Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1999-2013) vol. 5-6: Tra storia e archeologia-Tra arte e archeologia, epigrafia... 9788881474400, 9788881474417, 9788881474424

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Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1999-2013) vol. 5-6: Tra storia e archeologia-Tra arte e archeologia, epigrafia...
 9788881474400, 9788881474417, 9788881474424

Table of contents :
Disclaimer
ITALIA ANTE ROMANUM IMPERIUM Volume V
SOMMARIO
TABULA GRATULATORIA
BIBLIOGRAFIA DI GIOVANNI COLONNA (1999-2016)
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI
I. TRA STORIA E ARCHEOLOGIA
PELAGOSA, DIOMEDE E LE ROTTE DELL’ADRIATICO
I PEUCETI DI CALLIMACO E L’ASSEDIO DI PORSENNA
L’OFFERTA DI ARMI A MINERVA E UN PROBABILE CIMELIO DELLA SPEDIZIONE DI ARISTODEMO NEL LAZIO
VOLSINII E LA VAL DI LAGO
FELSINA PRINCEPS ETRURIAE
IL PICENO E I PICENI
DUE CITTÀ E UN TIRANNO
I TYRRHENÓI E LA BATTAGLIA DEL MARE SARDONIO
TYRRHENUS LIPARI FRATER
I CARATTERI ORIGINALI DELLA CIVILTÀ ETRUSCA
PORSENNA, LA LEGA ETRUSCA E IL LAZIO
GLI UMBRI DEL TEVERE
STRABONE, LA SARDEGNA E LA ‘AUTOCTONIA’ DEGLI ETRUSCHI
L’ADRIATICO TRA VIII E INIZIO V SECOLO A.C. CON PARTICOLARE RIGUARDO AL RUOLO DI ADRIA
I RAPPORTI TRA ORVIETO E VULCI DAL VILLANOVIANO AI FRATELLI VIBENNA
IL MEDIO ADRIATICO: TRADIZIONI STORIOGRAFICHE E INFORMAZIONE STORICA
DALL’OCEANO ALL’ADRIATICO: MITO E STORIA PREROMANA DEI LIGURI
NUOVI DATI PER MARZABOTTO
TRA ETRUSCHI E CELTI. LE DUE FACCE DELLA LIGURIA PREROMANA
QUESTIONI TIBERINE: FOGLIA E L’ETNICO DEI FALISCI IN DIALETTO SABINO
LA CITTÀ DI REMO
GLI ETRUSCHI NEL TIRRENO MERIDIONALE: TRA MITISTORIA, STORIA E ARCHEOLOGIA
VERUCCHIO
A PROPOSITO DELLA PRESENZA ETRUSCA NELLA GALLIA MERIDIONALE
IL COMMERCIO ETRUSCO ARCAICO VENT’ANNI DOPO (E LA SUA ESTENSIONE FINO A TARTESSO)
VEIO
NOVITÀ SU THEFARIE VELIANAS
DISCHI-CORAZZA E DISCHI DI ORNAMENTO FEMMINILE: DUE DISTINTE CLASSI DI BRONZI CENTRO-ITALICI
MIGRANTI ITALICI E ORNATO FEMMINILE (A PROPOSITO DI PERUGIA E DEI SARSINATI QUI PERUSIAE CONSEDERANT)
ETRUSCHI E UMBRI IN VAL PADANA
IL MITO DI ENEA TRA VEIO E ROMA
IL DIO TEC SANS, IL MONTE TEZIO E PERUGIA
I LEONI DI SORRENTO (E IL SUPPOSTO MNEMA DEL RE LIPARO)
UN MONUMENTO ROMANO DELL’INIZIO DELLA REPUBBLICA
A PROPOSITO DEL PRIMO TRATTATO ROMANO-CARTAGINESE (E DELLA DONAZIONE PYRGENSE AD ASTARTE)
Italia Ante Romanum Imperium Volume VI
SOMMARIO
II. TRA ARTE E ARCHEOLOGIA
L’ARCHITETTURA SACRA E LA RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI (CON PARTICOLARE RIGUARDO AGLI ALTARI, AI RECINTI E AI SACELLI)
ARTE DEL PICENO
POPULONIA E L’ARCHITETTURA FUNERARIA ETRUSCA
LA CULTURA ORIENTALIZZANTE IN ETRURIA
IL SANTUARIO DI PORTONACCIO A VEIO
DIVINAZIONE E CULTO DI RATH/APOLLO A CAERE (A PROPOSITO DEL SANTUARIO IN LOC. S. ANTONIO)
CELTI E CELTOMACHIE NELL’ARTE ETRUSCA
IL SANTUARIO DI PYRGI DALLE ORIGINI MITISTORICHE AGLI ALTORILIEVI FRONTONALI DEI SETTE E DI LEUCOTEA
OSSERVAZIONI SULLA TOMBA TARQUINIESE DELLA NAVE
LA ‘DISCIPLINA’ ETRUSCA E LA DOTTRINA DELLA CITTÀ FONDATA
TRA ARCHITETTURA E URBANISTICA( A PROPOSITO DEL TEMPIO DI MATER MATUTA A SATRICUM)
UN PITTORE VEIENTE DEL CICLO DEI ROSONI: VELTHUR ANCINIES
L’OFFICINA VEIENTE: VULCA E GLI ALTRI MAESTRI DI STATUARIA ARCAICA IN TERRACOTTA
L’APOLLO DI PYRGI, SUR/SURI (IL “NERO”) E L’APOLLO SOURIOS
THE ‘SEVEN AGAINST THEBES’ RELIEF (TYDEUS AND CAPANEUS AT THE SIEGE OF THEBES)
III. EPIGRAFIA
L’ISCRIZIONE DEL BICONICO DI UPPSALA: UN DOCUMENTO DEL PALEOUMBRO
EPIGRAFI ETRUSCHE E LATINE A CONFRONTO
DOLIO CON ISCRIZIONI LATINE ARCAICHE DA SATRICUM
I GRECI DI CAERE
L’ISCRIZIONE DI OSTERIA DELL’OSA
CERVETERI. LA TOMBA DELLE ISCRIZIONI GRAFFITE
IL CIPPO DI TRAGLIATELLA (E QUESTIONI CONNESSE)
UN ETRUSCO A PERACHORA. A PROPOSITO DELLA GEMMA ISCRITTA GIÀ EVANS COL SUICIDIO DI AIACE
PRESENTAZIONE DI M. RUSSO, «SORRENTO. UNA NUOVA ISCRIZIONE PALEOITALICA IN ALFABETO ‘NUCERINO’ E ALTRE ISCRIZIONI ARCAICHE DALLA COLLEZIONE FLUSS»
IV. STORIA DELLA RICERCA
ANCORA SULLA MOSTRA DEI CAMPANARI A LONDRA
MASSIMO PALLOTTINO E IL SANTUARIO DI VEIO
RAVENNA O PERUGIA? A PROPOSITO DELLA PROVENIENZA DEL MARTE CORAZZI A LEIDA
PINELLI E LA PITTURA DI STORIA
DE LA FOUILLE AU PASTICHE: LES CASQUES EN BRONZE À COURONNES EN OR ÉTRUSQUES
PALLOTTINO E ROMA
PALLOTTINO, PYRGI E L’UNIVERSITÀ DI ROMA
BIOGRAFIA DI MASSIMO PALLOTTINO
INDICE LESSICALE
INDICE DEI NOMI

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ITALIA ANTE ROMANUM IMPERIUM

Elena e Giovanni Colonna (foto di G. Sinisgalli, 2010).

G I OVA N N I C O L O N NA

ITAL I A AN T E RO MA N U M IM PER I U M Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1999-2013) vo lum e quinto

P I S A · RO M A I ST I TU T I EDI TO R I AL I E P O L I GRAFICI INTE RNAZIONALI MMX V I

Comitato di redazione: Daria Colonna Sinisgalli, Elena di Paolo Colonna, Rita Gianfelice, Alice Landi, Laura M. Michetti * A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2016 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net isbn 978-88-8147-440-0 (brossura) isbn 978-88-8147-441-7 (rilegato) e-isbn 978-88-8147-442-4

SOMMARI O Tabula gratulatoria Bibliografia di Giovanni Colonna (1999-2016) Elenco delle abbreviazioni

ix xi xix

i. tra storia e archeologia Pelagosa, Diomede e le rotte dell’Adriatico I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna L’offerta di armi a Minerva e un probabile cimelio della spedizione di Aristodemo nel Lazio Volsinii e la Val di Lago Felsina princeps Etruriae Il Piceno e i Piceni Due città e un tiranno I Tyrrhenói e la battaglia del Mare Sardonio Tyrrhenus Lipari frater I caratteri originali della civiltà etrusca Porsenna, la lega etrusca e il Lazio Gli Umbri del Tevere Strabone, la Sardegna e la ‘autoctonia’ degli Etruschi L’Adriatico tra viii e inizio v secolo a.C. con particolare riguardo al ruolo di Adria I rapporti tra Orvieto e Vulci dal Villanoviano ai Fratelli Vibenna Il medio Adriatico: tradizioni storiografiche e informazione storica Dall’Oceano all’Adriatico: mito e storia preromana dei Liguri Nuovi dati per Marzabotto Tra Etruschi e Celti. Le due facce della Liguria preromana Questioni tiberine: Foglia e l’etnico dei Falisci in dialetto sabino La città di Remo Gli Etruschi nel Tirreno meridionale: tra mitistoria, storia e archeologia Verucchio A proposito della presenza etrusca nella Gallia meridionale Il commercio etrusco arcaico vent’anni dopo (e la sua estensione fino a Tartesso) Veio Novità su Thefarie Velianas Dischi-corazza e dischi di ornamento femminile: due distinte classi di bronzi centro-italici Migranti italici e ornato femminile (a proposito di Perugia e dei Sarsinati qui Perusiae consederant) Etruschi e Umbri in Val Padana

3 15 23 33 45 51 65 75 87 95 111 119 137 155 183 199 207 217 221 229 245 271 285 291 317 335 357 369 393 423

viii

sommario

Il mito di Enea tra Veio e Roma Il dio Tec San®, il monte Tezio e Perugia I leoni di Sorrento (e il supposto mnema del re Liparo) Un monumento romano dell’inizio della Repubblica A proposito del primo trattato romano-cartaginese (e della donazione pyrgense ad Astarte)

447 481 509 545 579

TABULA GRATULATO RIA Cesare Agosta Gottardello Luciana Aigner Foresti Rina Aleotti Paolo Arnoldi Giovanna Bagnasco Gianni Vincenzo Bellelli Martin Bentz, Archäologisches Institut der Universität Bonn Francesca Boitani Dominique Briquel Stefano Bruni Filippo Camerota Giovannangelo Camporeale Simona Carosi Marco Cavalieri, Université Catholique de Louvain, Collège Érasme Luca Cerchiai, Università di Salerno, Dipartimento Patrimonio Culturale Daria Colonna Marina Colonna Morsillo Nancy De Grummond, Department of Classics, The Florida State University Filippo Delpino Francesco di Gennaro, Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” ora Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio dell’Abreuzzo Anna Eugenia Feruglio Carlo G. Franciosi Francesco Franzoni Maria Donatella Gentili Guido Girolami Ingrid Krauskopf, Institut für Klassische Archäologie, Universität Heidelberg Beniamino Lazzarin Claude Livadie Natacha Lubtchansky, Département d’Histoire de l’Art, Université de Tours 3 Roberto Macellari Elisabetta Mangani Vincenzo Manniello Daniele Federico Maras Laura Maria Michetti Anna Maria Moretti Alessandro Naso Marjatta Nielsen Cristoph Reusser, Archäologisches Institut, Universität Basel Maria Antonietta Rizzo

x

tabula gratulatoria

Maurizio Sannibale Giuseppe Sassatelli, Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Università degli Studi di Bologna Elena Tassi Scandone Mario Torelli Cornelia Weber-Lehmann, Universität Bochum, Archäologisches Institut * Archäologisches Institut Universität, Göttingen Biblioteca Apostolica Vaticana Biblioteca Classense, Comune di Ravenna Biblioteca di Scienze dell’Antichità, Facoltà Lettere e Filosofia, Sapienza, Università di Roma Biblioteca Interdipartimentale, “Francesco Petrarca”, Pavia Biblioteca Umanistica, Università degli Studi di Perugia Dipartimento di Scienze della Comunicazione e Discipline Umanistiche, Università di Urbino Dipartimento di Storia Culture Civiltà, Università di Bologna Direzione dei Musei Vaticani Fondazione Famiglia Rausing, Istituto Svedese Gruppo Archeologico del Territorio, cerite Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico - isma - cnr - area ricerca rm1 Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici Istituto Svedese Studi Classici a Roma Scuola Normale Superiore di Pisa, Biblioteca Società Archeologica Valdelsa The British Museum, Department of Greek and Roman Antiquities

