31. Londra, gr 1924.12-1.78: frammento di parete di forma non determinata. Perkins 2007, p. 75, n. 305.

38. Da Alessandria (presumibilmente comprato a Alessandria). Cairo, Museo Nazionale, n. inv. 27902: specchio bronzeo etrusco, con fregio graffito raffigurante i Dioscuri e due scudi. Edgar 1904, p. 68, n. 27902, pl. xviii. 50

44 La presenza di bucchero etrusco a Naukratis è stata più volte sottolineata negli studi (Boardman 1958, p. 12, nota 47; Morel 1981, p. 468, nota 15; Boardman 1999, p. 124; Möller 2000, p. 144; Kerschner 2001, p. 75). 45 La collezione v. Bissing venne suddivisa tra i musei di Amsterdam, Berlino, Bonn, Den Haag e Monaco (Kerschner 2001, p. 72). I frammenti ceramici conservati nei musei di Berlino e Monaco sono stati distrutti durante la seconda guerra mondiale; tra i reperti conservati a Bonn, editi di recente, non figura bucchero etrusco (Piekarski 2001). 46 Johnston 1982, nn. 3-5 (n. inv. bm 1888.6-1.643b-d: d comprende due frammenti), sono quattro frammenti non tutti combacianti, ma appartenenti con sicurezza alla parte superiore di uno stesso vaso, simile a un’olpe attica a figure nere. La forma, non rappresentata nel repertorio morfologico del bucchero etrusco, e l’argilla, piuttosto fine, ricca di mica e con una leggera ingubbiatura, inducono a non considerare di bucchero etrusco il vaso in esame, malgrado l’attribuzione di Perkins 2007, p. 60, n. 235, che aggiunge anche altri frammenti da me non esaminati. 47 Per completezza è opportuno menzionare un’oinochoe (Londra, bm,

n. inv. gr 1977.10-11.89), la cui provenienza da Naukratis è registrata come incerta (Perkins 2007, p. 60, n. 234). Analoghi dubbi sono stati espressi su un frammento di orlo di oinochoe (University College of London, 357), edito da Johnston 1982, p. 38, n. 2. 48 Per i podanipteres bronzei prodotti a Volsinii rinvio a Naso 2006b, pp. 372-373 e pp. 397-401, con bibliografia precedente. 49 Nel Museo Nazionale del Cairo è conservata una statuetta bronzea di Ercole in assalto (Edgar 1904, p. 71, n. 27918, pl. i), che appartiene a un gruppo di bronzetti ispirati a manufatti di tradizione etrusco-italica, ma di produzione moderna (Franzoni 1966, pp. 50-51, fig. 11; Naso 2003, p. 280, n. 531, pl. 106). È opportuno menzionare anche un’oinochoe conformata a testa femminile bronzea da el Kantara (von Bissing 1903, p. 146, fig. 3, f; Edgar 1904, p. 29, n. 27743, pl. vii) vicina a un gruppo di teste femminili bronzee etrusche di periodo ellenistico, ma con gli occhi in pasta vitrea (Naso 2003, pp. 77-79, nn. 119-121). 50 Come è noto, il fregio raffigurante i Dioscuri è molto diffuso nel repertorio degli specchi etruschi (Naso 2003, p. 122, n. 172).

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I L IBRI DI NUMA P O MP I LI O Giovanna Rocca

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ebbo alla cortesia di David Jordan, cui sono infinitamente grata e che ringrazio moltissimo per la fiducia accordatami, la lettura in anteprima del suo libro A Cluster of Greek Verse Incantantions che mi ha offerto lo spunto per questa breve nota. Il capitolo intitolato A Messenian Connection? relativo all’occultamento e poi al ritrovamento dei ‘misteri’ in Messenia1 mi ha suggerito interessanti paralleli che potrebbero far luce e aggiungere un tassello sulla vexata quaestio dei libri di Numa Pompilio, sia per quanto riguarda la loro natura materiale che il loro contenuto. L’analisi è partita dai dati storici cui si sono aggiunte alcune novità archeologiche e linguistiche: il tutto, nella prospettiva riflessa dalla storiografia su Numa ‘pitagorico’, si offre come chiave euristica per la diffusione del pitagorismo e / o misterismo a Roma (i libri!) in una potenziale rete di trafile e rapporti causali con la Magna Grecia già individuata da molti. La storia narrata si inserisce fra i casi, ben noti nella letteratura antica, di ritrovamenti fortuiti di oggetti o di resti eroici,2 e non viene comparata per risalire ‘dumezilianamente’ ad un archetipo comune, ma per analizzarne il contesto di irradiazione e di ricezione, e dunque, di conseguenza, anche l’ambito cronologico. Pausania iv 20, 2 racconta che Aristomene, in seguito al compiersi dell’oracolo di Delfi che annunciava la fine dei Messeni quando un ÙÚ¿ÁÔ˜ avesse bevuto l’acqua del Neda,3 si persuase a nascondere ‘un oggetto segreto’ perché secondo un altro oracolo (questa volta di Lico figlio di Pandione) solo così i Messeni sarebbero rientrati in possesso della loro terra. All’alba dunque si reca sulla parte più solitaria del Monte Ithome e lo seppellisce.4 Dopo la sconfitta subita da parte degli Spartani, Aristomene e la figlia migrarono a Rodi mentre altri Messeni si diressero a Naupatto, nel sud dell’Italia, in Sicilia (Messana!) e in Libia.5 Ma “è evidente che essi non dimenticarono alcun patrio costume né disimpararono il dialetto dorico”.6 Dopo la battaglia di Leuttra, a Epitele figlio di Eschine appare un vecchio uomo, molto simile ad uno ierofante (lo stesso che era apparso a Epaminonda per consigliarlo di aiutare i Messeni a ristabilirsi nella loro terra), che gli suggerisce di scavare in una certa zona del monte Ithome fra due alberi,

un tasso ed un mirto,7 dove avrebbe trovato una idria di bronzo (in seguito custodita nel santuario del monte Carnaio secondo Paus. xxxiii 5). Epitele, sul far dell’alba, fa come gli era stato consigliato: trova l’idria, la porta ad Epaminonda che toglie i sigilli e ÂyÚ ηÛÛ›ÙÂÚÔÓ âÏËÏ·Ṳ̂ÓÔÓ â˜ Ùe ÏÂÙfiÙ·ÙÔÓØ â›ÏÈÎÙÔ ‰b œÛÂÚ Ùa ‚È‚Ï›·, “vi trovò dello stagno ridotto a un foglio sottilissimo: era arrotolato come i libri”. Vi era scritto il rito ÙáÓ MÂÁ¿ÏˆÓ ıÂáÓ e questo era stato ciò che aveva lasciato Aristomene.8 Quando la telete fu ritrovata tutti coloro che appartenevano al ghenos dei sacerdoti la trascrissero in libri.9 Vi è una straordinaria corrispondenza con quanto raccontato dagli storici a proposito del ritrovamento dei libri di Numa Pompilio e quanto studiato, con altri obiettivi, da E. Peruzzi.10 L’attenzione di Peruzzi, in quegli anni rivolta all’indagine dei grecismi in latino, trova nei libri una ulteriore riprova della sua tesi sull’importanza che l’influsso greco ebbe sul latino dell’viii secolo per due motivi. Uno linguistico, dal momento che, secondo la sua prospettiva Wörter und Sachen nei correlati culturali della trascrizione scrittoria delle lettere elleniche, liber sarebbe il papiro giunto col nome di ‚›‚ÏÔ˜ (come littera da ‰ÈÊı¤Ú· ‘pelle preparata’, per servire come materia scrittoria)’ ed elementa da âϤʷÓÙ· ‘tavoletta d’avorio’) e quindi “non essere denominazione puramente latina, bensì l’adattamento di ‚›‚ÏÔ˜, cioè la sua assimilazione a **libros ‘lamina’, ovvia perché la materia scrittoria era realmente un liber e ne aveva l’aspetto” (p. 140).11 Ed uno latamente culturale dal momento che dalle testimonianze, mute su questo aspetto, e contrario ne ricava non solo che la scrittura aveva ductus sinistrorso (come le più arcaiche epigrafi greche), ma che le lettere con cui erano scritti non erano inintelligibili all’epoca (“non dissimili da quelle monumentali” p. 122, n. 31) dal momento che molte persone le avevano lette. A prescindere dalla bontà delle informazioni storiche, le prove addotte da E. Peruzzi sono, come sempre, brillanti ma al limite della possibilità: un conto è ipotizzare che esista la possibilità che si potessero leggere dei libri (per di più così ben conservati!), un altro è darlo come sicuramente probabile.

1 L’episodio si situa tra la seconda guerra messenica e la battaglia di Leuttra (371 a.C.). 2 La scapola di Pelops in Paus. v 13, 5, la testa di Ides in un pithos litico in Phleg., FGrHist 257 f 36 (xi) o il caput humanum integra facie durante gli scavi per le fondamenta del tempio di Giove Capitolino in Liv. i 55. 3 Paus. iv 20, 1: ÂsÙ ÙÚ¿ÁÔ˜ ›Ó–ÛÈ N¤‰Ë˜ âÏÈÎfiÚÚÔÔÓ ≈‰ˆÚ, ÔéΤÙÈ MÂÛÛ‹ÓËÓ ®‡ÔÌ·ÈØ Û¯Â‰fiıÂÓ ÁaÚ ¬ÏÂıÚÔ˜. Il ÙÚ¿ÁÔ˜ in questione non è ovviamente l’animale ma l’albero del caprifico, çχÓıË per tutti i Greci ma ÙÚ¿ÁÔ˜ per i Messeni, che non era cresciuto diritto ma in direzione della corrente e toccava l’acqua con la punta delle foglie. Un caprifico assolve un ruolo anche nella fondazione di Reggio, cfr. Musti, Torelli 1991, p. 233. 4 Paus. iv 20, 2: ’AÚÈÛÙÔ̤Ó˘ ‰b ö¯ÂÈÓ Ô≈Ùˆ ›ıÂÙ·È Î·d àÓ·‚ÔÏcÓ ÔéΤÙÈ ÂrÓ·È ÛÊÈÛÈ, ÚÔÂÓÔ‹Û·ÙÔ ‰b ηd âÎ ÙáÓ ·ÚfiÓÙˆÓØ Î·›, qÓ Á¿Ú ÙÈ âÓ àÔÚÚ‹ÙÅ ÙÔÖ˜ MÂÛÛËÓ›ÔȘ, öÌÂÏÏ ‰b àÊ·ÓÈÛıbÓ ñÔ‚Ú‡¯ÈÔÓ ÙcÓ MÂÛÛ‹ÓËÓ ÎÚ‡„ÂÈÓ ÙeÓ ¿ÓÙ· ·åáÓ·, Ê˘Ï·¯ıbÓ ‰b Ôî §‡ÎÔ˘ ÙÔÜ ¶·Ó‰›ÔÓÔ˜ ¯ÚËÛÌÔd MÂÛÛËÓ›Ô˘˜ öÏÂÁÔÓ ¯ÚfiÓÅ ÔÙd àÓ·ÛÒÛÂÛı·È ÙcÓ ¯ÒÚ·Ó, ÙÔÜÙÔ ‰c ï ’AÚÈÛÙÔ̤Ó˘, ±Ù âÈÛÙ¿ÌÂÓÔ˜ ÙÔf˜ ¯ÚËÛÌÔ‡˜, âÂd ÓfÍ âÁ›ÓÂÙÔ âÎfiÌÈ˙ÂØ ·Ú·ÁÂÓfiÌÂÓÔ˜ ‰b öÓı· Ùɘ ’IıÒÌ˘ qÓ Ùe âÚËÌfiÙ·ÙÔÓ, ηÙÒÚ˘ÍÂÓ â˜ ’IıÒÌËÓ Ùe ùÚÔ˜, ηd ¢›·

·Ú·Î·Ù·ı‹Î˘ ·åÙÔ‡ÌÂÓÔ˜, Ìˉb âd §·Î‰·ÈÌÔÓ›ÔȘ ÔÈÉÛ·È ÙcÓ ÌfiÓËÓ Î·ıfi‰Ô˘ MÂÛÛËÓ›ÔȘ âÏ›‰·. 5 Paus. iv 24, 2; 24, 7; 26, 2: Ô¥ ☠™ÈÎÂÏ›·Ó Ù ·Úa ÙÔf˜ Û˘ÁÁÂÓÂÖ˜ ηd ☠^P‹ÁÈÔÓ âÛÙ¿ÏËÛ·Ó. 6 Paus. iv 27, 11: MÂÛÛ‹ÓÈÔÈ ‰b âÎÙe˜ ¶ÂÏÔÔÓÓ‹ÛÔ˘ ÙÚÈ·ÎfiÛÈ· öÙË Ì¿ÏÈÛÙ· äÏáÓÙÔ, âÓ Ôx˜ ÔûÙ âıáÓ ÂåÛÈ ‰ÉÏÔÈ ·Ú·Ï‡Û·ÓÙ¤˜ ÙÈ ÙáÓ ÔúÎÔıÂÓ ÔûÙ ÙcÓ ‰È¿ÏÂÎÙÔÓ ÙcÓ ¢ˆÚ›‰· ÌÂÙ‰ȉ¿¯ıËÛ·Ó. 7 Paus. iv 26, 7: ÛÌÖÏ·Í Î·d Ì˘ÚÛ›ÓË; entrambe entrano nella composi-

’IıÒÌËÓ ö¯ÔÓÙ· ηd ıÂÔf˜ ÔD MÂÛÛËÓ›Ô˘˜ ☠âÎÂÖÓÔ öÛˆ˙ÔÓ Ê‡Ï·Î·˜ ÌÂÖÓ·È Ùɘ

zione delle corone usate dai sacerdoti nei riti di Demetra, cfr. Soph. Edipo a Colono 683. 8 iv 26, 8: ηd ÙÔÜÙÔ qÓ ·Ú·Î·Ù·ı‹Î˘ ÙÔÜ ’AÚÈÛÙÔ̤ÓÔ˘˜. 9 Paus. iv 27, 5: ó˜ ‰b ì ÙÂÏÂÙ‹ ÛÊÈÛÈÓ àÓ‡ÚËÙÔ, Ù·‡ÙËÓ Ì¤Ó, ¬ÛÔÈ ÙÔÜ Á¤ÓÔ˜ ÙáÓ îÂÚ¤ˆÓ qÛ·Ó, ηÙÂÙ›ıÂÓÙÔ â˜ ‚›‚ÏÔ˘˜. Allo stesso modo Anco Marcio trascrive i commentarii di Numa: sacra publica, ut ab Numa instituta erant, facere, omnia ea ex Commentariis regis pontificem in album relata proponere in publico iubet, Liv. i 32. 10 Peruzzi 1973, pp. 107-143. 11 Cencetti 1997, p. 25, osserva però che “In Roma ci è impossibile precisare la data dell’introduzione del papiro: probabilmente avvenne contemporaneamente alla prima diffusione delle opere letterarie”.

i libri di numa pompilio

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Dunque nell’anno 181 a.C. sotto i consoli P. Cornelio e M. Bebio12 sul Gianicolo, dove, per unanime consenso delle fonti, si trovava il sepolcro di Numa, nel fondo di uno scriba (Cn. Terenzio o L. Petillio) furono rinvenute due arche di pietra. Il ritrovamento avvenne o durante lavori agricoli o per uno smottamento del terreno dovuto alle pioggia. Le arche erano operculis plumbeo deuinctis e portavano ciascuna un’iscrizione. Su una si diceva che lì vi era il corpo di Numa (Livio riporta la formula onomastica per intero: Numa Pompilius Pomponis filius rex Romanorum), nell’altra i suoi libri, che in Plinio, che trae le sue informazioni da Cassio Emina, erano scritti e charta, sette in latino e sette in greco, straordinariamente conservati perché erano stati citrati, vale a dire unti con olio di cedro. Sempre secondo Cassio Emina in Plinio in his libris scripta erant philosophiae Pythagoricae (anche se i rapporti con Pitagora sono messi in dubbio nell’antichità, come si vede dalle testimonianze di Dion. Hal. ii 59; Plut., Numa, 8, 4-10; Liv. i 18, 2-3, data la distanza temporale fra i due), mentre per altri si parla de iure pontificum o de disciplinae sapientiae. Considerati come elemento perturbatore dell’ordine sociale i testi greci vengono bruciati (ηٷηÉÓ·È, cremati sunt, comburi, exussit), mentre quelli latini vengono conservati magna diligentia. W. Burkert13 ha osservato che la letteratura ‘misterica’ sotto forma di libri è indicativa di una rivoluzione: la nuova forma di trasmissione, prima dominata dall’immediatezza del rito e delle formule, introduce una nuova forma di autorità perché l’individuo, se in grado di leggere, non ha più bisogno di intermediari. Di qui la necessità di eliminare i libri di Numa? A livello di modalità strutturali ci sono alcuni motivi che vale la pena di sottolineare, pur non essendo esclusivi dell’argomento: il tema del segreto e della sua trasmissione (i colloqui notturni di Numa con la ninfa Egeria; l’esistenza di un ‘oggetto segreto’ presso i Messeni: cfr. a questo proposito le fonti letterarie che parlano dell’uso di nascondere testi sotto terra, soprattutto Pausania nella descrizione del Santuario di Demetra Cidaria a Pheneos riferisce che, ogni anno, in occasione dei ‘Grandi Riti’ venivano aperte due Ï›ıÔÈ, estratte ÁÚ¿ÌÌ·Ù· che si riferivano a quei riti e riseppellite nella stessa notte14); la scelta di Numa, re legislatore e pio, e di Aristomene, l’eroe per eccellenza dei Messeni che gode del favore di Zeus e grazie a questo riconquista il favore di Artemide e soprattutto assicura, tramite il seppellimento della ·Ú·Î·Ù·ı‹ÎË, il ritorno nella terra d’origine. È opinione comune e largamente accettata da parte di coloro che se ne sono occupati con ben maggiore competenza15 che l’analisi dei dati offerti dalla tradizione indichi come punto di origine della notizia della paideia filosofica del re Numa gli ambienti pitagorici magno-greci con un termine ante quem al iii a.C. Per C. Santi fondamentale sarebbe “il ruolo di Taranto quale principale centro di irradiazione della leggenda pitagorica di Numa, nel contesto storico e

cronologico del iv sec. a.C., allorché si propose un’immagine della Magna Graecia più aperta verso il mondo indigeno ed emerse negli ambienti pitagorici di Taranto la tendenza a ricondurre i legislatori italici e magnogreci al pitagorismo”.16 Dunque la leggenda di Numa pitagorico nasce in un’epoca di influsso della cultura magno-greca su Roma, e l’anticipazione sarebbe dovuta non solo alla volontà di nobilitare fatti recenti spostandoli in tempi antichi, ma anche alla necessità di trovare una paternità ideologica al di sopra del semplice interesse politico. L. Ferrero17 inserisce in questo quadro anche quel “movimento della riduzione di leggi e legislatori italici sotto la comune insegna del pitagorismo” (cfr. i riferimenti a Zaleuco e Caronda per le xii Tavole, l’opera di legislazione dello ius flavianum ad opera di Cn. Flavio promanante dal pitagorismo di Appio Claudio comparata con quella di Anco Marcio, nipote di Numa, e ancora il parallelo, non senza significato, che Plutarco istituisce tra Licurgo e Numa e la notizia dell’erezione nel foro di una statua a Pitagora). La falsificazione posteriore, se falsificazione c’è stata, ha rilevanza pari alla creazione di documenti originali in quanto sfrutta il prestigio della tradizione preesistente ma con diverso significato, come si è visto. Nel caso dei ‘libri di Numa’, da parte nostra, possiamo portare a sostegno della loro esistenza, consistenza e datazione prove archeologiche e linguistiche, le quali, sommandosi, diventano probanti. La prova linguistica è offerta da una lamina plumbea del Getty Museum18 datata tra la fine del v e l’inizio del iv sec. a.C., con ogni probabilità proveniente da Selinunte, in cui si ha l’indicazione (di un oracolo?) di scrivere sacri versi su una lamina e di nasconderli (“him who hides in a house of stone the visibile letters, inscribed on a tin sheet, of these holy words” trad. di Jordan per cortesia dell’Autore), dall’evidenza di culti misterici diffusi in Grecia e nell’Italia meridionale testimoniati nelle lamine orfiche, attualmente una ventina,19 che appartengono ad un periodo che va dalla fine del v al iii sec. a.C., e dal corpus raccolto da Jordan,20 in cui l’Autore ritrova, con alcuni paralleli interessanti nelle lamine orfiche, un rituale di iniziazione i cui versi sarebbero i legomena che accompagnano i drômena di un culto di Demetra e Kore di cui ha individuato alcuni momenti fondamentali.21 Abbiamo poi, in giunzione con le fonti, i dati archeologici: 1. La prova che sottili fogli di stagno fossero arrotolati come i libri. Sia le lamine orfiche che i nuovi documenti appaiono più volte ripiegati su loro stessi: non siamo in grado di dimostrare materialmente (ma le prove sono suggestive) che i libri fossero dello stesso materiale, ma sicuramente proprio quella forma può aver suggerito l’omologazione a libri in papiro in un momento in cui questo materiale scrittorio era in auge dopo la fondazione di Alessandria.22 Ma un’altra prova, ben più cogente,

12 Le fonti antiche sono citate in Peruzzi 1973 (Plut., Numa, 22, 2-5; Liv. i 40, 29, 3-14; Plin., Nat. Hist., xiii 27, 84-87; Val. Max. i 1, 12; Fest. 178 L.; Paul. ex Fest. 179, 10 L.; August., Civ. Dei, vii 34). 13 Burkert 20032, p. 530. 14 Paus. viii 15, 1-5. 15 V. bibliografia di riferimento. 16 Santi 2006: “La tradizione della frugalità del re Numa, il corpus di leggi che andavano sotto il suo nome e le memorie delle gentes che pretendevano di discendere dal re fornirono la trama sulla quale gli ambienti pitagorici di Taranto poterono tessere la leggenda di Numa ‘iniziato’ al pitagorismo”. 17 Ferrero 1955, p. 138 sgg., e p. 143. 18 Una anticipazione del testo in Jordan 1992, pp. 191-194. 19 Raccolte in Pugliese Carratelli 2001.

20 Nel suo volume l’autore raccoglie i frutti di un lavoro pluridecennale dedicato a sette iscrizioni (hexametric incantantions), di cui due inedite, datate tra l’inizio del v sec. a.C. e il iv d.C., che provengono dalla Sicilia (Selinunte, Imera), dal sud dell’Italia (Locri Epizefiri), da Creta (Falassarna), dall’Egitto (due papiri) e da Roma (un papiro, curiosamente scritto in un latino che traduce il greco e inframmezzato di termini greci. 21 Alla fine di ottobre del 2006 mi è stato proposto di studiare un corpus di iscrizioni greche di Sicilia (Selinunte) inedite, due delle quali, su lamine di piombo ripiegate, rientrano per caratteristiche evidenti e somiglianza nel contenuto nel gruppo studiato da Jordan. Vd. Rocca 2009. 22 Plin., Nat. Hist., xiii 21, 68-69: Et papyri natura dicetur, cum chartae usu maxime humanitas vitae constet, certe memoria, et hanc Alexandri Magni victoria repertam auctor est M. Varro, condita in Aegypto Alexandria, antea non fuisse

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giovanna rocca

sulla materia dei libri è offerta da una recente scoperta23 avvenuta nell’area Nord-Est dell’Agorà di Argo, in cui sono state ritrovate in una piccola stanza rettangolare alcune casse di pietra (¤ÙÚÔÈ) ricoperte da lastre, contenenti un gran numero di lamine di bronzo, alcuni con fori (iv sec. a.C.). Inizialmente si era pensato che i fori servissero per l’affissione (come nel caso dell’architrave dell’Agorà di Argo dove tracce di placche affisse sono evidenti) ma, in un secondo momento, “a concretion of seven perforated sheets, tied together with a bronze wire as a ring, have been found. Their study proved that their content was homogeneous. It seems then, that in fact the holes were used for tying the sheets together and for storing them in bunches. Probably other perforated sheets were fastened simply with strings or other perishable materials”. (Kharalambos Kritsas per litt.). 2. La modalità di occultamento in un contenitore di pietra. Sono numerose le notizie che testimoniano l’uso di nascondere testi sotto terra; per noi, oltre al già citato caso di Argo, un parallelo stringente viene dal Sud dell’Italia: un cilindro di pietra contenente 39 tavolette di bronzo ritrovato nel Santuario di Zeus Olimpio a Locri Epizefiri. Inoltre, anche nella Lex sacra sui misteri di Andania si legge che gli officianti del culto ricevono l’arca con i libri24 che poi passeranno ai loro successori. Pur essendo di epoca più tarda è chiara la tradizione legata alla presenza dei libri nel culto, dal momento che appare in una iscrizione pubblica. 3. La sistemazione dell’arca. La testimonianza di Plinio (da Cassio Emina) è per noi preziosa anche per un altro verso, perché aggiunge qualcosa sulla disposizione dell’arca, e cioè che nel mezzo lapidem fuisse quadratum circiter in media arca euinctum candelis quoquouersus. Tra le laminette auree ‘orfiche’ve ne è una proveniente da Farsalo,25 ritrovata fra i resti di una cremazione (per tutte le laminette è chiaro il contesto funerario di appartenenza che si accorda con il contenuto delle medesime volto a beneficio del defunto) racchiusa in un’idria di bronzo26 “protetta da chartarum usum; in palmarum foliis primo scriptitatum, dein quarundarum arborum libris, postea publica monumenta plumbeis voluminibus … 23 Sotto l’autorità dell’Eforato delle antichità di Nauplia diretta dal Dr. Alkestis Papademetriou negli anni 2000-2001. 24 IG v 1, 1390 (92 / 91 a.C.): ÙaÓ ‰b οÌÙÚ·Ó Î·d Ùa ‚È‚Ï›·.

una costruzione in pietra a forma di cubo” esattamente come quella che viene citata nell’arca di Numa. In questa visione articolata e solidale tra ciò che ‘sappiamo’ e ciò che ‘abbiamo’, le prove addotte assumono valore autonomo e si pongono quali dati su cui basare la ricostruzione del quadro storico in cui nasce la leggenda dei ‘libri di Numa’. Bibliografia di riferimento 1950 = N. M. BEP¢E§H™, X·Ï΋ ÙÂÊÚÔ‰fi¯Ô˜ οÏȘ ÂÎ º·ÚۿψÓ, «AÚÎ. EÊËÌÂÚȘ», 1950-1951, pp. 98-105. Burkert 20032 = W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Milano, 20032. Cencetti 1997 = G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna, 19975. Ferrero 1955 = L. Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano. Dalle origini alla fine della repubblica, Torino, 1955. Frel 1994 = J. Frel, Una nuova laminella “orfica”, «Sirene», xxx, 1995, pp. 183-184. Gabba 1966 = E. Gabba, Considerazioni sulla tradizione letteraria sulle origini della repubblica, in Les origines de la République romaine, Vandoeuvres-Genève, 1966. Guarducci 1974 = M. Guarducci, Laminette auree orfiche: alcuni problemi, «Epigraphica», xxxvi, 1-2, 1974, pp. 3-32. Jordan 1992 = D. Jordan, The Inscribed Lead Tablet from Phalasarna, «zpe», 94, 1992, pp. 191-194. Mele 1981 = A. Mele, Il Pitagorismo e le popolazioni anelleniche d’Italia, «aionarch», 3, 1981, pp. 61-97. Musti, Torelli 1991 = Pausania, Guida della Grecia, a cura di D. Musti, M. Torelli, Libro iv, La Messenia, Milano, 1991. Peruzzi 1973 = E. Peruzzi, Origini di Roma, ii, Bologna, 1973. Pugliese Carratelli 2001 = G. Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche, Milano, 2001. Santi 2006 = C. Santi, La leggenda del discepolato pitagorico di Numa. Genesi e diffusione di un motivo di propaganda, in Il Pitagorismo in Italia ieri e oggi, Atti del Convegno (Roma 2005), a cura di G. Barbera, Roma 2006. Zunino 1997 = M. L. Zunino, Hiera Messeniaka. La storia religiosa della Messenia dall’età micenea all’età ellenistica, Udine, 1997. BEP¢E§H™

25 Attualmente al Museo di Volos, BEP¢E§H™ 1950, pp. 80-98 (un annuncio precedente in «CRAI», 1950, p. 329), Guarducci 1974, pp. 11-12. 26 Con la raffigurazione in rilievo del rapimento di Orizia da parte di Borea; non è questo l’unico caso di una lamina racchiusa in un contenitore: quella di Entella (?) fu ritrovata «dentro una lampada di terracotta, perduta, forse del iii secolo»: Frel 1994.

IL TYPPHNIKON E£O™ DI DI O N. HAL. I I I , 6 1 , 2 . N UOV I EL EM ENTI S U L L’ ORI G I NE E LA NAT URA DE LL’I MP ERIU M Elena Tassi Scandone 1. Origine e natura dell ’ imperium . Le ipotesi della dottrina

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ome ampiamente noto, sull’argomento la dottrina è divisa. Secondo alcuni l’imperium avrebbe origine etrusca e sarebbe stato introdotto in Roma con l’avvento della dinastia dei Tarquini, secondo altri, invece, si tratterebbe di un istituto propriamente romano, risalente già all’antica monarchia latina.1 La stessa divisione è riscontrabile con riguardo alla natura di tale potere: da un lato, vi è la tesi del Mommsen di un imperium originariamente sovrano e omnicomprensivo, progressivamente limitato dalla legge,2 dall’altro lato, quella di Heuss, il quale sostiene l’idea di un potere limitato, di natura essenzialmente, se non esclusivamente, militare, che, in seguito al contrasto patrizio-plebeo, avrebbe acquisito nuove prerogative, soprattutto in materia di repressione criminale.3 Al centro di grandi e appassionate discussioni in passato, il tema è attualmente oggetto di minori attenzioni, in ragione anche della difficoltà di poter disporre di elementi significativamente probanti in un senso o nell’altro. Alcune recenti scoperte avvenute in Etruria mi hanno indotto a riprendere in esame l’argomento. Nel gettare nuova luce sulla struttura e l’impiego degli insignia imperii, esse consentono di acquisire indicazioni interessanti anche con riguardo al tema che qui ci occupa. * Dedico queste pagine al mio Maestro, il Professor Giovanni Colonna, con animo grato e profonda ammirazione.

1 Per la prima tesi, vedi in particolare, A. Rosemberg, Der Staat der alten Italiker, Berlin, 1913, p. 65; P. Voci, Per la definizione dell’‘imperium’, in Studi in onore di E. Albertario, Milano, 1950, (estr.) p. 67 sgg.; V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Napoli, 1957, p. 16; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino, 1960, p. 534 e nota 46; G. Grosso, Lezioni di storia del diritto romano, Torino, 1965, pp. 52, 161; F. De Martino, Storia della costituzione romana, Napoli, 19722, p. 118, e recentemente L. Capogrossi Colognesi, Diritto e potere nella storia di Roma, Napoli, 2008, p. 45 sgg. Per la seconda, vedi P. de Francisci, Intorno alla natura e alla storia dell’‘auspicium imperiumque’, in Studi Albertario, cit., i, p. 399 sgg.; Id., Primordia civitatis, Romae, 1959, p. 626. 2 Il Mommsen ricollega alla votazione della legge Valeria del 509 a.C., la quale, per la prima volta, avrebbe posto un limite all’imperium sovrano del magistrato, la nascita del diritto penale pubblico. Cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig, 18873, iii, p. 351 = Le droit public romain, Paris, vi, 1, p. 401; Idem, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, p. 42 = Le droit pénal romain, Paris, 1907, i, p. 46. Sull’argomento vedi da ultimo E. Tassi Scandone, ‘Leges Valeriae de provocatione’. Repressione criminale e garanzie costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli, 2008, p. 1 sgg., con indicazione della letteratura. 3 A. Heuss, Zur Entwicklung des Imperiums der römischen Oberbeamtem, «zss», lxiv, 1944, p. 57 sgg. Lo studioso ritiene l’imperium un potere esclusivamente militare. Nel periodo più antico il magistrato non avrebbe avuto la iurisdictio e la facoltà di repressione penale sarebbe stata limitata agli stranieri e ai militari. Successivamente, tra la metà del v e la fine del iv secolo a.C., in stretta correlazione con l’inasprirsi del conflitto patrizio-plebeo, si sarebbe verificato un ampliamento dei poteri del magistrato relativi alla sfera civile. La legge Valeria del 300 a.C. avrebbe posto un primo limite all’esercizio dell’imperium da parte del magistrato. Sostengono la tesi della natura essenzialmente militare dell’imperium anche P. Voci, art. cit. (nota 1), p. 67 sgg.; F. De Martino, op. cit. (nota 1), p. 157, nota 142, e recentemente B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano, 19982, p. 20 e nota 42. 4 E. Tassi Scandone, Verghe, scuri e fasci littori in Etruria. Contributi allo studio degli insignia imperii, Pisa-Roma, 2001.

2. Insignia imperii e struttura della securi percussio in Etruria. La recente scoperta di fasci littori di sole scuri Come si è avuto modo di esporre in un precedente lavoro dedicato agli insignia imperii etruschi,4 verghe e scuri – con la sola eccezione di Vetulonia, cui non a caso, le fonti antiche attribuiscono la paternità dell’inventio del fascio littorio5 – in Etruria non sono legate stabilmente tra loro a formare un’unica insegna. Nell’età più antica, tradizionalmente fatta coincidere con quella monarchica, intra urbem sono presenti sia le verghe che la scure, mentre extra urbem ricorre solo la scure.6 A partire dall’inizio del v secolo a.C., verosimilmente in concomitanza con l’affermarsi delle oligarchie repubblicane, la scure scompare dal novero delle insegne di cui può fregiarsi il magistrato domi mentre continua ad essere regolarmente usata militiae.7 I littori qui adstant i magistrati chiusini nelle celebrazioni dei giochi e nelle manifestazioni pubbliche cittadine recano solo le verghe,8 gli apparitori che scortano i comandanti militari portano, invece, solo la scure.9 Il novero delle testimonianze si è arricchito recentemente di due nuovi rinvenimenti che appaiono eccezionalmente importanti. In due tombe della necropoli gentilizia di Casal Marittimo sono stati trovati, deposti sul petto dei de5 Sil. Ital., viii, 483-485. L’inventio non fu seguita dalle altre città etrusche, probabilmente per la rapida decadenza di Vetulonia. Cfr. sul punto M. Pallottino, Etruscologia, Milano, 19857, p. 124, e più di recente E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 228 sgg. 6 Le attestazioni più antiche della scure littoria risalgono alla seconda metà del vii secolo a.C. in concomitanza con la rivoluzione oplitica. La sostituzione della antica scure di bronzo, usata nei duelli omerici, con lance e spade in ferro, più resistenti e funzionali al nuovo tipo di combattimento, ha infatti reso possibile il processo di astrazione simbolica della securis da arma dei capi ad insegna del potere militare del comandante. Tale processo di astrazione simbolica per la scure si è già definitivamente compiuto nella prima metà del vii secolo a.C. Particolarmente significativi a questo riguardo appaiono l’affresco della Tomba Campana di Veio, datato al 630 a.C., che ritrae un comandante a cavallo preceduto da un apparitore appiedato e la Situla della Certosa, in cui i littori precedono i comandanti di un esercito di tipo oplitico (Cfr. G. Colonna, Rapporti artistici tra il mondo paleoveneto e il mondo etrusco [1980], ora in Italia ante Romanum imperium, Pisa-Roma, 2005, ii, 1, p. 869, nota 14; G. Sassatelli, Ancora sui rapporti tra Etruria Padana e Italia settentrionale; qualche esemplificazione, in Gli Etruschi a Nord del Po, Mantova, 1989, p. 63; L. Malnati, V. Manfredi, Gli Etruschi in Val Padana, Milano, 1991, p. 161; E. Tassi Scandone, op. cit. [nota 4], p. 182 sgg.). A partire dalla seconda metà del vii sec. a.C. sono poi attestate una serie di riproduzioni di scuri, i così detti ‘modelli per uso funerario’, per le quali la dottrina ha giustamente ipotizzato che si tratti di insignia imperii. Nello stesso arco temporale sono attestati esemplari di scuri a grandezza pari o maggiore di quella naturale e riccamente decorati la cui funzione emblematica è indicata da tutta una serie di parametri. Diversamente per le verghe la loro stabile associazione con la sfera del potere pubblico è stata più lenta e graduale, in ragione essenzialmente del fatto che le stesse, facilmente reperibili in natura, e non utensili manufatti, sono usate ab immemorabile da una molteplicità indistinta di soggetti e nelle situazioni più diverse. Cfr. E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 201 note 2-3 e p. 220 sgg. 7 E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 228. 8 G. Colonna, Scriba cum rege sedens (1976), ora in Italia ante Romanum imperium, cit. (nota 6), i, p. 109 sgg. 9 E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 155 sgg. per le verghe, pp. 177 sgg. e 192 sgg. per le scuri.

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funti, entrambi guerrieri, dei fasci di sole scuri, composti rispettivamente di due e tre scuri unite tra loro da un anello.10 Il rinvenimento si rivela quanto mai prezioso per due motivi. I fasci di sole scuri offrono infatti puntuale riscontro alla testimonianza di Dionigi di Alicarnasso relativa alle insegne del potere del comandante della Lega etrusca; la deposizione di questi ultimi sul petto del defunto in sostituzione del lituo e dell’instrumentum sacrificale, denota il cambiamento intervenuto nella rappresentazione del rango, confermando quanto ipotizzato su altre basi, circa l’affermarsi, intorno alla metà del vii secolo a.C., di un potere personale laico basato sulla forza delle armi,11 che si sostituisce alla antica regalità gentilizia a fondamento religioso, il rex augur dei Latini.12 Tale peculiare assetto delle insegne etrusche evidenzia modalità d’uso diverse rispetto a quelle evocate dal fascio romano di età medio repubblicana, in cui virgae et securis sono inligatae tra loro a formare un unico oggetto. In Etruria la securi percussio non prevede la fustigazione del reo:13 dopo la lettura del capo di imputazione e della sentenza di condanna, il lege agere dei Romani, segue il suono della tromba da guerra, il classicum,14 che annuncia che in milite capitaliter animadvertitur, quindi il comandante, alzando lo scudo, ordina al littore di procedere alla decollatio.15 3. Il T YPPHNIKO`N Eò£O™ di Dion. Hal. iii, 61, 2 e gli insignia imperii del comandante dell ’ esercito federato Struttura e modalità d’uso degli insignia imperii così come emergono dalla documentazione archeologica sembrano trovare puntuale riscontro nella testimonianza di Dionigi d’Alicarnasso. Lo storico greco dedica buona parte del libro terzo alle guerre, tutte vittoriose, condotte da Tarquinio Prisco, di cui elogia la grande abilità militare e la conoscenza delle nuove tecniche di combattimento di tipo oplitico.16 Tali competenze consentono a Tarquinio, durante il regno di Anco Marcio, di ottenere più volte il comando dell’esercito romano e, alla morte del re, di succedergli al trono.17 Nei capitoli 51-61, Dionigi affronta specificamente il tema della 10 L’anello è inserito in un foro passante nel manico, posto poco sopra il punto di innesto della lama. Vedi A. Maggiani, Tombe a fossa H1 e H2, in Principi guerrieri. La necropoli etrusca di Casal Marittimo, Milano, 1999, p. 59; E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), pp. 226-227; A.M. Esposito, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, Cat. della Mostra (Bologna, 2000), Venezia, 2000, p. 238. 11 L. Capogrossi Colognesi, op. cit. (nota 1), p. 45 sgg.; E. Tassi Scandone, Iuppiter, auspicia populi, imperium, in Il popolo nella storia e nel diritto. Da Roma a Costantinopoli a Mosca. Atti del xxvii Seminario internazionale di studi storici (Roma, 19-21 aprile 2007), in corso di stampa. 12 Le tombe della necropoli gentilizia rinvenuta in località Casa Nocera documentano bene il cambiamento intervenuto nella connotazione del rango. Nella tomba A, quella del capostipite, più antica di una generazione, le scure-insegna è deposta all’esterno del dolio, mentre, al suo interno, sono contenuti la daga in ferro ed il pugnale, entrambi di impiego sacrificale ed il lituo. Parrebbe quindi essere già presente in nuce una distinzione tra la sfera religiosa e sacrale – che sembra avere un valore preminente, poiché questi oggetti erano deposti sul petto del defunto durante l’esposizione – e quella laica del potere militare. Nelle tombe H1 e H2 si ha invece un capovolgimento di prospettiva. Nella connotazione del rango diviene ora prevalente il potere politico-militare. Ecco quindi che ad essere posti sul petto del defunto non sono più il lituo e l’instrumentum sacrificale ma i fasci di scuri. Sull’argomento A. Maggiani, art. cit. (nota 10), p. 59; E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), pp. 226-227; A.M. Esposito, in op. cit. (nota 10), p. 238. 13 Cfr. l’urna volterrana con scena di decapitazione e il deposito votivo rinvenuto a Tarquinia, dinanzi alla curia cittadina, che conterrebbe gli instrumenta supplicii, o una loro riproduzione di valore simbolico, ritualmente sepolti. Sull’argomento E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 205 sgg. con indicazione delle fonti e discussione della letteratura.

guerra condotta dal re Tarquinio contro gli Etruschi, guerra che aveva visto il coinvolgimento delle città della Lega, unite nel tentativo di fermare l’avanzata di Roma. Ai rappresentanti della lega etrusca, pesantemente sconfitta ad Ereto, Tarquinio propone un accordo di pace vantaggioso, a condizione, però, che le città riconoscano la supremazia politica e militare di Roma.18 Gli ambasciatori tornano dunque dalle rispettive città portando a Tarquinio non solo nude parole, ma anche i simboli del potere con cui essi adornano i loro re: lo scettro sormontato dall’aquila, la corona aurea, la sedia curule, la toga pretesta. Aggiunge ancora Dionigi che secondo alcuni, ó˜ ‰¤ ÙÈÓ˜ îÛÙÔÚÔÜÛÈ, sarebbero state consegnate al re di Roma anche le dodici scuri. Spiega lo storico che è infatti usanza etrusca far precedere il re di ogni città da un littore che reca un fascio di verghe ed una scure. In caso di una spedizione militare comune alla dodecapoli, le dodici scuri, una per ogni città, vengono consegnate a colui che in quella occasione ha il comando dell’esercito federato.19 Scrive Dionigi: Dion. Hal. iii, 61, 2: ó˜ ‰¤ ÙÈÓ˜ îÛÙÔÚÔÜÛÈ, ηd ÙÔf˜ ‰Ò‰Âη ÂϤÎÂȘ âÎfiÌÈÛ·Ó ·éÙ† Ï·‚fiÓÙ˜ âÍ âοÛÙ˘ fiψ˜ ≤Ó·. T˘ÚÚËÓÈÎeÓ ÁaÚ ÂúÓ·È öıÔ˜ ‰ÔÎÂÖ ëοÛÙÔ˘ ÙáÓ Î·Ùa fiÏÈÓ ‚·ÛÈϤˆÓ ≤Ó· ÚÔËÁÂÖÛı·È ®·‚‰ÔÊfiÚÔÓ ±Ì· Ù” ‰¤ÛÌ– ÙáÓ ®¿‚‰ˆÓ ¤ÏÂÎ˘Ó Ê¤ÚÔÓÙ·Ø Âå ‰b ÎÔÈÓc Á›ÓÔÈÙÔ ÙáÓ ‰Ò‰Âη fiÏÂˆÓ ÛÙÚ·Ù›·, ÙÔf˜ ‰Ò‰Âη ÂϤÎÂȘ âÓd ·Ú·‰›‰ÔÛı·È Ù† Ï·‚fiÓÙÈ ÙcÓ ·éÙÔÎÚ¿ÙÔÚ· àÚ¯‹Ó.

Due gli aspetti della testimonianza dionigiana sui quali mi pare necessario soffermarsi e che sono peraltro strettamente correlati tra loro: l’esistenza di un T˘ÚÚËÓÈÎeÓ öıÔ˜, comune, cioè, a più città, quanto meno a tutte quelle che fanno parte della lega; la più antica struttura degli insignia imperii. Con riguardo al primo aspetto, deve rilevarsi che il mos tirreno, di cui ci riferisce lo storico greco, avvalora la tesi, già avanzata in passato, secondo cui il Nomen etrusco costituisse, al pari di quello latino, un’unità giuridico-religiosa, una ‘federazione’ di popoli che si attivava in prevalenza per far fronte ad esigenze belliche.20 Per quanto attiene al secondo aspetto, è interessante notare come Dionigi affermi esplicitamente che le insegne del potere del comandante dell’esercito federato sono le scuri 14 Vedi E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 212 sgg. 15 Cfr. Veg., ii, 22: hoc insigne videtur imperii, quia classicum canitur imperatore presente vel cum in milite capitaliter animadvertitur. 16 Cfr. Dion. Hal., iii, 39, 2 e iii, 41, 4. Del resto come ha evidenziato la moderna dottrina l’oplitismo è stato introdotto in Roma dagli Etruschi. Sull’argomento si veda in particolare G. Valditara, Studi sul ‘magister populi’. Dagli ausiliari militari del ‘rex’ ai primi magistrati repubblicani, Milano, 1987, p. 256 sgg. con indicazione delle fonti e della letteratura. 17 Tarquinio, stando sempre a Dionigi, fu più volte magister peditum e magister equitum, ovvero comandante in capo della fanteria e della cavalleria. Sull’argomento, per tutti, G. Valditara, op. cit. (nota 16), p. 140 sgg. 18 Cfr. Dion. Hal., iii, 60, 2-3. 19 Cfr. G. Camporeale, Unione etnica e disunione (politica) ai primordi della storia etrusca, in La lega dei xii popoli, Pisa-Roma, 2001, p. 22 e nota 14; E. Tassi Scandone, ‘Auspicium’ o ‘augurium Romuli’? Sul problema del rapporto tra ‘auspicium’ ed ‘imperium’, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di Mario Talamanca, viii, Napoli, 2001, p. 173 sgg. 20 Secondo una parte della dottrina, l’espressione mekl rasnal avrebbe il significato di nominis Etrusci. Cfr. J. Heurgon, L’ètat étrusque, «Historia», vi, 1957, pp. 65, 89 sgg., e 96-97; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, i, Torino, 1965, p. 229. Contra invece M. Pallottino, Nuovi spunti di ricerca sul tema delle magistrature etrusche, «StEtr», xxiv, 1955-56, 66 sgg. Più recentemente sull’argomento G. Perl, Nomen Etruscum, in Die Welt der Etrusker, Berlin, 1990, 101 sgg. Sulla federazione etrusca tra i secoli v e iii a.C. vedi anche L. Aigner Foresti, La lega etrusca, in Federazioni e federalismo nell’Europa antica. Alle radici della casa comune europea, Milano, 1994, p. 327 sgg; D. Briquel, I passi liviani sulle riunioni della lega etrusca, ivi, p. 351 sgg.

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e non già i fasci di verghe con la scure. Mi sembra pertanto che, sotto questo profilo, l’opinione prevalente debba essere riconsiderata. Un’interpretazione dell’espressione ‰Ò‰Âη ÂϤÎÂȘ in senso sineddotico, che è quella attualmente preferita, sembra potersi escludere sia in ragione del dato lessicale – in quanto per ¤ÏÂ΢˜,21 a differenza di ®¿‚‰Ô˜,22 non è documentato un valore semantico di questo tipo – sia per il contesto in cui la stessa si inserisce, che non lascia, a mio avviso, adito a dubbi. Quando Dionigi fa riferimento all’assetto delle insegne extra urbem, e lo fa in due occasioni nel brano sopra riportato, egli menziona sempre e solo la scure.23 Le scuri sono dunque il simbolo del potere assoluto che le dodici città attribuiscono al comandante dell’esercito federato. Tale potere, che Dionigi definisce ÙcÓ ·éÙÔÎÚ·ÙÔÚ· àÚ¯‹Ó e gli storici latini indicano con il nome di imperium, ha natura prettamente militare. Lo storico greco fa riferimento esplicito ad una spedizione militare comune: Âå ‰b ÎÔÈÓc Á›ÓÔÈÙÔ ÙáÓ ‰Ò‰Âη fiÏÂˆÓ ÛÙÚ·Ù›·… Lo stesso Dionigi nel descrivere gli insignia imperii dei re romani succeduti a Tarquinio e quelli dei magistrati repubblicani impiega gli stessi termini usati per le insegne etrusche.24 Inoltre sino alla seconda metà del iv secolo a.C., i casi di securi percussio documentati dalle fonti non prevedono, in accordo del resto con quanto accade in Etruria, la fustigazione del reo, il virgis caedere, che caratterizzerà invece il supplizio romano di età medio repubblicana.25 Tutti questi elementi sembrano dunque avvalorare la tesi avanzata da una parte della dottrina, la quale, come detto, afferma l’origine etrusca dell’imperium. Nel caso di Roma, disponiamo di un importante elemento di prova che manca invece per l’Etruria, il quale potrebbe offrire un riscontro piuttosto puntuale a questa tesi. Mi riferisco all’ambito di applicazione della securi percussio. Se quest’ultimo fosse in linea con quanto tramandatoci da Dionigi circa la natura essenzialmente militare del potere simboleggiato dalle scuri, allora si potrebbe ipotizzare che insieme agli insignia imperii e alle procedure del loro utilizzo sia stato mutuato dagli Etruschi anche il concetto di imperium.

Nel periodo compreso tra il 509 a.C., anno di introduzione della provocatio ad populum, la quale pone un limite all’esercizio della repressione criminale da parte del magistrato, e il 300 a.C., anno di emanazione della terza legge Valeria de provocatione, che estende alla securi percussio tale garanzia civica, sono in tutto otto i casi di securi percussio documentati dalle fonti.26 Le decapitazioni avvengono sempre su ordine del comandante militare ed hanno luogo, di norma, in territorio militiae.27 Il più antico caso di securi percussio risale al 499 o al 496 a.C,28 a seconda delle cronologie.29 Il console romano ordina di securi percutere i principes civitatis di Pomezia, città che fa parte della Lega latina, accusati e riconosciuti colpevoli di aver tradito l’alleanza militare con i Romani e di essere passati agli Aurunci, allora in guerra contro Roma. Nel 471 a.C., il console Appio Claudio fa decapitare i soldati romani che hanno abbandonato le fila, quando l’esercito era già schierato in ordine di battaglia, rifiutandosi di combattere, essenzialmente in ragione dell’odio nutrito nei riguardi del comandante. Durante la ritirata, l’esercito viene attaccato dai Volsci e subisce perdite gravissime. Posto il campo in un luogo sicuro, il console procede alla repressione con grande severità, nonostante gli interventi in favore dei soldati esperiti dai tribuni e dai legati.30 Nell’accertamento delle responsabilità individuali, Appio distingue tra i soldati che hanno abbandonato le fila, i quali, secondo le prescrizioni della disciplina militare, devono essere decapitati e quanti invece hanno perso/abbandonato le insegne, che vengono condannati alla pena del fustuarium.31 Nel 431 a.C., il dittatore Postumio Tuberto fa decapitare il figlio che, ad esercito già schierato, aveva lasciato il proprio posto nella fila per ingaggiare un duello, peraltro vittorioso, con un hostis che lo aveva provocato.32 L’uscita dall’ordo viene considerata una condotta così grave da richiedere la pena di morte: ne turbato militiae ordine vindicta

21 Cfr. G. Liddell, R. Scott, A Greek-english Lexicon, Oxford 1843, s.v. 22 Ibid., s.v. ®¿‚‰Ô˜. 23 Dionigi, dopo aver menzionato i regia ornamenta, ricorda la consegna a Tarquinio delle dodici scuri, una per ciascuna delle città che avevano partecipato alla spedizione militare contro i Romani. Segue poi un inciso sugli insignia imperii di cui il re si adorna in città, e, in questa occasione, lo storico greco menziona il fascio di verghe e la scure, le quali non sono legate tra loro come accade per i fasci romani. Terminata la chiosa esplicativa, lo storico ritorna a parlare delle insegne consegnate a Tarquinio vincitore e in questa circostanza egli nuovamente menziona solo le dodici scuri, in perfetta e totale sintonia con quanto aveva detto prima dell’inciso. 24 E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 4), p. 222 sgg. 25 Ead., op. cit. (nota 2), p. 99 sgg. 26 Sulle leggi Valerie del 509 e del 300 a.C., vedi da ultimo Ead., op. cit. (nota 2), pp. 106 sgg. e 307 sgg. 27 Oltre alla decapitazione dei figli di Bruto, sulla cui attendibilità storica la dottrina muove seri dubbi (cfr. Ead., op. cit. [nota 2], p. 83, nota 66, e p. 103, nota 109), gli unici due altri casi in cui la decapitazione avviene domi, sono quella dei dueventoventicinque cittadini di Sora, nel 315 e quella dei trecentocinquantotto nobilissimi Tarquinienses avvenuta quattro anni dopo, nel 311 a.C. Per la decapitazione dei Sorani, vedi infra § 4, per quella dei Tarquiniesi (cfr. Liv., vii, 19, 2-3), che presenta sotto più profili caratteri di eccezionalità – si pensi alla richiesta di una delibera popolare, al fatto che è l’unico caso di esecuzione capitale perpetrato nei riguardi di hostes, almeno nel periodo qui preso in esame, e, ancora, alla circostanza per la quale il supplizio dei prigionieri sarebbe stato realizzato pro immolatis in foro Tarquiniensium poenae hostibus redditum – si rinvia alle considerazioni già sviluppate in precedenza (E. Tassi Scandone, Ricerche in tema di repressione criminale, Roma 2004, pp. 116 sgg. e 125 sgg. con indicazione delle fonti e della letteratura).

28 Cfr. Liv., ii, 17, 4-7, su cui E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 84 sgg. 29 E. Tassi Scandone, ivi, p. 82. 30 Dion. Hal., ix, 50, 6-7. L’episodio è narrato anche da Livio (cfr. ii, 59, 9-11 su cui vedi R. A. Ogilvie, A commentary on Livy’s books 1-5, Oxford 1970, p. 384). Anche per Livio la responsabilità del mancato schieramento dell’esercito grava sui centuriones e i duplicarii che occupano le prime file dell’esercito. Quest’ultimi, dandosi alla fuga, hanno impedito ai soldati delle file successive, già in preda al panico, poiché i nemici stanno assalendo la retroguardia, di prendere il proprio posto nella falange, in quanto sono venuti meno tutti i punti di riferimento che consentono ai singoli milites di collocarsi all’interno degli ordines. I centurioni ed i duplicari sono quindi condannati alla decapitazione. Sull’interpretazione da attribuire all’espressione ad hoc, cfr. E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 104 sgg. 31 Cfr. anche Liv., v, 6, 14 il quale afferma consistere nel fustuarium la pena per chi abbandona/perde le insegne e nella decapitazione quella per chi abbandona la fila, cfr. Liv., ii, 59, 9-11. Sull’argomento, E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), pp. 104 sgg. e 108 sgg. 32 La vicenda del figlio di Postumio presenta indubbi punti in comune con quella del figlio di Manlio, tanto che una parte della storiografia moderna, ha pensato addirittura ad una geminazione (cfr. R.A. Ogilvie, op. cit. [nota 30], p. 580, al quale si rinvia per la principale letteratura e G. Valditara, op. cit. [nota 16], p. 263, nota 62). A mio avviso nel racconto delle fonti non vi è alcun elemento che escluda di ipotizzare due episodi all’origine distinti e ascrivere gli elementi di analogia ad un momento successivo, quando nel tentativo di offrire una spiegazione eziologica al detto imperia Postumiana o Manliana, le fonti, o meglio alcune di esse, avrebbero operato una commistione tra le due vicende. Cfr. E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 109; Eadem, Securi percussio, teoria della pena di morte come sacrificio e origine dell’imperium, in ºÈÏ›·. Scritti per Gennaro Franciosi, iv, Napoli, 2007, p. 2639 e nota 97.

¤ÏÂ΢˜.

4. Le decapitazioni con la scure documentate dalle fonti tra il 509 a.C. ed il 300 a.C.

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elena tassi scandone lus e L. Genucius Aventinensis, la presidenza della quaestio contro i Frusinati, che sono cives sine suffragio, accusati di aver sobillato e indotto gli Ernici a far guerra a Roma.40 I cittadini giudicati colpevoli sono frustati e decapitati nel foro di Frosinone.41

deesset, dice Valerio Massimo, giustificando la severità del dittatore.33 Nel 443-442 a.C., un’altra città della Lega, Ardea, in seguito ad una seditio scoppiata all’interno del corpo civico,34 decide di deficere Romanos e passare dalla parte dei Volsci. La parte della cittadinanza rimasta in minoranza chiede l’aiuto dei Romani. Il console M. Geganius, dopo aver liberato la città dal presidio volsco, conduce una quaestio per individuare i colpevoli della defectio, i quali sono condannati a morte e decapitati nel foro della città.35 Nel 381 a.C., il console Camillo condanna alla securi percussio i principes di Nepi che, in violazione dei patti precedentemente stretti con Roma, hanno compiuto la deditio agli Etruschi.36 Dopo aver espugnato la città, il console emana un editto con il quale stabilisce che vengano deposte le armi e risparmiati i cittadini inermi. Provvedimenti di carattere sanzionatorio vengono adottati solo nei confronti degli auctores deditionis; quest’ultimi – ai quali il console aveva precedentemente inviato legati per esortarli ut se ab Etruscis secernerent, ricevendone una risposta negativa – sono perseguiti pubblicamente e decapitati. Nel 319 a.C., dopo la sconfitta dell’esercito romano a Caudio, sono i Satricani, cittadini romani, a tradire l’alleanza militare con Roma accogliendo in città un presidio sannitico. Il console, riconquistata Satrico, anche grazie all’ausilio di alcuni cittadini, dopo aver fatto strage di nemici, conduce una quaestio per individuare i responsabili della defectio. Quanti sono riconosciuti colpevoli sono condannati a morte e decapitati nel foro.37 Nel 315 a.C., sono condannati alla decapitazione alcuni cittadini di Sora, città alleata del popolo romano, o secondo Livio, addirittura colonia romana, ritenuti responsabili della deditio della città ai Sanniti e dell’eccidio della guar nigione romana di stanza nel loro territorio.38 Duecentoventicinque Sorani, individuati concordemente come i responsabili dell’accaduto, vengono inviati a Roma in catene per essere decapitati nel foro summo gaudio plebis.39 Nel 303 a.C., viene affidata ai consoli Ser. Cornelius Lentu-

Se si analizzano i comportamenti sanzionati nell’esercizio dell’imperium militiae si ha modo di individuare, da un lato, la ratio dell’istituto, e, dall’altro, il bene giuridico, cui il medesimo è funzionale. Il bene giuridico coincide infatti con la salvaguardia della capacità di difesa militare di Roma, rispetto al pericolo che ne vengano compromessi la preparazione e l’efficienza bellica. Per comprendere appieno la valenza giuridica di tale tutela penale deve rilevarsi come nel periodo preso in esame la tattica di combattimento sia di tipo oplitico. Essa richiede dunque un numero abbastanza rilevante di armati addestrati a combattere in falange, l’exercitus Romanus, che a seconda dei casi e delle necessità è integrato con contingenti di socii,42 di alleati. L’ambito soggettivo di applicazione della pena evidenzia come l’elemento che accomuna gli individui condannati alla securi percussio consista in una condizione personale che li pone in diretto rapporto con la sfera della sicurezza militare, e che, quindi, fa sorgere in capo ad essi doveri sulla cui inderogabilità non è dato dubitare. Può trattarsi di doveri promananti dalla diretta e personale integrazione nella compagine militare per eccellenza, l’esercito, ovvero dall’esistenza di un rapporto di alleanza, di societas, ma, nell’un caso come nell’altro, pur sempre di doveri la cui violazione espone Roma a rischi di natura militare. I soggetti condannati ad essere securi percussi sono quindi sempre soldati romani che hanno mancato ai loro doveri o socii che abbiano tradito il rapporto di alleanza, che, nella maggioranza dei casi, si fonda sul foedus Cassianum, è il caso dei Pometini,43 dei Satricani44 e dei Nepesini,45 negli altri su

33 Val. Max., ii, 7, 6. 34 L’alleanza veterrima, cui si richiamano i legati, è quella conclusa da Spurio Cassio nel 493 a.C. con le città latine ed erniche, che, secondo la concorde testimonianza delle fonti, fu oggetto di un rinnovata previsione nel 444 a.C., due anni prima della seditio scoppiata ad Ardea. La richiesta dell’invio di truppe da parte dei Romani, cui allude il termine auxilium, che designa tecnicamente il contingente alleato, è motivata dagli ambasciatori sulla base del rapporto di societas che unisce le due città, rapporto per l’appunto vincolante entrambi i contraenti a prestarsi reciproco aiuto sul piano militare. Sul foedus Cassianum vedi R. Werner, Der Beginn der römischen Republik, München-Wien, 1963, p. 370 sgg., e p. 415 sgg.; P. Catalano, art. cit. (nota 20), p. 248 sgg.; F. De Martino, op. cit. (nota 1), ii, 72 sgg.; A. Bernardi, Nomen Latinum, Pavia 1978, p. 27 sgg. e recentemente L. Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio, Roma 2000, p. 70 sgg. 35 Liv., iv, 10, 6, su cui E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 89 sgg. 36 Liv., vi, 9, 2, e vi, 10, 4. Il controllo di Roma sulle città di Nepi e di Sutri si ricollega alla sconfitta e alla distruzione di Veio avvenuta nel 396 a.C. Cfr. S. Steingräber, Città e necropoli dell’Etruria, Roma, 1983, pp. 515-521; C. Morselli, Sutrium, Firenze, 1980, pp. 14-15; G. Bandelli, La frontiera settentrionale: l’ondata celtica e il nuovo sistema di alleanze, in Storia di Roma, i. Roma in Italia, a cura di A. Momigliano, A. Schiavone, Torino, 1988, p. 508. 37 Cfr. Liv., ix, 16, 9-10, su cui E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 93 sgg.; Eadem, op. cit. (nota 2), pp. 323-324. Vedi anche R. A. Bauman, The ‘Lex Valeria de provocatione’ of 300 B.C., «Historia», xxii, 1973, p. 44 sgg.; B. Santalucia, ‘Longius ab urbe mille passuum’. Cittadini e ‘provocatio’ in Italia prima delle ‘leges Porciae’, in Le strade del potere, a cura di A. Corbino, Catania, 1994, p. 100. 38 Cfr. E. De Ruggiero, Dizionario Epigrafico di antichità romane, Roma, 1900, (rist. 1961), p. 447, s.v. Colonia. 39 Liv., ix, 24, 13-15. Cfr. E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 95 sgg. 40 Liv., ix, 26, 5-7. 41 B. Santalucia, op. cit. (nota 37), p. 100; C. Venturini, Processo penale

e società politica nella Roma repubblicana, Pisa, 1996, p. 113; E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 2), pp. 327-328. 42 Il termine socius, nel significato di alleato, identifica un rapporto giuridicamente limitato da obblighi reciproci. Si tratta di rapporti definiti dalla dottrina e non senza contrasti (P. Catalano, op. cit. [nota 20], p. 32 sgg. e p. 198 sgg. M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani, Milano, 1976, p. 2 sgg.) di diritto internazionale in quanto diretti a collegare gli interessi economici, politici e militari di singole comunità. Il rapporto derivante dalla qualificazione di socii dei contraenti ha un contenuto assai più specifico del semplice assetto fondato su buone condizioni. Cfr. A. Neumman, «re», vi, 2, 1909, c. 2818, s.v. Foedus; A. Heuss, Die Völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, Leipzig, 1933, p. 411. Contra invece M. R. Cimma, op. cit., p. 80 sgg. Deve peraltro rilevarsi come secondo l’orientamento prevalente, dei due tipi di alleanza militare ritenuti praticabili (quella temporanea e quella senza limiti di tempo) solo quest’ultima avrebbe comportato la qualifica di socius. Cfr. Th. Mommsen, op. cit. (nota 1), i, p. 645: P. C. Sands, The Clients Prince of the Roman Empire under the Republik, Oxford 1908, p. 42 sgg.; E. Taüber, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reichs, i. Die Staatsverträge und Vertragsverhaltnisse, Leipzig, 1913, p. 91 sgg. 43 Cfr. Dion. Hal., v, 61. 44 Cfr. Dion. Hal., v, 61, su entrambi vedi P. Catalano, op. cit. (nota 20), p. 257 sgg. 45 Per la città di Nepi, come per quella vicina di Sutri, la dottrina è divisa tra il considerarle entrambe colonie fondate dalla Lega, ovvero dalla sola città di Roma. Non vi sono dubbi, invece, circa la loro partecipazione alla Lega. Sull’argomento, per tutti P. Catalano, op. cit. (nota 20), p. 257 sgg. Parere contrario aveva invece espresso a suo tempo Th. Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, 1960, i, p. 430 sgg. che affermava: «i comuni latini istituiti più tardi, come Sutri, Nepete, Anzio, Terracina, Cales non entrarono nella confederazione, né i comuni latini spogliati successivamente dell’autonomia, come Tuscolo e Lanuvio, furono cancellati dalla lista».

5. L’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione della securi percussio

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di dion. hal. iii, 6 1, 2

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confronti di un altro, sovente in seguito ad una resa a discrezione del nemico.51 Nei casi sopra esposti il contesto politico-militare in cui si realizza il tradimento è sempre di guerra. Roma, in altri termini, è già in stato di belligeranza contro questo o quel nemico e la defectio o la deditio di un populus socius, non si esaurisce affatto in un indebolimento della sua posizione nello scenario politico – internazionale del tempo, ma si risolve in un vulnus in pregiudizio della sua forza militare in costanza di conflitto.

di un foedus stretto da Roma con la singola comunità, è il caso dei Sorani.46 L’ambito oggettivo di applicazione della pena conferma quanto emerso con riguardo a quello soggettivo. Le condotte punite sono unicamente quelle suscettibili di mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, che, come detto, consiste nella salvaguardia della capacità di difesa militare di Roma. L’abbandono del posto all’interno della falange, in assenza di un ordine preciso del comandante,47 e, del pari, il combattimento ingaggiato al di fuori dei ranghi, extra ordinem pugnare, sono comportamenti potenzialmente idonei a porre a repentaglio la saldezza della schiera e, di tal guisa, la salvezza stessa dell’esercito.48 Il mancato riconoscimento del valore di causa scriminante all’esito vittorioso conseguito nel duello, come accade nel caso del figlio del dittatore Postumio, trova adeguata spiegazione unicamente nella prospettiva sopra delineata.49 Se si accoglie la tesi qui avanzata diviene agevole comprendere come l’esercizio dell’imperium militiae si rivolga anche contro quei comportamenti che pur non essendo posti in essere da soggetti direttamente inquadrati nell’exercitus, si rivelano però altrettanto esiziali in quanto suscettibili, al pari dei primi, di minare l’efficacia del dispositivo bellico di Roma. È il caso della defectio,50 del passaggio al nemico con conseguente accoglimento all’interno della città di un presidio armato e della deditio, la sottoposizione incondizionata di un populus nei

Le considerazioni svolte nelle pagine precedenti, credo consentano di formulare un’ipotesi sull’origine e la natura dell’imperium, che tenga conto di quanto emerso con specifico riferimento all’Etruria, ovvero a quella realtà istituzionale, che è dante causa in questo processo di mutuazione. Tale nuova forma di potere sembra infatti rispondere alle esigenze che si erano venute a creare sul piano strettamente militare. Con la transizione dal modello della tattica pre-oplitica dei combattimenti eroici52 a quello oplitico, che, come detto, viene introdotto in Roma dagli Etruschi,53 il baricentro della forza militare si sposta dal coraggio personale alla disciplina collettiva, definibile come la risultante di ferree obbedienze individuali agli ordini impartiti alla falange.54

46 Nei confronti dei soggetti appartenenti a collettività diverse da Roma l’intervento repressivo del console romano trova dunque la propria fonte di legittimazione nelle disposizioni che regolano i rapporti tra i socii in relazione specificamente all’intervento militare, e che ci è dato conoscere attraverso la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso. Tra gli obblighi assunti dai contraenti e riguardanti più direttamente l’intervento armato vi è infatti quello di non muoversi guerra reciprocamente, di non chiamare nemici esterni, e comunque di non favorirli in alcun modo, di accorrere con ogni mezzo in aiuto della parte attaccata (Dion. Hal., v, 96, 2, sull’argomento cfr. P. Catalano, op. cit. (nota 20), p. 253, il quale evidenzia come il trattato contenesse precise disposizioni anche sul comando dell’esercito, vedi del resto Cinc., apud Fest., verb. sign., 241 L., s.v. praetor). Le città latine e le colonie latine e romane che hanno compiuto la defectio e si sono schierate contro Roma, hanno dunque violato apertamente le disposizioni contenute nel trattato; l’intervento romano finalizzato a ristabilire l’ordine è dunque del tutto legittimo. Il fatto, poi, che ad esercitare la repressione sia un magistrato romano deve in parte ascriversi alla posizione egemone che Roma ha assunto all’interno della Lega già dalla fine dell’età monarchica e per altra parte, alla circostanza che le defezioni non minacciano direttamente il territorio della Lega, ma solo quello romano, donde il mancato interesse delle altre città latine ad un intervento diretto nella guerra (cfr. A. Bernardi, op. cit. [nota 34], p. 32, e L. Capogrossi Colognesi, op. cit. [nota 34], pp. 36-37). Nel caso di Sora, non disponiamo di informazioni specifiche sul contenuto del trattato, ma può presumersi che i rapporti tra i due contraenti – per quanto attiene almeno agli aspetti di ordine strettamente politico-militare – non fossero regolati in modo tanto diverso. Non sembra quindi potersi escludere che in caso di violazione degli obblighi derivanti dal trattato fosse riconosciuto a Roma un potere di intervento, tanto più se si tiene presente che ci troviamo di fronte a due soggetti solo formalmente su di un piano di parità. 47 Dalla testimonianza delle fonti apprendiamo, però, che in circostanze particolari e su esplicita autorizzazione del comandante l’uscita dalla fila fosse possibile. Tale previsione è strettamente correlata al presentarsi di esigenze contingenti e riferite all’andamento della battaglia. Penso, ad esempio, al caso in cui l’esercito abbia subito delle perdite molto gravi; in tale circostanza, l’uscita dall’ordo, per occupare quelle posizioni ‘strategiche’ nelle file che si trovano a più diretto contatto con il nemico, si rivela fondamentale per ricompattare lo schieramento. Di qui il riconoscimento di una competenza esclusiva in tal senso al comandante, al quale è affidata la responsabilità dell’esercito e del buon esito dello scontro, di qui, ancora, la natura assolutamente discrezionale della valutazione nell’esercizio dell’azione di comando come poi consolidatosi nell’evoluzione della dottrina militare sino ai giorni nostri. 48 Sul punto, per tutti G. Valditara, op. cit. (nota 16), p. 262 sgg., il quale afferma: «questa severità che risultava incomprensibile agli storici romani, richiama invece disposizioni vigenti a Sparta, in base alle quali era addirittura fatto divieto di inseguire in profondità il nemico, al fine di non rompere la formazione falangitica». Per le fonti, cfr. G. Valditara, ivi, p. 262, note 52-53.

49 Il mancato riconoscimento di causa esimente all’esito vittorioso o comunque positivo di un comportamento che violi le disposizioni del comandante, ovvero non ne osservi gli ordini è presente anche nella normativa de re militari di età successiva. Cfr. Modest., 4, de poenis D. xlix, 16, 3, 15: in bello qui rem a duce prohibitam fecit aut mandata non servavit, capite punitur, etiamsi res bene gesserit. 50 Come noto, con il termine defectio i Romani indicano il tradimento di un rapporto di alleanza, realizzato attraverso l’adesione ad uno nuovo ovviamente in contrasto con quello stretto in precedenza. Sull’argomento, Ch. H. Brecht, ‘Perduellio’. Eine Studie zu ihrer begrifflichen Abgrenzung im römischen Strafrecht bis zum Ausgang der Republik, München, 1938, p. 27 sgg. e p. 54 sgg.; M. Kaser, Das altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen, 1949, p. 42; B. Santalucia, op. cit. (nota 3), p. 19 e nota 41; Id., in «Enciclopedia del Diritto», xxxii, Milano, 1982, p. 736 e nota 18, s.v. poena. Nei casi qui presi in esame la defectio si considera definitivamente compiuta con l’entrata all’interno della città di una parte dell’esercito nemico; il praesidium ha infatti lo scopo di controllare e garantire, se necessario con la forza, il rispetto del nuovo vincolo, atteso che all’origine della decisione di deficere Romanos, non c’è di norma una delibera della civitas nel suo complesso, ma l’iniziativa di singoli cives che possono essere direttamente i principes civitatis (è il caso di Pomezia, cfr. Liv., ii, 17, 47) ovvero altri soggetti, che per vario motivo vi abbiano interesse (sembra essere questo il caso della defectio della città romana di Satricum, e quello di Sora). Coerentemente con questo principio, in sede di repressione criminale non viene, di norma, punita l’intera comunità, ma sono perseguiti solo i soggetti riconosciuti colpevoli. L’unico caso, in cui vengono adottati provvedimenti particolarmente severi, quantunque non comportanti la pena di morte, è relativo alla defectio compiuta dalla colonia Latina di Pomezia. Mentre i principes civitatis responsabili della defectio sono condannati a morte dal console, gli altri cittadini sono ridotti in schiavitù. Livio non manca però di rilevare la particolare severità usata dal console, circostanza questa che parrebbe mettere in risalto il carattere eccezionale dell’episodio. Nel caso specifico l’atteggiamento del console sembra essere dettato dal particolare comportamento tenuto dai Pometini che non hanno collaborato in alcun modo con l’esercito romano venuto a liberarli e si arrendono solo quando la città è ormai presa. 51 Questa infatti è l’accusa mossa dai Romani nei confronti dei Nepesini, responsabili di aver consegnato la loro città agli Etruschi. Gli auctores deditionis sono condannati alla decapitazione con la scure, mentre nessun provvedimento è preso contro i Nepesini non direttamente coinvolti nel tradimento. Più in generale sull’istituto della deditio in fidem, F. De Martino, op. cit. (nota 1), ii, p. 55 e nota 115. 52 G. Valditara, op. cit. (nota 16), p. 251, il quale afferma come «la tattica pre-oplitica dei combattimenti eroici ben tollerava una maggiore frammentarietà di azione di corpi che si separavano frequentemente dal nucleo per impegnarsi in scontri isolati». 53 Vedi supra, nota 15. 54 Cfr. G. Valditara, op. cit. (nota 16), p. 261: «gli opliti, schierati su più file, usavano lo scudo per proteggere la parte sinistra del proprio corpo e

6. Imperium , esercito oplitico e sicurezza militare di Roma. Un ’ ipotesi di lettura

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elena tassi scandone

Essenziale per il buon funzionamento di tale tattica è una coordinazione esemplare che si può raggiungere solo mediante una disciplina ferrea; tutti gli opliti devono muoversi e combattere come fossero un sol uomo. La previsione di un potere personale forte risponde dunque all’esigenza di assicurare un’azione di comando unitaria, rapida ed efficace. In questa prospettiva diviene di conseguenza agevole comprendere come la sfera di competenza repressiva riconosciuta all’imperator, al comandante dell’esercito, sia strettamente correlata all’esercizio delle sue funzioni.55 Ben si comprende, quindi, come rientrino in questa specifica sfera di competenza del comandante militare tutte quelle condotte suscettibili di mettere in pericolo la sicurezza del populus in armi. Tra queste quella sicuramente più pericolosa appare l’abbandono del posto nella fila, poichè, scompaginando la schiera di opliti, espone a rischio di disfatta l’intero esercito. I centurioni che hanno lasciato il proprio posto per darsi alla fuga, e Postumio figlio, che ha anch’egli lasciato il suo posto nella fila per ingaggiare un duello con un hostis, sono condannati a morte, in quanto il loro comportamento è ritenuto direttamente pregiudizievole della salvaguardia dell’esercito, che, come si è detto, affida alla saldezza della schiera la salvezza dei singoli armati. Diversamente, il comportamento dei signiferi che hanno perso o abbandonato le insegne,56 e quello di chi, come il figlio di Manlio, lascia il presidio incaricato di sorvegliare a distanza il nemico,57 non rientrano nella sfera di competenza del comandante militare, se non indirettamente, in quanto ufficiale più alto in grado. Tali condotte sono infatti suscettibili di mettere in pericolo la salvezza di singoli armati, ma non espongono a rischio la saldezza della schiera.

Il miles che perde le armi reca pregiudizio essenzialmente a se stesso, poiché è incapace di difendersi in modo adeguato, e solo indirettamente può esporre a rischio i soldati vicini in quanto non offre una resistenza efficace; chi perde le insegne, invece, mette in pericolo non solo se stesso ma anche i compagni più vicini, poiché rende meno agevole l’individuazione delle singole posizioni all’interno dello schieramento. Nessuna delle violazioni si rivela comunque tale da mettere a repentaglio la saldezza della schiera degli armati. I milites nell’uno e nell’altro caso, rimangono infatti al proprio posto e dunque il rischio di uno scompaginamento degli ordines non si profila. Analoghe considerazioni valgono anche nel caso dell’abbandono del praesidium, comportamento che si rivela potenzialmente fatale solo per i soldati che ne fanno parte, i quali vengono a perdere numericamente un elemento che può invece rivelarsi fondamentale nell’eventualità di un attacco.58 Sembra essere dunque questa la ragione per la quale tali condotte non sono punite con la securis percussio ma con la pena del fustuarium, un tipo di supplizio che vede come parte attiva i commilitoni, ovvero proprio quei soggetti la cui incolumità fisica è stata minacciata dai comportamenti in esame.59 Insieme agli insignia imperii Tarquinio Prisco sembra dunque aver mutuato dall’Etruria anche il concetto di imperium, quale potere di comando legato alla diffusione delle nuove tattiche militari, delle quali egli era insigne esperto e abile protagonista. A Roma l’imperium conoscerà una storia autonoma: plasmato e adattato, innanzitutto attraverso la congiunzione con l’auspicium,60 alle esigenze politiche e giuridico-religiose del populus Romanus, l’istituto costituirà uno dei pilastri della nuova costituzione repubblicana.

contemporaneamente la destra del compagno che avevano al fianco. Si spiega così la stretta solidarietà che legava i combattenti l’uno all’altro. Tutti i guerrieri marciavano a ranghi serrati tenendo lo stesso passo. Proprio allo scopo di fare osservare il medesimo ritmo di marcia seguivano appresso i suonatori. L’esercito disposto a falange veniva così a costituire una schiera compatta e numerosa di armati, stretti gomito a gomito, che formava un muro metallico dal quale sporgevano solo le punte delle aste, e che obbediva ai principi dell’azione di massa in ordine chiuso. Era decisiva la coesione del gruppo piuttosto che l’abilità dei singoli individui».

dell’esercito, perché quest’ultimo non è ancora schierato ed anzi è lontano materialmente dal luogo dello scontro, ma solo l’incolumità dei suoi compagni, che, non a caso, sono proprio coloro che lo sottopongono al fustuarium. Cfr. E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 108 sgg.; Ead., op. cit. (nota 32), p. 2637 sgg. 58 Nel caso di Manlio, poi, vi è l’ulteriore aggravante che ad abbandonare la guarnigione è il suo comandante con il correlato rischio concreto che i soldati, rimasti privi dell’ufficiale superiore, non sappiano coordinarsi adeguatamente. 59 Apprendiamo da Polibio (vi, 37, 1-3) che gli individui condannati alla pena del fustuarium erano dapprima toccati dal tribuno con un bastone e poi con lo stesso bastone venivano battuti dai commilitoni, ai quali era permesso di colpire il reo anche mediante il lancio di pietre. Lo storico greco afferma che tale supplizio si concludeva di norma, almeno ai suoi tempi, con la morte del reo. Qualora, però, quest’ultimo fosse sopravvissuto alle bastonate, magari perché creduto morto, non aveva comunque il diritto di far rientro in patria. Polibio (vi, 37, 4-5) riferisce inoltre come tale pena trovi applicazione nei confronti di coloro che abbandonano il posto di guardia o si addormentano durante la vigilia; non passano alle sentinelle l’ordine di guardia; si prostituiscono; commettono furto all’interno dell’accampamento; rendono falsa testimonianza; sono puniti per tre volte per la medesima infrazione. Sull’argomento vedi E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano, 1991, p. 220 e nota 53; B. Santalucia, op. cit. (nota 3), p. 74; E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), p. 108 sgg. 60 Il concetto di imperium e quello di auspicium esprimono realtà giuridiche diverse. Sull’argomento resta fondamentale P. Catalano, op. cit. (nota 1), p. 532 sgg. Recentemente vedi anche E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 19), p. 158 sgg. con indicazione della letteratura e Ead., op. cit. (nota 11), in corso di stampa.

55 Su tale aspetto, vedi quanto già detto in E. Tassi Scandone, op. cit. (nota 27), pp. 167-168. Si veda anche C. Venturini, op. cit. (nota 41), p. 103. 56 Si è già avuto modo di rilevare come Appio condanni alla pena del fustuarium i soldati che hanno abbandonato le insegne e quelli che hanno perduto le armi. Cfr. Liv., v, 16, 4 e Dion. Hal., ix, 50, 6: ηd ÌÂÙa ÙÔÜÙÔ Ôî ÏÔ¯·ÁÔ› Ù zÓ Ôî Ïfi¯ÔÈ öÊ˘ÁÔÓ, ηd Ôî ÚfiÌ·¯ÔÈ ÙáÓ ÛËÌ›ˆÓ ¬ÛÔÈ Ùa ÛËÌÂÖ· àÔψϤÎÂÛ·Ó, Ôî ÌbÓ ÂϤÎÂÈ ÙÔf˜ ·é¯¤Ó·˜ àÂÎfiËÛ·Ó, Ôî ‰b ͇ÏÔȘ ·ÈfiÌÂÓÔÈ ‰ÈÂÊı¿ÚËÛ·Ó. 57 Manlio, al pari di Postumio, disobbedisce anch’egli agli ordini del padre. A capo di un presidio di armati, con compiti di sorveglianza, Manlio abbandona il praesidium, perché provocato a duello dal nemico. Pur ritornando vincitore egli viene giudicato colpevole di non aver ottemperato ai doveri della disciplina militare e condannato a morte dal padre. Sulla pena vi sono nelle fonti indicazioni discordanti: secondo alcuni autori il figlio del console sarebbe stato decapitato, secondo altri, invece, egli sarebbe invece stato bastonato a morte. Come si è avuto modo di esporre in altra sede, la versione più attendibile sembra essere la seconda. Per concorde testimonianza di Livio e di Dionigi la pena per chi abbandoni le insegne o lasci il praesidium non è infatti la securi percussio ma il fustuarium (cfr. Serv., In Verg. Aen., vi, 824). Con la sua condotta Manlio non mette in pericolo la salvezza

R ELI GI O N E

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FU NZIONE DEI G RANDI DO NARI AT T I CI DI VEI O - P O RTO NACCI O Maria Paola Baglione

I

rinvenimenti effettuati a Veio-Portonaccio, fin dalle campagne di scavo condotte da Gàbrici, Giglioli e Stefani, hanno definito alcune linee di tendenza del regime votivo adottato nel santuario che riflettono in modo attendibile le manifestazioni della realtà culturale locale mediata attraverso le testimonianze tangibili delle offerte, le sole che, unite ai dati ricavabili dalla lettura critica della documentazione di scavo, possono offrire una ampia base di dati analizzabili con relativa sistematicità1 (Fig. 1). La dislocazione dei punti di raccolta delle offerte, le diverse modalità di trattamento da queste subìte nel corso della vita del luogo di culto e, soprattutto, il notevole divario nella loro natura e nella loro associazione costituiscono un indizio dei ripetuti e spesso profondi mutamenti culturali che investono la vita del santuario, come riflesso di autonomi mutamenti della compagine sociale e dei definitivi rivolgimenti della situazione storico-politica. Il variegato scenario restituito dalle offerte consacrate in un santuario, che per oltre tre secoli almeno rappresentò un potente polo di aggregazione nel comparto dell’Etruria tiberina meridionale, è stato indagato nei suoi diversi aspetti, dall’età tardo orientalizzante e arcaica fino alla fase successiva alla romanizzazione.2 Riprendendo alcune riflessioni formulate in un passato non troppo recente,3 si propongono alcune considerazioni ulteriori sui più imponenti anathemata attici rinvenuti a Portonaccio, la coppia di dinoi, comprendente quello ben noto attribuito alla cerchia di Antimenes ed il secondo attribuito alla cerchia del Pittore di Pan, ed il cratere a volute dell’offi-

Fig. 1. Il santuario di Portonaccio (pianta di E. Stefani, bav, Carte Stefani, 47).

cina del Pittore di Nikoxenos, cercando di chiarire quale ruolo fosse stato assegnato a questo ristretto gruppo di offerte vascolari che si distaccano nettamente non solo dai consueti esemplari di ceramica attica rintracciati a Portonaccio ma anche dal ricorrente profilo definibile per i rinvenimenti di ceramiche attiche all’interno dei comprensori santuariali d’Etruria. Pur restando valide le osservazioni che evidenziavano la particolare ricchezza e varietà di forme rinvenute nel santuario meridionale di Pyrgi rispetto a quanto riscontrato a Portonaccio, rimane il fatto che, nel santuario pyrgense, l’unico esemplare attico di dimensioni imponenti sia rappresentato dalla grande phiale con il massacro dei Proci.4

Fig. 2, a-b. Cratere a volute. a. il primo frammento rinvenuto del fregio sul collo (Carte Stefani, 15, f. 80, 27 marzo 1918); b. particolare del frammento riposizionato. * Queste brevi osservazioni sono dedicate, con gratitudine, a Giovanni Colonna a cui devo il mio primo approccio allo studio del complesso e affascinante universo dei santuari dell’Italia antica. 1 Le vicende degli scavi «al Portonaccio» sono state analizzate a più riprese, seguendo le fasi alterne del complesso procedere di un’impresa che fu guidata da responsabili diversi, ciascuno orientato, nella conduzione dei lavori, da ottiche di intervento che, partendo dallo scavo esteso delle fasi iniziali e centrali (Gàbrici, Giglioli, Stefani in particolare), si modificano in indagini finalizzate all’investigazione di settori cruciali (Pallottino, Santangelo e Colonna 1997). Schematicamente, si possono ricordare fra gli studi più recenti incentrati sulle vicende degli scavi a Portonaccio Baglione 1987, pp. 381-418, Colonna 2002; le ultime ricerche vertono sugli scavi di M. Santangelo, condotti dal 1944 a Portonaccio: Ambrosini 2010.

2 Sintesi recenti dello sviluppo dell’area sacra e delle relative problematiche in Colonna 2001, pp. 37-44, e in Colonna 2002; le fasi di frequentazione successive alla romanizzazione, oggetto primario degli scavi Santangelo del 1944, costituiscono parte importante delle ricerche affrontate da G. Colonna e edita, relativamente alla cisterna, in Ambrosini 2010. 3 Baglione 1989-1990, pp. 651-667. I due dinoi sono ricordati in Santangelo 1952, p. 155, fra diversi altri materiali provenienti dallo scavo Stefani del cui restauro l’archeologa volle occuparsi. Interessante l’annotazione: «(il dinos) … a figure rosse ed ancora lacunoso, in base ad un frammento già esposto, è stato dal Beazley annoverato fra i vasi in cui si riflette la maniera del “pittore di Pan”». Beazley vide personalmente il frammento – non sappiamo quale raffigurazione recasse – che, per la sua eccezionalità, doveva essere esposto con altri materiali dal santuario. 4 Caere e il suo porto riuniscono tre pezzi ‘da parata’, tre forme aperte

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Fig. 3, a-b. Cratere a volute. a. il secondo frammento del fregio sul collo (Carte Stefani, 16, f. 25 aprile 1918); b. particolare del frammento riposizionato.

A Portonaccio, la zona cruciale dove si concentrano, iterandosi e stratificandosi, le offerte votive è localizzata nel settore orientale.5 Furono proprio i rinvenimenti di materiale votivo a stampo e di ceramiche sul fondo del Cannetaccio a promuovere lo scavo Gàbrici; dai giornali di scavo è possibile intuire come i materiali, franati a valle dal costone tufaceo, presentassero una stratigrafia inversa, con la grande messe di materiali assegnabili a una fase arcaica e tardoarcaica rinvenuti prevalentemente a quote superiori rispetto a materiali, come le ceramiche a vernice nera definite «etrusco-campane», riferibili a orizzonti decisamente più tardi, forse anche successivi alla conquista romana, presenti in prossimità del fondo delle trincee.6 Le notizie conservate nel giornale di scavo di quel periodo ricordano a più riprese, dalle quote più alte, «centinaia di frammenti di bucchero» e gruppi di frammenti di figurine votive a stampo, dando l’impressione che i più che consistenti ritrovamenti effettuati abbiano subìto drastiche selezioni al momento dell’immagazzinamento, poiché nei depositi non sono stati rintracciati gruppi di materiali che, per quantità, possano corrispondere a quanto rilevato a conclusione delle diverse giornate di scavo.7 La «zona dell’altare», con il contiguo sacello a oikos per il quale è stata ipotizzata la funzione di thesauros, costituisce l’oggetto di continue attenzioni e rifacimenti e l’accumulo delle offerte votive ne attesta la vitalità sotto il profilo cultuale; i materiali e le strutture conservati sul ripiano del santuario costituiscono un continuum di offerte e di interventi strutturali finalizzati alla formalizzazione di un punto focale del culto definito nelle sue diverse fasi da G. Colonna.8 Il considerevole accumulo di offerte legate alla sfera dell’orlegate alla sfera della azioni rituali, eseguite tutte nella ristretta fascia di un ventennio, in una fase di grande creatività sperimentale degli ateliers del Ceramico; per la kylix di Onesimos, dal santuario cerite di Hercle, e la phiale di Douris, per quale è stata ipotizzata la medesima provenienza, cfr. Cerchiai 2007, pp. 20-25, e Rizzo 2007, pp. 369-375 (che accettano l’ipotesi espressa in Colonna 2001, p. 162, nota 35). 5 In Colonna 2002, p. 152, si ipotizza che il sacello nel settore orientale avesse la funzione di thesauros; due gruppi con Eracle e Minerva, iterati a distanza di meno di una generazione l’uno dall’altro, connessi con il sacello, sottolineano una precisa strutturazione del culto gravitante intorno a una ideologia fondamentale e attiva contemporaneamente a Veio e a Roma. Per il gruppo minore, a metà del vero, datato al 530, cfr. Colonna 1987b, pp. 423 e 436, e Colonna 2008, pp. 58-59, dove è proposta l’ipotesi suggestiva che la coppia, analogamente a S. Omobono, avrebbe potuto avere funzione acroteriale. Per il gruppo maggiore, assegnato al 500 a.C., cfr. Colonna 1987a e Colonna 2008, p. 62. 6 L’inizio degli interventi ad opera di Ettore Gàbrici è da porre intorno a metà maggio del 1914, nella zona a valle (Cannetaccio), in seguito a rinvenimenti di materiale votivo sull’area di fondovalle; questi primi interventi sono ricordati nella relazione di G.A. Colini, «NSc», 1919, pp. 10-11, e criticamente ricostruiti, per la parte relativa ai donari fittili di Eracle e Minerva, da Colonna 1987a, pp. 38-41. Gli ulteriori dati sulle attività riferibili alla direzione Gàbrici sono stati ricavati dal Giornale di Scavo, attualmente conservato presso la Soprintendenza ai BB. Archeologici per l’Etruria

namento femminile – che comprendeva non soltanto ornamenti veri e propri ma anche una serie di vasi porta profumo, altrettanto pregiati – associato a ricercato vasellame in bucchero, prodotto forse da botteghe collegate all’attività del santuario, caratterizzano il deposito veiente come il più antico dell’Etruria meridionale, collegandolo con quanto attestato nei più frequentati santuari laziali. In questo settore, dove sono raccolte le immagini delle divinità e la parte più consistente degli ex-voto a stampo, la presenza di ceramica attica figurata è poco rilevante anche sotto l’aspetto tipologico e funzionale.9 In una tale prospettiva della ‘economia’ votiva del santuario e sotto il profilo ideologico appaiono ancora più eccezionali i grandi vasi in ceramica attica rinvenuti da Stefani non vicino alle zone prima ricordate, ma nettamente al di fuori di esse, in situazioni che sembrano riconducibili alla frequentazione del tempio e dei suoi annessi. I tre pezzi furono subito notati, per la qualità e per le precise funzionalità che li distaccano dal panorama non ricchissimo di ceramiche attiche restituitoci dallo scavo per la fine vi-v secolo, in coincidenza con l’impianto e la prima fase di vita del tempio tardoarcaico. Sono forme estremamente specializzate, portatrici di una ideologia ben precisa, non scindibile dalle cerimonie legate alla consumazione del vino fra pari, così come spetta ai cittadini di pieno diritto. Il ritrovamento di questi pezzi all’interno del riempimento della piscina, dove sono associati in prevalenza con materiale architettonico, sembrerebbe indicare che avessero una funzione cerimoniale legata all’edificio, insieme ai resti del quale furono interrati nel Meridionale (di seguito GdS); nel periodo compreso fra il 14 maggio 1914 ed il 2 giugno il giornale, vistato da Gàbrici, era tenuto dal custode Carlo Mellara; dopo questa data, il giornale venne redatto da Giuseppe Magliulo, fino al 21 giugno. Alla ripresa dello scavo, il 9 novembre dello stesso anno, quando Giglioli subentrò a Gàbrici, la redazione del giornale fu affidata a Natale Malavolta, figura centrale negli scavi veienti della prima metà del ’900 e collaboratore prezioso di E. Stefani. 7 I rinvenimenti di materiale arcaico (innanzitutto buccheri), particolarmente addensati nella trincea E-O, compaiono fin dai livelli relativamente superficiali, a cm 20 dal piano di campagna e tendono a diradarsi considerevolmente ad una quota inferiore a m 1,30-1,50, sostituiti da meno consistenti «avanzi di vasi di creta ordinaria e di ceramica a vernice nera etruscocampana» (GdS, Gàbrici, 25 maggio 1914). Appare sorprendente osservare come, a conclusione delle giornate dal 17 al 23 maggio, siano sempre ricordate consistenti quantità di frammenti ceramici, bucchero e argilla figulina, inventariati con un unico numero (si parla sempre di «centinaia di frammenti»; in un caso – 22 maggio 1914, n. 107 – sono ricordate «varie migliaia di frammenti di vasi di bucchero, di argilla figulina, di terracotta ordinaria di epoca arcaica»). 8 In particolare, Colonna 2002, pp. 151-159. 9 Cfr. in Colonna 2002, pp. 163-164, nn. 9-22. Colonna segnala, inoltre (Colonna 2002, p. 152) il ritrovamento di due frammenti pertinenti forse a un cratere a figure rosse, «al di sopra» del residuo di un battuto pavimentale riferibile a un intervento di asportazione del sacello effettuato non anteriormente alla fine del iv sec. a.C. (cfr. Carte Stefani, 20, f. 143)

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Fig. 4. Il punto di rinvenimento probabile del secondo frammento, all’inizio dello scavo, all’esterno del riempimento della piscina (Carte Stefani, 16, f. 7, 24 aprile 1918).

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Fig. 5. La fascia dove furono rinvenuti i frammenti delle anse e delle volute, nella seconda fase di svuotamento della piscina (rielaborazione da Carte Stefani, 16, f. 59, 8 giugno 1918).

corso delle poderose operazioni di interro e livellamento che portarono all’obliterazione dell’intero complesso. Lo scavo della piscina occupò un periodo di poco più di quattro mesi, dal 9 di marzo ai primi di luglio del 1918, durante i quali Stefani operò tre distinte fasi di approfondimento, secondo una maglia di trincee di cui riporta accuratamente l’andamento per ogni fase di scavo.10 Nel procedere, egli cercò di evidenziare le diverse situazioni del terreno, facendo coincidere, per quanto possibile, il primo intervento con l’asportazione del «battuto durissimo» che ricopriva l’intero vano di quella che, con il procedere dello scavo, Stefani definì «piscina» a causa della fodera argillosa che ne fasciava esternamente le strutture perimetrali e su cui insisteva il piccolo vano addossato al lato orientale della piscina stessa (Fig. 1). Il battuto, inclinato verso nord, sigillava una imponente opera di demolizione, che investì un edificio danneggiato dal fuoco, le cui tracce sono ripetutamente rilevate sia da Stefani che da Malavolta sui blocchi di tufo, sulle terrecotte architettoniche e anche sulle lastre dipinte rinvenuti nel riempimento. Il ritrovamento di una coppetta aretina con bollo in planta pedis incluso nel «battuto durissimo» induce a datare questa radicale trasformazione dell’area in una fase avanzata, seguita dall’impianto delle tombe a fossa.11 Già nello strato compatto di livellamento della piscina, e

dal piano del battuto riferibile al piccolo vano ricordato in precedenza sul lato est, frammenti di ceramiche attiche appaiono associati a cospicui rinvenimenti di terrecotte architettoniche. I frammenti del fregio figurato corrente sul collo del cratere a volute della cerchia del Pittore di Nikoxenos sono riconoscibili dai disegni di Stefani e dalle descrizioni puntuali di Malavolta12 (Figg. 2, a-b e 3, a-b). Altre parti chiaramente identificabili come il piede e le anse a volute sono descritte da quest’ultimo fra i rinvenimenti effettuati in seguito, nell’approfondimento dello scavo, nello strato, secondo Stefani meno compatto del precedente, ricco di spezzoni di blocchi e terrecotte architettoniche con tracce di fuoco.13 La dislocazione dei frammenti del cratere conferma l’unicità dell’intervento di smantellamento e livellamento (Figg. 4-5) . Il dinos a figure nere subì meno manipolazioni, perché i diversi gruppi di frammenti furono rinvenuti all’incirca alla stessa profondità e contigui, al centro della piscina (Fig. 6).14 Rientra, come noto, in un gruppo di oltre una dozzina di pezzi non di particolare impegno, attribuiti al Pittore di Antimenes e alla sua cerchia (Fig. 7), unificati tutti dalla rappresentazione dei vascelli sulle onde del mare – assimilabili al vino – nella faccia interna del labbro, attestati in un circuito che ha toccato la Sicilia, le Eolie e la Campania (Heraion del Sele e Capua).15 Esaminando i dati di provenienza, la valle ti-

10 Baglione 1987, pp. 398-408. 11 Carte Stefani, 16, f. 17, 1 maggio 1918; Baglione 1987, p. 405. 12 Frammento a: n. rinv. 2225, Carte Stefani, 15, mercoledì 27 marzo 1918: frammento di collo rinvenuto nella trincea aperta all’estremità occidentale del muro a, all’interno di uno strato probabilmente disturbato, con lacerti della formazione compatta di livellamento (cfr. GdS, Malavolta, 27 marzo 1918); frammento b: n. rinv. 2258; Carte Stefani, 16, giovedì 25 aprile 1918, f. 12: «alcuni frammenti di vasi greci due dei quali che si ricongiungono spettano ad un grande cratere. Vi resta parte di una figura panneggiata seduta in terra ed appoggiata sul gomito sin. dinanzi alla quale resta parte di un giovane nudo colla gamba sin. alzata e l’altra piegata dietro al quale è dipinto un cratere». Malavolta, (GdS, Malavolta, stessa data) oltre al frammento disegnato da Stefani, ricorda il contemporaneo rinvenimento di «pochi frammenti di ceramica greca». Cfr. arv 2, p. 223, 2. 13 GdS, Malavolta, 24 giugno 1918, s.n. «Un gruppetto di frammenti di vasi greci fra cui un’alta e larga ansa terminante superiormente a volute»; 27 giugno 1918, n. rinv. 2418 «Un gruppetto di frammenti di vasi greci fra cui un piede di crater un’alta ansa terminante superiormente a voluta e una tazzina su piede e larga bocca». Queste parti del cratere provengono dal «settore g», corrispondente a una delle trincee della larghezza di m 2 secondo le quali Stefani aveva proceduto nell’ultima fase dello scavo della piscina, fino a una profondità di m 1,58 dal ciglio del «muro a» (la parte di struttura comune fra tempio e piscina). Il settore era situato nella metà occidentale

della piscina; i frammenti del cratere appaiono fortemente dislocati sia stratigraficamente che topogaficamente. 14 Carte Stefani, 16, 21-22 giugno 1918, ff. 74-77, dal settore e (seconda fase dello scavo della piscina), a una profondità di m 1,10 dal ciglio del muro a, n. rinv. 2372: «alcuni frammenti di una kelebe sul cui orlo piano è dipinta una scena di combattimento molto movimentata (a fig. nere). L’orlo internamente è decorato con barche a vela naviganti sul mare di cui è indicata la superficie agitata» (21 giugno); «si rinvengono inoltre altri pezzi del corpo e dell’orlo della kelebe. Il corpo, tranne l’ornamentazione della spalla, a foglioline oblunghe, pare dover essere monocromo (plumbeo)» (22 giugno). 26 giugno, ff. 77-78: dai settori e ed f; «Furono altresì rinvenuti altri frammenti della kelebe; parecchi altri pezzi di vasi greci». Sembra che i frammenti del dinos si trovassero tutti all’incirca allo stesso livello, all’interno dello strato che Stefani individuò nel terzo intervento di svuotamento, in un settore circoscrivibile al centro della piscina. 15 Baglione 2001, pp. 77-78, tav. iv; il dinos di Veio appare meno accurato rispetto agli esemplari attribuiti ad Antimenes e ai suoi seguaci esaminati in Brownlee 1997, sia per l’organizzazione della decorazione figurata sull’orlo che per la forma e le dimensioni dei vascelli. La composizione sull’orlo del pezzo di Veio è articolata in tre settori mediante l’iterazione delle quadrighe in corsa e appare molto più serrata rispetto agli esemplari direttamente attribuiti ad Antimenes ed ai suoi seguaci, pur riprendendo schemi iconografici consueti di combattimento (cfr. le osservazioni in

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Fig. 6. Il settore da cui è segnalato il rinvenimento di diversi frammenti del dinos della cerchia del Pittore di Antimenes (rielaborazione da Carte Stefani, 16, f. 59, 8 giugno 1918).

berina diventa l’ultima propaggine di questa rete di percorsi, nella quale Veio -Portonaccio è il punto di partenza nella distribuzione che risale il corso del fiume.16 I contesti di rinvenimento noti comprendono altri due santuari, legati alle rot-

te marittime ed agli scali, il bothros di Eolo alle Eolie e l’Heraion del Sele, santuario di confine, dove il dinos di Antimenes è associato a un secondo dinos del gruppo di Leagros.17 È suggestivo collegare l’iconografia che richiama i viaggi marittimi, mediante una simbologia semplice e un artificio quasi ‘scenografico’, ai rinvenimenti registrati presso scali lungo rotte battute. In questo circuito si innesta Veio, santuario extramurano aperto alle frequentazioni esterne e espressione di un potere urbano a cui deve far capo il percorso tiberino. Il santuario di Gravisca, forse anche a causa del suo particolare status, è l’unico nell’Etruria meridionale dove si sia registrata la presenza iterata sia di crateri a volute a figure nere che di dinoi, all’incirca coevi a quelli di Veio.18 L’innalzamento del tempio segue di poco la cronologia (520 circa) proposta per questa serie della tarda produzione a figure nere; a questa stessa fase, o poco più tardi, risale anche il frammento di labbro con decorazione a scacchiera di un piatto attribuibile a Euthymides, sempre dal riempimento della piscina (Fig. 8).19 Pur trattandosi di unico frammento, è significativa l’attestazione di una forma usuale nei contesti santuariali in Grecia e presente in Etruria nei santuari costieri di Gravisca e Pyrgi.20 Il cratere a volute a figure rosse assegnato alla cerchia di

Fig. 7. Il dinos della cerchia del Pittore di Antimenes.

Brownlee 1997, pp. 513-514, figg. 4-5: in particolare, il dinos da Capua, a Malibu, P. Getty Museum, 92.ae.88). 16 I rinvenimenti a nord di Veio annoverano due dinoi tipologicamente affini: il primo, dal profilo peculiare, con ampio labbro ripiegato esternamente e vasca poco profonda, che fa parte di un gruppo di tre (cfr. per la forma e il gruppo, Brownlee 1997, p. 516) è stato rinvenuto a Civita Castellana, nella tomba a camera 15 (lxxvii) della necropoli della Penna, con tre loculi parietali e letto scolpito lungo la parete di fondo, e rappresenta forse l’unico residuo di un corredo risalente al primo impianto della tomba stessa (cfr. Agro falisco 1981, pp. 156-157; per il dinos, CVA, Museo Naz. di Villa Giulia, iii h e, tavv. 55-56). Il secondo, proveniente da Orvieto, è a Boston, Museum of Fine Arts, inv. 90.154 (cfr. CVA Boston, 2, tavv. 65, 2, 4; 66, 1-2; Brownlee 1997, p. 515). 17 La particolarità nella distribuzione dei dinoi è stata rilevata in Baglione 2001, p. 78; nel quadro della problematica generale della diffusione delle ceramiche attiche all’interno di contesti non funerari in Sicilia, Magna Grecia e Campania, in Greco et al. 2004, cfr. le osservazioni sui contesti di rinvenimento rispettivamente di Lipari e dell’Heraion del Sele (F. Castaldo, in Greco et al. 2004, p. 175; S. Visco, ibid., pp. 176-177). I rimanenti luoghi di rinvenimento noti sono: Agrigento (Madrid, Museo Ar-

queológico, inv.10902, cfr. Brownlee 1997, pp. 510-512, figg. 1-3); Capua (Malibu, J. Paul Getty Museum, inv. 92.ae.88, cfr. Brownlee 1997, pp. 513514, figg. 4-5). Il monumentale dinos con sostegno attribuito al Pittore di Antimenes, molto più elaborato di quelli in esame, proveniente dal contesto della tomba vi-xv di Fratte, ritenuto parzialmente affidabile, (Tomay 1990, pp. 231233, n. 1, figg. 387-394) conserva il tema dei vascelli sulla parte interna dell’orlo e può essere considerato una ‘tappa intermedia’ nel percorso dal Sele a Capua. 18 Iacobazzi 2004, pp. 401-402, n. 1153, tav. xxxii; nn. 1154-1155, tav. xxvi, datati al 520-500. Presenti anche i crateri a volute: una porzione considerevole di collo e spalla, assegnato al «Golvol Group», p. 392, n. 1114, tav. xxv, e altri due frammenti (p. 393, nn. 1115-1116). 19 Carte Stefani, 16, ff. 32 sgg., 11 maggio 1918: «un framm.to decorato a piccolissimi scacchi n. e r.». Mi è stato possibile rintracciare il frammento nei magazzini di Villa Giulia; nel GdS redatto da Malavolta, alla data corrispondente sono ricordati «pochi frammenti di vasi greci», senza numero di rinvenimento. Per l’attribuzione, cfr. arv 2, p. 30, 2. 20 Per Pyrgi e i confronti con Gravisca, cfr. da ultimo Baglione in Perugia 2007, pp. 221-222.

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Fig. 8. Frammento di orlo a scacchiera del piatto attribuito a Euthymides.

