Gesù di Nazareth nell'Apocalisse di Giovanni. Spirito, profezia e memoria

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DANIELE TRIPALDI Gesù di Nazareth nell'Apocalisse di Giovanni Spirito, profezia e memoria

MORCELLIANA

INTRODUZIONE

ESPERIENZA, IDENTITÀ, MEMORIA. RIFLESSIONI PRELIMINARI

L‘Apocalisse di Giovanni viene generalmente considerata riserva e repertorio di «evidence of the phenomenon of prophecy and ecstasy» (Nasral1 2 lah, 2003, p. 68) . Tra le pieghe di conflitti e dibattiti sulla profhteiva , è però già nel momento in cui Giovanni dà forma sensibile, materiale, su rotolo, alla sua esperienza, che emergono e si articolano significati, si genera un discorso che ridefinisce simbolicamente, dall‘interno, identità, strutture co3 noscitive e sociali . La (ri)costruzione dell‘esperienza e delle sue potenzialità di significato, nei limiti del contesto socio-culturale, procede con il farsi del testo. Aspetto «drammatico» e dimensione «poetica» della rivelazione coincidono e si i4 dentificano : ciò che Giovanni ha creduto di vedere, la sua interazione con le figure che gli sono apparse, sono espressi e visualizzati nel testo, nel suo linguaggio, nella sua retorica, nelle sue interpretazioni, e non sono altrimenti raggiungibili. Affrontare la relazione di un‘esperienza visionaria complessa significa quindi affrontare un processo rituale e un progetto retorico, insieme, di tra5 sformazione della realtà . Ne viene coinvolta anche la rappresentazione di Gesù di Nazareth. 1

Cfr. Aune, 1996, pp. 350-352; 382-387; 511-539, e, soprattutto, Thompson, 2003b. Cfr. Duff, 2001, pp. 48-60 e 113-125. 3 Devisch, 1978a, pp. 173-189, e 1978b, pp. 270-288, parla di «symbolic articulation process». Il punto è trascurato da Nasrallah, 2003, pp. 63-70. 4 Riprendo e adatto la distinzione tra «microdramatics» e «poetics» introdotta da Werbner, 1989, pp. 21-26. 5 Cfr. Tambiah, 1995, pp. 130-161. Su definizione ed applicazione all‘esegesi dell‘Apocalisse del concetto di retorica come costruzione di un universo simbolico, vedi, in particolare, Schüssler Fiorenza, 1994, pp. 39-58. Istruttiva, ma parziale, anche la definizione di Aune, 1986, pp. 86-87: «(1) Form: an apocalypse is a prose narrative, in autobiographical form, of revelatory visions experienced by the author, so structured that the central revelatory message constitutes a literary climax, and framed by a narrative of the circumstances surrounding the revelatory experience(s). (2) Content: the communication of a trascendent, often eschatological, perspective on human experience. (3) Function: (a) to legitimate the trascendent authorization of the message, (b) by mediating a new actualization of the original revelatory experience through literary devices, structures and imagery, which function to ―conceal‖ 2

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Introduzione

1. LOGICHE DELLA RIVELAZIONE Giovanni traduce, in segni e simboli, un‘esperienza di contatto con il divino. Nel testo, articola e interpreta la sua ―estasi‖, il suo accesso a una realtà altra da e superiore alla quotidiana, normalmente nascosta, che è anche attingere a una nuova sfera di conoscenza e significato. In quali condizioni, contesti o occasioni si realizza? Come viene sperimentata e rappresentata questa sensibilità ampliata? Come si sviluppa e modella nello spazio e nel tempo? Quali categorie culturali vengono mobilitate per comprenderla e spiegarla? Che tipo di operazioni intellettuali e razionali6 tà presuppone? . Non è questione di puro e semplice interesse fenomenologico: ne va fondamentalmente dell‘archeologia, per così dire, di una trasformazione, sperimentata, interpretata e proposta, che, descrivendo e individuando, collocando e restringendo possibilità, spazi e contenuti cognitivi, produce autorità, e, al tempo stesso, inquadra e convalida la creazione di una nuova identità, tanto a livello individuale che a livello sociale. Non offrendo l‘Apocalisse tassonomie o teorie esplicite, porsi queste domande comporta andare a scavare sotto ciascuno dei ventidue capitoletti in cui l‘opera è stata divisa, senza isolarsi o isolarli da, anzi piuttosto integrandosi e integrandoli in un confronto con altri testi in corrispondenza ideologica. Soprattutto, senza sorvolare, in prima battuta, su una serie di problemi teorici che la non immediatezza del metodo storico e la natura del testo 7 stesso sollevano . 2. UNA VISIONE DI GESÙ: TRA COSTRUZIONE DEL PASSATO E TRASFORMAZIONE DEL PRESENTE La trasformazione si fa scrittura, il progetto narrazione autobiografica. Nell‘universo simbolico del testo viene evocata e costruita anche una immagine di Gesù di Nazareth. Per precisare e affinare la prospettiva analitica che mi preme, converrà a questo punto aprire una parentesi ―cristologica‖ e allargare l‘obiettivo su un desideratum della ricerca storica. the message which the text ―reveals‖, so that (c) the recipients of the message will be encouraged to modify their cognitive and behavioral stance in conformity with trascendent perspectives». Segue ampio commento, pp. 87-91. 6 Cfr. le indicazioni di Vernant, 1991, pp. 303-305 e 310-315. 7 Cfr.Vernant, 1991, pp. 261-268, e Berger, 1991a, pp. 17-44.

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2.1 Un “Gesù storico” nell‟Apocalisse di Giovanni? «Tod und Auferstehung Jesu […] ist das Entscheidende, ja im Grunde das Einzige, was für Paulus an der Person und dem Schicksal Jesu wichtig ist, – einbegriffen ist dabei die Menschenwerdung und das Erdenleben Jesu als Tatsache, d.h. in ihrem Dass; – in ihrem Wie nur insofern, als Jesus ein konkreter, bestimmter Mensch, ein 8 Jude, war» (Bultmann, 1954, p. 289 [corsivo mio]) .

L‘autorevolezza della dicotomia bultmanniana ha segnato, quando più, quando meno velatamente, i tentativi di descrivere il discorso su Gesù quale viene elaborato da Giovanni: presente e futuro del Cristo morto e risorto, ora Signore glorificato, occupano la scena, nella convinzione condivisa che permettano di focalizzare il supposto unico interesse di redattore e lettori impliciti dello scritto – e non piuttosto degli esegeti moderni: si misura l‘apporto della tradizione, si apprezzano il contributo e gli sviluppi personali di Giovanni. Di contro, il passato di Gesù e la sua ri-figurazione, la sua interpretazione nella memoria e nel testo vengono inequivocabilmente liquidati come cornice marginale e indistinta, in quanto fatti non consistenti come referenti storici delle comunità dei suoi seguaci. Dalle monografie ormai classiche di T. Holtz (1962) e J. Comblin (1965), agli ultimi interventi di M.E. Boring (1992), D. Guthrie (1994) e C.H. Talbert (1999), passando per il contributo di F. Bovon (1972), l‘attenzione si indirizza quasi spontaneamente da nascita, morte in croce e resurrezione al nucleo kerygmatico, che questi eventi, pur tanto cursoriamente menzionati, racchiudono. Questo nucleo, in ultima istanza, ne fonda l‘importanza al presente, in ragione delle sue risonanze soteriologiche. Più recenti orientamenti della ricerca non mancano di approfondire le distanze e si concentrano sullo sfondo giudaico-apocalittico delle 9 concezioni di Messia e Figlio dell‘Uomo , sul rapporto tra cristologia e ange10 lologia oppure sulla dimensione storico-sociale che la prima assume (Slater, 1999). Lo spoglio di bibliografie e rassegne bibliografiche, anche esteso a comprendere temi più specifici, quali, per esempio, Apocalisse e tradizione

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La critica più recente ha provveduto a smussare e relativizzare questo giudizio, cfr. Pesce, 2003a, per alcune prime indicazioni bibliografiche. 9 Cfr. Müller, 1972; Yarbro Collins, 1996, in particolare, pp. 159-197. 10 Cfr. Stuckenbruck, 1995; Carrell, 1997; Gieschen, 1998.

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Introduzione

gesuana o Apocalisse e tradizione evangelica, conferma l‘unilateralità e uni11 formità del quadro . Nelle parole di Segalla: «moltissimo si discute del rapporto dell‘Apocalisse con l‘AT, con l‘apocalittica giudaica, con la storia che vi si riflette come in uno specchio, della sua particolare struttura letteraria, della sua simbolica, dell‘ambiente liturgico e così via. Per quanto riguarda il Gesù terreno, al più si rimanda alla morte e risurrezione di Gesù come vittoria dell‘Agnello» (Segalla, 2000, pp. 115-116).

Presenze e assenze tra i numerosi desiderata per la ricerca futura elencati da O. Böcher (1998, pp. 167-168) – investigazione della continuità tra apocalittica giudaica e protocristiana, da un lato, e profetismo dell‘AT, dall‘altro; precisazione del rapporto tra Apocalisse e Paolo o tra Apocalisse e altri testi apocalittici del NT; determinazione della situazione storico-politica in cui nasce e della funzione storico-politica che l‘Apocalisse svolge; approfondimento dell‘angelologia e della demonologia; sviluppo di una appropriata ermeneutica teologica, capace di individuare e distinguere tradizione e redazione, eredità giudaica e proprium cristiano, enunciati di validità storicamente circoscritta ed enunciati di validità non temporalmente circoscritta; analisi del legame che salda escatologia ed ecclesiologia – comprovano la generale correttezza di queste considerazioni, e rinviano implicitamente ad 12 una soddisfazione critica di fondo, che nutre il disinteresse . 2.2 Dualismi in crisi 13

Nello studio che a buon diritto R. Penna definisce «pionieristico» e che tuttora non perde la sua fondamentale validità e ricchezza, T. Holtz viene allo scoperto e non nasconde limiti e difficoltà di questa impostazione, con tutto l‘imbarazzo esegetico che ingenera. Commentando Ap 3, 14, rileva, nel secondo predicato che definisce il «simile ad un figlio d‘uomo» come oJ mavrtu~ oJ pistov~, un accenno alla vi-

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Cfr. Lohmeyer, 1934; Feuillet, 1963; Kraft, 1973; Vanni, 1976, e 1980, in particolare, pp. 32-33; Muse, 1996; Holtz, 1997; Böcher, 1998; Prigent, 2000b. Per un ulteriore aggiornamento fino al 2002, si possono consultare con profitto Casalini, 2001, pp. 351-359, e 2002, pp. 361-364. 12 Cfr., tuttavia, Ellis, 1999, pp. 226-228, e Holladay, 2005, pp. 550 e 555 n.11. Ma si tratta, più che altro, delle classiche, e anche fin troppo sbrigative, nel nostro caso, eccezioni che confermano la regola. 13 Penna, 1999, pp. 463-465, in particolare, p. 464.

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cenda storica di Gesù, che lo differenzierebbe dal primo e dal terzo e ne 14 romperebbe quasi l‘armonia : «Wir verkennen nicht die Schwierigkeit dieser Interpretation. Nach unserer Erklärung ist dies die einzige Stelle, an der in dem ganzen Complex der Christus-Vision (1, 12 ff.) und der Sendschreiben […] auf die Christusgeschichte Bezug genommen wird. Streng genommen handelt es sich hier […] um einen Namen, der das Werk des geschichtlichen Christus bezeichnet; er passt daher nicht recht in den Zusammenhang. Wir sehen aber keine andere Möglichkeit der Erklärung […]. Es wird vielmehr so sein, dass 1, 5 die Christusprädikation 3, 14 nach sich gezogen hat. Durch die Erweiterung von pistov~ zu pistov~ kai; ajlhqinov~ ist aber wahrscheinlich der “Zeuge” Gott näher gerückt und seine Erhöhung angedeutet» (Holtz, 1962, p. 143 [corsivo mio]).

Questa percezione immediata ed acuta di uno spuntare di riferimenti a e riformulazioni della vicenda storica di Gesù non rimane un caso isolato, ma riaffiora in altre osservazioni sparse, fino a constatare l‘influsso modellante di tradizioni gesuane sulla formazione e l‘intreccio delle visioni – con tutte le conseguenze per l‘esegesi dei singoli passi che poi ne derivano e che 15 Holtz non esita a trarre . Come per la Jesusforschung a partire dalla seconda metà del secolo 16 scorso , insomma, il problema lasciato giacere a monte, suona: esiste, anche per Giovanni e le comunità a cui scrive, una continuità tra Gesù della storia e Cristo della fede? Nonostante le differenze storiche, letterarie, teologiche tra genere ―vangelo‖ e genere ―apocalisse‖, quale figura del ―Gesù storico‖, e, via di seguito, quando, come e in che misura, trova spazio nell‘Apocalisse e, 17 «trasformata dal nuovo orizzonte letterario e dalla nuova funzione» , si riverbera sulla riflessione, propriamente, ―cristologica‖? 2.3 Sulle tracce di un insegnamento L‘unico studio sistematico delle tradizioni sinottiche nell‘Apocalisse è e 18 rimane la monografia di L.A. Vos (1965) . 14

Holtz, 1962, pp. 140-143. Ibid., pp. 17; 55-57; 99-100; 125; 131-134. 16 Presentazione sintetica e ulteriori rimandi bibliografici in Fusco, 1998; Puig i Tàrrech, 2000, in particolare, 194-199; Marguerat, 2001. 17 Segalla, 2000, p. 138. 18 Una diecina di anni prima circa aveva scritto un rapido articolo di approfondimento Boismard (1953), concentrato però piuttosto sulla demonologia dei due scritti e sulle possibili ipotesi di contatti letterari, che ne riuscissero a spiegare convincentemente le somiglianze. Cfr. anche i grandi commentari della prima metà del secolo scorso: Swete, 1907, p. xcvi; 15

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Introduzione

Lo studio nasceva da un confronto critico con le posizioni di H. Koester (1957) e con queste si sviluppava in un serrato dialogo, fondandosi sulle ricerche della scuola scandinava (H. Riesenfeld, 1957; B. Gerhardsson, 1961). Si proponeva di aprire una finestra sulla tradizione sinottica alla fine del I sec.d.C., e, in seconda battuta, di stabilire la misura di fluidità in cui questa 19 circolasse al volgere del II . Vos finiva col rintracciare venticinque detti di Gesù, le cui variazioni non incidevano sostanzialmente sulla forma fissata e 20 trasmessa per via orale . A prescindere dal diverso grado di sicurezza raggiungibile nell‘accertamento dell‘impiego, diretto o indiretto, dei singoli lo,goi e dall‘eventuale contestabilità di inclusioni ed esclusioni, come che stiano effettivamente le cose sullo stato della tradizione, ciò che più mi sembra rilevante è che dallo studio di Vos emerge comunque un Giovanni ben familiare 21 con la predicazione di Gesù di Nazareth , e con materiale individuabile e i22 solabile in precisi rivoli della tradizione . Sulla sua scia, successivamente, sempre insistendo sulla stessa metodologia critica combinata di storia delle forme, storia delle tradizioni, e storia della redazione, allo scopo di enucleare e precisare fonti e dipendenze letterarie, si sono mossi i contributi di R. Bauckham (1977), G.K. Beale (1985) e 23 U. Vanni (1991) . L‘analisi di Vos soffre tuttavia di due limiti. Da un lato, appare generalmente circoscritta ai sinottici o, al più, agli scritti canonici e non prende in considerazione paralleli eventualmente atte24 stati negli altri scritti proto-cristiani esclusi dal canone . Bauckham (1977, p. 169) ha già compiuto un passo in avanti in questa direzione, relativamente alle parabole sulla parusia, ed il suo contributo più recente sull‘argomento (1983) è la dimostrazione delle prospettive aperte: il suo procedimento com25 parativo andrebbe ripreso, esteso ulteriormente ed approfondito .

Charles, 1920, pp. lxiii-lxv e xciv; lxxxiv-lxxxvi per i sinottici, e pp. xxxi-xxxiii per il vangelo di Giovanni; Lohmeyer, 1953, p. 196. 19 Vos, 1965, pp. 1-9. 20 Cfr. il prospetto finale ibid., pp. 218-219. 21 Ibid., pp. 194 e 215-216. Contro Boring, 1992, p. 715 e n.16. Cfr. anche le conclusioni della critica più recente a proposito del rapporto Gesù – Paolo in Pesce, 2003a, p. 51 e n.20. 22 Vos, 1965, pp. 193-195 e 215-220. 23 Cfr. anche Wenham, 1984, in particolare, pp. 294-318. 24 Uniche due eccezioni: la transitoria menzione del parallelo di 2 Clem. 3, 2 a Ap 3, 5 (Vos, 1965, p. 89 n.144) ed il probabile ―agraphon‖ di Ap 2, 10 (pp. 192-193). 25 Cfr. il giudizio di Vanni, 1991, pp. 15-16 e 37, che conclude: «Lasciarlo in disparte o liquidarlo con affermazioni generiche (scil. «il problema di un rapporto tra l‘Apocalisse e Luca, tra l‘Apocalisse e i Sinottici in generale») significherebbe trascurare un supplemento di luce determinante per l‘interpretazione dell‘Apocalisse» (citazione p. 37).

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Dall‘altro, probabilmente in ragione dei paletti che Vos stesso si è imposto, della natura della sua ricerca, e di scopi ed interessi intrinseci che la 26 orientavano , non si avverte la preoccupazione di delineare la fisionomia del Gesù di Giovanni, sulla base del materiale raccolto, selezionato ed investigato. 2.4 Spiragli di una memoria L‘articolo recente di Segalla, già spesso citato, si propone come primo tentativo diretto e consapevole di ricostruire la ―memoria storica‖ di Gesù di Nazareth nell‘Apocalisse. Viene tracciata subito una cesura con la discussione passata: il metodo storico-critico non renderebbe giustizia al testo apocalittico e alle sue strategie letterarie, di qui la necessità di abbandonarlo e ricorrere a un metodo per Segalla più adatto, l‘intertestualità. Non più dunque ricerca di «una specie di citazioni o allusioni letterali, che comprovino la dipendenza, e perciò l‘influsso», ma piuttosto analisi del patrimonio testuale dell‘autore, dell‘«intreccio di enunciati presi da altri testi e la loro trasposizione in un testo nuovo», che, nello specifico, stabiliscano le «risonanze» della tradizione evangelica mediante un confronto distinto, ma non separato, tanto con i sinottici che con il vangelo di Giovanni. All‘interno del contesto più ampio della marturiva ÆIhsou', «la tradizione di Gesù nell‘Apocalisse viene a confermare quella evangelica e a dimostrare come essa possa configurarsi in veste nuova e in contesti nuovi e con nuove finalità rispetto al contesto e alle finalità delle narrazioni evangeliche, luogo pri27 vilegiato della memoria di Gesù» .

Partendo da questi presupposti, l‘inchiesta di Segalla procede registrando, caso per caso, l‘affiorare della tradizione gesuana nell‘Apocalisse, e con ciò costituisce quantitativamente la base oggettiva della memoria del Gesù 28 terreno nello scritto . Una volta poi identificata la «testimonianza di Gesù» con questa tradi29 zione , si passa alla sintesi complessiva dei dati raccolti: «quale figura di Gesù trova risonanza nell‘Apocalisse? E quale ri-figurazione ne viene da30 ta?» . Poco ritornano gli eventi esterni della vita di Gesù: ascendenza giu26 27 28 29 30

Vos, 1965, pp. 9-15. Segalla, 2000, pp. 117-119. Ibid., pp. 119-130 Ibid., pp. 131-136. Ibid., p. 137.

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Introduzione

daica e davidide (Ap 5, 5; 22, 6; cfr. 3, 7 e 12, 5-6), crocifissione a Gerusalemme (Ap 11, 8), resurrezione dai morti (Ap 1, 5). Più frequentata appare la tradizione dei detti, con prevalenza assoluta dei logoi di contenuto escatologico (cfr. Ap 1, 7 e Mt 24, 30; Ap 6, 12-13a e Mt 24, 29 // Mc 13, 14-15; Ap 6, 15-16 e Lc 23, 30 e 21, 36; Ap 11, 2 e Lc 21, 24), seguiti dalle parabole e dal loro linguaggio (Ap 2, 7.11.17.29; 3, 6.13.22; 13, 9 e Mc 4, 9.23 // Mt 13, 9 // Lc 8, 8; Ap 3, 3 e 16, 15 e Lc 12, 37-39; Ap 14, 15-16 e Mt 13, 24-30), un detto sulla sequela (Ap 14, 4 e Lc 9,57 // Mt 8, 19), uno sulla proclamazione futura dell‘evangelo (Ap 14, 6 e Mt 24, 14 // Mc 13, 10) e due sullo sposo (Ap 19, 6-9; 21, 2 e Mc 2, 18-20 parr.; Ap 19, 9 e Lc 14, 16-17); più isolata, ma non meno significativa, la tradizione giovannea, riecheggiata nei temi dello sposo (Ap 1, 7 e Gv 3, 29) e della regalità di Gesù, nella morte a Gerusalemme (Ap 11, 8 e Gv 19, 20), nel detto sulla rinuncia alla propria vita (Ap 12, 11 e Gv 12, 25). Interessante di sfuggita come le risonanze si concentrino sostanzialmente nelle sette lettere e nei sette sigilli, fatte salve altre sporadiche occorrenze nel prosieguo del testo e «l‘acuto dello sposalizio conclusi31 vo» (Ap 19 – 20) . Emerge la figura di Gesù come Agnello sgozzato, Messia Sposo e Profeta escatologico, che annuncia la sua venuta futura come Figlio dell‘Uomo 32 e, con questa, il prossimo irrompere della giustizia divina e del regno . Ciascuno dei tratti rilevati riecheggia nella trasfigurazione apocalittica della tradizione: l‘Agnello sgozzato «si rivela il crocifisso risorto, che siede alla destra di Dio e da lui riceve potere e sovranità sulla storia presente e futura»; il Messia Sposo ricompare nelle premure e nell‘amore del Signore per le sue comunità e, fondendosi con l‘Agnello, orienta tutta la visione ultima della Gerusalemme celeste, definendo anche il tempo delle comunità come tempo della celebrazione delle nozze e dell‘attesa dello sposo; il Gesù profeta escatologico è infine assurto a Rivelatore celeste che schiude a Giovanni il de33 corso e il senso della storia fino alla sua consumazione nell‘eternità di Dio . Due considerazioni mi sembrano d‘obbligo: estendere l‘analisi al quarto Vangelo rappresenta solamente un primo passo. Le tradizioni gesuane dell‘Apocalisse vanno inquadrate nel complesso più ampio della tradizione gesuana, quale ci è attestata non solo dai vangeli canonici, non solo dal Nuovo Testamento, ma anche da tutta la produzione letteraria cristiana extracanonica. Segalla si è spinto, per primo, a tracciare un profilo del Gesù terreno sulla base di quanto l‘Apocalisse stessa, con le sue scelte e le sue dislocazioni, lasciasse intravedere come «terreno solido, anche se nascosto, fon31 32 33

Ibid., pp. 130-131 (citazione p. 130). Ibid., pp. 137-138. Ibid., pp. 138-141 (citazione p. 139).

Esperienza, identità, memoria: riflessioni preliminari

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damento di tutto l‘edificio» . Ha così potuto recuperare quell‘unità di interpretazione storica e cristologia, che lo porta a constatare che «la verità della rivelazione presente in ordine al futuro è fondata nella testimonianza di Ge35 sù, del Gesù terreno» . Le sue conclusioni sul Gesù di Giovanni come Messia Sposo e Profeta escatologico mi sembra colgano sufficientemente il segno, e quel che più conta, rispecchino la visione e le intenzioni di Giovanni stesso. Sono tuttavia parziali. Segalla ha lasciato fuori dalla discussione testi, che le possono documentare, confermare e approfondire. 3. TRA FUTURO E PASSATO Già qualche anno fa, E. Norelli aveva individuato e ripetutamente proposto, come nucleo generativo delle ―apocalissi‖ scritte dai seguaci di Gesù, «la nécessité de situer l‘homme Jésus par rapport a l‘œuvre du salut que Dieu a réalisé par lui; la réponse passe par une mise en clair de la relation de Jésus à Dieu et de 36 l‘identité céleste de Jesus» (1997, p. 155) .

L‘identità del Gesù martire e del Cristo vivente nell‘eternità, su cui si concentra e focalizza la contraddizione del presente sperimentata dai suoi seguaci: ecco, nello specifico, la risposta concreta dell‘Apocalisse di Giovanni, che sposta il problema e lo risolve, nella misura in cui «ce que le croyants persécutés sont à présent, le Christ le fut dans le passé, et donc, ce qu‘il est actuellement, ils le deviendront» (cfr. Ap 2, 26-28 e 3, 21).

L‘identità del Galileo crocifisso e del Signore seduto sul trono del Padre è tuttavia accessibile solo guadagnando una rivelazione che prospetti – e ricostruisca – la realtà dal punto di vista dell‘osservatorio divino: qui nasce 37 l‘Apocalisse di Giovanni . Cerchiamo di ampliare la base teorica di queste osservazioni e, al tempo stesso, di misurarle ed affinarle sul testo. 3.1 Esperienza estatica e memoria: una nuova prospettiva Le annotazioni di Norelli presuppongono alcuni elementi d‘interesse: esiste, è conosciuto e tramandato un passato di Gesù; la presenza del Cristo 34 35 36 37

Ibid., p. 118. Ibid., p. 119. Cfr. anche p. 141. Cfr. già Id., 1995a, pp. 172-177 e 189-199. Norelli, 1997, pp. 156-157. Più ampiamente, già Id., 1995a, pp. 196-199.

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Introduzione

celeste e la sua rivelazione soprannaturale lo comprendono e ne dischiudono il senso; il senso così dischiuso muove da e si riverbera sul presente delle comunità cui Giovanni si rivolge, orientandone il futuro. Come immaginarne allora l‘interrelazione? O, più precisamente: che cos‘è il passato? In quali modi e forme si trasmette e riproduce? Che ruolo giocano il corpo e le esperienze di contatto con il divino nella sua rappresentazione? Secondo J. Assmann, che recupera e sviluppa le intuizioni di M. Hallbwachs (1925; 1950; 1988), il passato costituisce non tanto o non semplicemente la percezione «naturale» del tempo che passa, del divenire delle cose, ma piuttosto «nasce solo nel momento in cui ci si riferisce ad esso», quando, cioè, e nella misura in cui il ricordo lo ricostruisce e immagina, in relazione a quadri di significato di un presente dato e all‘organizzazione 38 dell‘esperienza futura e dell‘identità di un gruppo sociale . Sopravvivenza di testimonianze oggettive e soluzione di continuità emergente tra queste e il presente, tra ieri e oggi – e la morte, per Assmann, «è l‘esperienza primige39 nia di tale differenza» – sono le condizioni necessarie per l‘attivazione del 40 ricordo e la nascita del passato . A livello di classificazione teorica, a una memoria comunicativa basata sull‘interazione sociale quotidiana e incentrata sul passato recente si oppone una memoria fondante, o culturale, interessata ai tempi delle origini e frutto 41 di «mnemotecnica specializzata» : agganciato a figure simboliche in cui il 42 passato si coagula , il ricordo fondante si forma, si trasmette e si attualizza 38

Assmann, 1997, pp. 5-17 (citazione p. 7). Cfr. anche pp. 49: «Solo il passato significativo viene ricordato, e solo il passato ricordato diventa significativo. Il ricordo è un atto di semiotizzazione», che procede del tutto a prescindere da problemi di storicità (corsivo dell‘autore), e 60: «Il passato non nasce spontaneamente, ma è il risultato di una costruzione e rappresentazione culturale; esso viene sempre guidato da motivi, attese, speranze e obiettivi specifici, ed è plasmato dal quadro di riferimento del presente». 39 Ibid., p. 34. 40 Ibid., pp. 7-10 e 34-37. 41 Ibid., p. 26. 42 Per la sua elaborazione del concetto di «figure di ricordo», Assmann si riallaccia direttamente a Hallbwachs e alle sue images-souvenirs: «con ―figure di ricordo‖ […] intendiamo delle ―immagini di ricordo‖ conformate culturalmente, socialmente vincolanti; preferiamo il concetto di ―figura‖ a quello di ―immagine‖ perché esso non si riferisce solo alla forma iconica, ma, per esempio, anche a quella narrativa» (ibid., p. 13 n.19). Per Hallbwachs, citato in testo, le immagini di ricordo si sviluppano da un doppio processo: da un lato, «per potersi fissare nella memoria di un gruppo, una verità deve presentarsi nella forma concreta di un evento, di una persona, di un luogo», dall‘altro, «al suo ingresso in tale memoria, ogni personaggio e ogni fatto storico viene trasposto in una teoria, in una nozione, in un simbolo; esso ottiene un senso, diventando un elemento del sistema di idee della società». Tra le «figure di ricordo» della tradizione ebraico-cristiana, Assmann enumera l‘esodo, la peregrinazione nel deserto, la conquista della terra di Canaan, l‘esilio, Gerusalemme, la storia della Passione di Gesù (ibid., pp. 16-17 e 26-27). Altri concetti diffusi negli studi di memoria sociale, che di fatto collimano

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istituzionalmente in rituali, danze, miti, immagini decorative, abiti, ornamenti, testi, per opera di delegati al sapere, di specialisti della tradizione, dallo 43 sciamano all‘aedo, dal sacerdote al mandarino . La distinzione introdotta, di fatto, non si mantiene impermeabile: «nella realtà di una cultura storica», i 44 due modi del ricordare «si compenetrano variamente» . Se Assmann finisce poi per interessarsi più che altro all‘espressione testuale come strategia di produzione o cancellazione del ricordo, è stato merito di P. Connerton aver insistito sull‘«incorporazione» come strumento alternativo – se non privilegiato – all‘«inscrizione», per concretizzare l‘esigenza e la volontà di ricordare: prima che ai documenti scritti, è al corpo e ai suoi automatismi che, tanto nei rituali commemorativi quanto in gesti e pratiche abitudinari e codificati, si affidano le memorie, i valori, le categorie 45 che un gruppo desidera preservare dall‘oblio . Partendo da queste premesse, l‘etno-psichiatra italiano R. Beneduce ha recentemente rimesso in discussione un approccio riduzionistico a quegli stati di dissociazione e tecniche del corpo che vanno sotto il nome di trance e possessione, evidenziandone la polisemia culturale e sociale, e optando per un‘analisi che ne isolasse due nuclei problematici strettamente collegati: il costruirsi dell‘identità in rapporto con l‘alterità, e la memoria. Da un lato, infatti, la possessione trasforma un essere, il posseduto, in un altro essere, divinità, spirito, defunto, incorporando il sacro e sacralizzando il corpo. Questo diviene il «chiasmo attraverso cui comunicano le polarità che ordinano il mondo e i territori che lo dividono»; mai semplice ricettacolo dell‘Altro, si modifica nella sua struttura più profonda «e ciò non soltanto per il tempo della crisi rituale, ma in modo duraturo», dal momento 46 che la possessione costituisce uno stato permanente . Dall‘altro, proprio in quanto «tecnica appresa a partire da precise pratiche del corpo e da altrettanto ben definiti stati della mente (danze, movimenti della testa e del corpo, mimi, auto- o eteroinduzione di stati di trance 47 ecc.)» , costruita e sperimentata «dentro un preciso orizzonte culturale, estetico, antropologico, dove un ―corpo psichico‖ vive accanto ad un ―corpo spi48 rituale‖» , la possessione si rivela dominio di memorie incorporate: in concon la riflessione di Assman, sono «tradition» (Kirk – Thatcher, 2005, pp. 39-40; Schwartz, 2005a, p. 55), «frame work» / «frame image» (Horsley, 2005, pp. 75-77), «locus» / «place» (Dewey, 2005, pp. 120-123), «keying» / «framing» (Schwartz, 2005b, p. 250), «memory genre» (Williams, 2006, pp. 35-36). 43 Assmann, 1997, pp. 23-33 e 60-63. 44 Ibid., p. 26. 45 Connerton, 1999, pp. 116-117 e passim. Cfr. anche Tambiah, 1995, pp. 131-135. 46 Beneduce, 2006, pp. 83-84 (citazioni p. 83). 47 Ibid., p. 264. 48 Ibid., p. 266.

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testi e pantheon africani dei più diversi, emergono sempre «frammenti di storia, figure di antenati, dinastie, nomi di santi e re, riferimenti a luoghi, territori, insediamenti, o a eventi come la migrazione, l‘islamizzazione o la colo49 nizzazione» . A regolare convivenza dei due corpi, la «doppia presenza», di sé e dell‘Altro, e produzione di memorie, intervengono forme di rappresentazione mimetica: maschere raffigurano l‘Altro, e, ricoprendo volti e corpi, stabiliscono un contatto diretto ed immediato con gli esseri del mondo invisibile, di modo che l‘attore non sia di fatto più distinguibile da loro; divinità, spiriti, antenati, che si sostituiscono ed incarnano nei corpi dei posseduti, sono catturati e riprodotti in ogni dettaglio, conosciuti e dominati per trasmissione 50 orale ed imitazione . Eloquente mi sembra il caso riportato da Connerton (1999, pp. 78-79) e ripreso da Beneduce stesso (2006, pp. 240-241): «Ancora nel regno dell‘Uganda si scoprì un modo per tenere lo spirito del re morto tra i suoi sudditi sotto forma rappresentativa. Dopo la sua morte veniva nominato un medium, o mandura, nel quale il re morto prendeva la sua dimora; questo medium non solo ne riproduceva l‟esatta apparenza ma anche l‟eloquio e i gesti del re morto (sic!). Nei clan incaricati di fornire i mandura si tramandavano a voce e per imitazione le caratteristiche di ciascun re all‟epoca della sua morte. […] Questa rappresentatività non riattivava il re morto senza interruzione, ma di quando in quando il medium ne era posseduto e incarnava il re in ogni particolare» (corsivo mio).

Nello spazio così creato, le memorie sono resuscitate e riaffermate, o cancellate e neutralizzate, biografie di personaggi storici divenuti spiriti e narrazioni di eventi che li vedevano coinvolti sono re-inventate, caratteri e 51 valori, tradizioni e anti-tradizioni sono attivamente prodotti . Nella complessa dialettica di ricordo ed oblio, rivitalizzata dalla mimesi, trance e possessione, in quanto mnemotecniche, cercano di «ritrovare un passato perduto dimenticando il presente – e il passato immediato con il quale tende a confondersi – per ristabilire una continuità con il passato più antico» (M. Augé, citato in Beneduce, 2006, p. 260). Queste riflessioni ci offrono, credo, il modello teorico che cercavamo. Si tratta ora di verificarne sul testo il potenziale esplicativo come quadro di riferimento unificante della nostra ricerca.

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Ibid., p. 235. Ibid., pp. 279-295. Cfr. anche Boddy, 1994, pp. 423-426, e le esemplificazioni linguistiche, con relative conclusioni, di Krings, 1999, pp. 54-65. 51 Beneduce, 2006, pp. 284-295. Cfr. anche Boddy, 1994, pp. 414-422, e Masquelier, 1999. 50

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3.2 Esperienza estatica e memoria: corpo, mimesi e storia nell‟ Apocalisse 52 di Giovanni Ap sembra di fatto muoversi su una intersezione di profili simile: la memoria di Gesù, per un verso, si orienta sull‘esperienza storica di un passato relativamente recente, entro un orizzonte temporale di nemmeno settant‘anni al massimo dalla sua morte; per l‘altro, si riproduce nella forma simbolica di visioni e di un‘ascensione celeste, che è processo rituale e testo – e ritorniamo così alle osservazioni svolte in apertura – e, programmaticamente, testo «sacro» e «canonico», rivelato ad un ―profeta‖ (Ap 1, 1-2 e 22, 53 18-19) ; è trasmessa tra le «parole di profezia» destinate a lettura e ascolto assembleare nella voce di un lettore (Ap 1, 3); si coagula in figure di ricordo, condensa il passato relativo in mito, in storia fondante (cfr. Ap 12). Procediamo con ordine. L‘esperienza che Giovanni rievoca e riscrive è innanzitutto un‘esperienza visionaria centrata sul corpo e sulle sue trasformazioni: qualunque significato preciso abbia quell‘«ejgenovmhn ejn pneuvmati» (Ap 1, 10 e 4, 2), come avremo modo di approfondire, si tratta di un trapasso ad una modalità di esistenza fisica diversa, che gli permette di entrare in contatto con il mondo soprannaturale. Giovanni può ora vedere esseri normalmente invisibili, salire al cospetto del trono divino, coprire distanze proibitive fra cielo e terra. Non è solo una trasformazione individuale ed occasionale, ma anche sociale e permanente, suggellata di nuovo nel corpo, in cui è definitivamente impressa: in Ap 10, 5-11, all‘inghiottire ed assimilare il rotolo che ha viag52

Negli ultimi vent‘anni, si sono succeduti, con ritmo crescente, i tentativi di leggere testi del primo cristianesimo alla luce della teoria della memoria sociale. Fondamentali, di recente, i contributi raccolti nel volume 52 dei Semeia Studies, a cura di A. Kirk e T. Thatcher, e in Biblical Theological Bulletin 36/1 (2006), numero monografico della rivista, a cura di D. Duling. Vanno qui sicuramente segnalati , gli interventi più specifici e circoscritti di Theissen, 1988; Destro – Pesce, 1998a; Guijarro Oporto, 2008. Sui riti in atto nelle comunità paoline come pratiche di ricordo e conoscenza di Gesù, alcune intuizioni si trovano già nelle pagine seminali di Meeks, 1983, pp. 140-163, e, più esplicitamente, in Koester, 1999, pp. 342-349. Accennano, più o meno cursoriamente, oppure semplicemente implicano anche le esperienze di contatto con il soprannaturale come forme di attualizzazione della memoria di Gesù Keightley, 2005, pp. 143-147 e Lampe, 2006, pp. 101-108, e 124-128, per l‘epistolario paolino, e Afzal, 2008, pp. 30-31; 49-52; 83-113, per Ap. 53 Sulla differenza fra «testo sacro» e «testo canonico», insiste Assmann, 1997, p. 66: «Un testo sacro è una sorta di tempio verbale, un‘attualizzazione del sacro nel medium della voce» ed esige «una recitazione tutelata ritualmente mediante una scrupolosa osservanza delle prescrizioni riguardanti i luoghi, i tempi, la purezza, ecc. Un testo canonico, invece, incarna i valori normativi e formativi di una società, la ―verità‖: questi testi vogliono essere presi a cuore, seguiti e trasposti in realtà vissuta».

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giato di mano in mano fino a lui, dal Seduto sul trono all‘angelo forte, attraverso l‘Agnello, e su cui è stato pronunciato un giuramento sul Dio vivente, Giovanni ne assorbe sostanza e potere, mentre scrive il suo (cfr. Ap 10, 3-4), poi riattualizzate nel modello esplicito offerto dal breve prologo (Ap 1, 1-3). Se anche non si può parlare propriamente di possessione, in questa coincidenza di esperienza e scrittura, corpo e testo, Giovanni arriva ad incarnare stabilmente, secondo schemi culturali della tradizione ―profetica‖ giudaica, le personalità di chi gli ha concesso la rivelazione e lo ha inviato a ―profetizzare‖. L‘oracolo divino pronunciato in prima persona (Ap 1, 7), e la polifonia finale di Ap 22, 7-20, in cui si succedono a parlare, sempre in prima persona e senza soluzione di continuità, l‘angelo, Gesù, lo Spirito, la Sposa, lasciano intuire chiaramente come Giovanni si immagini di rappresentare il mondo divino ed i suoi agenti, che, per mano sua, scrivono (cfr. 14, 13; 19, 9; 21, 5-8): come ha scritto Z. Pleše a proposito della cornice narrativa dell‘Apocrifo di Giovanni (2006, pp. 11-20), la presenza di più voci in prima persona e le transizioni ex abrupto dall‘una all‘altra producono «uncertainties about the exact separation between the outer and inner frame, as well as between the frame and the inner narratives, leaving a confusing impression of their mutual overspilling. The net result is the fusion of the two first-person voices, so that one becomes the double of the other. […] Two separate planes (divine and human) and two irreconcilable perspectives (universal and individual) are thus bound together in a single “I”, following the rhetorical procedure typical for the discourse of mystic experience. The multiplication of the narrative voices within the frame creates only an apparent discontinuity. What remains the same from one level to another is that single “I” within which the divine author and the human narrator 54 speak the same message of salvation» (pp. 18-19 [corsivo mio]) .

Nel corpo e nelle sue trasformazioni è sedimentata, rappresentata e ri55 scritta anche una memoria . 54

Aune (1996, pp. 140-143; 522; 575-577), e, soprattutto, Nasrallah (2003, pp. 178182), hanno di fatto mostrato quanto sottile sia il discrimine e facile il passaggio da un «oracolo di auto-raccomandazione» del tipo ―Io sono‖, che conferma e legittima chi lo pronuncia come tramite autentico della rivelazione divina, alle accuse di possessione e pretesa equiparazione alla divinità (cfr. anche Gv 10, 14.19-20.33-36). Sull‘artificiosità di una dicotomia rigida fra trance di visione e trance di possessione, cfr., per il mondo antico, lo scolio a Eschilo, Sept. 497-498: «e[nqeoi levgontai oiJ uJpo; favsmatov~ tino~ ajfaireqevnte~ to;n nou`n kai; uJp o; ejkeivnou tou` qeou` tou` fasmatopoiou` katecovmenoi». Per il mondo moderno, valgono le osservazioni di Beneduce, 2006, pp. 65-70. 55 Su ispirazione divina e narrazione ―profetica‖ di eventi passati, cfr. Flavio Giuseppe, C. Ap. 1, 37-38: «Eijkovtw~ ou\n, ma'llon de; ajnagkaivw~, a{te mhvte to; uJpogravfein aujtexousivou pa'sin o[nto~, mhvte tino;~ ejn toi'~ grafomevnoi~ ejnouvsh~ diafwniva~, ajlla; movnon tw'n profhtw'n ta; me;n ajnwtavtw kai; palaiovtata kata; th;n ejpivpnoian th;n ajpo; tou' qeou' ma-

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Per due volte, l‘imperativo «mnhmovneue» gioca un ruolo nelle esortazioni alle sette chiese (Ap 2, 5 e 3, 3). La prima occorrenza non si limita a supporre la distanza di tempo intercorso tra la nascita e i primordi della comunità e la sua situazione attuale, ma carica quelli di valore ―protologico‖ e fondante, costruendo il passato in antitesi al presente di deriva, come posizione celeste da cui l‘angelo della comunità in Efeso è caduto («povqen pev56 ptwka~»): siamo nel solco della più tipica mitologia enochica ; la seconda connette l‘esortazione al ricordo alle origini della comunità di Sardi come fase di un processo di ricezione e ascolto di tradizioni che ne include anche la preservazione («kai; thvrei»); entrambe associano l‘imperativo, direttamente o indirettamente, alle idee di ravvedimento (metanovew) e fedeltà alla memoria (threvw), che alimentano la speranza di salvezza e il senso di elezione delle comunità (cfr. la formulazione in negativo di Ap 2, 5.16.22; 3, 3, e, in positivo, di 3, 8-10, con l‘«ejgw; hjgavphsav se» del verso 9): «Dal principio del carattere eletto deriva quello del ricordo: infatti l‘essere eletto non significa altro che un complesso di obblighi altamente vincolanti che in nessun caso 57 devono cadere in oblio» (Assmann, 1997, pp. 6-7) .

In Ap 2, 13.25-26 e 3, 3.8.10, l‘obbligo o l‘attività del ricordo degli inizi, in quanto preservare dall‘oblio e attenersi ai suoi pivsti~, e[rga, lovgo~ e o[noma, si indirizza più specificatamente su Gesù e sull‘obbedienza alla sua rivelazione. La coscienza escatologica è radicale: in lui «ist die alte Welt zu Ende gegangen, eine neue Welt beginnt – schon jetzt im Verborgenen, bald 58 in aller Öffentlichkeit» (cfr. Ap 1, 5). qovntwn, ta; de; kaqÆ auJtou;~ wJ~ ejgevneto safw'~ suggrafovntwn, ouj muriavde~ biblivwn eijsi; parÆ hJmi'n ajsumfwvnwn kai; macomevnwn, duvo de; movna pro;~ toi'~ ei[kosi bibliva tou' panto;~ e[conta crovnou th;n ajnagrafh;n ta; dikaivw~ pepisteumevna». La fine di una chiara successione dei profeti avrebbe portato poi allo scadere di credibilità (pivsti~) di scritti composti dai tempi di Artaserse in poi, e alla chiusura del ―canone‖ (ibid., 41-42). Cfr. Filone, Mos. 2, 188 e 263-264, dove Mosè, ejpiqeiavsa~, katasceqeiv~ o qeoforhqeiv~, riporta alla luce – in questo senso, rappresenta – il ricordo offuscato (mnhvmh!) della successione temporale degli eventi della creazione. Esperienza estatica e memoria del passato si sovrappongono anche in Or. sib. 3, 1-35.809-823, e 11, 315-321. 56 Cfr. Ulland, 1997, pp. 58-61. Sull‘influsso di tradizioni enochiche nell‘Ap, vedi Lupieri, 1990 e 1992. 57 Cfr. anche Theissen, 1988, pp. 174-179. Beneduce, 2006, p. 85, scrive che il posseduto si trova, sin dall‘inizio, «gettato su una scena pubblica […], in un gruppo (quello dei membri del culto) la cui ragion d‘essere sta nella periodica manifestazione di sofferenza, della comune esperienza di eletti, del legame perenne con i loro compagni invisibili (corsivo mio)». Sono gli stessi elementi che Giovanni sceglie per la sua presentazione: «Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nell‟afflizione, nel regno e nella perseveranza in Gesù» (Ap 1, 9 [corsivo mio]). Segue il racconto dell‘arrivo a Patmos e della prima visione. 58 Theissen, 1988, p. 181. Più nello specifico scende Norelli, 1995a, p. 198: nell‘Agnello sgozzato, convergono «la dimensione divina dell‘eternità e il destino umano di

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Introduzione

Tra Ap 12 e Ap 22, la memoria delle origini si sviluppa in visione compiuta, che dà senso di quegli inizi, spiega il passato recente ed il presente, 59 orienta il futuro : la donna nel cielo – Israele dei primordi partorisce il messia Gesù, rapito in cielo, ed «i restanti del seme di lei», la comunità di quanti sono fedeli a Gesù, discendenza del vero Israele (Ap 12).La lotta con il potere satanico introduce lo sdoppiamento: al residuo di Israele che resiste vergine sul monte santo si contrappone l‘Israele che siede sui monti, prostituendosi con i popoli e le manifestazioni di quello nella storia (cfr. Ap 14, 1-5 e 17). Il discorso di Giovanni è perfettamente giudaico, e coinvolge direttamente i gruppi dei seguaci di Gesù, concepiti come «tribù» e «genti» in continuità con l‘Israele storica. Il contrasto sarà risolto alla discesa della Gerusalemme celeste (Ap 21): nella complessità degli attributi di cui è corredata, vi si riconosce l‘Israele sposa del Messia e dimora di Dio sulla nuova terra, fondata sui dodici apostoli scelti da Gesù, che include ed incarna una collettività santa, e ne esclude una impura ed imbastarditasi con la menzogna ―pagana‖ (cfr. Ap 21, 8.27 e 22, 15). Le forti connotazioni messianiche che il contesto comunitario aveva assunto in Ap 12 lasciano spazio, tra i capp. 21 – 22, «ad una fraseologia e ad un immaginario di derivazione sacerdotale che associano gruppo che officia il culto e témenos cultuale (proiettando nel témenos escatologico il riscatto del gruppo sui devianti)» (Arcari, 2008, p. 429; cfr. Ap 1, 5).

Esperienza estatica e memorie incorporate si toccano e compenetrano secondo strategie di riproduzione mimetica: la possibilità ed il fatto stesso che il Gesù celeste conceda una rivelazione a Giovanni, ossia che un individuo storico morto, creduto risorto e seduto sul trono di Dio, comunichi con un altro individuo storico in vita, tramite il suo angelo (cfr. Ap 1, 1-3), implica non solo che Giovanni sperimenti un contatto, per visioni ed ascensioni, con un mondo normalmente invisibile e inaccessibile, e con gli esseri che lo popolano, ma anche che chi rivela e si rivela sia riconoscibile ed identificabile, tanto da Giovanni che vede e scrive quanto da coloro che leggeranno o ascolteranno le sue «parole di profezia». Rappresentare una rivelazione di Gesù comporta, quindi, di fatto, anche riprodurre mimeticamente la sua ―voce‖, le sue caratteristiche, la sua storia, recuperando ed attualizzando eloquio e parole a lui attribuiti e tradizioni tramandate su di lui, esattamente allo persecuzione e martirio. Così precisamente questo destino può diventare il perno della storia, il che si esprime nel potere conferitogli di aprire il libro dai sette sigilli e di tenere il giudizio» (cfr. anche pp. 175-176 e 197). 59 Seguo, a grandi linee, l‘analisi di Arcari, 2008, pp. 321-424. Con Destro – Pesce, 1998a, pp. 176-177, potremmo parlare, per Ap 12, di costruzione dello «statuto mitologico» del gruppo.