BIBLIOGRAF IA DI GIOVANNI COLON NA (1999-2016)* (gli scritti contrassegnati da * sono riprodotti in quest ’ opera) 1999 – *Pelagosa, Diomede e le rotte dell’Adriatico, «ArchCl», l, 1998 (1999), pp. 363-378. – *L’iscrizione del biconico di Uppsala: un documento del paleoumbro, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino (Firenze, 7 febbraio 1996), Pisa-Roma, 1999, pp. 19-29. – *Ancora sulla mostra dei Campanari a Londra, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (atti dell’incontro di studio, Tarquinia, 6-7 luglio 1996), a cura di A. Mandolesi e A. Naso, Firenze, 1999, pp. 37-62. – *Epigrafi etrusche e latine a confronto, in Atti dell’xi congresso internazionale di epigrafia greca e latina, Roma, 18-24 settembre 1997, i, Roma, 1999, pp. 435-450. – *L’offerta di armi a Minerva e un probabile cimelio della spedizione di Aristodemo nel Lazio, in Pallade di Velletri: il mito, la fortuna (atti della giornata internazionale di studi, Velletri, 13 dicembre 1997), a cura di A. Germano, Roma, 1999, pp. 95-103. – *Volsinii e la Val di Lago, «AnnMuseoFaina», vi, 1999 (atti del convegno Volsinii e il suo territorio, Orvieto, 1998), pp. 9-29. – *Felsina princeps Etruriae, «crai», 1999, pp. 285-292. – Curatela scientifica e contributi vari in *Piceni, popolo d’Europa, catalogo della mostra di Francoforte sul Meno, Roma, De Luca, 1999, pp. 3 sg., 10-12, 89-91, 104-109, 157 sg. – Le iscrizioni del ‘sacello’ del ponte di San Giovenale, «OpRom», xxiv, 1999, pp. 63-81, in collaborazione con Y. Backe Forsberg (dell’A. le pp. 63-78). – Curatela della ree 1999 («StEtr», lxiii, 1997 [1999]) e schede alle pp. 379 sg., 382 sg., 400 sg., 405 sg., 410-412, nn. 11, 13, 28, 33, 36. – Presentazione, in A Crustumerium, a cura di F. Di Gennaro, Roma, 1999. 2000 – *I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La Salaria in età antica (atti del convegno di studi, Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 2-4 ottobre 1997), a cura di E. Catani e G. Paci, Ascoli Piceno, 2000, pp. 147-153. – *Populonia e l’architettura funeraria etrusca, in L’architettura funeraria a Populonia tra ix e vi secolo a.C. (atti del convegno, Castello di Populonia, 30-31 ottobre 1997), a cura di A. Zifferero, Firenze, 2000, pp. 253-260. – *Due città e un tiranno, «AnnMuseoFaina», vii, 2000 (atti del convegno Chiusi dal Villanoviano all’età arcaica, Orvieto, 1999), pp. 277-285. – *I Tyrrhenói e la battaglia del mare Sardonio, in M¿¯Ë. La battaglia del mare Sardonio. Studi e ricerche, a cura di P. Bernardini, P. G. Spanu e R. Zucca, Cagliari-Oristano, 2000, pp. 47-56. – Presentazione, in A. Naso, I Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, Milano, 2000, p. 7 sg. – *La cultura orientalizzante in Etruria, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, cat. della mostra di Bologna, Venezia, 2000, pp. 55-66. * La bibliografia anteriore (1955-1998) è pubblicata in Colonna 2005, i. 1, pp. xvii-xxxi.

xii

italia ante romanum imperium

– *I caratteri originali della civiltà etrusca, in Gli Etruschi, cat. della mostra di Venezia, a cura di M. Torelli, Milano, 2000, pp. 25-41. – *Tyrrhenus Lipari frater, in Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, a cura di I. Berlingò, H. Blanck, F. Cordano, P. G. Guzzo, M. C. Lentini, Milano, 2000, pp. 265-269. – Italia preromana, in eua , ii suppl., Novara, 2000, pp. 67-77, in collaborazione con M. L. Michetti (dell’A. le pp. 67-69, 74-77). 2001 – L’iscrizione del cippo di Tortora, in Il mondo enotrio tra vi e v secolo a.C. (atti dei seminari napoletani, 1996-1998) («Quaderni di “Ostraka”», i, 1), a cura di M. Bugno, C. Masseria, Napoli, 2001, pp. 239-252. – *Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, in La Lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi (atti della giornata di studi, Chiusi, 9 ottobre 1999), Pisa-Roma, 2001, pp. 29-35. – *Gli Umbri del Tevere, «AnnMuseoFaina», viii, 2001 (atti del convegno internazionale, Orvieto e Terni 14-16 dicembre 2000), pp. 9-30. – *Veio: introduzione, Portonaccio, in Veio, Cerveteri, Vulci. Città d’Etruria a confronto, cat. della mostra di Roma, a cura di A. M. Moretti Sgubini, Roma, 2001, pp. 3 sg., 37-68. – *Divinazione e culto di Rath/Apollo a Caere (a proposito del santuario in loc. S. Antonio), «ArchCl», lii, 2001, pp. 153-173. – Curatela della ree 2001 («StEtr», lxiv, 1998 [2001]) e schede alle pp. 368-370, 413-422, 425-427, 430-436, 471 sg., nn. 32, 33-96, 97-98, 100-102, 132. 2002 – *Celti e celtomachie nell’arte etrusca, in La battaglia del Sentino (atti del convegno di Camerino-Sassoferrato, 10-13 giugno 1998), a cura di D. Poli, Roma, 2002, pp. 163-187. – *Strabone, la Sardegna e l’‘autoctonia’ degli Etruschi, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del Bronzo finale e l’arcaismo (atti del xxi convegno di studi etruschi ed italici, Sassari-Alghero-Oristano-Torralba, 13-17 ottobre 1998), Pisa-Roma, 2002, pp. 95-110. – *Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea, «Scienze dell’Antichità», 10, 2000 (2002), pp. 251-336. – Introduzione e Le vicende e l’interpretazione dello scavo, in Il santuario di Portonaccio a Veio. i. Gli scavi di Massimo Pallottino nella zona dell’altare (1939-1940), a cura di G. Colonna, «MonAntLinc», ser. misc. vi. 3 (lviii), Roma, 2002, pp. 129-159. – Satricum en de archeologie van het oude Latium, in Satricum 9, 2002, pp. 40-42. – Ricordo di Mario Moretti, «RendPontAcc», lxxiv, 2001-2002, pp. 335-339. – Curatela della ree 2002 («StEtr», lxv-lxviii, 2002) e schede alle pp. 323, 351-362, 371 sg., 378-410, 427-436, 446, 452-455, 461, 466 sg., 469-472, nn. 17-18, 71-73, 78, 82-100, 115-117, 128, 133-134, 139, 143, 145-150. 2003 – *L’Adriatico tra viii e inizio v secolo a.C. con particolare riguardo al ruolo di Adria, in L’archeologia dell’Adriatico dalla Preistoria al Medioevo (atti del convegno internazionale, Ravenna, 7-9 giugno 2001), a cura di F. Lenzi, Firenze, 2003, pp. 146-175. – *Osservazioni sulla tomba tarquiniese della Nave, in Pittura etrusca. Problemi e prospettive (atti del convegno, Sarteano e Chiusi, 26-27 ottobre 2001), a cura di A. Minetti, Siena, 2003, pp. 63-77. – *I rapporti tra Orvieto e Vulci dal Villanoviano ai Fratelli Vibenna, «AnnMuseoFaina», x, 2003 (atti del convegno internazionale Tra Orvieto e Vulci, Orvieto, 2002), pp. 511-533.

bibliografia di giovanni colonna (1999-2016)

xiii

– *Il medio Adriatico: tradizioni storiografiche e informazione storica, «StEtr», lxix, 2003, pp. 3-12. – *Massimo Pallottino e il santuario di Veio, «RendLinc», s. ix, xiv, 2003, pp. 703-710. – *Commento epigrafico-linguistico, in G. C., M. Gnade, Dolio con iscrizioni latine arcaiche da Satricum, «ArchCl», liv, 2003, pp. 13-19). – *Ravenna o Perugia? A proposito della provenienza del Marte Corazzi a Leida, ibidem, pp. 443-449. – Le vicende storiche di Orvieto etrusca, in Storia di Orvieto, i , Antichità, a cura di G. M. Della Fina, Perugia, 2003, pp. 125-146. – Curatela della ree 2003 («StEtr», lxix, 2003) e schede alle pp. 295-305, 307 sg., 314 sg., 319-322, 334-338, 342-347, 361, 375 sg., 379-386, nn. 13-17, 24, 29, 55, 62, 76, 78, 80-82. 2004 – I santuari di Veio. Ricerche e scavi su Piano di Comunità, in Bridging the Tiber. Approaches to regional archaeology in the Middle Tiber Valley («Archaeological Monographs of the bsr», 13), a cura di H. Patterson, London, 2004 (atti del convegno, British School at Rome, 27-28 marzo 1998), pp. 207-214, 220 sg. – *La “disciplina” etrusca e la dottrina della città fondata, «StRom» lii, 3-4, 2004, pp. 303311. – *I Greci di Caere, «AnnMuseoFaina», xi, 2004 (atti del convegno internazionale I Greci in Etruria, Orvieto, 2003), pp. 69-94. – *Dall’Oceano all’Adriatico: mito e storia preromana dei Liguri, in I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo, cat. della mostra di Genova, a cura di R. C. De Marinis e G. Spadea, Milano, 2004, pp. 9-15. – Genova. Scrittura e onomastica, ibidem, pp. 299-307. – Einleitung, in Schätze aus dem Picenum. Die Otto-Schott-Sammlung der Friedrich-Schiller Universität Jena, cat. della mostra di Jena, a cura di P. Ettel e A. Naso, Weimar-Jena, 2004, pp. 9-11. – Premessa, in R. Bonaudo, La culla di Hermes. Iconografia e immaginario delle hydriai ceretane, Roma, 2004, pp. 7-9. – Presentazione, in A. Minetti, L’orientalizzante a Chiusi e nel suo territorio, Roma, 2004, pp. 7-10. 2005 – Italia ante Romanum Imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (19581998), i-iv, Pisa-Roma, 2005. – Le mostre archeologiche tra presente e passato (relazione al convegno sulle mostre archeologiche, Venezia, 14-15 ottobre 1997, di cui non sono apparsi gli atti), ibid., iv, pp. 25392546. – Ricordo di un’Amica [A. Ciasca], ibidem, p. 2509 sg. – Interventi in *Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto. Nuove prospettive di ricerca (atti del convegno di studi, Bologna, 3-4 giugno 2003), a cura di G. Sassatelli e E. Govi, Bologna, 2005, pp. 317-320, 328 sg. – Interventi in Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del Ferro italiana (atti dell’incontro di studio, Roma, 30-31 ottobre 2003), a cura di G. Bartoloni e F. Delpino, Roma, 2005, pp. *479-482, 643 sg. – *Questioni tiberine: Foglia e l’etnico dei Falisci in dialetto sabino, «AnnMuseoFaina», xii, 2005 (atti del convegno internazionale Orvieto, l’Etruria meridionale interna e l’agro falisco, Orvieto, 2004), pp. 9-28.

xiv

italia ante romanum imperium

– *Tra Etruschi e Celti. Le due facce della Liguria preromana, «RivStLig», lxx, 2004 (2005), pp. 5-16. – *Tra architettura e urbanistica. A proposito del tempio di Mater Matuta a Satricum, in Omni pede stare. Saggi architettonici e circumvesuviani in memoriam Jos de Waele, a cura di S. T. A. M. Mols, E. M. Moormann, Napoli, 2005, pp. 111-117. – *La città di Remo, «ArchCl», lvi, 2005, pp. 1-31. – Curatela della ree 2005 («StEtr», lxx, 2004 [2005]) e schede alle pp. 286 sg., 295 sg., 298-307, 311-313, 326, 331-334, 336 sg., nn. 13, 21-30, 33, 46, 51-53, 55-57. – Rec. a S. Haynes, Etruscan Civilisation, «Gnomon», 77, 2005, pp. 558-560. 2006 – *Sacred Architecture and the Religion of the Etruscans, in The Religion of the Etruscans, edd. N. Thomson de Grummond, E. Simon, University of Texas Press, Austin, 2006, pp. 132-168. – Interventi e conclusioni in La ritualità funeraria tra età del ferro e orientalizzante in Italia (atti del convegno, Verucchio, 26-27 giugno 2002), a cura di P. von Eles, Pisa-Roma, 2006, pp. 133, 135 sg., 142, 144, *153-156. – *A proposito della presenza etrusca nella Gallia meridionale, in Gli Etruschi da Genova ad Ampurias (atti del xxiv convegno di studi etruschi e italici, Marseille-Lattes, 27 settembre-1 ottobre 2002), ii, Pisa-Roma, 2006, pp. 657-678. – *Gli Etruschi nel Tirreno meridionale tra mitistoria, storia e archeologia, «Etruscan Studies», 9, 2002-2003 (2006) (atti del xxvi Classical Colloquium del British Museum, London, 9-11 dicembre 2002), pp. 191-206. – *Cerveteri. La tomba delle Iscrizioni Graffite, in Archeologia in Etruria meridionale. Giornate di studio in ricordo di Mario Moretti (Civita Castellana, 14-15 novembre 2003), a cura di M. Pandolfini Angeletti, Roma, 2006, pp. 419-468. – *Un pittore veiente del Ciclo dei Rosoni: Velthur Ancinies, in Tarquinia e le civiltà del Mediterraneo (atti del convegno internazionale, Milano, 22-24 giugno 2004), a cura di M. Bonghi Jovino, Milano, 2006, pp. 163-185. – *Il commercio etrusco arcaico vent’anni dopo (e la sua estensione fino a Tartesso), «AnnMuseoFaina», xiii, 2006 (atti del convegno internazionale Gli Etruschi e il Mediterraneo. Commerci e politica, Orvieto, 2005), pp. 9-28. – *Pinelli e la storia romana, in Istoria Romana di Bartolomeo Pinelli (Roma 1819), a cura e con introduzione di G. Colonna, con la collaborazione di D. F. Maras, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2006, pp. 5-50. – *cie ii, 1, 5. Inscriptiones Veiis et in agro Veientano, Sutrino ac Nepesino repertae, additis illis ex Agro Falisco et Capenate quae in cie ii, 2, 1 desunt nec non illlis perpaucis in finitimis Sabinis repertis, edit. J. Colonna et D. F. Maras, Pisis-Romae, mmvi. 2007 – *Pallottino e Roma e *Pallottino, Pyrgi e l’Università di Roma, in Massimo Pallottino a dieci anni dalla scomparsa (atti dell’incontro di studio, Roma, 10-11 novembre 2005), a cura di L. M. Michetti, Roma, 2007, pp. 73-78. – *De la fouille au pastiche: les casques en bronze à couronnes en or étrusques, in Les Bijoux de la collection Campana: de l’antique au pastiche (actes du colloque international, Paris, 10 janvier 2006) (xxies rencontres de l’École du Louvre), a cura di F. Gaultier e C. Metzger, Paris, 2007, pp. 61-72. – Presentazione, in Salvatore M. Puglisi nella paletnologia italiana. Un ricordo a 20 anni dalla sua scomparsa (6 marzo 2006), Roma, 2007, p. 9 sg.

bibliografia di giovanni colonna (1999-2016)