Nikoxenos fa parte a sua volta di un gruppo di opere omogenee, concepite, anche in questo caso, in modo da concentrare la decorazione nella zona del collo, lasciando il corpo interamente in nero. È probabile che il fregio con i simposiasti, con non risolte prospettive frontali dei volti, sia da ricondurre a una fase della produzione del ceramografo non anteriore agli inizi del v secolo. L’ultimo fra i rinvenimenti dalla piscina, il grande dinos a figure rosse già attribuito alla maniera del Pittore di Pan, è il pezzo più recente e, al tempo stesso, il più problematico. Attribuito alla maniera del Pittore di Pan da Beazley, nella prima edizione di arv , appare in seguito espunto e non più considerato nelle successive edizioni.21 Dai disegni di Stefani (Fig. 9, a-b) si può stabilire che un minuto frammento appartenente al dinos – con i piedi incrociati di due combattenti, quello di destra armato di schinieri22 – fu rinvenuto nella prima fase di scavo della piscina, nella metà occidentale, insieme con il già ricordato frammento del piatto e con frammenti riferibili a glaukes (Fig. 10).23 Coperto dallo strato compatto di livellamento, questo strato, ricco di spezzoni e blocchi, fa registrare in più casi la presenza di «ceramiche etrusco-campane». Sulla base delle descrizioni di Stefani, è probabile che estendendo lo scavo nel settore contiguo, nei giorni immediatamente successivi, siano stati rinvenuti altri frammenti forse pertinenti al dinos.24 21 arv 1942, p. 369,4 «fight (with chariots)»; Reusser 2002, p. 87. 22 Dal disegno di Stefani, sembra che ambedue i contendenti indossino schinieri; dalla vecchia foto, invece, la gamba del contendente sinistra, nudo, è priva di schiniere: cfr. Carte Stefani, 16, 11 maggio 1918, ff. 32 e 33: «Si sono raccolti, inoltre, alcuni fram.ti di vasi greci a figg. rosse su fondo n. tra cui quello disegnato a pag. 32». 23 Carte Stefani, 16, f. 32 sgg., 11 maggio 1918: «alcuni frr di vasi greci a fig rosse su fondo nero tra cui quello disegnato a pag. 32; tre pezzetti di uno skyphos con civetta tra rami di olivo ed un framm.to decorato a piccolissimi scacchi n. e r.» (il già ricordato orlo del piatto di cui a nota 19). 24 Carte Stefani, 16, 15 maggio, f. 34, prosegue lo scavo del 3. settore della piscina: «Nella terra di riempimento si sono rinvenuti due frammentini di vasi attici fig. rosse: l’uno di grande spessore su cui rimane l’estremità inf. di una gamba umana nuda protesa in avanti e campata in aria come in atto di danzare; l’altro più sottile con la metà inf. di una gamba virile pure nuda (la dritta) protesa indietro in atto di correre». Carte Stefani, 17, 3 luglio, f. 11 (seconda fase di scavo): dall’approfondimento dei settori h e i vicino al muro, sul fondo, fino al limo: «notevoli alcuni frammentini di vaso greco con ali dipinte, di lavoro assai fine». Le «ali dipinte» potrebbero riferirsi alla raffigurazione del fulmine di Zeus presente sul dinos (cfr. fig. 9, b). A chiusura della rassegna dei materiali rinvenuti nel corso delle giornate di scavo, sono spesso ricordati ‘frammenti’ o ‘gruppi’ di frammenti di ceramiche attiche a figure rosse, senza indicazioni ulteriori.

Fig. 9, a-b. Frammento del dinos attribuito alla cerchia del Pittore di Pan: a. il disegno di Stefani; b. particolare del frammento (da foto precedente il restauro).

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Fig. 10. Il settore di rinvenimento dei frammenti del dinos e del piatto, nella prima fase di scavo della piscina (Carte Stefani, 16, f. 20, 2 maggio 1918).

Poche considerazioni preliminari, limitate alla natura stessa del pezzo, ne evidenziano l’eccezionalità: innanzitutto, l’estrema rarità di dinoi a figure rosse della prima metà del v secolo nell’Etruria propria, ulteriormente rilevabile se si considera che, nel catalogo delle opere del Pittore di Pan, sono annoverati i frammenti riferibili a altri tre dinoi (o lebeti), di cui due ad Atene.25 Questo secondo dinos da Portonaccio si discosta dagli altri due vasi, legati a una più ordinaria attività di bottega, perché sulla sua superficie si dispiega un fregio figurato continuo, che ne fa non solo un pezzo di grande impegno, ma anche il ‘latore’ di un tema, la Gigantomachia, ricco di suggestioni a livello più generalmente etico-politico e di richiami a orizzonti mitistorici che coinvolgono il territorio dell’Italia campana in primo luogo. Una valutazione più puntuale delle implicazioni che sottintendeva la scelta di tale oggetto per il santuario, e quindi del messaggio che, mediante l’articolazione del soggetto prescelto, era trasmesso ai committenti / fruitori veienti, è del tutto subordinata a un’analisi esaustiva della composizione ed a un inquadramento stilistico che ne definisca il momento di realizzazione all’interno della produzione del Pittore di Pan e della sua cerchia, nell’arco di tempo fra il 480 e il 460, che segna la fase più prolifica della produzione del ceramografo e dei suoi diretti seguaci.26 Nessun altro vaso importato da Atene rinvenuto a Portonaccio reca una narrazione altrettanto complessa, che illustra un mito ‘fondante’ per l’immaginario attico, nel quale la collaborazione fra dei ed uomini è la condizione per ottenere la vittoria, da tempo interpretato come immagine dello stabilizzarsi Due frammenti riferibili a un cratere, come ricordato in precedenza, provengono dalla zona dell’altare: Carte Stefani, 20, 15 giugno 1920, f. 143: «due frammenti che si ricongiungono di un grande vaso greco su cui resta una fascia verticale rossa con due serie di foglioline di edera divise da linee su campo nero»; cfr. Colonna 2002, p. 152, nota 95. Dalla descrizione, non sembra trattarsi del «grande cratere a figure rosse», con cui Stefani sembra indicasse il dinos. Probabilmente Giglioli, quando arriva in visita agli scavi il 6 luglio del 1920, provvede a portare a Roma proprio i frammenti del grande dinos: cfr. Carte Stefani, 20, f. 168 «È venuto il Prof. Giglioli che ha portato a Roma i frammenti della grande figura disegnati a pag. 139 (l’Eracle e la clava, n.d.r.) ed un frammentino del grande cratere greco a figure rosse». Beazley, secondo quanto riferito dalla Santangelo (cfr. n. 3), vide personalmente il frammento e, si presume, anche altri pezzi da Portonaccio che inserì nella sua edizione del 1942. 25 Cfr. arv 2, p. 552; Beazley, Addenda 1982, p. 126, e Beazley, Archives, s.v. Pan Painter: Atene, Museo dell’Acropoli, n. 2.675; Atene, Collezione M. Vlasto, n. 6303; Tübingen, Eberhard-Karls-Universität, Arch. Inst., E 103. Nel repertorio dei temi illustrati dal Pittore di Pan, anche la scelta della Gi-

dell’ordine poliadico.27 Certamente, una assimilazione in chiave attica della dea titolare del santuario di Portonaccio alla Atena, divinità poliadica della città in piena fioritura politica e intellettuale, appare proponibile. L’Atena/Menerva del santuario veiente, solennemente celebrata nell’immagine di culto dedicatale in una data di poco anteriore, era preposta ai rituali di passaggio femminili e maschili; ad Atene, le arrefore annualmente confezionavano il peplo per le panatenaiche sul quale era ripetuto come ricamo immutabile la raffigurazione della Gigantomachia, con una connessione costante fra un’attività femminile destinata a fanciulle di alto rango e questo particolare mito. È possibile che il tema che si dispiega sul dinos possa sottendere questa ulteriore valenza e richiamare anche l’apparato ideale connesso alla paideia dei membri liberi della comunità cittadina, il cui esito ulteriore, ‘visibile e tangibile’, sarà costituito, circa mezzo secolo più tardi, dalle figure di giovinetto di tipo policleteo, consacrate in occasione dei riti di passaggio dei giovani appartenenti all’élite cittadina.28 Nello stesso torno di tempo dell’arrivo del dinos, con il suo patrimonio di immagini, nel corso del restauro dell’apparato decorativo del tempio, viene concepita la serie delle lastre dipinte destinate alle pareti del pronao, testimonianza della realizzazione di un ciclo decorativo affidato a artisti locali concepito e realizzato adottando una tecnica inusuale per l’ambito veiente. I tre vasi, gettati nel riempimento al pari degli apparati decorativi e architettonici dell’edificio, erano forse custoditi all’interno dell’edificio stesso, con funzioni cultuali o di pura offerta, e le forme furono prescelte certamente, come imponeva l’appartenenza all’ambito sacro, sulla base di esigenze cultuali. D’altra parte, un ruolo non esclude l’altro, poiché un oggetto definito nel suo livello funzionale, come è il caso del cratere e dei dinoi, può essere il risultato di un’offerta finalizzata ed essere pervenuto al santuario per soddisfare precise esigenze di culto, che rispecchiano ‘pratiche sociali’ connesse al loro uso.29 La scelta di tali forme significanti e specializzate appare in perfetta consonanza con il livello culturale delle grandi città etrusche e con la consapevolezza che guida i criteri di selezione attivati; in ultima analisi, questi tre importanti pezzi, non scindibili dal consumo in comune del vino, riconducono alla sfera dionisiaca. È ipotizzabile, seguendo quanto proposto in recenti analisi, che il progressivo evidenziarsi dei caratteri dionisiaci all’interno della sfera cultuale potrebbe riflettere quanto veniva manifestandosi all’interno dei gruppi sociali elitari e potrebbe essere l’indizio di un mutamento ai vertici della struttura sociale in seguito all’affermarsi di nuovi gruppi di aristoi.30 gantomachia, particolarmente in una formulazione articolata, appare eccezionale: è presente su un cratere a colonnette frammentario, dall’Acropoli di Atene, con Dioniso contro i Giganti sulla faccia a (Atene, Museo dell’Acropoli, n. inv. 2.760; arv 2, p. 551, 20). Anche in questo caso, il ritrovamento è in area santuariale. 26 Si attende una edizione del dinos, attualmente nei magazzini del Museo Nazionale di Villa Giulia, da parte della Dott.ssa Francesca Boitani. Il pezzo, dopo complessi interventi di restauro, non è visibile; la Dott.ssa Boitani mi ha mostrato le foto scattate nel corso degli interventi di restauro. 27 Vian 1952, p. 288: «La cité humaine, image de la cité céleste, sort renforcée, stabilisée par le triomphe d’Athena Polias». 28 Baglione 2008, pp. 65-69. 29 Cerchiai 2007, p. 24: è importante avere sottolineato come non sia possibile, riguardo ai ‘committenti’ Etruschi, disgiungere le ‘pratiche sociali’ connesse alla funzione dei vasi importati dalle immagini che le ceramiche stesse veicolavano. Per la dedica di un dinos in ambito sacro, localizzata nel territorio di Chiusi, dall’area della Pretina, cfr. Iozzo 2006, p. 125, tav. i, figg. 7-9. 30 Cerchiai 2008, pp. 92-93.

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U N R ITO DI OBLI T E RAZ I O NE A P O P ULO NI A Gilda Bartoloni

G

li scavi negli abitati in Etruria e nel Lazio stanno mettendo in luce sin dalle fasi più antiche una forte ritualità, che sembra precedere o concludere i diversi cambiamenti strutturali o funzionali. Già all’inizio della storia etrusca ben si addice la qualifica di Livio di popolo sopra agli altri religioso (v, 1, 6). Emblematico il caso della Civita di Tarquinia, dove sono stati riconosciute azioni cruente (Bonghi Jovino 20072008) ed offerte simboliche, relative al cosiddetto complesso sacro-istituzionale (da ultimo Serra Ridgway 2006). Attestazioni stanno emergendo in Etruria anche in siti minori, come a Campassini (Monteriggioni, si) nell’abitato di fine viii-vii secolo a.C. dove diverse fosse appaiono chiuse da deposizioni rituali di vasi o animali (Bartoloni 2002, p. 21; Acconcia, Biagi 2002, pp. 90-99, 118). In una struttura tardo orientalizzante parzialmente messa in luce in via Sant’Apollonia a Pisa sotto l’ingresso è venuta in luce una gran cassa lignea con piccoli dolii d’impasto disposti intorno ad un teschio di cavallo e uno di maiale adulto (Bruni 1998, pp. 123-128). La posizione della cassa e la scelta dei due animali verosimilmente scarnificati ha fatto pensare «ad un sacrum gentilicium espletato nell’ambito delle cerimonie di fondazione di un edificio che i materiali qualificano di carattere alto» (Donati 2004, p. 160). A Veio, negli scavi a Campetti (scavi Carandini: Fusco, Cerasuolo 2001) dagli strati più profondi di un grande complesso termaleterapeutico con forti valenze sacrali, connesse al culto del-

le acque, viene un vaso biconico, tipico vaso per acqua, sepolto in posizione orizzontale forse come offerta di fondazione presso murature di tardo viii sec. Nella stessa Populonia già da tempo avevo riferito ad un rituale di fondazione, legato alle più antiche fortificazioni il cd. ripostiglio di Falda della Guardiola, della seconda metà dell’viii secolo a.C. (Bartoloni 1991). Nelle indagini a cura della Soprintendenza Archeologica per la Toscana con la collaborazione di allievi e studenti della Cattedra di Etruscologia e Archeologia Italica dell’Università di Roma «La Sapienza», coordinati dalla scrivente, a Populonia sulle pendici di Poggio del Telegrafo, appena a ridosso della cinta muraria dell’acropoli (Fig. 1, 1), dove sta emergendo un’area indubbiamente riservata ad abitazioni di alto rango (Fig. 2), in un largo buco di palo sono state rinvenute un centinaio di tazze ad ansa sormontante, riferibili senza dubbi o ad una cerimonia. Il palo, inserito nel buco colmato, doveva sostenere il tetto stramineo di una struttura rettangolare, orientata est ovest, costituita da una parte chiusa, articolata verosimilmente in tre ambienti e un ampio portico (Fig. 3). Un’area recintata completava il complesso nella parte orientale. Sulla base dei vari interventi individuati in corrispondenza degli alloggiamenti dei buchi di palo, sembra essere stata restaurata almeno tre volte e dismessa nel primo quarto del vii secolo a.C. Il buco di palo riempito dalle tazze era pertinente all’impianto originale.

Fig. 1. Populonia, Poggio del Telegrafo, con l’indicazione dell’area di scavo (1).

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Fig. 2. Populonia, Poggio del Telegrafo. L’area di scavo e la posizione, con i vari ampliamenti (elaborazione grafica, V. Acconcia, E. Biancifiori).

Appare molto probabile che si tratti della casa di un capo (Bartoloni, Acconcia 2007), confrontabile con un basileus greco, alla cui mensa partecipavano gli anziani della comunità, in occasioni speciali nelle quali il pranzo acquistava il valore di una vera e propria istituzione politica. Il termine basileus, che nel greco classico indica un monarca di qualche tipo, ricorre al plurale sia nell’Odissea, sia nell’esiodeo Le opere e i giorni, per indicare un certo numero di signori in seno alla medesima comunità, peraltro di dimensioni piuttosto modeste. In Grecia nell’ampia abitazione del basileus locale, accanto al focolare sono panche o un altare rotondo che rimandano ad un culto comune del gruppo (Mazarakis Ainian 1985, p. 5 sgg.). I primi edifici destinati al banchetto sacrificale comunitario derivano, almeno quelli che si trovavano all’interno degli insediamento, dalla casa del basileus, come è attestato nella casa iv, 1 a Nichoria in Messenia

(Mazarakis Ainian 1988, p. 106 sgg., fig. 1, con riferimenti). A. Mazarakis Ainian nei lavori sull’origine dei templi greci (Mazarakis Ainian 1985 e 1988) ipotizza che i primi luoghi di culto siano derivati dall’abitazione del sovrano. L’aspetto materiale della casa di un principe permette di scegliere la relazione tra la produzione di ricchezza e la maniera in cui essa viene utilizzata per mostrare lo status sociale del proprietario. Il palazzo omerico consisteva essenzialmente in una corte, delle stalle e scuderie, un portico dove potevano dormire gli invitati, stanze private dove immagazzinare armi e ricchezze, camere per le donne, e la grande sala o megaron – una stanza allungata o un portico con troni o sedili lungo le pareti e un focolare al centro (Murray 1995, pp. 44-47). Normalmente le case dei re erano all’interno della cinta urbana (Odissea, vi e vii). Stesso significato di “casa del re” con ambiente per in-

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gilda bartoloni

Fig. 3. Populonia, Poggio del Telegrafo: “la casa del re” (pianta).

contri collettivi potrebbero avere la struttura ‚ di Casalvecchio di Casale Marittimo con grande portico (Esposito 1999) o la casa tonda con recinti di Roselle dell’Orientalizzante medio (Bartoloni, Bocci 2002). Coevo e con simile articolazione è il complesso della Civita di Tarquinia, che si è preferito riferire però una connotazione sacro-istituzionale (sintesi di M. Bonghi Jovino, in Sgubini Moretti 2001). La interpretazione come regia è tuttavia non trascurabile (Massa Pairault 1996, p. 81). Una struttura pienamente corrispondente al modello omerico ha riconosciuto l’équipe di Andrea Carandini alle pendici del Palatino (Filippi 2004). Possiamo immaginare per l’impianto populoniese un’area riservata alle stanze private dei proprietari, un ampio portico, all’interno di una corte recintata, con troni o panche lungo le pareti dove potevano dormire gli invitati e/o dove venivano riuniti i principali membri della comunità. Anche a Populonia, come evidenziato per Veio, Cerveteri o Tarquinia (Bartoloni 2008) ad una prima occupazione dei siti sedi delle città storiche, in cui non si riconoscono ancora strutture a carattere collettivo, coeva nelle deposizioni funerarie ad un carattere isonomico prevalente con pochi indicatori di status e di ruolo (Populonia i), segue una seconda fase in cui l’area abitata viene in qualche modo delimitata da strutture difensive e cominciano a evidenziarsi gruppi aristocratici (Populonia ii), quindi una terza in cui edifici palaziali o adibiti al culto dimostrano un potere ac-

centrato e la comunità articolata in sorta di curie rioccupa capillarmente il territorio (Populonia iii). In quest’area, come nel resto della Toscana centro-settentrionale appare indubbia la concentrazione della popolazione all’inizio dell’età del Ferro in pochi siti, che come nell’Etruria meridionale corrispondono alle grandi città etrusche; alcuni di questi, come Tarquinia e Vulci, risultano già frequentati o abitati alla fine dell’età del Bronzo come Chiusi, Volterra. Per quanto riguarda Populonia recentemente ho proposto la concentrazione della popolazione sul promontorio (Bartoloni 2004 e 2004-2005), in alternativa all’ipotesi (Pacciarelli 2001, seguito da Peroni 2003), che, osservando la distribuzione delle necropoli villanoviane, a sud con Poggio del Telegrafo e a nord con il Casone, Piano e Poggio delle Granate, sosteneva l’esistenza di almeno 2 villaggi coevi, di cui quello orientale satellite del primo o a quella di Delpino (Delpino 1981), sostenuta da Colonna (Colonna 1981), di riconoscere un insediamento più antico, testimoniato dal sepolcreto di Poggio delle Granate, forse con dei precedenti protovillanoviani, e poi uno sviluppo di occupazione funeraria nella zona di Poggio delle Guardiola, in relazione con il colle occupato dalla Populonia di età storica. Una distribuzione crono-spaziale degli insediamenti permetteva di individuare un momento importante nella storia dell’insediamento, un momento di crisi, di cesura, coincidente con lo spostarsi del suo baricentro verso le pendici e verso la sommità della rocca (la Populonia storica).

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Nessuna traccia di questo periodo appare però per ora evidenziata dalle recenti indagini territoriali effettuate dall’Università di Siena sui poggi circostanti il golfo di Baratti (Botarelli 2003), nemmeno a Poggio San Leonardo, sito indicato generalmente, anche dalla scrivente nel 1989 e 1991 (Bartoloni 1989 e 1991), come insediamento riferibile alla necropoli delle Granate. Le testimonianze più antiche emerse sono sul Poggio della Guardiola, e nemmeno tanto antiche nell’ambito dell’età del Ferro. La variabilità dei dati provenienti da indagini di superficie o la carenza di indagini a carattere stratigrafico di gran parte delle aree occupate dalla città di età storica, induce a valutare con prudenza ogni ipotesi circa il popolamento più antico. Ciononostante quanto sembra emergere al momento è però una concentrazione di tracce insediative di quest’epoca solo sul promontorio; si sono evidenziate presenze villanoviane sia nei due poggi del Telegrafo e del Castello specie nella sella tra i due, che all’esterno di essi. Il recente rinvenimento di frammenti ceramici da raccolta di superficie dalla Punta delle Pianacce, induce a formulare l’ipotesi di riconoscere nel promontorio di Populonia un abitato piuttosto consistente, forse articolato, come altrove, in quartieri distanziati. Se i grandi agglomerati protourbani dell’Etruria sono circondati da ampie aree indubbiamente fittamente coltivate, il territorio che circonda Populonia comprende anche il tratto di mare che la separa dalle isole dell’arcipelago toscano. I rinvenimenti riferibili all’età del Ferro dell’Isola d’Elba confermano questo legame con la città costiera. Recenti indagini pongono il confine territoriale a sud con Vetulonia nel corso del Pecora e a Nord con Volterra probabilmente anch’esso segnato da un corso d’acqua a sud del Cecina tra Bibbona e Bolgheri; a oriente si potrebbe tracciare una linea tra le isole di Capraia e Pianosa. Il secondo stadio (Populonia ii), poco visibile nell’area abitata, risulta evidente in ambito funerario. L’uso della tomba a carattere famigliare è in anticipo di almeno un secolo rispetto alle altre comunità dell’Etruria, documentando a Populonia sin dalla seconda metà del ix secolo a.C. un forte senso della continuità gentilizia (Bartoloni 2000), fenomeno a fondo indagato da Giovanni Colonna, a cui con stima dedico questo contributo. Come è noto, Populonia e la sua necropoli di Poggio e Piano delle Granate si differenziano dalle altre città etrusche per la precoce attestazione di uso di tombe a camera, considerate una innovazione di straordinaria portata rispetto all’Etruria del tempo e al suo assetto sociale, o meglio, al suo modo di rappresentarsi a livello funerario. Sembra difficile che il grande complesso funerario di Piano e Poggio delle Granate, il più importante anche da un punto di vista architettonico, sia riferibile ad un piccolo villaggio satellite (come indicato in Pacciarelli 2000). Alla seconda metà dell’viii secolo a.C. (Delpino 1981 pp. 279-280; Parisi Presicce 1985, p. 47) può essere riferito il già citato ripostiglio di Falda della Guardiola,1 considerato come testimonianza di un rito di fondazione di una fortificazione (Bartoloni 1991 e 2004-2005), che dovrebbe ricalcare il circuito della cinta bassa.2 Le recenti indagini di A. Romualdi e R. Settesoldi sulle mura di Populonia, in località Campo Sei, hanno verosimilmente rimesso in luce la fos-

sa del ripostiglio, deposto quindi in un punto strategico per la difesa e l’accesso al centro abitato. (Romualdi, Settesoldi 2008 pp. 309-311). La presenza di una fortificazione databile al pieno viii secolo nelle città etrusche trova ora una coincidenza negli scavi condotti da Francesca Boitani a Veio (Boitani 2008, pp. 139-140), da Anna Sgubini Moretti a Vulci (Moretti Sgubini 2006, p. 341, Eadem 2008, p. 171),3 dove sono stati riconosciuti strutture difensive ad aggere, generalmente collegati al ripopolamento del territorio (Bartoloni 2008). L’occupazione del distretto populoniese, sia all’interno che sulla costa risulta riferibile infatti già alla fase finale della prima età del Ferro e ad epoca orientalizzante, come dimostrerebbero i reperti di Villa Salus a S. Vincenzo, uno o due insediamenti a carattere rurale riconosciuti in località S. Antonio e Franciana preso il torrente Acquaviva, una serie di siti produttivi, che la presenza di dolii e olle collega alla raccolta del sale e/o all’immagazzinamento di prodotti ittici sul tombolo, il ripostiglio di Bambolo presso Castagneto Carducci, le deposizioni del riparo Biserno, la necropoli di Monte Pitti nel bacino del Cornia, altri tumuli alle pendici di Monte Valerio (Fedeli 1993, pp. 87-91, Romualdi 1993, pp. 96-97) verosimilmente attribuibili a famiglie collegate all’attività estrattiva delle vicine miniere. La zona intermedia alle spalle del golfo di Follonica appare vuota a causa verosimilmente delle grandi paludi che occupavano l’area. È indubbio che si debba riconoscere in questo periodo uno gradino importante nella storia dell’insediamento (Populonia iii) che accomuna tutti i centri dell’Etruria e che corrisponde nelle necropoli all’emergere dell’aristocrazia. L’apparire di una gerarchia insediativa stabile e articolata dalla metà/fine dell’viii secolo a.C. rappresenta un’evidente cambiamento nella storia del paesaggio di queste aree. Con la nascita di nuovi insediamenti in località, spesso occupate in un passato remoto (età del Bronzo Finale), si assiste a un’inversione di tendenza nelle modalità di occupazione del territorio rispetto alla situazione che si era venuta a creare con la nascita dei grandi agglomerati protourbani. L’impulso decisivo verso un’occupazione sempre più sistematica delle aree rurali deve attribuirsi ad organizzazioni politicamente centralizzate, quali dobbiamo immaginare i grandi centri villanoviani. Questo fenomeno è stato collegato alla nascita di veri e propri agri gentilizi. Appare comune a tutte le maggiori organizzazioni politiche dell’antichità il formarsi di ristretti gruppi di persone che rivestivano funzioni di governo in virtù di una posizione preminente rispetto al resto della popolazione; posizione che ben presto tese a divenire ereditaria (aristocrazia di sangue); gli aristocratici etruschi tendono ciascuno a presentarsi come un rex all’interno del proprio quadro sociale, sia esso la familia o la gens più o meno allargata, la curia o il populus. Nell’ambito funerario, dove la comunità sottolinea, nel modo più completo e significativo, la somma delle identità sociali che costituiscono la posizione di ciascuno dei suoi membri, un cambiamento può essere visto nel passaggio della piccola tomba a tholos, dove in genere sono attestate una o due deposizioni (Bartoloni 2000) e solo eccezionalmente quattro (Poggio del Molino, tomba 1: Iaia 2005, p.

1 La fibula a cuscinetto romboidale, purtroppo non documentata da Minto insieme al resto del complesso (Minto 1943, tav. xi, figg. 1-7), elemento più recente rispetto agli altri bronzi, potrebbe essere stata utilizzata come chiusura di un eventuale panno contenente questa serie di oggetti di indubbio prestigio. 2 Almeno 7 depositi di bronzo e una sepoltura umana sono stati rin-

venuti in Baviera sotto la fortificazione del periodo dei Campi d’Urne (Berger 1994). Desidero ringraziare Caroline von Nicolai, che sta svolgendo la sua tesi di dottorato sui Confini urbani nel mondo celtico, per la segnalazione. 3 E forse da Mariolina Cataldi a Tarquinia (Baratti, Cataldi, Mordeglia 2008, p. 161).

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Fig. 4. Populonia, Poggio del Telegrafo: “la casa del re” (lo scavo).

Fig. 5. Populonia, Poggio del Telegrafo: il buco di palo riempito da tazze.

132), alle tombe a crepidine della necropoli monumentale del Casone e la flessione dell’uso della necropoli delle Granate (Romualdi 1994). Se le tombe a camera di quest’ultima necropoli sono per lo più riferibili ad una sola generazione la tomba delle Pissidi Cilindriche, il cui impianto è da attribuire all’ultimo quarto dell’viii secolo a.C., presenta oltre le pissidi pcm ii, buccheri che non risultano datarsi prima della metà del vii secolo a.C. (Acconcia cds.), attestando il suo uso per almeno tre generazioni. A questo orizzonte è riferibile la prima fase della casa lignea di Poggio del Telegrafo (V. Acconcia, in Bartoloni, Acconcia 2007). Nell’alloggiamento più a sud della terza fila di pali conservati al momento dell’abbandono intenzionale del complesso, fu realizzato un taglio bilobato lungo m 0,60, largo m 0,40 e profondo m 0,50 ca., riempito da un numero cospicuo di tazze-kyathoi con ansa sormontante e fondo ombelicato (presente in poche varianti tipologiche e dimensionali) rinvenute prevalentemente integre o comunque frammentate dopo la deposizione. Le dimensioni ridotte della fossa avevano determinato un accumulo serrato degli esemplari, alcuni dei quali sono stati rinvenuti impilati a due o a tre (Fig. 5). Le dimensioni ridotte della fossa avevano determinato un accumulo serrato degli esemplari, alcuni dei quali sono stati rinvenuti impilati a due o a tre. Una stima effettuata sui materiali integri e conservati a metà ha consentito di identificare tra le 77 e le 84 unità, cui vanno aggiunti i numerosi frammenti ancora in corso di restauro. Si pensa poter riconoscere almeno 98 tazze, a cui vanno aggiunti altri due esemplari rinvenuti nei residui della cava sottostante (Acconcia, Nizzo 2009) La concentrazione e lo stato di conservazione inducono a ritenere che il deposito si sia formato in un lasso di tempo identificabile in un unico intervento di deposizione. La composizione della terra del riempimento della fossa, caratterizzata da colore rossiccio e dalla forte presenza di materiale organico, e la forma della tazza-kyathos suggeriscono inoltre una pratica associata all’assunzione di bevande o alimenti semi-liquidi. Tale contesto si pone come indizio di un’azione simbolica, legata ad un avvenimento ben preciso, ovvero la fine della vita e dell’uso della più antica struttura rettangolare, alla quale segue l’impianto di un’altra simile per tipologia edilizia. Il numero delle tazze deposte, che sembra avvicinarsi al centinaio di unità, e la ricorrenza della forma suggerisce una partecipazione collettiva al-

l’evento e l’utilizzo di una bevanda cerimoniale, verosimilmente il vino. La maggior parte delle tazze (Figg. 6-7) può essere attribuita a un tipo di piccole dimensioni con labbro lievemente estroflesso e orlo arrotondato o assottigliato, vasca più o meno compressa con spalla distinta, fondo convesso e ombelicato (con cavità spesso non centrata); le anse sono sopraelevate a sezione superiore circolare e a nastro all’attacco della spalla, e raramente recano tracce di decorazione a fasci di linee incise. Per quanto riscontrabile sugli esemplari integri l’altezza al labbro varia tra i 3 e i 5 cm. Tale forma è abbastanza diffusa tra gli ultimi decenni dell’viii e i primi del vii secolo a.C., anche se i confronti più puntuali per gli esemplari dal deposito di Poggio del Telegrafo si concentrano in un’area che dalla fascia litoranea dell’Etruria si estende al territorio ligure (per i confronti si rimanda a Bartoloni, Acconcia 2007). La diffusione di questo tipo di tazze confema una circolazione di merci e modelli diretta appunto tra la fine dell’viii e il vii secolo a.C. specificamente verso l’alto Tirreno, includendo i centri di Vetulonia, Populonia, Pisa, il comprensorio a nord di Pisa (San Rocchino) e Chiavari (Bonamici 1990, pp. 105-107; Eadem 2006, p. 499; Maggiani 2006, pp. 435-438). La tazza ad ansa sormontante appare nell’orientalizzante antico e medio chiaramente legata al bere vino, sia nella funzione di attingitoio dai crateri o olle, sia in quella di boccale (Bartoloni 2007; Bartoloni, Acconcia, Ten Kortenaar, cds.). Prova inconfutabile di questo uso è la presenza come oggetto importato a Pithecusa nella tomba 168 (tomba della coppa di Nestore) della necropoli di San Montano,4 che per prima documenterebbe, secondo O. Murray, l’uso del simposio nel mediterraneo centro-occidentale (Murray 1994). Tutti i vasi esportati (anfore, coppe) da Pithecusa nei centri indigeni (Bartoloni 2006) o importati (anforette, tazze) dalle coste tirreniche nel centro greco sono legati al bere vino. L’attestazione più famosa per la funzione di questo tipo di tazzina viene dalla presenza di essa, accanto al kantharos sia nel servizio metallico, che in quello ceramico della tomba del Guerriero di Tarquinia (Krieseleit 1988). In associazione sono stati rinvenuti un frammento di parete di olla in impasto bruno tornito, che all’interno della fossa era stata alloggiata a dividere in due parti pressoché uguali lo spazio utilizzato, un frammento di incannucciata

4 Per questo importantissimo corredo v. da ultimo Nizzo 2007 pp. 33-36, che ne propone l’articolazione in almeno due contesti.

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Fig. 6. Populonia, Poggio del Telegrafo: esemplificazione di tazze.

Fig. 7. Populonia, Poggio del Telegrafo: esemplificazione di tazze.

e una forma chiusa, probabilmente minaiturizzata, parzialmente reintegrabile da tre frammenti, che presenta fondo piano, ventre compresso con spalla accentuata e resti della tornitura sul fondo. La pasta è estremamente depurata e saponosa al tatto, e potrebbe aver perso parte del rivestimento originario delle superfici. Per tali caratteristiche l’esemplare è identificabile come il resto di una brocchetta o di una oinochoe di produzione italo-geometrica locale, e trova confronti non puntuali con una oinochoe miniaturistica dalla tomba 24 della necropoli di Canale-Janchina (rc) (Mercuri 2004, p. 28, n. 19, con fondo di cm 3,8) identificata come redazione ridotta di un tipo (p. 46, n. 107), assimilabile a materiali italo-geometrici (Canciani 1974, p. 28, tav. 20, 8, datato alla fine dell’viii secolo a.C.). L’associazione dell’olla con un copioso numero di tazze-kyathoi, appare ampiamente attestato sia in ambito etrusco che in altre aree culturali delle penisola (Belelli Marchesini 2008). In area abitata nel limitrofo territorio vetuloniese,5 negli scavi dell’Accesa (Massa Marittima), all’interno di una casa un contenitore analogo conteneva una serie di kyathoi miniaturistici (Camporeale 1997, p. 278). Generalmente nelle case dell’abitato dell’Accesa, come a Gonfienti presso Prato si sono trovati sparsi sui pavimento: secondo Luigi Donati «dovevano essere raccolti in appositi appestamenti come nicchie e mensole fissate alle pareti», che fanno pensare a una sorta di lararium (Donati 2004, p. 162).

Nell’area volterrana, ancora in un contesto abitativo, a Casale Marittimo, numerosi frammenti di kyathoi di bucchero fine con decorazione impressa e incisa, tipo quello di Monteriggioni (sul tipo da ultimi Sciacca 2006-2007 e Bagnasco 2008), corredati da iscrizioni di dono sono stati considerati testimoni dell’importanza dell’edificio (edificio ‚), verosimile reggia del piccolo insediamento (Maggiani 2009, pp. 371-375); a questi si aggiungono una serie numerosa di piccole tazze, di tipo affine a quelle populoniesi rinvenute sparse nell’area della struttura, pertinenti verosimilmente alla fase iniziale o a un edificio precedente (gradita comunicazione orale di Anna Maria Esposito). Ancora in epoca arcaica le tazze-kyathoi associate a grandi contenitori di liquidi, nell’Etruria settentrionale, sono impiegate per riti di fondazione (Ciampoltrini 1999, p. 45): «una serie di minuscoli attingitoi» furono gettati intorno ad un’anfora spezzata nel rituale di fondazione di una casa in cui il modello architettonico, a due vani, «aveva un’alta valenza culturale e simbolica» (Ciampoltrini, Zecchini 2007, pp. 57-58). Del resto anche a Veio una libagione di vino, documentata da un’olla con calice (Fig. 8), sembra accompagnare la divisione del pianoro in spazi quadrangolari alla metà del vii secolo a.C. (Bartoloni 2002-2003). Tra i numerosi confronti in ambito funerario, anche in aree culturali limitrofe, si segnala l’esempio di Chiavari, con cui Populonia mostra notevoli contatti soprattutto nella produzione ceramica (S. Paltineri, in Paltineri et al.

5 I numerosi kyathoi miniaturistici rinvenuti divisi per olle rinvenuti dentro un’olla a Poggiarello Renzetti (Levi 1926), attribuiti ad un

deposito (Cygielmann 2005, p. 323) sembrerebbero attestazioni più recenti.

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2006, p. 643; Bartoloni, Acconcia 2007), nelle cui deposizioni di prima metà vii secolo a.C. tazze a fondo ombelicato vicine agli esemplari da Poggio del Telegrafo, associate di solito a olle vuote vengono identificate come recipienti utilizzati specificamente nel rituale potorio nell’ambito delle cerimonie funebri (Melli 1993, pp. 105-106, pp. 114-115). Costante appare nelle tombe sia a deposizione maschile che femminile dello scorcio dell’viii secolo a.C. nella latina Crustumerium l’associazione dell’olla con un numero cospicuo di tazze-kyathoi (fino a 40), per cui si è parlato di circumpotatio nell’ambito di libagioni riservati a sodalizi, composti da membri dello stesso sesso (Belelli Marchesini 2008, p. 10). La maggior parte degli esempi addotti si riferiscono all’orientalizzante antico,6 momento in cui le aristocrazie tirreniche sembra fare proprio l’uso cerimoniale del vino su insegnamento delle genti del Mediterraneo orientale, costume evidente finora soprattutto nei rituali funerari (Bartoloni 2003 pp. 195-215, e Eadem 2007). Ulisse nell’Odissea, la cui trascrizione è proprio inquadrabile in questa fase, evocando i defunti effettua una libagione in loro onore: «scavai una fossa d’un cubito, per lungo e per largo e intorno ad essa libai la libagione dei morti, prima di miele e latte, poi di vino soave, la terza d’acqua» (Odissea, xi, 25-28, trad. Rosa Calzecchi Onesti). Quindi la deposizione delle tazze a Poggio del Telegrafo è l’attestazione di una cerimonia svoltasi in occasione della distruzione della “casa del re”. La connessione di queste tazze con il vino e la pertinenza ad un gruppo verosimilmente di personaggi eminenti deve essere considerata più che probabile. Si è ipotizzata una cerimonia legata alla riedificazione della struttura, legata indubbiamente ad un personaggio eminente e quindi probabilmente ad una nuova leadership (Bartoloni 2008). La localizzazione del buco del palo, riempito dalle tazze, al centro della struttura fa pensare ad una cerimonia svoltasi nel vano centrale, adibito a riunioni per i rappresentanti della intera comunità. I partecipanti alla cerimonia devono essere individuati tra gli esponenti delle famiglie aristocratiche di Populonia. Possiamo immaginare un consesso simile a quello rappresento nel coevo palazzo di Sargon ii dove un gruppo di dignitari in piedi e seduti bevono con il loro sovrano (officials drinking). È suggestivo il richiamo al gioioso brindisi che si consumò in un circolo esclusivo di Mitilene nell’isola di Lesbo per la morte del tiranno, definito da Lorenzo Braccesi il primo brindisi con decisa connotazione politica della letteratura occidentale (Braccesi 1991). Alceo invita ad una smodata bevuta i compagni di eteria (fr. 332 Voigt). Per il numero delle tazze e quindi dei partecipanti ovvio è il riferimento all’assemblea di 100 anziani, istituita da Romolo, fatto da Dionigi di Alicarnasso ii, 12, 1-13, 1 (cfr. Carandini 2007, p. 47), che richiama Omero e i poeti più antichi: «ii, 12, 1: Organizzato tutto ciò, Romolo decise di nominare dei senatori con cui trattare gli affari dello stato e scelse cento persone tra i patrizi … ii, 12, 3: … In realtà, anche questo consiglio era un’istituzione greca. ii, 12, 4: I re, sia quelli che ricevevano un potere sovrano avito, sia quanti la popolazione stessa aveva investito del comando, avevano un consiglio, composto dagli uomini più importanti, come testimoniano Omero e i poeti più antichi: e la signoria degli antichi re non era, come ai tempi nostri,

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6 Leggermente più tardo (fase orientalizzante recente: ultimo quarto del vii secolo a.C,) ma eccezionale attestazione del banchetto/simposio in ambito funerario è l’olla su holmos con applicazioni ornitomorfe, accompa-

gnate da una quarantina di tazze-kyathoi e alcuni kantharoi di cui alcuni appesi al vaso stesso della tomba principesca a deposizione femminile 1 di Passo Gabella a Matelica (Coen 2008, cat. nn. 188, 191-196).

Fig. 8. Veio, Piazza d’Armi: deposizione dell’olla.

arbitraria e assoluta. ii, 13, 1: Dopo aver istituito il consesso consiliare degli anziani, composto da 100 persone, constatò, il ché è perlomeno verosimile, la necessità anche di un contingente di giovani organizzato militarmente di cui avvalersi come guardia del corpo e che prestassero servizio nelle operazioni richieste da situazioni urgenti». Degno di nota tra i numerosi riferimenti nell’Iliade e nell’Odissea a banchetti e simposia consumati nelle assemblee di capi o anziani il racconto del consiglio dei capi per discutere sull’ambasceria ad Achille (Iliade, ix, 90-181): il banchetto precede la riunione che viene conclusa con una libagione di vino: «Cosi disse (Agamennone), e a tutti piacquero le sue parole, Subito gli araldi versarono ed i giovani colmarono fino all’orlo crateri di vino, lo versarono in coppe e lo distribuirono a tutti per libare» (Iliade, ix, 173-177, trad. G. Paduano). Con una libagione di cento individui rappresentanti le diverse famiglie aristocratiche di Populonia, all’inizio della fase orientalizzante, si è voluto quindi testimoniare e ritualizzare la distruzione della casa del re e probabilmente celebrare l’assunzione al potere di una nuova leadership nel comparto di Populonia. Del resto non mancano a Roma nella fase arcaica indizi in cui il vino è legato alla sovranità e al potere (Coarelli 1995, p. 202). Bibliografia

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U N PROGR AM MA F I G URAT I VO T RO I ANO A VOLTERRA NE L I SE C . A.C . Marisa Bonamici

N

ella Sala xxii del Museo Guarnacci di Volterra sono affissi nella parte alta di tre delle pareti complessivamente sei pannelli1 ai quali sono applicati frammenti di terrecotte architettoniche che le didascalie apposte sui pannelli stessi identificano di volta in volta o come provenienti dallo scavo dell’acropoli condotto da D. Levi nel 1926 o come pertinenti alle antiche collezioni del Museo. Proprio al patrimonio originario del Museo appartengono due oggetti che hanno attirato recentemente la mia attenzione e che, rimasti inediti, meritano invece di essere considerati specificamente, in virtù anche del loro interessante programma figurativo di tematica troiana. Sono lieta di dedicare questa breve nota a Giovanni Colonna che su questo tema ha offerto ripetutamente magistrali contributi. Si tratta di una coppia di lastre di terracotta di piccole dimensioni decorate a rilievo sotto le quali è apposta la dicitura: «Antefisse templari in terracotta da Volterra: fondo antico del Museo». Ma passiamo ad una breve descrizione dei due piccoli monumenti.

veste che protende il braccio destro fino a lasciarsi afferrare al polso dal suo interlocutore. La figura maschile, che doveva stringere un oggetto con la mano destra abbassata, verosimilmente un’arma, indossa una mantello panneggiato che scende dalle spalle coprendo ambedue le braccia per ricadere sull’ara formando un sinus trasverso e lasciando scoperta la coscia sinistra. La figura femminile indossa un chitone pieghettato privo di maniche cinto sotto il petto e un lungo mantello che copre la testa e discende sull’avambraccio, formando nella parte anteriore un sinus all’altezza dell’addome. In ambedue le figure la capigliatura è trattata a ciocche divergenti che incorniciano il volto con un riporto alquanto informe sulla fronte alludente rispettivamente all’anastolè e al nodo. Il soggetto della scena, peraltro di immediata evidenza, consiste nel riconoscimento di Paride ridotto alle due figure essenziali: da un lato Paride che si rifugia sull’altare per sfuggire all’ira dei fratelli, dall’altro Afrodite che guarda il giovane eroe con atteggiamento protettivo e «si lascia» prendere per l’avambraccio.

1. Lastra a rilievo2 (Figg. 1-2) 2. Lastra a rilievo3 (Figg. 3-4)

La scena rappresenta due figure separate da un’ara posta di scorcio: a sinistra giovane a torso nudo che poggia il ginocchio sinistro sull’ara volgendosi nel contempo alla donna e afferrandola per il polso, a destra figura femminile in lunga

La lastra reca una scena di difficile comprensione anche a causa della lacuna che interessa largamente la parte sinistra. Nella porzione conservata si individuano a destra in basso

Fig. 1. Volterra, Museo Guarnacci. Lastrina di terracotta.

Fig. 2. Volterra, Museo Guarnacci. Lastrina di terracotta, retro.

1 Secondo la testimonianza del personale del Museo questa sistemazione risale ad un momento non determinabile tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, sotto la direzione di Enrico Fiumi. 2 N. inv. mg 4484. Esecuzione a stampo; alt. cm 25 al sommo della testa della figura maschile, cm 23,5 alla testa della donna; largh. base cm 26. Tutti i margini sono finiti ad eccezione di quello superiore nel punto in cui si incrociano le mani dei due personaggi. Il retro della lastra non è lavorato e non reca traccia di attacchi; nella metà superiore, nello spazio tra le due figure si nota una lacuna. Sempre sul lato posteriore la superficie della lastra risulta

abbassata e percorsa da solcature fuorché nella zona centrale e lungo i margini. Nelle parti abbassate si conservano abbondanti residui di una sostanza apparentemente identificabile con calce. Da tutto questo sembrerebbe potersi dedurre che la terracotta era destinata ad aderire ad una qualche superficie piatta in funzione di antepagmentum, elemento di fregio o simili. 3 N. inv. mg 4483. Esecuzione a stampo; alt. cm. 23 al sommo della testa della figura barbata; largh. cons. base cm 20. Margini destro e inferiore finiti; mancante della parte sinistra, ivi compresa la testa della figura gradiente. La parte posteriore è conformata come nell’esemplare precedente.

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Fig. 4. Volterra, Museo Guarnacci. Lastrina di terracotta, particolare.

le gambe nude di una figura maschile in veste corta in atteggiamento gradiente verso sinistra. Sullo sfondo delle gambe appena descritte, divaricate nel passo, si distingue con chiarezza una lunga veste panneggiata con pieghe che ricadono fino al suolo con andamento leggermente obliquo. Nello stesso tempo, per ragioni di armonia e di proporzioni, alla figura gradiente in veste corta non può essere attribuito il busto, completo della testa, che occupa la parte alta della lastra, pertinente ad un uomo barbato dalla lunga capigliatura con il volto reclinato dagli occhi apparentemente chiusi (Fig. 4). Non c’è che pensare dunque a due figure sovrapposte, delle quali quella che conserva il busto è issata sul dorso dell’altra vestita in chitone corto, che procede con il busto inclinato in avanti e quasi accorciato dal peso, il braccio sinistro piegato al gomito e attualmente mozzato, mentre la testa, della quale rimangono solo esigue tracce, doveva trovarsi immediatamente al di sotto della spalla destra dell’uomo portato sul dorso. A completare la scena, nella parte sinistra della lastra doveva figurare una terza figura maschile gradiente verso destra di proporzioni analoghe alla precedente, della quale si conserva una gamba e un lembo della veste corta e sulla cui interpretazione torneremo più oltre. Nonostante la lacuna di cui si è detto, l’esegesi della rappresentazione non pone difficoltà nel suo tema di fondo, data anche la peculiarità della posizione delle due figure conservate: si tratta del vecchio Anchise, forse rappresenta-

to anche come cieco,4 portato sul dorso da Enea nell’atto di allontanarsi da Troia. Prima di ogni altra considerazione possiamo dunque affermare che la coppia di lastre appena descritte è portatrice di un programma figurativo in qualche modo già leggibile e compiuto anche nel caso, impossibile da accertare, che esso sia stato originariamente integrato con altri episodi della saga: le due scene a noi conservate niente altro rappresentano infatti se non l’inizio e la fine della guerra di Troia, una vicenda che si apre quando il giovane eroe esce dal suo ritiro nelle selve svelando la propria identità ai fratelli e si conclude infine con la distruzione della città e la conseguente fuga di Enea con il vecchio padre. Nonostante la modestia intrinseca e la collocazione marginale loro assegnata nella sistemazione stessa della sala del Museo, le due terrecotte vantano una storia di tutto rispetto, appartenendo al nucleo primitivo della collezione di Monsignore Mario Guarnacci.5 Nella guida della raccolta che egli fece compilare nell’ottobre del 1744 dall’amico erudito Anton Francesco Gori, rimasta a lungo sconosciuta e da me recentemente edita a stampa,6 le due lastrine, che erano sistemate «nell’ultimo palchetto» del «secondo scarabattolo a mano destra dell’ingresso del Museo», sono descritte rispettivamente come «un bassorilievo molto singolare di terra cotta, in cui si rappresenta Aiace che fa violenza a Cassandra. Edito è alto circa un palmo» e come «Bassorilievo di terra cotta, che rappresenta un uomo barbato, e vi è il piede di un’altra figura. Il significato di tale emblema per essere mancante ci è ignoto». Nel notare che la terracotta recante la presunta scena di Aiace e Cassandra era edita, il Gori alludeva all’opera a stampa che egli stesso dedicò alla collezione Guarnacci, pubblicata a Firenze anch’essa nel 1744, nella quale la lastra compare alla tav. xv, i (Fig. 5), disegnata da Giuseppe Menabuoni.7 Nella breve scheda di commento che correda la

4 Pur essendo difficile un giudizio certo a causa della scarsa definizione del rilievo, è da notare tuttavia la diversità nella trattazione tra gli occhi di Anchise che hanno la superficie piatta rispetto a quelli delle due figure della lastra gemella, che hanno il bulbo prominente. Se così fosse si tratterebbe di una peculiarità tratta dal repertorio greco, cfr. infra, nota 18. 5 Sulla figura di Mario Guarnacci, prelato della curia romana, fondatore del Museo volterrano si vedano vari contributi nell’opera Mario Guarnacci (1701-1785). Un erudito toscano alla scoperta degli Etruschi, Atti del Convegno (Volterra, 2002), «Rassegna Volterrana», lxxix, 2002. 6 Si tratta di un opuscolo manoscritto autografo di Anton Francesco Gori e di una copia più tarda redatta da uno scrivano che si conservano nella Biblioteca Guarnacci (bgv, ms. 12023 e 12023bis). Sulla copertina il fascicoletto reca due diciture poste l’una sotto l’altra: Descrizione dell’Urne Etrusche del

Museo de’ Nobilissimi Signori Guarnacci fatta da me Anton Franc. Gori nel mese di Ottobre dell’anno 1744, e Descrizione delle varie Antichità Etrusche contenute in due Scarabattoli nel Museo de’ Nobilissimi Signori Guarnacci fatta e dettata da me Anton Francesco Gori nel mese d’Ottobre dell’anno 1744. Una ulteriore copia del fascicolo, replica della precedente, ma limitata alla seconda sezione, si conserva presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (bmf, ms. a, lvii, cc. 33-39). 7 Musei Guarnaccii antiqua Monumenta Etrusca eruta e Volaterranis Hypogaeis nunc primum in lucem edita et illustrata observationibus Ant. Francisci Gorii , Florentiae 1744, p. 57, tav. xv, i. L’opera riproduce, ampliandola con sei tavole in aggiunta (tavv. xxxv-xl), il capitolo contenuto in Museum Etruscum exhibens insignia veterum Etruscorum Monumenta aereis tabulis nunc primum edita et illustrata observationibus Antonii Francisci Gorii…, iii, Florentiae 1743, p. 109 sgg.

Fig. 3. Volterra, Museo Guarnacci. Lastrina di terracotta.

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Fig. 5. La lastrina di fig. 1 nel disegno di A. F. Gori, Museum Etruscum, iii, 1743.

tavola l’erudito interpreta la scena come di Aiace che assale Cassandra, mentre sulla natura dell’oggetto non si pronuncia, limitandosi a definirlo come «fragmentum hoc extypis formis in argilla expressum». Sulla base del disegno pubblicato dal Gori e della didascalia che la accompagna sul pannello espositivo la lastrina con Paride ha goduto di una, benché modesta, circolazione in ambito scientifico,8 mentre l’esemplare gemello, trascurato dallo stesso Gori evidentemente per la difficoltà di lettura che egli stesso lamenta nell’opuscolo manoscritto sopra citato, è rimasto inosservato e inedito nonostante l’esposizione al pubblico. Dalla cospicua documentazione d’archivio che si conserva su questo momento dell’archeologia volterrana così come dalla pubblicazione del Gori non emerge purtroppo alcuna notizia certa in merito alle circostanze del rinvenimento delle due lastre, per le quali tuttavia la presenza nella collezione originaria del Guarnacci assicura comunque un’estrazione locale, volterrana, che cercheremo di precisare più oltre almeno al livello di ipotesi.9

La probabile provenienza locale e la peculiarità della rappresentazione di Enea, con l’implicita evocazione del tema della fondazione di Roma, pongono come di particolare interesse l’esigenza di stabilire per le due terrecotte una collocazione cronologica il più possibile precisa. A questo proposito, occorre anzitutto avvertire che ogni eventuale tentativo di lettura dei due rilievi in chiave stilistica risulta difficilmente praticabile a causa del modellato approssimativo e incerto, dal quale non emerge alcuna impronta stilistica in qualche modo apprezzabile e confrontabile. Maggiormente fruttuoso può risultare invece, come vedremo, un approccio di tipo prettamente iconografico. Il rilievo con rappresentazione di Paride all’altare si pone globalmente sulla scia di una tradizione iconografica massicciamente presente dalla seconda metà del iii sec. a.C. alla metà del i a.C. nella produzione locale delle urne funerarie, come dimostrano non solo lo schema figurativo, ma anche taluni elementi di tipo antiquario come la foggia delle vesti e la trattazione delle capigliature.10 Più precisamente, lo schema di Paride affiancato da una figura protettrice che di-

8 F. H. Pairault, Recherches sur quelques séries d’urnes de Volterra à représentations mythologiques, Rome, 1972, p. 173, che considera la terracotta come un’antefissa, seguendo la didascalia apposta sul pannello. L’oggetto è citato altresì da L. B. van der Meer, Archetype – Transmitting Model – Prototype. Studies of Etruscan Urns from Volterra, i, «BABesch», l, 2, 1975, p. 182, fig. 5, dove non si pone minimamente in dubbio una presunta datazione del rilievo in età ellenistica. 9 Il dato della provenienza locale si evince, sia pure indirettamente, dalla frase che conclude la scheda di A. F. Gori, loc. cit. (nota 7), relativa alla la-

stra con Paride: «Haec autem opera raro apud Volaterranos occurrere iam observavimus». Più in generale, che Mario Guarnacci attingesse agli scavi locali per la creazione del suo Museo lo si evince dal complesso della documentazione d’archivio a riguardo, oltre che dall’analisi della composizione della sua collezione (cfr. i lavori citt. alle note 5-7). 10 Sulla serie delle urne con Paride riconosciuto si veda più recentemente il lavoro di D. Steuernagel, Menschenopfer und Mord am Altar, Wiesbaden, 1998, p. 62 sgg.

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Fig. 6. Volterra, Museo Guarnacci. Urna mg 622 (da D. Steuernagel, 1998).

stende orizzontalmente il braccio per toccarlo alla spalla riconduce ad un gruppo di tre urne appartenenti alla tarda bottega Guarnacci 621, nelle quali il gesto viene attribuito sia ad Afrodite, riconoscibile per l’attributo delle ali, sia ad una seconda figura di donna protettrice, che è posta in due esemplari accanto a Paride in posizione speculare alla dea.11 Particolarmente stringente non solo per il gesto ma anche per la tipologia della veste, appare l’analogia che sussiste tra la figura femminile della nostra lastra e la figura corrispondente su una delle tre urne del gruppo appena menzionato, l’esemplare mg 622, in terracotta (Fig. 6), dove Paride è affiancato da due figure femminili, alla sua destra Afrodite munita di ali e alla sua sinistra Ecuba, così identificata per il bastone simile a quello che nel repertorio delle urne caratterizza altrimenti Priamo.12 Questa appunto potrebbe essere anche la giusta interpretazione per la figura del nostro rilievo, a meno che non si voglia interpretarla come Afrodite stessa, per la quale sia stato dismesso il vecchio attributo delle ali, ora non più confacente al nuovo gusto figurativo. Sul piano infine dell’ambiente artigianale che ha prodotto le nostre due terrecotte, operette con ogni evidenza alquanto isolate, la trafila iconografica che si è messa in luce induce a ritenere che esse

possano essere il frutto della stagione di stanca decadenza, ovvero di una fase di effimero revival, della bottega dell’urna Guarnacci 621. In tutt’altro ambiente ci conduce l’esame della composizione della lastra con Enea e Anchise in fuga da Troia, per la quale la tradizione iconografica di ambito etrusco, peraltro di origine assai antica, si era interrotta da secoli,13 né il repertorio delle urne poteva offrire schemi iconografici da utilizzare o da riconvertire per esprimere i nuovi temi. Ed ecco che in qualche modo la nostra modesta bottega attinge al repertorio urbano, in un momento come questo di rinnovato contatto con Roma. La terza figura che doveva completare il rilievo e della quale si conserva una gamba, un personaggio adulto che si fa incontro ad Enea, postula infatti un’unica possibilità di restituzione,14 quella del troiano Panthus, sacerdote di Apollo, del quale Virgilio ci dice per bocca di Enea:

11 Si tratta della serie iii della classificazione Steuernagel, composta dalle urne nn. 117-119, cfr. ivi, pp. 65, 200 sg., con bibl. prec. La seconda figura femminile protettrice compare nelle urne nn. 117 e 118. Più in generale, sui referenti stilistici della bottega e sulla sua collocazione cronologica (secondo-terzo quarto del i sec. a.C.) si veda A. Maggiani, La «Bottega dell’urna Guarnacci 621». Osservazioni su una fabbrica volterrana del i secolo a.C., «StEtr», xliv, 1976, p. 111 sgg. 12 L’urna è edita da L. B. van der Meer, art. cit. (nota 8), p. 185 sg., figg. 13-15, che interpreta la figura in questione come maschile; successivamente si veda G. Cateni, in Corpus delle Urne Etrusche di età ellenistica, ii, 2, Pisa, 1986, p. 86 sg., n. 97; D. Steuernagel, op. cit. (nota 10), pp. 65, 200, n. 118, tav. 26, 3 (bibl. completa), cui si deve l’interpretazione della figura femminile protettrice come Ecuba. Circa la posizione del braccio di quest’ultima figura, che secondo Steuernagel sarebbe piegato al gomito, ad una attenta osservazione del monumento si constata che l’arto è teso fino a toccare la spalla di Paride. La figura ha quindi un atteggiamento analogo a quella che compare sulla nostra lastra. 13 Sul tema della fuga di Enea in Etruria per quanto attiene sia alle ceramiche greche importate, sia alle opere di produzione locale si veda Galinsky, p. 122 sgg.; LIMC, Aineias, passim. Circa l’inizio della tradizione,

che deve farsi risalire ancora alla fine del vii sec. a.C., molto significativa è la scena che compare sull’oinochoe del Pittore della Sfinge Barbuta, ora nella Bibliothèque Nationale di Parigi, opportunamente valorizzata da F. Zevi, Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi e Roma, Atti dell’Incontro di Studio in onore di M. Pallottino (Roma, 1979), Roma 1981, p. 148 sgg. La stessa in LIMC, Aineias, p. 388, n. 93a. Recentemente su questa problematica è tornato S. Bruni, Una Ilioupersis etrusca, in I. Colpo, I. Favaretto, F. Ghedini (a cura di), Iconografia 2006. Gli eroi di Omero, Atti del Convegno Internazionale (Taormina, 2006), Roma, 2007, p. 61 sgg.; di grande interesse infine il recentissimo lavoro di G. Colonna, Il mito di Enea tra Veio e Roma, cit. infra a nota 43. 14 A meno che non si voglia ricorrere all’ipotesi riduttiva di un guerriero generico, il che non mi sembra confacente al carattere compendiario della composizione e alla necessità che le rappresentazioni siano portatrici di un preciso messaggio. Da escludere anche una eventuale interpretazione della figura come Ascanio, dal momento che in tutte le rappresentazioni che includono il fanciullo viene accentuata decisamente la differenza di statura tra il padre e il figlioletto. 15 Verg., Aen., ii, 318-321, trad. di E. Cetrangolo (citazione tratta da Publio Virgilio Marone, Tutte le Opere, con saggio di A. La Penna, 4a ed.,

Ed ecco che Panto scampato ai dardi dei Greci, Panto Othriade, sacerdote del tempio di Apollo, verso di me come pazzo si avventa di corsa: con una mano tiene gli Dei, vinti simulacri, e trascina con l’altra il nipote fanciullo.15

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Fig. 7. Roma, Musei Capitolini. Tabula Iliaca, part. del riquadro centrale (da N. Horsfall, 1979).

Ora questo episodio, assente altrimenti nella, pur cospicua, tradizione figurata della fuga da Troia, è stato da tempo riconosciuto nel riquadro centrale della Tabula Iliaca capitolina (Fig. 7) e in particolare nella scena dell’incontro che si svolge all’interno delle mura della città tra Enea e un personaggio nell’atto di porgergli la cista che contiene i sacra.16 Come è noto, nella sezione della Tabula dedicata a Enea questa è la prima rappresentazione di una serie di tre (Fig. 8), intese come cronologicamente conseguenti, dal momento che alla consegna dei sacra fanno seguito l’uscita dalla porta della città dove Enea reca seduto sulla spalla sinistra il padre che regge la cista mentre tiene per mano il piccolo Ascanio e infine l’imbarco dei tre, scortati dal nocchiero Miseno.17 Rispetto al suo modello di riferimento, verosimilmente un album di cartoni dove la storia era illustrata dettagliatamente nelle singole tappe, il nostro modesto coroplasta, che ha evidenti esigenze di brevità e di concisione, compendia in una sola composizione due episodi, quello della consegna della cista e quello dell’uscita dalla porta della città, estraendo da ambedue le figure essenziali. Firenze, 1975). Il sacerdote Panto è conosciuto da Omero, che lo rappresenta tra gli anziani consiglieri di Priamo (Hom., Il., iii, 146). Convincente l’osservazione di N. Horsfall, Stesichorus at Bovillae? «JHS», xcix 1979, p. 39 sgg., circa la matrice virgiliana della rappresentazione; cfr. anche Id., Some problems in the Aeneas Legend, «ClQ», n.s., xxix, 1979, p. 375 sg. 16 Sulla Tabula Capitolina e su questa scena cfr. V. Mancuso, La “Tabula Iliaca” del Museo Capitolino, «MemLinc», s. 5, xiv, 1911, p. 662 sgg., spec. p. 714 sgg.; A. Sadurska, Les Tables Iliaques, Warszawa 1964, p. 24 sgg., spec. p. 29, tav. i; sulla derivazione virgiliana della scena cfr. N. Horsfall, art. cit. (nota prec.), p. 39 sgg., tav. ii. Più recentemente cfr. LIMC, Aineias, p. 389, n. 112; R. Cappelli, La Tabula Iliaca Capitolina, in Roma 2000, p. 198. Sulla funzione del monumento assai interessanti le considerazioni di A. Rouveret, Histoire et imaginaire de la peinture ancienne, Rome, 1989, p. 354 sgg. Da escludere anche l’identificazione del personaggio che consegna ad Enea la cista come Anchise, il che comporterebbe una discrasia interna al rilievo, giacché nella successiva scena dell’imbarco è Anchise stesso che porta la cista. 17 Oltre alle opere citate alla nota precedente si veda R. Brilliant, Visual Narratives. Storytelling in Etruscan and Roman Art, Ithaca-London, 1984, p. 53 sgg., tav. 2.i, fig. 2.i. Più recentemente si veda l’operetta La Tabula Iliaca di Bovillae, a cura di D. F. Maras, Boville, 1999, utile soprattutto per il raffronto tra le singole scene e le relative fonti letterarie. Nessun contributo originale nel recentissimo lavoro di P. Puppo, Le Tabulae Iliacae: studio per una riedizione, in Immagine e immagini della Sicilia e di altre isole del Mediterraneo

In conclusione, la piccola lastra che riuscì incomprensibile al Gori doveva rappresentare Enea che tiene sul dorso Anchise e nello stesso tempo tende il braccio sinistro per prendere la cista che gli viene consegnata dal sacerdote di Apollo. Lo stesso procedimento compendiario egli ha applicato, come si è visto sopra, nel realizzare il rilievo con Paride, dove, dovendo per omogeneità compositiva utilizzare solo due delle numerose figure offertegli dal repertorio delle urne, egli sceglie, oltre al protagonista, la figura femminile protettrice come maggiormente funzionale al messaggio che si vuole in chiave positiva. Il confronto con la scena della Tabula Capitolina conferisce, sempre che la trafila da noi ricostruita sia attendibile, alle due terrecotte alcuni connotati precisi: dal punto di vista della cronologia un inquadramento in età augustea,18 forse anche non avanzata,19 e dal punto di vista della temperie culturale il clima di esaltazione del potere imperiale e di omaggio alla dinastia giulio-claudia che si diffonde in questi anni in numerose città della penisola italica20 e dell’Etruria e che trova a Volterra una manifestazione prestigiosa nella fondazione del teatro,21 tanto più che non di una fondazione qualsiasi si trattò, bensì di un’opera di evergetismo voluta da due antico, Atti del convegno (Erice, 2006), a cura di C. Ampolo, Pisa 2010, p. 829 sgg., che tuttavia presenta un aggiornamento completo del corpus dei monumenti e della bibliogafia. 18 Nel clima di un rinnovato contatto con l’ambiente ellenico potrebbero rientrare anche alcuni particolari che sono propri di quella tradizione iconografica, quali la cecità di Anchise e la sua collocazione sul dorso del figlio anziché, come di norma in ambito italico, in posizione seduta sulla spalla. Per Anchise cieco condotto per mano dal figlio, versione che compariva sulla metopa 28 del lato settentrionale del Partenone, cfr. Galinsky, p. 56, figg. 41, a-b, 41, c.; (= LIMC, Aineias, p. 390, n. 155 sg.); Fuchs, p. 619 sg., figg. 5-6. Per Anchise posto «a cavalluccio», cfr. LIMC, Aineias, p. 386 sg., n. 59 sgg.; Fuchs, p. 615 sgg., figg. 2-3, 7-9. 19 Nel senso di una cronologia relativamente alta dovrebbe deporre anche il legame sul piano iconografico della lastra con Paride con la tarda produzione delle urne. Quanto alla Tabula Capitolina il riferimento tradizionale è alla data di pubblicazione dell’Eneide (19 o 18 a.C.), benché sappiamo che alcuni Canti come il ii, il iv, il vi erano stati letti pubblicamente da Virgilio stesso al cospetto di Augusto nel 23 o 22 a.C. Su tutto questo cfr. A. La Penna, in op. cit. (nota 16), pp. lvii, ic. 20 In generale si veda P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Torino, 1989, p. 335 sgg. 21 Sul monumento si veda da ultimo la monografia curata da M. Munzi, N. Terrenato, Volterra. Il teatro e le terme, Firenze, 2000, che accoglie diversi saggi su diversi aspetti del problema, nonché la bibliografia completa. Sulle fondazioni teatrali di età augustea nel distretto settentrionale

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Fig. 8. Tabula Iliaca Capitolina, disegno del riquadro centrale (da R. Brilliant, 1984).

personaggi della gens Caecina,22 potente famiglia dell’aristocrazia volterrana precocemente trasferitasi a vivere a Ro-

ma ma non per questo distaccatasi da latifondi, clientele, tradizioni religiose della sua patria di origine.23

dell’Etruria cfr. G. Ciampoltrini, ‘Municipali ambitione’. La tradizione locale negli edifici per spettacolo di Lucca romana, «Prospettiva», 67, 1992, p. 39 sgg.

più vicina a quella del mandato dell’altro console (cfr. M. Munzi, Due bolli dei Caecinae dal teatro di Volterra, in Epigrafia della produzione e della distribuzione, Actes de la vii Rencontre franco-italienne, Roma 1994, p. 385 sgg.). Come è noto, deduciamo questo atto di evergetismo dall’epigrafe dedicatoria che fu rinvenuta durante gli scavi editi da E. Fiumi, Volterra. Scavi nell’area del teatro romano degli anni 1950-1953, «NSc», 1955, p. 114 sgg. e in part. p. 123 sg., fig. 9 bis. Per le integrazioni successive dell’epigrafe che hanno completato i titoli dei due personaggi consentendone l’identificazione storica si veda O. Luchi, Per la storia del teatro romano di Volterra, «Prospettiva», 8, 1977, p. 40 sg. e da ultimo A. Pizzigati, Il teatro romano di Volterra: nuovi elementi epigrafico-prosopografici dall’iscrizione scenica dei Caecinae «ParPass», lii, 1997, p. 124 sgg. 23 P. Hohti, Aulus Caecina the Volaterran, «ActaInstRomFin», v, 1975, p. 409 sgg.; G. Capdeville, I Cecina e Volterra, in Aspetti della cultura di Volterra

22 Si tratta di A. Caecina Severus e di C. Caecina Largus, figli ambedue di un Aulo e consoli. Mentre sull’dentità di A. Caecina Severus, console dell’1 a.C., non sussiste alcuna incertezza, assai più complesso si presenta il problema dell’identificazione di C. Caecina Largus. Poiché è impossibile identificare il nostro personaggio con l’omonimo che fu console nel 42 d.C. a causa della compresenza nell’iscrizione con l’altro Caecina, le soluzioni prospettate più recentemente dagli studiosi sono due: o si tratta del personaggio altrimenti designato come C. Silius Caecina Largus che fu console nel 13 d.C. (Pizzigati), oppure, con minore probabilità, si tratta di un personaggio rimasto non registrato, che possiamo attribuire ad un anno per il quale non siano attestati i consoli suffetti, come ad es. il 13 d.C., quale data

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Fig. 9. Schema ricostruttivo della decorazione del Sacello Iliaco a Pompei (da R. Brilliant, 1984).

Ma se la vicenda dei Caecinae è rappresentativa di un sentimento più diffuso e condiviso, come indica l’atto stesso della loro donazione alla comunità di un monumento esibente ben quattro ritratti della famiglia giulio-claudia, dobbiamo supporre l’esistenza a Volterra di un più largo ceto sociale, composto almeno in parte di esponenti della vecchia aristocrazia,24 ideologicamente e politicamente orientato in senso filoromano, ma nello stesso tempo conservatore e orgoglioso delle tradizioni nazionali. Il teatro stesso fu costruito nel cuore di un quartiere suburbano abitato verosimilmente da questo ceto, composto di ricche domus delle quali, pur in assenza di ricerche sistematiche, sono affiorati ripetutamente resti anche di notevole pregio, come mosaici.25 È proprio in un contesto di questo genere, una domus di buon livello abitata da una famiglia di ascendenza etrusca, che vedrei ben collocati i nostri due rilievi, giacché le piccole dimensioni, la qualità artigianale più che modesta e, non ultimo, il richiamo alla tradizione locale delle urne inducono ad escludere decisamente la pertinenza ad un edificio pubblico. In coppia o inserite in una serie più numerosa che

raccontasse la vicenda di Roma come novella Troia le nostre terrecotte potevano abbellire un vano domestico,26 magari affisse nella parte alta della parete, da dove potevano sfuggire all’occhio dell’osservatore le sciatterie, le imprecisioni, le manchevolezze del modellato. Sistemazioni di questo genere ci sono note a Pompei, ad es. nelle storie dipinte nel criptoportico dell’omonima casa ovvero nel fregio plastico del Sacello Iliaco (Fig. 9),27 ma non dovevano essere del tutto sconosciute in Etruria, se già un secolo prima nella vicina Vetulonia un fregio fittile che narrava la storia degli Argonauti era stato posto a decorare un vano interno di una casa privata.28 Ora l’ipotesi che si è appena prospettata, rimasta purtroppo non verificata al momento in base alle nostre ricerche d’archivio, non appare tuttavia priva di verosimiglianza, dal momento che già dai primi mesi del 1738 risulta che Mario Guarnacci fece effettivamente condurre scavi nella zona limitrofa al teatro dalla parte settentrionale, dove sulla scia del Gori,29 egli riteneva che potesse giacere l’altra estremità del presunto anfiteatro.30 Qui, in località Ortino (Fig. 10), come attestano concor-

etrusca, Atti del xix Convegno di Studi Etruschi e Italici (Volterra, 1995), Firenze 1997, p. 253 sgg., dove tutta la documentazione epigrafica sia etrusca che latina è raccolta e trattata analiticamente.

renze del tema iliaco a Pompei si veda D. Tomei, Le saghe troiana e romana nella pittura pompeiana, «Ostraka», xvi, 2, 2007, p. 409 sgg. 28 M. Cygielmann, Casa privata e decorazione coroplastica: un ciclo mitologico da Vetulonia, «Ostraka» ii, 2, 1993, p. 369 sgg. 29 A. F. Gori, Museum Etruscum, cit. (nota 7), p. 59 sgg., tav. viii. 30 Deduciamo queste notizie dal carteggio che intercorse tra Mario Guarnacci, suo fratello Giovanni preposto della chiesa volterrana e A. F. Gori, che procurò ai suoi amici l’autorizzazione da parte delle autorità granducali a condurre scavi nell’area del teatro: cfr. G. Cateni, Vallebuona: la scoperta, in Il teatro Romano di Volterra, a cura di Idem, Firenze 1993, p. 15 sgg. Ma se questo avveniva tra l’ottobre e il novembre 1738, è pur vero che le imprese dei fratelli Guarnacci in quel sito erano già in corso almeno dall’inizio dell’anno, se in una lettera del 17 gennaio 1738 il Gori scrisse: «Non vedo l’ora di aver qualche nuova buona di qualche suo bel ritrovamento allo scavo dell’Anfiteatro» (bgv, ms. 163, filza 2) e poco dopo, in una missiva del 3 marzo, egli insisteva quasi con le stesse parole: «Non vedo l’ora di aver qualche buona nuova dello scavo fatto in Volterra all’Anfiteatro, onde ardentemente ne bramo qualche nuova» (bgv, c.s.). Poiché, come deduciamo dallo stesso epistolario, nel periodo immediatamente successivo al novembre 1738 il progetto di scavo presso il teatro subì una battuta d’arresto che si prolungò per diversi anni per l’opposizione delle autorità locali (cfr. G. Cateni, Temi di archeologia urbana nel carteggio Gori-Guarnacci (1731-1740), in Mario Guarnacci, cit. [nota 5], p. 118 sgg.), il primo intervento di scavo in loc. Ortino dovette svolgersi in un periodo relativamente ristretto, da gennaio a ottobre 1738.

24 Occorre comunque ricordare che nella società volterrana del i sec. a.C. vi era una componente di coloni, appartenenti ad una deduzione di età triunvirale o augustea della quale sfuggono quasi del tutto le circostanze storiche, ma che è attestata inequivocabilmente da un’iscrizione lapidaria: cfr. M. Munzi, N. Terrenato, La colonia di Volterra. La prima attestazione epigrafica ed il quadro storico e archeologico, «Ostraka», iii, 1, 1994, p. 31 sgg. Una committenza di questo tipo mi parrebbe comunque da escludere per le nostre terrecotte. 25 Sul problema si veda la sintesi di M. Munzi, La città di Augusto, in M. Munzi, N. Terrenato, op. cit. (nota 21), p. 191 sgg. Per un rinvenimento relativamente recente nella zona cfr. M. Cristofani, Abitazione romana presso i macelli pubblici, «NSc», 1973, suppl., p. 273 sgg. 26 Sul fenomeno dell’integrazione a livello privato dell’ideologia dell’esaltazione di Roma e del potere imperiale si veda P. Zanker, Immagini come vincolo: il simbolismo politico augusteo nella sfera privata, in Roma 2000, p. 84 sgg. 27 R. Brilliant, op. cit. (nota 17), p. 62 sgg. Per la descrizione di questi ambienti cfr. I. Bragantini, Casa del Criptoportico e Casa del Sacello Iliaco, in Pompei Pitture e Mosaici, i, parte i, Roma 1990, rispettivamente p. 193 sgg., figg. 13-48, e p. 280 sgg., figg. 20-43. Per la raccolta sistematica delle occor-

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Fig. 10. Volterra, zona circostante al teatro. Pianta delle emergenze archeologiche: in alto a destra la loc. Ortino (da E. Fiumi, 1955).

demente le fonti antiquarie del xviii e xix secolo,31 egli si imbattè nelle strutture di quella che si ritiene essere stata una domus con incluso un impianto termale databile in età augustea e ne trasse per la sua collezione una porzione di

mosaico (Fig. 11) che tuttora si osserva nella sala xv dell’attuale Museo, corredata da una iscrizione che la dichiara proveniente dalle terme «prope amphiteatrum» e trasportata nel 1761.32 Ora, sulla base di questa iscrizione si è ingenerato

31 Per la localizzazione del sito cfr. E. Fiumi, art. cit. (nota 22), p. 114 sg., fig. 1. Della cospicua letteratura antiquaria sul rinvenimento si citano i contributi di maggiore interesse: A.F. Giachi, Saggio di ricerche storiche sopra lo stato antico e moderno di Volterra, 2 ed., Firenze-Volterra-Cecina, 1887, p. 99 sg.; A. Cinci, Guida di Volterra, Volterra 1885, p. 20. Molto interessante la testimonianza tramandata dall’erudito lucchese Sebastiano Donati nell’operetta manoscritta Itinerario di Roma di Sebastiano Donati nel 1750. L’Autore, che in realtà visitò Volterra nella primavera del 1761 e nell’autunno del 1765, scrive: «Verso Levante s’entra nell’Orto del Salvadori, ove è un quadrato di muro tutto fatto di calcistruzzo di venti braccia incirca per lato, ed altri pezzi di muro fuori del quadrato fatti di d(ett)o calcistruzzo. Quivi M(onsigno)r Mario ritrovò un pezzo di mosaico di lun-

ghezza di 12 palmi, e 6 di larghezza incirca» (Lucca, Bibl. Statale, ms. 1202, c 137v.). 32 Il mosaico, che non mi risulta pubblicato e che meriterebbe maggiore attenzione, si trova inserito nel piano pavimentale della sala xv dove il pannello, estrapolato evidentemente da un contesto maggiormente esteso, è inquadrato da una cornice di marmo che reca l’iscrizione: MUSIVUM. OPUS. ETRUSCUM. EX. THERMIS. PROPE. AMPHITHEATRUM. VOLATERRANUM. EFFODIT. AC. INTEGRUM. HUC. INVEXIT. MARIUS. GUARNACCIUS. SIGNATURAE. IUSTITIAE. XIIVIR. ET. SENIOR. AN. MDCCLXI. All’epigrafe originaria, risalente al primo trasferimento del mosaico (1761) nella sede del Museo della famiglia Guarnacci, è stata apposta nel 1876, epoca del trasferimento nella sede attuale, un’iscrizione redatta in

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Fig. 11. Volterra, Museo Guarnacci. Pannello di mosaico da loc. Ortino.

nella letteratura corrente un piccolo equivoco, secondo il quale il rinvenimento, e non solo il distacco del monumento, ebbe luogo nel 1761.33 Dal momento però che il mosaico, la cui scoperta fece scalpore tra gli eruditi del tempo, è menzionato in una lettera del Gori a Mario Gurnacci datata 11 ottobre 1739,34 abbiamo la certezza che all’epoca il mosaico e altri monumenti connessi, ivi comprese possibilmente le nostre due terrecotte, provenienti dallo scavo della domus si trovavano già nella collezione del Monsignore. In conclusione, tutti gli indizi concorrono a suffragare

l’ipotesi che le due terrecotte presenti nella collezione Guarnacci nel 1744 provenissero dallo scavo della domus romana in loc. Ortino, anche se niente garantisce la certezza della nostra supposizione.35 Rimane comunque il fatto – e in questo sta il mio modesto contributo – di avere riscoperto e portato alla luce l’esistenza nella Volterra di età augustea di un programma figurativo di esaltazione troiana e romana,36 che fu creato certamente attingendo alle tradizioni artigianali locali ormai in declino,37 ciò che costituisce a Volterra un caso unico

caratteri minori che menziona i successivi traslochi del monumento: dapprima nella casa dei Guarnacci, quindi (1789) nel Palazzo dei Priori, successivamente (1876) nella sede attuale. Un’interessante descrizione delle operazioni di distacco e rimontaggio del pannello si legge nell’opera di S. Donati, Ad novum Thesaurum veterum insciptionum Cl. V. Ludovici Antonii Muratorii Supplementum, Lucae, mlcclxv, p. v sgg. dove è riportata una lettera del 15 marzo 1765 scritta all’Autore da Mario Guarnacci, che parla dell’avvenimento come di un fatto passato, ma non ne specifica purtroppo la data: «scalpro caesum, et ad formam quadrilateram redactum… ut integrum in domum inveheretur, ipsius domus parietes abscidimus». Per la sintassi compositiva del mosaico, alquanto generica, composta di elementi rettangolari bianchi e neri marginati e disposti a mo’ di tessitura isodoma e a squadra, si veda M. E. Blake, The Pavements of the Roman Buildings of the Republic and Early Empire, «MemAmAc», viii, 1930, pp. 99, 109, tav. 27, 1-3, con datazione alla metà del i sec. a.C.

che si apprestava a visitare Volterra, allo scopo evidentemente di «catturarne» il parere, ma senza esporsi. 35 In questo senso depone anche una banale considerazione di verosimiglianza, dal momento gli altri due siti archeologici nei quali operavano in questi anni gli scavatori al servizio del Guarnacci, vale a dire la cisterna colonnata dell’acropoli e gli ipogei con urne dei terreni del Canonicato alla necropoli del Portone, difficilmente avrebbero potuto restituire materiali del tipo delle nostre due terrecotte. 36 Il fenomeno, pur con i suoi aspetti peculiari, appare in diretta sintonia con il clima culturale di Roma, dove a partire dall’età cesariana il tema iliaco conosce un forte rilancio sul piano sia pubblico che privato. Se Giulio Cesare aveva assunto Enea a progenitore della gens Giulia, è con Augusto che il tema iliaco assume la funzione di un manifesto politico, quando il gruppo statuario di Enea con il padre sulla spalla e il figlioletto per mano fu eretto nella nicchia centrale dell’esedra settentrionale del Foro intitolato allo stesso imperatore, in posizione specularmente contrapposta alla statua di Romolo. Su questo, si veda P. Zanker, Forum Augustum, Tübingen, 1968; Galinsky, p. 141 sgg.; Fuchs, p. 624 sgg.; LIMC, Aineias, pp. 390, 396, n. 146; da ultimo, R. Cappelli, Questioni di iconografia, in Roma 2000, p. 151 sgg. 37 È possibile che il programma di opere pubbliche realizzato in età augustea abbia comportato anche una qualche momentanea rivitalizzazione

33 Cfr. ad esempio anche E. Fiumi, art. cit. (nota 22), p. 114. 34 Nella lettera il Gori così si esprime: «Desidero di sentire che cosa pensa del pavimento di mosaico e della stanza di Castello» (bgv, ms. 163). Il soggetto del discorso è Scipione Maffei e il contesto è quello del consueto clima di rivalità e quasi di spionaggio scientifico che si era creato tra i due studiosi, tanto che il Gori prega l’amico Guarnacci di mostrare il mosaico al Maffei

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di continuità, almeno sul piano delle manifestazioni figurative,38 in un panorama altrimenti caratterizzato da una netta cesura rispetto al passato e da un assoluto abbandono del repertorio tradizionale, conseguente ad un profondo mutamento del gusto. Ciò è dimostrato con tutta evidenza dalla scelta, quale momento iniziale della vicenda, dell’episodio di Paride rifugiato all’altare, il cui schema doveva conservarsi nel patrimonio figurativo di quanto rimaneva delle botteghe artigiane della grande Volterra ellenistica. Paride rifugiato all’altare non figura infatti di norma in quest’epoca nelle rappresentazioni semplici o complesse del tema iliaco, a partire dalla Tabula Capitolina con gli altri simili esemplari, dove il figlio di Priamo è bensì presente, ma impegnato in episodi diversi39 e dove l’inizio della narrazione rispecchia il poema omerico con la scena di Crise che invoca Apollo Smintheo stando davanti al tempio del dio. A maggior ragione il recupero da parte del nostro modesto scultore di uno schema iconografico del repertorio delle urne potrebbe non essere casuale, ma voluto e carico di una precisa valenza ideologica, tanto più in un momento nel quale l’avvento delle prestigiose maestranze urbane come quelle che operarono nella costruzione del teatro portava nuovi saperi nel modo di fare arte, e un drastico rinnovamento nell’organizzazione artigianale.40 Quale poté essere dunque il messaggio che fu affidato a questa rappresentazione iliaca declinata, per dire così, in chiave locale, e in chiave domestica? Senz’altro un messaggio di esaltazione filoromana e di fedeltà al nuovo corso politico, come si conviene ad una città finalmente pacificata dopo tante traversie.41 E tuttavia non escluderei – soprattutto nell’eventualità di una committenza d’élite – un qualche imdelle produzioni coroplastiche locali, come indica il rinvenimento durante gli scavi del complesso monumentale del teatro sia di tegole con bollo recante i nomi di A. Caecina Severus e di C. Caecina Largus, sia di una serie di antefisse a palmetta e a pannello semicircolare che furono recuperate nel 1968 in corrispondenza dell’abside del braccio orientale della porticus pone scaenam. Su questi rinvenimenti si veda nell’ordine: M. Munzi, op. cit. (nota 22), p. 385 sgg.; per le antefisse cfr. G. Monaco, in Rassegna degli scavi e delle scoperte, «StEtr» xxxvii, 1969, p. 275; E. Fiumi, Volterra. Il Museo etrusco e i monumenti antichi, Pisa, 1976, p. 20, fig. 11. 38 Il dato che emerge dalle produzioni figurative e artigianali non deve essere assolutizzato e indebitamente trasposto sul piano più generale della situazione ideologico-religiosa e sociale, che si presenta invece come una realtà complessa, caratterizzata da notevoli tratti di conservatorismo (uso prolungato della lingua etrusca, recupero della dottrina religiosa nazionale etc.). Per un bilancio su questi problemi cfr. M. Bonamici, Un affresco di i Stile dal santuario dell’acropoli, in Aspetti della cultura di Volterra etrusca, cit. (nota 23), p. 315 sgg., e N. Terrenato, Vallebuona e la romanizzazione di Volterra, in M. Munzi, N. Terrenato, op. cit. (nota 21), p. 195 sgg. 39 Sulle Tavole Iliache Paride figura nelle seguenti scene: duello con Menelao, duello o invito a duello con Ettore, battaglia presso le navi, morte per mano di Filottete: su tutto si veda R. Hampe, I. Krauskopf, in LIMC, i, 1981, p. 515, n. 83; p. 517, nn. 88-89; p. 520, n. 103, s.v. Alexandros. 40 Sulle manifestazioni figurative nella Volterra di età augustea si veda A. Pizzigati, Il teatro romano di Volterra: maestranze urbane e locali, «AnnPisa», s. 3, xxv, 4, p. 1413 sgg. 41 G. Ciampoltrini, Note sulla colonizzazione augustea nell’Etruria settentrionale, «sco», xxxi, 1981, p. 41 sgg. Sulla situazione politico-sociale di Volterra nel i sec. a.C. cfr. N. Terrenato, art. cit. (nota 38), p. 195 sgg. 42 Liv., ii, 49 sgg., 54 (concessione della tregua, con imposizione di tributi in grano e in denaro). Quanto al carattere degli scontri, è illuminante

plicito richiamo all’antico sentimento della fratellanza in nome della comune origine troiana. Non diversamente era accaduto a Veio oltre quattro secoli prima, quando, nel cuore di un conflitto che Livio definisce «di ladrocinio» («latrocinii») più che di guerra e che culminò nell’episodio dei Fabii con la conseguente pesantissima tregua,42 alle statuette di Enea con Anchise seduto sulla spalla era stato affidato un analogo messaggio di monito contro una lotta fratricida e di invito alla concordia e alla pacificazione.43 Ma, tornando alle nostre due terrecotte, c’è di più, forse, in un frangente culturale come quello che presiede alla composizione del poema virgiliano, ed è la rivendicazione da parte etrusca, e volterrana, di una più antica ascendenza troiana, se è vero che quello di Enea è un ritorno alla patria dei suoi avi44 e se ancora pochi decenni prima i fuoriusciti chiusini al seguito di Marce Unata nel delimitare i campi nella loro nuova terra africana non avevano esitato a qualificare se stessi come «figli di Dardano».45 Nel corso del lavoro si adottano le seguenti abbreviazioni: bgv = Volterra, Biblioteca Guarnacci. bmf = Firenze, Biblioteca Marucelliana. Galinsky = G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily, and Rome, Princeton N.J., 1969. LIMC, Aineias = F. Canciani, in LIMC, i, 1981, p. 380 sgg., s.v. Aineias. Fuchs = W. Fuchs, Die Bildgeschichte der Flucht des Aeneas, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, a cura di H. Temporini, i, 4, Berlin-New York, 1973, p. 615 sgg. Roma 2000 = Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Catalogo della Mostra (Roma, 2000), a cura di A. Carandini, R. Cappelli, Roma, 2000. la definizione dello stesso storico: res proxime formam latrocinii venerat (Liv., ii, 48, 6). 43 La problematica di questo gruppo fittile, attestato in sei repliche provenienti dai santuari del Portonaccio e di Campetti, è riassunta da L. Vagnetti, Il deposito votivo di Campetti a Veio, Firenze 1971, pp. 88, 181, tav. xlviii, che propone una datazione nella prima metà del v sec. a.C.; successivamente si veda LIMC, Aineias, pp. 338, 395, n. 96, dove si sostiene una datazione alta, così come la maggioranza degli studiosi. Alquanto isolata rimane la datazione ai primi decenni del iv sec. a.C. avanzata da M. Torelli, Recensione a L. Vagnetti, «DialA», 1973, 2-3, p. 400, che tuttavia viene seguita recentemente da M. Menichetti, I documenti figurati della fuga di Enea, in Roma 2000, p. 193. A favore della cronologia alta anche G. Colonna, Il mito di Enea tra Veio e Roma, «AnnFaina», xvi, 2009, p. 63, nota 70, che ipotizza l’esistenza a Veio di un culto di Enea quale eroe fondatore, rimarcando nella vicenda l’aspetto della rivendicazione dell’origine troiana da parte veiente in funzione antiromana. Va da sé che l’interpretazione che qui si propone si basa sulla cronologia alta delle statuette. Si potrebbe infine dire che quello delle nostre statuette, ex voto esposti in luoghi di culto collettivi, rappresenti il più antico (o uno dei più antichi) caso di uso politico del mito troiano, un fatto destinato a ripetersi più volte nella storia e da più parti: cfr. in generale E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Firenze 1993, spec. p. 91 sgg. 44 Sulla leggenda di Dardano originariamente etrusco di Cortona si veda più recentemente la sintesi di L. Braccesi, Il mito di Enea in Occidente, in Roma 2000, p. 60 sgg. 45 Si allude ai ben noti cippi della Tunisia, sui quali dopo il lavoro di J. Heurgon, Inscriptions étrusques de Tunisie, «crai», 1969, p. 526 sgg., è di fondamentale interesse per l’interpretazione il lavoro di G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, «ArchCl», xxxii, 1980 (1983), p. 1 sgg. Difficilmente sostenibile per ragioni inerenti alle caratteristiche paleografiche la datazione alta proposta da M. Sordi, C. Mario e una colonia etrusca in Tunisia, «ArchCl», xliii, 1991, p. 363 sgg.

U N NU OVO S ANTUAR IO DE L T E RRI TO RI O F I E SO LANO. S U U N R ITROVAM ENTO DI E T À RI NASCI ME NTALE A S AN C AS CI ANO I N VAL DI P E SA Stefano Bruni

T

ra i monumenti antichi corredati di iscrizioni etrusche segnalati dal domenicano Santi Marmocchini nel suo Dialogo in deefensione della lingua toschana, scritto nel 1544, quando il frate, celebre per una fortunata traduzione della Bibbia, rientrato da pochi anni nella Firenze del primo duca di casa Medici, è decano della facoltà di teologia e attivo membro della neonata Accademia Fiorentina,1 prima della nota statua da San Martino alla Palma,2 alla c. 15 v. è ricordato che «Fu fuor di San Casciano a riscontro allo Spedale della

costa in una vigna che faceivi fare Giovanni Borromei si trovò una statua di metallo alta un mezzo braccio che haveva una fascia di mirabile bellezza e in capo una ghirlanda con foglie d’ellera dove erano intersean[†: ti] campanelle grosse a u[†: so] di more selvatiche di quelle che fanno nelle stoppie haveva sopra il braccio sinistro una pelle colla corni[†: ci]na, ma il piè desstro per la antiquita era guasto. Trovovinsi ancora una gran medaglia di Jano, e una secchiolina, e certe pietre scritte con lettere Etrusche, le quali lasciate al sereno, si perderono».3

1 L’operetta si conserva, manoscritta, nel fondo magliabechiano della Biblioteca Nazionale di Firenze, ed è stata valorizzata nel 1977 da Marina Martelli e in questi ultimi anni da più parti citata. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, fondo Magliabechiano, ms. classe xxviii, codice 20. Il manoscritto, sottoposto in anni recenti ad un accurato restauro, presenta alcune piccole lacune nelle carte, dovute a tarli; già appartenuto a Anton Francesco Marmi, come è indicato nel frontespizio, dove è scritto (di mano dello stesso Marmi?) «questo manoscritto fu da me comprato nell’eredità del cavaliere Sisto Aldegais con altri, ed è stimatissimo del Cavaler Anton Francesco Marmi. Santi Marmocchini fu dottissimo nella lingua, e tradusse la Bibbia in Toscano era di San Casciano, stette in San Marco». Per il Marmi si veda M. Mannelli Goggioli, La Biblioteca Magliabechiana. Libri, uomini, idee per la prima biblioteca pubblica a Firenze, Firenze, 2000, p. 19 sg., e la bibl. cit. a nota 20. La composizione del manoscritto è stata collocata tra il 1541 e il 1545, presunto anno di morte del domenicano, che in realtà morì in un ospizio a San Casciano Val di Pesa, sua terra di origine, tre anni più tardi, nel 1548 (cfr. L. Saracco, in Dizionario biografico degli Italiani, 70, 2008, p. 632, s.v. Marmocchino, Santi), cfr. M. Martelli, Un disegno attribuito a Leonardo e una scoperta archeologica degli inizi del Cinquecento, «Prospettiva», 10, 1977, p. 59 e nota 10; Ead., in Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei, Catalogo della Mostra (Firenze, 1980), Firenze, 1980, p. 22, n. 11; tuttavia la data della sua redazione è precisata alle cc. 9 v - 10 r: «…usque ad presentem annum 1544…». Su quest’opera, in cui, combinando la tradizione anniana dei Commentaria super opera diversorum auctoribus de antiquitatum loquentium (Roma 1498) con le Institutiones Hebraicae del Pagnini (Lione 1526) e il Dictionarium Hebraicum di S. Münster (Basilea 1525), il Marmocchini intendeva dimostrare l’origine della lingua toscana da quella ebraica, per il tramite dell’etrusco, che egli stesso affermava di conoscere, avendolo più volte decifrato, si veda l’importante contributo di L. Saracco, Un’apologia della “Hebraica Veritas” nella Firenze di Cosimo i : il “Dialogo in defensione della lingua thoscana” di Santi Marmocchini, «Rivista di storia e letteratura religiosa», xlii, 2006, p. 215 sg. Sul Marmocchini, celebre ai suoi tempi per una traduzione della Bibbia edita nel 1538 a Venezia dalla stamperia dei Giunti (La Bibia nuovamente tradotta dalla hebraica verita in lingua thoscana per maestro Santi Marmochino... Colle chroniche de tempi dela scrittura... Aggiuntovi il terzo libro de Machabei non più tradotto in volgare, in Vinegia appresso gli heredi di Luc’Antonio Giunti nell’anno mdxxxviii nel mese di aprile), ristampata anche nel 1545 (La Bibia tradotta in lingua toscana, di lingua hebrea, quanto al testamento vecchio, & di lingua greca qua[n]to al nuovo, oltra le precedenti stampe, di nuouo riueduta, corretta, et emendata da molti errori, & mutati alquanti vocaboli non rettamente tradotti, & limati con diligentia secondo il comune parlar consueto a tempi nostri, seguendo la propria verita per il reverendo maestro Santi Marmochini, in Vinegia: appresso gli heredi di Luc’Antonio Giunti mcxlv nel mese di giugno), su cui cfr. in particolare Th. Mc Crie, History of the Progress and Suppression of the Reformation in Italy in the Sixteenth Century, p. 75 e L. Saracco, Aspetti eterodossi della “Bibbia nuovamente tradotta dalla hebraica verità in lingua thoscana” di Santi Marmocchini: risultati di una ricerca, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», vi, 2, 2003, p. 81 sg., si veda la voce di L. Saracco nel Dizionario biografico degli Italiani prima citata, ed anche J. Quentif, J. Echard, Scriptores ordinis praedicatorum recensiti notisque historicis et critici illustrati, opus quo singulorum vita... referuntur... et ubi habeantur, indicantur: ordinis veri sodales ab alienigenis invasi vindicantur... praemittitur in prolegomenis notitia ordinis qualis est ab an. 1501 ad an. 1720, tum inchoavit Jacobus Quetif, denique absolvit Jacobus Echard, Lutetiae Parisiorum, apud J.B.

Christophorum Ballard et Nicolaum Simart, vol. ii, mdccxxi, p. 124; G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini la quale abbraccia intorno a due mila autori che negli ultimi cinque secoli hanno illustrata co’ loro scritti quella nazione in qualunque materia ed in qualunque lingua e disciplina con la distinta nota delle lor opere, così manoscritte che stampate e degli scrittori che di loro hanno con lode parlato o fatta menzione, opera postuma del Padre Giulio Negri ferrarese della Compagnia di Gesù, Ferrara 1722, pp. 490-491; G. Fontanini, De Antiquitatibus Hortae Coloniae Etruscarum libri tres, ubi praeter historiam Hortanam alia non pauca res Romanas, Italicasque illustrantia proferuntur cum figuris aeri incisis et gemina Appendice monumentorum ex codicibus potissimum Vaticanis in quibus eminet genuimum Decretum Sancti Gelasii i Ponota Max., Editio tertia aucta et recognita, Romae, ex Typografia Rocchi Bernabò ad Forum Sciarra, prostat apud Pagliarinos Bibliopolas mdccxxiii, p. 129; A. F. Gori, Difesa dell’alfabeto degli antichi Toscani pubblicato nel 1737 dall’autore del Museo Etrusco, disapprovato dall’illustrissimo Sig. Marchese Scipione Maffei nel tomo v delle sue Osservazioni letterarie date in luce a Verona, con tavole e figure, in Firenze, per Anton Maria Albizzini, 1742 [ma 1743], p. xxxvi sg.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, tomo vii, parte ii, Venezia 1824, p. 541, nonché più di recente, oltre alle notizie nell’articolo della Martelli sopra citato, si veda O.A. Danielsson, Etruskische Inschriften in handschriftlicher Überlieferung [Skriften Utgivna av K. Humanistika Vetenskaps-Samfundet i Uppasala, 25/3], Upsala-Leipzig 1928, p. 38; G. Cipriani, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze 1980, p. 81 sg.; Idem, Il Tractatus de origine, nobilitate et de excellentia Tuscie di Mariano da Firenze, «StEtr», xlviii, 1980, p. 156; Idem, Ideologia politica e “revival” etrusco, in Le Arti del Principato Mediceo, Firenze 1980, p. 10; Idem, Introduzione, in G. Postell, De Etruriae Regionis originibus, institutis, religione et moribus, Testo, introduzione, note e commento a cura di G. Cipriani, Roma, 1986, p. 15; G. Bartoloni, P. Bocci Pacini, Tentativi di lettura dell’etrusco nella Toscana del Cinquecento: un alfabeto “dal Vasari”, «Annali della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», xxi, 2000, p. 148, fig. 5; Eaed., La divulgazione di scoperte di antichità etrusche a Firenze da Lorenzo a Cosimo i , «ArchCl», lvi, 2005, p. 378 sg.; V. Saladino, Una Venere “etrusca” delle collezioni medicee ed il mito esiodeo della sua nascita, in Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, Pisa-Roma, 2009, p. 801 sg. 2 Per questa statua si veda M. Bonamici, in Artigianato artistico. L’Etruria settentrionale interna in età ellenistica, Catalogo della mostra (VolterraChiusi, 1985), p. 130, n. 156 (con bibl. prec.); Eadem, Il marmo lunense in epoca preromana, in Il marmo nella civiltà romana: la produzione e il commercio, Atti del seminario (Carrara, 1989), Carrara 1989, p. 92 sg.; S. Bruni, Prolegomena a Pisa etrusca, in Pisa, piazza Dante: uno spaccato della storia pisana. La campagna di scavo 1991, ed. S. Bruni, Pontedera, 1993, p. 91, nota 328; M. Bacci, F. Fiaschi, Archeologia a Scandicci. 1. Vent’anni di ricerche sul territorio, Firenze, 2001, p. 43 e figg. a pp. 43-44. 3 Il passo è trascritto, non senza alcuni ‘ammodernamenti’, in F. Buonarroti, Ad monumenta etrusca operi Dempsteriano addita explicationes et conjecturae, in Th. Dempster, De Etruria regali libri vii nunc primum editi curante Thoma Coke Magnae Britanniae Armigero Regiae Celsitudini Cosmi iii Magni Ducis Etruriae, tomo ii, Florentiae, typis Regiae Celsitudinis apud Joannem Cajetanum Tartinum, & Sanctem Franchium, mdccxxiv p. 96. Le explicationes del Buonarroti, tuttavia, furono edite ex Typographia Michaelis Nestenus nel 1726, quando furono immessi sul mercato i due tomi del Dempster. Da questa trascrizione derivano le integrazioni dei punti corrotti del manoscritto originale. Si segnala che, per quanto di qualità piuttosto alta e provvisto di un’iscrizione etrusca, il bronzetto non sembra aver attirato l’attenzione

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Al pari di altri monumenti ricordati dal domenicano, come la «Venere» scoperta a Pistoia e offerta a Lorenzo il Magnifico,4 il bronzetto sarebbe perduto, se non venisse in aiuto una notazione di Anton Francesco Gori, che nella Difesa dell’alfabeto degli antichi Toscani uscita a Firenze per i tipi di Anton Maria Albizzini nel 1743,5 dopo aver ricordato la statua in marmo da San Martino alla Palma ritrovata «poco prima del 1500», afferma che il Marmocchini «Intorno a tal tempo soggiunge: Fuori di S. Casciano (luogo distante da Firenze sette miglia) a riscontro dell’Ospedale della Costa, in una vigna, che faceva fare Giovanni Borromei, si trovò una statua di metallo, alta un mezzo braccio, e questa sembra, che sia quella riportata nel Dempstero tav. xli che è ora in questa Regia Galleria».6 La tavola, incisa da Vincenzo Franceschini7 ed inserita tra le pagine 282 e 283 del primo volume della tarda edizione del De Etruria Regali di Thomas Dempster dopo l’immagine dell’Arringatore (tav. xl) e prima della Kourotrophos Maf-

fei (tav. xlii) e della statua di San Martino alla Palma (tav. xliii), ovvero tra gli esempi della statuaria etrusca, riproduce, traducendolo a bulino con maggior aderenza all’originale e con più compiuta morbidezza e pastosità tonale di quanto non marchi il carattere didattico del gracile e maldestro segno di altre immagini, il disegno della cosiddetta “Eilithyia” delle collezioni medicee, conservata da più di un secolo nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze con il numero di inventario 5538 (Figg. 1-5). La nota del Gori, sfuggita finora all’attenzione della moderna ricerca storica, e il passo del Marmocchini, anch’esso dimenticato, illuminano più da vicino questo celebre monumento e la riacquisita sua provenienza consente così di riprendere un discorso interrotto. Per quanto, come vedremo, non vi siano altre prove documentarie, sull’identificazione del bronzetto ricordato dal Marmocchini con quello mediceo, che una ininterrotta

prima degli inizi del Settecento, non trovandosene menzione nel sommario elenco delle principali epigrafi etrusche al momento note fornito in C. Inghirami, Discorso sopra l’opposizioni fatte all’Antichità Toscane, Diviso in Dodici Trattati, in Firenze, per Amadore Maffi, e Lorenzo Landi, 1645, p. 392 sg., ove sono ricordati, tra i monumenti «che sono nella Galleria del Serenissimo G.D. Di Toscana» solo «la statua di bronzo, e la sfinge …», nonché la Chimera di Arezzo. Se l’identità della ‘sfinge’ al momento ci sfugge, nella ‘statua di bronzo’ è facilmente individuabile il cd. «Arringatore». Quest’ultimo, assieme alla Chimera, sono i soli monumenti iscritti ricordati alcuni anni dopo anche da F. L. Del Migliore, Firenze città nobilissima illustrata. Prima, Seconda, e Terza Parte del primo libro, in Firenze mdclxxxiv, nella Stamp. Della Stella, p. 388, nelle pagine dedicate alle questioni della lingua in seno all’Accademia Fiorentina e all’Accademia della Crusca. Qui è ricordata la pagina delle Vite de’ Vescovi Aretini descritte da Jacobo Burali d’Arezzo Accademico Discorde dall’anno cccxxxvi fino all’anno mdcxxxviii , con l’indice degl’errori occorsi nello Stampare &in particolare di cronologia, come anco delle cose più notorie, Arrezzo, appresso Ercole Gori, 1638, relativa alla scoperta della Chimera, pagina finora apparentemente sfuggita alla storiografia contemporanea.