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stesso modo che la presenza e l‘autorità del Dio delle scritture sacre ebraiche, dietro Giovanni (cfr. Ap 1, 1.8 e 22, 6.13), è confermata dalla fitta trama di ―allusioni‖ a quelle stesse scritture sacre che si credeva ne contenessero gli oracoli. Di più, l‘esperienza stessa di comunicazione con il mondo divino, attraverso visioni, ascensioni e rivelazioni di voci celesti, potrebbe già in sé presupporre, richiamare ed imitare quelle pratiche di contatto con il soprannaturale, che venivano ricordate e trasmesse come caratteristica non marginale di un‘attività ―profetica‖ di Gesù (cfr. Mc 1, 9-13 parr., e 9, 2-8 parr.; Mt 11, 25-27; Lc 10, 18; Gv 3, 11-13; 5, 19; 8, 26.38.40; 12, 27-30; 15, 15), ed erano, inoltre, ampiamente diffuse fra i gruppi dei suoi seguaci in linea con questo modello, e nelle forme comuni anche al Giudaismo contem60 poraneo e alle religioni ellenistiche . Nella doppia continuità così creata tra la prima rivelazione di Gesù e questa nuova – Giovanni, poi, le chiamerà entrambe pivsti~ (cfr. Ap 2, 13 e 14, 12), individuandone il cardine costante nella uJpomonhv e sottolineando che sulla loro osservanza si decide la salvezza (cfr. Ap 3, 10, e 13, 10; 14, 12) –, la memoria non è solo imposta come obbligo, ma si riproduce e riafferma come una memoria di Gesù, sottratta al «flusso della tradizione» e, per altro verso, precipitata e sancita testualmente come valida e definitiva. 3.2.1 Memoria, scrittura, canonizzazione Abbiamo già toccato più volte un aspetto che ora varrà la pena di fermarsi ad approfondire. La rivelazione che impone il dovere della memoria si fissa come testo scritto all‘origine, la scrittura si sovrappone da subito all‘esperienza e si identifica con essa: questo è quanto riferisce e vuol far credere Giovanni. In ogni caso, il testo scritto è quanto noi possediamo per provare a descrivere ed analizzare l‘esperienza che lo ha generato. Dodici volte, ad aprire, intervallare o chiudere le visioni, incalza l‘imperativo «gravyon» sulla bocca di esseri celesti che poi dettano (Ap 1, 11.19; 2, 1.8.12.18; 3, 1.7.14; 14, 13; 19, 9; 21, 5); momenti delle visioni stesse arrivano a coinvolgere la realtà e le reazioni delle comunità in quanto premio o castigo, riportato nel rotolo, per la loro risposta alla rivelazione lì trascritta (Ap 22, 18-19), oppure possono richiudersi sull‘esperienza di Giovanni, per un esplicito divieto di trascrizione (Ap 10, 3-4). C‘è di più. Le corrispondenze formulari tra Ap 22, 18-19 e Dt 4, 1-2; 12, 32; 29, 19-20 mirano a conferire al rotolo lo status di «new law code to a 60

Cfr. analisi e conclusioni in Destro – Pesce, 2007a, pp. 40-55.

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Introduzione 61

new Israel, which is modeled on the old law code to ethnic Israel» , a garantirgli una forza vincolante che si opponga a tempo, continuazioni, variazio62 ni . Riemerge, in una nuova modulazione, quel tema della rivelazione ―profetica‖ fonte e garanzia di un testo pubblico che configura il rapporto fra profezia e torah, fra ispirazione profetica e canonizzazione, come un rapporto 63 teso e conflittuale di reciproca implicazione e interdipendenza . Al di là dei singoli punti di contatto ideologici con i testi citati di Flavio Giuseppe e Filone, il quadro che si va ricomponendo corrisponde al modello 64 implicito di memoria profetica offerto dal Vangelo di Giovanni : esistono e circolano parole e insegnamenti ricevuti direttamente da Gesù e tradizioni su di lui, il suo passato, che sono e devono essere ricordati e trasmessi (cfr. Gv 14, 25 e 15, 20); lo Spirito rivela solamente ciò che ascolta, ciò che prende da Gesù (cfr. Gv 16, 12-15), e, nel suo nome, genera e alimenta l‘attività del ricordo, intesa probabilmente come «tecnica di interpretazione delle parole di Gesù in situazioni che ordinariamente (prese di per sé, senza riferimento 65 alle parole di Gesù) non veicolano significati particolari» (cfr. Gv 14, 2526; 15, 26-27; 16, 8-11); le esperienze di rivelazione dello Spirito sono immaginate sul modello del ―profetismo‖ di Gesù, e tendono a riprodurne un elemento costituivo, la ricerca e le pratiche di contatto con il soprannaturale (cfr. Gv 1, 32-33.50-51; 3, 11-13; 12, 27-30.37-41; 20, 19-23); la memoria è fissata in un testo scritto ispirato e normativo (cfr. Gv 2, 22; 6, 5-6.64; 7, 3840; 19, 35-37). Abbiamo già incontrato più volte e commentato il ricorrere di tutti questi elementi in Ap: se il Vangelo di Giovanni è stato giustamente definito «o66 pera ―profetica‖» , nulla di fatto ci impedisce di pensare ad Ap come ad una forma letteraria della memoria pneumatica di Gesù esercitata nei gruppi gio61

Beale, 1998, pp. 95-98 (citazione p. 95). Cfr. il contemporaneo Flavio Giuseppe, C. Ap. 1, 42, sulle scritture ebraiche: «Dh'lon dÆ ejsti;n e[rgw/ pw'~ hJmei'~ provsimen toi'~ ijdivoi~ gravmmasi: tosouvtou ga;r aijw'no~ h[dh parw/chkovto~ ou[te prosqei'naiv ti~ oujde;n ou[te ajfelei'n aujtw'n ou[te metaqei'nai tetovlmhken, pa'si de; suvmfutovn ejstin eujqu;~ ejk prwvth~ genevsew~ ÆIoudaivoi~ to; nomivzein aujta; qeou' dovgmata kai; touvtoi~ ejmmevnein kai; uJpe;r aujtw'n, eij devoi, qnhvskein hJdevw~» (corsivo mio; cfr. anche Filone, Mos. 2, 34). Qualche decennio più tardi, Artemidoro di Daldi, Onir. 2, 70, concluderà similmente il suo secondo libro: «Devomai de; tw'n ejntugcanovntwn toi'~ biblivoi~ mhvte prosqei'nai mhvte ti tw'n o[ntwn ajfelei'n» (corsivo mio). A sorvegliare e punire è invocato l‘Apollo di Daldi, più volte apparso ad Artemidoro in sogno o in visione (ejpistav~), per ordinargli di comporre il suo trattato (keleuvsa~ tau'ta suggravyai). Per un‘analisi più dettagliata dei processi di testualizzazione e canonizzazione, rimando ad Assmann, 1997, pp. 63-68. 63 Cfr., in particolare, Grottanelli, 2003, pp. 37-47. 64 Metto a frutto le analisi di Mussner, 1968; Theobald, 2002, pp. 600-615; Destro – Pesce, 2003; Thatcher, 2005, pp. 82-85. 65 Destro – Pesce, 2003, p. 96. 66 Ibid., p. 105. 62

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vannisti, alternativa a quella che trova espressione in Gv . Questa scrittura, sancita e legittimata dall‘angelo, con la memoria, fissa una specifica visione di Gesù, ora non più negoziabile, e la investe di autorità particolare, fra le tante disponibili e concorrenti; per un altro verso, non esclusivo, ma complementare, nascendo a distanza dai destinatari reali e dalle loro pressioni, e ricreandoli all‘interno del proprio progetto retorico, sociale, religioso, libera e sviluppa le potenzialità di quella memoria non solo di rafforzare, ma anche 68 di sfidare e trasformare l‘identità dei gruppi cui si rivolge . Progetto e potenzialità, questi, tanto più rilevanti e decisivi quanto più ascoltatori e lettori impliciti sono, invece, quasi paradossalmente, immaginati vicini e presenti. 3.2.2 Verso la trasformazione: la lettera di Giovanni A Norelli (1995a, p. 171) si deve ancora un‘osservazione, che, se nasce come risultato dei suoi tentativi di ridefinire le ―apocalissi‖ e coglierne lo sviluppo storico e letterario, al tempo stesso, per chiarezza, si impone come dichiarazione di intenti e progetto da perseguire: «è ancora importante sottolineare l‟orientamento dei testi apocalittici ai “lettori virtuali” nel senso comunemente adoperato nella teoria letteraria: i lettori che un autore ha in mente nel comporre la propria opera, cioè il gruppo storicamente definito cui si dirige. Si tratta di un‟istanza cui si dovrebbe dedicare particolare attenzione a proposito delle apocalissi, che sembrano in generale rivolgere le loro rivelazioni in primo luogo a destinatari ben definiti; pur mantenendo quindi la qualità di comunicazione a due tempi, propria dei testi letterari, esse sembrano presupporre una minore distanza tra le due fasi» (corsivo mio).

Se ne può dedurre, quindi, che una ―apocalisse‖ inviata come lettera accorcerebbe ulteriormente questa distanza. Con argomenti convincenti, M. Karrer ha dimostrato che Ap, nella sua interezza, è una lettera e che, in quanto tale, si articola come forma di comunicazione i cui estremi non indeterminati, ovvero autore e destinatari, sono 69 geograficamente e temporalmente separati . 67

Sui conflitti fra i diversi gruppi giovannisti, l‘esigenza di rivelazioni, e la produzione di memorie e contro-memorie di Gesù, orali e scritte, cfr. ibid., pp. 104-105; Destro – Pesce, 2005, pp. 345-350; Thatcher, 2005, pp. 94-97. 68 Cfr. le riflessioni di Thatcher, 2005, pp. 85-97, e Kelber, 2005, pp. 227-229, sulle specificità della comunicazione scritta rispetto a quella orale. 69 Cfr. Karrer, 1986, in particolare, pp. 285-312, e 1989. Si misurano con la sua tesi, e, in vario grado, ne approfondiscono criticamente i contenuti Pezzoli-Olgiati, 1997; Ulland, 1997, in particolare, pp. 21-26; Roose, 2000; Giesen, 2000a, in area tedesca; Bauckham,

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Introduzione

Nella pratica epistolare antica, la lettera è concepita come succedaneo 70 del discorso parlato, diretto, faccia a faccia . Di volta in volta, quindi, il mittente attingerà dal repertorio di forme letterarie a sua disposizione: «was der von ihm angestrebten Kommunikation am besten zu dienen scheint. Zwischen den vorgegebenen literarischen Ausdrucksformen und den einzelnen Stilmitteln, auf die ein Autor zurückgreifen kann, ihren spezifischen Anwendungen und den verschiedenen Möglichkeiten der schriftlichen Kommunikation zwischen räumlich Getrennten sowie den mit der Kommunikation verfolgten Zielen besteht eine Interdependenz» (Schnelle, 1996, p. 51).

La costruzione e rappresentazione di una memoria di Gesù, nella visione, fa parte di questo dialogo in absentia e rientra nella strategia retorica messa in atto per individuare e definire l‘identità dei suoi seguaci nel mondo del testo e, così, intervenire sulla percezione della realtà e dell‘identità delle 71 sette comunità storiche . 3.2.3 La memoria come segno Interpretazioni e ri-contestualizzazioni dischiudono aspetti di una realtà 72 e di una verità che vanno al di là della mera fattualità storica . Strutture e contenuti di significato nuovo aggiungono spessore alla descrizione e spiegazione degli eventi; la rivelazione, in quanto accesso al territorio di conoscenza divino, «attesta» – è il linguaggio di Giovanni –, e legittima una dimensione del presente sperimentato e delle sue appendici passate e future 73 altrimenti non avvertita o avvertibile . L‘esperienza ―profetica‖ straordinaria che ha per soggetto Dio e Gesù Cristo, e la retorica gesuana che la alimenta vogliono modificare e ordinare, in una prospettiva nuova e sensata, l‘esperienza quotidiana delle comunità, i

1993a, in particolare, pp. 38-91 e 174-198, e 1993b; Garrow, 1997, in area anglosassone. Ho cercato di dimostrare più ampiamente il carattere epistolare dello scritto sulla base dell‘unità referenziale interna di lettere (Ap 2-3) e visioni (Ap 4-22) in Tripaldi, 2008. 70 Cfr. Cicerone, Att. 1, 6, 8; 9, 10, 1; 12, 39, 2 e 53; 13, 18; Quint. fratr. 1, 1, 45; Fam. 2, 9, 2; Seneca, Ep. 40, 1; 67, 2; 75, 1; 1 Cor 5, 3; 2 Cor 10, 10-11; Col 2, 5; Gregorio di Nazianzo, Ep. 87, 1-2 e 93, 1-2; Basilio di Cesarea, Ep. 27; 197, 1; 226, 1; 239, 1; 269, 1. 71 Cfr. le importanti riflessioni teoriche di Karrer, 1986, pp. 41-48, sull‘interazione fra le diverse istanze di autore e lettori sviluppate dalla lettera nel suo farsi. 72 Cfr. Berger, 1991a, pp. 124 e 139-141, e 2002, pp. 63-70 e 93-98, e Schüssler Fiorenza, 1994, pp. 49-52. Più in generale, Devisch, 1978b, pp. 282-288. 73 Sulla percezione del tempo nel mondo mediterraneo antico, cfr. Malina, 1996, pp. 179-214, e, più sistematicamente e con rilevanza diretta per l‘ Ap, Afzal, 2008, pp. 16-36.

Esperienza, identità, memoria: riflessioni preliminari

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loro fatti e problemi concreti, e confermarne o ri-orientarne valori, compor74 tamenti, pratiche . Questo costituirsi della visione-testo in «momenti analitici» e «momenti 75 rivelativi» , in riferimenti storici e paradigmi simbolici, senza che i confini possano essere chiaramente distinti, sottolinea, sul piano retorico-letterario, la fusione dei generi ―lettera‖ e ―apocalisse‖ e l‘unità dello scritto, e spiega il parallelismo di destini costruito a legare la vicenda storica di Gesù e quelle sparse dei suoi seguaci. Nelle visioni, insomma, la memoria di Gesù è oggettivata su linee di continuità con il presente ed il futuro delle comunità, e attualizzata, per dirla con Giovanni stesso, come segno, «shmei'on» (cfr. Ap 12, 1.3), come figura simbolica che significa la dimensione passata fondante delle esperienze storiche delle comunità e che, nella nicchia di autorità creata dal contatto con il divino, genera la ―verità‖ di realtà ed identità alternative, da e oltre le con76 traddizioni ed i conflitti percepiti nel quotidiano . 4. MEMORIA DELL‘ESPERIENZA, ESPERIENZA DELLA MEMORIA: UNA PROPOSTA DI RICOSTRUZIONE Articoleremo la nostra ricerca in due parti principali. La prima (cap. 1) sarà tutta concentrata sulla costruzione dell‘esperienza estatica di Giovanni. Non mi interessa sapere se Giovanni abbia realmente visto quello che ha visto o se è tutto una finzione letteraria, tanto più che questi estremi non si escludono a vicenda. Ciò che mi preme è piuttosto rile74

Cfr. Pezzoli-Olgiati, 1997, e Ulland, 1997. Arcari, 2008, pp. 252-320, offre un‘ottima ricostruzione del contesto storico e sociale su cui l‘autore di Ap intende intervenire. Non sarei tuttavia altrettanto reciso e radicale nell‘escludere ogni riferimento a Roma e al suo imperium dalla rappresentazione della prostituta di Ap 17: proprio nella «polimorfa ambiguità» dei simboli apocalittici evocata da Arcari (p. 296), e già acutamente percepita da Koch (1989, pp. 430-440) si sviluppa quella continuità e sovrapposizione progressiva fra Gerusalemme e Roma, così bene evidenziata di recente dalla Andrei (2007, pp. 17-23). Dopotutto, agli occhi di Giovanni, gruppi avversari, Israele decaduto e genti di fatto coincidono, come Arcari stesso non manca più volte di notare (cfr. anche Roose, 2000, pp. 189-199); è su questa identificazione tout court che si crea un gioco di specchi costante fra Roma e Gerusalemme, impero e Israele, i segni che esprimono e rivelano i loro destini. La prostituta di Ap 17 sarebbe allora un «tensive symbol», ovvero un simbolo il cui complesso di significati non è né esaurito né adeguatamente espresso da un unico referente (cfr. Perrin, 1976, pp. 29-32). Rientrate sulla scena Roma e la sua espansione politica e culturale, tornano utili, dando profondità all‘analisi esegetica, anche le osservazioni di Beneduce, 2006, in particolare, pp. 276-278 e 281-295, e Horsley, 2008, sul rapporto fra trance/possessione e dominio coloniale. 75 La terminologia è di Turner, 1975, pp. 15-33. Cfr. anche le precisazioni di Werbner, 1989, pp. 24-26. 76 Cfr. le lucide pagine di Norelli, 1995a, pp. 196-199. Più generali, ma non meno significative si presentano le riflessioni di Beneduce, 2006, pp. 241-260 e 265-295.

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Introduzione

vare attraverso il testo, e descrivere come Giovanni abbia immaginato l‘esperienza che nel testo rappresenta, e all‘interno di quale immaginario socio-culturale più ampio questa immaginazione si collochi e acquisti senso. L‘accento cade e cadrà, anche quando non esplicitato, sempre su questi due elementi. In questa direzione, la struttura binaria di fondo del capitolo e l‘efficacia dell‘analisi comparativa dovranno rispondere a – e di – quelle esigenze di riflessione teorica e integrazione con testi in corrispondenza ideologica cui già sopra accennavamo. La seconda parte (capp. 2-3) affronterà la costruzione della memoria, piegando alle specificità del testo di Giovanni una classificazione corrente nella ricerca sul Gesù storico. In un primo momento (cap. 2), ci concentreremo sui logoi che possano risalire a tradizioni gesuane: proveremo a riesaminare l‘evidenza finora raccolta dagli studi precedenti, sfruttando principalmente gli elenchi di Vos (1965, pp. 218-219) e Segalla (2000, pp. 121-129), e, dove possibile, passeremo ad ampliarla ed arricchirla. Per il confronto e l‘identificazione, non ci limiteremo al materiale sinottico e giovanneo, ma ci muoveremo nel più vasto spettro della letteratura cristiana antica, analizzando i possibili paralleli caso per caso, senza privilegiare, pregiudizialmente, il ―canonico‖ rispetto al 77 ―non canonico‖ o all‘ ―apocrifo‖, l‘ ―ortodosso‖ rispetto all‘ ―eterodosso‖ . Se rimane evidente che «il racconto evangelico del Gesù terreno sta ai margini della narrazione apocalittica o se si vuole è il fondamento nascosto nelle sue pieghe» (Segalla, 2000, p. 118), ne segue anche che ridursi a rintracciare solo citazioni in vario grado o allusioni più o meno letterali non è sufficiente. Mantiene pertanto la sua validità la proposta di Segalla (ibid.) – che diventa poi tentativo – di ricorrere al metodo della «intertestualità»: «può trattarsi di parole, di sintagmi, di allusioni e di citazioni implicite, che il nuovo testo utilizza e con cui entra in tensione dialogica. All‘interprete spetta il compito di far sentire le risonanze dei testi intrecciati e spiegare che trasformazione hanno subito, per capire il senso attuale nel richiamo al testo precedente».

È necessaria tuttavia una puntualizzazione. Gli elevati livelli di analfabetismo nel mondo mediterraneo antico, la centralità della lettura ad alta voce, privata e pubblica, le caratteristiche fisiche stesse dei testi prodotti (scriptio continua; assenza di un sistema visibile di divisioni interne; frequenza di scansioni per anafora, parallelismo, inclusione, allitterazione) rimandano tut78 ti a contesti di fruizione fondamentalmente orale . Ciò non significa che, nel 77

Su questa esigenza ineludibile per una ricerca storica il più possibile obiettiva, cfr. Norelli, 2008. 78 Cfr. i dati e le conclusioni di Esler, 2005, pp. 152-155.

Esperienza, identità, memoria: riflessioni preliminari

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nostro caso, Giovanni non potesse avere – o non avesse – accesso diretto ai testi che utilizzava e intrecciava al suo, ma solo che è alta la probabilità che li conoscesse e citasse a memoria, e che, quando li riproduce e trascrive, lo 79 faccia secondo modalità tipiche della comunicazione orale . Se è vero allora che i testi scritti stessi sono l‘unica fonte a disposizione dell‘interprete per rintracciarne le risonanze reciproche, spesso seguendo la propria logica di una copiatura passiva più o meno fedele, è altrettanto vero che non si può e non si deve sovrapporre acriticamente la situazione storica, i paradigmi culturali e i procedimenti esegetici dell‘interprete moderno alla situazione storica e al modus operandi più verosimile dell‘autore dell‘Apocalisse: questi poteva attingere non solo a tradizioni orali complementari o alternative ai testi, ora più o meno ricostruibili dall‘interprete, ma anche a versioni ri-oralizzate di quegli stessi testi, vere e proprie variazioni sul ―canovaccio‖ offerto dal materiale scritto; tutte e tre queste tipologie di ―fonti‖ erano, poi, a loro volta suscettibili non tanto di una ripetizione meccanica, quanto di ulteriori modu80 lazioni e attualizzazioni nello stile di una performance orale . Ripensato e precisato in tal senso, il metodo della «intertestualità» proposto da Segalla, pur prospettando risultati più sfumati, nella loro maggiore complessità, acquista in profondità storica e sensibilità critica nell‘identificare e ricostruire tradizioni e ―traiettorie‖ gesuane. Nel secondo momento (cap. 3), infine, dopo aver ricapitolato i riferimenti che materializzano, storicamente e geograficamente, la vicenda del Nazareno, per essere conosciuti e ricordati esplicitamente da Giovanni, tenteremo di fare luce sugli e[rga di Gesù, cui Ap stessa accenna (2, 26), menzionando pivsti~ (2, 13 e 14, 12), uJpomonhv (3, 10), lovgo~ (3, 8). Due volte, Gesù viene detto aver vinto (3, 21 e 5, 5: «ejnivkhsa»/«ejnivkhsen») e due volte, aver riscattato (1, 5: «luvsa~», e 5, 9: «hjgovrasa~»). Questa vittoria è la premessa all‘intronizzazione sul trono del Padre suo (3, 21), alla consegna del rotolo sigillato e al tributo celeste di gloria e onore (5, 5-14). L‘analisi di 79

Cfr. le osservazioni di Flavio Giuseppe sulla tecnica compositiva di chi scrive storia in B.J. 1, 15, e i ―doppioni‖ in B.J. 1, 78-80 e A.J. 13, 311-313, B.J. 1, 373-379 e A.J. 15, 127146, B.J. 2, 111-113 e A.J. 17, 345-348, con gli elementi di repetitio scritta e orale esposti nella letteratura pseudo-clementina (Ep. Clem. 19-20 e Rec. 1, 23, 5-7). Sono di fatto gli stessi procedimenti che, in forma più elaborata e a uno stadio più avanzato di riflessione teorica, sottendono alle exercitationes retoriche nel parlare (dicendo) e nello scrivere (scribendo), rimandando alle origini e al carattere essenzialmente orali dell‘arte oratoria (cfr. Quintiliano, Inst. 1, 9, 2-3, e 10, passim, e Porter 1997, pp. 480-501). Va quindi sfumata l‘opposizione netta tra una visione prettamente oralista (cfr. Lord, 1978) ed una prettamente retorico-letteraria (cfr. Talbert, 1978, in risposta allo stesso Lord) delle relazioni fra testi. In questa direzione, si segnalano le considerazioni metodologiche e l‘analisi di Uro, 2003, pp. 106-133. 80 Cfr. Berger, 1984, pp. 12-13 e 15-16; Dunn, 2003, pp. 192-253; Esler, 2005, pp. 164166 e 167-168; Kelber, 2005, pp. 226-239, e 2006.

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Introduzione

storia delle tradizioni che dedicheremo a due pericopi in particolare, Ap 11, 3-12 e 12, 1-18, si presterà, infine, ad individuare e chiarire l‘universo simbolico di cui questa memoria si nutre e in cui viene collocata e ridefinita, caricata di significato e rivissuta.

CAPITOLO PRIMO

TRA VISIONE E TESTO LETTERARIO: FENOMENOLOGIA DI UN‘ESPERIENZA ―PROFETICA‖

L‘Apocalisse, dicevamo, nasce esperienza estatica. Nello schema schizzato nel breve prologo alla lettera (Ap 1, 1-3), Giovanni la descrive tra i due poli della «rivelazione» («ajpokavluyi~») e della visione («o{sa ei\den») mediate da personaggi del mondo soprannaturale: Gesù Cristo «mostra» (deivknumi) e «indica» (shmaivnw), inviando un angelo, Giovanni vede e «testimonia» (marturevw). L‘esperienza si fa poi testo: sono le «parole della profezia» (oiJ lovgoi th'~ profhteiva~), lette e ascoltate in seno alle comunità 1 dei seguaci di Gesù. In mezzo, la letterarizzazione . Giovanni comprende e si esprime nei termini della propria immaginazione culturale: non esiste profhteiva senza svelamento o manifestazione di 2 ciò che è nascosto a forme di conoscenza ordinaria , senza «visione» (Ap 9, 17: o{rasi~; cfr. Sir 46, 15 e 48, 22.24-25), senza parole, comunicazione, nel 3 nostro caso, scritta . Risalire controcorrente ai contorni di questa esperienza ―profetica‖ passa inevitabilmente per una lettura profonda del testo, oltre la letterarizzazione, e questa, a sua volta, non può prescindere da una integra4 zione comparativa delle categorie di Giovanni . Si impone quindi, come pri1

Cfr., più in generale, Yarbro Collins, 1996, pp. 1-20, e, nello specifico, Frenschkowski, 2005, pp. 21-29. 2 Di contro ad ajpokavluyi~, di uso abbastanza periferico e asistematico, al di fuori della produzione ―apocalittica‖ giudaica e cristiana, deivknumi e shmaivnw sono termini tecnici, rispettivamente, anche del linguaggio misterico e mantico, sempre per «svelare, rivelare ciò che è segreto»; cfr., più approfonditamente, Frenschkowski, 1995, pp. 267-276, con bibliografia. Su deivknumi, cfr. H.Cer., 474-476 (di Demetra); Aristofane, Ran. 1032 e [Euripide?], Rhes. 943-944 (di Orfeo); Diodoro Siculo 5, 48, 4 (di Zeus), ma cfr. anche Corp. herm., fr. 23, 5 (di Ermes) e PGM III, 599 (del dio); su shmaivnw, cfr. Eraclito fr. 93 (della Pizia); Senofonte, Mem.1, 1, 2-4 (del daimovnion di Socrate e degli dei); Arriano, Epict. diss. 1, 17, 18-19 (di divinatori, viscere, corvi e cornacchie); Dione Crisostomo, Or. 1, 64 (di Zeus mediante uccelli, sacrifici e ogni sorta di mantikhv) e 34, 4 (di aquile e falchi); Elio Aristide, Or. 51, 1 e 52, 1 (di Asclepio in sogno); Artemidoro di Daldi, Onir. 1, 22-23.32 e 2, 2-5.8 (di sogni; nell‘ultimo passo, in coppia con deivknumi); Ezechiele tragico in Eus., Praep. ev. 9, 29, 6 (di sogno); Flavio Giuseppe, A.J. 10, 238.240 (di scrittura divina). 3 Cfr. Frenschkowski, 2005, pp. 398-400. 4 Cfr. le indicazioni programmatiche dell‘ Experientia Group formatosi presso la SBL in Flannery, 2008a, pp. 1-2 e 5-6, e 2008b, p. 16. Sull‘aspetto teorico del problema, rimando alla discussione in Burke, 1992, pp. 44-47; Pilch, 1996, pp. 134-136; Fabietti, 1999, pp. 111-

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Capitolo primo

ma esigenza critica, di sviluppare un modello politetico flessibile, capace di 5 vedere e descrivere ciò che Giovanni intende per ―profezia‖ . 1. COMUNICAZIONE

CON IL MONDO SOPRANNATURALE E STATI ALTERATI DI COSCIENZA: LA

―PROFEZIA‖

Primo passo fondamentale verso la costruzione di questo modello si è rivelato lo spoglio dei dati letterari – e non solo – provenienti dal mondo 6 mediterraneo antico . Questo ha poi costituito, in seconda battuta, la base documentaria e la cartina di tornasole per la comparazione con fenomeni o e7 sperienze religiose analoghe presenti in altre culture e società . Ciò che Giovanni riconosce, individua e chiama profhteiva appare rientrare tra le pratiche di contatto e comunicazione con realtà altre dall‟esperienza umana quotidiana, che sono percepite fondarla o quantomeno conoscerla, nella sua dimensione profonda, in qualunque forma esse siano poi presupposte nelle diverse cosmologie (antenati; spiriti; una gerarchia di divinità più o meno influenti; il Dio supremo o unico).

226. Valgono anche, nello specifico, le lucide osservazioni finali di Frenschkowski, 2005, pp. 28-29. 5 Cfr. definizioni, indicazioni e caveat in Malina, 1983, pp. 11-25; Elliott, 1986, pp. 133; Burke, 1992, pp. 28-33. Un modello politetico si configura in relazione ad un gruppo, «in which membership does not depend on a single attribute. The group is defined in terms of a set of attributes such that each entity possesses most of the attributes and each attribute is shared by most of the entities» (Burke, 1992, p. 32). 6 Cfr., in particolare, fosse solo per la mole di materiale raccolto, Aune, 1996, pp. 52103; 157-171; 195-283, a cui vanno affiancati Frenschkowski, 1995, pp. 266-347, e Forbes, 1995, pp. 103-217 e 279-312. Cfr. anche Halliday, 1913; Dodds, 1956, in particolare, capp. 35, e 1965, in particolare, capp. 2-3; Burkert, 1962, pp. 36-55, e 2005; Lindblom, 1968; Gunkel 1979; Niditch, 1980; Wilson, 1980; Overholt, 1982; Id., 1986; Id., 1989; Catastini, 1990; North, 1990; Garland, 1990, in particolare, pp. 82-90; Vernant, 1991, pp. 303-317; Berger, 1992; Brenner, 1993; Cryer, 1994; Grabbe, 1995, in particolare, pp. 85-98 e 119-151; Maurizio, 1995; Douglas, 1999, in particolare, pp. 109-133; Nissinen, 2000 e 2003; Nasrallah, 2003; Cancik-Kirschbaum, 2003; Grottanelli, 2003; Stone, 2003; Sfameni Gasparro, 2004; Iles Johnston – Struck 2005; Filoramo, 2005, pp.151-290. 7 Cfr. Evans-Pritchard, 1937, in particolare, pp. 148-182 e 258-386; Eliade, 1953; Elliott, 1955; Beattie, 1964; Lewis, 1971; Jordan, 1972, in particolare, pp. 60-86; Turner, 1975, pp. 207-338; Blacker, 1975; Zuesse, 1975 e 1987, pp. 375-382; Devisch, 1978a, pp. 173-189, e 1978b, in particolare, pp. 270-288; Peters – Price-Williams, pp. 1980; Tedlock, 1981; Ahern, 1981, in particolare, pp. 45-63; Werbner, 1989, in particolare, pp. 19-60; Blier, 1991; Meyer, 1991; Devisch, 1991; Shaw, 1991; Anderson – Johnson, 1991; Goodman, 1994; Eglash, 1997; Townsend, 1997; Comba 2001; Walsh, 2003; Lapassade, 2008.

Tra visione e testo letterario

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Fin qui nulla, dunque, che nella sostanza distingua la profhteiva dalla 8 divinazione o dalla consultazione oracolare . Anzi, possiamo dire, piuttosto, che essa si presenta come forma specifica di divinazione, basata non tanto sulla trasmissione e lo studio della letteratura omenistica, o sull‘esperienza pratica dell‘interpretazione di segni riconosciuti come inviati dal mondo soprannaturale (volo di uccelli, disposizione di viscere o ossa, corpi celesti, stormire di fronde, movimenti di statue), quanto su esperienze estatiche personali del profhvth~ (o anche dou'lo~, nella terminologia di Giovanni: cfr. Ap 1, 1; 10, 7; 22, 9), che a quello danno diretto accesso (cfr. la catena rive9 lativa Dio – Gesù Cristo – angelo – Giovanni in Ap 1, 1-2) : visioni, sogni, audizioni, rivelazioni, viaggi celesti, possessione aprono, garantiscono e autorizzano socialmente un canale comunicativo fruibile tra il soprannaturale e gli esseri umani. Il flusso di informazione e significato che ne deriva e le esperienze reli10 giose di intersezione e ―sconfinamento‖ , sulle quali si innesta, presuppongono di caso in caso differenti interpretazioni culturali di alterazioni nello 11 stato di coscienza del soggetto che ne è al centro . Queste modificano funzioni fisiologiche, sensazioni, percezioni, pensiero e sentimenti, e finiscono con l‘incidere anche sulla «relazione dell‘individuo con sé stesso, il corpo, il proprio senso d‘identità, e l‘ambiente circostante, con il tempo, lo spazio e 12 altre persone» . 8

Cfr. Berger, 1992, pp. 219 e 229, che parla indifferentemente di «prassi mantica» o «cultura mantica» soggiacente alla letteratura di visione di ambiente giudaico-cristiano ed ellenistico-romano. 9 Overholt, 1989, pp. 21-25 e 117-147, e Cancik-Kirschbaum, 2003, pp. 43-51. Cfr. la tipologia che Zuesse chiama «possession divination» (1987, pp. 376-378) e Grabbe «spirit divination» (1995, pp. 136-141 e 150-151). Vedi anche Turner, 1975, pp. 15-16 e, in particolare, 207 e ss. Importante e necessaria comunque la puntualizzazione di Peek, 1991a, pp. 122, sulla tendenza di questi modi a sovrapporsi e confondersi nelle pratiche divinatorie: «All analyses try to distinguish those forms involving ecstatic states from those performed in normal states of conciousness, yet the only real difference between them is that in ecstatic states the occult powers “speak” through the diviner rather than the divinatory apparatus. All divination forms involve a non-normal state of inquiry which then requires a ―rational‖ interpretation of the revealed information by the client if not by the diviner» (p. 12; corsivo mio). Lo segue Maurizio, 1995, pp. 80-81 e 83, che parla di «possessione» di agenti umani e/o non umani. Cfr. anche Evans-Pritchard, 1937, pp. 313-322 e 359-364; Tedlock, 1981, pp. 163-165 e 169-170; Werbner, 1989, pp. 20-21 e 32-34; Blier, 1991, pp. 83-88; Meyer, 1991, pp. 95-98; Devisch, 1991; Shaw, 1991, pp. 145-149; Goodman, 1994, pp. 64-71 e 134-135; Graf, 2005, in particolare, pp. 65-78. 10 Cfr. Iles Johnston, 2005a, in particolare, pp. 10-16 e 22, e 2005b, pp. 299-301; Burkert, 2005, in particolare, pp. 30-36 e 48. 11 Cfr. Peek, 1991b, in particolare, pp. 197 e 199-202. 12 Cfr. Bourguignon 1973; Ead., 1976; Ead., 1979, p. 236; Goodman, 1972, in particolare, pp. 58-86; Ead., 1989; Ead., 1991; Ead., 1992; Winkelmann, 1997. Su stati alterati di coscienza e interpretazione dell‘esperienza religiosa negli scritti confluiti nel canone neote-

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Capitolo primo

Nella realtà, i concetti stessi di stato e di stato cosciente normale, oltre che fuorvianti ed arbitrari, cristallizzano quello che nei fatti è stato definito 13 un «multidimensional dynamic flow of experience» , un continuum di reazioni pre-formate e insorgenti sotto determinate condizioni (per esempio, veglia, sonno, sogno, stato ipnagogico, stato ipnopompico, ipnosi, schizofre14 nia, coma) , nel quale le transizioni dall‘una all‘altra sono alquanto fluide. Tali transizioni possono occorrere spontaneamente oppure essere indotte. In questo quadro complesso, a cui qui possiamo solo accennare, le esperienze che noi chiamiamo estatiche si vengono a configurare, nel loro proprio specifico, come ingresso cercato o involontario, immediato o guidato in quegli stati alterati di coscienza che si raggruppano sotto la più ampia classi15 ficazione di trance(s) . Di per sé queste non hanno contenuto, essendo con16 dizioni neurofisiologiche, per così dire, vuote, culturalmente riempibili , ma non è escluso che le tecniche in grado di stimolarle e le diverse reazioni neuro-fisiologiche che innescano finiscano poi per evocare, quasi dettare, i ca17 ratteri specifici dell‘esperienza stessa . Ciò che le definisce in senso stretto è la dissociazione da sé e dagli altri: da un lato, è inibita la trasmissione delle percezioni di peso, spazio, tempo, moto volontario, dolore, confini identitari, dall‘altro, si intensifica la consapevolezza della presenza del corpo nella sua totalità, come frontiera dell‘individuo e capacità di renderlo attivo. Le manifestazioni esteriori di tali stati dissociativi spaziano dall‘incoscienza totale alla leggera distrazione, dall‘euforia e dal rapimento, anche violenti, alla catalessia. Tra i fattori, infine, che li possono ingenerare, si contano ipnosi, paura o tensione, pratiche di meditazione, digiuno, preghiera, agenti biochimici – profumi, incenso, o allucinogeni – musica e danza, malattia e afflizioni fi18 siche, sonno .

stamentario, e nella letteratura giudica coeva, cfr., soprattutto, Pilch, 1995; Id., 1996, in particolare, pp. 133-138; Id., 1998; Id., 2002; Id., 2004, in particolare, pp. 1-11 e 170-187; Vollenweider, 2005; Lawrence, 2005, in particolare, pp. 49-52; Segal, 2006; Lietaert Peerbolte, 2008; Shantz, 2008. 13 Walsh, 1993, in particolare, p. 745. 14 Pilch (2002, p. 35, e 2004, p. 181) ne elenca una ventina in tutto. 15 Cfr. le frequenti osservazioni di Walsh, 1993, pp. 745 e 753-758, e Pilch, 2002, p. 35. 16 Cfr. Bourguignon, 1979, pp. 265-266; Goodman, 1989, p. 29; Pilch, 1995, pp. 53-57. 17 Cfr. Bourguignon, 1979, ibid.; Goodman, 1989, passim, in particolare, pp. 211-250; Ead., 1992, passim; Walsh, 1993, p. 758; Segal, 2006, pp. 34-37. 18 Cfr. Bourguignon, 1979, pp. 235-236; Goodman, 1992, passim; Walsh, 1993, p. 745; Pilch, 1995, p. 53; Winkelmann, 1997, passim; Segal, 2006, pp. 31-36; Lietaert Peerbolte, 2008, pp. 168-170; Shantz, 2008, pp. 198-202; Lapassade, 2008, pp. 183-189 e passim. Accurate fenomenologie antiche, sostanzialmente confermate dai dati moderni, offrono Apuleio, Apol. 42-43; Porfirio, Aneb. in Giamblico, Myst. 3, 2.4.9.11.14 (ed. Sodano); Giamblico, Myst. 3, 5 (ed. Sodano).

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Le fonti letterarie, papirologiche, e archeologiche, da un lato, la documentazione etnografica, dall‘altro, delineano un quadro sufficientemente accurato della diffusione di questi stati tanto nel mondo Mediterraneo antico quanto in quello contemporaneo e in altre società moderne, occidentali e non, da giustificare la conclusione che tutti potessero avere, cercare, procu19 rarsi direttamente visioni, rivelazioni, sogni, viaggi celesti . Che cos‘è dunque che crea un profhvth~? Ritorniamo su un punto già rilevato e mettiamone in luce uno nuovo. Innanzitutto, il profhvth~ comunica messaggi o compie azioni in rapporto ad una collettività più o meno ampia (cfr. Ap 1, 1.3; 22, 10.16.18), il contatto con il soprannaturale non sembra culminare in una unione mistica o contemplare il soddisfacimento dei propri interessi o bisogni, almeno non unicamente ed esclusivamente. In secondo luogo, – ed è ciò che mi preme più sottolineare –, nella sua esperienza personale, il profhvth~ è socialmente costituito e riconosciuto come intermediario mediante un rito di iniziazio20 ne (cfr. Ap 10) . Secondo una recente e mirata definizione (Destro – Pesce, 2000, p. 29), per iniziazione religiosa vanno intesi «i processi a cui una persona si deve sottoporre, sotto la guida di uno o più esperti, per acquisire una specifica formazione e un determinato grado di competenza e specializzazione in precisi ambiti (azioni rituali, atti magici, estasi, interpretazioni esoteriche, atti sacrificali, ecc.). La qualificazione religiosa non implica solo 19

Per un verso, basti qui citare l‘iscrizione di Onussanio, che ricorda la visione mattutina del nipote defunto e divinizzato (CIL VI, 3 nr. 21521; età augustea), il grande papiro magico di Parigi (PGM IV; III-IV sec.d.C), che contiene anche istruzioni per una ascesa al cielo in «spirito» (475 e ss.), e l‘epigrafe funeraria della profetessa Nana che riferisce di inni e preghiere, di visite angeliche e di una voce (IV sec.d.C.; testo greco e traduzione in Eisen, 1996, pp. 65-73); per l‘altro, si faccia riferimento agli esperimenti personali di Goodman, 1989, pp. 87-140 e 186-200, e Walsh, 1993, pp. 747-750. Cfr. anche le conclusioni di Dodds, 1956, pp. 116 n. 82 e 297, e Goodman, 1989, pp. 22-23, e 1991, pp. 30-31, e la statistica proposta da Pilch, 1996, p. 133: 437 su 488 (= 90%) società analizzate di ogni parte del mondo possiedono forme istituzionalizzate di stati alterati di coscienza. La percentuale nel solo mondo Mediterraneo si attesta all‘80%. 20 Overholt, 1989, pp. 17-25 e 141. Un rito è «un sistema di comunicazione simbolica costruito culturalmente. È costituito da sequenze di parole e atti, strutturati e ordinati e spesso espressi con molteplici mezzi, il cui contenuto e la cui disposizione sono caratterizzati in vario grado da formalismo (convenzionalità), stereotipia (rigidità), condensazione (fusione) e ridondanza (ripetizione). Nelle sue caratteristiche costituive, l‘azione rituale è performativa, in questi tre sensi: […] dire qualcosa è fare qualcosa, in quanto atto convenzionale; nel senso, abbastanza diverso, di una rappresentazione scenica che usa molteplici mezzi di comunicazione, grazie ai quali i partecipanti sperimentano intensamente l‘evento; e nel senso dei valori indicati […] essendo connesso con (e inferito da) gli attori durante la rappresentazione. […] Il suo contenuto culturale è radicato in costrutti cosmologici o ideologici particolari» (Tambiah, 1995, pp. 130-131).

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Capitolo primo

l‘assunzione di funzioni particolari o istituzionali (ad esempio quelle sacerdotali), ma l‘acquisizione di tutto ciò che è il risultato di un addestramento, di una precisa 21 esperienza o dell‘apprendimento di una tradizione sacra» .

Secondo P. Bourdieu (1991, pp. 117-119), la funzione essenziale soggiacente a questi riti è di carattere istitutivo, non tanto, cioè, il passaggio effettivo di una linea, quanto la consacrazione e legittimazione della linea stessa che viene tracciata: investendo attivamente qualcuno di un nuovo status o ruolo, nelle forme corrette e riconosciute, essi esprimono simbolicamente e impongono a chi ne è investito una identità personale e sociale percepita come seconda natura, e con ciò lo separano da chi questa identità non pos22 siede . Sulla scorta della classificazione proposta da M. Eliade (1987, p. 225), 23 si distinguono solitamente tre tipi di azione iniziatica : il primo tipo abbraccia i riti collettivi, diversamente obbligatori per tutti i membri di una comunità (circoncisione, infibulazione, cresima); il secondo ed il terzo coinvolgono solo gruppi di varie dimensioni, se non solamente singoli individui, e comprendono rispettivamente i riti di ingresso in società segrete, sette, confraternite, gruppi religiosi (battesimo, ordalie) e i riti di costituzione a specialista 24 religioso o a ruoli più prettamente politici (sciamano, sacerdote, capo, re) . I processi iniziatici possono essere pubblici e inglobare un ricco apparato simbolico come consistere in esperienze estatiche e trasmissione di conoscenze impartite da uno o più esseri soprannaturali, fermo restando che le due pos25 sibilità non si escludono a vicenda . 21

Cfr. anche Turner, 1967, in particolare, pp. 93-111. Bourdieu, 1991, pp. 117; 122-123; 125. 23 Lo schema opera già implicitamente in van Gennep, 1986, pp. 70-113. 24 Eliade stesso è conscio dei limiti e dell‘arbitrarietà di questa classificazione: secondo e terzo tipo avrebbero molto in comune e, più in generale, «despite their specialized uses, there is a sort of common denominator among all these categories of initiation, with the result that, from a certain point of view, all initiations are much alike» (1987, p. 225; corsivo mio). I confini tra primo e secondo tipo poi, a seconda delle condizioni geografiche, storiche e sociali, possono risultare molto fluidi, e i riti classificati oscillare tra l‘uno e l‘altro (penso, ad esempio, al battesimo cristiano, passato da rito d‘ingresso nei primi gruppi di seguaci di Gesù a rito collettivo nel mondo cattolico). Non ultimo, come scrivono Destro – Pesce, 2000, p. 29, la qualificazione religiosa non si limita necessariamente all‘assunzione di ruoli istituzionali o speciali. 25 Cfr. le ripetute annotazioni di Eliade, 1987, p. 226, e, soprattutto, 1988, pp. 166; 175176; 178; 184-185, e i casi etnografici riportati in Bourguignon, 1979, pp. 243-244; 247; 252257; Goodman, 1989, pp. 180-181; 188-189; 259, e 1992, pp. 47-51 e 56-59; Whyte, 1991, in particolare, pp. 157-158; Townsend, 1997, pp. 444-447. Cfr. anche Buss, 1981, in particolare, pp. 11-17. Discutono esempi dal mondo antico Shaked, 1999; Filoramo, 1999, pp. 140-145; DeConick, 2001, pp. 42-64; Camplani, 2002, pp. 116-117. Sulla diffusione di forme analoghe di iniziazione fra i gruppi di seguaci di Gesù, cfr. Lalleman, 1998, pp. 52-57; Destro – Pesce, 22

Tra visione e testo letterario

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Evidentemente, l‘iniziazione ―profetica‖ si accosta a quest‘ultima variante del terzo tipo: autoritativamente investendolo dall‘alto di poteri e competenze per l‘ingresso e la comunicazione con il mondo soprannaturale, informandolo su chi sia e chi debba essere, trasforma l‘iniziato nella misura in cui trasforma la percezione che questo ha di sé, inculcando il nuovo comportamento da adottare per conformarsi a tale rappresentazione. Fa inoltra in modo che altri vi si conformino, ri-orientandone rappresentazioni e aspettative, e incidendo decisivamente sul loro atteggiamento nei confronti 26 dell‘iniziato . In conclusione, ciò che Giovanni chiama profhteiva si rivela essere una forma di divinazione e, in quanto tale, si inserisce in un sistema di pratiche culturalmente definite e strutturate per produrre conoscenza e significa27 to, attingendo a fonti ritenute soprannaturali . L‘accesso a queste fonti, per garantire una corretta comunicazione tra mondo umano e mondo sovraumano, coinvolge e comporta, da parte del profhvth~, una attività sensoriale non normale, che ha la sua base in alterazioni degli stati di coscienza, in particolare “trances”, e che, variamente interpretata, ne definisce anche fisicamente la condizione liminale di interme28 diario, di portale tra i due mondi . Specializzazione nel dominio di tali stati e riconoscimento sociale della nuova condizione di intermediario costituito seguono ad una iniziazione che spesso è segnata da esperienze estatiche, o può svolgersi direttamente come 29 tale .

2000, pp. 35-110; Turner, 2000, pp. 128-137; DeConick, 2001, pp. 86-108 e 135-162, con qualche riserva sulla sua interpretazione di Gv. 26 Cfr. Bourdieu, 1991, p. 119. 27 Cfr. Grabbe, 1995, p. 107. Cfr. anche Peek, 1991b, pp. 193-212; Cryer, 1994, pp. 121-122; Forbes, 1995, p. 279. 28 Cfr. Peek, 1991b, pp. 197-199. 29 Cfr., per esempio, Devisch, 1978, p. 179-182, e Overholt, 1986, pp. 102-104; 106113; 122-123; 132-133, e 1989, pp. 27-68 e passim, che mostrano anche come processi iniziatici simili non si riducano a o coincidano necessariamente con la prima esperienza estatica del futuro ―profeta‖. Nel mondo antico, si segnalano forse, già, il caso di Isaia (cfr. le indicazioni temporali non perfettamente coincidenti offerte da Is 1, 1 e 6, 1), l‘esperienza di Erma, costitutito e confermato nel suo ministerium con visioni e viaggi estatici dispersi temporalmente e spazialmente nell‘arco di almeno due anni (cfr. Vis. 2, 1, 1; 2, 2, 1; 2, 3, 1-3; 3, 1, 1 – 3, 2, 4, e Sim. 10, 2, 2-4 e 4, 1), e la biografia di Mani, punteggiata di visioni fin dalla fanciullezza, ma segnata decisivamente dalla rivelazione ricevuta a ventiquattro anni (cfr. CMC 2, 2-11; 3, 214; 4, 2-13; 10, 21 – 11, 23; 13, 2-15; 14, 4 – 16, 23; 17, 23 – 26, 5). Secondo la ricostruzione di At 22, 6-21, presentata come autobiografica, dopo la prima visione sulla via di Damasco che ne produce la conversione (22, 6-16), interviene una seconda e[kstasi~ a sancire l‘invio in missione e quindi la nuova identità di apostolo di Saulo (22, 17-21).