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– *Novità su Thefarie Velianas, «AnnMuseoFaina», xiv, 2007 (atti del convegno internazionale Etruschi, Greci, Fenici e Cartaginesi nel Mediterraneo centrale, Orvieto, 2006), pp. 9-24. – *Dischi-corazza e dischi di ornamento femminile: due distinte classi di bronzi centro-italici, «ArchCl», lviii, 2007, pp. 3-30. – *Migranti italici e ornato femminile (a proposito di Perugia e dei Sarsinati qui Perusiae consederant), «Ocnus», 15, 2007, pp. 89-115. – *Il Cippo di Tragliatella (e questioni connesse), «StEtr», lxxi, 2007, pp. 83-109. – Le iscrizioni di Satricum, in Satricum. Trenta anni di scavi olandesi, cat. della mostra, Le Ferriere (Latina), a cura di M. Gnade, Roma, 2007, pp. 98-99, 194-197. – Curatela della ree 2007 («StEtr», lxxi, 2005 [2007]) e schede alle pp. 168-189, 219-221, 223-225, 230, nn. 25-37, 72 sg., 75, 79 sg., ad 81, 85 sg. 2008 – *Etruschi e Umbri in Val Padana, «AnnMuseoFaina», xv, 2008 (atti del convegno internazionale La colonizzazione etrusca in Italia, Orvieto, 2007), pp. 39-67. – *L’officina veiente: Vulca e gli altri maestri di statuaria arcaica in terracotta, in Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, cat. della mostra di Roma, a cura di M. Torelli e A. M. Moretti Sgubini, Verona, 2008, pp. 52-63. 2009 – *Il mito di Enea tra Veio e Roma, «AnnMuseoFaina», xvi, 2009 (atti del convegno internazionale Gli Etruschi e Roma. Fasi monarchica e alto-repubblicana, Orvieto, 2008), pp. 51-80. – *L’Apollo di Pyrgi, ±ur/±uri (il “Nero”) e l’Apollo Sourios, «StEtr», lxxiii, 2007 (2009), pp. 101-134. – *Un etrusco a Perachora. A proposito della gemma iscritta già Evans col suicidio di Aiace, ibidem, pp. 215-221. – *Il dio Tec San®, il Monte Tezio e Perugia, in Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, a cura di S. Bruni, i, Pisa-Roma, 2009, pp. 239-253. – Premessa del curatore, in Il santuario di Portonaccio a Veio, iii. L. Ambrosini, La cisterna arcaica con l’incluso deposito di età ellenistica, «MonAntLinc», s. misc. xiii (lxvii), Roma, 2009, p. 7. – Curatela della ree 2009 («StEtr», lxxiii, 2007 [2009]) e schede alle pp. 304-307, 324, 336, 337-344, 347-350, 352, 354 sg., 358-361, 363, 369, 384 sg., 395, 400-402, 405-408, 410-414; nn. ad 37-38, ad 52, 71, 73-77, 80 sg., ad 82, 86, ad 87-90, 93, 107, 125, 128-130, 134 sg., ad 136 sg., 138-142. 2010 – *Un monumento romano dell’inizio della Repubblica, in La Lupa Capitolina. Nuove prospettive di studio (atti dell’incontro-dibattito, Roma, 28 febbraio 2007), a cura di G. Bartoloni, Roma, 2010, pp. 73-110. – *Presentazione del volume M. Russo, «Sorrento. Una nuova iscrizione paleoitalica in alfabeto ‘nucerino’ e altre iscrizioni arcaiche dalla Collezione Fluss», in Sorrento e la Penisola Sorrentina tra Italici, Etruschi e Greci nel contesto della Campania antica (atti della giornata di studio in omaggio a Paola Zancani Montuoro [1901-1987], Sorrento, 19 maggio 2007), a cura di F. Senatore, M. Russo, Roma, 2010, pp. 25-39. – Interventi, ibidem, pp. 123-125, 128, 130, 131, 332. – *I leoni di Sorrento (e il supposto mnema del re Liparo), ibidem, pp. 337-377.

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italia ante romanum imperium

– *A proposito del primo trattato romano-cartaginese (e della donazione pyrgense ad Astarte), «AnnMuseoFaina», xvii, 2010 (atti del convegno internazionale La grande Roma dei Tarquini, Orvieto, 2009), pp. 275-296. – Cerveteri, in Gli Etruschi delle città. Fonti, ricerche e scavi, a cura di S. Bruni, Cinisello Balsamo, 2010, pp. 182-192. – *The ‘Seven against Thebes’ relief (Tydeus and Capaneus at the siege of Thebes), in What makes a masterpiece? Encounters with great works of art, ed. Chr. Dell, London, Thames & Hudson, 2010, pp. 35-37. 2011 – Dal Volturno al Garigliano: tradizioni etniche e identità culturali (a proposito degli Osci e del loro nome), in Gli Etruschi e la Campania settentrionale (atti del xxvi convegno di studi etruschi ed italici, Caserta-S. Maria Capua Vetere-Capua-Teano, 11-15 novembre 2007), Pisa-Roma, 2011, pp. 115-124. – Per una rilettura in chiave storica della tomba dei Volumni, in L’Ipogeo dei Volumni. 170 anni dalla scoperta (atti del convegno, Perugia, 10-11 giugno 2010), a cura di L. Cenciaioli, Città di Castello, 2011, pp. 107-127. – Lo studio degli Etruschi e il Risorgimento italiano, «AnnMuseoFaina», xviii, 2011 (atti del convegno internazionale La fortuna degli Etruschi nella costruzione dell’Italia unita, Orvieto, 2010), pp. 23-42. – In ricordo di Isidoro Galluccio, ibidem, p. 527. – Curatela della ree 2011 («StEtr», lxxiv, 2008 [2011]) e schede alle pp. 234-236, 280-292, 306-317, 329 sg., 332-334, 367-373, 378, 382 sg., 388 sg., 393, 396-402, 406 sg., 410-418; nn. 1-3, ad 44-51, ad 57-63, 65-69, 81, ad 82, 83, 111-125, 129-133, 137 bis, 141, ad 147, 155-159, 161 sg., 165-173. 2012 – I santuari comunitari e il culto delle divinità catactonie in Etruria, «AnnMuseoFaina», xix, 2012 (atti del convegno internazionale Il Fanum Voltumnae e i santuari comunitari dell’Italia antica, Orvieto, 2011), pp. 203-219. – Interventi in Antropologia e archeologia a confronto: rappresentazioni e pratiche del sacro (atti dell’Incontro internazionale di studi, Roma, 20-21 maggio 2011), a cura di V. Nizzo, L. La Rocca, Roma, 2012, pp. 373 sg., 421, 423 sg., 426. – Il pantheon degli Etruschi – “i più religiosi degli uomini” – alla luce delle scoperte di Pyrgi, in Lectio brevis a.a. 2011-2012 («MemAccLinc», s. ix, xxix, 3), Roma, 2012, pp. 557-595. – Ancora su Pallanum, il suo territorio e le antiche vie tra Sangro e Sinello, «Quaderni di Archeologia d’Abruzzo», 2/2010 (ma 2012) (atti del convegno Valerio Cianfarani e le culture medio adriatiche, Chieti-Teramo, 27-29 giugno 2008), a cura di A. Faustoferri, pp. 175-202. – Ancora su ±ur/±uri. 1. L’epiteto *Eista (“il dio”); 2. L’attributo del fulmine, «StEtr», lxxv, 2009 (ma 2012), pp. 9-32. – Curatela della ree 2012 («StEtr», lxxv, pp. 183-313) e schede nn. 64, 70, 75, 76, 78, 79, 83-86. 2013 – Prima di Demarato. Un’eco della Tebaide epica nella tomba tarquiniese detta di Bocchoris, in Dall’Italia. Omaggio a Barbro Santillo Frizell, a cura di A. Capoferro, L. D’Amelio, S. Renzetti, Firenze, 2013, pp. 3-18. – Sacriportus, «StRom», lxi, 2013, pp. 3-10.

bibliografia di giovanni colonna (1999-2016)

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– Premessa, in Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra Etruschi e Romani, a cura di G. M. Della Fina e E. Pellegrini, Ospedaltto (pi), 2013, p. 7 sg. – Mobilità geografica e mercenariato nell’Italia preromana: il caso dell’Etruria e degli Etruschi, «AnnMuseoFaina», xx, 2013, pp. 7-22. 2014 – Non da Buca né da Aternum ma da Velia (a proposito dell’iscrizione osca Vetter 174), in I Vestini e il loro territorio dalla Preistoria al Medioevo (Coll. Éc. Franç. de Rome, 494) a cura di S. Bourdin e V. D’Ercole, Roma, 2014, pp. 191-196. – Tra Etruria e Roma: storia di una parola (e forse di un’istituzione), «Mediterranea», xi, 2014 (Atti del simposio internazionale in ricordo di F. R. Serra Ridgway, Tarquinia, 24-25 settembre 2010), a cura di M. D. Gentili e L. Maneschi, pp. 123-139. – I nomi delle città dell’Etruria meridionale interna, in L’Etruria meridionale rupestre (Atti del convegno internazionale, Barbarano Romano-Blera, 8-10 ottobre 2010), Roma, 2014, pp. 90-114. – Nuovi dati sui porti, sull’abitato e sulle aree sacre della Pyrgi etrusca, «StEtr», lxxvi, 20102013 (2014), pp. 81-109. – Firme di artisti in Etruria, «AnnMuseoFaina», xxi, 2014, pp. 45-74. – L’Aldilà degli Etruschi: caratteri generali, in Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’Aldilà tra capolavori e realtà virtuale, cat. della mostra di Bologna, a cura di G. Sassatelli e A. Russo Tagliente, Bologna, 2014, pp. 27-35. – Ricordo di Lucos Cozza, in Scritti in onore di Lucos Cozza, a cura di R. Coates-Stephens e L. Cozza, Roma, 2014, pp. 27-28. – Ripensando la Fibula, «bpi», 99, 2011-2014, pp. 95-100. – Il graffito di Villa Altieri sull’Esquilino: la più antica iscrizione da Roma (e un’altrimenti sconosciuta area sacra), in Amore per l’Antico. Studi di antichità in ricordo di G. de Marinis, a cura di G. Baldelli e F. Lo Schiavo, i, Roma, 2014, pp. 15-23. – Presentazione, in Il Tumulo di Monte Aguzzo a Veio e la Collezione Chigi, a cura di L. M. Michetti e I. Van Kampen, «MontAntLinc», s. misc., xvi, 2014, p. 3. – Curatela della ree 2014 («StEtr», lxxv, pp. 239-300) e schede nn. 16-22, 35, 37, 47, 49, 5153, 56. 2015 – Sul processo di etnogenesi dei Corsi, in La Corsica e Populonia (Atti del xxviii convegno di Studi Etruschi ed Italici, Bastia-Aléria-Piombino-Populonia, 25-29 ottobre 2011), Roma, 2015, pp. 33-44. – Novità sugli scavi Santangelo a Veio, in Novità nella ricerca archeologica a Veio. Dagli studi di John Ward-Perkins alle ultime scoperte (atti della giornata di studi, British School at Rome, 18 gennaio 2013), a cura di R. Cascino, U. Fusco, Ch. Smith, Roma, 2015, pp. 111-117. – Introduzione, in B. Belelli Marchesini, M. C. Biella, L. M. Michetti, Il santuario di Montetosto sulla via Caere-Pyrgi, Roma, 2015, pp. 7-10. – Le Lamine di Pyrgi a cinquant’anni dalla scoperta, «ScAnt», 21, 2, 2015, pp. 39-74. – I tumuli d’Etruria, «AnnMuseoFaina», xxii, 2015, pp. 7-27. 2016 – La scrittura e la tomba. Il caso dell’Etruria arcaica, in L’Ecriture et l’éspace de la mort. Epigraphie et nécropoles à l’époque préromaine. Etudes réunies par M.-L. Haack, Ec. Franç. de Rome, 2016, pp. 125-137.

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italia ante romanum imperium

– Diffusione dell’etrusco in Italia e nel Mediterraneo, in Gli Etruschi maestri di scrittura, cat. della mostra, Cortona, 2016, pp. 121-129 (= «Archeo», xxxii, n. 375, pp. 96-99) – Ancora sulle lamine di Pyrgi, in Le lamine di Pyrgi. Nuovi studi sulle iscrizioni in etrusco e in fenicio nel cinquantenario della scoperta, a cura di V. Bellelli e P. Xella, Verona, 2016, pp. 157-171. In stampa – La scrittura e la tomba: il caso dell’Etruria arcaica, in L’écriture et l’espace de la mort (atti del colloquio, Roma, 5-7 marzo 2009), ed. M.-L. Haack. – Il santuario di Portonaccio a Veio, ii. Gli scavi di Maria Santangelo (1944-1952), «MonAntLinc», s. misc. – Iscrizioni latine arcaiche dal santuario romano delle Curiae Veteres, «ScAnt», 22, 1, 2016. – Notarella ceretana: tis = Ti(n)s, ovvero nuove testimonianze del culto funerario di Tina, «StEtr», lxxviii, 2016. – Due nuovi frammenti dei ‘Sette a Tebe’ di Pyrgi, «ac», lxvii, 2016. – Arte teutonica a Caramanico nel xv secolo: brevi note di epigrafia e di storia locale, «Rend.Mor.Acc.Lincei», s. ix, 2016. – Lanuvio: nuovi dati sul tempio tardo-arcaico di Giunone Sospita e su scoperta e contenuto della Tomba del Guerriero, «RendPontAcc», lxxviii, 2015-2016. – Qualche considerazione sul sito di Caprifico di Torrecchia, in Atti del convegno De agro Pomptino, Cisterna, 15 marzo 2014, a cura di P. Garofalo.