F. Gori, Difesa dell’alfabeto degli antichi Toscani pubblicato nel 1737 dall’autore del Museo Etrusco, disapprovato dall’illustrissimo Sig. Marchese Scipione Maffei nel tomo v delle sue Osservazioni letterarie date in luce a Verona, con tavole e figure, in Firenze, per Anton Maria Albizzini, 1742 [ma 1743], p. cxcviii; G. C. Bini [ma G. Lami], Nona lettera gualfondiana, «Novelle letterarie», 14, Firenze, 3 aprile 1744, c. 215; G. B. Passeri, In Thomae Dempsteri libros de Etruria Regali Paralipomena, quibus accedunt dissertationes de re nummaria Etruscorum, de nominibus Etruscorum, et notae in tabulas eugubinas, Lucae, typis L. Venturini, mdcclxvii, p. 75; L. Lanzi, Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia per servire alla storia dei popoli, delle lingue, e delle belle arti, in Roma, nella stamperia Pagliarini, mdcclxxxix, vol. ii, p. 447 n. xxx; F. Inghirami, Storia della Toscana compilata ed in sette epoche distribuita, Fiesole, 1843, vol. i, tav. xxx, 3; G. C. Conestabile, Iscrioni etrusche e etrusco-latine in monumenti che si conservano nell’I. e R. Gallaria degli Uffizi di Firenze, Firenze, 1858, etr. 183, tav. lvii, n. 199ter; A. Fabretti, Corpus inscriptionum Italicarum, Torino, 1867, n. 267; CIE, 302; L. A. Milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1912, p. 142; G. Sigwert, Zur etruskischen Sprache. 1: pute, puteus und tul(ar), tullius, «Glotta», viii, 1917, p. 162; M. Buffa, Una statua dedicata alla dea Ilizia, «StEtr», vii, 1933, p. 445 sg., tav. xxiv; A. De Agostino, Statuette e statue femminili con l’attributo della melagrana, «StEtr», x, 1936, p. 91 sg., tav. xxx, 3; J. P. Riis, Tyrrhenika. An archaeological study of the Etruscan Sculpture of the archaic and classical periods, Copenhagen, 1941, p. 92, n. 9; Kunst und Kultur des Etrusker, Catalogo della Mostra (Wien, 1966), n. 293; Arte e civiltà degli Etruschi, Catalogo della Mostra (Torino, 1967), p. 118 n. 328; M. Cristofani, Statue cinerario chiusine di età classica, Roma, 1975, p. 78 sg. e nota 8; TLE2, 734; M. Cristofani, Winckelmann, Heine, Lanzi e l’arte etrusca, «Prospettiva», 4, 1976, p. 20, fig. 10 (ora in Idem, Scripta selecta. Trenta anni di studi archeologici sull’Italia preromana, Pisa-Roma 2001, p. 1228, fig. 10); M. Martelli, Il “mito” etrusco nel principato mediceo: nascita di una coscienza storica, in Le Arti del Principato Mediceo, Firenze, 1980, p. 6; Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei, Catalogo della Mostra (Firenze, 1980), pp. 32 e 35 n. 43 (M. Martelli); Prima italia, Arts italiques du premier millénaire avant J.C., Catalogo della Mostra (Bruxelles, 1980), p. 183 sg. n. 113 (M. Martelli); C. de Simone, M. Cristofani, in Die Göttin von Pyrgi, Archäologische, linguistische und religionsgeschichtliche Aspekte, Atti del colloquio (Tübingen, 16-17 gennaio 1979), Firenze, 1981, p. 150, tavv. xxvii-xxviii; G. M. Della Fina, La collezione di antichità “etrusche” agli Uffizi in un documento del 1761, «StEtr», xlix, 1981, p. 8; T. Dohrn, Die etruskische Kunst im Zeitalter der griechischen Klassik. Die Interimsperiode, Mainz, 1982, p. 68 n. 4, tav. 49; M. Cristofani, in M. Cristofani, M. Martelli, L’oro degli Etruschi, Novara, 1983, p. 20, tav. ix; M. Torelli, La religione, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, ed. G. Pugliese Carratelli, Milano, 1985, p. 202, fig. 123; M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, p. 271, n. 56; R. Olmos, in LIMC, iii, 1986, p. 686, s.v. Eileithyia; S. Bruni, I bronzi antichi della Collezione von Schwarzenberg, «StEtr», lvi, 1989-1990, p. 134, nota 37; S. Bruni, Note in margine all’iconografia di Dionysos in Etruria, in Dionysos. Mito e mistero, Atti del convegno internazionale (Comacchio, 3-5 novembre 1989), Comacchio, 1991, p. 198, nota 9; Les Etrusques et l’Europe, Catalogo della Mostra (Parigi, 1992), p. 380 n. 372; M. Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Firenze, 1992, p. 31 sg.; A. Minetti, La stipe di Castelleccio di Pienza, «Prospettiva», 73-74, 1994, p. 112; A. Maggiani, Vasi attici figurati con dediche a divinità etrusche [RdA, suppl., 18], Roma, 1997, p. 35, n. 4, figg. 108-109; ET, p. 167, as 4.1; D. F. Maras, «REE», lxiv, n. 123; A. Coen, Corona etrusca, Viterbo 1999, p. 138; C. Cagianelli, Bronzi a figura umana, Città del Vaticano, 1999 («Monumenti Musei e Gallerie Pontificie. Museo Gregoriano Etrusco, Cataloghi», 5), p. 40, fig. 11. Tengo a ringraziare, per le fotografie qui riprodotte e tutte le agevolazioni offertemi nell’esame del bronzetto, l’amica Anna Rastrelli e la sig.ra Gabriella Campini del Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

4 Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, fondo Magliabechiano, ms. classe xxviii, codice 20, c. 15 v. Già Gori (op. cit. [nota 1], 1742, p. cxcviii sg.) affermava di non sapere dove la scultura fosse finita. Ipotesi recenti propongono di identificare la statua con quella inv. 14008 del Museo Archeologico Nazionale di Firenze: A. M. Massinelli, Bronzetti e anticaglie della Guardaroba di Cosimo i , Firenze, 1991, p. 106 sg.; L. Beschi, Le sculture antiche di Lorenzo il Magnifico, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, Atti del convegno Firenze 9-13 giugno 1992, Firenze, 1994, p. 306 sg.; G. Bartoloni, P. Bocci Pacini, art. cit. (nota 1), p. 382 sg.; ma si vedano, adesso, le osservazioni di V. Saladino, art. cit. (nota 1), 2009, p. 801 sg. 5 L’opera reca al frontespizio di alcuni esemplari la data del 1742, in altri dell’anno successivo; tuttavia il volume venne pubblicato solo nel 1743; cfr. su questo B. Gialluca, Anton Francesco Gori e la sua corrispondenza con Louis Bourguet, «Symbolae Antiquariae», 1, 2008, p. 140, nota 2. 6 A.F. Gori, op. cit. (nota 1), 1742, p. cxcviii. 7 Su di lui si veda F. Borroni Salvadori, Riprodurre in incisione per far conoscere dipinti e disegni: il Settecento a Firenze, «Nouvelles de la République des Lettres», i, 1982, 1, p. 33 sg. e bibl. a nota 141. Sulle vicende di pubblicazione e sull’apparato iconografico del De Etruria Regali si veda ora S. Reynolds, B. Gialluca, Un documento inedito su “De Etruria Regali”. Novità e conferme, «Symbolae Antiquariae», 2, 2009, p. 9 sg. 8 Il bronzetto vanta una estesa bibliografia; senza pretesa di completezza si veda Th. Dempster, De Etruria regali libri vii nunc primum editi curante Thoma Coke Magnae Britanniae Armigero Regiae Celsitudini Cosmi iii Magni Ducis Etruriae, vol. i, Florentiae, mdccxxiii, p. 281, tav. xli; F. Buonarroti, Ad monumenta etrusca operi Dempsteriano addita explicationes et conjecturae, in Th. Dempster, De Etruria regali, vol. ii, Florentiae, mdccxxiv [ma 1726], p. 13, p. 60, p. 62, p. 92, nota a); A.F.Gori, Museum Etruscum exhibens insignia veterum Etruscorum Monumenta, aereis tabulis cc . nunc primum edita et illustrata observationibus Antonii Francisci Gorii, publici Historiarum Professoris, volumen primum-alterum, Florentiae, in aedibus auctoris Regio permissu excudit, Caietanus Albizinius typographus, mdccxxxvii, vol. i, tav. iii, e vol. ii, p. 13; G. B. Passeri, Continuazione delle Lettere Roncagliesi di Giovan Battista Passeri, Giure Consulto ed Accademico Pescarese, scritte dalla sua Villa di Roncaglia al Signor Annibale Degli Abati Olivieri, Patrizio di detta Città e Segretario della medesima Accademia alla sua Villa di Novilara; nelle quali si proseguisce a dare la spiegazione di alquanti monumenti Italici antichi, si scritti, che figurati, Lettera undecima, in A. Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo xxiii, in Venezia, mdccxli, pp. 338, 341 e 344; A.

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Fig. 1. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553.

Fig. 2. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553.

Fig. 3. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553.

Fig. 4. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553.

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sequenza inventariale consente di riconoscere fin dall’originario allestimento della Tribuna di Ferdinando i,9 non mi pare possano esserci dubbi: sebbene il monumento non presenti lacune, né si ravvisino segni che giustifichino in alcun modo l’affermazione del domenicano che la statua fosse priva del piede destro, alla perfetta rispondenza della descrizione fornita dal Marmocchini con il bronzo fiorentino si aggiunge l’indiscussa autorità della fonte che per prima propone il riconoscimento, ovvero Anton Francesco Gori, una delle personalità di maggior rilievo della cultura antiquaria settecentesca e profondo conoscitore delle antichità etrusche delle raccolte granducali.10 Poco conta la discrepanza tra le dimensioni segnalate dal domenicano, che vorrebbe il bronzo grande poco più di ventinove centimetri, e la reale altezza della statuetta, alta cm. 35,3. Non sappiamo se il Marmocchini abbia avuto conoscenza diretta del monumento o se esso gli fosse noto solo attraverso una tradizione orale di ambito locale, a cui il domenicano, originario di San Casciano, può aver avuto facile accesso sia nei suoi anni giovanili, sia quando. attorno al 1542, dopo aver girato in vari centri dell’Italia settentrionale, rientrò a Firenze, ovvero nel corso degli ultimi anni, quando si trasferì in un ospizio del paese natale, dove morì nel 1548. È comunque probabile che nel 1544, quando compose il suo Dialogo, il Marmocchini citasse il bronzo a memoria, come sembra suggerire la mancata trascrizione dell’epirafe incisa sul retro. Se l’ipotesi ha qualche fondamento, potrebbe trovare così una possibile spiegazione anche l’indicazione che la statuetta fosse priva del piede destro, fatto che, come si è detto, non trova riscontro nello stato di conservazione del monumento, che non presenta integrazioni o giunzioni in nessuno dei due piedi. La località del rinvenimento è facilmente individuabile. L’Ospedale di San Francesco della Costa, oggi non più esistente,11 fondato nella seconda metà del xiii secolo da un certo Lucchese dei Sirigatti da Passignano, si trovava fuori dal borgo del paese di San Casciano, che prende nome da Giuseppe Sarchiani, l’uomo di lettere vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento, all’inizio della ripida costa del poggio, sul fianco sud-occidentale, verso la Pesa, dove, poco più sotto, al termine della discesa, è ubicata la villa che nella prima metà del Quattrocento vi edificò, sul versante destro della stra-

da che da San Casciano porta al guado del fiume e da lì alla collina di San Pancrazio, Giovanni Buonromei12 (Fig . 6). Alla villa, nota dapprima come “Palazzo della Costa” e poi come “Il Borromeo”, faceva capo un vasto possesso, sempre nell’area della Costa, sulle colline a sinistra della valle della Pesa, dove il terribile, celebre, fortunale del 24 agosto 1456 ricordato nel Priorista di Pagolo di Matteo Petriboni continuato da Matteo di Borgo Rinaldi,13 da cui dipendono sia le Istorie di Giovanni Cambi,14 che il relativo passo delle Istorie

9 La sequenza è stata, in parte, ricostruita da M. Martelli nella scheda del bronzetto nel Catalogo della Mostra fiorentina del 1980 (cfr. nota prec.). L’iter inventariale risale dal primo inventario del Museo Archeologico Nazionale di Firenze del 1890 (sub n. 553) e, attraverso il grande inventario della Galleria degli Uffizi del 1825 (sub n. 675) e alla serie degli inventari del xviii secolo (1784: sub n. 906; 1753: sub n. 2659; 1704: sub n. 1960), giunge, prima, all’inventario del 1671 (sub n. 11: «figura vestita, tiene la destra al fianco, nella sinistra un pomo con le scarpe aguzze») e poi a quello del 1635 (c. 39 n. 395: «una figura di bronzo alta 2\3 inc. di una femina la quale da uno braccio è sbracciata sino a mezzo e nell’altro tiene una palla in mano con il panno che tiene sulle spalle»), per trovare, quindi, la prima menzione in quello della Tribuna redatto nel 1589, dove a c. 23 si legge: «una figura di bronzo antica vestita alta b. 2\3 inc.a con una mano sui fianchi posa sur una basa di leg\me tinto di mistio» (cfr. G. Gaeta Bertelà, La Tribuna di Ferdinando i de’ Medici. Inventari 1589-1631, Modena 1997, p. 33, n. 388). Per quanto riguarda le vicende museali è da segnalare che la statuetta, dopo la sua originaria collocazione nella Tributa, venne trasferita nel cosiddetto Stanzino di Madama, dove la ricorda Raimondo Cocchi nella nota in data 15 luglio 1761, allegata alla missiva in pari data al presidente del governo lorenese, il genovese Antoniotto Botta Adorno, dove, subito dopo l’Arringatore e la Chimera, il Regio Antiquario ricorda la nota statuetta di cane con dedica a Calu e, quindi, il nostro bronzetto: «una donna col pomo in mano, coronata di mirto, che io credo Venere, e non Pomona, tab. xxxxi e Gori. È nella stanza di Madama»: cfr. G. M. Della Fina, art. cit. (nota 8), p. 5. La lettera è in Firenze, Archivio di Stato, Miscellanea di Finanze, A, n. 324 ed è stata pubblicata in M. Fileti Mazza, B. Tommasello, Galleria degli Uffizi 1758-

1775: la politica museale di Raimondo Cocchi, Modena 1999, p. 114 sg. n. ii. La statua venne poi collocata, nel nuovo ordinamento lanziano dei primi anni Ottanta del Settecento nel terzo Gabinetto, ovvero tra i bronzi antichi. 10 Su Gori si veda ora S. Bruni, Anton Francesco Gori, Carlo Goldoni e «La famiglia dell’antiquario». Una precisazione, «Symbolae Antiquariae», i, 2008, p. 11 sg. (con bibl. prec.). Cfr. anche C. Cagianelli, La scomparsa di Anton Francesco Gori fra cordoglio, tributi di stima e veleni, ivi, p. 71 sg. 11 L’edificio è comunque tuttora esistente, seppur trasformato nel xviii secolo, quando venne soppresso l’ospedale e sorgeva sul sito dell’attuale Villa “La Costa”: cfr. G. Carocci, Il Comune di San Casciano in Val di Pesa. Guida-Illustrazione Storico Artistica, Firenze, 1892, p. 48 sg.; I. Moretti, A. Favini, V. Favini, San Casciano, Firenze, 1994, p. 119. 12 Per l’Ospedale della Costa si veda G. Carocci, op. cit. (nota prec.), p. 47 sg.; per la villa dei Borromei cfr. ivi, p. 50; cfr. anche I. Moretti, A. Favini, V. Favini, op. cit. (nota prec.), p. 119 sg. 13 P. di Matteo Petriboni, M. di Borgo Rinaldi, Priorista: 1407-1459, a cura di J. A. Gutwirth e G. Battista, Roma 2001, p. 430 sg. 14 Istorie di Giovanni Cambi cittadino fiorentino pubblicate, e di annotazioni, e di antichi munimenti accresciute, ed illustrate da Fr. Ildefonso di San Luigi, carmelitano scalzo della provincia di Firenze, vol. i, in Firenze, l’anno 1785, per Gaet. Cambiagi stampatore granducale [Delizie degli Eruditi Toscani, vol. xx], p. 338 sg. Sulla fonte del Cambi si veda G. Scaramella, Giovanni Cambi e la prima parte delle sue “Istorie”, «Archivio Muratoriano», xvii-xviii, 1916, p. 407 sg.; P. Orvieto, Cambi, Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, 17, 1974, p. 99 sg.; J. A. Gutwirth, Introduction, in P. di Matteo Petriboni, M. di Borgo Rinaldi, op. cit. (nota 13), p. 4 sg.

Fig. 5. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553.

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Fig. 6. L’area de La Costa a San Casciano in Val di Pesa.

Fiorentine del Machiavelli15, trascinò «un melo grossissimo cholle mele […], e cholle barbe […], venuto di là dalla Pesa di lungi più di due miglia»16. Non conosciamo con precisione l’estensione delle terre possedute in quest’area dai Buonromei, che si trovavano in fregio alla strada, lungo il fianco occidentale, e che si spingevano fino alla riva della Pesa. Tuttavia, l’indicazione del Marmocchini («fuor di San Casciano a riscontro dello Spedale della costa…») sembra permettere di circoscrivere alla zona a monte della villa Borromei l’area dove

avvenne casualmente il ritrovamento, una zona caratterizzata da un ripido pendio della collina, peraltro particolarmente adatta all’impianto di una vigna, circostanza che, come ricorda il domenicano, fu la causa della trouvaille. Al contrario, maggiori incertezze sussistono per gli anni in cui si rinvennero la statuetta e gli altri materiali descritti dal Marmocchini. Il domenicano non ne fa cenno, ricordando unicamente il nome di Giovanni Buonromei, e solo il Gori accenna che il ritrovamento avvenne negli stessi anni

15 N. Machiavelli, Historie Fiorentine (1532), libro vi, cap. xxxiv. Per le fonti del Macchiavelli relative a questo episodio si veda O. Tammasini, La vita e gli scritti di Niccolo Macchiavelli nella loro relazione col machiavellismo, vol. ii, Roma 1912, p. 542, nota 4; P. Carli, Niccolo Machiavelli, Le opere maggiori, Firenze 1948, p. 312 sg., e in generale M. Martelli, Machiavelli e la storiografia umanistica, in La storiografia umanistica, Atti del convegno (Messina,

22-25 ottobre 1987), Messina 1992, vol. ii, p. 113 sg. Sulle Historie si veda, in ultimo, R. Fubini, Machiavelli, i Medici e la storia di Firenze del Quattrocento, «Archivio storico italiano», clv, 1997, 1, p. 127 sg. (con bibl.). 16 P. di Matteo Petriboni, M. di Borgo Rinaldi, op. cit. (nota 13), p. 432; Istorie di Giovanni Cambi, cit. (nota 14), p. 344.

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della scoperta della statua di San Martino alla Palma, rinvenuta «poco prima del 1500»; tuttavia l’indicazione appare fin troppo vaga per non pensare che non sia frutto di una congettura dell’erudito. Ciò nonostante, il nome di Giovanni Buonromei e quel poco che è noto di questa famiglia17 possono consentire di circoscrivere, seppur in forme indiziarie, l’epoca della scoperta. Se effettivamente il ritrovamento avvenne prima dell’inizio del xvi secolo, la gamma dei possibili candidati resta circoscritta a due soli personaggi. Il primo è Giovanni di Buonromeo, a cui toccarono, alla morte del padre, trenta botteghe con fondaco in Firenze e i terreni di San Casciano; a lui si deve la realizzazione della villa nell’area della Costa. Questo Giovanni sposò una tale Antonia, dalla quale ebbe tre figli: Lazaro, Galeazzo e Beatrice; essendo i due maschi premorti al padre, alla sua morte, avvenuta a Padova nel 1476, i beni sarebbero dovuti passare alla figlia Beatrice, andata in sposa a Giovanni de’ Pazzi, ma una legge, fatta votare da Lorenzo il Magnifico, assegnò questi beni al nipote Carlo di Antonio di Buonromeo.18 Carlo di Antonio era un partigiano di Lorenzo, che si era guadagnato un premio nella celebre giostra del 7 febbraio 1468 (stile fiorentino) cantata dal Pulci;19 da lui, che ricoprì varie cariche pubbliche e che nel 1512 fu gonfaloniere di Compagnia,20 nacquero tre figli maschi, il maggiore dei quali di nome Giovanni.21 È verosimilmente lui l’agente fiorentino a Mantova nel 1509 ricorda-

to nella corrispondenza di Machiavelli e di Guicciardini,22 successivamente fu Priore nel 1525, per finire la propria carriera politica come membro del Consiglio dei Ducento, dove, come cittadino di San Giovanni fu chiamato nel 1532, come ricorda Benedetto Varchi nella sua Storia fiorentina (libro xii, cap. lxvii).23 A lui toccò la proprietà della Costa di San Casciano, come conferma un lodo di divise tra lui e i fratelli Buonromeo e Vincenzio in data 12 agosto 1528 conservato tra le carte Borromei del fondo Mazzimedici dell’Archivio della famiglia Niccolini di Camugliano di Firenze.24 In questo stato di cose, sembra probabile che il ritrovamento debba risalire all’epoca di Giovanni di Buonromeo. Del pari incerto è il momento quando il bronzetto entrò a far parte delle raccolte medicee. All’epoca delle nozze di Ferdinando con Cristina di Lorena la statuetta è già collocata nella Tribuna, dove, come si è detto, la descrive, all’ottava guglietta, l’inventario del 1589.25 Anteriormente a questa data la documentazione al momento disponibile è assai più incerta e laconica: per quanto non vi siano prove documentali certe, è probabile che il bronzetto sia giunto agli Uffizi dalla Galleria del Casino di San Marco, nel quadro dei trasferimenti voluti da Ferdinando e funzionali all’allestimento della Tribuna, se è possibile riconoscere la nostra statuetta nella «figura di bronzo, alta braccia 2/3» segnata nell’Inventario della Guardaroba della Casa e del Palazzo del Casino redatto nel 1588.26 Andando indietro nel tempo, poi,

17 Per la famiglia si veda G. M. Mecatti, Notizie istorico-genealogiche apprtenenti alla Noità e Cittadinanza Fiorentina raccolte da diversi autori e compilate e divise in quattro parti, Napoli, presso Giovanni di Simone, vol. i, mdccliii, p. 161; vol. iii, mdccliv: Parte terza che contiene il Priorista o sia la serie di tutte quele Famiglie, le quali hanno goduto a tempo di Repubblica l’onore del Supremo, e Sommo Principato o hanno seduto all’amministrazione della medesima come Priore, p. 271 e p. 412; C. Litta, Celebri famiglie italiane illustrate dal conte P.L., tomo i, Milano 1837, s.v. Borromeo di San Miniato, tavv. i-ii. Cfr. anche Sommario storico delle famiglie celebri toscane compilato dal conte Francesco Galvani e riveduto, in parte, dal cav. Luigi Passerini, Firenze 1865, vol. i, s.v. Borromeo di S. Miniato. Importanti dati sul ramo fiorentino della famiglia, estintosi nella seconda metà del xvii secolo, sono raccolte nel fascicolo delle Provanze di nobiltà per cavaliere di Giovanni di Carlo Buonromei che vestì l’abito il 16 settembre 1571, conservato a Pisa, Archivio di Stato, Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, filza 24, fasc. 15. Qui si legge che: «… è noto come Buonromeo Buonromei avolo del bisavolo dell’Inducente fu Conte del Castello di Arqua et del Borgo di Val di Paro, e honorato gentiluomo di Padova. Li antenati di questo Conte Buonromeo hebbono origine da un barone dall’Alemagna il qual nella passata d’uno Imperadore tedesco fu dalui lasciato suo vicario in San Miniato al Todesco, delle quali terre il detto Barone e suoi discendenti furono per un certo tempo padroni assoluti. Ma cacciatine finalmente da fiorentini andarono insieme con i Palanifini e altre famiglie nobili ad habitare parte a Padova e parte a Milano e altrove. I buonromei di Padova e li detti Buonromei di Firenze furono e sono una medesima famiglia. […] La casate de’ Buonromei hanno posseduto in Firenze molti gran Casamenti palazzi case e botteghe e fuori nel contado molte possessioni ville palazzi e fortezze…». E tra i testimoni, Maso di Bernardo di Tanai de’ Nerli, patrizio fiorentino, specifica che i Buonromei «havesi posseduti palazzi e gran casamenti si in Firenze come a Santo Casciano» (p. 16), mentre Niccolò di Matteo Berardi, membro del Senato de’ Quarantotto e consigliere del Granduca, ricorda che i Buonromei «hanno un palazzo appresso a San Casciano che è molto bello». 18 Su di lui cfr. H.E. Napier, Florentine History from the Earliest Authentic Records to the Accession of Ferdinand the Third, Gran Duke of Tuscany, London, 1847, vol. iii, p. 393, nota. È probabilmente lo stesso personaggio ricordato nell’inventario di viaggio di Lorenzo di Giovanni de Medici, fratello di Cosimo il Vecchio, relativo al tour compiuto nel 1429-1430 a Milano, Venezia e altre città del Nord, che «in Padova» donò al Medici «2 scatole di pistachica, 2 scatole di pinochiati, 2 fischi di Tiro, buono, 8 torchi di libbre xx o circa» e «2 paia di sproni con coregine di seta, 2 paia di guanti, 1 guanto d’astore, 1 legato d’agora a la damaschina»: cfr. Inventari Medicei 1417-1465. Giovanni di Bicci, Cosimo e Lorenzo di Giovanni, Piero di Cosimo, a cura di M. Spallanzani, Firenze, 1996, rispettivamente p. 175 e p. 178. La vicenda dell’eredità di Giovanni, considerata uno dei motivi che dettero origine alla congiura del 26 aprile 1478, è ricordata da Machiavelli (Historie fiorentine, libro viii, cap. ii ed anche Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro iii, cap. 6, par. 2) e da Guicciardini (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, cap. iv): cfr. R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano, 1994, p. 95; L.

Martines, April Blood: Florence and the Plot Against the Medici, London, 2003, p. 112 sg. Cfr. anche Lorenzo de’ Medici, Lettere, vol. ii, a cura di R. Fubini, Firenze, 1977, p. 126 sg., nota 7. Nell’Archivio Carte Naldini Del Riccio, presso l’Archivio della famiglia Niccolini di Camugliano in Firenze, fondo Mazzimedici, carte Borromei, si conserva l’atto di donazione che Giovanni di Borromeo, “cittadino e mercante fiorentino, infermo nella città di Padova” redasse nel 1476 a favore della moglie (10, 22 [ex D. 1º.1.22]). 19 Cfr. I. Del Lungo, Florentia. Uomini e cose del Quattrocento, Firenze, 1897, p. 407. Su di lui si veda Lorenzo de ’ Medici, Lettere, vol. viii, 14841485, a cura di H. Butters, Firenze, 2001, p. 285, nota 1; ed anche Lorenzo de’ Medici, Lettere, vol. xi, 1487-1488, a cura di M. M. Bullard, Firenze, 2004, p. 105, nota 1 e p. 156, nota 12. 20 Cfr. Consulte e pratiche 1505-1512, a cura di D. Fachard, Genève, 1988, p. 326. 21 Non si hanno dati per riconoscere in lui il Giovanni Buonromei, ricordato come affittuario di Lorenzo de Medici di un vasto appezzamento di terreno nel contado di Pisa nell’inventario redatto dopo la morte del Magnifico, nel 1492, e conservatosi in una copia eseguita nel 1512: Firenze, Archivio di Stato, Mediceo avanti il principato, filza clxv, c. 117 v: cfr. Libro d’Inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico, a cura di M. Spallanzani, G. Gaeta Bertelà, Firenze, 1992, p. 242. 22 Non sembrano avere fondamento i dubbi espressi da R. Zapperi, in Dizionario biografico degli Italiani, 13, 1971, p. 55 sg., s.v. Borromei, Giovanni. 23 Dal passo delle Storia fiorentina del Varchi discende G. M. Mecatti, Storia cronologica della città di Firenze, o siano Annali della Toscana che possono servire di illustrazione, e d’Aggiunta agli Annali d’Italia del Signor Proposto Lodovico Antonio Muratori, Parte Seconda, in Napoli, nella Stamperia Simoniana, mdcclv, p. 608, nota a). 24 Archivio Carte Naldini Del Riccio, presso l’Archivio della famiglia Niccolini di Camugliano in Firenze, fondo Mazzimedici, carte Borromei. 25 Cfr. supra, nota 9. Per l’allestimento della Tribuna realizzato da Ferdinando i si veda P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, Collezionismo mediceo e storia artistica, i. Da Cosimo i a Cosimo ii (1540-1621), Firenze 2002, p. 108 sg.; cfr. anche D. Heikamp, Zur Geschichte der Uffizien-Tribuna, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», xxvi, 1963, p. 193 sg.; M. Cristofani, Per una storia del collezionismo archeologico nella Toscana granducale. Doni e acquisti di statue antiche nella seconda metà del xvi secolo, in Le Arti del Principato Mediceo, Firenze, 1980, p. 28. 26 Firenze, Archivio di Stato, Guardaroba Medicea 136, c. 155v: cfr. P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, op. cit. (nota prec.), p. 331. Per altri trasferimenti dal Casino di San Marco si veda ivi, p. 107, nota 390. Per il Casino di San Marco, cfr. P. F. Covoni, Il Casino di San Marco costruito dal Buontalenti ai tempi medicei, Firenze, 1892; Idem, Don Antonio de’ Medici al Casino di San Marco, Firenze, 1893; ed anche M. Bucci, R. Bencini, I palazzi di Firenze, vol. ii, Firenze, 1971, p. 25 sg.; A. Fava, Bernardo Buontalenti e Firenze: architettura e disegno dal 1576 al 1607, Firenze, 1998, p. 14 sg.; G. V. Parigino, Il

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più nulla: se tra i monumenti presenti nel palazzo del Casino di San Marco, ristrutturato per Francesco i dal Buontalenti tra il 1570 e il 1574, erano anche pezzi già nella roccalta del Magnifico, come l’Ercole ed Anteo di Antonio del Pollaiolo,27 pur tuttavia il bronzetto non sembra essere tra quelli appartenuti a Lorenzo e menzionati nell’inventario dei suoi beni, compilato nel 1492 dopo la morte del Magnifico,28 né la statuetta sembra ricordata in alcuno degli inventari di Cosimo i.29 Allo stato dei fatti, pur in assenza di certezze documentarie, appare verosimile che il bronzo sia giunto in proprietà dei Medici nel corso degli anni di Francesco i,30 ovvero in un periodo che vede il rinsaldarsi dei legami dei Buonromei con la famiglia dei Principi, dopo che, poco prima della metà del secolo, il figlio di Giovanni di Carlo e di Brigida di Filippo dei dell’Antella, Carlo, aveva sposato una donna di casa Medici, Clemenzia, figlia di Lorenzo di Attilio di Niccolò di Vieri, Senatore fiorentino e Vicario di Firenzuola, e di Beatrice, figlia di Girolamo Pilli, già agente di Lorenzo e commissario della Repubblica.31 A conferma dei legami dei Borromei con i Granduchi stanno, nella seconda metà del secolo, la vestizione come cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano concessa il 16 settembre 1571 da Francesco i al secondogenito di Carlo, Giovanni,32 che nel 1574 sarà governatore di Rettimo nel Regno di Candia, e, quindi, la nomina da parte di Ferdinando i del fratello di Giovanni, Bernardetto, a primo Gonfaloniere della neonata città di Livorno.33 L’aver riguadagnato la provenienza della statuetta e la possibilità, così, di ricostruire un contesto può aiutare a vedere finalmente nella giusta luce il problema della sua definizione stilistica in relazione alla scuola di appartenenza. Benché con la sua forza intrinseca di capolavoro il bronzetto si sia sempre conquistato il rispetto e l’ammirazione degli studiosi, i pareri su questa piccola scultura appaiono

piuttosto discordi. Ricordo, infatti, che a parte il Pauli che, nella scheda del CIE, la considerò ‘senese’ basandosi su fragili argomentazioni epigrafiche,34 ipotesi peraltro implicitamente accolta da H. Rix che nei suoi ET ha rubricato l’iscrizione tra quelle dell’Ager Saenensis,35 l’insieme dei giudizi critici si è mantenuto su posizioni di salutare prudenza: così M. Martelli che ne ha proposto un riferimento all’ambiente dell’Etruria settentrionale interna degli inizi del iv secolo a.C.,36 e M. Cristofani che, pur avanzando l’ipotesi che la grafia dell’iscrizione potrebbe avere caratteri aretini, ha attribuito il bronzetto ad una bottega etrusco settentrionale del primo quarto del iv secolo a.C.37 Più recentemente se M. Bentz38 ha sottolineato con buona approssimazione una datazione nella prima metà del iv secolo a.C. a dispetto dell’opinione di Tobias Dohrn che riportava la statuetta alla metà del secolo,39 non è mancato chi, sulla base di confronti iconografici – per la verità – non pertinenti, ha proposto di ancorare il bronzetto agli anni attorno al 360 a.C.40 Sebbene la piccola statua possa vantare una ben lunga bibliografia e sia stata più volte riprodotta, ritengo utile soffermarmi brevemente ancora una volta sul bronzetto e tentarne uno studio ravvicinato. Gettata nel bronzo e rifinita a bulino, la statuetta ha, come si è detto, misure ragguardevoli, essendo alta oltre trentacinque centimetri, e eccezion fatta per alcune modeste abrasioni e spellature delle superfici, appare integra; modeste lacune interessano sul davanti la base del collo, in corrispondenza della saldatura che in età moderna ha riattaccato la testa al corpo. Raffigura un personaggio femminile sontuosamente ammantato. La figura, per quanto concepita per una visione frontale, si impone nello spazio perentoria e sicura sulle gambe divaricate, con la sinistra lievemente arretrata e scartata di lato, il braccio destro, piegato al gomito,

tesoro del Principe: funzione pubblica e privata del patrimonio della famiglia Medici nel Cinquecento, Firenze, 1999, p. 140 sg.

sopra quella del 1797, riordinata e compiuta dall’autore, coll’aggiunta di varie annotazioni del professore Giuseppe Del Rosso..., vol. vii, Firenze, 1821, p. 139. 32 Pisa, Archivio di Stato, Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, Provanze di nobiltà, filza 24, fasc. 15. 33 Su di lui, oltre a G. Vivoli, Annali di Livorno dalla sua origine sino all’anno di Gesù Cristo 1840, colle notizie riguardanti i luoghi più notevoli antichi e moderni dei suoi contorni, tomo iv, Livorno, 1846, p. 21 e p. 92, nota 42, si veda P. Castignoli, Il Comune, in Livorno e Pisa: due città e un territorio nella politica dei Medici. Livorno progetto e storia di una città tra 1500 e 1600, Catalogo della Mostra (Livorno, 1980), p. 219; Idem, Studi di storia. Livorno, dagli archivi alla città, Livorno, 2001, p. 30. Per la sua tomba e il monumento fatto erigere da Cosimo ii nel 1610 nel Duomo di Livorno si veda G. Piombanti, Guida storica ed artistica della città e dei contorni di Livorno, Livorno, 1903, p. 169; M.T. Lazzarini, “Gente d’ogni miscuglio tutti ad un segno”. Il Duomo tra vita e memoria, in Duomo di Livorno. Arte e devozione, edd. M. T. Lazzarini, F. Paliaga, Pisa, 2007, p. 122 e fig. a p. 125. 34 CIE, 302. L’ipotesi senese era stata già discussa e rigettata da M. Buffa, art. cit. (nota 8), p. 446. 35 ET, p. 167, as 4.1. 36 M. Martelli, in Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei, Catalogo della Mostra (Firenze, 1980), pp. 32 e 35, n. 43; e in Prima italia, Arts italiques du premier millénaire avant J.C., Catalogo della Mostra (Bruxelles, 1980), p. 183 sg., n. 113. 37 M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, p. 271, n. 56. 38 M. Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Firenze, 1992, p. 31 sg. 39 T. Dohrn, Die etruskische Kunst im Zeitalter der griechischen Klassik. Die Interimsperiode, Mainz, 1982, p. 70 sg. 40 A. Maggiani, Vasi attici figurati con dediche a divinità etrusche, [«RdA», suppl. 18], Roma, 1997, p. 35 n. 4. Lasciando da parte il delicato problema dell’identificazione del soggetto (divinità o devoto?), qui risolto in base ad una non facilmente comprensibile «connotazione psicologica del personaggio», il confronto proposto con le figure sul cratere di Montebradoni (su cui cfr. in ultimo M. Harari, Di nuovo sul cratere guarnacciano del Pittore di montebradoni: questioni di sintassi e semantica, in Aspetti della cultura di Volterra etrusca fra l’età del ferro e l’età ellenistica, Atti del xix convegno di Studi Etruschi ed Italici [Volterra, 15-19 ottobre 1995], Firenze, 1997, p. 193 sg., con bibl. prec.) non è pertinente, dal momento che le figure dipinte sul vaso presentano tutte uno schema totalmente diverso, nonché particolari iconografici differenti.

27 Su cui da ultimo A. Ciaroni, Dai Medici al Bargello, ii. I bronzi del Rinascimento. Il Quattrocento, Firenze, 2007, p. 177 sg., n. 22 (con bibl. prec.). 28 Cfr. supra, nota 21. Per i bronzetti di Lorenzo si veda anche A. M. Massinelli, op. cit. (nota 4), p. 22. Sulle antichità di Lorenzo de Medici, cfr. L. Beschi, Le antichità di Lorenzo il Magnifico: caratteri e vicende, in Gli Uffizi. Quattro secoli di una galleria, Atti del convegno (Firenze, 20-24 settembre 1982), Firenze, 1983, p. 161 sg.; L. Beschi, Bronzi antichi nel rinascimento fiorentino: alcuni problemi, «Alba Regia», xxi, 1984, p. 119 sg.; Il giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, a cura di P. Barocchi, Catalogo della Mostra (Firenze, 1992), in particolare p. 21 sg.; L. Beschi, Le sculture antiche di Lorenzo, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, Atti del convegno (Firenze, 9-13 giugno 1992), Firenze, 1994, p. 291 sg.; ed ora L. S. Fusco, G. Corti, Lorenzo de’ Medici: Collector and Antiquarian, Cambridge, 2004. 29 Per i bronzetti di Cosimo i, radunati tutti nel cosiddetto “Scrittoio di Calliope” di Palazzo Vecchio, si veda A. M. Massinelli, op. cit. (nota 4), p. 13 sg. 30 Per il collezionismo di Francesco i si veda, oltre a P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, op.cit. (nota 25), p. 27 sg., V. Conticelli, “Guardaroba di cose rare et preziose”. Lo Studiolo di Francesco i de’ Medici arte, storia e significati, Arezzo, 2007, passim; cfr. anche P. Bocci Pacini, Le statue classiche di Francesco i de’ Medici nel giardino di Pratolino, «riasa», s. 3, viii-ix, 1985-1986, p. 151 sg. e P. Barocchi, G. Gaeta Bertelà, Collezionismo mediceo. Cosimo i , Francesco i e il Cardinale Ferdinando. Documenti 1540-1587, Modena, 1993. 31 I dati su questo matrimonio sono in Pisa, Archivio di Stato, Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, Provanze di nobiltà, filza 24, fasc. 15. Su Lorenzo di Attilio de’ Medici, nato a Firenze il 28 settembre 1468 e morto, novantenne, il 4 giugno 1558, si vedano le brevi notizie che ne dà il Litta, s.v. “Medici di Firenze”, tav. vii, ad vocem; cfr. anche Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, Minute di lettere e registri, Registri i : Cosimo i , Segretari: Concino, Giusti, T.Medici tesoriere, Pagni, vol. 182, c. 53. Su Girolamo Pilli, ricordato più volte nelle lettere di Machiavelli, per la sua attività di agente di Lorenzo il Magnifico si veda Libro d’Inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico, a cura di M. Spallanzani, G. Gaeta Bertelà, Firenze, 1992, p. 62, e per il suo ruolo, quale commissario della Repubblica, nelle difese contro il Valentino si veda M. Lastri, L’osservatore fiorentino sugli edifizj della sua patria, terza edizione

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stefano bruni

Fig. 8. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553, particolare dell’iscrizione.

portato di lato con la mano che con le dita divaricate si appoggia all’anca, mentre il sinistro, aderente al fianco, ha l’avambraccio poggiato sul davanti della coscia e tiene nella mano una melagrana. Indossa una lunga veste con uno scollo arrotondato e piuttosto pudico, che, aderente, si sviluppa senza sovrapposizioni evidenti fino alle caviglie, in parte coperte dal bordo, decorato da una serie di piccoli triangoli incisi; il chitone è arricchito da un’ampia fascia verticale rilevata, segnata da una serie di sottili linee ondulate finemente rese ad incisione, che dalla spalla destra scende fin sotto il petto, ed ha una corta manica, bordata all’esterno da cinque grossi “bottoni”, che si arresta sopra il gomito, segnata da una coloristica serie di fitte pieghe carnose e sinuose. Sopra il chitone porta un himation, che coprendo la spalla sinistra, da cui ricade sul braccio, avvolgendolo quasi completamente, cinge la figura lasciando scoperta la spalla destra e il busto per ricadere in un ben scandito panneggio dietro il gomito sinistro. Ai piedi calza un paio di scarpe cucite, leggermente appuntite sul davanti, con bassa suola e una nervatura laterale mediana. Al corpo, contrassegnato da un atteggiamento libero, amplificato dallo scarto verso destra della collana sopra il petto, è contrapposta una testa compatta e serrata (Fig. 7), dove il volto, ovale, piuttosto allungato, è scandito dalla curva delle grandi arcate sopraccigliari e dal setto nasale regolari; gli occhi, grandi, hanno le palpebre rilevate e la pupilla, forata, che doveva essere, in origine, realizzata, come ha ben visto M. Martelli, in altro materiale. Il mento pieno e rotondo è ingentilito dal sovrastante dise-

gno della bocca, piccola e socchiusa, con le labbra che mantengono un aspetto sensuale. I piani ampi e lisci del volto si contrappongono al ricco modellato della capigliatura. I capelli, spartiti al centro della fronte, si distribuiscono in larghe ciocche mosse, ondulate, che si raccolgono rigonfie sulle orecchie, coperte solo parzialmente e ornate da orecchini a disco; le ciocche sono trattenute sulla testa da una corona, costituita da un basso nastro, su cui sono foglie lanceolate, puntinate lungo il margine e con nervatura centrale, disposte su due file oblique convergenti verso il centro, dove si trovano alcune bacche, e termina ai lati in due placchette arrotondate, lisce, da cui si sviluppa il nastro; nella parte posteriore i capelli si raccolgono in un ciuffo rivolto verso l’alto, ricadente sul nastro della corona. Il collo è adorno di una lunga collana, che dopo aver fatto un giro alla base del collo, si spande sopra il petto con tre bulle equidistanti, lisce. Nella parte posteriore, su una piega del panneggio è incisa a freddo una iscrizione di dedica in minuta e regolare grafia, i cui caratteri rimandano alle mode scrittorie dell’Etruria settentrionale interna (Fig. 8). Al di là dell’aspetto generale, altri particolari sottolineano l’eccezionale qualità del bronzetto, come l’estrema chiarezza nella definizione dei volumi, pur nei larghi piani del busto, scanditi da delicate notazioni che increspano con ombre ondulate la superficie della parte destra del chitone e che contrastano con il forte rilievo plastico del panneggio che caratterizza la parte sinistra, con il lento ripiegarsi della stoffa dell’himation, mosso dalla sinuosa curvatura della spessa piega trasversa e dal bordo rovesciato che scende obliquo al centro tra le gambe. A tutto ciò si aggiunge una attenta cura nella resa dei particolari, sia nella stessa modellazione, come, ad esempio, l’impalcatura delle dita delle mani, in cui sono indicate anche le unghie, oppure nell’intaglio delle ciocche dei capelli sulla testa, ovvero nei particolari interni del disco degli orecchini, sia nelle notazioni affidate al bulino e all’incisione, volte ad esaltare la ricchezza della corona e della veste. La solida tornitura della figura e l’architettura dello schema si ispirano a modelli della piena età classica del tipo dello Zeus cd. di Dresda,41 sebbene quest’ultimo presenti

41 Per lo Zeus tipo Dresda si veda E. Paribeni, Museo Nazionale Romano. Sculture greche del v secolo. Originali e repliche, Roma, 1953, p. 38 sg. n. 57 (con bibl. prec.); G. Despinis, Sumbolè stè meléte tou Agoraktitou, Athinai, 1977, p. 133 sg.; B. Vierneisel Schlörb, Klassische Skulpturen des 5. und 4.

Jahs. v. Chr. («Glyptorhek München, Katalog der Skulpturen», ii), München, 1979, p. 147 sg.; R. Bol, Das Statuenprogramm des Herodes-Atticus-Nymphäums, («OlympForsch», 15), Berlin, 1984, p. 190 sg.; I. Romeo, Il panhellenion. Gortina e una nuova copia dello Zeus di Dresda, «ASAtene», 54-55, 1992-

Fig. 7. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 553, particolare.

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Fig. 9. Siena, Museo Archeologico Nazionale, inv. 39501.

invertita la posizione delle braccia, e il tipo pare riverberarsi in altre opere di più modesto impegno e di resa più sommaria uscite da botteghe dell’Etruria settentrionale interna dei primi decenni del iv secolo a.C., come, ad esempio, una statuetta dalla stipe di Castelluccio di Pienza42 (Fig. 9). Una cronologia non oltre questa data sembra trovare conferma anche nella foggia dell’acconciatura, anch’essa ispirata, per l’impalcatura sulla fronte, a schemi della piena età classica,43 che trova confronti specifici in Etruria nella testa del 1993, p. 325 sg.; Eadem, in Die griechische Klassik. Idee oder Wirklichkeit, Catalogo della Mostra (Berlin, 2002), p. 683, nn. 543-544. 42 Siena, Museo Archeologico, inv. 39501, ex-Coll. Mieli, dalla stipe di Castelluccio di Pienza: M. Bentz, op. cit. (nota 38), p. 16, n. A.3, tav. ii, fig. 6; A. Minetti, art. cit. (nota 8), p. 112 sg., n. 4, figg. 9-11 (con altra bibl.); Eadem, La stipe di Casa al Savio, in Antiche genti di Castelluccio la Foce e Tolle. Collezionismo antiquario e ricerche recenti, ed. G. Paolucci, Siena, 2001, p. 36, n. 26; Eadem, in L’acqua degli dei. Immagini di fontane, vasellame, culti salutari e in grotta, Catalogo della Mostra (Chianciano Terme, 2003), p. 134 sg., con fig. Il richiamo già in S. Bruni, art. cit. (nota 8), p. 134. 43 Si veda, ad esempio, la Nemesi di Ramnunte di Agorakritos: G. Despinis, E Nemése tou Agorakritou, Athinai, 1971. 44 M. Sprenger, Die etruskische Plastik des v . Jahrhunderts v. Chr. und ihre Verhältnis zur griechischen Kunst, Roma 1972, p. 57 sg., n. 3, tavv. xxviii, 1; xxix; xxx, 1 (con bibl.prec.); T. Dohrn, op. cit. (nota 39), p. 52, n. 12, tav. 29, 2; M. Papini, Die Klassik in Etrurien, in Die griechische Klassik. Idee oder Wirklichkeit, Catalogo della Mostra (Berlin, 2002), p. 619 e p. 624, n. 485 (con altra bibl.); S. Stopponi, I templi e l’architettura templare, in Storia di Orvieto, ed. G. M. Della Fina, i. Antichità, Perugia, 2003, p. 243, fig. 4. 45 M. Cristofani, A. Coen, Il ciclo decorativo dello “Zeus” di Faleri, «riasa», s. 3, xiv-xv, 1991-1992, p. 79, figg. 4-7, ed altra bibl. a nota 10; C. Carlucci, in Le antichità dei Falisci al Museo di Villa Giulia, Roma, 1998, p. 57 sg., fig. 70. 46 M. Cristofani, op. cit. (nota 37), p. 278, n. 83, con bibl. prec. 47 M. Santangelo, Statuetta bronzea da Tuscania, «riasa», ix, 1942, p.

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cd. Tinia dall’altorilievo del tempio di via San Leonardo di Orvieto,44 della cd. Hera del ciclo decorativo dello ‘Zeus’ di Falerii,45 nonché in alcuni piccoli bronzi, quali il noto Tinia di Baltimora46 o la mutila Athena da Tuscania,47 ovvero il Dioniso della presa della Cista Napoleon.48 Analogamente a quanto è possibile ricavare da un esame del tipo dell’abbigliamento, sostanzialmente simile a quello di un’acefala statuetta venduta alla fine dell’Ottocento dall’antiquario Stefano Bardini di Firenze e ora alla Walters Art Gallery di Baltimora,49 sono in accordo con questa cronologia anche gli aspetti antiquari dei monili: se, infatti, la corona ritorna analoga sulla testa orvietana di via San Leonardo, gli orecchini si attengono ad una foggia documentata, oltre che dall’Hera di Faleri e dall’Athena di Tuscania ora ricordate, dalla figura di Ramtha Vis´nai sul noto sarcofago di Vulci a Boston.50 Quanto acquisito finora ci consente di delimitare anzitutto, grosso modo, l’ambito cronologico entro il quale deve collocarsi il bronzetto, la cui datazione non sembra essere più recente dei primi decenni del iv secolo a.C., ovvero di indicare nelle opere del mondo etrusco-italico nelle quali si riverberano stilemi attici di marca agorakritea51 la cornice che gli dovette essere propria. Più incerta resta l’identificazione della figura. Se il Lanzi concludeva che «i simboli ambigui, l’epigrafe tronca mi ritengono dal nominarla», il Buonarroti nelle sue Explicationes et coniectures al Dempster vi aveva riconosciuto un’immagine di Venere, il Gori una Pomona e il Passeri una improbabile Italia, mentre Buffa, mal interpretando l’iscrizione incisa sul retro, Eileithya, ipotesi peraltro ripresa anche da R.Olmos nella relativa voce del LIMC, che ricorda la statuetta come supposta «Etruscan Leukothea», e, più di recente A. Maggiani vi ha dubitativamente ravvisato l’immagine del «Nume di Avanithi», una dea, non altrimenti conosciuta, legata al mondo ctonio e della fertilità, come sembrerebbe indicare l’attributo della melagrana.52 Tutti gli altri studiosi si sono mantenuti su posizioni più prudenti, nell’incertezza che il bronzo rappresenti più semplicemente una devota. In effetti la figura appare, in questa prospettiva, assai poco caratterizzata: se corone connotano non poche immagini di divinità femminili,53 così come le scarpe,54 pur tuttavia questi sono attributi che caratterizzano anche personaggi femminili di rango. Né l’iscrizione, pur esprimendo inequivocabil68 sg., figg. 1-3; G. Colonna, in LIMC, ii, 1984, p. 1050, n. 117, s.v. Athena/Menerva; M. D. Gentili, in Civiltà degli Etruschi, Catalogo della Mostra (Firenze, 1985), p. 287, n. 10.32 (con datazione eccessivamente bassa). 48 S. Haynes, Etruscan bronzes, London-New York, 1985, p. 311 n. 173; R. Leprévost Trogan, in G. Bordaneche Battaglia, Le ciste prenestine, i. Corpus, 2, Roma, 1990, p. 181 sg. n. 59, tavv. cclx-cclxi; M. Bonamici, Contributo alla bronzistica tardo-classica, «Prospettiva», 62, 1994, p. 8, figg. 15-16 (con altra bibl.), a cui aggiungi D. W. Murphy, The Praenestine Cistae Handles, Dettelbach, 2001, p. 160, n. 6110, tav. 58. 49 D. K. Hill, Catalogue of Classical Bronze Sculpture in The Walter Art Gallery, Baltimore, 1949, p. 107, n. 240, tav. 46; G. M. A. Hanfmann, in Master Bronzes from the Classical World, Catalogo della Mostra (Cambridge Mass., 1968), p. 171, n. 171 (con altra bibl.); S. Fabing, in The Gods Delights. The Human Figure in Classical Bronze, Catalogo della Mostra (Cleveland, 1989), p. 240 sg., n. 44 (con bibl. prec.). 50 R. Herbig, Die jüngeretruskischen Steinsarkophage, Berlin, 1952, p. 13 sg., n. 5, tav. 40; O.J. Brendel, Etruscan Art, Harmondsworth, 1978, p. 389, fig. 299. 51 Sul problema si vedano le osservazioni di M. Cristofani, in art. cit. (nota 45), p. 128. 52 Riferimenti supra a nota 8. 53 A. Coen, op. cit. (nota 8), p. 190 sg.; per la corona come attributo di personaggi di rango cfr. p. 129 sg. ed anche p. 131 sg. 54 Il tipo è quello, caratteristico di personaggi femminili di rango, documentato, ad esempio, da Uni nel noto specchio con l’adozione di Hercle da Volterra; sul tipo L. Bonfante, Etruscan Dress, Baltimore 20032, p. 63 sg.

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Fig. 10. Lyon, Musée des Beaux Arts, inv. L 78 (da Boucher 1970).

Fig. 11. Lyon, Musée des Beaux Arts, inv. L 78 (da Boucher 1970).

mente una dedica, è al riguardo dirimente, non essendo il nome Auanithi altrimenti attestato.55 Il bronzetto da San Casciano di Giovanni Borromei, pur nel suo indubbio carattere di capolavoro, non è isolato. Ad esso può essere accostata una mutila statuetta femminile, analoga anche per gli aspetti dimensonali, detta provenire dagli «environs de Florence» e acceduta nel 1850 al Musée de Beaux Arts di Lione con la donazione Lambert56 (Figg. 10-12). Per quanto sia diverso lo schema della figura e l’iconografia della veste e dei monili, è tuttavia possibile riconoscere nel sapiente gioco delle pieghe della stoffa la stessa sintetica impressione di peso e volume alternata a raffinate trasposizioni lineari del bronzetto da San Casciano, la stessa minuta attenzione nella resa dei particolari del diadema, una stretta fascia orizzontale decorata da tre fasce rilevate perlinate che incornicia le lunghe ciocche sinuose dei capelli sulla fronte, un’analoga impalcatura dei capelli sulla testa, spartiti con un lavoro preciso e minuto, raccolti alla nuca in un ciuffo rivolto verso l’alto, ricadente sul nastro della corona. Molto simile la forma del volto e le caratteristiche fisiognomiche della testa, che si erge, frontale, come nella 55 L’iscrizione, per quanto tutte le lettere (alt. mm. 6-8) non siano di immediata lettura, è mi : fleres´ : auaniıiial. Per quanto interessato da una corrosione della superfice, la seconda lettera del terzo lemma è certamente una u, di cui si veda chiaramente il breve tratto obliquo da sinistra a destra, tangente a circa metà altezza l’asta verticale. La terza lettera è verosimilmente un n con aste di pari altezza, come segnato da tutti i moderni editori (Martelli: mi : fleres´ : a[.]aniıilal; Rix: mi : fleres´: a vaniıiial; Maggiani: mi fleres´ : avaniıiial; Maras: mi : fleres´ : av.a.n.iıilal). 56 S. Boucher, Bronzes grecs, hellénistiques et étrusques (sardes, ibériques et celtiques) des Musées de Lyon, Lyon, 1970, p. 83 n. 61; M. Bonamici, art. cit. (nota 48), p. 9, fig. 20.

Fig. 12. Lyon, Musée des Beaux Arts, inv. L 78 (da Boucher 1970).

s u u n rit rova m e nto di et à r inas cimentale a s an cas ciano val di pes a

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statuetta già Borromei, sul collo robusto, che emerge dalla scollatura leggermente allargata sulle spalli forti e un petto respirante. Certo non dobbiamo nasconderci che accanto alle somiglianze permangono delle differenze che richiederebbero anch’esse una spiegazione. Innanzi tutto il diverso rilievo delle arcate sopraccigliari, apparentemente meno nette; tuttavia questo particolare sembra più dovuto alla diversa luce in cui è ripresa nella fotografia la figura di Lione, che non ad un reale fatto contingente. Ma c’è da osservare che alcuni particolari minuti, come il disegno della bocca o quello degli occhi, sembrano indicare la pertinenza delle due statuette ad una comune tradizione artigiana. Per quanto riguarda le differenze non si può, infine, prescindere dalla diversità del soggetto e dalla diversa funzione espressiva che i particolari sono chiamati ad assolvere nei due monumenti, che raffigurano chiaramente personaggi differenti, forse anche solo in base alla classe di età, come parrebbe suggerire la diversa foggia del diadema.57 Anche in questo caso l’identità del soggetto resta sostanzialmente incerta, per quanto la vistosa placca saldata sul retro tra le scapole della figura di Lione, lungi dal qualificare il pezzo come un’applique, come recentemente proposto,58 potrebbe suggerire che la statuetta dovesse in origine essere provvista di ali,59 inducendo a riconoscere nella kore lionese un’immagine di divinità. A conforto dell’ipotesi sulla pertinenza, per caratteri tecnici e stilistici, della mutila statuetta di Lione alla stessa tradizione artigiana della cd. «Eileithya» del Museo Archeologico di Firenze c’è anche la notizia della provenienza dagli «environs de Florence», dato per il quale, sebbene trádito solo sulla scorta dei registri inventariali e frutto delle notizie fornite al momento dell’acquisto del pezzo, non sembrano sussistere ragioni di revoca o di dubbi, essendo presenti tra i materiali della raccolta Lambert altri pezzi inequivocabilmente «fiesolani».60 La provenienza dal territorio di Fiesole di questi bronzetti di grande qualità – qualità intesa non in senso idealistico ed estetizzante, bensì nel suo più proprio significato di concretezza storica, come ha ben chiarito Giovanni Previtali61 –

consente di circoscrivere all’ambiente fiesolano quelle sobrie indicazioni di «Etruria settentrionale interna» proposte per il bronzetto mediceo da M. Martelli e M. Cristofani.62 Assai poco è noto per Fiesole tra la fine del v e la prima metà del iv secolo a.C.; tuttavia i lacerti della decorazione fittile del tempio presso la porta urbica che immetteva sulla valle del Mugnone,63 o la cosiddetta Iuno Regina della Collezione dei Conti della Gherardesca pubblicata nei rami del Museum Etruscum di Gori,64 lasciano immaginare un ambiente di estrema vitalità e grande ricchezza espressiva, ovvio e naturale prodromo delle manifestazioni della fine del secolo, testimoniate dal bel bronzetto da San Donato a Luciana del museo di Firenze65 e dalla nota testa pertinente ad una statua bronzea a grandezza naturale del Louvre.66 Se in questo quadro deve collocarsi, come testimonio non secondario, il bel bronzetto già Borromei, nonché il suo “fratello” lionese, resta da dire qualcosa sul suo contesto di pertinenza. Il Marmocchini aggiunge, infatti, come si è visto, che assieme alla statuetta «Trovovinsi ancora una gran medaglia di Jano, e una secchiolina, e certe pietre scritte con lettere Etrusche, le quali lasciate al sereno, si perderono». Per quanto questi materiali siano irrimediabilmente perduti e niente si possa affermare sulla «secchiolina», né sulle «pietre scritte», forse basi di donari e/o altari, né sulla «gran medaglia di Jano», verosimilmente una moneta romana di età mediorepubblicana o, meglio, un numerario della zecca di Volterra,67 è comunque certo che nell’area de La Costa di San Casciano doveva collocarsi un importante santuario che, almeno dalla fine del v-inizi del iv secolo a.C., è in vita fino alla piena età ellenistica. Se la serie di testimonianze di età alto arcaica da Calzaiolo,68 di Sant’Angelo a Bibbione,69 di Montepaldi70 e di Poggio La Croce71 documentano come il territorio delle colline dai rilievi dolci e arrotondati, che separano il medio corso della Pesa e della Greve, entrambi affluenti di sinistra dell’Arno a valle di Fiesole, dovesse giocare un ruolo centrale nel sistema di popolamento di questo distretto,72 il nuovo luogo di culto, più eccentrico rispetto al non lontano santuario di Impruneta, qualche chilometro più a

57 Per il tipo cfr. A. Coen, op. cit. (nota 8), p. 149 sg. Si confronti, oltre che con quello dell’Athena da Tuscania cit. supra a nota 47, con quello che caratterizza una testa da Faleri e una da Ariccia, per le quali cfr. A. Comella, I materiali votivi di Falerii, Roma, 1986, p. 34, n. A2.x, tav. 16.a; A. Coen, op. cit. (nota 8), p. 149, figg. 100-101. 58 M. Bonamici, art. cit. (nota 48), p. 9. 59 Si veda il caso, per certi versi analogo, della Menerva del Museo Gregoriano Etrusco, per il quale cfr. C. Cagianelli, op. cit. (nota 8), p. 224 sg., n. 38. 60 Si veda in particolare il kouros S. Boucher, op. cit. (nota 56), p. 76, n. 54 (cfr. anche G. Colonna, Bronzi votivi umbro-sabellici a figura umana, i. Periodo arcaico, Firenze, 1970, p. 34 sg., n. 29; E. H. Richardson, Etruscan Votive Bronzes. Geometric, Orientalizing, Archaic, Mainz 1983, p. 159, iii.1, Series C, Group 3, n. 23). e forse anche il cd. “Gerione”, S. Boucher, op. cit. (nota 56), p. 72, n. 50, per il quale cfr. ora S. Bruni, Volterra e Fiesole nei fenomeni di colonizzazione. Qualche appunto sul caso fiesolano, in La colonizzazione etrusca in Italia, Atti del xv Convegno Internazionale di studi sulla storia e l’archeologia dell’Etruria (Orvieto, 23-25 novembre 2007), Roma, 2008 («Annali della Fondazione per il museo “Claudio Faina”», xv), p. 309, nota 60. Per altri bronzi della collezione cfr. S. Boucher, op. cit. (nota 56), p. 20, n. 4; p. 23, n. 6; p. 39, n. 19-20; p. 49, n. 28; p. 58, n. 37; p. 64, n. 43; p. 67, n. 45; p. 68, n. 47; p. 71, n. 49; p. 74, n. 51; p. 76, n. 55 (da Volterra); p. 85, n. 63; p. 86, n. 65; p. 90, nn. 70-71; p. 93, n. 75; p. 94, n. 76; p. 101, n. 88; p. 102, n. 90; p. 104, nn. 9495; p. 106 sg., nn. 97-103 (da Volterra); p. 109, n. 104; p. 119, n. 123; p. 128, n. 134 (dai dintorni di Napoli); p. 131, n. 139; p. 136, n. 144; p. 138 sg., nn. 151-152; p. 163, n. 168; p. 166, n. 174; p. 169, n. 178. 61 G. Previtali, Introduzione, in Simone Martini e “compagni”, Catalogo della Mostra (Siena, 1985), p. 18 sg. 62 Ll .citt. a nota 8. 63 C. Cagianelli, Il tempio etrusco di Fiesole: due secoli di indagini, «Annuario dell’Accademia Etrusca di Cortona», xxvii, 1995-1996, p. 51 sg., tav. xvii, figg. 44-45.

64 A. F. Gori, Museum Etruscum, cit. (nota 8), vol. i, tav. xxiv. Per la provenienza cfr. S. Bruni, art. cit. (nota 60), p. 304, nota 36. 65 Museo Archeologico inv. 79030, acquisto Pacini, cfr. scontrino n. 723 del 27 maggio 1900, doc. n. 2 del iv rendiconto spese 51 esercizio 1899-1900: M. Bonamici, in Artigianato artistico, cit. (nota 2), p. 158, n. 211. 66 M. Cristofani, op. cit. (nota 8), p. 297, n. 123 (con bibl. prec.); Les Etrusques et l’Europe, Catalogo della Mostra (Parigi, 1992), p. 155 n. 239 (con altra bibl.). 67 Sulla diffusione di questo numerario, che travalica i confini dello stato volterrano, si veda S. Bruni, Sulla circolazione dell’Aes Grave volterrano. Nuovi contributi, «RivItNum», xcix, 1999, p. 47 sg. 68 F. Nicosia, Alcuni aspetti dell’attività produtiva e degli scambi nell’Etruria settentrionale interna, in L’Etruria mineraria, Atti del xii Convegno di Studi Etuschi ed Italici (Firenze-Populonia-Piombino, 16-20 giugno 1979), Firenze, 1981, p. 356 sg.; M. C. Bettini, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, Catalogo della Mostra (Bologna, 2000), p. 265 sg., nn. 337-339 (con altra bibl.). 69 G. De Marinis, Una nuova stele dall’Agro fiorentino, «StEtr», xlviii, 1980, p. 51 sg.; G. De Marinis, F. Nicosia, in Schätze der Etrusker, Catalogo della Mostra (Saarbrücken, 1986), p. 260 sg. 70 R. Bianchi Bandinelli, Edizione archeologica della carta d’Italia al 100.000. Foglio 113 (San Casciano Val di Pesa), Firenze 1927, p. 23 n. iv, NE n. 3; Idem, Materiali archelogici della Valdelsa e dei dintorni di Siena, «La Balzana», ii, 1928, p. 42; G. De Marinis, art. cit. (nota 69), p. 63, nota 42. 71 Su cui si veda, per ora, G.C. Cianferoni, D. Baroncelli, San Casciano in Val di Pesa (Firenze). L’insediamento di Poggio La Croce, «Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana», 2, 2006, p. 137 sg. 72 Sulla zona si vedano le osservazioni in G. De Marinis, Topografia storica della Val d’Elsa in periodo etrusco, Castelfiorentino 1977, p. 107 e nota 53.

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Nord,73 si colloca lungo una direttrice che da Fiesole, passato il guado dell’Arno, si spingeva con un percorso di crinale ad Impruneta e, passato il rilievo di San Casciano, si diramava verso il comparto chiantigiano, dove alle estreme propaggini dell’area fiesolana, si trovava un altro importante luogo di culto, forse dedicato a Selvans, indiziato da alcuni notevoli materiali da San Donato a Luciana acceduti negli anni a cavallo del 1900 al Museo Archeologico di Firenze.74 Assai poco è possibile dire su l’area sacra de La Costa di San Casciano, posta sul diverticolo che immetteva al guado della Pesa e che risalendo la collina di San Pancrazio si dirigeva verso l’area di Certaldo e la valle dell’Elsa; pur tuttavia le scarne notizie fornite dal Marmocchini lasciano immaginare che il luogo dovesse avere

una dimensione monumentale. Se le caratteristiche della statuetta già Borromei, al di là delle troppo laconiche indicazioni fornite dall’iscrizione, paiono documentare forme devozionali connesse con culti legati alla sfera della fertilità, come indica l’attributo della melagrana, un frutto, tuttavia, dall’ampia e diversificata polivalenza culturale,75 non sembra un caso che la documentazione relativa a San Donato a Luciana si collochi in un arco cronologico del tutto analogo, testimoniando, forse, di come Fiesole riorganizzi negli anni compresi tra l’ultimo scorcio del v e i primi decenni del iv secolo a.C. il proprio territorio, o quanto meno gli aspetti religioso-devozionali del comparto sud-orientale nella prospettiva dell’area senese e di Volterra.

73 Su cui si veda ora C. Cagianelli, Il santuario rurale di Impruneta (Firenze). Schede, in L’acqua degli dei, cit. (nota 42), p. 95 sg.; Eadem, Falsi dei all’ombra della Sacra Immagine. Il santuario etrusco presso la Pieve di Santa Maria all’Impruneta, in Artissimum memoriae vinculum. Scritti di geografia storica e di antichità in ricordo di Gioia Conta, Firenze, 2004, p. 93 sg. (con bibl. prec.). 74 Oltre al bronzetto ricordato supra a nota 65, si veda una nota ansa di situla: Firenze, Museo Archeologico inv. 78350, acquisto Laschi, cfr. B.C. n. 610 del 25 maggio 1899 (G. Q. Giglioli, L’arte etrusca, Milano, 1935, p. 68, tav. ccclvii, 2; M. Cristofani, Periodizzazione dell’arte etrusca, in Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco (Firenze, 26 maggio-2 giugno 1985), Roma, 1989, vol. ii, p. 608, tav. vii, c; M. Bonamici, art. cit. (nota 48), p. 9, figg. 18-19; F. Coppola, Le ciste prenestine. i. Corpus. 3: Manici isolati, Roma,

2000, 106, tav. lxxvii, fig. 36) nonché un bronzetto femminile: Firenze, Museo Archeologico inv. 79191, acquisto Pacini, cfr. scontrino n. 810 del 4 febbraio 1901, doc. n. 33 del ii rendiconto spese 51 esercizio 1900-1901 (inedito). 75 Su questo attributo si veda, in generale, F. Muthmann, Die Granatapfel Symbol des Lebens in den alten Welt, Bern, 1982; cfr. anche B. D’Agostino, Un aryballos plastico del Museo Campano, «ArchCl», xiv, 1962, p. 71 sg.; per i legami con la figura di Hera si veda I culti della Campania antica, Atti del convegno (Napoli, 15-17 maggio 1995), Roma 1998, p. 57 sg. Per il suo significato nel mondo orientale, cfr. U. Pastalozza, Iside e la melagrana: storia di un frutto e di una dea, in Religione mediterranea. Vecchi e nuovi studi, Milano, 1952, p. 1 sg.; nonché G. Barbiero, Cantico dei Cantici: nuova versione, introduzione e commento, Roma, 2004, p. 163 sg.

S EEFAHR ERGES C HIC HT E N − G Ö T T E RG E SCHI CHT E N ODER DER HUNG E R NACH BI LDE RN. Z U R FAS ZINATION DE S G RI E CHI SCHE N MYT HO S IN DER ETRUSKI SCHE N KULT UR Ingrid Krauskopf

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u der Erkenntnis, daß sich die Etrusker schon sehr früh für die griechischen Mythen interessierten, – im Grunde wohl, seit sie Gelegenheit hatten, sie kennenzulernen – hat Giovanni Colonna Entscheidendes beigetragen. Es ist mir daher eine große Freude, einige Gedanken zur frühen Aufnahme des griechischen Mythos in Etrurien ihm widmen zu dürfen. Er hat als erster ausgesprochen, daß die Auseinandersetzung mit dem griechischen Mythos bereits in der 1. Hälfte des 7. Jhs. begann, und daß der Boden für die bildliche Darstellung dieser Mythen vorbereitet war.1 Während der größte Teil der Villanova-Kultur sehr arm an figürlichen Bildern geblieben war, setzt an ihrem Ende eine Entwicklung ein, die in den Bronzen von Bisenzio gipfelt. Dargestellt sind dort wahrscheinlich zeitgenössisch-zeitlose Szenen – Tätigkeiten und Rituale, die sich immer wiederholten. Colonna vergleicht sie mit den Szenen, die Homer auf dem Schild des Achill beschreibt.2 Es ist wichtig, festzuhalten, daß die Etrusker, als sie mit griechischen Mythen in Kontakt kamen, bereits die Fähigkeit besaßen, Handlungen in Bilder umzusetzen. i. Wenige Jahre später hat Marina Martelli diesen Ansatz

aufgenommen und vertieft. Unter dem programmatischen Titel „Prima di Aristonothos“ sind alle Bilder der ersten Jahrhunderthälfte zusammengestellt, die möglicherweise griechische Mythen zum Inhalt haben:3 die euböischen Werkstätten nahestehende Kanne im British Museum4 (Abb. 1), der dem Pittore dell’Eptacordo zugewiesene „Krater“ aus der Monte Abatone-Nekropole5 und die Amphora in Amsterdam mit Medea und den Schlangen.6 Später kamen noch eine Amphora der Sammlung Fujita in Würzburg7 und ein eine knappe Generation jüngeres Gefäß der „White-on-Red“-Gattung mit einem Schiff und einer Sirene dazu.8 Zur selben Zeit wurde in Cerveteri, das wohl auch Fund- und Herstellungsort der bisher erwähnten Gefäße ist, die Vase gefunden, die allen Skeptikern, die noch an der Existenz griechischer Mythenbilder vor der Mitte des 7. Jhs. in Etrurien zweifelten,9 den Wind aus den Segeln nahm: die Bucchero-Olpe aus Cerveteri, loc. San Paolo, die dank der ausführlichen Publikation durch die Ausgräber10 in Archäologenkreisen schnell bekannt wurde. Sie ist zwar selbst erst um 630 entstanden, gehört aber bereits in eine zweite Phase der Rezeption des griechischen Mythos und setzt also eine erste Phase voraus. Zweifellos sind auf ihr die etruskisierten Namensformen, Metaia und Taitale, sehr bewußt

Abb. 1. Euböischen Werkstätten nahestehende Kanne im British Museum (nach J. N. Coldstream, «bics», 15, 1968, 89, fig. 2).

1 Colonna 1979 (1989), bes. 311 f. 2 Ibid., 303 f. 3 Martelli 1984. 4 J. N. Coldstream, «bics», 15, 1968, 86-96, Abb. 2; Martelli 1984, Abb. 15; Ceramica 1987, 253 f., Nr. 25, Taf. 80; Menichetti 1994, 54-56, Abb. 35b. Hier ist noch eine Olla des pittore argivo mit einer Frauenraubszene (?) hinzuzufügen: F. Canciani, in Komos. Festschrift für Thuri Lorenz, Wien, 1997, 49-51, Abb. 23-24. 5 Martelli 1984, 2-12, Abb. 1-4; Martelli 1988, 288-291, Abb. 12; Ceramica 1987, 261 f., Nr. 37, Taf. 90-91, mit weiterer Lit. Das Berühren des Kinns aus einer gewissen Distanz bezeichnet, wie Martelli gesehen hat, eher ein Flehen um Schonung als eine zärtliche Geste, wie sie meist vom Mann aus-

geführt wird (z.B. kretischen Kanne von Arkades und Relief aus Tarent: LIMC, iii, 1986, s.v. Ariadne, 105-106). 6 Martelli 1984, 12 f., Abb. 37-38; Ceramica 1987, 265, Nr. 41, Taf. 94. 7 Martelli 1988; Ceramica 1987, 262, Nr. 38 mit Abb., Taf. 92; E. Simon, «AA», 1995, 483-487; Ead., Schriften zur etruskischen und italischen Kunst und Religion, Stuttgart 1996, 99-104. 8 Martelli 1987. 9 R. Dik, «MededRom», 42, 1980, 15-30; Id., «MededRom», 43, 1981, 6981; Idem, «BABesch», 56, 1981, 45-65. Skeptisch zur Interpretation der Vasen „vor Aristonothos“: G. Camporeale, in Atti del II Congresso Internazionale Etrusco (Firenze, 26.5.-2.6.1985), Roma, 1989, ii, 905-924, bes. 913 f., zur Amphora in Amsterdam. 10 Rizzo, Martelli 1993.

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eingesetzt, um die Hauptfiguren zu kennzeichnen. Auf die Deutungsprobleme, die um die Interpretation des Tuches mit der Inschrift „kanna“ und die Einbindung des Taitale in dieArgonautenszenen kreisen,11 kann hier nicht eingegangen werden, ein paar Bemerkungen erscheinen aber notwendig: Derjenige, der den Fries der Olpe entworfen hat, kannte die Argonautensage gut; er hatte aber keine Ausgabe eines Argonautenepos – etwa des Eumelos12 – neben sich liegen. Er wußte z.B., daß Iason einmal monosandalos auftrat und verwendete dieses Bekleidungsdefizit in seiner Boxkampfszene als Hinweis darauf, daß die Wettkämpfer zu den Argonauten gehören. Er hätte aber wohl in keinem Epos eine Szene finden können, in der beide Kontrahenten während des Kampfes jeweils nur einen Schuh tragen. Er wußte auch, daß – was wir leider nur aus späteren Quellen rekonstruieren können – ein Tuch in einer Episode der Argonautensage eine wichtige Rolle spielte. Offensichtlich stellte er sich etwas sehr Großes vor,13 kein Bekleidungsstück und auch keine gewöhnliche Decke, denn es wäre lächerlich gewesen, dafür sechs Träger zu verwenden. In den späteren Quellen wird nicht von einem derart riesigen Tuch berichtet, sodaß der Etrusker für das Aussehen des Textils wohl seine eigene Phantasie zu Hilfe genommen hat. Für den Verjüngungszauber der Medea hat er dagegen eine Bildvorlage besessen, denn die Szene findet sich auch in – jüngeren – großgriechischen Bildern, die offensichtlich auf das gleiche Vorbild zurückgehen.14 Der Fries ist also eine Mischung aus konkreten Bildvorlagen und der Wiedergabe entweder einer nur durch mündliche Erzählungen bekannten Sage oder eines nur unvollständig erinnerten literarischen Textes. Auch andere, sowohl ältere wie auch gleichzeitige und jüngere etruskische Bilder griechischer Mythen zeigen eine erstaunliche Selbstständigkeit in der Bildgestaltung, wo immer dies in Ermangelung passender griechischer Bildvorlagen notwendig war: Der Maler der Amphora der „White-on-red“-Gruppe in Mailand (s. Anm. 8), der in einer unbeholfenen Komposition ein Schiff und eine frontal gesehene Sirene, wie er sie von den „Assurattaschen“ her kannte, nebeneinanderstellte, mußte sich wohl ohne griechische Bildvorlagen behelfen. Der Entwerfer der Friese der ersten Elfenbeinpyxis della Pania15 stellte eine Skylla mit Schlangenleib und Hundeköpfen dar und kombinierte sie mit der Flucht des Odysseus aus der Höhle des Polyphem und dem am Ufer wartenden Schiff –alles hat bisher keine Parallelen in der griechischen Bildkunst und ist möglicherweise seine Erfindung. Ganz ohne Parallelen ist die Szene der Amphora Fujita, deren Deutung auf die Argonauten beim Waffentanz durch Erika Simon (s. Anm. 7) durch die Argonautenszene der Olpe von S. Paolo gestützt

wird: In beiden Fällen agiert eine Gruppe von Männern, der Waffentanz ist zudem in einer späteren Quelle (Apollonios Rhodios, Argonautika, i, 1134 ff.) geschildert. Dagegen hat der Grieche Aristonothos16 für Käufer in Caere die im Bildrepertoire vieler griechischer Kunstlandschaften verbreitete Blendung des Polyphem gemalt, sie allerdings um ein sonst nicht dargestelltes Detail bereichert: die Käsedarre. In Homers Schilderung des Polyphem (Od. ix, 218 ff.) spielt die Milchverarbeitung eine große Rolle. Aristotonothos nimmt also ähnlich auf den Text des Epos Bezug wie der Schnitzer der Pyxis della Pania, der die bellende Skylla mit der Stimme des eben geborenen Hundes (Od. xii, 85 f.) Gestalt werden ließ. Fassen wir zusammen: Die Bilder griechischer Sagen in Etrurien aus den ersten drei Vierteln des 7. Jhs. zeigen, daß die Etrusker damals schon einen nicht geringen Teil der griechischen Mythen kennengelernt hatten. Der Import von Sagenbildern, die im früheren 7. Jh. auch in Griechenland noch nicht allzu zahlreich waren, dürfte dabei nicht die einzige und wohl nicht einmal die entscheidende Rolle gespielt haben. Ob er wenigstens die Initialzündung lieferte, oder ob mündliche Kontakte zwischen griechischen und etruskischen Handelsleuten den Anfang machten, wissen wir nicht. Jedenfalls waren die Etrusker damals schon imstande, aus eigener Erfindung Bilder zu gestalten und wandten diese Fähigkeit nun auch auf die griechischen Mythenszenen an. Wenn es nur darum gegangen wäre, Gegenstände mit Imitationen importierter Bilder zu schmücken, müßten die häufigsten Szenen der griechischen Vasen und der orientalischen Luxusgüter auch am häufigsten kopiert worden sein. Dies ist nicht der Fall, so sind z.B. Kampfszenen im frühen Etrurien im Vergleich zu Griechenland relativ selten. Es muß den Etruskern um den Mythos selbst gegangen sein. Dabei ist nun sehr interessant, welche Auswahl sie trafen: Odysseus, Medea und die Argonauten stehen im Mittelpunkt, außerdem das kretische Abenteuer des Theseus. Odysseus und die Argonauten wurden von den Griechen früh mit Orten in Italien in Verbindung gebracht,17 dies dürfte den Etruskern nicht entgangen sein. Wichtiger ist aber wohl etwas anders: In allen Fällen handelt es sich um Mythen, in denen eine Seefahrt eine entscheidende Rolle spielt. Schiffe und Gefahren zur See – seien es gegnerische Schiffe oder riesige Fische – sind auch in der Bildkunst außerhalb der genannten Sagenkreise häufig.18 In den zu Schiff erreichten fernen Ländern müssen dann Abenteuer bestanden werden, weniger durch Körperkraft und kriegerische Tüchtigkeit – obwohl diese natürlich nicht fehlen durften –, sondern durch Erfindungsreichtum, Listen und Geschicklichkeit. Deshalb war innerhalb der Argonauten-

11 Beiträge in chronologischer Folge: M. Schmidt, LIMC, vi, 1992, s.v. Medeia, 1* (Komm., S. 395); E. Simon, LIMC, vii, 1994, s.v. Taitale, 1*; F.H. Massa Pairault, «ParPass», il, 1994, 437-468; G. Pugliese Carratelli, ibid., 363-364; M. Menichetti, «Ostraka», 4, 1995, 273-283; Cerchiai 1995; E. Simon, in The Ages of Homer. A Tribute to Emily Townsend Vermeule, Austin 1995, 407-413; L. Breglia Pulci Doria, in Mito e storia in Magna Grecia, Atti del xxxvi Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 1996), Taranto, 1997, 242-244; C. J. Smith, in Ancient Greeks West and East, ed. G. R. Tsetskhladze, «Mnemosyne», Suppl., 196, 1999, 179-206; H. Rix, «aion ArchStAnt», n.s., 9-10, 2002-2003, 95-101; V. Bellelli, ibid., 79-94; F. Neri, «RivStAnt», 33, 2003, 7-40; M. Harari, in Iconographie impériale, iconographie royale, iconographie des élites dans le monde gréco-romain, ed. Y. Perrin, Th. Petit, Saint-Étienne, 2004, 155-174; S. Paltineri, «QuadTic», 34, 2005, 17-41. 12 Zu Eumelos: A. Debiasi, L’epica perduta. Eumelo, il Ciclo, l’occidente, «Hesperìa», 20, Roma, 2004, 27-39. 13 Gegen die Deutung als Segel (Bellelli, s. Anm. 11) spricht der Um-

stand, daß man sich ein Segel nur schwer mit Fransen an den Enden vorstellen kann. 14 LIMC, v, 1990, s.v. Iason, 78-79, mit Lit. 15 Cristofani 1996. 16 Abb. und Überblick über andere frühe Polyphem-Darstellungen: B. Andreae, Odysseus. Mythos und Erinnerung, Kat. der Ausstellung (München, 1999-2000), Mainz 1999, 108-134; s. ibid., 113-115, ein Gefäß der „White-on-red“-Gattung mit einer weiteren ungewöhnlichen Darstellung des Polyphem-Abenteuers. 17 I. Malkin, The Returns of Odysseus, Berkeley-Los Angeles-London, 1998, bes. 156-177; E. Federico, Miti greci oltremare, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, ii, 3. Grecia e Mediterraneo dall’viii sec. a.C. all’età delle guerre Persiane, a cura di M. Giangiulio, Roma, 2007, 663-690, zu den Argonauten im Westen: 682. Name des Odysseus in etruskisierter Form im späten 7. Jh. belegt D. F. Maras, «StEtr», lxv-lxviii, 2002, 237-249. 18 Colonna 1979 (1989), 312; L. Cerchiai, «Ostraka», 11, 1, 2002, 29-36; Ch. Pizzirani, «Ocnus» 13, 2005, 251-258.

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Abb. 2. Oinochoe von Tragliatella (nach G. Q. Giglioli, «StEtr», iii, 1929, Taf. 26).

sage Medea für die Etrusker besonders wichtig, und ihre magische Kunst konnte sogar verabsolutiert werden: Auf der Amphora in Amsterdam (s. Anm. 6) sind weder das Goldene Vlies noch Iason zu sehen, dafür aber mehrere Schlangen – Medea als Schlangenbändigerin. In diesen Kontext paßt auch Daidalos: Auch er überwindet große Entfernungen durch eigene Kunstfertigkeit und macht außerdem eine Reihe von Erfindungen, die die technisch begabten Etrusker fasziniert haben dürften; Daidalos erscheint als ÚáÙÔ˜ ÂéÚÂÙ‹˜ vieler durchaus realer Kunstfertigkeiten. MÉÙȘ19 zeichnet auch ihn aus. Auch Theseus benötigt nicht nur Tapferkeit zur Tötung des Minotauros, sondern einige Hilfsmittel, um sich im Labyrinth zurechtzufinden. Deshalb ist Ariadne, die sie ihm verschafft, den Etruskern wichtig gewesen. Selbst die Argonauten der Amphora Fujita brauchen für ihren Waffentanz äußerste Geschicklichkeit, um sich nicht selbst zu verletzen. Dagegen fehlt der in Griechenland häufig dargestellte Perseus. Das mag Zufall sein, aber der statistische Vorsprung der Argonauten- und Odyssee-Bilder dürfte auch durch neue Funde nicht leicht einzuholen sein. Perseus’ Erfolg basierte auf massiver göttlicher Hilfe. Vielleicht erschienen die Geschenke der Nymphen und die Ratschläge der Athena den Etruskern zu märchenhaft und jedenfalls nicht geeignet, im Spiegel des Mythos ihre eigenen Erfahrungen als Seefahrer zu reflektieren. Daß ein Volk, das sich in kurzer Zeit aus agrarisch geprägten Anfängen zu einer Seefahrernation entwickelt hatte, ein großes Interesse entwickelte an Erzählungen von abenteuerlichen Reisen und erfindungsreichen, sich in vielen Gefahren bewährenden Helden, erscheint selbstverständlich. So mögen die ersten griechischen Sagen nach Etrurien gelangt sein: als Bilder – im wörtlichen wie auch im übertragenen Sinne – der Erfahrungen einer Nation von Schiffsleuten und Handelsherren. ii. Der Siegeszug, den der griechische Mythos in den folgenden Jahrzehnten in Etrurien antrat, ist nicht allein durch eine Vorliebe für Seefahrergeschichten zu erklären. In der neuen Welle griechischen Einflusses, die seit dem bahnbrechenden Aufsatz von Giovanni Colonna20 mit dem Namen des Demaratos verknüpft zu werden pflegt, erweiterte sich das Spektrum der für Etrusker interessanten Mythen durch Sagen und Heroen, die aristokratische Tugenden vorbildhaft verkörperten: Herakles und die Helden des trojanischen Kriegs werden beliebt, ganz allgemein auch KriegerSzenen. In dieser Phase ist die Interpretation von Bildfolgen als programmatische Darstellung der Interessen einer aris19 Zu ÌÉÙȘ, Cristofani 1996; Cerchiai 1995. 20 «ArchCl», xiii, 1961, 9-24. 21 J. P. Small, «RM», 93, 1986, 63-96; M. Menichetti, «Ostraka», 1, 1992, 7-30; Menichetti 1994, 57-65 Abb. 35c-36. 22 Zur Kanne s. Anm. 4. Zum Anhänger: Z. D. Papadopoulou, in

tokratischen Oberschicht eher angebracht als in der Frühphase des griechischen Mythos in Etrurien. Wie sehr die alten Bilder nun auch in neue Inhalte eingebunden werden konnten, zeigt die Oinochoe von Tragliatella21 (Abb. 2). Ihr schon lange erkannter Zusammenhang mit der TheseusAriadne-Ikonographie ist unbestreitbar, zumal da inzwischen zu dem Labyrinth eine exakte griechische Parallele auf einem Steatitanhänger aus dem Delion von Paros (Abb. 3) bekannt geworden ist, der auf der Gegenseite Tänzer und einen Wasservogel, einen Kranich (?) zeigt, wozu die geometrische Kanne in London zu vergleichen ist22 (Abb. 1). Andererseits müssen die etruskischen Namensbeischriften bei „Theseus und Ariadne“ und truia bei dem Labyrinth ebenso ernst genommen werden wie die Inschriften der Oinochoe von S. Paolo. Es sind also Etrusker dargestellt, und das Bildprogramm muß auf sie bezogen werden. iii. Die Brauchbarkeit des griechischen Mythos zum Zwecke der Selbstdarstellung der etruskischen Aristokratie kann die Faszination, die er – im Gegensatz etwa zu orientalischen Mythen – auf die Etrusker ausgeübt hat, noch nicht ganz erklären. Es ist wohl noch ein drittes, sehr wichtiges Motiv hinzugekommen: Nicht nur Perseus hatte zunächst im Bildrepertoire der Etrusker gefehlt, sondern es sind bis jetzt auch keine etruskischen Bilder von Göttersagen aus dem 7. Jh. bekannt. Die einzigen sicher als solche erkennbaren Bilder von Göttern sind die nach orientalischen Vorlagen geschaffenen Darstellungen der Herrin und des Herrn der Tiere. Götter, wie wir sie aus den homerischen Epen kennen, Götter, die in Menschengestalt auf die Erde kamen, um ihre Schützlinge zu beraten und zu unterstützen, Götter, die selbst in allzumenschliche Händel und Liebschaften verstrickt waren, dürften zunächst befremdlich auf die Etrusker gewirkt haben, die sich ihre Gottheiten eher als abstrakte, sich in ihren Wirkungen manifestierende Kräfte vorstellten. Offensichtlich war diese Götterkonzeption aber nicht starr festgelegt, sondern wandlungsfähig. Der in jener Zeit einsetzende Prozeß der antropomorfizzazione des etruskischen Pantheon ist bereits Gegenstand mehrerer Untersuchungen gewesen,23 sodaß ich mich jetzt auf einige wenige Aspekte beschränken kann: Götter in Menschengestalt, die nach für die Menschen nachvollziehbaren Kriterien in das Leben der Menschen eingriffen, konnten die Etrusker vor allem im Medium des griechischen Mythos kennenlernen. Indem sie versuchten, ihre eigenen Gottheiten in diesen fremden Göttern wiederzuerkennen, dürften sie festgestellt AP°ONAYTH™. TÈÌËÙÈÎc˜ ÙfiÌÔ˜ ÁÈ· ÙÔÓ Î·ıËÁËÙfi XÚÈÛÙÔ °. NÙÔ˘Ì·, Athen 2003, 734-751; E. Simon, «AA», 2004, 419-422, Abb. 1. 23 M. Cristofani, in Miscellanea Etrusco-Italica, 1, «Quadaei», 22, 1993, 9-21.

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Abb. 3. Steatitanhänger aus dem Delion von Paros (nach E. Simon, «aa», 2004, 419-422, Abb. 1).

haben, daß es leichter fiel, sich in Bitte und Gebet an solche menschenähnlich aussehenden und handelnden Gottheiten zu wenden als an abstrakte, nicht faßbare numina. Der griechische Mythos, der ihnen diese Götter nahebrachte, ermöglichte es ihnen, sich – in wörtlichem und in übertragenem Sinn – ein Bild von den Göttern zu machen. Der Prozeß der – partiellen – Angleichung der etruskischen Gottheiten an das griechische Götterbild war in der 1. Hälfte des 6. Jhs. so weit fortgeschritten, daß erste kultisch verehrte Götterbilder entstehen konnten.24 Sie sind nicht erhalten; vermutlich stellen einige der ihres Kontexts und ihrer Attribute beraubten etruskischen Statuen und Statuetten jener Epoche Götter dar; für uns sind sie jedoch nicht mehr benennbar. Es ist deshalb wohl kein Zufall, daß die Gottheit, die am besten zu erkennen ist, Athena-Menerva – ikonographisch gesehen eine Frau in langem Gewand mit Waffen – für uns auch als erste faßbar wird: auf einem Relief aus Castellina in Chianti aus dem beginnenden 6. Jh.25 Athena-Menerva erscheint bald auch wie in Griechenland als Helferin von Heroen, etwa bei der Enthauptung der Medusa durch Perseus auf einer bemalten Tonplatte aus Caere.26 In der in der ersten Hälfte des 6. Jhs. einsetzenden und in dessen mittleren Jahrzehnten stark anschwellenden Flut von Bildern griechischer Sagen in Etrurien sind Szenen, in denen Götter auftreten, relativ häu-

fig, proportional wohl häufiger als in Griechenland, wenn man die Bilder des dort besonders beliebten dionysischen Themenkreises ausklammert. Die meisten etruskischen Darstellungen folgen griechischen Vorlagen, doch gibt es auch Bilder, die vermutlich von den etruskischen Kunsthandwerkern selbständig geschaffen wurden. Die menschlichen Züge der Götter werden dort oft deutlicher herausgestellt, so zieht in zwei voneinander unabhängigen Bildern des Parisurteils27 Aphrodite/Turan kokett ihr Gewand hoch und entblößt ihre Waden: Die Göttinnen, die sich bemühen, Paris zu gefallen, wenden menschliche Tricks an. In anderen Fällen dagegen wird die Göttern eigene Macht, Frevel zu rächen und die Frevler zu töten, bei identischer Handlung ikonographisch deutlicher hervorgehoben als in Griechenland: Auf einer Amphora des Tityos-Malers28 verfolgt Apollon/Aplu Tityos nicht zu Fuß wie in der griechischen Bildkunst, sondern auf einer Quadriga, begleitet von einem ihm zugeordneten Mischwesen, dem Greifen. Allein schon durch den Raum, den er mitsamt seinem Gespann einnimmt, wird seine Überlegenheit unübersehbar. Auf der anderen Seite des Gefäßes werden nach der Deutung von Erika Simon29 Koronis, die Geliebte des Apollon, und ihr menschlicher Geliebter Ischys von Dämonen vor Apollon und Artemis geführt. Der Mythos hätte in Griechenland nicht in die-

24 Das älteste erwähnte Kultbild ist das des Jupiter Capitolinus (dazu kurz G. Colonna, Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane, ii, 1, Pisa-Roma, 2005, 891 f. = «ParPass», xxxvi, 1981, 46 f.). Daß man den Künstler aus Veio holte, setzt voraus, daß in Etrurien bereits Ähnliches hergestellt wurde. 25 Zu Menerva: G. Colonna, LIMC, ii, 1984, 1050-1074 (Bronzeblech: s.v. Athena/Menerva, 91*). Das ältere Gefäß der „White-on-red“-Gattung im Louvre mit der Athena-Geburt wird vorsichtshalber ausgeklammert. Es ist stark übermalt, wie naturwissenschaftliche Untersuchungen zeigen. Offensichtlich ist nicht zu klären, was unter der Übermalung vorhanden war, s. K. Geppert, «Revue du Louvre», 50, 2000, 33-38. Weniger überzeugend sind die Argumente, die nachweisen sollen, daß die heute sichtbare Szene frei erfunden ist. Man kann einen unklaren Gegenstand nicht erst zur Ägis zu erklären und dann damit argumentieren, daß es sonst nirgends eine solche Szene gebe. Auch sollte die Olpe von S. Paolo gezeigt haben, daß eine Argumentation, die sich darauf beruft, daß es keine oder nur viel

spätere Parallelen gebe, nicht greift. Daß die Athena-Geburt in Etrurien erst auf Spiegeln des 4. Jhs. nachweisbar ist, dort aber in einem archaischen, in Griechenland nicht mehr benutzten Schema, zeigt vielmehr, daß es in Etrurien archaische Darstellungen gegeben haben muß. Aber auch wenn man annimmt, daß nicht die kompletten Bilder modern sind, sondern eine antike Grundlage für sie vorhanden war, so könnten dennoch die Details, auf denen die Deutung beruht, d. h. der Blitz (von griechischem Typus) in der Hand des Thronenden und die Gestalt der Athena, modern sein. 26 LIMC, ii, 1984, s.v. Athena/Menerva, 205. 27 Tontafel aus Cerveteri und Amphora des Parismalers: LIMC, vii, 1994, s.v. Paridis iudicium, 41-42; ibid., viii, 1997, s.v. Uni, 29*-30. 28 LIMC, ii, 1984, s.v. Apollon/Aplu, 3*, s. auch 4-6. 29 R. Hampe, E. Simon, Griechische Sagen in der frühen etruskischen Kunst, Mainz, 1964, 32-34, Abb. 7; LIMC, ii, 1984, s.v. Apollon/Aplu, 7*

se e fa h re rge schichten – götterges chichten ser Form dargestellt werden können, denn die dienstbaren Dämonen gehören offensichtlich dem Bereich des Todes an, von dem sich der griechische Apollon, auch wenn er tötet, fernhält. Bald konnten die griechischen Göttermythen auch modifiziert werden: Zwar ist die Feindschaft zwischen Hera und Herakles eines der Leitmotive im Heraklesmythos. Es ist aber nicht bekannt, daß Hera und Herakles in einem ihrer Heiligtümer in Streit gerieten. Auf einer Amphora des Parismalers30 geschieht eben dies. Vielleicht geht es um den Besitz der am Boden stehenden, mit Schlangenprotomen geschmückten Kessel. Zeus/Tinia und Athena/Menerva, die anwesend sind, werden wohl schlichten. Anscheinend ist hier eine neue, etruskische Sagenvariante geschaffen worden, in Analogie zum Dreifußstreit zwischen Apollon und Herakles. Hera/Uni ist im Typus der Iuno Sospita mit dem Ziegenfell dargestellt; möglicherweise, um sie von anderen Göttinnen unterscheiden zu können. Wo die griechische Ikonographie solche Unterscheidungskriterien nicht lieferte, suchten die Etrusker nach anderen Charakterisierungsmöglichkeiten und fanden sie in diesem Fall im Typus der Iuno Sospita von Lanuvium. Daß es den Etruskern auf diese deutliche Charakterisierung und Erkennbarkeit ankam, ließe sich noch an vielen weiteren Bildern aufzeigen. Ursache ist wohl eine – in einem gewissen Sinn naive – Freude an diesen Bildern, man wollte möglichst viel von diesen menschlichen Göttern sehen, sie im Bild begreifen lernen. Die genannten Bilder stammen aus der Zeit, in der die Caeretaner beim Delphischen Apollon anfragten, wie sie sich vom Frevel der Tötung der phokäischen Gefangenen reinigen könnten, und in der Herakles zum kultisch 30 LIMC, viii, 1997, s.v. Uni, 67.

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verehrten etruskischen Gott Hercle wurde, der in Feindschaft oder Partnerschaft souveräner unter den anderen Göttern agieren konnte als der griechische Halbgott. Der Erfolg der griechischen Götter in Etrurien ist vom Erfolg des griechischen Mythos nicht zu trennen, denn erst der Mythos ermöglichte es den Etruskern, sich ein Bild von ihren Göttern zu machen. Abkürzungen Ceramica 1987 = M. Martelli et alii, La ceramica degli Etruschi, Novara, 1987. Cerchiai 1995 = L. Cerchiai, Noterella su Medea, Dedalo e gli Argonauti, «aion ArchStAnt», n.s., 2, 1995, 215-217. Colonna 1979 (1989) = G. Colonna, Riflessi dell’epos greco nell’arte degli Etruschi in L’epos greco in Occidente, Atti del xix Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 1979), Taranto, 1989, 303-320. Cristofani 1996 = M. Cristofani, Paideia, arete e metis: a proposito delle pisside della Pania, «Prospettiva», 83-84, 1996, 2-9 (= M. Cristofani, Scripta selecta, Pisa-Roma, 2001, 889-903). Martelli 1984 = M. Martelli, Prima di Aristonothos, «Prospettiva», 38, 1984, 2-15. Martelli 1987 = M. Martelli, Del Pittore di Amsterdam e di un episodio del nostos odissiaco. Ricerche di ceramografia etrusca orientalizzante, «Prospettiva», 50, 1987, 4-14. Martelli 1988 = M. Martelli, Un’anfora orientalizzante ceretana a Würzburg ovvero il Pittore dell’Eptacordo, «aa», 1988, 285-296. Menichetti 1994 = M. Menichetti, Archeologia del potere, Milano, 1994. Micozzi 2005 = M. Micozzi, “White-on-red”: miti greci nell’Orientalizzante etrusco, in AEIMNH™TO™ . Miscellanea di studi per Mauro Cristofani, i, Firenze, 2005, 256-266. Rizzo, Martelli 1993 = M. A. Rizzo, M. Martelli, Un incunabolo del mito greco in Etruria, «ASAtene», 66-67 (n.s., 48-49), 19881989 (1993), 7-56.

TLUSC H VA, DI VI NI T À CTO NI E Adriano Maggiani

T

ra le decine di teonimi raccolti in quel regesto della religione etrusca di età tarda che è il fegato bronzeo di Piacenza (databile probabilmente nel i sec. a.C.), non sono pochi quelli altrove non attestati e pertanto completamente oscuri per quel che attiene alla natura dell’entità divina che designano.1 Tra questi vi è certamente il nome che nel bronzo compare in ben tre regioni della parte ventrale nelle forme tluscv e tlusc2 (Fig. 1). «One of the most enigmatic names» lo ha definito van der Meer nella sua ancora recente monografia.3 Il teonimo compare nella casella 12 del terzo settore del nastro periferico, che raggruppa divinità pertinenti alla sfera ctonia; ma esso riappare all’interno, evidentemente nei luoghi dove effettivamente si dovevano osservare i suoi presagi: una prima volta in uno spicchio della figura in forma di ruota (casella 33), una seconda nella zona intermedia tra lobo destro e sinistro (casella 40). La posizione degli studiosi: da Walter Deecke a Giovanni Colonna Il confronto istituito da tempo tra la lista dei nomi divini del nastro periferico del fegato di Piacenza e quella degli dei insediati nelle sedici regioni del cielo, secondo la rappresen-

tazione che ne dà molti secoli dopo Marziano Capella, ha sempre stimolato a cercare delle identificazioni possibili tra i teonimi etruschi e quelli latini messi insieme dall’erudito autore del De nuptiis Mercurii et Philologiae.4 E così se il Deecke pensava, coerentemente con la sua numerazione delle caselle del fegato, che Tluscv fosse la versione etrusca degli dei romani Consus e Neptunus che sono menzionati nella corrispondente regione decima di Marziano,5 il Thulin lo identificava più specificamente con il solo Consus.6 Lo specialista ineguagliato della disciplina etrusca sosteneva l’esistenza di un parallelismo tra la distanza che separa le due regioni interne del fegato nelle quali il nome compare (caselle 10 e 14 della sua numerazione) e l’intervallo che esiste nel Calendario romano tra le due feste di Consus, rispettivamente al 21 agosto e al 15 dicembre. Nel suo lavoro sul fegato, il van der Meer si soffermava invece sulla forma del nome, giungendo ad ipotizzare che esso nel fegato fosse realizzato in forma abbreviata, in luogo di *tluschva, e tentandone anche una piuttosto acrobatica identificazione con il romano Tellurus.7 L’intervento più recente sulla questione mi sembra quello di Giovanni Colonna, del 1994, che accogliendo la lezione tluscu per il teonimo ne rilevava l’isolamento: “Tluscu è un

Fig. 1. Fegato bronzeo di Piacenza (da Maggiani 1984).

1 Sul fegato, Maggiani 1982; van der Meer 1987; Colonna 1994. Utile per alcune proposte di lettura Morandi 1988, peraltro largamente inaccettabile nella parte interpretativa. 2 Nella numerazione delle caselle utilizzo quella da me proposta in Maggiani 1982. 3 van der Meer 1987. 4 Cfr. in particolare Thulin 1906a; cfr. anche Weinstock 1946. 5 Deecke 1880, p. 59 sgg. 6 Thulin 1906a, pp. 4 e 55 sgg. Quella di una identificazione puntuale

con gli dei di Marziano non sembra una strada particolarmente fruttuosa; la regio xii di Marziano, che dovrebbe coincidere con quella del fegato contenente il termine tluscv è abitata dal solo Sancus. Sulle corrispondenze tra i due elenchi di divinità è ancora utile Pallottino 1956. 7 van der Meer 1987, p. 70 sgg. Lo studioso arrivava a questa proposta, dopo aver constatato che un suffisso -cu sarebbe senza precedenti; un’affermazione che mi sembra inesatta (cfr.ad es. hatrencu, cencu, velscu, puscu ecc., cfr. ET i, p. 238, ad voces).

tluschva , divinità ctonie

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Fig. 2. Cerveteri, località S. Antonio. Pianta parziale del santuario.

Individuato da Mauro Cristofani fin dal 1993 nel settore sudorientale del pianoro urbano, in corrispondenza dell’accesso alla città dalla valle della Mola, il santuario è da allora oggetto di sistematiche campagne di scavo, che hanno messo

in luce un impianto di grandi dimensioni, articolato su due templi tuscanici, disposti parallelamente con le fronti a sudest, separati da una vasta area intertemplare al centro della quale sorgeva un altare monumentale10 (Fig. 2). Lo studio delle strutture ha consentito di ricostruire la storia del sito che conosce una frequentazione di carattere sacro forse già in età orientalizzante;11 all’inizio dell’età arcaica risale la realizzazione di una grande vasca-fontana inizialmente scoperta (Fig. 2, n. 1), che, nell’avanzata seconda metà del vi secolo,in occasione della costruzione di un primo edificio templare (“tempio proto-a”), venne coperta con lastroni disposti a falsa volta e resa accessibile mediante un’apertura circolare. Completavano le strutture di questa fase una casa a tre vani paralleli con ampia cantina ipogea, disposta davanti al tempio, e una grande cisterna anch’essa con copertura a falsa volta (Fig. 2, n. 2). Alla fine del vi o agli inizi del v sec. l’area fu completamente ristrutturata e subì una decisa monumentalizzazione, con la costruzione dei due templi, a e b.

8 Colonna 1994, p. 128, nota 26. Probabilmente l’autore riteneva che il nome fosse un aggettivo in -u, del tipo turnu o simili. L’autore ipotizzava che dietro l’epiteto si nascondesse il dio Maris, “di cui conosciamo più epiteti che di qualsiasi altro”. Argomento credo giustificato dalla associazione dei due teonimi nelle regioni 39 e 40, considerate dallo studioso una casella unica.

9 E, notizia di questi giorni, da un luogo di culto a Campo della Fiera a Orvieto. Cfr. infra, addendum. 10 Rizzo 1995, p. 22; Cristofani 1996a; Cristofani 1996b, p. 77 sg.; Cristofani 2000, p. 406 sgg.; Maggiani, Rizzo 2001; Colonna 2004. 11 Come sembrano testimoniare i bothroi con ricche ceramiche protocorinzie, cfr. Rizzo 2001, p. 147, ii.b.2.1-5.

hapax, l’unico hapax in senso assoluto del fegato, non collegabile con una testimonianza letteraria come Mae, né a un nome di città, come si è visto possibile per Velch(.). Come tale è più verosimile che sia un epiteto ‘locale’ che non un vero teonimo”.8 Come spesso avviene, la ricerca archeologica può cambiare radicalmente il quadro di riferimento, offrendo alla discussione nuovi documenti e contribuendo alla soluzione di almeno alcuni aspetti del problema. Questa volta le novità vengono dal santuario individuato in loc. S. Antonio a Cerveteri9. Il santuario in località S. Antonio a Cerveteri

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Fig. 3. Piede di anfora attica, dalla cisterna n. 3.

Fig. 4. Iscrizione di possesso menzionante il teonimo Tluschva.

Il tempio a nella sua fase tardoarcaica (inizi del v sec. a. C.) appare come un grande tempio a tre celle, con podio di 80 × 55 piedi circa (m 24 × 16,5).14 Anche ad esso fu affiancata una cisterna (Fig. 2, n. 3) per il necessario approvvigionamento idrico. Una ristrutturazione è accertata, per il tempio a, tra la fine del iv e l’inizio del iii sec., epoca nella quale l’edificio ricevette una sistemazione lapidea della fronte, ora tetrastila, con colonne a base tuscanica e capitello figurato.15 Davanti alla fronte del tempio, in una posizione in cui era lecito attendersi la presenza di un altare, è stato invece individuato nel 1999 un piccolo bothros, che conteneva i resti di numerose offerte votive, i cui materiali più recenti appartengono alla fine del iv-inizi del iii sec. a.C., l’epoca della ricostruzione o del rifacimento parziale dell’edificio. Dalla cisterna del tempio a e dal bothros provengono alcune iscrizioni di possesso riferibili a una divinità finora non attestata nel santuario. Le iscrizioni

Fig. 5. Piede di anfora attica (ril. G. Ugolini).

Il tempio a e le sue pertinenze L’edificio meglio noto di questo santuario,che Cristofani ha definito “di margine”, “a controllo di uno degli ingressi meridionali alla città”,12 è certamente il tempio a. Al suo interno si conservano le tracce della trincea di fondazione di un precedente tempio probabilmente di piedi 50 × 28,5 (m 15 × 8,35 ca.) (tempio proto-a), servito da una cisterna coperta a falsa volta (Fig. 2, n. 2), dalla quale proviene una delle antefisse a testa femminile che dovevano decorarne l’alzato.13 12 Cristofani 2000, pp. 409 e 429. 13 Rizzo 2001, p. 148 sg., ii.b.4.1. 14 Sulle dimensioni di alcuni templi tuscanici contemporanei, cfr. Cristofani 2000, p. 406 sgg. 15 Sulla storia del santuario, Maggiani, Rizzo 2001, p. 143. sg.; Iid. 2005; cfr. ora Maggiani 2008. 16 Cfr. Walters 1927, tavv. 38,2; 39,1-2; 42, 1-2.

a) Piede di anfora attica. Dal riempimento della cisterna 3. Alt. max. cons. cm 6; diam. del piede cm 16 (Figg. 3-5). Il piede sagomato a gradini è caratteristico di anfore di diverso tipo. Questa particolare conformazione è documentata dalla fine del vi sec. su vasi a figure nere, in particolare anfore di tipo a,16 ma viene utilizzata anche dai primi pittori a figure rosse. È particolarmente usato su grandi anfore a collo distinto con anse attorte, ad es. di Euphronios e di altri pittori degli anni intorno al 500 a.C.17 In questi casi però il piede presenta sempre una fascia risparmiata al centro o alla base della sequenza delle modanature. La variante completamente verniciata, come nel caso del frammento ceretano, sembra caratteristica della produzione del Pittore di Berlino, che la adotta sulle due grandi anfore di tipo a di Berlino e Basilea e su una serie di anfore di modulo minore con anse attorte, nonché su una più piccola anfora a collo 17 Sulla forma, Beazley 1928, p. 13 sg., tav. 4-6 (pittore di Euthymides) con altri riferimenti. Cfr. ad es. le anfore di Euphronios, Denoyelle 1991, p. 143 sgg., n. 19, Pottier 1931, tav. 33, 1-4, e Utkina 1991, n. 17, p. 137 sgg., o anche la grande anfora del Pittore di Euthymides, Arias 1962, fig. 117. Su anfore di tipo a di questa fase, cfr. ad es. Lullies 1956, p. 13 sgg., tav. 165 (Euthymides), tav. 178 (Nikoxenos); Beazley 1928, p. 13 sgg., tav. 4-6.

tluschva , divinità ctonie

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Fig. 6. Piede frammentario di coppa, dal bothros del 1999.