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Capitolo primo

1.1 Tra testo e descrizione: uno schizzo teorico In questo senso, l‘Apocalisse di Giovanni si presenta come resoconto narrativo in prima persona, come resoconto diretto – raro, eppure spesso sottovalutato – di un‘esperienza ―profetica‖ personale all‘interno di un gruppo 30 di seguaci di Gesù (Ap 1, 1-3. 9-10) : in che modo la concepisce, dunque, e si concepisce Giovanni nel raccontarla? Non mi interessa qui sollevare la questione della sua veridicità, del suo contenuto di ―realtà‖ in sé e per sé, in proporzione alla sua elevata stilizza31 zione letteraria . Piuttosto, quello che mi attira è l‘immaginazione sociale dell‘autore/redattore, che si è sedimentata nello strato più profondo del te32 sto : l‘immaginazione che, implicitamente, dietro le parole, tra le frasi, riflette una fenomenologia del fatto ―profetico‖, vissuto in quanto tale da Giovanni e in quanto tale praticato, riconosciuto o almeno tollerato dalle comunità 33 cui Giovanni si rivolge e dal gruppo che Giovanni appoggia . Spogliando evidentemente entrambi delle sfumature più propriamente distintive, fatta salva la diversa natura delle fonti, credo che una dichiarazione programmatica di P.M. Peek (1991a, p. 11) sullo studio dei sistemi di divinazione – e la ―profezia‖, abbiamo visto, ne è uno – esprima e chiarisca questo mio interesse: 30

Cfr. anche le notizie autobiografiche e gli accenni in Paolo (1 Cor 15, 8; 2 Cor 12, 14.7; Gal 1, 15-16 e 2, 2), nelle Od. Sal. 11, 11-23; 18, 1-3; 21, 1-7; 35, 7; 36, 1-6; 38, 1-2, e nei frammenti profetici ―montanisti‖. Sorprende la ripetuta insistenza di Flannery, 2008a, pp. 16-17, e Segal, 2008, p. 24, sull‘assoluta unicità dell‘epistolario paolino come fonte di prima mano, non anonima né pseudonima, su esperienze religiose simili per il I sec.d.C. Questa presunzione, indimostrata e arbitraria, non giustifica l‘assenza di un qualunque contributo specifico su Ap nel primo volume di EXPERIENTIA, che raccoglie i loro interventi. 31 Sulla base di quanto si è venuto osservando, credo si tratti per lo più di un falso problema che riposa su una dicotomia tra esperienza ―reale‖ – interpretazione culturale che di fatto non si dà (Knoblauch, 2003, pp. 102-113; Stone, 2003, pp. 169-170 e 177-180; DeConick, 2006, pp. 5-6; Lietaert Peerbolte, 2008, p. 170; Miller, 2008; Shantz, 2008, p. 202; Ramsaran, 2008, p. 211). E se anche si desse, la stessa convenzionalità del testo implicitamente riposerebbe sull‘assunto, comune all‘immaginazione soco-culturale del redattore e dei destinatari, che sia così che un‘esperienza profetica deve avere luogo nella ―realtà‖ ed essere poi rappresentata. Cfr. le lucide riflessioni su fatti e finzione di Burke, 1992, pp. 101-103 e 126-129. Un ricco dossier comparativo e ragionato su forme e stilemi ricorrenti nei resoconti di visioni di età greco-romana è offerto da Berger, 1992, pp. 177-225; per un ricco repertorio di fonti ordinate per temi, cfr. anche MacDermot, 1971. Fletcher-Louis, 2008, tratteggia storia, problemi e prospettive di un‘analisi dell‘esperienza religiosa all‘origine dei testi ―apocalittici‖. 32 Per una lettura antropologica dei testi, cfr. Pesce, 2001, e Destro – Pesce, 2004b, in particolare, pp. 3-17. 33 Cfr. le osservazioni a più ampio raggio di Lewis, 1971, pp. 34-35; 76-78; 176; Bourguignon, 1976, pp. 12; 17; 24; 37-39; 41; 46-49, e 1979, pp. 239-243; 249; 266-267; Wilson, 1980, pp. 66-68; Overholt, 1989, pp. 23-24; Peek, 1991a, p. 2; Grabbe, 1995, p. 110.

Tra visione e testo letterario

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«The appropriate analysis should focus on the esthetic elements, semiotic patterning, dramaturgical features and transformational processes of the diviner and the divinatory congregation. [...] ―Praxeological approach‖ […] also takes into account the specific divination event, differing types of divination, clients‘ problems, and the subsequent dynamics of the sessions which lead to practical action in the larger cultural context».

Tutto sta nel lasciare metodi e paradigmi simbolici soggiacenti emerge34 re nella loro globalità e specificità . Come primo strumento utile per affinare la sensibilità a questa dimensione analitica e rilevare così i contorni della ―profezia‖ di Giovanni può venirci in aiuto il modello sviluppato da R.N. Walsh per descrivere e confrontare estasi sciamaniche, meditazioni buddiste e yogiche, crisi di schizofre35 nia . Il modello si incentra sulla osservazione di dodici aspetti chiave: 1.

Grado di riduzione della consapevolezza del contesto o ambiente in cui l‘esperienza ha luogo 2. Capacità di comunicare 3. Concentrazione a. Grado di concentrazione b. Natura della concentrazione, fissa o fluida 4. Grado di controllo a. Capacità di entrare in e uscire da uno stato alterato di coscienza a proprio arbitrio b. Capacità di controllare il contenuto dell‘esperienza 5. Grado di eccitazione 6. Grado di calma (bassi livelli di agitazione e distraibilità) 7. Sensibilità o acutezza della percezione sensoriale 8. Natura del senso di identità 9. Sensazioni: piacevolezza o dolore 10. Percezione di uno stato fuori dal corpo 11. Contenuto dell‘esperienza interiore: a. Senza forma b. Provvisto di forma, differenziato e con oggetti specifici: 1) Grado di organizzazione 2) Modalità degli oggetti predominanti 3) Intensità degli oggetti 34

Cfr. già le ripetute osservazioni di Niditch, 1980, pp. 153-154 e 158-163, e Tedlock, 1981, pp. 163-170, e la sintesi conclusiva dello stesso Peek, 1991b, pp. 192-213. 35 Walsh, 1993, pp. 746-747.

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Capitolo primo 4) ―Livello‖ psicologico degli oggetti (personale o archetipico) 12. Livello di sviluppo dello stato di coscienza in sequenze progressive

Pregio non trascurabile di questo modello è la possibilità che offre di raccogliere, coordinare e focalizzare esperienze, suggestioni, interpretazioni 36 sviluppate dalla ricerca . Forte è, però, il rischio di cadere in un circolo vizioso imponendo il modello al testo e appiattendo e schiacciando il secondo sul primo. Posto, però, a livello generale, che non esiste una percezione pura dei fatti e che la conoscenza umana si fonda in ultima analisi su assiomi che confermano sé 37 stessi , bisogna comunque non confondere una prima fase di elaborazione propositiva del modello con la sua fase di verifica e ri-costruzione, cui si procederà dopo un confronto diretto con i dati che la superficie del testo la38 scia trasparire . In concreto e nello specifico, non ci resta quindi che iniziare con il tratteggiare la cosmologia che l‘esperienza estatica presuppone e vede, venen39 done informata e a sua volta informandola . Passeremo poi ad esaminare l‘antropologia della rivelazione nell‘Apocalisse ed i caratteri e lo sviluppo dell‘esperienza stessa, nell‘immaginazione sociale del redattore e nel linguaggio che la veicola. 36

Cfr. Bourguignon, 1976, pp. 8 e 40-41, e 1979, 235-236.262; Goodman, 1989, passim. Cfr. anche Malina – Pilch, 2000, pp. 4-8; Pilch, 2004, pp. 182-186; Vollenweider, 2005, pp. 104-105 e n.10; 106-107; 115-117 e n.52. 37 Cfr. Pilch, 1996, pp. 134-135; Lampe, 1997, in particolare, pp. 348-354, e 1998, in particolare, pp. 21-26. Questi ultimi due contributi, rielaborati ed ampliati, sono confluiti in Id., 2006, rispettivamente, pp. 1-100 e 123-129. 38 Cfr. anche le indicazioni metodologiche in Pilch, 1996, pp. 134-136, e Destro – Pesce, 2000, p. xiv. 39 «Le cosmologie […] sono classificazioni di portata onnicomprensiva. Esse sono strutture di concetti e di relazioni che trattano l‘universo o il cosmo come un sistema ordinato, descrivendolo in termini di spazio, di tempo, di materia, di movimento e popolandolo di dei, esseri umani, animali, spiriti, demoni e simili. […] Le cosmologie […] tendono quasi sempre […] a essere viste come una sistemazione permanente di cose e di persone, e le premesse che ne sono alla base, così come l‘ordine iniziale, sono viste sia come dotati di un‘esistenza al di fuori del flusso degli eventi mutevoli e delle speranze della vita quotidiana, sia come all‘origine, in qualche misura, dei quotidiani fenomeni superficiali del tempo presente» (Tambiah, 1995, pp. 24-25). Cfr. le osservazioni di Bourguignon, 1976, pp. 15-16 (p. 38: «In Haiti, dissociation into diverse (spirit) personalities fits in with the understanding people have of the universe, of gods, and of human nature» [corsivo mio]), e 1979, pp. 243-244 e 266-267; Burton, 1991, in particolare, pp. 41-42 e 44-45; Meyer, 1991; Devisch, 1991 (p. 130: «The divination shows how the fundamental symbolic process of world construction among the Yaka operates and how the sociocultural order finds its origin in this process and profoundly imposes itself on the bodily experience in a mutual modeling of each other» [corsivo mio]); Shaw, 1991, p. 143.

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2. IMAGO MUNDI Il cosmo (Ap 11, 15; 13, 8; 17, 8) di Giovanni si articola su tre livelli coesistenti e comunicanti: abisso – mare, terra, cielo. Abisso e cielo costituiscono gli estremi, negativo e positivo, che comprendono la terra. Procediamo dal basso verso l‘alto. L‘abisso è il mondo sotterraneo, il cui ingresso sulla terra, concepito a forma di pozzo, è chiuso a chiave (Ap 9, 1-2 e 20, 1.3). Alimenta il mare e probabilmente anche le sorgenti, in quanto 40 raccolta delle acque primordiali (cfr. Ap 5, 13 e 14, 7) , e ne sale fumo come di fornace grande (Ap 9, 2). Il mare sembra comunicare strettamente con l‘abisso di cui condivide la natura sotterranea e le connotazioni negative (cfr. 41 Ap 5, 13; 20, 13-14 e 21, 1) . La terra abitata emerge dal mare, ha quattro angoli, con quattro venti corrispondenti che la battono (Ap 7, 1). È un susseguirsi di deserti (Ap 12, 14 e 17, 3), monti con rocce e grotte (Ap 6, 15-16 e 16, 20), pianure (Ap 20, 9), fiumi e sorgenti (Ap 8, 10 e 16, 4), su cui spiccano il fiume grande, l‘Eufrate (Ap 9, 14 e 16, 12), Gerusalemme, il Tempio e il monte Sion, forse il suo centro, comunque il suo punto più sacro (Ap 11, 1-2.8; 14, 1). Il cielo si stende in alto sopra la terra come un rotolo svolto (Ap 6, 14), ha un suo culmine, il mesouravnhma (Ap 8, 12 e 14, 6), sole, luna e stelle vi sono appese (Ap 6, 12-13 e 8, 10). Ha quanto meno una porta (Ap 4, 1), ma si squarcia ed apre anche completamente (Ap 19, 11), dando accesso in ogni caso a un al di là della volta e del firmamento, ugualmente chiamato cielo (oujranov~: Ap 4, 2 e 11, 19). L‘unico caso in cui Giovanni parla di oujranoiv (cfr. 12, 12 e 13, 6) sembra intendere proprio questo, e non permette pertanto di precisare ulteriori suddivisioni in tre o sette sfere. Nel cielo oltre la volta si producono fulmini, voci, tuoni, fuoco, sismi, pioggia, grandine, che poi dalle aperture scendono sulla terra (cfr. Ap 4, 5; 8, 7; 11, 6.19; 13, 13; 16, 18. 21; 20, 9). Questi tre piani della realtà non sono vuoti, ma densamente abitati. Dall‘abisso, dal suo fumo, sciamano cavallette, e si diffondono sulla terra (Ap 9, 1-11). Ne risale poi una bestia mostruosa (Ap 13, 1-3 e 17, 8), agli ordini di Satana. Probabilmente abisso e mare si dividono le imprecisate creature sotterranee menzionate in 5, 13, forse pesci (cfr. 9, 1 e P.Oxy. 654, 1315), sicuramente i morti (Ap 20, 13). L‘abisso ospiterà per mille anni la pri40

Cfr. Jeremias, 1926, in particolare, pp. 94-108 e 125-127, e Lupieri, 2000, pp. xlix-li. Cfr. Ap 13, 1 e 17, 8; Gb 38, 16-17; Rm 10, 7 e la sua fonte, Dt 30, 12-13 TM e LXX; Vang. Tom. 3, tanto nella versione copta che nel greco conservatoci da P.Oxy. 654, 9-15. 41

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gionia di Satana (Ap 20, 1-3.7), funzionando quindi anche come carcere di spiriti decaduti. Nel mare vivono le creature viventi (Ap 8, 9 e 16, 3), e si muovono le isole (Ap 6, 14 e 16, 20). Le barche (Ap 8, 9 e 18) segnalano la presenza umana, concretizzata in timonieri, naviganti, marinai, «quanti lavorano il mare» (Ap 18, 17). La terra pullula di vita vegetale e animale, tanto selvatica e mortale (Ap 42 6, 8) quanto addomesticata e docile (agnello, vitello, bestiame vario, greggi, 43 cavalli) , pura o impura (Ap 18, 2 e 22, 15), di uomini e di angeli. I primi presentano distinzioni di ethnos, legami parentali e lingua (Ap 7, 9; 11, 9; 13, 7), sotto i due denominatori comuni Gentili (Ap 11, 2) e Giudei/Israele (Ap 2, 9; 3, 9), greco (Ap 9, 11) ed aramaico (ibid.). Le opposizioni grandi/piccoli, ricchi/ poveri e liberi/schiavi (Ap 13, 16; cfr. anche 19, 18 e 20, 12) riassumono una più complessa stratificazione politica, sociale ed economica che va dai re agli schiavi, passando per i maggiorenti, i comandanti di migliaia, i ricchi, i potenti, i liberi (Ap 6, 15). I secondi esercitano dominio sugli elementi (fuoco, acque, venti: cfr., rispettivamente, Ap 7, 1-2; 14, 18; 16, 5), animano la natura o costituiscono la controparte spirituale di rilievi e isole (Ap 6, 14; 8, 8; 16, 20 in parallelo a 12, 8), e influenzano decisivamente le vicende umane, portando guerra, perdita di raccolti e rincaro dei prezzi, carestie, pestilenze, morte, infuriare di venti, sciami di cavallette (Ap 6, 2-8 e 9, 15-19; 7, 1-2; 9, 1-11). Mare e terra, con i suoi abitanti, sono anche il campo di azione ristretto e provvisorio del Satana, cacciato dal cielo (Ap 12, 7-9.12-13), delle schiere di angeli che questi ha trascinato con sé (Ap 12, 4.9), e dei suoi due più diretti emissari, la bestia che sale dall‘abisso e quella che sale dalla terra (Ap 13). Di qui procedono l‘attrazione del potere della città grande, che si reputa divino, e l‘oppressione che ne segue, da un lato (Ap 13, 1-7), segni e ispirazione demoniaca della falsa profezia, dall‘altro (Ap 13, 11-17; 16, 13-14). Non solo: spiriti impuri e demoni percorrono ora la terra (Ap 16, 13-14) e si insediano tra le rovine (Ap 18, 2) Il cielo, sotto la volta, è popolato da indistinti uccelli che volano nel 44 mesouravnhma (Ap 18, 2 e 19, 17), puri o impuri che siano (Ap 18, 2) , e, in 42

Delle «bestie della terra» che Giovanni mostra di conoscere, la maggior parte presenta associazioni negative, se non demoniache (cavalletta, scorpione, leopardo, orso, rospo), solo il leone è connotato più ambiguamente e può sfumare su toni positivi. Cfr. Park, 1997, pp. 155-245. 43 I primi due sono associati rispettivamente all‘Unto di Dio e ad una delle creature viventi del Trono, gli ultimi tre figurano in un catalogo commerciale come beni di scambio (Ap 18, 13). Il cavallo, in più, oscilla tra rappresentazioni demoniache ed angeliche – e queste più o meno dannose o salutari –, a seconda anche del colore. Cfr. Park, 1997, pp. 27-50; 74-123; 230-234.

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più, da stelle, aquile, fenomeni atmosferici, tutti probabilmente di varia natura angelica (cfr. le due stelle di Ap 8, 10-11 e 9, 11, e 12, 4.9; l‘aquila parlante di 8, 13 e l‘aquila grande di 12, 14, per cui cfr. anche 4, 7; i fulmini, le voci, i tuoni fuoriuscenti dal trono in 4, 5 e le voci dei sette tuoni di 10, 3-4, per 45 cui cfr. anche 1, 10.12) . Innumerevoli altri angeli – ed eventualmente le nuvole per gli spostamenti, non solo i loro (Ap 1, 7; 11, 12; 14, 14-16) – lo attraversano e collegano alla terra, garantendo l‘esecuzione della giustizia (Ap 8, 8-11; 14, 14-20; 16, 1-17) e l‘origine divina della vera profezia (Ap 1, 1-2 e 9-16; 10, 1-10; 22, 6.8.16). Oltre la volta, ormai ripulita dopo lo scontro fra angelli ribelli e angeli rimasti fedeli a Dio (Ap 12, 7-9), si estende la corte celeste: in una spirale concentrica, si succedono miriadi di angeli, ventiquattro anziani, quattro creature viventi, sette spiriti, o arcangeli, di fronte al Trono, cherubini o serafini probabilmente, che, nel mezzo del Trono, attorniano il Trono e cantano il trisaghion, Dio, il creatore dell‘universo, sul Trono e, in mezzo al Trono e alla creature viventi, l‘Agnello, l‘Unto di Dio (Ap 4, 2-8; 5, 6-7; 8, 2; cfr. 12, 15). Oltre la volta, da sempre presso Dio, si trova il Tempio con tutto il suo apparato: vi è custodita l‘arca del patto (Ap 11, 19 e 15, 5), non mancano l‘altare d‘oro (Ap 6, 9; 8, 3-4; 9, 13; 14, 18), di natura angelica come il Trono (entrambi parlano, emettono voci: Ap 9, 13; 16, 7.17; 19, 5; 21, 3-4, rispettivamente), incensieri per le preghiere dei santi (Ap 8, 3-4), trombe (Ap 8, 2.6 e ss.), infine, officianti, sia angeli sia giusti ed eletti, che servono come sacerdoti dinanzi al Trono (Ap 8, 2-5; 15, 5-8; 7, 9-15). È qui l‘origine ultima e il vertice della creazione (Ap 4, 11): da qui procedono le rivelazioni (cfr. Ap 1, 1-2; 1, 12-16 e 15, 1.6; 17, 1; 21, 9-10; 5, 1 – 10, 11; 14, 13; 22, 6.16-20) e l‘instaurazione del regno di Dio e della sua giustizia (Ap 8, 8-11; 14, 14-20; 16, 1-17; 19, 1-2.6; 21, 1-3); qui ritornano le lodi di tutte le creature, in un movimento verticale unificante, dal basso verso l‘alto (Ap 5, 1314). La mappa che abbiamo disegnato, seguendo Giovanni, non ha nulla di teorico o speculativo: la cosmologia antica si fa, contemporaneamente, tracciato e residuo dell‘esperienza, topografia di un contatto con il mondo soprannaturale che quell‘esperienza, a sua volta, modella, inserendola nel pro46 prio ordine e nelle proprie dinamiche di comunicazione .

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Gli uccelli impuri, in quanto tali, sono associati a demoni e spiriti impuri come fauna delle rovine. 45 Cfr. Charlesworth, 1986; Park, 1997, pp. 157-165 e 185-196; Lupieri, 2000, ad locc., e pp. xlvi-xlviii; Malina – Pilch, 2000, ad locc.; Malina, 2002, pp. 19-23; 32-35; 39-40; 43. 46 Cfr. Thompson, 2003b, pp. 138-140. Sulla visione del trono (Ap 4 – 5) fra esperienza e tradizione letteraria, cfr. anche Rowland, 2006, e Afzal, 2006.

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3. IL LINGUAGGIO DELLA RIVELAZIONE A più riprese Giovanni usa l‘espressione «ejn pneuvmati» come sintesi ed interpretazione chiave della propria esperienza visionaria, due volte introducendola con «ejgenovmhn» (Ap 1, 10 e 4, 2), due volte con «ajphvnegkevn me», soggetto un angelo (Ap 17, 3 e 21, 10). Proporre una ricostruzione di questa esperienza implica quindi innanzitutto illuminare il significato culturale della formula di caso in caso, nella misura in cui essa accenna alla riflessione stessa di Giovanni sulla percezione del proprio stato nello snodarsi del 47 processo rivelativo . Prima, però, un rapido sguardo alla concezione generale dell‘uomo che emerge dal testo, e alla complessa costellazione semantica che il termine pneu'ma evoca. 3.1 L‟antropologia giovannea Analiticamente, l‘essere umano è costituito di sangue, su cui la vita scorre via (Ap 6, 10; 16, 6; 17, 6; 18, 24; 19, 2), carne (Ap 17, 16; 19, 18.21) e yuchv o pneu'ma, che la vita infondono (yuchv: Ap 12, 11 e cfr. 8, 9 e 16, 3; pneu'ma: Ap 11, 13 e cfr. 13, 15), e producono linguaggio (cfr. Ap 13, 15) ed emozioni, come il desiderio (Ap 18, 14). Il nou'~ è la sede di e la facoltà intellettiva stessa che calcola, decifra ed interpreta, ed acquisisce e possiede sapienza (cfr. Ap 13, 18 e 17, 9). Cuore (Ap 2, 23; 17, 17; 18, 7) e reni (Ap 2, 23) covano pensieri, decisioni, azioni. Olisticamente, può essere individuato in quanto tale come sw'ma o yuchv (Ap 18, 13), indifferentemente prima (ibid.; cfr. anche Ap 12, 11) o dopo la morte (Ap 6, 9: le «anime» gridano, hanno una voce, quindi probabilmente 48 anche bocca e lingua, possono indossare vesti, e «riposare» ; e 20, 4).

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Cfr. Boll, 1914, pp. 4-6; Moering, 1920; Festugière, 1944, pp. 313-317; Schweizer, 1959, in particolare, pp. 447-449; Russell, 1964, in particolare, pp. 140-157; 359; 377-379; Jeske, 1985 (più utile per status quaestionis ed ulteriore bibliografia che per conclusioni o altro); Bauckham, 1993a, in particolare, pp. 150-159; Schimanowski, 2002, in particolare, pp. 78-83; Thompson, 2003b, pp. 138-141. 48 Cfr. lo snodo argomentativo di Tertulliano, An. 8, 4-5.

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3.2 Lo «spirito» nell‟Apocalisse

Il termine pneu'ma in Ap ricorre in un ampio spettro di significati. Può essere, come abbiamo già visto, il soffio vitale infuso in ciò che è inanimato (da Dio: Ap 11, 13; dalla bestia che sale dalla terra: Ap 13, 15), in questo 50 senso parzialmente sovrapponendosi al campo semantico di yuchv ; può indicare una o più entità celesti e/o demoniache nella loro natura ―ventosa‖, invisibile e sovraumana (Ap 1, 4; 3, 1; 4, 5: in coincidenza con la loro natura i51 52 gnea ; 5, 6; 8, 2; 16, 13-14; 18, 2) ; con o senza il genitivo «th'~ profhteiva~», ma sempre con l‘articolo, individua, in quanto tale, l‘insufflazione della potenza divina, ispiratrice della testimonianza dell‘angelo – angelo di Dio, del Signore e dello Spirito di profezia, dunque – che, da un lato, schiude le visioni e, per mezzo della scrittura, si deposita e parla nel libro (Ap 2, 11.17.29; 3, 6.13.22; 14, 13; 19, 10, in parallelo a 22, 6. 16), dall‘altro, indirizza ed eleva al Signore risorto l‘invito a venire, all‘unisono con la preghiera della Sposa (Ap 22, 17); è, infine, quella parte, stato, condizione – senza soluzione di continuità fra questi tre aspetti – dell‘essere umano, che funge da sede di visioni e rivelazioni ―profetiche‖, e si oggettiva in una modalità di esistenza pneumatica (Ap 22, 6; cfr. 1, 1-2; 53 19, 10; 22, 16) . 3.3 La formula e l‟esperienza Le brevi osservazioni a margine, sopra svolte, e un po‘ tutti questi usi, credo, in particolare, l‘ultimo descritto, e comunque il loro denominatore comune, ovvero la concezione del pneu'ma come soffio soffiato, come materia, essenza ―aerea‖ (cfr. il suffisso -ma), normalmente invisibile e impercet49

Cfr., da ultimo, pur se con un‘eccessivo interesse a indugiare in speculazioni pneumatologiche unitarie, il breve contributo di Hahn, 2005. 50 Cfr. Euripide, Hec., 571; 1 En. 22, 3-7; Gdc 15, 19 LXX; Apoc. Mos. 31; Gius. Asen. 19, 3; Or. sib. 4, 46; Mt 27, 50; Lc 8, 55; Gv 19, 3; At 7, 59; PGM V, 462; Porfirio, Vit. Plot. 2. 51 Cfr. Sal 103, 4 LXX, citato anche in Eb 1, 7; 1 Clem. 36, 3 e Gn Rab. 21, 13; 4Q403 fr. 1 I, 43 e II, 8-9; 4Q405ShirShabbf fr. 23 I, 8-9; 2 En. 20, 1; 22, 8-10; 37; Pr. Gius. (citata in Origene, Comm. Jo. 2, 189-190); 3 En. 2, 1; 6, 1-2; 15 e 35, 6. 52 Cfr. 1 En. 15, 6-10; Nm 16, 22 e 27, 16 LXX; Flavio Giuseppe, A.J., 4, 108; At 23, 8; Eb 12, 9; 1 Clem. 59, 3 e 64, 1; Ps.-Clemente, Hom. 3, 33 e 8, 12; PGM V, 467 e XII, 262; P.Warr. 21, 24.26. 53 Cfr. 1 Ts 5, 23; 1 Cor 7, 34; 2 Cor 7, 1, e, in particolare, 1QH 20, 11-13; 1 Cor 14, 2.14-16 (in opposizione a nou'~).32; Od. Sal. 6, 1-7. Cfr. anche il commento di Aune 1997 ad Ap 4, 1, e 1998b ad Ap 22, 6, con le rapide, ma incisive annotazioni di Pesce, 1985, pp. 425426.

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tibile, dell‘uomo e di creature sovraumane, proiettano luce sulle quattro occorrenze che più ci interessano. Le prime due sono simili per struttura formale, uguali e diverse per le sfumature di significato che emergono dai rispettivi contesti: in 1, 9-10, Giovanni scrive di essere arrivato sull‘isola chiamata Patmos («ejgenovmhn ejn th'/ nhvsw/ th/' kaloumevnh/ Pavtmw/»), e di essere entrato in «spirito» nel giorno del Signore («ejgenovmhn ejn pneuvmati ejn th'/ kuriakh'/ hJmevra/»). Grammaticalmente, ejgenovmhn può fungere da aoristo tanto di giv(g)nomai quanto di eijmiv, 54 e quindi denotare indistintamente moto o stato ; ejn delimita il luogo, lo spa55 zio del moto e/o dello stato , nel primo caso, luogo, spazio geografico, nel 56 secondo, luogo, spazio antropologico . Giovanni passa in una condizione e funzionalità psico-fisica in cui è possibile sentirsi muovere e cadere a terra come morto (Ap 1, 12-19) e, al contempo, individuare e percepire attivamente con l‘udito, la vista ed il tatto (Ap 1, 10.12.17) la presenza di un essere sovrannaturale. Evidentemente, l‘accesso alla realtà altra presuppone l‘ingresso in questo stato sensoriale eccezionale, non ordinario, che Giovanni cerca di spiegarsi e interpretare a posteriori come «spirito», come esistenza ―pneumatica‖ che mantiene le funzioni percettive e intellettive del corpo, allineando però la natura dell‘essere umano a quella della realtà sovraumana che invisibilmente lo circonda (cfr. 57 Ap 1, 4; 3, 1; 4, 5; 8, 2), e permettendo così il contatto . 54

Cfr. LSJ, s.v. giv(g)nomai, II. 3 e BDAG, s.v. givnomai, 5c e 6a. Vedi anche BD § 98. Nell‘Apocalisse, h[mhn conserva il suo valore imperfettivo. Solo in un caso, si allinea ad ejgenovmhn, ma nel senso di «esistere, venire in esistenza» (Ap 4, 11; cfr. v.l. ejgevnonto 2329; Gn 1, 3.6.9 LXX; Sal 32, 9 LXX; Sap 1, 14; Gv 1, 2; 2 Cor 5, 17; Ap 21, 5-6). «ejgevneto» corrisponde di fatto a «h\lqen» in Ap 11, 15 e 12, 10 (cfr. 11, 17-18 e 19, 6-7). 55 Anche Giovanni, per quanto raramente, confonde ejn e eij~: cfr. Ap 11, 11 (contro Ez 37, 10 LXX!) e 15, 8; 21, 27; 22, 14; Ap 1, 11 e 1, 3; 13, 8; 20, 12.15; 21, 27; 22, 18-19. Cfr. BD § 202, 2; 205-206; 218; LSJ, s.v. ejn, A. I. 8; BDAG, s.v. ejn, 2b e 3. 56 Entrambe le possibilità sono attestate, per esempio, in At 13, 4-5 (navigazione da Seleucia a Salamina) e 12, 11 (da sonno e successiva ―trance‖ a stato normale di veglia); 22, 17 (da stato di veglia a ―trance‖). Cfr. Lisia, Or. 24, 25; Plutarco, Aem. 39 e Def. orac. 432d; Appiano, Lyb. 104; Elio Aristide, Or. 50, 5 e 51, 8.29; Mc 9, 33; 2 Tm 1, 17; Herm. Vis. 3, 9, 4; Policarpo, Phil. 3, 2; Mart. Pol. 5; Egesippo in Eusebio, H.E. 4, 22, 2; Anonimo antimontanista in Eusebio, H.E. 5, 16, 4 e 7 (sull‘estasi di Montano); Atti Piet. Paolo 14 e 24; An. Pil. recc. A e B, 11. Plutarco, Def. orac. 432 d, è particolarmente interessante: «ejxivstatai (scil. to; mantiko;n th'~ yuch'~) de; kravsei kai; diaqevsei tou' swvmato~ ejn metabolh/' gignomevnou h}n ejnqousiasmo;n kalou'men» (corsivo mio), tanto più che, contemporaneamente, sul versante divino, l‘ejnqousiasmov~ è individuato come produrre visioni (fantasivai) e luce (fw'~) sul futuro (Pyth. orac. 397c). Cfr. anche Zahn, 1924, p. 180 e n. 4. Per il resto, in 1 Cor 11, 18, Paolo può scrivere «sunercomevnwn uJmw'n ejn ejkklhsiva/», intendendo uno spazio (cfr. 11, 20) individuato dal radunarsi dei seguaci di Gesù a Corinto come comunità (cfr. 14, 23 e 26). 57 Cfr. Moering, 1920, pp. 150-151, e Kraft, 1974, p. 95. Interessante anche la spiegazione di Ecumenio, Comm. Apoc. 1, 23 (X sec.d.C.): «o} ei\pen ejgenovmhn ejn pneuvmati deivknusin mh; aijsqhth;n mhde; sarkikoi'~ wjsi;n h] ojfqalmoi'~ oJrwmevnhn ijdei'n ojptasivan,

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In Ap 4, 1-2, Giovanni racconta di aver visto una porta aperta in cielo e udito la prima voce di nuovo chiamarlo ed esortalo a salire. Segue di nuovo la formula: ejgenovmhn ejn pneuvmati, e Giovanni si ritrova oltre la volta celeste a contemplare il Trono e la corte divina. Non vedo come si possa sfuggire alla conclusione che in questo passo genevsqai ejn pneuvmati copra in pieno l‘esperienza dell‘ascensione attraver58 so il firmamento . Al che è sottesa senza dubbio l‘idea che, attraverso questa trasformazione, Giovanni si possa elevare fino alle altezze dove Dio dimora, per poi ancora vedere (passim), udire (passim), parlare (Ap 7, 14), piangere abbondantemente (Ap 5, 4), inghiottire (Ap 10, 10), assaporare (ibid.), provare amarezza di stomaco (ibid.), di nuovo cadere ai piedi di un angelo (Ap 19, 10 e 22, 8), senza, con ciò, riferirvisi mai in terza persona, come di un altro (cfr. Ap 1, 9 e 22, 8). Identità e superamento dei limiti imposti dalla corporeità umana ordinaria, dunque: lo «spirito» è lo stato in cui l‘essere umano può sperimentare di varcare il confine che separa la terra, la realtà ordinaria, e il cielo, la realtà altra, è il punto di rottura tra le due, raggiunto guidando nella seconda il proprio sé fisico, altrimenti un intruso, così da percepirla 59 correttamente . Giovanni prosegue il suo resoconto: «ejn pneuvmati» un angelo lo ha portato via prima in un deserto (Ap 17, 3), poi, su un monte grande e alto (Ap 21, 10). In «spirito», quindi, anche le distanze tra i luoghi si accorciano fino ad annullarsi, in «spirito» si sperimenta quella sospensione temporanea 60 dell‘esistenza fisica che di fatto le accorcia ed annulla . ajlla; profhtikoi'~, peri; w|n pneumatikw'n ajkow'n e[legen oJ ÆHsai?a~» (corsivo mio). Già Filone, Decal. 32-35, supponeva che sul Sinai la potenza divina avesse emanato una voce soprannaturale, «che immetteva un udito diverso nelle anime di ciascuno, molto superiore a quello in funzione attraverso le orecchie (35; cfr. Origene, Cels. 2, 72 e 6, 72); l‘autore di Ef pregava che il Dio di Gesù e padre della Gloria concedesse ai destinatari «pneu'ma sofiva~ kai; ajpokaluvyew~ ejn ejpignwvsei aujtou', pefwtismevnou~ tou;~ ojfqalmou;~ th'~ kardiva~ uJmw'n » (Ef 1, 17-18 [corsivo mio]). 58 Contro Jeske, 1985, p. 456. 59 Con Moering, 1920, pp. 151-153; Festugière, 1944, pp. 315-317; Russell, 1964, p. 167 e n.1; Lindblom, 1968, pp. 39-41 e 45: «bei den ekstatischen Entrückungen ist es der Pneumamensch, der entrückt wird, während der Körper auf Erden bleibt» (p. 41). Cfr. anche le osservazioni di Goodman, 1989, passim; Malina, 2002, pp. 40-42; Malina – Pilch, 2000, pp. 4-8; Thompson, 2003b, pp. 140-141. Pace Bauckham, 1993a, p. 153 e n.5: se è vero che in Ap 11, 12 lo stesso ordine di 4, 1, si riferisce a una traslazione fisica dei due testimoni, è anche vero che lì manca genevsqai ejn pneuvmati, sostituito da «kai; ajnevbhsan eij~ to;n oujrano;n ejn th'/ nefevlh/». Il che mi pare piuttosto sottolineare una differenza sostanziale tra le due esperienze e, per converso, quindi, la non fisicità di quella di Giovanni (cfr. T. Ab. rec. B 8, 16: il patriarca viene caricato «ejn swvmati» su una nuvola). Ancora Ecumenio, Comm. Apoc. 3, 5, 3-4, scrive: «kai; ejn pneuvmati ajnelqwvn — ouj ga;r swmatikh; oujd‘ aijsqhth; gevgonen hJ a[nodo~ —, oJrw', fhsiv, to;n qrovnon». Che i due ejn abbiano però simile valore localestrumentale? 60 Cfr. Lindblom, 1963, pp. 129-130 e 197-198, e Pilch, 2004, pp. 65-67.

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Un rapido confronto sinottico con le tentazioni di Gesù ed il ―rapimento‖ di Filippo può illuminare, per contrasto e per analogia. Gesù viene spinto (Mc 1, 12), fatto salire (Mt 4, 1) o condotto (Lc 4, 1) nel deserto, Filippo afferrato e trasportato ad Azot (At 8, 39), entrambi dallo 61 Spirito, entrambi fisicamente . Mentre Filippo scompare dalla vista dell‘eunuco e può continuare a dedicarsi alla predicazione (At 8, 39-40), Gesù, giunto nel deserto, digiuna per quaranta giorni e quaranta notti (Mt 4, 2 e Lc 4, 2). Il digiuno lo prepara a vedere Satana, che lo accompagna sul pinnacolo del Tempio, prima, e su un monte molto alto, immediatamente dopo, nella versione matteana (4, 3-10). Luca ha l‘ordine degli spostamenti invertito e il suo ajnagagwvn lascia implicitamente emergere solo un luogo sopraelevato sullo sfondo del primo (4, 5-12). Fatto sta che la visione iniziale di Satana stessa, la mappa e la successione a breve termine dei suoi movimenti, la visione finale degli angeli al suo servizio nel deserto, comune a Mt e Mc (Mt 4, 11 e Mc 1, 13), il ritorno, infine, in Galilea (Mc 1, 14; Mt 4, 12; Lc 4, 13-15), presi insieme, nelle diverse versioni, suggeriscono che Gesù non sia mai immaginato spostarsi fisicamente dal deserto: si sarebbe trattato quindi, nel linguaggio di Giovanni, di un‘esperienza «ejn pneuvmati». 3.4 Una comparazione Il formulario giovanneo, in tutta la sua densità, quasi criptica, non rimane un‘interpretazione o teoria culturale isolata. Alcuni paralleli, nelle loro corrispondenze, possono aiutarci a ricostruirne e ridefinirne la complessità. In 1 En. 70, 1 – 71, 3 (siamo probabilmente intorno alla seconda metà del I sec.a.C.), «nome», «io» e «il mio spirito» si alternano come soggetto della ascensione nei cieli: «Ed avvenne, dopo di ciò, che il mio spirito si nascondesse e salisse nei cieli. Vidi i figli degli angeli camminare su fiamme di fuoco e i loro vestiti, ed anche le loro tuniche (erano) bianche e la luce del loro volto (era) come grandine. E vidi due fiumi di fuoco e la luce di questo fuoco splendeva come giacinto ed io caddi sul mio volto, innanzi al Signore degli Spiriti. L‘angelo Michele, uno degli arcangeli, mi prese per la mano destra e mi fece alzare e mi condusse […]. E caddi sulla mia faccia e tutto il mio corpo si disciolse, il mio spirito si modificò e chiamai a gran voce, con spirito di forza, e benedissi, magnificai ed esaltai. E quelle benedizioni che uscivano dalla

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Cfr., in particolare, la corsa di Elia dal Carmelo a Izreel, davanti al carro di Acab, sotto l‘impulso della «mano di JHWH» (1 Re 18, 45-46) e i suoi – solo accennati – imprevedibili spostamenti causati dallo «spirito di JHWH» (1 Re 18, 12 e 2 Re 2, 16).

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mia bocca eran gradite al cospetto di questo Capo dei Giorni» (71, 1-3.11-12 [corsi62 vo mio]) .

Nell‘arco di circa tre secoli e mezzo dopo, tre testi, tre gruppi di seguaci di Gesù. L‘Ascensione di Isaia (seconda metà I – inizi II sec.d.C.) descrive la trance del profeta come innalzamento da lui dell‘intelletto (probabilmente dialogismov~, nell‘originale greco perduto) o della sapienza di questo mondo (6, 10-11.17). Isaia, liberatosi temporaneamente dalla carne straniera (8, 11.14.27; 9, 5), viene preso per mano dall‘angelo con cui ha il potere di parlare, nonostante la sua bocca taccia (6, 11 e 7, 3), e condotto fino al settimo cielo. La «gloria del suo volto» man mano si trasforma (7, 25), lui si spaventa e trema (9, 1), fino a giungere alla contemplazione di Dio: «e vidi una Gloria grande, essendosi aperti gli occhi del mio spirito» (9, 37 [corsivo mi63 o]) . Nelle Odi di Salomone (prima o seconda metà del II sec.d.C.), ad essere elevati si succedono il cuore, le membra rafforzate ed il corpo guarito (18, 13), e l‘«anima-io», a mani stese (35, 7), oppure in passaggio davanti al volto di Dio, dopo aver rivestito un corpo di luce (lett. «e furono a me membra alla mia anima [o a me stesso]»), e senza essere più afflitta da dolore, afflizione o 64 sofferenza (18, 2-4.6; cfr. anche 11, 11-23; 36, 1-6; 38, 1-2) . L‘Apocrifo di Giacomo (II-III sec.d.C.) si chiude sull‘esperienza non completa di un viaggio celeste di Giacomo e Pietro: «Dopo che ebbe detto queste cose (scil. Gesù), se ne andò, ma noi piegammo le ginocchia, io e Pietro, e ringraziammo e inviammo il nostro cuore (hēt) su in cielo e udimmo nelle nostre orecchie e vedemmo nei nostri occhi […]. E quando passammo oltre quel luogo, inviammo la nostra mente (nou'~) più su e vedemmo nei nostri occhi e udimmo nelle nostre orecchie […]. Dopo queste cose, volemmo ancora inviare il nostro spirito (pneu'ma) in alto, ai piedi della Maestà ma quando salimmo non ci fu 65 permesso di vedere o udire nulla» (15, 6-25 [corsivo mio]) . 62

Seguo la traduzione di L. Fusella in Sacchi, 1981, pp. 570-571. Cfr. Apoc. Seth in CMC 51, 1-20.23: all‘apparire dell‘angelo «si mutò il mio pensiero (frovnhsi~) e divenni (ejgenovmhn) come uno degli angeli più grandi». Segue il rapimento nei cieli. 63 Traduzione del testo etiopico di E. Norelli, in Bettiolo – Giambelluca Kossova – Leonardi – Norelli – Perrone, 1995. 64 Testo siriaco in Charlesworth, 1977 (la traduzione è mia). Commenta Aune, 1982, p. 438: «For the Odist [...] prophetic inspiration involves the (temporary) cessation of mortal weakness and corruption, a notion very similar to a very popular Greek theory of divine inspiration which viewed the physical body as a hindrance to the inherently prophetic powers of the soul». Avremo modo di precisare questa affermazione; per ora, cfr. Plutarco, Def. orac. 431d-432f, e Filone, Migr. 190-192. 65 Testo copto in Williams, 1985 (la traduzione è mia).

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Concezioni simili trovano spazio anche nelle istruzioni per intraprendere un viaggio celeste e ottenere un oracolo, contenute nel grande papiro magico di Parigi (PGM IV, 475-750; III-IV sec.d.C.). Queste dimostrano ancora 66 una volta come sotto i testi letterari, a cui per lo più ci siamo limitati , si possa e si debba intuire il profilo di pratiche diffuse che si traducono in interpretazioni culturali e linguaggio simili, quando non comuni. Nel nostro caso, si prescrive una purificazione preparatoria perché, in uno stato temporaneo di santità, la natura umana corruttibile stia ferma (e[sthka). Solo così ciò che ad un mortale è proibito diventa realizzabile: sperimentare di non essere più in sé (725: «oujk ejn seautw'/ e[sei», di fatto costruzione corrispondente, via negationis, a «ejgenovmhn ejn pneuvmati»!), di salire nei cieli (sunavneimi) e, dopo essere stato rigenerato nel pensiero (novhma), contemplare (ejpopteuvw/katopteuvw) il Principio immortale e l‘immortale Aion, con lo «spirito immortale» (to; ajqavnaton pneu'ma) e gli «occhi immortali» (ta; ajqavnata o[mmata) (504-535). Ad un certo momento dell‘ascesa (538-541), in cielo si incontreranno delle porte chiuse: dopo aver pronunciato ancora una volta la parola «silenzio», prosegue immediatamente il papiro, «apri gli occhi e vedrai aperte le porte e il mondo degli dei che è dentro le porte, così che dal piacere della visione e dalla gioia il tuo spirito (to; pneu'mav sou) corra insieme e salga (ajnabaivvnw)» (625-629 [corsivo mio]). La somiglianza con Ap 4, 1-2 non do67 vrebbe a questo punto più stupire né tantomeno fare problema . 3.5 Controprove Restano due silenzi ed una contrapposizione escatologica, tutti densi di significato e di riflessioni, come cartina di tornasole per chiarire il duplice risvolto dell‘esperienza ejn pneuvmati. P.Oxy. 1381 (II sec.d.C.) racconta una apparizione simultanea del dio Asclepio ad un malato e a sua madre (91-140). Il giovane è sprofondato nel sonno, la donna lo accudisce cercando a tutti i costi di rimanere sveglia e ve68 de la «fantasiva» divina entrare (108-113) : la statura sovrumana 66

L‘elenco potrebbe essere ancora più lungo, cfr. Filone, Opif. 70, 71; Her. 69-70; Spec. 2, 44-45 e 3, 1-6, dove si parla anche di occhio (o[mma) del pensiero o dell‘anima; Plutarco, Gen. Socr. 590b-592e, e Sera 563d-f; Zost. 4, 20 – 7, 22 (NHC VIII, 1); Corp. herm. 10, 25 e 11, 18-19; Anth. pal. 9, 577, senza contare la parodia lucianea dell‘Icaromenippo. Ulteriori materiali e discussione in Bousset, 1960; Colpe, 1967; Himmelfarb, 1988. 67 Cfr. anche i rispettivi prologhi, PGM IV, 475-485 e Ap 1, 1-3. 68 Il contemporaneo Plutarco scriveva in Pyth. orac. 397c che l‘ejnqousiasmov~ è l‘«immettere» fantasivai nell‘anima umana. Cfr. l‘uso di fantavzomai in Elio Aristide, Or. 50, 48, ad introdurre il resoconto di una sua «visione di sogni», ed in Corp. herm. 13, 11, a

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dell‘essere comparso e lo splendore delle vesti di lino che lo avvolgono dominano la visione (cfr. Ap 1, 13-16). La percezione «di‘ o[yew~» della madre tremante (cfr. Ap 1, 17) è messa in parallelo a e copre di fatto il «di‘ ojneiravtwn ejfantasiwvqhn» del figlio (139-140), anche, e soprattutto, in quanto stato, diremmo, psico-fisico: è una condizione alterata, evidentemente affine 69 70 all‘ebbrezza , da cui si rientra in sé, ancora in stato di veglia , e recuperando la normale sobrietà (ajnanhvfw), allo scomparire dell‘epifania divina (124125). Ad esemplificazione della sua ricchezza di visioni e rivelazioni, Paolo descrive l‘esperienza di un rapimento estatico fino al terzo cielo e al paradiso (2 Cor 12, 2-4). La natura di traslazione nella sfera celeste e nel mondo divino dell‘esperienza stessa – per lo meno quale viene percepita e successivamente riportata – e l‘audizione sovraumana in cui culmina insinuano nell‘apostolo il dubbio che il corpo fisico non vi sia stato coinvolto come luogo o mezzo (cfr. 12, 2: ejn/ejktov~, dentro/fuori, e 12, 3: ejn/cwriv~, con/separatamente da) e prospettano, con ciò, la possibilità di una forma altra di stato corporeo e attività sensoriale, pur senza nominarli a chiare lette71 re . Ad integrare questo silenzio, possono venirci in aiuto alcune riflessioni ancora di Paolo sulla resurrezione: secondo 1 Cor 15, 44, il corpo seminato «yucikovn», ovvero carne e sangue corruttibili (cfr. 50), è resuscitato «pneumatikovn». Al primo Adamo, prosegue Paolo, divenuto «yuchv» vivente, succederà l‘ultimo Adamo, passato a «pneu'ma» vivificante (15, 45). La trasformazione, qui prospettata come nuovo atto di creazione, è incentrata sul corpo, e ha già coinvolto la vicenda di Gesù, in quanto antitipo di Adamo (cfr. Rm 5, 14-15). Si estende poi anche all‘esperienza dei suoi seguaci, per tradurre la percezione visiva raggiunta non con la vista fisica né con il corpo (13, 3: «swvmati kai; oJravsei») o gli altri sensi ormai chiusi (13, 6) ma con la nohtikh; ejnevrgeia, sviluppata nell‘estasi (13, 4: maniva; oi[strhsi~ frenw'n), come in un sogno senza sonno (ibid.). 69 Sempre Plutarco, Def. orac. 432e, scrive: «qermovthti ga;r kai; diacuvsei povrou~ tina;~ ajnoivgein fantastikou;~ tou' mevllonto~ eijko;~ ejstin (scil. to; mantiko;n rJeu`ma kai; pneu`ma), wJ~ oi\no~ ajnaqumiaqei;~ e{tera polla; kinhvmata kai; lovgou~ ajpokeimevnou~ kai; lanqavnonta~ ajpokaluvptei» (corsivo mio). 70 Nell‘esperienza del visionario, i confini tra veglia e sonno possono oscillare e confondersi. Cfr. Elio Aristide, Or. 48, 32-33 e 51, 31; Ps.-Filone, L.A.B. 28, 6-7 («expergefactus»); Plutarco, Gen. Socr. 590b; Corp. herm. 1, 1; Massimo di Tiro, Diss. 9, 7; Giamblico, Myst. 3, 2. 71 Cfr., per converso, l‘ordine di Dio a Michele in T. Ab. rec. B 8, 1: «ajnalabou' ejn swvmati». Sulla pericope paolina, cfr. Lincoln, 1979; Segal, 2008; Lietaert Peerbolte, 2008; Shantz, 2008. Segal (2008, p. 22) arriva ad una conclusione complementare, in negativo, alla nostra, quando scrive che «not being sure of whether the ascent took place in the body or out of the body is the same as saying that one is not taking account of the Platonic concept of the soul».