ELENCO DELLE ABBRE V IA Z IO NI aa absa ac , ArchCl ActaA, ActaArch ae aion ArchStAnt aion Ling aja ajp h ak am amiin AnalRoma AnnInst AnnIstItNum AnnMuseoFaina AnnScPisa AnnUnivPerugia anrw AntCl, AntClass AntDenk AntP Archeol. Neppi ArchDelt ArchEph ArchEspA ArchGlottIt Archaz AReports ASAtene Atti Civita Castellana Atti Este-Padova Atti Firenze Atti Grosseto Atti-Manfredonia AttiMemColombaria AttiMemRomagna Atti Salerno-Pontecagnano

Archäologischer Anzeiger Annual of The British School at Athens Archeologia Classica Acta Archeologica L’année épigraphique Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli – Archeologia e storia antica Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli – Linguistica American Journal of Archeology American Journal of Philogy Antike Kunst Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Athenische Abteilung Atti e memorie dell’Istituto Italiano di Numismatica Analecta Romana Instituti Danici Annali dell’Instituto di corrispondenza archeologica Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica Annali della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, a cura di I. Temporini, Berlin-New York, 1972 L’Antiquité classique Antike Denkmäler Antike Plastik Archeologica. Scritti in onore di Aldo Neppi Nodona, Firenze, 1975. Archaiologikon Deltion Archaiologike Ephemeris Archivo Español de Arqueologia Archivio Glottologico Italiano Archeologia Laziale (nei Quadaei , dal 1978) Archeological Reports Annuario della Scuola archeologica italiana di Atene La civiltà dei Falisci, atti del xv convegno di studi etruschi e italici, Civita Castellana 1987, Firenze, 1990 Este e la civiltà paleoveneta a cento anni dalle prime scoperte, atti dell’xi convegno di studi etruschi e italici, Este-Padova 1976, Firenze, 1980 L’Etrusco arcaico, atti del convegno di studi etruschi e italici, Firenze 1974, Firenze, 1976 La civiltà arcaica di Vulci e la sua espansione, atti del x convegno di studi etruschi e italici, Grosseto-Roselle-Vulci 1975, Firenze 1977 La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico, atti del xiii convegno di studi etruschi e italici, Manfredonia 1980, Firenze, 1984 Atti e memorie dell’Accademia Toscana di scienze e lettere “La Colombaria” Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna La presenza etrusca nella Campania meridionale, atti delle giornate di studio, Salerno-Pontecagnano 1990, Firenze, 1994

xx

italia ante romanum imperium

aw az

Antike Welt. Zeitschift für Archäologie und Kulturgeschichte Archäologische Zeitung

ba BABesch

BullInst

Bollettino d’arte Bulletin van de Vereeniging. tot Bevordering der Kennis van de Antike Beschaving Bullettino della commissione archeologica comunale di Roma Bulletin de correspondance héllenique J. D. Beazley, Etruscan Vase-Painting, (Oxford 1947) Bibliothèque des Écles Françaises d’Athènes et de Rome Bulletin of the Institute of classical studies of the University of London British Museum Bonner Jahrbücher des Rheinisches Landesmuseums in Bonn Bullettino di paletnologia italiana Beiträge zur Namenforschung H. Brunn-G. Körte, I rilievi delle urne etrusche, Berlin 1870-1916 Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, diretta da G. Nenci e G. Vallet, Pisa-Roma, 1977 Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica

cie cig cii cii, App cil cq cr CrA crai cse cue cuv cva

Corpus inscriptionum Etruscarum Corpus inscriptionum Graecarum Corpus inscriptionum Italicarum, a cura di A. Fabretti, Torino, 1867 G. F. Gamurrini, Appendice al cii , Firenze, 1880 Corpus inscriptionum Latinarum Classical quarterly Classical review La critica d’arte Comptes-rendus de l’Académie des inscriptions et belles lettres Corpus speculorum Etruscorum Corpus delle urne etrusche di età ellenistica, Firenze, 1975 cue . Urne Volterrane Corpus vasorum antiquorum

Dar.-Sagl.

Ch. Darember-F. Saglio, Dictionnaire des Antiquités, Paris 18771919 G. Dennis, The cities and cemeteries of Etruria, London, 1848 (ristampa London-New York 1907) C. De Simone, Die griechische Entlehnungen im Etruskischen, i-ii , Wiesbaden, 1968-1970 Dialoghi di archeologia

bcar , BCom bch Beazley, evp befar bics bm BounJahb bpi bnf Brunn-Körte btgg

Dennis De Simone, Entllelh DialArch

eaa es eua

Enciclopedia dell’arteantica, classica e orientale, Roma 1958-1966 E. Gerhard-A. Klügmann-G. Körte, Etruskische Spiegel, I.V, Berlin, 1840-1897 Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma, 1958-1967

fa

Fasti archeologici

Giglioli, ae

G. Q. Giglioli, L’arte etrusca, Milano, 1935

HambBeitrArch Helbig

Hamburger Beiträge zur Archäologie W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassicher Altertümer in Rom, iv ed. a cura di H. Speier, Tübingen 1963-1972

elenco delle abbreviazioni

xxi

ig IgrForsch II illrp

Inscriptiones Graecae Indogermanische Forschungen Inscriptiones Italiae A. Degrassi, Inscriptiones Latinae liberae rei publicae, Firenze, 19571963

JahrZentrMusMainz JdI jhs jra jrs

Jahrbuch des Römisch-Germanisches Zentralmuseum Mainz Jahrbuch des Deutschen Arch Journal of Hellenic Studies Journal of Roman Archaelogy Journal of Roma Studies

limc

Lexicon iconographicum mythologiae classicae, Zurich-München (poi Düsseldorf ), 1981-1999 Lexicon Topographicum Urbis Roma G. B. Pellegrini-A. L. Prosdocimi, La venetica, Padova, 1967

ltur lv maar MarbWPr MededRome mefra Mél MemAmAc MemLincei MemNapoli MemPontAcc Mitt MonAntLinc, MonAL, mal MonInst MonPiot Montelius

ns , NSc

Memoirs of the American Academy in Rome Marburger Winckelmann Programm Mededelingen van het Nederlands Historisch Instituut te Rome Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité (dal 1971) Mélanges d’archeologie et d’histoire de l’École Française de Rome (fino al 1970) Memoirs of the American Academy in Rome Memorie dell’Accademia nazionale dei Lincei Memorie dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli Memorie della Pontificia Accademia romana di archeologia Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts (1948-1953) Monumenti antichi pubblicati a cura dell’Accademia Nazionale dei Lincei Monumenti inediti pubblicati dall’Instituto di corrispondenza archeologica Monuments et mémoires publiés par l’Académie des et belles lettres, Fondation Piot O. Montelius, La civilisation primitive en Italie depuis l’introduction des métaux, Stockholm, 1895-1910

NumChr

Notizie degli scavi di antichità comunicate all’Accademia Nazionale dei Lincei The numismatic chronicle

Öjh OlForsch OpArch OpAth OpRom OrAnt

Jahreshefte des Österreichischen Archäologischen Instituts Olympische Forschungen Opuscula Archeologica Opuscula Atheniensia Opuscola Romana Oriens antiquus

ParPass, pp pbf pbsr pcia pid

La parola del Passato Prähistorische Bronzefunde, München Papers of the British School at Rome Popoli e civiltà dell’Italia antica, Roma, 1974 J. Whatmough, The Prae-Italic Dialects of Italy, ii , London, 1933

xxii

italia ante romanum imperium

Pisani, lia PrähistZ

V. Pisani, Le lingue dell’Italia antica oltre il latino, Torino, 1964 Prähistorische Zeitschrift

QuadAEI QuadTopAnt QuadUrbCultCl

Quaderni dell’Istituto del cnr per l’archeologia etrusco-italica Quaderni dell’Istituto di topografia antica dell’Università di Roma Quaderni urbinati di cultura classica

ra rac re

Revue archéologique Reallexicon für Antike und Christentum L. Pauly-G.Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen AltertumsWissenschaften Revue des études anciennes Rivista di epigrafia etrusca, in StEtr Revue del études grecques Rivista di epigrafia italica, in StEtr Revue del études latines Rendiconti dell’Accademia di archelogia, lettere e belle arti di Napoli Rendiconti dell’Istituto lombardo. Accademia di Scienze e Lettere Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei Rendiconti della Pontificia Accademia romana di archeologia Rheinisches Museum für Philologie Rivista dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte Rivista indo-greco-italica Rivista di archeologia Rivista di filologia e di istruzione classica Rivista italiana di numismatica Rivista di scienze preistoriche Rivista storica dell’antichità Rivista studi fenici Rivista studi liguri H. Rix, Das etruskische Cognomen, Wiesbaden, 1963 H. Rix, Etruskische Texte. Editio minor, i-ii , Tübingen, 1991 Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung W. H. Roscher, Ausführliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie, Leipzig, 1884-1937

rea ree reg rei rel RendAccNapoli RendIstLomb RendLincei RendPontAcc RhMus riasa rigi RivArch RivFilCl RivItNum RivScPr RivStAnt RivStFenici RivStLig Rix, Cognomen Rix, et rm Roscher ScAnt Schulze, zgle sco smsr StEtr StFilCl StMisc StRom

Scienze dell’antichità W. Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eingennamen, Berlin, 1904 Studi classici e orientali Studi e materiali di storia delle religioni Studi Etruschi Studi italiani di filologia classica Studi miscellanei Studi Romani

ThesLE ThesCRA tle

Thesaurus linguae Etruscae, i , Indice lessicale, Roma, 19781, 20092 Thesaurus cultus et rituum antiquorum M. Pallottino, Testimonia linguae Etruscae2, Firenze, 1968

Vetter

E. Vetter, Handbuch der italischen Dialekte, i , Heildeberg, 1953

zgle zpe

v. Schulze, zgle Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik

I. TRA STORIA E ARCHEOLOGIA

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PELAGOSA , DI O MEDE E LE ROT T E DE L L’A DRIAT IC O

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na scoperta di grande rilevanza storica e storico-religiosa è stata recentemente compiuta nel cuore dell’Adriatico, sull’isola maggiore del minuscolo arcipelago di Pelagosa (in croato Palagruža), posto all’ingresso del medio bacino di quel mare per chi proveniva da sud, a mezza via tra il Gargano e Làgosta (cr. Lastovo) (Fig. 1). L’importanza strategica dello sperduto gruppo di isolette, nei confronti della navigazione di un tempo, risulta con ogni evidenza dalla loro costante ed enfatica registrazione nelle carte nautiche medievali1 e dalla notizia della sosta che vi compì nel 1177 il papa Alessandro III viaggiando da Vieste a Venezia per trattare la pace con Federico Barbarossa.2 Consapevole di tale importanza il governo austriaco vi costruì nel 1875, all’indomani della fallita offensiva italiana contro Lissa, il primo faro custodito dell’Adriatico, il cui personale ha costituito da allora l’unica popolazione stabilmente residente nell’arcipelago, che è del tutto privo di acqua sorgiva. Annesso all’Italia tra le due guerre, e successivamente passato sotto sovranità jugoslava, esso appartiene dal 1992 alla Croazia. Nonostante che l’interesse archeologico, oltre che naturalistico, dell’arcipelago fosse stato segnalato già nel 1876 da Carlo Marchesetti, venuto da Trieste in occasione del collaudo del faro assieme al console inglese Richard F. Burton,3 esso è stato oggetto di ricerche e scavi solo a partire dalla nascita dello stato croato.4 L’affilata dorsale rocciosa, che costituisce l’ossatura di Pelagosa Grande (Fig. 2), si allarga un poco in corrispondenza della sella centrale, formando un angusto ripiano, incombente sul migliore dei due approdi esistenti, la spiaggia ciottolosa di Zadlo, capace di 80-100 barche.5 Sul ripiano, accessibile dall’unico sentiero dell’isola, che lo collega da un lato alla spiaggia e dall’altro all’altura del faro, i pescatori di Lissa, che frequentavano l’isola per la pesca assai redditizia delle sardine, hanno costruito nel xviii secolo la cappella ora in rovina di San Michele e alcuni annessi. Tra essi primeggia la cisterna, alimentata da un bacino lastricato di circa m 20 per 10 per la raccolta della scarsissima acqua piovana,6 cui il luogo deve il nome di Salamandrija. Dopo i primi scavi sulle pendici del ripiano, che hanno confermato l’intensa frequentazione del sito, già intuibile dai recuperi del Marchesetti, alla fine dell’Eneolitico e nell’età del Bronzo antico (cultura dalmatica e bosniaca di Cetina),7 tra il 1994 e il 1996 ne sono stati eseguiti altri, peraltro assai limitati, nella zona sommitale, ai margini del 1 E, sulle loro orme, nella cartografia rinascimentale. Cfr. Quaini 1976, p. 10 sgg., figg. 1-4, 10 e 11; Kirigin 1998, figura di copertina. 2 Kirigin 1998, p. 22. Anche la terribile sconfitta navale, inflitta nel 1298 dai Genovesi ai Veneziani, che va sotto il nome di Curzola, secondo Marchesetti 1876, p. 291, sarebbe avvenuta nelle acque di Pelagosa. 3 Marchesetti 1876, pp. 287-291, tav. ii. Ringrazio la Direzione dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, e in particolare la Dott.ssa Claudia Morgan, per avermi procurato una fotocopia dell’articolo, a Roma difficilmente reperibile. Sullo studioso si vedano gli Atti Trieste 1994 (in particolare, per l’escursione a Pelagosa, la trattazione di G. Bandelli a p. 41). 4 Kirigin, ¬a©e 1998, in particolare pp. 63-70, 78-83, con bibl. precedente. Le ricerche sono avvenute nel quadro dell’‘Adriatic Island Project’, cui collaborano dal 1992 archeologi croati, inglesi e canadesi (Kirigin 1998, pp. 16-22). 5 Marchesetti 1876, p. 305, nota 3. 6 Marchesetti 1876, p. 285 sg. Una pianta schematica del sito in Kirigin, ¬a©e 1998, p. 98, fig. 11. 7 Forenbaher et alii 1994, p. 40 sg., fig. 20; T. Kaiser, S. Forenbaher, in Kirigin 1998, p. 19 sg., fig. 5. Sulla cultura di Cetina: Peroni 1990, pp. 202-207.

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Fig. 1. L’Adriatico centro-meridionale.

lastricato della cisterna, dove in precedenza erano stati praticati sondaggi da parte di cercatori occasionali e delle stesse forze dell’ordine intervenute sulle loro orme. Complessivamente sono stati così recuperati, assieme a ceramica romana e medievale, oltre 2000 frammenti di ceramica fine di età tardo-arcaica, classica ed ellenistica. Circa quaranta di essi, più alcuni di ceramica grezza, databili gli uni e gli altri in gran maggioranza dalla fine del vi a tutto il v secolo a.C. e spettanti a vasi di forma aperta (per lo più kylikes e skyphoi), recano graffite iscrizioni, esclusivamente greche, purtroppo ridotte allo stato di frustuli, delle quali è stata ora offerta una prima edizione, sotto forma di catalogo, da parte di Branko Kirigin e Slobodan ¬a©e.8 A parte poche lettere isolate, fungenti da contrassegni,9 sono tutte, per quanto si può giudicare, iscrizioni di dedica, o comunque sacre, come è stato puntualmente riconosciuto dagli editori, confortati dall’autorevole parere di Alan W. Johnston. Oltre al verbo ·ÓÂıÂÎÂ, ricostruibile in due occorrenze, una delle quali in posizione finale,10 leggiamo con emozione il teonimo ¢ÈỔ[ÂÈ], mancante della finale morfologica ma verosimil8 Kirigin, ¬a©e 1998, pp. 84-88, nn. 1-44, tavv. i, 1-23; ii, nn. 24-38; figg. 4, 7-10. Ai numeri di questo catalogo ci si riferisce nelle note seguenti, ove non altrimenti specificato. Al iv secolo e all’età ellenistica spettano con sicurezza i nn. 5 (tav. i, 7), 6 (fig. 7), 11 (tav. i, 10), 12 (tav. i, 13), 24 (tav. i, 21) e 32 (tav. ii, 27), con probabilità i nn. 4 (tav. i, 5), 8 (tav. i, 11), 10 (tav. i, 4), 15 (tav. i, 12) e 41 (tav. ii, 30): complessivamente circa un quarto dei graffiti. La posizione è sempre sulla superficie esterna, tranne che nel piatto n. 5 e nelle kylikes (?) a f. r. nn. 43 e 44. Nel caso dei numerosi piedi di kylikes il graffito è sempre sulla faccia inferiore. 9 Nn. 27, 30 e 33. 10 [- - -]Ó ·ÓÂ[ıÂÎÂ] (n. 9, tav. i, 9); [- - -] ·ÓÂıÂ]Π(n. 23, fig. 10: cfr. Kirigin, ¬a©e 1998, p. 80).