Fig. 7. Piede di coppa iscritto (ril. G. Ugolini).

distinto con anse a bastoncello.18 Questa peculiarità sembra da attribuire a una consapevole innovazione della maturità del ceramografo. Lo stesso Pittore di Berlino ha dipinto infatti un’anfora, oggi a Basilea, a collo distinto con anse a bastoncello costolato, che Beazley giudicava «early», che riproduce fedelmente nella decorazione della faccia a la scena della battaglia di Herakles contro le Amazzoni creata da Euphronios sul cratere da Arezzo;19 in questo vaso il piede a gradini presenta, coerentemente, proprio come nei vasi di Euphronios, una fascia risparmiata. Il diametro del piede del vaso ceretano, che si aggira sui cm 16, esclude che possa trattarsi di un’anfora di tipo a (diametri intorno a 22-23 cm); si tratterà molto probabilmente di un’anfora a collo distinto con anse attorte, da datare tra primo e secondo decennio del v sec. a.C., circa 490 a.C. Il graffito corre sull’esterno del piede, nella fascia centrale concava risparmiata. Alt. delle lettere mm 28-30: tlus¯val

L’iscrizione è graffita sul fondo esterno, risparmiato, con lettere alte mm 6: tlus¯[---]

La scrittura è quella corrente a Cerveteri in età tardo arcaica.20 In posizione simmetrica rispetto alla iscrizione principale è graffito un contrassegno mercantile, tipo Johnston 5c.21 Si tratta di un marchio che compare su ben quattro vasi (tutti stamnoi) del Pittore di Eucharides, un contemporaneo del Pittore di Berlino, uno dei quali proveniente da Vulci, ma anche su un vaso del Pittore di Argos, appartenente più o meno allo stesso periodo, e su uno più tardo di Hermonax (un pittore che Beazley riteneva uscito dalla scuola del Pittore di Berlino), entrambi da Cerveteri.22

L’iscrizione è lacunosa. Il chi è redatto in posizione capovolta rispetto al resto delle lettere. La lettura è però certa e l’integrazione obbligata: tlus¯[val]. c) Piede di una larga coppa. Argilla nocciola; vernice spessa, coprente, abbastanza lucente. Alt. max. cons. cm 2,1; diam piede cm 5,5. Il profilo del piede e l’andamento della parete, nonché le dimensioni, trovano un possibile confronto in un esemplare da Volterra, datato tra la fine del iv e la metà del iii sec. a.C. (forma Morel 2913a1). Produzione locale o regionale. Forse prima metà del iii sec. a.C. Dal riempimento della Cisterna n. 3 (Figg. 8-9). L’epigrafe è redatta in forma abbreviata e con ductus destrorso sul fondo della coppa, con lettere alte mm 1,8-2. L’iscrizione non è di facile lettura; mentre i primi due segni sono immediatamente identificabili come un tau e un lambda, la terza lettera pone problemi. Si riconosce infatti un’asta obliqua profondamente graffita; ma una lettura del segno come iota mi sembra da scartare, dato che ritengo non casuale, anche se graffita molto meno profondamente, una seconda asta a sinistra della prima che va a intercettare la sommità della traversa del lambda. Penso che malgrado la scarsa visibilità del tratto, esso andasse a formare con il precedente una ypsilon. Ne deriva la proposta di lettura: tlu

b) Piede di coppetta, probabilmente forma Morel 2766a1.23 Argilla nocciola; vernice nera distesa uniformante. Alt. max. cons. cm 1,7; diam. del piede cm 3,9. Vicina alla produzione dell’“Atelier des petites estampilles”. Fine del iv - inizi del iii sec. a. C. Dal bothros del 1999 (Figg. 6-7).

Se la trascrizione è corretta, la testimonianza delle altre iscrizioni non lascia dubbi sulla pertinenza del graffito alla serie delle dediche alla medesima divinità. Anche in questo caso l’integrazione sarà tlu(s¯val).

18 Beazley 1911, p. 281. Sull’anfora di Basilea, cfr. Beazley 1963, p. 1634, 1 bis. Per anfore con anse attorte, cfr. ad es. Walters 1927, tavv. 8, 3; 9, 1-3; Lullies 1961, tav. 210, 1-4; Kurtz, Beazley 1983, nn. 6-10, tav. xxxviii-xl (quest’ultima è un’anfora «with ridged handles»). Piede completamente verniciato anche su un’anfora del Pittore di Eucharides, Lullies 1961, tav. 212, 1-2, che però nella decorazione dipende da modelli del Pittore di Berlino, cfr. Lullies 1961, p. 9. Nei pittori più tardi ritorna la fascia risparmiata, cfr. ad es. Walters 1927, tav. 11-16; Forsdyke, Walters 1930, tavv. 47, 1; 58, 3 (Alkimachos P.), 59, 1-2 (Briseis P.); Lullies 1961, tavv. 212, 3-5 (Pittore di Villa Giulia), 213, 1-2 (Pittore di Nausicaa); …

19 Beazley 1963, p. 1634, n. 30 bis. Da ultimo Ermini 1997, p. 8, fig. 14. 20 Cfr. il graffito sul fondo di una coppa già attribuita ad Euphronios, edita da Pallottino 1931, p. 273, tav. xv, 2; Stopponi 1990, p. 99 sg., n. 4, tav. iv; Maggiani 1990, p. 189, nota 53 (scrittura regolarizzata). Essa è certamente lievemente più antica anche per la presenza della interpunzione sillabica che manca nella nuova epigrafe. 21 Johnston 1979, p. 108. 22 Johnston 1979, loc. cit. Su Hermonax, Beazley 1963, p. 483. 23 Morel 1981, p. 220. L’esemplare di confronto proviene da Roma e presenta caratteristiche tecniche analoghe al pezzo ceretano.

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Fig. 8. Piede di coppa, dalla cisterna n. 3.

Il nome L’iscrizione n. 1 conserva la forma completa del nome divino al genitivo ii (terminologia di H. Rix). Essa è certamente Tluschva, non Tluscv, come la maggior parte degli studiosi ha ipotizzato sulla base della sola testimonianza del fegato di Piacenza. Si conferma in questo modo l’intuizione di van der Meer, che era pur basata su altre premesse.24 È assai probabile che si tratti di un plurale, da una forma di singolare non attestata *Tlus.25 Torniamo ora al fegato di Piacenza. Il nome Tluschv(a) appartiene al terzo settore del nastro periferico del bronzo, che raggruppa divinità ctonie. Il teonimo segue infatti quelli di Fufluns, di Selvans e dell’ancora oscuro Lethams.26 Subito dopo, nel quarto settore del fegato, compaiono divinità di carattere catactonio, Cel (la Terra), Culsu e Alpan,27 Vetis (probabilmente lat. Vedius) e Cilens (divinità femminile, forse da porre sullo stesso piano del Nocturnus di Marziano Capella).28 Come sopra accennato, il teonimo compare anche all’interno della figura in forma di ruota a sei raggi sul lobo sinistro. La ruota sembra ripercorrere, sintetizzandola in una sequenza di sei caselle, la serie esterna delle otto regioni del terzo e quarto settore:29 il terzo settore è qui rappresentato dalla serie selva(nsl), letha(msl), tlusc(val); il quarto dai teonimi lvsl e vel¯(-),30 satres e cilen(sl). Il teonimo compare però anche in un settore delle aree intermedie tra lobo destro e sinistro, in uno spazio ristretto compreso tra le principali escrescenze dell’organo divinato24 Cfr. supra, nota 7. 25 Così van der Meer 1988, loc. cit. 26 Su Lethams, Colonna 1994, p. 130, nota 34, che ne ipotizza l’identificazione «con una specie di Genius», sulla base del fatto che dove compare Farthan non compare Lethams, e dove compare Lethams non si fa cenno a Farthan. Stessa identificazione in van der Meer 1988, p. 69, che pensava che in Lethams potesse riconoscersi Genius nel suo ruolo di protettore di Tinia e Uni. Colonna 1994, loc. cit., suggerisce di considerare i nomi lethams e metlumth all’interno di una casella unica (e non in due come nella mia ricostruzione) e pertanto interpretabili come teonimo e suo determinativo («il Lethams che è nella città»). Alla nota 27 a p. 129 afferma inoltre che la lettera iniziale della parola metlumth sarebbe stata scritta dapprima con ductus rovesciato rispetto alla versione definitiva e che questa lettera sarebbe stata in parte obliterata dalla linea di delimitazione della figura in forma di ruota; ciò comporterebbe che quest’ultima fosse stata incisa dopo la realizzazione delle iscrizioni. Quello che si intravede nella documentazione fo-

Fig. 9. Piede di coppa iscritto (ril. G. Ugolini).

rio, tra la base del processus caudatus (il caput delle fonti latine), quello del processus papillaris e la punta della vesica fellea, in vicinanza del teonimo abbreviato mar(-). La mancanza di segni di interpunzione o di lineette di divisione ha fatto ipotizzare che i due nomi siano associati in una stessa casella.31 Sulla base della testimonianza del fegato di Piacenza si può provvisoriamente concludere che il termine Tluschva indica una divinità plurale o forse meglio collegiale, probabilmente connessa con le manifestazioni della natura, come le due divinità, dai tratti più trasparenti, che abitano nello stesso settore del cielo, ovvero Fufluns (Dionysos, Liber) e Selvans (Silvanus). Che cosa aggiungono al quadro i rinvenimenti archeologici? Il santuario di S. Antonio ha restituito una serie di testimonianze epigrafiche e alcuni votivi che hanno consentito di identificare alcune delle divinità alle quali erano rivolti culti. Prima fra tutte si deve citare la grande kylix di Onesimos ed Euphronios, che recava una doppia iscrizione di dedica; in una di esse compare il nome di Hercle, che sembra documentare l’esistenza di un culto a questa divinità.32 L’identificazione di oggetti votivi inequivocabilmente legati alla sua figura (modellini di clava, raffigurazioni su ceramiche attiche provenienti dal bothros e dalla fontana esplorati nel 1999) fanno pensare che al dio fosse intitolato il tempio a;33 ipotesi che diviene praticamente certezza relativamente al rifacimento del primo Ellenismo.

tografica fornita in Colonna 1994, tav. xxx, b, assicura invece che la lettera è stata incisa sopra al tratto divisorio, come era d’altronde ragionevole attendersi. 27 Diversa l’interpretazione di Colonna, Colonna 1994, p. 134, che cerca di porre a questo punto il nome del dio Cul(sans) del quale alp(an) sarebbe un epiteto. Contra van der Meer 1988, p. 80. 28 Cfr. sui teonimi, van der Meer 1988, ad voces. 29 Maggiani 1982, p. 27. 30 Una associazione che forse spiega la altrimenti incomprensibile presenza in questa posizione di una divinità che compare nel secondo settore (casella 6) del nastro periferico. Su Lusa, van der Meer 1988, p. 46 sgg.; Colonna 1994, p. 127, nota 18, tenta di spiegare lusl come lursl. Velch è collegato con il nome di Vulci da Torelli 1986, p. 208. 31 Colonna 1994, p. 118. 32 Williams 1991; Rizzo 1997. 33 Maggiani, Rizzo 2001, p. 144; Colonna 2004.

tluschva , divinità ctonie

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vero Menerva.42 Ma, alla luce dell’iscrizione n. 2 rinvenuta entro il bothros, destinatarie di questi doni erano certamente le divinità Tluschva. Se ne può ricavare la convinzione che si tratti di divinità femminili. Dove si praticava il culto? Al tempo della iscrizione n. 1, databile intorno al 490 a.C., la grande vasca (n. 1) era ormai completamente interrata. In questo momento, probabilmente, l’approvvigionamento idrico era assicurato da due cisterne, ovvero dall’antica cisterna n. 2 (relativa al tempio proto-a) e quella n. 3 costruita insieme al tempio a. Ma non vi sono apparati idraulici esterni né vi sono tracce di altre strutture monumentali in questo settore del santuario. Se dunque a queste divinità era dedicato un culto, il luogo dove esso si praticava deve essere cercato nell’ambito del tempio a. Ma se quest’ultimo era dedicato ad Hercle, per le dee bisognerà individuare un altro luogo nella medesima area, un altare o una cappella all’interno del suo perimetro.43 Un ’ ipotesi sulla natura delle divinità

Fig. 10. Frammenti di un Head-kantharos attico, dal bothros del 1999.

Il peso di bronzo rinvenuto nell’area a valle del pianoro, da dove certamente proviene,34 restituisce oltre a quello di Hercle (presente qui nella espressione «masani hercles») altri teonimi: si tratta dei nomi di Rath, il dio etrusco identificato con Apollo, e Turms, il dio identificato con Hermes.35 Secondo Colonna, sarebbero rispettivamente i titolari del tempio B e dell’altare C.36 Lo stesso studioso ha anche sostenuto che la grande kylix di Onesimos doveva essere stata dedicata in prima istanza allo stesso dio Rath, cui effettivamente si addice il soggetto troiano della fastosa decorazione.37 A questo quadro, che appare però, nei suoi aspetti di dettaglio, prematuro, i resti della stipe identificata davanti al tempio a consentono di aggiungere alcuni elementi: in essa infatti si riconoscono, come detto sopra, donari riferibili a Hercle,38 ma anche molti oggetti che attestano un culto femminile: lamine e ornamenti aurei, una testa di spillone di bronzo, lastrine d’avorio e d’osso di preziosi cofanetti, teste votive femminili (almeno tre),39 due Head-kantharoi della Classe n (Fig. 10),40 un piccolo lebes gamikos a vernice nera,41 ma anche diversi frammenti di braccialetti di vetro, tutti oggetti che in un primo momento avevano fatto pensare alla dea che accompagna Hercle nelle sue imprese, ov34 Ma non necessariamente dalla zona del tempio b, come vuole Colonna 2001, p. 161 sg. È certo che a valle è stato scaricato il materiale proveniente da tutto il pianoro, come dimostra la mancanza dei materiali architettonici negli strati di obliterazione dei templi, cfr. Rizzo 1995, p. 22, fig. 18. 35 Cristofani 1996a, p. 43 sg., figg.18-20; Cristofani 1996 b, p. 78. 36 Colonna 2001, p. 163 sg. 37 Colonna 2004, p. 165. 38 Maggiani, Rizzo 2001, p. 153 sgg., ii.b.5.3 (piccola clava di bronzo), ii.b.6.4 (frammenti di coppa a figure nere). 39 Maggiani, Rizzo 2001, ii.b. 6.2 (rivestimenti di cofanetti in avorio), ii.b.6.3 (teste votive femminili). 40 Oltre all’esemplare intero edito in Maggiani, Rizzo 2001, ii.b.6.1 ed ora in Rizzo cds., si conservano diversi frammenti di un secondo, dati qui alla fig. 10. 41 Il lebes gamikos è ora edito da Rizzo cds.

Il tentativo di van der Meer di collegare la base Tlus- con il latino Tellus, e di individuare conseguentemente nelle regioni adiacenti 12 e 13 del Fegato una coppia di divinità ctonie Tluschva/Cel corrispondente alla coppia latina Tellurus/Terra, solleva difficoltà di ordine linguistico. Del pari l’ipotesi di Giovanni Colonna, che pensava a un epiteto divino, sembra cadere di fronte alla nuova documentazione epigrafica. Sulla base dei nuovi dati, si può affermare che il termine Tluschva designa un gruppo di figure divine (almeno due). L’Etruria conosce divinità raggruppate in collegi, che comprendono talora figure soprannaturali delle quali è noto il nome personale ma anche personalità divine delle quali il nome è sconosciuto.44 Al primo gruppo appartengono probabilmente le Ithavusva (rec. Ethausva), gruppo di due dee che corrispondono alle greche Ilizie e che singolarmente si chiamano Thalna e Thanr;45 al secondo ad es. i Di Superiores et Involuti o i Di Consentes et Complices della tradizione letteraria.46 L’ambiente greco offre una molteplicità di gruppi divini femminili, Horai, Charites, Moire, Muse, Nymphai, Ilizie, Nereidi ecc. È difficile fare una proposta di identificazione. Qualche spunto può venire dall’analisi di un monumento sicuramente associabile al tempio a. Si tratta del capitello configurato relativo alla risistemazione della fronte del tempio nella prima metà del iii sec. a.C.47 (Figg. 11-12). Sul capitello sono rappresentate due sole figure, ripetute due volte: la testa di Achlae (Acheloo) e verosimilmente quella di Hercle: immagini che alludono a una celebre fatica del dio cui il tempio in questa fase era certamente dedicato. Già Mauro Cristofani aveva sottolineato l’importanza dell’acqua nell’area del santuario di S. Antonio.48 Lo dimo42 Maggiani-Rizzo 2001, p. 144. 43 In realtà è stata individuata una struttura rettangolare in blocchi di tufo addossata al lato nord-occidentale del podio del tempio (Fig. 2, n. 5). Ma la sua relazione con l’edificio e il suo significato rimangono al momento oscuri. 44 Diverso è il caso di quelle divinità che compaiono con nomi differenti ma solo come manifestazioni diverse di una stessa personalità divina, come è il caso di Vanth e Charun, cfr. Jannot 1997. 45 Sulle Ithavusva, cfr. Simon 1984, p. 157; Cristofani 1993, p. 16. Cfr. anche il corteggio divino che accompagna Turan in uno specchio famoso di S. Pietroburgo, Cristofani 1997, p. 214 sgg., fig. 6. 46 Sen. nat. quaes. ii 41 sgg.; cfr. Thulin 1906b, p. 27 sgg. 47 Maggiani 2008, p. 130 sgg., figg. 17-18, 23-24. 48 Cristofani 2000, p. 416 sg.

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Fig. 11. Capitello configurato, dalla cisterna n. 4, Testa di Achlae.

Fig. 12. Capitello configurato, dalla cisterna n. 4. Testa di Hercle.

Fig. 13. Coppa di bucchero con iscrizione apas. Dalla cisterna n. 1.

Fig. 14. Testina bronzea di Acheloo. Da strati rimescolati.

strano le numerose cisterne e vasche delle quali l’area è disseminata e i moltissimi cunicoli che traversano il sottosuolo, con una particolare concentrazione nell’area intertemplare, dove è stata individuata una vera e propria ragnatela di condotti sotterranei, che hanno addirittura provocato lo sprofondamento di buona parte del piazzale tra i due templi.49 In età arcaica inoltre era attiva la vasca monumentale (n. 1) che al momento della costruzione del tempio proto-a è stata coperta a falsa volta. Dal riempimento della cisterna proviene un frammento di ciotola di bucchero, con dedica a un dio invocato con l’epiteto apa, «padre» (Fig. 13). Non si può dire se esso si riferisca al dio della fonte o al dio del tempio, che non non è detto coincidesssero.50 Acheloo, in quanto dio fluviale, in certe tradizioni della Grecia e della Magna Grecia è considerato padre delle Ninfe.51 Un culto delle ninfe non sarebbe isolato a Cerveteri. Colonna ha ipotizzato, con buoni argomenti, che un culto a queste divinità fosse dedicato in età arcaica matura nel

santuario di Pyrgi; e immagini di ninfe sarebbero le antefisse rivenute nell’area e riferibili a un edificio anteriore alla fase più monumentale del santuario emporico.52 Una situazione del genere può esser immaginata anche per il tempio a di S. Antonio. Un antico culto delle dee Tluschva, legate alle acque, è rinnovato o comunque convive all’inizio del v sec. a.C. (vedi la dedica sull’anfora del Pittore di Berlino), al momento della monumentalizzazione dell’area, con quello di Hercle. Alle dee era forse dedicato più specificamente il tempio precedente (tempio proto-a), ornato dalle bellissime antefisse femminili ormai ben note;53 le dee della natura e delle acque potevano anche essere state venerate in quella fase insieme con una divinità maschile cui era attribuito l’epiteto di “padre”, ma cui non è possibile assegnare un nome sicuro: potrebbe trattarsi dello stesso Hercle, ma anche, e direi quasi più probabilmente, di Acheloo (Fig. 14).54 Si potrebbe eventualmente anche pensare che Hercle si sia stabilito, sopraffacendo lo stesso Achlae, in un

49 Cfr. Maggiani, Rizzo 2001, fig. 1. 50 Secondo Colonna 2001, p. 160 potrebbe trattarsi dello stesso Hercle. 51 Cfr. Mussini 2002, p. 104 sg. Più di recente, Ciuccarelli 2007.

52 Colonna 2000, p. 272 sg. 53 Rizzo 2001, ii.b.4.1-3 e le lastre dipinte in Rizzo 2009. 54 Una testina in bronzo di Acheloo, di tipo tardo classico, probabile ap-

tluschva , divinità ctonie luogo consacrato a queste divinità, che hanno tutta l’aria di essere antiche figure divine, che forse vi erano già insediate. Le Ninfe in Grecia conservano tratti di ambiguità, legati alla loro natura oscura, che deriva dall’essere figlie della Notte, che le vede talora abitatrici delle spelonche; esse sono divinità della natura, talora con aspetti benigni, che conservano tuttavia anche tratti di una originaria natura nefasta.55 Dispensatrici dell’acqua esse esercitano le funzioni di kourotrophoi (Hes. theog. 346-348).56 Tra le poche statuine votive rinvenute nell’area del santuario ve ne sono alcune che raffigurano una coppia di divinità in trono con un fanciullo, tipologicamente attestate anche in altri santuari.57 D’altronde dalla cisterna n. 3, dove è stato rinvenuto il piede di anfora iscritto, proviene una statuetta frammentaria che raffigura una giovinetta seminuda, con diadema e velo, probabilmente raffigurata semirecumbente. La figura sembra realizzare il tipo della Afrodite semisdraiata su una roccia, che nasce in età tardo-classica: un’immagine che sottolinea il carattere di Afrodite come dea della natura; l’enfatizzazione di questo nuovo significato della dea ha favorito in età ellenistica la adozione di questa iconografia da parte delle ninfe.58 Per questa ragione l’immagine mantiene una sostanziale ambiguità relativamente alla sua puntuale identificazione teologica (Fig. 15). Tutto ciò non è tuttavia ancora sufficiente per sostenere la identificazione con le dee greche della natura e delle acque. Infatti l’attraente ipotesi di una identificazione Tluschva = Nymphai si scontra con una difficoltà, ovvero con la attribuzione del significato Nympha al termine etrusco Lasa.59 Se si accoglie questa identificazione, non si può non osservare che il teonimo Lasa compare nel fegato di Piacenza, in una regione interna, in vicinanza del nome di Tina60 Appare pertanto difficilmente giustificabile che la stessa divinità compaia con nomi diversi in due aree così decisamente differenti. Pertanto, per le divinità Tluschva si dovrà cercare un’altra identificazione, pur rimanendo possibile la presenza di tratti che potevano richiamare aspetti delle Nymphai della Grecia. Tra i non molti rinvenimenti di ceramica attica restituiti dal santuario, si segnala uno splendido frammento tardo arcaico a figure rosse, rinvenuto in un settore sconvolto dell’area antistante i templi. Si tratta del frammento di parete di una coppa con l’immagine di una fanciulla con fiore in mano e di un Eros in volo, con l’iscrizione Aglaia. Il nome Aglaia è scritto con ductus sinistrorso, come se uscisse dalle labbra stesse della figura (Figg. 16-17). La dea è di pieno profilo a sinistra, la testa lievemente abbassata; gli occhi sono ancora di pieno prospetto, con la pupilla chiara; i capelli sciolti sono realizzati a vernice diluita, perché biondi, e scendono davanti all’orecchio in cinque piccoli ricci e in ciocche ondulate sul collo lunghissimo. Si riconosce parte dell’orecchino di forma circolare con nucleo nero. L’immagine di Eros è librata nell’aria, ma non si conserva traccia delle ali. Il fiore che la fanciulla tiene tra pollice e indice è realizzato in rosso sovradipinto. Vernice splendente; linea a rilievo ampiamente usata; vernice diluita per i capelli. plique o terminazione di ansa di vaso, proviene dagli strati rimescolati del santuario. Qui Fig. 14. 55 Halm Tisserant, Siebert 1997, p. 891. 56 Halm Tisserant, Siebert 1997, p. 897 sgg., nn. 79-103. 57 È il tipo Nagy 1988, p. 38, tipo ii g 2, p. 233 sgg., tav. lxxvi (iv sec. a.C.?). 58 Delivorrias et al. 1984, p. 92 sg., nn. 863 sgg. 59 Rallo 1974, p. 59 sgg. 60 Cfr. van der Meer 1988, p. 109 sgg. 61 True 1983, p. 73: «the black bottomed, dotted himatia are standard Brygos garments».

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Fig. 15. Statuetta votiva, dalla cisterna n. 3.

Lo stile della figurazione può ricordare in qualche modo la finezza e la leggerezza delle opere di Onesimos, mentre il soggetto, e soprattutto l’atteggiamento della mano destra della fanciulla rappresentata dall’interno, compaiono più volte in Makron, dalla cui pesantezza peraltro il nostro frammento mi sembra immune. La qualità del disegno, la forma caratteristica del naso grande e diritto, le labbra dischiuse, come se il personaggio stesse accennando a un canto, la trattazione dei capelli, la forma dell’himation e la sua decorazione a puntini,61 la virtuosistica ma un po’ distorta rappresentazione della mano destra della dea mi sembra orientino piuttosto verso il Pittore di Brygos, in un momento maturo della sua produzione. La forma del naso e del mento, l’occhio chiaro, l’orecchino appena ovale compaiono simili nella Briseis del Louvre;62 anche la mano rappresentata dall’interno sembra un elemento di somiglianza. Un orecchino simile ha l’Iris della coppa da Capua a Londra, opera della piena maturità del pittore: il profilo della messaggera degli dei è assai simile, così come lo scollo del chitone segnato da tre linee parallele da cui si diparte la serie delle pieghe verticali, non tutte perfettamente allineate.63 La linea del collo, realizzata nella figura di Aglaia con due trattini successivi del pennello, si ritrova identica nel collo di Hera sullo stesso vaso.64 Piuttosto eccezionale sembra la realizzazione delle unghie della mano della giovane dea, un tratto che denuncia la grande accuratezza della raffigurazione del frammento 62 Arias 1962, p. 338, fig. 141. Sul pittore, Beazley 1963, p. 368 sgg.; Cambitoglou 1968; Williams 1982; Robertson 1983, 73 sgg.  ; Boardman 1975, p. 135 sg. 63 Williams 1993, p. 58, n. 45, tav. 64, b. 64 Simile per qualche dettaglio è anche la Selene di Berlino, cfr. Greifenhagen 1962, p. 22, tav. 67, 70, 3. Un confronto convincente mi sembra anche istituibile con la coppa dell’Acropoli con Ulisse e Circe, Graef-Langlotz 1933, p. 24 sg., n. 293, fig. a p. 25, e tav. 17-18. Cfr. anche il profilo della menade sul frammento di Castle Ashby, Hartwig 1893, tav. xxxiii, 2, come anche quello del giovane su kline di Firenze, Magi 1964, tav. 91.

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Fig. 16. Frammento di coppa con l’immagine di Aglaia e di un Eros in volo.

Fig. 17. Frammento di coppa a figure rosse.

ceretano. Si tratta di un particolare molto raro in generale presso i ceramografi del periodo, ma che si ritrova almeno in due opere della maturità del pittore: oltre che nell’etera raffigurata sul tondo della celebre coppa di Würzburg,65 anche nello skyphos di Vienna rinvenuto a Cerveteri con Achille nella tenda.66 Per il nuovo frammento ceretano penserei al decennio 490-480 a.C. Aglaia, la splendente, è come noto la più giovane delle Charites. Le Charites in Grecia appaiono in numero differente e con nomi differenti nelle diverse tradizioni regionali.67 Figlie di Zeus, divinità solari, esse sono perciò frequentemente identificate con le Horai. La presenza di Eros sul frammento proveniente da S. Antonio fa pensare più specificamente al mondo di Aphrodite, la dea con la quale le Charites frequentemente si accompagnano.68 Ma in molte regioni della Grecia propria e coloniale esse sono spesso associate o addirittura confuse anche con le Nymphai, poiché come quelle sono divinità legate alla natura e alla vegetazione, e, insieme con quelle, compaiono frequentemente nella documentazione figurata in compagnia di due divinità maschili, rispettivamente Apollo ed Hermes.69 Questo riferimento può essere di qualche rilevanza, dato che queste due divinità sono state riconosciute, nella loro versione etrusca, come titolari di culti proprio nel santuario ceretano di S. Antonio sulla base della testimonianza dell’aequipondium bronzeo ivi rinvenuto.70 Come spiegare dunque la dedica della coppa del Pittore di Brygos? Se, come sono incline a ritenere, la dedica del vaso con l’immagine di Aglaia (e delle sue compagne e di altri personaggi divini?) ha qualcosa a che fare con le divinità venerate e i culti praticati nel santuario di S. Antonio, mi sembra si possano formulare tre ipotesi: Il vaso con le Charites fa riferimento alle divinità locali Tluschva: ne costituisce l’interpretatio graeca. Il vaso è dedicato a divinità venerate nel santuario diverse dalle precedenti e più precisamente caratterizzate come le dee greche. Il vaso rappresenta l’omaggio di un visitatore (forse ad-

dirittura un greco?) a un dio del santuario, Turms o Rath, corrispondente a quegli dei (Apollo e Hermes) che in Grecia alle Charites si accompagnano. In Grecia le Charites sembrano talora investite della funzione di protettrici delle porte: così ad Atene esse condividono con Hekate e Hermes la tutela dell’ingresso all’Acropoli; così a Thasos, esse ricevono un culto insieme alle Ninfe, a Hermes e a Apollo, presso una arcaica porta delle mura cittadine. Il rilievo di Thasos appare di particolare interesse, dato che pone in scena una serie di divinità che parrebbero avere, come detto, un riscontro nelle divinità titolari dei culti nel santuario di S. Antonio; questa che può essere solo una coincidenza è resa più singolare dalla constatazione che anche quello in località S. Antonio è in realtà un santuario legato a una porta urbica, quella appunto che si apre sulla valle della Mola. I documenti archeologici ed epigrafici restituiti dal santuario parlano per un culto a divinità femminili, il cui nome etrusco era Tluschva; il frammento con il nome di una delle Charites conferma l’impressione dell’esistenza nel santuario di un collegio divino femminile. Ma si tratta di un solo gruppo di divinità (dunque Tluschva = Charites) o di due collegi da tenere distinti, e da mettere in relazione con altre personalità divine, attestate nel santuario? In altre parole, non sarà il gruppo delle Charites da associare a Rath o a Turms (sia che effettivamente nel santuario si svolgesse un culto a un collegio divino legato ai due dei, sia che l’offerta del vaso con l’immagine della dea sia frutto dell’iniziativa di un devoto che voleva onorare gli dei etruschi come se si trattasse dei loro omologhi greci), e il gruppo delle Tluschva invece da collegare a una diversa entità divina, documentata nel recinto sacro, ovvero Achlae, Hercle o lo stesso Turms?71 Mi pare che l’ipotesi di una duplicità di collegi divini femminili sia assai debole e sostanzialmente da scartare, dato che allo stato attuale non esiste alcun indizio di un secondo collegio di divinità etrusche onorate nel santuario, oltre alle Tluschva. Naturalmente lo stato delle conoscenze sui culti del santuario ceretano non consente ancora un giudizio che abbia

65 Beazley 1963, p. 372, n. 32; Simon 1976, p. 156, tav. xxvii. 66 Eichler 1951, tav. 20, 3. Simile è anche il profilo del pais presso la kline di Achille: Eichler 1951, tav. 37, 1-2. 67 Il numero delle Charites si fissa a tre solo in un momento avanzato; ma in una fase antica, e in età recente ancora a Sparta, questo numero era di sole due unità, cfr. Harrison 1986, p. 193 sg., nn. 6-8, e p. 201. 68 Oltre che assistere alla sua anodos. Harrison 1986, p. 193, nn. 2-3.

69 Harrison 1986, p. 199 sgg., n. 15 (vaso François). 70 Cfr. supra, note 34-35. 71 Da questo punto di vista Turms parrebbe assumere un interesse particolare, perché è il suo corrispondente greco, Hermes, che in genere guida in Grecia, fin dall’età arcaica, il coro delle Ninfe Cfr. ad es. il rilievo arcaico da Thasos, Harrison 1986, p. 194, n. 16. Sarebbe questo una considerevole sostegno all’ipotesi Tluschva = Nymphai sopra avanzata su altre basi.

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Fig. 18. Orvieto, Campo della Fiera. Iscrizione di dedica alle divinità Tluschva su base di donario in trachite (courtesy S. Stopponi).

la pretesa di essere definitivo. La suggestione che deriva da quel poco che è stato qui esaminato, è che nell’ambito del santuario si guardasse, fin dall’età tardo arcaica, a un insieme di divinità maschili (Hercle, Rath, Turms, forse Achlae?) alle quali si associava un gruppo di entità femminili (Tluschva), magari specificamente legate nell’immaginario e nella pratica religiosi a qualcuna di quelle maschili. Lasciando per il momento in sospeso ogni conclusione su questo punto, mi sembra si possano ribadire alcuni punti fermi. Il termine Tluschva indica delle divinità legate alla natura e alla vegetazione, verosimilmente femminili; si tratta di divinità a cui viene tributato un culto di lunga durata (almeno dall’inizio del v al iii sec. a.C.) nell’ambito del tempio a, apparentemente in concorrenza o in associazione con quello di Hercle e forse con qualche connessione con quelli di Rath e Turms. Si può pensare a divinità femminili la cui identificazione con divinità del pantheon greco poteva prevedere opzioni diverse; se infatti l’ipotesi di una identificazione con le Ninfe è resa problematica dalla concorrenza del termine Lasa, il bellissimo frammento con Aglaia lascia aperta la possibilità di una somiglianza (o parziale sovrapposizione?) anche con altre divinità plurali della Grecia come le Charites; una possibilità di associazione, sovrapposizione o di confusione che si verifica d’altronde nella stessa Grecia, come sopra sottolineato.72 Volendo procedere oltre in un terreno assai poco sicuro perché basato su ipotesi al momento non verificate e dunque altamente discrezionale, si potrebbe in realtà, guardando ancora una volta al paradigma ellenico, anche porre il problema dell’eventuale significato politico di questo culto in connessione con la fase di monumentalizzazione del santuario agli inizi del v sec. Ad Atene è attestato nell’avanzato v sec. a.C. un culto di Demos, la personificazione del popolo ateniese (e dunque della democrazia ateniese), associato con quello delle Ninfe sulla collina che da esse prende il nome.73 Un culto il cui significato politico appare evidente. Una analoga associazione, anche se documentata in epoca successiva nella stessa Atene era conferita anche alle Charites, fuori dell’angolo nordovest dell’Agorà.74 Pur nella consapevolezza della 72 Harrison 1986, 202 sgg., nn. 24, 41, 42. 73 Kron 1979. 74 Harrison 1986, p. 192. 75 Sul culto delle Ninfe e di Acheloo da parte della gente semplice, cfr.già Isler 1970, p. 34 sg. Cfr. anche l’osservazione di Harrison 1986, 202,

fragilità insita in accostamenti di questo genere, ci si può domandare se una situazione analoga non possa essersi verificata anche a Cerveteri. Sia le Nymphai che le Charites sono in qualche modo divinità minori del pantheon, legate in genere a forme di devozione popolare.75 Ci sono indizi per sostenere che il periodo tra la fine del vi e l’inizio del v sec. sia stato anche per questa città un momento di grandi trasformazioni sociali e politiche. Può essere il momento della caduta della “monarchia” di Thefarie Velianas e di un forte rivolgimento sociale, con pesanti ricadute anche sul piano urbanistico e architettonico,76 che vide nella zona della Vigna Parrocchiale, nel cuore dell’abitato, l’abbattimento di un intero quartiere aristocratico, per far posto a un santuario dal possibile carattere plebeo (vedi la dedica a Vei = Demetra),77 mentre nel santuario in località S. Antonio si verifica una radicale trasformazione in senso più monumentale degli apparati di culto dell’area sacra. Addendum Quando già questa nota era stata da tempo concepita e scritta, ho saputo dall’amica Simonetta Stopponi che nel corso dei suoi scavi nell’area del Campo della Fiera a Orvieto, possibile sito del Fanum Voltumnae, è emersa una nuova iscrizione a queste divinità. Grazie alla disponibilità della scopritrice, ho potuto esaminare l’iscrizione che apporta credo qualche nuovo elemento alla conoscenza di una entità divina fino ad oggi assai oscura e posso anche darne una breve notizia.78 Il testo è inciso sulla base accuratamente modanata di un donario in trachite. Il testo, redatto in bella grafia dell’arcaismo maturo, è il seguente (Fig. 18): kanuta larecenas lauteniıa aranıia pinies puia turuce tlus¯val marveıul faliaıere

Si tratta dunque della dedica di una donna, Kanuta della gens Larecenas, a una entità divina qualificata dal nome Tluschva Marveth (o eventualmente Tluschva Marvethul?) e seguita da un termine che è probabilmente un locativo, Faliathere. Mentre rimando al testo dell’editrice per un compiuto che quando le Charites sono rappresentate in un culto poplare esse tendono ad essere assimilate alle Ninfe. 76 Maggiani 2005a, p. 65. 77 Maggiani 2001, p. 140, ii.a.4. 28; Bellelli cds. 78 L’iscrizione è ora edita, cfr. Stopponi 2009, p. 441 sgg, figg. 46-47.

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commento all’iscrizione, vorrei limitarmi a una sola osservazione relativa alla parola che segue il nome divino, ossia Marveth. Mi pare sostenibile che la forma recente corrispondente debba essere riconosciuta in marut, epigraficamente attestato a Vulci su una coppa a figure rosse (del Pittore di Euaion), della metà del v sec. a.C., deposta entro una tomba (come sembra accertato dallo stato di conservazione e dalla provenienza, ovvero la necropoli di Cavalupo).79 Nel caso della coppa vulcente il testo si limita all’espressione marutl, ovvero alla sola parola declinata al genitivo. Ciò sembra indicare il proprietario (o il destinatario) della coppa stessa. La norma delle iscrizioni di possesso non consente di eliminare l’ambiguità sulla natura del personaggio: un uomo o una divinità?80 Altre possibilità mi sembrano eccessivamente speculative. In ogni caso la sequenza tluschval marvethul mi sembra si presti a un numero limitato di interpretazioni, come la stessa Stopponi ha correttamente visto. Il secondo termine infatti può essere una determinazione del teonimo (sua epiclesi) o può rappresentare una seconda entità divina, destinataria dell’offerta di Kanuta, collegata alla prima per asindeto. Lo stato delle conoscenze non consente di sciogliere completamente l’ambiguità. A questo punto è opportuno richiamare ancora una volta la testimonianza del fegato bronzeo di Piacenza. Come accennato sopra,81 Giovanni Colonna ha proposto di considerare compresi in una casella unica gli spazi da me tenuti distinti con i nn. 39-40; ciò gli ha consentito di collegare i termini che in quello spazio sono incisi, ovverosia le due parole abbreviate tlusc e mar. Il secondo termine è stato sempre sciolto come Mar(isl), per il potente effetto di attrazione del teonimo Maris scritto per esteso nella non lontana vesica fellea (casella n. 26). L’iscrizione orvietana mi sembra che possa rendere credibile anche una diverso scioglimento delle abbreviazioni, ovvero Tlusc(val) Mar(utl), ricostruendo esattamente la coppia di teonimi del donario di Kanuta. Anche in questo caso la dimostrazione non può dirsi raggiunta, mancando una attestazione della forma completa del nome nello stesso fegato, ma la suggestione è forte. Marut dovrebbe dunque essere ricondotto nell’ambito del linguaggio sacrale, sia che esso qualifichi una divinità autonoma collegata alle Tluschva, sia che esso rappresenti un epiteto delle stesse dee. Ma, e questo ci riconduce all’occasione festiva che ha propiziato questa raccolta di saggi, mi piace in conclusione sottolineare che il nuovo documento orvietano sembra anche confermare la bontà dell’intuizione dello studioso, cui questo lavoro è dedicato. Bibliografia Arias 1962 = P. E. Arias, A History of Greek Vase Painting, London, 1962. Beazley 1911 = J. D. Beazley,The Master of the Berlin Amphora, «jhs», xxxi, 1911, pp. 276-283. Beazley 1928 = J. D. Beazley, Greek Vases in Poland, Oxford, 1928. Beazley 1963 = J. D. Beazley, Attic Red-Figured Vase Painting, Oxford, 1963. Bellelli cds. = V. Bellelli, Iscrizione greca dipinta e i culti della Vigna Parrocchiale a Caere, «StEtr», lxxiii, in corso di stampa. Boardman 1975 = J. Boardman, Athenian Red Figured Vases. The Archaic Period. A Handbook, Norwich, 1975. 79 Beazley 1963, p. 790, n. 19; CIE 11077, tav. 28 (M. Pandolfini). 80 Maras 2009. 81 Cfr. supra, nota 8.

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C ITTÀ ETRUSCA DI MARZ ABOT TO : U NA FOR NACE P E R I L T E MP I O DI TI NA Giuseppe Sassatelli

T

ra le molte scoperte avvenute in questi ultimi decenni nella città etrusca di Marzabotto, quella di un nuovo tempio dedicato a Tina è sicuramente la più importante. Come è ormai ben noto si tratta di un grande tempio periptero (dimensioni: m 35,50 × 21,90) dislocato nella parte più settentrionale dell’area urbana e regolarmente collocato all’interno di un’insula ad esso quasi interamente dedicata, che è l’Insula 5 della Regio i1 (Fig. 1). Non si tratta solo di una novità di scavo che si è venuta ad aggiungere alle molte altre di questi ultimi tempi con la ripresa delle esplorazioni sia da parte del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna che da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna. Ma si tratta di una novità che cambia radicalmente il quadro storico e urbanistico della città inducendoci inevitabilmente a rivedere molte delle scoperte e dei rinvenimenti precedenti, spesso anche lontani nel tempo, con prospettive di ricerca affatto nuove e del tutto impensabili fino a poco fa. Si è infatti aperta la concreta possibilità di comprendere meglio il ritrovamento di alcuni materiali del tutto eccezionali come ad esempio le due statue maschili di marmo greco2 di cui restano rispettivamente una testa e un frammento del pube, rinvenute in giacitura secondaria la prima nella canaletta della plateia a, poco più a sud del tempio, e il secondo nella canaletta della plateia b quasi di fronte al tempio. Entrambi si possono ora ragionevolmente ricondurre proprio alla nuova area sacra come preziosi donari o forse anche come statue di culto.3 Si tratta tra l’altro di statue che richiamano altri ben noti esemplari di area tirrenica sempre in marmo, come la testa Lorenzini a Volterra e la Venere della Cannicella a Orvieto, entrambe riferibili ad aree sacre e considerate statue di culto, facendoci così intravedere un ulteriore allineamento dell’area padana con l’ambito tirrenico. Al quale si ricollega in modo molto preciso anche la tipologia del tempio, un grande periptero che è una novità assoluta per l’Etruria Padana e i cui modelli ispiratori vanno cercati in Etruria propria come mostrano gli esempi molto simili di Pyrgi e di Vulci rispetto ai quali quello di Marzabotto ha la straordinaria peculiarità di conservare le basi di tutte le colonne (6 sui lati lunghi, 5 sul lato posteriore e 4 su quello anteriore),

offrendoci così una certezza assoluta e un dato archeologico inconfutabile relativamente alla pianta. Il nuovo tempio di Marzabotto costituisce la tappa più lontana e settentrionale della diffusione di un modello architettonico che dall’area campana raggiunge il Lazio (in particolare Roma) e di qui si diffonde e si radica anche in Etruria, prima in quella meridionale con le importantissime realizzazioni del tempio b di Pyrgi e del tempio grande di Vulci, per poi passare a nord dell’Appennino, passaggio al quale forse non fu estranea l’Etruria settentrionale, in particolare Volterra. Nonostante la perdita di quasi tutta la decorazione architettonica a causa dei ripetuti lavori agricoli (ne sono stati trovati fino ad ora solo pochissimi frustuli), per le sue dimensioni (è più grande del tempio b di Pyrgi), per la sua monumentalità e per la sua posizione (all’ingresso in città della via che veniva da Bologna), il nuovo tempio di Tina ci lascia intravedere un livello molto alto e fino ad ora assolutamente impensabile delle scelte architettoniche ed urbanistiche della città etrusca di Marzabotto, la quale esce così da quella relativa cantonalità alla quale è stata sempre un po’ relegata negli studi e si allinea invece con le esperienze più importanti e monumentali dell’architettura sacra di ambito tirrenico e anche magno-greco, con alcune specificità che ne arricchiscono ulteriormente il significato storico e urbanistico. Pur riallacciandosi ad alcune ben note esperienze della Magna Grecia dove i templi inseriti nel reticolo urbano sono di fatto elementi a se stanti, per così dire isolati e autonomi sul piano topografico e ideologico, se non altro per via del loro orientamento divergente rispetto a quello generale delle strade e degli isolati, il tempio di Marzabotto è invece perfettamente e regolarmente inserito in un isolato urbano che occupa quasi per intero e ai cui limiti si adatta integralmente proprio come se fosse una abitazione per cui se ne è giustamente dedotto che esso rientrava nella planimetria generale della città e ne era parte integrante fin dalla sua progettazione avvenuta agli inizi del v secolo a.C. Di grande interesse anche la sua posizione esattamente nel punto in cui entrava in città la strada che veniva da Bologna, per cui si configurava come una sorta di emblema della città con una funzione ‘difensiva e dimostrativa’ nei

1 Alla scoperta è stato dedicato un Convegno tenutosi a Bologna nel 2003, nei cui Atti (Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto. Nuove prospettive di ricerca, a cura di G. Sassatelli e E. Govi) è possibile trovare una sintesi su tutti i principali aspetti di questa importante scoperta che sono stati oggetto, nella stessa sede, di una approfondita discussione. Per un aggiornamento delle scoperte successive si veda anche Sassatelli 2009. Aggiungo inoltre che gli scavi del Dipartimento di Archeologia tutt’ora in corso sono indirizzati a chiarire tutti i principali problemi dell’area e degli spazi attorno al tempio. 2 Per le quali si veda Sassatelli 1977, pp. 124-125, nn. 15-16 e più di recente, Lippolis 2000, pp. 43-44. Nonostante l’opinione espressa di recente da S. Verger (Verger, Kermorvant 1994, pp. 1084-1085) tra l’altro solo su una presunta identità del marmo, rimango dell’idea che le statue siano due perché la testa e il frammento di pube, per stile e per dimensione, non possono appartenere alla stessa statua. Così la pensava del resto anche A. Andrén (Andrén 1967, pp. 26-27, n. 4, fig. 7), la cui opinione non è di poco

conto e non può essere ignorata così facilmente. Va se mai ricordato (Sassatelli, Govi 2005, p. 38) che nella città etrusca di Marzabotto è documentata una terza statua di marmo, di cui fu trovata solo la testa, oggi purtroppo perduta e per la quale non si conosce il luogo preciso del ritrovamento (Sassatelli 1977, pp. 125-126, n. 17). Così come non si conosce l’esatta provenienza di almeno uno dei tre bacili in marmo provenienti dall’abitato (Sassatelli 1977, pp. 131-133, nn. 23-25) per il quale un’eventuale collocazione nell’area del tempio sarebbe in linea con quanto conosciamo per alcune importanti aree sacre e anche per l’acropoli di Atene (Sassatelli 1977, pp. 131-133). 3 L’ipotesi è di E. Govi (Sassatelli, Govi 2005, p. 38) che rivede un precedente tentativo di riferire la testa di kouros alla vicina necropoli nord (Sassatelli 1977, p. 124) fatto con una evidente forzatura, parzialmente giustificata dalla circostanza che allora si ignorava l’esistenza del tempio e sembrava molto difficile, per una banale considerazione di ordine topografico, riferire la testa all’altura dell’acropoli.

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Fig. 1. Pianta della città etrusca di Marzabotto con il posizionamento della fornace e del tempio di Tina.

confronti delle altre città dell’Etruria padana e soprattutto della sua capitale, Felsina-Bologna, oltre che nei confronti di tutti coloro che muovendosi lungo l’importante direttrice della Valle del Reno la frequentavano e vi transitavano. Ma la novità più importante è costituita dal fatto che il tempio di Tina viene del tutto inaspettatamente ad aggiungersi al complesso sacro dell’acropoli, dove si è sempre pensato che si concentrassero tutti gli edifici di culto e la cui netta delimitazione in senso topografico e la cui maggiore altezza rispetto al pianoro della città la configurano come una vera e propria arx. Era pertanto difficile anche solo ipotizzare che altri edifici di culto, ugualmente monumentali e pubblici, fossero presenti all’interno dell’area urbana.4 Non solo, ma il nuovo tempio di Tina per posizione, dimensione (è molto più grande del tempio c dell’acropoli, di tipo tuscanico) e monumentalità si configura come il vero grande tempio poliadico nel quale la comunità dei cittadini si riconosceva e attorno al quale si coagulava probabilmente la vita pubblica e religiosa della città in uno spazio assimilabile per funzione all’agorà delle città greche, quell’agorá che tanti hanno cercato invano in vari altri punti

dell’area urbana,5 ma che ora dobbiamo cercare proprio qui, attorno al tempio e più precisamente lungo il suo lato orientale. È qui che si sono concentrati ora i nostri scavi ed è qui che sia in virtù della situazione topografica generale (presenza del tempio), sia in ragione di alcune anomalie già riscontrate, ma ancora da verificare nel dettaglio (vani e ambienti forse arricchiti di un portico o comunque insolitamente ampi e monumentali, interruzione degli stenopoi presenti nelle regiones poste più a sud, assenza di strutture insediative private assimilabili alle case di cui ormai conosciamo moduli e caratteristiche), è possibile pensare ad un’area pubblica con funzioni analoghe a quelle dell’agorà nelle città greche.6 Quanto al problema del rapporto tra acropoli e nuovo tempio di Tina l’ipotesi più probabile resta ancora quella esposta nel Convegno del 2003,7 sviluppata e per così dire attenuata nel Convegno su Altino del 20068 che qui riassumo. In considerazione del fatto che gli edifici dell’acropoli mostrano tutti un legame molto stretto con il rito di fondazione della città, inteso sia come atto singolo, iniziale e puntuale nel tempo, sia come ritualità ricorrente e di commemorazione, legata al ciclo delle stagioni e al percorso del

4 Per tutte queste considerazioni si veda Sassatelli, Govi 2005, in particolare pp. 30-34, 38-47. 5 Guido A. Mansuelli pensava al centro della città per la presenza di alcune anomalie nelle dimensioni degli isolati e per l’assenza al loro interno delle normali strutture abitative (Mansuelli 1969, p. 230); G. Colonna aveva ipotizzato una sua collocazione ai piedi dell’acropoli proprio

per accostare la sua funzione pubblica alla sfera del sacro (Colonna 1986, p. 466). 6 Su questo punto in particolare si vedano le anticipazioni sui risultati dei nostri scavi più recenti in Sassatelli 2009. 7 G. Sassatelli in Sassatelli, Govi 2005, pp. 38-47. 8 Sassatelli 2009.

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giuseppe sassatelli

Fig. 3. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Resti della camera di combustione con muretti di sostegno del piano forato.

sole che tanta parte ebbe in tale rito fondativo,9 viene naturale pensare che qui sull’acropoli fossero concentrati gli dei e le attività religiose in qualche modo collegate a questa operazione e che invece giù, in area urbana, regolarmente all’interno dell’insula come accadeva per tutti gli altri abitanti, si venerassero il «dio o gli dei della città». Senza dover pensare per questo ad una netta distinzione né tanto meno ad una contrapposizione tra questi due complessi anche perché la plateia b, che costeggiava il tempio di Tina e arrivava fino all’acropoli, le collegava assumendo le caratteristiche di una vera e propria hierà odòs, una ‘via sacra’ con funzione di cerniera tra i culti e i luoghi pubblici della città, e in particolare tra il complesso degli edifici sacri dell’acropoli posti sull’altura di Misanello, il grande tempio poliadico dedicato a Tina nel cuore della città e anche l’area pubblica con funzione di agorà, presumibilmente posta accanto ad esso. A queste nuove letture di dati topografici e urbanistici per così dire ormai consolidati, provocate e rese possibili dalla scoperta del tempio di Tina forse si può aggiungere ora anche una possibile riconsiderazione della grande fornace scavata tra gli anni, ’50 e ’70 del secolo scorso nell’Insula 1 della Regio ii,10 cioè esattamente di fianco al tempio, al di là della plateia a che li separa (fig. 1). Ed è su questo punto che vorrei fare qualche riflessione più di dettaglio approfondendo alcuni spunti già emersi nel corso del Convegno del 2003 sia pure solo in forma di una ipotesi di lavoro tutta ancora da verificare.11 La fornace è stata scavata in periodi diversi e lontani nel tempo, cosa che ha complicato notevolmente sia la raccolta

dei dati che la loro interpretazione. In linea di massima tuttavia sono abbastanza chiari la struttura e il funzionamento di questo impianto artigianale che ha cominciato la sua attività nei decenni finali del vi o al più tardi agli inizi del v secolo, continuandola ininterrottamente fino alla prima metà del iv secolo, cioè fino all’esaurimento della città con l’arrivo dei Galli. Al centro c’era un invaso rettangolare per l’impasto e la preparazione dell’argilla che fu trovato ancora pieno di argilla giallastra e molto fine già predisposta per il suo utilizzo nella fabbricazione di ceramiche e di laterizi. Un altro importante apprestamento era costituito da una vasca rettangolare con pareti e fondo di tegole (Fig. 2), le cui connessure risultavano stuccate in modo tale da garantire un tenuta stagna e consentire una buona e costante disponibilità d’acqua sempre per la preparazione e la lavorazione dell’argilla. La vasca era alimentata infatti da un condotto di coppi, infilati l’uno nell’altro, che probabilmente sfruttava una sorgente naturale posta sull’altura di Misanello da dove discendeva e dove era stato costruito un apposito impianto per la decantazione e la purificazione dell’acqua.12 Accanto e più ad ovest era dislocata la fornace vera e propria (Fig. 3), di notevoli dimensioni (m 5, 10 × 2, 40), con imboccatura a nord e quattro bocchette per l’areazione a sud, della quale si conserva solo una piccola parte della camera di combustione posta al di sotto del piano forato, interamente perduto così come la volta di copertura. Non mancano tracce di un forno rettangolare un po’ più piccolo e sottostante a conferma di un fatto abbastanza frequente e usuale in impianti di questo genere dove la sovrapposizione di diverse fornaci o comunque la loro relativa vicinanza sta ad indicare da un lato la vita relativamente breve di questi apprestamenti e dall’altro una continuità produttiva prolungata nel tempo e insistente sulla stessa area per evidenti ragioni di economicità organizzativa. A sud della fornace e lungo la plateia a, sulla quale l’im-

9 Per questo particolare aspetto rimando ad alcuni importanti contributi di A. Gottarelli (Gottarelli 2003a; Gottarelli 2003b; Gottarelli 2005). 10 La fornace fu oggetto di un primo intervento di scavo da parte di P.E. Arias tra il 1949 e primi anni ‘50 del secolo scorso (Arias 1954, pp. 398-399). Fu poi oggetto di uno scavo più consistente ed estensivo nel 1964, del quale però resta solo una relazione preliminare (Saronio 1965). Per alcune più recenti considerazioni di carattere generale su questo importante impianto artigianale si veda anche Mansuelli et al. 1982, pp. 55-58, 82-83; Sassatelli 1985a e 1985b; Sassatelli 1989, pp. 67-69; Sassatelli 1991, pp. 183-188; Govi 1994; Morpurgo 2005. 11 L’ipotesi è stata avanzata per la prima volta e con grande prudenza

sempre durante il Convegno del 2003 (E. Govi, in Sassatelli, Govi 2005, pp. 34-35). Piuttosto che inseguire in modo sistematico questo o quel ritrovamento si è preferito affrontare globalmente lo studio di tutti i materiali provenienti dalla fornace con due tesi affidate nell’ambito della Scuola di Specializzazione di Archeologia alle dott.sse Marica Ossani e Annalisa Pozzi. Solo attraverso il loro lavoro è stato possibile recuperare la nuova iscrizione che qui si presenta unitamente ad alcuni altri dati di notevole importanza che rientreranno in una prossima pubblicazione, organica e complessiva, legata al tempio e alle aree circostanti. 12 Sul monumento e sulla sua funzione anche in rapporto agli impianti produttivi della città si veda Sassatelli 1991, pp. 183-188.

Fig. 2. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Vasca di tegole e condotto di coppi.

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pianto si affaccia proprio di fronte al tempio che sta dall’altra parte della strada, era predisposta una grande tettoia di legno, sostenuta da pali alcuni dei quali erano conficcati nello spessore dei muri per darle maggiore solidità, utilizzata sia per la necessaria essiccazione del materiale ceramico e dei laterizi prima della cottura, sia per l’esposizione dei prodotti finiti e destinati alla vendita. All’interno di alcuni vani che conservano tracce consistenti di una massicciata di ciottoli, forse predisposta per sostenere un pavimento di legno di cui restava qualche traccia, furono trovati grandi bacili e doli anch’essi utilizzati probabilmente come contenitori per l’acqua di cui c’era grande necessità in impianti di questo genere. La fornace era sicuramente adibita sia alla produzione e alla cottura di laterizi (tegole, coppi, lucernai), di terrecotte architettoniche (lastre, antefisse), di tubi fittili per condutture e di parapetti da pozzo; sia alla produzione e alla cottura di vasellame, anche di grandi dimensioni. Il primo tipo di produzione ci è garantito dalla dimensione della fornace e soprattutto dai molti scarti di lavorazione, in particolare tegole e coppi mal cotti, deformati e vetrificati. Il secondo tipo di produzione ci è testimoniato ancora una volta dai molti scarti di lavorazione, ma soprattutto da una serie abbastanza numerosa di anelli distanziatori in argilla refrattaria utilizzati per sostenere e per tenere separati i vasi impilati nel forno durante la cottura. Le notevoli dimensioni dell’impianto, l’assenza di vani e strutture riconducibili a funzioni residenziali e abitative e soprattutto la presenza del condotto in coppi forse ricollegabile all’impianto di decantazione e purificazione dell’acqua predisposto sull’altura di Misanello, quasi sicuramente con un intervento della città in funzione anche di altre fornaci attive nella zona meridionale, mi hanno indotto a suo tempo a formulare l’ipotesi di un impianto ‘pubblico’ in grado di soddisfare la grande richiesta di laterizi di copertura quando, a partire dal v secolo, dopo avere proceduto alla stesura dell’impianto urbano, si mise mano alla costruzione dei singoli edifici (vedi nota 12). Avevo pensato insomma a una grande fornace funzionale alle esigenze di tutta la città che, indipendentemente dal suo essere ‘pubblica’, si caratterizzava per una organizzazione del lavoro più complessa e articolata rispetto a quella di altri ateliers simili, ma più piccoli e di ambito domestico, presenti in molti punti dell’area urbana. Con la scoperta del tempio, da un lato credo si possa confermare questa caratterizzazione in senso per così dire ‘pubblico’ o quanto meno molto complesso del nostro impianto artigianale e dall’altro credo si possa modificarne l’interpretazione considerandolo non tanto funzionale a tutta la città, ma strettamente collegato al tempio, e come tale allestito e predisposto non solo per rispondere alle complesse esigenze costruttive di questo grande edificio, ma anche per garantire il funzionamento di tutta l’area sacra sia relativamente al materiale architettonico e ai laterizi di copertura, sia relativamente al vasellame e a tutti quei manufatti latamente riconducibili alle esigenze e alle prati-

che del culto. È una ipotesi che, come si è detto, è già stata fatta (vedi nota 11), per la quale ci sono ora alcuni nuovi elementi che sembrano comprovarla definitivamente e sui quali vorrei soffermarmi. Alcuni frammenti di lastre architettoniche e di antefisse con coronamento a nimbo, tra le quali anche una testina femminile, rinvenuti durante lo scavo della fornace, ma tutti provenienti dalla plateia a e più precisamente dal suo settore più orientale, proprio accanto al tempio e quindi giustamente riferiti a un probabile crollo del tetto,13 non rientrano naturalmente in questo tipo di considerazioni perché non ci dicono nulla sul luogo della loro produzione nonostante la relativa vicinanza alla fornace che non può comunque essere ignorata. Rientrano invece in questo discorso almeno tre documenti di grande importanza che vorrei ora esaminare. Il primo è costituito da una matrice per plasmare l’argilla (Figg. 4 e 5), purtroppo lacunosa e frammentaria, che presenta in negativo su una superficie leggermente concava la metà di un volto, quasi sicuramente femminile, con la fronte cinta da una fascia, l’occhio allungato, il naso e la bocca poco leggibili. Il frammento di matrice proviene sicuramente dalla fornace.14 Esso figura infatti tra i materiali di quest’area in un elenco di «materiali da esporre in Museo» predisposto in occasione del suo nuovo allestimento terminato nel 1979.15 Ne sono una riprova sia l’inventario che la scheda RA della Soprintendenza ai Beni Archeologici dove il frammento viene registrato col n. 725 e descritto come «proveniente dalla fornace della Regio ii, Insula i». In un primo momento, in considerazione delle ridotte dimensioni (larghezza cm 5; altezza cm 8,5; spessore medio cm 2,5) se ne era esclusa la pertinenza ad una matrice per antefissa e si era invece pensato ad una matrice per modellare piccole testine votive o anche testine a rilievo da applicare sotto l’orlo di grandi vasi o di parapetti da pozzo di un tipo ben documentato a Marzabotto.16 Quest’ultima eventualità, che tra l’altro era stata data come la più probabile, ad un esame più approfondito delle caratteristiche e soprattutto delle dimensioni (tutte le testine decorative di vasi sono più piccole della nostra matrice) credo sia invece da escludere. L’ipotesi più probabile resta pertanto quella di una matrice per realizzare una testina votiva di un tipo per il quale non mancano confronti sia sul piano dimensionale che stilistico. Mi riferisco in particolare a esemplari tipo quello proveniente da Faleri, datato ai primi decenni del v secolo e molto simile alla nostra matrice17 o anche ad esemplari da Veio Campetti, un po’ più piccoli, ma comunque confrontabili con il nostro, anch’essi datati al v secolo.18 Se l’interpretazione è giusta avremmo quindi la certezza che nella fornace si fabbricavano e si cuocevano offerte votive per le quali è naturale pensare fossero destinate proprio al vicino tempio di Tina. Il secondo documento è costituito da un’altra matrice per plasmare l’argilla (figg. 6-8), purtroppo ancora più lacunosa e frammentaria della precedente, che presenta in negativo, sempre su una superficie leggermente concava, una

13 E. Govi, in Sassatelli, Govi 2005, pp. 34-37. 14 Non è dirimente il fatto che nella relazione preliminare di P. Saronio (Saronio 1965) non se ne parli trattandosi di una relazione del tutto preliminare dedicata prevalentemente alle strutture della fornace con pochissime osservazioni sui materiali. 15 Ricordo molto bene, per avervi partecipato personalmente assieme ad altri colleghi del Dipartimento di Archeologia, come fu predisposto e confezionato questo elenco. Furono passate in rassegna tutte le casse contenenti i materiali rinvenuti negli scavi del dopoguerra. E per ognuno di

questi settori di scavo furono prelevati i materiali più significativi che poi furono esposti nel nuovo Museo inaugurato nel 1979 e strutturato ancora oggi per aree di scavo. Si veda a questo proposito Sassatelli 1980 e Brizzolara, De Maria 1980. 16 Sassatelli 1985 a, p. 161, n. 1. 17 Comella 1986, pp. 29-30, n. a2iv, tav. 12a. 18 Comella, Stefani 1990, p. 73, tav. 21; pp. 81-82, tav. 25c, e; p. 90, tav. 28b.

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giuseppe sassatelli

Fig. 5. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Porzione di matrice in terracotta per testina votiva e relativo calco.

Fig. 4. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Porzione di matrice in terracotta per testina votiva.

sorta di cordone o nastro dal quale pendono una serie di linee ondulate in cui si possono riconoscere dei capelli.19 Nella tenue traccia arcuata che sta accanto alle linee ondulate forse si può riconoscere una parte di orecchio per cui ci troveremmo di fronte anche in questo caso ad una matrice per plasmare una testina votiva (Fig. 9), anch’essa destinata al vicino tempio di Tina. Per un possibile confronto si veda una testa da Faleri-Vignale (Tempio Maggiore) datata alla fine del v secolo, abbastanza vicina alla nostra sia per i capelli che per la posizione e la configurazione dell’orecchio o anche un’altra testa sempre da Faleri-Vignale, che tuttavia è un poco più recente (metà del iv secolo).20 L’esiguità del frammento conservato non consente maggiori certezze anche se l’ipotesi di una matrice per testine votive mi sembra la più probabile.21 Anche in questo caso la provenienza della matrice dall’area della nostra fornace è sicura nonostante qualche pasticcio e qualche confusione al riguardo che però è possibile chiarire. C. Schifone attribuisce infatti la matrice ai ‘vecchi scavi’ senza precisarne la provenienza.22 In primo luogo va detto però che in nessuna delle pub19 Per quanto in un primo momento avessi pensato ad un ex voto anatomico credo che tale ipotesi vada esclusa perchè gli ex voto anatomici presentano tratti più lineari e geometrici o comunque tratti più schematici. 20 Comella 1986, pp. 34-36, nn. a2x, a2xiii, tavv. 16a, 17c. 21 L’unica alternativa potrebbe essere quella di un ex voto anatomico per la quale si veda però quanto osservato alla nota 19.

Fig. 6. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Frammento di matrice in terracotta con tracce di capigliatura.

blicazioni che riguardano i ‘vecchi scavi’ si trova cenno a questo pezzo. E tale assenza, per quanto non dirimente, è comunque importante soprattutto se si considera il fatto che E. Brizio era molto attento a questo tipo di materiale tanto da dedicarvi un’ampia tavola illustrativa nella quale compaiono anche cose molto piccole e all’apparenza poco significative.23 E anche nella capillare ricerca di archivio che fu fatta al Dipartimento di Archeologia molti anni fa e che ora ha visto la luce in modo integrale24 non risulta alcun cenno a rinvenimenti di questo tipo sia nei documenti inediti del Gozzadini che in quelli del Brizio. Come l’altra anche questa matrice figura inoltre tra i materiali della fornace nell’elen22 Schifone 1971, p. 252. Va osservato tra l’altro che il pezzo fu stranamente inserito nel Catalogo solo in un secondo momento, come prova il numero 1 bis con cui è registrato, quasi si trattasse di un recupero dell’ultima ora. 23 Brizio 1889, tav. ix. 24 Marzabotto 2009.

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Fig. 7. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Frammento di matrice in terracotta con tracce di capigliatura e relativo calco.

Fig. 8. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Disegno del frammento di matrice in terracotta con tracce di capigliatura.

co, già ricordato, di «materiali da esporre in Museo» predisposto per l’allestimento del 1979.25 E anche in questo caso sia nell’inventario che nella scheda ra della Soprintendenza ai Beni Archeologici il frammento viene registrato col n. 726, descritto come «proveniente dalla fornace della Regio ii, Insula i» e riferito a scavi del 1949-1950. Quest’ultimo dato può aver generato un po’ di confusione nel senso che a quegli anni o poco dopo risalgono gli scavi di P.E. Arias nell’area della fornace, scavi che precedono quelli assai più estesi di Guido A. Mansuelli e P. Saronio (tradizionalmente intesi come gli scavi della fornace) (vedi nota 10), ma che sono comunque diversi e da tenere ben distinti da quelli dell’anteguerra tradizionalmente denominati come ‘vecchi scavi’.26

Fig. 9. Marzabotto. Disegno ricostruttivo con collocazione su testina votiva del frammento con tracce di capigliatura.

25 Per le caratteristiche e l’importanza di questo elenco si veda quanto detto alla nota 15. 26 Nel corso della revisione di tutti i materiali rinvenuti nel dopoguerra, finalizzata all’allestimento del nuovo Museo inaugurato nel 1979 (vedi nota

15), ricordo bene che i materiali dei primi scavi condotti da P.E. Arias erano contenuti in un gruppo di casse diverso e distinto sia da quello dei “vecchi scavi” che da quello degli “scavi Fornace” del 1964; e da questo gruppo di casse fu prelevato il frammento di matrice come risulta dagli elenchi.

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giuseppe sassatelli

Fig. 10. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Frammento di coppa con iscrizione etrusca apposta a crudo.

Fig. 11. Marzabotto. Fornace dell’Insula 1 della Regio ii. Apografo dell’iscrizione etrusca di Fig. 10.

In conclusione dalla fornace dell’Insula 1 della Regio ii provengono due matrici per plasmare l’argilla che servivano per confezionare testine votive che una volta cotte erano sicuramente destinate al vicino tempio di Tina per cui l’ipotesi di una fornace funzionale alle esigenze del tempio comincia a prendere corpo, anche prescindendo da tutta la produzione delle molte terrecotte architettoniche come coppi, tegole, lastre ecc., necessarie per la copertura e per la decorazione del tempio. Ma ancora più significativo, sempre da questo punto di vista, è il terzo documento che mi accingo ora a considerare. Si tratta di una nuova iscrizione etrusca rinvenuta nella fornace, ma sicuramente destinata al vicino tempio di Tina.27 L’iscrizione (Figg. 10-11) è apposta a crudo sul fondo esterno di un piede a disco in ceramica grezza da riferire ad una forma aperta, forse una coppa anche se l’esiguità della parete conservata non consente certezze al riguardo. Dell’iscrizione, certamente destrorsa, restano solo tre lettere. La prima è sicuramente un tau con traversa secante e discendente nella direzione della scrittura; propongo di riconoscere nel secondo segno uno iota e nel terzo è un ny, sinistrorso (e quindi con direzione contraria a quella dell’iscrizione) e di forma arcaica avendo l’asta verticale molto allungata. La lettura che ne discende è quindi tin[---]28 per la quale è lecito ipotizzare una integrazione che realizzi un genitivo o nella forma tins´, più recente, o nella forma tinas / tinias, più arcaica. L’unico elemento che ci potrebbe aiutare nella scelta sarebbe la forma delle lettere che però è un po’ contraddittoria rispetto alla cronologia, essendo il tau di forma recente e il ny di forma arcaica. Credo che una datazione della nuova iscrizione alla seconda metà del v secolo possa essere la più congrua per cui in linea teorica entrambe le integrazioni sono possibili. Il genitivo indica chiaramente che il proprietario del vaso è Tina, con la possibilità di una duplice interpretazione: il va-

so è di Tina perchè è stato a lui donato oppure il vaso è di Tina perché appartiene all’instrumentum usato per le esigenze e le attività del culto. Al contrario delle altre due iscrizioni rinvenute nel tempio (vedi oltre) e graffite dopo la cottura, questa è stata apposta a crudo sul fondo di un vaso che poi è stato cotto nella fornace dell’Insula 1, Regio ii (dove è stato trovato il frammento del fondo), avendo comunque il vaso stesso come destinazione finale il vicino tempio di Tina. Proprio la realizzazione dell’iscrizione prima della cottura del vaso, un procedimento efficace e duraturo soprattutto nel caso della ceramica grezza sulla quale l’incisione dopo la cottura è assai più difficile oltre ad essere soggetta a slabbrature, fa pensare, più che ad una offerta, ad un vaso che faceva parte dell’instrumentum del tempio e come tale aveva come committente il tempio stesso o i suoi sacerdoti. La nuova iscrizione costituisce in primo luogo una importante conferma che il tempio periptero era dedicato alla suprema divinità del pantheon etrusco assimilabile a Zeus. Sono infatti ormai tre le iscrizioni con il nome di questa divinità: 1) tins´ trovata davanti al tempio e più precisamente vicino al suo angolo occidentale;29 2) [---]ka tinas´ ka [---] trovata nel piazzale antistante il tempio;30 3) tin[---] trovata nella fornace dell’Insula 1, Regio ii, ma solo perché qui è stata realizzata e qui è stato cotto il vaso su cui era apposta pur essendo essa sicuramente destinata al vicino tempio di Tina, anche se ci sfuggono le ragioni di questo mancato passaggio al luogo o alle persone che l’avevano commissionata.

27 L’iscrizione è stata individuata nella revisione di tutti i materiali della fornace condotta da M. Ossani e A. Pozzi nelle loro tesi di Specializzazione a riprova di quanto siano importanti questi lavori sistematici e complessivi. 28 Altre letture mi paiono meno convincenti. Si potrebbe pensare in linea teorica che l’asta verticale dopo il tau sia da unire ai due piccoli tratti obliqui e costituire quindi un ny destrorso come l’iscrizione per cui si do-

vrebbe riconoscere nel quarto e ultimo segno uno iota con la conseguenza di una lettura tni[---] che non solo mi sembra poco probabile in sé, ma contrasta anche con la posizione e le caratteristiche dei singoli segni e in particolare dei due piccoli tratti obliqui che per distanza e per posizione sono chiaramente da unire all’ultima asta verticale di destra. 29 G. Sassatelli, in Sassatelli, Govi 2005, pp. 38-47. 30 Sassatelli 2009.

La nuova iscrizione si riallaccia in modo molto stretto alla n. 1 trovata davanti al tempio e forse un poco più recente, con la formula tins´ che potrebbe essere esattamente la stessa (nel caso fosse quella più arcaica avrebbe comunque lo

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stesso significato). Essa costituisce inoltre un ulteriore tassello del legame molto stretto che esisteva tra il tempio dedicato a Tina e la grande fornace dell’Insula 1, Regio ii, la cui attività va pensata proprio in funzione del tempio. Lo dimostrano le matrici per le testine votive e lo dimostra la nuova iscrizione, apposta a crudo sul vaso che poi qui è stato cotto e qui è stato trovato essendoci rimasto come prodotto confezionato che però, per ragioni che ci sfuggono, non ha raggiunto la sua destinazione finale. Oltre che alla produzione di testine votive e di instrumentum sacro dobbiamo pensare che la fornace servisse anche e soprattutto per la fabbricazione dei laterizi di copertura e delle terrecotte architettoniche del tempio, prima di tutto in occasione della sua prima costruzione. E questa prima constatazione è importante anche in rapporto alla cronologia del tempio sulla quale nel corso del Convegno, più volte ricordato, ci fu ampia discussione. È evidente infatti che il poter constatare con assoluta certezza un pieno funzionamento della fornace a partire almeno dalla fine del vi-inizi del v secolo e poterla inoltre ricollegare in modo molto stretto al tempio e alla sua costruzione, costituisce un ulteriore elemento di conferma per la datazione del tempio stesso almeno agli inizi del v secolo, cronologia che peraltro mi sembra ormai accolta anche dai più dubbiosi. La fornace, oltre che per la prima costruzione, doveva poi servire anche in occasione dei successivi e necessari interventi di manutenzione e di ristrutturazione dell’elevato e della sua decorazione, interventi che sicuramente ci furono come prova il décalage cronologico delle poche terrecotte superstiti databili tra gli inizi e la fine del v secolo.31 Le due funzioni, quella di produrre laterizi e terrecotte architettoniche e quella di produrre offerte e instrumentum per il culto sono naturalmente molto diverse. La prima richiede un impegno consistente, ma relativamente concentrato nel tempo, dato che la fase iniziale di costruzione e anche quelle successive di mantenimento e/o rifacimento non vanno pensate come attività continue o molto prolungate. Mentre la seconda funzione, legata a ex voto e instrumentum, è sicuramente un’attività di routine e quindi costante e più diluita nel tempo, ma molto meno coinvolgente e impegnativa. Si tratta di una distinzione importante che forse ci aiuta anche a capire la dislocazione della fornace, una struttura di servizio di notevoli dimensioni e come tale fortemente inquinante, in una posizione urbanisticamente importante per la presenza del tempio, dell’ingresso in città dalla via che veniva da Bologna e forse anche dell’agorà. Dobbiamo pertanto pensare a un impianto che solo in determinate circostanze e solo in certi momenti, tra l’altro non frequentissimi, doveva funzionare a pieno ritmo per la produzione più complessa e impegnativa di laterizi e terrecotte architettoniche. Mentre per la restante produzione di terrecotte votive, sempre legata al tempio, dobbiamo pensare ad una attività continua e per così dire usuale, ma assi meno massiccia e impegnativa, e quindi di fatto assai meno inquinante. In conclusione tutto questo rende ancora più credibile l’ipotesi che la grande fornace dell’Insula 1, Regio ii sia stata installata in questo preciso punto della città e sia stata allestita con strutture di tale complessità e ampiezza proprio

per essere in grado di soddisfare tutte le esigenze del tempio, dalla costruzione iniziale, al mantenimento e alle necessarie ristrutturazioni degli apparati architettonici, alle attività e alle operazioni legate al culto.32 Che la costruzione di edifici sacri richiedesse una consistente produzione sia di terrecotte architettoniche che di terrecotte votive, anche oltre i tempi di costruzione degli edifici che poi necessitavano di una manutenzione costante e continua, è fatto ben noto in Etruria anche se mancano documenti così diretti ed espliciti come questo di Marzabotto. La presenza di forni nelle vicinanze di templi e aree sacre consentiva da un lato un facile apprestamento delle terrecotte templari che potevano essere rapidamente ed efficacemente adattate alle esigenze costruttive e decorative degli edifici; e dall’altro una altrettanto rapida preparazione di tutti quegli elementi che rientravano nelle attività del culto e ne erano parte integrante, come il vasellame e le terrecotte votive.33 Per quanto tutto questo sia stato più che legittimamente pensato e ipotizzato per grandi santuari come Veio e Pyrgi (vedi nota 33), in nessun caso abbiamo in Etruria una realtà così coerente e così esplicita come quella di Marzabotto dove alla grandiosità e alla monumentalità del tempio si accompagna una grande fornace collocata nelle sue immediate vicinanze, con dimensioni e caratteristiche che non hanno eguali in Etruria e che ci lasciano intravedere una organizzazione del lavoro e un tipo di produzione la cui portata e la cui complessità non possono che essere dovuti ad una iniziativa dell’intera comunità dei cittadini.

31 E. Govi, in Sassatelli, Govi 2005, pp. 34-37. 32 Ho consapevolmente escluso da questo tipo di considerazione i dischi di terracotta con pomelli di presa e iscrizioni provenienti in larghissima parte da questa stessa fornace per i quali sono state date varie interpretazioni (Sassatelli 1994, pp. 19-21). Alcune importanti novità di carattere epigrafico, come il significato dell’iscrizione al apposta a crudo su uno di questi dischi e interpretata come participio del verbo alice con significato di

donatum / donum (Colonna 2003, p. 166, nota 31), unitamente al fatto che un frammento di questo tipo di disco, purtroppo anepigrafe, è stato trovato la scorsa estate nei pressi del tempio di Tina, impongono una riconsiderazione complessiva di questa classe di materiali sulla quale mi riprometto di tornare al più presto nella speranza di darne un’interpretazione più convincente, qualunque essa sia, proprio alla luce di queste importanti novità. 33 Sassatelli 1985a e 1985b.

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giuseppe sassatelli

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Z UM T ER R AKOTTA-GIEBEL VO N DE R VI A DI SAN G RE G O RIO Erika Simon

I

m Jahre 1878 wurden in Rom, an der Via di San Gregorio zwischen Palatin und Caelius, fragmentierte Giebelfiguren aus Ton gefunden.1 Nach Stil und Tracht lassen sich die Fragmente um 100 v. Chr. datieren, vielleicht auch etwas früher, in die zweite Hälfte des 2. Jahrhunderts.2 Ein Teil des Fundes war im Palazzo dei Conservatori ausgestellt, als „älteste bekannte stadtrömische Darstellung einer Opfersze-

ne“.3 Seit 2002 ist der Giebel in neuer, überraschender Form zu sehen (Abb. 1). In den Magazinen des Museums wurden ergänzende Stücke gefunden, so der figürliche Simaschmuck über der Giebelmitte.4 Es handelt sich um Hochreliefs zweier junger Gestalten, einer Frau (Abb. 2) und eines Mannes (Abb. 3), deren Köpfe dreidimensional den Simarand überragen. Sie sind ihrer Anbringung entspre-

Abb. 1. Rekonstruktions-Zeichnung der Sima und des Giebels von Via di San Gregorio. Nach Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 61.

Abb. 3. Heros von der Sima Abb. 1, hier als Peleus gedeutet. Nach Ferrea, a.O. (Anm. 1), Taf. xx.

Abb. 2. Weibliche Gestalt von der Sima Abb. 1, hier als Thetis gedeutet. Nach Ferrea, a.O. (Anm. 1), Taf. xxi.

1 Frühere Literatur in W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom, ii, Tübingen 1966, Nr. 1605 (T. Dohrn); limc , ii, 1984, s.v. Ares / Mars, Nr. 277 (E. Simon); L. Ferrea, Gli Dei di Terracotta. La ricomposizione del frontone da Via di San Gregorio, Ausstellungs Katalog (Rom 2002), Roma 2002. Diese drei Beiträge werden in folgenden nur mit Verf.-Namen zitiert. 2 Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 47 mit Literatur. 3 Dohrn, a.O. (Anm. 1), S. 410. 4 Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 48-59, Taf. xviii-xxii.

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erik a simon

Abb. 4. Rekonstruktions-Zeichnung der Simagruppe. Nach Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 54, Abb. 51.

Abb. 5. Neuer Rekonstruktions-Vorschlag für die Simagruppe. Zeichnung Isabella Hodgson, M. A. (Würzburg). Hier als Kampf des Peleus mit Thetis gedeutet.

chend kleiner als die Giebelfiguren. Und während man für jene einen kultischen Kontext annimmt – dazu am Ende dieses Beitrags – gehört die Simagruppe zweifellos in den mythischen Bereich. Die Entdeckerin Laura Ferrea deutet die Frau (Abb. 2) als

Hesione, die Tochter des trojanischen Königs Laomedon.5 Der Heros (Abb. 3) sei Herakles, der Hesione von dem Ketos befreie. Sie ordnet ihn links von der Giebelmitte an, die Prinzessin rechts (Abb. 4). Im Zentrum ergänzt sie den Kopf des Ungeheuers. Er ähnelt mehr einem Löwenkopf

5 Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 55-57.

z u m t e rr a kotta - giebel von der via di s an gr egor io als dem eines Ketos.6 Das ist durch die erhaltenen Mähnenhaare bedingt, die unter der linken Hand des Heros erscheinen (Abb. 3). In seiner rechten Hand rekonstruiert Ferrea eine Keule, nach der sich sein Kopf wendet. Aber müsste der junge Mann nicht das Monstrum, mit dem er kämpft, oder die junge Frau anblicken? Und waren deren Handgelenke wirklich gefesselt? Von ihren Armen sind nur die Ansätze erhalten, die Pfähle rechts und links sind ergänzt. Die Bewegung ihres rechten Beines, das nackt aus dem langen Peplos tritt, ist in dieser Form weder in den vielen Bildern der dem Ketos ausgesetzten Andromeda7 noch in den weniger zahlreichen der Hesione8 überliefert. Den beiden Figuren fehlt weitgehend der Hintergrund, sodass die vorgeschlagene Anordnung (Abb. 4) nicht zwingend ist. Ich möchte vorschlagen, sie zu vertauschen, den Heros rechts, die Frau links von der Giebelmitte anzunehmen (Abb. 5).9 Die Blicke der beiden wären dann einander zugewandt, während die Körper V-förmig auseinander streben, wobei das linke Bein der Frau und das rechte des Heros einander überkreuzen. Dessen teilweise erhaltener rechter Arm war nach ihr ausgestreckt. Eine Keule hielt er sicher nicht, denn die Deutung auf Herakles trifft nicht zu. Sein auch an der Rückseite relativ gut erhaltener Kopf hat nicht die kurzen Locken, mit denen jener Heros in der hellenistischen und römischen Kunst erscheint.10 Das Haar hier ist länger und endet im Nacken sogar in einer Rolle. Zwar ist diese Frisur fast zu ‚apollinisch’ für den muskulösen Körper. Aber diesen braucht der junge Mann für die harte Prüfung, der er ausgesetzt ist. Eine dicke Schlange umschlingt sein linkes Bein. Außerdem wehrt seine Linke ein löwenartiges Untier ab, von dem ein Stück der Mähne – wie schon erwähnt – und dazu ein Teil des einen Hinterbeins erhalten blieb (Abb. 3 rechts unten). Löwe und Schlange waren die Tiere, mit denen sich die Meeresgöttin Thetis gegen Peleus wehrte, der sie nach dem Willen der Olympier zur Frau bekommen sollte. Schon die archaische Kunst zeigt die Standhaftigkeit des Peleus. Er hält Thetis trotz der für sie kämpfenden Wesen, zu denen Wasser und Feuer kamen, fest. Er tötet die Tiere nicht, sondern erträgt ihre Aggression. Sie verschwinden schließlich und er gewinnt die Göttin zur Gemahlin. Lieber Giovanni Colonna! In ihrer Festschrift sollten die von Ihnen und mir so geliebten Etrusker zu Worte kommen und sie tun es. Der Kampf zwischen Peleus und Thetis war ein Thema, das auf etruskischen und pränestinischen Spiegeln oft begegnet11 und nicht nur dort. Auch von Bronzereliefs und Cisten ist es wohlbekannt12 oder von dem Namen gebenden Werk des faliskischen Aurora-Malers.13 Auf einer pränestinischen Ciste in der Villa Giulia (Abb. 6)14 sind es Ketos und Löwe, die Peleus bedrohen. Da die monströse Schlange am linken Bein des Peleus in der Simagruppe sehr dick ist, handelt es sich wohl ebenfalls um ein Ketos. Ohne Originalstudium war es schwer, die beiden Figuren in der Mitte der Sima anzuordnen, weshalb die neue Zeichnung (Abb. 5) nur eine Anregung sein kann.15 Thetis 6 Zu Darstellungen des Ketos: limc , viii, 1997, Suppl., S. 731-736, s.v. Ketos, Taf. 496-501 ( J. Boardman). 7 limc , i, 1981, S. 774-790, s.v. Andromeda, i, Taf. 622-642 (K. Schauenburg). 8 limc , viii, 1997, Suppl., S. 623-629, s.v. Hesione, Taf. 386-389 ( J. H. Oakley). 9 Zeichnung: Isabella Hodgson, M. A. 10 limc , iv, 1988, S. 728-838, s.v. Herakles, Taf. 444-559 ( J. Boardman). 11 Vgl. LIMC, vii, 1994, S. 255-265, s.v. Peleus, Nr. 72, 73, 100-103, 183-185, 191: etruskisch; Nr. 107: pränestinisch (R. Vollkommer). 12 Vgl. Vollkommer, a.O. (vorige Anm.), Nr. 74-77, 104-105: etruskisch; Nr. 186, 192, 193: pränestinisch.

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Abb. 6. Kampf des Peleus mit Thetis auf einer pränestinischen Ciste. Rom, Villa Giulia. Nach limc , vii, 1994, S. 263 (Nr. 186 Ausschnitt).

erscheint an der linken Simaseite mit Blick auf Peleus. Ihr Oberkörper ist mädchenhaft und nicht matronal wie in der Zeichnung Abb. 4. Die Umgebung der Meeresgöttin war sicher, als Gegengewicht zu der des Peleus, mit Zutaten versehen, auf die, da unbekannt, in Abb. 5 verzichtet wurde. Obwohl der Griff des Heros an ihren linken Arm ebenfalls nicht erhalten ist, wurde er ergänzt, da er zum Mythos gehört. Peleus ließ Thetis trotz der Bedrohungen durch Wasser und Feuer, Schlange und Löwe nicht los. Auf diese Weise gewann er sie. Etwa zwei Generationen nach unserem Giebel war diese Art des Ausharrens nicht mehr nötig. Im 64. Gedicht des Catull (19-21) sehen Peleus und Thetis einander das erste Mal bei der Fahrt der Argo durch die Wogen und sie verlieben sich.16 Der Simaschmuck zeigt dagegen noch die früheren Trabanten der Thetis. Sie selbst aber hat sich verändert. Wie aus ihrem Blick hervorgeht, ist die Anziehungskraft des Heros stärker als ihr Widerstand (Abb. 5). Sie ist soeben dabei, ihn nicht länger abzuwehren. Bald werden Schlange und Löwe verschwinden und Göttin und Heros einander umarmen. Was soll dieser Mythos als ‚ Bekrönung’ einer Opferszene für Mars, wie der Giebel von der Via di San Gregorio bisher gedeutet ist? Dabei verglich man die Tonfiguren mit 13 Vgl. Vollkommer, a.O. (Anm. 11), S. 265, Nr. 195, Taf. 202; M. Martelli, La Ceramica degli Etruschi, Novara, 1987, S. 317, Nr. 147, Taf. 199. 14 Vgl. Vollkommer, a.O. (Anm. 11), S. 263 f., Nr. 186 (= Villa Giulia, 13149). G. Bordenache, A. Emiliozzi, Le Ciste Prenestine, i, 2, Roma, 1990, Nr. 76. 15 So ist der Heros, obwohl die Rekonstruktion nicht befriedigt, aus Abb. 4 übernommen. Zum Löwenbein vgl. Abb. 3 rechts unten. 16 Dazu F. Klingner, Catulls Peleus-Epos, «SBMünchen», 1956, Heft 6, S. 12-21.

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dem Marmorfries von der sogenannten Ahenobarbus-Ara im Louvre.17 Dort erhält Mars bei der Musterung des Heeres Suovetaurilia, das Opfer von Stier, Schaf und Schwein. Die im Giebel herangeführten Tiere stimmen jedoch mit denen des Frieses nicht überein18. Unter den tönernen Resten befinden sich Ziegen. Sie wären bei Suovetaurilia falsch am Platz. Probleme für die Deutung auf ein Opfer für Mars haben schon immer die beiden weiblichen Gestalten bereitet, die unter den Tonfiguren erhalten sind (Abb. 1).19 Lieber Giovanni Colonna, wie Sie wissen, ist es schwer, eine Deutung zu widerlegen, die so lange Zeit im Umlauf ist. Es sei dennoch gewagt. Da die Simagruppe den Ringkampf des Peleus mit Thetis zeigt, könnte der nur zu einem Drittel in der Giebelmitte erhaltene Gewappnete (Abb. 1) Achilles sein. Der Heros wäre dann nicht, wie Mars, als Empfänger eines Tieropfers dargestellt, sondern als Gastgeber. Er ließe die Tiere für ein Mahl heranführen und schlachten. So ist im 9. Gesang der Ilias (206-215) geschildert, wie Achill selbst in seinem Zelt das Fleisch eines Schafes, einer Ziege und eines Schweines auf dem Hackblock zerteilt und es an Spieße steckt. Kein anderer homerischer Heros ist so ausführlich bei dieser Beschäftigung dargestellt wie Achilles. Seine Freunde Patroklos (205, 216, 220) und Automedon (209) helfen bei der Bewirtung mit. Sie gilt dem Odysseus, dem Aias und dem Phoinix, die als Gesandtschaft zu ihm kamen. Allerdings ist Achill im 9. Gesang der Ilias nicht gewappnet, denn er hat sich grollend aus dem Kampf zurückgezogen. In unserm Fall dürfte daher eine andere Szene mit Achill als Gastgeber gemeint sein, nämlich das Totenmahl der Myrmidonen im 23. Gesang der Ilias, am Abend vor der Verbrennung des gefallenen Patroklos (10 f., 48, 55-58). Dem Mahl ging die Totenklage voraus, die Thetis anhob (14). Sie ist m. E. in der angelehnt stehenden, mit Kopf erhaltenen Frau dargestellt (Abb. 1).20 Für die weniger gut überlieferte Sitzende bleibt dann der Name Briseis, die Agamemnon dem Achill zurückgegeben hat. Selbst dessen Rüstung im Gegensatz zur Kleidung der anderen männlichen Personen stimmt mit der Situation im 23. Gesang überein. Achill weigert sich, vor der Verbrennung des Patroklos ein Bad zu nehmen (40-53). Auch die relativ große Zahl der Schlachttiere passt zum Totenmahl der Myrmidonen. Es ist wie jede homerische Tierschlachtung auch als Kulthandlung zu verstehen. Dafür sei noch einmal auf den

9. Gesang der Ilias verwiesen. Nachdem Achill selbst das Fleisch geteilt, an Spieße gesteckt und gegrillt hat, trägt er Patroklos auf (220 f.): Nun den Göttern zu opfern; der warf in das Feuer die Spenden. Und sie streckten die Hände zum Mahl, das ihnen bereitstand.

17 Ferrea, a.O. (Anm. 1), 46, Abb. 41; Simon, a.O. (Anm. 1), 535 f., Nr. 282, Taf. 403. 18 Wenn Dohrn, a.O. (Anm. 1), und andere beim Giebel von Suovetaurilia sprechen, so trifft das nicht zu. Sicher sind ein Rind und Ziegen. 19 Vgl. Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 41-43 mit Literatur. 20 Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 39-43, Taf. viii, die Sitzende Taf. xi.

21 Simon, a.O. (Anm. 1), S. 534, zu Nr. 277. 22 Ferrea, a.O. (Anm. 1), S. 68-69, Abb. 68. 23 re , Suppl. xiv, München 1974, S. 897, s.v. Virtus (W. Eisenhut); limc , viii, 1997, S. 273, s.v. Virtus (Th. Ganschow); dnp 12 / 2, 248 (D. Wardle). 24 Vgl. E. Simon, Achilleus in der antiken Kunst, «Humanist. Bildung Heft», 23, Stuttgart, 2008, S. 58.

Welchen Tempel schmückte der Giebel von Via di San Gregorio? Wegen der gewappneten, allgemein als Mars gedeuteten Hauptfigur wurde – auch von der Verfasserin – das Heiligtum des Mars bei der Porta Capena angenommen.21 Ferrea bleibt dabei, verwendet aber zusätzlich die berühmte Inschrift des Lucius Mummius im Vatikan.22 Dieser, der Eroberer von Korinth (146 v.Chr.), schreibt darin, er habe als Imperator „diesen Tempel und die Statue (signum) des Hercules Victor geweiht“ (dedicat). Nach Ferrea hat Mummius den Marstempel erneuert und die aus Griechenland erbeutete Hercules-Statue dort aufgestellt. In der Forschung wird aber meist zu Recht angenommen, Mummius habe am Caelius dem Hercules Victor einen Tempel mit Kultbild errichtet. Mars ist in der Inschrift des Mummius nicht genannt. In der Nähe der Porta Capena lagen weitere Heiligtümer, so der wichtigste römische Tempel für Virtus.23 Sie war keine mythische Getalt, sondern eine der Kult-Personifikationen, wie sie für die römische Religion überaus typisch sind. Man braucht nur an Concordia zu denken, an Salus oder Honos, der gemeinsam mit Virtus an der Porta Capena verehrt wurde. Im figürlichen Schmuck solcher Heiligtümer waren häufig Szenen aus dem Mythos verwendet. Als Beispiel seien die beiden Reliefs am Eingang zur Ara Pacis Augustae angeführt. Die beiden mythischen Darstellungen in Sima und Giebel von der Via di San Gregorio beziehen sich nach obiger Deutung auf Achilles. Die Sima zeigt sein Elternpaar, der Giebel ihn selbst und seine Mutter beim Leichenmahl für seinen Freund Patroklos. Achilles verkörperte für die Römer virtus in hervorragender Weise.24 So sei die Hypothese gewagt, dass der Terrakotta-Giebel von der Via di San Gregorio von einer spätrepublikanischen Erneuerung des Virtus-Heiligtums stammt, das schon in der mittleren Republik erbaut worden war (Livius, xxix, 11, 13).

LE AM AZZONI DI EFESO E L’I T T I O MANZ I A DI SURA. APPU NTI S U L L A DE CO RAZ I O NE P I T TO RI CA DEL TEM PIO D I P O RTO NACCI O DI VE I O Mario Torelli

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iovanni Colonna sta da decenni lavorando con l’acribia che gli è propria alla continuazione del magnum opus di edizione dell’immenso e fondamentale materiale del tempio veiente di Portonaccio, iniziata settant’anni or sono dal nostro comune Maestro Massimo Pallottino. Le ricerche da lui compiute1 hanno finora restituito l’immagine di un luogo di culto che ha pochi uguali nel pur ricchissimo panorama dei santuari del mondo etrusco, cui egli peraltro ha dedicato un quarto di secolo fa una sintesi, concretatasi in una mostra e in un formidabile catalogo,2 che ancora costituisce un punto fermo nel panorama degli studi di archeologia del sacro nel mondo etrusco. Nella speranza che queste note possano tornare utili al suo prezioso lavoro di ricerca, a lui dedico volentieri questi appunti relativi al materiale veiente, a pubblica testimonianza della grande stima personale e in ricordo del lustro trascorso insieme più di quarant’anni or sono nella stessa stanza come giovani ed entusiasti ispettori della Soprintendenza alle antichità dell’Etruria meridionale. Appunto in attesa che Giovanni Colonna porti a termine il suo lavoro di edizione, la pubblicazione di E. Stefani in «Notizie degli Scavi» del 19533 rappresenta a tutt’oggi la sola presentazione organica dei dati raccolti nei fruttuosissimi scavi del santuario di Portonaccio condotti da E. Gabrici e G. Q. Giglioli nel 1914-1916: fra i dati da lui resi noti spiccano quelli relativi ai rivestimenti fittili del tempio, che Stefani ha organizzato in una prima, importante sistemazione. Oltre ai rivestimenti fittili del tetto, i materiali comprendono un gruppo di frammenti di lastre fittili dipinte con soggetti figurati, che, malgrado lo stato frammentario e le cattive condizioni delle superfici pittoriche, meritano una speciale attenzione, dal momento che solo le sole provenienti dall’area dell’antica città di Veio.4 Le lastre veienti si collocano accanto a quelle consimili trovate in vari tempi a Caere, da quelle oggi a Berlino provenienti dall’area di uno dei grandi templi di Caere sito nella probabile agorà e dipinte nella bottega del Maestro delle Idrie Ceretane,5 alle altre lastre dall’area del tempio del Manganello6 e dalla Vigna Mariano Ramella,7 pure connesse con strutture templari, e con queste costituiscono una delle pochissime testimonianze di decorazioni dipinte di edifici sacri antichi a noi note per tutta la fase arcaica, classica ed ellenistica sia greca che etrusca e

romana, ma irrimediabilmente scomparse nel naufragio della grande pittura parietale sacra dell’intero mondo antico. Se pensiamo a quanto si è perso con la distruzione delle pitture di Polignoto nella Lesche degli Cnidii di Delfi8 o a quelle dell’allievo di Nikias Omphalion nel tempio di Asclepio di Messene9 o, per passare al mondo etrusco-romano, alle pitture di Ardea,10 Lanuvio, Caere11 e Roma, e in particolare quelle di Damophilos e Gorgasos nel tempio aventino di Cerere, Libero e Libera,12 i frustuli veienti, ad onta della loro grande frammentarietà, acquistano un significato particolare, non fosse altro che per la loro virtuale contemporaneità con i dipinti romani di Damophilos e Gorgasos appena ricordati. Giustamente salutate da Massimo Pallottino come un trovamento di grande rilievo in un’anticipazione dell’edizione di Stefani pubblicata in Archeologia Classica del 1951,13 le lastre hanno ricevuto pochissima attenzione negli studi successivi, se non in brevi schede relative alla loro apparizione in mostre.14 Pur nel loro carattere di relazione preliminare, le indicazioni di Stefani contenute nella prima edizione sono sufficientemente precise: pur non addentrandosi in una classificazione delle argille, fondamentale per tentare una suddivisione in gruppi dei frammenti più solida di quella meramente stilistica, l’editore è dettagliato sulla descrizione delle lastre e su particolari rilevanti di queste, come le misure, che avevano un’altezza di cm 68 ed una larghezza di cm 54,5;15 la presenza di un’unica lastra dalla larghezza complessiva di cm 4616 si può forse spiegare con l’esigenza di portare a termine la decorazione di una parete, la cui lunghezza non era perfettamente divisibile per la larghezza standard delle lastre stesse. Le lastre, munite in alto di fori per il fissaggio alla parete, recavano inferiormente un listello ribassato e superiormente un listello rilevato e piatto, detto da Stefani “fascione”, che nei frammenti superstiti si presenta ornato da cinque diversi motivi decorativi: entrambi questi listelli, sia quello ribassato che quello rilevato, avevano l’ovvia funzione di consentire la sovrapposizione sulla parete in senso verticale di una o più lastre. L’editore ha immaginato che le lastre fossero sovrapposte su cinque file, cosa assai improbabile alla luce della tradizionale tripartizione della struttura della parete sin da epoca assai antica. In particolare, una lastra dipinta con la figura sinuosa

1 G. Colonna, Note preliminari sui culti del santuario di Portonaccio a Veio, «ScAnt», 1, 1987, pp. 419-446 (= Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane, 1958-1998, Pisa-Roma, 2005, pp. 1989-2014). Vedi ora la recente sua sintesi L’officina veiente: Vulca e gli altri maestri della coroplastica arcaica, in Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, Catalogo della Mostra (Roma, 2008), a cura di M. Torelli, Milano, 2008, pp. 52-63. Sugli scavi Pallottino, vedi G. Colonna et alii, Il santuario di Portonaccio a Veio, 1. Gli scavi di Massimo Pallottino nella zona dell’altare, 1939-1940, mal , s. misc., vi, 3, Roma, 2002. 2 Santuari d’Etruria, Catalogo della Mostra (Arezzo, 1985), a cura di G. Colonna, Milano, 1985. 3 E. Stefani, «NSc», 1953, pp. 29-116. 4 Une breve loro riconsiderazione è contenuta soltanto nel saggio di G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, p. 444 (= Italia ante Romanum Imperium, cit., p. 2013 sg.).

05 F. Roncalli, Le lastre dipinte da Cerveteri, Roma, 1965, pp. 24-27, nn. 10-15. 06 Ivi, pp. 33-37, nn. 21-29. 07 Ivi, pp. 37-40, nn. 30-39. 08 Paus., x, 25-31. 09 Paus., iv, 41,12. 10 Plin., N.H., xxxv, 115. 11 Plin., N.H., xxxv, 17-18. 12 Plin., N.H., xxxv, 154. 13 In appendice ad E. Stefani, Una serie di lastre fittili dipinte del santuario etrusco di Veio, «ArchCl», iii, 1951, pp. 138-143. 14 Vedi le schede di F. Fortunati, in Santuari d’Etruria, cit. (nota 2), p. 107, n. 5.1.e.1, di G. Colonna, in Veio, Cerveteri, Vulci. Città etrusche a confronto, Catalogo della Mostra (Roma, 2001), a cura di A. M. Moretti, Roma, 2001, pp. 41-42, e di C. Carlucci, in Etruschi, cit. (nota 1), p. 206, n. 18.1 e 18.2. 14 F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 24-27, nn. 10-15. 15 «NSc», 1953, pp. 67-81. 16 «NSc», 1953, p. 67.

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di un serpente17 appare conclusa in basso da un motivo ad onda marina stilizzata o “a cane corrente”, tradizionalmente destinato a terminare in alto la zoccolatura, di norma abbastanza sviluppata in altezza, e al tempo stesso a distinguerla dalla parte superiore della parete, occupata dall’eventuale fregio figurato, come ci insegna il ricordo preciso delle pareti degli edifici reali presente in tombe di tutte le epoche.18 Si noti fra l’altro che il motivo dell’onda marina stilizzata non era limitato a questa lastra con serpente: Stefani infatti afferma19 che esso “doveva ricorrere anche in altre lastre della medesima serie, com’è provato da alcuni altri minori frammenti che presentano in basso lo stesso ornato”. Piuttosto che a cinque file di lastre sovrapposte, meglio dunque pensare a due (o addirittura ad una sola fila di lastre, inchiodata all’armatura lignea della parete), sì da raggiungere l’altezza di m 1,20 circa, non diversa dai m 1,10-1,35 di altezza di tutte le lastre ceretane dipinte, di cui si abbia o si possa calcolare la misura completa20 e dove si osserva la medesima tripartizione: in alto infatti incontriamo una baccellatura concava a rilievo o un motivo decorativo perlopiù un meandro dipinto (che nelle lastre Boccanera diventa una triplice treccia), mentre la restante parte risulta equamente divisa tra il fregio figurato e la decorazione dello zoccolo, in molti esemplari ceretani decorato a larghe fasce verticali bianche e rosse alternate. La diversità di terminazioni dipinte sui “fascioni” si accompagna ad un’evidente diversità di stile delle pitture. In particolare, le due serie di lastre, il cui “fascione” è decorato con palmette e fiori di loto su doppia fascia dentellata o con palmette e fiori di loro rovesciati, recano pitture fra loro abbastanza omogenee, caratterizzate da grande accuratezza disegnativa e di palese cronologia tardo-arcaica, per il gusto per la definizione netta dei profili delle figure e per la tendenza a rappresentare la realtà in maniera analitica,21 tratti confrontabili con pitture tarquiniesi degli inizi del v sec. a.C., come le tombe delle Bighe o della Nave.22 Al contrario, le lastre con “fascione” decorato da bande a zig-zag presentano figure assai poco analitiche, dalla coloritura piena senza accenno ai dettagli interni e dalle forme legnose e scarsamente articolate, che ricordano ben più tarde espressioni della pittura di Tarquinia, come la tomba Francesca Giustiniani e le tombe 3242 e 3713.23 Siamo a mio avviso in presenza di due serie di decorazioni pittoriche, che sarei incline ad attribuire a due interventi distinti e fra loro abbastanza lontani nel tempo. Il primo gruppo di lastre, da datare al passaggio tra vi e v secolo a.C. o al più tardi ai decenni iniziali del v secolo a.C., è frutto del primo dei due interventi e va considerato contemporaneo della decorazione tardo-arcaica del tempio, quella per intenderci del grande sistema di copertura del tetto con le celebri statue

acroteriali, dalla cui bottega è con tutta verosimiglianza stato prodotto; il secondo gruppo potrebbe essere invece considerato un’aggiunta o una ridecorazione parziale dell’edificio da datare con ogni probabilità alla seconda metà del v sec. a.C. Tutte le lastre dipinte destinate a decorare templi hanno ai miei occhi particolare interesse non solo per le ben note ragioni storico-artistiche, sopra sommariamente accennate, ma anche per il soggetto su di esse rappresentato: sapere, sia pur in senso generico e approssimativo, se le pitture che decoravano gli edifici templari monumentali illustravano soggetti mitici o invece temi rituali, o tutti e due, costituisce un grande passo in avanti nelle nostre conoscenze sulla mentalità, sui modelli culturali e sui grandi orientamenti di pensiero e di gusto della classe dominante etrusca tardo-arcaica. Per la fase arcaica sappiamo con relativa certezza che i soggetti delle decorazioni dei cortili delle grandi residenze aristocratiche erano orientati in maniera virtualmente univoca in direzione di temi di carattere cerimoniale, destinati a rafforzare l’immagine del princeps o la coesione del gruppo: solo nella serie di lastre tipo Acquarossa e in quelle della serie Roma-Veio-Velletri si poteva assistere ad una brusca inserzione in quei contesti cerimoniali della straripante figura di Eracle con l’indubbio scopo di sottolineare il carattere sovrumano delle imprese compiute dal princeps o le aspettative di immortalità eroica a questi riservate.24 Finora, pur senza raggiungere certezze assolute, possiamo farci un’idea abbastanza fondata dei soggetti delle lastre dipinte di provenienza funeraria come le due serie Campana e Boccanera, grazie alla sostanziale completezza dei supporti: in esse si deve comunque scorgere una dimensione simbolica o rituale connessa con l’Aldilà, un tema per molti versi affascinante, sul quale spero di poter tornare in un futuro non troppo lontano. Uguale orizzonte, parallelo a quello delle coeve tombe dipinte di Tarquinia dominate da danze e giuochi funebri, dovrebbe celarsi in altre lastre provenienti dalla necropoli ceretana, con danzatori maschili e femminili,25 come pure dietro il guerriero italico della lastra di Ceri,26 forse parte di una rappresentazione di giuochi di tipo gladiatorio successivi a quelli del Phersu, una proposta da me avanzata ormai molti anni or sono.27 Quasi tutte le lastre di provenienza urbana, a causa del loro stato di estrema frammentazione, appaiono invece avare di informazioni. Nella serie ceretana di Vigna Marini-Vitalini dobbiamo scorgere temi mitologici: al mito possiamo infatti ascrivere il frammento con una scena di ratto,28 così come di sicura pertinenza alla sfera mitica sono le due figure di opliti affiancati.29 Mitologici sono anche i soggetti delle lastre pubblicate per la prima volta da M. Moretti,30 e provenienti anch’esse dalla città di Caere, nelle quali figurano

17 È il fr. n. 15 di «NSc», 1953, p. 76, fig. 55. 18 M. Torelli, Sistemi decorativi delle pareti di case e di tombe della fase medio-repubblicana, in corso di stampa. 19 «NSc», 1953, p. 71. 20 F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 15-24 (lastre Campana: alt. m 1,211,35), 40-42 (lastre dal tumulo x della Banditaccia: alt. m 1,17), 43-48 (dalla città, forse da edificio sacro: m 1,19-1,31). 21 Si vedano ad es. i frr. n. 1 di «NSc», 1953, p. 71 sg., figg. 49 a-b, e n. 36 di «NSc», 1952, p. 76 sg., figg. 54 a-b, di cui parleremo più avanti. 22 Cfr. S. Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milano 1985, pp. 295-297 (tomba delle Bighe), p. 332 sg. (tomba della Nave). 23 Cfr. ivi, p. 310 sg. (tomba Francesca Giustiniani), p. 366 sg. (tomba 3242), p. 368 (tomba 3713). 24 M. Torelli, I fregi figurati delle regiae latine ed etrusche. Immaginario del potere arcaico, «Ostraka», i, 1992, pp. 249-274. 25 Si tratta delle lastre trovate dal Mengarelli nell’area della Tomba della Tegola Dipinta: F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 40-42, nn. 40-42, tavv. xxixxii.