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quella conformità di destini con il loro Signore stabilitasi nel battesimo (cfr. Rm 6, 3-5): non ci può essere «kainh; ktivsi~» se non in Cristo (2 Cor 5, 17). Ora, se il Signore è «to; pneu'ma» (2 Cor 3, 17) e chi si congiunge al Signore è un unico «pneu'ma» con Lui (1 Cor 6, 17; cfr. anche 12, 13), questo legame e dunque la nuova creazione si realizzano e confermano in tutte quelle manifestazioni (fanevrwsi~) estatiche che Paolo specifica come «dello Spirito» (1 Cor 12, 7) e che scandiscono le riunioni della comunità. La trasformazione corporea che si completerà solo alla fine dei tempi (cfr. 1 Cor 15, 51-52 e Fil 3, 21) si ritrova quindi anticipata e prefigurata anche nella rivelazione di misteri, nelle preghiere, nei salmi «in spirito» (1 Cor 14, 2.14-16), e negli pneuvmata stessi dei profeti (1 Cor 14, 32), tutti interpretabili come veri e propri momenti di passaggio nella nuova condizione di esistenza acquisita e insieme prossima a svelarsi permanentemente, lo pneu'ma/sw'ma pneumati72 kovn, appunto . 3.6 Duplicità e olismo: verso una conclusione «Anche noi divenimmo come corpi (sw'ma) spirituali (pneu'ma): i nostri occhi si aprirono da ogni lato, e l‘intero luogo si rivelò di fronte a noi. Ci avvicinammo ai cieli ed essi si sollevarono gli uni contro gli altri. I guardiani delle porte furono turbati e gli angeli si impaurirono e fuggirono […] Credevano che sarebbero stati tutti distrutti. Vedemmo il nostro Salvatore dopo che aveva attraversato tutti i cieli» (Vang. 73 Salv. fr. 100, 33-51 [corsivo mio]) .

Senso di una percezione dilatata, dischiusa, ed esperienza dell‘ascensione emergono in contorni netti da questo frammento del Vangelo del Salvatore. Di questa duplicità credo viva anche il linguaggio di Giovanni (cfr. Ap 1, 10-17, e 4, 1-2), quel suo (ejgenovmhn) ejn pneuvmati che vuole af72

Sull‘infusione del soffio di vita/spirito di Gn 2, 7 nel visionario e la sua trasformazione, cfr. Ez 2, 1-2; Gv 20, 22; Apoc. Sem in CMC 57, 17-21. Affrontano e discutono la convergenza di discorso sulla nuova creazione, esperienze estatiche e trasformazione interiore Destro – Pesce, 1998b, pp. 187-191 e 193-195; Segal, 1999, pp. 259-267, e 2008; Lampe, 2006, pp. 123-129; Shantz, 2008, pp. 195-205. Sempre Segal (1980, pp. 1341-1342) aveva già riflettuto sul carattere di prefigurazione e anticipazione dell‘ascesa post mortem assunto dal viaggio celeste. 73 Cfr. anche fr. 113, 1-8.13-16.24-26: «[…] da tutti i cieli. Allora, noi gli apostoli, questo mondo divenne come tenebra di fronte a noi, e noi divenimmo come coloro che sono negli eoni della gloria […]. E vedemmo il nostro Salvatore, quando raggiunse il quarto cielo […]. Angeli ed arcangeli fuggirono». Testo copto in Hedrick – Mirecki, 1999 (la traduzione è mia). Una diversa ricostruzione dell‘ordine delle pagine e dei frammenti è stata proposta da Emmel, 2002. Riserve su questa nuova ipotesi ha espresso, a sua volta, Hedrick, 2003.

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ferrare e definire ciò che riferisce di aver sperimentato. Duplicità dello svelamento e della percezione di uno stato non solo fisico, ricomponibile e oggettivabile olisticamente: che si chiami – e poi sia tradotta – «cuore», «anima», «mente», «intelletto» «pensiero, «sapienza» oppure «spirito», nell‘essere umano sembra coesistere una dimensione dell‘esistenza, distinta dal corpo fisico, che ne condivide però struttura, proprietà e caratteristiche. È corpo, è coscienza, ha una sua propria vita, quando si attiva. L‘immaginazione giovannea condivide una sensibilità esperienziale trasversalmente diffusa, non solo nel mondo antico74, ma la esprime secondo categorie culturali specificatamente ebraiche: come yuchv (Ap 12, 11; cfr. 8, 9; 16, 3; 18, 13) rappresenta l‘uomo nella sua integrità corporea di essere vivente fatto di carne e sangue (Ap 6, 10; 16, 6; 17, 6.16; 18, 24; 19, 2.18.21), così pneu'ma lo individua complessivamente in una identità e coscienza sempre percepite come corpo, ma radicalmente altre, in continuità ―materiale‖ con il mondo soprannaturale con cui l‘uomo è ora in grado di entrare in contatto: angeli appaiono come corpi di pneu'ma che esce dal trono di Dio (cfr. Ap 1, 4; 3, 1; 4, 5; 5, 6; 8, 2), e il Signore, che ha inviato l‘angelo a Giovanni, è chiamato Dio degli «pneuvmata» dei profeti (Ap 22, 6), Dio dello «spirito» che ciascun profeta ha e, dunque, è, come il perfetto parallelismo con il sintagma «yucai; ajnqrwvpwn» (Ap 18, 13) dimostra (cfr. Ap 8, 9 e 16, 3: cre75 ature marine sono dette prima avere, poi, essere yuchv) . L‘uso di giv(g)nomai segnala il passaggio dall‘una all‘altra condizione corporea, da «anima» a 76 «spirito», da «uomo» a «profeta», da creatura terrena a essere celeste . Nell‘interpretazione di Giovanni, visioni ed esperienze estatiche si collocano nello stato non ordinario del sé così immaginato.

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Come ha scritto C. Shantz, alla luce di studi psichiatrici recenti sugli stati alterati di coscienza: «The body, as it has been known, is stripped away, and yet subjects continue to know themselves as embodied» (2008, p. 202). Beneduce, 2006, p. 266, mutua da Paolo, attraverso É. de Rosny, la concezione di una compresenza nell‘essere umano di «corpo psichico» e «corpo spirituale» per definire l‘orizzonte culturale, estetico ed antropologico dentro il quale trance e possessione sono costruite e sperimentate come stati della mente e tecniche del corpo. 75 Questa stessa sensazione di alterità, di non normalità dello stato di coscienza affiora chiaramente nelle interviste a visionari moderni raccolte da Knoblauch, 2003, pp. 106-110, pur nella prevedibile divergenza di linguaggio e categorie culturali utilizzati per descriverla ed interpretarla. 76 Cfr. le analisi di Thompson, 2003b, pp. 140-141, e, in una prospettiva più generale, Segal, 2006, pp. 27-30 e 39-40.

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4. LO «SPIRITO» E L‘ESTASI: STORIA DI UNA VISIONE

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Letterariamente, Ap si presenta come trascrizione autobiografica unitaria di più esperienze visionarie. In quanto tale, da un lato, le copre e descrive, dall‘altro, coprendole e descrivendole, le compatta e interpreta, creando l‘universo del testo, in tutta la sua continuità e coerenza, scandita dai rimandi interni e, non ultimo, dalla 78 ricorrenza di «ejgenovmhn ejn pneuvmati» o «ajphvnegkevn me ejn pneuvmati» . Il ripetersi di queste espressioni formulari non è detto tuttavia che non segnali anche una sostanziale discontinuità, spaziale o temporale che sia, a livello esperienziale. Il resoconto di Giovanni potrebbe riallacciarsi allora a visioni, un viaggio celeste, traslazioni separati, in cui l‘autore ha voluto ravvisare un 79 filo conduttore, lasciandone sullo sfondo le fratture . Il punto che mi preme ancora una volta rilevare è che non si danno né si possono dare ingenuamente fatti senza interpretazione. Ap è, in quest‘ottica, una riscrittura di ―trances‖ culturalmente filtrata, e non potrebbe essere altrimenti: quello che Giovanni ha visto è esistito per le sette chiese ed esiste per noi solo nella misura in cui rappresenta quello che Giovanni ha dovuto e creduto di vedere secondo modelli culturali e sociali di comportamento pre80 vedibili . Essersi proposti, fin dove è possibile, di invertire il flusso di questo processo che ha portato al testo, nella forma letteraria in cui lo conosciamo, e di chiarire contesti, contorni e significati delle esperienze di Giovanni, come dal testo esplicitamente o implicitamente emergono, si è già risolto e non può che risolversi, dove il testo stesso taccia quanto dove esso parli, in una interrogazione dei presupposti culturali. Questo si rivela possibile anche e soprattutto in una prospettiva intertestuale: l‘inserimento dell‘Apocalisse in una costellazione di testi che tradiscano un sostrato culturale comune e corrispondenze ideologiche precise ci ha già permesso e ci permetterà ancora di vagliare ipotesi e prenderne successivamente in considerazione la plausibili81 tà storica .

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Cfr. Filho, 2002, che tuttavia non va oltre un‘analisi della struttura del testo. Si limita alla superficie narrativa e ad una prospettiva «storico-morfologica» anche il più recente e generale contributo di Arcari, 2004. 78 Filho, 2002, pp. 213-215.225.229-231. 79 Cfr. Berger, 1992, pp. 218-219, e Pesce, 2001, pp. 93; 97-101; 103, e comunicazioni personali. 80 Cfr. Pilch, 2004, pp. 74-76, e, nello specifico, Rowland, 2006, pp. 41-46 e 53. 81 Cfr. Destro – Pesce, 2004b, pp. 6-8 e 12.

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4.1 Il soggiorno a Patmos Giovanni apre il suo racconto dicendo espressamente di essere arrivato a Patmos «dia; to;n lovgon tou' qeou' kai; th;n marturivan ÆIhsou'» (Ap 1, 9). A cosa fa riferimento? Partiamo da due punti fermi: il primo è che, in Ap, l‘endiadi «parola di Dio e testimonianza di Gesù» definisce strettamente la rivelazione, le visioni che Giovanni attesta e trascrive come parole di profezia (Ap 1, 1-3; cfr. Ap 82 19, 10 e 22, 9) . Il secondo è la sfumatura causale-finale che diav con accusa83 tivo può assumere e di fatto necessariamente assume nel nostro versetto, 84 85 come forse anche in 2, 3 (cfr. Ap 2, 13 e 3, 8) . Seguendo Bousset e Kraft , 82

Cfr. Roose, 2000, pp. 37-47, in particolare, pp. 41-43, nonostante una tournure teologica ed esistenzialista di troppo, con inevitabili conclusioni generalizzanti che finiscono per perdere di vista il testo. 83 Emblematico Gv 12, 9: «h\lqon ouj dia; to;n ÆIhsou'n movnon, ajllÆ i{na kai; to;n Lavzaron i[dwsin o}n h[geiren ejk nekrw'n», costruzione che suppone che la folla fosse venuta a vedere sia Gesù che Lazzaro. Cfr. Tucidide 4, 40 e 5, 53; Platone, Resp. 367b e 524c; Aristotele, Eth. nic. 1172b, 21; Flavio Giuseppe, A.J. 9, 84; Mc 2, 27; Gv 11, 42 e 12, 30; Rm 4, 23-24 e 1 Cor 9, 10 (diav) in parallelo a Rm 15, 4 (eij~) e 1 Cor 10, 11 (prov~); 1 Cor 11, 9; Epifanio di Salamina, Pan. 2, 1, 63; Apophth. Patr. 292c. Questo uso si protrae fino in età bizantina e persiste nel neo-greco giav. Cfr. LSJ, s.v. diav, B. III. 2-3; Sophocles, 1887, s.v. diav, 6; BD § 222a. Mi sembra quantomeno significativo che Eusebio, H.E. 3, 18, 1, parafrasando Ap 1, 9, usi e{neken per il diav di Giovanni. 84 Non è quindi esatto affermare che «in der Offb gibt diav mit Akkusativ immer den Grund […] an», né che in 6, 9 e 20, 4 «lässt das dia, deutlich an eine Verfolgungssituation denken» (Roose, 2000, pp. 41-42; cfr. anche, tra i tanti, Lohmeyer, 1953, p. 15, e, più recentemente, Prigent, 2000, p. 97 e Horn, 2005, in particolare, pp. 145-146). Per un verso, infatti, in Ap 4, 11; 12, 11; 13, 14, il significato della preposizione sfuma sullo strumentale «in forza di, grazie a», per l‘altro, in Ap 6, 9 e 20, 4, sono i participi a convogliare l‘idea dell‘uccisione violenta, non la preposizione stessa, che rimane, per così dire, neutrale, indifferente. Tenendo conto anche dell‘accezione formulare di «parola di Dio e testimonianza di Gesù» sopra rilevata, e della menzione puramente di passaggio di Patmos quale semplice isola – e non quale luogo d‘esilio, come spesso erroneamente supposto – in Plinio il Vecchio, Nat. 4, 69, vengono a cadere tutti gli argomenti interni a favore di una supposta relegatio di Giovanni sull‘isola (cfr. Thompson, 2003a, pp. 33-34). La tradizione ecclesiastica sulla persecuzione imperiale ai danni dell‘apostolo Giovanni, apparentemente sconosciuta a Ireneo, che forse, però, già data il testo (o Giovanni in vita? Cfr. Haer. 5, 30, 1 e 3) sotto il regno dell‘ultimo dei Flavi, è attestata chiaramente solo a partire da Clemente d‘Alessandria (Quis div. 42: liberazione dopo la morte di un innominato tiranno) e Tertulliano (Praescr. 36, 3: relegatio da Roma, dopo un fallito tentativo di immersione nell‘olio bollente; manca il nome dell‘imperatore) in poi (Origene, Hom. Matt. 7, 51 e 16, 6; Vittorino di Petovio, Comm. Apoc. 10, 3; Eusebio, H.E. 3, 20, 9 e 3, 23, 1; Girolamo, Vir. ill. 10; Paolo Orosio, Hist. 7, 10, 5, tutti unanimi sul nome di Domiziano). Piuttosto che fondarsi su fonti esterne autonome, questa tradizione sembra essere nata da una riflessione esegetica sul testo simile a quella moderna, sostenuta dallo scarno accenno di Ireneo, e comunque circondata fin da subito di un alone leggendario (testi, discussione e ricostruzione in Horn, 2005, pp. 147-159). Sulla dubbia storicità di una persecuzione domizianea ai danni dei cristiani, cfr., ora, Thompson, 1990, in particolare, pp. 95-115, e 2003a, pp. 26-36; Ulrich, 1996, pp. 269-289; Riemer, 1998, in particolare, pp. 12-33 e 53-62;

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proprio sulla scorta di Ap 1, 1-3, potremmo quindi parafrasare: «ejgenovmhn ejn th/' nhvsw/ th/' kaloumevnh/ Pavtmw/ i{na marturhvsw to;n lovgon tou' qeou' kai; th;n marturivan ÆIhsou'». Detto questo, però, non abbiamo ancora risposto alla domanda, abbiamo semplicemente riformulato il pensiero: la ragione dell‘arrivo a Patmos va cercata nella rivelazione di Gesù Cristo, nell‘Apocalisse stessa; Giovanni è giunto sull‘isola per testimoniarla, ovvero riceverla e trasmetterla. Di nuovo allora: che cosa significa? Insieme a Lero e Lepsia, frouvrion di Mileto, Patmos aveva acropoli e postazioni fortificate, un torrione, terreni di proprietà di Apollo Didimeo, un ginnasio dedicato ad Ermes e un tempio di Artemide, e poteva permettersi ed offrie le varie pratiche rituali a questi ultimi connesse (feste, lampadedromie, riti misterici, banchetti), con tutto il flusso e riflusso di gente che presupponevano e attiravano. Per il resto, il suo territorio aspro e vulcanico, qua e là interrotto da torrenti e campi irrigui a prato, ben si prestava all‘allevamento 86 di capre . Ora, se il contenuto del libro viene per la prima volta rivelato su quest‘isola, come può essere stato contemporaneamente motivo e fine del viaggio? Cerchiamo di formulare un‘ipotesi – e tale deve rimanere – che, nel contesto sociale dell‘Apocalisse e dei suoi destinatari, abbia una qualche probabilità storica di colmare il vuoto di informazione lasciato aperto nella 87 porzione non scritta del testo . Nella letteratura di rivelazione, affiora di frequente un modulo formale per cui il rivelatore ingiunge al visionario di farsi trovare in un dato luogo, a discrezione dell‘uno o dell‘altro, eventualmente ad un‘ora stabilita, e lì atJossa, 2000, in particolare, pp. 73-82 e 85-86; Biguzzi, 2004, pp. 79-100, più preoccupato però di salvaguardare comunque la tradizione antica; Andrei, 2007, pp. 12-13 e nn.7-8. 85 Bousset, 1906, pp. 191-192; Kraft, 1974, pp. 40-42. Cfr. anche le osservazioni di Thompson, 1990, pp. 172-173, e 2003a, pp. 33-34, e Aune, 1997, pp. clxxvii-clxxviii e 81-82. 86 Cfr. Saffrey, 1975, in particolare, pp. 386-407, e Manganaro, 1963/64, in particolare per Patmos, pp. 329-346. Schmidt, 1949, fa ulteriore riferimento alla presenza di un ippodromo, di templi di Apollo e Dioniso, di un Amazonio. Stando agli storicamente sospetti Atti di Giovanni dello Pseudo-Procoro (V sec.d.C.), Patmos, nel fiorire di città e centri abitati, avrebbe annoverato anche un tempio di Zeus (158-159) e un paio di portici, ovvero la stoà Domizia a Phora (104-105), dove Giovanni e Procoro sbarcano sull‘isola (56: «h\lqomen ejn Pavtmw/ th/' nhvsw/ »; cfr. 98; 117; 154), e uno più piccolo chiamato «la porta», in una località imprecisata (122). Sui dati archeologici e letterari, si sofferma, più brevemente, anche Horn, 2005, pp. 139 e 147-149, con bibliografia. 87 Sulle società ad «alto contesto», cfr. Malina – Pilch, 2000, pp. 19-21 e, più estesamente, Malina, 1993, che sottolinea come il mondo Mediterraneo del I sec.d.C fosse «a high context society, with much of what they (scil. «the author» e «his Mediterranean hearers») intended to communicate totally absent from the text, yet rather firmly in place in the common social system into which they were socialized. The considerate reader needs to fill in the social system in order not to be mystified» (p. 22).

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tendere nuove comunicazioni e rivelazioni. Tale modulo è attestato tanto in apocalissi contemporanee a quella giovannea (cfr. 2 Bar. 10, 3; 20, 6 – 21, 3.6 – 22, 1; 43, 3 – 47, 1-2 – 48, 1.25-26; 4 Esd. 9, 24-26; 12, 51; 13, 56 – 14, 2; 14, 23-26 e 38-41; Apoc. Ab. 9, 1-10 e 12, 1-4; Herm. Vis. 3, 1, 1-5) quanto negli Atti di apostoli canonici (9, 3-12 e 22, 10). Similmente, sempre nella narrazione lucana, le discese di Agabo da Gerusalemme ad Antiochia di Siria, insieme ad altri profeti, e dalla Giudea a Cesarea Marittima, questa volta da solo, sono segnate da rivelazioni e legate alla sua attività profetica: come ricezione e comunicazione dell‘annuncio di una carestia, in un contesto comunitario, la prima (At 11, 27-29); come esecuzione di un‘azione simbolica e trasmissione di un avvertimento divino a Paolo, affidategli evidentemente già in Giudea, la seconda (At 21, 10-11). Paolo stesso e Barnaba, prima soli, poi insieme a Giuda e Sila, profeti anch‘essi (At 15, 32), svolgono la propria azione profetica itinerante in accordo con le indicazioni dello Spirito (At 13, 1-3 e 15, 22.28; cfr. anche 16, 6-7.9-12), e probabilmente quel parakalevw, che Luca, sulla scia del Paolo delle lettere, eleva a scopo e funzione principale di questa (cfr. At 11, 22-23; 14, 23; 15, 32, da una parte, e 1 Cor 14, 3.31 e 1 Ts 5, 11, dall‘altra), presuppone anche le stesse esperienze rivelatorie e visionarie in seno alle comunità di arrivo (cfr. Rm 11, 25-27; 1 Cor 14, 29-31 e 15, 54-55; 2 Cor 12, 1-7; 1 Ts 88 5, 19-22) . Ancora Ireneo riferisce come un certo Marco il ―mago‖ – o piuttosto il ―profeta‖? – e i suoi discepoli, a cavallo della metà del II sec.d.C., girassero, 89 di città in città («peripolivzonte"»), di casa in casa , per la provincia d‘Asia a «profetizzare» e «far profetizzare», nelle cene del loro «tiaso» (Haer. 1, 13, 3-6). Il vescovo di Lione liquida l‘esperienza estatica bollandola come 90 vaneggiare di parole sciocche buttate là per caso, vuote ed audaci , ma poi conosce e cita anche una lunga e complessa visione cosmogonica raccontata in prima persona dallo stesso Marco (Haer. 1, 14, 2 – 1, 15, 3). Il testo di Erma sopra citato è il più esplicito e diffuso, e vale la pena riportarlo per intero: «nhsteuvsa" pollavki" kai; dehqei;" tou' kurivou i{na moi fanerwvsh/ th;n ajpokavluyin h}n moi ejphggeivlato dei'xai dia; th'" presbutevra" ejkeivnh", aujth'/ th/' nuktiv, moi w\ptai hJ presbutevra kai; ei\pevn moi: ejpei; ou{tw" ejndeh;" ei\ kai; spoudai'o" eij" to; gnw'nai pavnta, ejlqe; eij" to;n ajgro;n o{pou condrivzei", kai; peri; w{ran 88

Cfr. Aune, 1996, pp. 377 e n.4, e 395-396. Sembra, infatti, che venissero ospitati negli oi\koi di altri seguaci di Gesù, o, quantomeno, questo è il caso esemplare di Marco, accolto da un diacono. 90 Cfr. la descrizione dell‘estasi di Montano e di due altre donne lì presenti, tratteggiata dall‘anonimo antimontanista (Eusebio, H.E. 5, 16, 7-9). 89

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pevmpthn ejmfanisqhvsomaiv soi kai; deivxw soi a} dei' se ijdei'n: hjrwvthsa aujth;n levgwn: kuriva, eij" poi'on tovpon tou' ajgrou'É o{pou, fhsivn, qevlei" ejxelexavmhn tovpon kalo;n ajnakecwrhkovta. pri;n de; lalh'sai aujth'/ kai; eijpei'n to;n tovpon, levgei moi: h{xw ejkei' o{pou qevlei". ejgenovmhn ou\n, ajdelfoiv, eij" to;n ajgro;n, kai; sunwvyisa ta;" w{ra", kai; h\lqon eij" to;n tovpon o{pou dietaxavmhn aujth'/ ejlqei'n, kai; blevpw sumyevlion keivmenon ejlefavntinon, kai; ejpi; tou' sumyelivou e[keito kerbikavrion linou'n, kai; ejpavnw levntion ejxhplwmevnon linou'n karpavsinon» (corsivo mio).

Siamo all‘inizio del resoconto autobiografico della terza visione: Erma digiuna e prega di ricevere la rivelazione promessagli nella visione precedente. Le sue preghiere sono esaudite: probabilmente in sogno, gli appare l‘anziana e vengono stabiliti luogo ed ora. Giunto sul posto («ejgenovmhn ou\n, ajdelfoiv, eij" to;n ajgrovn»: cfr. Ap 1, 10), Erma vede un subsellium di avorio, coperto da un cuscino e da un lenzuolo di lino sopra il cuscino; a questa vista si spaventa e trema (cfr. Ap 1, 17), finché, di nuovo in sé, non prende coraggio e torna a pregare. Sopraggiunge allora l‘anziana, in compagnia di sei giovani (Vis. 3, 1, 5-6), che, letteralmente, lo insedia al di sopra dei presbiteri, ma sotto i martiri, a motivo di una purificazione ancora incompleta (cfr. Vis. 3, 1, 8 – 3, 2, 4). Traducendo nel vocabolario pressoché analogo di Giovanni, potremmo dire che Erma si è recato nel campo «dia; th;n ajpokavluyin h}n moi ejphggeivlato (scil. oJ kuvrio") dei'xai dia; th'" presbutevra"» (cfr. Vis. 3, 9, 2 e Ap 1, 1-2.9-10): dati i punti di contatto evidenti – tradizionali e non – con lo snodarsi del resoconto giovanneo (cfr. anche Vis. 3, 9, 2 e Ap 4, 1), possiamo intuire anche una convergenza di fondo nel profilo dell‘esperienza visionaria che soggiace ai due testi? Possiamo cioè sottintendere una qualche concatenazione di visione/rivelazione e spostamento anche per Giovanni, e immaginare, dietro il suo arrivo a Patmos, uno scenario analogo? Credo sia un‘ipotesi quantomeno plausibile da tenere in considerazione, non solo perché Ap, nel suo intreccio di riprese e richiami interni, sembra suggerirla, e, presa di per sé, non è in contrasto né con la grammatica o l‘usus scribendi di Giovanni né con i dati archeologici a nostra disposizio91 ne ; non solo perché Ap mostra di conoscere questa forma di appuntamento 92 concordato o imposto per nuove visioni (cfr. 1, 19 e 4, 1) ; ma anche e so91

Contro la spesso frettolosa assunzione che Patmos fosse un‘isola poco densamente abitata, se non deserta (cfr. Lohmeyer, 1953, p. 15; Kraft, 1974, pp. 40-41; Roloff, 1984, p. 39; Müller, 1984, p. 81; Giesen, 1997, p. 84). 92 Una struttura sintattica simile si ritrova in 4 Esd. 9, 24-26: «ibis autem in campum florum […] et manduca solummodo de floribus campi, et carnem non gustabis et vinum non bibes sed solummodo flores, et deprecare Altissimum sine intermissione, et veniam et loquar tecum. Et profectus sum, sicut dixit mihi, in campum quod vocatur Ardat, et sedi ibi in floribus» (corsivo mio; cfr. anche 12, 51 e 13, 56-57); At 9, 6 e 22, 10; Herm. Vis. 3, 9, 2.4. In 2

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prattutto in ragione del suo potenziale esplicativo. Se Giovanni, infatti, è preparato alla visione, anzi, più correttamente, se Giovanni va sull‘isola per la rivelazione che poi confluirà nel rotolo, si dà anche conto del particolare della scrittura nel corso dell‘esperienza estatica (Ap 10, 4), ed il reperimento concreto del materiale scrittorio, il suo stesso essere implicitamente presupposto a portata di mano, non dovrebbe fare più problema (cfr. 4 Esd. 14, 2324 e 37-47). 4.2 Scene da una liturgia Giovanni è arrivato sull‘isola, dunque, non sappiamo se ed, eventualmente, come si sia preparato alle visioni, ma alla fine, «nel giorno del Signore», passa, giunge in «spirito» (Ap 1, 10). La puntualizzazione temporale inscrive probabilmente l‘esperienza nel 93 contesto liturgico domenicale : il «giorno del Signore», il primo giorno della settimana (1 Cor 16, 2 e At 20, 7), è il giorno in cui l‘ejkklhsiva si riunisce (Did. 14, 1), scandendo il tempo specifico della propria esistenza, inaugurata dalla resurrezione di Gesù (Ign. Magn. 9, 1; Ep. Apos. 18; Vang. Piet. 35 e 50; cfr. anche Barn. 15, 9). È il giorno in cui si rompe il pane e si mangia il kuriako;n dei'pnon per ricordare il Signore ed aspettarne il ritorno (1 Cor 11, 19-20 e 23-26; At 20, 7 e 11; Did. 14, 1 e 9 – 10, 1; cfr. anche 2 Pt 2, 13; Gd 12; Ign. Eph. 20, 2, e Smyr. 7, 1 e 8, 2; Plinio il Giovane, Ep. Tra. 10, 96, 94 7) . Domenicali e non, le riunioni dei primi gruppi di seguaci di Gesù, in spazi sociali e contesti cultuali, di caso in caso, più o meno plausibilmente ricostruibili, attestano diffusamente forme rituali loro proprie: preghiere (At 2, 42; 6, 6; 12, 5; 13, 3; 1 Ts 5, 17-18; 1 Cor 14, 13-15 e 16, 22; 1 Tm 2, 12.8; 1 Clem. 59-61; Herm. Mand. 11, 9; Ascen. Isa. 6, 8; Od. Sal. 37, 1-2), canto di inni e salmi (At 2, 47 e 4, 24-31; 1 Cor 14, 15; Ascen. Isa. 6, 3; antifonali in Plinio il Giovane, Ep. Tra. 10, 96, 7), lettura ad alta voce di lettere Bar., a seguire l‘imperativo si alternano participio (10, 3 e 20, 6) e futuro (20, 6 e 43, 3). Cfr. anche Gius. Asen. 14, 12-13. In 2 Bar. 22, 1, dopo la preghiera che Baruch eleva nel luogo indicatogli (20, 6) e, nel frattempo, raggiunto (21, 1-2), «ecco si aprirono i cieli e vidi e mi fu data forza e si udì una voce dalle altezze e mi disse» (cfr. Ap 4, 1-2; la traduzione dal siriaco è mia). Non sono però sicuro che, tra Ap 3, 14 e 4, 1-2, si possa effettivamente collocare uno spostamento fisico di Giovanni. Nel II sec.d.C., i viaggi terapeutici di Elio Aristide saranno pianificati da Asclepio in «visioni di sogni» (cfr., significativamente, Or. 49, 1 e 51, 8). 93 Cfr., più ampiamente, Bauckham, 1984, Llewelyn, 2001. Critico Young 2003. 94 Luca sembra comunque lasciare intendere che il primo giorno della settimana non fosse l‘unico ad essere esclusivamente deputato alla celebrazione di questo pasto comune (cfr. At 2, 46). Cfr. anche Did. 16, 2; Ign. Eph. 13, 1, e Pol. 4, 2; 2 Clem. 17, 3.

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(At 15, 22-31; 1 Ts 5, 27; 2 Ts 2, 2.15 e 3, 14; Col 4, 16), insegnamenti ed esortazioni (At 2, 42; 20, 7.11; 1 Ts 5, 11; 1 Tm 4, 11-13; 2 Tm 3, 16 e 4, 2; Plinio il Giovane, ibid.), cena del Signore, digiuno (At 13, 3), imposizione delle mani (At 6, 6 e 13, 3; 1 Tm 4, 14 e 5, 22; Ascen. Isa. 6, 5), bacio santo 95 (1 Ts 5, 26; 1 Cor 16, 20; 2 Cor 13, 12; Rm 16, 16; 1 Pt 5, 14) . Queste pratiche potevano preparare a e guidare in esperienze di contatto con il soprannaturale, attese e ricercate, interpretate e riconosciute come attività dello Spirito di Dio o intervento del Gesù celeste, venendone, a loro vol96 ta, integrate e ricostituite . Paolo elenca yalmov", didachv, ajpokavluyi", glw'ssa ed eJrmhneiva come contributo pneumatico personale all‘edificazione della comunità (1 Cor 14, 26; cfr. anche 14, 6.13-16 e Rm 14, 6-8); Col 3, 16 esorta ad esplorare la ricchezza della parola di Cristo, insegnando e incoraggiando con salmi, inni e canti spirituali elevati nel cuore a Dio; Ef 5, 18-20, sulla stessa linea, invita a non ubriacarsi di vino, ma piuttosto a riempirsi di Spirito, parlando tra di sé e inneggiando al Signore con il cuore in salmi, inni e canti spirituali. Una raccolta di questi inni ispirati vanno probabilmente considerate le Odi di Salomone, dietro la cui composizione 97 si può intuire il profilo di un‘attività profetica . Questa anche, infatti, era aspettata manifestarsi nelle comunità, e intor98 no ad esse ruotava , come sappiamo non solo di Tessalonica (1 Ts 5, 20), Filippi (Fil 3, 15), Corinto (1 Cor 13, 2 e 14, 1-6.26.29-31), Roma (Rm 12, 6), o Efeso (Ef 1, 17-19), nell‘ambito, insomma, della missione paolina. Secondo la ricostruzione lucana, infatti, il profeta Agabo, disceso da Gerusalemme in compagnia di altri profeti, riceve la sua rivelazione dallo Spirito, al termine del viaggio, seduto in una ejkklhsiva ad Antiochia di Siria, si alza e pre95

Cfr. soprattutto Lampe, 1987, in particolare, pp. 233-241; 257-263; 301-320, e 1991, in particolare, pp. 186-203; Smith, 2003, in particolare, pp. 173-217; Horbury, 2005. Cfr. anche Meeks, 1983, in particolare, pp. 29-36; 75-84; 140-163, e Stegemann – Stegemann, 1995, pp. 237-246. 96 Cfr. Meeks, 1983, pp. 148-149; Lampe, 1991, pp. 188-191; Thompson, 2003b, pp. 141-145; Destro – Pesce, 2007b. Quest‘ultimo contributo insiste sulle parole scritte o pronunciate come strumento religioso in cui, all‘interno dei gruppi di seguaci di Gesù, si traduce una rivelazione, qui intesa genericamente come «una qualsiasi comunicazione da parte di potestà divine inviata a specifici individui e da loro coscientemente ricevuta ed espressa con precise modalità o forme culturali. In qualsiasi caso, il termine ―rivelazione‖ rinvia a procedimenti ed esperienze di conoscenza molto particolari che riguardano l‘auto-consapevolezza e l‘identità stessa dei soggetti in scena» (p. 79). Su rituali e stati alterati di coscienza, cfr. anche Bourguignon, 1979, pp. 243-244; Goodman, 1972, pp. 75-86, e 1994, pp. 48-51; D‘Aquili – Newberg, 1993, in particolare, pp. 28-31; Pilch, 2004, pp. 170-180; Lapassade, 2008, passim. Più cauto Forbes, 1995, pp. 282-283. 97 Cfr. Aune, 1972, in particolare, pp. 166-194, e 1982, pp. 435-460. 98 Cfr. Reiling, 1973, in particolare, pp. 143-151, e 1977, in particolare, pp. 60-61 e 6676; Aune, 1972, pp. 177-181 e, più ipoteticamente, 1996, pp. 363-367; più reciso, invece, il giudizio di Forbes, 1995, pp. 242-247; 288-289; 304.

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dice la carestia incombente, muovendo i discepoli a risolversi per un intervento di aiuto (At 11, 28-29; cfr. anche 1, 14-15 e 2, 1-4). L‘invio in missione di Paolo e Barnaba è sancito dallo Spirito Santo, evidentemente per bocca di uno dei profeti o dei maestri presenti, «mentre servivano al Signore e di99 giunavano» (At 13, 1-3; cfr. 1 Tm 1, 18 e 4, 14; Can. Murat. 11-14) . Giuda e Sila, infine, profeti anch‘essi, confortano e incoraggiano i fratelli radunati 100 ad Antiochia (At 15, 30-32) . Nel Vangelo di Giovanni, la prima apparizione di Gesù ai soli discepoli avviene la sera del primo giorno della settimana, a porte chiuse (Gv 20, 1923). Questo ha indotto a pensare che «il redattore stia immaginando una scena di un‘assemblea cultuale della comunità. Forse, il redattore modella questa scena ispirandosi a prassi liturgiche profetiche dell‘ambiente giovannista o addirittura sta costruendo il loro modello fondativo» 101 (Destro-Pesce, 2003, p. 92) .

La Didaché lascia piena libertà ai profeti di «ringraziare» (10, 7), nel 102 corso del pasto eucaristico (Did. 9 – 10) , mentre, per Erma, il vero profeta è riempito di Spirito santo dall‘angelo dello Spirito profetico, solo quando si sia elevata una preghiera a Dio in seno ad una «assemblea di uomini giusti 103 che hanno la fede dello Spirito divino» (Herm. Mand. 11, 9) . Più in dettaglio sembrano scendere le Odi di Salomone: i singoli membri della comunità si alzano (8, 3-4; cfr. 26, 12), allargano le braccia a forma di croce (27, 1-3; 35, 7; 37, 1), ed elevano la preghiera (cfr. 14, 7-8 e 37, 1104 2) , i «cantori» (26, 12; cfr. 7, 17), chiamati anche «veggenti» (7, 18) o, ancora, «servitori di quella bevanda» (6, 13), sperimentano il «riposo» dello 99

Rimane poco chiaro se si tratti di una liturgia che coinvolge l‘intera comunità, oppure specificatamente profetica. 100 Per l‘interpretazione dei singoli passi, cfr. Aune, 1996, pp. 354-355; 395-396; 491499. 101 Sulle capacità profetiche del Gesù giovannista, dei discepoli e della comunità, e infine del redattore che ha prodotto il testo, cfr. Boring, 1979 e 1982, in particolare, pp. 48-50 e 70; Destro – Pesce, 2000, pp. 89-94 e 122-126; Iid., 2001; Iid., 2003, pp. 144-168. Sul contesto liturgico del profetismo giovannista, cfr. Aune, 1972, in particolare, pp. 65-135. 102 Sulla pratica del ringraziamento profetico e la sua persistenza, tra II e III sec.d.C., cfr. le testimonianze su Marco in Asia (Ireneo, Haer. 1, 13, 2-5), Peregrino in Siria-Palestina (Luciano, Peregr. 11-16), e la profetessa anonima in Cappadocia e Ponto (lettera di Firmiliano in Cipriano, Ep. 75, 10, 2-5). 103 Cfr. Reiling, 1973, pp. 122-151; Norelli, 1994, pp. 235-248; Aune, 1996, pp. 366367 e 390-393. 104 Sull‘estensione (e[ktasi~) delle mani come gesto di preghiera, cfr. Origene, Or. 31, 2. Ancora l‘Alessandrino (Cels. 7, 44 e Comm. Jo. 28, 24-25) sembra attestare la connessione fra preghiera e viaggio celeste. Sull‘analisi di questa dinamica si è soffermato Perrone, 2001, pp. 136-139.

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Spirito e intonano odi in cui visioni, audizioni, viaggi celesti, discorsi in 105 prima persona del Gesù risorto si intrecciano . L‘Ascensione di Isaia ci offre un altro approfondito termine di paragone: Isaia, seduto sul letto, inizia a parlare nello Spirito Santo, scambiando con Ezechia «parole di fede e di verità», di fronte ai principi di Israele, agli eunuchi, ai consiglieri del re, a quaranta profeti e figli di profeti e al popolo (6, 2-7). Al che tutti cadono in ginocchio e glorificano il Dio di verità che si sta rivelando, finché Isaia tace, gli occhi aperti, unicamente le funzioni vitali in attività, e, sprofondato nella trance, sperimenta un viaggio celeste (6, 8-13 e 7, 2). Quando Isaia torna in sé, popolo, eunuchi, principi vengono fatti uscire, e la visione narrata ai soli Ezechia, Josab, il figlio di Isaia, profeti e 106 giusti, in cui era il profumo dello Spirito (6, 15-17) . Quanto questa precisa fenomenologia dell‘esperienza e della sua trasmissione possa essere pensata riflettere una prassi liturgica reale, trova ulteriore conferma in una polemica paolina e in una testimonianza oculare di Tertulliano. In 2 Cor 12, Paolo si vanta delle visioni e rivelazioni che ha sperimentato, passando a raccontare un rapimento al terzo cielo e uno (o è lo stesso?) fino al paradiso – se nel corpo o fuori dal corpo, rimane incerto anche a lui –, dove sarebbero poi risuonate parole che a un essere umano non è lecito pronunciare. Preferisce però subito chiudere la parentesi perché nessuno si faccia un giudizio di lui basandosi sulla ricchezza delle sue esperienze di contatto con il mondo divino (1-7). Nell‘immaginazione di Paolo e nel linguaggio che culturalmente la esprime, dunque, le ajpokaluvyei" che il profeta riceve seduto nell‘assemblea comunitaria (1 Cor 14, 29-31; cfr. 14, 6.26) possono, di fatto, presupporre e, in sostanza, rivelarsi viaggi celesti, in quanto 107 ejkstavsei" (2 Cor 5, 13; cfr. 1 Cor 14, 2.28) . Sta poi al profeta parlare, nel silenzio degli altri (1 Cor 14, 29-31). Dalla sua, Tertulliano, An. 9, 4, riporta il caso di una sorella «apud nos revelationum charismata sortita, quas in ecclesia inter dominica sollemnia per ecstasin in spiritu patitur; conversatur cum angelis, aliquando etiam cum Domino, et vidit et audit sacramenta et quorundam corda dinoscit et medicinas desiderantibus sumit. Iamvero prout scripturae leguntur aut psalmi canuntur aut allocutiones proferuntur aut petitiones delegantur, ita inde materiae visionibus submini105

Cfr. Aune, 1982, pp. 439-449. Cfr. Bori, 1980, in particolare, pp. 374-385, e 1983, in particolare, pp. 140-145; Norelli, 1994, pp. 235-236, e 1995b, ad locc. Segnalo qui che anche 4 Bar. 9, 1-28, poco dopo il 136 d.C., sembra presupporre uno scenario liturgico simile. 107 Cfr. Lincoln, 1979, p. 219, e Shantz, 2008, pp. 196-197, con bibliografia. Significativa la parafrasi 2 Cor 12, 2-5 offerta da CMC 61, 22 – 62, 1: «wJ~ ejkto;~ eJautou' aJrpageiv~ ». 106

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strantur. Forte nescioquid de anima disserueramus, cum ea soror in spiritu esset. Post transacta sollemnia dimissa plebe, quo usu solet nobis renuntiare quae viderit (nam et diligentissime digeruntur, ut etiam probentur), “inter cetera”, inquit, 108 “ostensa est mihi anima corporaliter […]”» (cfr. anche Epifanio, Pan. 49, 2, 3-4) .

Proiettata su questi scenari plausibili, l‘Apocalisse stessa sembra conservare tracce di una qualche cerimonia liturgica a monte dell‘esperienza 109 visionaria . Senza volere presumere di ricostruirne in dettaglio elementi, struttura e sviluppo, alcune osservazioni ci possono aiutare a metterla quan110 tomeno in luce . Nel «giorno del Signore», alle liturgie angeliche si affaccia a prendere parte anche una «folla grande» (Ap 7, 9-10; 19, 1-3.6-8), con dignità e funzioni sacerdotali (Ap 7, 15): sembra essere, a tutti gli effetti, il corrispettivo celeste delle ejkklhsivai terrene che, nella dimensione cultuale loro propria, si presuppone evochino il culto del mondo divino, agganciandosi ed alline111 andosi ad esso (cfr. Ap 3, 10; 7, 14; 11, 18; 12, 12; 13, 6-7; 18, 20; 19, 5) . All‘apertura del settimo sigillo, calato il silenzio, le «preghiere dei santi» (Ap 5, 8) sono offerte sull‘altare e trovano la loro via al cospetto di Dio (Ap 8, 1.3-4). Inoltre, queste scene di culto in cielo sono immaginate recuperare e comprendere forme e materiali sicuramente attestati nell‘uso comunitario cristiano per il I sec.d.C., quali l‘antifonia degli inni, le dossologie o 112 l‘apertura di preghiera «eujcaristou'mevn soi» . Non ultimo, anche il gesto della proskynesis, più volte ripetuto dalla corte celeste (Ap 4, 10; 7, 11; 11, 16; 19, 4), presenta affinità strutturali rilevanti con il modello di liturgia profetica riflettuto e proposto da Paolo in 1 Cor 14, 24-25. A seguito di un‘attenta e minuziosa ricostruzione, Pesce (1985, p. 401) lo descrive così: «Dopo la profezia, come dopo la glossolalia, come dopo ogni atto di preghiera o simili, l‘assemblea risponde con un semplice ―Amen‖ o con una risposta libera che viene introdotta e preceduta dalla proskynesis. La prostrazione viene fatta proprio perché la manifestazione dello spirito di Dio presente nell‘assemblea richiede da 108

Cfr. Waszink, 1947, ad loc., e Norelli, 1994, pp. 245-247. Cfr. Robert Nusca, 2005, e, con alcune riserve, Gieschen, 2006, pp. 352-354. 110 Rielaboro qui, nella mia prospettiva, analisi e conclusioni di Jörns, 1971. 111 Per questa identificazione, cfr. l‘esegesi puntuale di Ulfgard, 1989, pp. 69-107, e gli accenni di Gieschen, 2006, p. 351. 112 Discussione in Jörns, 1971, pp. 65-73; 98-99; 161-163. Interessante il confronto ancora con la testimonianza di Plinio il Giovane (Ep. Tra. 10, 96, 7: «carmenque Christo quasi Deo dicere secum invicem»), la danza di Gesù e degli apostoli in Atti Giov. 94-96, e con il frammento di inno ricopiato sul verso dell‘ultimo foglio di P.Bodm. 13 (III sec.d.C.), a seguire immediatamente il Peri; to; Pavsca di Melitone di Sardi. 109

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parte di questa un atto di adorazione della Presenza e di sottomissione alla volontà di 113 Dio che si è manifestata» .

Ora, la partecipazione di un estraneo alla riunione, tenuta probabilmente in una casa privata, la sua prostrazione di fronte all‘evidenza della teofania e la sua proclamazione di fede definiscono strutturalmente il quadro prospettato da Paolo, eppure, mancano in tutti i paralleli individuati da Pesce in Ap. Ritornano tuttavia in Ap 3, 8-9: il Signore risorto afferma di aver lasciato una porta aperta (quvra hjnew/gmevnh!) davanti all‘angelo dell‘ejkklhsiva di Filadelfia, e farà in modo che i «Giudei» dell‘«assemblea di Satana», forse Ebrei, forse altri seguaci di Gesù, in ogni caso, estranei al gruppo e non Ebrei, per Giovanni, vengano (h{xousin) e si prostrino ai suoi piedi (proskunhvsousin), riconoscendo (gnw'sin) che il Signore lo ama114. Porta del cielo 115 (cfr. Ap 4, 1) o di un‘abitazione che sia, compaiono qui di nuovo quegli stessi elementi di verosimiglianza sociologica che, filtrati nelle scene celesti, nel loro insieme, restituiscono plausibilità storica di uso liturgico alla rappre116 sentazione letteraria giovannea della proskynesis . Continuità e comunione, dunque, tra culto terreno e culto celeste, nella 117 visione, di domenica . Il cerchio si chiude: il rotolo di Giovanni è destinato alla lettura comunitaria – ciò almeno presuppone la beatitudine di Ap 1, 3, indirizzata ad un lettore e più ascoltatori –, l‘esperienza della rivelazione si 118 riattualizza e rinnova nel suo contesto culturale originario .