Fig. 2. L’isola di Pelagosa vista da SE con la cartina dell’arcipelago (da Marchesetti 1876).

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Fig. 3. Dedica a Diomede da Pelagosa (da Kirigin 1998).

mente in dativo, scritto all’esterno della vasca di una phiale attica a vernice nera di prima metà del v sec. a.C.,11 pertinente a una rara variante delle Achaemenid phialai, in cui la parte di superficie scanalata e verniciata di rosso corallo è circoscritta al piano di appoggio (Figg. 3-4: 1).12 Il nome dell’eroe argivo, che sappiamo venerato come un dio in una “isola sacra” dell’Adriatico fin dalla seconda metà del vi secolo a.C.,13 è ravvisabile in almeno altri sette graffiti, che ne conservano o le lettere iniziali ¢È-, ¢ÈÔ-, o la sequenza interna -ÔÌÂ-, o il segmento finale -‰ÂÈ (dat.) (Fig. 4: 2-8).14 Esso ritorna inoltre nell’unica iscrizioncella su pietra, conservante anch’essa la sequenza ¢ÈÔ-, apposta verticalmente su un blocchetto cubico, forato per l’infissione di un perno metallico, forse per sorreggere un ex voto miniaturizzato (Fig. 4: 9).15 Probabili anche le integrazioni, su un piede di kylix tardo-arcaica, [hÈÂ]ÚÔ[Ó ¢]ÈÔ[̉ÂÈ] oppure [‰Ô]ÚÔ[Ó ¢]ÈÔ[̉ÂÈ]16 e, su altro piede analogo, in un graffito a sviluppo spiralico, [‰ÔÙ]ÈÓ· ¢ÈÔ[̉ÂÈ Î·È Aı·Ó]·È·È.17 In quest’ultimo, se l’integrazione è esatta, compare il raro termine epico ‰ˆÙ›ÓË,18 qui peral-

11 N. 3, fig. 4, con profilo del vaso a tav. i, 3; Kirigin 1998, p. 22, fig. 6 (a colori). Il montaggio del prospetto sul profilo del vaso, dato a Fig. 4:1, si deve, come la composizione della tavola, a Sergio Barberini dell’Università di Roma La Sapienza. 12 Sulle ‘Achaemenid phialai’ vedi Sparkes, Talcott 1970, pp. 105 sg. e 272, nn. 520-521, con bibl. In Italia se ne conoscono solo da una tomba di Spina (VP 41 D), dai vecchi scavi di Capua (cva Berlin, Antikensammlung, 1, p. 80, tav. 52, 5) e ora dal deposito k dell’area Sud del santuario di Pyrgi, sacra alle divinità infere ±uri e Cavatha (Baglione 1997, p. 87, nota 16). La variante di Pelagosa è documentata da un esemplare all’Università di Cracovia (cva Pologne, 2, tav. 11, 29) e forse anche da uno inedito a Londra (64.10-7.1469), menzionato in Sparkes, Talcott 1970, p. 272, sub n. 521. 13 Come risulta dalla testimonianza di Ibico di Reggio (frg. Page pmg 294 = Campbell 1991, p. 261), ribadita da Licofrone (Alex. 630 sg). Sul culto di Diomede vedi nota 26. 14 Concordanze col catalogo Kirigin, ¬a©e: 2 = n. 11, tav. i, 10; 3 = n. 14, tav. i, 8; 4 = n. 17, fig. 9; 5 = n. 19, tav. i, 15; 6 = n. 20, tav. i, 17; 7 = n. 21, tav. i, 20; 8 = n. 22, tav. i, 19. 15 Kirigin, ¬a©e 1998, pp. 65, nota 12, e 80, tav. ii, 52. 16 N. 25 e 28, tav. i, 18. 17 N. 1, tav. i, 1. L’integrazione col nome di Athena è proposta cautamente già da A.W. Johnston (apd. Kirigin, ¬a©e 1998, p. 79). 18 Lexicon der frühgriechischen Epos, ii, col. 380, s.v.

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Fig. 4. Graffiti vascolari e iscrizione su pietra (n. 9) da Pelagosa (rielaborazione da Kirigin, ¬a©e 1998).

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tro nella forma dorica finora non attestata. Ma soprattutto sembra essere associata all’eroe la dea che è costantemente al suo fianco nell’aristeia compiuta sotto le mura di Troia e che interviene facendogli vincere la corsa dei carri ai funerali di Patroclo.19 Del resto è Atena la dea che avrebbe procurato all’eroe l’immortalità,20 dopo essere stata sul punto di farla ottenere sotto le mura di Tebe al padre Tideo,21 e nel cui tempio daunio Diomede avrebbe dedicato le proprie armi.22 Abbiamo infine, su un vaso verniciato solo all’interno, il graffito di possesso ıÂÔ (gen.), a quanto pare completo.23 Non v’è il minimo dubbio che sia stato individuato un santuario di Diomede, il primo in assoluto dei molti segnalati dalla tradizione letteraria, sulle rive dell’Adriatico e altrove, di cui si abbia una sicura evidenza archeologica ed epigrafica.24 Un santuario di cui finora non sono emersi resti né di altari né di strutture architettoniche, poiché è da escludere che si possa considerare tale un frammento marmoreo di epoca romana con parte di un’iscrizione latina, probabilmente funeraria, disegnato nel 1876 dal Marchesetti.25 Ma occorre tenere presente che il sito è stato radicalmente alterato nel Settecento con la costruzione dell’ingombrante bacino di raccolta della cisterna. La scoperta è importante anzitutto per il culto prestato a Diomede, che viene confermato da testimonianze coeve, se non a Ibico, certamente a Pindaro.26 E di questo si parlerà certamente a lungo da parte degli storici della religione greca. In secondo luogo è importante, come sottolineano i suoi autori, sul piano della geografia storica. Essa consente infatti di riconoscere in Pelagosa Grande, invece che nella maggiore delle Tremiti, come finora si è da tutti ritenuto, l’isola ¢ÈÔÌ‹‰ÂÈ· o Diomedia, l’isola ‘sacra’ già per Ibico, come si è detto, dove l’eroe sarebbe stato sepolto27 o dove sarebbe avvenuto il suo aphanismòs, che i Veneti da parte loro rivendicavano.28 L’isola accoglieva di fatto sia il santuario29 che la tomba di Diomede,30 verosimilmente costituenti un’unica realtà topografica e monumentale. Penso a una struttura come quella messa in luce presso Lavinio e identificata con l’heróon di Enea,31 inserita o comunque connessa con un tumulo, che in questo caso potrebbe essere stato anche di molto più antico. Del genere, per

19 Il., v, passim, e xxiii, 388-407. 20 Come cantava Pindaro lodando un atleta di Argo (Nem., x, 12a). Cfr. anche schol. Graeca in Hom. Il., v, 412. Per lo scoliasta l’altare presso cui l’eroe trovò scampo in Argo alla congiura della moglie Egialea apparteneva non a Hera, come nella vulgata, ma ad Atena. 21 Episodio narrato, com’è noto, già nella prima metà del v secolo nell’altorilievo del tempio A di Pyrgi (Paribeni 1969, Colonna 1996). 22 Ps. Aristot., de mir. ausc., 109; Strab. vi, 3, 9, C 284; Aelian., nat. anim., xi, 5. Sulla funzione del tempio come focolaio del culto della dea in area italica: Colonna 1984, p. 265 sgg. Sul rapporto privilegiato Atena-Diomede: Mastrocinque 1987, p. 91 sg. 23 N. 13, Fig. 8. 24 Un altro è il santuario investigato nel 1996 sulla costa dalmata, a Capo Plo©a, il Promunturium Diomedis di Plin., n.h., iii, 141, sempre nel quadro dell’‘Adriatic Island Project’ (Kirigin, ¬a©e 1998, pp. 72-74, 90 sg., con catalogo dei graffiti a p. 88 sg., nn. 1-12). I graffiti in questo caso sono esclusivamente di età ellenistica e quasi tutti su skyphoi: il nome di Diomede appare probabilmente nei nn. 1 (]ÂÈ) e 7 (¢È[). Nei pressi sorge la chiesa dedicata a S. Giovanni di Traù, protettore dei naviganti. 25 Marchesetti 1876, p. 289, tav. ii, 9. Cfr. Baldelli 1994, p. 48, nota 58, il quale rileva che sia questa che l’altra iscrizione latina di Pelagosa, copiata dal Marchesetti (che la ritenne etrusca!), non sono riportate nel cil iii. 26 Sul culto di Diomede: Mastrocinque 1987, pp. 87-96, con bibl.; Lepore 1989, pp. 113-132. In generale: Boardman, Vakopoulou-Richardson 1986, pp. 396-398. 27 Anton. Lib., xxxvii, 4. (da Nicandro di Colofone). 28 Strab., vi, 3, 9, C 284; Eustath. in Dion. Per. 483. Per i Veneti la scomparsa dell’eroe, avvenuta nel loro paese, sarebbe stata una vera apotheosis. 29 Ps. Aristot., de mir. ausc., 79 (hierón); Plin., n.h., x, 126 (delubrum, aedes); Solin., 2, 45 (delubrum); Augustin., civ. xviii, 16 (templum) (da Varrone). 30 Plin., n.h., iii, 151 (monumentum Diomedis); x, 126 (tumulus); xii, 6 (tumulus). 31 Dion. Hal., i, 64, 5. Cfr. Torelli 1984, p. 10 sgg. e passim, con bibl.

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esempio, di quello che sorge bene in vista a Lissa in località Vela Gomila, sulla cui superficie si è raccolta ceramica preistorica, greca e romana, indiziante una continuità di culto funerario.32 Un tumulo la cui sola possibile localizzazione a Pelagosa è proprio sul ripiano di Salamandrija, nel sito occupato nel Settecento dal bacino della più volte ricordata cisterna con la contigua cappella di S. Michele, in una posizione di grande evidenza, dominante entrambi i versanti dell’isoletta e visibile da molto lontano (Fig. 2). In proposito va rilevato che non costituisce una difficoltà l’esplicita localizzazione dell’isola Diomedea, a partire da Strabone o dalle sue probabili fonti tardo-ellenistiche, nelle acque dell’Apulia, in quanto Pelagosa, nonostante la relativa lontananza (poco più di 50 km), è pur sempre più vicina, anche se di poco, a quella regione che non alla Dalmazia, isole comprese (tranne la piccola Sušac, al largo di Lagosta).33 Di essa inoltre si può dire, assai meglio che delle Tremiti, che si trova dinanzi alla ‘testa’ del Gargano, come osserva Strabone. Conferma l’identificazione con Pelagosa il fatto che l’isola di Diomede è considerata da tutti gli autori, implicitamente o esplicitamente, come deserta, o, meglio, popolata solo dai bizzarri uccelli diomedei dai comportamenti semiumani,34 mentre non poteva dirsi lo stesso delle Tremiti. Quando si parla di due isole Diomedee, come fanno Strabone, Plinio il Vecchio ed Eustazio, si precisa che una era abitata e l’altra no, e che in quest’ultima era scomparso l’eroe (o se ne mostrava la tomba), mentre nell’altra almeno Eustazio afferma che egli aveva regnato, considerandola un’estensione della Daunia. Doveva pertanto trattarsi di un’isola più grande e abitata, di cui Plinio ricorda anche che aveva un proprio nome, Teutria, ricco di assonanze anatoliche e illiriche, queste ultime evocanti i barbari illirici che secondo Antonino Liberale (da Nicandro) avrebbero massacrato i compagni di Diomede. Scartata l’ipotesi che le due isole in questione siano rispettivamente Pelagosa Grande e Pelagosa Piccola,35 entrambe da sempre disabitate,36 a parte la minuscola comunità dei fanalisti, per la mancanza di sorgenti e di pozzi, la scarsità delle piogge37 e l’esigua estensione della terra coltivabile, non resta che pensare a Pelagosa Grande e alla maggiore delle Tremiti, San Domino. Le due isole sarebbero menzionate al posto dei rispettivi arcipelaghi, come è normale, con una propagazione della referenza diomedea dall’arcipelago di Pelagosa a Pianosa e all’arcipelago delle Tremiti, ossia a tutto l’allineamento di isole prospiciente la costa italiana.38 Il che è puntualmente confermato da Claudio Tolomeo (iii, 1, 80), che parla di cinque isole dello Ionio che prendono nome da Diomede, alludendo verosimilmente, nella sequenza da est a ovest, a Pelagosa Grande, Pianosa, Capraia, San Nicola e San Domino (Fig. 1). L’importanza della scoperta va comunque ben al di là dell’identificazione dell’autentica isola di Diomede, in cui si trovavano il santuario e la tomba dell’eroe. I graffiti 32 Kirigin 1998, p. 25, fig. 9. Che il santuario thaumastòs kaì hàgion dell’isola Diomedea consistesse semplicemente in un tumulo lo fa pensare anche lo Pseudo-Aristotele quando afferma che i grandi uccelli diomedei siedono ‘in circolo’ intorno ad esso (de mir. ausc., 79). 33 Come precisano Kirigin, ¬a©e 1998, p. 63. 34 In cui sarebbero stati trasformati da Zeus o da Athena i compagni di Diomede che l’avevano abitata (schol., Lycophr., 592; Schol. Graeca in Hom. II., v, 412) o erano naufragati nei pressi dopo l’uccisione dell’eroe da parte del re Dauno (Ps. Aristot., de mir. ausc., 79) o vi erano stati massacrati dagli Illiri mentre sacrificavano in suo onore (Anton. Lib., xxxvii, 5). La leggenda della metamorfosi è piuttosto antica, essendo nota già a Lico di Reggio (Bérard 1957, p. 369, nota 2). 35 Come vorrebbero Kirigin, ¬a©e 1998, p. 77. 36 Tranne forse che in piena età romana e tardo-antica (Kirigin 1998, p. 22). 37 Cfr. nota 6. 38 Lo stesso Plinio sembra confondere tra loro le due isole Diomedee quando riferisce l’introduzione in Occidente dell’albero del platano all’isola in cui si trovava la tomba di Diomede, che da sempre è priva di vegetazione arborea, invece che all’isola abitata (n.h., xii, 3).