26 Vedi ora V. Bellelli, in Il Guerriero di Ceri. Tecnologie per far rivivere e interpretare un capolavoro della pittura etrusca su terracotta, a cura di G. F. Guidi, V. Bellelli, G. Troisi, Roma, 2006, pp. 59-99. 27 M. Torelli, Delitto religioso. Qualche indizio sulla situazione in Etruria, in Le délit religieux dans la cité antique, Atti della Tavola Rotonda (Roma, 1978), a cura di J. Scheid, Roma, 1981, pp. 1-7. 28 Sui soggetti, vedi le poche annotazioni di F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 77-82; in particolare evidente nel fr. n. 10 è l’iconografia del ratto (una mano maschile che stringe quella di una donna), p. 25 sg., tavv. ix e x, 1, che Roncalli (ivi, p. 78), a torto pensa all’incontro tra due processioni, come ipotizzato da A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund-Leipzig, 1940, i, pp. cxlv-cxlvii, e p. 24 sg. 29 F. Roncalli, op. cit. (nota 5), p. 24, tav. xvi. 30 M. Moretti, Lastre dipinte inedite da Caere, «ArchCl», ix, 1957, pp. 18-25; cfr. F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 41-48, nn. 43-48, tavv. xxiiixxvii.

l e a m a z zoni di efes o e l ’ ittiomanzia di s ur a 165 con il resto del busto panneggiato;39 probabilmente alla l’uccisione della Gorgone da parte di Perseo e, forse,31 il giustessa serie apparteneva la figura di serpente già in precedizio di Paride. Si potrebbe anche pensare che quest’ultima denza citato, che possiamo immaginare inquadrasse una bella serie di lastre possa riferirsi ad edifici privati anziché saporta. cri, vista la presenza nella fascia superiore di fregi caratterizDi qualità pittorica molto più alta è la serie che ritengo zati da figure di scala ridotta rispetto alle scene mitiche, che più antica, nella quale anche i frammenti più minuti, quanesibiscono cavalieri in corsa identici per concezione ai cavado restituiscono parti della decorazione figurata, presentalieri delle lastre fittili di rivestimento architettonico delle seno figure di grande eleganza, di particolare sapienza diserie di Tuscania e di Roma-Veio-Velletri,32 e scene di simpognativa, visibile soprattutto nei panneggi, in genere giunti sio,33 anche queste raffigurazioni identiche a quelle sulle in frammenti purtroppo esigui, come nel piccolo frammendue serie di lastre fittili delle serie di Acquarossa e di Romato con due panneggi, uno maschile e uno femminile.40 La Veio-Velletri, in stragrande maggioranza appartenenti a requalità della pittura è altissima, come dimostra il trattasidenze e non a templi. D’altro canto, anche i frammenti di mento delle vesti che trova confronti con le parti panneglastre dipinte ceretane scoperti dopo l’edizione della raccolgiate delle grandi statue poste sul kalyptér hegemòn, così che ta contenuta nel volume di Roncalli presentano consonanze tutto lascia pensare che esse facciano parte della celebre decon quanto finora detto,34 a riprova che una non piccola corazione complessiva del tempio eseguita al passaggio tra maggioranza di questi documenti pittorici anche a soggetto vi e v sec. a.C. da una squadra di artigiani responsabile mitolologico doveva appartenere a residenze gentilizie che dell’architettura del tempio come dei rivestimenti fittili a impiegavano lastre architettoniche dipinte anziché a stamstampo e a stecca e della decorazione pittorica, secondo il po. Del pari una grande quantità di lastre c.d. “di i fase” tromodello inaugurato da Eucheir, Eugrammos e Diopos, i vate a Caere in scavi vecchi e nuovi, soprattutto quelle con plastae al seguito di Demarato di Corinto.41 A questa serie la partenza del guerriero,35 di grande significato per l’ideoappartengono due lastre ricomposte quasi per intero da valogia gentilizia arcaica, va attribuita a residenze aristocratiri frammenti dalle scene di particolare interesse, sulle quali che scaglionate lungo tutto il vi sec. a.C. vengo a soffermarmi un po’ più a lungo anche in virtù del È comunque importante aver constatato che nelle lastre fatto che esse si presentano virtualmente complete. ceriti provenienti dalla città e probabilmente (ma con tutti La prima, la n. 1 della numerazione Stefani42 (Fig. 1), i dubbi sopra espressi) pertinenti ad edifici sacri possono espresenta un soggetto assai singolare, leggibile in maniera sere compresenti scene mitiche e scene cerimoniali. Avenchiara e non suscettibile di equivoci, ad onta della lacunosido questo in mente possiamo tornare alle lastre dal tempio tà delle superfici dipinte: due figure femminili, abbigliate in veiente di Portonaccio, che, pur nella loro episodica frammaniera identica, calzate di sandali e vestite di lungo chitomentarietà, come vedremo, possono indicarci le eventuali ne trasparente dalle pieghe minute rese con colore diluito, strade da battere per l’ermeneutica delle decorazioni pittosul quale figura, a mo’ di giubbetto, una corta corazza di riche delle fondazioni templari, che all’indomani del crollo cuoio, materia chiaramente indicata dal colore rosso-brudei regimi monarchici pressoché simultaneo in tutta l’Etruno compatto, recano sul capo elmi caratterizzati da un viria e il Lazio diventano il punto di riferimento collettivo destoso lophos e dalle paragnatidi sollevate. Le due figure di gli orientamenti ideologici e politici dell’élite dominante. armate, che brandiscono una lancia e difendono il corpo Dei 35 frammenti di lastre elencati dallo Stefani, solo pocon ampi scudi di tipo oplitico, sono rappresentate in una chissimi consentono di avanzare ipotesi di lettura non geneposa alquanto singolare: protese in avanti in un moto netriche. Le lastre della serie da me considerata più tarda semtamente divergente, che presuppone un vicendevole allonbrano contenere scene di giuochi o di danze: in quella tanamento, le due donne si contrappongono di spalle e al direzione ci orientano vari frammenti: uno presenta una fitempo stesso volgono indietro il busto in una vigorosa torgura di cavallo e cavaliere;36 un secondo un personaggio vesione sì da affrontarsi, una postura che non si addice ad un stito di himation davanti ad un’altra figura maschile questa duello, ma che, per la sua stringente simmetria delle figuvolta nuda,37 forse da identificare rispettivamente con un re, sembra piuttosto una movenza di danza. Le nostre inauleta ed un atleta; un terzo ancora mostra una coppia di fiformazioni sia su eventuali miti etruschi relativi a danze gure, una maschile ed una femminile, in movimento di danarmate43 che su rituali di pirrichie con le loro eventuali za (?);38 un quarto presenta una testa femminile di profilo 31 F. Roncalli, op. cit. (nota 5), pp. 61-66. 32 M. Torelli, art. cit. (nota 24); un medesimo tema delle lastre c.d. di i fase, questa volta quello del simposio, ricorre in altri frammenti di lastre dipinte dall’area della città: F. Roncalli, op. cit. (nota 5), fr. n. 46. 33 Ivi, 44 sg., n.46, tav. xxvii, 1. 34 Si vedano oltre alle lastre edite da M. A. Rizzo, Nuove lastre dipinte da Cerveteri, in Tyrrhenoi philotechnoi, Atti della giornata di studio (Viterbo, 13 ottobre 1990), Roma, 1994, pp. 51-60, e a quelle messe in luce negli scavi del compianto M. Cristofani, oggetto di varie sue pubblicazioni insieme a quelle emigrate clandestinamente in musei stranieri, ma di sicura origine ceretana, come quelle finite a Copenhagen (cfr. J. Christiansen, in Civiltà degli Etruschi, Catalogo della Mostra [Firenze, 1985], a cura di M. Cristofani, Milano 1985, p. 158, n. 6.32), quelle edite da: M. Cristofani, Scavi nell’area urbana di Caere. Le terrecotte decorative, «StEtr», lvi, 1989-1990, pp. 69-84; Id., Nuovi dati per la stroria urbana di Caere, «BdA», lxxi, 1986, n. 1.24; M. A. Rizzo, Nuove lastre dipinte da Cerveteri, art. cit., pp. 51-60; M. Cristofani et alii, Caere 4. Vigna parrocchiale. Scavi 1983-1987. Il santuario, la “residenza” e l’edificio ellittico, Roma 2003 (con bibl. prec.). Sul problema dell’origine degli artigiani di tutta questa serie di terrecotte architettoniche dipinte e non e sul ruolo assai speciale di Caere, vedi l’ottimo contributo di V. Bellelli, Maestranze greche a Caere: il caso delle terrecotte architettoniche, «AnnFaina», xi, 2004, pp. 95-118. Vedi anche I. Weber-Hiden, Ein unpublizierte etruskischer Tonpinax,

in Komos. Festschrift für Thuri Lorenz zum 66. Geburtstag, Wien, 1997, pp. 141-144. 35 M. Torelli, art. cit. (nota 24), p. 262 sg. 36 «NSc», 1953, p. 72 sg., n. 3, fig. 51. 37 Ivi, p. 72, n. 2, fig. 50. 38 Ivi, p. 73, n. 4, fig. 52. 39 Ivi, p. 79, n. 36 fig. 53 B. 40 Ivi, p. 74, n. 5, fig. 53 A; appartengono alla medesima serie i frr. nn. 1. 8, 10-13, 16, 18, 35, 37. 41 Sul tema, molto discusso, mi permetto di rimandare ai due miei lavori Terrecotte architettoniche arcaiche da Gravisca e una nota a Plinio, ‘N.H.’ xxxv , 151-52, in Studi in onore di F. Magi («Nuovi Quaderni dell’lstituto di Archeologia dell’Università di Perugia», i), Perugia 1979, pp. 307-312, e Attorno a Demarato, in Corinto e l’Occidente, Atti del xxxiv Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 7-11 ottobre 1994), Taranto, 1997, pp. 625-654 (in collaborazione con M. Menichetti). 42 «NSc», 1953, p. 71 sg., n. 1, figg. 49a e 49b. 43 Sul tema delle rappresentazioni mitiche etrusche non esiste un’opera d’insieme, ma solo interventi occasionali, come G. Camporeale, La mitologia figurata nella cultura etrusca arcaica, in Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco (Firenze, 26 Maggio-2 Giugno 1985), i, Roma, 1989, pp. 905924, o S. Bruni, Nugae de Etruscorum fabulis, «Ostraka», xi, 2002, pp. 7-28; si attende ora il lavoro complessivo di I. Domenici, Etruscae fabulae: immagini e assonanze (Tesi Dottorale Università di Pavia), in corso di stampa.

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Fig. 1. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Lastra fittile dipinta con pirrichia (da «NSc» 1953; Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, Catalogo della Mostra [Roma, 2008], a cura di M. Torelli, A. M. Moretti, Milano 2008).

protagoniste sono inesistenti.44 Poichè la logica ci impone di partire dalla documentazione in terra etrusco-italica, il pensiero corre subito alle saliae virgines, a noi svelate da un lemma di Festo,45 che così suona: «Salias virgines Cincius ait esse conducticias, quae ad Salios adhibebantur, cum apicibus paludatas: quas Aelius Stilo scribsit sacrificium facere in Regia cum pontificibus paludatas cum apicibus in modum Saliorum». Possiamo immaginare che anche il mondo etrusco conoscesse qualcosa di simile a queste singolari sacerdotesse surrettizie o residuali impiegate in occasione dei riti saliari? Cominciamo con il dire che già in un passato non troppo lontano numerose scoperte fatte in ambito sia villanoviano che laziale, valorizzate con grande acume proprio da Giovanni Colonna,46 hanno rivelato che riti di tipo saliare finalizzati alle iniziazioni maschili47 venivano celebrati non solo a Roma e in tutto il mondo latino (con una particolare variante ‘erculea’ a Tibur, secondo le fonti),48 ma godevano di grande popolarità anche in area etrusca: il recente restauro della tomba n. 1036 della necropoli veiente di Casale del Fosso, presentato da F. Boitani nel catalogo di una importante mostra tenuta pochi anni or sono a Roma,49 ha rivelato la ricchissima sepoltura di un personaggio munito di elmo, spada e lancia e di una coppia di ancilia, apparentemente corredata anche del mazzuolo per percuoterli. Si sarebbe quasi tentati di etichettare la tomba come quella del re di Veio Morrius, che, secondo una tradizione, certo molto antica, raccolta da Servio,50 avrebbe fatto inserire

nel carmen saliare di Roma il nome del fondatore di Falerii Halesus, probabilmente per celebrare una parentela mitica tra i due o un nesso remotissimo tra la città di Veio e Falerii: ricordiamo inoltre che il nome del re Morrius è inscindibile sul piano linguistico da quello dell’artefice veiente Mamurius Veturius, al quale il re Numa avrebbe commissionato le copie del prodigioso scudo piovuto dal cielo. Dunque è teoricamente possibile, vista la forte interferenza culturale tra Roma e Veio anche su questo tema, immaginare che nella città etrusca vicina di Roma esistessero delle saliae (quale che ne sia l’originario significato religioso). Cosa possiamo dire di queste saliae virgines? Su questo argomento è tornata molto di recente Fay Glinister51 con un brillante articolo, che posso citare perché l’Autrice me ne ha concesso la lettura prima della pubblicazione. Non ho purtroppo lo spazio per riferire per esteso le opinioni della studiosa, ma mi sembra che le acquisizioni sue più importanti siano l’interpretazione del termine paludatae usato sia da Cincio che da Elio Stilone secondo Festo nel senso di «armate» e non del più semplice «vestite di paludamentum», grazie al recupero di un passo di Veranio, e la riaffermazione, basata sulla documentazione epigrafica, dell’esistenza di saliae virgines anche in altre città latine, in particolare a Tusculum, dove conosciamo una bambina di sei anni, Flavia Vera, definita praesula sacerdot(um) Tusculanor(um),52 con un titolo cioè che rappresenta l’evidente corrispondente femminile della carica del capo del collegio

44 Fondamentale sul significato della pirrichia, P. Scarpi, La pyrrhíche o le armi della persuasione. Appunti per una semiologia storico-religiosa e antropologica, «DialA», n.s., i, 1979, pp. 78-97. 45 Fest., p. 439 L.; cfr. M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Roma, 1984, pp. 74-76, 108 e 111. 46 G. Colonna, Gli scudi bilobati dell’Italia centrale e l’ancile dei Salii, «ArchCl», xliii, 1991, pp. 55-122. 47 M. Torelli, Riti di passaggio maschili in Roma arcaica, «mefra», cii, 1990, pp. 93-106; cfr. anche Appius alce. La gemma fiorentina con rito saliare e la presenza dei Claudii in Etruria, «StEtr», lxiii, 1997, pp. 227-255.

48 Macrob., Sat., iii, 12, 5: vedi da ultimo, S. Fortunelli, La preistoria. Potere e cerimonialità: iniziazioni, investitura, insegne, trionfo, in Etruschi, cit. (nota 1), pp. 185-187. 49 F. Boitani, Casale del Fosso, tomba 1036, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. (nota 14), p. 112; parziale ripresa dei materiali di S. Fortunelli, in Etruschi, cit. (nota 1), p. 265 sg., n. 255.1-4. 50 Serv., in Verg. Aen., viii, 285. 51 F. Glinister, Virgins for Hire… or, Bring on the Dancing Girls, in Priests and State in the Roman World, Atti del Colloquio (Lampeter, 28-30 agosto 2008), ed. F. Santangelo, in corso di stampa. 52 CIL, vi, 2177.

l e a m a z zoni di efes o e l ’ ittiomanzia di s ur a 167 ‰ˆÌ‹ıË, ÙÔÜ ‰\ ÔûÙÈ ıÂÒÙÂÚÔÓ ù„ÂÙ·È äÒ˜ saliare, detto appunto praesul. Il dato può indurci ad estenÔé‰\ àÊÓÂÈfiÙÂÚÔÓØ ®¤· ÎÂÓ ¶˘ıáÓ· ·Ú¤ÏıÔÈ. dere anche ad altri territori limitrofi a quelli di Roma (e VeÙ† W· ηd äÏ·›ÓˆÓ àÏ··Í¤ÌÂÓ ä›ÏËÛ io lo è in misura somma) la nozione di un sacerdozio fem§‡Á‰·ÌȘ ñ‚ÚÈÛÙ‹˜Ø âd ‰b ÛÙÚ·ÙeÓ îËÌÔÏÁáÓ minile parallelo a quello dei salii. Credo però che proprio õÁ·Á KÈÌÌÂÚ›ˆÓ „·Ì¿ıÅ úÛÔÓ, Ô¥ ®· ·Ú\ ·éÙfiÓ la formulazione del lemma di Festo ci obblighi ad escludeÎÂÎÏÈ̤ÓÔÈ Ó·›Ô˘ÛÈ ‚Ôe˜ fiÚÔÓ \IÓ·¯ÈÒÓ˘. re che il nostro dipinto intendesse raffigurare la variante p ‰ÂÈÏe˜ ‚·ÛÈϤˆÓ, ¬ÛÔÓ õÏÈÙÂÓØ Ôé ÁaÚ öÌÂÏÏÂÓ veiente delle saliae virgines romane: Festo palesemente insiÔûÙ\ ·éÙe˜ ™Î˘ı›ËӉ ·ÏÈÌÂÙb˜ ÔûÙ ÙȘ ôÏÏÔ˜ ste sul fatto che le saliae avevano l’apex, che va inteso non ¬ÛÛˆÓ âÓ ÏÂÈÌáÓÈ K·¸ÛÙڛŠöÛÙ·Ó ±Ì·Í·È come quello del galerus del flamine, ma come l’apex dell’elÓÔÛÙ‹ÛÂÈÓØ \EʤÛÔ˘ ÁaÚ àÂd ÙÂa ÙfiÍ· ÚfiÎÂÈÙ·È. mo certamente appannaggio delle saliae, a somiglianza dei Secondo questo raro aition di fondazione del grande sanloro corrispondenti maschili, come appare assai chiaratuario di Efeso, le amazzoni, guidate dalla loro regina Hipmente dalla descrizione dell’abito dei salii offertaci da Diopò, verosimilmente forma ipocoristica del nome più noto nigi di Alicarnasso.53 La conclusione a questo punto è una Hippolyte, avrebbero dunque compiuto una danza armata, sola: le nostre due fanciulle in posa di danza non possono che Callimaco, in luogo del più diffuso pyrríche, chiama con dunque che rappresentare delle amazzoni impegnate in la rara parola prylis, termine noto solo nei suoi inni56 e in una pirrichia. un frammento di Aristotele.57 Va da sé che in questa pirriAnche in questa prospettiva non mancano tuttavia delle chia si riflettono le celebri danze delle fanciulle di Efeso in difficoltà. La ricchissima documentazione iconografica greonore della dea, di cui abbiamo notizia da altre fonti,58 ma ca per il periodo arcaico, tardo-arcaico e severo54 non conosoprattutto la continuità della performance della danza arsce donne di questo mitico popolo abbigliate con le vesti mata, secondo Filostrato celebrata fino alla piena età impelunghe come nella nostra lastra, ma solo con una cortissiriale,59 che trovava una controparte maschile nelle esibizioma tunica, spesso con l’aggiunta di pelli ferine, abito che ni di un collegio di Cureti, capeggiato da un Prokures, dall’età tardo-arcaica, per buona parte dell’età severa e ananche questo ben insediato nell’Artemision efesino.60 Nella cora in epoca classica trasmuta assai di frequente in un vero descrizione di Callimaco la danza è prima un tripudio celee proprio costume scitico con pantaloni e casacche riccabrato con un armamento completo di scudi, per diventare mente decorate. Niente di paragonabile al lungo ed elegansubito dopo movenza ritmata dal rumore delle faretre, la te chitone leggero, bordato di rosso, indossato dalle due ficui eco sarebbe giunta fino a Sardi, suscitando l’attenzione gure femminili, che per di più appaiono armate di elmo e delle popolazioni locali all’origine della successiva costruscudo secondo la foggia oplitica, laddove le amazzoni, mai zione del grande tempio efesino. La scena della lastra veienmunite di elmo, combattono in maniera “primitiva”, con te, sembra dunque coincidere abbastanza fedelmente alla armi estranee alla convenzioni dell’oplitismo, arco e frecce parte iniziale della danza descritta da Callimaco. Resta in primo luogo, ma poi asce, scudi a pelta e così via. Tuttal’aporia dell’abito lungo delle supposte amazzoni: ma va via non possiamo non registrare che una tradizione ricorda tuttavia ricordato che le infinite raffigurazioni del favoloso la celebrazione di una famosa pirrichia da parte delle amazpopolo di donne guerriere presentano le amazzoni invariazoni, quella all’origine della fondazione del celebre santuabilmente in atto di combattere e perciò stesso abbigliate in rio di Artemide ad Efeso, un rituale da considerare molto maniera adeguata, con abiti cortissimi e aderenti. Ma poiattentamente a proposito della nostra scena. La pirrichia ché il contesto qui evocato è di natura sacrale, il pittore, che efesina delle amazzoni è ricordata in dettaglio nell’Inno di difficilmente dipendeva da modelli pittorici, potrebbe aver Callimaco in onore di Artemide, nel quale, come è noto, il sentito l’esigenza di rappresentare le donne guerriere in dottissimo poeta disegna un catalogo dei grandi santuari maniera consona alla celebrazione di un rituale festivo, che, della dea, con esplicite allusioni a tradizioni, leggende, epitrattandosi di un evento assai lontano da Veio, poteva essere teti, tutti di grande arcaicità, ciascuno dei quali collegato ad noto solo in maniera orale (più difficilmente letteraria) e uno specifico luogo di culto. Parlando dunque dell’Arteminon figurativa. A questo proposito mi sembra molto intede di Efeso Callimaco così si esprime:55 ressante che una studiosa seria come B. Liou-Gille61 abbia ÛÔd ηd \AÌ·˙ÔÓ›‰Â˜ ÔϤÌÔ˘ âÈı˘Ì‹ÙÂÈÚ·È adoperato proprio questa tradizione efesina per spiegare il öÓ ÎÔÙ ·ÚÚ·Ï›– \EʤÛÅ ‚Ú¤Ù·˜ î‰Ú‡Û·ÓÙÔ contesto dal quale sarebbero nate la saliae virgines, un’ipoÊËÁ† ñe Ú¤ÌÓÅ, Ù¤ÏÂÛÂÓ ‰¤ ÙÔÈ îÂÚeÓ ^IÒØ tesi assai improbabile se si tiene conto di quel può essere ·éÙ·d ‰\, OsÈ ôÓ·ÛÛ·, ÂÚd Ú‡ÏÈÓ èÚ¯‹Û·ÓÙÔ stata la genesi degli istituti sacrali romani, ma nondimeno ÚáÙ· ÌbÓ âÓ Û·Î¤ÂÛÛÈÓ âÓfiÏÈÔÓ, ·sıÈ ‰b ·ÎÏÅ significativa per l’accostamento. Possiamo perciò concludeÛÙËÛ¿ÌÂÓ·È ¯ÔÚeÓ ÂéÚ‡ÓØ ñ‹ÂÈÛ·Ó ‰b Ï›ÁÂÈ·È re che questa appare la lettura più coerente che si sia in graÏÂٷϤÔÓ Û‡ÚÈÁÁ˜, ¥Ó· W‹ÛÛˆÛÈÓ ïÌ·ÚÙ” do di formulare dell’iconografia della scena: vedremo più (Ôé Á¿Ú ˆ Ó¤‚ÚÂÈ· ‰È\ çÛÙ¤· ÙÂÙÚ‹Ó·ÓÙÔ, avanti se la presenza di un soggetto del genere nel contesto öÚÁÔÓ \AıËÓ·›Ë˜ âÏ¿ÊŠηÎfiÓ)Ø ö‰Ú·Ì ‰\ ä¯Ò del santuario di Portonaccio può avere una qualche impli™¿Ú‰È·˜ ö˜ Ù ÓÔÌeÓ BÂÚ·ÓıÈÔÓ. ·î ‰b fi‰ÂÛÛÈÓ cazione nel contesto religioso del santuario. ÔsÏ· ηÙÂÎÚÔÙ¿ÏÈ˙ÔÓ, â„fiÊÂÔÓ ‰b Ê·Ú¤ÙÚ·È. ÎÂÖÓÔ ‰¤ ÙÔÈ ÌÂÙ¤ÂÈÙ· ÂÚd ‚Ú¤Ù·˜ ÂéÚf ı¤ÌÂÈÏÔÓ La seconda lastra (Fig. 2), che reca il n. 37 dell’elenco del53 Dion. Hal. ii, 70-71. 54 Sul vestiario delle amazzoni, fondamentali, oltre ai vecchi lavori di A. Klügman, Die Amazonen in der attischen Literatur und Kunst. Eine Archäologische Abhandlung, Stuttgart, 1875, e di M. Bieber, Der Chiton der ephesischen Amazonen, «JdI», xxxiii, 1918, pp. 49-75, sono D. von Bothmer. Amazons in Greek Art, Oxford, 1957, e P. Devambez, in LIMC, i, 1981, pp. 586-653, s.v. Amazones, spec. p. 637; ma vedi anche P. DuBois, Centaurs and Amazons. Women and the Pre-History of the Chain of Being, Ann Arbor, 1982; S. Andres, Le Amazzoni nell’immaginario occidentale, Pisa, 2001, e M. Giuman. Il fuso rove-

sciato. Fenomenologia dell’amazzone tra archeologia, mito e storia nell’Atene del vi e del v secolo a.C., Napoli, 2005. 55 Callim., Hymn., iii, 234 sgg. 56 Cfr. anche Hymn., i, 52. 57 Arist., fr. 519 Rose. 58 Aristoph., Nub., 599; Aelian., Hist. Anim., xiii, 9. 59 Philostr. Apoll. Tyan., iv, 2. 60 Fonti in «re», v, 2, 1905, c. 2759. 61 B. Liou-Gille, Femmes-guerrières. Les Romains se sont-ils intéressés aux Amazones et à leur légendes?, «Euphrosyne», xxxiv, 2006, pp. 51-63.

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Fig. 2. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Lastra fittile dipinta con ittiomanzia (da «NSc», 1953; Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, Catalogo della Mostra [Roma, 2008], a cura di M. Torelli, A. M. Moretti, Milano 2008).

lo Stefani62, appartiene alla stessa serie di quella precedente, differendone solo per l’ornato del ‘fascione’ costituito da palmette e fiori di loto penduli in luogo di palmette e fiori di loto eretti della lastra precedente: ad onta della differenza di questa decorazione secondaria, la qualità della pittura delle due lastre è molto simile. La metà a sinistra del campo figurato è occupata soltanto da una lunga linea obliqua di colore bruno-giallastro, che corre dall’alto a sinistra fino a raggiungere quasi il centro della lastra in basso, e che riesce difficile interpretare con sicurezza, tenuto conto che non siamo in grado di stabilire l’entità di un’eventuale caduta di colori e di una possibile perdita del disegno. Nella metà destra il centro della composizione è occupato da una figura tutta piegata in avanti, di cui si conserva solamente la testa caratterizzata da una corta chioma; dall’incarnato bianco del volto si ricava che il personaggio doveva essere un giovinetto o un essere di sesso femminile, mentre non possiamo congetturare se la figura fosse seduta o accoccolata. Dalla spalla sinistra della figura pende in avanti un oggetto dalla terminazione a tre punte, che Stefani interpreta come una rete, ma che potrebbe anche essere più semplicemente letto come un sacco; sempre sulla stessa spalla si appoggia una lunga pertica, che visibilmente appare terminata in basso con una punta a mo’ di freccia e in alto con una serie di strisce rettangolari accostate nel senso della lunghezza, che delimitano però due fasce maggiori verso l’esterno. Come si è appena detto, la figura è protesa in avanti verso quello che è senza alcun dubbio uno specchio d’acqua, popolato di pesci: Stefani descrive questi pesci come una raz-

za, un delfino e dei molluschi, ma, a differenza di Stefani, dubito sia possibile attribuirli con precisione a specie ittiche ben definite. Secondo Stefani, la scena rappresenta un personaggio, probabilmente una donna, intento a pescare. La proposta presenta non una, bensì due aporie, la prima delle quali consiste nel fatto che protagonista della scena di pesca sarebbe una donna, fatto del tutto inaudito nel mondo antico, mentre la seconda aporia tocca addirittura l’essenza stessa dall’interpretazione della scena come un episodio di pesca. Un soggetto di questo genere, la rappresentazione “realistica” di un pescatore (anzi, di una pescatrice), è a dir poco assai rara prima dell’età ellenistica. Nell’iconografia vascolare greca ed etrusca di età arcaica e classica le immagini di pescatori, prodotto di tendenze “plebee” peculiari di qualche pittore, sono abbastanza rare e concentrate in un periodo tra i decenni finali del vi e quelli centrali del v secolo a.C. e presentano pescatori in atto di pescare con canna o nassa o di ritorno dalla pesca con una nassa sulle spalle. Del primo gruppetto fanno parte le immagini sul tondo di alcune coppe, delle quali la più antica (510-500 a.C.) è una coppa del Pittore di Ambrosios, oggi a Boston,63 cui fanno seguito una seconda quasi coeva al Thorvaldsen Museum di Copenhagen, ma non attribuita,64 ed una terza, agli estremi della produzione attica, raffigurante un satiro intento alla pesca, attribuita al Pittore di Jena (ca. 400-390 a.C.) a Londra;65 l’interno di due coppe praticamente coeve (500-490 a.C. ca.), una del Gruppo di Acropoli 96 al Museo di Gela e l’altra dal Pittore di Hermaios all’Ashmoleian

62 «NSc», 1953, 79 s, n. 38, figg. 54 a-b. 63 Boston, Museum of Fine Arts, 01.8024 (ARV2, 173, 9): J. Boardman, Athenian Red Figure Vases. The Archaic Period. A Handbook, London, 1975, p. 62, fig. 119. 64 Copenhagen, Thorvaldsen Museum 16643: The Greek World, Classical, Byzantine and Modern, ed. R. Browning, London, 1985, p. 67, fig. 6. 65 Londra, British Museum E 108 (ARV2, 1513.43; cfr. Addenda 384): V.

Paul-Zinserling, Der Jena-Maler und sein Kreis. Zur Ikonologie einer attischen Schafenwerkstatt, Main a.R., 1994, tav. 28; ad un soggetto “di evasione” sul cratere a campana, vaso eponimo del Pittore di Komaris (ARV2, 1064.2, 1681), della cerchia polignotea databile al 450-440 a.C., si riferisce la figura di pescatore da nome “parlante” di Alimos, che accompagna la nereide, pure dal nome “parlante” di Pontia.

l e a m a z zoni di efes o e l ’ ittiomanzia di s ur a 169 per una forma di mantica, che va sotto il nome di ittiomanMuseum di Oxford,66 è infine decorato con il “ritorno del zia, una pratica divinatoria rara, ma non per questo poco ripescatore”, giocosamente modellato su quello aulico del levante.75 Le fonti ci offrono due casi ad eventuale sostegno guerriero.67 A queste kylikes si possono aggiungere solo per un’interpretazione del genere della lastra veiente, signidue vasi di forma più importante, uno psykter attribuito a ficativamente entrambi collegati a culti di Apollo ed enSmikros (510-500 a.C.) al J. Paul Getty Museum a Malibu,68 trambi collocati in Licia, in due luoghi fra loro assai vicini, e una pelike del Pittore di Pan (460-450 a.C.) al Kunsthistoal punto che è difficile non pensare ad una derivazione risches Museum di Vienna.69 Naturalmente queste rare imdell’uno dall’altro: dei due siti il primo si situa a Myra,76 non magini, cui dobbiamo aggiungere le presenze di pescatori lontano dalle rive del mare, mentre l’altro è localizzato a a scene di carattere mitico, come lo sbarco dell’arca di DaSura, un villaggio sul mare a poca distanza da Myra. La lonae70 rimandano direttamente a due diversi generi di rapgica farebbe supporre che il culto di quest’ultimo villaggio presentazione, l’uno relativo alla metis, nel caso specifico fosse una filiazione del santuario della polis di appartenenl’astuzia dispiegata dal pescatore, un tratto ben documenza; la notevole articolazione e le regole più complesse del tato sul piano letterario71 e l’altro destinato a celebrare un culto di Sura inducono invece ad ipotizzare una maggiore mestiere, soggetto non infrequente nella produzione vaantichità di quest’ultimo santuario, sul quale peraltro le scolare attica, il cui fine ultimo è peraltro sempre quello di fonti sono più numerose e dettagliate rispetto a quello di illustrare la metis dell’artigiano.72 Per tutti questi motivi, la Myra. Sostanzialmente la divinazione di ambedue i luoghi caccia e la pesca, dato il loro carattere di attività al tempo di culto si basa sull’osservazione del comportamento dei stesso sportiva, economica e di abilità,73 si collocano in mapesci dinanzi a carni bovine tratte da animali sacrificati, una niera ambigua nell’immaginario sociale; quello che certapratica che forse trova riscontro anche nell’Eubea, nella mente la nostra lastra non può rappresentare è la mera fonte Aretusa presso Calcide.77 evasione, secondo modelli che trovano una collocazione Cominciamo innanzi tutto a presentare la notizia sintesolo nella cultura ellenistica, così come è assolutamente tica e piena di confusioni che sulla mantica praticata a Myra impensabile per la mentalità dell’aristocrazia etrusca che ci fornisce Plinio: l’erudito romano mescola la divinazione un pinax potesse illustrare un’attività per così dire banausidi Myra con quella vicina di Sura, di cui non solo trasforma ca, essendo per di più destinato ad ornare un edificio di culil nome del villaggio in un epiteto del locale Apollo, ma to. Si potrà obiettare ricordando la rarissima apparizione omette anche il particolare dell’origine sacrificale della cardel soggetto in una sfera per così dire ‘aulica’ nelle pitture ne data in pasto ai pesci, giungendo ad immaginare lo svoldella seconda camera della Tomba della Caccia e della gimento del rito addirittura in una fonte migrante, un detPesca di Tarquinia, nella quale però la dimensione simbotaglio sul quale torneremo più avanti:78 « autem lica e allusiva alla sfera dell’ideologia oltremondana è apSurii fons Lyciae Myrae transire solet in vicina loca portendens parsa da tempo alla migliore critica la strada da percorrere aliquid; mirum quoque quod cum piscibus transit. Responsa ab per spiegare quei singolari affreschi.74 E le difficoltà crescohis incolae cibo, quem rapiunt adnuentes, si vero eventum negent, no ancor più se il protagonista della scena è, come il dettacaudibus abigunt». glio delle carni bianche lascia intendere, una donna o un Ad Eliano79 dobbiamo invece una descrizione più partifanciullo. colareggiata della meccanica della divinazione di Myra: Dobbiamo dunque rivolgerci altrove per trovare una spiegazione della scena. Nel caso specifico, scartata per i ¤˘ÛÌ·È ‰b ηd ÎÒÌËÓ ÙÈÓa §˘ÎÈ·ÎcÓ ÌÂÙ·Íf M‡ÚˆÓ ηd molteplici motivi ora espressi l’ipotesi “realistica”, la spieºÂÏÏÔÜ, ™ÔÜÚ· ùÓÔÌ·, âÓ Õ Ì·ÓÙ‡ÔÓÙ·› ÙÈÓ˜ â^ å¯ı‡ÛÈ gazione migliore può essere quella che attinge alla dimenηı‹ÌÂÓÔÈ, ηd úÛ·ÛÈÓ ¬ ÙÈ Î·d ÓÔÂÖ ≥ Ù ôÊÈÍȘ ·éÙáÓ ÎÏËı¤ÓÙˆÓ sione mitica, come nel caso della precedente lastra, o a ηd ì àÓ·¯ÒÚËÛȘ, ηd ¬Ù·Ó Ìc ñ·ÎÔ‡ÛˆÛÈ Ù› ‰ËÏÔÜÛÈ, ηd ¬Ù·Ó quella di carattere rituale, che pure ritorna, in forma indiöÏıˆÛÈ ÔÏÏÔd Ù› ÛËÌ·›ÓÔ˘ÛÈÓ. àÎÔ‡ÛÂÈ ‰b Ùa Ì·ÓÙÈÎa ÙáÓ ÛÔÊáÓ retta o semplicemente allusiva, tra le sfere toccate dalla sceÙ·ÜÙ· ηd ˉ‹Û·ÓÙÔ˜ å¯ı‡Ô˜ ηd àÓ·χ۷ÓÙÔ˜ âÎ ‚˘ıÔÜ Î·d na della pirrichia. Tuttavia, poiché la tradizione mitica non ÙÚÔÊcÓ ÚÔÛÂ̤ÓÔ˘ ηd ·s ¿ÏÈÓ Ìc Ï·‚fiÓÙÔ˜. conosce, che io sappia, avvenimenti che possano essere Sempre su Myra Eliano, in un altro passo, così si esprime:80 messi in rapporto con la singolare scena rappresentata sulla lastra, occorre pensare ad una scena di carattere cerimoniaM˘Ú¤ˆÓ ÙáÓ âÓ §˘Î›0 ÎfiÏÔ˜ âÛÙ›, ηd ö¯ÂÈ ËÁ‹Ó, ηd âÓÙ·Üı· le. Il solo rito cui si possa far riferimento è quello celebrato ÓÂg˜ \AfiÏψÓfi˜ âÛÙÈ, ηd ï ÙÔ܉ ÙÔÜ ıÂÔÜ îÂÚÂf˜ ÎÚ¤· ÌfiÛ¯ÂÈ· 66 Oxford, Ashmolean Museum 1919.26 (ARV2, 110.6): C. Reinholdt, NfiÛÙÔ˜ \O‰˘ÛÛ¤ˆ˜ oder vita humana? Zu einem Vasenbild des Schweine-Malers

in Cambridge, «OpAth», xx, 1994, p. 170, fig. 10. 67 Gela, Museo Archeologico 8719 (ARV22, 105.17): Ta àÙÙÈο, Catalogo della Mostra (Gela-Siracusa-Rodi, 2004), a cura di R. Panvini, F. Giudice, Roma 2004, p. 275 E 4. 68 Malibu, J. Paul Getty Museum 83.AE.285: Ancient Greek Art and Iconography, ed. W. Moon, Madison (WI) 1985, p. 148, fig. 10.1 A-C. 69 Vienna, Kunsthistorisches Museum 3727 (ARV2, 555, 88; Addenda 126): J. Boardman, op. cit. (nota 63), p. 193, fig. 344. 70 Pisside del Pittore delle Nozze (ARV2, 924.35; cfr. Addenda 149) nella collezione Clairmont. 71 O. Longo, La caccia al pesce, in Mélanges Pierre Lévêque, 3. Anthropologie et société, Besançon, 1990, pp. 215-233; M. Lubtchansky, Le pêcheur et la mètis. Pêche et statut sociale en Italie centrale à l’époque archaïque, «mefra», cx, 1998, pp. 111-146. 72 Ancora valido il vecchio lavoro di J. Ziomecki, Les représentations d’artisans sur les vases attiques, Wroclaw, 1975. 73 Per la caccia, vedi A. Schnapp, Pratiche e immagini di caccia nella Grecia antica, «DialA», n.s., i, 1979, pp. 36-59; O. Longo, Le forme della predazione. Cacciatori e pescatori nella Grecia antica, Napoli, 1989; A. Schnapp, La morale

de la chasse en Grèce ancienne. Ethique du citoyen ou école du tyran, in Exploitation des animaux sauvages à travers le temp, Atti del Colloquio internazionale (Antibes, 1992), Juan-les-Pins, 1993, pp. 375-40; Idem, Le chasseur et la cité. Chasse et érotique en Grèce ancienne, Paris, 1997; J. M. Barringer, The Hunt in Ancient Greece, Baltimore, 2001; per la caccia in Etruria, vedi G. Camporeale, La caccia in Etruria, Roma, 1984; per la pesca, vedi P. Pasini et alii, Pesca e pescatori nell’antichità, Milano, 1997. 74 La bibliografia è raccolta da S. Steingräber, Catalogo ragionato della poittura etrusca, Milano 1984, p. 299, cui aggiungi L. Cerchiai, Sulle tombe del Tuffatore e della Caccia della Pesca. Proposta di lettrua iconologica, «DialA», v, 1987, pp. 113-123; M. Torelli, Limina Averni. Realtà e rappresentazione nella pittura tarquiniese arcaica, «Ostraka», vi, 1997, pp. 63-86; B. d ’ Agostino, L. Cerchiai, Il mare, la morte, l’amore. Gli Etruschi, i Greci e l’immagine, Roma, 1999. 75 A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, Paris, 1879, i, p. 152. 76 Non Limyra, come riportato da A. Bouché-Leclercq, loc. cit. (nota prec.). 77 Athen., vii, 3. 78 Plin., N.H., xxxi, 22; cfr. xxxii, 17. 79 Aelian., Hist. Anim., viii, 5. 80 Aelian., Hist. Anim., xii, 1.

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‰È·Û›ÚÂÈ ÙáÓ Ù† ı† ÙÂı˘Ì¤ÓˆÓ, çÚÊÑ Ù Ôî å¯ı‡Â˜ àıÚfiÔÈ ÚÔÛÓ¤Ô˘ÛÈ, ηd ÙáÓ ÎÚÂáÓ âÛı›Ô˘ÛÈÓ Ôx· ‰‹Ô˘ ηÏÔ‡ÌÂÓÔÈ ‰·ÈÙ˘ÌfiÓ˜. ηd ¯·›ÚÔ˘ÛÈÓ Ôî ı‡Û·ÓÙ˜, ηd ÙcÓ ÙÔ‡ÙˆÓ ‰·ÖÙ· ÈÛÙ‡ԢÛÈÓ ÂrÓ·› ÛÊÈÛÈÓ ùÙÙ·Ó àÁ·ı‹Ó, ηd ϤÁÔ˘ÛÈÓ ¥ÏÂˆÓ ÂrÓ·È ÙeÓ ıÂfiÓ, ‰ÈfiÙÈ Ôî å¯ı‡Â˜ âÓÂÏ‹ÛıËÛ·Ó ÙáÓ ÎÚÂáÓ. Âå ‰b Ù·Ö˜ ÔéÚ·Ö˜ ·éÙa ☠ÙcÓ ÁÉÓ â΂¿ÏÔÈÂÓ œÛÂÚ ÔsÓ àÙÈÌ¿Û·ÓÙ˜ ηd Ì˘Û·Úa ÎÚ›Ó·ÓÙ˜, ÙÔÜÙÔ ‰c ÙÔÜ ıÂÔÜ ÌÉÓȘ ÂrÓ·È Â›ÛÙÂ˘Ù·È. ÁÓˆÚ›˙Ô˘ÛÈ ‰b ηd ÙcÓ ÙÔÜ îÂÚ¤ˆ˜ ʈÓcÓ Ôî å¯ı‡Â˜, ηd ñ·ÎÔ‡Û·ÓÙ˜ ÌbÓ ÂéÊÚ·›ÓÔ˘ÛÈ ‰È\ ÔR˜ ΤÎÏËÓÙ·È, ÙÔéÓ·ÓÙ›ÔÓ ‰b ‰Ú¿Û·ÓÙ˜ Ï˘ÔÜÛÈÓ.

Molto più ricche sono invece le nostre informazioni sulla ittiomanzia di Sura, evidentemente molto famosa, sulle quale le fonti abbondano. Abbiamo prima di tutto una sintetica citazione plutarchea:81 âÂd ηd ÂÚd ™ÔÜÚ·Ó ˘Óı¿ÓÔÌ·È, ÎÒÌËÓ âÓ Ù” §˘Î›0 ºÂÏÏÔÜ ÌÂÙ·Íf ηd M‡ÚˆÓ, ηıÂ˙Ô̤ÓÔ˘˜ â\ å¯ı‡ÛÈÓ œÛÂÚ ÔåˆÓÔÖ˜ ‰È·Ì·ÓÙ‡ÂÛı·È Ù¤¯Ó– ÙÈÓd ηd ÏfiÁÅ Ó‹ÍÂȘ ηd Ê˘Áa˜ ηd ‰ÈÒÍÂȘ ·éÙáÓ âÈÛÎÔÔÜÓÙ·˜.

Le informazioni più circostanziate ci provengono da un lungo brano di Ateneo,82 che trascrive due estesi passi dal secondo libro dei Lykiakà di Polycharmos e dal decimo libro dei Geographikà di Artemidoro: Ôé ηٷÛȈ‹ÛÔÌ·È ‰b Ôé‰b ÙÔf˜ âÓ §˘Î›0 å¯ı˘ÔÌ¿ÓÙÂȘ ôÓ‰Ú·˜, ÂÚd zÓ îÛÙÔÚÂÖ ¶Ôχ¯·ÚÌÔ˜ âÓ ‰Â˘Ù¤ÚÅ §˘ÎÈ·ÎáÓ (FHG iv, 479) ÁÚ¿ÊˆÓ Ô≈Ùˆ˜Ø «¬Ù·Ó ÁaÚ ‰È¤ÏıˆÛÈ Úe˜ ÙcÓ ı¿Ï·ÛÛ·Ó, Ôy Ùe ôÏÛÔ˜ âÛÙd Úe˜ Ù† ·åÁȷφ ÙÔÜ \AfiÏψÓÔ˜, âÓ > âÛÙÈÓ ì ‰ÖÓ· âd Ùɘ àÌ¿ıÔ˘, ·Ú·Á›ÓÔÓÙ·È ö¯ÔÓÙ˜ Ôî Ì·ÓÙ¢fiÌÂÓÔÈ ç‚ÂÏ›ÛÎÔ˘˜ ‰‡Ô Í˘Ï›ÓÔ˘˜, ö¯ÔÓÙ·˜ âÊ\ ëη٤ÚÅ Û¿Úη˜ çÙa˜ àÚÈı̆ ‰¤Î·. ηd ï ÌbÓ îÂÚÂf˜ οıËÙ·È Úe˜ Ù† ôÏÛÂÈ ÛȈ”, ï ‰b Ì·ÓÙ¢fiÌÂÓÔ˜ âÌ‚¿ÏÏÂÈ ÙÔf˜ ç‚ÂÏ›ÛÎÔ˘˜ Âå˜ ÙcÓ ‰ÖÓ·Ó Î·d àÔıˆÚÂÖ Ùe ÁÈÓfiÌÂÓÔÓ. ÌÂÙa ‰b ÙcÓ âÌ‚ÔÏcÓ ÙáÓ ç‚ÂÏ›ÛÎˆÓ ÏËÚÔÜÙ·È ı·Ï¿ÛÛ˘ ì ‰ÖÓ· ηd ·Ú·Á›ÓÂÙ·È å¯ı‡ˆÓ ÏÉıÔ˜ ÙÔÛÔÜÙÔÓ [ηd ÙÔÈÔÜÙÔÓ] œÛÙ\ âÎÏ‹ÙÙÂÛı·È Ùe àfiÚ·ÙÔÓ ÙÔÜ Ú¿ÁÌ·ÙÔ˜, Ù† ‰b ÌÂÁ¤ıÂÈ œÛÙ ηd ÂéÏ·‚ËıÉÓ·È. ¬Ù·Ó ‰b à·ÁÁ›ϖ Ùa Âú‰Ë ÙáÓ å¯ı‡ˆÓ ï ÚÔÊ‹Ù˘, Ô≈Ùˆ˜ ÙeÓ ¯ÚËÛÌeÓ Ï·Ì‚¿ÓÂÈ ·Úa ÙÔÜ îÂÚ¤ˆ˜ ï Ì·ÓÙ¢fiÌÂÓÔ˜ ÂÚd zÓ ËûÍ·ÙÔ. Ê·›ÓÔÓÙ·È ‰b çÚÊÔ›, ÁÏ·ÜÎÔÈ, âÓ›ÔÙ ‰b Ê¿ÏÏ·ÈÓ·È j Ú›ÛÙÂȘ, ÔÏÏÔd ‰b ηd àfiÚ·ÙÔÈ å¯ıܘ ηd ͤÓÔÈ Ù” ù„ÂÈ».

Il cerimoniale di Sura, soprattutto nella forma riportataci da Ateneo, che attinge alle particolareggiatissime versioni dell’antiquario Policarmo e del geografo Artemidoro, appare per i nostri fini di grande interesse. Innanzi tutto, il luogo dove si svolge la pratica mantica, simile ad un porto (Artemidoro: ÏÈÌ‹Ó Î·d ÙfiÔ˜), si chiama Dinos (‰ÖÓÔ˜, ‰ÖÓ·):83 il termine ne precisa l’aspetto di bacino, di conca, che Artemidoro, sulla base di informazioni attinte dagli abitanti del luogo, afferma essere stato creato da una sorgente di acqua dolce, nella quale crescerebbero pesci di grossa taglia utilizzati per la divinazione. Secondo Policarmo invece il luogo, sempre chiamato Dina, sarebbe riempito di acqua di mare ricca di pesci solo in occasione della consultazione dell’oracolo. La differenza tra le due versioni potrebbe imputarsi all’essiccarsi della sorgente e dunque all’invenzione dell’artificio dell’immissione di acqua marina per ovviare all’inconveniente: forse la singolare notizia della fonte vagante di Plinio va collegata con il possibile disseccamento del Dinos originario con acqua dolce, secondo Artemidoro sede originaria dell’oracolo, e quindi con la trasformazione evidentemente più tarda del rito, 81 Plut., Sollert. anim., 12 (976 C). 82 Athen., viii, 333 d - 334 a.

83 Athen., viii, 334 a.

fondato sull’immissione di acqua di mare, come descritto invece da Policarmo. Coerentemente con tutto ciò, le due versioni di Artemidoro e di Policarmo coincidono invece nella procedura della consultazione vera e propria fondata sulla verifica del modo in cui i pesci si accostavano alle carni sacrificali cotte, fornite loro mediante l’immersione nell’acqua di due spiedi di legno a ciascuno dei quali erano infilate dieci porzioni di carne, con l’aggiunta di pani e di focacce (Artemidoro); il sacerdote, seduto sul bordo del Dinos, in silenzio osservava le specie di pesci e le modalità dell’accostarsi di questi alle carni sacrificali, i due fondamenti rituali per la costruzione del responso da comunicare a quanti venivano a interrogare la divinità. Le indicazioni del testo di Ateneo trovano molti punti di contatto con la scena sulla lastra del tempio di Portonaccio. Innanzi tutto nelle fonti e nella rappresentazione troviamo un bacino concluso, cui forse allude anche la nettissima linea bruno-giallastra che attraversa diagonalmente la metà sinistra della lastra; in secondo luogo la grande abbondanza di pesci, presenti nella lastra e nelle fonti appartenenti a specie diverse e numerose, come vuole l’oracolo di Sura; sempre come nell’oracolo di Sura sul bordo del bacino siede il personaggio intento ad osservare i pesci, che le carni bianche connotano come una donna o forse meglio come un fanciullo, in altre parole una persona che l’età o il sesso descrivono come “irresponsabile” e dunque notoriamente adatta a consultare oracoli o ad estrarre sortes, come apprendiamo dalle consuetudini di diversi santuari in Grecia e in Italia. Sempre questo fanciullo o donna che sia sta immergendo nell’acqua un oggetto munito di una punta ben visibile: il modo in cui il nostro personaggio maneggia tale oggetto, che egli non brandisce come una lancia, come dovrebbe fare se si trattasse di una fiocina, ma che invece tiene sotto il braccio, si può assai bene accostare all’immersione nell’acqua degli spiedi descritta per l’oracolo di Sura. Quanto alla strana terminazione in alto di questo spiedo, un oggetto rettangolare a fasce orizzontali nel senso della lunghezza, che non può assolutamente essere accostato ai cesti o alle nasse spesso inseriti nelle scene di pesca sulle ceramiche attiche, si potrebbe ragionevolmente supporre che si tratti di una gratella sulla quale venivano arrostite le carni provenienti da un sacrificio, un oggetto ad esempio simile a quello raffigurato nella scena di cucina sacrificale sulla parete d’ingresso della tarquiniese Tomba delle Iscrizioni.84 Notevoli insomma solo le coincidenze tra i dettagli anche singolari del dipinto di Veio e il cerimoniale ittiomantico di Sura; a Sura grande rilievo aveva la diversità di specie ittiche, particolare evidenziato nella lastra veiente dal notevole numero di pesci tutti diversi tra loro, così come a Sura tutte le fonti concordano che ai pesci venivano date con obeloi, carni “cotte” (çÙ·›: Policarmo, Artemidoro, Plutarco), un dettaglio apparentemente indicato sia dallo strumento appuntito che dalla possibile gratella del dipinto di Portonaccio, ambedue attribuiti al personaggio rappresentato. Altro dettaglio che potrebbe stabilire un rapporto stretto tra l’ittiomanzia di Sura e la lastra di Portonaccio è forse lo strano oggetto a tre punte che sembra pendere dalla spalla destra del personaggio: interpretato come “rete” da quanti hanno letto la rappresentazione della lastra come una scena di pesca, l’oggetto non ha alcun confronto possibile con reti da pesca antiche note da immagini, ma ha invece l’aspetto, a mio avviso, di un contenitore di rozza stoffa desinente in 84 M. Torelli, Il rango, il rito e l’immagine. Alle origini della rappresentazione storica romana, Milano, 1997, p. 130 con fig. 107.

l e a m a z zoni di efes o e l ’ ittiomanzia di s ur a 171 tre sacche: possiamo a questo punto immaginare che l’uso fra le dediche importanti deposte a Portonaccio, ma forse di un contenitore del genere fosse quello di trasportare la anche ipotizzabile già soltanto dalla scelta operata dalcarne, che, prelevata dall’animale sacrificato (magari distinl’ideatore del programma figurativo della grande fase deta per qualità grazie alle tre sacche) e destinata ad essere corativa del passaggio tra i due secoli di inserire il racconto cotta sulla gratella, veniva sul luogo infilata sull’obelós permitico della cerva cerinite in luogo del più frequente e conché fosse proposta ai pesci allo scopo di ottenerne il responcettualmente equipollente ratto del tripode. Vista anche so oracolare. l’epoca e il contesto del grande rinnovamento del santuaA questo punto possiamo tentare di verificare la conrio il mito ha un evidente sapore antitirannico, basato sulla gruenza tra gli aspetti religiosi e antiquari contenuti nelle celebrazione della hybris di Eracle: ma, mentre il ratto del nostre lastre e gli aspetti cultuali del santuario di Portonactripode lascia intravedere allusioni a scenari di possibile cio, per valutare gli aspetti programmatici della pittura di violenza del tiranno nei confronti dell’oracolo, quello della ambito religioso etrusco di epoca tardo-arcaica. Come ha cerva cerinite parla di attentati tirannici ai beni dei santuadimostrato Colonna,85 il santuario veiente ospitava un ri, quasi un topos nei resoconti dei misfatti dei tiranni di tutgruppo notevole di divinità. Menerva faceva la parte del leoti i tempi, da Periandro ai due Dionigi. La scena della lastra ne con ben sei iscrizioni, di cui due latine, prova della convuole invece celebrare il più antico e il più prestigioso dei tinuità delle pratiche di culto prima e dopo la conquista rosantuari di Artemide: che la fondazione veiente intendesse mana. La dea aveva carattere mantico, come già molti riattaccarsi al grande luogo di culto anatolico non stupisce, decenni addietro ho suggerito grazie al confronto con la visto il prestigio goduto in terra etrusca dalla cultura, dalMenerva di Punta della Vipera, sicura titolare di un oracol’ideologia e dai comportamenti delle classi dominanti lo,86 un carattere che appare ulteriormente confermato dell’Asia Minore, i cui segni sono noti e riguardano campi dalla cassettina in bucchero imitante l’arca per la conservamolteplici, dall’attenta imitazione del modello socio-ecozione delle sortes, giusta la proposta di G. Colonna.87 La nomico anatolico, frigio e lidio, della tryphé all’accettaziofunzione mantica della dea appare rafforzata dalla presenne del segno alfabetico a 8 per indicare la spirante labioza, tra gli dei venerati nel luogo sacro, di Raı, entità giovadentale f. Ma ancor più sorprendente, se l’interpretazione della nile apollinea individuata dallo stesso Colonna grazie alla scena da me proposta è esatta, è il richiamo alla pratica itacuta lettura di un’iscrizione frammentaria,88 la cui vocatiomantica di un santuario della Licia. Colpisce innanzi tutzione oracolare è ben descritta sia dall’iconografia che dalla to il nuovo rinvio ad una regione asiatica, ancora una volta funzione assegnategli sullo specchio di Tuscania;89 il dio delretta da dynatotatoi non troppo diversi per stile di vita dai la mantica per eccellenza, Apollo, presentissimo nell’imageprincipes d’Etruria, e colpisce anche la citazione di una prarie del santuario, dalle sculture acroteriali alla piccola plastitica divinatoria alquanto inusitata. La regione dell’Anatolia ca votiva fittile, è assente invece dall’epigrafia e forse non dove è localizzato il santuario descritto nella lastra dipinta per caso, dal momento che si può sospettare che si sia fatto singolarmente si combina con la terra, la Licia, dove è amricorso alla sua immagine soltanto in funzione di un’evocabientato il mito celebrato dal grande quadro fittile di rivezione delle qualità oracolari della dea signora del luogo, Mestimento del columen, quello di Bellerofonte e la Chimera:95 nerva. La profilassi del mondo femminile assicurata dalla dipuò darsi che la circostanza sia casuale, ma non credo che vinità principale Menerva è ribadita dalla menzione di due casuale possa essere l’evocazione della pratica ittiomantica. altre dee, Aritimi-Artemide e Turan-Afrodite, in una dedica Il richiamo, qualora avesse lo scopo di esaltare con un exemsu bucchero,90 per le quali troviamo pieno riscontro in staplum forse localmente famoso il carattere mantico del santuette votive raffiguranti le dee o gli animali di loro pertituario veiente, avrebbe finito con il possedere un carattere nenza,91 mentre una discussa epigrafe,92 nota in una simile eccessivamente dotto e remoto, poco comprensibile per i redazione priva del destinatario da una sepoltura di Lavinio comuni visitatori del luogo: meglio sarebbe stato evocare di vi sec. a.C.,93 dischiuderebbe il nome di un’altra dea, pealtri e più celebri oracoli, a partire da quello delfico, cui puraltro nota solo da questo testo, *Venai, che Colonna accore allude il mito dell’uccisione del serpente Pitone e dell’insta alla latina Venilia, paredra di Nettuno.94 L’ipotesi è sedugresso di Apollo nel santuario di Delfi celebrato da una delcente, anche alla luce di quanto vedremo fra poco. le famose sculture acroteriali. Evidentemente la ragione A questo punto è possibile affermare che le due lastre diper cui si è fatto ricorso alla rappresentazione di un rito dipinte, purtroppo uniche fra le molte appartenenti alla devinatorio con i pesci va ricercata nel fatto che la stessa pracorazione originaria a consentire una lettura abbastanza tica doveva avere luogo nel santuario di Portonaccio, nel completa, trovano dal punto di vista del soggetto un felice quale occorre ricercare spazi e installazioni che quel rito inserimento nel contesto religioso di Portonaccio. Il rinvio rendano possibile. diretto della lastra con la pirrichia delle Amazzoni alla fonLa risposta a tale quesito è in fondo molto semplice ed è dazione del grande santuario efesino trova un preciso agcostituita dalla presenza di una grandiosa piscina appoggiagancio con il fatto che Aritimi-Artemide sia annoverata fra ta al lato destro del tempio, del quale possiede pari lunghezle dee a vario titolo presenti nel santuario, un dato che non za e che costituisce un elemento a scopo rituale prima ansolo si basa sulla menzione epigrafica del nome della dea 85 G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987. 86 M. Torelli, Terza campagna di scavi a Punta della Vipera (S. Marinella), «StEtr», xxv, 1967, pp. 331-352, con analisi del carattere oracolare della lamina di piombo iscritta dallo stesso santuario (per altre opinioni vedi A. Pfiffig, Eine Opfergelüde an die etruskische Minerva. Studien und Materialien zur Interpretation des Bleistrafens von S. Marinella, Wien 1968); il confronto con Portonaccio è in M. Torelli, A. La Regina, Due sortes preromane, «ArchCl», xx, 1968, pp. 221-229. 87 G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, p. 423, fig. 2. 88 G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, pp. 433-435, fig. 20.

89 M. Torelli, ‘Etruria principes disciplinam doceto’. Il mito normativo dello specchio di Tuscania, in Studia Tarquiniensia, Roma, 1988, pp. 109-118; G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, p. 435, fig. 21. 90 TLE2 45 = ET Ve 3.34: mi ı[ina -? - ]niies aritimi pi turan pi mi nuna[r]. 91 G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, p. 429. 92 TLE2 34 = ET Ve 3.5: mini muluvanice mamarce apuniie venala. 93 M. Guaitoli, Nuovi dati dalle necropoli, «Archeologia laziale», xii, Roma, 1995, pp. 551-562. 94 G. Colonna, art. cit. (nota 1), 1987, p. 427 sg., fig. 11. 95 Vedi C. Carlucci, in Etruschi, cit.

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Fig. 3. Veio, località Portonaccio. Il santuario dell’Apollo (da «NSc», 1953).

cora che monumentale del santuario. Le indagini condotte da A. Comella e L. Romizzi per compilare la voce piscina96 del Thesaurus cultus et rituum antiquorum hanno registrato per il mondo etrusco-italico e romano un numero molto ridotto di esempi di questo genere di istallazioni. Se per il mondo romano è noto il rapporto tra santuari della Dea Syria e l’allevamento dei pesci sacri,97 per il mondo etruscoitalico, sul quale non abbiamo informazioni antiche di sorta, la questione è puramente archeologica e si pone in termini abbastanza semplici. Se infatti escludiamo le fontane-cisterne di grandi dimensioni annesse ai templi, munite di scale per accedere al fondo e per attingere acqua, come quelle collegate al tempio A dello Scasato a Faleri,98 al tempio A in loc. S. Antonio a Caere,99 al luogo di culto collegato all’ipogeo di Clepsina pure a Caere100 e all’edificio B dell’acropoli di Marzabotto,101 e le vasche di piccola o media grandezza collegate a sorgenti, come quelle documentate nel santuario fontile di Marzabotto102 e nei santuari di Cannicella ad Orvieto103 e di Stata Mater in territorio veiente,104 la sola vera piscina strettamente funzionale al tempio

e non ad un approvvigionamento idrico puro e semplice è proprio quella di Veio. Quale dunque la funzione di questa piscina, che ora possiamo conoscere abbastanza da vicino grazie all’attenta ricostruzione dello scavo Stefani fatta da M. P. Baglione?105 Se non c’è dubbio che la piscina doveva contenere acqua in maniera permanente, viste le opere di munizione realizzate agli esterni dei muri con argille sterili e con la “terra porcina”, non è purtroppo per nulla esaustivo lo studio dei sistemi di adduzione delle acque alla piscina e di eventuale evacuazione di queste: in particolare non è chiaro il funzionamento del complesso sistema idraulico a N del santuario, il ruolo della fontana a NE della piscina con il suo cunicolo di alimentazione apparentemente connesso con la piscina stessa, il ruolo della grande cisterna di fronte al grande altare (Fig. 3). Dobbiamo, credo, fermarci alla constatazione del nesso stretto tra piscina e tempio e tra l’ingresso di acque dalla sovrastante massa tufacea a settentrione del santuario. Il dato più significativo sulla funzione della piscina è offerto non dai dati topografico-archeologici, ma dal con-

96 A. Comella, in ThesCRA, iv, Los Angeles, 2005, p. 292 sg. (mondo etrusco-italico); L. Romizzi, ivi, p. 293 sg. (mondo romano). 97 Lucian., De dea Syria, 45. 98 A. Comella, Le terrecotte architettoniche del santuario dello Scasato a Falerii. Scavi 1886-1887, Napoli, 1993, p. 149, tav. 2. 99 A. Maggiani, M.A. Rizzo, Cerveteri. Le Campagne di Scavo in loc. Vigna Parrocchiale e S. Antonio, in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale. Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti del xxiii Convegno di Studi Etruschi (Roma, 1-6 ottobre 2001), i, Pisa-Roma, 2005, pp. 179-180, figg. 5-6. 100 M. Torelli, L. Fiorini, Le indagini dell’Università di Perugia nella Vi-

gna Marini-Vitalini, in Munera Caeretana, Incontro di studio in memoria di M. Cristofani (Roma, 2008), «Mediterranea», v, 2008, pp. 139-164. 101 G. Sassatelli, Culti e riti in Etruria padana. Qualche considerazione, «ScAnt», iii-iv, 1989-90, pp. 604-606. 102 G. Colonna, in Santuari, cit. (nota 2), p. 113 sg. 103 G. Colonna, I culti del santuario della Cannicella, «AnnFaina», iii, 1987, pp. 11-24. 104 M. Torelli, Stata Mater in agro Veientano, La riscoperta di un santuario rurale veiente in località Casale Pian Roseto, «StEtr», lxiv, 1998, pp. 117-134. 105 M.P. Baglione, Il santuario di Portonaccio a Veio. Precisazioni sugli scavi Stefani, «ScAnt», i, 1987, pp. 381-417.

l e a m a z zoni di efes o e l ’ ittiomanzia di s ur a 173 di intervento di quest’ultimo, determinata dal suo etimo testo dei materiali rinvenuti. La prima, ovvia congettura *nebh- (connesso con lat. nebula, gr. ÓÂʤÏË),113 è quella delche si potrebbe avanzare per la destinazione della piscina, ad onta della sostanziale assenza di confronti specifici (le le acque interne, si può supporre che anche la dea sia da fontane di Epidauro hanno altra destinazione), sarebbe collegare appunto alle acque dolci e alle sorgenti, essenziali quella funzionale a riti connessi con guarigioni: l’ipotesi è per garantire la salute dei pesci allevati nella piscina. La smentita dalla sostanziale assenza di materiale votivo anapresenza a Lavinio di un’iscrizione dello stesso personagtomico che costituisce la prova della presenza nel santuario gio che a Veio compie un’offerta a *Venai-Venilia trova un di una religione di sanatio. A questo punto l’ipotesi che la ottimo riscontro ancora in un’altra tradizione raccolta da piscina altro non fosse che una grande vasca per pratiche itVirgilio, relativa ad un tiburtino di nome Venulus114 (evitiomantiche diventa la più economica. dente capostipite della genealogia fittizia dei Venulei)115 È forse possibile considerare in questo contesto la preucciso in combattimento da Tarconte: questo stesso Venusenza della misteriosa divinità *Venai, che, come si è visto, lus, secondo una tradizione antiquaria, sarebbe stato signoColonna riconduce alla latina Venilia. Già molti anni or sore di Lavinium,116 ciò che potrebbe aiutare a spiegare la no, J. B. Ward Perkins,106 il cui pragmatismo britannico ci presenza in una tomba lavinate di un testo di dono da parte assicura essere poco incline a pericolose elucubrazioni redi un aristocratico devoto alla dea, cui destina nel santuario ligiose, ebbe a scrivere che nel santuario «water evidently veiente una dedica in tutto e per tutto simile. played an important part in the rituals associated with the Se vogliamo riassumere i dati finora emersi, possiamo cult, and it may even have been a factor in determining the concludere che il quadro generale delle divinità che interoriginal choice of the site, below the main plateau, on a levengono nel culto di Portonaccio va posto in rapporto a vel to which a steady flow of water could readily be diverted varie funzioni, tutte fra loro profondamente interrelate, il from the upper reaches of the Piordo stream, above the cui perno fondamentale è dato dalla curotrofia dominata falls» (corsivi miei, N.d.A.). Acqua fresca e abbondante da Menerva: in questa sfera si compenetrano infatti la produnque erano alla base di una parte rilevante dei cerimofilassi del parto assicurata da Aritimi-Artemide, con la conniali religiosi del luogo. Ad onta di quanto qualche studionessa protezione delle acque garantita da *Venai-Venilia, la so ha voluto farci credere,107 Venilia è una figura divina che pedagogia dei giovani uomini e delle giovani donne assicuper la sua grande arcaicità ci appare molto evanescente: le rata da Menerva, dalla quale dipende anche la mantica, eserparetimologie varroniane da ventum o da veniendo108 o da citata con i pesci e forse anche con le sortes, segnalate dalla eventus o addirittura da Venus109 possono essere prese in capsella in bucchero con iscrizione sopra ricordata. A forconsiderazione solo per istituire un rapporto generico con mare tale quadro, con i loro riferimenti dotti, concorrono aspetti o funzioni reali della divinità, tale da giustificare il anche le nostre due lastre, che significativamente evocano nesso istituito dalla paretimologia stessa. Dal punto di vista la nascita e le pratiche mantiche di culti prestigiosi insediati mitico Venilia è considerata da Virgilio la ninfa madre di nell’area anatolica, lasciandoci ancora una volta con il ramTurno,110 da Ovidio la sposa di Giano e madre di Canens111 marico sulla perdita delle molte altre, sicuramente diverse o infine da antiquari non specificati paredra di Neptudiecine, che facevano rutilante corona allo splendore del nus.112 La connessione con le acque è implicita dalla magtempio di Portonaccio interamente rinnovato con un’abgior parte delle paretimologie, che evocano le acque e la bondanza di segnali apollinei e delfici, forse all’indomani navigazione, e soprattutto dalla sua identificazione con della fine di una delle dominazioni tiranniche, così freuna ninfa e dall’associazione con Neptunus. Poichè la sfera quenti nella città. 106 J. B. Ward Perkins, Veii. The Historical Topography of the Ancient City, «bsr», xxix, 1961, p. 28. 107 Ad es. R.E.A, Palmer, Cupra, Matuta and Venilia Pyrgensis, in Classical Studies presented to Ben Edwin Perry by his Students and Colleagues at the University of Illinois, 1924-1960, Urbana, 1969, pp. 292-309, e J. Gagé, Venilia, ou Leukothea? Remarques sur un culte semi-maritime de l’Italie préromaine, in Miscellanea di studi archeologici e di antiquité, 3, Modena, 1990, pp. 991-1009. 108 Varro, l.L.,v, 72; cfr. Serv. auct., in Verg. Aen., x, 76, e August., civ. D., vii, 22. 109 Varro, ap. Schol. Veron. ad Aen., x, 78. 110 Verg., Aen., x, 76; cfr. Serv., in Verg. Aen., vii, 366; xii, 29. 111 Ovid., Met., xiv, 333 sg. 112 Serv. auct., in Verg. Aen., x, 76.

113 Come ben argomentato per Neptunus e molti altri teonimi da H. Rix, Rapporti onomastici fra il pantheon etrusco e quello romano, in Gli Etruschi e Roma, Atti della giornata di studio in onore di M. Pallottino (Roma, 11-13 dicembre 1979), Roma, 1981, pp. 104-126. 114 Verg., Aen, viii, 9, e xi, 242 sgg. 115 Per i Venulei della tarda repubblica, vedi T. P. Wiseman, New Men in the Roman Senate. 139 B.C.-14 A.D, Oxford 1971, p. 272, n. 475 (Venuleius III vir cap. 82 a.C.); cfr. anche p. 281, Venuleius Latinus (?), leg. C. Calvisii Sabini 4543 a.C. 116 Serv., in Verg. Aen., viii, 9; secondo G. Radke, Die Gütter Altitaliens, Münster 1965, pp. 310-311, il nome Venilia sarebbe una “Weiterbildung” di Venulus (?).

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L I NG UA ED EP I GR A F I A

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F E LU SKES´ O QELUSKES´ SULLA ST E LE DI VE T ULO NI A? Luciano Agostiniani 1.

L

a stele iscritta da Vetulonia, detta ‘stele del Guerriero’, sostanzialmente inaccessibile per decenni dopo l’alluvione di Firenze del 1966 (all’interno del palazzo della Crocetta, sede del Museo, i danni maggiori furono subiti proprio dalla sezione topografica, il ‘Museo Topografico dell’Etruria’, nella quale la stele si conservava), trova ora, dal 2005, una degnissima collocazione, a Vetulonia, nel bel Museo Archeologico locale (intitolato a Isidoro Falchi), che recentemente è stato riaperto al pubblico. Ciò ha fornito le condizioni favorevoli per un riesame complessivo: che, giusta i miei interessi e le mie competenze, ho limitato all’iscrizione (sotto il profilo sia epigrafico che linguistico), e che ho condotto avvalendomi della collaborazione di Luca Cappuccini. I risultati – forse, in parte almeno, non del tutto scontati – saranno oggetto di specifica pubblicazione in altra sede. Quelle che presento qui sono alcune considerazioni su un singolo segmento del testo, la sequenza per la quale è vulgata la lettura , ed in particolare su valore grafico attribuito al primo segno della sequenza. Come sempre in questo tipo di analisi, sarà quanto meno opportuno ripercorrere la storia degli studi relativi, a partire dalle prime pubblicazioni della stele. Un taglio latamente storiografico di questo genere non è certo estraneo al Festeggiato: un motivo in più – oltre alla scelta del soggetto (l’iscrizione della stele di Vetulonia ha suscitato, in passato, il Suo interesse) – per sperare che questo studio incontri il Suo gradimento. 2. Per facilitare la comprensione di quanto dirò, richiamo qui un minimo di dati descrittivi. Si tratta di una lastra rettangolare di arenaria, alta un po’ più di un metro, larga grosso modo 50 centimetri e spessa 17. Sulla fronte si trova, realizzata ad incisione con tratto leggero e sottile, la figura di un guerriero, delimitata da una cornice rettangolare, incisa con la stessa tecnica. In basso, per un terzo circa della lunghezza, la lastra è stata lasciata «informe e globosa»,1 evidentemente perché destinata ad essere infissa (nel terreno duro o in altro allocamento). La parte in alto della cornice presenta un motivo decorativo a zigzag, mentre gli altri tre

lati sono occupati dall’iscrizione (CIE 5213 = ET Vn 1.1), che si svolge, con andamento sinistrorso, a partire dall’alto della cornice di destra. L’esecuzione delle lettere è precisa ed accurata; in particolare, è evidente che le due linee parallele che definiscono la cornice funzionano come punto di riferimento per il limite superiore e inferiore delle lettere, condizionandone dimensione e collocazione. Venuta alla luce nel corso della campagna di scavo del 1894, la stele fu prontamente pubblicata nelle «Notizie degli Scavi» dell’anno successivo.2 Per la porzione del testo che ci interessa qui, diciamo subito che sia Falchi che Milani3 non ritengono che nel primo segno della sequenza sia da vedere – come invece si sosterrà in seguito – una occorrenza, abnorme rispetto al tipo, del segno a 8 con valore di . In effetti, in tutti e due gli apografi (Fig. 1 a-b) si vede, nella posizione attesa, una specie di cerchietto (così Falchi), con un andamento vagamente quadrangolare (Buonamici lo descrive, con formulazione speculare rispetto alla nostra, come «una specie di ‘quadrato’ con alcuni lati rotondeggianti»4), più evidente nel disegno di Milani (che in effetti lo definisce un «quadratino»: ma si noti il richiamo, nel testo di Milani, ad omicron piccolo e quadrato della stele di Lemno, che può aver funzionato come elemento di suggestione), molto più piccolo delle altre lettere e collocato al centro della cornice. A giudicare dalla successiva lettura come segno a 8, si direbbe che i due apografi siano a valenza interpretativa, nel senso che tanto Falchi che Milani possano aver omesso come non pertinenti (perché ritenuti accidentali o altro) tratti che invece si vedevano incisi in quel punto della sequenza: ma resta come dato di fatto che, se c’erano, dovevano avere aspetti di minore evidenza rispetto al cerchietto/quadratino, tali da giustificarne l’omissione.

3. La lettura di Falchi-Milani (un «quadratino», vedi sopra, con funzione di «segno di interpunzione»)5 rimase per una quindicina d’anni quella accolta nella letteratura specialistica. Così, per esempio, Lattes e Torp, che leggono aules´ · eluskes´…;6 e Montelius, che riproduce l’apografo di Falchi.7 Ma gli anni intorno alla fine della prima decade del novecento sono quelli in cui entra in circolazione la nuova lettu-

Fig. 1, a. Particolare dall’apografo di Falchi (1895); b. Particolare dell’apografo di Milani (1895).

1 Falchi 1895, p. 305. 2 Falchi 1895, pp. 304-306; Milani 1895, pp. 25-27. 3 Vedi gli apografi presentati: Falchi 1895, p. 305, fig. 18, e Milani 1895, p. 26. 4 Buonamici 1931, p. 384. 5 Milani 1895, p. 26; cfr. Pareti 1926, p. 182: «non è escluso che si tratti di interpunzione».

6 Lattes 1896, p. 975, e Torp 1902, pp. 53 e 59. E si noti che Torp ritornerà su questo documento dopo un esame autoptico fatto nell’estate del 1904, senza peraltro modificare la primitiva lettura: Torp 1905, p. 8. 7 Montelius 1910, p. 862, tav. 189, 11.

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luciano agostiniani

Fig. 2, a. Particolare dall’apografo di Milani (1909); b. Particolare dell’apografo di Danielsson nel CIE.

ra del segno come f del tipo a 8, se Milani, in Italici ed Etruschi, del 1909, cita il documento come la «stele di Vetulonia del guerriero Aules Pheluskes»,8 dunque con implicita lettura del primo segno come , e l’apografo riportato alla tav. xvii, fig. 76, presenta, nella posizione del cerchietto/quadratino, quella che sarà poi la rappresentazione standard del segno, cioè due cerchietti sovrapposti uniti da un trattino (qui, Fig. 2 a); e del resto, più tardi, nella sua guida al Museo Archeologico di Firenze, affermerà esplicitamente9 che “la prima lezione in Not. sc. 1895 è inesatta”, rimandando alla descrizione e al commento forniti in Italici ed Etruschi. Che nella nuova lettura di Milani sia entrato Danielsson (e Lattes?) si ricava, indirettamente, da quanto dichiarato da Lattes stesso in un articolo del 1917, in cui, a proposito della trattazione della stele di Vetulonia nel citato Italici ed Etruschi di Milani, richiama le «correzioni del Danielsson e mie»,10 che senza dubbio riguardano (anche) la lettura del segno in questione; direttamente, da quanto afferma il Danielsson stesso nel suo studio sulle iscrizioni lidie:11 la sua idea, nata con la revisione della stele fatta nel 1902, che si trattasse non di uno, ma di due cerchietti/quadratini uniti da una lineetta verticale, da interpretare come «ein missratenes und gleichsam verkrüppeltes 8», fu prontamente accolta da Milani,12 che in una successiva pubblicazione (cioè, il succitato Milani 1909) la visualizzò in apografo. Si veda, in proposito, quanto nel commento del CIE: «Ipse a. 1902. 1908 descripsi et recognovi ectypisque expressi», e p. 119: «feluskes´ Da[nielsson] (quamvis dubitanter) a. 1902».13 La definitiva affermazione della lettura sarà comunque determinata dalla sua comparsa nel CIE (qui, Fig. 2 b), ivi corroborata, per antitesi, da alcune (abbastanza scontate) considerazioni di ragionevolezza formulate da Danielsson, che liquidano una volta per tutte l’ipotesi del segno di interpunzione: «Interpunctionis nullus praeterea in hac inscriptione usus, atque omnino tituli lapidarii antiquissimi interpunctione carere solent (...) Praeterea puncta huiusmodi (quae nucleum, ut ita dicam, in se continent) nisi aetate multo posteriore in titulis non inveniri videntur».14 D’altronde, in positivo, indirizzavano verso l’idea che si trattasse di un segno a 8 le condizioni oggettive della sequenza grafica: non si tratta, come dagli apografi di Falchi e Milani, e dal commento di quest’ultimo, di una «simplex

(...) nota», ma piuttosto di «spirae duae inaequabiles, altera supra alteram incisae, quae insuper lineola leviter incurva inter se connexae sunt».15

8 Milani 1909, p. 19. 9 Milani 1926, p. 219. 10 Lattes 1917, p. 105. È comunque esclusivamente a Danielsson che i contemporanei attribuiscono il merito di aver identificato il segno a 8 per sulla stele: vedi per esempio Hammarström 1929, p. 256 11 Danielsson 1917, p. 37. 12 Anche Torp (1903, pp. 36-37, nota 1) cita la lettura feluskes [sic] di Danielsson nel suo lavoro sulla stele di Lemno; d’altro canto, Danielsson (1917, p. 36 nota 2) giustifica nel suddetto feluskes (la presenza di -s e non -s´ finale) affermando che ciò si deve a un errore nella comunicazione da lui inviata a Torp. Tutto ciò comporta, al di là del caso specifico, l’esistenza in questo periodo di contatti (scambio di lettere, apografi e quant’altro) all’interno del ristretto gruppo degli specialisti dell’epoca: contatti diretti, attraverso i quali le idee circolavano, ancora prima di passare attraverso le pubblicazio-

ni scientifiche. Di ciò non si tiene, a mio avviso, sufficientemente conto quando (come nel caso delle discussioni sulla autenticità della Fibula Prenestina) si afferma che una certa idea – nella fattispecie, il valore [f] del digramma in Etruria e altrove – non può essere penetrata, ad una certa data, all’interno dell’establishment scientifico perché la pubblicazione a stampa in cui si trova è uscita più tardi: punto di vista sostenuto, da ultimo, da Franchi De Bellis (2007, pp. 82-83). 13 Danielsson 1923, p. 117; cfr. Idem 1917, p. 37. 14 Danielsson 1923, p. 119; cfr. Idem 1917, p. 37. 15 Danielsson 1923, p. 119; cfr. Id. 1917, p. 37. 16 Bagnasco Gianni 1996, p. 251. 17 Buonamici 1931, p. 382. 18 Esame autoptico del 28 novembre 2008.

4. Ma la nuova lettura era semplicemente dovuta all’abilità dell’epigrafista di professione Danielsson, rispetto a quella di un Falchi o di un Milani? O non si può immaginare che si fossero prodotte condizioni documentarie nuove rispetto al momento della scoperta, tali da giustificare il riconoscimento di un tracciato assai più complesso del cerchietto/quadratino che Falchi e Milani vi vedevano? A mio avviso, potrebbe entrare in gioco a questo punto una circostanza che finora, mi pare, non è stata considerata. Come si sa, le condizioni di conservazione della stele sono abbastanza cattive (e ancor più lo erano prima del recente restauro). Si è ritenuto16 che ciò fosse da imputare «ai danneggiamenti subiti in seguito all’alluvione» del 1966 (vedi sopra). In realtà, vi sono stati ‘danneggiamenti’ che risalgono molto più indietro nel tempo. Dell’iscrizione fu fatto un calco, che si conserva presso il Museo Archeologico di Firenze. Stando a quello che dice Buonamici, ciò avvenne «al momento della scoperta della stele»: il che, continua Buonamici, rende «prezioso» il calco, che «riproduce uno stato di cose che ora non sempre si riconosce», dato che «l’originale ha subito vari trattamenti per lavature, ripuliture ecc. le quali, attesa la friabilità della pietra, hanno in qualche parte contribuito a rendere poco distinguibili alcune lettere».17

5. Va detto, a onor del vero, che quello che si vede oggi sull’originale non è troppo diverso da quello che si vede sul calco,18 e quindi, se si crede a Buonamici, non è lontano dalle condizioni originarie della pietra. Ma, a mio avviso, non si deve prendere troppo alla lettera Buonamici quando dice che il calco fu fatto «al momento della scoperta della stele»: un intervallo sia pur minimo tra i due momenti sembra ragionevole, come sembra ragionevole che il calco avesse alle spalle il minimo di ripulitura della pietra che ne rendeva possibile l’esecuzione. Dunque, si può immaginare che Falchi e Milani abbiano fondato la loro lettura su

feluskes´ o £ eluskes´ s ulla stele di vetulonia?

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Fig. 3. Analisi grafica del presunto segno a 8 in Buonamici (1931).

condizioni anteriori a quelle che la stele presentava al momento della esecuzione del calco. Ovviamente, le successive “lavature” e “ripuliture” possono avere aver avuto l’effetto, positivo, di rendere evidenti aspetti del tracciato che, prima, evidenti non erano. Ma non si può escludere che, in qualche caso, l’effetto sia stato quello, assai meno augurabile, di rendere evidenti (anche) tratti che niente avevano a che fare con il tracciato delle lettere: con effetti fuorvianti rispetto alla leggibilità (corretta decodificazione) delle lettere stesse. Ciò andrà verificato per l’intera iscrizione. Per la porzione di testo che ci interessa qui, non si può non tener conto di quello che scrive Buonamici.19 L’argomentazione non è particolarmente lucida: ma sembra di capire che la collazione di quanto sulle fotografie e sul calco (e sull’originale?) lo porta ad vedere, e a riprodurre in facsimile,20 in quello che lui stesso legge (dubitativamente) come , non il segno a 8 (sia pure nella variante anomala che abbiamo visto nel secondo apografo di Milani, e che comparirà più o meno analoga, come vedremo, in descrizioni successive, ivi compresa quella del CIE), ma un segno dalla struttura complessa e abbastanza confusa, che ha tutta l’aria di accostare tratti costitutivi della lettera a tratti che invece non lo sono (qui, Fig. 3). Certo, quelle descritte da Buonamici sono le condizioni in cui la sequenza grafica incisa si presentava all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso: ma se è vero che le operazioni di pulitura si collocano subito dopo la scoperta, cioè intorno al 1895, non c’è motivo di dubitare che tali condizioni si riscontrassero anche precedentemente.

6. Se si accetti quanto sopra argomentato, dietro le due diverse letture (cerchietto/quadratino vs. segno ad 8) vi possono essere due diverse condizioni oggettive della sequenza grafica incisa, quali si presentavano prima e dopo il trattamento di pulitura cui la pietra era stata sottoposta. Ma se è vero, come si è visto, che l’apografo di Falchi e il primo apografo di Milani sono fortemente interpretativi, qualcosa di analogo vale per l’apografo, ricavato da calchi e da fotografie, che ci presenta Danielsson,21 nonché per il secondo apografo di Milani (su questo punto, sostanzialmente sovrapponibile a quello di Danielsson): rendere il segno in questione con due cerchietti uniti da un trattino, come nei due suddetti apografi, comporta una semplificazione radicale rispetto alle condizioni descritte da Buonamici (vedi sopra), e confer19 Buonamici 1931, pp. 384-385. 20 Buonamici 1931, p. 385 figg. 1 e 2. 21 Danielsson 1923, p. 118, in basso a destra. 22 Danielsson 1923, pp. 117 e 119; e cfr. Buonamici 1931, p. 385 e 1932, p. 162. 23 Non ultimo, forse, per la suggestione della presenza, nelle iscrizioni lidie, di un segno a 8 che sembra del pari rappresentare una fricativa labiale: Hammarström 1929, Sommer 1930, Hammarström 1931a-b, Buonamici 1933.

mate, come vedremo, dall’esame autoptico. Di ciò è evidentemente consapevole Danielsson, che nel commento sembra correggere la perentorietà di fatto dell’apografo (d’altro canto, già mitigata dalla sua trascrizione del segno, una f con il punto sotto che segnala lettura incerta): ipotizzando che alla scarsa chiarezza del segno inciso si fosse ovviato con l’uso del colore.22

7. Come detto, a partire almeno dalla pubblicazione del CIE (e cioè dal 1923), la lettura sarà quella pressoché unanimemente accettata,23 ed entrerà decisamente nella manualistica:24 per lo più, come si è visto per il CIE, provvista della segnalazione dell’incertezza di lettura del primo segno (uso del corsivo, come nei Testimonia Linguae Etruscae, cfr. TLE 363: “feluskes´”, o del punto sotto la lettera), ma anche senza di essa (l’esempio più autorevole sono gli Etruskische Texte, cfr. Vn 1.1: feluskes´).25 In questo contesto, l’unica voce dissonante, a mia conoscenza, è quella di Mauro Cristofani, che si dichiara «non (...) più disposto a riconoscere [il segno a 8] nella stele di Avele Feluske», proponendo invece una lettura del segno come theta, del tipo piccolo senza punto centrale:26 con il che Cristofani si riallaccia di fatto (senza peraltro un richiamo esplicito) alla percezione che, del segno, mostravano di aver avuto Falchi e il primo Milani, come si ricava dai loro apografi.

8. Questo è lo ‘stato dell’arte’ nel quale si inserisce l’esame autoptico che, della stele, ho eseguito nel luglio del 2008: al quale è seguito, qualche mese più tardi, quello svolto da Luca Cappuccini. Lasciando, come detto all’inizio, una esposizione completa dei risultati ad altra occasione, mi limito qui ad allineare quanto pertinente al tema, e cioè quanto si può osservare in relazione al segno nel quale si è ritenuto di poter riconoscere una a forma di 8 (i riferimenti spaziali, del tipo ‘in alto’, ‘in basso’ e simili si riferiscono alla struttura della lettera in quanto tale, e non alla sua collocazione sulla stele). Si rileva, prima di tutto, che il cerchietto in alto è molto più piccolo di quello in basso – più di quanto non appaia dagli apografi circolanti – ed ha una configurazione assai meno regolare e simmetrica. Quanto al trattino che unisce i due cerchietti, si ha l’impressione che continui ben al di là 24 Fino a Rix (2004, p. 946), che cita la stele di Vetulonia come il primo documento in cui compare il segno a 8 per . 25 In questo stesso ordine di idee è da porre la disamina che Buonamici (1932, pp. 161-162) fa degli elementi a favore di una lettura del segno come (in partenza, dunque, per niente scontata). 26 Cristofani 1990, p. 72; 1987, pp. 36-37; e cfr. Bagnasco Gianni 1996, p. 251.

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luciano agostiniani

Fig. 4. Particolare della fotografia esistente presso la Soprintendenza Archeologica di Firenze.

del cerchietto in alto (che d’altro canto non pare chiuso nella porzione vicina alla linea guida), per giunta attraversandolo. A fronte di ciò, assai diversa si presenta la esecuzione del cerchietto in basso, che corrisponde al cerchietto/quadratino di Falchi e Milani: la sua struttura è assolutamente regolare e simmetrica – il che è notevole in un segno tondeggiante, notoriamente difficile da ottenere con la tecnica dell’incisione: e ciò spiega, per inciso, le «angolosità» rilevate da Milani – e il tratto appare deciso. Ma, soprattutto, quello che è notevole è che il cerchietto è collocato esattamente al centro delle due linee guida dell’iscrizione, che qui realizzano graficamente la striscia ideale delimitata dall’alto e dal basso delle lettere: e questo non può spiegarsi in altro modo se non pensando che il segno si esaurisse in quello che, nelle lettura come f, appare come il cerchietto inferiore di un segno a 8. La sistemazione simmetrica del cerchietto all’interno delle linee guida e le profonde differenze di esecuzione che abbiamo visto escludono, mi sembra, che siamo in presenza di una realizzazione ‘normale’ di uno schema grafico soggiacente costituito da due cerchietti sovrapposti (che per le generali esigenze di simmetria che sono costitutive dei segni alfabetici dovevano essere di uguali dimensioni) uniti da un trattino: parrebbe invece che la realizzazione “normale” di uno schema soggiacente sia limitata al cerchietto in basso, mentre gli altri due elementi del complesso grafico (cerchietto in alto e trattino di unione) devono avere una genesi diversa e separata. Siamo dunque di fronte (come suggeriva Cristofani, vedi sopra) non ad una del tipo ‘a 8’, ma un theta del tipo piccolo senza punto centrale. Quanto al cerchietto superiore ed al tratto di unione, la resa di Falchi e del primo Milani parrebbero indirizzare, come detto, verso l’idea che siano, almeno in parte, da collegare all’intervento di ripulitura della stele. Ma c’è un’altra possibile spiegazione: e cioè che il lapicida avesse scritto in un primo momento theta, e dunque la sequenza , e che su questa sequenza si sia intervenuti (da parte di lui o di altri) per correggere in . Ovviamente, richiamarsi alla ipotesi di un errore di scrittura, poi corretto, per dare ragione di fatti come quelli sopra descritti è una operazione altamente speculativa, che sarà bene per il momento accantonare, in mancanza di elementi che la sostengano: e non sono tali, mi sembra, né la (del resto debole) prossimità, sotto il profilo percettivo, di [th] e [f] (o [Ê]), né l’idea (in sé ragionevole: ma non è detto che le condizioni fonologiche che si ricavano dalla documentazione attuale dell’etrusco corrispondano alle condizioni antiche) che l’errore sia nato dalla inesistenza nella lingua di una sequenza [felu-] a fronte di [thelu-], documentato (vedi più oltre).

27 Mauro Cristofani, in Cristofani, Rizzo 1985, pp. 151-152; cfr. Cristofani 1987, p. 37. 28 Bagnasco Gianni 1993, p. 211. 29 Jeffery 1961, p. 29 e passim. 30 ET Cr 0.1.

Fig. 5. Particolare della fotografia scattata da Luca Cappuccini.

9. In ogni caso, vi sia stato o meno un intervento di correzione, si dovrà comunque partire da una lettura del segno come theta. Il tipo è quello del cerchio vuoto. Che questo tipo di theta, al pari di quello con punto centrale, sia fortemente presente nell’uso scrittorio dell’Etruria settentrionale di vii secolo a.C. è stato recentemente sottolineato,27 fino alla radicale affermazione della Bagnasco Gianni, che ritiene che nell’area settentrionale, «entro il periodo orientalizzante», «non esist[a]no praticamente attestazioni differenti».28 Sul carattere tipicamente settentrionale di questo tipo di theta mi pare non possano sussistere dubbi: vedremo più avanti i dati documentari relativi. Ma occorre a mio parere fare preliminarmente chiarezza su un punto: sul rapporto, cioè, che intercorre tra il theta costituito da un cerchio vuoto e quello con un punto all’interno, ambedue presenti, come si è accennato, nella documentazione epigrafica settentrionale di vii secolo a.C. Si tende, in generale, a considerarli due varianti di uno stesso tipo (vedi i riferimenti bibliografici subito sopra), che si oppone a quello di matrice greca con la croce all’interno del cerchio. Ovviamente, niente in partenza impedirebbe di pensare che siamo di fronte, invece, a tre tipi diversi: quello, tradizionale ed ereditato, a croce interna, e i due innovativi, quello con e quello senza punto interno. Se sono propenso a ritenere che il tracciato con punto interno e quello a cerchio vuoto siano due varianti dello stesso tipo, ciò dipende dal fatto che l’uno e l’altro condividono un aspetto che ritengo essere costitutivo del tipo: e cioè, la dimensione ridotta che il theta vuoto e quello con il punto interno presentano rispetto alla dimensione delle altre lettere. Dopo tutto – a differenza di quello che succede nell’alfabeto greco, dove nel tipo recenziore a cerchio con punto interno, che sostituisce l’originario theta a croce interna,29 il punto non può essere omesso, pena l’omografia con omicron – in un alfabeto di ambito etrusco, in cui omicron non viene usato, il punto interno del theta non è che un tratto grafico funzionante, al massimo, a livello di norma, ma ridondante dal punto di vista del sistema grafico: e che dunque può essere presente o assente senza pregiudizio per l’individuabilità del segno alfabetico. Da qui, la presenza in uno stesso testo dei due diversi tipi innovativi, come nel kyathos della Tomba Calabresi a Cere,30 o nel graffito della collezione Gorga al Museo delle Terme,31 o ancora nell’anforetta di Bologna;32 e si aggiunga, ancora più significativo della assenza di una valenza funzionale del punto interno, il fatto che un punto sia stato inserito all’interno di omicron in due alfabetari di prima generazione da Veio.33

31 ET ob 2.3. 32 ET Fe 2.1. 33 ET Ve 9.1 e 9.2: CIE 6673.

feluskes´ o £ eluskes´ s ulla stele di vetulonia?

10. Fatta chiarezza su questo punto, possiamo passare a esaminare la distribuzione geografica dei due tipi di theta, quello conservativo e le due variante innovative, nella documentazione epigrafica etrusca di vii secolo a.C. Per motivi che cercheremo di chiarire più avanti, scorporiamo per il momento le iscrizioni di un intero piccolo corpus epigrafico, quello del gruppo di kyathoi di bucchero decorati a rilievo che presentano particolari problemi, e su cui ci fermeremo più avanti. Le attestazioni di theta nelle iscrizioni di vii secolo con provenienza accertata dall’Etruria settentrionale (ovviamente, senza contare per il momento la discussa attestazione sulla stele di Vetulonia) ammontano complessivamente a 6. Si aggiunga l’iscrizione sullo skyphos della collezione Gorga,34 e quella sul vaso di bucchero a testa elmata,35 da Cere, ambedue con grafia settentrionale:36 in totale, dunque, 8 iscrizioni. Di queste, solo una presenta il theta a croce interna, quella sulla fibula di Tursikina, da Chiusi37: mentre una, il cippo di Rubiera,38 ha il theta a croce senza cerchio esterno. Per la fibula di Tursikina, il theta con la croce centrale è, chiaramente, un tratto conservativo – in un alfabeto che presenta per il resto la configurazione tipica di un alfabeto settentrionale (sade per [s] e sigma per [š]; uso esclusivo di kappa per [k]) – che appare coerente con la relativamente alta cronologia dell’oggetto (terzo quarto del vii secolo secondo gli Etruskische Texte). D’altro canto, come è noto,39 è proprio in rapporto alla tipologia di theta che Chiusi si distacca dal resto della tradizione alfabetica etrusca, introducendo una semplificazione sulla forma originaria del theta che è in qualche modo speculare40 rispetto a quella del theta vuoto che si è visto: eliminando, cioè, il cerchio esterno, e riducendo il segno ad una croce (per lo più, a forma di croce di S. Andrea). Il tipo si diffuse precocemente nella valle del Po tramite Marzabotto. La comparsa del segno in uno dei cippi di Rubiera, della fine del vii secolo a.C., e la presenza (vedi sopra) del theta conservativo nella fibula di Tursikina collocano l’innovazione chiusina nei decenni finali del secolo.

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l’Etruria settentrionale, che innova, introducendo come canonico il tipo a cerchio piccolo, con o senza punto interno. Che il tipo che si presenta come conservativo rispetto alla tradizione greca fosse quello canonico nell’Etruria meridionale del vii secolo a.C. viene confermato, a parte la significatività dei numeri suesposti, dalla sua coerente occorrenza negli alfabetari.43 L’assenza di alfabetari di vii secolo per l’Etruria settentrionale non permetterebbe, in partenza, di cercare in questo tipo di documenti una conferma alla canonicità dell’uso settentrionale del theta innovativo segnalata, anche in questo caso, dai numeri. Ma forse può recuperarsi, per questa bisogna, l’alfabetario dipinto di Monteriggioni,44 che presenta il theta innovativo (con punto interno): se è vero, come è stato affermato,45 che ad onta della sua datazione al vi secolo a.C., esso «rispecchia fedelmente (...) gli alfabetari modello della seconda metà del vii sec. a.C. giunti fino a noi», con l’«unica differenza [nel] segno ı con punto all’interno invece delle croce». Se così è, l’alfabetario di Perugia,46 del 550-500 a.C., e quello di Roselle,47 degli ultimi decenni del vi, possono ritenersi, quanto a theta, la continuazione, in età di alfabeti ‘riformati’, della tradizione settentrionale di vii secolo. 12. Il quadro della distribuzione dei due tipi di theta nel vii secolo a.C. è dunque di una estrema evidenza e coerenza, e si configura come distribuzione (geograficamente) complementare: mentre il tipo conservativo è di impiego pressoché esclusivo nelle iscrizioni dell’area meridionale, il tipo innovativo, a cerchietto vuoto o con punto centrale, è tipico dell’Etruria settentrionale (e si affianca all’altro tipo innovativo, sempre settentrionale, di matrice chiusina, che elimina il cerchio e riduce il theta a una croce, vedi sopra). Vedremo tra un momento le implicazioni che questo ha per la ricostruzione dei processi di alfabetizzazione dell’Etruria. Per il momento, mi pare da sottolineare che la distribuzione tipicamente settentrionale della variante innovativa costituisce un buon punto di partenza per la proponibilità di una lettura come theta del supposto /f/ sulla stele di Vetulonia.

11. 13.

Ma, a parte questi due casi, in tutte e 6 le altre occorrenze il theta è del tipo piccolo, con o senza punto centrale.41 E il fatto appare tanto più significativo se confrontato con le condizioni che, per la tipologia di theta, si riscontrano in area meridionale. Qui, le attestazioni di theta per il vii secolo sono 49, alle quali vanno aggiunte le 4 iscrizioni senza provenienza accertata, ma graficamente pertinenti all’area meridionale: in totale, perciò, 53 iscrizioni.42 Di queste occorrenze di theta, una soltanto è del tipo innovativo, con il punto interno (Vc 2.9), e un’altra (at 3.3) è costituita da uno strano segno a croce, con la traversa più breve del tratto verticale; ma le restanti 51 occorrenze sono tutte del tipo a croce interna. In queste condizioni, appare evidente che c’è una divaricazione tra l’uso grafico dell’Etruria meridionale, che continua il tipo tradizionale greco a croce interna, e

Certo, la netta e indubitabile distribuzione complementare dei due tipi di theta, conservativo e innovativo, che emerge dall’analisi dei dati epigrafici presuppone che venga preventivamente scorporato – come noi abbiamo fatto, vedi sopra – il caso ben noto dei sei kyathoi ritrovati sia in centri dell’Etruria settentrionale (quello da Monteriggioni;48 quello dalla tomba del Duce a Vetulonia;49 quello frammentario da Murlo;50 infine, quello recentemente scoperto a Santa Teresa di Gavorrano51), sia a Cere (il kyathos della tomba Calabresi,52 e quello della tomba 1 della località San Paolo53). In questo piccolo corpus, per più versi omogeneo, ove il theta sia presente (con esclusione, perciò, del kyathos di Monteriggioni), questo è del tipo innovativo.54 Il preventivo scorporo di cui sopra si giustifica, però,

34 ET ob 2.3. 35 ET Cr 3.2. 36 Mauro Cristofani, in Cristofani, Rizzo 1985, pp. 151-153. 37 ET Cl 2.3. 38 ET Pa 1.2. 39 Cristofani 1977. 40 Cfr. Cristofani 1991, p. 20. 41 ET Fs 6.1, Fe 2.1, Pa 1.1, Li 2.4, ob 2.3, Cr 3.2. 42 ET Ve 9.1, 9.3, 0.2, X.1, Cr 2.5-2.7, 2.9-2.17, 2.20-2.22, 2.24, 2.25, 2.29, 2.31, 2.33-2.36, 2.42, 3.4-3.8, 3.14, 6.2, 7.1, 9.1, 0.1, 0.4, X.2, Ta 2.1, 3.1, AT 3.3, 9.1, 0.1, Vc 2.8, 2.9, AV 2.3, 9.1, oa 2.2-2.5.

43 45 46 48 50 2006. 52 54

Ve 9.1, 9.3, X.1, Cr 9.1, AT 9.1. 44 ET Vt 9.1. Maristella Pandolfini, in Pandolfini, Prosdocimi 1990, p. 36. ET Pe 9.1. 47 ET Ru 9.1. ET Vt 3.1. 49 ET Vn 0.1. Nielsen, Tuck 2001; Colonna 2004; Wallace 2006; Maggiani 51 Cappuccini 2007. ET Cr 0.1. 53 Rizzo, Cristofani 1993. Su questo punto si veda, da ultimo, Cappuccini 2007, pp. 234-235.

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quando si tenga presente che il gruppo delle iscrizioni presenta una serie di peculiarità grafiche che ne fanno un caso a parte nel panorama della produzione epigrafica etrusca di vii secolo. Abbiamo già accennato alla presenza esclusiva, qui, del theta innovativo: il quale, evidentemente, si accorda con il carattere settentrionale delle scelte grafiche, per esempio, del kyathos di Santa Teresa di Gavorrano (si veda l’uso di sade per [s] postdentale); ma è in netto contrasto con i tratti meridionali (si veda la resa plurima dell’occlusiva velare) che si rilevano per esempio nel kyathos Calabresi. A questa peculiarità grafica55 se ne affianca almeno un’altra,56 a mio avviso estremamente significativa: in tutte le occorrenze di gamma57 il segno è del tipo cosiddetto ‘ad uncino’. Come è noto, questo tipo di gamma (che è vicino alla struttura del segno semitico modello), a causa di pressioni interne al sistema alfabetico (per evitare, cioè, l’omografia con lambda) viene sostituito, nell’uso greco, dal tipo ‘lunato’, curvilineo, ma anche angolare.58 Nella scrittura euboica ciò sarebbe avvenuto, stando alla Jeffery, abbastanza tardi nel corso del vii secolo.59 Ma fin dalle prime manifestazioni di scrittura degli Etruschi è evidente che l’alfabeto euboico a cui ricorrono comporta il gamma innovativo, del tipo lunato (questo vale, ovviamente, per la sola Etruria meridionale: negli alfabeti di area settentrionale gamma, come si sa, non è impiegato): valga per tutte il cosiddetto ‘antiquissimum’ di Tarquinia,60 degli inizi del vii secolo a.C. Ciò significa che già a questa quota cronologica l’alfabeto euboico doveva avere quanto meno avviato il processo di sostituzione del gamma a uncino con quello innovativo. La presenza del gamma ad uncino nell’alfabetario della Marsiliana,61 del primo quarto del vii secolo, a fronte della coeva presenza del gamma lunato nelle iscrizioni, sembra indicare un momento di coesistenza dei due tipi: non è un caso, mi sembra, che il tipo conservativo compaia su un oggetto dalle valenze in sé conservative quale è un modello di alfabeto. Se negli alfabetari di epoca successiva, a cominciare da quello di Narce,62 del secondo quarto del vii secolo,63 gamma è costantemente del tipo lunato, ciò sembra segnalare un mutamento ormai compiuto.