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Per l‘analisi esegetica e la ricostruzione, vedi Pesce, 1985, pp. 388-403. Mi sembra interessante notare come il parallelo formulare offerto da Ap 2, 23 («gnwvsontai pa`sai aiJ ejkklhsivai o{ti ejgwv eijmi oJ ejraunw`n nefrou;~ kai; kardiva~ kai; dwvsw uJmi`n eJkavstwó kata; ta; e[rga uJmw`n»), nel contesto immediato della lettera a Tiatiri (Ap 2, 18-29), presupponga una concezione di profezia come scandaglio e svelamento ―pneumatico‖ dell‘interiorità umana e anticipazione del giudizio escatologico, del tutto simile a quella accennata da Paolo in 1 Cor 14, 23-25. Cfr. Pesce, 1985, pp. 408-432, e Roose, 2000, pp. 162-175; 179; 191-193, che però sfiora il punto solo di riflesso. 115 Così intende, ad esempio, Gieschen, 2006, pp. 352-353, che presuppone, come chiave interpretativa, una riattualizzazione del viaggio celeste di Giovanni, sempre comunque in contesto liturgico. 116 Cfr. Pesce, 1985, pp. 403-408 e Destro – Pesce, 2004b, pp. 28-30. 117 Cfr. le liturgie angeliche (4Q400ShirShabba fr. 2, 2-7), gli inni (1QHa 3, 21-22 e 11, 7-13) e la Regola delle Benedizioni di Qumran (1QSb 3, 25-26 e 4, 24-26), secondo la correlazione reciproca indicata ed approfondita da C. Newsom nell‘introduzione a Charlesworth – Newsom, 1999, in particolare, pp. 4 e 9-12. Cfr. anche 1 Cor 11, 10 (istruzioni su preghiera e profezia femminili!); Col 2, 18; Eb 10, 22-24; Ascen. Isa. 6, 8 e 10, 6, con il commento di Norelli, 1995b, a 6, 8, in particolare, pp. 337-339, e le annotazioni di Himmelfarb, 1988, pp. 9193; Origene, Or. 31, 5 e Hom. Luc. 23, 177-178. 118 Cfr. Aune, 1972, in particolare, pp. 178-179; Thompson, 1990, pp. 71-73; Gieschen, 2006, p. 352. Più esitante Norelli, 1994, p. 239. 114

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4.3 Archeologia del pneu'ma: visioni e viaggi celesti Probabilmente preparato e guidato, quindi, da preghiere di invocazione e attesa o inni, forse anche da altri fenomeni di contatto con il divino in corso, Giovanni entra in quello stato che riconosce come e chiama pneu'ma. Se dobbiamo pensare al dei'pnon in un edificio chiuso come cornice li119 turgica specifica dell‘esperienza , il trapasso nella nuova condizione si con120 suma in un radicale oscuramento della percezione dello spazio circostante : fenomeni auditivi, più o meno articolati e distinti (Ap 1, 10.17; 2, 1 – 3, 22) e 121 apparizioni bianco-luminose, anche intense (Ap 1, 14-16) , si riorganizzano intorno ad un centro vagamente localizzato dietro il veggente e interpretato come «un simile ad un figlio d‘uomo» in mezzo a sette lucerniere dorate, ognuna con un proprio luogo (Ap 1, 10.12 e 2, 5), e su di un suolo, su di una 119

Per una discussione dell‘evidenza archeologica e letteraria di questa pratica religiosa centrale per la vita delle associazioni volontarie del mondo greco-romano, cfr. Osiek – Balch, 1997, pp. 193-204, e Harland, 2003, pp. 61-83. Smith, 2003, pp. 176-177 e 181-187, e Horbury, 2005, pp. 242-250 e 258-261, argomentano convincentemente per la sua diffusione nelle comunità di seguaci di Gesù di Gerusalemme e della Giudea, Antiochia e Siria, Galazia, Frigia, Corinto, Africa (cfr. Pass. Perp. 17, 1!) e Roma. Per le attestazioni tra i gruppi di seguaci di Gesù in Asia Minore durante i primi due secoli, cfr. At 20, 7.11; Ef 5, 18-19; Col 3, 16, con l‘istruttiva interpretazione di Clemente d‘Alessandria in Paed. 2, 43, 1-3; Plinio il Giovane, Ep. Tra. 10, 96, 7; Ireneo, Haer. 1, 13, 4. Tanto Ef e Col che Ireneo mettono più o meno esplicitamente in luce la frequenza di episodi estatici nello svolgersi del banchetto (cfr. anche Aristosseno di Taranto in Apollonio, Hist. Mir. 40, 1; Filone, Contempl. 83-88; Gd 8.12; 2 Pt 2, 1.10.13.18; Plutarco, Quaest. conv. 713a; Ps.-Clemente, Hom. 3, 13, 3 e 11, 14, 1; Rec. 4, 13.30 e 5, 30-31); al riguardo, si rivelano utili le pagine di Klinghardt, 1996, pp. 200-216 e 343-351, e Deutsch, 2006, pp. 288-308. In Ap, il culto sacerdotale della Gerusalemme celeste e l‘esperienza liturgica della visione del volto di Dio (22, 3-4; cfr. 19, 7-8 e 21, 2.9) realizzano il dei'pnon escatologico promesso a più riprese (cfr. 2, 17; 3, 20; 19, 9), secondo una convergenza di immagini attestata anche in Filone, QE 2, 39; Mut. 137.259-260; Fug. 137-139, e in Gn Rab. 2, 2; Lev Rab. 20, 10; Nm Rab. 20, 10; b. Ber. 17a (cfr. l‘analisi di Lieber, 2006); per converso, della visione-banchetto godono i servi sigillati con il nome di Dio e dell‘Agnello, e avvolti in vesti bianche (Ap 22, 4.14; cfr. 7, 2-17 e 14, 1), dettagli che riflettono una qualche forma di rito battesimale in uso, come dimostrato da Gieschen, 2006, pp. 342-352. Due segni evidenti, crediamo, che, anche nell‘immaginazione di Giovanni, prassi liturgica comunitaria e forma simposiale si sovrappongano e coincidano (cfr. le conclusioni di Osiek – Balch, 1997, p. 208). Sulla pervasività della metafora del banchetto escatologico in Ap, cfr. Lichtenberger, 2004, pp. 244-250. 120 Cfr. le interviste a visionari tedeschi contemporanei riportate da Knoblauch, 2003, p. 109. 121 La loro frequenza generale è rilevata da Goodman, 1987, in particolare, p. 283; Berger, 1992, pp. 215-216; Pilch, 2004, pp. 20-21 e 71-72. Già Plutarco, Amat. 762d-e, scriveva che gli uomini, per la maggior parte, «se scorgono un bagliore (sevla~) in casa di notte, lo ritengono divino (qei'on) e stupiscono». Cfr. Ez 1, 4; Dn 7, 9-10 e 10, 5-6; CIL VI, 3 nr. 21521; Plutarco, Virt. prof. 81d-e; Ps.-Ippolito, Haer. 4, 35, 3-36, 1; Corp. herm. 1, 1-6; Ps.Ippocrate, Ep. 15, 4-6; Apoc. Seth in CMC 50, 12-18; Apoc. Sem in CMC 56, 12-20; Apoc. Enosh in CMC 59, 17 – 60, 8; PGM IV, 1104-1112; Giamblico, Myst. 3, 6; Gregorio di Nazianzo, Or. 4, 55; Proclo, Comm. Resp. 1, 110-111.

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superficie alquanto indeterminata (Ap 1, 17 e 2, 1). Percezioni ordinarie e non ordinarie si fondono inscindibilmente nel dare forma alla figura che è 122 apparsa . 123 Da una posizione possibilmente distesa o seduta , Giovanni ricorda di essersi girato (Ap 1, 12), per poi crollare a terra (Ap 1, 17), e di aver sperimentato sensorialmente l‘accostarsi della realtà altra che gli si è dischiusa, 124 non ultimo anche per via tattile (ibid.) : l‘improvvisa consapevolezza della presenza e della gloria dell‘angelo lo ha terrorizzato fino all‘impotenza ed al 125 collasso . L‘esperienza è descritta rasentare la morte (ibid., cfr. T. Ab. [L] 9, 1-3), e alla destra dell‘angelo che si posa su di lui è implicitamente attribuita la funzione di rinforzarlo e rimetterlo in piedi (cfr. Ez 1, 28 – 2, 2; Dn 8, 1718 e 10, 7-11.16-19; 4 Esd. 10, 29-37). Sembra quindi sottesa la percezione di rinnovamento e rigenerazione (cfr. PGM IV, 504-535), quasi di nuova creazione (cfr. Ap 11, 11 e Ez 37, 5-10, e Apoc. Sem in CMC 57, 3-20), secondo quella sequenza di morte e rinascita attestata nei resoconti di molte 126 esperienze estatiche . A riportare in piedi ed in vita Giovanni, dettaglio su

122

Per un discorso tardo-antico su forme e amorfia delle apparizioni luminose, cfr. Porfirio, Philos. orac. in Eusebio, Praep. ev. 5, 8, 10; Proclo, Comm. Resp. 1, 110-111 e Comm. Crat. 71, 54; Michele Psello, Exp. orac. in PG 122, 1136b-c. 123 Sono queste le due posture normalmente previste dalle regole simposiali (Luciano, Symp. 13). Cfr. anche Lampe, 1991, pp. 190-191; Osiek – Balch, 1997, p. 203; Smith, 2003, pp. 24-27 e 178. Un oracolo di Prisca, citato da Tertulliano (Exh. cast. 10, 5), attesta, per l‘Asia Minore del II sec.d.C., la pratica di piegare il viso in basso, con tutta probabilità da seduti, per udire voci salvifiche: sembra essere la stessa posizione assunta da Elia in preghiera in 1 Re 18, 42, adottata, secondo la tradizione rabbinica, anche da Hanina ben Dosa ed Eleazar ben Dordio (cfr. b. Ber 34b e b. „Abod. Zar. 17a), e successivamente diffusa per preparare la discesa nella merkabah (Hek. Zut.̣ § 424 Schäfer; cfr. Morray-Jones, 2006, pp. 171-172). 124 Berger, 1992, pp. 212-213 e 219, offre una dettagliata analisi letteraria e storicoreligiosa della collocazione tradizionale delle apparizioni rispetto al visionario, e dei motivi del suo voltarsi ed essere rialzato, in età greco-romana. 125 Cfr. 1 En. 14, 9.13-14; Dn 7, 15 e 10, 17-18; CIL VI, 3 nr. 21521; 4 Esd. 5, 14-15; Plutarco, Sera 568a; Giuliano, Ep. 16, 2-3; Apoc. Enosh in CMC 53, 1-10; Apoc. Sem in CMC 57, 3-16, e il tremore scatenato nei posseduti dagli spiriti zar (Kenyon, 1999, p. 96) o loa (Métraux, 1971, pp. 120-122). Significative anche le esperienze personali raccontate da Lapassade, 2008, p. 225. 126 Cfr. Davila, 2002, e 2006, pp. 106-107 e 123-125; Walsh, 2007, pp. 71-84; Shantz, 2008, pp. 198-203; Lapassade, 2008, p. 85. Sulla connessione fra posizione distesa e morte, posizione eretta e creazione dell‘uomo insistono anche altri testi databili tra la fine del I e la seconda metà del II sec.d.C: secondo 4 Esd. 4, 5, la polvere dà ad Adamo «corpo di morti», poi vivificato dal soffio divino; per Saturnino, stando a Ireneo, Haer. 1, 24, 1, Adamo, prima di ricevere la scintilla di vita che lo raddrizza, non ce la faceva ad alzarsi in piedi, e si agitava sul suolo come un verme; Vang. Naass. in Ps.-Ippolito, Haer. 5, 7, 6, precisa che Adamo, ancora privo di anima, giaceva disteso a terra, immobile, senza il minimo sussulto e senza respiro come una statua. In Ap è la stessa resurrezione di Gesù ad essere considerata un ritorno alla vita e alla posizione eretta (cfr. 1, 5.18; 2, 8; 3, 21; 5, 6).

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cui il testo non si sofferma, limitandosi a presupporlo , sono di fatto le parole immediatamente successive dell‘angelo: queste pronunciano e compiono la trasformazione, rievocando e riattualizzando il potere soprannaturale manifestatosi nel passaggio dalla morte alla vita e nella nuova identità divina 128 del Gesù che l‘angelo incarna e rappresenta (Ap 1, 18) . Il trasferimento del potere e della nuova condizione, creati ed attivati dall‘atto verbale, passa per il contatto raggiunto tra il corpo collassato di Giovanni e quello glorioso 129 dell‘angelo, che produce unione e identificazione del primo con il secondo . Al termine della dettatura delle sette lettere (Ap 2 – 3), il meta; tau'ta di 130 Ap 4, 1 segna un primo stacco temporale . Il punto di orientamento costituito dal «simile ad un figlio d‘uomo» scompare, le pareti si aprono, lo spazio già indistinto si dilata fino ad essere completamente trasceso: sullo sfondo appaiono il cielo ed una porta aperta, il mondo celeste che rivela e attira. Giovanni deve essere ancora «in spirito», tanto più che l‘audizione si ripete ed è la stessa voce di prima ad accompagnarlo fuori di sé. Eppure, come se 131 già non lo fosse, entra di nuovo, «eujqevw~» – scrive – «ejn pneuvmati», e sa127

Analogo ritorno dalla posizione distesa a quella eretta è evidentemente implicito anche tra Ap 19, 9-10 e 19, 11; 21, 9-10. Il cadere ai piedi dell‘angelo in 2, 17 non va comunque confuso con la proskynesis di 19, 10 e 22, 8, come fa invece Lupieri, 2000, pp. 118-119: nella corrispondenza strutturale, a fare e segnalare la differenza, sono, rispettivamente, la similitudine «wJ~ nekrov~» di 2, 17, assente in 19, 10 e 22, 8, e l‘infinito con valore finale «proskunh'sai (aujtw/')» di 19, 10 e 22, 8, assente, a sua volta, in 2, 17. 128 L‘angelo parla chiaramente in prima persona a nome di Gesù risorto. Le sue parole assumono quindi il carattere di auto-presentazione performativa che comunica ed infonde la vita dopo la morte che Gesù dice di aver sperimentato ed essere. Non siamo distanti dal saluto ripetuto di Gv 20, 19.21, o dall‘uso del nome o di parabole e racconti della vita di Gesù per esorcizzare indemoniati, guarire paralitici e produrre estasi, sogni o insonnia (cfr. Mc 9, 39-40 par.; At 3, 6-8 con 4, 10 e 19, 13; Ireneo, Haer. 1, 13, 2; Origene, Cels. 1, 6.25; T. Sal. 6, 8; 11, 6; 22, 20; PGM IV, 1234.3019-3020 e XII, 192.389). La convinzione che le parole di Gesù racchiudessero potenza era diffusa, come attestano Gv 6, 63 e 15, 3 (le parole del maestro sono spirito e vita, e purificano); Massimilla in Eusebio, H.E. 5, 16, 17 (colui che parla per bocca della profetessa, con tutta probabilità, Cristo, come chiariscono i suoi altri due logoi citati da Epifanio, Pan. 48, 12, 4 e 13, 1, si definisce parola, spirito e potenza); Clemente di Alessandria, Exc. 3, 1 (le parole del Signore sono potenza; per questo, infiammano e fanno risplendere la luce di cui parlano, alla stregua dell‘insufflazione dello Spirito dopo la resurrezione). Sull‘efficacia della parola dell‘angelo in una delle scene che hanno fornito il modello letterario a Giovanni per riferire della sua esperienza, cfr. Dn 10, 18-19: «E mi toccò di nuovo come un‘apparenza d‘uomo e m‘infuse forza. E disse: ―Non temere, uomo prediletto, pace a te! Recupera le forze, rinfrancati!‖, e mentre parlava con me, mi ritornarono le forze e dissi: ―Parli il mio Signore, perchè mi hai restituito le forze‖» 129 Cfr. le riflessioni di Destro – Pesce, 2008, pp. 183-184, sul potere del corpo di Gesù e le guarigioni. 130 Meta; tau'ta ed il suo equivalente meta; tou'to articolano, qui come altrove, lo snodarsi interno delle visioni, senza peraltro sembrar presupporre eccessiva soluzione di continuità tra l‘una e l‘altra (cfr. Ap 7, 1.9; 15, 5; 18, 1; 19, 1). 131 Il senso di repentinità nel passaggio ad una forma altra di percezione è ancora elemento ricorrente nelle descrizioni di esperienze visionarie autobiografiche citate da Kno-

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le al cospetto del trono divino (Ap 4, 1-2) . Sospetto che qui Giovanni stia cercando di descrivere una seconda fase, più profonda forse, della sua estasi, in cui il passaggio nello stato di pneu'ma sia stato vissuto come immediata e netta percezione del proprio separarsi dal corpo fisico e del salire in cielo, intrapreso in quella stessa dimensione o esistenza di pneu'ma già sperimenta133 ta con la prima visione e ancora individuata come sé . Non penso a due esperienze separate e distanti, quanto piuttosto, a due momenti successivi e progressivi della stessa. Si guardi ancora all‘Ascensione di Isaia: dopo le parole di verità e di fede pronunciate da Isaia ed Ezechia, vengono udite una porta aprirsi e la voce dello Spirito manifestarsi nell‘ispirazione profetica di Isaia, seduto sul letto. Poi, improvvisamente, Isaia tace, ha gli occhi aperti, ma non vede, può solo respirare: è subentrata l‘ascesa ai cieli (6, 6-14 e 7, 2-9). Risalta, nel racconto, come anche Isaia tenda a sincronizzare il primo annuncio profetico e la visione dell‘angelo: questi lo prende per mano, dialoga con lui e fa per condurlo attraverso i sette cieli, o mentre ancora Isaia sta parlando – eppure gli astanti non vedono nulla – o quando già tace e rimane immobile – eppure il popolo è ingannato da ciò che vede e pensa che il profeta sia morto (cfr. 6, 68.14 e 7, 2-5). Mi sembra chiaro che il discorso, per avere una logica, vada spostato e compreso su un piano non fisico. Allo stesso modo, Giovanni, in un primo momento, vede, ascolta, si muove ejn pneuvmati, ad un livello di percezione fisica già offuscata ed alterata, tutta concentrata sulla visione incipiente; successivamente, nel varcare la porta aperta, la trance acquista profondità e viene sperimentata, interpretata e descritta come ascesa in cielo, senza più limiti fisici tra il proprio sé, 134 comunque immaginato in una integrità ―corporea‖, e gli oggetti percepiti . blauch, 2003, 109 e n. 14. Cfr. anche 1 En. 14, 8-9; Lc 2, 9-13; At 9, 3 e 22, 6; 2 Bar. 6, 2-4; Herm., Sim. 6, 1, 1-2; Plutarco, Sera, 563e-f.568a; Apoc. Sem in CMC 55, 14-21 (55, 16-18: «ejxaivfnh~ h{rpasevn me pneu'ma to; zw'n»); Lib. Crat. p. 46 (ed. Bertholet). 132 Su questa ripetizione, le difficoltà che ha sollevato e le soluzioni proposte per risolverle, cfr. la rassegna e discussione delle ipotesi offerta da Aune, 1997, pp. 283-284. 133 Su posizioni analoghe, già Swete, 1907, p. 67, e Roloff, 1984, p. 66. 134 Cfr. le annotazioni generali di Clottes – Lewis-Williams, 1997, pp. 14-17 e 26-27; Pilch, 2004, pp. 18-19 e 69-77, con ampia bibliografia, e Lapassade, 2008, pp. 98 e 187, e il caso citato da Walsh, 2007, pp. 73-74. Similmente su Enoc, addormentatosi presso le acque di Dan, ad ovest del monte Hermon, a forza di leggere la preghiera degli angeli ribelli, cadono visioni (1 En. 13, 7-10): nella visione, vede e ascolta, innanzitutto, nuvole, stelle, fulmini e vento incitarlo a salire, poi ascende al cielo ed entra nella dimora di Dio (14, 8-9). Al suo risveglio, torna dagli angeli che lo aspettano sul massiccio del Libano ad informarli dell‘esito negativo della sua intercessione (13, 9-10). Su acqua, trance e visioni nel mondo mediterraneo antico, cfr. anche Ez 1, 1 e 43, 3; Varrone in Apuleio, Apol. 42; PGM IV, 160-169.224231.3210-3254; Porfirio, Aneb. in Giamblico, Myst. 3, 11.14 (ed. Sodano); Agostino, Civ. 7, 35. Altri due casi con una fenomenologia comparabile riporta Plutarco: in Sera 563e-f, Tespesio di Soli racconta che, persa la coscienza dopo una caduta, aveva l‘impressione, in un primo

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Varcata la porta, lo circondano i contorni di luce, incandescenza, candore, immensità che, nella immaginazione culturale di Giovanni, delineano il mondo divino e gli esseri che lo abitano e che incontrerà. Questi contorni si intrecciano sinesteticamente ad audizioni di musica, voci, canti, inni che sfidano l‘orecchio ed il linguaggio umani a coglierne ed esprimerne la grandez135 za (Ap 4, 2 e ss. e passim) . Nella loro realtà oggettiva, percezioni e figure (l‘agnello sgozzato a sette occhi, il drago, la donna vestita di sole, la bestia che sale dal mare) continuano a sfumare tra ordinario e non ordinario, gli spazi a ridefinirsi 136 nell‘estensione stessa del cosmo ; il senso del tempo e delle sue connotazioni sembra precipitare nell‘a-temporalità, in una contemplazione simultanea di passato, presente e futuro cosmici, scandita semplicemente dalle esperien137 ze che si succedono ed estendono per episodi .

momento, di essersi rialzato, di respirare con tutto il suo essere (o{lo~) e di guardarsi intorno, «l‘anima (yuchv) aperta come fosse un unico occhio». Non vedeva più nulla di ciò che vedeva prima, solo le stelle nella loro immensità e lucentezza, meravigliosa ed intensa al punto che la sua anima, trasportata dalla luce, potè poi muoversi dovunque per l‘aria, facilmente e rapidamente. Nel frattempo, il suo corpo veniva preparato per la sepoltura (cfr. 563d e 568a). In Gen. Socr. 590b-c, viene riferita l‘esperienza di Timarco, discepolo di Socrate: sceso nella grotta oracolare di Trofonio per avere un responso sulla natura del daimovnion del maestro, viene avvolto dall‘oscurità. Dopo una preghiera, inizia progressivamente a perdere coscienza di sé e non riesce più a distinguere se è sveglio o già sogna. Gli sembra solo, ad un certo punto, che le cuciture della sua testa si allentino e rilascino la sua anima (yuchv), che si mescola con l‘aria pura e lucente, prende fiato e finisce per ingrandirsi ed estendersi come una vela. Inizia così il viaggio celeste. Al termine, svanita ogni percezione e consapevolezza degli oggetti e dei paesaggi che lo circondavano nelle sue visioni, rientra in sé e si ritrova nella grotta, esattamente nello stesso punto dove si era disteso (592e). 135 Cfr. 4Q286Bera fr. 1; 4Q405ShirShabbf frr. 11.13-15; fr. 20 II, 21-22; fr. 23 II, 7-10; 1 En. 14, 9-23 e 71, 5-13; 4 Esd. 10, 55-57. In Ap, l‘aggettivo mevga~ «come i termini a radice rb in certa letteratura mistica di area semitica, probabilmente definisce una qualità sovrumana, spirituale del sostantivo cui si riferisce. ―Grande‖ indicherebbe l‘estraneità dell‘oggetto alla sfera della fisicità o dell‘umanità» (Lupieri, 2000, pp. 114-115). Sulla visione del trono divino in Ap 4 – 5 e le sue relazioni con altri testi apocalittici e con la mistica ebraica, fra esperienza estatica e tradizione letteraria, cfr. Smith, 1963, pp. 150-160; Rowland, 2006, pp. 46-50 e 5556; Sanders, 2006, pp. 59-64 e 73-79; Davila, 2006; Morray-Jones, 2006. 136 Cfr., in particolare, PGM IV, 1104-1112, dove all‘approfondirsi della trance del visionario corrisponde, al primo riaprire degli occhi, l‘allargarsi a forma di volta della luce della lampada nella stanza, al secondo, il suo scomparire nell‘immensità di bagliore, ormai senza pareti né limiti, che fa da preludio alla visione della divinità seduta. Una fenomenologia simile presenta anche il papiro demotico Mag. LL col. 2 (III sec.d.C.; introduzione, traduzione e note in Bresciani, 1999, pp. 777-797) 137 Cfr., più ampiamente, le annotazioni sparse di Lupieri, 2000, pp. 139-141 e 191-197, e Afzal, 2008, pp. 28 e 33. Quest‘ultimo, in particolare, rileva come la stessa struttura letteraria dell‘Ap, con i suoi flashback, le ripetizioni, le sequenze intercalate ed interconnesse, esplori quegli aspetti non lineari del tempo sperimentato normalmente esclusi dall‘esperienza umana.

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La ricorrenza di espressioni formulari, quali «kai; shmei'on mevga w[fqh ejn tw/' oujranw/'», nelle sue varianti (Ap 12, 1.3 e 15, 1), e «kai; ajphvnegkevn me ejn pneuvmati» (Ap 17, 3 e 21, 10), può segnalare, infatti, non solo mere 138 cesure letterarie nella struttura del testo ; piuttosto, ci sarebbe da chiedersi se non rimandi ad una pluralità o intensificazione avvertita di ―fatti‖, che, dispersi temporalmente, la redazione compatta e re-innesta sul continuum 139 interpretativo del progetto che la presiede . Quantomeno significativi sembrano essere i due spostamenti di Giovanni sempre «in spirito», il primo «in un deserto» (Ap 17, 3), il secondo «su un monte grande ed elevato» (Ap 21, 9), nell‘esplorare anche la geografia terrestre dell‘estasi su un‘isola dell‘Egeo. Di pari passo con la familiarità con lo stato, cresce la presenza di Giovanni, ora parte integrante delle visioni, cresce la sua capacità di comunicare con gli abitanti della realtà altra, fino a scambiare battute (Ap 7, 13-14) o interagire direttamente con loro (Ap 10, 8-9), e la scala delle emozioni si fa 140 ampia e variabile, dal pianto dirotto (Ap 5, 4) allo stupore grande (Ap 17, 6), e di nuovo al timore, reverenziale questa volta (Ap 19, 10 e 22, 6), passando per le percezioni di intensa dolcezza (Ap 10, 10) e amarezza di stomaco (ibid.). C‘è da chiedersi, per queste sensazioni come poi per l‘attività di scrittura, se e quanto sia presupposta una minima coscienza residua del pro141 prio corpo ―fisico‖ . Sulle ultime parole dell‘angelo, la rivelazione si chiude. Giovanni si limita ad aggiungere i saluti finali in calce alla lettera (Ap 22, 20-21). Non sappiamo dopo quanto tempo e come sia ritornato in sé, né dove si sia ritrovato: il suo resoconto si interrompe alquanto bruscamente, non appena l‘intera rivelazione è stata convogliata e comunicata per iscritto. 138

Mazzaferri, 1989, pp. 330-365, e Aune, 1997, pp. xc-cv e cx-cxxxiv, passano entrambi in rassegna le principali ipotesi di suddivisione del libro. Cfr. anche Bauckham, 1993a, pp. 2-22. 139 Cfr. le osservazioni di Malina – Pilch, 2000, pp. 8-11, e Stone, 2003, pp. 171-177. Sulla base dei paralleli raccolti (Ps.-Ippocrate, Ep. 15, 4-6; Elio Aristide, Or. 50, 56-57; Plutarco, Cons. Apoll. 109c, e Sera 563b – 568a; Boezio, Cons. phil. 1), Berger, 1992, p. 218, conclude: «es ist daher zu vermuten, dass das Phänomen der Folgevision(en) im paganen wie im jüdisch-christlichen Bereich ein wesentlicher, jedenfalls häufig anzutreffender Bestandteil der visionären Erfahrungen selbst gewesen ist, der sich dann in den genannten Texten literarisch niederschlug». Le esperienze visionarie autobiografiche citate in Knoblauch, 2003, pp. 104-105, mi sembra avvalorino decisamente questa possibilità. 140 Su ―trance‖, visioni e pianto del veggente, cfr. l‘iscrizione di Tell Deir ‗Alla e Nm 22, 4-14; 2 Re 8, 7-15, con le osservazioni di Grottanelli, 2003, pp. 37-47. Cfr. anche Platone, Symp. 215d-e, e Epifanio, Pan. 49, 2, 4. 141 Almeno, questo è quanto emerge dall‘evidenza antica, su cui avremo modo di tornare (ma cfr. anche Plotino, Enn. 4, 8, 1; 5, 12, 9-20; 6, 9, 9-11!), e da resoconti autobiografici più tardi di rapimenti estatici, per cui cfr. i testi raccolti da Buber, 1987, pp. 78-79; 193-194; 209-214, e Pozzi, 1992, pp. 81-82; 106-108; 119; 136; 140; 158-159; 166-167; 216-217.

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4.4 Tra esperienza e letteratura: verso l‟Apocalisse L‘ordine di scrivere ciò che avrebbe visto in un rotolo era riecheggiato nelle prime parole della voce che Giovanni udiva dietro di sé (Ap 1, 10-11), e lì lo avvertiva anche che era avvenuto ciò che a posteriori ha cercato di spiegarsi – e noi con lui – con le parole ejgenovmhn ejn pneuvmati. La scrittura è dunque un elemento costitutivo della sua esperienza visionaria, in quanto forma e strumento di trasmissione: Giovanni vede e deve riportare. In Ap 22, 18-19, l‘angelo suggella lo status profetico di «questo rotolo»: l‘accoglienza che riceverà deciderà del destino escatologico di chi ne ascolta la lettura, in bilico tra le «piaghe» e «il legno della vita e la città santa», ivi trascritti appunto. L‘angelo sembra già dare per scontata – e ultimata – la stesura delle visioni: «piaghe» copre quantomeno i settenari delle trombe e delle coppe (cfr. Ap 9, 18.20; 15, 1.6.8; 16, 9.21; 21, 9), «il legno della vita e la città santa» condensano la discesa e descrizione della Gerusalemme cele142 ste (Ap 21, 10 – 22, 5) . L‘impressione è confermata dalla breve e significativa parentesi di Ap 10, 3-4: al grido dell‘angelo, «parlarono i sette tuoni le loro voci, e quando parlarono i sette tuoni, mi apprestavo a scrivere (e[mellon gravfein) e udii una voce dal cielo dire: ―Sigilla le cose che hanno detto i sette tuoni, e non scriverle (kai; mh; aujta; gravyh/~)‖».

Giovanni, insomma, era già lì pronto a scrivere, ma viene fermato prima: la proibizione, anche nel suo contrappunto grammaticale, suona come 143 un‘eccezione imposta all‘ordine precedente . Giovanni si immagina e si rappresenta a scrivere quindi, e questo nel corso delle visioni, mentre è «in spirito»: cosa presuppone un simile scenario? Cerchiamo di scavare nel testo con una prima serie di confronti. In Migr. 34-36, Filone racconta un particolare interessante della sua attività intellettuale, ripetutosi spesso, dice, al momento di venire alla scrittura di opere filosofiche: quando sa nei dettagli cosa trattare e comporre, le idee gli vengono a mancare e rimane improduttivo, altre volte, invece,

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Cfr. Vanni, 1971, pp. 111 e 112-113. Dei commentari danno un qualche spazio alla semplice constatazione Bousset, 1906, pp. 308-309; Charles, 1920, p. 262; Lohmeyer, 1953, p. 85; Massyngberde Ford, 1975, p. 159; Thomas, 1995, p. 65; Giesen, 1997, p. 232; Murphy, 1998, p. 252; Beale, 1999, pp. 533534. 143

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«keno;~ ejlqw;n plhvrh~ ejxaivfnh~ ejgenovmhn ejpinifomevnwn kai; speiromevnwn a[nwqen ajfanw`~ tw`n ejnqumhmavtwn, wJ~ uJpo; katoch`~ ejnqevou korubantia`n kai; pavnta ajgnoei`n, to;n tovpon, tou;~ parovnta~, ejmautovn, ta; legovmena, ta; grafovmena» (35; corsivo mio)

L‘esperienza lo sorprende come «godimento di luce, vista acutissima, chiarezza la più cristallina delle cose, quale solo potrebbe essere attraverso gli occhi, quando qualcosa viene mostrato nella maniera più evidente» (i144 bid.) . Questa stessa follia di coribante e l‘illuminazione, che qui, direttamente dalla contemplazione di Dio, si riverberano sulla scrittura, Filone le rappresenta altrove come ascesa nei cieli e visione (Opif. 70-71 e Her. 6970; cfr. Migr. 169). Un ampio squarcio autobiografico (Spec. 3, 1-6) rivela la sua lunga familiarità con esperienze simili, re-introducendo, in questo caso, 145 l‘esegesi del testo sacro come loro risultato (cfr. anche Cher. 27) . Qualche decennio più tardi, 4 Esd. si conclude con la preghiera di Esdra a Dio di infondergli lo Spirito Santo per poter mettere di nuovo per iscritto la Legge data alle fiamme. La risposta non si fa attendere: «praepara tibi buxos multos et accipe tecum Saream, Dabriam, Selemiam, Ethanum et Asihel, quinque hos qui parati sunt ad scribendum velociter. Et venies hic, et ego accendam in corde tuo lucernam intellectus, quae non extinguetur quoadusque finiantur quae incipies scribere» (4 Esd. 14, 18-25).

Tavolette di legno alla mano, Esdra e i tachigrafi si recano al campo, come concordato, finché l‘indomani, Esdra, in visione, beve dal calice dello Spirito, e inizia a parlare e dettare (14, 37-42). Dettatura e trascrizione automatica lavorano nella perfetta sintonia dell‘ispirazione divina e in quaranta giorni producono novantaquattro libri (14, 43-44). Anche Erma, in visione, si ritrova a copiare un rotolo, lettera per lettera, il cui contenuto, sulle prime, indecifrabile, gli viene poi manifestato, per essere integrato da altre parole, prima della diffusione in più copie e della lettura pubblica (Vis. 2, 2, 1 – 2, 4, 3; 4, 3). Il processo di aggiunta e rimaneggiamento attraversa almeno due altre visioni e più fasi (cfr. Vis. 3, 8, 11), ma alla fine la rivelazione della Chiesa si completa con un appello diretto a ricordare le rivelazioni già trascritte (Vis. 4, 3, 6). Sotto la dettatura dell‘Angelo del ravvedimento, il Pastore, che entra nella casa di Erma, dopo che questi ha pregato e si è seduto sul letto (Vis. 5, 1-2), seguono i dodici mandati (cfr. ibid., 5-7, e Mand. 12, 3, 2) e le parabole (cfr. Vis. 5, 5-7, e 144

Cfr. anche le osservazioni di Goodman, 1994, pp. 52-53; 55; 187-188, e Lapassade, 2008, p. 233, su ―ispirazione‖ artistica e ―trance‖. 145 Cfr. Wan, 1994; Heininger, 1996, pp. 146-159, e 2004, pp. 195-204; Borgen, 1998, pp. 309-320; Nasrallah, 2003, pp. 36-44; Deutsch, 2008, pp. 87-94.

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Sim. 5, 3, 7 e 9, 33, 1), raccontate in più occasioni e in locazioni diverse 146 (monte: Sim. 5, 1, 1; casa: Sim. 6, 1, 1-5; forse ancora casa: Sim. 9, 1, 1-4) . In casa li sorprende l‘Angelo che ha inviato il Pastore, «postquam scripsi librum hunc» (Sim. 10, 1, 1). I papiri magici, infine: formule stereotipe ripetono e variano il consiglio di tenere sempre a portata di mano una tavoletta, prima di evocare la divinità, per scrivere la rivelazione in presa diretta: «ece eggistav sou pinakivda, i{na o{sa levgei gravyh/~» (PGM VIII, 90-91); «ece de; pinakivda, eij~ h}n mevll>ei~ gravfein, o{sa soi levgei» (PGM XIII, 90-91 e 647; cfr. anche ibid., 137-138 e 696-697). Il consiglio è chiaro, la memoria considerata inaffidabile: «ejpa;n eijsevlqh/ oun oJ qeov~, kavtw blevpe kai; gravfe ta; legovme147 na» (PGM XIII, 211-213 e 565-567) . Comincia a delinearsi una precisa pratica di scrittura dell‘esperienza visionaria nel corso dell‟esperienza visionaria stessa, che poi chiaramente è 148 diversa di contesto in contesto . Tre aspetti si impongono ora all‘analisi. La preparazione. Esplicitamente, 4 Esd. e i papiri, implicitamente, Filone ed Erma prevedono il rifornimento e la preparazione di materiale scrittorio, che siano poi, nello specifico, tavolette o rotoli. Ad attenersi all‘indicazione fornita in Ap 1, 11 («ciò che vedi scrivilo su un biblion»), cui Ap 10, 3-4 formalmente e concettualmente si riallaccia, Giovanni dovrebbe 146

Sim. 6, 1-5 e 9, 1, 1-4 sembrano piuttosto movimenti intra-visionari, l‘ambiente reale rimane probabilmente quello di partenza (cfr. Sim. 10, 1, 1). 147 In Pyth. orac. 397 c-d, anche Plutarco si confronta con la possibilità teorica che la Pizia scriva, e non pronunci, oracoli in stato di ejnqousiasmov~. 148 Si rivela quindi inesatto, da più punti di vista, il giudizio di Rowland, 2006, p. 52: «the comparative lack of parallel descriptions of ancient people being possessed and then writing automatically makes straightforward comparison within Judaism, or even toward the ancient world at large, impossible». Solo per citare altri casi famosi: la Sibilla cumana di Virgilio, nel suo furore estatico (insana vates), «fata canit foliisque notas et nomina mandat./ Quaecumque in foliis descripsit carmina virgo/ digerit in numerum atque antro reclusa relinquit» (Aen. 3, 444-446); Hildegard di Bingen (1098-1179) insiste sulla fedele corrispondenza del testo trascritto con la visione: «Et ea que scribo, illa in visione video et audio, nec alia verba pono quam illa que audio, latinisque verbis non limatis ea profero, quemadmodum illa in visione audio, quoniam sicut philosophi scribunt scribere in visione hac non doceor» (Ep. 103r, 88-92); nel prologo del Sermo Angelicus di Brigitta di Svezia (1303-1373), Cristo promette alla mistica di inviarle il Suo angelo a dettarle le letture per il suo ordine monastico femminile, e questa, nella sua cella, con finestra sull‘altare della chiesa di S. Lorenzo in Damaso, a Roma, «praeparabat se cotidie […] ad scribendum cum pugillari et carta et penna in manibus, postquam horas et oraciones suas legebat, et sic parata angelum Domini expectabat» (1-4). All‘arrivo dell‘angelo, che si metteva in piedi al suo fianco, e dettava «distincte et ordinate» nella lingua materna della futura santa, costei, ogni volta, scriveva dalla sua bocca, seguendo l‘ordinamento «per lecciones» che l‘angelo introduceva nel testo (5-11). Su trance, possessione e scrittura automatica, cfr. anche Blacker, 1975, pp. 130-134; Ahern, 1981, pp. 49-50; Goodman, 1991, pp. 113-120, con ulteriore bibliografia; Masquelier, 1999, pp. 41-42; Rowland, 2006, pp. 52-53.

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aver avuto tra le mani un rotolo di fogli di papiro (cfr. 2 Gv 12; 4 Bar. 6, 19; P.Flor. 367, 7; Anth. pal. 9, 174, 4-6 e 401, 3; Plutarco, [Plac. philos.] 149 900b) , e una canna (cfr. 3 Gv 13; 3 Macc. 4, 20; Anth. pal. 9, 401, 3; Clemente di Alessandria, Strom. 6, 4, 36, 1) da intingere nell‘inchiostro (2 Gv 12 e 3 Gv 13; Clemente d‘Alessandria, ibid.; 4 Bar., ibid.; Anth. pal., 9, 401, 150 3; T. Ab. A 12, 3-4; Sinesio di Cirene, Ep. 157) . Ciò presuppone quantomeno che, nel contesto socio-culturale in cui poi effettivamente le ha avute e trascritte, Giovanni si aspettasse di avere esperienze estatiche e di poterle simultaneamente stendere su papiro, e si fosse quindi preparato per preser151 varne i contenuti . Il rapporto tra visione e realtà. R.L. Thomas è l‘unico studioso che abbia cercato di farsi un‘idea di come Giovanni possa essere venuto eseguendo l‘ordine di Ap 1, 11.19 ed essersi apprestato a scrivere ciò che i tuoni dicevano: «This apparently means that John used intervals between activity during his visions to do his writing [...], or at least to take notes on what he had seen or heard [...]» (1995, p. 65).

Vogliamo precisare e raffinare questo tentativo. Tutti i testi sopra riportati giocano su una interazione, una sorta di liminalità fondamentale: la scrittura si colloca sulla soglia tra la realtà altra in cui l‘esperienza estatica introduce, e la realtà quotidiana. Lo scritto è prodotto nel corso della visione o della rivelazione, ma continua ad esistere come oggetto concreto per usi concreti anche al di fuori di queste. Filone produce i suoi trattati filosofici ed esegetici, Esdra la sua nuova Legge, e i settanta libri esoterici, Erma l‘originale da leggere e mettere in circolo in più copie, l‘apprendista visionario dei papiri i messaggi della divinità che lo riguardano. Intersezioni simili tra il piano di esistenza in stati alterati di coscienza e l‘ambiente circostante si possono osservare in casi riportati nella letteratura antropologica: fenomeni di scrittura automatica in Cina, Giappone e Singa149

Cfr. anche Ap 6, 14: «e il cielo si separò come un biblion che si arrotola». Le osservazioni di Balz, 1980, p. 22, e Karrer, 1986, p. 168, integrano utilmente i dati testuali. 150 Il redattore dell‘inserto di Atti Giov. Pro. conservato da N, P3 e m3 (Zahn, 1880, pp. 184-185) sembra esplicitare i sottintesi di Ap, costruendo uno scenario analogo e insieme diverso da quello che veniamo delineando. Procoro avrebbe infatti trascritto l‘Apocalisse, sotto dettatura di Giovanni, su fogli di papiro e con inchiostro, dopo l‘estasi dell‘apostolo. Sulla produzione, l‘uso e la diffusione del rotolo di papiro nell‘antichità, vedi Nestle – von Dobschütz, 1923, pp. 32-33, e, più diffusamente, Millard, 2000, in particolare, pp. 19-20; 27-28; 58-60,151e Hezser, 2001, pp. 126-144. Non penso comunque a ricerca o induzione mirata delle visioni, tramite, per esempio, isolamento, digiuno, preghiera, afflizioni corporee.

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pore operano tra il livello di trance dello scrivente ed il supporto scrittorio 152 materiale a disposizione ; sciamani, al culmine della trance, nel pieno del loro viaggio celeste o sotterraneo, correggono la frequenza del battito di tamburo dell‘assistente o evitano ostacoli sulla traiettoria delle proprie dan153 ze , e più in generale non cessano di intervenire sul contesto rituale, gli og154 getti simbolici della seduta e gli astanti ; indovini conducono le sedute divinatorie in un gioco di stati alterati di coscienza, manipolazione del proprio 155 corpo e/o dei parafernalia, e consulenze ai clienti . Nel quadro così schizzato si inseriscono e acquistano la giusta dimensione alcune riflessioni della fonte anti-―montanista‖ (inizi III sec.d.C.) usata 156 da Epifanio, sulla tipologia delle «ejkstavsei~» (Pan. 48, 5, 1-8) : l‘«e[kstasi~» del sonno profondo disattiva i sensi corporei, ma non lo «hJgemonikovn» né il «frovnhma». Spesso, infatti, l‘anima del dormiente «fantavzetai kai; oJra`æ eJauth;n wJ~ ejn ejgrhgovrsei kai; peripatei` kai; ejrgavzetai kai; pontoporei` kai; dhmhgorei`, kai; ejn pleivosi kai; ejn meivzosi touvtwn dia; oj neiravtwn eJauth;n qewmevnh: ouj mh;n kata; to;n ajfraivnonta kai; ejn ejkstavsei ginovmenon ejkstatiko;n a[nqrwpon, to;n tw`æ swvmati kai; th`æ yuch`æ ejgrhgorovta ta; deina; metaceirizovmenon kai; pollavki~ eJautw`æ deinw`~ crwvmenon kai; toi`~ pevla~: ajgnoei` ga;r a} fqevggetai kai; pravttei, ejpeidhvper ejn ejkstavsei gevgonen ajfrosuvnh~ oJ toiou`to~» (7-8).

Se, dunque, una differenza tra i due stati c‘è, non va ricercata nei conte157 nuti o nella forma del sogno o della visione , ma piuttosto nel grado di coinvolgimento sensoriale e fisico nel contesto dell‘esperienza estatica, nullo o quasi nullo nei dormienti (1-6), elevato, pur nell‘ incoscienza dell‘«e[kstasi~ frenw'n», nei profeti ―montanisti‖. Questo loro attivismo, esteso al proprio corpo e ai presenti, in qualsiasi cosa poi, nei fatti, consistes158 se , si fa tanto più interessante, quanto più il «pareksth'nai» poteva essere 152

Cfr. Elliott, 1955, pp. 56-57; 113; 115; 121; 140-145; Blacker, 1975, pp. 132133.134.136.239; Davis, 1980, pp. 5; 26-28; 117; 135-136; Ahern, 1981, pp. 49-50; Goodman, 1991, pp. 114-116 e 119-120, e 1994, pp. 134-135. 153 Cfr. Townsend, 1997, pp. 442.453. 154 Cfr. Peters – Price-Williams, 1980, pp. 399-401; 403-404; 407; Walsh, 1993, pp. 748-750 e 755, e 2003, pp. 269-278; Goodman, 1994, pp. 157-162; Lawrence, 2005, p. 49. 155 Cfr. Zuesse, 1975, p. 163 n.7; Blacker, 1975, pp. 238-239; Burton, 1991, pp. 45-50; Devisch, 1991, 114-121; Peek, 1991b, pp. 199-202; Allen, 1991, pp. 389-391; Goodman, 1994, pp. 64-65 e 67-69. 156 Estensione, datazione e analisi della fonte in Nasrallah, 2003, pp. 46-51 e 167-196. 157 Attestati entrambi per la ―nuova profezia‖, cfr. Tertulliano, Marc. 4, 22, 4-5; An. 9, 4; Exh. cast. 10, 5, ed Epifanio, Pan. 49, 1, 2-3. 158 Oltre alla complessa fenomenologia psico-fisiologica della divinazione per possessione divina offerta da Giamblico, Myst. 3, 4-7, cfr. anche Tibullo, El. 1, 6, 43-54; Luciano, Syr. d. 50-51; Proclo in Michele Psello, Or. for. 1, 311-332; Michele Psello, [Op. daem.] 14.

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sperimentato ed interpretato anche come ascensione nei cieli – prestando così, peraltro, il fianco ad accuse di ―volo magico‖ (cfr. l‘anonimo antimontanista in Eusebio, H.E. 5, 16, 14 e Atti Piet. 32, 2-3). Insomma, Giovanni non smaschera qui il suo vero volto di riflessivo letterato da tavolino che esce dal suo ruolo di visionario, e si ritaglia uno spazio 159 per dar conto al lettore della propria attività e della propria opera . Nella misura, invece, in cui accenna al suo disporsi a scrivere, suppone evidentemente di muoversi ancora tra cielo e terra. La sua estasi allora non avrebbe troncato di netto ogni contatto con e oscurato ogni percezione del suo corpo ―fi160 sico‖, dell‘ambiente originario e degli oggetti che vi appartengono . Lo scritto: appunti o testo letterario? L‘ipotesi di Thomas, come abbiamo visto, oscillava tra una scrittura fluente, più organizzata, e semplici 161 annotazioni . Forme di scrittura automatica rilevano, in effetti, un raggio abbastanza ampio nel grado di complessità della produzione: si va da segni su carta, sabbia o polvere, poi interpretati o pronunciati, ed eventualmente trascritti e 162 163 raccolti in testi voluminosi di natura sistematica , a caratteri leggibili , a poemetti sapienziali o lunghi ofudesaki (lett. «punta di penna»), ovvero scrit164 ti di rivelazione in forma metrica , racconti delle origini e visioni dell‘età 165 paradisiaca futura , o resoconti autobiografici delle proprie esperienze esta166 tiche . Su un arco di ampiezza poco minore si dispiegano le testimonianze dei nostri testi: ad un estremo, abbiamo le probabilmente scarne note su tavoletta dell‘apprendista visionario dei papiri, all‘altro, le articolate composizioni letterarie su rotolo di Filone ed Erma, ed il profluvio di libri, esoterici e 167 non, di 4 Esd.; in mezzo, i metri della Sibilla . 159

533-534. 160

Bousset, 1906, p. 309. Cfr. anche la più ambigua formulazione di Beale, 1999, pp.

Nella misura in cui preserva una memoria dell‘esperienza, l‘esistenza stessa dell‘Apocalisse conferma di fatto questo grado di presenza cosciente da parte di Giovanni. 161 Già Massyngberde Ford, 1975, p. 159, parlava di «notes». 162 Cfr. Elliott, 1955, pp. 113; 115; 140-145, e Goodman, 1994, pp. 134-135. 163 Cfr. Elliott, 1955, pp. 56-57; Jordan, 1972, pp. 64-67; 73; 77; Blacker, 1975, p. 239. 164 Cfr. Elliott, 1955, pp. 121 e 172-173; Blacker, 1975, pp. 132-133 e 136; Goodman, 1991, pp. 114-116. 165 Cfr. Blacker, 1975, p. 134. 166 Cfr. Goodman, 1991, p. 120. 167 Cfr. anche Brigitta di Svezia, Serm. ang., prol. 4-5 e 10-11, e Hildegard di Bingen, Ep. 103r, 90-92. Scrive Millard, 2000, p. 23, che le tavolette a cera, provviste di cerniera, «wurden in hellenistischer und römischer Zeit zum Schreibmaterial für Steuereinnehmer, Verwaltungsbeamte, Geschäftsleute und Gelehrte. Amtliche und juristische Texte wurden ebenso darauf geschrieben wie geschäftliche Aufzeichnungen. Ausgenommen waren jedoch (ausser im Schulzimmer) literarische Werke, denn diese gehörten auf Rollen». Cfr. anche dati ed osservazioni in Hezser, 2001, pp. 127-131 e 133-136.