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presuppongono una frequentazione dell’isola da parte di naviganti greci reiterata a lungo nel tempo, impensabile fuori di una rotta marittima da essi intensamente e sistematicamente percorsa. Ora sta di fatto che Pelagosa non è un’isola prossima al litorale, facilmente raggiungibile da chi praticava la navigazione di cabotaggio lungo una delle due sponde dell’Adriatico. Pelagosa è un’isola dislocata in mare aperto, al centro e sull’asse, per così dire, dell’Adriatico, sì da costituire un vantaggiosissimo punto di riferimento per chi affrontava la traversata di quel mare (Fig. 5). Giustamente si è scritto che «the safest, and fastest, crossing of the Adriatic from the west to the east coast» avveniva via Gargano-Pelagosa-Lissa-Promunturium Diomedis.39 È questa la via maestra delle relazioni tra le due sponde del medio Adriatico, praticata si può dire in ogni tempo e in entrambe le direzioni, dalla preistoria40 ai secoli viii, vii e vi a.C., quando la ceramica geometrica della Daunia grazie ad essa arriva in grandi quantità nella Dalmazia settentrionale, in Istria e fino in Slovenia;41 dal iv secolo a.C., quando la rotta funse verosimilmente da tramite dell’espansionismo siracusano in Dalmazia,42 al Medioevo e all’età moderna, quando i pirati dalmati saccheggiano l’Abbazia delle Tremiti e Pelagosa gravita a pieno titolo, come si è visto, nell’orbita di Lissa. È seguendo certamente questa via che il culto daunio di Diomede è arrivato dalla terraferma a Pelagosa, in Dalmazia e verosimilmente anche alla foce del Timavo nel lontano Caput Adriae.43 Di fatto a naviganti di lingua greca che dall’Apulia si dirigevano verso la Dalmazia, o ne ritornavano, si possono ascrivere i graffiti di Pelagosa databili nel iv secolo e in età ellenistica, scritti in particolare su ceramica di Gnathia.44 Tra di essi ve n’è uno che, per la finale -·˜ del nome del dedicante ([- - -]·˜ ¢È[ỔÂÈ]),45 è sicuramente in dialetto dorico e sembra pertanto confermare la provenienza magno-greca o siceliota di una parte almeno degli scriventi di questa età.46 I graffiti di iv secolo e di età ellenistica sono però, come si è già avuto occasione di dire, una minoranza, che arriva appena a un quarto del totale. La grande maggioranza dei graffiti, a cominciare dall’unico che ci conserva per intero il nome di Diomede (Fig. 3), è più antica, si trova su ceramica attica e si data, come si è detto, tra la fine del vi e la fine del v secolo a.C. Essa si colloca quindi in un arco cronologico anteriore alla fondazione di Issa, quando è improbabile che naviganti sicelioti e magnogreci frequentassero la rotta dal Gargano alla Dalmazia, che anche per gli indigeni Dauni è in netto declino. Conosce invece in questa età un enorme sviluppo, grazie alla iniziativa degli Etruschi di Spina, che esercitano la talassocrazia sull’Adriatico, la rotta ‘trasversale’, che taglia quel mare da sud-est a nord-ovest e conduce i naviganti greci da Corcyra direttamente al delta padano, senza toccare l’Apulia e il Gargano (Fig. 5). Gli archeologi croati sottolineano a più riprese nel loro contributo l’affinità tra la ceramica a figure nere e rosse di Pelagosa e quella di Spina e di Adria.47 Per quanto si può

39 Kirigin-¬a©e 1998, p. 77. 40 Come mostra il ritrovamento di ossidiana tirrenica, associata alle testimonianze della cultura di Cetina (bibl. a nota 7). 41 De Juliis 1977, pp. 83-87, Bergonzi 1984; De Juliis 1988, pp. 32 sg., 52; Kirigin, ¬a©e 1998, p. 77, nota 61. Cfr. anche Colonna 1984, p. 274, nota 66. 42 Braccesi 1977, p. 185 sgg. 43 Kirigin, ¬a©e 1998, pp. 70-74. 44 Come precisato sopra, a nota 4. 45 N. 11, tav. i, 10 (qui a fig. 4, 2). 46 Se nel n. 4, tav. i, 7, è da integrare il nome personale Plator, in funzione di patronimico o di secondo dedicante, avremmo il caso di un apulo grecizzato. 47 Kirigin, ¬a©e 1998, pp. 65 e 78. Foto dei frammenti di Pelagosa sono in Forenbaher et alii, 1994, p. 43, fig. 21; Kirigin, ¬a©e 1998, fig. 4 sg.

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Fig. 5. Le rotte greche di v-iv sec. a.C. verso il delta padano e il Caput Adriae (su fondo tratto da Kirigin, ¬a©e 1998).

giudicare dal poco che è stato finora pubblicato o anche solo menzionato, l’osservazione è del tutto pertinente. A parte la sostanziale coincidenza dell’escursione cronologica, compaiono a Pelagosa forme vascolari anche abbastanza rare, che ritornano puntualmente a Spina. Oltre all’Achaemenid phiale col nome pressoché intero di Diomede, già più volte ricordata, si possono citare un rhytòn a testa di mulo48 e un numero impreci48 A Pelagosa: Kirigin, ¬a©e 1998, p. 65, nota 9. A Spina: Alfieri 1979, p. 62, n. 142; p. 89, n. 207.

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sato di piatti a figure rosse.49 I graffiti dal canto loro non solo appaiono pienamente compatibili con l’ipotesi che i frequentatori di Pelagosa siano gli stessi di Adria e di Spina, ossia in linea di massima Ateniesi ed Egineti, ma recano ad essa almeno in un caso una ulteriore conferma. Mi riferisco all’occorrenza, in un graffito probabilmente ancora tardo-arcaico, del digramma X™ per notare la consonante doppia csi.50 Tale occorrenza consente di escludere gli alfabeti ‘rossi’ e ‘azzurro-scuri’, ossia in pratica le città euboiche, achee e ioniche d’Asia, nonché Taranto, Corinto, Corcira e Cnido con le rispettive colonie.51 Restano in lizza gli alfabeti ‘azzurro-chiari’, ossia quelli di Atene e di Egina, così simili tra loro, e di alcune città delle Cicladi, come Paro e Taso, che nel v secolo a.C. non hanno interessi in Adriatico. Sul piano dialettale un dorismo come la finale -ÈÓ·, nel graffito con la supposta dedica comune a Diomede e ad Atena,52 sembra rinviare a un dedicante egineta, mentre lo ionismo ‰Ë- di quello che dovrebbe essere il nome del dedicante dell’unica iscrizione su pietra, che peraltro è la più recente del gruppo53 (Fig. 4: 9), evoca ovviamente un ateniese. Pelagosa appare pertanto in questo momento storico come una tappa sulla rotta che portava dalla Grecia al delta padano senza attraversare il canale d’Otranto e senza toccare le coste apule, ma risalendo da Corcyra lungo la costa illirica.54 La vera, eccezionale importanza delle scoperte avvenute sull’isola, agli occhi dello storico e dell’archeologo, sta nel documentare che la rotta in questione attraversava l’Adriatico non, come finora si è ritenuto, all’altezza di Zara e di Numana, ma assai più a sud, all’altezza di Làgosta e delle Tremiti, passando appunto per Pelagosa.55 Era qui, entrando in quello che si tendeva ormai a chiamare non più Ionio ma Adriatico, che i Greci diretti al delta padano offrivano libagioni a Diomede, ritenuto il signore incontrastato di quel mare,56 accostato ai Dioscuri probabilmente nel ruolo di protettore della navigazione.57 E proseguivano il loro viaggio nel medio Adriatico costeggiando la sponda italiana, lungo la rotta che gli stessi Etruschi padani verosimilmente avevano ‘aperto’ al traffico internazionale con la spedizione contro Cuma del 524 a.C. e la fondazione del santuario di Cupra sulla costa picena.58 Annoto infine che la scoperta è perfettamente congruente con quello che da tempo sapevamo delle correnti superficiali dell’Adriatico e dei moti di deriva generati in esso dai venti (Fig. 6).59 Una forte corrente favorisce infatti l’attraversamento dell’Adriatico da est a ovest all’altezza di Pelagosa, mentre la deriva prodotta dai venti di settentrione favorisce, assieme all’azione dei venti meridionali,60 la risalita lungo la costa medio-

49 I piatti di Pelagosa sono ricordati in Kirigin, ¬a©e 1998, p. 65. Per Spina: Beazley 1959, p. 50 (ne conosce solo a Spina e a Bologna); Alfieri 1979, pp. 94-96, nn. 221-231. Da Pelagosa viene anche un frammento di cratere attribuito al Pittore di Semele, la cui scarsissima produzione non meraviglia sia assente a Spina. 50 N. 2, tav. 2. 51 Rinvio ai manuali di M. Guarducci e L. Jeffery. 52 N. 1, tav. i, 1. Cfr. sopra, nota 17. 53 Cfr. sopra, nota 15. 54 È la rotta ‘padana’ di Braccesi 1977, p. 70 sgg., con carta n. 2 a p. 368. 55 Dove incrociava la rotta già ricordata dall’Apulia alla Dalmazia. L’isola sotto questo aspetto doveva apparire come il vero omphalós dell’Adriatico, come Delo lo era per l’Egeo (sul concetto geografico di omphalós da ultimo Poccetti 1996, p. 40). Il nome dell’isola, ascrivibile alla serie uscente in -Ô˘ÛÛ·, ne documenta un’antica frequentazione ionica (ibid., pp. 70-73), evocante le navigazioni focee e rodie precoloniali. 56 Strab., v, 1, 9, c 215. 57 Schol., Pind., Nem., x, 12a, che potrebbe anche risalire a Ibico (cfr. Campbell 1991, p. 261, ad loc., nota 1). 58 Strab., v, 4, 2, C 241. Rinvio a quanto ho scritto in Colonna 1993, p. 7 sgg. 59 L’Italia fisica, p. 146 sg., fig. 68 (qui in parte riprodotta a Fig. 6); Guglielmi 1971, p. 426 sgg., con grafici a p. 428 sg.; Braccesi 1977, p. 81, nota 32 (dove l’utilizzo della corrente per la traversata dall’Illiria in direzione del Gargano è tuttavia definito come una «rotta protostorica, solitamente disertata in epoca classica»). 60 Kirigin, ¬a©e 1998, p. 77, nota 64.

pelagosa, diomede e le rotte dell ’ adriatico

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Fig. 6. Schema delle correnti di superficie e dei moti di deriva del Mediterraneo centrale (da L’Italia fisica del t.c.i.).

adriatica italiana. Tra la fine del vi e l’inizio del iv secolo a.C. Pelagosa insegna che è stata questa la rotta verso l’alto Adriatico privilegiata dai Greci. Se sulla costa non vi è traccia di emporii da essi frequentati fino a Numana, ciò sarà dovuto non tanto e non solo alla sua importuosità, su cui si è troppo insistito, quanto piuttosto all’assenza di centri urbani e di mercati, ricercati dai Greci e ricettivi nei loro confronti. Il che a sua volta rinvia alla strutturazione socio-economica e, in generale, al grado di sviluppo delle popolazioni rivierasche, piuttosto che a fattori ambientali.

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I PEUCETI DI CA L L IM AC O E L’ASSEDIO DI PO RS E N NA

È

mia intenzione, in questo convegno dedicato alla via Salaria nell’antichità, riportare l’attenzione su una fonte letteraria che, adeguatamente interpretata, è in grado di gettare qualche luce sui rapporti di età arcaica tra i due versanti dell’Italia centrale, il tirrenico e l’adriatico. La fonte in questione è l’aition di Callimaco su Gaio il romano,1 che è l’unico, tra i componimenti del poeta di cui abbiamo notizia, concernente Roma e i Romani. Un aition prezioso per noi non meno dell’unico concernente gli Etruschi di epoca storica, incluso anch’esso nel iv libro. Alludo a quello di Teodoto il Liparese, grazie al quale è stato possibile ricostruire un episodio significativo, e altrimenti del tutto ignoto, della storia arcaica dell’Occidente: l’assedio e l’espugnazione di Lipari da parte degli Etruschi, all’epoca delle guerre persiane.2 Nel caso di Teodoto protagonisti sono sì gli Etruschi, ma lo scenario in cui agiscono è quello, familiare a occhi greci, delle acque tirreniche della Sicilia. Nel caso di Gaio invece a fare da scenario è la relativamente lontana Italia centrale, con l’astro nascente, ma ancora assai poco noto, di Roma. Altra differenza, questa occasionale, è che dell’aition di Teodoto possediamo una parte, pur mutila, del testo, oltre a scolii ed echeggiamenti varii da parte di poeti ed eruditi (Cornelio Gallo, Ovidio, Tzetzes), mentre di quello di Gaio non ci resta che un solo verso, per giunta incompleto, seguito dalla scarna dieghesis dell’intero componimento, restituiti entrambi da un papiro milanese pubblicato nel 1934.3 Esistono per la dieghesis alcuni problemi, testuali ed esegetici, sui quali non mi soffermo, rinviando alla traduzione recentemente fornita da G. B. D’Alessio: «Dice [il poeta] che quando i Peucezii assediavano le mura di Roma il romano Gaio uccise il loro comandante che tentava di fare irruzione [oppure: che li provocava], ma lui stesso fu ferito a una gamba. Dopo di ciò mal sopportava il fatto di essere zoppo, ma smise di scoraggiarsi per i rimproveri della madre».4 Acuto è stato l’interesse suscitato dall’aition, o meglio dai suoi miseri resti, all’indomani della pubblicazione. Tra il 1934 e il 1966 si sono cimentati con esso, tra gli altri, filologi della statura di Giorgio Pasquali e storici non meno insigni, da Gaetano De Sanctis e Franz Altheim a Santo Mazzarino.5 Dopo di che, e senza che fosse stata avanzata una interpretazione veramente convincente, è subentrata la stanchezza: negli ultimi trent’anni di Gaio il romano, per quanto so, non si è quasi più parlato. Da parte mia non intendo ripercorrere tutta la vasta letteratura prodotta a suo tempo, ma soltanto riesaminare i risultati allora acquisiti.