14. È evidente, allora, che la scelta del gamma a uncino nelle iscrizioni sui kyathoi è una scelta ‘marcata’, al pari dell’uso costante del theta senza croce centrale, e al pari di altre scelte, come quella che si risolve nella presenza esclusiva – sempre nel kyathos Calabresi, e in contrasto con la resa meridionale dell’occlusiva velare – di sade (tre occorrenze, contro nessuna di sigma), un grafema abbastanza raro nelle scritture meridionali (a differenza di sigma). A mio avviso, questa situazione di incoerenza interna del repertorio grafico dei kyathoi deve risalire alle modalità delle loro produzione. Nonostante sia stato a lungo dibattuto,64 il problema

55 Richiamate, da ultimo, da Sciacca, Di Blasi 2003, pp. 110-111; Cappuccini 2007, pp. 243-235. 56 Cfr. Wallace 2006, p. 195. 57 L’iscrizione sul kyathos di Santa Teresa di Gavorrano non presenta, per la parte conservata, nessuna occorrenza di gamma. Quanto al kyathos di Murlo, se, come è stato sostenuto, si può riconoscervi una (Wallace 2006, pp. 190-191) o due (Colonna 2004) occorrenze di gamma, queste paiono essere del tipo a uncino (ma la lettura non è senza problemi). 58 Jeffery 1961, p. 23. 59 Jeffery 1961, p. 79. 60 ET Ta 3.1. 61 ET AV 9.1. 62 Fa 9.1. 63 Cfr. Pandolfini, Prosdocimi 1990, pp. 21-22. 64 Mi limito a menzionare gli studi più recenti: Bagnasco Gianni 1993; Rizzo, Cristofani 1993; Sciacca, Di Blasi 2003; Cappuccini 2007. 65 Per esempio, la proposta della Bagnasco Gianni (1993, pp. 211-216),

(relativo, ovviamente, anche agli esemplari anepigrafi appartenenti alla stessa classe) è lungi dall’aver trovato una soluzione chiara ed univoca.65 Quello che pare emergere, comunque, è l’esistenza di una articolazione del sistema produttivo, pur risalente ad una stessa matrice o scuola. Se così è, si potrebbe immaginare che esistesse, in quell’ambiente, una sorta di repertorio grafico in cui confluivano tradizioni scribali diverse:66 con varianti conservative come il gamma ad uncino (che avrà una matrice ‘scolastica’, a fronte del tipo semilunato generalizzato), e grafie tipicamente settentrionali insieme a grafie tipicamente meridionali. E se è possibile che le esigenze della committenza potessero selezionare, all’interno del repertorio, scelte grafiche coerentemente di tipo settentrionale o meridionale, parrebbe che un repertorio del genere potesse giustificare l’incoerenza, sotto questo profilo, di un’iscrizione come quella del kyathos Calabresi. 15. La sopra rilevata presenza massiccia in area settentrionale, a quota vii secolo a.C., del theta piccolo, con o senza punto interno, e la sua sostanziale assenza nella coeva documentazione di area meridionale – in cui, come si è visto subito sopra, le iscrizioni dei sei kyathoi non hanno peso – costituisce un elemento di estremo interesse per la storia della alfabetizzazione dell’Etruria. In un articolo recente sottolineavo come, a differenza di quello che succede in Etruria meridionale, «l’area settentrionale mostra di impiegare, fin dalle prime manifestazioni di scrittura, un sistema ad alto tasso di funzionalità e perciò stesso stabile. Il rapporto 1:1 tra fonema e grafema è rispettato: un solo segno, kappa, rappresenta l’occlusiva velare (contro i tre che […] caratterizzano agli inizi le scritture meridionali); e il contrasto funzionale tra la sibilante postdentale e quella palatale è reso convenientemente attraverso l’impiego di due segni diversi, rispettivamente sade e sigma».67 Non è affatto da escludere, anzi mi sembra assai probabile, che la semplificazione del tracciato di theta messa in opera eliminando la croce interna (o il cerchio esterno, come fa Chiusi) risponda alle stesse esigenze di funzionalità: dopo tutto – ribadisco e specifico quanto accennato sopra – in un sistema che non prevede (al livello astratto che va posto come sottostante all’uso) una opposizione con omicron, il tracciato di theta ha elementi di ridondanza (o la croce centrale o il cerchio esterno). Specularmente, si direbbe che il mantenimento del theta tradizionale greco nell’Etruria meridionale risponda alle stesse tendenze conservatrici (o se si preferisce, alla stessa repulsione per l’innovazione) che caratterizza l’accettazione (anzi, l’esagerazione) del poco maneggevole sistema greco arcaico di rappresentazione dell’occlusiva velare, vigente in Etruria meridionale;68 o anche, l’impiego del solo sigma per la rappresentazione delle due sibilanti, sempre in area me-

che ritiene il kyathos della tomba del Duce, quello di Monteriggioni e quello della tomba Calabresi da attribuire a produzione di area settentrionale, è inconciliabile con quella di Sciacca-Di Blasi, che riferiscono l’intera classe, direttamente o indirettamente, ad una produzione ceretana, e chiaramente antitetica rispetto a quella di Benelli 2007, pp. 182-183. Per una dettagliata storia delle ricerche si veda, da ultimo, Cappuccini 2007, pp. 228-229. 66 Cfr., per un punto di vista analogo, l’allusione al «variegato foyer ceretano» fatta da Cristofani (in Rizzo, Cristofani 1993, p. 7); ivi altre rilevanti considerazioni sulla «mobilità di tradizioni artigianali e tecnologiche, come anche di persone (inclusi quindi gli scribi), che caratterizza i decenni centrali del vii secolo a.C.». 67 Agostiniani 2006, p. 181. 68 Da ultimo, Agostiniani 2006, p. 182.

feluskes´ o £ eluskes´ s ulla stele di vetulonia? ridionale, nelle più antiche manifestazioni di scrittura:69 con accettazione sostanzialmente acritica delle condizioni del greco (dove però all’uso esclusivo di sigma risponde l’esistenza di una sola sibilante). 16. Se è vero che, sulla stele di Vetulonia, in quello che generalmente si ritiene essere una (del tipo ad 8) va visto invece, con tutta probabilità, un theta del tipo a cerchietto vuoto, ciò ha una rilevanza considerevole in rapporto al problema della origine del suddetto segno ad 8. La questione meriterebbe forse un riesame generale: in particolare, andrebbero individuati e precisati alcuni aspetti di storia della ricerca. Rimandando tutto ciò ad altra occasione, mi limito qui a richiamare alcune considerazioni che, sulla origine del segno e le modalità di introduzione nella pratica scrittoria dell’etrusco, ho avuto occasione di esprimere in passato, e che ritengo possano essere condivise. Richiamo qui l’essenziale della più recente formulazione,70 rinviando ad essa chi sia interessato ai dettagli. A fronte del problema della resa della fricativa labiale, fonema inesistente in greco, e perciò non rappresentato nel sistema alfabetico modello, furono adottate in Etruria due soluzioni. La prima, presente in area meridionale fin dalle prime manifestazioni scrittorie, è di tipo digrammatico: u consonante preceduto o seguito dal segno dell’aspirazione. La seconda, che la sostituisce, consiste appunto nella ‘invenzione’ del segno ad 8, che recupera l’aureo rapporto 1:1 tra fonema e grafema. Sulla genesi del segno ad 8 si è a lungo dibattuto.71 Per parte mia, sono convinto che esista la possibilità di una ricostruzione estremamente semplice e lineare, basata su una serie di fatti non equivoci e indipendenti l’uno dall’altro, e perciò da ritenere probanti in maniera definitiva. È un fatto che il segno ad 8 si presenta come un raddoppio speculare di beta. «Ora, una procedura del genere non è nuova. Sicione impiegava tradizionalmente un alfabeto in cui beta e epsilon avevano la forma usuale. Quando, per la pressione culturale di Corinto, venne introdotto a Sicione l’epsilon a forma di B, tipicamente corinzio, questo sarebbe entrato in collisione con il beta locale. Da qui quella che Lilian Jeffery definiva ‘una deliberata alterazione dell’epsilon corinzio, ottenuta attraverso un raddoppio speculare del segno’ [ Jeffery 1961, p. 38], che assume a Sicione una forma ‘a clessidra’ analoga alla forma a 8 del segno etrusco». Ma se questo è il processo che sta dietro il segno a 8 etrusco, allora «l’elaborazione del segno deve essere avvenuta in un ambiente in cui c’era il pericolo di una confusione con beta, e cioè non in ambiente etrusco, ma italico»:72 e da qui la diffusione in Etruria. L’attestazione precoce del segno nell’iscrizione italica di Poggio Sommavilla (ST Um 2: ultimi decenni del vii secolo a.C.) a fronte della relativa seriorità delle attestazioni etrusche di area meridionale 69 Da ultimo, Agostiniani 2006, pp. 182-183. 70 Agostiniani 2006, pp. 184-186. 71 Un quadro, sia pure sommario, delle diverse proposte in Agostiniani 2006, p. 185. 72 Agostiniani 2006, p. 185. 73 Cristofani 1991, p. 20. 74 Poccetti 1997. 75 Colonna 1995; cfr. Poccetti 1997, p. 289. Il frammento è di provenienza sporadica, ed è stato rinvenuto casualmente in superficie. Questo, ed alcuni aspetti del testo – che non è opportuno discutere qui, ma che sono del tipo di quelli individuati come significativi di una possibile falsificazione in un mio lavoro recentissimo, a cui rimando: Agostiniani cds. – possono far nascere dubbi sulla sua genuinità. Va da sé che eventuali future indagini di laboratorio (in particolare, eseguendo fotografie con raggi ultravioletti) potranno essere decisive in un senso o nell’altro. 76 Colonna 1995, p. 262 ; cfr. Poccetti 1997, p. 289.

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(secondo-terzo quarto del vi)73 è perfettamente congruente con la nostra ricostruzione. D’altro canto, con la relativa seriorità delle attestazioni meridionali mal si accorderebbe la presenza del segno ad 8 su un documento di vii secolo come è la stele di Vetulonia: il che costituisce un elemento di sostegno per la lettura come theta che del segno abbiamo proposto sulla base di (indipendenti) considerazioni di carattere epigrafico (e di storia della ricerca). Infine, c’è il fatto che, ove letto come f, il segno della stele di Vetulonia presenterebbe una struttura assolutamente peculiare (anche dal punto di vista delle modalità di esecuzione: il normale segno a 8, angolare o curvilineo che sia, comporta comunque una contiguità nel tracciato dei due elementi che lo compongono, a differenza dei due cerchietti uniti da un trattino della stele), che andrebbe comunque giustificata. 17. Nelle pagine che precedono abbiamo presentato e discusso una serie di fatti che contrastano una lettura f del segno presente sulla stele di Vetulonia, accanto ad un’altra serie di fatti che ne raccomandano una lettura come theta. A mio avviso, una lettura come f, in base a quanto suesposto, si salva solo immaginando che f sia una correzione a partire da theta. Ma si tratta di una pura ipotesi ad hoc, che niente in quanto sappiamo sull’iscrizione sembra autonomamente corroborare. Naturalmente, ferma restando la non pariteticità delle due letture, corre comunque l’obbligo di descrivere e valutare le implicazioni onomastiche di ognuna di esse. La lettura corrente ci consegna un nome Feluske(s´), con funzione di gentilizio, per il quale si è proposto un collegamento con l’etnonimo Faliscus, del quale rappresenterebbe la resa etrusca, secondo una trafila (etnonimo > gentilizio) altrimenti documentata nell’Italia antica.74 Il nome Feluske(s´) non risulta presente, in questa forma, nel repertorio onomastico etrusco. Esiste altresì un gentilizio Veluske su un frammento di anfora vinaria della seconda metà del iv secolo a.C.,75 sovrapponibile a Feluske(s´) salvo per la presenza di iniziale. L’idea, in partenza proponibile,76 che si tratti di una variante dello stesso nome, con iniziale invece di , si scontra, a mio avviso, con la inesistenza di una variazione tra e in posizione iniziale nella documentazione dell’etrusco: la presenza regolare e senza oscillazioni grafiche, in una data zona, di un gentilizio come felusna77 a fronte della altrettanto regolare presenza, in altra zona, del tipo velusna,78 o di felsna79 a fronte di velsna80 sembra indirizzare piuttosto verso la possibilità di due formazioni diverse, una in base fel- e una in base vel-. Sono viceversa indizio di variabilità le oscillazioni grafiche del tipo scefi81 vs. scevi-,82 o l’etnonimo mefanates´83 documentato in a fronte dell’etnico Mevanates delle fonti,84 che rimandano a oscillazione tra [f] (o meglio, [Ê]) e la sua controparte indebolita [w]:85 ma il 77 ET as 1.140, Cl 1.474-175. 78 ET Vt 1.28, 1.115, 2.23, 4.1, 4.6. 79 ET Ta 1.107. 80 ET Co 1.13, 1.11; Pe 1.4. 81 ET Pe 1.630. 82 ET Pe 1.631. 83 ET Co 1.3. 84 Giacomelli 1970, pp. 145-146. 85 Per Poccetti (1997, p. 289) l’oscillazione grafica tra e corrisponderebbe piuttosto a «una realizzazione di fricative labiodentali, distinte in base al tratto di sonorità»: cioè, con [f] oscillante con [v], e non con [w] come qui enunciato. Di fatto, in rapporto all’insieme della documentazione etrusca, il valore da attribuire a non può essere che quello della semiconsonante [w], e non della fricativa sonora [v]: così la communis opinio, largamente supportata da fatti come le alternanze di con , o il valore di nell’alfabeto greco modello.

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luciano agostiniani

fenomeno appare limitato al contesto tipico dell’indebolimento, quello intervocalico.86 A Feluske(s´) potrebbe collegarsi il gentilizio Felescenas´ riconosciuto in as 1.40: ma la lettura si fonda (il pezzo è perduto) su un apografo di Gori (cfr. ad CIE 300), ed è del tutto ipotetica. Il nome £eluske(s´) cui rimanda una lettura del primo segno come theta è un hapax al pari di Feluske(s´). Non è però, quanto alla base onomastica, del tutto isolato: ıelu, nome di una carica pubblica,87 è attestato due volte a Musarna, e una forma ıelazu, con funzione di gentilizio, compare sei volte a Chiusi.88 Nel lasso di tempo intercorso tra la consegna del testo per la pubblicazione e le prime bozze di stampe è uscito, sulla Stele di Vetulonia e la sua iscrizione, uno studio importante di Adriano Maggiani (A. Maggiani, Avele Feluskes. Della Stele di Vetulonia e di altre dell’Etruria settentrionale, «Rivista di Archeologia», xxxi, 2007, pp. 67-75), che non può evidentemente essere qui integrato. I punti di sovrapposizione tra l’analisi di Maggiani e la mia mi sembrano comunque abbastanza scarsi e marginali.

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L ETTERE E I MMAG I NI : ES EM PI ETRU SCHI DI PARO LA I SP I RATA Giovanna Bagnasco Gianni Hanno delle istituzioni, godono della presenza di un re, usano un linguaggio basato su concetti generici, credono, al pari degli ebrei e dei greci, nella radice divina della poesia e intuiscono che l’anima sopravvive alla morte del corpo. Affermano la verità dei castighi e delle ricompense. Rappresentano, insomma, la cultura così come la rappresentiamo noi, malgrado i nostri molti peccati. Non mi pento di aver combattuto nelle loro file contro gli uomini-scimmia. Abbiamo il dovere di salvarli. Spero che il Governo di Sua Maestà non ignori ciò che osa suggerire questo rapporto. J. L. Borges, Il manoscritto di Brodie, Milano, 1999

L

a parola ispirata in Etruria attiene alla divinazione e alla comunicazione che dal sovrumano procede verso l’umano. La domanda che pongo in questo contributo è se esista un procedere in senso inverso, espresso dalla sfera semantica che fa perno su ara, possibile prestito greco in etrusco. Offro a Giovanni Colonna un tentativo di risposta a partire da alcuni esempi cercando di coniugare la ricerca su lettere e immagini sulla linea del Suo magistero e nei percorsi al contorno degli studi epigrafici.1 Due recenti voci enciclopediche a cura di A. Maggiani hanno messo ordine nel campo semantico della religione etrusca nei suoi cardini principali, rappresentati dai modi di divinazione da un lato2 e dai rituali della preghiera dall’altro.3 La disamina dei contesti di riferimento in termini di luogo e destinazione permettono ormai un’agile consultazione del patrimonio di conoscenza a disposizione e un inquadramento di ciò che si intende per parola ispirata all’interno del-

la categoria ciceroniana dei genera naturalia.4 La maggiore incidenza di rappresentazioni di scene, centrate sulla parola ispirata rispetto a quella di santuari oracolari citati nelle fonti,5 è stata spiegata collocando tali scene sia alle origini dei miti di fondazione della disciplina etrusca,6 sia nel quadro delle pratiche divinatorie connesse al matrimonio.7 Entrambe le tesi convergono sulla negazione da parte di Cicerone del ricorso a livello istituzionale a pratiche divinatorie di tipo ispirato, meno controllabili e dunque pericolose rispetto a quelle affidate alla tecnica e alla competenza dell’autorità religiosa preposta. In un recente lavoro ho sostenuto che negli specchi ben noti, cosiddetti della serie della testa di Orfeo e dello specchio di Cacu,8 è rappresentato uno schema di relazione tra teste che emettono la parola ispirata, inserite in teatri naturali (rocce, piani di campagna, punti dell’etere),9 e personaggi che con la loro attività ne personificano il canale

1 Raccogliendo quanto indicato da Massimo Pallottino nella fecondità della sinergia fra studi epigrafici, archeologici e linguistici (M. Pallottino, I documenti scritti e la lingua, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano, 1986, pp. 208-232, spec. p. 316) da cui scaturiscono molte fra le illuminanti pagine sulla storia e la civiltà degli Etruschi a opera di Giovanni Colonna, fra cui la precisazione della sfera semantica di ara (Colonna 1985). 2 Maggiani 2005a. 3 Maggiani 2005b. 4 L’argomento è stato oggetto di attenzione negli anni Ottanta: F. H. Pairault-Massa, La divination en Etrurie. Le iv ème siècle, période critique, in Divination 1985, pp. 56-112; A. Maggiani, La divination oraculaire en Etrurie, in Divination 1986, pp. 6-48; Id., Immagini di aruspici, in A tti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco (Firenze, 26 maggio-2 giugno 1985), a cura di M. Cristofani, Roma, 1989, pp. 1557-1563). In seguito è stato variamente ripreso (Bagnasco Gianni 2001) e poi trattato negli ultimi lavori: Maggiani 2005a, pp. 53-71; The Religon of the Etruscans, a cura di N. Thomson de Grummond, E. Simon, Austin, 2006, passim. 5 Maggiani 2005a, pp. 69-71 e 74 (per l’oracolo di Thetys a Pyrgi); Colonna 2001. 6 D. Briquel, Le paradoxe étrusque: une parole inspirée sans oracles prophétiques, «Kernos», 3, 1990, pp. 67-75, spec. p. 71. 7 Maggiani 2005a, p. 70. 8 Rimando per la bibliografia e le immagini ai recenti contributi: Ambrosini 2006, pp. 207-209; de Grummond 2006, fig. ii.10 (specchio da Chiusi, Siena, Museo Archeologico, ex Raccolta Bonci Casuccini, inv. 176); fig. ii.5 (esempio da Bolsena, London, British Museum, inv. GR 1873.8-20.105). 9 Voce Urphe, in LIMC, Suppl., pp. 405-407. In tale contributo ho proposto di riconoscere un tratto di fondo rilevante nell’ambito delle concezioni religiose etrusche nelle teste parlanti con funzione di comunicazione dal sovrumano all’umano, forse già all’origine della fondazione della disciplina religiosa etrusca. Negli studi tale fenomeno, che arriva alle più tarde rappresentazioni della ceramica argentata (L. M. Michetti, Le ceramiche argentate e a rilievo in Etruria nella prima età ellenistica, Roma, 2003, pp. 52-

53), è stato infatti osservato anche dal punto di vista della connessione con la forza di comunicazione degli elementi naturali come il vento (L. Luschi, Cacu, Fauno e i venti, «StEtr», lvii, 1991, pp. 105-117; Briquel 1993, p. 85), sulla base dell’indagine avviata a suo tempo da M. Cristofani (M. Cristofani, Faone, la testa di Orfeo e l’immaginario femminile, «Prospettiva», 42, 1985, pp. 2-12). In tali ricerche il centro dell’attenzione è posto tuttavia sui personaggi di volta in volta meglio riconoscibili che diventano i protagonisti dell’evento divinatorio, come ad esempio Orfeo, Fauno o Cacu (Maggiani 2005a, p. 69; Ambrosini 2006, pp. 207-209). Avvalendomi ora: 1) della recente tesi di N. de Grummond, che ha riunito le teste che scaturiscono dalla terra considerate espressione di un unico fenomeno denominato talking heads e poste in connessione con le teste gorgoniche (de Grummond 2006, pp. 33-37, cui potremmo accostare “teste e testoni silenici con allusione simbolica all’Oltretomba” delle stele felsinee (G. Colonna, Riflessioni sul dionisismo in Etruria. Appendice: Le tombe tarquiniesi dei Camna, in Dionysos. Mito e mistero, Atti del convegno internazionale [Comacchio, 3-5 novembre 1989], Ferrara 1991, pp. 117-155, spec. p. 118; C. Pizzirani, Da Odisseo alle Nereidi. Riflessioni sull’iconografia etrusca del mare attraverso i secoli, in Ocnus 13, 2005, pp. 251-270, spec. p. 262 per la testimonianza delle stele felsinee); 2) degli aspetti già notati da I. Krauskopf sul potere di tali teste (Krauskopf 1988, p. 316; J.-P. Vernant, La voce della Gorgone, in Musica e mito nella Grecia antica, a cura di D. Restani, Bologna 1995, pp. 189-202; L. Cerchiai, Gorgous ommata, in Iconografia 2005. Immagini e immaginari dall’antichità classica al mondo moderno, Atti del Convegno internazionale (Venezia, Istituto veneto di scienze lettere e arti, 26-28 gennaio 2005), a cura di I. Colpo, I. Favaretto, F. Ghedini, Roma 2006, pp. 65-69; 3) delle similitudini a suo tempo riscontrate nell’ambito del bacino del Mediterraneo con le teste di Osiris e Orpheus (W. Deonna, Orphée et l’oracle de la tête coupée, «REG», 1925, pp. 44-69, spec. pp. 55, 63); sono pervenuta a attribuire a tali teste e ai personaggi che intorno a esse gravitano il valore di uno schema che, pur con diverse varianti, permane costante fin dai tempi dell’anfora di Würzburg di cui si dirà subito di seguito.

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giovanna bagnasco gianni

Fig. 1. Anfora di Würzburg, vaso intero (da Pairault Massa 1992, fig. 1).

espressivo, ovvero scrittura e canto. Nel primo caso i personaggi sono dotati di un dittico (Talmithe, Aliunea/Alpunea, Artile), nel secondo sono accostati alle Muse in un contesto Apollineo e con diretto riferimento al canto (Umaele, riferito al cantore greco Eúma¯ los), oppure sono dotati di strumento musicale come Cacu.10

La cronologia di tale schema potrebbe essere molto alta se anche la scena rappresentata sull’anfora di Würzburg (anni centrali della prima metà del vii secolo a.C.) vi si riferisse (Fig. 1).11 Elementi principali sono infatti un cantore ispirato, che regge uno strumento a sette corde, cinque personaggi coinvolti in una danza acrobatica di cui tre armati e una testa dalle fattezze mostruose collocata in alto. Alcuni dettagli della testa, quali il motivo triangolare al centro della fronte e il taglio obliquo degli occhi, sono gli stessi delle Gorgoni della contemporanea anfora protoattica di Eleusi (Fig. 2),12 recante la scena della decapitazione di una di esse. Tenendo presente che la testa della Gorgone ha, secondo alcuni autori, un potere comunicativo molto vicino a quello delle teste parlanti di cui si è detto, colpisce il modo in cui sull’anfora di Würzburg è resa la bocca formata da un doppio angolo contrapposto,13 che sembra stilizzare l’atteggiarsi delle labbra per un’emissione di fiato forte, come quando si urla. Questo stesso motivo è replicato, alternato a una serie di elementi sinuosi al di sopra del livello occupato dai personaggi danzanti, tanto da far pensare che sia stato volutamente ripetuto al di fuori della testa. Se coglie nel segno il fatto che il motivo indichi una bocca che emette un urlo, la sua reiterazione potrebbe rappresentarne la propagazione nell’etere.14 In particolare D. Briquel si è occupato di questi suoni oscuri, quando connessi alla foresta, attribuendovi il significato di voci e ponendole sul piano di una parola ispirata che giunge all’umano attraverso una percezione particolare, che può prescindere dalla comprensione a livello di lingua e risuonare nell’intimo del ricevente.15 A distanza di tempo rispetto alla testimonianza dell’anfora di Würzburg, ma restando nell’ambito del medesimo schema, il tratto è palese anche nel gesto del dubbio e della meditazione del personaggio che si trova di solito sulla quinta di destra degli specchi recanti il cosiddetto vaticinio di Orfeo, dotato in due casi di dittico la cui lettura è finora impossibile.16 Nello schema così recuperato il ruolo dei personaggi preposti a raccogliere il responso è esaltato dalla presenza

Fig. 1. Anfora di Würzburg, sviluppo del registro mediano (da Simon 1995, fig. 2). 10 Mi sono occupata della questione in due lavori con destinazione diversa in cui ho ripreso anche la questione del prestito dal greco Eúma¯ los, a suo tempo accantonata in letteratura, con altre motivazioni: The importance of being Umaele, in Etruscan by Definition, Papers in honour of Sybille Haynes, MBE (London, 8 December 2006), a cura di P. Perkins, J. Swaddling, London 2009, pp. 48-53; voce Umaele, Umaile, in LIMC, Suppl., pp. 492-493. Sullo schema – personaggio che comunica la parola ispirata, personaggio che la raccoglie e personaggio/i in ascolto – si veda anche P. Poccetti, “Fata canit foliisque notas et nomina mandat”. Scrittura e forme oracolari nell’Italia antica, in Sibille 1998, pp. 75-105, spec. p. 76. Per il rapporto fra Cacu etrusco e Caco romano si vedano: D. Briquel, A proposito della profezia dell’aruspice veiente, in La profezia nel mondo antico, Milano, 1993, pp. 169-185, spec. pp. 182183; L. Cerchiai, La storia di Caco re, in Aeimnestos 2005, pp. 491-495, spec. p. 491. Per le valenze mantiche, da ultimo: L. Cerchiai, Eracle, il lupo mannaro e una camicia rossa, «Ostraka», v, 1-2, 1998, pp. 39-44, spec. p. 43. 11 Dell’esegesi dell’anfora, con posizioni differenti, si sono occupati: Martelli 1988; Pairault Massa 1992; Simon 1995; Ead., Argonauten beim Waffentanz, in Schriften zur etruskischen und italischen Kunst und Religion, a cu-

ra di E. Simon, Stuttgart, 1996, pp. 99-104; Menichetti 1998; M. Martelli, Nuove proposte per i Pittori dell’Eptacordo e delle Gru, «Prospettiva», 101, 2001, pp. 2-18. 12 Krauskopf 1988, p. 313, n. 312. Recenti considerazioni sono state fatte sulla presenza di ceramografi attici in Etruria (A. Giuliano, Protoattici in Occidente, in Aeimnestos 2005, pp. 64-72) mentre il loro riflesso era già percepibile nella ceramica di impasto locale alla medesima quota cronologica a Tarquinia (Bagnasco Gianni 1996, pp. 174-177). 13 Martelli 1988, p. 290. Per esempi più tardi di resa grafica di parola proferita da un essere soprannaturale: de Grummond 2006, p. 63, fig. iv .11. 14 Per questi aspetti di resa di un trascorrere delle immagini mi riferisco alla tesi espressa in: A. Snodgrass, An Archaeology of Greece, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1987, pp. 166-169. 15 Briquel 1993, pp. 81-82. 16 I testi finora sembrano volutamente illeggibili sui dittici presenti sullo specchio da Chiusi – annoverato tra i testi enigmatici etruschi già al tempo del suo primo editore (R. Bianchi Bandinelli, Clusium. Ricerche archeo-

lett e re e im m agini: es empi etrus chi di parola is pir ata

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Fig. 2. Anfora di Eleusi, particolare del registro mediano (da P. E. Arias, L’arte della Grecia, Torino, 1967, p. 103, fig. 144).

degli astanti che lo attendono o lo ascoltano. Essi appartengono a ambiti assai diversi se si pensa alla coppia maritale (specchi del cosiddetto vaticinio di Orfeo) e agli armati (anfora di Würzburg e specchio di Cacu con i fratelli Vibenna), ma anche al popolo accorso a ascoltare Tages e Tarconte, così come ne riferiscono ai due estremi cronologici Cicerone e Lido.17 È interessante osservare come in Lido l’episodio contenga il riferimento a due modi diversi di comunicazione: âÓ > ˘Óı¿ÓÂÙ·È ÌbÓ ï T¿Ú¯ˆÓ Ù” ÙáÓ \IÙ·ÏáÓ Ù·‡Ù– Ù” Û˘Ó‹ıÂÈ ÊˆÓ”, àÔÎÚ›ÓÂÙ·È ‰b ï T¿Á˘ ÁÚ¿ÌÌÌ·ÛÈÓ àÚ¯·›ÔȘ Ù ηd Ôé ÛÊfi‰Ú· ÁÓˆÚ›ÌÔȘ ìÌÖÓ Á âÌÌ¤ÓˆÓ ÙáÓ àÔÎÚ›ÛˆÓ.18 Tale asimmetria,19 sembrerebbe comunque

indicare la necessità di segnare il piano della parola ispirata, che necessita di interpreti con funzione di tramite, in modo diverso rispetto al piano della parola comune di cui questi ultimi si servono. Del resto anche la divinazione di tipo tecnico affidata alle sortes, trovandosi per il suo carattere di casualità al limite fra i due generi (ars o natura), necessita di un tramite.20 Per ciò che attiene invece alla comunicazione che dall’umano procede verso il sovrumano nelle scene figurate è, come si è detto, evidente la presenza di un pubblico intereslogiche e topografiche su Chiusi ed il suo territorio in età etrusca, «MonAnt», xxx, 1925, coll. 209-578, spec. col. 547; G. Buonamici, Epigrafia Etrusca, Firenze, 1932, p. 394; M. Buffa, Nuova Raccolta di iscrizioni Etrusche, Firenze, 1935, pp. 101-102, n. 293; A. J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz, 1975, p. 379; I. Krauskopf, in LIMC, i, 1, 1981, pp. 529-531, s.v. Aliunea, spec. p. 530) – e da Castelgiorgio: G. Camporeale, LIMC, viii, 1, 1997, pp. 158-159, s.v. Umaele, Umaile, Umaele.3; L. B. van der Meer, Interpretatio Etrusca. Greek myths on Etruscan mirrors, Amsterdam, 1995, pp. 86-93, fig. 35. Sui dittici nell’ambito dei supporti per scrivere: D. Briquel, Les tablettes à écrire étrusques, in Les tablettes à écrire, de l’antiquité à l’époque moderne (Actes du colloque international du Centre national de la recherche scientifique, Paris, 10-11 octobre 1990), a cura di E. Lalou, Turnhout, 1992, pp. 187-202, spec. pp. 195-196. 17 Sulla consistenza di questo pubblico in rapporto alla storia di Tarquinia e alla storia dell’Etruria: M. Torelli, “Etruria principes disciplinam doceto”. Il mito normativo dello specchio di Tuscania, in Studia Tarquiniensia, Roma, 1988, pp. 109-118, spec. p. 116; Briquel 1991, pp. 161-162; Sordi 2003, p. 718. 18 Ioannes Lydus, De ostentis, 3 (sottolineature dell’A.); per una recente edizione: Giovanni Lido, Sui segni celesti, Milano, 2007, a cura di I. Domenici. 19 Asimmetria che potrebbe essere imputabile alla scrittura (M. Lejeune, A-t-il existé un syllabaire tyrrhénien?, «reg», 80, 1967, pp. 40-59, spec., pp. 53-54) o al diverso linguaggio impiegato nei testi traditi fino alla Costanti-

sato, ma le scene figurate non indicano i modi in cui procede la richiesta. Se da un lato le fonti letterarie informano che, in determinati casi, nell’atto del pregare e divinare sono implicate figure che fanno da tramite,21 possiamo ricorrere dall’altro alla testimonianza interna all’etrusco per tentare di comprendere come si svolgessero nella prassi tali domande assistite. È per esempio grazie alla testimonianza del Liber Linteus che ci si può domandare se anche in questo caso si possa parlare di un canale di comunicazione speciale vicino a quello della parola ispirata. A suo tempo H. Rix ha dimostrato come lo stile della preghiera del Liber Linteus sia rigoroso, ben riconoscibile e distinto, rispetto a quello delle prescrizioni rituali caratterizzate da parole identiche e corrispondenti disposte secondo un ordine fisso. A. Maggiani ha notato in proposito come questi aspetti diano «l’idea di una ritmica cadenzata», così come succede nelle tavole di Gubbio.22 Ritrovare negli studi dedicati da G. Colonna a Pyrgi un riferimento a una cadenza ritmata, anche nella lamina bronzea dell’area C, nonché un accostamento ai «carmina latini preletterari, del genere di quelli dei Salii», mi incoraggia ora a proseguire su questa linea, nella ricerca delle modalità di nopoli del vi secolo d.C.: etrusco per Tages, latino per Tarconte (Briquel 1991, pp. 534-544). Diversità da sottolineare specialmente se si tiene conto dell’epoca tarda, in cui non avrebbe più dovuto esserci differenza fra scienza religiosa etrusca e latina (Briquel 2009, p. 170). 20 Sulla necessità di ricercare una modalità del contatto: Briquel 1993, p. 84. Le sortes e i gettoni di qualsivoglia tipo hanno ad esempio anch’essi carattere casuale e si trovano al limite delle possibilità di controllo da parte istituzionale. Pertanto se da un lato la documentazione relativa alla parola ispirata può essere stata relegata al tempo mitico delle origini, dall’altro forme di divinazione ispirate al caso e necessitanti e passibili di controllo, perché bizzarri comunque e ingovernabili al di là della del canale di comunicazione del parlato, dovevano comunque sussistere (Bagnasco Gianni 2001; Maggiani 2005a, p. 73-74). 21 L’anello di congiunzione fra il manifestarsi di un prodigio e la supplica ordinata dagli aruspici esiste (Maggiani 2005b, p. 144, n. 5), così come è fatto cenno anche a un caso di presenza di aruspice mentre è scontata la presenza di sacerdoti (ivi, p. 147). Più complessa è la scena su cui ha attirato l’attenzione G. Colonna a proposito della preghiera connessa al sacrificio cruento nell’ambito della quale sembrano indicati ruoli ben precisi: Colonna 1997a, pp. 195-216, spec. p. 204. 22 H. Rix, Les prières du Liber Linteus de Zagreb, in Étrusques 1997, pp. 391398, spec. p. 392; Maggiani 2005b, pp. 145 e 149.

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Fig. 3. Iscrizione sul calice su piede in ceramica di impasto dalla tomba 7 del sepolcreto in contrada Morgi a Narce. (da Pandolfini 1990, p. 22).

resa della comunicazione dall’umano al sovrumano: il riferimento ai carmina della religione romana ci riporta infatti a uno strumento di comunicazione in cui la cadenza ritmata giuoca un ruolo fondamentale nei due sensi.23 Ciò che accomuna questi pochi ma significativi esempi etruschi è dunque il ritmo, che con la sua cadenza può assolvere le esigenze di resa di un linguaggio distinto dall’ordinario anche per ciò che attiene all’umano e da intendersi dunque come linguaggio ispirato.24 Può così diventare superflua la comprensione a livello di lingua come del resto accade per il greco.25 Tornando alla documentazione epigrafica etrusca può essere utile osservare che fin dall’epoca orientalizzante abbiamo esempi di lettere utilizzate per rendere sillabe, cantilene e stringhe di caratteri, espressive di un puro ritmo, che prescinde dalla comprensione a livello di lingua e acquisisce una dimensione grafica data dalla reiterazione delle stesse lettere che, una volta pronunciate, ne restituiscono anche la dimensione sonora.26 In particolare due oggetti iscritti databili ancora al vii secolo a.C. e di provenienza diversa possono concorrere all’indagine. Si tratta del calice su piede in ceramica di impasto dalla tomba 7 del sepolcreto in contrada Morgi a Narce (Fig. 3)27 e dell’anforetta in

bucchero dal tumulo Monte Acuto di Formello a Veio (Fig. 4).28 In entrambi i casi sono presenti la serie alfabetica e il lemma ara, noto in iscrizioni arcaiche e recenti,29 nonché nei testi etruschi maggiori (Liber Linteus, Tabula Capuana), ma non ancora pienamente interpretato in etrusco.30 Secondo G. Colonna “La sfera semantica di ara, considerato il rapporto etimologico con arce, «fece», e aril, «colui che sorregge» (M. Durante, in «St. Etr», xli, 1973, p. 193 sgg.), sarà quella della «cosa fatta come dono» o «portata in dono».31 Considerando quanto finora esposto può essere utile ricordare che una identica parola esiste in greco e sta a significare tanto il termine preghiera, quanto ex-voto.32 Per quanto riguarda la prima accezione, secondo la tesi di D. Aubriot-Sévin ará è praticamente intraducibile con una altrettanto unica parola delle lingue moderne, non essendo soddisfacente la traduzione con termini pertinenti all’ambito della maledizione, in base ai contesti linguistici di pertinenza. Ará sarebbe traducibile piuttosto nel campo semantico dell’ordine del mondo e della dike con riferimento agli aspetti inerenti al suo mantenimento e ristabilirsi in seguito a episodi di crisi. In tale contesto risulta centrale la differenza fra magia e propagazione automatica della norma

23 G. Colonna, Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea, «ScAnt», 10, 2000 (2002), pp. 251-336, spec. pp. 298-303 e p. 301 (per la citazione). La presenza di Carmenta a Pyrgi (area Sud), una delle figure divine più vicine ai modi del linguaggio profetico (Colonna 1997b, p. 180), riconduce ai rapporti fra Carmenta e Canens e al fatto che tali figure profetiche siano connesse più al canto modulato che alla parola articolata (Guittard 1999, pp. 175-177) riportandole nel quadro di quelle forme letterarie preenniana di prosa metrica, diverse da esametro e saturnio: C. Guittard, La tradition oraculaire étrusco-latine dans ses rapports avec le vers saturnien et le carmen primitif, in Divination 1985, pp. 33-55, spec. p. 39 e pp. 4647; Id., Questions sur la divination étrusque, in Étrusques 1997, pp. 399-412, spec. pp. 407-408 (ma con una direzione che privilegia l’apporto del latino). Su questi aspetti, dal punto di vista dell’evidenza interna alle lingue dell’Italia Antica, ma in collegamento con l’etrusco: A. L. Prosdocimi, Sul ritmo italico, in Studi di linguistica e filologia, ii, 2, Charisteria Victori Pisani oblata, a cura di G. Bolognesi, C. Santoro, Galatina, 1992, pp. 347-410, spec. p. 366. 24 Abbiamo il caso della ‘preghiera sconosciuta e silenziosa’ rilevato in Lucano e posto nel suo contesto etrusco di appartenenza (Maggiani 2005b, p. 147) non lontano da ciò che si dice della religione romana a proposito dei linguaggi desueti, delle «abbreviazioni oscure di formule augurali», degli ‘arcani sermones’ (M. Torelli, Contributi al supplemento del CIL ix , «RendLinc», xxiv, 1969, pp. 9-48, spec. p. 42; A. Grandazzi, Le roi et l’augure. A propos des “auguracula” de Rome, in Divination 1986, pp. 122-153). 25 Aubriot-Sévin 1992, p. 28 e pp. 166-169. L’importanza di comprendere questi testi, altrimenti poco perspicui, nel caso di eventi cruciali è percepibile anche e contrario nella tradizione latina nel caso di Appio Claudio che non pronuncia ‘formule vane’: P. Cipriano, Templum, Roma, 1983, pp. 109-110. 26 Ho proposto di interpretare tali documenti nell’ambito del sacro (Bagnasco Gianni 2005, pp. 84-88) diversamente dalla dimensione magica (S. Marchesini, Magie in Etrurien in orientalisierender Zeit, in Der Orient

und Etrurien. Zum Phänomen des Orientalisierens im westlichen Mittelmeerraum, 10.-6. Jh. v.Chr. (Akten des Kolloquiums, Tübingen, 12-13 Juni 1997), Pisa, 2000, p. 305-313, Eadem, Il coppo iscritto di Bovino, Foggia, 2004, pp. 2134) postulata su una documentazione più tarda che da epoca ellenistica (Ephesia grammata) arriva fino alla più tarda trasformazione di epoca imperiale nelle voces magicae: H.S. Versnel, The Poetics of the Magical Charm: An Essay on the Power of Words, in Magic and ritual in the ancient world, a cura di P. Mirecki, M. Meyer, Leiden, 2002, pp. 105-158, spec. pp. 114-115; Bevilacqua 2001, pp. 129-150, spec. pp. 129-133; M. Piranomonte, Piazza Euclide. La fontana di Anna Perenna, in Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980-2006, a cura di M. A. Tomei, Milano, 2006, pp. 190-196, spec. pp. 194-196. È da notare tuttavia che anche le preghiere dei “papiri magici” e le formule prive di senso sono considerate come le più efficaci formule di invocazione alla divinità: P. Cox Miller, In praise of nonsense, in Classical Mediterranean Spirituality. Egyptian, Greek, Roman («World Spirituality: an Encyclopedic History of Religious Quest», 15), a cura di A. H. Armstrong, Londra 1986, pp. 481-505. 27 Bagnasco Gianni 1996, p. 153-155, n. 128. 28 CIE, 6673; vedi Bagnasco Gianni 2005, p. 87; Maras 2009, pp. 241242. 29 Maras 2009, pp. 242-243. Ringrazio Daniele Maras per avermi fatto consultare lo scritto quando era ancora in corso di stampa e per l’utile dibattito che ne è conseguito. 30 L. Agostiniani, La sequenza eiminipicapi e la negazione in etrusco, «Archivio Glottologico Italiano», lxix, 1984, pp. 84-117, spec., pp. 109-110 e nota 44; M. Cristofani, Tabula Capuana. Un calendario festivo di età arcaica, Firenze, 1995, pp. 49, 92 e nota 77. 31 Colonna 1985. 32 Per una disamina dell’interpretazione linguistica di ará in rapporto alla testimonianza epigrafica e alla concretezza dell’azione, si veda Masson 1987.

lett e re e im m agini: es empi etrus chi di parola is pir ata

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Fig. 4. Anforetta in bucchero dal tumulo Monte Acuto di Formello a Veio (da Pandolfini 1990, p. 25, tav. vi).

cosmica e sociale, nonché la relazione tra maledizione verso chi dissesta l’ordine e esaltazione di chi lo mantiene o ristabilisce. Da ciò consegue che, come in ogni relazione bipolare, ad un mutamento di un polo corrisponde quello dell’altro polo in misura diametralmente proporzionale.33

La domanda da porsi a questo punto potrebbe riguardare la verosimiglianza di tale imprestito in etrusco a livello di lingua e a livello di cultura. Così come nel primo caso non abbiamo elementi contro, né per ciò che attiene ai passaggi tecnici a suo tempo formulati da C. de Simone34 né a livello

33 D. Aubriot-Sévin ha condotto una disamina di ará (Aubriot-Sévin 1992, pp. 350-401) trattando il concetto nell’ambito della tripartizione delle preghiere in greco (araomai, euchomai, lissomai). Il concetto, legato all’amministrazione del buon ordine della società (ivi, pp. 359-361), è comune e da tempo rilevato per il mondo greco: J.P. Vernant, Parole et signes muets, in Divination et rationalité, a cura di J.-P. Vernant, Paris, 1974, pp. 9-25, spec. pp. 10-22; F. Calabi, Il signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica (Eraclito, 22B93), in BFilGrPadova, iv, 1977-1978, pp. 14-34, spec. p. 17. Può essere interessante ricordare in questa sede anche la preghiera ai fini del ri-

pristino ‘della condizione di diritto’ di cui P. Poccetti si è occupato sul versante dell’osco che sembra però presentare aspetti diversi più marcati in senso individuale: P. Poccetti, L’iscrizione osca su lamina plumbea VE 6: Maledizione o “preghiera di giustizia”? Contributo alla definizione del culto del Fondo Patturelli a Capua, in I culti della Campania antica. Atti del convegno internazionale di studi in ricordo di Nazarena Valenza Mele (Napoli, 15-17 maggio 1995), Roma, 1998, pp. 175-184, spec. p. 182. 34 C. de Simone, Die griechische Entlehnungen im Etruskischen, i-ii, Wiesbaden, 1970, pp. 9-12 (a in sillaba iniziale); pp. 159-160 (liquide); pp. 109-110

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cronologico,35 anche nel secondo caso non sembrano sussistere difficoltà perché una concezione di ordine del mondo è ben presente nella cultura e nella religione etrusca (Censor., 14, 6).36 Altre informazioni possono essere tratte anche dall’allestimento grafico dei due oggetti iscritti da cui siamo partiti (Figg. 3-4), dove il lemma ara risulta associato alla serie alfabetica. Come già a suo tempo osservato da A. L. Prosdocimi l’alfabeto è espressione di una «architettura in atto»37 e potrebbe di conseguenza assumere sia un valore di serbatoio di segni utili a rendere la scrittura,38 sia di produttore di sillabe, che possono procedere a loro volta con un nuovo ordine di cadenze e di ritmi distinti dal piano della parola articolata.39 La serie alfabetica dunque, già riconosciuta come indicatore specifico nelle aree sacre, potrebbe avere anche esplicitato l’idea di ordine del mondo in quanto «architettura in atto», così come già osservato sul versante semitico tra i vari aspetti della concezione religiosa legata all’alfabeto.40 Se poi torniamo ai corredi tombali dei detentori degli oggetti iscritti, che esibiscono l’associazione fra alfabeto e even-

tuale prestito dal greco ara (Figg. 3-4) e di cui si è detto, il loro livello li connota come personaggi di rango che potrebbero avere avuto perciò impatto sociale e eventualmente funzione di tramite fra umano e sovrumano,41 magari proprio attraverso l’espressione di questo particolare agire definito ara.42 In tale ambito il ritmo potrebbe essere stato sufficiente a evocare la dimensione di un altro linguaggio, forse più vicino a quello musicale,43 prescindendo, come si è detto, dalla comprensione della lingua44 e rispondendo almeno a due esigenze. Tale linguaggio consentirebbe infatti da un lato di evitare campi d’azione spontanei nel rapporto con il sovrumano, in quanto linguaggio sorvegliato dal ritmo, e dall’altro di chiedere un intervento di salvaguardia dell’ordine del mondo del quale il sovrumano è garante, indipendentemente dalle forme specifiche e contingenti della richiesta umana. Rivelano questo particolare statuto del sovrumano nella concezione religiosa etrusca tutte le divinità di tipo oscuro e involuto che si trovano a monte delle divinità riconoscibili invece per i loro aspetti antropomorfi.45 Un rituale di preghiera del tipo ara potrebbe a questo punto disporsi

(a in sillaba finale). Da ciò consegue che non abbiamo nemmeno elementi a favore perché la somiglianza, data la semplicità della parola, potrebbe essere solo casuale. Valgono perciò le osservazioni sulla necessità di evidenze extra-linguistiche per chiarire la verosimiglianza di in imprestito nel quadro culturale complessivo dell’evidenza trattata, come a suo tempo osservato da M. Pallottino (cfr. qui nota 1).

culto nel Veneto preromano, «Ocnus», 7, 1999, pp. 179-186, spec. p. 180. Si recupererebbe così un dato a favore dell’interpretazione tradizionale secondo cui la sequenza akeo, presente sulle tavolette, ripetuta per sedici volte corrisponderebbe alla sequenza greca Ùe ôÏÊ· ηd Ùe è, indicante, mediante la prima e l’ultima lettera, il concetto della totalità dell’alfabeto (per una rassegna delle diverse posizioni: A. L. Prosdocimi, in G. B. Pellegrini, A. L. Prosdocimi, La lingua Venetica, ii, Padova-Firenze, 1967, pp. 45-48). A. Marinetti ha recentemente proposto che si tratti invece della lista delle cinque vocali del venetico, a i u e o, ove i e u sarebbero legate a formare il presunto k di akeo perché nelle linee da 2 a 5 «le lettere sono appoggiate al riquadro e ne utilizzano una parte come proprio tratto» (Marinetti 2002, p. 49). Tuttavia si può considerare che la coerenza interna della semantica grafica, come del resto viene enunciato all’inizio dalla stessa A. Marinetti, impone da un lato che le lettere a e e siano costruite utilizzando un lato del riquadro della griglia, che costituisce il tratto verticale portante rispettivamente dell’occhiello di a e dei tre tratti paralleli di e, e impone dall’altro che anche la lettera, che in genere segue la a, sia costruita nel medesimo modo. Pertanto anche il presunto u si appoggia a un tratto verticale portante, formando la lettera k. Ciò appare provato dalla lettura akeo che la stessa A. Marinetti propone per una delle tavolette alfabetiche (Marinetti 2002, p. 162, n. 54: ig 1627) ove è assente la griglia di base: mancando il riquadro tutte le lettere sono complete del proprio tratto verticale, perciò la lettera che segue a nella sequenza è da leggersi k. Inoltre la sequenza akeo, intesa come congiunzione della prima e ultima lettera dell’alfabeto (Ùe ôÏÊ· ηd Ùe è), avrebbe un precedente pressoché analogo di più di un secolo prima (fine del vii secolo a.C.) nella sequenza di lettere dipinte sull’aryballos della tomba 863 della necropoli di Casale del Fosso a Veio. Qui, una serie di lettere riunite per forma, sono introdotte da un insieme di tre lettere che riassumono la sequenza completa dell’alfabeto: ABø (Bagnasco Gianni 1996, pp. 129-131, n. 109). Alla luce di ciò è possibile dunque riesaminare la possibilità che sulle tavolette alfabetiche atestine, oltre alla lista consonantica e alla lista di nessi consonantici, non sia presente una lista vocalica (Marinetti 2002, p. 51), ma piuttosto la sequenza akeo, dichiarante il concetto di alfabeto. Se così fosse, ci si può domandare se anche le tavolette atestine non possano mostrare una creatività nella formazione delle sillabe a partire dalla sequenza alfabetica, in modo non diverso da quanto accade per le serie di lettere etrusche che più di un secolo prima accompagnavano gli alfabetari (Bagnasco Gianni 2005). 41 Per lo statuto di questi personaggi si veda il caso di Tarquinia, da ultimo: M. Bonghi Jovino, Tarquinia. Monumenti urbani, in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale: Veio, Caere, Tarquinia, Vulci (Atti del xxiii Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Roma, 1-6 ottobre 2001), PisaRoma, 2005, pp. 309-322. 42 In questo senso quanto propone M. Menichetti – a proposito di una connessione fra la scena dell’anfora di Würzburg e la danza saliare, con il suo valore normativo nella disciplina di crescita dei giovani, nonché con il livello aristocratico del suo svolgimento (Menichetti 1998, p. 80) – non contrasta con la tesi sostenuta in questa sede. 43 Linguaggio verosimilmente sostenuto da elementi metrici e prosodici come lasciano intravvedere gli studi sul rapporto fra dimensione musicale e religiosa etrusca: J. R. Jannot, La musique dans les rituels étrusques, in Chanter les dieux 2001, pp. 183-194. Si veda anche il riferimento alla profezia cantata del Lago Albano: Maggiani 2005a, pp. 69-70, n. 139. 44 Aubriot-Sévin 1992, pp. 25, 386; C. Grottanelli, Possessione e visione nella dinamica della parola rivelata, in Sibille 1998, pp. 43-52, spec. pp. 43-44. 45 D. Briquel, La religion étrusque à la fin de la période impériale. Tagès

35 Per restare nel campo della religione, la cronologia dei prestiti di nomi divini greci in etrusco risalirebbe all’viii secolo a.C. (Maggiani 1997, p. 432) contestualmente con quella dei prestiti indicanti la funzione degli oggetti d’uso nella sfera del sacro: G. Bagnasco Gianni, Imprestiti greci nell’Etruria del vii secolo a.C.: osservazioni archeologiche sui nomi dei vasi, in Dall’Indo a Thule: i Greci, i Romani, gli altri (Atti del Convegno Internazionale di Studio, Trento, 23-25 febbraio 1995), a cura di A. Aloni, L. Definis, Trento, 1996, pp. 307-318. 36 Per i fondamenti: M. Pallottino, Etruscologia, Milano, 1977, pp. 248249; Bevilacqua 2001, p. 133; Sordi 2003, p. 724; Maggiani 2005a, p. 53; M. Sannibale, Tra cielo e terra. Considerazioni su alcuni aspetti della religione etrusca, «StEtr», lxxii, 2006, pp. 117-147, spec. pp. 141 e 145. Si vedano inoltre, esclusivamente per i riferimenti al concetto di ordine del mondo e rispondenze cosmiche: U. Bianchi, Gli dei delle stirpi italiche, in Popoli e Civiltà dell’Italia Antica, vii, Roma, 1978, pp. 197-236, spec. p. 215; M. Torelli, La Religione, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano, 1986, pp. 159-237, spec. pp. 162-163. Per ciò che attiene a una percezione del senso della precarietà degli equilibri e della necessità del mantenimento degli stessi nella civiltà etrusca, ho recentemente sostenuto una lettura in tal senso analizzando uno dei documenti figurati più antichi: Aristonothos. Il vaso, in Aristonothos. Scritti per il Mediterraneo Antico, 1, a cura di F. Cordano, G. Bagnasco Gianni, Milano, 2007, pp. v-xv. 37 A.L. Prosdocimi, Le lingue dominanti e i linguaggi locali, in Lo spazio letterario di Roma antica, ii. La circolazione del testo, a cura di G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Roma, 1989, pp. 11-91, spec. p. 13. 38 G. Bagnasco Gianni, i. Oggetti iscritti e fatti grafici, in G. Bagnasco Gianni, G. Rocca, Note su alcune iscrizioni dell’Italia centrale, «Aevum», 1, 1995, pp. 31-60. 39 Le sillabe, scisse dalla serie alfabetica, ma da essa gemmate, potrebbero risuonare come parole per l’appunto non articolate e distinte dall’ordinario. Un esempio potrebbe essere il piatto da Tarquinia, con iscrizione dipinta prima della cottura, in cui compare la sequenza …remrimram, rinvenuto vicino all’area sacra di Culsans individuata nei pressi della Porta Romanelli (Bagnasco Gianni 2005; nella recente riedizione del Thesaurus è stata data una diversa lettura, per il momento ancora senza motivazione: E. Benelli [a cura di], Thesaurus linguae Etruscae, 1. Indice lessicale. Seconda edizione completamente riveduta sulla base della prima edizione pubblicata nel 1978 da Massimo Pallottino, Pisa, 2009, p. 544, n. 33). Nel caso in cui fosse ulteriormente provato un collegamento tra iscrizione e area sacra, le precedenti considerazioni sui collegamenti fra etrusco e latino a fronte dei testi cadenzati aggiungerebbero un certo peso all’interpretazione dell’iscrizione nell’ambito del sacro anche perché Culsans, quale corrispondente del Giano latino, è padre di Canens cui questo tipo di testi ritmati potrebbe essere ricollegato (Ov., Met., xiv, 381: Ianigenam servabunt fata Canentem): Guittard 1999, pp. 175-176. 40 Pandolfini 1990, p. 9. Nel quadro di quanto si va qui considerando, può essere utile ricordare che una delle possibili radici individuate per il nome della dea Reitia, alla quale a Este sono dedicate tavolette iscritte, è connessa all’ordine e alla giustizia *rekt-: G. Gambacurta, Acqua, città e luoghi di

lett e re e im m agini: es empi etrus chi di parola is pir ata accanto a altri più personali e precisi, noti in etrusco grazie alla testimonianza delle fonti letterarie, nelle forme sia della preghiera di richiesta (euchomai), sia della preghiera di supplica (supplicationes).46 Se ciò cogliesse nel segno, ben si accorderebbe con quanto espresso da G. Colonna in merito a una radice ar- produttiva di un concetto vicino alla “cosa fatta come dono” che, come appare nell’iscrizione ceretana edita,47 verrebbe ulteriormente completato nel senso del bene (mla¯) e dunque di un agire positivo. Ci si può domandare a questo punto se la radice ar- possa in qualche modo rientrare nell’idea di “cosa fatta” nel segno di un agire48 nella sfera del mantenimento di un ordine, come sembrerebbe nel caso di nomi riferiti a personaggi intenti in azioni specifiche: Aril è il nome dato a Atlante49 mentre regge il mondo sulle sue spalle, secondo un concezione strettamente legata a un ordine fra cielo e terra;50 Artile è il nome dato al giovane mentre scrive il vaticinio sullo specchio di Cacu, e di cui si è detto in merito alla direzione del rapporto fra sovrumano e umano. La concretezza di tale agire potrebbe a questo punto ricadere sull’oggetto che si produce come ex-voto, secondo la tesi espressa da O. Masson per il greco.51 La quota cronologica dell’ingresso nella lingua etrusca di ará greco sarebbe la medesima di quella della serie degli imprestiti greci sui vasi etruschi utilizzati per indicarne la concreta funzione nell’ambito del sacro.52 Di questi potrebbero far parte gli oggetti iscritti più antichi su cui compare ara (Figg. 3-4) e la serie alfabetica, espressione di ordine e persistente nelle aree sacre nel corso del tempo. Sul piano della concezione religiosa etrusca recupereremmo così, con la giunzione dei concetti di ará e di alfabeto su oggetti iscritti del vii secolo a.C., un riferimento alla necessità di rivolgersi alla divinità con un’azione concreta volta a chiedere ordine, in modo forse distinto rispetto al campo semantico della magia, impositivo sulle condizioni del mondo, del resto antropologicamente noto come “pensiero magico” distinto da quello religioso.53 Abbreviazioni bibliografiche Aeimnestos 2005 = Aeimnestos. Miscellanea di Studi per Mauro Cristofani, a cura di B. Adembri, Firenze, 2005. Ambrosini 2006 = L. Ambrosini, Le raffigurazioni di operatori del culto sugli specchi etruschi, in Gli operatori cultuali (Atti del ii Incontro di studio, Roma, 10-11 maggio, 2005), a cura di M. Rocchi, P. Xella, J.-A. Zamora, Verona, 2006, p. 197-233. Aubriot-Sévin 1992 = D. Aubriot-Sévin, Prière et conceptions recontre Jésus, «BAntLux», 23, 1994, pp. 105-119, spec. pp. 117-118; Colonna 1997b, p. 167; Maggiani 1997, pp. 431-434; D. F. Maras, La dea Thanr e le cerchie divine in Etruria. Nuove acquisizioni, «StEtr», lxiv, 1998, pp. 173-197, spec. pp. 192-195. 46 Colonna 1997a, pp. 204-205; Maggiani 2005b, p. 141. Vale la pena di osservare il fenomeno anche alla luce della tripartizione in greco (araomai, lissomai, euchomai) e delle differenze fra araomai e euchomai (Aubriot-Sévin 1992, pp. 15-24, pp. 386-391 e pp. 398-401), nonché dei tre tipi di preghiera in latino (Guittard 1999, p. 173, con bibliografia precedente dell’autore). 47 Colonna 1985; Maras 2009, pp. 237-239. 48 Per l’idea di un agire legata a ara: G. Colonna, in G. Colonna, Y. Backe Forsberg, Le iscrizioni del “sacello” del Ponte di San Giovenale, «OpRom», 24, 1999, pp. 63-78, spec. p. 67. 49 de Grummond 2006, p. 179, fig. VIII. 7. 50 M. Durante, Una sopravvivenza etrusca in latino, «StEtr», xli, 1973, pp. 193-200, spec. pp. 197-199. 51 Masson 1987. 52 Si veda nt. 35. 53 Una delle prime critiche in Italia alla convergenza del magico-religioso sono nella recensione di S. Ferri al volume di J. Combarieu uscita nel 1915: S. Ferri, La musica e la magia, in A. Santoni (a cura di), La Sibilla e

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ligieuses en Grèce ancienne jusqu’à la fin du v e siècle av.J.C., Lyon, 1992 («Collection de la Maison de l’Orient Méditerranéen», 22; «Série Littéraire et Philosophique», 5). Bagnasco Gianni 1996 = G. Bagnasco Gianni, Oggetti iscritti di epoca orientalizzante in Etruria, Firenze, 1996 («Biblioteca di Studi Etruschi», 30). Bagnasco Gianni 2001 = G. Bagnasco Gianni, Le sortes etrusche, in Sorteggio pubblico e cleromanzia dall’Antichità all’Età Moderna (Atti della Tavola Rotonda, Milano, 26-27 gennaio 2000), a cura di F. Cordano, C. Grottanelli, Milano, 2001, pp. 197-220. Bagnasco Gianni 2005 = G. Bagnasco Gianni, Iscrizioni con sillabe ripetute: un inedito da Tarquinia, in Scripta volant? (Atti del Secondo Incontro di Dipartimento sull’Epigrafia, Milano, 5 maggio 2004), a cura di A. Sartori, «acme», lviii, 2, Maggio-Agosto 2005, pp. 77-88. Bevilacqua 2001 = G. Bevilacqua, Chiodi magici, «ArchCl», lii, 2001, pp. 129-150. Briquel 1991 = D. Briquel, L’origine lydienne des Etrusques. Histoire de la doctrine dans l’antiquité, Roma, 1991. Briquel 1993 = D. Briquel, Les voix oraculaires, in Les bois sacrés (Actes du Colloque International, Naples, 23-25 novembre 1989), Napoli, 1993, pp. 77-90. Briquel 2009 = D. Briquel, Une glosse étrusque oubliée, in Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale («Studia erudita», 4), a cura di S. Bruni, Pisa-Roma, 2009, pp. 167-171. Chanter les dieux 2001 = Chanter les dieux. Musique et religion dans l’antiquité grecque et romaine (Actes du colloque, Rennes-Lorient, 1618 décembre 1999), a cura di P. Brulé, C. Vendries, Rennes, 2001. Colonna 1985 = G. Colonna, Caere, «StEtr», li, 1983 (1985), p. 233, ree , n. 41. Colonna 1997a = G. Colonna, L’anfora etrusca di Dresda con il sacrificio di Larth Vipe, in Amico amici. Gad Rausing den 19 maj 1997, Lund, 1997, pp. 195-216. Colonna 1997b = G. Colonna, Divinités peu connues du panthéon étrusque, in Étrusques 1997, pp. 167-184. Colonna 2001 = G. Colonna, Divinazione e culto di Rath-Apollo a Caere. A proposito del santuario in località S. Antonio, «ArchCl», lii, 2001, pp. 151-173. de Grummond 2006 = N. Thomson de Grummond, Etruscan Myth, Sacred History, and Legend, Philadelphia, 2006. Divination 1985 = La divination dans le monde étrusco-italique (Etudes réunies d’une table ronde, Tours, 23 février 1985), «Caesarodunum», 52, Tours, 1985. Divination 1986 = La divination dans le monde étrusco-italique 3 (Actes de la table ronde, Paris, Ecole Normale Supérieure, 22 mars 1986), «Caesarodunum», 56, Paris, 1986. Étrusques 1997 = Les Étrusques, les plus religieux des hommes. État de la recherche sur la religion étrusque (Actes du colloque International, Paris, 17-19 novembre 1992), a cura di F. Gaultier, D. Briquel, Paris, 1997. Guittard 1999 = C. Guittard, “Carmen” et “carmenta”. Chant, altri studi sulla religione degli antichi, Pisa 2007, pp. 213-218. Più recentemente ci si può riferire a volumi a larga diffusione in cui viene posto in evidenza come già gli osservatori antichi contrapponessero magia e religione: F. Graf, La magia nel mondo antico, Roma-Bari 1995, in partic. pp. 220-221: «È dunque esistita tutta una tradizione polemica antica, che faceva battere l’accento sulla definizione della magia come caratterizzata dalla costrizione degli dei: una tradizione dapprima fatta propria dal platonismo (e che appartiene per questa via a una corrente importante del pensiero antico), e poi alimentata dalla polemica dei cristiani. Non può dunque sorprendere che Frazer, e lo stesso padre Festugière, abbiano fatto appello a questa definizione». Tali considerazioni sono riprese in: R. L. Fowler, The concept of magic, in ThesCRA iii, 2005, pp. 283-287. Sulla distinzione fra preghiere “magiche” e “religiose”: F. Graf, Prayer in Magic and Religious Ritual, in Magica Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, a cura di C. A. Faraone, D. Obbink, New York-Oxford 1991, pp. 189-213. Nello specifico della documentazione etrusca si vedano ad esempio le considerazioni di G. Colonna sul “chiodo magico” (Bevilacqua 2001) rinvenuto a Caere (Sant’Antonio) quale possibile testimonianza di un passaggio nell’area sacra da pratiche religiose oracolari a tarde e degradate forme di pratiche magiche (G. Colonna, Divinazione e culto di Rath-Apollo a Caere. A proposito del santuario in località S. Antonio, «ArchCl», 52, 2001, pp. 151-173, in partic. p. 168).

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giovanna bagnasco gianni

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‘VO R NAM ENGENTIL IZI A’. ANATO MI A DI UNA CHI ME RA Enrico Benelli

N

Il termine compare, come è noto, nella capitale opera di Helmut Rix sull’onomastica etrusca,2 il cui titolo è fortemente riduttivo rispetto all’enormità dei contenuti; questo volume rappresenta in realtà una revisione fondamentale delle conoscenze in materia di Namengebung etrusca, e su di esso poggia da allora ogni ricerca in questo settore. Le analisi condotte con impeccabile acribia, spesso con autopsie dirette sui documenti, sono ancora oggi, dopo 45 anni, largamente valide. La solidità dell’opera ha fatto sì che venisse considerata superflua ogni revisione dei contenuti, e se ne accettassero senz’altro le conclusioni. Questo ha immesso all’interno della discussione anche delle proposizioni a mio avviso errate, la cui responsabilità va ricercata soprattutto nella conoscenza ancora insufficiente dell’onomastica etrusca arcaica (le iscrizioni degli scavi di Bizzarri a Orvieto – solo per fare un esempio minimo – sono ancora al di là da venire3), ma in parte anche nello Zeitgeist che condiziona la visione storica di quegli anni. La creazione del termine di ‘Vornamengentilizia’ è il risultato di un’analisi nella quale Rix sviluppa delle osservazioni risalenti già a un precedente contributo di Emil Vetter.4 Il fulcro di queste ricerche scaturisce da un principio fondamentale della Namengebung etrusca: quando una persona viene immessa nel corpo civico, il nome (individuale) che portava quando era non-cittadino viene trasformato in gentilizio (ereditario); questo gentilizio, completato con un prenome, va a formare il nuovo nome da cittadino del personaggio. Questa pratica, naturalmente, aveva come conseguenza che i discendenti di non-cittadini portassero per sempre traccia della loro origine in un gentilizio che suonava chiaramente non etrusco.5 Il principio viene applicato coerentemente durante tutta

l’estensione cronologica coperta dalla documentazione epigrafica etrusca, e a diversi livelli della società. Il caso più evidente è quello dei liberti, i lautni, che adottano come gentilizio il loro nome servile. Questo si traduce, soprattutto nel ii secolo a.C., in una fioritura di gentilizi di tipo greco, dovuti alla diffusione della prassi di attribuire onomastica grecanica agli schiavi, provenienti in quel periodo soprattutto dai mercati del Mediterraneo orientale;6 il fenomeno si arresta nel secolo successivo, perché l’adozione del diritto romano con l’acquisizione della cittadinanza nel 90 a.C. ha come conseguenza l’introduzione del sistema onomastico libertino romano.7 A fianco dei nomi di origine anetrusca (soprattutto greci) trasformati in gentilizi nella fase più recente, per lo più di origine servile certa o comunque molto verosimile, esistono anche attestazioni risalenti alla fase arcaica; il loro numero più ridotto, e la probabile pertinenza a strati sociali più elevati dell’epigrafia arcaica nel suo complesso, hanno condotto a un’interpretazione storica molto diversa per queste particolari testimonianze: si tratterebbe in questo caso di personaggi di origine straniera, di condizione non subalterna, incorporati nella cittadinanza ai livelli più alti (ovvio il riferimento, esplicito o implicito, alla saga di Demarato a Tarquinia). A fianco di questo fenomeno, ben identificabile, di immissione nel patrimonio gentilizio etrusco di termini onomastici allogeni, ve n’è un secondo di interpretazione meno immediata, che interessò in modo particolare Vetter e Rix. Esistono dei gentilizi, concentrati in grandissima maggioranza (anche se non in modo esclusivo) nella documentazione della fase recente, che appaiono formalmente identici a prenomi etruschi. Se si applica a questa classe onomastica il medesimo principio già acquisito per i gentilizi di tipo non etrusco, si deve concludere che abbiamo a che fare con persone che devono discendere ugualmente da non-cittadini, che però in questo caso non possono essere immigrati (o schiavi comprati all’estero), ma devono essere etruschi. Quindi, si avrebbe testimonianza della acquisizione del pieno diritto di cittadinanza (rappresentato dall’adozione del gentilizio ereditario) da parte di etruschi originariamente non-cittadini. Per questo motivo, la tradizione di studi che segue l’opera di Rix ritiene necessario adottare due termini differenti: ‘Individualnamengentilizia’ per quelli di origine esterna (il cui nome è appunto ‘nome individuale’, in quanto estraneo al sistema onomastico etrusco), ‘Vornamengentilizia’ per quelli formalmente identici a prenomi etruschi.8 Se l’origine delle persone con ‘Individualnamengentilizia’

1 Colonna 1976, p. 23. 2 Rix 1963. 3 Bizzarri 1962 (pubblicato troppo tardi perché Rix ne potesse tenere conto); Bizzarri 1966. 4 Vetter 1948, col. 68. 5 Da questa categoria sono naturalmente esclusi quei gentilizi formati su antroponimi anetruschi, ma con un regolare suffisso etrusco (come katacina o platunalu), che sono naturalmente a tutti gli effetti ‘echte Gentilizia’, anche se probabilmente connotanti allo stesso modo discendenti di immigrati. 6 Solin 1971, pp. 121-138 e passim. Sul commercio di schiavi (soprattutto per l’età romana) cfr. ora Dumont 1987, pp. 52-53, 349-364; Harris 1999; Coarelli 2005 (ma vedi anche Mastino 2008); Bodel 2005, con bibliografia precedente; Thompson 2003, pp. 1-46. 7 Su questo tema cfr. Rix 1994, con le osservazioni in Benelli 1999, p.

656, nota 21 e la correzione di prospettiva nella scheda REE, lx, 1994, n. 14 (H. Rix). 8 In Rix 1963 la distinzione non è così netta, dal momento che l’opera è focalizzata solo sull’onomastica recente, e i fenomeni arcaici vi sono appena accennati. Il termine ‘Individualnamengentilizia’ viene usato in origine da Rix soprattutto per indicare l’onomastica libertina, quindi con una collocazione sociale non dissimile rispetto a quella che crede di individuare per i ‘Vornamengentilizia’; nel processo di analisi ricorre infatti spesso l’endiadi ‘Individualnamen- bzw. Vornamengentilizia’. La distinzione fra i due fenomeni si sviluppa solo in seguito, con gli studi di onomastica arcaica: è già presente nel fondamentale Rix 1972 (pp. 749-750 e passim), ma cfr. soprattutto Colonna 1977 (in particolare pp. 183-184), che riassume il dibattito precedente e imposta quello successivo.

ell ’ opera di Giovanni Colonna, il termine ‘Vornamengentilizia’ compare di rado, e l’interpretazione storico-sociale che viene data a questa categoria di antroponimi è sottilmente ma profondamente divergente rispetto a quella proposta dall’inventore del termine, e generalizzatasi in letteratura.1 Si tratta di un fondamentale dubbio di metodo, che mi ha spinto a sottoporre a revisione critica l’intera base documentaria su cui la teoria è fondata; è per questo che ho piacere di dedicare a lui questo breve studio, che dovrebbe contribuire a revocare in dubbio una ricostruzione che ha condizionato la ricerca per numerosi decenni. … ÚfiÛı ϤˆÓ …

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sembra abbastanza chiara (che si tratti di immigrati di rango aristocratico o di schiavi liberati), quella dei ‘Vornamengentilizia’ appare meno facile da definire. Nei contesti, geografici o cronologici, nei quali la presenza di ‘Vornamengentilizia’ è puramente episodica (per esempio in età arcaica, o in Etruria meridionale), si può pensare a discendenti di schiavi di origine etrusca che, liberati, avrebbero trasformato il loro nome in gentilizio. Ma nell’Etruria settentrionale interna, nella documentazione di età recente, vi è un numero ingente di ‘Vornamengentilizia’. Che cosa è successo? Chiaramente, non è possibile parlare di una abolizione tout court dell’istituto della schiavitù, dal momento che schiavi e liberti continuano ad essere documentati. È a questo punto che subentra l’influenza dello Zeitgeist. Se l’esaltazione della romanità, e in generale della civiltà classica greco-romana, nel periodo tra le due guerre è un fenomeno ormai ben studiato, il furore anticlassico (e soprattutto antiromano) dell’immediato dopoguerra attende ancora il suo storico. Nel volgere di pochi anni si susseguono alcuni articoli sulla storia sociale degli Etruschi destinati a influenzare profondamente la ricerca successiva, che partono dal presupposto più o meno esplicito di un annullamento della fase romana, concepita come una sottile vernice ideologica non in grado di interrompere un continuum storico che allaccerebbe l’età preromana alla tarda antichità e al Medioevo. Questa continuità si manifesterebbe in molte forme, tra le quali viene supposta una sopravvivenza (almeno parziale) di lingua e istituzioni, soprattutto nel mondo rurale, idilliacamente impermeabile alla sopraffazione culturale che investe le città.9 Nell’ambito di questa ricostruzione storica, dove l’ideologia funge da collante fra testimonianze eterogenee raccolte per dimostrare l’assunto di partenza, viene stabilita la presenza in Etruria di una forma particolare di servitù, che avrebbe dato al dipendente molte garanzie in più rispetto agli schiavi del mondo classico. Si tratta di una ipotesi risalente in realtà già a Deecke,10 che tuttavia non aveva incontrato grande successo, finché non era stata inserita da Cortsen in un sistema di respiro più ampio,11 che peraltro stentò anch’esso ad affermarsi. Le incertezze erano infatti troppe, e soprattutto, già dagli anni ’30, ci si cominciava a rendere conto che il presupposto principale di questa ricostruzione, ossia la traduzione del lessema etera in alcune iscrizioni funerarie etrusche, era a dir poco problematico.12 Ci vuole la svolta ideologica del dopoguerra per riportare in auge la ricostruzione cortseniana. Il primo è Vetter che però, avendo constatato (come già altri prima di lui) la impossibilità della traduzione di etera come elemento del lessico della dipendenza,13 crede di poter identificare questi ‘semischiavi’ (o ‘penesti’, come si usa chiamarli in seguito alla interpretazione errata di un passo di Dionisio di Alicarnasso14) tramite il lessema leıe. Alla accurata analisi di Rix non sfugge naturalmente che leıe è un normale antroponimo, senza il significato attribuitogli da Vetter15, che in parte si basava anche su letture ar-

bitrarie di iscrizioni, molte delle quali corrette dallo stesso Rix. Ma è subito pronto un eccellente sostituto. I ‘Vornamengentilizia’ sarebbero appunto i gentilizi assunti da questi ‘penesti’ una volta acquisita la piena cittadinanza: un fatto che di norma si sarebbe verificato solo in maniera sporadica, con concessioni individuali. Nell’Etruria settentrionale interna, in un momento imprecisato ma probabilmente recente, vi sarebbe stato invece un provvedimento rivoluzionario di carattere generale, che avrebbe portato tutti i ‘penesti’ al rango di cittadini di pieno diritto. La ricostruzione di Rix viene da allora generalmente accettata sul piano della Namenforschung, un po’ meno su quello storico, anche perché la interpretazione del ruolo svolto da questi ‘penesti’ tende a oscillare nel tempo. Dalla originaria idea di una ‘servitù dal volto umano’ (contrapposta a quella commerciale del mondo classico)16 si tende sempre più a passare a una lettura diversa: questi ‘penesti’ sarebbero in realtà la grande maggioranza della società etrusca, in pratica l’equivalente dei plebei romani, prima delle conquiste civili che ne mutarono le condizioni in seguito alle lotte del v-iv secolo a.C.; la loro presenza sarebbe quindi, proprio al contrario, il segno di una sostanziale arretratezza della civiltà etrusca, dominata da aristocrazie incapaci di condividere il potere con gruppi emergenti, che sarebbero riuscite a impedire sviluppi simili a quelli di Roma (con la sola notevole eccezione dell’Etruria settentrionale interna di età recente, della quale si spiega così la notevole fioritura economica). In questo modo le istanze ideologiche che stavano alla base della teoria dei ‘penesti’ vengono sostanzialmente neutralizzate.17 La presenza di famiglie con ‘Vornamengentilizia’ non solo in età arcaica, ma anche tra le aristocrazie di area meridionale (come gli Ane e soprattutto i potentissimi Vel¯a di Tarquinia, sui quali Rix non si diffonde troppo), viene spiegata, coerentemente con questa visione più meditata, come il riflesso della graduale immissione di minores gentes, emerse dopo la prima formazione del sistema gentilizio.18

9 Il principio, talora esplicito e talora implicito nel processo ermeneutico, è alla base di contributi quali Heurgon 1957, Mazzarino 1957, Frankfort 1959. 10 Müller, Deecke 1877, ii, p. 511. 11 Cortsen 1925, pp. 77-89. 12 Cfr. p.es. Goldmann 1929, p. 14, nota 2; Leifer 1931, pp. 145-169. Sulla storia dell’ermeneutica del lessema vedi anche Benelli 2003. 13 Vetter 1948, col. 66. 14 Sulla questione, vedi Benelli 1996. 15 Rix 1963, p. 371, nota 165.

16 Il paragone è naturalmente con la servitù di tipo ilotico, su cui vedi ora: Helots 2003; penesti: Welwei 2008. 17 Cfr. p.es. Torelli 1974-1975, pp. 67-78; Cristofani 1978, spec. pp. 8183. 18 Cristofani 1981; su questi fenomeni cfr. anche Maggiani 2000, pp. 265-267. In ambiente chiusino, dove l’epigrafia arcaica è scarsa e laconica, si è acquisito di recente un personaggio recante un ‘Vornamengentile’ e per molti versi eccezionale quale il Ları Vipe sepolto nell’anfora di Dresda/Chianciano da Camporsevoli: da ultimo Colonna 1997 e ree , lxx, 2004, n. 53 (G. Paolucci, G. Colonna). 19 Rix 1963, pp. 332-339.

… ùÈıÂÓ ‰b ‰Ú¿ÎˆÓ … Una volta stabilito il principio in base al quale un prenome può diventare un gentilizio, si può tentare di applicarlo anche per un altro fenomeno: gli echte Gentilizia in cognominaler Verwendung, ovvero come un gentilizio può diventare un cognomen. Per mettere in relazione le due categorie onomastiche, Rix presenta una tabella statistica, che proverebbe come gli echte Gentilizia in cognominaler Verwendung, che sono tutti di età recente (come d’altra parte quasi tutte le attestazioni dei cognomina in generale), ricorrono in prevalenza dopo ‘Vornamengentilizia’. Il nesso sembra naturale: se il ‘Vornamengentile’ deriva dall’originario nome individuale del ‘penesta’, il suo cognomen, quando assume questa particolare forma, deve ricordare il gentilizio dell’originario ‘padrone/patrono’.19 Ma è davvero così? La tabella statistica nasconde un grave problema. Gli echte Gentilizia in cognominaler Verwendung

vo rna m e ngent ilizia. anatomia di una chimer a sono un fenomeno quasi esclusivo di Perugia; in area chiusina questi particolari cognomina sono rarissimi, e le scarse attestazioni ricorrono in ugual misura dopo ‘Vornamengentilizia’ e dopo ‘echte Gentilizia’. Fin qui niente di male: a Perugia vi sarebbe stato un obbligo sociale di conservare il gentilizio dell’ex padrone (o patrono), a Chiusi no. Ma esiste il concreto sospetto che a Perugia i ‘Vornamengentilizia’ non ci siano affatto. Il ‘Vornamengentile’, per definizione, deve essere privo di qualunque suffisso: questa è la caratteristica che lo distingue da un ‘echtes Gentile’. Solo in questo caso si può supporre il tipo di genesi ipotizzata da Rix sulla base della prassi onomastica attestata per i liberti (e per gli stranieri ammessi nella cittadinanza), ossia la trasformazione del nome individuale in gentilizio. La presenza di un suffisso, di qualunque tipo, applicato alla base onomastica formata da un nome individuale è ciò che contraddistingue, al contrario, gli ‘echte Gentilizia’. I presunti ‘Vornamengentilizia’ di Perugia hanno quasi sempre un suffisso, e precisamente quel suffisso -i (nella forma recente) caratteristico delle formazioni gentilizie perugine (e, in parte, cortonesi); l’unica eccezione è rappresentata dal non comune tite. Quando il prenome corrispondente al presunto ‘Vornamengentile’ è attestato nella documentazione epigrafica perugina, il suffisso -i è ovviamente assente (per esempio: prenome vel¯e, gentilizio vel¯ei).20 Il fenomeno non è sfuggito a Rix, che ammette che con grande verosimiglianza queste formazioni in -i vanno considerate piuttosto ‘echte Gentilizia’:21 ma questa possibilità non lo preoccupa, perché nelle statistiche generali sui ‘Vornamengentilizia’ questi nomi rappresentano una minoranza, e quindi la loro eventuale espunzione dal computo non cambierebbe molto le cose. Da un punto di vista molto generale, questo è senz’altro vero, poiché la consistenza della documentazione chiusina rende quella perugina quasi marginale; ma se si vogliono studiare le storie onomastiche delle due città non si può non tener conto delle differenze. E la prima vittima di queste differenze è proprio la spiegazione degli echte Gentilizia in cognominaler Verwendung. Interpretare un fenomeno onomastico perugino (e non chiusino) come conseguenza di un fenomeno onomastico chiusino (e non perugino) è metodologicamente problematico. In sostanza, se gli echte Gentilizia in c. V. compaiono praticamente solo a Perugia (dove i ‘Vornamengentilizia’ non ci sono, salvo poche e rare eccezioni), e non a Chiusi (tranne qualche caso sporadico), dove invece i ‘Vornamengentilizia’ sono comuni, i due tipi onomastici non possono essere collegati. … ÌbÛÛË ‰b ¯›Ì·ÈÚ· …

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zioni funerarie chiusine provenienti da contesti noti, uno (‘elenco A’) dedicato alle tombe gentilizie, e uno (‘elenco B’) alle strutture utilizzate collettivamente da più famiglie, senza che se ne possa stabilire una sola come titolare. Dall’analisi di questi elenchi, come è noto, Rix trae una serie di conclusioni, che si potrebbero riassumere come segue: (1): nelle tombe dell’‘elenco A’ si trovano quasi solo persone con ‘echte Gentilizia’, in quelle dell’‘elenco B’ una maggioranza di persone con ‘Vornamengentilizia’; (2): le tombe dell’‘elenco A’ sono a camera, e contengono quasi solo urne di pietra; quelle dell’‘elenco B’ sono del tipo a dromos senza camera (con le deposizioni nei nicchiotti scavati sulle pareti del dromos) e contengono quasi solo olle e urne di terracotta; (3): i legami di parentela fra persone con ‘echte Gentilizia’ e persone con ‘Vornamengentilizia’ sono quasi inesistenti.23 Da qui la necessaria conclusione che esisterebbe una sorta di apartheid fra due segmenti della società contraddistinti dai due diversi tipi di gentilizio, e che quindi l’inserimento dei ‘penesti’ nella piena cittadinanza deve essere un fatto immediatamente precedente l’epoca della documentazione epigrafica, che testimonia come questi continuassero a rimanere in una posizione marginale.24 Tutto questo non è vero; i dati sui quali si basa l’analisi (formalmente impeccabile) sono errati in modo irrecuperabile. Il punto (3) viene a cadere analizzando l’intera documentazione epigrafica chiusina (mentre in quella sede erano state considerate un centinaio scarso di iscrizioni). Gli individui a noi noti tramite l’epigrafia funeraria portano per il 14% un ‘Vornamengentile’, per l’86% un ‘echtes Gentile’.25 I legami familiari tramandati dai membri indiretti della formula onomastica (metronimico e gamonimico), presenti in circa tre quinti delle iscrizioni funerarie chiusine di età recente, attestano che il 14,6% dei parenti di individui con ‘echtes Gentile’ avevano un ‘Vornamengentile’, l’85,4% un ‘echtes Gentile’. Allo stesso modo, il 15,1% dei parenti di individui con ‘Vornamengentile’ avevano anch’essi un ‘Vornamengentile’, l’84,9% un ‘echtes Gentile’. Lo scarto statistico tra i due campioni non è significativo (fra il 14,6% e il 15,1% si pone una decina scarsa di metronimici/gamonimici). Di conseguenza, la distribuzione delle parentele rispecchia esattamente la proporzione fra i due tipi di gentilizi nel campione di società chiusina a noi noto tramite le iscrizioni; non esiste alcuna dissimmetria che possa far pensare a una situazione di apartheid. Il dato prosopografico, solidamente basato su quasi 1.800 iscrizioni, non lascia dubbi sulla perfetta integrazione dei due (presunti) gruppi.

L’ultimo componente viene aggiunto 14 anni dopo. Concentrandosi esclusivamente sulla più abbordabile Chiusi, Rix cerca di rintracciare delle prove di carattere non onomastico (nello specifico, prosopografiche ed archeologiche) che confermino che le famiglie con ‘Vornamengentilizia’ siano di rango dimostrabilmente inferiore a quelle con ‘echte Gentilizia’.22 A questo scopo, egli presenta due elenchi di iscri-

L’affermazione al punto (1) è anch’essa falsa, perché gli elenchi sono in parte gravemente errati, e in parte significativamente incompleti. L’apparente eterogeneità dei gentilizi presenti nei contesti dell’‘elenco B’ deriva dal fatto che quasi tutti questi gruppi di materiali non provengono da un’unica tomba, ma da più sepolture;26 un altro (CIE, 925-937) proviene sì da una sola tomba, che però è chiaramente di famiglia (e quindi non si capisce perché sia posta nell’‘elenco B’).

20 Benelli 2002. 21 Rix 1963, p. 347. 22 Rix 1977. 23 Rix 1977, pp. 68-72. 24 Rix 1977, p. 73. 25 Si tratta di dati approssimativi: la percentuale precisa può variare, poiché alcuni gentilizi chiusini sono di classificazione ambigua; il numero preciso di persone con ‘Vornamengentilizia’ varia da un computo minimo del 10% (escludendo tutti gli ambigui: così Cristofani 1977, p. 77) a uno massimo del 15% (includendoli tutti). Rix non si è mai pronunciato in modo

esplicito sui gentilizi di classificazione incerta; la stima del 14% è quella a mio avviso più vicina al vero, ed è quella sulla quale si basano anche le statistiche delle parentele presentate di seguito. Ovviamente, se si adotta una stima più bassa o più alta (ossia in base a quanti casi ambigui vengano considerati o meno ‘Vornamengentilizia’), anche le parentele varieranno di conseguenza; le conclusioni non cambiano. 26 CIE, 534-557 sono materiali da due diversi contesti, in ognuno dei quali esiste una concentrazione significativa di testimonianze su uno o due

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Il complesso da Bruscalupo (espungendo dal blocco le iscrizioni CIE, 4738-4761, prive di dati di provenienza) permette un’analisi più approfondita; i materiali (trattati da Rix come un’unica tomba) furono rinvenuti in 19 tombe contigue, descritte con una certa precisione da Gamurrini, e possono essere suddivisi tra i vari contesti (tranne CIE, 617-625, che furono lette solo dopo il lavaggio delle tegole già asportate dalle sepolture).27 Senza entrare nel dettaglio, basti osservare in questa sede che due delle strutture che hanno restituito iscrizioni non erano affatto del tipo a dromos, ma a camera e nicchiotti (come quasi tutte quelle dell’‘elenco A’), e che in più tombe erano presenti anche urne in travertino e soprattutto alabastro, assenti negli elenchi di Rix per il banale motivo di essere anepigrafi. Fra queste 19 tombe di Bruscalupo, alcune hanno restituito solo una o due iscrizioni: troppo poche per capire se fossero familiari o collettive. Fra le altre, si enucleano chiaramente due gruppi di ipogei contigui fra loro (uno di 4 e uno di 3 strutture) dove appare dominante la presenza di un’unica famiglia (ancari e vipina rispettivamente).28 La strategia di utilizzo appare sostanzialmente identica a quella del gruppo della Martinella, cinque tombe contigue utilizzate in comproprietà fra i sentinate/ seiante, i velu e i larcna, famiglie al vertice assoluto della società chiusina (il cui reciproco imparentamento – sia detto per inciso – è dato per certo proprio in base alla condivisione delle tombe, ma solo debolmente attestato per via epigrafica).29 Una volta espunta la documentazione spuria, le tombe a dromos usate veramente in modo collegiale non sono più di due o tre, a fianco di altre di uso chiaramente familiare; oltre agli esempi di Bruscalupo citati sopra si vedano anche CIE, 1033-1035,30 e probabilmente anche CIE, 2773-2785: quest’ultima appartenente ai seiante, con materiali iscritti di tipo (apparentemente) ‘plebeo’ (olle, urne di terracotta), ma con un repertorio di gentilizi identico a quello della nobilissima tomba della Pellegrina. D’altra parte, esistono alcune tombe a camera (o meglio, a camera e nicchiotti, il tipo più comune) di uso probabilmente o certamente collegiale (per esempio, CIE, 1005-1017, assente da entrambi gli elenchi). Anche l’‘elenco A’ ha le sue mancanze, e non di poco conto: CIE, 965-967 (tomba dei tite), CIE, 992-994 (tomba dei caie), CIE, 1002-1004 (tomba degli ane),31 CIE, 1310-1314 (tomba dei gentilizi legati da parentela, che ne rendono la strategia d’uso sostanzialmente identica a quella delle tombe tipicamente familiari; CIE, 4675-4733 provengono da un numero imprecisato di tombe (almeno tre, secondo le poche notizie disponibili); CIE, 507-527 provengono da almeno dieci (!) tombe diverse. 27 Gamurrini 1891. 28 Le altre famiglie che vi sono sepolte sono verosimilmente imparentate con queste, anche se non se ne può essere certi (ma non si può essere certi nemmeno del contrario) dal momento che qui, come in tutte le iscrizioni dell’agro chiusino orientale, i membri indiretti della formula onomastica compaiono in modo molto sporadico. 29 Cfr. CIE, 1211-1227, con bibliografia precedente; vedi anche Gentili 1994, pp. 64-68. Per una riconsiderazione dei rapporti genealogici: Benelli 2009. 30 Questa tomba, appartenente alla famiglia tetina, fa parte di un gruppo di tre strutture contigue, una degli umrana e una (la principale, apparentemente) dei seiante cumere, famiglia presente in tutti e tre gli ipogei, che fa di questa piccola necropoli un altro esempio di uso condiviso fra famiglie imparentate; su questi aspetti cfr. sopr. Benelli 2009; sulla necropoli di Cerretelli Paolucci 1988, p. 41, con bibliografia precedente. 31 Cfr. Artigianato artistico 1985, pp. 47-48. 32 Paolucci, Minetti 2000, pp. 215-216. 33 Sulle cronologie dei materiali chiusini è ancora largamente valido Artigianato artistico 1985; per i sarcofagi, cfr. Colonna 1993. 34 Ad esempio: Tomba della Pellegrina (cfr. Thimme 1954, pp. 98-132; Maggiani 1990, pp. 207-217; Colonna 1993, p. 363; Maggiani 2002, pp. 201-

tite velsi), CIE, 1329-1332 (tomba degli anie), CIE, 4795-4799 (tomba dei cae alfni, forse a dromos). Tutte sepolture familiari, per lo più a camera, appartenenti a famiglie con ‘Vornamengentilizia’, alle quali si può aggiungere oggi anche la tomba con volta a botte di Gragnano, attribuibile con certezza ai cae cantis.32 Da quanto si è visto sinora, è chiaro che è falso non solo il punto (1), ma anche il punto (2); infatti, se versiamo nella discussione il copioso materiale anepigrafe il quadro diventa molto diverso, soprattutto per quanto riguarda la circolazione delle urne di alabastro che, come può mostrare una rapida scorsa del repertorio di Brunn e Körte, sono abbastanza spesso anepigrafi. La differenza che intercorre fra deposizioni in urne di alabastro da una parte, di travertino o di terracotta dall’altra (comprese le olle) è puramente cronologica;33 nelle sepolture familiari di lunga durata34 così come in alcune di durata più breve35 si coglie chiaramente il passaggio dall’una all’altra serie. A partire dai decenni iniziali del ii secolo a.C., la qualità dei cinerari prodotti dalle botteghe chiusine si abbassa bruscamente, e alcuni segni di distinzione diventano gradualmente indisponibili. Qualunque ne sia il motivo,36 nel periodo in cui si concentra la maggior parte delle testimonianze di epigrafia funeraria esistono solo prodotti seriali, tra i quali è piuttosto difficile stabilire una scala di valori. Le urne di terracotta e le olle non sono affatto segnale di rango subalterno:37 oltre ai casi già citati, si veda anche la tomba familiare a camera dei ceicna di Castiglione del Lago,38 oppure la straordinaria tomba dei vetus, altro assente illustre negli ‘elenchi’ di Rix.39 Le famiglie con ‘Vornamengentilizia’ possono essere titolari di tombe familiari anche di un certo impegno e usare i medesimi cinerari di quelle con ‘echte Gentilizia’; i loro rapporti di parentela indicano una perfetta integrazione dei due gruppi; la presenza di personaggi con ‘Vornamengentilizia’ è già attestata nelle più antiche e notevoli tombe gentilizie della fase recente in una proporzione non incoerente con la loro incidenza nell’insieme della parte di società chiusina a noi nota:40 da tutto questo consegue che, almeno nella fase recente, non esistono due gruppi sociali distinti in base al tipo di gentilizio. 204, con bibliografia precedente); Tomba dei matausni (Sclafani 2002, con bibliografia precedente); Tomba dei cumni (Thimme 1957, pp. 154-160; Paolucci 2005, p. 19 e 21; ree , lxx, 2004, n. 60 [D. Briquel]); Tomba dei larcna (Paolucci 1989 e CIE, 2877); Tomba dei seiante/sentinate cumere (CIE, 1421-1429); Gruppo della Martinella (vedi supra); Tombe dei cupsna (CIE, 1318-1328, e 2389; Thimme 1957, pp. 142-146). 35 Tomba degli ane (vedi supra); Tomba della Barcaccia (Albani 2006, pp. 20-33, con bibliografia precedente); Tomba di Solaia (CIE, 1466-1467). Cfr. anche la tomba dei cupsna di Casa Rossa recentemente ricostituita: Paolucci 2006. 36 Su questo tema ora Benelli 2009, che contiene anche una revisione dei principali contesti chiusini. 37 Sulle olle, cfr. Bagnasco Gianni, Benelli, Bruni 2006. 38 Sannibale 1994, pp. 114-138, con bibliografia precedente. 39 Al quale peraltro si deve la corretta restituzione del gentilizio della famiglia titolare, vetus, in luogo di tius, errore risalente a Pallottino (Rix 1963, p. 271, nota 14; Pallottino 1952); sulla tomba vedi Artigianato artistico 1985, pp. 120-121; Colonna 1993, p. 360; Gentili 1994, pp. 69-70; Maggiani 1995, p. 85). Il gentilizio vetus è di origine volsiniese: quindi nulla cambia rispetto all’interpretazione storica proposta in Colonna 1985, p. 109. 40 Per esempio: CIE, 1319 e 1325, nelle due tombe dei cupsna; CIE, 2877, nella tomba dei larcna; ET, Cl 1.88, nella Tomba della Pellegrina; CIE, 2033, nella tomba dei cumni (metronimico); CIE, 1176, nella tomba dei peına scire (metronimico); CIE, 1215, in una tomba del gruppo della Martinella: è la celebre Larıia Seianti, figlia di una Titi Svenia, probabilmente la donna documentata da CIE, 798, i cui genitori furono sepolti in una tomba del Colle (CIE, 655-656: cfr. Barni, Paolucci 1985, p. 116; ree , lxix, 2003, n. 66 [G.

vo rna m e ngent ilizia. anatomia di una chimer a Epilogo Se l’origine dei ‘Vornamengentilizia’ fosse quella proposta da Rix, l’incorporazione nella piena cittadinanza delle famiglie che ne sono contraddistinte, se avvenuta in massa e non tramite concessioni a singoli individui emergenti (il che sarebbe successo solo a Chiusi), deve essere un fenomeno già antico nel momento in cui questi gentilizi compaiono nella documentazione epigrafica, tanto da aver consentito una completa integrazione.41 Le attuali conoscenze di epigrafia arcaica cominciano però a far pensare a una diversa interpretazione. Infatti, oggi è possibile ricostruire almeno due sequenze evolutive illuminanti. Gli antroponimi vel¯e e leıe, presenti nella documentazione di età recente in entrambe le funzioni di prenome e gentilizio (e quindi classico esempio di ‘Vornamengentilizia’) traggono origine dalle forme arcaiche vel¯aie e leıaie, tramite la tappa intermedia vel¯ae e leıae. Si tratta quindi di ‘echte Gentilizia’, formati con il suffisso -ie sulla base di un nome individuale; in età arcaica le due formazioni sono già attestate in entrambe le funzioni.42 Tutto sommato, anche il diffusissimo cae, derivando da kavie, contiene in realtà, nascosto dalla evoluzione fonetica della lingua, un suffisso -ie che lo qualifica come ‘echtes Gentile’.43 La trafila dalla quale scaturisce tite potrebbe ben trovare la sua origine nel gentilizio arcaico titaie (cfr. CIE, 8742), con lo stesso processo di leıe e vel¯e.44 Insomma, una volta acquisito che la -i- intervocalica cade, mascherando un antico suffisso gentilizio -ie, può sorgere il dubbio che i presunti ‘Vornamengentilizia’ siano in realtà, in grandissima maggioranza, ‘echte Gentilizia’. Quelli certamente privi di suffisso, e quindi certamente ‘Vornamengentilizia’, sono un gruppo sparuto di poche unità (come velıur, attestato una sola volta), e possono trarre effettivamente la loro origine da una immissione nella cittadinanza di personaggi di origine non libera: ma si tratta, in tal caso, di atti sporadici e di carattere individuale, quindi di normali manomissioni. Abbreviazioni bibliografiche Albani 2006 = E. Albani, Due collezioni archeologiche private a Chiusi, «AnnAcEtr», 31, 2004-2005 [2006], pp. 13-73. Artigianato artistico 1985 = Artigianato artistico. L’Etruria settentrionale interna in età ellenistica (Catalogo della mostra, VolterraChiusi, 1985), a cura di A. Maggiani, Milano, 1985. Bagnasco Gianni, Benelli, Bruni 2006 = G. Bagnasco Gianni, E. Benelli, S. Bruni, Il cinerario di Laris Ane della Collezione Vitali. Note archeologiche, epigrafiche e tecniche, Milano, 2006 («Quaderni del Civico Museo Archeologico e del Civico Gabinetto Numismatico di Milano», 3), pp. 39-43. Paolucci]; ree, lxxxiii, 2009, n. 108 [G. Paolucci]). Questa sequenza genealogica conferma le osservazioni cronologiche (basate anche sul corredo) di Maggiani 1995, p. 85. 41 Trattandosi della storia di Chiusi, verrebbe da pensare al momento di cesura rappresentato dall’ascesa di Porsenna (cfr. Colonna 2000). 42 Sulla trafila vel¯aie>vel¯ae>vel¯e cfr. ree , lxv-lxviii, 2002, n. 84 (G. Colonna). Su leıaie>leıae>leıe cfr. CIE, 8906 e 6449; inoltre CIE, 5043 e Bonamici 1987-88. Nella fase arcaica, prima della riduzione del numero dei prenomi, non è insolito che questi siano costruiti con suffissi derivativi affini a quelli usati per i gentilizi (come -na: cfr. ad esempio pisna/pesna, ecc…), e che fra i due campi vi sia una certa permeabilità (p. es. gentilizio karkana ma karcuna prenome in CIE, 6454), con un passaggio inverso rispetto ai noti ‘Vornamengentilizia’ e/o ‘Individualnamengentilizia’ arcaici. 43 Anche se finora l’arcaico kavie non è mai attestato come gentilizio,

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enrico benelli

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I NU M ER AL I ET RUSCHI E D. ST E I NBAUE R: ANC OR A « L’ ORI G I NE DE G LI E T RUSCHI » Carlo de Simone «

L

Si era ritenuto – per ingenua e fiduciosa convinzione illumistica – che il problema «Origine degli Etruschi» non potesse ormai più venir posto nei termini semplicistici ed ingenui di una “provenienza” (migrazione-arrivo di un «protopopolo» con lingua relativa, evento coincidente con la sua “etnogenesi”).2 Ma era un’illusione ottimistica: vediamo perché ed in che senso. In un intervento inutilmente aggressivo D. Steinbauer3 ha affermato che la voce mav della stele tirsenica di Kaminia (lato A, 3 4)4 ha il valore di un numerale, più precisamente “quattro”; egli sostiene in particolare5 che «müssen beide Sprachen [cioè Lemnio ed Etrusco; CdS] Ableger eines nicht bezeugten ägäisch-kleinasiatischen Uretruskolemnisch sein, das wohl vor 1000 gesprochen wurde. Nach der approximativen Festlegung der Urheimat [?; CdS] kann man nun wagen, die Bedeutung von mav mit „vier“ anzusetzen, weil die Ähnlichkeit mit luwisch maua „vier“ unübersehbar ist». L’affermazione complessiva, basata su una sola «corrispondenza» (errata: cfr. infra), è molto apodittica, e palesemente gravida di conseguenze assai rilevanti a diversi livelli. Questa (ed altre analoghe: cfr. infra) recente presa di posizione rende necessarie alcune considerazioni preliminari, di carattere teorico-metodologico. Esiste una prassi alquanto diffusa negli studi di linguistica etrusca (ma non esclusivamente): essa consiste nell’operare “confronti” atomistici (o stabilire “rapporti”) estrapolando liberamente a proprio

comodo, e senza l’applicazione di alcuna regola verificabile in modo sistemico, un termine etrusco dal suo complesso contesto specifico di pertinenza,6 estraendolo per questo dal suo puntuale collocamento ed individuazione storica, fattori che lo definiscono invero primariamente in quanto tale nei suoi aspetti costitutivi e determinanti. Fa parte integrante della necessaria “contestualizzazione” in particolare la dimensione cronologica dei singoli fenomeni presi in considerazione: questo aspetto costitutivo risulta parimenti spesso trascurato, con conseguenti gravi incongruità: si verificano sconcertanti estrapolazioni cronologiche, comunque antistoriche (caso eclatante: Lemnos, cfr. infra). I confronti impressionistici possono come ovvio variare e spaziare liberamente: si possono “addurre” parole attestate in quanto tali in Greco, ma considerate di provenienza pre- o “paragreca” (del famigerato tipo etr. turan ~ Ù‡Ú·ÓÓÔ˜),7 oppure termini pescati a comodo da ogni ambito linguistico-storico, ad es. nelle lingue microasiatiche (come nel caso del presunto numerale mav di Steinbauer), od anche istituire “ascendenze” di vario ordine e portata con le lingue indoeuropee. L’Etrusco non è però affatto una “langue poubelle” in cui si possa operare manipolando a comodo, al servizio di una precostituita convinzione etnogenetica (“insinuante inerzia” della tradizione). Il campo delle operazioni di questo tipo risulta naturaliter illimitato, perché non esistono limiti-criteri oggettivi di valutazione: le conseguenze di questo modo di procedere possono essere devastanti. Il grave errore metodologico di questa prassi consiste appunto nel trascurare del tutto il complesso delle solidarietà interne (formali e semantiche) delle parole prese in considerazione, estraendole dal loro puntuale contesto (“decontestualizzate”), senza alcun timore di poter essere confutati; la non considerazione del contesto specifico investe sia il punto di partenza che quello di arrivo, fattori che possono cumularsi negativamente, aumentando il carattere arbitrario del procedimento: si opera così a colpi “secchi” di confronti-identificazioni interlinguistiche, il cui output risulta in realtà necessariamente in vaghe ed illusorie equazioni metalinguistiche e metastoriche. Ma ogni entità di una lingua storica si definisce realiter in linea di principio nell’ambito del diasistema (e della società [“speech-community”]) in cui funziona (anche se certo non ogni elemento di una lingua è in egual misura e modo integrato). Questo aspetto è cruciale, ed è per questo opportuno esemplificare in modo esplicito e cogente. Prendiamo a questo fine in esame (ordine alfabetico) alcune interessanti ed assai istruttive “coppie” di parole, che

1 Camporeale 2004, p. 197; cfr. de Simone 1997, p. 47. 2 La concezione del “protopopolo che arriva” rappresenta in realtà un tenace relitto di una ideologia tardo-romantica, ormai superata senza ritorno anche in archeologia protostorica (R. Peroni); tra i linguisti: A. Häusler. Per una critica del concetto di “primigenio” (“Ur-“) de Simone 1997, p. 41; 1998a, p. 404. Per “l’albero genealogico” (“Stammbaumtheorie”) in quanto astratto modello esplicativo metastorico de Simone 1998a, p. 405. 3 Steinbauer 1999b, p. 203; v. anche Idem 1999a, p. 364. 4 de Simone 1986, p. 724. 5 Steinbauer 1999b, p. 203. 6 Il concetto di “contesto” va scalato in realtà a rigore su più livelli successivi e progressivi (stratificazione), linguistici ed estralinguistici (Coseriu

1975, pp. 253-290; de Simone 2001-2002, pp. 73-74): microtesto (1)-macrotesto (livello “testuale”) (2)-ontologia [: conoscenza delle “cose”] (3). Fa contesto naturalmente in senso più ampio, ma non meno importante, l’intera documentazione linguistica risultante dalla specifica lingua di pertinenza (rete strutturale interna), con le sue determinanti e qualificanti solidarietà sistemiche (ad es. l’intera lingua greca per un lemma greco). Ben esiste inoltre come background più ampio la storia-cultura dei parlanti la lingua in questione: questo aspetto di base in particolare viene per lo più trascurato (o preso sotto gamba) dai linguisti, con gravi conseguenze per le libere speculazioni che si possono derivare dai nudi dati linguistici estratti appunto da questo contesto. 7 de Simone 1997, pp. 40-41.

e teorie pelasgica e lidia sull’origine degli Etruschi, ambedue incentrate sul mare Adriatico, risalgono al periodo tra la fine del vi e il v secolo a.C., in quanto contengono riferimenti più o meno espliciti ad eventi di questo periodo. L’inquadramento di questi in una cornice mitostorica, relativa agli ultimi secoli del penultimo millennio a.C., corrisponde a un chiaro programma dei popoli in cui le suddette teorie sono state elaborate, di celebrare il ruolo che essi avevano al tempo della loro elaborazione nel contesto politico-economico-culturale del bacino centrale del mare Mediterraneo. Non a caso i Pelasgi e i Lidi sono fatti arrivare in Italia dall’Adriatico» (G. Camporeale).1 Caro Giovanni, è difficile, data la tua molteplice e assai ramificata attività scientifica, scegliere per onorarti un argomento che ti sia a cuore. Non senza esitazione ho scelto poi un tema che spero attiri la tua attenzione: la problematica “Origine degli Etruschi” dovrebbe incontrare il Tuo interesse: Tu sei – come me – allievo di M. Pallottino, che ha scritto su questo argomento pagine memorabili e decisive. Ad multos annos!