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Riallacciandoci alle considerazioni che svolgevamo all‘inizio, Giovanni si rappresenta pronto a riportare su rotolo le voci del settenario dei tuoni, come in settenari si sviluppano le trombe (Ap 8, 6 – 11, 15), che inglobano Ap 10, 3-4, e le coppe (Ap 15, 1 – 16, 21), ovvero le «piaghe» date già per trascritte dall‘angelo in Ap 22, 18-19, insieme alla visione della Gerusalemme celeste; si aggiungano forse anche i messaggi isolati dall‘angelo con l‘ordine «gravyon» (Ap 2, 1.8.12.18; 3, 1.7.14; 14, 13; 19, 9; 21, 5): sembra delinearsi così un primo abbozzo di ossatura della futura Apocalisse di Giovanni, per quanto non perfettamente coincidente con la redazione definitiva, tanto nella struttura che nella forma. Ap 1, 9-20, e 22, 6-20, ad esempio, hanno chiaramente carattere retrospettivo e la loro stesura risale probabilmente a dopo l‘esperienza; lo stesso discorso vale per i punti in cui riaffiora la cornice narrativa della storia di Giovanni, e le suture letterarie che sottolineano il progetto unificante del redattore (cfr. Ap 4, 1-8; 5, 4-5; 7, 13-17; 10, 4.8-11; 11, 1; 12, 1.3; 14, 13; 15, 1; 17, 1-3; 21, 5.9-10; e tutte le occorrenze di «kai; tw/' ajggevlw// th'~ ejn C ejkklhsiva~ gravyon», «meta; tou'to/tau'ta», e 168 «kai; eidon/hkousa») . 4.5 Una sintesi Cerchiamo ora di interpretare i dati che abbiamo raccolto, verificando e adattando alla rappresentazione fornita o presupposta dal testo il quadro fenomenologico proposto da Walsh. Coscienza del contesto o dell‟ambiente dell‟esperienza. A ipotizzare come contesto liturgico specifico dell‘esperienza, la consapevolezza dell‘ambiente si rivela estremamente ridotta, quasi nulla, non fosse per il processo di scrittura in corso durante la trance, di cui Giovanni rimane perfettamente cosciente e in pieno controllo. Assente un qualsiasi accenno di comunicazione con i presenti. Concentrazione. Se, come probabile, sono stati inni, preghiere, o altre manifestazioni ―pneumatiche‖ ad aver guidato Giovanni nella sua trance, la concentrazione si è fissata ed intensificata. Si fa poi progressivamente più fluida, scivola continuamente di oggetto in oggetto, di visione in visione, al tempo stesso, mantenendo almeno un qualche grado di focalizzazione sul processo di scrittura. Controllo. Non abbiamo elementi per determinare se Giovanni fosse in grado di entrare e uscire dalla trance a suo piacimento. Tanto meno comun-

168

Cfr. il primo dei livelli narrativi evidenziati da Boring, 1992, pp. 704-707.

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que sembra evocare e controllare in prima persona, per i propri scopi, i contenuti delle sue esperienze. Eccitazione. Paura e collasso, pianto, meraviglia profonda e terrore di fronte al sacro, nel loro susseguirsi e oscillare tra piacevole e doloroso, lasciano trasparire le incisive oscillazioni nello stato emozionale di Giovanni. Coscienza di sé e senso dell‟identità. Giovanni sembra già muoversi su un piano non esclusivamente fisico prima delle vere e proprie esperienze extra-corporee del viaggio celeste e delle due traslazioni. La percezione di sé non appare, ad ogni modo, particolarmente offuscata: nella rappresentazione, sembrano affiorare residui dispersi di consapevolezza della presenza del corpo, delle sue funzioni e delle sue attività, che funzionano anche da modello per l‘immaginazione dello stato altro. Piuttosto, l‘esperienza di contatto con il divino trasforma radicalmente l‘identità di Giovanni nella misura in cui, come vedremo, lo costituisce profhvth~. Contenuto dell‟esperienza. I contenuti delle trance di Giovanni si riorganizzano in un complesso multiforme e coerente. La molteplicità dei sensi coinvolti (vista, udito, tatto, gusto) ne manifesta la ricchezza e sfaccettatura. Interpretazione e creazione di significati e strutture si sviluppano coerentemente con i presupposti e le concezioni culturali condivisi da lui e dai suoi lettori impliciti, prendendo la forma letteraria di lettera/―apocalisse‖. Livelli di sviluppo dello stato. Si possono forse individuare due fasi successive e progressive nell‘esperienza e nel racconto di Giovanni; più problematico appare decidere se nel testo siano confluite più esperienze separate. Resta sempre aperta la possibilità che la rivelazione di Patmos fosse stata pre-annunciata da una rivelazione precedente. Le une e l‘altra rinvierebbero allora ad una familiarità relativamente elevata con le estasi. 5. ANCHE GIOVANNI TRA I ―PROFETI‖? Un primo sguardo alla storia della ricerca su Ap 10 è sufficiente ad individuare le tre linee di interesse principali, su cui questa si è mossa: analisi letteraria e di storia delle tradizioni soggiacenti all‘ ―intermezzo‖; interpretazione dei contenuti e della funzione del rotolo al centro della pericope; identificazione di una seconda ―vocazione‖ o commissione ―profetica‖ – i termi169 ni oscillano acriticamente –di Giovanni . Per quanto possibile, cercheremo qui di ri-orientare metodi, interessi e risultati dell‘esegesi moderna verso una comprensione più approfondita di ciò che Giovanni sta, nei fatti, cercando di descrivere: il rito dell‘ingestione 169

Cfr. i commentari ad loc., e Kowalski, 2004, pp. 307-324.

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del rotolo stesso, e la conseguente, propria definitiva costituzione nello status di ―profeta‖ (Ap 10, 10-11). 5.1 Piccola parentesi filologica Osserviamo, innanzitutto, che non ci sono due rotoli distinti nell‘Ap. Il «biblarivdion»/«biblivon» di Ap 10, 2.8 va identificato infatti con il «biblivon» di Ap 5, 1: da un lato, la confusione della tradizione manoscritta in Ap 170 10, 2.8.9-10, riflessa anche nel testo latino commentato da Vittorino , dall‘altro, l‘uso linguistico di un Erma, che alterna le forme «biblarivdion», «biblivdion» e «biblivon», in riferimento allo stesso scritto (cfr. Vis. 2, 1, 3 e 4, 2-3), impongono di non insistere troppo sull‘effettiva valenza di diminutivo assunta da biblarivdion, e, di conseguenza, su una non necessaria molti171 plicazione di rotoli . L‘assenza in Ap 10, 2 dell‘articolo determinativo, che grammaticalmente avrebbe dovuto rimandare al rotolo di 5, 1, non pregiudica questa identificazione, una volta integrata nel quadro del modus scribendi del redattore. Giovanni, infatti, in Ap 14, 1 introdurrà di nuovo i 144.000 di Ap 7, 4 senza articolo determinativo e sempre in dipendenza logica da un «kai; eidon». La seconda apparizione, dopo Ap 5, 2, di un angelo «forte», e la ripresa delle allusioni al sottotesto ezechielino (cfr. Ez 2, 9 – 3, 3 con Ap 5, 1 e 10, 2.8-10) creano allora l‘arco narrativo su cui si estende la vicenda del rotolo: scritto dentro e di dietro, era inizialmente chiuso e sigillato nella mano destra di Dio (Ap 5, 1), viene preso e progressivamente dissigillato dall‘Agnello, sigillo dopo sigillo (Ap 6, 1 – 8, 1), si mostra finalmente aperto nella mano 172 dell‘angelo (Ap 10, 1-2) . Ancora: non esistono due ―vocazioni‖ profetiche di Giovanni. Il «dei' se pavlin profhteu'sai» di Ap 10, 11, che segue immediatamente 170

Comm. Apoc. 10, 1.3 ha i termini invertiti, presentando, rispettivamente, «liber» per Ap 10, 2 e «libellus» per Ap 10, 8. 171 Cfr., ad esempio, l‘uso costante di ajrnivon per ajrhvn e qhrivon per qhvr, e l‘alternanza di crusov~ e crusivon in Ap 3, 18; 9, 7; 17, 4; 18, 12.16; 21, 18.21, con una netta predilezione per il secondo. Sul sistema dei diminutivi nel greco-ellenistico, in generale, e nel greco di Ap, in particolare, cfr. Mussies, 1971, pp. 86-87; 108-111; 116-117, che conclude: «there is only one diminutive word in the Apc.: biblarivdion (in X 2, 9, 10)» (120). L‘evidenza appena rilevata mi sembra tuttavia favorire l‘ipotesi che, nel greco di Giovanni, nessuna formazione di diminutivo sia più semanticamente produttiva e che, quindi, sotto questo aspetto, Ap non conosca diminutivi. 172 La stessa catena di rivelazione, che parte da Dio e arriva a Giovanni, passando per Gesù Cristo, prima, e il Suo angelo, poi, si ritrova già, sotto forma di sintesi programmatica, in Ap 1, 1-2. Cfr. anche le osservazioni di Mazzaferri, 1989, pp. 264-279; Bauckham, 1993a, 243-257; Moyise, 1995, p. 77; Lupieri, 2000, pp. 171-172 e 174.

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l‘inghiottimento e la digestione del rotolo, non replica le istruzioni di Ap 1, 11-20: da un punto di vista di storia delle forme, questa è un‘angelofania (cfr. Dn 10, 4-21; Gius. Asen. 14 – 17; Apoc. Ab. 8 – 11) e non una Beruf173 ungsvision . Piuttosto, ricorrendo, pochi versetti più sopra (Ap 10, 7), il termine «profh'tai» per la prima volta in Ap, il «profhteu'sai» di 10, 11, a cui Giovanni è chiamato, sembra chiaramente alludere ad un suo riordinamento fra questi e, per converso, alla riattualizzazione nella sua delle loro esperienze di rivelazione sul compimento del mistero di Dio. Di conseguenza, il pavlin andrà meglio inteso nella sfumatura specifica di «di nuovo, a tua volta» (cfr. Sofocle, El. 371; Aristofane, Ach. 342; Platone, Resp. 612d; Senofonte, Anab. 1, 6, 7; Callimaco, Hymn. Dian. 87; Mt 4, 7; Gv 12, 22 v.l.; 174 1 Cor 12, 21) . 5.2 La trasmissione della capacità profetica in atto: sequenze, simboli, prin175 cipi L‘azione rituale dell‘ingestione del rotolo si colloca praticamente a ridosso della settima tromba, che si apre proletticamente sulla consumazione finale (Ap 11, 14-19). 5.2.1 L‘angelo, i tuoni, il divieto di scrivere Inizialmente, il redattore costruisce la scena della discesa dal cielo del 176 colossale angelo forte, nella sua gloria divina , un rotolo in mano, il piede destro sul mare, il sinistro sulla terra (Ap 10, 1-2). Presa posizione, questi lancia un urlo, evidentemente intellegibile e comunicativo: non solo la similitudine del leone rievoca contesti profetici ben presenti alla memoria di Giovanni (cfr. Am 3, 7-8 e Ap 10, 7), ma anche la reazione a breve termine dei sette tuoni e le altre ricorrenze della formula «e[kraxen fwnh/' megavlh/» (o «ejn ijscura/' fwnh/'») in concomitanza con movimenti angelici (Ap 7, 2; 14, 15; 18, 2; 19, 17) lasciano intuire come nel 173

Così anche Müller, 1984, p. 80; Roloff, 1984, p. 38; Karrer, 1986, pp. 140-141. Con Mazzaferri, 1989, pp. 292-295. 175 Per una critica costruttiva al modello tripartito (segregazione, liminalità, riaggregazione) dei riti di passaggio proposto da A. van Gennep e approfondito da V. Turner, vedi le preoccupazioni di Werbner, 1989, pp. 11-15; Tambiah, 1995, pp. 158; Destro – Pesce, 2000, pp. 29-32. L‘analisi più accurata ed esaustiva della pericope resta, a mio giudizio, Glonner, 1999, pp. 201-238. 176 Diffusamente, Glonner, 1999, pp. 214-218. Cfr. Gieschen, 1998, pp. 245-269, in particolare, 256-260, e Lupieri, 2000, pp. 170-172. 174

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grido si possa celare una prima rivelazione, forse in forma imperativa e implicitamente diretta ai sette tuoni (cfr. Ap 7, 2; 14, 15; 19, 17, tutti passi dove però il destinatario viene espressamente nominato), o che comunque ne scatena immediatamente una seconda (cfr., in particolare, Ap 18, 1-8, l‘unico altro caso dove l‘urlo non è specificamente indirizzato). All‘angelo risponde l‘eco delle voci dei sette tuoni: probabilmente anch‘essi di natura angelica (voci e tuoni fuoriescono dal trono di Dio in Ap 4, 5, come i sette spiriti; cfr. 1 En. 59, 2) o quantomeno come tali interpretabili (cfr. Gv 12, 28-29), si fanno latori di una conoscenza accessibile a Gio177 vanni, se può provare a metterla per iscritto . Accessibile e riservata a Giovanni, quando una voce dal cielo, probabilmente la stessa di Ap 4, 1 e 1, 1011.19, quindi, del «simile ad un figlio d‘uomo», gli impone enfaticamente di 178 passare il tutto sotto silenzio (10, 3-4) . La sequenza di rivelazioni si viene così ad interrompere. Appare inutile ipotizzarne i contenuti: nella logica della scena, Giovanni diventa l‘unico depositario umano di questa conoscenza scaturita dal mondo sovrannaturale e sottratta ad un ulteriore processo di diffusione per scrittura, la sua Apocalisse non copre per intero le rivelazioni da lui ricevute. Una linea è quindi marcata tra lui e i destinatari, nella misura in 179 cui la trasmissione di conoscenza esoterica è anche trasmissione di autorità . La prima fase del passaggio verso una nuova esistenza è conclusa. 5.2.2 Il giuramento La seconda parte del rito si incentra sul giuramento dello stesso angelo (Ap 10, 5-7). 177

Cfr. il commento di Lupieri, 2000, p. 172, e Aune, 1998a, pp. 559-561. Intendo «sfravgison a} ejlavlhsan aiJ eJpta; brontaiv, kai; mh; aujta; gravyhæ~ » come parallelismo endiadico del tipo «lavlei kai; mh; siwphvshæ~»(At 18, 9; cfr. anche Mt 5, 42 e 23, 23; Lc 6, 29-30; 1 Cor 14, 39). 179 Anche Paolo, nel suo concetto di profezia, associa conoscenza (1 Cor 13, 2) e autorità (1 Cor 11, 2-10), ed è nel contesto del conflitto sulla sua autorità di apostolo che egli racconta delle sue visioni e rivelazioni, e delle parole impronuciabili da lui udite nel paradiso (2 Cor 12, 1-13; cfr. 1 Cor 9, 1-6). Su questa esperienza uditiva e la densità dell‘aggettivo a[rrhto~ usato da Paolo, cfr. Lietaert Peerbolte, 2008, pp. 164-168 e 175-176. In Mc, il cerchio dei tre, Pietro, Giacomo e Giovanni, riceve tutta una serie di insegnamenti e rivelazioni speciali dal maestro (Mc 5, 35-43; 9, 1-13; 13, 3-37; 14, 32-42), che, per un verso, finiscono ad alimentare le loro pretese di autorità e la conseguente conflittualità all‘interno del gruppo dei dodici (cfr. Mc 10, 35-45), per l‘altro, giustificano la loro centralità nel movimento dei seguaci di Gesù, dopo la sua morte (cfr. At 3, 1 – 4, 22 e 11, 2-3, e Gal 2, 9, con Giacomo, il fratello di Gesù, a sostituire Giacomo figlio di Zebedeo). Anche i papiri magici insistono sulla conoscenza esoterica come condizione del conferimento di «potenza» (PGM IV, 475-485 e 734-739). Per un‘interpretazione simile, cfr., più tentativamente, Lohmeyer, 1953, p. 82; Kraft, 1974, p. 148; Roloff, 1984, p. 109; Karrer, 1986, p. 271. 178

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La sua mano destra, la mano dell‘onore e della pivsti~ , si alza verso il 181 cielo , tutta la sua posizione corporea è tesa e orientata a Dio: la mano al cielo, e i piedi che l‘angelo – ci viene ricordato – ha fermamente posto sul mare, il destro, e sulla terra, il sinistro (cfr. Ap 10, 2 e 5), coinvolgono simbolicamente il «Vivente nei secoli dei secoli» nel giuramento solenne, per contatto con la sua creazione, di cui rivendica il dominio (cfr. Mt 5, 34-35 e 182 23, 22) . Arrivano inoltre praticamente a dettare la formulazione verbale che accompagna ed esplica il gesto dell‘angelo: «kai; w[mosen ejn tw`æ zw`nti eij~ tou;~ aijw`na~ tw`n aijwvnwn, o}~ e[ktisen to;n oujrano;n kai; ta; ejn aujtw`æ kai; th;n gh`n kai; ta; ejn aujth`æ kai; th;n qavlassan kai; ta; ejn aujth`æ» 183

(Ap 10, 6) . Il parallelo più significativo per la comparazione si registra nell‘Iliade, quando Era giura sullo Stige e sugli dei ctonii, afferrando con una mano la terra e con l‘altra il mare (Il. 14, 270-279). Appare in effetti probabile che qui trovino il loro riflesso letterario pratiche in uso anche al di fuori del mondo divino e delle sue rappresentazioni: Bacchilide, per due volte (5, 4145 e 8, 19-21), formula un giuramento, descrivendosi piegato a toccare la 184 terra con la mano, per evocare evidentemente i poteri ctonii di Gaia ; 180

Cfr. Senofonte, Anab. 1, 6, 6 e 2, 5, 3; Appiano, Lyb. 64, 284; Flavio Giuseppe, A.J. 18, 326.328. 181 Già in Omero, i giuramenti su Zeus sono pronunciati alzando lo scettro al cielo, Il. 7, 411-412 e 10, 321.328-331. Cfr. anche Gn 14, 22 (Abramo giura su JHWH sollevando la mano), Dt 32, 39-41 TM (JHWH giura su sé stesso, mano al cielo; la LXX traduce, integrando: «kai; ojmou'mai th/' dexia/' mou»), e Dn 12, 7 (l‘angelo giura sul Vivente nei secoli con la mano sollevata verso il cielo). 182 Cfr. Glonner, 1999, p. 220. Giuramenti su realtà sovrumane possono cercare di stabilire una qualche forma di contatto, reale o simbolico che sia, tra queste e chi giura (Sommerstein, 2007, p. 2). In Il. 7, 411-412 e 10, 321.328-331, Agamennone ed Ettore, rispettivamente, per giurare, impugnano ed innalzano entrambi lo scettro, oggetto creduto di origine divina e fatto risalire a Zeus (cfr. 1, 238-239 e 277-279, e 2, 46 e 100-108; cfr. anche 1, 233-246). Il rito del giuramento sui sacrifici (cfr. Tucidide 5, 47; la legge citata in Andocide, Or. 1, 97; Polibio 38, 20, 5) prevedeva di fatto che venissero toccati l‘altare o le ceneri dei sacrifici, come il caso di Annibale mostra concretamente (cfr. Polibio 3, 11, 5-7, e Cornelio Nepote, Han. 2, 3-5). Un‘iscrizione da Filadelfia del I sec.a.C. (testo greco in Sokolowski, 1955, pp. 53-55) obbliga tutti i partecipanti ad un culto privato a giurare toccando l‘iscrizione stessa, in quanto trascrizione delle norme cultuali rivelate in sogno da Zeus (ll. 54-58.60, dove il giuramento è chiamato direttamente «aJfhv»; cfr. ll. 3-4). Chi giurasse su Apollo poteva stringere eventualmente l‘alloro, pianta consacrata al dio (cfr. Antonino Liberale, Metam. 1, 3). 183 Vale qui la pena sottolineare come la clausola relativa, con la sua triplice scansione, manchi nei sottotesti che ispirano la scena (cfr. Gn 14, 19.22, ma, soprattutto, Dn 12, 7). È quindi un‘espansione redazionale di Giovanni. Sulla formula del giuramento, cfr. anche Flavio Giuseppe, C. Ap. 2, 121: «ojmnuovntwn to;n qeo;n to;n poihvsanta to;n oujrano;n kai; th;n gh'n kai; th;n qavlassan». 184 Cfr. MacLachlan, 2007, p. 92 e n. 4.

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l‘epigramma conservato in Anth. pal. 14, 72, secondo il lemma, un responso oracolare del II sec.d.C., consiglia, per un giuramento inviolabile, di mettere in piedi la persona sulla spiaggia, il viso al sole nascente, il piede destro in mare (!), il sinistro sulla terra asciutta, le mani a toccare entrambi, e di farle evocare il cielo, la terra, gli approdi marini ed il sole (4-11); le istruzioni sul giuramento trasmesse da Ps.-Clemente, Cont. 1, 2 – 4, 3, prescrivono, infine, la posizione eretta presso una fonte di acqua corrente e l‘invocazione a testimoni di cielo, terra, acqua, che tutto comprendono, dell‘aria che penetra 185 dovunque e fa respirare, e del Dio che è sopra ogni cosa . Il richiamo continuo alla postura dell‘angelo sembra quindi far emergere la coerenza unitaria che soggiace all‘azione rituale e che non si esaurisce 186 nella somma totale delle singole fasi in cui si articola . Giovanni passa poi a riportare in discorso diretto le promesse che il tempo finirà, e che, al suono della settima tromba, si sarà compiuto il mistero di Dio, come annunciato ai Suoi servi, i «profeti» (Ap 10, 6-7). Sono i contenuti che caratterizzano il giuramento, e questo, se procedura e atto di comunicazione convenzionale accettato, finisce per implicare non solo Dio, chiamato a sancire la sua veridicità, ma anche i presenti, o meglio, il presente, Giovanni, proponendo e garantendo il proprio intento trasformativo della re187 altà : stiamo toccando il punto di snodo tra la seconda e terza fase del rito, tra il giuramento stesso, e l‘ordine e l‘ingestione del rotolo (Ap 10, 8-11). Abbiamo infatti già rilevato come Ap 10, 11 recuperi la prospettiva storica sulla ―profezia‖ sottesa a 10, 7, e ne attualizzi il flusso nel presente, in Giovanni. In questo senso, Ap 14, 6, parlerà, quasi fondendo i due versetti, di un vangelo eterno da annunciare («eujaggelivsai»; cfr. 10, 7) a tutti gli abitanti 188 della terra, genti, tribù, lingue e popoli (cfr. 10, 11) . Una connessione simile di giuramento, rotolo scritto e ingestione, in questo caso, del liquido in cui la scrittura è stata diluita, si riscontra nel rito di Sotah (Nm 5, 11-31; Filone, Spec. 3, 56-62; Flavio Giuseppe, A.J. 3, 270185

Fra gruppi di seguaci di Gesù di origine giudaica, una procedura di giuramento simile è attestata almeno dal Libro di Elchasai (inizi del II sec.d.C.), citato in Ps.-Ippolito, Haer. 9, 15, 2.5-6. Sull‘uso di giuramenti all‘aria aperta informano anche Varrone, Ling. lat. 5, 66, e Plutarco, Quaest. rom. 271b. 186 Cfr. l‘analisi letteraria di Aune, 1998a, pp. 555-556. 187 Cfr. le utili osservazioni di Austin, 1987, pp. 17; 22; 25-29, che, a proposito della promessa, scrive: «Ovviamente, perché io abbia promesso, è normalmente necessario che: A) io sia stato sentito da qualcuno, magari dal destinatario della promessa; B) questi abbia capito che si188 tratta di una promessa» (p. 22; corsivo dell‘autore). Per l‘interpretazione, cfr. Müller, 1984, pp. 202 e 266-267; Roloff, 1984, pp. 110 e 152; Lupieri, 2000, pp. 174 e 224. L‘alternanza di dativo e accusativo dopo ejpiv nei due passi (cfr. anche Ap 22, 16) non comporta variazioni sostanziali di significato, cfr. BD § 235. Sulla corrispondenza letteraria e tematica di Ap 10, 11 e 14, 6-7, insiste Siew, 2005, pp. 80-82.

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273; m. Sot. 1, 1 – 3, 8). Come scioglierla allora ed interpretarla? Cerchiamo innanzitutto di ricostruire il sistema di concezioni culturali in cui acquista senso. Per l‘evocazione di un dio, un papiro magico prevede che la formula vada scritta su due parti di nitro: una verrà leccata, l‘altra immersa e lavata via in un cratere di latte e vino, che dovrà essere trangugiato, dopo la recitazione della preghiera, una lunga cosmologia che termina sulla pronuncia del nome della divinità e l‘invocazione vera e propria. Non resta quindi che distendersi sui tappeti e aspettare l‘ingresso dell‘essere divino (PGM XIII, 127-213; cfr. ibid. 377-717). Così anche sustavsei~ e teletaiv a dei o demoni (PGM IV, 779-786, e VII, 505-528), e creivai (PGM XIII, 1040-1054) premettono invocazioni alla consumazione di uova o al leccare foglie, inscritte, rispettivamente, con il nome del demone o del dio a cui ci si inizia, e 189 con simboli magici . Su principi analoghi, Paolo presuppone che le parole pronunciate da Gesù e da lui stesso ricordate trasformino i due elementi tipici del mangiare a tavola, il pane ed il vino, in cibo speciale, identificandoli con il corpo ed il sangue del Signore ed attivando così quel potere di giudizio, condanna e salvezza della sua morte, che con il cibo viene assunto (1 190 Cor 11, 23-30) ; in Did. 9, 1 – 10, 3, la medesima funzione di sacralizzazione è svolta dalle preghiere di ringraziamento innalzate a Dio sul vino e sul pane, prima di mangiare e bere: separando il cibo e la bevanda da consumare da ogni altro cibo e bevanda dati agli uomini, e costituendoli nutrimento «spirituale», vita e conoscenza (cfr. le corrispondenze fra 10, 2-3 e 9, 3), queste li trasformano nella conoscenza e vita di fatto consumata (cfr. 10, 13), e producono l‘inabitazione del nome santo invocato e benedetto nei cuori 191 di quanti sono ammessi al pasto rituale (ibid.) . Come si vede, quindi, comunicando la realtà che enuncia, l‘atto verbale 192 carica e impregna della propria forza il cibo o la scrittura . Questi vengono 189

Sulle implicazioni reciproche di parola orale, parola scritta e potere nei riti ―magici‖ dell‘antichità, si interrogano Frankfurter, 1994, pp. 190-199, e 1995; Graf, 1995, pp. 71-73; 203-205; 211-213; 215-218; Versnel, 2002; Struck, 2002, pp. 393-396. 190 Cfr. l‘analisi di Pesce, 1990, pp. 497-507. 191 Cfr., soprattutto, la formulazione di Teodoto (seconda metà del II sec.d.C.) conservataci in Clemente d‘Alessandria, Exc. 82, e quella di Origene, Comm. Matt. 11, 14. Il punto mi sembra rilevato, mutatis mutandis, anche dal commento di Visonà, 2000, pp. 167-168: in Did. 10, 3 «è evidente la stretta correlazione tra l‘azione di grazie sul pasto e quella che già si delinea come eucaristia in senso forte», ovvero come «eucaristia sacramentale». 192 Come chiarisce esplicitamente una maledizione in copto di V-VI sec.d.C.: «Dirai: io invoco la tua grande forza su di […]. La tua grande forza ora sarà su questo scritto» (traduzione italiana in Pernigotti, 2000, pp. 70-71). Cfr. anche PGM III, 413 (non prima del IV sec.d.C.): «Pronuncia (scil. la formula/preghiera sul pane, le tortine e le dodici figurine di pasta di farina d‘orzo e latte bovino) tre volte e mangiali da digiuno e ne conoscerai la forza». Mauss, 1965, spiega che le cose magiche, sottoposte ad incantesimo, vengono rivestite di una

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poi ingeriti, la scrittura direttamente o indirettamente, con o senza il supporto 193 materiale, trasmettendo il potere che garantisce l‘efficacia del rito . Più specificatamente, il giuramento, sia che asserisca sia che prometta, invera e fonda la corrispondenza fra parole e cose, crea, nel farsi delle parole, la realtà stessa dei fatti enunciati – passati, presenti o futuri –, fornendo il paradigma 194 per eccellenza di atto verbale . Già Cicerone, interrogandosi sulla vis insita nel giuramento (Off. 3, 102104), la individuava non tanto nella paura dell‘ira divina, ma nella sua specifica natura di «affirmatio religiosa» che costituisce fides, da intendersi, secondo la paretimologia di Off. 1, 23, come «[fieri] quod dictum est». Linguaggio analogo usa Dionigi di Alicarnasso per introdurre il giuramento che chiude la guerra tra Roma e Gabii (Ant. rom. 4, 58, 3-4): il giuramento è sentito necessario perché produce pivsti~, sancendo e realizzando, con la sua forza, un futuro di dominio più saldo (ejgkratevstero~) per Roma, e di prosperità sicura (bevbaio~) e senza incertezze per Gabii. Filone (Leg. 3, 203204), commentando il giuramento di Dio per sé stesso a garanzia delle promesse fatte ad Abramo (Gn 22, 16-17), arriverà a non distinguere più tra parole di Dio e giuramenti: le prime possiedono infatti la caratteristica propria di ogni giuramento, vale a dire, che «qualsiasi cosa Dio dica accade», ovvero ancora, come Filone stesso si esprime altrove (Sacr. 65), la coincidenza piena e perfetta di lovgo~ e e[rgon. Tale è la pivsti~/ijscurovth~ (Leg. 3, 204), o 195 bebaiovth~ (Sacr. 93), che le contraddistingue . sorta di consacrazione magica (p. 44). Le formule di incantesimo, come le preghiere, sono infatti riti orali che «hanno, quanto meno, l‘effetto di evocare una potenza e di specializzare un rito. Si invoca, si chiama, si rende presente la forza spirituale che deve rendere efficace il rito» (p. 54). Cfr. anche Id., 1997, pp. 51-52. 193 Il Socrate platonico così descrive un rimedio per il mal di testa: «si tratta di una foglia, e una formula (ejpw/dhv) è [scritta?] sul rimedio. Se la si pronuncia e contemporaneamente si fa uso del rimedio, il rimedio guarisce assolutamente; senza la formula, invece, la foglia non serve a nulla» (Platone, Charm. 155e [corsivo mio]; analogamente, sul pane eucaristico, Origene, Comm. Matt. 11, 14). Questo evidentemente perché, non investita della «duvnami~» (cfr. 156b) della formula pronunciata, la foglia rimane una semplice foglia. Cfr. anche le osservazioni di Baermann Steiner, 1954; Finnegan, 1969; Tambiah, 1995, pp. 41-121. 194 Cfr. le riflessioni di Agamben, 2008. Sulla teoria dei performativi e degli atti verbali, cfr. anche Austin, 1987, che include «giuro di» fra gli esempi di commissivi, ovvero di quegli enunciati il cui scopo intero è di «impegnare chi parla ad una certa condotta» (pp. 115-116; cfr. anche pp. 110-111). Lo segue Sommerstein, 2007, p. 2. Già Mauss, 1965, p. 52, inseriva il giuramento tra le forme di riti orali comuni a magia e religione, mediante i quali, anche «senza compiere nessun atto fisico esplicito, il mago crea, distrugge, dirige, scaccia, fa ogni cosa con la voce, il fiato, o, anche, il desiderio» (p. 55; cfr. anche Id., 1997, pp. 51-52 e 5758). Lesses, 1995, ha provato ad applicare le teorie del linguaggio performativo all‘analisi del rituale di adorcismo del Principe della Presenza, come tramandato nella letteratura hekalotica. 195 Fra le condizioni necessarie per la riuscita, la «felicità», degli enunciati commissivi, Austin, 1987, conta «l‘intenzione di mantenere una certa ulteriore linea d‘azione, laddove l‘uso della procedura data era designato precisamente ad inaugurarla (rendendola obbligatoria

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Concretamente, nel rito di Sotah cui facevamo riferimento, la sospetta adultera era fatta aderire, con un doppio amen, al giuramento-maledizione condizionata, pronunciati dal sacerdote. Il testo, trascritto su rotolo, veniva poi sciolto in acqua mescolata a polvere del pavimento del santuario e, sotto questa forma, era bevuto dalla donna (cfr. Nm 5, 19-28 e m. Sot. 2, 3 – 3, 4): «Attraverso una dispersione fisica – le parole d‘invocazione fissate e circoscritte in un rotolo sono disperse in un corpo – si amplia notevolmente l‘azione di penetrazione legale. Da atto verbale diventa per così dire un ―evento corporale‖. Incanalando le norme giuridiche nei processi fisiologici, si dà alla legge la concretezza necessaria per influenzare ampi settori dell‘esistenza» (Destro, 1989, p. 159)

Il giuramento, prevedendo l‘invocazione del Nome, si rivelava uno dei mezzi rituali che operavano questo processo di potenziamento ed asserzione 196 della legge e del giudizio divino . Chiarito così il senso delle azioni in sé e della loro sequenza, torniamo finalmente a Giovanni. Il giuramento dell‘angelo, nella sua complessità, pone le basi su cui sarà costruita la parte conclusiva del rito, nella misura in cui comunica ed enuncia quei tempi – l‘esaurimento del crovno~ destinato al ravvedimento ed al riposo (cfr. Ap 2, 21 e 6, 11), tra sesta e settima tromba, nello scorrere della storia profetica – e quegli eventi – il compimento del mistero/parole di Dio (cfr. Ap 17, 17) – che avranno luogo successivamente (cfr. Ap 21, 5-6). Comunicandoli ed enunciandoli, li evoca e quasi materializza come già avvenuti, e sposta così ciò che accade a Giovanni nella sfera della verità e giustizia divi197 na, che realizzano immancabilmente sé stesse e per sé stesse garantiscono . o facoltativa)» (p. 36), con il conseguente dovere «di comportarsi effettivamente in tal modo» (p. 17). Entrambi gli aspetti convivono nel concetto di fides/pivsti~, che, come abbiamo visto, è il perno della riflessione antica sul giuramento (cfr. anche Licurgo, Leoc. 79, e Flavio Giuseppe, A.J. 12, 8). 196 Destro, 1989, pp. 146-167. Come mostrano perlomeno Pausania, Descr. 7, 25, 13 e PGM V, 184-211, la concezione implicita «sugli effetti corporei negativi provocati da un contatto mediante ingerimento di un cibo sacro con una parte corporea indegna che provochi anche uno svelamento e giudizio sull‘intenzione interiore del singolo» (Pesce, 1990, p. 513) è attestata anche al di fuori della cultura ebraico-palestinese (contro Pesce, ibid.). 197 Giovanni scrive precisamente: «crovno~ oujkevti e[stai, ajllÆ ejn tai`~ hJmevrai~ th`~ fwnh`~ tou` eJbdovmou ajggevlou, o{tan mevllhæ salpivzein, kai; ejtelevsqh to; musthvrion tou` qeou'»(cfr. anche Ap 15, 1 e 17, 17). La costruzione della frase e l‘uso dell‘aoristo di televw sono evidenti semitismi (cfr. materiali ed ipotesi in Lancellotti, 1964, p. 56; Mussies, 1971, p. 337; Thompson, 1985, pp. 38-41; 55-56; 88; Aune 1998a, pp. 550-551). Il rapido passaggio da futuri ad aoristi è tratto saliente dello stile e dell‘esperienza di Giovanni, e ricorre tanto nella narrazione delle visioni (cfr. Ap 18, 1-19 e 20, 5.7-9), quanto in bocca ai personaggi che Giovanni incontra o all‘io rivelatore (cfr. Ap 11, 3-13). Dietro la scelta grammaticale, emerge l‘interesse a sottolineare l‘aspetto compiuto dell‘azione espressa dal verbo, e, sotto quest‘aspetto, proiettata nel futuro, come da perfetto ebraico e aramaico: per il semplice fatto

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Queste, investendo le parole scritte su recto e verso del rotolo da ingerire (cfr. Ap 5, 1), le compenetrano, e conferiscono loro la virtù che ne assicura la realizzazione, instaurandone ed attivandone il potere di trasformazione del normale ordine delle cose. Alla luce di Ap 5, 1 e delle costanti e dense allusioni ad Ez 2 – 3, il rotolo nella destra del Seduto sul Trono va probabilmente interpretato come rappresentazione simbolica della rivelazione, passata a e dischiusa dall‘Agnello. Questa rivelazione risulta di fatto indirizzata a Giovanni per il tramite dell‘angelo, se il rotolo così inteso comprende quello stesso mistero riservato 198 ai profeti della storia d‘Israele . Il giuramento dell‘angelo ne ricolloca quindi ora la trasmissione nell‘imminenza della settima tromba, e ne crea, plasma e dispiega carattere e forza di verità ultima che si può efficacemente realizzare perché affermata e sancita dall‘angelo, e quindi praticamente già realiz199 zata presso Dio . È questa, di fatto, la consapevolezza che emerge da Ap 1, 1-3: riapparendo in Giovanni e nel suo rotolo, le parole divine entrano ed agiscono pervasivamente nella sfera umana, adempiendo il giuramento ed il «mistero». La scrittura ―profetica‖ stessa di Giovanni, ora, a sua volta testimone, si fa segno che i tempi stanno scorrendo rapidamente e che gli eventi riportati nelle visioni sono ormai prossimi al compimento.

di essere deciso nel piano eterno di Dio e compreso nella Sua attività rivelatrice, tutto ciò che è visto o preannunciato come futuro o in procinto di compiersi di fatto si è già verbalmente realizzato, mentre è visto o preannunciato, e, per la forza vincolante di quell‘atto verbale, si realizzerà senza ombra di dubbio (cfr. le osservazioni di Thompson, 1985, pp. 38-39, e Lupieri, 2000, pp. 173-174). Il giuramento di Ap 10, 6-7, tanto più, chiamando Dio stesso a testimone e garante, sembra così non solo basarsi su, ma quasi partecipare e infondersi del potere creativo della Sua volontà (cfr. Ap 4, 11). 198 Sulla stretta corrispondenza – se non proprio di coincidenza si tratta – tra la formulazione dell‘atto verbale ed il testo scritto coinvolto, cfr. anche, oltre agli esempi già citati, l‘aneddoto riportato in y. Ta„an. 66d, che riferisce specificatamente di un giuramento: «Riguardo a Levi ben Sisi, truppe giunsero alla sua città. Lui prese un rotolo della Torah, e salì in cima al tetto. Disse: ―Signore dei mondi, se ho trascurato una singola parola di questo libro della Torah, che salgano contro di noi, altrimenti, che se ne vadano!‖ Subito le cercarono, ma non le trovarono più». Sul carattere esoterico della conoscenza definita come musthvrion, ha giustamente insistito Stroumsa, 1996, pp. 65-71. 199 Cfr. Glonner, 1999, pp. 218-219; 225-227; 236. Acquista nuovo significato allora notare anche come le parole della rivelazione siano più volte specificate come «fedeli»/«degne di fede» (Ap 21, 5 e 22, 6), e «veritiere»(Ap 19, 9; 21, 5; 22, 6), alla pari di Dio e dei Suoi giudizi in atto (Ap 6, 10; 15, 3; 16, 6; 19, 2) o di Cristo (Ap 1, 5; 3, 7.14; 19, 11), e come, soprattutto, Giovanni definisca il proprio scritto pivsti~ (Ap 14, 12) e «testimonianza» di Gesù e del suo angelo (Ap 1, 2.9; 12, 17; 19, 10; 20, 4, cfr. anche 22, 16.18.20), altro concetto chiave nella pratica del giuramento (cfr. Cicerone, Off. 3, 104: «quod autem affirmate quasi deo teste promiseris, id tenendum est», e Ps.-Clemente, Cont. 1, 2 – 4, 3).

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5.2.3 L‘ingestione del rotolo La voce di Ap 10, 4 apre la terza fase del rito: l‘ordine è di andare e prendere il rotolo aperto nella mano dell‘angelo (Ap 10, 8). Giovanni obbedisce e chiede all‘angelo di consegnarglielo. Risponde una seconda istruzione per bocca dell‘angelo stesso: Giovanni lo dovrà prendere e mangiare, sarà dolce ed amaro (Ap 10, 9). Giovanni esegue e constata le due opposte sensazioni (Ap 10, 10), quando un soggetto indistinto, forse ancora la voce celeste 200 di prima , forse la voce e l‘angelo all‘unisono, lo indirizza e conferma nella sua nuova esistenza (Ap 10, 11), con il «dei'» a convogliare tutta l‘autorità della volontà divina per influire sul modello normativo e comportamentale cui questa dovrà ispirarsi. Perché un rotolo? E cosa significa ingerirlo? Che relazione corre tra l‘azione rituale e le parole che la chiudono? Sono tutte domande che meritano riflessioni specifiche. Se Geremia divorava la parola di Dio, senza mediazione di materiale scritto (Ger 15, 16), già Ezechiele inghiotte una mglt spr, una «kefali;~ biblivou», come traduce la LXX, a riprova della diffusione della pratica della 201 scrittura ai suoi tempi, e della propria attività letteraria (Ez 2, 9 – 3, 3) . Giovanni stesso non trasmette le sue rivelazioni oralmente; lo abbiamo visto, anzi, immaginarsi a scrivere, e su rotolo (cfr. Ap 1, 11.19 e 10, 3-4). È probabile allora che anche stavolta i due rotoli si attirino e spieghino a vicenda, finendo per sovrapporsi, quasi l‘uno – il rotolo inghiottito nella visione – venisse ad impregnare la scrittura dell‘altro, e nell‘altro – il rotolo del testo 202 scritto – si traducesse concretamente il primo . Si rifletterebbe e declinerebbe qui quell‘«egemonia» della scrittura e del testo contenente Dio e la sua rivelazione, dentro e attraverso le lettere, che si viene affermando nel Giudaismo dell‘epoca (cfr. Ap 22, 18.19 e Dt 4, 2; 13, 1; 29, 19; CD-A 15, 1-2; Filone, Decal. 18-19, e Mos. 2, 34-38 e 188; Flavio Giuseppe, C. Ap. 1, 3742), e non solo (cfr. Artemidoro di Daldi, Onir. 2, 70; Ireneo, Haer. 1, 14, 1203 3; Corp. herm. 16, 1-2; Giamblico, Myst. 7, 1) .

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Il plurale indefinito «levgousin» va interpretato come semitismo equivalente di significato al passivum divinum (cfr. Ap 11, 1.3). 201 Brenner, 1993, p. 165. Cfr. anche Demsky, 1988, pp. 10-16; Davis, 1989, pp. 30-31; 37-45; 51; Willi-Plein, 1997, pp. 77-82. 202 Cfr. l‘osservazione di sfuggita di Lupieri, 2000, p. 172. 203 Cfr. Dolève-Gandelman – Gandelman, 1996, pp. 184 e 189. Per un panoramica più ampia sulla concezione antica del potere racchiuso nelle lettere scritte e nei libri, cfr. Speyer, 1992, pp. 62-70; Frankfurter, 1994, pp. 192-211; Hezser, 2001, pp. 193-195 e 209-226. Sull‘emergere di una cultura del testo sacro nel mondo tardo-antico, utile anche Stroumsa, 2006, pp. 33-59.

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La trasformazione, non semplicemente metaforica, del testo in corpo, con conseguente produzione di nuovo testo, è operata per ingestione. La scienza medica antica interpretava l‘alimentazione come processo di assimilazione del nutrimento al nutrito: i cibi e le bevande, ciascuno con specifiche proprietà, una volta introdotti nel corpo, pervadono l‘intero sistema, e, trasformati dagli organi digerenti, si aggiungono ed attaccano, per analogia di sostanza, alle sue singole parti (vene, arterie, ossa, muscoli, sangue, cervello, nervi), integrandole e costruendole (Galeno, Nat. fac. 1, 58.10-11 e 3, 1; cfr. anche Ippocrate, Alim. 2-7.22.49). Questa concezione culturale era evidentemente diffusa: si spiega così perché Silla fosse stato consigliato dal suo aruspice di mangiare, lui solo, le viscere di un vitello sacrificato, il cui fegato aveva un caput somigliante a una corona d‘oro, a presagio della imminente vittoria (Agostino, Civ. 3, 24); più in generale, diventa chiaro il senso della pratica di ingerire le parti principali di animali mantici, come il cuore di corvi, falchi o talpe, per condividerne la yuchv divinatrice (Porfirio, Abst. 2, 48; cfr. il rito per l‘acquisizione di prescienza in PGM III, 424-441 e il mito orfico in Proclo, Comm. Crat. 110). Su incorporazioni simili, giocano anche filtri d‘amore (PGM VII, 970972) e ricette per incrementare le proprie capacità mnemoniche (cfr. PGM I, 204 234-247 e III, 410-417) . Secondo Vit. Pro. 33, infine, il padre di Elia vide due figure luminose avvolgere il nascituro nel fuoco e dargli da mangiare fiamme infuocate; l‘interpretazione che del prodigio riceverà a Gerusalemme spiegherà che fuoco sarebbe stata la dimora di suo figlio, e giudizio la sua parola, e avrebbe giudicato Israele con la spada e con il fuoco (cfr. Sir 48, 1.3-7; Lc 9, 54; Ap 11, 5). Non mancano ingerimenti di materiale scritto: un rito di defixio si incentra sull‘inserimento di una lastra di piombo, incisa con il nome della vittima, nello stomaco di un rospo morto, allo scopo di lasciarne il corpo a putrefarsi e seccare come quello dell‘animale (PGM XXXVI, 233-255); un incantesimo per l‘abbondanza prescrive il modellamento, a foggia di Osiride, di una statuina tricefala della triade Horus, Anubi, Iside, con cuore nel ventre, e la deposizione, nello stesso ventre, di un pezzo di papiro con il testo della preghiera da recitare per tutta la notte e al risveglio (PGM IV, 3125205 3171; cfr. E 3229, col. 5, 1-28) . Nel Romanzo di Setne I, testo conservato 204

Lo stato di conservazione del papiro C (V/VI sec.d.C.), secondo la numerazione di Betz 1986, illustra bene la pratica: il papiro è stato scritto una prima volta, sciolto nell‘acqua per far passare le parole dell‘incantesimo e il loro potere di guarigione in forma liquida, infine riscritto nuovamente, in previsione della preparazione di altre bevande oppure come amuleto. Cfr. anche Wortmann, 1968, pp. 102-104. 205 Discutono e analizzano queste ed altre pratiche analoghe Olsson, 1933; Leipoldt – Morenz, 1953, pp. 178-180; Hopfner, 1974, pp. 420-421; Ritner, 1993, pp. 102-110.

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da un papiro demotico del III sec.a.C., lo scriba Naneferkaptah si fa portare davanti «un pezzo di papiro nuovo e scrisse tutte le parole che erano sul libro davanti a lui, lo imbibì di birra e lo sciolse nell‘acqua; poi, quando conobbe che era disciolto, lo 206 bevve e seppe ciò che c‘era in esso» .