1 R. Pfeiffer, Callimachus, i, Oxford, 1949, p. 109 sg., Aetia, iv, fr. 106 sg.; Dieg., v, 26 (= Jacoby 840 F 25). 2 Fr. 93 Pfeiffer, vedi G. Colonna, Apollon, les Étrusques et Lipara, «mefra», 96 (1984), pp. 557-578; Idem, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del ii congresso internazionale etrusco. Firenze 1985, i, Roma, 1989, pp. 361-374, 589 sg. (colgo l’occasione per segnalare che le Eolie sono dette insulae Siciliae in Isid., Etym., xiv, 6, 36). Cfr. A. Pagliara, Meligunís Lipára, viii, 2 (Fonti per la storia dell’arcipelago eoliano in età greca), Palermo, 1995, p. 74 sg.: R. Sammartano, «Hespería», 7 (1996), pp. 54-56. 3 Senza il quale nulla avremmo saputo di quella che è tra le non molte testimonianze di un precoce interessamento greco alla storia e ai costumi di Roma, rimasta stranamente senza echi nella letteratura latina. 4 G. B. D’Alessio, Callimaco, ii, Milano, 1996, pp. 519-521. 5 La letteratura è presente quasi tutta in S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, ii, 1, Bari, 1966, pp. 257273.

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Tutti sono stati concordi col De Sanctis nel ritenere che l’aition intenda giustificare, al di là della esaltazione della virtus romana, proposta, con premonitore intuito di poeta, a esempio per la ‘Grecia tutta’ (Panellás), taluni privilegi delle matrone, che riuscivano poco comprensibili per i suoi connazionali.6 Altro dato incontrovertibile è il riferimento a un ‘assedio’ di Roma, con il nemico accampato dinanzi alle mura della città. Il che induce a scartare a priori non solo il ‘tumulto’ gallico del 360 a.C. e l’incursione dei Sanniti nel Lazio del 315 a.C.,7 ma anche le numerose puntate offensive condotte nel v secolo a.C. fino ad portas da Equi e Volsci nel 462 e 446 a.C., da Fidenati e Veienti nel 435 a.C., ricordate dal Mazzarino,8 così come quelle precedenti dei Sabini nel 503, 469 e 468 a.C.9 Ha buon gioco il De Sanctis nel fare appello a «l’unico assedio di Roma che la tradizione celebra, quello famoso di Porsenna».10 Coerentemente con tale premessa lo storico suggerì già ai filologi che preparavano l’edizione del papiro milanese l’identificazione, poi da lui stesso ampiamente difesa nello scritto del 1935, di Gaio con il più celebre eroe zoppo della storia romana, Orazio Coclite, «saltato giù» dalle mura, come veniva inteso allora il participio enallómenon, in seguito riferito più pertinentemente al comandante dei Peuceti, «che aveva fatto irruzione» (scalando le mura?), oppure «aveva provocato» i Romani schierati sulle mura.11 L’ardita proposta del De Sanctis non ha trovato favorevole accoglienza soprattutto per la difficoltà insita nella menzione dei Peuceti al posto degli Etruschi. «Nessun autore al mondo ha mai scritto per far capire il contrario di ciò che ha in mente», è stato il caustico commento del Mazzarino, con l’aggiunta, senz’altro condivisibile, che «qualunque greco colto, nell’età di Callimaco, poneva i Peucezii nella parte orientale della penisola italiana, i Tirreni nella occidentale».12 In realtà il De Sanctis riteneva che secondo la fonte di Callimaco – egli pensava a Timeo – agli Etruschi che assediavano Roma «fossero associati i Peucezi»,13 e citava opportunamente come esempio l’attacco a Cuma del 524 a.C., in cui agli Etruschi erano associati Umbri e Dauni. Ma su questo punto fondamentale ritornerò più avanti. Lo scetticismo del Mazzarino sorprende anche perché viene dopo che nel 1941 una brevissima nota del filologo tedesco L. Früchtel aveva introdotto nella discussione un passo di Clemente Alessandrino, confermante in larga misura l’intuizione del De Sanctis.14 Elencando una serie di exempla di resistenza alla tortura, Clemente affermava che «anche Postumo il romano, prigioniero di Peuketíon, non solo non rivelò alcun segreto ma, posta la mano sul fuoco, la lasciò liquefare come fosse di bronzo senza battere ciglio».15 Già i commentatori del Padre della Chiesa avevano riconosciuto, del tutto indipendentemente da Callimaco, che Postumo è Mucio Scevola – così chiamato anche, 6 G. De Sanctis, Callimaco e Orazio Coclite, «Rivista di filologia e d’istruzione classica», n.s. xiii (1935), pp. 289-301, spec. p. 299 sg. Privilegi altrimenti fatti risalire alle benemerenze di Veturia e di Volumnia al tempo di Coriolano (Val. Max., v, 2, 1). 7 Rispettivamente J. Stroux, «Philologus», 89 (1934), p. 304 sgg., seguito da G. Pasquali, art. cit. a nota 11, e F. Altheim, Epochen der römischer Geschichte, ii, Frankfurt a. M., 1935, pp. 137-144, seguito da E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937, p. 177 sg., nota 3. 8 Mazzarino, op. cit., p. 268 sgg. 9 Dion. Hal., v, 44, 1 (503 a.C.); Liv., ii, 63, 7 (469 a.C.); Liv., ii, 64, 3 (468 a.C.). Cfr. J. Poucet, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain, 1967, p. 421 sgg.; C. Ampolo, Roma e i Sabini nel v secolo a.C., in Identità e civiltà dei Sabini (atti del xviii convegno di studi etruschi e italici, Rieti-Magliano Sabina 1993), Firenze, 1996, pp. 87-103. 10 Art. cit., p. 293. 11 G. Pasquali, Roma in Callimaco, «Studi italiani di filologia classica», n.s. xvi (1939), pp. 70-78 (= Pagine stravaganti, ii, Firenze, 1968, pp. 69-77); Pfeiffer, op. e loc. cit. 12 Op. cit., p. 259. 13 Art. cit., p. 298. 14 Die Peuketier bei Kallimachos, «Philol. Wochenschrift», lxi (1941), col. 189 sg. 15 Clem. Alex., strom., iv, 56, 3.

i peuceti di callimaco e l ’ assedio di porsenna

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ci informa Plutarco, da Athenodoros figlio di Sandon, il maestro di Augusto16 – e che quindi Peuketíon non è altri che Porsenna.17 Il Früchtel ha avuto il merito di accostare il racconto di Clemente a quello di Callimaco, postulando una versione greca dell’assedio di Porsenna parallela a quella elaborata dall’annalistica romana e da essa indipendente. Ciò indusse a una palinodia, rimasta peraltro ignorata, il grande studioso di Callimaco, Rudolf Pfeiffer, che negli addenda et corrigenda alla sua edizione del poeta, apparsi nel 1953, fin troppo onestamente annotava: si Porsenna Peuketíon erat, Etrusci Peukétioi appellari poterant. Bellum igitur Etruscum et Horatii Coclitis pérosis a Callimacho narrata esse possunt, id quod negaveram.18 Non così il Mazzarino che, nonostante la testimonianza del dotto Padre della Chiesa, ha continuato a vedere nelle storie di Orazio Coclite e di Mucio Scevola narrazioni leggendarie, esemplificatorie, come tali atemporali e disponibili per ogni sorta di ambientazione cronologica. Il che è indubbiamente vero, ma non tiene conto del fatto che l’aneddotica fiorita intorno all’evento in questione, ossia l’assedio posto dai Peuceti a Roma, coincide largamente, per quel poco almeno che ne sappiamo, con quella concernente l’assedio di Porsenna, e con essa soltanto, nomi dei protagonisti a parte. Appare pertanto ipercritica la presa di posizione del grande storico, e non accettabile il suo riferimento di entrambe le storie edificanti a qualche oscuro episodio delle guerre combattute con Equi, Equicoli o altro ancor minore popolo dell’Appennino abruzzese, chiamato col nome dei Peuceti a uso e consumo del lettore greco.19 Detto questo occorre riconoscere che il Mazzarino ha perfettamente ragione nel mettere in guardia contro affrettate identificazioni, come quelle cui si dichiara disposto il Pfeiffer nel passo sopra riportato. Gli Etruschi non possono in alcun modo essere stati confusi con i Peuceti e chiamati col nome di quelli. Ma il trovare una loro impresa attribuita a Peuceti fa sospettare, con il De Sanctis, che questi ultimi abbiano avuto in essa una parte importante, e forse preponderante, almeno sul piano militare, per l’entità delle forze messe in campo. Una parte di cui solo l’ottica della fonte greca di Callimaco ha saputo conservarci il ricordo, mentre la vulgata annalistica l’ha del tutto ignorata, privilegiando il ruolo, certo politicamente prioritario, dei vicini e assai più familiari Etruschi. Ci sarebbe stata insomma da entrambe le parti una reductio ad unum, che ha espunto una delle due maggiori componenti della spedizione contro Roma: i Peuceti nella tradizione annalistica, gli Etruschi in quella di ascendenza greca. Nel solo Dionigi di Alicarnasso, che si pone un poco a cavallo delle due tradizioni, rimane il ricordo, peraltro assai scolorito, di anonimi xénoi e misthophóroi, che avrebbero combattuto dalla parte degli Etruschi, al fianco dei Gabini e degli esuli romani comandati dai figli di Tarquinio.20 La tendenza della riflessione storica greca a portare la dovuta attenzione alle diverse componenti etniche della intricata realtà centro-italica e al loro diverso peso politico e militare emerge con chiarezza nel celebre logos dionigiano sul già ricordato attacco a Cuma del 524 a.C.21 In esso gli Etruschi sono nominati una sola volta, in apertura, con la pre-

16 Plut., Popl., 17, 5. 17 E.g. O. Stählin, Clemens Alex., ii, Leipzig, 1906, p. 274. 18 R. Pfeiffer, Callimachus, ii, Oxford, 1953, p. 114. Agnostico resta P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford, 1972, p. 767 sg., mentre possibilisti appaiono J. Ferguson, Callimachus, Boston, 1980, p. 49, e G. B. D’Alessio, op. cit., p. 520, nota 28. 19 Op. cit., p. 269 sgg. 20 Dion. Hal., v, 22, 4. Mercenari sabini avrebbero combattuto con gli Etruschi contro i Romani già al tempo di Tarquinio Prisco (Id., iii, 59, 2). 21 Dion. Hal., vii, 3, 1-4. Sul passo mi sono soffermato più volte, l’ultima in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica (atti del convegno di studi, Cupra Matrittima 1992), Tivoli, 1993, pp. 7-12, fig. 1. Ottima trattazione in A. Mele, Aristodemo, Cuma e il Lazio, in Etruria e Lazio arcaico, ed. M. Cristofani, Roma, 1987, pp. 155-177, spec. pp. 164-167. Su Aristodemo vedi anche N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia da Panezio di Leontinoi alla caduta dei Dinomenidi, Firenze, 1994, pp. 79-118.

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cisazione, fortemente riduttiva, che si trattava degli Etruschi più lontani dalla città greca, abitanti sull’alto Adriatico, da dove furono scacciati col tempo dai Celti: quindi forzatamente una esigua minoranza dei numerosissimi assalitori. Questi invece erano Umbri, Dauni e ‘molti degli altri barbari’. Più avanti si parla esclusivamente di ‘barbari’ (termine ricorrente in tutto sei volte, più una settima in funzione aggettivale), marcianti contro la città greca in numero spropositato,22 e il loro capo – verosimilmente un etrusco – è chiamato anonimamente «il capo dei nemici». È evidente da un lato lo spirito fortemente antietrusco della fonte, tendente a collocare quel popolo sullo stesso piano dei ‘barbari’ cui era alleato, dall’altro la buona informazione circa il quadro etnico-geografico delle coste occidentali dell’Adriatico, abitate da Dauni, Umbri ed Etruschi (nel Riminese, oltre che a Spina e ad Adria),23 ai quali ultimi si sarebbero sostituiti più tardi i Celti. Diverso è lo spirito che circola nel prosieguo del racconto, relativo al secondo conflitto cumano-etrusco, culminato con la battaglia di Aricia. Gli Etruschi nemici dei Latini e dei Cumani sono ora chiamati sempre col loro nome (sei volte) e comandante ne è detto l’etrusco Arruns figlio di Porsenna, mentre la guardia del corpo di Aristodemo, una volta consolidata la tirannide, include non i prigionieri etruschi, che erano stati utilizzati in tale funzione solo in un primo momento e in cambio del loro riscatto, ma veri e propri mercenari, ‘reclutati tra i più selvaggi dei barbari’, quali potevano trovarsi solo tra gli Umbri, i Dauni e soprattutto i loro non precisati vicini, coinvolti nella spedizione.24 Vi è un evidente cambio di registro,25 col ricorso a una fonte locale, cumana, non viziata da preconcetti di tipo etnico verso gli Etruschi, che sono invece considerati alla stregua di normali nemici (anche retrospettivamente: è solo in questa parte del racconto che si fa riferimento al conflitto del 524 a.C. come a un Tyrrhenikòn pólemon).26 E lo stesso cambio interviene nel breve racconto di Plutarco concernente Xenocrita, recentemente rivalutato da Alfonso Mele.27 Aristodemo riceve il soprannome di Malakós dai ‘barbari’, perché era un giovinetto al tempo delle guerre appunto contro i ‘barbari’, cioè nel 524, e nella loro lingua il termine designerebbe appunto i giovani.28 Divenuto adulto combatte finalmente contro Etruschi riconosciuti come tali e chiamati col loro nome, recandosi in soccorso dei Romani nel 504. La fonte cui attinge Callimaco per l’episodio di Gaio il romano appare affine, se non identica, a quella cui Dionigi e Plutarco si ispirano a proposito delle imprese giovanili di Aristodemo, al tempo della grande spedizione contro Cuma. È una fonte che, ponendo in primo piano i Peuceti nell’attacco di Porsenna a Roma, conferisce ad esso la fisionomia di una seconda puntata offensiva di barbari adriatici contro una città del Tirreno, prospera e invidiabile non meno di Cuma. Il quadro geografico in questo caso è quello dell’Italia centrale, con un ruolo propulsivo implicitamente attribuito agli Etruschi di Chiusi, l’aspirante capitale della mesogaia che, in linea col disinteresse nutrito verso di 22 500.000 pedoni e 18.000 cavalieri. Le cifre fanno pensare al Piceno, quondam uberrimae multitudinis coi suoi 360.000 abitanti nel 268 a.C. (Plin., n.h., iii, 13, 110: cfr. N. Alfieri, La regione v dell’Italia augustea nella Naturalis Historia, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario (atti della tavola rotonda, Bologna, 1979), Como, 1982, pp. 199-219). 23 G. Colonna, Gli Etruschi della Romagna, in Romagna protostorica (atti del convegno di S. Giovanni in Galilea, 1985), Viserba di Rimini, 1987, pp. 37-44. 24 Così A. Mele, art. cit., p. 168 sg. (diversamente da D. Musti, op. cit. alla nota 25, p. 135). L’importanza dei mercenari per la tirannide di Aristodemo risulta anche da Diod. Sic., vii, 10. 25 D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica (= «Quad.Urb.», 10, 1970-71), pp. 134-139. 26 Dion. Hal., v, 10, 3. 27 Plut., mor., 261 E-262 D (= de mul. virtut. 26). Cfr. Mele, art. cit., passim. 28 È probabile un’allusione al lessema etrusco mla¯ (Mele, art. cit., p. 157), il cui significato è più vasto del greco ηÏfi˜. Ma vedi G. Pugliese Carratelli, «pp», li, 1996, pp. 289-291.