200

carlo de simone

ingl. (I) am “sono”

~

lat. duo

~

ıÂfi˜ ·ÎÏÔ˜ licio lada9 (“signora, moglie”) lat. na¯tus

~ ~ ~ ~

ted. Tochter

~

etr. am- “essere, esistere”: ame “sono”, *amu > *Amu(na); am(u)ce “sono”; “è stato, fu” arm. erk- “due” (legge Meillet) lat. deus ingl. wheel “ruota” ingl. lady got. -kunds : air a-kunds (“irdischer Abkunft”) licio kbatra “figlia”

(no)

(sì) (no) (sì) (no) (sì) (sì)

presentano in superficie “affinità/corrispondenze” (i.-e. ed etrusche).8 Alcune di queste supposte “equazioni diacroniche” – così nudamente formulate a colpi di corrispondenze singole ed intenzionalmente in modo apoditticamente schematico (appunto francamente “decontestualizzate”) – sono evidentemente errate e del tutto inconsistenti (qui contrassegnate da no, in quanto opposto a sì): si tratta di (I) am ~ etr. am-, ıÂfi˜ ~ lat. deus, licio lada ~ ingl. lady; per le altre vale al contrario in linea di principio la presupposizione di giustezza e conseguente piena storicità. Questa affermazione e valutazione storico-linguistica – per sé a rigore nel complesso valida (in positivo e negativo) – risulta tuttavia in realtà, a ben vedere, solo da un approccio o modo di considerare in sostanza intuitivo-impressionistico (“prescientifico”), che può certo svelarsi in quanto tale come non necessariamente errato, ma comunque certo metodologicamente insufficiente, da verificare dunque per necessità a ben altri livelli (rendere “trasparente” e “storico”). Occorre infatti notare e percepire sino in fondo che il quadro complessivo così formulato non si presenta in realtà – a ben vedere – come affatto evidente o clear-cut, perché in questa esposizione non viene affatto motivato ed esplicitato in modo operativo l’esito positivo (o negativo) dei confronti (identità diacroniche) stabiliti (: sì, no). Dal punto di vista formale (nonché necessariamente semantico) si potrebbe infatti ben rilevare ed obiettare con ineccepibile argomento che (I) am ~ etr. am- (no), lada ~ lady (no) sono molto vicini (“simili”) tra loro, certo in misura sensibilmente maggiore e netta di quanto lo siano al contrario le coppie ·ÎÏÔ˜ ~ wheel, na¯tus ~ -kunds o Tochter ~ kbatra (sempre sì), equazioni da considerare invece però pienamente valide a tutti gli effetti; in un caso (duo ~ erk-) la “somiglianza” è addirittura nulla (ma la valutazione permane sì!). Da cosa risultano questo insieme di dati apparentemente contradittori? Con quale criterio oggettivo dovremo valutare questa complessa situazione, uscendo dall’impasse? È evidente che esiste, a livello puramente ed esteriormente descrittivo, una scala progressiva di somiglianza (e in corrispondenza di relativa diversità) nella quale l’insieme duo ~ erk- (sì!) occupa il punto estremo in basso (formalmente: duo # erk-); al contrario: (I) am ~ etr. am- (no!) e lada ~ lady (no!) si “somigliano” invece in apparenza molto (formalmente e semanticamente: punto in alto nella scala!), ma

non rappresentano tuttavia palesemente un’equazione diacronica valida ((I) am # etr. am-, lada # lady!). È chiaro dunque che il criterio intuitivo della “somiglianza” risulta scarsamente applicabile (“impressionistico”), e non è in grado in quanto tale di dare alcun effettivo fondamento all’identità diacronico-storica, e può condurre per sé a palesi assurdità. Si tratta del famigerato principio o prassi della “sirena della (quasi) omofonia”, assai largamente applicato, con maggiore o minore grado di intenzionalità e riflessione teorica. La problematica fattuale così esemplificata in senso positivo/negativo (il materiale relativo non ha fine) ha ovviamente in realtà una propria motivazione profonda, dipende in altri termini da una precisa e vincolante formulazione teorica del fenomeno linguistico, nella sua articolazione e rapporto sincronico e diacronico. In gioco è la concezione strutturalistica del fenomeno “lingua” (in quanto diasistema) come basata su un insieme di regole (a diversi livelli) ordinate, che fanno parte costitutiva della “competenza linguistica” del parlante nativo, intesa come potenzialità o virtualità (lingua come “energeia”) e producono un output teoricamente infinito (“ergon” in quanto cosa fatta o “prodotto”). Si tratta della concezione dinamica o potenziale del sapere linguistico (“energetische Sprachbetrachtung”),10 su cui si è in linea di principio generalmente d’accordo, e da cui oggi non si può prescindere (nel senso dell’esigenza ormai divenuta imprescindibile di “adeguatezza esplicativa” o “concettualizzazione”)11 in qualsiasi approccio linguistico che voglia essere adeguato e quindi pienamente valido. Senza sostenere dunque l’assoluta regolarità (in quanto presunto processo inconscio o meccanico) delle “Lautgesetze” (o “regole”) occorre affermare (e realizzare poi conseguentemente nella prassi) che la concezione dinamica del divenire linguistico comporta la loro sistematicità di principio, che è di fatto alla base di ogni comparazione che voglia oggettivare e rendere verificabili per tutti i propri risultati, base poi di storia in senso più lato; la migliore formulazione in proposito è quella di E. Coseriu.12 La migliore linguistica comparata-ricostruttiva ha di fatto sempre operato a livello empirico, sin dai primordi, con leggi/regole fonetiche nel complesso regolari,13 e non esiste ancora oggi altro metodo possibile e praticabile, perché in caso contrario si dovrebbero accettare allora (o ritenere possibili o non escluse) le equazioni impressionistiche del tipo (I) am ~ etr. am-, ıÂfi˜ ~ deus nonché lada ~ lady, e non esisterebbero validi argo-

08 de Simone 1996, pp. 92-95; Idem 2001, pp. 226-227. Per il complesso dei nomi in Tar¯-, de Simone 1982, e Idem 2006a. 09 Neumann 2007, pp. 180-182: Xba ladã (acc.) “Herrin Xba”. 10 de Simone 2007, p. 128. 11 de Simone 2001, pp. 224-225. 12 Coseriu 1974, p. 88: «Das bedeutet, das real die in einem ‚Sprachzustand’ festgestellte lautliche Sistemazität die Projektion eines systematischen Geschaffenwerdens (corsivo mio), das heisst von ‚Lautgesetzen’ ist. Da-

her die Möglichkeit, vergangene Sprachformen zu rekonstruieren und zu postulieren». Fondamentale è la distinzione tra il carattere “intensivo” ed “estensivo” della regola (ivi, pp. 75-93: una innovazione viene selezionata a livello estensivo: io posso non accettare un’innovazione o contribuire a diffonderla. 13 Le motivazioni teoriche (nonché ideologiche) che hanno condizionato il sorgere e sviluppo della grammatica comparata sono molto bene illustrate da Morpurgo Davies 1996.

i num er a li et ru sc h i e d. st einbauer : ancor a «l ’ or igine degli etrus chi» 201 Esempi negativi nel pieno senso su definito si trovano meni operativi per falsificarle. Esiste in effetti un procedianche nella recente opera di G. M. Facchetti, che ad es. mento verificabile che garantisce operativamente ad es. “confronta” l’etrusco šians con il latino sa¯nus, o mette posl’identità diacronica ·ÎÏÔ˜ ~ wheel, ma è vero il contrario sibilmente in relazione la voce prinisšera (Tab. Cort.) con il per (I) am ~ etr. am-, ıÂfi˜ ~ deus, lada ~ lady. Questo è il nucleo. Esistono dunque delle “regole di corrispondenza” greco ÚÖÓÔ˜ “leccio”24 (: ¶ÚÈÓ·ÛÛfi˜; parola dunque ca(o “leggi fonetiche”) che fondano oggettivamente, nel conria?); onde la serena proposta ermeneutica “(palo) di leccreto e verificabile livello operativo (riproducibili), l’identicio” per il passo etrusco relativo: implica questo “raffrontà diacronica tra singoli lemmi.14 to” che l’etrusco è una lingua “microasiatica” o peggio Gli esempi di raffronti appunto pienamente “deconte“caria”? Ma come si costituisce l’origine e presenta la diffustualizzati” nel senso su definito sono purtroppo numerosione dei toponimi (ma anche appellativi: del tipo rappresi.15 Non è superflua e sterile polemica personale menziosentato da ΢·ÚÈÛÛfi˜) “greci” in -ÛÛfi˜? Che cosa può narne qui alcuni ai fini illustrativi: il presente contributo si darci e come il greco ÚÖÓÔ˜ per l’interpretazione della vopropone appunto il fine di chiarire per tutti coram populo alce prinišera, ancorata in un contesto ben preciso? Come va cuni punti teorico-metodologici di base (che l’A. sostiene), analizzato questo lemma etrusco dal punto di vista interda cui si può ovviamente dissentire nella teoria e prassi, peno-strutturale? Lo stesso insieme di difficoltà e questioni è rò motivando in modo puntuale e traendone le inerenti valido per sa¯nus ~ šians. Gli esempi di questo metodo sono conseguenze generali. purtroppo numerosi ed incidenti:25 che senso può avere In un suo recente intervento J. D. Ray16 ha prodotto una “confrontare” il minoico mari-, “maiale” (?) con l’etrusco serie di lemmi etruschi «wich make sense in Indo-EuropeMaris´, “genietto infante” (?).26 Che cosa distingue seriaan».17 Il termine “make sense” si presenta tuttavia come mente il caso prinis´era ~ ÚÖÓÔ˜ o Maris´ ~ mari- dai “conestremamente impressionistico (non fa per sé proprio “senfronti” (I) am ~ etr. am-, ıÂfi˜ ~ deus o lada ~ lady? Facchetso” preciso), perché nulla di puntuale e vincolante viene ti sostiene la necessità di entrare in una “fase del dettto sulle concrete modalità storico-linguistiche dei rafraffinamento”27 (degli studi di linguistica etrusca), princifronti istituiti. Cosa vuol dire confrontare l’etrusco ais, aipio su cui si potrebbe essere d’accordo. Ma il raffronto di sna/eisna (sic!; reso come “god, divine”) con la radice i.-e. prinišera con ÚÖÓÔ˜ (e gli altri casi metodologicamente del *eis- “holy”?18 Quale è il rapporto con l’italico aisotutto analoghi) comporta precise implicazioni semantico“Gott”?19 Come si affrontano e risolvono i problemi formatestuali (: “(palo) di leccio”) gravide di conseguenze, non fa li, e non da ultimo certo semantici, della presunta corriparte affatto dei “raffinamenti”, ma ben investe al contraspondenza? Ray ritiene,20 seguendo una nota tradizione, rio le basi metodologiche stesse del procedere. In gioco che il verbo etrusco muluve/anice, reso con “has dedicated”, non sono singoli fatti poco rilevanti (su cui si potrebbe dipresenta “cognates in Luwian malva” (“cognates”?).21 Ma il scutere), ma i fondamenti stessi: l’aspetto metodologico è verbo etrusco rappresenta in realtà un noto derivato denoassolutamente “costituente”. minativo (fattitivo) in -enice del sostantivo mulu, a sua volta Assai istruttiva si presenta la questione del lemnio mav nomen agentis/actionis della radice mul-: la catena derivaziosuscitata da D. Steinbauer (cfr. supra). Come ho già notato nale è mul- (radice) > mul-u- (sostantivo) > mulu-(v)enice (cfr. supra), egli ritiene che questo lemma vada inteso come (verbo); il verbo denominativo (muluvenice) rappresenta la “4”, e rappresenti la fase più antica dell’etrusco ma¯ (lemforma secondaria fondata (: marcata) rispetto alla base nonio mav > etr. ma¯!), e parla inoltre di una “Ähnlichkeit mit minale mulu (: di fondazione, primaria e non marcata). Ma luwisch maua vier”, che dovrebbe essere “unübersehbar”; il quale è la valenza specifica del verbo in Etrusco? Come va rapporto con la decade etrusca muval¯ (dunque “40” seconinteso il suo rapporto paradigmatico (distinzione/opposido Steinbauer; cfr. però infra) viene stabilito ipotizzando il zione) con il parallelo e concorrente turuce (catena derivapassaggio a > u in posizione atona: “wurde in der erschloszionale parallela: tur- > turu- > turuce)? Come mai muluvesenen voretrukischen Dekade *mavál- das unbetonte a zu u nice si trova solo in iscrizioni arcaiche, mentre al contrario assimiliert”. Ma in primis: il lemnio mav (“4” secondo Steintur(u)ce sopravvive?22 Da confronti di questo tipo Ray crede bauer) non è sic et simpliciter il luvio maua, e il colpo di rafdi poter dedurre23 che “it is simpler to argue that the Aegefronto non è dunque per sé ovvio (Steinbauer: “Ähnlian [?; CdS] was the original home [corsivo mio] of Etruscan chkeit” [?]).28 Che poi il dialetto lemnio (inteso come and its immediate relatives [?; CdS]”. “voretruskisch”) abbia avuto un accento intensivo del tipo 14 Nel caso migliore le corrispondenze diacroniche dovrebbero rendere conto (e motivare in quadro culturale-sociolinguistico) anche le differenze di significato, cioè il motivo del cambio semantico intervenuto. L’italiano “cattivo” è dimostrabile come risalente al lat. captı¯vus; ma perché il cambio semantico “prigioniero” > “cattivo”? La risposta è data dall’ideologia cristiana: captı¯vus diaboli (“prigioniero del diavolo) > “cattivo” (consiste cioè in un fatto ideologico-estralinguistico, che ha determinato il cambio). In realtà il motore del cambio è costituito appunto dall’“atto di parola”, che rappresenta il veicolo effettivo attraverso cui tutte le istanze del parlante (di ordine logico, estetico, pragmatico etc.) vengono fatte “langue”. Senza questa dialettica il cambio risulta altrimenti incomprensibile; la lingua per sé, come struttura astratta, non è in grado di mutare, perché non è un “organismo naturale” o pianta sviluppantesi in modo autonomo con leggi proprie. Il preciso e complesso contesto storico di pertinenza è pienamente determinante, e non può essere trascurato (o semplicemente saltato a piedi pari). 15 V. il materiale illustrativo raccolto e motivato in de Simone 1996, pp. 92-95. 16 Ray 2006. 17 Ivi, p. 1478.M 18 La radice andrebbe posta comunque in quanto tale nella forma h2eisd- “verehren” (: LIV 2001, pp. 260-261). 19 de Simone 2001-2002, pp. 91-92. 20 Ray 2006, p. 1478. 21 Hamp 1958 (ma etr. ma¯ non è “4”); E. Eichner (Eichner 1985) parte

dall’ipotetico *malwa- da cui dovrebbero derivare sia le forme luvio-sidetiche che etrusche (*malwa- > mul-??; etr. mulu: “Gabe, Widmung” secondo Eichner) (ma lidio *marwá-); anche la semantica viene vistosamente strapazzata: partendo dal valore “Zeichen” Eichner ammette il passaggio a “Stele (o ä.)” in Luvio/Lidio, ma “Dankeszeichen, Geschenk” in Sidetico/Etrusco. Esiste una adeguata radice indoeuropea *mel-/mol-? Il tutto è sensibilmente inconsistente. 22 In realtà muluvanice si riferisce ad un “dono in onore”, mentre tur(u)ce indica un “dono sacrale” (: Schirmer 1993); se questo fosse errato (o modificabile) si dovrebbe in ogni caso cercare un’altra soluzione. 23 Ray 2006, p. 1480. 24 Per questo termine v. ora Fortes Fortes 2001, pp. 74-75. 25 de Simone 2004, pp. 498-499. 26 Ivi, p. 500. 27 Facchetti 2008, p. 116. 28 Il termine impressionistico “unübersehbar” impiegato da Steinbauer intende suggerire in modo subliminare (“unterschwellig”) il carattere ovvio (quindi al di fuori di ogni discussione) del raffronto mav ~ maua, offuscando in realtà (o spacciando per ovvio) un “Tatbestand” che costituisce invece il problema effettivo, da affrontare con argomenti specifici, che in realtà però non vengono forniti. Il termine “unübersehbar” non li sostituisce in alcun modo.

202

carlo de simone

necessariamente ipotizzato da Steinbauer (per lo meno in questo caso) rappresenta una pura ipotesi di comodo ad hoc, decisamente contraria a quanto sappiamo sull’accento propriamente etrusco (protosillabico), e che non avrebbe del resto nemmeno un chiaro sostegno in ambito anatolico;29 inoltre: l’affermazione che il “protoetrusco” lemnio mav sia divenuto poi ma¯ costituisce una libera ipotesi ad hoc priva di alcun sostegno (“ungedeckt”) (-v > -¯ [ = kh?? ]: dove è la “Natürlichkeitstheorie”?). Ma esiste d’altra parte un ulteriore argomento autonomo già per sé assolutamente decisivo e vanificante per la tesi di Steinbauer di un rapporto del lemnio mav con il luvio maua “4”: il numerale etrusco per “4” è sicuramente ša (cfr. infra), e del resto l’etrusco ma¯ vale “5” (eventualmente “6”; cfr. infra); ne consegue che la questione se (e come) muval¯ sia in effetti la decade di ma¯ diviene non pertinente ed irrilevante in questo quadro. Risulta comunque già per sé tuttaltro che provato, in modo indipendente, che il lemnio mav possa essere testualmente esclusivamente un numerale: questa avrebbe dovuto essere la questione filologico-testuale primaria. Il sintagma relativo (di incerta limitazione) è in realtà maras mav ´sial¯veis aviš30: secondo Steinbauer il confronto diretto per il passo è offerto dal sintagma etrusco avil-s ma¯-šeal¯l-s; a parte il fatto però che ma¯ non è certo “4”, la semplice adiacenza di mav (: mav šal¯veis avis [“di «40» anni”]) non comporta in quanto tale affatto l’identificazione con un numerale (che si intenda dire cioè “di «44» anni”), perché la voce può rappresentare qualsiasi altra cosa, di funzione morfosintattica da determinare (determinazione di maras?). Il

lemma mav resta per ora un ±·Í, e non sappiamo in fondo nemmeno come valutare fonologicamente la lettera -v finale (da intendere come *mau?). Le argomentazioni di Steinbauer vengono ovviamente approvate in pieno e fatte proprie (con le relative conseguenze) da R. S. P. Beekes.31 Ma l’affermazione di Steinbauer di un rapporto tra il lemnio mav e il luvio maua, su cui egli basa deduzioni storiche di massima portata ed incidenza, non è solo nettamente autofondante, ma è au surplus assai discutibile sul piano metodologico generale. Essa costituisce infatti una ulteriore esempio paradigmatico di un raffronto interlinguistico realizzato per sé in modo decisamente atomistico. Non ci si può infatti non chiedere recisamente: quale possono essere, in linea di principio, l’evidenza e la portata risultanti da un caso isolato (il presunto mav ~ maua), quindi atomisticamente isolato e del tutto “decontestualizzato”? Si presenta verosimile che il presunto mav ~ maua possa costituire l’unico esempio in questione di quel tipo di corrispondenza? Se il lemnio mav (> etr. ma¯ secondo Steinbauer) corrisponde al luvio maua (il che è dimostrabilmente impossibile), esistono altri sistematici “raffronti” tra il sistema di numerali etrusco e quello luvio-microasiatico? È solo in realtà una serie di corrispondenze nel complesso regolari che potrebbe togliere l’equazione mav ~ maua dal suo isolamento, rendendola probabile. Risulta quindi estremamente utile ed istruttivo tentare un confronto sistematico tra i due insiemi relativi (: numerali etruschi ed anatolici). L’identità funzionale e seriazione (quasi) definitiva dei numerali etruschi è dovuta ad un fondamentale contributo di L. Agostiniani.32

Etrusco

Lingue Anatoliche

A) Numeri cardinali: “1” = ıu(n) [ı- = th-] (gen. ıuns)

~

eteo: a-a-an-za (= anza; N. c. s.) < *oyo-nt-s33 e-ki (L. sg.; forma hapax)34 < *oi-ko- (Mitanni aika-, ved. éka-; tema *oy-(o-)); i. e. *oi-no-, *oi-ko-, *oi-wo(accanto a *sem-).

“2” = zal (esal/esl) (gen. esals)

~

eteo: da- < *dwa- < *dwo- (< i. e. *d(u)wo-)35 luvio-ger.: tuwa/inza licio B: tbi licio A: kbi Le forme licie valgono “due” ed “altro”.36

“3” = ci (gen. cis)

~

eteo: terijas (gen. sg.; N. c.) (: terijanalla-, terijala- “mediatore)37 luvio (aggettivo): tarrijanalli“al terzo posto, di terzo rango”; i. e. *treyes.

“4” = Ûa [Û- = ´s- : ´sa]

~

eteo: mie(ja)was (Pl. N. c.; mieuwas)38 luvio: mauwati (Abl.). (: mauwa-). agg.: mawalli- “da quadriga” anatolico meiu-, mau-wai. e. *mei-u- “grande”39 (“piccolo, poco”?)40

“5” = ma¯ [-¯ = -kh]

~

˜ ma;41 < *k(o)mo- (?)42 licio: km

“6” = huı [-ı = -th]

~

eteo: si/aptam-; luvio: nunza43

29 Adiego 2001: l’A. ipotizza un accentuazione tonale connessa alle more e non alle sillabe; inoltre: “al menos en los casos en que actúa la primera regla de lenición, la larga acentuada tiene el acento sobre la primera mora”. 30 de Simone 1986, p. 724. 31 Beekes 2003, p. 25. 32 Agostiniani 1995. 33 Carruba 1995, pp. 77, 82; Idem 1998, p. 508 (*oi-o-n-). 34 Carruba 1995, p. 77. 35 Carruba 1995, pp. 84-85. 36 Carruba 1998, p. 510. 37 Carruba 1995, pp. 79, 85.

38 Carruba 1995, pp. 79, 87; Idem 1998, p. 510. 39 Carruba 1995, p. 87. 40 Carruba 1995, pp. 79, 86; Idem 1998, pp. 511-512. Per l’alternativa “piccolo”, cfr. LIV 2001, p. 427, n. 2. 41 Carruba 1995, p. 80; Idem 1998, p. 511. 42 Carruba 1995, p. 87; Idem 1998, p. 512. 43 Carruba 1995, p. 87.

i num er a li et ru sc h i e d. st einbauer : ancor a «l ’ or igine degli etrus chi» 203 te in snuiaÊ/snuiuÊ. La serie 17-19 impiega il procedimento Non è escluso che la successione etrusca “5” = ma¯ ~ “6” = sottrattivo: il morfo formante è -em “meno, da” (senza corhuı possa essere rovesciata; ci atteniamo in questa sede a rispondente anatoliche); si tratta di: “17” = *ci-em questa seriazione, preferita anche da L. Agostiniani.44 Ma il zaırum,“18” = esl-em zaırum, “19” = ıun-em zaırum. ˜ ma non presenta comunque alcuna relazione nemlicio km Oltre il “20” (zaırum) le decine vengono realizzate per meno con huı (se = “5”), né – all’inverso – si/aptam-/nunmezzo del formante -al¯(u-).51 Identificabili sono (senza corza con ma¯. rispondenze anatoliche) “30” = cial¯(u-) (ceal¯(u-)),“40” = La serie dei numerali 7-9 non è stabilita con sicurezza; si Ûeal¯ [Û- = ´s:šeal¯] (< *s´a-al¯(u-). L’interpretazione di semÊtratta di: al¯ e cezpal¯, come “70” e “90” dipende dal valore attribuito a semÊ e *cezp, che non è escluso possa essere invertito (cfr. “7” = semÊ [-Ê = -ph] ~ – supra); il numerale muval¯ viene correntemente interpreta“8” = *nurÊ [-Ê = -ph] ~ licio: aitãta; < *okto¯nta¯45 to come “50”, e collegato corrispondentemente con ma¯ “5”, “9” = *cezp ~ eteo: nu(wa); luvio: nuwa46 il che non è però del tutto esente da problemi formali.52 È < i.-e. *h1néun noto che un tipo di formazione corrispondente esattamente La successione qui privilegiata per l’Etrusco va intesa decia quello delle decine in -al¯(u-) è attestato nel tirsenico della samente come restante oggi sub iudice; come rileva però L. stele di Kaminia nella forma s´ial¯vis (gen.; “40”).53 Agostiniani47 i due numerali semÊ e *nurÊ si presentano formalmente analoghi (“rimano”) nella finale, il che suggeGli ordinali sinora attestati fanno la netta impressione di esrisce l’“adiacenza” nella loro effettiva seriazione (recitata). sere derivati aggettivali dei corrispondenti cardinali (: ıu(n), Questa constatazione restringe in un certo senso le possibis´ar, zaırum), il che può rientrare nella normalità tipologica lità date a solo due alternative: oltre quella qui esposta, si (: lat. decimus etc.). presenta possibile “7” = *cezp, e quindi in corrispondenza “8” = semÊ, “9” = *nurÊ. Le attestazioni anatoliche si preGli altri avverbi numerali sono: “due volte” = esl-z; “tre volsentano comunque irriducibili rispetto a qualsiasi seriaziote” = ci-z (-tz);“sei volte” = huı-z; “nove volte” = cezp-z. La ne etrusca: *cezp nonché *nurÊ, in particolare (candidati formante degli avverbi numerali è -z(i) per “9”) non hanno a che vedere con l’eteo nu(wa) o il luvio nuwa. Da notare infine il tipo di formazione di fattitivi etruschi derivati da numerali, quale risulta da zelar-ve-nas “avendo du“10” = Ûar [Û- = š-: sar] ~ licio: sñta (?);48 i. e. *dekm (?) plicato” e s´ar-ve-nas “avendo quadruplicato”; il tipo di for˚ mazione funzionalmente equivalente (ma non di parentela La serie 11-16 è gravata da incertezze. Punti fermi sono:49 genetica!) è in eteo 3-jahh- “triplicare”, 4-ahh- “quadruplica“13” = ci s´ar; “16” = huızars (gen.).50 Le attuali lacune oc˘ ˘ ˘ h- “far male”. re” (fattitivi in -ahh - < ˘*eh2-: ida¯lu > ida¯lawah casionali nella documentazione (“11”, “12”, “14”, “15”) pos˘ ˘ ˘ ˘ si presenta La documentazione anatolica dei numerali sono essere colmate per ipotesi combinatoria (con notevole dunque oggi, come risulta da questo quadro sinottico, ingrado di approssimazione – qui non rilevante – come *ıu dubbiamente incompleta (“aperta”) dal punto di vista dos´ar = “11”, *zal s´ar = “12”, *s´a s´ar = “14”, *ma¯ s´ar = “15”). cumentario, nonché gravata per sé da fattori e margini di Ma va ben realizzato che *zal s´ar ha un possibile concorren-

Etrusco

Lingue Anatoliche

B) Numeri ordinali: “primo” = ıunsna

~

eteo: hantezzi(ja)- “primo, anteriore”54 ˘ hantili- “primo” (di luogo, tempo, qualità);55 eteo-luv.: hant- “fronte”; i. e. *h2enti licio: przzi “primo”56 (*per-/*pr-).



~

eteo (N. A. n. sg.): dan “secondo” (avv. e moltipl.) luv. ger.: tuwana (?);57 licio.: kbijãtezi “ secondo”

– “decimo” = sarsnaus (gen.)59

~ ~

eteo (Sg. n. c.): terijas “per la terza volta”58 luvio ger.: tinta “decimo” (?)60

“ventesimo” = zaırums´ne (loc.)

~

(senza corrispondenza anatolica)

Etrusco

Lingue Anatoliche ~

C) Avverbi numerali: “una volta” = ıun-z

44 46 48 49 51 52 54

Agostiniani 1995, p. 86. Carruba 1995, pp. 87-88. Carruba 1995, pp. 88-89. Agostiniani 1995, pp. 31-32. Ivi, p. 31. Agostiniani 1995, p. 37. Carruba 1995, p. 78.

45 Ofitsch 1998, p. 426. 47 Agostiniani 1995, p. 31. 50 Ivi, pp. 31-32. 53 de Simone 1986, p. 724. 55 Ibidem.

eteo: a-as-ma “dapprima” < *oi-smo- (?)61

56 Ivi, p. 83. 57 Ivi, p. 78. 58 Ivi, p. 79. 59 La migliore interpretazione della finale in -(s)-nau è che si tratti di un aggettivo di pertinenza in -u (sulla base di aggettivo sostantivato in -(s)na): de Simone 2002, e Idem 2006b. 60 Carruba 1995, pp. 88-89; Ofitsch 1998, p. 426. 61 Carruba 1995, p. 82.

204

carlo de simone Etrusco

Lingue Anatoliche ~

eteo: 1-an-ki, a-an-ki (N. A. n. sg.) “una volta” < *a- an-ki (*a- < *oy-o-)62

“doppio” = *zelar

~ ~

mil.: tbisu “due volte”; licio: kbihu “due volte” mil.: triple˜ “doppio”63

“triplo” = ciar

~

luvio ger.: ta-ri-su-u64 licio B: tripple; licio A: trppeme “tre volte” (?)

“quadruplo” = *s´ar

~



D) Moltiplicativi: –

incertezza; le relative etimologie in senso indoeuropeo sono comunque limitate ed in parte aleatorie.65 Minori sono, al contrario, le incertezze relative ai numerali etruschi (serie 7-9 [?]; 11-16). A questi fattori intrinseci si aggiunge certo sempre l’inerente possibilità di nuove scoperte epigrafiche, in entrambi gli ambiti, che possono intervenire modificando ed ampliando il quadro complessivo (ma solo in misura parziale): permane tuttavia in ogni caso una solida e consistente base di confronto reciproco, oggi pienamente valida e dunque operazionabile. Risulta dalla sinossi etrusco-anatolica di cui supra (apparentemente ridondante) una constatazione fondamentale, gravida di conseguenze, per la problematica rilevante in questo contributo: il sistema dei numerali etruschi non presenta alcuna relazione con i numerali anatolici, perché i due insiemi risultano complessivamente del tutto reciprocamente impermeabili (mutualmente esclusivi); nessun numerale etrusco è “confrontabile” in senso genealogico (dipendenza dallo stesso modello esplicativo o “protolingua”), o possibilmente in quanto presunto “mitico” imprestito, con alcun numerale anatolico. Non esiste ad es. alcun insieme di regole fonologiche che possano collegare (in qualunque modo o con qualunque tipo di carambolage/escamotage si voglia più o meno liberamente operare) l’etr. ıu(n) (“1”) con l’eteo a-a-an-za (parimenti “1”). La ferma ricostruzione di una fase anteriore (“anatolica”) per quest’ultimo (*oyo-nt-s) non può riportarci in alcuna maniera a ıu(n), sia nel senso di una lontana parentela genealogica (“Urverwandschaft”: *oyo-nt-s > ıu(n)) che di un altrettanto ipotetico “imprestito” diretto (a-a-an-za > ıu(n)). La situazione si ripete nel complesso per entrambi gli insiemi nella loro consistenza attuale: l’esito negativo investe non solo singoli elementi, ma l’intero rapporto dei due “complessi numerali” in questione. Significativo è in particolare il raffronto contrastivo dei verbi fattitivi derivati da numerali: l’Etrusco oppone con decisione tipi formativi come zelar-ve-nas “avendo duplicato” e s´ar-ve-nas “avendo quadruplicato” agli etei 3-jahh- “triplicare” e 4-ahh- “qua˘˘ druplicare”: etr. -ve- # -ahh-;˘ ˘si tratta di una opposizione ˘ ˘ disperata potrebbe consistere strutturale. Una soluzione nell’affermare che, pur essendo l’Etrusco una lingua “anatolica”, il sistema numerale è preso in prestito in blocco da un’altra lingua (il che non è per sé impensabile). Ma ovviamente non esiste nulla del genere. Il risultato attuale del confronto tra le due grandezze si presenta molto esplicito, netto ed incontrovertibile (com62 Ivi, pp. 78, 82. 63 Ivi, p. 78. 64 Ivi, p. 79. 65 O. Carruba (cfr. Carruba 1995, p. 88) rileva a ragione con prudenza e realismo: “Questo caso (il num. 10) evidenzia il fatto che l’etimologia anatolica non può collegarsi direttamente all’ie. o sensa la ricostruzione lingui-

plessi numerali reciprocamente refrattari): ulteriori modificazioni della relativa documentazione fattuale (nel senso su accennato) non possono eventualmente alterare in modo sostanziale questo esito di base (ma solo al massimo intaccare qualche particolare): in gioco non sono infatti dei dettagli (singole equazioni-estrapolazioni diacroniche tra ambiti diversi), ma bensì degli insiemi (anche se parziali) messi a confronto. L’output generale complessivo non si costituisce dunque sin da ora come tale da poter essere sostanzialmente ribaltato in futuro in misura incidente e qualificante, portando quindi alla situazione opposta e contraria di fornire consistente fondamento alla tesi di una stretta parentela (genealogica?) dei due sistemi in questione. Bibliografia Adiego Lajara 2001 = I. J. Adiego Lajara, Lenición y acento en “protoanatolio”, in Anatolisch und Indogermanisch – Anatolico e Indoeuropeo, Akten des Kolloquiums der idg. Gesellschaft (Pavia, 22-25 Sept. 1998), hrsg. von O. Carruba, W. Meid, Innsbruck, 2001, pp. 11-18. Agostiniani 1995 = L. Agostiniani, Sui numerali etruschi e la loro rappresentazione grafica, «aion, Ling.», xvii, 1995, pp. 21-65. Beekes 2003 = R. S. P. Beekes, The Origins of Etruscan, Amsterdam 2003 («Med. knaw», 66.1). Beschi 1998 = L. Beschi, Arte e cultura di Lemnos arcaica, «ParPass», liii, 1998, pp. 48-76. Camporeale 2004 = G. Camporeale, Sulle tradizioni egee intorno all’origine degli Etruschi, «ParPass», cccxxxvi, 2004, pp. 179197. Carruba 1995 = O. Carruba, I numerali anatolici e l’indoeuropeo, «aion Ling.», xvii, 1995, pp. 75-95. Carruba 1998 = O. Carruba, Betrachtungen zu den anatolischen und indogermanischen Zahlwörtern, in Sprache und Kulturen der Indogermanen, Akten der x. Fachtagung der idg. Gesellschaft (Innsbruck, 22-28 Sept. 1996), hrsg. von W. Meid, Innsbruck, 1998, pp. 505-519. Carruba 2006 = O. Carruba, Il nome della Lidia e altri problemi lidii, in Studi linguistici in onore di R. Gusmani, a cura di R. Bombi, G. Cipoletti, F. Fusco, L. Innocente, V. Orioles, Alessandria, 2006, i, pp. 393-411. Coseriu 1974 = E. Coseriu, Synchronie, Diachronie und Geschichte. Das Problem des Sprachwandels, München, 1974. Coseriu 1975 = E. Coseriu, Sprachtheorie und allgemeine Sprachwissenschaft, München, 1975. de Simone 1972 = C. de Simone, Etrusco Tursikina: sulla formazione ed origine dei gentilizi etruschi in -kina (-cina), «StEtr», xl, 1972, pp. 153-181. de Simone 1982 = C. de Simone, Hethitisch Tarhu- etruskisch ˘ sticamente e metodologicamente chiara di uno stadio protoanatolico”. Ma ovviamente non sono in gioco in questa sede primariamente le connessioni etimologiche del sistema anatolico dei numerali, ma bensi in primis le “corrispondenze” etrusco-anatoliche, qui rilevanti in quanto tali.

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AESER NIA: APP UNT I P E R UN’E T I MO LO G I A Maria Pia Marchese*

U

na riflessione sul nome di Isernia implica alcune osservazioni preliminari relative all’indagine toponomastica nel suo complesso; da qui passeremo poi a qualche considerazione particolare legata alla radice e alla formazione della parola. L’indagine linguistica relativa a un toponimo non può risolversi in un’analisi diacronica della singola forma, ovvero in un’analisi etimologica basata sulla individuazione delle trasformazioni subite dalla parola nel tempo per ricostruire la forma lessicale di base. L’indagine diacronica dovrà inquadrarsi in un’indagine più ampia che senta la necessità di non trascurare la dimensione diatopica e diastratica.1 Applicando alla toponomastica questa terminologia tipica della sociolinguistica, con dimensione diatopica intendiamo le variazioni in relazione alla distribuzione areale di un certo tipo toponimico: per es. Castro o Civita sono parole romane presenti in tutt’Italia, altre, come i derivati da ocri-, sono tipiche dell’Italia centromeridionale; questo in accordo con una forma di insediamento e con una partizione territoriale tipica delle popolazioni italiche. Da notare che l’italico touta/tota non si è mantenuto nell’Italia centro-meridionale,2 perché sostituito dal latino civitas che si è imposto su touta, essendo quest’ultimo termine il riflesso di un concetto socio-politico soppiantato da civitas, che rappresenta lo strato socioculturale più recente. Con dimensione diastratica ci riferiamo alla stratificazione sociale degli usi linguistici; anche nella toponomastica tale stratificazione è percepibile. Esistono infatti toponimi che riflettono la denominazione dialettale del luogo, legati quindi alla lingua di un certo strato sociale: per es. Casa, Cason (Cason di Lanza presso Tarvisio), Casone/Casoni, Casotto; Casaso (presso Ampezzo); Carbonara, Carbonile, Carbonarola; altri che rispecchiano la lingua più colta come per esempio quelli legati alla cultura ecclesiastica o notarile o amministrativa, del tipo Cantone, Dogana, Masseria del Duca, Laghi del Vescovo, Pieve S. Stefano, etc. Inoltre bisogna tenere conto che i nomi di luogo non sono atomisticamente isolati, ma che per lo più fanno parte di un sistema; è vero d’altro canto che il sistema si dissolve nel tempo e che certi toponimi si fissano e sopravvivono al sistema che li ha creati, così da sembrare isolati. La fissazione di un toponimo è dovuta in parte a vicende storiche, in parte all’oggetto del toponimo (monte, bosco, ponte), così

che si può arrivare a parlare del toponimo come di ‘individuo fisico’.3 Questa ‘fisicità’ del toponimo produce una fissità superiore rispetto al sistema onomastico in generale: ne sono una prova i toponimi contenenti appellativi quali monte, bosco, ponte, piana, valle, porto, foce, etc. che si conservano inalterati nel tempo in correlazione con il permanere immutato della realtà fisica a cui si riferiscono. Un caso di continuità, comunque non legata al referente fisico rappresentato dal territorio, è dato proprio dal toponimo Isernia: un’iscrizione recentemente ritrovata a Campochiaro4 con la dedica a [herk]lui aiserniui “a Ercole Aisernio”, costituisce una prova, tramite la forma aggettivale derivata, dell’esistenza del nome italico della città. Quando i Romani vi fondano una colonia (263 a.C.) mantengono il nome, che le fonti latine ci attestano precedente alla deduzione della colonia romana; Aesernia, con l’aggettivo derivato aesernina, aeserninum, aesernini, è testimoniato nelle fonti letterarie latine5 e su monete locali in bronzo (Ve 200 b6), in grafia latina: in una di queste, del tempo della fondazione della colonia romana nel 263 a.C., è possibile identificare il nome della città, aisernio (osco *aiserniú); altre due legende contengono le attestazioni aisernim e aisernino. Il nome Aesernia è dunque antico e si presta a una indagine diacronica, che dovrà essere integrata da considerazioni diatopiche – relative cioè a una verifica di una eventuale distribuzione areale di questo tipo toponimico –, che contribuiranno utilmente al processo di ricostruzione linguistica. Infatti anche i nomi Isarco (Isara,6 Isarus aqua7), Isonzo (Aesontius),8 Esaro (AúÛ·ÚÔ˜;9 quest’ultimo è il nome di due torrenti della Calabria, uno a nord della Sila, affluente del Coscile, l’altro che sfocia nei pressi di Crotone) sono stati ricondotti a una base *ais-, *is- “muoversi velocemente” da cui si fanno derivare le forme a.i. is. náti “mettere in movimento, affrettarsi”, is. irá “rapido, veloce”. Si tratterà di vedere se si tratta della stessa radice di Aesernia e l’eventuale connessione dell’etimo. In italico sono attestate forme sostantivali riconducibili a una radice ais- come dimostrano il peligno aisis, “diis” (Ve 204 = Rix, ST Pg 12), il marrucino aisos pacris, “dii propitii” (Ve 218= Rix, ST vm 1), il marso esos nouesedes, “di novensides” (Ve 225 = Rix, ST vm 5), l’umbro delle T.I. esono ‘sacer’.10 La radice11 italica ais, che, come risulta dalle testimonianze ora citate, ha dato luogo a una terminologia ineren-

* Il presente contributo riproduce in parte il testo di un mio intervento relativo agli aspetti toponomastici dei centri sannitici, tenuta in occasione del Forum “L’insediamento fortificato sannitico e sabellico”, svoltosi a Isernia il 31 marzo 2007 in occasione del Premio internazionale di archeologia “I Sanniti”. In quell’occasione era presente, tra i relatori, anche Giovanni Colonna, col quale negli ultimi anni varie volte ho avuto modo di incontrarmi e di discutere dei comuni interessi italici proprio a Isernia; in particolar modo ricordo la nostra partecipazione ai convegni internazionali del 2004 e del 2006, svoltisi a Isernia e organizzati dal Comitato nazionale degli studi sul Sannio in collaborazione col Centro di studi sannitici “Andrea da Isernia”.

04 L’iscrizione è stata pubblicata da Capini 2000. 05 Cfr. Liv., x, 31, 2, 3; xxvii, 10, 8, 2; xliv, 40, 7, 1. 06 Eå˜ ÙeÓ åÛ¿Ú·Ó in Strab., iv, 207. 07 Isarus aqua è attestato in Venanzio Fortunato. 08 Aesontio in CIL, xiii, 302; ad Isontium in Cassiod., Chron. 1320; ponte Sonti nella Tabula Peutingeriana, iv sec. d.C. 09 AúÛ·ÚÔ˜, attestato in Teocr., iv, 17. 10 A queste forme italiche si potrebbe aggiungere il venetico aisu-, su cui Prosdocimi 1967, pp. 42-45; in Marchese 1980-1981, pp. 18-19, accogliendo la possibilità di una lettura ahsu, anziché aisu (su cui anche Prosdocimi 1987, p. 324) ho prospettato l’ipotesi che h fosse la notazione grafica della lunga precedente: la lunga potrebbe non essere originaria, ma il risultato di un allungamento *ans > a¯ s e in tal caso varrebbe l’ipotesi dell’identificazione con la divinità germanica degli Asi (germ. *ansu-). 11 Uso convenzionalmente il termine “radice” in una prospettiva potenzialmente indeuropea; altrimenti sarebbe preferibile il termine “base” (cfr. Dizionario 1990, s.v. Isernia, Isonzo): il riferimento è comunque al nucleo di base che dà la semicità lessicale.

1 Mi richiamo a quanto già espresso da A. L. Prosdocimi nella relazione al Convegno “I luoghi della Calabria: verso una toponomastica della Calabria e del Meridione” (Arcavacata di Rende, 26-29 maggio 1997), oggi pubblicata in «sies», 2004, pp. 397-408. 02 Una possibile etimologia di Tocco da touticus è discutibile e tutta da verificare. 3 Definizione di Prosdocimi 2004.

aesernia : appunti per un ’ etimolo gia

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te al ‘sacro’, o comunque al ‘sacrificio’ ha una storia travagliata sia sul piano semantico sia su quello lessicale. Ripercorrendo la storia della tradizione degli studi etrusco-italici, vediamo che la radice è stata accostata dal Lanzi all’etrusco aiser12 e per decenni le forme italiche da ais- sono state annoverate tra le prove di italicità dell’etrusco oppure considerate alternativamente come parole italiche passate in etrusco o come parole etrusche passate in italico.13 Nel caso di Aesernia, nonostante l’ampliamento in -er- renda la forma prossima all’etrusco aiser, possiamo con sicurezza escludere la possibilità di intendere il toponimo come prestito etrusco avvenuto in epoca storica, perché l’abitato di Isernia si colloca lontano dalle zone della Campania in cui è documentato lo stanziamento degli Etruschi; oltretutto c’è anche una difficoltà morfologica rappresentata dal fatto che -er è marca di plurale e una derivazione dal nome marcato come plurale risulta poco probabile. La questione riguarda dunque la radice da cui il toponimo deriva, che gli studi di Ribezzo 1920, di Kretschmer 1921 e ancora di Ribezzo 1929 inseriscono nel sistema dei relitti mediterranei preindeuropei; di conseguenza per questi studiosi il problema etrusco-italico della radice si risolveva nel passaggio di ais- dall’etrusco nelle lingue italiche. Devoto 1931, in uno studio che porta come sottotitolo: ais- etrusco e ais- mediterraneo, prende le mosse dai sopracitati lavori di Ribezzo e di Kretschmer; quest’ultimo in particolare aveva inquadrato il problema nell’incrocio avvenuto tra forme mediterranee di appellativi e di nomi propri del tipo *aisaros con il tema indeuropeo *isero, incrocio dal quale sarebbe poi nata la forma del greco îÂÚfi˜; Ribezzo 1929 aveva affermato: “(Aisera) che qui si presenta come nome proprio in origine era solo un appellativo divino… voce che i toponimi preellenici AúÛ·ÚÔ˜ (Brut.), Aisernia dicono che in età proto italica era estesa a tutta l’Italia mediterranea, poi ausonica”. Inoltre Autran 1926-3014 era arrivato addirittura a includere nella famiglia ais- anche il greco ·úÛ· e tutti i nomi personali da esso derivati. Devoto, che definisce impeccabile lo schema logico del ragionamento del Ribezzo e del Kretschmer, afferma che “le esagerazioni dell’Autran mostrano che non basta aderire a uno schema perfetto; bisogna anche vegliare sulla sua applicazione. Dimostrata l’esistenza di una famiglia mediterranea ais-, si tratta di esaminarne i rappresentanti sotto il triplice punto di vista della distribuzione geografica, del significato, dei suffissi. Si tratta quindi di vedere se esso costituisce un tutto con il sistema di ais- etrusco”. L’esame del cospicuo materiale raccolto e raggruppato sulla base di queste premesse porta Devoto a concludere che “la famiglia etrusca di ais riposa dunque completamente sulla famiglia indeuropea, di cui, molto a torto, lo

Skutsch in Pauly-Wissowa, vi, 776, nega l’esistenza”. Devoto giunge alla conclusione di un’origine indeuropea dell’etrusco ais, ritenendo comunque “lecito pensare che forme quali l’umbro esono o il volsco esaristrom rappresentino le forme etrusche corrispondenti aisuna, aisar; siano una ‘reintroduzione’ in area italica di una parola originariamente italica, ma travestita in forma etrusca”; per quanto riguarda il rapporto col greco îÂÚfi˜, Devoto ritiene di aver fornito la prova indiretta che nessun elemento mediterraneo abbia influito sulla fissazione formale e semantica di questo termine greco e giunge alla conclusione che “da quando Antoine Meillet nella ZCPh, x, p. 309, ha richiamato l’attenzione sull’alternanza irlandese nóib ‘santo’, níab ‘vigoria’, non c’è del resto più ragione di sorprendersi se accanto a *is ro ‘forte’ si è costituito î·Úfi˜ ‘sacro’ ”.15 In prospettiva indeuropea, dal punto di vista semantico, la connessione tra il concetto di “movimento impetuoso” – riscontrabile nell’antico indiano is. náti, “mettere in movimento, affrettarsi”, is. irá, “rapido, veloce”, e nei sopra citati idronimi dell’Italia antica (Aesontius, Isarus, AúÛ·ÚÔ˜) – può effettivamente conciliarsi col concetto di “sacro” riscontrabile nell’italico aisos e nel greco î·Úfi˜ < *is ro: saremmo di fronte a una sacralità intesa come forza, diversa dalla sacralità intesa come “divinità”, espressa dalla radice *deiw/diw. Più problematica sarebbe invece la spiegazione morfologica inerente l’alternanza ais/is, che non rientra nella alternanza apofonica indeuropea canonica del tipo ois, eis, is. Krahe 1964 individua una base idrononimica *ais/*is (e varianti), “muoversi velocemente”, riferito ad acqua, che riconosce in Isarco (Isara) e nel sanscrito is. irá, “rapido”, e giustifica l’alternanza ais/is attribuendola a uno strato linguistico che chiama “alteuropäisch”, caratterizzato dal vocalismo a, che corrisponde, nell’iter dello stesso Krahe, alla a attribuita all’illirico a partire dagli anni ’20.16 Krahe, a latere del Pokorny 1959, 16 e 299, resta un riferimento su cui discutere specialmente per l’alternanza ais/is, spiegabile solo con un’apofonia a/Ø, che, come già detto, non è spiegabile nei termini dell’indeuropeistica tradizionale.17 Tale alternanza può trovare spiegazione all’interno della ricostruzione indeuropea se si accetta la teoria laringale; ammesso infatti il quadro generalmente accettato, conseguente alla ricostruzione delle laringali, per cui H2e >a, possiamo ritenere verisimile una trafila del tipo H2eis > ais e H2Øis > is.18 In questo modo ritengo che si possa effettivamente dare unitarietà alla spiegazione di più forme: sia alle formazioni idronimiche o toponimiche come Aesontius, Isarus, AúÛ·ÚÔ˜, Aisernio/Aesernia, sia agli appellativi italici come aisos, esono ed eventualmente al greco îÂÚfi˜, secondo la prospettiva di Devoto esposta sopra. I derivati in -ar della radice ais/is si spiegano con una

12 Lanzi 1789 (18252) confrontò il volsco esaristrom con l’etrusco aesar, forma etrusca della glossa (TLE2 803 a-b; 804). 13 Sui derivati di ais- in italico e in etrusco e sui loro eventuali rapporti si vedano Rix 1967, Rix 1969, Steinbauer 1993 e Steinbauer 1999. 14 La citazione di C. Autran, Introduction à l’étude critique du nom propre grec, Paris, Geuthner, 1926-30 è funzionale al ragionamento di Devoto qui riportato. 15 Sulla difficoltà del rapporto tra etimologia e significato a proposito del confronto tra il greco îÂÚfi˜ e il sanscrito is. irah cfr. García-Ramón 1992; si veda inoltre il recente articolo di Stefanelli 2007, che, muovendo dal confronto greco-vedico, ipotizza per l’aggettivo îÂÚfi˜ un significato unico che sarebbe poi stato scisso da noi nelle due distinte accezioni di “sacro” e “forte”. 16 L’individuazione di un presunto ‘alteuropäisch’ da parte di Krahe inizia in un articolo programmatico del 1946, continua in una serie di lavori su varie riviste, specialmente nei «Beiträge zur Namenforschung» (fondata

dallo stesso Krahe) nel 1949 e nelle «Indogermanische Forschungen» di cui Krahe era condirettore. Lo status quaestionis è fissato in Sprache und Vorzeit (1954). Per la nostra topo/idronimia si vedano specialmente Krahe 1964a e Krahe 1964b. 17 Krahe, come tutta l’indeuropeistica tedesca ignorava, o quanto meno non utilizzava, almeno fino alla generazione di Hofmann, l’ipotesi laringale nella variante di natura consonantica della stessa e con effetto ‘colorante’ (cfr. Kurylowicz 1935 e Benveniste 1935). Sulla questione delle laringali cito alcuni lavori di riferimento quali Evidence 1965, Szemerényi 1973, Mayrhofer 1986, Prosdocimi 1987 e 1992-1993, Lindeman 1987 e 1992; si veda inoltre il recente articolo di Di Giovine 2006, che ripercorre la storia della ricostruzione delle laringali, sottolineando anche la criticità di alcuni studiosi nei confronti di questo problema ricostruttivo. 18 Cfr., per esempio, la spiegazione di lat. aemulus < h2ei-mo- e lat. imitari < h2i-m, fornita da Schrijver 1991, pp. 38 e 74.

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maria pia marchese

formante -ar-, confrontabile, per esempio, con Caisar, -is (variante di caisus), o con lucus/Lucarid, forma, quest’ultima, attestata in una lex di Lucera; nel caso dell’italico aisernio (grafia latina per aiserniú, femm. sing.) > lat. Aesernia, questa formante sarebbe a sua volta seguita da una suffissazione no+ja > nia, tipica della formazione antica di femminili.19 Ma in aisernio/Aesernia ~ isar- (Isarus, AúÛ·ÚÔ˜) resta la questione della morfonologia -er-/-ar-; se riteniamo primario -ar-, il passaggio a -er- è un normale fenomeno di fonetica latina.20 Per quel che riguarda le forme italiche aisernio, aisernino, considerata l’attestazione di una forma umbra propartie (Ass. 1) e di un lat. Propertius, dovremmo pensare a un latinismo del sannita; ma, come abbiamo visto, aisernio è un nome di data antica e postulare per questo nome una trafila fonetica latina comporterebbe supporre un circa quem al v sec. a.C.; a questa data non sembrano verificabili i presupposti culturali per un fenomeno di latinizzazione e pertanto appare più probabile un automatismo sincronico latino-romano e italico.21

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19 Cfr. Solta 1959. 20 Cfr. le forme del tipo cauerna, lucerna, lanterna, cisterna sulle quali vedi Peruzzi 1978, pp. 92-93. 21 Questa spiegazione, che contempla le attestazioni latine e italiche con estensione all’Italia settentrionale (Isarus), diventa inadeguata se si includono tra i derivati della radice *ais/is il greco î·Úfi˜ (vedi sopra Devoto 1931) con le sue varianti îÂÚfi˜ e îÚfi˜. In questo caso per trovare una spiegazione unitaria si potrebbe ricorrere a un ampliamento della radice con una

seconda laringale, oltre a quella postulata per la radice, ma il problema è complesso e merita di essere approfondito in altra sede. 22 Vedi sopra nota 4. 23 Il documento è citato da Caiazza 1997. 24 Si tratta dell’arcivescovo di Benevento, Alfanus, che nomina vescovo di Alife il diacono Vitus. 25 Nome che coincide con quello del fiume Tifernus, oggi Biferno, che da esso trae origine.

Dopo queste osservazioni di ordine lessicale e morfologico, inerenti all’etimo di Aesernia, mi sembra opportuno concludere, secondo le premesse enunciate sopra, con una considerazione diatopica inerente l’attestazione di questo toponimo; la considerazione nasce dal sopra citato recente ritrovamento dell’iscrizione da Campochiaro,22 che attesta la dedica [herk]lui aiserniui “a Ercole Aisernio”, contenente una forma aggettivale derivata dal nome della città. La (relativa) lontananza di Campochiaro da Isernia non costituisce argomento insuperabile per mettere in relazione la dedica di Campochiaro con Isernia. Come afferma la Capini nel commento a questo nuovo testo, un documento del 98523 che descrive i confini della diocesi di Alife,24 ci testimonia lungo il confine settentrionale, che corre lungo lo spartiacque del Matese, il toponimo Esere, identificabile con ogni probabilità con il sito attuale Esule vicino a Monte Miletto, che è la cima più alta del Matese. Se si accetta la spiegazione di Esule come ridenominazione facilior di Esere, toponimo non più trasparente, è possibile ipotizzare che aeser- fosse la base del nome antico del Matese, da cui avrebbe preso nome Isernia, la città ubicata sulle pendici del monte *aisernio che i Romani poi chiamarono Tifernus;25 anche in questo caso siamo di fronte a una sostituzione onomastica che crea discontinuità nel nome del monte, il quale però (se si ammette la modificazione per paronomasia Esere > Esule) manterrebbe l’antico nome solo per la sua vetta più alta. In questo modo ricostruiremmo un sistema toponimico soggiacente alla situazione toponimica attuale, in base alla quale il nome Isernia oggi appare isolato e immotivato.

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SU L T IPO ATTA ‘ PADR E’ I N ALCUNE T RADI Z I O NI I NDE UROPE E : T R A L ES S IC O IS TITU ZIO NALE E F UNZ I O NALI T À O NO MAST IC A Aldo Luigi Prosdocimi · Anna Marinetti

È

luogo comune che le forme come il latino atta, mama, *appa etc. siano ‘nomi infantili’: nursery rhymes, Lallwörter. Si è andati più avanti e si è attribuito a questo tipo di voci una ‘naturalità’ che travalica i raggruppamenti genetici, quali indeuropeo, semitico, uralo-altaico etc. per essere (quasi-)universali. Al proposito vi è il famoso articolo di Roman Jakobson, già celebratissimo – ora con qualche appannatura – dal titolo «Why mama and papa?».1 È convinzione degli autori, anche se con diversa accentuazione, che l’universalità mascherata in diciture quali ‘nomi infantili’, ‘Lallwörter’ etc. sia non errata ma decettiva nell’identificare lo status semantico che compete a tali forme nel lessico e, di qui, nell’onomastica, spesso senza soluzione di continuità fra semanticità istituzionale e funzionalità onomastica. È evidente che nel passaggio dalla qualifica di ‘nomi infantili’ / ‘Lallwörter’ e simili a ‘semantica istituzionale’ c’è un abisso: la natura di Lallwort concerne genesi e configurazione fonica, ma non lo status semantico e istituzionale dei lessemi in questione. In altre parole, l’utilizzo di etichette quali ‘Lallwort’ è una non-spiegazione, non solo per lo status semico-istituzionale del sistema-lingua in cui si trova il termine, ma anche in senso ‘etimologico’, ove con etimologia si intenda la storia delle parole, la sua storicità attuale e pregressa; questa non va confusa con la ‘histoire des mots’ di vocabolari etimologici – come l’Ernout-Meillet per il latino – che non per caso abbondano di qualificazioni corrispondenti a ‘Lallwort’ per termini del nostro tipo. Al proposito, è da rilevare che questi termini hanno sì uno status particolare, che ha a che fare con la loro configurazione fonica, se si vuole fra ontogenesi e filogenesi, ma – al contrario di quanto si usa normalmente per liquidarli in ragione della suddetta configurazione – richiedono una attenzione particolare ed una specifica sensibilità per identificare la loro configurazione semica ed istituzionale nei sistemi in cui si realizzano storicamente. Da quanto detto, consegue la necessità di un vaglio critico ben più approfondito di quanto sia la norma tra descrizione lessico-semantica o etimologia, proprio perché la loro ‘semplicità’ fonica si rivela illusoria rispetto alla loro complessità istituzionale. Un caso in cui risulta tutta la complessità è lo status di forme come atta, appa, tata, etc. fra lessico istituzionale di lingua e uso nell’onomastica. È precisamente a un caso di que-

sto tipo che uno dei due autori ha dedicato un lavoro specifico (Marinetti 1982) che considerava tali forme lessicali e l’onomastica derivatane, tra attribuzione di romanità e sabinità /italicità2 ma, soprattutto, mettendo in rilievo l’originaria funzione istituzionale da attribuire a queste forme onomastiche, e ad altre di analoga natura, quali i cosiddetti ‘nomi parlanti’. La tematica è stata riproposta più recentemente dall’altro firmatario di questa nota in un lavoro sull’onomastica (Prosdocimi 2009a), ove l’articolo di Anna Marinetti è stato ampiamente richiamato entro un capitolo dedicato ai nomi propri in -a del latino (e) italico. In quella sede si sottolineava che la questione centrale per tali forme è la qualificazione del loro status, tra lessico istituzionale e funzionalità onomastica Nel frattempo vi è stata l’occasione di rivedere ed ampliare i termini della questione su alcuni versanti: è ciò che proponiamo in questa nota, esito di lavoro comune ad entrambi gli autori, come piccolo contributo a un tema ampio per estensione di spazi e tempi, oltre l’Italia e oltre l’indeuropeo, e non solo per l’elementarità poligenetica di cui si è detto sopra, ma per la pertinenza nelle singole realtà linguistiche tra comunità genetica e areale quale storicità dell’‘universalismo’ formale ricordato sopra. Offriamo questo al Maestro, e caro amico, qui festeggiato perché riteniamo che, se non l’esecuzione, quanto meno il tema sia di suo gradimento. Apparirà forse strano che non si sia fatto alcun cenno alla fenomenologia offerta dall’etrusco in questo àmbito; la scelta è stata voluta e programmatica, non per isolare né per limitare, ma perché appaia quanto ci sia da fare – oltre al già fatto – su questo tema. Può essere significativo che corra mezzo secolo dalla trattazione che Massimo Pallottino, di cui Giovanni Colonna è degno successore, dedicava alla coppia apac atic:3 è un affettuoso invito ad avanzare oltre il già fatto.

1 Jakobson 1959 (poi in Selected Writings, i, The Hague 1971, pp. 538-545). 2 La dizione ‘sabinità / italicità’ intende sottolineare un fatto: di ‘sabinità’ si è parlato moltissimo, ma più da prospettiva storica, storiografica e, soprattutto, romana e / o in funzione di Roma. Anche un Peruzzi, che ha condotto escavi pluridecennali, ne dà una definizione in prospettiva ‘romana’ e non ‘italica’ o anche italica, specialmente dopo l’accertata ‘safinità’ nelle iscrizioni sudpicene (avanti in testo e nota 10); qui la forma per ‘sabino’ è con -f- e non con -p- della glossa di (Verrio) in Paolo, 4 L.: «Album, quod nos dicimus […], Sabini tamen alpum dixerunt», che non corrisponde all’esito né di romano sabino-, né di italico safino-. Sulla questione di lingua su base documentale propria il problema è stato focalizzato da M. Negri a partire dagli anni ’80; sulla questione sta lavorando Paolo Cagnazzo, nel corso del dottorato di ricerca, al seguito della sua tesi di laurea specialistica (Cagnazzo 2008-2009). Tale tesi è stata svolta in concomitanza e al seguito degli interventi di A.L. Prosdocimi: Safini / Sabini, Samnium, Samnites, al Convegno Internazionale I Sanniti e Roma

(Isernia 7-11 novembre 2006), e Campania settentrionale: il quadro linguistico prima e dopo la sannitizzazione (con M. P. Marchese), al xxvi Convegno di Studi Etruschi ed Italici «Gli Etruschi e la Campania settentrionale» (CasertaSanta Maria Capua Vetere-Capua-Teano 11-15 novembre 2007): entrambi in stampa nei relativi Atti. Per la questione dell’etnico Sabini tra -b- ‘romano’, -f- ‘italico’ e -p- ‘sabino (proprio)’, v. Prosdocimi 2004a e Id. 2008. È da aggiungere che l’operare di Giovanni Colonna negli ultimi decenni ha contribuito con interventi spesso determinanti ad illustrare aspetti della ‘sabinità’ geograficamente propria e di aree prossime, concorrenti a delineare la complessità della questione, quali Capena e l’area che vi afferisce. Per le ragioni poste sopra, quando si tratterà di ‘sabinità’, o ‘romana’ o non specificata, si userà l’artificio convenzionale della virgolettatura: ‘sabino’, ‘Sabini’ 3 M. Pallottino, Il culto degli antenati in Etruria e una probabile equivalenza lessicale etrusco-latina, «StEtr», xxvi, 1958, pp. 49-83.

1. Sulle formazioni appa: Appius , atta: Attius , etc: genesi lessicale e funzionalità onomastica 1. 1. Lo status delle ‘forme infantili’: genesi remota e usi nell’onomastica Si è già avuto modo di sostenere che l’unitarietà dell’‘indeuropeo’ consiste in una serie di principi struttivi distribuiti ed

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 211 velli della società; così pure, l’onomastica derivata da queste evoluti in varietà o ‘filoni’ di lingua, di cui solo alcuni arrivati forme rifletterà non l’irrilevante genesi ‘infantile’, bensì il a fissazione in lingue storicamente documentate.4 A loro ruolo o il rango attribuito alle forme stesse. volta le lingue storicamente documentate, non unitarie ab Se basi lessicali ‘infantili’ forniscono onomastica, o sono origine ma risultato – in diversa misura – della coagulazione premesse ad una funzionalità onomastica per figure sociodi varietà e filoni diversi, riflettono negli esiti la complessità culturali di alto o altissimo rango, è questa funzione che va della loro costituzione /stratificazione. Nell’onomastica roevidenziata come pertinente; come pure andrebbe evidenmano-latino-italica ciò si è individuato in più casi; nell’asziato il tipo di rapporto sistemico con forme semanticamensunzione di una medesima funzionalità per forme morfote prossime: è il caso della compresenza di atta /appa e pater logiche originariamente distinte: è quanto avviene per -a e in alcune tradizioni (su ciò cenni più avanti); eventualmente -o(n) nella formazione dei cognomina, o di -io- e -Vlo- in dedovrà essere oggetto di riflessione il perché termini ‘infantirivazione (Prosdocimi 2009a); nella presenza, a fianco di li’ assumono la funzionalità socio-culturale predetta: ma strutture vitali e produttive, di strutture marginali o margiquesto meriterebbe ben altri approfondimenti. nalizzate – poi diversamente ristrutturate, oppure esaurite e non più produttive, e in quanto tali riconoscibili solo negli 1. 2. appa /Appius e atta /Attius tra sabinità e romanità: esiti ormai cristallizzati. È il caso delle forme onomastiche riproposizione della questione di cui tratteremo, seriate da basi lessicali formalmente ‘anomale’ e comunque marginali nel quadro dell’indeuropeo Anche sulla base degli (allora) recenti e numerosi apporti al‘canonico’; tali basi sono caratterizzate negli esiti storici da la cultura italica che scaturivano dalla revisione della lingua vocalismo a, in parte dalla presenza di occlusive geminate, e della cultura sudpicena, si era proposta alcuni anni fa con valori di designazione nell’ambito dei rapporti di paren(Marinetti 1982) una rivisitazione delle forme onomastitela, tipo atta, tata, appa, papa, amma, mam(m)a, etc. L’ ‘anoche attestate nel latino Atta /Attus /Attius e Appius, e ciò a malia’ formale di tali basi nel quadro dell’indeuropeo ha tropartire dalle fonti relative al primo Appius noto a Roma, il savato spiegazione nel carattere di ‘nomi infantili’, ‘Lallwörter’ bino Appio Claudio, capostipite della gens dei Claudii. Rie simili; si tratta peraltro di una tipologia formale di basi lesspetto alla vulgata consolidata dall’autorità di Mommsen, sicali, sempre riferita a nomi parentali o ‘quasi-parentali’, che riconosceva in Attus (e varianti) l’originaria forma ‘sabinon esclusiva dell’indeuropeo, anzi a diffusione pressoché na’ (v. nota 2) latinizzata poi in Appius, si rovesciava la prouniversale e, come tale, riconosciuta da Jakobson (cit.) come spettiva, individuando in Appius la forma sabina e in Atta / pertinente ad una fase iniziale dell’apprendimento della linAttus /Attius la latinizzazione del precedente: non un adattagua, secondo principi universali di stadi costanti nell’acquimento fonetico (del tutto privo di presupposti), ma una forsizione della fonologia. ma di ‘traduzione’, di trasposizione o calco da una lingua L’attribuzione del carattere di ‘nomi infantili’ ha tuttavia all’altra a partire da basi lessicalmente motivate, sottostanti ingenerato un equivoco nell’identificazione dello status lesad entrambi i tipi onomastici: la base *appa per il sabino Apsicale, nella non distinzione tra origine conseguente ai suppius, la base atta per il latino Attius (e varianti). posti principi ‘universali’ e valore di lessico raggiunto nelle Riprendiamo la questione, modificandola nell’argomen(singole) lingue storiche; a partire da forme ‘infantili’ – in tazione, ma non nella sostanza, in rapporto alla destinaquanto tali universalmente e di continuo producibili /prozione. dotte – come appa, papa, amma, mam(m)a etc., le stesse forIl latino conosce la forma lessicale atta attestata quale terme entrano a far parte a pieno titolo del lessico optimo iure mine di parentela, come testimonia (Verrio ) Festo5 epidi una lingua storica, abbandonando così le modalità ‘infantomato da Paolo Diacono: tili’ dell’origine e acquisendo le proprietà specifiche del lessico alla pari di tutte le altre unità lessicali della stessa lingua. (11 L.) «Attam pro reverentia seni cuilibet dicimus, quasi eum avi In altri termini, all’origine ‘infantile’ di questi lessemi posnomine appellemus»; sono essere ricondotti sia l’aspetto formale che la sfera se(13 L.) «At[t]avus, quia atta est avi, id est pater, ut pueri usurpare mantica primaria di riferimento, ma nel momento in cui solent». esse acquisiscono lo status di forme di lessico, anche istituDi qui una prima conclusione: zionali, la loro genesi diviene del tutto irrilevante, perché si «La presenza di una base lessicale atta nel latino dà ragione dell’altratta in tutto e per tutto di normali lessemi di lingua. Ancor ternanza Appius /Atta; alla base del sabino Appius (a prescindere meno rilevante è la genesi (ormai) remota nel caso di lessico dallo status non onomastico od onomastico sui generis) viene ricon pregnante valenza istituzionale, come è di norma il caso conosciuta da parte romana una forma di lessico (non sappiamo se del campo semantico dei nomi di parentela, categoria a tornel sabino ancora vitale), a cui corrisponde nel latino il termine atto isolata entro il lessico delle relazioni sociali: il valore è in ta; quest’ultimo viene funzionalizzato di conseguenza e assume lo funzione del contesto socioculturale e storico della lingua stesso status (para)onomastico di Appius nella resa di nomi di perin questione. sonaggi sabini; il processo è all’incirca: Il tutto serve per inquadrare in termini generali quanto Appius Atta cercheremo di dimostrare per alcuni ambiti indeuropei sulla base della documentazione attestata: forme di lessico parentale di origine ‘infantile’ possono assolvere in lingue specifiche ad una funzionalità socioculturale tutt’altro che base lessicale base lessicale limitata alla sfera ‘infantile’, e anzi pertinente ai massimi lisabina latina 4 Sul concetto dei ‘filoni’ si rinvia a Prosdocimi 1995, poi ripreso in Prosdocimi 2004b, iii, pp.1359-1531. 5 Oltre a quelli citati in testo, un altro passo di Festo (272 L.) – irrimediabilmente frammentario – menziona Atta, ma questo è inteso dagli editori quale riferimento allo scrittore di togate Tito Quinzio Atta, si suppone

in relazione a quanto segue (a distanza) «…versibus docet…». Senza ulteriormente approfondire, si potrebbe far notare che quanto precede (sempre a distanza) dice «Pueri im-…»; è casuale la compresenza nel medesimo contesto di pueri e atta?

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aldo luigi prosdocimi · anna marinetti

Lo schema si potrebbe ulteriormente raffinare, sulla base di altre considerazioni: vedi avanti. La comparazione riporta sia *atta (meglio e più diffusamente attestato) sia *appa a termini di indeuropeicità comune: le continuazioni nelle diverse lingue indeuropee rimandano solidarmente per il maschile ad un significato nell’ambito della ‘paternità / ascendenza’ (‘padre’, ‘avo’); analogo valore hanno le forme foneticamente prossime *tatta e *pappa. Dal momento che l’indeuropeo ha per ‘padre’ la forma *pHote¯´r, si pone la questione della semantica delle due forme in rapporto alla designazione della ‘paternità’; ciò non riguarda la quota dell’indeuropeo, in cui l’unitarietà è una fittizia conseguenza dell’iter ricostruttivo, e in cui non ha dunque senso porre la questione in questi termini; riguarda invece la coccorrenza delle due forme all’interno delle lingue indeuropee nella loro realizzazione storica, per cui è ipotizzabile che, negli ambiti linguistici in cui si presenta in cooccorrenza con (il continuatore di) *pHote¯´r, il tipo *atta / *appa presenterà tratti semantici specifici, e una funzionalizzazione diversa. Ai fini della definizione degli ambiti funzionali di *pHote¯´r e di *atta / *appa, il riconoscimento di una origine ‘infanti-

le’ per queste ultime ha, come detto sopra, condizionato il giudizio, attraverso l’indebita estensione della genesi formale sull’uso di lingua. L’attribuzione ad *atta / *appa della qualifica di ‘parole infantili’ (Pokorny, IEW: «Lallwort») ha infatti importato una concezione secondo cui, entro la designazione della ‘paternità,’*atta indica il ‘padre’ nell’accezione ‘familiare’ del termine («le “père nourricier”, celui qui élève l’enfant», Benveniste: su cui avanti, § 2.4), contro la nozione ‘giuridica’ di paternità espressa dal tipo *pHote¯´r. Per quanto concerne l’ambiente latino (e) italico, si vedrà che la prospettiva interpretativa esemplificata sopra nella posizione di Benveniste si dimostra fallace. Per evitare di incorrere, anche in questo caso, nell’errore di appiattire e uniformare lo spessore storico, è da precisare che la cooccorrenza delle forme e la distribuzione dei valori di ‘paternità’ tra i continuatori di*atta/*appa e *pHote¯´r vanno proiettati in un orizzonte arcaico, in cui la nozione di pater è volta per volta7 giuridicamente definita, e non è ancora codificata nella nozione di fase repubblicana. In assenza di riscontri diretti per la fase in questione, nel latino di tale fase il valore di atta rispetto a pater può essere inferito solo indirettamente. Nel latino documentato atta compare solo nel citato lemma di Paolo-Festo (da Verrio: sopra), dal quale è possibile ricavare tutt’al più l’attribuzione di alcuni tratti, quali il carattere di forma di rispetto (pro reverentia), o una maggiore distanza genealogica. Il lemma atta è tuttavia trattato non come una voce arcaica (dicimus: presente), bensì come una voce marginale, tale da avere necessità od opportunità di una spiegazione; tale ‘marginalità’ parrebbe confermare un ambito comunicativo circoscritto, come potrebbe essere la sfera familiare in cui è limitato il lessico infantile. Non è così, o almeno non è stato sempre così: nella fase del latino-romano che ha visto ‘tradurre’ con Atta il sabino Appius, fase precedente a quella in cui si colloca Festo, la configurazione semantica di atta deve essere stata diversa, tale da consentirne l’attribuzione a un personaggio della statura di Appio Claudio, che appare molto improbabile venisse definito ‘papà’ o ‘nonno’ nell’accezione propria del lessico infantile.8 A margine: nel lemma di Festo (11 L.) citato sopra, attavus dei codici è stato corretto in *atavus (a˘ -) perché ritenuta lectio facilior su un *atavus a causa di atta che seguiva. atavus non dovrebbe andare con atta, non solo a causa della quantità di a˘ - (un a¯tavus sarebbe compatibile con atta secondo il tipo iu¯piter: iu˘ppiter), ma perché è in una serie di forme in cui avus è preceduto da preposizioni (proavus, abavus) e quindi at- è da qualificare come la preposizione *ati/e altrimenti nota; ma è proprio la possibilità di associare atta ad atavos, che non è certo voce puerile ma di alto livello (per tutti Orazio degli atavi regali di Mecenate), che riporta atta a un valore parimenti alto anche se è anche voce di pueri; non solo, ma proprio il contesto in cui si dice che è voce di pueri conferma che atta è anche, e prima (Paolo 13 L.) termine pro reverentia.

6 Il fenomeno -aio- vs. -∅io- quale morfonologia derivativa da una base in -a¯ pone questioni morfonologiche entro una lingua o varietà di lingue indeuropee cui appartiene il latino, in cui la/e varietà romana/e: -a˘ < *-a¯ < *-eH2 dovrebbe avere una sequenza morfonologica *-eH2 > -a¯ > -a˘ + -jo-, cioè -ajo-, ma nei maschili in -a < *-a¯ funziona la morfonologia dei temi in -e˘/o˘-, cioè con l’eliminazione della vocale tematica, per cui -Ce/o- + -jo- > -C(i)jo-. È una questione che affonda le radici nel fondo più remoto della formazione del sistema derivazionale nell’indeuropeo, o in suoi filoni,con esclusione di alcuni di essi, forse per neoformazione: ma non è qui il luogo di entrare nel tema, quanto nel tenere distinta una sequenza che entro l’etrusco, per fonetica e non per morfologia, da (grafia) -Caie può divenire

-C∅ie-. Tornando al nostro tema, resta da spiegare sia (grafia) apaio- da *appa con *-a- + -jo-, sia appio- da *appa con -∅-io-. Tuttavia resta l’evidenza che i due hanno la stessa base, *ap(p)a, la stessa derivazione in -jo-, ma una diversa morfologia derivazionale. 7 Su ciò cenni in Prosdocimi 2009a. 8 La designazione attraverso i nomi di parentela di persone estranee alla cerchia strettamente familiare (‘zio, fratello, nonno, etc.’) realizza una notissima tematica etno- e sociolinguistica, quasi un universale delle lingue. Il punto in questione qui non è tanto l’uso in sé di una forma ‘infantile’ del nome parentale, ma a quale livello sociale (o sociolinguistico) tale forma può o non può essere usata.

Si viene così a ridire che in questa prospettiva Atta costituisce la forma di traduzione latina del sabino Appius, di cui rende adeguatamente il valore (‘padre’ in una funzione particolare)» (da Marinetti 1982, p. 172).

La restituzione del processo va contro la vulgata, in parte fondata sulle fonti (Auct. de praen. 6: «Appius ab Atto eiusdem gentis praenomine»), in parte imposta dalla autorità di Mommsen; ha tuttavia un fondamento documentale nel fatto che a Roma c’è atta ma non c’è *appa che possa fondare un Appius così come atta del lessico (lingua!) fonda Atta e il prenome Attius/us inserito nella strutturadell’onomastica: Atta si presenta come la prima resa romana di un *Appa che per logica primaria non è romano, quindi non può che essere sabino. Comunque il processo qui proposto potrebbe non essere del tutto in contrasto con le fonti che danno Appius come romano, se si intende che Appius nella sezione finale ∅-ius è la morfologia latina (romana) di un sabino *appa o *appaio- con -io- che non si aggiunge ma che si sostituisce ad -a6 e con un Atta romano che traduce un *appa(-io-?) sabino, da cui una trafila più complessa di quella proposta sopra: sabino *Appa

latino-romano Atta

Attius / Attus ‘traduzione’

(*Appaio-?)

Appius

‘morfologizzazione’

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 213 L’interpretazione del testo di mc 2 è relativamente chiara: si tratta dell’erezione di un monumento a matereíh patereíh 1. 3. I dati del sudpiceno da parte degli (pl.) ‘apaiús dei púpún-‘ (gen. púpúnum). PaterNel quadro fino qui delineato all’interno del latino, e del sacompare qui entro la coppia asindetica ‘madre (e) padre’; in bino tramite fonti latine, si inserisce il dato della forma (paquanto destinatari di una dedica collettiva di natura sovrara)onomastica apaio- delle iscrizioni sudpicene.9 È superfamiliare, ‘madre (e) padre’ designerà non ‘genitori’ biolofluo ricordare che la giunzione tra ‘sabinità’ e sudpiceno, gici, né i capostipiti di una ‘famiglia’, ma più probabilmente per quanto da valutare con attenzione nell’effettiva realizgli ‘antenati’ della comunità, eroizzati / divinizzati e cozazione storica, risulta un portato diretto delle stesse iscrimunque oggetto di culto e onori.12 Tutto ciò non consente zioni sudpicene, in particolare (ma non solo) attraverso la tuttavia di determinare in positivo il significato, ossia la permenzione dell’etnico safino- ‘sabino’10 nelle iscrizioni da tinenza d’uso, di pater- nel sudpiceno, anche perché qui Penna S. Andrea; ciò legittima il fatto di porre un collegacompare non autonomamente, ma nella formula ‘madre (e) mento tra i due ambiti, nello sfondo ideologico prima anpadre’; il tema andrà approfondito autonomamente, ma è cora che in quello linguistico. difficile qui non avvertire il richiamo ad una specifica eredità Nel sudpiceno settentrionale occorrono tre forme con formulare indeuropea, esemplificabile nel dvandva (comfunzione apparentemente onomastica, (sing.) mc 2 apais, posto per asindeto) dell’antico indiano (duale) matapitarau mc 1 apaes, (pl.) ap 2 apaiús. La forma-base comune da re‘madre (e) padre = genitori’ (da cui, con il medesimo signistituire è *apaio-, derivato in -io- da una base primaria ficato, il duale pitarau per ellissi del primo membro, in anti*ap(p)a, come si accerta dal plurale, più trasparente nella co indiano possibile esito di questo tipo di composti). In alcomposizione rispetto al singolare apais e apaes, in cui gli tre parole, dall’attestazione di pater- nell’iscrizione di avvenuti fenomeni morfonologici mascherano in parte Castignano non si ricavano i contorni del valore di pater- in l’evidenza della base stessa. Che apaio- sia una forma purasudpiceno, ma si ricavano comunque gli estremi necessari a mente onomastica appare molto improbabile dalla sua pogiustificare la presenza del sudpiceno all’interno della temasizione formulare e dal contesto: l’attestazione al plurale tica di cui trattiamo: 1) in sudpiceno esiste una opposizione esclude che si tratti di un prenome, e di converso le attestalessicale ‘pater- < *pHoté¯r ~ apaio- < *appa’; 2) l’opposizione zioni al singolare rendono inverosimile che si tratti di un lessicale deve riflettere una opposizione di significato all’innome di famiglia / gens (ammesso, ma non concesso, che il terno della sfera semantica della ‘paternità’ in senso lato; 3) sudpiceno conoscesse la categoria del ‘gentilizio’ nella forentrambi i termini, pater- e apaio-, trovano applicazione in mula onomastica); vi è poi l’associazione contestuale con un ambito d’uso di tipo pubblico, quindi verisimilmente in altri lessemi, cioè riferimento a figure istituzionali. A parte la diversa base, si a) púpún- (mc 1 apaes qupat [e]smín púpúnis nír …, ap 2 púpútratta di una situazione parallela a quella che si è profilata num estuf k apaiús …; incerta la lettura di mc 2 apais sopra all’interno del latino-romano per ‘atta ~ pater’. pomp[—-]pú-es), probabile riferimento ad un gruppo soResta, tra le molte, una questione formale su Appio- riciale; spetto al sudpiceno apaio-; si è già osservato che a partire b) nír ‘vir, princeps’ (mc 1 cit; con un ‘nome’ formalmente didalla medesima base *ap(p)a la differenza dell’esito dei due verso ma sempre derivato da *ap(p)a anche ap 3 apúnis derivati dipende da regole morfonologiche differenti tra qupat … [n]ír). sudpiceno e latino-romano: nel sudpiceno il derivativo -iosi aggiunge alla base -a di *ap(p)a (*apa-+ -io- > apaio-), Il tutto pare indicare designazione di individui, ma non attramentre in latino il derivativo si sostituisce alla base *appaverso onomastica ‘pura’, il che orienta a riconoscervi un no+-io- > *app∅-io- > Appio- (cfr. nota 9); resta però uno spame di funzione/carica o posizione sociale. Deve esserci una zio vuoto nella trafila della forma latinizzata: come si arriva motivazione perché un derivato di *ap(p)a possa essere utiad Appio- latino? Le possibilità sono: lizzato per personaggi con uno status sociale particolare, e 1) da una base primaria *appa non latina (= sabina) direttaquesta motivazione andrà cercata nel valore d’uso della sudmente con morfologia latina: in questo caso dovremmo detta base lessicale, da correlare in qualche modo al signifisupporre che il nome / appellativo di Claudio quando arcato etimologico ‘padre(/avo)’. Gli apaio-, così individuati in riva a Roma fosse *Appa e non apaio- come nel sudpiceno; ragione di una funzione da loro rivestita all’interno della sociò, oltre che possibile, sarebbe adeguato a spiegare il tipo cietà, sono in un caso i titolari di una dedica collettiva (mc 2); Atta (Claudius) quale pura trasposizione lessicale e morciò porta ulteriormente ad escludere che la ‘paternità’ resa fologica; da *ap(p)a- sia da intendere ristretta ad un ambito pretta2) da una base sabina non primaria ma già derivata, e qui mente familiare o ‘infantile’, e porta invece ad affermare la con due alternative: funzionalizzazione di *ap(p)a- in ambito istituzionale. a) da un *appio- derivato per morfologia sabina, che in Il sudpiceno (lasciamo da parte qui il ‘sabino’ per assenza questo aspetto della derivazione differisce dal sudpicedi dati)11 conosce anche la continuazione di ie. *pHoté¯r nella no (appa-io-) e si comporta come nel latino-romano forma pater-; la compresenza con apaio- nella medesima (app∅-io-); iscrizione (mc 2) ripropone il quesito della distribuzione lesb) da un *appaio- derivato con morfologia sabina ‘sudpisico-semantica del valore dei due termini, pater- e *ap(p)a, cena’ (appa-io-) mediante una conversione automatica nell’ambito della ‘paternità’. 9 Marinetti 1985; a questo lavoro si rinvia per la giustificazione di quanto argomentato in modo talora troppo sintetico in testo. 10 Per la delimitazione dei termini della ‘sabinità’ si rinvia a quanto detto sopra a nota 2. 11 La stessa nozione di ‘sabino’ dal punto di vista linguistico risulta attualmente ambigua, nel confronto/contrasto tra il sabino indirettamente noto dalla tradizione (sabino ‘delle glosse’) e il sabino ‘epigrafico’ di recente acquisizione (= documenti epigrafici arcaici dall’area della Sabina). Il tutto,

crediamo, necessita di una revisione e di una puntualizzazione, che non è solo terminologica ma che dovrebbe riguardare gli eventuali tratti definitori della lingua stessa. 12 È appena il caso di ricordare che qui la documentazione linguistica ribadisce in termini espliciti quanto appare evidente dal complesso della cultura materiale per l’ambito ‘sudpiceno’, vale a dire la pregnanza del culto degli antenati.

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aldo luigi prosdocimi · anna marinetti in morfologia latina (app∅-io-); ciò implica conoscenza di forma e funzione e quindi competenza di entrambe le lingue in Roma.

Le modalità specifiche dell’interferenza sfuggono, ma non è difficile ricondurle ad una fase di plurilinguismo delle origini, in cui latino-romano e sabino coesistevano – assieme presumibilmente ad altre componenti linguistiche – nella Roma delle origini e dell’età arcaica. 1. 4. La funzionalizzazione istituzionale di *appa/*atta Con ciò si torna al tema specifico, e cioè ai possibili contorni istituzionali dell’onomastica o para-onomastica di tipo *appa/*atta. Per il sudpiceno la configurazione ‘istituzionale’ di apaio- è desumibile, come proposto sopra, per via interna dai testi: si tratta di un appellativo (associato necessariamente ad una specificazione come púpún-?) e non di un nome proprio, conferito a personaggi con un particolare ruolo sociale, tale da poter promuovere dediche per conto della(/di una) comunità. Per quanto concerne il versante ‘romano’, la tradizione13 concorda nel riconoscere in Appius/Atta/Attius Claudius il capostipite della gens dei Claudii, colui che nei primi anni della repubblica14 alla testa della sua gente arriva a Roma dalla patria Sabina; i tratti definitori sono dunque quello di essere un capo, e di esserlo di una comunità definita gens ([auctore] Atto Claudio gentis principe, Suet., Tib. 1) da intendere in senso lato, come risulta dalla specificazione magna clientium comitatus manu (Liv. ii 16). Ancora, in fonti relative alla prima fase repubblicana è menzionato un personaggio che mostra tratti significativamente paralleli ad Appio Claudio; si tratta di un altro Sabino, Herdonius, cui è attribuito il prenome Appius: è l’unico caso di uso del prenome Appius al di fuori della gens dei Claudii, di cui resterà appannaggio esclusivo. Appio Erdonio è ricordato dalle fonti per il tentativo, nel 460 a.Cr., di occupare il Campidoglio a capo di una schiera (alcune migliaia) di esuli e schiavi (Liv. iii 1518, Dion. Hal x 14-16). Tratti comuni ad entrambi, Claudio ed Erdonio, sono il prenome Appius, la sabinità e la funzione di capo di una numerosa e composita comunità. Traendo le conclusioni, si può supporre che nell’ambito della ‘sabinità’ (sabino della tradizione romana e sudpiceno, collegato alla sabinità se non altro per ideologia), il ‘nome’ derivato da *appa, sia esso il sudpiceno apaio-, sia esso il sabino romanizzato Appio-, viene attribuito a capi di un gruppo sociale; la ‘paternità’ di *appa (e derivati) fa riferimento dunque ad una struttura sociale allargata oltre la parentela familiare: *appa è il ‘*pater gentis’. Usiamo l’asterisco perché esiste il pater familias ma, a quanto ci consta, non un *pater gentis in quanto (Verrio in Paolo 83 L.) «Gentiles dicitur 13 Per i riferimenti alle fonti e ad ulteriore bibliografia si rimanda a Marinetti 1982. 14 La datazione comunemente accettata pone l’episodio nel 504 a.C.; secondo Appiano va riferita all’epoca dei Tarquini, mentre Svetonio riporta l’origine della gens Claudia alla fase delle origini, sotto Tito Tazio. La discrasia è certamente un errore di cronologia avvenimentale ‘per la contraddizion che nol consente’, ma può avere un senso per la storia ‘strutturale’ o ‘longue durée’, che si può tradurre come ‘immanenza’ di senso della storia e delle condizioni socioculturali che trascendono gli avvenimenti singoli. Al proposito, vorremmo manifestare la sensazione di un’assenza, forse per ignoranza o incapacità di comprendere ciò che si legge: il perché e il come, oltre che il quando, i Claudii ‘Sabini’ arrivati a Roma sono patricii optimo iure, anzi, se si può dire ‘iper-patricii’ – e su questo non trarrà in inganno l’operazione con cui Appio Claudio (il Censore) apre Senato e cariche curuli ai liberti / libertini: su ciò A.L. Prosdocimi, in Del Tutto Palma, Prosdocimi, Rocca 2002.

et ex eodem genere ortus, et is, qui simili nomine appellatur, ut ait Cincius ‘Gentiles mihi sunt, qui meo nomine appellantur’». Ad avviso di uno degli autori (Prosdocimi) questo passo, con altro, è fondamentale per ricostruire il rapporto tra familia e gens, ma di ciò altrove; qui è rilevante puntualizzare che la particolarità o la stranezza che traspare dal nostro uso/abuso di una formula come ‘pater gentis’ per segnalare la semicità particolare di un appa/Appius (e atta/Attus/Attius) entro la semantica istituzionale, tra lessico e sua funzionalizzazione (para)onomastica vuole evidenziare lo status di Appius, praenomen nella formula ma con caratteristiche assolutamente singolari. La caratteristica più evidente di Appius, praenomen atipico, è il suo uso esclusivo per la gens Claudia, ad eccezione, come detto sopra, dell’altro ‘incursore’ sabino – questa volta sfortunato perché non accolto come Appio Claudio, ma anzi respinto – Appio Erdonio: difficilmente una combinazione casuale. Sarà da notare che è solo Appius che continua come prenome all’interno della gens Claudia, e non le forme alternative Atta, Attius pure menzionate dalle fonti e, come si è visto, più ‘romane’ ma evidentemente attribuite dall’esterno e non dall’interno della tradizione familiare. L’originaria sabinità, manifestata nel prenome, pare intenzionalmente custodita dalla gens Claudia come tratto caratterizzante: basti il richiamo al cognomen Nero nella onomastica della famiglia imperiale. Meno ancora casuale sarà il fatto che la prima via che prende il nome da un magistrato è la via Appia; di recente F. Coarelli15 ha ricordato che le vie romane prendono il nome dal magistrato a partire appunto dalla via Appia, cioè dal 312 che è, aggiungiamo, la data della censura di Appio Claudio, per più risvolti eccezionale.16 Coarelli ha dato il tutto come cosa ovvia e nota, ma non ha notato il modo di dare il nome a tale via, che non è – come ci consta sia la normalità – dal gentilizio del magistrato bensì dal prenome, che in questo caso non è un prenome qualsiasi17 ma è Appius di un Claudius che usa ancora il prenome proprio della gens. In seguito, quando Appius non sarà più usato dai Claudii perché ormai privo del senso ideologico ereditario e, verosimilmente, conservato nella tradizione gentilizia, ci saranno – secondo la formazione toponomastica consueta dal gentilizio – viae Claudiae (Augusta, Nova, Valeria). Pare ci sia a sufficienza per tornare al nostro tema, che è la genesi di Appius da un *appa quale nome di lessico, cioè pienamente significante. A Roma, l’appellativo sabino (derivato da) *appa, titolo del ‘pater gentis’, viene ‘tradotto’ con il ricorso ad atta. Da ciò non è lecito dedurre che in latino atta avesse già autonomamente il valore istituzionale di ‘*pater gentis’: è possibile astrattamente, ma è una possibilità che deve tenere in conto la totale assenza di fonti relative, la presenza del ter15 Nel suo intervento Le porte di Perugia e la via Amerina, in Gli Umbri in età preromana, xxvii Convegno di Studi Etruschi ed Italici (Perugia-GubbioUrbino, 27-31 ottobre 2009). 16 Cfr. A.L. Prosdocimi nel lavoro citato a nota 14. 17 Sulla formazione di un aggettivo derivato da un prenome è stato citato il caso della derivazione da Titus per i sodales Titii e non *Tatii (E. Peruzzi); crediamo però che questo caso si ponga in un’altro ordine per cronologia e cultura: Titus appartiene alla stessa classe di Appius: su ciò sarà da ritornare, anche in considerazione dei ‘suodales mamartei’ dell’iscrizione di Satricum. Qui l’interpretazione del sintagma come nome + aggettivo ‘sodales Martii’ è stata data da Peruzzi su motivazione antiquaria, e, indipendentemente, alla medesima conclusione è giunto E. Campanile su motivazione linguistica (derivazione morfologica). In ogni caso questo, eventualmente altro, va con lo statuto particolare di Appius, tale da dare il nome ad una via.

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 215 mine pater e lo spazio istituzionale coperto da pater in modalità storicamente variabili. È però certo che in latino-roproduzione infantile lingua X (qui: latino) mano 1) atta preesisteva, 2) che copriva uno spazio seman.... tico analogo a quello di *appa, e che 3) si poneva rispetto ad [atta] (entrata nella lingua) *appa come base lessicale diversa ma evidentemente iso[atta] atta funzionale sul piano sociolinguistico, in modo da poter tra[atta] sporre un termine istituzionale come il titolo del ‘*pater [atta] gentis’. Detto altrimenti, in latino-romano atta poteva non [atta] essere il titolo di un ‘*pater gentis’, ma avrebbe potuto es[atta] serlo. [atta] Un quesito non secondario, che però esula ampiamente [atta] (uscita dalla lingua) dai nostri confini, potrebbe essere al proposito la effettiva [atta] ø consistenza di quella che le fonti indicano come il gruppo … di Sabini al seguito di Appio Claudio, e per cui usano il terSe si parte, per *atta/*appa e simili, dal presupposto di mine di gens: era una struttura sociale paritetica alla gens di vedervi forme familiari, infantili, sulla base dell’etimologia Roma? o se ne differenziava per composizione, consistenza, remota, diventa incomprensibile o inconsistente la motivastrutturazione etc.? Forse un indizio per la non-identità con zione stessa del loro uso come forme para-onomastiche in la gens romana è proprio nella ‘traduzione’ del nome del contesti istituzionali, come sono quelli in cui si presentano suo capo con atta: se si fosse trattato di una gens di tipo rosia il latino Atta/Attus sia il sabino/sudpiceno Appius/apamano, l’appellativo di Claudio non avrebbe dovuto essere io-. Se invece, come crediamo si debba fare, si rimuove la piuttosto pater? Quali sono le possibili ipotesi di organizzaqualificazione di ‘forme infantili’ quale indebita dipendenzione sociale? ad esempio: za dall’etimologia remota, e si riportano al loro valore di lessico, alle forme *atta/*appa si attribuiranno non connotazioni di ‘affettività’ o simili, ma semplicemente una alterità rispetto a *pHoté¯r, da definire all’interno della sfera semantica della ‘paternità’ in senso lato. La riprova è che in alcuni ambiti indeuropei – ad esempio l’anatolico, lo slavo, il gotico – *atta è l’unica forma attestata per designare il ‘padre’, ivi comprese le occorrenze in contesti istituzionali; si approfondirà avanti la questione per quanto riguarda il gotico della Bibbia di Wulfila (§ 2.2). Nella tradizione onomastica della gens dei Claudii, Atta e il derivato prenome Attius non hanno poi séguito, a totale favore del ‘vincente’ Appius. Attus è però noto anche come 2. atta nel quadro indeuropeo. prenome di un importante personaggio di età regia, l’augure Attus Navius; questi, in quanto oppositore dell’etrusco 2. 1. atta e la prospettiva ‘sociologica’ di A. Meillet. Tarquinio Prisco, è verosimilmente esponente di una piena Su atta ‘padre’ o ‘padre carismatico’ e sulle distorsioni nella ‘romanità’ (nonostante le ipotesi di etruschità del cognome funzionalità semantico-istituzionale rispetto alla origine Navius avanzate da alcuni studiosi18); si tratta di un persocome ‘Lallwort’ «de formes qui servent à interpeller d’une naggio che occupa un rango elevato nella sfera ‘religiosa’, façon familière et affectueuse» è significativa la formulazioper il quale un nome/appellativo derivato da atta può trone di Meillet in più luoghi; qui la citazione è da una nota vare giustificazione nella posizione all’interno della società del 1933 nelle Mémoires della Société de Linguistique de romana del tempo.19 Paris: «À propos de ved. amba. Forme d’interpellation à ancienDopo l’analisi documentale, si può tornare al nodo da ne geminée». cui si era partiti, la connotazione di ‘parole infantili’ attribuita alle basi tipo *atta/*appa. Un primo equivoco da scioDans l’Althindische Grammatik (iii, pp. 114 et suivantes), MM. Degliere riguarda la loro ‘producibilità’: l’elementarità della brunner et Wackernagel se refusent à voir dans l’-à de amba une formazione (di atta e appa, tata, papa, amma, mama, etc.) nel alternance avec -a. En réalité, amba, akka, et alla sont des formes senso di Jakobson (cit.) fa sì che si tratti di parole che possodu type grec ôÙÙ· servant à interpeller. MM. Debrunner at no essere, e di fatto sono, continuamente prodotte; ma ciò Wackernagel parlent de “Lallinterjektion” et M. Renou (Grammaire non significa che le forme che compaiono nel lessico di una sanscrite, ii, p. 354) d’ “interiection”. Plus précisément, on est en lingua siano esiti diretti di tale riproducibilità continua: in présence de formes qui servent à interpeller d’une façon familière et affectueuse. C’est l’emploi connu de gr. ôÙÙ· qui dans l’Odyssée quella lingua vi è stato un momento in cui la forma di oriest employé par Télémaque pour s’addresser au porcher Eumée gine infantile si è autonomizzata ed è entrata una volta per et dans l’Iliade par Achille et Ménélas pour s’addresser à Phœnix. tutte a far parte del sistema lessicale a pieno titolo. Il est arbitrer de chercher ici des “mots infantins”, des “Lallwörter”, In secondo luogo vi è una constatazione: il fatto che la comme on dit en allemand avec une précision qui dépasse la réatrasparenza della formazione sia tale da far percepire agli lité des données encore plus que le français “mots infantins”. stessi parlanti l’origine ‘infantile’ di queste forme non è impedimento al loro entrare ed esistere nella lingua al di fuori Ed. Hermann («Indogermanische Forschungen», 53, 1935) in della sfera infantile. «Einige Beobachtungen an der indogermanischen Verwandt18 Schulze, Kroll: su ciò si rinvia a Marinetti 1982, pp. 176-177. 19 Circoscriviamo qui la pertinenza linguistica al latino-romano, in riferimento alle figure di Appio Claudio e Atto Navio. In altre varietà linguistiche latine non romane, o non latine, laziali e circumlaziali, vi sono nume-

rose attestazioni indirette (l’albano Attus/Attius Curiatius) o dirette (falisco, volsco, etc.) di onomastica derivata dalla base *atta; di queste tuttavia qui non ci occupiamo.

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schaftsnamen» dedica la prima nota a atta’ (pp. 97-98); critica Meillet per la dicotomia nell’indoeuropeo tra lingua degli aristocratici e ‘lingua del popolo’ ma concede la validità di atta come appartenente «zu den familiären Ausdrücken», anche se aggiunge: Allerdings kann ich nicht zugeben, daß es nicht aus der Kindersprache stamme; es geht über die Grenzen des Indogermanischen hinaus; im Lateinischen wird es außerdem nach dem Zeugnis des Festus ed. Lindsay 13 gerade von den Kindern gebraucht.

L’importanza e il peso storico di Meillet è un factum; la sua positività non è parimenti un factum ma appartiene alla communis opinio o ad una sua ampia sezione che almeno uno dei firmatari (Prosdocimi) non condivide, perché convinto che Meillet sia stato esiziale nel bloccare se non deviare l’indoeuropeistica di oltre mezzo secolo (anche postumamente). Oltre le opinioni è la vulgata che fa storia; qui le riserve su Meillet si pongono non solo sul fatto atta, ma sul quadro teorico e metodologico di cui è espressione: per il fatto atta la distinzione tra ‘Lallwort’ e ‘appellation familière’ appare capziosa e/o generica; in più: nella qualifica di ‘familière’ gli esempi portati da Meillet sono errati: certamente nel caso di Fenice che nell’Iliade appare quale personaggio di alto o altissimo rango, così da essere parificato a Odisseo, ai due Atridi, a Nestore, a Idomeneo, tutti coinvolti nel primo vano tentativo di indurre Achille a riprendere le armi: libro ix vv. 168 ss. Più ancora: ivi Fenice assume una funzione di particolare rilievo; lo stesso rilievo è confermato nel libro xix (vv. 184 ss.). Per quanto concerne Eumeo la questione è più delicata ma è stata sciolta decisivamente dalle tavolette micenee nel senso che con l’appellativo ôÙÙ· non ci si rivolge ad un volgare ‘porcher’ ma al sovrintendente dei beni del bestiame nella sezione ‘suini’, particolarmente importanti per l’epoca: dunque è un uomo cui va rispetto sia per posizione sia per età. Il possibile parallelo è il comes stabili > conestabile post-carolingio o appellativi quali ‘(Grande) Elemosiniere’ ‘(Gran) Falconiere’ nei titoli di origine medievale e poi continuati quali nomi di rango, indipendentemente dal contesto che ha prodotto la loro ‘etimologia’, cioè la loro forma lessicale, corrispondente al contesto in cui sono ‘nati’. Come si è visto sopra (§ 1), qualcosa di analogo per atta compare in (Verrio Flacco da cui Festou) Paolo (13 L.) «Attavus quia atta est avi, id est patri, ut pueri usurpari solent», rivisto alla luce dell’altra voce di Paolo (11 L.) «Attam pro reverentia seni cuilibet dicimus, quasi eum avi nomine appellamus».20 Il caso del greco sarà comunque da approfondire, oltre al breve cenno qui dato esclusivamente in relazione alla citazione di Meillet, anche in relazione alla sua funzione specifica, in quanto negli autori – a partire da Omero – ôÙÙ· pare usato esclusivamente quale appellativo in un discorso diretto. Per restare nel clima dell’epoca – e non con il ‘senso del poi’, specialmente dopo le innovazioni dell’ultimo mezzo secolo per le interazioni di teoria e metodi tra ‘sociologia e linguistica’ – riprendiamo quanto Eduard Hermann premette al frammento riportato sopra, proprio perché questo è oggetto di un giudizio positivo (p. 97). Wiederholt hat Meillet in den letzten Jahren den Wortschatz des Indogermanischen, wie wir ihn erfassen können, als aristokratisch bezeichnet und hat demgegenüber auf mehrerlei Anzeichen für die expressive Sprache der Familie hingewiesen, die mehr in eine niedrigere Sprache gehöre. Obwohl mir diese Beob-

achtung manchmal auf die Spitze getrieben zu sein scheinen, muß ich doch zugeben, daß etwas Richtiges an ihnen ist; nur scheint mir die Scheidung in Sprache der Aristoktraten und Sprache des Volkes abwegig zu sein. Wenn wir für die generelle Begriffe wie Pferd die Indogermanischen Wörter leichter rekonstruieren können, als für die spezielleren wie Hengst, Stute, so kommt das nicht daher, daß sich bei der Eroberung fremder Länder durch die Indogermanen die Aristokraten durchgesetzt haben: der urindogermanische Aristokrat, soweit man überhaupt von einem solchen sprechen darf, dürfte in genau so enger Beziehung zu den Haustieren gestanden haben wie sein Sklave. Es wird aber richtig sein, daß sich im vertrauten Kreis leicht neue Bezeichnungen für die spezielle Begriffe einstellen und dann das Ältere verdrängen. Zu den familiären Ausdrücken zählt Meillet Acad. Insc. B. Lett. Comptes rendus, 1926, 46 das Wort *atta “Vater”, und zwar wohl mit Recht.

È doveroso aggiungere che E. Hermann conclude la nota nel modo seguente (p. 98): Wer es spricht, ist sich dessen auch bewußt. Nur darum kann es sich, ohne der Lautverschiebung zu unterliegen, bis ins Althochdeutsche halten (Walde-Pokorny i 44: „tt durch stets danebenlaufende Neuschöpfung unverschoben“). Im Slavischen hat es diesen besonderen, mitschwigenden Unterton eingebüßt und hat so die Geminata verloren, wie alle gewöhnlichen Wörter des Slavischen: ot c . Griechisch und Latein kennen anderwärts die Geminata tt, obwohl sie sonst Geminaten sehr wohl besitzen, nicht. Also schwingt bei diesem Wort in beiden Sprachen immer noch das Familiäre mit.

Nella questione della non applicazione della prima Lautverschiebung qui non entriamo, limitandoci a segnalare che la sua spiegazione va riportata al quadro più ampio della revisione del consonantismo germanico (ed indeuropeo) alla luce delle prospettive aperte dalla cosiddetta ‘teoria glottale’. Si può credere o non credere alla ‘sociologia indeuropea’ di Meillet, non in sé ma come riflessa nella lingua; tuttavia, come minimo, si ha il dovere di precisarla, reificandola in un possibile quadro sociostorico, in rapporto ad una possibile situazione di lingua; in particolare sarà da specificare come la lingua si rifletta nella realizzazione sociale e, quello che è più importante, quali siano le (eventuali) condizioni di lingua tali da realizzare nel modo previsto da Meillet e da altri possibili dello stesso tipo. Anche seguendo la prospettica ‘sociologica’, questa non spiega le condizioni di lingua che hanno portato allo status realizzato che si presenta; in altre e più chiare parole: ritrovare una morfologia tipo atta, tata in terminologia ‘familiare’ o simili non spiega la morfonologia che ne è alla base; più ancora, e pertinente per i nostri termini: 1) l’eventuale prevalere della morfonologia suddetta non implica la sua genesi né la sua conservazione in eventuali strati sociali diversi da quelli da cui si è irradiata; ciò è a priori valido in sé e, a maggior ragione, se: 2) detta morfologia appare marginalizzata rispetto al sistema centrale, ma proprio per questo, secondo un principio essenziale della ricostruzione (interna e non) è da ascrivere a stati di lingua arcaici, il che si accorda con: 3) il contenuto e la posizione extrasistemica o sistemica secondo principi residuali della terminologia della parentela del tipo atta, tata; pertanto, per principio: 4) l’attribuzione a linguaggio familiare o altro non è applicativo in sé perché, ut sic, è un flatus vocis; quindi per conseguenza necessaria: 5) va rivisto tutto l’apparato (ri)costruttivo della qualificazione sociogiuridica dei termini tipo atta e tata.

20 Su ciò, anche in relazione agli atavi di Mecenate e al modo di epitomare di Paolo delle voci di Festo (già epitomatore di Verrio Flacco) si rimanda a Prosdocimi 2009a.