Gli ultimi due esempi citati e gli incantesimi di iniziazione e di rafforzamento della memoria presuppongono evidentemente un‘associazione tra ingestione di materiale scritto, incorporazione e memoria o conoscenza, che traspare anche da una delle interpretazioni proposte da Artemidoro di Daldi per i sogni di «mangiare libri» (Onir. 2, 45): «b

[…]

». Vittorino di Petovio, interpretando la nostra scena, scriverà di conseguenza che ricevere e mangiare il rotolo non significa altro che imprimersi 207 nella memoria la visione mostrata (Comm. Apoc. 10, 3) . Insomma, nell‘accumularsi delle connotazioni simboliche che caratterizzano l‘ingestione, con la predominanza delle idee di incorporazione e as208 similazione, acquisizione e conoscenza di ciò che è ingerito , è il corpo ad essere coinvolto nell‘ultima fase del rituale: in quel momento e in quelle condizioni create dal giuramento dell‘angelo, la potenza creatrice e rivelatrice divina si condensa e concentra nelle lettere del rotolo che, inghiottite e assorbite da Giovanni, lo penetreranno fisicamente – in un certo senso, si faranno corpo, si «accarneranno», per dirla con Dante (Purg. 14, 22) – e lo investiranno di sapere e autorità ―profetici‖ senza precedenti. Il bisogno di conoscenza dal mondo divino e la separazione tra questo e Giovanni sono inte206

Seguo la traduzione di Bresciani, 1999, pp. 886-887. Istruttivo il caso del grammatico Didimo di Alessandria (I sec.a.C.): la sua instancabile attività compilatoria gli guadagnò il soprannome di «Viscere di bronzo», significativamente ribaltato nell‘ironico «Dimentica-libri» da Demetrio di Trezene (cfr. Suda s.v. Divdumo~, e Ateneo, Deipn. 4, 139c). 208 Geu'si~ sta per gnw'si~, sottolinea, con un efficace gioco di parole, la Grande Rivelazione attribuita a Simon Mago (II sec.d.C.) e citata in Ps.-Ippolito, Haer. 6, 15, 3. Se Ez 3, 10 riprende expressis verbis, commenta ed interpreta l‘ingestione del rotolo di 3, 4, già nel sottotesto ezechielino della scena si avverte la forte interconnessione di scrittura, incorporazione e interiorizzazione/memoria. Cfr. Fabry, 1984, pp. 432-435; Ringgren, 1984, pp. 1036-1037; Davis, 1989, pp. 50-53. Cfr. anche Leipoldt – Morenz, 1953, pp. 179-180; Ritner, 1993, pp. 102-110; Dolève-Gandelman – Gandelman, 1996, pp. 196-198, e, più in generale, pp. 185196, sui procedimenti di trasformazione del corpo in testo e del testo in corpo. 207

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riorizzati e colmati, la trasformazione si rivela radicale e irrevocabile: a Giovanni sono trasferiti facoltà, compiti e modalità di operare che individuano 209 socialmente la sua nuova identità di «profeta» : l‘azione simbolica subito ordinatagli (Ap 11, 1-2), il potere di compiere segni (cfr. Ap 11, 3-6, con 13, 12-14 e 16, 13-14), le esperienze estatiche stesse e le rivelazioni dello Spirito, nell‘imminenza della parusia (cfr. Ap 14, 13; 19, 10; 22, 17; cfr. anche 22, 6), l‘equiparazione allo status degli angeli (Ap 19, 10 e 22, 8-9), tutto concorre a definire e creare, nella sua immaginazione culturale, il «profetizzare» cui è chiamato. Non ultimo, il rotolo stesso, su cui e che scrive, diven210 ta, implicitamente, «degurgitazione dei significanti» potenti ingurgitati , e quindi «rotolo di profezia»: fedeltà a e preservazione del suo messaggio potranno ora decidere e misurare la beatitudine escatologica di chi ne ascolta le parole (cfr. Ap 22, 7.9.10.18-19, e 1, 3). 5.3 Appunti per una (ri)lettura dell‟Apocalisse Abbiamo più volte rilevato come alcuni elementi dell‘azione rituale rappresentata in Ap 10 non emergano dal nulla, ma si inseriscano in un preciso flusso narrativo: il rotolo viene preso e dissigillato dall‘Agnello tra Ap 5 e Ap 8; l‘angelo è il secondo angelo forte a comparire dopo quello di Ap 5, 2; la voce dal cielo segue Giovanni da Ap 4, 1, o forse già da Ap 1, 11, se ordini e divieto di scrivere vanno effettivamente riportati alla stessa fonte (cfr. Ap 211 1, 19; 2, 1.8.12.18; 3, 1.7.14; 14, 13; 19, 9) ; i sette tuoni di Ap 10, 3 si allineano alla serie dei sette sigilli (Ap 6, 1 – 8, 1) e si innestano su quella delle sette trombe (Ap 8, 6 – 11, 15). Non sfugge l‘impressione che dietro questa calcolata struttura si possa celare non solo una articolata architettura letteraria, ma anche, a livello più 209

È nel corpo dell‘iniziando che «l‘identità e lo status raggiunti vengono definiti e iscritti in forma permanente o comunque irreversibile. È il corpo che subisce e conserva i segni iniziatici, da quelli poco invasivi (unzioni, decorazioni, colorazioni, immersioni, alitazioni, salivazioni, ecc.) a quelli decisamente marcati e indelebili (circoncisione, scarificazione, mutilazioni, ecc.), o più blandi ma non meno costrittivi (segregazioni, restrizioni alimentari, divieti, ecc.). La realtà corporale diventa così lo strumento della memoria e della consapevolezza della propria configurazione sociale, del proprio posto nel gruppo, del proprio rapporto con la legge umana o divina» (Destro – Pesce, 2000, p. 29). Più in generale, Werbner, 1989, scrive: «by means of the body, performers of the ritual passage find and resituate themselves in cosmological space. By means of the body, also, performers personify who they are, and what they intend to become in relation to the forces around them» (p. 1; cfr. anche pp. 32-34). 210 Mutuo l‘espressione da Dolève-Gandelman – Gandelman, 1996, p. 196, dove è usata per spiegare l‘ingestione del rotolo in Ez 2, 7-10 e 3, 1-4, scena madre, lo ripetiamo, della nostra. 211 Cfr. la discussione in Gieschen, 1998, pp. 260-269, in particolare, pp. 264-269.

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profondo, il profilo di una complessa azione rituale, che, in Ap 10, 11, cul212 mina e si apre sulla nuova realtà creata . Le giunture narrative illuminano infatti una sequenza più ampia, scandita in prima sede dalle esperienze di Giovanni: la voce e la visione che le introducono e portano il terrore e la percezione della morte, poi, la rigenerazione, la scrittura, e la stesura delle lettere (Ap 1, 10 – 3, 22), l‘ascensione al cielo (Ap 4, 1), l‘impotenza del pianto (Ap 5, 4) e il disorientamento della propria ignoranza (Ap 7, 13-14), l‘accesso graduale, in un caso, riservato, alla conoscenza degli eventi che accompagnano il dischiudersi della rivelazione, e la sua interiorizzazione finale, costantemente sotto la guida di angeli, anziani e voci celesti (Ap 6, 1 – 10, 11), sembrano tutti segnare lo snodarsi di un processo di rinnovamento, attraverso cui Giovanni è guidato, e da cui Giovanni esce investito del potere di «profetizzare». Le visioni continueranno, con un unico rimprovero dell‘angelo al suo stupore (Ap 17, 6-7), e, alla fine (Ap 21, 1 – 22, 6), gli sarà consentito di entrare nella nuova Città – Tempio, contemplare la Gloria di Dio che la riempie, il Trono e il Volto di 213 Dio e dell‘Agnello, conoscerne le misure di lunghezza, larghezza e altezza . Mostrare, deiknuvw, nel greco di Giovanni, e scrivere, gravfw, denotano e comprendono il rapporto che genera il Giovanni «profeta» e l‘Apocalisse intera «profezia» (Ap 1, 1; 4, 1 in parallelo a 1, 19; 17, 1; 21, 9-10; 22, 1.6.8): Ap 10, 11, se non annuncia un invio diretto nel mondo esterno, lo proietta sul testo stesso, e sulla sua diffusione e circolazione, imprimendo 212

Non credo sia un caso che, a parte la retrospettiva di Ap 1, 3, solo da Ap 10, 11 in poi, i termini «profeta» e «profezia» si possano trovare associati, direttamente o indirettamente, all‘esperienza di Giovanni. Sempre da qui in poi, si costituisce l‘equazione tra «profezia», «testimonianza» di Gesù o dell‘angelo, e «fedeltà» di Gesù, ad indicare la rivelazione contenuta nel rotolo dell‘Apocalisse (cfr. sempre, in retrospettiva, Ap 1, 2-3). 213 Le analisi di Stone, 1990, pp. 30-33, e 2003, pp. 171-176 su 4 Esd., di Destro – Pesce, 2000, pp. 65-98 su Gv, e di Turner, 2000, pp. 131-137, su Allogene (NHC XI 58, 26 – 61, 21) mettono bene in rilievo la corrispondenza profonda fra struttura letteraria e (ri)composizione dell‘esperienza iniziatica. Il processo descritto da Giovanni trova, a mio parere, un parallelo decisivo ancora nel Pastore di Erma, di qualche decennio più tardi: secondo le parole del Pastore, riferite in Sim. 9, 1, 1-3, al subentrare dell‘angelo della conversione, cioè il Pastore stesso, alla vergine Chiesa, entrambi forme dell‘unico Spirito, è corrisposta una progressiva crescita di duvnami~ in Erma, che ha superato paure, dubbi, tristezze e pianti (cfr., ad esempio, Vis. 3, 1, 5 e 10, 6, e 4, 1, 3.7). A questa si apprestano a seguire, a loro volta, la maggiore ajkribeiva delle visioni che gli saranno mostrate, la manifestazione diretta dell‘angelo glorioso, il Figlio di Dio, lo Spirito (Sim. 10, 1, 1), e ulteriori invii del Pastore (Sim. 10, 4, 5). L‘esperienza di conversione e rinnovamento attraversa quindi tutto il testo (cfr. Vis. 1, 4, 3 e 3, 11-12, e Sim. 9, 14, 3) e lo trascende, segnando la preminenza di Erma sui presbiteri (cfr. Vis. 2, 2, 6 e 4, 2-3, con 3, 1, 8-9 e 2, 4), e confermandolo nel ministerium di proclamare la grandezza di Dio, la paenitentia e l‘osservanza dei precetti trascritti, da cui, per bocca del Figlio di Dio, dipendono vita e morte, benedizioni e maledizioni escatologiche (Sim. 10, 2, 2-4 e 4, 1). Testi di 4 Esd., Giovanni ed Erma trovano precise corrispondenze nei resoconti autobiografici citati da James, 1998, pp. 175-229 e 328-344.

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alle parole già scritte e alle parole che lo saranno il nuovo essere di Giovanni e loro, e la consapevolezza – di Giovanni e di chi lo leggerà o ascolterà – di confrontarsi con la sua nuova esistenza ed il suo nuovo ruolo. 6. LO «SPIRITO», LA CONOSCENZA, L‘AUTORITÀ Raccolta ed esaminata l‘evidenza, ricostruita e valorizzata la conformazione tutta particolare dell‘esperienza di Giovanni e del suo testo, ci troviamo finalmente nelle condizioni di poter valutare – e, al tempo stesso, dispiegare – l‘efficacia esplicativa del modello che abbiamo proposto. Per Giovanni, profhteiva, il contatto con il mondo sovrumano e la comunicazione straordinaria della rivelazione, presuppongono ed operano un passaggio, una trasformazione di fondo: genevsqai ejn pneuvmati. La nuova condizione viene sperimentata a più riprese, e rappresentata in successione come ampliamento e amplificazione della percezione, che permette di cogliere l‘invisibile e lo ―pneumatico‖, nello sfumare dell‘ambiente circostante; come ascensione, che valica e supera l‘opposizione fondamentale terracielo, e offusca le distinzioni temporali; come traslocazioni, al di là di qualsiasi spostamento o anche movimento fisico, verso spazi ―altri‖, un deserto prima, popolato dalle manifestazioni diaboliche, una montagna altissima poi, luogo deputato all‘epifania del divino. Il cosmo e la realtà sono così recuperati in una unità di costituzione e significato in cui «Diesseits und Jenseits, präexistente und jetzige Welt, geistige und körperliche Person, Sichtbarkeit und Unsichtbarkeit, Sterne und Kräfte, Gedanken und Visionen 214 ineinander verschweben» (Colpe, 1976, pp. 624-625) .

Ne risulta ridisegnata anche la mappa epistemologica. Ai limiti e alla frammentazione della normale conoscenza umana, si sovrappone ora un registro olistico di interpretazione dischiuso dall‘esperienza stessa dell‘estasi, e culturalmente pre-dato: è il territorio delle identità e della conoscenza ―pneumatiche‖ (cfr. Ap 11, 8), della «sapienza» (cfr. Ap 13, 18 e 17, 9), che si trasforma in simboli da applicare alla comprensione, o meglio, ricostru-

214

Per una discussione di questo «unbroken world», da una prospettiva semantica, fondamentale Thompson, 1990, pp. 74-91.

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zione della realtà dei quotidiani , per noi ora esistenti solo in quanto cornici 216 storiche del testo scritto . A livello di collocazione temporale – e qui ci muoviamo su terreno fermo –, l‘estasi è riportata al «giorno del Signore», con buone ragioni, da intendere come giorno in cui le comunità dei seguaci di Gesù si riuniscono a celebrarne la resurrezione. A livello di collocazione spaziale, oltre la precisa notazione che situa Giovanni sull‘isola di Patmos, siamo lasciati a congetture più o meno verosimili: una probabile collocazione dell‘esperienza in un contesto liturgico, forse, più tentativamente, un dei'pnon, la radicherebbe in uno spazio fortemente caricato dalla presenza del Signore, attesa e invocata, ce217 lebrata e sperimentata in manifestazioni estatiche . Nella mente del redattore, entrambi i riferimenti, esplicito, il primo, implicito, se vediamo bene, il secondo, sembrano evocare simbolicamente una liminalità che precede e trascende categorie di classificazione e linee di demarcazione comunicative ed epistemologiche (divino – umano; celeste – terreno; spirituale – corporeo; sacro – profano; invisibile – visibile; vita – morte; passato – presente – futu218 ro; tempo – spazio) . Le potenzialità di significato che l‘estasi così attinge sono condensate, esplicate ed attivate nell‘iniziazione: divorando il rotolo, Giovanni viene a contenere la capacità e legittimazione di accedere al divino e alla sua densità cognitiva. Questa trasformazione singola, ontologica e sociale, si completa, con l‘ingurgitazione, a ridosso di una linea profetica emergente dal passato, e a monte di una trasformazione futura universale, che, con la nuova esperien219 za profetica di Giovanni, finiscono per radicarsi nel presente . L‘attività cosciente di scrittura e la funzionalità della memoria, elaborata anche simbolicamente con la rappresentazione dell‘ingestione del rotolo, 215

Cfr. l‘insistenza della cosiddetta Weckformel in Ap 2, 7.11.17.29; 3, 6.13.22; 13, 910, e l‘analisi di Vanni, 1988, pp. 63-72. 216 Cfr. Schüssler Fiorenza, 1994, pp. 34-39, e Pezzoli-Olgiati, 1997, pp. 22-29; 37-41; 190-250. 217 Lampe, 1991, pp. 198-203 e 211-213. Su modi e forme della koinwniva con la divinità nei banchetti greco-romani, cfr., ad esempio, P.Oxy. 99, 14 (55 d.C.), e le analisi di Klauck, 1982, pp. 91-166 e 258-261; Smith, 2003, pp. 77-84; 106-118; 150-172; 191; 205; Horbury, 2005, pp. 242-252; 262; 264-265. 218 Cfr. Thompson, 1990, pp. 56-73, e, cursoriamente, Filho, 2002, pp. 213; 228; 232234. Testi in Aune, 1972, pp. 29-44; 89-113; 126-133; 184-193. Sul concetto di liminalità applicato al tempo e allo spazio rituale delle comunità paoline, cfr. Strecker, 1999, pp. 192-199; 222-247; 311-338. 219 Sembra un preludio all‘oracolo di Massimilla: «met‘ ejme; profhvth~ oujkevti e[stai, ajlla; suntevleia» (citato in Epifanio, Pan. 48, 2, 4). Sugli elenchi di profeti stilati dai cosiddetti Montanisti e dai loro avversari, cfr. l‘anonimo citato da Eusebio, H.E. 5, 17, 3-4, P.Oxy. 1, 5, con il commento di Norelli, 1994, pp. 242-245, e la periodizzazione storica proposta da Tertulliano in Virg. 1, 4-7, e riflessa anche in Res. 63, 7-10; Jejun. 11, 6; Mon. 3, 8-10 e 14, 34. A conclusioni analoghe arriva Glonner, 1999, pp. 228; 230-233; 237.

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creano una continuità tra processo iniziatico e produzione e fruizione del testo: il supporto materiale su cui Giovanni fissa le visioni e che verrà inviato come lettera prolunga, quasi contenendolo, l‘esistenza e le valenze denotative del rotolo ingurgitato, per esprimere concretamente, nell‘atto comunicativo, l‘ordine di significato che rappresenta. Non è operazione neutrale ed asettica: tempi, modi, soggetti e contenuti della profhteiva sono articolati e sanciti, autorità di redattore e lettera vengono (ri)costruite dall‘interno, l‘identità dei seguaci di Gesù formulata e confermata nei termini della conoscenza divina guadagnata, culturalmente legittimata e trasmessa. La ricezione, il confronto con e le reazioni alla lettera acquistano in prospettiva il carattere di negoziazione della nuova ―realtà‖, e di dibattito e conflitto su auto220 rità ed identità, tra approvazione, rifiuto, contrattazioni (cfr. Ap 22, 18-19) . Nella misura, quindi, in cui questa ri-strutturazione della realtà coinvolge una «rivelazione» di Gesù e ne specifica il messaggio come fattore decisivo nella definizione di un‘identità dei suoi seguaci e del loro h|qo~ di fronte all‘ ―altro‖ demonizzato (cfr. Ap 1, 1-4; 2, 20-25; 6, 9; 12, 17; 14, 1-12; 20, 4), i nostri interessi ci portano ora a chiederci quale immagine di Gesù essa crea e trasmette come memoria fondante, nello spazio epistemologico e auto221 ritativo che l‘estasi ha così individuato e rivendicato a Giovanni .

220

La definizione di Aune citata a inizio del capitolo acquista ora di complessità e profondità. Sull‘atto di comunicazione profetica, cfr. il modello elaborato da Overholt, 1989, pp. 17-25, che ha il merito di tenere conto delle diverse forme di pressione esercitate dai destinatari del messaggio sul profeta stesso, prima, durante e dopo il processo comunicativo. 221 Non è un caso, in fondo, che, dopo i Vangeli e insieme ad Eb, Ap sia il testo canonico con più ricorrenze del nome Gesù. Sulla costruzione narrativa di Gesù in Eb, cfr., in particolare, Roloff, 1990, pp. 144-167; Walter, 1997, pp. 151-168; Bradshaw Aitken, 2003.

CAPITOLO SECONDO

LE PAROLE DI GESÙ NELL‘APOCALISSE

L‘importanza dell‘unica ―apocalisse‖ proto-cristiana divenuta canonica per un riesame della trasmissione dei detti di Gesù non è stata ancora generalmente riconosciuta, e i dati e gli elementi che può fornire non ancora adeguatamente valutati e valorizzati. Eppure certa terminologia usata da Giovanni allude chiaramente a processi di tradizione orale in corso. Ap 3, 3, infatti, legge: «mnhmovneue ou\\n pw'~ ei[lhfa~ kai; h[kousa~ kai; thvrei». Il «pw'~» sta per tiv o o{sa, e non va tradotto con «in che modo», «con quale animo», bensì con «cosa», a introdurre una interrogativa indiretta in funzione 1 di oggetto del verbo «ricordare» . Un confronto incrociato con Ap 2, 25-26 e 3, 8.10 conferma questa interpretazione, e non solo. Lascia infatti intuire quali contenuti specifici l‘interrogativa possa sottintendere, ovvero la «parola» e/o le «opere» di Gesù tramandati oralmente (cfr. Lc 1, 2.4; 1 Ts 3, 4; 4, 2.9; 5, 1-2): «lambavnw» e «ajkouvw» rievocano il processo di trasmissione e ricezione di insegnamenti e tradizioni (cfr. Gv 17, 8; 1 Cor 11, 23 e 15, 1.3; Gal 1, 8-9.12; Fil 4, 9; 1 Ts 2 2, 13 e 4, 1) , i due imperativi coordinati, «mnhmovneue» e «thvrei», individuano le fasi del recupero, memoria e custodia (cfr., rispettivamente, Gv 15, 20 e 16, 4; At 20, 35; Papia in Eusebio, H.E. 3, 39, 15; Policarpo, Phil. 2, 3; 2 Clem. 17, 3; Ap. Giac. 2, 8-21, e Mt 28, 19-20; Mc 7, 9 v.l.; Gv 8, 51.55; 3 14, 23; 17, 6-8; Flavio Giuseppe, Vita 361b) . Giovanni, l‘angelo e le chiese devono aver avuto il loro Gesù, dunque, e noi cercheremo a nostra volta di recuperarlo. Rinunceremo a (ri)costruire forme pure ―originarie‖, e a rintracciare paternità gesuane, tra e dietro le ri1

Cfr. Mc 5, 16 e parr.; 4, 30 e parr.; 12, 26 e parr.; Lc 8, 18 e Mc 4, 24; Lc 10, 10; P.Oxy. 939, 12-13 e 23-24. Simile l‘uso corrispondente di «ou{tw~»in Mt 7, 12 e 9, 33, e Mc 2, 12, e di «kaqwv~» in Gv 8, 28 e 1 Gv 1, 27. Cfr. Ljungvik, 1964, in particolare, pp. 31-33. 2 Con Vos, 1965, pp. 209-214, e Segalla, 2000, pp. 135-136. Cfr. anche Bauckham, 1977, in particolare, p. 163, e le conclusioni, al riguardo, di Yarbro Collins, 1992, in particolare, pp. 567-568. 3 Cfr. anche 3 Cor 3, 4-5. Su mnhmoneuvw in formule di citazione di parole di Gesù, cfr. Koester, 1957, pp. 5-6, e 1990, pp. 32-33; 66; 189. Threvw ricorre, in Ap, in alternanza con kratevw (cfr. Ap 2, 25-26 e 3, 8.10-11), che, a sua volta, può avere per oggetto tradizioni trasmesse (cfr. Mc 7, 3-4.8; 2 Ts 2, 15; Ap 2, 14-15). Sulla traduzione, cfr. Marino, 2003.

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Capitolo secondo

ghe, simili tradizioni orali, o anche scritte e ri-oralizzate, non generandosi o comunque non esistendo in astratto, ma trasmettendosi, in forma unica e o4 gni volta ―originale‖, nei tempi e contesti della singola riproduzione . Prima di entrare concretamente tra le parole che ci interessano, diventa quindi essenziale evidenziare le linee di orientamento nella ripresa e fissazione scritta del materiale gesuano, su cui l‘Apocalisse di Giovanni stessa 5 sembra indirizzare 1. UN‘INDICAZIONE ―PROGRAMMATICA‖? PER UN SIGNIFICATO ALLE ALLUSIONI Giovanni non cita mai direttamente, ma costruisce la sua ―apocalisse‖ su una trama non espressa di corrispondenze intertestuali e richiami a tradizioni orali, che presuppone come noti a chi la leggerà e ascolterà: se non lo fossero, l‘alludere stesso non sarebbe riconosciuto e non si attiverebbe come 6 processo ermeneutico . Il gioco intertestuale si orienta sulle scritture ebrai7 che, l‘eco di tradizioni orali su fonti non ebraiche , materiali apocalittici ―a8 9 pocrifi‖ e detti attribuiti a Gesù . Giovanni, dunque, entra in contatto con testi e tradizioni che lo influenzano, ha le visioni, e, consapevolmente o inconsapevolmente che sia, sulla base di quegli stessi testi e quelle stesse tradizio10 ni, le modella e redige l‘ ―apocalisse‖ che oggi porta il suo nome . Se, riassunti in estrema sintesi, sono questi i dati rozzi che risaltano agli occhi dell‘osservatore esterno, Ap 1, 1-3 ci offre direttamente la prospettiva complementare dell‘autore. Nello spazio di pochi versetti, convergono infatti sul testo più autodefinizioni. L‘Apocalisse è concepita, tra l‘altro, come «la parola di Dio e la 4

Cfr. la discussione in Overholt, 1986, pp. 314-329, e le considerazioni di Assmann, 1997, pp. 60-62 e 67-68, su ripetizione e variazione nella tradizione orale e nella trasmissione scritta. Nello specifico, appaiono convincenti analisi e conclusioni in Dunn, 2003, pp. 192254; Kahl, 2005, pp. 404-442; Kelber, 2006. Più in generale, Tambiah, 1995, pp. 145-154, con ulteriore letteratura. 5 Cfr., in questo senso, i tentativi di Borgen, 1998, pp. 121-157 e 185-204; Bauckham, 2004, in particolare, pp. 78-90; Kloppenborg, 2004, in particolare, pp. 116-122. 6 Definizioni, classificazione e discussione critica dei criteri per l‘identificazione di allusioni in Hylen, 2005, in particolare, pp. 44-75, con ampia bibliografia. 7 Yarbro Collins, 1976; Busch, 1996, in particolare, pp. 67-85; Koch, 2004, in particolare, pp. 138-157. Critico nei confronti di questa linea esegetica, Lupieri, 2000, pp. 192-194, che sostiene un radicamento di Giovanni in schemi culturali principalmente giudaici. Lo segue Arcari, 2008, pp. 152-225 e 330-365. 8 Berger, 1976, pp. 22-101; Lupieri, 1990 e 1992; Glonner, 1999, p. 260; Arcari, 2007, pp. 219-220. 9 Vos, 1965, pp. 54-193, e Segalla, 2000, pp. 117-129. 10 Fekkes, 1994, pp. 288-290, e Beale, 1999 , pp. 65-67. Cfr. anche il quadro tracciato da Rowland, 2006, pp. 43-44.

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testimonianza di Gesù Cristo». La coppia è parallela e complementare, i due sintagmi si richiamano e integrano a vicenda, aprendo un discorso che coinvolge anche redazione e dettato del testo. L‘esperienza di Giovanni, in quanto essa stessa «parola di Dio», si vuole collocare al culmine delle rivelazioni profetiche di Israele (cfr. Ap 10, 67.11 e 17, 17) e di queste si nutre fino nel tessuto narrativo e stilistico, in una 11 dinamica di riprese e re-interpretazioni . Ma la sua ―apocalisse‖ si presenta esplicitamente anche come «testimonianza di Gesù Cristo», di Colui con il quale il Logos divino stesso si identifica (Ap 19, 13), e che, per bocca del 12 suo angelo, lo rivela e attesta (cfr. Ap 22, 6.16) . Non possiamo non aspettarci, allora, che affiori anche un registro più propriamente gesuano, quella stessa memoria che Giovanni conosce e trasmette: Ap deve essere riconosciuta anche come comunicazione di Gesù, la «rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede» deve nascere, in quanto «parole di profezia», sul terreno 13 delle scritture ebraiche e della tradizione gesuana . 14 «o{sa ei\den» aggiunge Giovanni e chiarisce : non c‘è differenza sostanziale tra interventi diretti dell‘angelo e resoconto visionario, i due piani narrativi si intersecano e sovrappongono, anche bruscamente (cfr. Ap 13, 910.18 e 16, 15). Tutto il testo è «lovgoi pistoi; kai; ajlhqinoiv» (Ap 22, 6), tutto il testo è, allo stesso tempo, visione e rivelazione dell‘angelo (cfr. Ap 15 22, 6.8.16) . Il Gesù vivente parla, nel suo angelo, anche dopo le lettere alle sette chiese in Asia (Ap 2 – 3), e mostra le sue parole in atto nelle visioni, le (ri)visualizza. Di questo carattere totalizzante della sua «testimonianza» dovremo tenere conto, se, di fatto, in Ap non esiste l‘implicito e ogni ―allusione‖ alla tradizione gesuana va riferita e attribuita, direttamente o indirettamente, all‘angelo in quanto primo tramite di shmaivnw e deiknuvw (Ap 1, 1 e 22, 6), e, risalendo di un grado la catena di autorità, a Gesù stesso, di cui 16 l‘angelo è portavoce e manifestazione . Parlavamo di ―allusione‖ poco sopra. Nei suoi termini, Giovanni si propone di testimoniare, per iscritto, la rivelazione di Dio e Gesù Cristo, a lui comunicata e mostrata dal loro angelo, e questo fa nel linguaggio, stile, im11

Cfr. Mazzaferri, 1989, in particolare, pp. 259-378; Fekkes, 1994, pp. 106-290; Moyise, 1995, in particolare, pp. 45-84; Beale, 1999, in particolare, pp. 60-128; Arcari, 2001 e 2008; Kowalski, 2004; Jauhiainen, 2005. 12 Cfr. Karrer, 1986, pp. 96-106; Mazzaferri, 1989, pp. 304-313; Carrell, 1997, pp. 119128; Roose, 2000, pp. 26-38. 13 Contro Kraft, 1974, p. 16: «Die alttestamentliche Prophetie ist die einzige Quelle, auf die er sich bei seinen Weisungen stützt». 14 Cfr. Aune, 1997, p. 19, e Roose, 2000, pp. 147-149. 15 Cfr., da ultimo, Bucur, 2008, in particolare, pp. 182 e 188-189. Meno precisamente, Boring, 1992, in particolare, pp. 720-721. 16 Pace Boring, 1992, p.715 n.16.

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magini, messaggi divini e gesuani già familiari a lui e ai suoi destinatari. Se conosce e ―allude‖ alle rivelazioni profetiche delle scritture ebraiche e alla tradizione gesuana, riportando direttamente la sua testimonianza a Gesù, tramite l‘angelo, e a Dio, tramite Gesù (cfr. Ap 1, 1-3), ai suoi occhi, in ultima analisi, Dio e Gesù parlano la propria lingua, citano e commentano sé stessi, chiarendo e interpretando, sviluppando e attualizzando le proprie parole, e anche svelandone o annotandone il compimento: sulla scorta di tutte le osservazioni fin qui svolte, non siamo di fatto lontani dalla rappresentazione della scena su cui si apre l‘Apocrifo di Giacomo, che H. Koester (1990, p. 189) così commentava: «whether or not the sayings are taken from a written document, the hermeneutical situation described here implies that sayings of Jesus, or collection of sayings, are transmitted in the free tradition and that the process of their interpretation is identical with the production of written documents».

Riconoscere con Giovanni stesso, che un seguace di Gesù, ha un contatto con il mondo soprannaturale (Dio, il Gesù vivente, il loro angelo) e a seguire ―profetizza‖ rivela insomma i limiti del paradigma letterario dell‘ ―allusione‖, e la sua insufficienza a dar conto del rapporto complesso tra le sue 17 «parole di profezia» e le parole di Gesù . 1.1 Parola “profetica” e parole di Gesù: un modello di trasmissione Nella sua analisi delle dinamiche sociali della ―profezia‖, T.W. Overholt approfondisce, in prospettiva comparativa, il ruolo svolto dai discepoli nel preservare e diffondere il messaggio di un ―profeta‖. Il loro intervento può mediare la comunicazione ai destinatari, e occasionalmente rivelazioni a loro dirette integrano le parole del maestro e autorizzano la loro attività. Questa azione di filtro influisce sulla continuità del messaggio trasmesso, sviluppando, amplificando, alterando: «changes arise in response to the si17

Cfr. osservazioni e conclusioni di Rowland, 2006, pp. 45-56: «[…] in some forms of the interpretation of Ezek 1 the meaning of the text may come about as the result of ―seeing again‖ what Ezekiel saw. This may arise in the form of a vision (as appears to have been the case for John the visionary on Patmos), rather than by an explanation of the details of what Ezekiel saw» (p. 56). Questa apertura alle ricadute ―esegetiche‖ dell‘esperienza estatica mi sembra corrispondere pienamente ai dati testuali, impliciti ed espliciti, che abbiamo cercato di evidenziare. Sul rapporto biunivoco fra testo ed esperienza, cfr. anche l‘analisi di Sanders, 2006. Sull‘autorivelazione dello Spirito di Dio come criterio ermeneutico delle Scritture nella concezione paolina e sulle sue implicazioni, cfr. Pesce, 1984, pp. 85-108. Arcari, 2007, pp. 229-230; 232-234; 236, suggerisce un‘origine profetica e carismatica per l‘esegesi dei materiali ―scritturistici‖ e delle tradizioni attribuite a Gesù in Did. 16.

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tuation in which the disciple operated and the way in which he interpreted 18 what he had originally heard» (Overholt, 1989, p. 45) . Se la figura storica di Gesù di Nazareth è stata da più voci caratterizzata 19 come afferente anche ad una tipologia ―profetica‖ dell‘esperienza religiosa , e sono riconosciute la frequenza dei fenomeni di contatto con il divino e l‘importanza della comunicazione di parole dal Gesù celeste, tra i suoi se20 guaci , si fa interessante verificare brevemente l‘utilità del modello su alcuni passi proto-cristiani di matrice ―profetica‖, appunto, composti tra I e II sec.d.C., per cercare di inquadrare storicamente anche l‘interazione di Giovanni con la tradizione dei detti di Gesù. Partiamo da Paolo. In 1 Ts, l‘apostolo introduce nella sua argomentazione una «parola del Signore» per confortare la comunità che aveva fondato 21 (4, 13-18). Si è dibattuto se questo sia in effetti un detto di Gesù o non piuttosto un oracolo ricevuto e pronunciato da un ―profeta‖, se non addirittura da 22 Paolo stesso (cfr. 1 Cor 13, 2 e 15, 51-52; 2 Cor 12, 3-4; Rm 11, 25-27) , fatto sta che, cercando di superare questa contraddizione, forse solo apparen23 te , si può riconoscere come gli elementi della discesa dal cielo del Signore, degli angeli, della tromba e della riunione degli eletti coincidano con la for24 ma matteana di tradizioni ―apocalittiche‖ gesuane (cfr. Mt 24, 30-31) ; al tempo stesso, però, la distinzione introdotta tra «i morti che si sono addormentati in Cristo», e «noi che rimaniamo ancora in vita», e la convergenza dei loro destini escatologici tradiscono e rispondono ad una crisi dell‘attesa 25 della parusia acutamente sperimentata con la morte di alcuni fratelli . Gli Atti di apostoli canonici ci preservano un frammento diretto della predicazione di Paolo e Barnaba: «dobbiamo passare attraverso molte afflizione per entrare nel regno di Dio» (At 14, 22; cfr. 1 Ts 3, 3-4). Interessante, da un lato, che, a ridosso della missione, i due siano contati tra i «profeti» della comunità di Antiochia (At 13, 1 e 15, 32) e svolgano poi effettivamente 18

Cfr. Overholt, 1989, pp. 44-51 e, più ampiamente, 1986, pp. 309-331. Cfr. Meier, 1994, pp. 1040-1046; Aune, 1996, pp. 284-349; Theissen – Merz, 1999, pp. 299-340; Dunn, 2003, p. 334 e 655-666; Mimouni, 2003. Ricche di spunti anche le brevi riflessioni di Overholt, 1989, pp. 66-68. 20 Cfr. i ripetuti interventi di Destro-Pesce, 2003; 2006; 2007b. 21 Così Jeremias, 1965, pp. 105-108; Holtz, 1983, in particolare, pp. 59-66; Wenham, 1984, in particolare, pp. 89-91 e 304-306, e 1995, p. 305; Pesce, 2005, pp. 501-502. 22 Così Cerfaux, 1951, pp. 33-34 e n.1; Siber, 1971, pp. 37-38; Aune, 1996, pp. 472480. 23 Cfr. Stuhlmacher, 1983. 24 Con Pesce, 2005, pp. 501-502, non escludo aprioristicamente che possano essere attribuiti alla trasmissione dei detti di Gesù anche elementi non attestati dai sinottici. 25 Cfr. la ricostruzione di Aune, 1996, pp. 475-479, e l‘interpretazione di Dunn, 1998, pp. 299-304. Sul privilegio dei vivi rispetto ai defunti nel giorno della resurrezione, cfr. Dn 12, 12; 4 Esd. 5, 41-42 e 13, 24; Ascen. Isa. 4, 15; Od. Sal. 7, 50 e 18, 7; Or. sib. 3, 371. 19

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funzioni considerate ―profetiche‖ (parakalevw: cfr. At 14, 22 e 15, 32; 1 Cor 14, 3.31; 1 Ts 4, 18); dall‘altro, che questo detto non solo presenti affinità tematiche con rami della tradizione sinottica e non (cfr. Mt 6, 10; Mc 10, 23-31; Vang. Tom. 58), ma sia anche variamente conosciuto e trasmesso come parola gesuana da Barn. 7, 11; Ireneo, Haer. 5, 28, 3; Tertulliano, Bapt. 26 20; Atti Giov. Pro. 25; Ps.-Macario, Hom. 27, 20 . Nella formulazione specifica del testo di At, emergono in primo piano le manifestazioni di ostilità esterna alla formazione ed alla sopravvivenza delle comunità dei seguaci di Gesù (cfr. anche 1 Ts 1, 6; 2, 14-15; 3, 3-4). E. Norelli ha dimostrato che «una più ampia connessione letteraria» tra 27 Ascen. Isa. 4, 14-17 e Lc 12, 36-37 «è innegabile» . La rilettura della parabola del ritorno del padrone si inserisce nella visione-discorso di Isaia – e del gruppo profetico proto-cristiano che si cela dietro il suo personaggio e lo 28 scritto – sugli ultimi tempi e sulla parusia di Cristo sotto il regno di Beliar29 Nerone redivivo . Si arricchisce così del confronto con la riflessione millenaristica del redattore e con la sua interpretazione delle scritture ebraiche, nello specifico Is 13, 5 LXX e 24, 21-23; Dn 12, 12; Zc 14, 5 LXX, proiettate e, al tempo stesso, quasi osservate nel loro compimento (cfr. la formulazione ―teorica‖ in Ascen. Isa. 4, 21-22). Erma mostra di essere entrato in contatto con una pluralità di detti e tradizioni gesuane, che riaffiorano in vari punti del libro dettatogli dal Pastore (Vis. 2, 2, 8 e 4, 2, 6; Mand. 2, 4-6; 4, 1, 1.6; 9, 8; 10, 2, 2-6 e 3, 2; Sim. 5, 2; 30 9, 20, 2 e 29, 1.3) . Per mancanza di spazio, mi limiterò alle due occorrenze nelle Visioni. La prima (2, 2, 8), «w[mosen ga;r kuvrio~ kata; tou` uiJou` aujtou`, tou;~ ajrnhsamevnou~ to;n kuvrion aujtw`n ajpegnwrivsqai ajpo; th`~ zwh`~ aujtw`n» (cfr. Mt 12, 33; Lc 12, 9; 2 Tm 2, 11-12) compare come asserzione di giuramento, precisata e adattata alla rivelazione della seconda ed ultima penitenza di fronte alla tribolazione finale, con l‘introduzione di due categorie di rinnegatori, i prossimi e i passati; la seconda (4, 2, 6), «oujai; toi`~ ajkouvsasin ta; rJhvmata tau`ta kai; parakouvsasin: aiJretwvteron h\n aujtoi`~ to; mh; gennhqh`nai» (cfr. Mt 26, 24; Mc 14, 21; 1 Clem. 46, 8), è modulata a minaccia rivolta agli incerti, sempre nell‘approssimarsi di quella. Il mio ultimo esempio abbandona per un attimo la trasmissione delle parole di Gesù e tocca il testo stesso di Ap, nella misura in cui questo, nel giro 26 27 28 29

186.

30

Cfr. D‘Anna, 2001, in particolare, p. 192. Norelli, 1994, pp. 213-219 (citazione p. 213). Cfr. Norelli, 1995b, pp. 53-66. Cfr. Bauckham, 1983, in particolare, p. 130, e Norelli, 1994, in particolare, pp. 183Cfr. Hagner, 1985, in particolare, pp. 243-244, e Pesce, 2005, pp. 646-647.

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di nemmeno un secolo, finisce per alimentare, a sua volta, l‘annuncio dei profeti ―montanisti‖. Una rivelazione, ricevuta a Pepuza per incubazione da Quintilla o Priscilla, e citata in Epifanio, Pan. 49, 1, 3, rievoca come Cristo si fosse presentato alla profetessa in aspetto femminile e avvolto in una veste splendente, le avesse infuso la sapienza e svelato («ajpekavluyev moi») che quel luogo era santo («a{gion»), e che lì sarebbe discesa Gerusalemme dal cielo («w|de th;n ÆIerousalh;m ejk tou' oujranou' katievnai»). La visione di Giovanni (cfr. Ap 21, 2.10) viene così circoscritta spazialmente e localizzata 31 al centro di quella geografia sacra, che essa stessa contribuisce a creare . In tutti gli esempi che ho proposto, mi sembra si evidenzino bene linee di trasmissione di materiale tradizionale gesuano, che richiamano, rievocano strutture sintattiche, fraseologia o immagini, e, alla luce di nuove rivelazioni ricevute da seguaci del Nazareno, di volta in volta, alterano e declinano, attualizzano e interpretano questa memoria fondativa nel contesto storico e 32 comunicativo di pertinenza . Si tratta ora di verificare quanto questo inquadramento storico e comparativo del fenomeno possa aiutarci, in sintonia con le affermazioni di Giovanni stesso, ad esaminare e comprendere in profondità le modalità specifiche del suo recupero di parole di Gesù.

31

Frankfurter, 1996, pp. 133-134; 136-137; 141-142, esclude un‘influenza diretta di Ap su questo oracolo, e sembra pensare piuttosto a tradizioni orali comuni. Credo, tuttavia, che una relazione con Ap sia innegabile; al più, si potrebbe parlare di dipendenza da variazioni orali secondarie del testo scritto. I punti di contatto linguistici sono già di per sé significativi, ma evidenziano anche come, nei testi apocalittici non cristiani vicini a Giovanni, fra le tante corrispondenze, manchi proprio il particolare specifico della discesa della città (cfr. Lupieri, 2000, pp. 325-326). 32 Cfr. lo schizzo del rapporto fra tradizione gesuana ed «ermeneutica della memoria» in Gv, offerto da Theobald, 2002, pp. 554-615, da integrare con le osservazioni di Destro – Pesce, 2003, pp. 91-103. Utili le osservazioni di Arcari, 2007, pp. 217-218 e 233-236, sulla creazione profetica di nuovi testi, mediante ripresa di testi e/o tradizioni precedenti, considerati autorevoli. Tra questi, Arcari annovera anche tradizioni ascritte a Gesù, suscettibili degli stessi procedimenti di adattamento, attualizzazione e universalizzazione che operano sulle scritture ebraiche. Un interessante termine di confronto è offerto anche da Merz, 2004, che ha analizzato 1-2 Tim come esercizio intertestuale pseudoepigrafico di auto-interpretazione di sottotesti, tradizioni e formulazioni paoline: ne esce il quadro di una letteratura che, nella persona fittizia di Paolo, sviluppa, rivede, appiattisce e perfino corregge le sue affermazioni, alla luce di dibattiti e conflitti con altri gruppi sulla memoria ed il messaggio dell‘apostolo (pp. 382387). Si potrebbe aggiungere che, non ultimo autore di simili auto-interpretazioni ed, evidentemente, del testo interpretato e riletto, è chiamato in causa ancora lo Spirito (cfr. 1 Tim 4, 1-3 e 2 Tim 3, 1-9 e 4, 3-4, con 2 Ts 2, 3.10-12), quello stesso Spirito di Dio di cui già Paolo rivendicava il possesso per legittimare correzioni, ampliamenti ed integrazioni ai comandamenti del Signore (cfr. 1 Cor 7, 8-40).

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2. TRA LE PAROLE Che cosa intendiamo, innanzitutto, per ―parole di Gesù‖? A prescindere da questioni di autenticità, in ―parole di Gesù‖, comprendo parole esplicitamente attribuite o riconducibili a tradizioni gesuane, non necessariamente od esclusivamente attestate nelle scritture cristiane canoni33 che, in qualsiasi forma esse possano comparire . Con forma, non alludo semplicemente a distinzioni di genere letterario – i due termini sono spesso, e impropriamente, utilizzati come sinonimi –, operabili in sede di analisi di Formgeschichte. Miro, anche e soprattutto, infatti, ad allargare il campo d‘indagine a semplici espressioni, stilemi o giri di frase che abbiano un qualche probabilità di risalire a una o più di queste tradizioni, senza che tuttavia sia possibile individuarli e identificarli con detti specifici, estrapolati a loro volta da contesti altrettanto particolari e immedia34 ti . L‘articolazione doppia dell‘analisi che ci apprestiamo a condurre mo35 strerà concretamente cosa ci proponiamo .

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Cfr. Pesce, 2005, pp. xii-xiv e 597-598. Ancora valide le indicazioni teoriche di Hylen, 2005, pp. 53-56; 74, in particolare, 54 e 58-59 sulla «descrizione definita». Cfr. anche, sebbene più superficialmente, Segalla, 2000, pp. 117-119. Arcari, 2007, dà ragione della necessità di aumentare la sensibilità dell‘analisi in questa direzione, per adeguarla alla complessità storica del fenomeno studiato: «Questo procedimento (scil. il ricorso a testi e/o tradizioni considerati autorevoli) poteva andare dalla ripresa, attualizzazione e universalizzazione di passi specifici di particolari scritti, fino alla ripresa di particolari stilemi se non addirittura di un‘atmosfera generale di un testo attraverso l‘inclusione di piccole spie di identificazione […] il concentrarsi su una metodologia esclusivamente volta all‘analisi di ―paralleli‖ ha portato molti studiosi a non scandagliare ulteriori rimandi e riprese che, proprio a un‘attenta analisi filologica […], si sono rivelati di notevole interesse (il caso della citazione di 1 Enoc 15,3 in Ap 14,4)» (pp. 217-218 e 219-220). 35 Per la lettura delle tabelle che seguono, si tenga presente che i paralleli inseriti sono quelli più prossimi, possibilmente attribuiti o attribuibili a Gesù e indipendenti da Ap, come si proverà a dimostrare. Laddove siano citate più opere, la loro disposizione nelle colonne alla destra dei passi di Ap si basa sullo stesso principio combinato di prossimità e indipendenza: quanto più simile ed eventualmente indipendente, tanto più vicino. In calce a ciascuna tabella, riportiamo generalmente, fatti salvi i casi poi discussi, i paralleli secondari, o perché meno stretti e immediatamente rilevanti o perché, con molta probabilità, dipendenti dal testo di Ap o dei paralleli primari, come di volta in volta emergerà dalla discussione. Le tabelle assumono struttura sinottica solo a partire dall‘analisi di eventuali ricorrenze di singoli detti specifici (2.2), laddove più precise corrispondenze formali lo rendano possibile. Per semplificarne e chiarirne la lettura, si è deciso di segnalare, con una linea a tratto continuo, unicamente le corrispondenze linguistiche, sintattiche, e strutturali più forti e decisive; le analogie formali più tenui, ma non meno significative, e i punti di contatto tematici saranno esaminati e valutati nel commento analitico. 34

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Le parole di Gesù nell‟Apocalisse 2.1 Piccolo vocabolario gesuano 2.1.1 Il venire di Gesù Ap 2, 5: «e[rcomaiv soi» 2, 16: «e[rcomaiv soi tacuv» 3, 11: «e[rcomai tacuv»

Gv 14, 3: «kai; eja;n poreuqw` kai; eJtoimavsw tovpon uJmi`n, pavlin e[rcomai kai; paralhvmyomai uJma`~ pro;~ ejmautovn» 14, 18: «oujk ajfhvsw uJma`~ ojrfanouv~, e[rcomai pro;~ uJma`~»

22, 7: «kai; ijdou; e[rcomai tacuv» 22, 12: «ijdou; e[rcomai tacuv» 22, 20: «nai;; e[rcomai tacuv»

14, 28: «hjkouvsate o{ti ejgw; ei\pon uJmi`n, uJpavgw kai; e[rcomai pro;~ uJma`~» 21, 22: «levgei aujtw`æ oJ ÆIhsou`~, eja;n aujto;n qevlw mevnein e{w~ e[rcomai» (cfr. anche v. 23)

Altri paralleli:  Ap 2, 25: «plh;n o} e[cete krathvsate a[cri~ ou\ a]n h{xw»; 3, 3: «h{xw ejpi; se»  Lc 19, 13:«pragmateuvsasqe ejn w\æ e[rcomai»

Nell‘Apocalisse, «e[rcomai», variamente modulato, compare sempre in bocca all‘angelo di Gesù, e sempre, nonostante sia Dio l‘ ejrcovmeno~ per eccellenza (Ap 1, 4.8 e 4, 8), si riferisce alla venuta escatologica del Signore (cfr. Ap 1, 7) che parla adesso in prima persona. Il Gesù di Gv si esprime in maniera pressoché identica nell‘assicurare il 36 suo ritorno alla fine dei tempi . In tre dei cinque «e[rcomai» con soggetto Gesù stesso, quelli che ricorrono nel discorso di addio ai discepoli (Gv 14 – 17), si toccano altre somiglianze formali, quali l‘accenno al gruppo dei seguaci come polo di destinazione della parusia («soi» o anche «ejpi; se» in Ap, «pro;~ uJma'~» in Gv), e l‘eventuale espansione con promessa o minaccia al futuro (cfr. Gv 14, 3 e Ap 2, 5.16). Più sullo sfondo, rimangono le scritture ebraiche con il raro «e[rcomai» divino (cfr. Is 66, 18 e Zc 2, 14), che al più

36

Ampia discussione in Frey, 2000, pp. 19-22; 40-43; 148-153, e Theobald, 2002, pp. 506-521.