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 217 ‘trinitaria’ e per la conseguenza per lo ‘Spirito Santo’ Come conseguenza, restringendo al latino, l’applicazione ai sostantivi maschili, preonomastici ed onomastici, mo«qui ex patre filioque procedit»; così recita il ‘credo’ scatustra come la attribuzione delle forme in -a ad uno strato sorito dal Concilio di Nicea dove, alla fine, aveva prevalso ciale non aristocratico sia contraddetto, così da risultare un la dottrina di Atanasio su quella di Ario per quanto convero e proprio non-senso, da casi quali nomi regali o paracerne le persone della Trinità, una per natura e trina regali come Atta, Appa, Agrippa, Proca(s), Numa. Come semnelle persone secondo Atanasio ma non per Ario, alla fipre, il ragionamento sarà da capovolgere per quanto conne del Concilio sconfitto per la (futura!) ortodossia, né cerne la causalità nella morfonologia e correlata semicità per i seguaci di Ario che continueranno anche dopo la nella lingua (langue di Saussure) quale precondizione alle conclusione del Concilio. sue manifestazioni documentali: queste ne sono effetto an4) Il vescovo Wulfila fu ariano convinto per tutta la vita; di che se per la (nostra) prospettiva ermeneutica le forme doqui la sostanziale importanza, forse centralità, nella scelcumentali sono mezzi per individuare le strutture della lanta per la terminologia per ‘padre’ e ‘figlio’. Ne consegue gue che vi si sono realizzate (langue ‘norma’ nei termini di che: Coseriu). La risposta più seria per -a21 al maschile rispetto 5) atta per ‘padre’ può essere stata una scelta ideologica di ad -os non è dovuta all’appartenenza ad uno strato sociale Wulfila; tuttavia, resta il fatto che la scelta presuppone la ma al fatto che -a aveva e avrebbe avuto – ricevuta per erepossibilità della scelta stessa nella lingua, o ‘lingue’ quali dità – una funzione morfo(no)logica diversa, forse anche varietà germaniche, cioè che atta, fatto termine per ‘papiù di una, e non è qui il caso di avventurarsi su questo tema dre’ tale da tradurre gr. ·Ù‹Ú per il ‘padre celeste’ e per arduo e intricato, oltre che per le forme di atta, tata etc., anil ‘padre umano’, è in coesistenza con fadar e questo è teche per i composti tipo agricola, pa(r)ricida(s), hosticapas, poma da approfondire per l’affiorare di fadar (hapax; applicola ecc.22. presso); restano comunque i fatti di base tra cui uno essenziale: 6) Per quanto Wulfila potesse non avere il tormento di un 2. 2. atta ‘padre’ e hapax fadar nel gotico della traduzione della S. Girolamo traduttore della Bibbia, ne aveva verosimilBibbia di Wulfila mente una competenza linguistica e culturale equipollente; resta, allora, che atta doveva essere sufficiente2. 2. 1. atta e fadar: il valore nei contesti di occorrenza mente comprensibile quale resa germanico-gotica di Quanto è contenuto nel titolo di questo paragrafo è noziogreco ·Ù‹Ú in àmbito di cultura gotica (su atta in altre ne comune, ma a nostro avviso non ne sono state tratte le varietà germaniche cenni avanti). corrette conseguenze per germanico e indeuropeo in geneNon solo, ma se è valida, anche solo in parte, l’ipotesi di rale, nonostate sia noto il ‘quanto’ e il ‘come’ la Bibbia di Scardigli per cui il gotico di Wulfila sarebbe stata la lingua Wulfila sia al centro d’interesse per la germanistica. Partiadi coiné potenzialmente, seppure in votis, pangermanica – mo dal riferimento topico, la 3ª edizione (1939) del Vergleia un livello analogo allo slavo ecclesiastico di Costantino chendes Wörterbuch der Gotischen Sprache di S. Feist; da questo (Cirillo) e Metodio – ci sarebbe un elemento se non per la facciamo seguire un escerpimento, insieme rimandando alpangermanicità, se non altro per atta quale normale termil’intera voce atta che, per essere l’opera in forma di vocabone per ‘padre’ almeno entro le varietà germaniche, da indilario lemmatizzato, è trattata separatamente dalla voce faviduare nella semicità e/o istituzionalità rispetto ai contidar. Riteniamo che la trattazione per lemmi sia stata nuatori di ie. *pHoté¯r. In ogni caso atta è attestato anche negativa se non esiziale per la questione inerente allo studio fuori dal gotico per la lingua dei Vangeli nel cosiddetto ‘sladi atta in sè e nella terminologia della parentela; su ciò si vo ecclesiastico’. tornerà in seguito; correlatamente va sottolineata la (relatiQui appresso gli ulteriori dati da Feist (1939)23: vamente) scarsa attenzione al fatto contestuale altamente complesso: ciò non in riferimento agli studi filologici e stoatta m. ·Ù‹Ú Vater rici sul testo di Wulfila, ma alla loro scarsa utilizzazione nel Aisl. atte, afries. aththa, ahd. atto, mhd. atte, ätte, nhd. ma.-lich côté più propriamente linguistico entro la terminologia ätte Vater. […] Wohl eine sich immer wieder erneuernde Schöpfung der Kindersprache, wie papa, mama u. dergl. (so schon Paudella parentela come sistema semantico. Anticipiamo detti lus Festus, ed. Lindsey 13). Deshalb fehlt vielleicht im Germ. die punti, riconoscendo di non avere competenze specifiche né Lautverschiebung. in storia della chiesa, né in filologia neotestamentaria, né, […] Zu got. atta mit germ. Dim.-Suffix -ila- (Fr. Kluge, Nom. in particolare, nella testualità della tradizione greca alla baStammb.3 356; K. Brugmann, Grundriss ii, 12 366 f.; s. auch barnilo se della traduzione di Wulfila né in eventuali altre fonti tezu barn) der got. Name Attila (Hunorum omnium dominus et paene stamentarie compulsate dal suddetto dotto e poliglotto. totius Scythiae gentium solus in mundo regnator; Jordanes xxxiv Anche solo in base a conoscenze generiche crediamo di u.ö.), eig. “Väterchen”; aisl. Atle, ahd. Ezzilo Etzel. poter avanzare alcune premesse per la nostra questione: 1) La questione si incentra sull’uso di atta e di fadar < *pHoté¯r Le questioni, che qui solo si accennano, sono almeno due: per ‘padre’, correlatamente entro la parentela. 1) lo status semantico-istituzionale di (corrispondenti/con2) La paternità implica simmetricamente lo status di ‘essetinuatori di) atta rispetto ai continuatori della forma indeure figlio’ (sarà casuale che per ‘figlio’ non ci sia un termiropea *pHoté¯r; 2) perché, ove c’è la seconda Lautverschiene astratto corrispondente a ‘paternità’?). bung – oltre la prima – non si applica a atta ma si applica a 3) Il rapporto ‘padre-figlio’ è fondamentale nei Vangeli tra Attila > Ezzilo?: su ciò v. § 2.3. Gesù ‘Cristo’ e Dio, e questo è centrale per la questione Non riportiamo i dati comparativi raggiungibili negli an21 La quantità in latino è breve da lunga (a¯), come altrove, per una regola propria del latino; v. A.L. Prosdocimi, Latino (e) italico e indeuropeo: appunti sul fonetismo, in Prosdocimi 2004b, Prosdocimi 2008. 22 Per memoria: su agricola è l’ultimo articolo di Saussure (1908, poi in

Recueil 1922); per hosticapas e paricidas, v. Prosdocimi 1996. Su -a cenni in Prosdocimi 1986 e, più approfonditamente, Idem 2009a. 23 V. anche la voce Atta nel Kluge-Mitzka17, p. 35.

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ni ’30; ricordiamo però che l’ittita (allora di recente acquisizione) ha attaš ‘padre’. Da quanto riportato, è evidente la contraddizione interna fra un termine istituzionale fissato e superistituzionale come è la tradizione dal ‘Padre nostro’ dal gr. ¿ÙÂÚ ìÌáÓ, che non può essere un padre ‘naturale’ né un pater giuridico (alla latina) ma qualcosa come un pater ‘super’: su ciò torneremo anche per la tesi di Benveniste su paternità fisica e paternità giuridica. L’opera, pomposamente intitolata A Gothic Etymological Dictionary, di W. P. Lehmann non porta novità di rilievo se non tenuemente bibliografiche (dovute a Helen-Jo J. Hewitt) in quanto esplicitamente «based on the third edition of Vergleichendes Wörterbuch der gotischen Sprache by Sigmund Feist». Di rilievo è però la nota finale: In responding to the proposal of Sen. 1972-73 bdecu 8,i:35-36 that atta gained its prominence because it meant powerful, superior becoming ‘divine father’ as opposed to fadar procreator Ebbinghaus 1974 gl 14:97-101 examines its connotation in the extant texts; he concludes that it was the common word for father in Wulfila’s language.

Qui, oltre ad altra problematica, viene esplicitata la dualità fondamentale sottostante atta e cioè una sua presunta genesi fonetica – tra diacronica e pancronica – e una sua valenza sistemico-istituzionale: è questo secondo aspetto che è stato accantonato, o maltrattato. Per questo aspetto prenderemo la dottrina di Benveniste al proposito, come esempio centrale, sia pure in negativo, comunque importante in ragione della rilevanza attribuita a Benveniste, il cui Vocabulaire sarebbe la summa delle speculazioni sulla semanticità del lessico indeuropeo delle istituzioni. Prima però un ulteriore approfondimento su atta nella traduzione di Wulfila in sé e rispetto a fadar ‘pater’ che, quale continuazione di ie. *pHoté¯r, è hapax in Wulfila mentre è altrimenti pangermanico in termini ben diversi da come è germanico ‘extragotico’ atta. Entro i limiti e i caveat posti sopra, ripartiremo dall’attestazione del pangermanico continentale di *pHoté¯r con lo hapax fadar nella lettera di Paolo ai Galati (iv 6). 6. ¬ÙÈ ‰¤ âÛÙ ˘îÔÈ, âÍ·¤ÛÙÂÈÏÂÓ ï ıÂfi˜ Ùe ÓÂÜÌ· ÙÔÜ ˘îÔÜ ·éÙÔÜ Âå˜ Ùa˜ ηډ›·˜ éÌáÓ, ÎÚÄ˙ÔÓØ à‚‚Ä ï ·Ù‹Ú. œÛÙ ÔéΤÙÈ ÂQ ‰ÔÜÏÔ˜, àÏÏa ˘îfi˜Ø Âå ‰Â ˘îe˜ ηd ÎÏÂÚÔÓfiÌÔ˜ ıÂÔÜ ‰ÈÄ XÚÈÛÙÔÜ. 6. aþþan þatei sijuþ jus sunjus gudis, insandida guþ ahman sunaus seinis in hairtona izwara hropjandan: abba, fadar! 7. swaei ni þanaseiþs is skalks, þaude sunus, jah arbia gudis þairh Xristu.

Come detto sopra, non ci si vuole sostituire ai biblisti, ma in questo caso è comunque necessaria una qualche considerazione sul fatto che fadar è hapax; in più compare una sola volta, rispetto alle altre volte in cui ‘padre’ è reso esclusivamente con atta; abba è un termine aramaico e nel contesto è presupposto al vocativo, ma il gr. ·Ù‹Ú non è un vocativo ma un nominativo e per questo ha tutto l’aspetto di una chiosa. Ma una chiosa su che base? Paolo, anche se conosceva il termine abba non poteva chiosare se stesso ma, eventualmente, una citazione testuale relativa a Cristo qui definito ‘il figlio di Lui = di Dio’, dopo di che l’‘essere-figlio’ viene riportato ed esteso all’uomo in generale quale ‘figlio’ e non ‘servo’: questo secondo aspetto pare rilevante per un ‘padre’ chiamato fadar qui e solo qui in tutto il testo di Wulfila, il vescovo fedele alla dottrina di Ario. Questo testo è da approfondire particolarmente per il valore centrale della paternità di Dio rispetto a Cristo; la via è una contestuazione in senso ampio, anche oltre i vangeli sinottici; la partenza dovrebbe essere il vocativo aramaico ab-

ba, chiosato come ï ·Ù‹Ú dallo stesso Paolo. Il richiamo alla storiografia fissata nei Vangeli è implicito ma preciso: «lo spirito del suo figlio che grida Abbá ‘il Padre’» non può riferirsi che all’episodio della morte sulla croce. La lettera di Paolo è stata scritta prima, o al massimo coevamente, comunque indipendentemente dai tre vangeli sinottici quali testi scritti e vulgati – quello di Giovanni e gli apografi sono certamente posteriori; comunque da nessuno dei tre a noi pervenuti può provenire abbá perché non compare in nessuno di essi in questa forma, così come non compare l’invocazione al padre riportata direttamente. Matteo xxvii 46. ÂÚd ‰b ÙcÓ âÓ¿ÙËÓ œÚ·Ó àÓ‚fiËÛÂÓ ï \IËÛÔܘ ʈӔ ÌÂÁ¿Ï– ϤÁˆÓ, HÏÂd ËÏÂd ÏÈÌa Û·‚·¯ı·Ó›; ÙÔÜı\ öÛÙÈÓØ ı¤ ÌÔ˘, ı¤ ÌÔ˘, îÓ¿ÓÙÈ Ì âÁη٤ÏÈ˜; 47. ÙÈÓb˜ ‰b ÙáÓ âÎÂÖ ëÛÙËÎfiÙˆÓ àÎÔ‡Û·ÓÙ˜ öÏÂÁÔÓ ¬ÙÈ \HÏ›·Ó ʈÓÂÖ ÔyÙÔ˜. 48. ηd Âéı¤ˆ˜ ‰Ú·ÌgÓ Âx˜ âÍ ·éÙáÓ Î·d Ï·‚gÓ ÛfiÁÁÔÓ Ï‹Û·˜ Ù ùÍÔ˘˜ ηd ÂÚÈıÂd˜ ηϿÌÅ âfiÙÈ˙ÂÓ ·éÙfiÓ. 49. Ôî ‰b ÏÔÈÔd öÏÂÁÔÓ, ôʘ ú‰ˆÌÂÓ Âå öÚ¯ÂÙ·È \HÏ›·˜ ÛÒÛˆÓ ·éÙfiÓ. 50. ï ‰b \IËÛÔܘ ¿ÏÈÓ ÎÚ¿Í·˜ ʈӔ ÌÂÁ¿Ï– àÊÉÎÂÓ Ùe ÓÂÜÌ·. 46. it tan bi eila niundon uf hropida Iesus stibnai mikilai qitands: helei; helei, lima sibaktani, tatei ist: gut meins, gut meins, du e mis bilaist? 47. it sumai tize jainar standandane gahausjandans qetun tatei Helian wopeit sa. 48. jah suns tragida ains us im jah nam swamm fulljand aketis, jah lagjands ana raus draggkida ina. 49. it tai antarai qetun: let, ei sai am, qimaiu Helias nasjan ina. 50. it Iesus aftra hropjands stibnai mikilai aflailot ahnam. (trad cei, 1974) 46. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: ‘Elì, Elì, lema sabactani’ che significa ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’ 47. Udendo questo alcuni dei presenti dicevano: ‘Costui chiama Elia’. 48. E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. 49. Gli altri dicevano: ‘Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!’. 50. E Gesù, emesso un alto grido, spirò.

In Matteo xxvii, spec. 46 ss., ricorre il tema ‘Padre-Figlio’ di Dio ma la sola invocazione è: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»; questa è l’unica invocazione diretta citata perché il grido finale è riportato senza citazione del testo e solo nei termini seguenti «E Gesù, emesso un alto grido spirò»; lo stesso si ha in Marco xv, spec. 34 ss.: anche qui si cita l’invocazione. Marco xv 34 34. ηd Ù” âÓ¿Ù– œÚ0 â‚fiËÛÂÓ ï \IËÛÔܘ ʈӔ ÌÂÁ¿Ï– ϤÁˆÓØ âψd âψd ÏÈÌa ÛÈ‚·¯ı·Ó›, ¬ âÛÙÈÓ ÌÂıÂÚÌËÓ¢fiÌÂÓÔÓØ ï ıÂfi˜ ÌÔ˘, Âå˜ Ù› Ì âÁη٤ÏÈ˜; 34. jah niundon eilai wopida Iesus stibnai mikilai qitands: ailoe ailoe, lima sibaktanei, tatei ist gaskeirit: gut meins, gut meins, du e mis bilaist? (trad cei, 1974) 34. «Alle tre Gesù gridò con voce forte ‘Eloí, Eloí, lema sabactani’ che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».

È con vocalizzazione diversa la stessa invocazione che è in Matteo, entrambi citazione testuale dall’inizio del Salmo 21 (22) attribuito a David; anche Marco parla del grido finale (xv 37) che però come Matteo non cita. Marco xv 37 37. ï ‰b \IËÛÔܘ àÊÂd˜ ʈÓcÓ ÌÂÁ¿ÏËÓ âͤÓ¢ÛÂÓ. 37. it Iesus aftra letands stibna mikila uzon. (trad cei, 1974) 37. «Ma Gesù dando un forte grido spirò».

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 219 ¿ÙÂÚ ìÌáÓ ï âÓ ÙÔÖ˜ ÔéÚ·ÓÔÖ˜, êÁÈ·Ûı‹Ùˆ Ùe ùÓÔÌ¿ ÛÔ˘, 10. Per vicende che qui non si approfondiscono, il testo della âÏı¤Ùˆ ì ‚·ÛÈÏ›· ÛÔ˘, ÁÂÓËı‹Ùˆ Ùe ı¤ÏËÌ¿ ÛÔ˘, ó˜ âÓ ÔéÚ·Ó† traduzione di Wulfila a noi pervenuto presenta lacune; tra ηd âd Áɘ. 11. TeÓ ôÚÙÔÓ ìÌáÓ ÙeÓ âÈÔ‡ÛÈÔÓ ‰e˜ ìÌÖÓ Û‹ÌÂle lacune per il Nuovo Testamento vi è la fine del Vangelo ÚÔÓ. 12. ηd ôʘ ìÌÖÓ Ùa çÊÂÈÏ‹Ì·Ù· ìÌáÓ, ó˜ ηd ìÌÂÖ˜ di Luca a partire dal capitolo xx, capoverso 46 alla fine: per àʋηÌÂÓ ÙÔÖ˜ çÊÂÈϤٷȘ ìÌáÓ. questo vedi la Gotische Bibel di Wilhelm Streitberg, indeu6. it tu tan bidjais, gagg in hetjon teina jah galukands haurdai teinai ropeista e germanista insigne24. Si tratta di perdite irrepabidei du attin teinamma tamma in fulhsnja, jah atta teins saei sai rabili per la germanistica, la filologia biblica, la storia del it in fulhsnja, unsgibit tus in bairhtein. 7. bidjandansuttan ni Cristianesimo e con esso della cultura occidentale; per il filuwaurdjait, swaswe tai tiudo; tugkeit im auk ei in filuwaurdein nostro particulare è pure una perdita grave; il Vangelo di seinai andhausjaindau. 8. ni galeikot nu taim; wait auk atta Luca non riporta il grido finale di Gesù, come del resto gli izwar tizei jus taurbut, faurtizei jus bidjait ina. 9. swa nu bidjait altri sinottici: per questo resta capitale la testimonianza di jus; atta unsar tu in himinan, weihnai namo tein. 10. qimai Paolo (Lettera ai Galati, cit.), verosimilmente su influenza tiudinassus teins. wairtai wilja teins, swe in himina jah ana airtai. di Luca. 11. hlaih unsarana tana sinteinan gif uns himma daga. 12. jah Nel testo greco, per quanto concerne la morte di Gesù, aflet uns tatei skulans sijaima, swaswe jah weis afletam taim skulam unsaraim. Luca xxiii si discosta da Matteo e Marco, gli altri sinottici, e appone specificazioni precisamente sul tema della paterNon c’è dubbio che qui atta non sia il ‘padre’ materiale e/o nità di Dio nei riguardi di Gesù, il Cristo. Subito dopo la crogiuridico ma un padre ideologico; tuttavia altrove atta semcifissione (xxiii 34-35): pre traduce il greco ·Ù‹Ú quale ‘padre’ senz’altro: atta è ‘padre’ in tutti i sensi di una possibile paternità. Di qui la riï ‰b \IËÛÔܘ öÏÂÁÂÓ ¿ÙÂÚ ôʘ ·éÙÔÖ˜ Ôé ÁaÚ Ôú‰·ÛÈÓ Ù› ÔÈÔÜÛÈÓ. considerazione di atta non solo nella traduzione di Wulfila 34. «Gesù diceva ‘Padre, perdonali, perché non sanno quello che ma nel suo status nel gotico (di Wulfila); su ciò non ci sono fanno’». (trad cei, 1974) dubbi: l’essenziale è il processo sottostante ad atta quale Alla fine Luca riporta il testo del grido di Gesù: traduzione o resa di gr. ·Ù‹Ú, con le implicazioni sociogiuridiche connesse. In ogni caso – quale sia la risposta, coηd ʈӋ۷˜ ʈӔ ÌÂÁ¿Ï– ï \IËÛÔܘ ÂrÂÓ ¿ÙÂÚ Âå˜ ¯ÂÖÚ¿˜ ÛÔ˘ ·Ú·Ù›ıÂÌ·È Ùe ÓÂÜÌ¿ ÌÔ˘· ÙÔÜÙÔ ‰b ÂågÓ âͤÓ¢ÛÂÓ. munque sia originato – atta non è in funzione di ‘Lallwort’ né di ‘appellativo familiare’ ma di termine socio-giuridi46. «Gesù gridando a gran voce disse ‘Padre, nelle tue mani conco con una estensione semica come minimo equivalente, e segno il mio spirito’. Detto questo, spirò». come medium superiore, a quella di ‘padre’ ut sic. La seIl testo di Luca, unico tra i sinottici, non solo ha l’invocaziomicità si può conguagliare a quella di ‘padre’ attributo di ne ultima di Gesù, ma questa è ¿ÙÂÚ al vocativo, come è lat. Iupiter, gr. (voc.) ZÂÜ ·Ù‹Ú25: qui la ‘paternità’ non è al vocativo abbá in aramaico e non è ·Ù‹Ú che è chiosa di socio-giuridica ma ideologica. Si potrebbe e dovrebbe anPaolo nella lettera ai Galati per il vocativo abbá: a chi? Matdare oltre per la diacronia, ma qui ci arrestiamo perché pare teo scrive il vangelo in aramaico ma non importa, almeno evidente che atta – e attraverso questo il tipo appa, tata, etc. nella versione greca, il grido finale. Il grido finale sarà da at– rappresenta e ha rappresentato, e in alcuni filoni indeurotribuire a Luca che ha tutte le caratteristiche richieste: copei conservato, un concetto di ‘paternità’ ampia, che può me nativo di Siria, dotto di suo, conosceva verisimilmente essere stato o essersi ristretto a paternità socio-giuridica; l’aramaico ma, soprattutto ha come punto fisso il rapporto tuttavia anche in quest’ultimo caso atta può rimanere nella ‘padre-figlio’ che riafferma nel grido finale, che riporta e sua più ampia accezione, e questo è alla base non solo di atche, prima e/o contemporaneamente, ha trasmesso a Paota ma dei praenomina o pseudo-praenomina tipo Atta. Resta lo di Tarso cui era particolarmente vicino, come è noto nelaccertato che atta non è qui, e anche altrove, in funzione di le due biografie. Resta l’incognita nella realizzazione specivoce ‘familiare’, né ‘popolare’ nella prospettiva che il dotfica, ma ben prevedibile come a priori di che cosa potesse tissimo Wulfila volesse rendere ‘popolare’ il dettato evangesignificare il rapporto ‘Padre-Figlio’ per Wulfila, l’ariano inlico: neppure a questo prezzo sarebbe concepibile una sistecorruttibile per tutti i decenni pur dopo Nicea. matica sostituzione di atta a fadar e, comunque, resta un fatto: atta aveva le potenzialità per sostituire fadar e/o di 2. 2. 2. Lo status di atta in Wulfila essergli preferito, e questo non può risolversi con lessico ‘familiare’ né nella variante di ‘popolare’, ma deve essere giuNella traduzione di Wulfila, atta è il termine unico per ‘pastificato più adeguatamente, e nell’adeguatezza comprendre’, quale sia la sua posizione giuridica e/o ideologica, e diamo le caratteristiche morfologiche di questo e altri ciò è esemplato nella versione del Padre Nostro in Matteo, termini in germanico e fuori dal germanico (cenni avanti). che qui riprendiamo nella prima parte e nella premessa in cui ·Ù‹Ú/atta ricorre con particolare frequenza. 2. 3. Atta, Attila, Totila Matteo vi 6-12: atta nel germanico, gotico, pone un problema già individuato per l’evidenza (cenni sopra): se, come è, atta è ie. *at6. Ûf ‰l ¬Ù·Ó ÚÔÛ‡¯–, ÂúÛÂÏı Âå˜ Ùe Ù·ÌÂÖfiÓ ÛÔ˘ ηd ÎÏ›۷˜ ta, evidentemente non c’è la prima Lautverschiebung; queÙcÓ ı‡Ú·Ó ÛÔ˘ ÚfiÛÂ˘Í·È Ù† ·ÙÚ› ÛÔ˘ Ù† âÓ Ù† ÎÚ˘Ù†Ø Î·d ï sto fatto è stato giustificato per la natura di ‘Lallwort’ del ·Ù‹Ú ÛÔ˘ ï ‚Ï¤ˆÓ âÓ Ù† ÎÚ˘Ù† àÔ‰ÒÛÂÈ ÛÔÈ âÓ Ù† Ê·ÓÂÚ†. termine, e come tale la spiegazione potrebbe essere ricicla7. ÚÔÛ¢¯fiÌÂÓÔÈ ‰b Ìc ‚·ÙÙ·ÏÔÁ‹ÛËÙ œÛÂÚ Ôî âıÓÈÎÔ›Ø ‰ÔÎÔta contro la nostra impostazione della questione. Il probleÜÛÈÓ ÁaÚ ¬ÙÈ âÓ Ù” ÔÏ˘ÏÔÁ›0 ·éÙáÓ ÂåÛ·ÎÔ˘Ûı‹ÛÔÓÙ·È. 8. Ìc ÔsÓ ïÌÔȈıÉÙ ·éÙÔÖ˜, Ôr‰ÂÓ ÁaÚ ï ·ÙcÚ ñÌáÓ zÓ ¯Ú›·Ó ö¯ÂÙ ma concernente la Lautverschiebung esiste e non si deve Úe ÙÔÜ ñÌĘ ·åÙÉÛ·È ·éÙfiÓ. 9. O≈Ùˆ˜ ÔsÓ ÚÔÛ‡¯ÂÛı ñÌÂÖ˜Ø sottovalutare, ma non è ristretto ad atta, perché rientra nel 24 Streitberg 1908; successive edizioni 19192; 19603, quest’ultima postuma: da questa sono desunti i passi della traduzione gotica dati qui in testo. 25 La bibliografia sulla questione è pressoché infinita anche perché il nome di Z‡˜ (·Ù‹Ú) ha contribuito a fondare la mitologia comparata in-

deuropea a partire dagli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento con esplosione negli anni Sessanta dello stesso secolo: per tutti Max Müller. Su ciò Prosdocimi, in più sedi: per tutte 1989 e 2002.

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aldo luigi prosdocimi · anna marinetti

fatto che l’indeuropeo – meglio un certo indeuropeo ricostruito – non ha occlusive geminate nel sistema centrale e se, per morfonologia, queste si realizzano, spesso si risolvono come non geminate o con esiti di geminata non confacenti alle tendenze generali dei filoni in cui appaiono. In particolare, così come nel lessico ‘familiare’ della classe atta, non compaiono geminate delle consonanti cosiddette Medie/Sonore o, dopo il ‘new look’, esiti di Glottali.26 Tuttavia att- – ancora di più: atta – non ha la seconda Lautverschiebung (nelle varietà in cui questa si presenta) ma ce l’ha in voci correlate dell’antroponimia, per cui Attila > Etzel, Ezzilo e Atto(n) > Atz-, Azzo: questo specialmente nell’onomastica longobarda dei signori feudali dell’Italia settentrionale, in primis gli Azzo del Casato degli Este e, per la variante Etzel, il famigerato (ghibellino) Ezzelino da Romano. Pertanto non è una prova per la funzione ‘familiare’ del lessico tipo atta, ma atta propone una questione più generale in cui rientra, insieme con altro, tra protoindeuropeo, varietà indeuropee e varietà germaniche. In ciò rientra, con Attila già inserito nella questione, un altro nome regale, a quanto consta lasciato fuori dal tema. Lo si richiama per il dossier, perchè contribuisce a complicarlo nello stesso tempo che lo ampia, specialmente per quanto concerne gli aspetti riguardanti ‘occlusiva sorda’, ‘geminata ~ non geminata’, ‘Lautverschiebung’. Totila è appellativo del re ostrogoto che regnò dal 541 al 552, il cui nome era Baduila. Si può considerare l’ultimo e grande re del regno ostrogoto in Italia perché questo finì di fatto col suo successore che regnò un anno soltanto. L’appellativo Totila è inteso o reso come ‘l’Immortale’. Sia questa o altra la corretta interpretazione, è segno di altissima distinzione; soprattutto, è un appellativo per un personaggio che ha già un nome proprio. La struttura morfologica è la stessa di Attila rispetto ad Atta: si tratta di una morfonologia per cui il suffisso –ila non segue la base atta come atta + -ila o *atta-la ma elimina –a, cioè si comporta come i maschili latini in -a che hanno la morfonologia dei temi in -o˘-; questi, a loro volta, presentano una morfonologia per cui i- è allomorfo di -o-, almeno in alcune strutture morfologiche.27 Lasciamo qui da parte la questione; in questa sede interessa la coppia atta: tata perché, almeno all’apparenza, può porre la proporzione atta: attila = *tota: totila, allora con *tatta ta˘ ta >*tota (quindi con -o- < -a˘-). 2. 4. atta secondo Benveniste Nel Vocabulaire des institutions indo-européennes (Parigi 1969), E. Benveniste tratta i nomi di parentela nelle forme in -ter (pater, mater, etc.); non ne condividiamo l’interpretazione della struttura morfologica in -ter rispetto alle basi,28 tuttavia è una evidenza che si tratta di una struttura seriale e che, di conseguenza, a priori, il centro del sistema è comunque pater. Qui la questione concerne atta e il rapporto con pater; dopo aver posto le corrispondenze lessicali, Benveniste afferma (pp. 209-210): Le témoignage d’un certain nombre de langues révèle une autre dénomination. En hittite, nous trouvons atta, forme qui répond à lat.atta, gr. átta (ôÙÙ·), got. atta, v.sl. otici (forme dérivée de atta, issue de *at(t)ikos). C’est une chance de connaître atta en hittite, car l’écriture en idéogrammes masque la forme phonétique de la plupart des 26 Su alcune considerazioni intorno alla teoria detta ‘glottalica’, v. Prosdocimi 2008. 27 La questione andrebbe approfondita, anche oltre i cenni dati in Prosdocimi 2009.

termes de parenté: seul “père”, “mère”, “grand-père”, sont écrits en clair; nous ne connaissons ni “fils”, ni “fille”, ni “femme”, ni “frère”, exclusivement notés en idéogrammes. Le gotique a deux noms, atta e fadar. On a coutume de les citer sur le même plan. En réalité, le nom di père est partout atta. De fadar nous avons une seule attestation, Gal. iv 6 où un vocatif à‚‚Ä, forme araméenne d’invocation traditionnelle, repris par le nominatif-vocatif grec) est traduit abba fadar. Le traducteur, ayant voulu éviter, semble-t-il, *abba atta, reprend le vieux mot, usuel dans les autres dialectes germaniques et qui a laissé en gotique même le dérivé fadrein “lignée; parents”; partout ailleurs, le grec patér est rendu par atta, y compris dans la formule atta unsar “notre Père”. A quoi tient que *p ter n’apparaît pas en hittite ni en vieux slave? On ne répond pas à cette question si l’on se contente de dire que *atta est une forme familière de *p ter. Le vèritable problème est beaucoup plus important: *p ter désigne-t-il proprement et exclusivement la paternité physique?

Che pater non significasse la paternità fisica era una certezza già dall’800, con conferma nel latino anche senza ricorrere agli esempi mitico-ideologici tipo lat. Iupiter (v. nota 25): non è che Iupiter sia contro, anzi, ma per principio non va usato il divino per spiegare ‘l’umano’ quando ci si può attenere al piano dell’umano stesso; non c’è quindi bisogno della proiezione del paterfamilias terreno nel ‘Cielo padre’ celeste, a meno che non si stia trattando della fondazione dell’umano nel divino e viceversa, il che non è. In Benveniste c’è il richiamo alla tradizione evangelica secondo una osservazione del missionario W.G. Ivens: Quand il a essayé de traduire les Evangiles en mélanésien, le plus difficile, dit-il, a été de rendre le Pater noster, aucun terme mélanésien ne répondant à la connotation collective de Père. “La paternitè n’est dan ces langues qu’une relation personnelle et individuelle” (…); un “père” universel y est inconcevable.

e si prosegue: La répartition indo-européene répond en gros au même principe. Ce “père” personnel, c’est atta, seul représenté en hittite, en gotique, en slave. Si dans ces langues, le terme ancien, *p ter a été supplanté par atta, c’est que *p ter était d’abord terme classificatoire, ce dont nous trouverons confirmation en étudiant le nom du “frère”. Quand à ce mot atta lui-même, plusieurs traits aident à le définir. Sa forme phonétique le classe parmi les termes “familiers”, et il n’est pas fortuit qu’on retrouve des noms semblables au même identiques à atta pour “père” dans des langues très diverses et non apparentées, en sumérien, en basque, en turc. De plus, atta ne peut être séparé de tata qui, en védique, en grec, en latin, en roumanin, est une manière enfantine, traditionnelle, d’interpeller affectueusement le pere. Enfin, comme on le verra à propos de l’adjectif germanique “noble”: *atalos > edel, adel (…), cet appellatif a produit plusieurs dérivés qui ont leur place dans le vocabulaire des institutions. Il s’ensuit que atta doit être le “père nourricier”, celui qui élève l’enfant. De là ressort la différence entre atta et pater. Les deux ont pu coexister et coexistent en effet assez largement. Si atta a prévalu sur une partie du domaine, c’est probablement par suite de changements profonds dans les conceptions religieuses et dans la structure sociale. Effectivement, là où seul atta est en usage, il ne reste pas trace de l’ancienne mythologie où régnait un dieu “père”.

Il ragionamento va rovesciato, in più aspetti, secondo quanto si è anticipato per il gotico di Wulfila: 1) fadar è usato una sola volta, quando Gesù chiama il ‘padre’ come paternità umana propria e non generica; 2) atta unsar nella preghiera 28 Anche in questo caso la bibliografia è sterminata per quantità e storiograficamente centrale per la qualità dell’oggetto. Su ciò rimandiamo da ultimo a Solinas 1997-1998.

su l t ipo atta ‘ pa dr e ’ in alcune tr adizioni europee 221 no’, il ‘genius’ della comunità’, forse un antenato eroizzaprinceps non può essere un ‘nutritore’, ma è, all’evidenza, to.32 Tatius dovrebbe presupporre una base onomastica il padre carismatico di tutti, quindi non è un ‘babbino, *Tata da tata ‘nonno, avo’ non attestata onomasticamente daddy’, ma un ‘Padre’ che è fuori della parentela normale come invece lo è Atta da atta. I nomi di derivazione ‘infanperché è al di sopra della parentela normale, è un ‘padre’ tile’ con funzionalizzazione onomastica atta- > Attius e *apche è superiore per carisma al ‘pater’ giuridico in una strutpa > Appius si inseriscono quindi in una serie più ampia, che tura sociale che lo contempla. È possibile, anche ragionenel latino comprende anche *tata > Tatius, *papa > Papius, vole, che il tipo atta, appa sia residuo da un lontanissimo passato che si è variamente ristrutturato a seconda delamma > Ammius, *mama > Mamius, etc.; a queste si possono l’evolvere sociale, salvo specializzazioni o conservazioni aggiungere forme quali il italiche quali amma (Ve 147); faliche risultano specializzazioni per restrizione di campo, cosco mama (Ve 241); mamius/maamies (Ve 32); Acca (Ve 215 f ) me in ittita o nel gotico di Wulfila, e non nelle altre varietà e Acca (Larentia); Caca: Cacius/us. Non ci soffermiamo oltre germaniche, dove, sia pure in compresenza di atta variaquesto cenno, rinviando a quanto sull’argomento ha già mente funzionalizzato (sopra Feist ad v. atta, e in Klugeespresso uno degli autori33. Mitzka), ‘padre’ è da *pHoté¯r (l’aveva dimenticato BenveniRichiamiamo in conclusione alla fattualità desunta dalla ste?), e dove la ‘paternità’ collegata con atta è di rango alto fenomenologia, che si articola a più livelli, connessi ma da dinell’onomastica e nel lessico. Concludendo: la genesi di un stinguere: lessema non è la funzione nel sistema lessico-semantico in 1) è un fatto che nomi come atta/Atta sono et nomi comuni cui si attua; tuttavia resta un problema che non si risolve et nomi di Individuo; con semplificazioni o sofismi alla Benveniste; la soluzione è 2) è pure un fatto che questo tipo di nomi funziona in modo nel riproporre la questione in termini corretti, del tipo: perparticolare nei due sistemi in modo simmetrico: nel siché, come, dove, quando i tipi atta, appa, tata, etc. sono stati stema lessicale rientrano nella terminologia della parenmarginalizzati nel sistema o, meglio, vi sono stati diversatela ma con modalità particolari rispetto al sistema ‘cenmente funzionalizzati? trale’; nel sistema onomastico hanno parimenti uno status particolare rispetto al sistema ‘centrale’ perché sono insieme nomi di lessico di una classe ad un solo mem3. Promemoria sull ’ onomastica significante: bro – quindi individuano come nomi di lessico quali Indi‘ forme infantili ’ e forme ‘ ideologiche ’ vidui Culturali – ma, in questo status, individuano anche Si è pensato in questa sede di esemplificare l’uso istituzionale come Individui Linguistici cioè come Nomi Propri; delle cosiddette ‘forme infantili’ per il latino e italico con il 3) la posizione particolare tra lessico ed onomastica, almetipo atta/appa, senza entrare se non cursoriamente nelno in lingue indeuropee come il latino e l’italico, sembra l’aspetto della produttività di tali forme nell’onomastica; ma essere collegata alla loro struttura ‘elementare’ rispetto i casi visti rimandano a tematiche più ampie, di cui non si può alla loro posizione nel sistema parentale ‘centrale’ in -ter almeno richiamare la portata. e insieme con altri elementi non in -ter ma non di forma Una riguarda i cosiddetti nomi ‘parlanti’; si tratta delelementare che vi si sono associati, tipi lat. filius, gr. ñÈfi˜, l’onomastica attribuita a figure semileggendarie o storiche ted. Sohn etc. divenute leggendarie, situabili nel periodo delle origini e delRiferimenti bibliografici la formazione di Roma (anche se spesso di provenienza non Cagnazzo 2008-2009 = P. Cagnazzo, Sabini, Sabelli, Samnium, romana), in cui è riconoscibile o addirittura trasparente una Safinim. Un problema di etnonimia: tra linguistica e storia, tesi di base lessicale riferita a funzione, carica, ambito in cui gli steslaurea specialistica, Università di Padova, a.a. 2008-2009. si personaggi operano: sono i casi di Modius (Fabidius), Ferter Jakobson 1971 = R. Jakobson, Why mama and papa?, in Selected Resius «qui ius fetiale constituit», Poplio-/Publios, Hostius HostiWritings, i, The Hague, 1971, pp. 538-545. lius, fino allo stesso Romulus nel suo rapporto con Roma.29 A Del Tutto Palma, Prosdocimi, Rocca 2002 = L. Del Tutto questa categoria, può essere ricondotta anche la classe più Palma, A. L. Prosdocimi, G. Rocca, Lingue e culture intorno specifica dell’onomastica istituzionale da ‘forme infantili’. al 295 a.Cr.: tra Roma e gli Italici del Nord, in La battaglia del SenCome visto dagli esempi citati, la motivazione del nome tino (Atti del Convegno, Camerino-Sassoferrato, 10-13 giugno può realizzarsi non solo nella singola forma, ma anche in 1998), Roma, 2002, pp.407-663 una formula binomia; nella casistica, spicca il caso del nome Marinetti 1982 = A. Marinetti, Atta/us: Appius; lat. atta, sabidel re sabino Titus Tatius. Anche qui si ha a che fare con stano *appa e sudpiceno apaio-. Sabini a Roma e ‘Safini’ nelle iscrizioni sudpicene, «Res Publica Litterarum», v, 1, 1982, pp. 169-181. tus onomastico particolare, con una genesi rintracciabile Marinetti 1985 = A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, i. Testi, nella significatività semantica e ideologica di entrambe le Firenze, 1985. basi della formula binomia. tito- è già stato interpretato coMarinetti 1999 = A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, in Piceni me ‘genius’ (anche in senso fallico) in iscrizioni falische e popolo d’Europa, Roma, 1999, pp. 134-139. l’interpretazione si è riproposta, sia pure dubitativamente, Prosdocimi 1986 = A. L. Prosdocimi, Sull’accento latino e italico, per le iscrizioni sudpicene; qui in una delle iscrizioni più in Festschrift für Ernst Risch zum 75 Geburtstag, hrsg. A. Etter, lunghe e complesse del corpus, da Penna S. Andrea (te 5) Berlin-New York, 1986, pp. 601-618. compare un dat. titúi30 che, secondo l’interpretazione data Prosdocimi 1995 = A. L. Prosdocimi, Filoni indeuropei in Italia. da A. Marinetti,31 dovrebbe costituire il destinatario; la deRiflessioni e appunti, in L’Italia e il Mediterraneo antico, i-ii, Atti dica promana dai ‘Safini’ e dalla túta stessa, e ciò – assieme del Convegno sig (Fisciano-Amalfi-Raito, 4-6 novembre 1993), ad altri aspetti – porta ad individuare un destinatario ‘diviPisa, 1995. 29 Sul nome di Romolo, cfr. da ultimo Prosdocimi 2009b. 30 Una forma titiúí è presente anche nell’iscrizione sul ‘bracciale’ conservato a Chieti, in un contesto non immediatamente perspicuo, ma che comunque inquadra l’iscrizione come dedica; cfr. Marinetti 1985, p. 233 e, con una revisione di lettura e interpretazione, Marinetti 1999, spec. p. 138.

31 Marinetti 1985, pp. 117-130. 32 Cfr. quanto accennato sopra a nota 12 a proposito della dedica sudpicena a ‘madre (e) padre’ da riportare a forme di culto comunitario degli antenati. 33 Prosdocimi 2009a e 2009b.

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aldo luigi prosdocimi · anna marinetti

Prosdocimi 1996 = A. L. Prosdocimi, Curia, Quirites e il sistema di Quirinus, «Ostraka», v, 1996, pp. 243-219. Prosdocimi 1989 = A. L. Prosdocimi, Le religioni degli Italici, in Italia omnium terrarum parens, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, 1989, pp. 475-545. Prosdocimi 2002 = A. L. Prosdocimi, Dèi di Roma o religione di Roma?, «Credere Oggi», xxii, 3, 2002, pp. 117-142. Prosdocimi 2004a = A. L. Prosdocimi, Latino (e) italico e indeuropeo: appunti sul fonetismo, in Scritti inediti e sparsi. Lingua, Testi, Storia, i-iii, Padova, 2004, iii pp. 1105-1215. Prosdocimi 2004b = A. L. Prosdocimi, Scritti inediti e sparsi. Lingua, Testi, Storia, i-iii, Padova, 2004. Prosdocimi 2008 = A. L. Prosdocimi, Latino (e) italico e altre varietà indeuropee, Padova, 2008.

Prosdocimi 2009a = A. L. Prosdocimi, Note sull’onomastica di Roma e dell’Italia antica, in L’onomastica dell’Italia antica. Aspetti linguistici, storici, culturali, tipologici e classificatori, Atti del Convegno (Roma, École Française de Rome, 13-16 novembre 2002), Roma, 2009, pp. 73-151. Prosdocimi 2009b = A. L. Prosdocimi, Sull’onomastica di Roma “palatina”, inL’onomastica di Roma. Ventotto secoli di nomi,Atti del Convegno (Roma, 19-21 aprile 2007), Roma, 2009 («Quaderni Italiani di rion», 2), pp. 17-44. Solinas 1997-1998 = P. Solinas, Sulla terminologia della parentela nell’indeuropeo. Le radici ottocentesche della questione. Parte i , «Atti dell’Istituto Veneto di ss.ll.aa.», clvi, 1997-1998, pp. 783-866. Streitberg 1908 = W. Streitberg, Die Gotische Bibel, Heidelberg, 1908 (19192, 19603).

LO S TR ANO VASO DI CAV I OS FRENAI OS Francesco Roncalli

I

l vaso di cui intendo trattare è ormai ben noto. Si tratta infatti del cratere falisco a colonnette recante l’iscrizione caviosfrenaiosfaced (Figg. 1-4), approdato circa dieci anni fa

alle raccolte del Museo Archeologico Nazionale di Madrid1 e qui sottoposto a sollecita e attenta edizione da parte dei colleghi spagnoli, con un primo inquadramento archeolo-

Fig. 1. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Cratere falisco a colonnette: faccia a.

Fig. 2. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Cratere falisco a colonnette: faccia b.

Figg. 3-4. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Cratere falisco a colonnette: i lati delle anse. 1 N. inv. 1999.99.160. Ringrazio il collega prof. Ricardo Olmos, Direttore della Esquela Española de Arqueologìa, per l’aiuto offertomi nel corso del mio lavoro.

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francesco roncalli

gico e storico proposto da Ricardo Olmos in occasione della esposizione della collezione di cui faceva parte tenutasi a Madrid e, l’anno successivo, a Dallas, subito seguita dall’analisi paleografica e linguistica di José Antonio Berenguer Sànchez e Eugenio R. Lujàn.2 A questi studi ha fatto seguito un radicale riesame del vaso da parte di Stefano Bruni, presentato nella sede dei convegni orvietani.3 Con il che l’importante documento si direbbe ampiamente risarcito dell’anticamera fatta nel semi-anonimato della collezione privata d’origine, e soddisfacentemente restituito all’attenzione che merita. Se invece ritengo non ozioso tornare qui a parlarne è perché proprio la più recente presentazione dell’oggetto mi ha richiamato alla mente una serie di riflessioni cui ero stato indotto alcuni anni fa, quando per la prima volta avevo potuto prenderne visione (in fotocopie di fotografie!): riflessioni che mi paiono ancora meritevoli di una esplicitazione che, a quel tempo, mi era parsa prematura. Quelle immagini risalivano infatti a quando ancora il vaso e la collezione privata (allora a me ignota)4 cui apparteneva non erano stati acquisiti alle raccolte del museo madrileno, e su quella base sarebbe stato davvero imprudente avviarne uno studio approfondito: e tuttavia (escluso in partenza il rischio che facessero torto alla qualità ceramografica del pezzo, visibilmente dimessa!) esse apparivano sufficienti a presentarlo in tutto il suo vistoso fardello di stranezze tecnico-formali, tipologiche, stilistiche e di soggetto: il tutto avvolto per giunta ancora, almeno ai miei occhi, in quella spessa coltre di dubbi circa la sua origine e – fatalmente anche – autenticità, che rappresenta l’inevitabile scotto pagato da cimeli dal pedigree nebuloso. Ma proprio quel vuoto di informazioni contestuali che lasciava l’oggetto solo a difendersi, conferiva a quelle sue varie e singolari caratteristiche un risalto capace di costringere l’osservatore ad aguzzare lo sguardo più di quanto non avvenga di solito per reperti legittimati in partenza da circostanze di rinvenimento note e rassicuranti. Ebbene, quelle impressioni e osservazioni, confortate di recente dalla visione diretta del vaso, mi sembrano ora invocare un supplemento d’istruttoria che mi porterà ad un inquadramento del vaso, sia dal punto di vista archeologico che storico, in parte diverso da quello proposto dal Bruni. Dirò subito che le divergenze non riguardano, ovviamente, l’attribuzione falisca del vaso e dell’iscrizione né la collocazione cronologica proposta per entrambi, sostanzialmente condivisibile, quanto piuttosto la lettura dell’oggetto sia nei particolari che nell’insieme, l’individuazione del peculiare messaggio ad esso affidato e, conseguentemente, la natura del terreno culturale e del contesto storico cui questo si richiama. Messaggio e contesto che mi paiono ora inserirsi con suggestiva coerenza in quel panorama del distretto etrusco-tiberino e falisco che deve per l’appunto proprio agli studi di Giovanni Colonna alcune illuminanti definizioni. Circostanza, questa, che mi incoraggia ulteriormente a tornare sull’argomento con questa breve nota che a quei suoi contributi si richiama inevitabilmente e, come si vedrà, ripetutamente, e che dunque quasi spontaneamente si dedica a lui. * Pur in presenza, come si è detto, di già esaurienti edizioni, sono inevitabili alcuni richiami descrittivi che, pur ridotti al minimo indispensabile, considero fondanti rispetto alla lettura che proporrò. 2 Olmos Romera 2003 e 2004; Berenguer-Sánchez, Luján 2004. 3 Bruni 2005. 4 Di José Luis Várez Fisa.

Fig. 5. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Cratere falisco a colonnette: particolare della decorazione figurata.

La forma. Il cratere poggia su un piede a echino rovesciato dal profilo appena incurvato, da cui si diparte la parete del vaso, obliqua e tesa verso l’alto come ci attenderemmo piuttosto da un’anfora o da un’idria che da un cratere, la quale raggiunge la propria massima espansione proprio all’attacco con la spalla, arrotondata e terminante in un piano orizzontale che finisce per integrarne un profilo ‘stamnoide’. Propri di un cratere sono invece il robusto, anche se piuttosto basso, collo cilindrico e il labbro estroflesso inferiormente concavo che si prolunga nelle due placchette opposte sorrette dalle due ‘colonnette’. Una forma, dunque, che il ceramista conosce ma con la quale non mostra di avere troppa dimestichezza, e che si trova a compitare mettendo forse a frutto una migliore esperienza di altre forme ceramiche chiuse. L’ornato. Realizzato in una vernice bruna di densità mutevole, consiste nella verniciatura piena dell’esterno del piede, che risale al disopra della linea di giunzione fra questo e il corpo del vaso, qui sormontata da una zona risparmiata e da un filetto; una fascia larga tra due più sottili avvolge il punto di massima espansione subito al disotto della spalla e un’altra, poco più spessa di queste due, corre alla base del collo. La decorazione di labbro, anse, spalla e collo è interamente affidata a serie di linguette: le due maggiori, sul collo e sulla spalla, sono inclinate in direzione opposta, come a formare un tralcio unitario che inghirlanda la base del collo.5 E veniamo al fregio principale (Figg. 1-3, 5). Il campo vi è occupato da un oggetto formato da una lunga fascia orizzontale tesa tra due estremità dalle quali si dipartono verso il basso due appendici curvilinee dall’andamento grosso modo speculare: più vivo, ad angolo retto, lo stacco di quella di sinistra dalla faccia inferiore dell’elemento orizzontale, più arrotondato quello dell’appendice di destra, realizzato in evidente continuità con il tratto di pennello che definisce 5 Cfr. Olmos Romera 2003, p. 430.

lo st r a no vas o di cavios frenaios

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Fig. 6. Apografo della figura e dell’iscrizione (elab. da Olmos Romera 2003).

stra a sinistra,9 in scriptio continua, la bella iscrizione di 19 lettere: caviosfrenaiosfaced.

la porzione inferiore dello spessore del corpo centrale; dopo una simmetrica e pronunciata rientranza (‘a clessidra’) entrambe le appendici piegano, quasi orizzontali, verso l’esterno e poi di nuovo verso il basso, dove si arrestano in corrispondenza – più riuscita e precisa a sinistra che a destra – del filetto che segna il limite inferiore del campo. Sporge dall’estremità superiore sinistra dello strano oggetto, in parte sovrapponendosi ad essa, un fallo eretto, mentre dall’opposta si distaccano quattro linee arcuate sottili e concentriche dalle estremità appena percettibilmente (e in misura diversa) ispessite. Allineate lungo il piano superiore, o dorso, della ‘cosa’, ma a quanto pare non poggianti su di essa (né peraltro esplicitamente appese), compaiono dieci mascherine,6 tutte realizzate con un tratto di pennello cuoriforme, dal cui punto di giunzione al centro della fronte discende una linea verticale ad indicare il naso; integrano i sommari lineamenti due tratti laterali obliqui, più o meno appuntiti, che si staccano ad indicare le orecchie, due punti per gli occhi e un trattino orizzontale per la bocca. Tanta semplificazione non consente certo gran varietà, che tuttavia è tentata, come aveva ben visto R. Olmos, al di là di ogni ragionevole dubbio, anche se ingenuamente:7 le folte capigliature e/o barbe delle quattro maschere centrali (Fig. 6, nn. 3-6), il ‘pizzetto’ appuntito sotto il mento della n. 4, la calvizie (o vuol essere una ghirlanda?) indicata da una fila di puntini che traversa la fronte della n. 2, il naso e la bocca della n. 1 (dove un distinto trattino orizzontale indica la punta e le narici – come il colpo di pennello nella n. 4 – indiziando di qualche intenzionalità anche le due brevi pennellate verticali che si distaccano dal labbro inferiore), nonché, infine, la linea del naso dell’ultima a sinistra (n. 10), obliqua e già chiaramente ‘coinvolta’ nella metamorfosi itifallica di questa porzione dell’oggetto. Tutto ciò non mi sembra potersi imputare ad «incidenti tecnici del pittore».8 Infine, canonicamente allineata in alto e come appesa al profilo inferiore del corpo orizzontale centrale, corre da de-

La prima osservazione riguarda il naturale rapporto gerarchico che subordina l’ornamentazione secondaria (fasce maggiori e minori, filetti, linguette ecc.) a quella cui è riservato, a tutta altezza, il campo centrale: nulla, nell’assetto in cui il vaso si offre al nostro sguardo, ci autorizza a rovesciarlo. Non è forse superfluo ricordare che tale secondarietà risiede, qui come altrove, non soltanto nella esplicita subalternità dell’apparato ornamentale rispetto all’eventuale contenuto figurativo o narrativo destinato al campo principale, bensì nella pertinenza naturale e nella funzionalità primaria di esso alla scansione strutturale del manufatto: non la promuoverebbe di rango nemmeno il caso (sappiamo quanto frequente in vasi di più modeste pretese!) in cui la decorazione principale fosse latitante, o tacesse del tutto: e qui davvero non tace. Non basta a legittimare un simile capovolgimento10 la chiara anomalia che il fregio principale ci presenta, pure puntualmente avvertita dagli studiosi che mi hanno preceduto: il fatto cioè che esso sia stato centrato non già rispetto all’una o all’altra faccia del vaso (i convenzionali lati a e b), bensì – e con quasi millimetrica precisione – rispetto alla verticale di una delle due anse (Fig. 3),11 così da lasciare quasi del tutto vuoto lo spazio in corrispondenza dell’ansa opposta, pari a poco meno di un terzo della circonferenza totale (Fig. 4). È una scelta ‘forte’, questa, senza alcun dubbio, fondamentale anzi, a mio avviso, per comprendere le intenzioni che presiedettero alla realizzazione del vaso: ma se prima tra queste fosse stata quella di mortificare l’iscrizione riportandola ad una posizione marginale rispetto a ciò che invece s’intendeva proporre come il valore principale dell’impresa (il vaso stesso e il suo ornato convenzionale), ben altre soluzioni e collocazioni si sarebbero offerte all’autore,12 as-

6 Non undici, come si legge in Bruni 2005, p. 371 e nota 26. 7 Olmos Romera 2007, p. 431: «cada rostro es diferente». 8 Così Bruni 2005, alla nota citata. 9 Da correggere in tal senso l’indicazione di Olmos Romera 2003, p. 430: «de izquierda a derecha». 10 Sostenuto invece dal Bruni, secondo cui «l’iscrizione e tutta la ricca cornice che l’accompagna…rappresenta certamente un aspetto secondario

dell’intero apparato pittorico del vaso…»: giudizio che lo porta a promuovere a «decorazione principale del vaso… la grande fascia compresa tra due linee orizzontali posta subito sotto la spalla» (Bruni 2005, p. 369). 11 Olmos Romera 2003, p. 430; Bruni 2005, p. 369. 12 Da una semplice riduzione dimensionale alla rinuncia al goffo impegno figurativo che ulteriormente la sottolinea, alla più tradizionale collocazione sotto il piede o sul labbro.

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sai più efficaci, semplici e, oltretutto, tradizionali di quella che invece adottò – in tale prospettiva davvero infelice! – e che finì per sortire il prevedibile risultato opposto: quello cioè di farne proprio ciò che appare, oggi come certo anche allora, «il principale motivo d’interesse del vaso»:13 oltre che, aggiungiamo noi, il suo intervento di maggiore qualità. Credo invece che il ceramista, nel momento stesso in cui adottava il cratere quale supporto del proprio messaggio, abbia inteso, con quello scarto voluto e ben calcolato, sottrarre di proposito l’iscrizione al rischio di una sua omologazione alla convenzionale logica dell’ornato vascolare, in ciò memore forse (o comunque partecipe) della consuetudine che determinava l’andamento indipendente, avvolgente o spiraliforme, di più antiche – e lunghe – scritte su vasi, familiari proprio all’ambiente in cui si trovava ad operare14. L’iscrizione, cioè, si avvale del cratere quale supporto e proprio a tale fine sfugge intenzionalmente, per l’effetto combinato del peso dimensionale e della collocazione, a una subalternità ai dettami consueti della decorazione del vaso, la quale avrebbe finito per limitare e ‘confinare’ entro i limiti di esso la sua funzione dichiarativa. In altri termini: il messaggio coinvolge il vaso e lo utilizza, ma non si risolve in esso. La dimestichezza del ceramografo con l’arte scrittoria e le consuetudini ad essa legate è del resto confermata dalla bella sicurezza con cui l’iscrizione è da lui vergata, nonché dal costume – tutt’altro che ovvio – ch’egli conosce e cui si attiene nell’impaginare il suo testo allineandolo in alto lungo il ciglio inferiore del singolare oggetto che gli fa da falsariga e cornice.15 Il fatto, constatato dal Bruni, che il tratto di pennello che definisce il profilo inferiore di quest’ultimo sormonti in parte alcune lettere dell’iscrizione nulla toglie all’unità del progetto che salda i due elementi e momenti, anzi: la sequenza temporale così guadagnata tra i due gesti (1: l’iscrizione, 2: l’‘oggetto’), mentre da un lato spoglia di ogni modestia la scritta autonomamente pensata e tracciata, prima di ogni altra cosa!, esattamente a mezza altezza nel campo disponibile ancora vuoto, dall’altro suona a conferma della funzionalità complementare del successivo sforzo figurativo, mirato evidentemente ad una ulteriore e non equivoca precisazione del messaggio.16 Si tratta dunque bensì, certamente, di una ‘firma’, colta e orgogliosa: ma non del ceramista (e/o ceramografo) in quanto tale. Non è – non può essere – il modesto cratere in sé, né tantomeno una porzione qualsivoglia del suo banale e modestissimo apparato ornamentale secondario, l’oggetto di tanto orgoglio: il vaso non è firmato, ma è ‘firma’ esso stesso, e il titulus di cui è fatto supporto deve dunque alludere ad altra performance e riferirsi al committente di questa (tornerò più avanti sul problema dell’eventuale sua identificazione con l’estensore). * 13 Riconosciuto dallo stesso Bruni (Bruni 2005, p. 368). 14 Si pensi ad es. alla lunga iscrizione falisca arcaica Vetter 243 (Prosdocimi 1990), che parte sotto l’ansa (unica) della modesta brocchetta (e cioè sul retro!) per fermarsi dove càpita, dopo un doppio avvolgimento del vaso: e osservo che anche in questo caso lo scarto di qualità e know-how tra iscrizione e apparato ornamentale convenzionale non potrebbe essere più lampante! 15 Su questo costume vedi Roncalli 2008, p. 45 sg. 16 R. Olmos propende per una priorità della serie di maschere (Olmos Romera 2003, p. 430): certo è soltanto che l’elemento intermedio venne per ultimo, ma la centralità conferita alla scritta induce a considerarla vergata, o quantomeno “pensata”, per prima.

È dunque proprio il palese imbarazzo che il decoratore del cratere rivela nel passare da un esercizio (scrivere) in cui lo assistono sia conoscenze specifiche che sperimentata manualità a un altro (dipingere) nel quale si rivela, a dir poco, sprovveduto o impreparato, l’indizio più forte, a mio avviso, del grado di ‘necessità’ che gli imponeva quella integrazione improvvisata, quella escursione ‘fuori pista’ il cui valore non può dunque essere meramente esornativo, bensì da ricercarsi al livello del significato. Le opinioni fin qui espresse in proposito divergono radicalmente: R. Olmos attribuisce all’elemento centrale una natura quasi animata, tra l’antropomorfo e il demonico, comunque allusiva a un evento di tipo teatrale, e nelle maschere una precisa citazione di distinti personaggi/attori17; S. Bruni vede invece nel primo una semplice tenia, nel fallo e nelle maschere simboli apotropaici che vi sarebbero aggiunti “a correttivo della hybris insita nella stessa esternazione del nome”,18 mentre nulla è detto dei quattro tratti semicircolari che spiccano dall’estremità destra della “tenia”, pure in palese nesso di opposizione, sia dal punto di vista figurativo che semantico, con il fallo sul lato opposto. Si deve riconoscere che qualsiasi sforzo interpretativo in proposito rischia di far torto al carattere composito dell’invenzione e ai modi sbrigliati della esecuzione: e tuttavia una proposta sembra possibile. La lettura del particolare suggerita dal Bruni (coerente del resto con una indagine che mi pare pregiudizialmente orientata da un dichiarato intento “normalizzante” il vaso in esame) non mi sembra convincente, così come i confronti da lui pur prudentemente invocati. Va rilevato preliminarmente che l’impressione causata dall’apografo dell’iscrizione così come proposto già dal primo editore (Fig. 6), in cui l’enigmatico oggetto appare “artificialmente” arcuato per effetto della proiezione in piano del lucido calcato sulla superficie curva del vaso, può risultare fuorviante: in realtà il suo asse longitudinale – a parte le incertezze e gli irregolari ispessimenti della pennellata – è orizzontale e rigido (come mostra lo schizzo ‘regolarizzato’ che propongo alla Fig. 7) e ribadito mediante ripetuti e distinti tratti di pennello, e non ha nulla a che fare, così come il complicato e simmetrico incurvarsi delle due appendici laterali, né con l’inarcarsi verso il basso – e rigonfiarsi – delle tenie o dei festoni chiamati a confronto19 (più o meno pronunciato ma costante, dalle versioni più accurate – come nella chiusina Tomba della Tassinaia20 – a quelle, anche le più corsive, delle urne chiusine a campana di ii-i sec. a.C.21), né con il semplice ricadervi verticale, o lievemente divaricato, dei lembi laterali. Quand’anche si volesse chiamare in causa la palese ‘povertà formale’ dell’improvvisato ceramografo (e si noti anche l’assenza di qualsiasi accenno, pur sommario, ai chiodi cui la tenia sarebbe appesa, pur sempre presenti, e in resa prospettica, anche nelle più modeste delle versioni citate), non si può non osservare che sarebbe bastato arrestare le due appendici laterali poco al di sopra del limite inferiore del campo per dar conto senza 17 «una mesa o un… escenario antropomorfo o demónico,… casi dotado de movimento» (Olmos Romera 2003, p. 431). 18 Bruni 2005, p. 371. Quanto alla firma – vera – di aranı heracanasa nella Tomba dei Giocolieri richiamo quanto ho osservato in Roncalli 2005, p. 414; quanto a quella – presunta – di Êeziu paves´ sulla kylix da Grotti conservata al Museo Archeologico di Siena, rinvio ora al mio contributo al Convegno orvietano del 2008 (Roncalli 2009, pp. 248-249). 19 Bruni 2005, p. 369-370. 20 Steingräber 1985, p. 284, n. 27; Rastrelli 2000, pp. 163 e 165, fig. 206. 21 Rastrelli 2000, p. 175, fig. 236, e 179. Per la datazione di queste olle vedi anche Sannibale 1994 e Albani 2008.

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Fig. 7. Restituzione grafica della figura (elab. da Olmos Romera 2003).

Fig. 8. Würzburg, Martin von Wagner Museum. Anfora del P. dell’Eptacordo (da Venezia 2000).

troppi sforzi, se del caso, della loro natura di lembi pènduli. Il loro toccare quel limite, invece, e il modo del loro raccordarsi al piano orizzontale da cui si dipartono, ci assicurano che l’intenzione è quella di rappresentarci – come proponeva Olmos – una struttura autonomamente poggiante a terra: una sorta di bassa piattaforma, palchetto o pedana che, 22 Steingräber 1985, tav. 174, p. 377, n. 162 23 Martelli 1987, 1988 e 2001. Cfr. Gaultier 2000, p. 424 sgg. 24 Simon 1995.

nella conformazione speculare e fortemente rientrante degli opposti profili, rievoca le sagome familiari (ovviamente meglio articolate!) comuni a podî di templi, altari, basi votive di ambiente etrusco-italico. Tra i confronti – universalmente noti – mi limiterò a citare, per l’affinità della più svelta versione pittorica, l’altare/mensola/sostegno dipinto nel timpano della parete di fondo della tarquiniese Tomba 5513.22 Un simile oggetto è a mio avviso assai meglio compatibile di una generica tenia appesa con l’aggiunta, di sapore schiettamente dionisiaco, di quei due elementi che ne sporgono a mo’ di acroteri laterali (si pensi alle protomi d’ariete degli altari), quasi metamorfizzando il tutto in chiave satiresca (fallo eretto da un lato, coda equina dall’altro?). Delle dieci maschere e del palese tentativo di variarne i connotati si è già detto. Sul piano formale i richiami proposti dal Bruni sono ineccepibili, soprattutto per quanto attiene all’immediato retroterra arcaico del tema della maschera umana, specie nelle sue applicazioni ceramiche. Ma è sul loro carattere, e sul senso della loro presenza qui, che ritengo ci si debba riaccostare decisamente alla lettura proposta da R. Olmos. Pur senza avventurarci in una identificazione di personaggi o attori, l’intento inequivocabile di differenziare quei volti basta da solo ad escluderne un univoco carattere demonico e, conseguentemente, un generico valore apotropaico. Ma forse si può dire di più. Non sembri ardito chiamare a confronto la celebre scena raffigurata sull’anfora del Pittore dell’Eptacordo,23 in cui cinque personaggi volteggiano acrobaticamente al ritmo della musica eseguita da un citarista (Fig. 8). Già i primi editori hanno percepito il sapore scenico-rituale della performance là rappresentata e il suo rapporto con il mito.24 In alto sullo sfondo appare appesa una testa raffigurata frontalmente, sorprendentemente simile alle nostre (Fig. 9): la interpretazione recente che vi vede una protome di rapace25 mi sembra non renda ragione di questo, che è l’unico inserto figurativo secondario nell’intero quadro: se invece, come intuì già M. Martelli26 e come credo, si tratta proprio di una maschera umana (si noti, tra l’altro, il rendimento degli occhi in tutto simile a quello del saltimbanco vicino!), essa si vedrebbe restituito il compito – dunque non esornativo, bensì di preciso rango figurativo e 25 Cfr. da ultimo, Venezia 2000, p. 607, n. 207 (I. W.). 26 Martelli 1988, pp. 286 e 291: «una sorta di maschera appesa che, per il momento almeno, è un hapax…».

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narrativo – di circostanziare e situare l’intero evento rappresentato, segnalandone appunto la pertinenza al contesto di ludi scaenici.27 Vedo qui il vero archetipo delle nostre maschere, nelle quali si perpetua l’identica, peculiare resa del volto frontale costruito attorno all’arcaica formula che raccorda le arcate sopracciliari al dorso del naso in un unico segno ‘a coda di rondine’ e, ancora, le orecchie che se ne staccano verso l’alto con due trattini più o meno obliqui (stilisticamente affini a quelli che, nell’anfora di Würzburg, descrivono in outline anche il naso e le labbra degli ‘attori’). Si tratta, con ogni evidenza, della trascrizione grafica di tipi plastici coevi, anch’essi ben riconoscibili, localizzabili e databili: basti confrontarla con la ‘maschera’ che sottostà alla resa dei volti – a differenza dei corpi, lasciati alla libera e inesperta improvvisazione del coroplasta – nelle statuine fittili della ceretana Tomba delle Cinque Sedie (Fig. 10),28 e che a sua volta riprende il modulo di tradizione canopica cui costantemente si rifanno sia la produzione coroplastica che quella artigianale.29 Non sorprende che il filone tipologico cui le mascherine del nostro cratere si riallacciano ancora – evidentemente aderendo ad una tradizione localmente conservatasi robusta – risalga all’ambiente cosmopolita ed effervescente delle metropoli tirreniche dei decenni centrali del vii sec. a.C., dove abbiamo visto quei medesimi ceramisti aprirsi per la prima volta ai temi del mito che, oltretutto, forse proprio la recitazione rapsodica e la rappresentazione scenica avevano concorso a divulgare: e i secoli che ne separano il cratere di Cavios, lungi dall’indebolire il richiamo, mi sembra illuminino sia la natura delle nostre maschere e il terreno di coltura che le ha originate e nel quale sono radicate, sia, a posteriori, la forza di quel remoto modello, qui acquisito una volta per tutte e fissato da una tradizione scenica evidentemente vitale ma più conservativa di quella della stessa patria d’origine.30 Un ulteriore confronto vorrei qui richiamare, a sostegno sia della individuazione qui proposta dell’archetipo da cui le nostre mascherine discendono, sia, e ancor più, della diretta pertinenza di esso al mondo dei ludi scaenici introdotti in quelle stesse metropoli in quella loro pionieristica stagione. Mi riferisco alla «eccezionale mascheretta di pietra di tipo canopico» rinvenuta nel bothros scavato nella ‘cavea’ del tumulo Luzi in loc. Infernaccio a Tarquinia.31 Proprio Giovanni Colonna, nel riconoscere la destinazione di quella ‘struttura teatriforme’ a cerimonie funebri delle quali potevano far parte ludi – e propone pugilato, lotta, gioco del Phersu – unitamente ai sacrifici di cui quella fossa conservava alcuni resti, la ricorda (forse già intuendone il nesso che qui intendo esplicitare?).32 Penso che quella piccola maschera possa ben intendersi quale simbolo “sintetizzante” e traccia rievocante una performance di tipo scenico inserita nei ludi che proprio in quello spiazzo venivano “offerti” in onore del defunto: danze appunto, e/o declamazioni rapsodiche? * 27 Cfr., per l’uso ‘meditato’ dei cosiddetti riempitivi da parte del pittore, quanto osservato da M. Martelli (opp. citt. a nota 23, passim). 28 Prayon 1975; Roncalli 1986, p. 590. 29 Dei molti esempi disponibili valga quello qui prescelto (Fig. 11) della testa di statuina in bucchero dal Circolo degli Avori di Marsiliana d’Albegna. Per la più antica produzione coroplastica si vedano le antefisse da Poggio Civitate Winter 1978, p. 31, tav. 8, 1-2 («local ‘italic’ faces»). Sulla presenza di maschere nelle colonie fenicie d’Occidente quale possibile testimonianza dell’origine fenicia del ritual drama, cfr. Nielsen 2007. 30 Sul conservativismo in tema di “maschere teatrali” anche su suolo etrusco cfr. Szilàgyi 1981 (conservazione del Phersu dal vi al iv sec. a.C.).

Fig. 9. Würzburg, Martin von Wagner Museum. Anfora del P. dell’Eptacordo: particolare della decorazione figurata (da Venezia 2000).

Se è vero, dunque, che il nostro cratere si conferma un prodotto sostanzialmente anomalo rispetto alle piste più battute della coeva produzione ceramica e ceramografica falisca nonché, in particolare, a quelle più familiari al nostro ceramista, ciò non lo estromette però dal quadro storico e geografico cui appartiene, al quale anzi il privilegio accordato all’arte della scrittura e l’allusione all’arte scenica cui ci appare finalizzato lo ancorano saldamente. Ci troviamo infatti in quello stesso ambiente di cui proprio il dedicatario di questo mio contributo ha posto acutamente in risalto l’alto e relativamente diffuso grado di dimestichezza con le litterae, nel quale spesso, e fin dall’età arcaica, testi visibilmente complessi – etruschi a Narce, falisci a Falerii – vengono affidati a vasi modesti,33 ed anche il simposio è occasione di motti e vivaci scambi di ben congegnati indirizzi di amicizia e di saluto:34 la volontà che presiede alla scelta del nostro ceramista, esperto scriba e meno esperto ceramografo, e gli detta il compito, vi si inserisce assai bene, e la singolarità del prodotto ‘fuori serie’ che ne risulta mi sembra indizio coerente della peculiarità dell’evento cui la scritta allude. Quale evento? Siamo così ricondotti alla domanda: che cosa intende commemorare Cavios Frenaios autore («fece») o committente («fece fare»), ‘mediante’ il cratere? * S’impone qui un brevissimo excursus. È ancora una volta Giovanni Colonna ad aver suggerito di vedere nella tipologia delle tombe a portico falische (di iv-iii sec. a.C.),35 caratterizzate, negli esemplari più articolati, da spazi colonnati a cielo aperto che danno accesso alle camere sepolcrali, il persistere di quell’elemento ‘a corte’ che deriva, seppure alla lontana, dagli spiazzi antistanti la porta (o le porte) delle grandi tombe gentilizie d’ambiente tirrenico di vii e vi sec. Sulla esposizione delle metropoli tirreniche, in tempi più recenti, ai modelli dell’epica e del teatro ellenico (con conseguente adozione di tipi aggiornati di maschere teatrali tragiche e comiche) cfr. Stefani 1978-1980; van der Meer 1993; Stalinski 1993-1995, pp. 349 e 363; Maggiani 1997; Bruni 2002, p. 10. Più in generale cfr. Paris 1999. 31 Magrini 1970 (la maschera è illustrata alla tav. 3). Cataldi 1993; Colonna 1993. 32 Colonna 1993, p. 1405. 33 Colonna 1990, p. 125 sg. 34 Cfr. Roncalli 2008. 35 Colonna 1993, p. 1412; Colonna 1990, p. 120, 127 sgg.

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Fig. 10. Caere, Tomba delle Cinque Sedie: particolare del volto di una delle statue fittili (da Roncalli 1986).

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Fig. 11. Marsiliana d’Albegna, Circolo degli Avori, testa di statuina in bucchero (da Etrusker in der Toskana.

Etruskische Gräber der Frühzeit, Cat. della mostra (Hamburg, 1987), Firenze, 1987, p. 162, n. 218).

a.C.: elemento poi riesumato in varie versioni da tipi tombali di v e iv secolo che dall’area costiera s’inoltrano nell’entroterra verso la zona delle tombe rupestri e la regione falisca. Se, come credo, le scelte architettoniche non possono non postulare, qua come là, l’urgenza di costumi pertinenti al rituale funerario, non vedo spiegazione, per queste ‘corti’ falische, se non nella loro destinazione a celebrazioni e raduni di un tipo sostanzialmente affine a quello già immaginato per quei lontani primordi. Vedremmo, in tal caso, riproposto dall’architettura tombale, e proprio in area falisca, il medesimo richiamo a quell’antico costume (e lo stesso salto cronologico!) cui ci aveva condotto l’esame di tipologia e natura delle maschere del nostro cratere. Ci soccorre ora il confronto diretto – formale e funzionale – tra il ‘portico’

della nota tomba in località Colonnette di Falerii, nella visione di prospetto offertaci nella Forma Italiae (Fig. 12)36 e la frons scenae dell’edificio teatrale di Castelsecco nella ricostruzione proposta da Guglielmo Maetzke (Fig. 13):37 dove anche l’altare collocato al centro della scena ci rinvia alla enigmatica struttura al di sopra della quale appaiono allineate le nostre mascherine – ma distaccate, quasi appese su uno sfondo prospetticamente ravvicinato –, e nella quale saremmo pertanto tentati di veder sintetizzata un’allusione alle distinte componenti, ludica e religiosa, dell’evento commemorato. Penso dunque che il vaso, di ovvia provenienza tombale, possa interpretarsi come espressione di una dedica – o della commemorazione di una dedica – il cui oggetto non è il vaso stesso, ma l’evento cui in esso si allude: e l’ipotesi di particolari sollemnia ludorum indetti in onore del defunto e celebrati in occasione del funus è senz’altro la più agevole (anche se non la sola possibile). Il problema infatti di chi sia Cavios, di quale sia cioè la sua posizione precisa nella sequenza fattuale: evento – sua commemorazione – vaso, possiamo soltanto enunciare e valutare le seguenti possibilità: 1) Le ‘figure’ (competenze/prestazioni e relativi detentori) nei cui interventi si può teoricamente disarticolare il prodotto finito che abbiamo davanti agli occhi sono: a) il committente del ‘tutto’ (evento + vaso), b) il vasaio, c) l’autore del testo, d) lo scriba. La elementarità e convenzionalità dell’enunciato ci consentono di escludere senz’altro come ridondante la distinzione tra le ultime due, limitando il campo al committente, al vasaio e al ceramografo/scrivano; 2) la qualità della scritta suggerisce il riconoscimento, nell’estensore, di un ‘esperto di scrittura’, qui attivo come (o cooperante con il) ceramografo: che infatti il restante sforzo figurativo (e ornamentale?) che correda il vaso sia anch’esso opera sua (espressione della sua personale inesperienza), o di un altro ceramografo della

36 Colonna 1990, p. 133, n. 9.

37 Maetzke 1999, p. 44, fig. 3.

Fig. 12. Falerii. Tomba in loc. Colonnette: visione di prospetto del ‘portico’ antistante (da Forma Italiae).

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Fig. 13. L’edificio teatrale di Castelsecco: ricostruzione grafica del prospetto (da Maetzke 1999).

bottega, incaricato del ‘resto’ ma alle prese anch’egli con un soggetto inconsueto, è per noi irrilevante; 3) le sue competenze e capacità scrittorie stesse avvicinano però lo scriba, in modo forse significativo, alla ‘sfera’ stessa del fatto rievocato: l’azione scenica o declamazione poetica simboleggiata dalla figurazione (e ricordo che a Roma un’unica corporazione, il collegium scribarum et histrionum, riunirà gli interessi di tutti gli ‘operatori teatrali’,38 e che spesso il poeta e lo scriba erano la stessa persona39) . Non è dunque da escludersi che il nostro Cavios, firmatario del vaso (o meglio sul vaso) fosse lo stesso autore e promotore dell’evento/liturgia ricordata.40 * La centralità del cratere quale vaso-simbolo del simposio è nota e tradizionale, e testimoniata tra l’altro sia dagli sforzi che surrogano fin da epoca arcaica, proprio nell’area che da Caere si addentra verso il distretto tiberino, nel bucchero e nell’impasto, i meno accessibili prodotti della ceramica d’importazione, sia dalla sua presenza e collocazione nelle raffigurazioni dipinte delle tombe tarquiniesi, per lo più distaccata dal kylikeion (ed è interessante osservare come «crateri fittili, figurati e non, e le forme a colonnette ed a calice vi verranno raffigurati solo nel v sec. a.C.»41). È stato anche rilevato il nesso particolare che collega proprio i temi trattati dai fregi figurati sui crateri corinzi e la tradizione rapsodica del mito.42 Chi avesse dunque voluto ricordare e celebrare un ruolo avuto nella organizzazione di un incontro conviviale, di respiro forse più che privato, allietato da ludi scenici, azioni mimiche e declamazioni poetiche, avrebbe certamente scelto il cratere a preferenza di altre componenti del servizio da simposio. Penso, in conclusione, che il nostro cratere ricordi l’offerta da parte di Cavios di una liturgia di carattere scenico da lui allestita in onore del defunto titolare della tomba: il nome di quest’ultimo resta sconosciuto, e quello del vasaio ritorna al meritato oblìo. Abbreviazioni bibliografiche Albani 2008 = E. Albani, Le olle cinerarie dipinte di età ellenistica 38 Liv. xxvii 37, 7 sgg.; Fest., p. 446 sg. L. 39 C. Questa (a cura di), T.M. Plautus, Pseudolus, Milano 1989, p. 16. 40 L’eventuale performance scenica di carattere funerario non può non rinviare ad un parallelo costume ‘civile’, perfettamente congruente del resto con la riconosciuta vivacità culturale della regione e la interculturalità propria del linguaggio scenico: cfr. Ambrosini 2001; Bruni 2002.

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U N BOL LO LAT E RI Z I O DAL SANT UARI O DEL M ONTE S AN NI CO LA DI P I E T RAVAI RANO ( CE ) Gian Luca Tagliamonte

A

est del centro storico di Pietravairano, a breve distanza da esso, si erge il Monte San Nicola (562 m s.l.m.),1 che è parte di una dorsale calcarea che si allunga, con andamento est-ovest, dalla piana di Vairano in direzione del fiume Volturno. Sul versante occidentale del rilievo, in prossimità dell’altura contrassegnata dalla quota 409 m s.l.m., sono i resti di un monumentale e scenografico impianto santuariale, di inoltrata età tardo-repubblicana, incentrato su un complesso costituito da un tempio a tre celle e da un teatro, posti su terrazze collocate a differenti livelli altimetrici.2 A partire dal 2002, l’area in questione e quelle circostanti sono state oggetto, seppure in modo discontinuo, di campagne di scavo archeologico e di ricognizione topografica tese a indagare le consistenti strutture superstiti e a valutare il loro rapporto con il contesto territoriale. Tra il maggio del 2007 e il gennaio del 2008 è stata condotta la campagna di scavo finora più duratura e ricca di risultati.3 Nel corso di tale campagna si è, peraltro, registrato il rinvenimento delle prime testimonianze epigrafiche relative alla vita del santuario. Queste, al momento, sono limitate a un bollo laterizio latino impresso su un paio di frammenti di tegola piana. I due frammenti (Figg. 1-2) sono stati recuperati il 3 gennaio 2008 nello scavo della media cavea del teatro (in particolare, del settimo ordine delle gradinate di quest’ultima), fra i materiali inclusi nella us 20.4 Il primo di essi (a) corrisponde alla parte destra (misure massime: altezza: 17 cm; larghezza: 17,3 cm; spessore: 3,4 cm) del laterizio; il secondo (b) alla porzione centrale (altezza: 18 cm; larghezza: 13,2 cm; spessore: 2,9 cm). In entrambi i casi un solo margine è conservato. I due laterizi presentano un’argilla di colore aran-

1 Pietravairano è un piccolo comune della provincia di Caserta, ubicato circa 42 km a nord del capoluogo. L’interesse archeologico dell’area del Monte San Nicola era noto da tempo, considerata la presenza di resti di mura in opera poligonale di calcare locale riferibili a una forticazione preromana, già segnalati da Renato Cifonelli, Pasqualino Bilotti, Vestigia del passato nell’agro del Comune di Pietravairano in Terra di Lavoro, Roma, 1973, pp. 4-5 (manoscritto depositato presso la Biblioteca del Museo Campano di Capua) e poi esaminati da Domenico Caiazza, Archeologia e storia antica del Mandamento di Pietramelara e del Montemaggiore, i. Preistoria ed età sannitica, Pietramelara, 1986, pp. 191-207; cfr. anche Stephen P. Oakley, The HillForts of the Samnites, London 1995, p. 44. Ai piedi del Monte San Nicola, Adriano La Regina, I Sanniti, in Italia omnium terrarum parens, Milano, 1989, p. 365 ha ipotizzato l’ubicazione della statio di Aebutiana, menzionata nella Tabula Peutingeriana (364 m). 2 L’individuazione del complesso santuariale, nell’autunno del 2001, si deve a una segnalazione effettuata da un appassionato di volo, il prof. N. Lombardi, autore poi di una pubblicazione a carattere didattico e diffusione locale: Nicolino Lombardi, Teatro chiama teatro. Dalla scoperta di un complesso teatro-tempio della Civiltà del Volturno alle proposte operative per la scuola e per il territorio, Piedimonte Matese, 2001 (con contributo, a mo’ di premessa, di Gianluca Tagliamonte, Nuove prospettive di ricerca archeologica a Pietravairano, alle pp. 5-12). Ulteriori indicazioni e brevi resoconti preliminari delle indagini archeologiche in: Stefano De Caro, L’attività archeologica a Napoli e Caserta nel 2002, in Ambiente e paesaggio in Magna Grecia, Atti del xlii Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 5-8 ottobre 2002), NapoliTaranto, 2003, pp. 612-613; Gianluca Tagliamonte, Monte San Nicola, in Lo sguardo di Icaro. Le collezioni dell’Aerofototeca Nazionale per la conoscenza del territorio, Catalogo della mostra (Roma, 24 maggio - 6 luglio 2003), a cura di Marcello Guaitoli, Roma, 2003, pp. 295-296; Maria Luisa Nava, L’attività archeologica a Napoli e Caserta nel 2005, in Velia, Atti del xlv Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, Marina di Ascea 21-25 settembre 2005), Napoli-Taranto, 2007, pp. 588-589; Ead., Le attività della Soprintendenza per i

Fig. 1. Parte destra di tegola recante bollo in cartiglio rettangolare dalla media cavea del teatro del complesso santuariale del Monte San Nicola di Pietravairano.

Fig. 2. Porzione centrale di tegola recante bollo in cartiglio rettangolare dalla media cavea del teatro del complesso santuariale del Monte San Nicola di Pietravairano.

Beni Archeologici delle Province di Napoli e Caserta nel 2006, in Passato e futuro dei convegni di Taranto, Atti del xlvi Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 29 settembre-1 ottobre 2006), Napoli-Taranto, 2007, pp. 222-223; Gianluca Tagliamonte, Considerazioni sull’architettura santuariale di età tardo-repubblicana tra Campania e Sannio, in Architettura pubblica e privata nell’Italia antica, a cura di Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, «atta», 16, 2007, pp. 53-68, in particolare p. 59 sgg.; Maria Luisa Nava, Le attività della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Napoli e Caserta nel 2007, in Atene e la Magna Grecia dall’età arcaica all’ellenismo, Atti del xlvii Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 27-30 settembre 2007), Napoli-Taranto, 2008, pp. 794-795. 3 Inizialmente dirette dallo scrivente, in qualità di Ispettore Archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Napoli e Caserta, dal 2005 le indagini sono svolte nell’ambito di una convenzione siglata fra l’Università degli Studi di Lecce e la citata Soprintendenza, sotto la direzione scientifica dello scrivente (per conto dell’Università) e del dott. F. Sirano (per la Soprintendenza). Il coordinamento di tutte le attività sul campo e l’effettuazione dei rilievi sono stati affidati al dott. L. M. Rendina. Al lavoro di scavo e documentazione un particolare contributo hanno dato i dottori S. Zerilli, D. Panariti e lo studente L. Cinque. Alle campagne di scavo degli anni 2005, 2006 e 2007 hanno partecipato laureandi, laureati e specializzandi dell’Università degli Studi di Lecce (ora Università del Salento). 4 L’us 20 è lo strato superficiale che costituisce il piano di calpestio attuale della cavea del teatro.

u n b o l lo lat e riz io da l sa nt ua r io del monte s an nicola di pietr avair ano (ce) cio, abbastanza dura e compatta, non particolarmente ricca di inclusi, e sono caratterizzati da alcune piccole scheggiature e abrasioni superficiali. Essi erano con ogni probabilità pertinenti alla copertura fittile del soprastante tempio a tre celle, che sembrerebbe prevedere l’impiego di tegole piane delle dimensioni di 63 × 42 cm circa. Il bollo è impresso poco profondamente, in prossimità del margine del laterizio, come di frequente attestato. Esso mostra lettere capitali, rilevate, all’interno di un cartiglio rettangolare (misure massime conservate: a) altezza: 4,7 cm; larghezza: 13,9 cm; b) altezza: 4,3 cm; larghezza: 12,1 cm), del quale sono chiaramente percepibili i soli margini superiore e laterale destro. Le lettere (altezza: 3,5-3,9, in a; 3,2 circa, in b) sono disposte con andamento lineare e direzione destrorsa su di un’unica riga. Il punzone rettilineo con cui sono stati impressi i due bolli sembra il medesimo. Si tratta di un bollo nominale, privo della sua parte iniziale. Sul margine di frattura sinistro, sono i resti di tre lettere, conservate solo nei tratti superiori: della prima appare bene visibile l’occhiello tondeggiante chiuso, che induce a riconoscervi una p; dall’asta verticale (perduta) di tale lettera, parrebbe dipartirsi una traversa, che sembrerebbe unirla in nesso alla seguente asta verticale, così da fare supporre che si tratti di una h; seguono l’estremità, assai ravvicinata, di un’altra asta verticale, nella quale è riconoscibile una i, e, a quanto pare, un segno di interpunzione triangolare. La perdita della parte inferiore di queste lettere, così come di parte della seguente lettera a, più che a scheggiatura o abrasione della superficie della tegola (comunque, rilevabile in b) pare imputabile a un difetto nell’impressione o ad usura del punzone. La medesima perdita si registra, infatti, in entrambi bolli rinvenuti. Peraltro, tutta la parte inferiore del bollo mostra tratti vistosamente meno marcati rispetto a quella superiore (il margine inferiore del cartiglio non risulta visibile), presumibilmente a causa di uno slittamento del punzone. Le successive quattro lettere non presentano particolari problemi di lettura. La u mostra la prima asta appoggiata alla seconda asta della precedente lettera a, ma comunque da essa distinta. Il cartiglio rettangolare e il modulo regolare delle lettere parrebbero orientare verso una generica datazione del bollo al i sec. a.C.5 Sulla base di quanto osservato, si può pertanto proporre la lettura: [- - -?] phi. Aufid.

5 Il dato stratigrafico non fornisce, purtroppo, in questo caso elementi utili a precisare la cronologia del bollo. Il tipo di formulario adottato (vedi infra) appare, ad ogni modo, uno di quelli più comunemente attestati in età tardo-repubblicana: cfr. da ultimi, David Nonnis, Produzione laterizia e bollatura nell’Italia centrale durante l’età repubblicana, comunicazione presentata al xiii International Congress of Greek and Latin Epigraphy (Oxford 2-7 September 2007), cds.; Maria Grazia Granino Cecere, David Nonnis, Cecilia Ricci, Bolli laterizi prenestini d’età repubblicana, in Inscriptions mineurs: nouveautés et réflexions, Actes du Colloque International (Lausanne 19-21 juin 2008), cds. (ringrazio D. Nonnis, C. Ricci e M.G. Granino Cecere per avermi fatto leggere i testi prima della loro pubblicazione). 6 Tali incertezze potrebbero auspicabilmente trovare soluzione anche per effetto di futuri, probabili, rinvenimenti di nuove repliche del bollo, una volta riprese le indagini di scavo nel santuario. 7 In particolare, il Lanfredi trattò del bollo nell’opera Ragguaglio della Città e Luoghi della Diocesi di Teano. Come si evince dallo scritto del de’Geremei (vedi infra nota seguente) e dal verbale della tornata dell’8 ottobre 1888 della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti di Antichità e Belle Arti nella Provincia di Terra di Lavoro, pubblicato nei relativi Atti del 1888, p. 152, il manoscritto dell’opera era in possesso proprio del marchese de’Geremei, il quale da esso ricavò le notizie relative al ritrovamento del bollo laterizio (vedi infra nota seguente).

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Le attuali incertezze di lettura6 vengono almeno in parte risolte grazie alla fortunata circostanza dell’esistenza (nota però solo da tradizione manoscritta) di quella che parrebbe essere una più completa replica del medesimo bollo. Nella seconda metà del Settecento, il canonico Angelo Lanfredi, autore di varie opere sulla storia di Teano, rimaste poi inedite,7 vide infatti a Vairano, nei pressi del Monastero degli Agostiniani, un «mattone» contrassegnato dal marchio Amphi. Aufidi. La notizia venne ripresa e resa nota dal marchese Lucio Geremia de’ Geremei, storico locale, autore, fra l’altro, del volume Vairano della Campania sidicina,8 e fu oggetto di comunicazione nella tornata dell’8 ottobre 1888 della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti di Antichità e Belle Arti nella Provincia di Terra di Lavoro;9 in anni più recenti è stata riproposta da D. Caiazza.10 Al di là di tali sintetiche (e non più controllabili) indicazioni, del bollo non si sa altro. Peraltro, esso non sembrerebbe l’unico trovato nella zona.11 Ad ogni modo, il fatto che nei dintorni del Monastero degli Agostiniani si siano intravvisti negli scorsi decenni i segni della presenza di un sepolcreto con tombe a tegoloni,12 fa supporre che la tegola (e, dunque, non il «mattone») sia stata lì riutilizzata in una qualche tomba a cappuccina. Che il laterizio visto a Vairano dal Lanfredi rechi il medesimo bollo restituitoci ora dagli scavi del santuario di Pietravairano è dato sul quale si possono realisticamente nutrire pochi dubbi.13 Rimane invece incerto se esso costituisca una variante grafica dello stesso. Dando credito alla lettura del Lanfredi, nel bollo vairanese parrebbe esservi, infatti, la presenza di una i finale in Aufidi., che non trova riscontro nelle due repliche da Pietravairano (Aufid.): se non si tratta di un fraintendimento del Lanfredi,14 bisognerebbe pertanto supporre il ricorso a un punzone diverso da quello impiegato nei due esemplari che qui si pubblicano. In virtù della testimonianza del Lanfredi, la lettura del bollo restituitoci dalle due tegole di Pietravairano può, dunque essere integrata in: [Am]phi(o) vel [Am]phi(onis) Aufid(ii).

Permane, comunque, il dubbio che il bollo visto e trascritto dal Lanfredi non sia stato integro e che una diversa lettura dello stesso sia possibile. Ipotizzando che esso fosse privo della o delle sue lettere iniziali, si potrebbe supporre che, in luogo di Amphio,15 vi comparisse l’ancora più comune Pamphilus,16 solo per fare un esempio di nome individuale ser8 Edito a Napoli nel 1888. Alla p. 5 il marchese de’Geremei riporta la segnalazione del Lanfredi relativa al bollo: «in un mattone vi era in lettere ligate questo solo vocativo: AMPHI AUFIDI ». 9 Se ne fa menzione nei relativi Atti, cit. (supra, nota 7), pp. 153, 154. 10 Domenico Caiazza, Archeologia e storia antica del Mandamento di Pietramelara e del Montemaggiore, ii. Età romana, Pietramelara, 1995, p. 363, n. 16. 11 Stando a quanto riferito dal Lanfredi, poco lontano dal Monastero degli Agostiniani, si rinvennero infatti «frantumi di molte iscrizioni, anche in mattoni»: Atti, cit. (supra, nota 7), p. 153. 12 Domenico Caiazza, op. cit., p. 360. 13 Ancorché non se ne possa avere la certezza, considerate le altre restituzioni ipotizzabili per [—-]phi: vedi infra. 14 Presumibilmente indotto dal margine laterale destro del punzone utilizzato, che potrebbe essere stato scambiato per una i. Stando a quanto riportato negli Atti, cit. (supra, nota 7), p. 154, le prime tre lettere di Amphi sarebbero state unite in nesso, a formare un solo monogramma. 15 Sulla diffusione del nome nel mondo romano vedi Heikki Solin, Die griechischen Personennamen in Rom. Ein Namenbuch, i-iii, Berlin-New York, 20032, pp. 499-501. Lo scioglimento del nome potrebbe in teoria chiamare in causa altre forme corradicali, quali Amphialus, Amphilochus, Amphioninus, tuttavia estremamente rare: Heikki Solin, op. cit., pp. 499, 501. 16 Così da ipotizzare una restituzione in [Pam]phi(lus) o [Pam]phi(li) del

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gian luca tagliamonte

vile che trova riscontro nei coevi lateres signati della Campania settentrionale.17 Ma si tratta, ovviamente, di congetture, che potranno essere confermate o meno solo dal futuro rinvenimento di nuove e complete repliche del medesimo bollo. A fronte della possibile, persistente, incertezza circa l’effettiva forma (Amphio, Pamphilus o altre) e funzione morfologica (nominativo o genitivo?) del primo elemento onomastico del bollo, pare acquisito che in esso vada riconosciuto un nome individuale di origine greca (cd. grecanico), verosimilmente riferibile a un servus impegnato nella produzione di laterizi.18 A questo segue il gentilizio (Aufidius) del dominus, scritto anch’esso per esteso e reso con ogni probabilità al genitivo, come più spesso attestato.19 Il breve testo ci restituisce, dunque, il nomen della gens proprietaria della figlina incaricata della fabbricazione delle tegole destinate alla copertura del tempio di Pietravairano (e presumibilmente di altre strutture ubicate nel santuario o in prossimità di esso), nonché quello di uno degli addetti alla produzione. È verosimile ritenere che tale attività si svolgesse in loco, o meglio in una qualche proprietà fondiaria degli Aufidii situata non lontano dell’area del Monte San Nicola e comunque nei pressi di quelle risorse idriche necessarie alla produzione laterizia, rappresentate in primis, nella zona, dal medio corso del fiume Volturno e dei suoi numerosi affluenti.20 Il quadro

di organizzazione e gestione della industria laterizia in ambito non urbano fra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, ancorché tuttora poco conosciuto, documenta, del resto, il ruolo in tal senso svolto dalle aristocrazie municipali e la stretta connessione che lega la produzione laterizia (e anforaria) alle attività agricole normalmente condotte nel fundus;21 e testimonia, altresì, la diffusione prevalentemente locale o, tutt’al più regionale, spesso legata a specifiche richieste della committenza e circoscritta nel tempo, dei prodotti della manifattura laterizia.22 Benché non si disponga di molte informazioni al riguardo, uno scenario di questo genere parrebbe potersi evocare anche nel caso degli Aufidii attestati a Pietravairano e Vairano23. Le repliche del bollo qui considerato consentono, peraltro, di sostanziare di ulteriori elementi concreti il dato di una presenza di tale gens24 in Campania già nel corso del i sec. a.C.: dato finora più presupposto sulla base dell’ampia diffusione che il nomen pare avere nella regione a partire dalla prima età imperiale che non documentato dalle evidenze epigrafiche.25 D’altro canto, i bolli laterizi sembrano confermare il ruolo economico che gli Aufidii ebbero tra l’inoltrata età tardorepubblicana e la prima età imperiale, quando, oltre ad essere coinvolti nelle lucrose attività commerciali italiche a Delo e in Oriente,26 essi coltivarono forti interessi nell’ambito dell’agricoltura fondiaria e della produzione anforaria

primo elemento onomastico. Sulle attestazioni della forma Pamphilus: Heikki Solin, op. cit. (supra, nota 15), pp. 134-137. Pamph(ilus) compare peraltro come cognomen del liberto L. Aufidius L(ucii) l(ibertus) menzionato in una iscrizione urbana di età tardo-repubblicana o protoimperiale: cil vi, 37522; cfr. Nicolas Mathieu, Histoire d’un nom. Les Aufidii dans la vie politique, économique et sociale du monde romain, Rennes, 1999, p. 246, n. 462. 17 Ad es., nei bolli laterizi rinvenuti nel quartiere artigianale messo in luce sulla riva sinistra del Garigliano, presso Rocca d’Evandro, loc. Porto: da ultima, Emilia Chiosi, The Organization of Production in the Artisan Quarter at Rocca d’Evandro, in Craft Specialization: Operational Sequences and Beyond, Papers from the eaa Third Annual Meeting (Ravenna September 24-28, 1997), iv, a cura di Sarah Milliken, Massimo Vidale, Oxford, 1998 («bar-is», 720), pp. 133-138, spec. p. 134.

ni: vedi ad es., Giovanna Cera, Il territorio di Cubulteria, in Carta archeologica e ricerche in Campania. Fascicolo 1: Comuni di Alvignano, Baia e Latina, Caiazzo, Castel Campagnano, Castel di Sasso, Dragoni, Piana di Monte Verna, Ruviano, a cura di Lorenzo Quilici, Stefania Quilici Gigli, Roma, 2004, p. 211; Francesco Sirano, Un’anfora da dispensa da Allifae con bolli “Cn. Luci”. Contributo alla comnprensione dei modi di produzione e della società nella Campania settentrionale tra iii e ii secolo a.C. con particolare riferimento alla media valle del Volturno, in Safinim. Studi in onore di Adriano La Regina per il premio ‘I Sanniti’, a cura di Domenico Caiazza, Piedimonte Matese, 2004, p. 181 sgg. 21 Come, ad es., ricordano, fra gli altri, Jean-Paul Morel, Élites municipale et manufacture en Italie, in Les élites municipales de l’Italie péninsulaire des Gracques à Neron, Actes de la table ronde internationale (Clermont-Ferrand 28-30 novembre 1991), a cura di Mireille Cébeillac Gervasoni, Naples-Rome, 1996, p. 185 sgg.; Mario Torelli, Industria laterizia e aristocrazie locali in Italia: appunti prosopografici, «Cahiers Glotz», 7, 1996, 291-296; Mireille Cèbeillac Gervasoni, Les magistrates des cités italiennes de la seconde guerre punique à Auguste. Le Latium et la Campanie, Rome, 1998, p. 163 sgg.; David Nonnis, Attività imprenditoriali e classi dirigenti nell’età repubblicana. Tre città campione, «Cahiers Glotz», 10, 1999, pp. 71-109, spec. p. 88 sgg.; Idem, art. cit. (supra, nota 5) Cfr. anche Mireille Cèbeillac Gervasoni, L es élites politíques locales du Latium et de la Campanie de la fin de la République à Auguste: une revision vingt ans après, in ‘Epigrafia 2006’. Atti della xive Rencontre sur l’Épigraphie in onore di Silvio Panciera con altri contributi di colleghi, allievi e collaboratori, a cura di M. L. Caldelli, G. L. Gregori, S. Orlandi, Roma, 2008 («Tituli», 9), ii, pp. 595-613. 22 Vedi supra, nota prec., e cfr., ad es., i recenti casi segnalati da Francesco M. Cifarelli, Magistrati ed élites municipali di Segni in bolli laterizi dal territorio, in Lazio & Sabina, Atti del Quarto incontro di studi sul Lazio e la Sabina (Roma 29-31 maggio 2006), «Lazio&Sabina», 4, a cura di Giuseppina Ghini, Roma, 2007, 219-224; Helga Di Giuseppe, Proprietari e produttori nell’alta valle del Bradano, «Facta», 1, 2007, 157-182, p. 167 sgg. 23 La pianura compresa fra la dorsale dei monti di Pietravairano e il Massiccio del Monte Maggiore venne, peraltro, certamente interessata nel corso dell’età tardo-repubblicana da un’intensificarsi dei processi di strutturazione del popolamento rurale (villae, fattorie) e da estesi fenomeni di centuriazione: Gérard Chouquer, Monique Clavel-Lévêque, François Favory, Jean-Pierre Vallat, Structures agraires en Italie centroméridionale. Cadastres et paysage ruraux, Rome, 1987, p. 156 sgg.; Domenico Caiazza, op. cit. (supra, nota 10), p. 448 sgg. 24 Per la quale Nicolas Mathieu, op. cit. (supra, nota 16), pp. 52, 58 pensa ad una origine dalle aree appenniniche interne dell’Italia centrale. 25 Come osserva Nicolas Mathieu, op. cit. (supra, nota 16), p. 33, nota 37, e pp. 53, 131, tali evidenze sono al momento limitate alla sola iscrizione cil x, 1273 (Nola), che perlomeno indirettamente attesta la presenza degli Aufidii in Campania già attorno alla metà del i sec. a.C.: a tale testimonianza si affianca ora il nostro bollo laterizio. 26 Nicolas Mathieu, op. cit., (supra, nota 16), pp. 54, 64 sgg.

18 Stando perlomeno a quella che risulta la prassi testuale più ricorrente nell’epigrafia doliare e laterizia di epoca tardo-repubblicana e delle prima età imperiale. Rimane ad ogni modo problematico definire in casi come questi, sulla base dei soli elementi nominali, il ruolo e la posizione che i personaggi menzionati nei bolli ebbero nel processo di produzione (officinatores, conductores o anche domini). Considerazioni più o meno recenti al riguardo, ad es., in Margareta Steinby, L’organizzazione produttiva dei laterizi: un modello interpretativo per l’instrumentum in genere?, in The Inscribed Economy. Production and Distribution in the Roman Empire in the Light of instrumentum domesticum, Proceedings of a conference (Rome 10-11 January 1992), a cura di William V. Harris, Ann Arbor, 1993, pp. 139-143; Luciano Camilli, Franca Taglietti, Osservazioni sulla produzione laterizia della tarda età repubblicana e della prima età imperiale, in Epigrafia della produzione e della distribuzione, Actes de la viie Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain (Rome 5-6 juin 1992), Rome, 1994, p. 310 sgg.; Daniele Manacorda, I diversi significati dei bolli laterizi. Appunti e riflessioni, in La brique antique et médiévale. Production et commercialisation d’un matériau, Actes du colloque international (Saint-Cloud 16-18 novembre 1995), a cura di Patrick Boucheron, Henri Broise, Yvon Thébért, Rome, 2000, pp. 127-160, in particolare p. 132 sgg.; David Nonnis, art. cit. (supra, nota 5). 19 Da ultimo, David Nonnis, art. cit. (supra, nota 5) Lo scioglimento di Aufid in Aufid(ii) rappresenta la soluzione di gran lunga più probabile, ma non l’unica, non potendosi del tutto escludere la possibilità di un riferimento a gentilizi del tipo Aufid(i)enus, Aufidin(i)us e simili: cfr. Wilhelm Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin 1904, p. 601; Heikki Solin, Olli Salomies, Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim-Zürich-New York, 1994, p. 27. 20 Il quadro in tal senso delineato da Emilia Chiosi, Luigi Crimaco, Floriana Miele, Colonna Passaro, Lucia M. Proietti, Impianti produttivi nella media valle del Volturno, in Ceramica romana e archeometria: lo stato degli studi, a cura di Gloria Olcese, Atti delle Giornate internazionali di studio (Firenze, Castello di Montegufoni 26-27 aprile 1993), Firenze, 1994, pp. 301-312, va integrato con i risultati delle ricerche condotte in questi ultimi an-

u n b o l lo lat e riz io da l sa nt ua r io del monte s an nicola di pietr avair ano (ce)

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e laterizia.27 Per quanto riguarda quest’ultima, ne abbiamo attestazione soprattutto in riferimento a un ramo della gens insediatosi nel Picenum: un ormai abbastanza cospicuo nucleo di bolli rinvenuti nella regione28 ne testimonia, infatti, il diretto coinvolgimento (in qualità di domini, oltre che di officinatores), in attività locali di produzione laterizia (e anforaria) svolte tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, attività peraltro poi documentate per la medesima gens anche in ambiente urbano.29 Pur con le dovute cautele, imposte in primo luogo dall’esiguità delle fonti d’informazione finora disponibili, sembra insomma potersi ipotizzare per gli Aufidii campani del i sec. a.C. una vicenda in qualche modo simile e parallela a

quella, certo meglio documentata, dei Lucceii30 campani, sulla quale hanno gettato luce in anni relativamente recenti le importanti scoperte archeologiche effettuate in località Porto, presso Rocca d’Evandro, lungo il fiume Garigliano. Peraltro, oltre a condividere, per il periodo in questione, una simile area di attestazione epigrafica, tra Lazio meridionale e Campania settentrionale, e il coinvolgimento nelle attività dei mercatores e negotiatores italici in Oriente, le due gentes parrebbero unite anche da una comunanza di origini, da ricercarsi nelle aree appenniniche interne dell’Italia centrale.31

27 Ivi, p. 77 sgg. 28 cil ix, 6078, 40 (Ripatransone); xi, 6689, 276 (Suasa); AE, 2001, 916 (Firmum Picenum) e 920 (Urbs Salvia); cfr. Silvia Maria Marengo, I laterizi degli Aufidii e un bollo da Urbs Salvia, in Munus Amicitiae. Scritti per il 70º genetliaco di Floriano Grimaldi, a cura di Gianfranco Paci, Maria Luisa Polichetti, Mario Sensi, Loreto, 2001, pp. 183-188; Eadem, Tegole e mattoni fra produzione e importazione. Contributo all’aggiornamento di C.I.L. ix , in Il Piceno romano dal iii a.C: al iii sec. d.C., Atti del xli Convegno di Studi Maceratesi (Abbadia di Fiastra, 26-27 novembre 2005), Macerata 2007, pp. 131-133. 29 cil xv, 875, 876, 1455; cfr. Herbert Bloch, Indices to the Roman Brick Stamps published in vol. xv , 1 of the Corpus Inscriptionum Latinarum and lvilvii of the Harvard Studies in Classical Philology, Cambridge (Mass.) 1948, p. 19; Eva Margareta Steinby, Aggiunte, completamenti e correzioni a cil xv ,

1, in Eadem, Indici complementari ai bolli doliari urbani (cil xv , 1), Roma 1987 («ActaInstRomFinl», xi), p. 55. 30 Sul ruolo economico e sociale dei Lucceii nella Campania settentrionale di età tardo repubblicana, osservazioni in Emilia Chiosi, Gabriella Gasperetti, Rocca d’Evandro (Caserta). Località Porto. Un quartiere produttivo romano sulla riva sinistra del fiume, «BdArch», 11-12, 1991, pp. 121-125; Eaedem, Rocca d’Evandro (Caserta) - località Porto. Un quartiere artigianale romano sul fiume, in Ceramica, cit., (supra, nota 20), pp. 293-299; Emilia Chiosi, art. cit (supra, nota 17); Francesco Sirano, art. cit. (supra, nota 20), p. 182 sgg. 31 Emilia Chiosi, Gabriella Gasperetti, art. cit. (supra, nota 30), p. 123; Eaedem, art. cit., (supra, nota prec.), p. 298; Emilia Chiosi, art. cit. (supra, nota 17), pp. 134-135; Nicolas Mathieu, op. cit. (supra, nota 16), pp. 52, 58.

Università del Salento – Lecce

co m p osto in ca r att ere dant e monotype dalla fa b rizio se rr a editore, pisa · roma. sta m pato e rilegato nella tip o g r a fia di agnano, agnano pisano (pisa). * Luglio 2011 (cz 3 · fg 22)

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