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Capitolo secondo 37

confluisce nell‘«oJ ejrcovmeno~» di Ap , e l‘isolata occorrenza della versione lucana della parabola delle mine, nel discorso diretto del futuro re (cfr. Lc 19, 14-27). Per quanto possa risultare chiaro che «die früchristliche (syn. und vorpln.) Menschensohn-Apokalyptik» rimanga il quadro di riferimento in cui 38 si situa l‘espressione ―giovannea‖ (cfr. anche Ap 1, 7) , è in ogni caso troppo poco per parlare, non che di dipendenza, di sviluppi distinti di tradizioni comuni anche ai Sinottici e a Paolo. D‘altro canto, il differente orizzonte interpretativo in cui l‘espressione è calata in Gv e in Ap (cfr. Gv 14, 15-21 e 16, 39 12-22, e Ap 2, 16 e 19, 11-21) , lascia emergere i primi lineamenti di un nucleo simile di tradizioni costituitesi come gesuane, ma patrimonio autonomo di ciascun redattore. La frequenza delle risonanze affinerà questo primo giudizio iniziale. 2.1.2 Dio e Padre Ap

Gv

2, 26.28: «oJ nikw`n kai; oJ thrw`n a[cri tevlou~ ta; e[rga mou, dwvsw aujtw`æ ejxousivan ejpi; tw`n ejqnw`n, […] wJ~ kajgw; ei[lhfa para; tou` patrov~ mou»

10, 18: «ejxousivan e[cw qei`nai aujthvn, kai; ejxousivan e[cw pavlin labei`n aujthvn:tauvthn th;n ejntolh;n e[labon para; tou` patrov~ mou»

3, 2.5: «ouj ga;r eu{rhkav sou »ta;¼ e[rga peplhrwmevna ejnwvpion tou` qeou` mou […] kai; oJmologhvsw to; o[noma aujtou` ejnwvpion tou` patrov~ mou kai; ejnwvpion tw`n ajggevlwn aujtou »

20, 17: «ajnabaivnw pro;~ to;n patevra mou kai; patevra uJmw`n kai; qeovn mou kai; qeo;n uJmw`n»

3, 12: «oJ nikw`n poihvsw aujto;n stu`lon ejn tw`æ naw`æ tou` qeou` mou, kai; e[xw ouj mh; ejxevlqhæ e[ti, kai; gravyw ejpÆ aujto;n to; o[noma tou` qeou` mou kai; to; o[noma th`~ 37

Cfr. anche Is 3, 14; 4, 5; 40, 10; 41, 4; 66, 15; Ab 2, 3; Ml 3, 1; Dn 7, 13 LXX; 1 En. 1, 9; T. Ash. 7, 2-3; T. Giud. 14; Es Rab 3, 6; Tg. fram. Es 3, 14; Tg. Ps.-J. Dt 32, 39. 38 Theobald, 2002, p. 516. Cfr. anche Dodd, 1963, pp. 413-418. 39 Cfr. le interpretazioni di Aune, 1972, pp. 126-133, e Moloney, 2005, in particolare, pp. 249-259, da un lato, e Theobald, 2002, pp. 516-521, dall‘altro, per quanto quest‘ultima a volte si mostri orientata anche da precisi interessi teologici. Gv 21, 22.23 attesta comunque parallelamente un uso identico.

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

105

povlew~ tou` qeou` mou, th`~ kainh`~ ÆIerousalhvm, hJ katabaivnousa ejk tou` oujranou` ajpo; tou` qeou` mou» Altri paralleli:  Ap 1, 6: «kai; ejpoivhsen hJma`~ basileivan, iJerei`~ tw`æ qew`æ kai; patri; aujtou`» (cfr. anche 14, 1)  Rm 15, 6: «i{na oJmoqumado;n ejn eJni; stovmati doxavzhte to;n qeo;n kai; patevra tou` kurivou hJmw`n ÆIhsou` Cristou` » (cfr. anche 2 Cor 1, 3 e 11, 31; Ef 1, 3; Col 1, 3; 1 Pt 1, 3)  Mc 15, 34: «oJ qeov~ mou oJ qeov~ mou, eij~ tiv ejgkatevlipev~ meÉ» (cfr. anche Mt 27, 46)

Se l‘appellativo «padre mio» di fatto accomuna il Gesù ―sinottico‖ e il Gesù ―giovanneo‖, non così oJ qeov~ mou: fatta salva la traduzione dall‘aramaico del grido di Gesù sulla croce, compare un‘unica volta nella tradizione gesuana divenuta canonica, in Gv e in coordinazione con oJ pathvr 40 mou . Ancora una volta Ap sembra attingere liberamente a tradizioni pregiovannee. Da un lato, infatti, il linguaggio dalle forti reminescenze ―giovannee‖ di Ap 2, 26-28 (ejxousivan lambavnein para; tou' patrov~; cfr. Gv 5, 26-27 e 17, 1-2) appare tradire l‘origine specifica anche del sintagma nomi41 nale oJ pathvr mou . Dall‘altro, l‘uso dei termini oJ pathvr e oJ qeov~ è sì contemporaneo e ravvicinato (cfr., in particolare, Ap 3, 2.5), ma mai combinato. La valenza, inoltre, di legame esclusivo tra Dio e Gesù, che essi insieme, nell‘Ap, traducono ed esprimono, di contro a passi come Gv 20, 17, tendono ad escludere l‘influenza diretta e immediata del testo evangelico e della sua 42 ideologia sul redattore di Ap .

40

Col 1, 3 permette di accertare che, nelle ricorrenze della formula all‘interno del corpus e della tradizione paolina, il genitivo «di Gesù Cristo» specifica unicamente il sostantivo «padre» e non anche «Dio». Ap 1, 6, dalla sua, rievoca a posteriori e anticipa le successive occorrenze dei termini nel corso della visione (cfr. tutto Ap 1, 4-6 e 1, 8.11; 3, 14; 4, 5.8; 5, 910). Il binomio «Padre mio e Dio mio» è attestato ora anche in 4Q372apocrJosephb fr. 1, 16 (cfr. 4Q460 fr. 5 I, 5 per l‘analogo «Padre mio e Signore mio», sempre rivolto a Dio) 41 Frey, 1993, p. 356. Per la fraseologia, cfr. anche Mt 11, 27 e 28, 18; At 2, 33; Herm, Sim. 5, 6, 4, che ne attestano la diffusione al di fuori della letteratura giovannista, e, con tutta probabilità, indipendentemente dalla sua influenza. 42 Ap specifica ulteriormente solo «Dio» con genitivi di pronomi personali altri da «mio» o «suo» sempre riferiti a Gesù (cfr. Ap 5, 10; 7, 10.12; 12, 10; 19, 1.5.6), e proietta nel futuro escatologico la figliolanza dei soli vincitori (Ap 21, 7, dove però «Dio» sostituisce il «padre» di 1 Sam 7, 14 TM e LXX, e dei Targumim, cfr., invece, Gv 1, 12 e 1 Gv 3, 1-2).

106

Capitolo secondo

2.1.3 La parola e la custodia Ap 3, 8: «kai; ejthvrhsav~ mou to;n lovgon, kai; oujk hjrnhvsw to; o[nomav mou» 3, 10: «o{ti ejthvrhsa~ to;n lovgon th`~ uJpomonh`~ mou»

Gv 8, 51.52: «ajmh;n ajmh;n levgw uJmi`n, ejavn ti~ to;n ejmo;n lovgon thrhvshæ, qavnaton ouj mh; qewrhvshæ eij~ to;n aijw`na […] su; levgei~, ejavn ti~ to;n lovgon mou thrhvshæ, ouj mh; geuvshtai qanavtou eij~ to;n aijw`na» 14, 23-24: «ejavn ti~ ajgapa`æ me to;n lovgon mou thrhvsei […] oJ mh; ajgapw`n me tou;~ lovgou~ mou ouj threi`» 15, 20: «eij to;n lovgon mou ejthvrhsan, kai; to;n uJmevteron thrhvsousin. »

Altri paralleli:  Ap 2, 26: «kai; oJ nikw`n kai; oJ thrw`n a[cri tevlou~ ta; e[rga mou»  Vang. Tom. 1 (P.Oxy. 654): «o{[sti~ a]n th;n ejrmhneiv]an tw'n lovgwn touvt[wn euJrivskh/, qanavtou] ouj mh; geuvshtai»; 19: «se divenite miei discepoli e ascoltate le mie parole, queste pietre vi serviranno. Ci sono infatti cinque alberi in Paradiso, che non avvizziscono né d‘estate né d‘inverno e le cui foglie non cadono: chi li conoscerà non gusterà la morte»  Gv 12, 47: «kai; ejavn tiv~ mou ajkouvshæ tw`n rJhmavtwn kai; mh; fulavxhæ, ejgw; ouj krivnw aujtovn»  Mt 22, 28: «didavskonte~ aujtou;~ threi`n pavnta o{sa ejneteilavmhn uJmi`n»

L‘uso di oJ lovgo~ mou retto da threvw si restringe a Gv ed Ap, e ancora 43 una volta la costruzione compare solo in bocca a Gesù . Sui richiami puramente formali, cui si potrebbe forse aggiungere la formulazione di promesse in forma condizionale (cfr. Gv 8, 51-52; Vang. Tom. 1 e 19; Ap 2, 26-28), si innestano anche complessi tematici più ampi riscontrabili in entrambi i testi: «custodire la parola», in Ap 3, 8, viene inte44 grato da «non rinnegare il mio (scil. di Gesù) nome» , che di fatto poi sfuma nel nome del Padre suo (cfr. Ap 14, 1 e 22, 3-4), mentre, in Gv 17, 6, si alli43

La LXX attesta, solo sporadicamente, threi'n tou;~ lovgou~ mou, in bocca a Dio (1 Sam 15, 11), e threi'n ta; rJhvmatav mou, in bocca al padre che istruisce il figlio (Pr 3,1; cfr. anche 21). 44 Ma cfr. anche Mt 10, 33; Lc 12, 9; Ap 2, 13 e 3, 5.

107

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

nea alla manifestazione del nome di Dio ai discepoli, nome che il Padre ha dato a Gesù (cfr. Gv 17, 11-12). La custodia fedele garantisce l‘amore di Dio 45 e di Gesù (Ap 3, 9 e Gv 14, 21-24; cfr. anche Ap 1, 5 e 20, 4-9) , e innesca la reciprocità della preservazione, che viene a coinvolgere in prima linea Dio 46 stesso e Gesù (cfr. Ap 3, 10 e Gv 17, 6-8.11-12.15) . La fraseologia matteana affine e i detti paralleli a Gv 8, 51-52 rintracciabili in Vang. Tom. 1 e 19, rielaborati in sede redazionale e, con tutta probabilità, non riconducibili a una Vorlage giovannea, lascerebbero pensare a una diffusione abbastanza ramificata del detto, e dell‘espressione e delle sue varianti, con esso, tale da non imporre per queste una dipendenza diretta di 47 Ap da Gv . Questa ipotesi si fa preferire anche per l‘assenza, in Ap, del corrispettivo threi'n ta;~ ejntola;~ mou/ta~; ejmav~ (Gv 14, 15.21 e 15, 10; cfr. 1 Gv 2, 3-4 e 2 Clem. 4, 5): Ap conosce unicamente comandamenti divini (Ap 12, 48 17 e 14, 12) e non le sviluppa, in ogni caso, in senso cristologico (cfr. Gv 8, 49 55 e 15, 10) . 2.1.4 L‘«Io sono» di Gesù Ap 22, 13: «ejgw; [eijmi] to; ÒAlfa kai; to; ÇW, oJ prw`to~ kai; oJ e[scato~, hJ ajrch; kai; to; tevlo~»

Gv 6, 35: «ejgwv eijmi oJ a[rto~ th`~ zwh`~» (cfr. anche vv. 41.48.51) 8, 12: «ejgwv eijmi to; fw`~ tou` kovsmou»

22, 16: «ejgwv eijmi hJ rJivza kai; to; gevno~ Dauivd, oJ ajsth;r oJ lampro;~ oJ prwi>nov~»

45

10, 7: «ejgwv eijmi hJ quvra tw`n probavtwn» (cfr. anche v. 9)

L‘intreccio multiplo di allusioni isaiane in Ap 3, 9 (cfr. Is 43, 4; 49, 23; 60, 14) rivela la mano di Giovanni e sottolinea la sua volontà di stabilire questa connessione (Fekkes, 1994, pp. 133-137). Sulla scorta di queste osservazioni, mi pare qui importante segnalare come, quantomeno in altre due delle quattro totali occorrenze di ajgapavw nell‘Apocalisse (Ap 1, 5 e 12, 11), si possano percepire chiaramente sfumature giovannee. 46 La costruzione threvw ejk si incontra solo in Ap 3, 10 e Gv 17, 15: qui, la protezione è direttamente dal Malvagio, lì dall‘ora della prova che incombe, e con ciò indirettamente dallo stesso Diavolo di Ap 2, 10 (cfr. anche 1 Gv 5, 18, ma, soprattutto, Mt 6, 13; Did 8, 2; Ap. Giac. 4, 29-31; Ps.-Clemente, Hom. 3, 55). Si veda Riesenfeld, 1969, pp. 141-142 e nn. 14 e 16, e Frey, 1993, p. 355 n.172. 47 Koester, 1990, pp. 114-115; Theobald, 2002, pp. 503-504; Nordsieck, 2004, pp. 3334 e 94;. 48 Cfr. Sir 29, 1; T. Dan 5, 1; Flavio Giuseppe, A.J. 8, 120; Mt 19, 17; 1 Gv 3, 22-24 e 5, 3. 49 Frey, 1993, pp. 354-356.

108

Capitolo secondo

10, 11: «ejgwv eijmi oJ poimh;n oJ kalov~» 11, 25: «ejgwv eijmi hJ ajnavstasi~ kai; hJ zwhv» 14, 6: «ejgwv eijmi hJ oJdo;~ kai; hJ ajlhvqeia kai; hJ zwhv» 15, 1: «ejgwv eijmi hJ a[mpelo~ hJ ajlhqinhv» (cfr. anche v. 5) Altri paralleli:  Vang. Tom. 77: «Io sono la luce che è sopra tutti loro. Io sono il tutto»  Ignazio, Phld. 9, 1: «aujto;~ w]n quvra tou` patrov~, diÆ h\~ eijsevrcontai ÆAbraa;m kai; ÆIsaa;k kai; ÆIakw;b kai; oiJ profh`tai kai; oiJ ajpovstoloi kai; hJ ejkklhsiva»  Vang. Naass. in Ps.-Ippolito, Haer. 5, 8, 21: «ejgwv eijmi hJ puvlh hJ ajlhqinhv»  Atti Giov. 95: «luvcno~ eijmiv soi tw`æ blevpontiv me. ajmhvn. e[soptrovn eijmiv soi tw`æ noou`ntiv me. ajmhvn. quvra eijmiv soi krouvontiv me. ajmhvn. oJdov~ eijmiv soi parodivthæ»  Marcello in Eusebio, Marc. 1, 2, 26: «proi>w;n dÆ au\qi~ oJ aujto;~ eijsavgei to;n swth`ra levgonta ejgwv eijmi hJ hJmevra»  Ps.-Clemente, Hom. 3, 52, 2: «ejgwv eijmi hJ puvlh th`~ zwh`~: oJ diÆ ejmou` eijsercovmeno~ eijsevrcetai eij~ th;n zwhvn»  Afraate, Dem. 4, 5: «Io sono la porta della vita: chiunque entrerà attraverso di me, vivrà in eterno»  Pietro di Sicilia, Hist. Man. 29: «ejgwv eijmi to; u{dwr to; zw'n»  Giovanni Sabanisʒe, Mart. Ab. 4, 11 (ed. Schultze): «Egli è stato chiamato porta, poiché ha detto: ―Io sono la porta della vita‖»

Sulla bocca dell‘angelo di Gesù e del Gesù di Gv, le affinità si riducono a una semplice dimensione strutturale: alla formula «ejgwv eijmi» seguono predicazioni, nell‘Ap, eventualmente metaforiche (cfr. 1, 17-18 e 2, 23), introdotte dall‘articolo. Al contrario del redattore del vangelo, Ap non le espande in esplicazioni soteriologiche, muovendosi piuttosto alla confluenza di tradizioni veterotestamentarie ed ellenistiche di auto-presentazione di divinità e di suoi rappresentanti o inviati, se davvero di confluenza, e non di una tradizione comune e diversificata, è lecito parlare (cfr. Es 3, 14; Is 48, 12; Ger 17, 10, e Ap 1, 8 con Diodoro Siculo, 1, 27, 4-5; Plutarco, Is. Os. 354c e PGM IV, 185-191 e V, 145-159; Sir 24, 18; Gius. Asen. 14, 8 e 15, 12; T.

109

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse 50

Ab. (A) 16; Pr. Gius. in Origene, Comm. Jo. 2, 189-190) : formula e predicazioni coincidenti, metaforiche e non, ritornano pronunciate anche a nome 51 di Dio (cfr. Ap 1, 8 e 21, 6-8, e 1, 17-18 e 22, 13) . I paralleli offerti da Vang. Tom., Ignazio, Vang. Naass. e omelie pseu52 do-clementine, tutti non necessariamente dipendenti da Gv , anche dalla loro, più che una rete di corrispondenze dirette, sembrano presupporre l‘esistenza di un complesso di tradizioni gesuane pre-giovannee formate e 53 modellate sugli stilemi di simili auto-rivelazioni . 2.1.5 La vittoria Ap 3, 21: «wJ~ kajgw; ejnivkhsa»

Gv 16, 33: «ejgw; nenivkhka to;n kovsmon»

Altri paralleli:  Lc 11, 22: «ejpa;n de; ijscurovtero~ aujtou` ejpelqw;n nikhvshæ aujtovn, th;n panoplivan aujtou` ai[rei ejfÆ h\æ ejpepoivqei, kai; ta; sku`la aujtou` diadivdwsin»  Vang. Salv. 13, 10.14: «Io combatto per voi: anche voi fate la guerra (povlemo~) […] non piangete da , ma gioite piuttosto, amen. Io ho vinto il mondo, e voi non lasciate che il mondo vi vinca»

50

Cfr. Norden, 1913, pp. 177-201.239; Bultmann, 1953, p. 167 n.2; Schweizer, 1965, pp. 12-35; 64-82; 111-112; 127-129; Berger, 1984, p. 39; Id., 1991, pp. 197-198; Id. 1997, pp. 55-56 e 195-197, con ulteriore bibliografia; Geiger, 1992; Aune, 1996, pp. 140-143; Cebulj, 2000, pp. 21-57; 123-126; 266-287. Cfr. anche la succinta analisi delle occorrenze nell‘Ap offerta da Frey, 1993, pp. 400-402. 51 Per la fraseologia, cfr. Is 41, 4; 43, 10; 44, 6; 48, 12; Ger 17, 10. 52 Su Vang. Tom. e Ignazio, cfr., rispettivamente, Koester, 1990, pp. 117-118 e Nordsieck, 2004, pp. 291-293, e Theobald, 2002, pp. 296-300 e 544-545, che pure, stranamente, liquida Ps.-Clemente, Hom. 3, 52, 2 come «Aufnahme von Joh 10, 9» (p. 295), con le stesse argomentazioni avanzate per l‘indipendenza di Phld. 9, 1. Se dunque la dimostrazione per Ignazio tiene, mi pare il caso, non fosse altro, almeno di riesaminare il giudizio sia sul detto conservato dall‘omelia pseudo-clementina sia sulla citazione dello Ps.-Ippolito (cfr. anche Egesippo in Eusebio, H.E. 2, 23, 8.12). A conclusioni opposte arriva, infatti, l‘analisi di Kline, 1975, pp. 163-164. Per una recente messa a punto, che tiene conto anche della tradizione siriaca e georgiana del detto, vedi Tripaldi – Stori, 2009. Su possibili contatti fra le tradizioni sinottiche e Gv, si sofferma Geiger, 1992, in particolare, pp. 468-470, che però, tra le «h\lqonWorte» giovannee, manca di citare Gv 12, 46, tanto più interessante per gli stretti paralleli che presenta con Gv 8, 12 e 9, 5. 53 Sulla relazione specifica tra Gv ed Ap, cfr. le conclusioni di Frey, 1993, pp. 401-402, e Theobald, 2002, pp. 299-300 e 544-545.

110

Capitolo secondo 

P.Stras. Copt. 5 (verso): « ora vi rallegrate che io il mondo»

Lc 11, 22, da una parte, e Gv 16, 33 con Ap 3, 21, dall‘altra, sono le uni54 che parole ―canoniche‖ di Gesù che si incentrino su una sua vittoria : il detto lucano si inserisce nella disputa sull‘attività esorcistica di Gesù (Lc 11, 1426) e traduce in immagini il conflitto in corso tra di lui e i demoni, il regno di Dio e quello di Satana; Gv 16, 33 e Ap 3, 21, entrambe in prima persona, entrambe sullo sfondo di tradizioni martirologiche e apocalittiche, spostano il discorso su un piano di dimensioni cosmologiche, Gv inquadrando la vittoria di Gesù nella cacciata del sovrano del mondo (cfr. Gv 12, 13; 14, 30, 16, 55 11) , Ap celebrandola nella guerra contro le forze sataniche (cfr. Ap 12, 156 12) . L‘uso assoluto del verbo in Ap, di contro a Gv e alla linea di sviluppo 57 58 che ne procede , fa propendere per un‘origine autonoma dell‘espressione . 2.1.6 La lingua di Gesù In un‘ottica comparativa che, dove possibile, non si limitasse soltanto ai Sinottici, abbiamo cercato di isolare alcuni elementi verbali che punteggiano il discorso dell‘angelo di Gesù in Ap. Il confronto ha permesso di riallacciarli ipoteticamente a tradizioni gesuane pre-giovannee in un periodo (seconda metà del I – prima metà del II sec.d.C) che non vedeva ancora la fissazione scritta soppiantare la trasmissione orale. Nel migliore dei casi, attestazioni non canoniche indipendenti hanno allargato il quadro storico ad una ramificazione e diffusione di tradi-

54 55

239.

56

Bauernfeind, 1942, p. 943, e Frey, 1993, pp. 389-390. Cfr. Holtz, 1981, p. 1149; Taeger, 1994, pp. 25-28; Berger, 1997, pp. 170-171 e 233-

Cfr. Holtz, 1981, p. 1150, e Taeger, 1994, pp. 33-41. Così su Vang. Salv., Frey, 2002, pp. 75-78, e Plisch, 2005, pp. 70-73. Su P.Stras., più cautamente, Schneemelcher, 1987, pp. 87-88. Risalta, in entrambi i testi, la connessione di gioia dei discepoli e vittoria di Gesù (ma cfr. orientativamente Gv 16, 20-22 e 31-33), in Vang. Salv., l‘esortazione conseguente e parallela, diretta ai discepoli, di non lasciarsi vincere dal mondo, in una sfumatura piuttosto analoga all‘uso di nikavw in 1 Gv e Ap in riferimento ai seguaci di Gesù: collage di passi giovannei o risonanze di tradizioni – o sviluppi di tradizioni – comuni e indipendenti? 58 Ap 5, 5 e 17, 14 riprendono, invece, tradizioni messianiche, e le fondono con la cristologia dell‘Agnello, illuminando bene la complessità semantica e le sfumature temporali della vittoria di Gesù in Ap. Cfr. le osservazioni di Roose, 2000, pp. 66-67 e 70-71. 57

111

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

zioni ben più pervasiva di quanto i testi poi confluiti nelle scritture cristiane, 59 presi in sé stessi, lascino presumere . Il linguaggio di Gesù nell‘Ap, nei costrutti, nelle forme, nelle espressioni che crediamo di aver riconosciuto e identificato, si colloca in questo alveo orale più esteso. 60

2.2 I detti . 61

2.2.1 La beatitudine dell‘udire e custodire (Ap 1,3) . Ap

Lc

Vang. Tom.

Herm. Sim.

1, 3: «makavrio~ oJ ajnaginwvskwn kai; oiJ ajkouvonte~

11, 28: «menou'n makavrioi

79: «Beati

5, 3, 9:

oiJ ajkouvonte~

tou;~ lovgou~ th`~ profhteiva~ kai; throu`nte~ ta; ejn aujth`æ gegrammevna»

to;n lovgon tou` qeou` kai; fulavssonte~»

quanti hanno ascoltato la parola del Padre e l‘hanno custodita in verità»

«o{soi eja;n ajkouvsante~ aujta;

59

thrhvswsi

Illuminanti la ricostruzione di Theobald, 2002, pp. 196-198 e 525-528, e le sue precisazioni alle tesi di Koester, 1990, pp. 544-546 e 552-553. Ma cfr. già Koester, 1957, pp. 45-57 e 79-94, e Berger, 1995, p. 615-616. 60 Dell‘elenco offerto da Vos, 1965, pp. 218-219, non discuto qui Ap 6, 4; 11, 6; 13, 10; 17, 4; 18, 4: il primo, il quarto ed il quinto passo offrono una base testuale troppo esigua, vaga e generica per una comparazione fondata, argomentabile in primo luogo su criteri formali, tanto più avendo tutti paralleli precisi nelle scritture ebraiche che possano averli ispirati (cfr., rispettivamente, Ger 4, 10 e 12, 12 LXX, e Is 2, 4; Ger 51, 7 TM e Tg. Neb.; Ger 50, 8 e 51, 6.45 TM); il secondo rimanda a linguaggio e tradizioni diffusi ampiamente e irriducibili alla sola tradizione delle parole di Gesù, quale attestata da Lc 4, 25 (cfr. Gc 5, 17 e i testi citati da Aune, 1998a, p. 615); nell‘analisi del terzo, infine, lo studioso olandese si basa, in maniera decisiva, su una lezione secondaria, che dà l‘impressione di essere piuttosto una armonizzazione scribale a Mt 26, 52, volta a semplificare le durezze linguistiche e la comprensione del passo, di fatto però stravolgendone il senso (cfr. Charles, 1920, pp. 355-356, e Metzger, 1971, p. 750): morte per spada e deportazione erano infatti il destino – storico e paradigmatico – incombente sul popolo di Dio per mano di Babilonia e dei re della terra (cfr. Ger 15, 2; 1 Esd. 8, 74; Lc 21, 24 con Ap 17, 5-6 e 18, 2-4.24). Dell‘elenco offerto da Segalla, 2000, pp. 121129, in parte seguendo Vos, ho escluso le corrispondenze solo tematiche, le risonanze chiaramente mediate dai sottotesti di riferimento comuni, e quei paralleli che la tradizione sinottica e giovannea non presentassero mai effettivamente in bocca a Gesù come sue parole. In appendice al capitolo, si può trovare un prospetto comparativo degli elenchi, il mio compreso. 61 Cfr. Vos, 1965, pp. 54-60, e Vanni, 1991, pp. 18-20.

112

Capitolo secondo makavrioi e[sontai»

Altri paralleli:  Gc 1, 22.25: «givnesqe de; poihtai; lovgou kai; mh; ajkroatai; movnon paralogizovmenoi eJautouv~ […] oJ de; parakuvya~ eij~ novmon tevleion to;n th`~ ejleuqeriva~ kai; parameivna~, oujk ajkroath;~ ejpilhsmonh`~ genovmeno~ 62 ajlla; poihth;~ e[rgou, ou\to~ makavrio~ ejn th`æ poihvsei aujtou` e[stai»  Gv 12, 47: «kai; ejavn tiv~ mou ajkouvshæ tw`n rJhmavtwn kai; mh; fulavxhæ, ejgw; ouj krivnw aujtovn»  Lc 8, 21: «mhvthr mou kai; ajdelfoiv mou ou\toiv eijsin oiJ to;n lovgon tou` qeou` ajkouvonte~ kai; poiou`nte~»

Questa è la prima delle tre possibili corrispondenze tra Ap e rami della tradizione gesuana che compaiano nella doppia cornice redazionale dello scritto e non nel resoconto visionario. In tre delle varianti in cui il detto ci è tramandato, il nucleo formale e strutturale della beatitudine si è preservato nello stesso ordine sintattico: l‘aggettivo makavrio~/neiat- è seguito dai participi plurali sostantivati dei 63 64 verbi ajkouvw/sōtem e threvw o fulavssw/(h)areh e- a reggere lovgo~ . In Erma, invece, una relativa indefinita subordina il participio «ajkouvsante~» al congiuntivo «thrhvswsi», con oggetto un pronome neutro plurale a ricapitolare le prescrizioni dell‘angelo. Se, come abbiamo avuto già modo di osservare (2.1.3), elementi singoli di questa fraseologia si trovano dispersi anche in altri detti, la loro combinazione specifica, giocata su un‘antitesi diversa da quella più tradizionale di ajkouvw/ajkroavomai e poievw (cfr. Gv 12, 47 e Mt 7, 24; Lc 6, 47 e 8, 21; Rm 2, 13; Gc 1, 22-25), è attestata solo nel nostro. Si può quindi, con buona probabilità, supporre che queste strette corrispondenze risalgano a materiale tradizionale comune e che tale materiale, sulla base delle due occorrenze che attribuiscono la beatitudine esplicitamente a Gesù, sia da identificare con una sua parola. 62

Il macarismo finale potrebbe indicare che Gc 1, 22-25 abbia parafrasato e fuso due detti di Gesù, Mt 7, 21-27 // Lc 6, 47-49, e Lc 11, 28 appunto. Cfr. le osservazioni di Bauckham, 2004, pp. 78-84 e 87, e Kloppenborg, 2004, pp. 122-127. 63 threvw e fulavssw sono di fatto sinonimi (cfr. Mt 19, 17.20 e Gv 17, 11-12), con prevalenza assoluta del primo nella letteratura giovannea, in generale, e nell‘Ap, in particolare. Il copto (h)areh e-può tradurre entrambi in costruzione con l‘accusativo, cfr. Ap 1, 3 bo e 3, 10 sa bo; Lc 11, 28 sa bo; Mt 19, 17.20 sa bo; Gv 17, 12 sa bo; Rm 2, 26 sa bo mf. Erma alterna l‘uso (cfr. Vis. 5, 1, 7). 64 In Ap 1, 3, a 046. 1854 pc leggono ton logon per tou~ logou~, ma l‘unanimità dei testimoni a 22, 6-7.18-19 dimostra che si tratta probabilmente di una armonizzazione, consapevole o inconsapevole, con il parallelo lucano.

113

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

Giovanni espande il macarismo a «colui che legge», riflettendo il contesto liturgico cui il rotolo è destinato, e identifica concretamente la «parola di Dio», che pure sembra conoscere in qualche connessione ravvicinata con il detto (cfr. Ap 1, 2), con le «parole della profezia» ed i suoi contenuti scritti 65 (cfr. Ap 22, 6-7.10.18-20) . Lettore ed ascoltatori vengono così coinvolti nella beatitudine, nella misura in cui inscrivere la propria esistenza nel mondo 66 testuale di Giovanni significa seguire e preservare la rivelazione divina . 67

2.2.2 Il compiersi del tempo e il regno (Ap 1, 3 e 22, 10) Ap 1, 3: «oJ ga;r kairo;~ ejgguv~» (cfr. anche 22, 10)

Lc 21, 8: «oJ kairo;~ h[ggiken»

Altri paralleli:  Mt 21, 34: «o{te de; h[ggisen oJ kairo;~ tw'n karpw'n»  Rm 13, 11-12: «kai; tou`to eijdovte~ to;n kairovn, o{ti w{ra h[dh uJma`~ ejx u{pnou ejgerqh`nai, nu`n ga;r ejgguvteron hJmw`n hJ swthriva h] o{te ejpisteuvsamen. hJ nu;x proevkoyen, hJ de; hJmevra h[ggiken»  1 Cor 7, 29: «tou`to dev fhmi, ajdelfoiv, oJ kairo;~ sunestalmevno~ ejstivn»  Fil 4, 5: «oJ kuvrio~ ejgguv~»  Mc 13, 29 (= Mt 24, 33): «ejgguv~ ejstin ejpi; quvrai~»  Lc 21, 30: «ejgguv~ ejstin hJ basileiva tou' qeou'»  Barn. 21, 3: «ejggu;~ hJ hJmevra, ejn h/| sunapolei`tai pavnta tw`æ ponhrw`æ: ejggu;~ oJ kuvrio~ kai; oJ misqo;~ aujtou` »  1 Clem. 21, 3: «ijdwmen, pw`~ ejgguv~ ejstin»  Gc 5, 8: «makroqumhvsate kai; uJmei`~, sthrivxate ta;~ kardiva~ uJmw`n, o{ti hJ parousiva tou` kurivou h[ggiken»  1 Pt 4, 7: «pavntwn de; to; tevlo~ h[ggiken»

L‘attesa di una fine dei tempi ormai prossima appare largamente diffusa 68 e modulata nei testi proto-cristiani . Le formulazioni che le danno voce sono di fatto delle più varie, specialmente quando si tratta di indicare di chi o di 65 66 67 68

Similmente il testo di Erma riportato (cfr. Vis. 5, 1, 5-7). Cfr. Schweiker, 2005, pp. 116-117. Vos, 1965, pp. 178-181. Preisker, 1933, pp. 330-331.

114

Capitolo secondo

cosa si aspettasse la prossima manifestazione. Risalta quindi il parallelismo strutturale e linguistico tra Ap 1, 3 e Lc 21, 8: lo stesso soggetto, «oJ kairov~», è seguito dall‘avverbio «ejgguv~», con il predicato sottinteso (ma cfr. Ap 22, 10), o dal perfetto di ejggivzw, con l‘analogo significato di «essersi fatto vici69 no, essere vicino» . Queste precise corrispondenze accomunano i nostri due testi anche contro passaggi delle scritture ebraiche, quali Ez 7, 4 e 12 LXX e Dn 7, 22, di cui riecheggiano solo più vagamente la fraseologia, di fatto più influente su altre formulazioni (cfr., ad esempio, Rm 13, 11-12 e Barn. 21, 3, 70 da un lato, e Mc 1, 15 e Mt 12, 29 // Lc 11, 20, dall‘altro) . Da Mt 21, 34, poi, li separa entrambi l‘uso assoluto e non metaforico di kairov~. In Lc, l‘espressione è messa in bocca ai falsi profeti che in futuro parleranno a nome di Gesù, presentandosi come suoi inviati, e pertanto come lui, e riproponendo il nucleo del suo annuncio sull‘imminenza del regno (cfr. Lc 21, 8 con Mc 1, 14-15 // Mt 4, 17 e Mt 10, 7 // Lc 10, 9; Lc 10, 11 e 21, 30; 71 Giustino, Dial. 51, 2) . Ap stessa sembra conservare alcune tracce di tale predicazione, e ciò porterebbe a confermare la possibilità di una derivazione di Ap 1, 3 e 22, 10 dalla tradizione gesuana: in 11, 15.17-18, le voci celesti celebrano l‘avvento incipiente del «regno sul mondo» di Dio e del Suo Unto 72 (cfr. anche 12, 10) e del «kairov~» di stabilire la giustizia ; in 14, 6-7, il «vangelo eterno» proclamato dall‘angelo si qualifica come invito a temere Dio e darGli gloria, nell‘incombenza dell‘ora del Suo giudizio, in una parola, come invito alla metavnoia (cfr. Ap 16, 9.11) prima della parusia, esortazione indirizzata a più riprese alle sette comunità (cfr. Ap 2, 5.16.22-23; 3, 3.19-

69

L‘aggettivo ebraico qrwb (qryb nelle versioni aramaiche) può essere reso in greco sia con «ejgguv~» (cfr. Gn 45, 10; Es 13, 17; Is 13, 6; Ez 30, 3) che con «h[ggiken» (cfr. Ez 7, 7 [4]). Cfr. le osservazioni di Vos, 1965, p. 180 n. 335. 70 Aune, 1997, p. 21, rileva la sinonimia di Ap 1, 3 e Lc 21, 8, ma ne propone una dipendenza comune da Dn 7, 22, dove l‘aramaico zmn‟ mt‟̣ è tradotto con «oJ kairo;~ e[fqasen» da Teodozione, e «oJ kairo;~ ejdovqh» dai Settanta. Va fatto notare però che, delle otto occorrenze di mt‟̣ nel TM, solo due delle cinque tradotte alquanto liberamente dalla LXX (Dn 4, 8.19) sono rese con ejggivzw, mentre Teodozione recupera sempre il più fedele fqavnw (cfr. Casey, 1998, p. 27). Nella stessa direzione, la portata dell‘evidenza dei Targumim sulla corrispondenza ng„ – mt‟̣ – ejggivzw era stata già circoscritta e limitata da Black, 1954, pp. 260-262. L‘equivalenza tra mt‟̣ ed ejggivzw, e, di riflesso, tra ejggivzw e fqavnw non mi sembra quindi così facile, o, perlomeno, non così immediata da stabilire. Cfr., da ultimo, Dunn, 2003, pp. 407408, con altra letteratura. 71 Si vedano Meier, 1994, pp.431-432.434; Theissen – Merz, 1999, pp. 329 e 464; Norelli, 2008, p. 39. Sul linguaggio del regno nella letteratura proto-cristiana e la sua ascendenza gesuana, cfr. anche Dunn, 2003, pp. 383-387, che, come esempi, elenca: il regno «si è avvicinato», «verrà», «è sopraggiunto», va «cercato», ci si «entra», è «afferrato», «subisce violenza» (p. 387). 72 Come i parallelismi incrociati tra Ap 11, 15.17-18, e 19, 6-7 aiutano a chiarire, ejgevneto corrisponde qui sostanzialmente a h\lqen (cfr. anche Ap 1, 9-10; 4, 2; 17, 3).

115

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse 73

20) e già ben radicata nella tradizione delle parole di Gesù . Su queste stesse linee (compiersi del kairov~ e prossimità [h[ggiken] della venuta del regno; esigenza escatologica della conversione [metanoei'te] e della fede nell‘eujaggevlion) corre il sunto marciano del «vangelo di Dio» proclamato da Gesù (Mc 1, 14-15; cfr. Mt 4, 17, che però elimina ogni riferimento al 74 vangelo) . Questa introduzione sintetica rappresenta, con tutta probabilità, 75 una composizione redazionale di Mc , e segue uno schema di predicazione missionaria arcaico (cfr. Mc 6, 12; 1 Ts 1, 9-10; At 14, 15-17 e 17, 24-31; Eb 76 6, 1-2 e 11, 6) ; al tempo stesso, sembra raccogliere e coordinare frammenti e motivi centrali dell‘insegnamento del Nazareno, variamente sparsi nella 77 tradizione dei detti . Con la sua vicinanza al sommario iniziale marciano, Ap 14, 6-7 dimostra chiaramente che Giovanni conosce lo schema in qualche sua forma e lo recupera e trasforma. Queste conclusioni vengono quindi a integrare le considerazioni su base formale già svolte, e confortano l‘ipotesi che Ap 1, 3 – come, del resto, 22, 10 – provenga dallo stesso bacino di tradizioni gesuane. Il coinvolgimento di lettore e ascoltatori nella beatitudine acquista così significato e rilevanza escatologica decisivi: lettura, ascolto e preservazione del rotolo si inscrivono nel quadro del prossimo compimento dei tempi preannunciato da Gesù e nell‘imminente avverarsi delle parole di profezia rivelate a Giovanni e da lui trascritte e inviate (cfr. Ap 22, 10). 2.2.3 La parusia del Figlio dell‘Uomo e il lutto delle tribù della terra (Ap 1, 78 7) Ap 1, 7: «ijdou; 79 e[rcetai meta. tw'n nefelw'n,

73 74 75 76 77

439.

78

Mt 24, 30: «kai; tovte

Did. 16, 8: «tovte

Apoc. Piet. 6: «Tutti loro

Dunn, 2003, pp. 498-500. Cfr. anche le osservazioni di Berger, 1995, pp. 613 e 625. Discussione e ulteriore letteratura in Meier, 1994, pp. 430-431. Cfr. Berger, 1995, pp. 387-388.389-390 e 613-614. Cfr. Theissen – Merz, 1999, pp. 319 e 464, e Dunn, 2003, pp. 384-385; 407-408; 437-

Vos, 1965, pp. 60-71; Schüssler Fiorenza, 1972, pp. 185-192; Wenham, 1984, pp. 314-315; Beale, 1985, pp. 138-140; Karrer, 1986, pp. 121-123; Yarbro Collins, 1992, pp. 543547.

116

Capitolo secondo

kai; o[yetai aujto;n

o[yetai

pa'~ ojfqalmo;~ kai; oi{tine~ aujto;n ejxekevnthsan,

oJ kovsmo~

to;n kuvrion ejrcovmenon ejpavnw tw'n nefelw'n tou' oujranou'...» kai; kovyontai ejpÆ aujto;n pa'sai aiJ fulai; th'~ gh'~»

vedranno come verrò su una nuvola splendente che è eterna […] Allora i popoli,

avendo visto questo,

kovyontai

piangeranno

pa'sai aiJ fulai; th'~ gh'~ kai; o[yontai to;n uiJo;n tou' ajnqrwvpou ejrcovmenon ejpi; tw'n nefelw'n tou' oujranou'»

ciascuna delle loro 80 nazioni»

Altri paralleli:  Giustino, Dial. 14, 8: «o{te ejn dovxhæ kai; ejpavnw tw`n nefelw`n parevstai, kai; o[yetai oJ lao;~ uJmw`n kai; gnwriei` eij~ o}n ejxekevnthsan»  Ps.-Epifanio, Test. 100, 1: «Zacariva~ levgei: o[yontai to;n uiJo;n tou` ajnqrwvpou ejrcovmenon ejpi; tw`n nefelw`n:kai; kovyontai fulai; kata; fulav~»

Con il passo di Giustino e lo Ps.-Epifanio, sono questi gli unici quattro testi proto-cristiani a conflare le citazioni di Dn 7, 13-14 e Zc 12, 10 in un‘unica profezia escatologica sulla parusia, che Mt ed Apoc. Piet. riportano 81 esplicitamente in bocca a Gesù . Ap 1, 7 si presenta come proclamazione

79

C 2053 pc sa leggono epi, come in Ap 14, 14 e Mt 24, 30. Sia ejpiv che metav possono tradurre „m, cfr. Dn 7, 13 LXX e Q. 80 Traduco dalla versione inglese letterale di Buchholz, 1988. 81 Anche Did. la conosce probabilmente come parole di Gesù, cfr. Draper, 1985, pp. 280-284, e 1996, pp. 88-91; Pesce, 2005, pp. 96-97 e 601.

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

117

profetica di Giovanni stesso: è un‘ulteriore rifrazione della tradizione gesuana? L‘ossatura del detto può essere ricondotta a una scansione tripartita: la venuta con le nuvole del Figlio dell‘Uomo attira lo sguardo dei popoli e li spinge a battersi per il cordoglio o a piangere. A restringere, per un attimo, il confronto ad Ap e Mt emergono coincidenze profonde e precise: il sintagma «pa'sai aiJ fulai; th'~ gh'~», e il riorientamento del «vedere», non più «guardare a», direttamente sulla venuta, da un lato, il genitivo plurale «tw'n nefelw'n», dall‘altro, isolano i due detti, rispettivamente, dal testo masoretico, le traduzioni greche e la citazione di Zc 12, 10 in Gv 19, 37, e dai due paral82 leli sinottici a Mt (Mc 13, 26 e Lc 21, 27) , ricollocandoli nell‘alveo di tradi83 zioni che affiorano anche in Did. e Apoc. Piet. . Le coincidenze si fanno tanto meno casuali quanto più i due passi mostrano di seguire altrimenti l‘originale ebraico ed aramaico e/o il greco dei 84 Settanta e dei tre . L‘inversione della sequenza «vedere» – «battersi» e la estensione rispettiva delle citazioni – Ap riproduce più integralmente Zc, Mt il 85 sottotesto danielico – rendono improbabile un legame diretto . In Ap 1, 7 avremmo quindi una traccia e un frammento delle tradizioni parallele 86 all‘―apocalisse sinottica‖ da cui origina il materiale specifico di Mt 24 . La chiusa mutila della ―piccola apocalisse‖ di Did., nutrita di corrispondenze 87 con Mt 24, sembra confermarlo . Una possibilità alternativa è che Ap 1, 7 rispecchi un filone esegetico 88 proto-cristiano eventualmente confluito in una raccolta di testimonia .

82

546.

83

Vos, 1965, pp. 62-68; Wenham, 1984, pp. 314-315; Yarbro Collins, 1992, pp. 543 e

In Apoc. Piet. (135 d.C. circa), la sequenza successiva vedere (x2) – piangere, il singolare «nuvola» per il plurale usato da Mt (cfr. Lc 21, 27), la presenza della cerchia degli «angeli di Dio» (cfr. Mt 25, 31; Lc 9, 26 e 12, 8-9, e Ap 3, 5), la citazione più fedele di Zc 12, 1012 sono tutti elementi che farebbero concludere per una trasmissione indipendente dalla formulazione di Mt 24, 30. L‘espressione «il trono della mia (sua) gloria» in riferimento al Figlio dell‘Uomo, tra i Sinottici, caratteristica del solo Mt (cfr. 19, 28 e 25, 31), si trova già in 1 En. 61, 8; 62, 5; 69, 27.29. Cfr. anche il commento di Buchholz, 1988, pp. 267-276. 84 Per Ap 1, 7, cfr. Dn 7, 13 TM; Zc 12, 10 TM; Zc 12, 10 TM e LXX; per Mt 24, 30, cfr. Dn 7, 13 TM e LXX. Vedi anche Charles, 1920, pp. 17-18; Schüssler Fiorenza, 1972, pp. 186-188; Aune, 1997, p. 54. 85 Cfr. Holtz, 1962, p. 135; Vos, 1965, pp. 62 e 65-71; Schüssler Fiorenza, 1972, pp. 188-192; Karrer, 1986, p. 122 n.58; Bauckham, 1993a, pp. 319-320; Yarbro Collins, 1992, p. 546; Prigent, 2000a, p. 91. 86 Vedi Norelli, 1995b, pp. 172-176; Visonà, 2000, pp. 239-245; Pesce, 2005, pp. 600601. Cfr. Charles, 1920, pp. 18-19, che però insiste sulla mediazione della Vorlage matteana. 87 Cfr. le osservazioni di Aune, 1997, pp. 52 e 55. 88 Cfr. Bauckham, 1993a, 318-321, e Prigent, 2000a, pp. 91-92. Questo, di per sé, non esclude che il detto combinato possa essere arrivato a Giovanni come tradizione gesuana.

118

Capitolo secondo

Decisive per questa ipotesi sono le attestazioni di Giustino e dello Ps.Epifanio. Ora, Giustino sembra avere presente piuttosto il terzo stico di Dn 7, 13 LXX (cfr. Dial. 31, 13) e Dn 7, 14, inseriti nello schema delle due venute di Cristo (cfr. anche Dial. 32, 10-14 e 64, 51-53), e su questa linea, accentua il tema del riconoscimento finale del solo Israele, appoggiandosi appunto a Zc 89 12, 10-12, che attribuisce erroneamente ad Osea . I contatti letterali si rivelano abbastanza blandi e superficiali, comunque mediati dal greco di versione dei testi citati. Lo Ps.-Epifanio (IV sec.d.C), dal canto suo, ha la tendenza ad allineare e completare le profezie vetero-testamentarie con i testi evangelici, matteani, in particolare (cfr. 45.2; 96.3; 99; 101). Il testimonium 100.1 non sfugge a questa tendenza: la citazione di Zaccaria si limita al secondo verso, fusa ed integrata con Mt 24, 30. L‘evidenza di una tradizione esegetica, dunque, latita. Ap 14, 13; 16, 15; 22, 12-13 mostrano come il nostro frammento vada ora letto nel movimento complessivo di Ap 1, 7-8, a formare una breve unità letteraria di discorso ―profetico‖, in cui al primo oracolo risponde un secon90 do, garantendo, ampliando, re-interpretando . 2.2.4 L‘invito all‘attenzione Ap 2, 7: «oJ e[cwn ou\~ ajkousavtw» (cfr. anche 2, 11.17.29; 3, 6.13.22)

Vang. Tom.

Mt

Lc

Mc

8, 4: «Chi ha orecchio per udire, oda» (cfr. anche 21, 10; 24, 2; 63, 3; 65, 8; 96, 3)

11, 15: «oJ e[cwn w\ta

8, 8: «oJ e[cwn w\ta ajkouvein akouevtw» (cfr. anche 14, 35 e 12, 21 v.l.)

4, 9: «o}~ e[cei w\ta ajkouvein ajkouevtw»

ajkouevtw» (cfr. anche 13, 9 e 43)

13, 9: «ei[ ti~ e[cei ou\~ ajkousavtw»

89 90

Karrer, 1986, p. 122 n.58. Cfr. anche Barn. 7, 8-10. Cfr. Aune, 1996, pp. 521-524 e 594-595.

4, 23: «ei[ ti~ e[cei w\ta ajkouvein ajkouevtw» (cfr. anche 7, 16 v.l.)

119

Le parole di Gesù nell‟Apocalisse

Altri paralleli:  P.Oxy. 1081 (= Soph. Ges. Cristo 97, 16 – 99, 12), 6-8: «oJ e[cwn w\ta tw'n ajperavntwn ajkouvein ajkouevtw»; 18-19: «oJ e[cwn w\ta tw'n ajperavntwn ajkouvein ajkouevtw»  Vang. Maria 7, 8-9: «Chi ha orecchio per udire, oda»; 8, 10-11: «Chi ha orecchio per udire, oda»  Ps.-Simon Mago, Grande Riv. in Ps.-Ippolito, Haer. 6, 16, 1: «ajrkei`, fhsiv, to; lecqe;n uJpo; tw`n ejqnw`n pro;~ ejpivgnwsin tw`n o{lwn toi`~ e[cousin ajko(a;~)