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essa dalla storiografia greca,29 non è mai nominata. L’ottica marittima, e specificamente adriatica, di tale fonte, privilegiante gli Umbri e i Dauni nell’attacco a Cuma, i Peuceti nell’attacco a Roma, senza ignorare il sopraggiungere dei Celti nel delta padano e in Romagna, fa pensare a Filisto, il primo storico greco realmente edotto di problemi adriatici, che aveva ricostruito per i progenitori dei Siculi un itinerario partente dalla Gallica ora prima di coinvolgere, come già faceva Antioco, Roma e il Lazio.30 Ma è tempo ormai di domandarci chi potevano essere i Peuceti di Callimaco, alleati di Porsenna nella spedizione contro Roma. Già il Pfeiffer ha richiamato in proposito il passo del libro geografico di Plinio il Vecchio, nel quale all’elenco dei Liburni istro-dalmati sono aggiunti quos Callimachos Peucetios appellat.31 Plinio mostra pertanto di sapere che il poeta cireneo conosceva altri Peuceti, oltre quelli dell’Apulia, a lui certo ben noti: Peuceti più settentrionali, che il poligrafo assimila ai Liburni e colloca sull’opposta sponda del Caput Adriae, escludendo così ogni rapporto con l’aition di Gaio il romano. Lo stesso Plinio, tuttavia, sapeva di altri Liburni, che un tempo avevano abitato le coste occidentali del medio Adriatico, e dei quali il solo relitto giunto fino ai suoi tempi era Truentum, la città posta alla foce del Tronto da cui aveva preso nome.32 A questi Liburni italiani, quasi interamente scomparsi ai suoi tempi, così come era avvenuto dei Siculi occupanti il futuro ager Gallicus e il territorio di Ancona, Plinio assegna, nell’excursus storico-antiquario tracciato a proposito della regione vi, ma valido anche per la v, gli agri adriano, pretuziano e palmense, ossia l’intera fascia costiera che si estende da Atri fin quasi a Porto San Giorgio.33 Apparentemente sono questi Liburni mitistorici, predecessori dei Picenti e dei Pretuzi, per la loro relativa prossimità geografica all’Etruria interna e alla valle del Tevere i migliori candidati alla identificazione con i Peuceti assalitori di Roma. La fonte greca di Callimaco avrebbe attribuito anche alle popolazioni rivierasche del medio Adriatico il nome dei Peuceti, disegnando per così dire una ‘grande Peucezia’ mitistorica, assai più estesa verso nord di quel che non lo fosse l’Enotria sul Tirreno, con proiezioni anche sull’opposta sponda nord-adriatica. Tuttavia occorre riconoscere che i Liburni italiani dell’età eroica, ammesso che siano realmente esistiti, poco prima del 500 a.C., ossia all’epoca della spedizione di Porsenna contro Roma, dovevano ormai costituire minoranze trascurabili, segregate sul mare, archeologicamente e linguisticamente mute, anche se non è da escludere che ad esse ci si riferisca nelle Tavole Eugubine con l’etnico Iapusci, sottolineante la loro parentela con gli indigeni dell’Apulia.34 Appare comunque decisamente improbabile che proprio queste minoranze costiere abbiano valicato l’Appennino per fornire a Porsenna il grosso del suo esercito nell’attacco a Roma. Storicamente assai più convincente si rivela invece il collegamento, già avanzato a suo tempo dall’Altheim ma rimasto sempre al margine della ricerca, dei Peuceti di Callimaco con i Peuketieis, che una glossa penetrata nel testo dello Ps. Scilace colloca tra le popolazioni di stirpe sannitica affacciate sul medio 29 Per Telemaco ecista di Chiusi vedi Mele, art. cit., p. 175 sg. (pensa a tradizione tardo-arcaica di matrice cumana). 30 G. Colonna, in La Romagna tra vi e iv sec. a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale (atti del convegno, Bologna, 1982), Bologna, 1985, p. 57 sg.; D. Briquel, in Cispadana e letteratura antica (a cura del Dipartimento di Storia Antica dell’Università di Bologna), Bologna, 1987, p. 9 sgg. 31 Plin., n.h., iii, 21, 139. 32 Plin., n.h., iii, 13, 110. Sulla recente localizzazione del sito della città: A. R. Staffa, in La valle della Vibrata e del Salinello (Documenti dell’Abruzzo teramano, iv , 1), Pescara, 1996, p. 332 sgg.; Id., in Archeologia nell’area del Basso Tronto (San Benedetto del Tronto, 1993), Tivoli, 1995, pp. 111-146. 33 Plin., n.h., iii, 13, 112. Cfr. Alfieri, art. cit., p. 213 sgg. Ad essi avevo pensato nel mio primo approccio al testo di Callimaco (art. cit. a nota 23, p.39). 34 Sulla questione rinvio al mio contributo in La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico (atti del xiii convegno di studi etruschi e italici, Manfredonia, 1980), Firenze, 1984, p. 274 sg.

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Adriatico.35 Non pare dubbio, infatti, che la più antica storiografia greca abbia designato con questo nome gli abitatori del Piceno, i Picenti,36 uniformando arbitrariamente il loro etnico a quello dei Peuceti d’Apulia e dando in tal modo vita con essi, e non solo con le residue frange liburniche costiere, al concetto di una ‘grande Peucezia’ prima evocato. I Picenti sono una importante etnia umbro-sabellica, di dimensione ben maggiore degli Equicoli del Mazzarino, come anche dei Liburni piceni di Plinio: una etnia dalle salde radici appenniniche, le cui intense relazioni di vii e vi secolo con Etruschi e Sabini della valle del Tevere sono brillantemente rivelate dai dati archeologici ed epigrafici.37 Particolarmente degna di nota in proposito è la tradizione, riferita da Strabone, secondo la quale il santuario nazionale dei Picenti, sacro alla loro dea Cupra e situato sul mare presso la moderna Cupra Marittima, sarebbe stato fondato da Etruschi.38 Il che, nei limiti in cui la notizia è accettabile, non può non essere posto in relazione con la più volte citata ‘lunga marcia’ del 524 a.C., guidata da Etruschi della Romagna e del delta padano, in cui è da ravvisare il vero e proprio prologo della talassocrazia etrusca sull’Adriatico.39 È lecito congetturare che proprio nel santuario di Cupra i Chiusini e i Volsiniesi, a quanto pare all’epoca sottomessi anch’essi a Porsenna,40 si siano procacciati, direttamente o tramite la mediazione degli Etruschi adriatici che più di loro lo frequentavano, l’aiuto di quei barbari che costituirono il grosso della spedizione contro Roma. O che almeno come tali restarono nella memoria storica del santuario, indissolubilmente legati al ricordo della spedizione, fino a venirne additati come protagonisti alla fonte di Callimaco, in cui amerei ravvisare, come già detto, un conoscitore di cose adriatiche quale è stato Filisto. In ogni caso esistono oggi possibili conferme archeologiche di un’improvvisa irruzione di genti medio-adriatiche nella bassa Sabina e nel Lazio in età tardo-arcaica. Mi riferisco in primo luogo al cippo rinvenuto nel letto del Farfa quasi venti anni fa, abbastanza lontano e tanto a monte di Cures da escludere decisamente una provenienza da quella città.41 L’iscrizione, che «dal punto di vista strettamente grafico, linguistico e stilistico niente separa … dal resto del corpus sudpiceno»,42 è rimasta del tutto isolata in Sabina, nonostante il notevole infittirsi della ricerca, ed è stata concordemente datata tra la fine del vi e l’inizio del v sec. a.C. Al cippo del Farfa si può affiancare il poleonimo Picetia, menzionato da Dionigi di Alicarnasso a proposito delle terre assegnate ad Atta Clauso nel 504 a.C., collocabile tra il Tevere e l’Aniene non lontano da Fidene.43 Infine 35 Ps. Scyl., 15. Cfr. Altheim, op. cit., a nota 7, p. 139 sg. 36 Secondo la vecchia ipotesi del Cluverio, condivisa tra gli altri da C. Müller, Geographi Graeci minores, i, Parisiis, 1855, p. 24; B. Schulze, De Hecataei Milesii fragmentis quae ad Italiam meridionalem spectant, Lipsiae, 1912, p. 42 sgg.; F. Altheim, Der Ursprung der Etrusker, Offenburg, 1950, p. 41; J. Bérard, La colonisation grecque de l’Italie méridionale et de la Sicile dans l’antiquité2, Paris, 1957, p. 398 sg.; A. Peretti, Il periplo di Scilace. Studi sul primo portolano del Mediterraneo, Pisa, 1979, p. 183 sg. 37 G. Colonna, Apporti etruschi all’orientalizzante “piceno”: il caso della statuaria, in La civiltà picena nelle Marche (Studi in onore di G. Annibaldi), Ancona, 1992, pp. 92-127; Idem, art. cit. a nota 21, p. 12 sg., nota 34; M. Cristofani, I “principi” adriatici: appunti per un capitolo di storia italica, in Etrusca et Italica (Scritti in ricordo di Massimo Pallottino), i, Pisa-Roma, 1997, pp. 173-189. 38 Strab., v, 4, 2, C 241. 39 G. Colonna, art. cit. a nota 21. 40 Sulla tradizione di Porsenna re dei Volsiniesi (Plin., n.h., ii, 140) rinvio al mio contributo in Annali della fondazione per il museo Cl. Faina, ii (1985), pp. 117-120, fig. 4. 41 A. Morandi, «DialArch», s. iii, 5 (1987), pp. 7-15. Il luogo del rinvenimeto sarebbe equidistante da Cures, dalla foce del Farfa e dal sito dell’abbazia di Farfa, presso il quale è segnalato un insediamento protostorico (p. 9). 42 A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, i, Testi, Firenze, 1985, p. 147. Per il Morandi (art. cit., p. 8) «l’identità linguistica e lessicale con le iscrizioni medio-adriatiche è assoluta». 43 Dion. Hal., v, 40, 5. Cfr. E. Peruzzi, I Romani di Pesaro e i Sabini di Roma, Firenze, 1990, p. 247: L. Quilici, S. Quilici Gigli, Ficulea, Roma, 1993, pp. 27, 475 sg. Nella prospettiva qui delineata Picetia potrebbe essere

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l’arrivo di guerrieri provenienti dal Piceno, nel periodo che ci interessa, è segnalato dalle lunghe spade curve di ferro a un sol taglio, tipiche del Piceno iv b (525-400 a.C.), rinvenute a Palestrina e a Lanuvio, oltre che in molti siti della riva sinistra del Tevere, in territorio umbro.44 Non è molto, ma basta per dare credibilità alla partecipazione di un consistente gruppo di Picenti – i Peuceti di Callimaco – all’attacco di Porsenna contro Roma. Muovendo principalmente dall’alta valle del Tronto essi avrebbero ripercorso il mitico itinerario dei Sabini, discesi da Testruna presso Amiternum nella conca di Reate, e da questa a Cures presso le rive del Tevere.45 Così facendo avrebbero attuato in piena età storica una sorta di volontario e selettivo ver sacrum, con conseguenti fenomeni di stanzialità nelle zone di arrivo, ancora interamente da indagare. [I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La Salaria in età antica (atti del convegno di studi, Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 2-4 ottobre 1997), a cura di E. Catani e G. Paci, Ascoli Piceno, 2000, pp. 147-153]. un relitto toponomastico lasciato da Picenti venuti in aiuto di Porsenna e stanziatisi al confine tra territorio romano e territorio sabino, così come sappiamo che gruppi di Dauni si insediarono in Campania presso Nola (Polyb., iii, 91). A fronteggiarli i Romani a quanto pare stanziarono poco dopo i 5000 transfughi sabini di Atta Clauso. 44 G. Colonna, La necropoli di Praeneste. Periodi orientalizzante e medio repubblicano (atti del ii convegno, Palestrina, 1990), Palestrina, 1992, p. 29, fig. 21 sg. Da aggiungere alla carta di distribuzione gli esemplari da Otricoli (E. Stefani, «NSc», 1929, p. 260: «spade a lama arcuata» di ferro). Cfr. anche, per Lanuvio, F. Zevi, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique (Coll. de l’École Française de Rome, 172), Roma, 1993, pp. 429-431, fig. 7. Gli esemplari rinvenuti ad Aleria in tombe di v sec. a.C. fanno pensare a mercenari umbri o picenti, al servizio degli Etruschi allora padroni della città, a cominciare dal ‘capo’ sepolto con la famiglia nella tomba 90, dotato di una coppia di dischi-corazza del tipo Alfedena (da ultimo G. Tagliamonte, I figli di Marte, Roma, 1994, p. 92, nota 359, tav. iii a), ma privi di decorazione come nel caso del Guerriero di Capestrano in area vestina. Anche il guerriero sabellico dipinto sulla ormai famosa lastra di Ceri (ibidem, p. 61 sg., tav. i a) indossa un disco-corazza liscio, anomalo rispetto alle testimonianze abruzzesi anche per il sistema di tiranti di fissaggio. 45 G. Colonna, Identità e civiltà dei Sabini, cit. a nota 9, pp. 110-112, fig. 1.

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L’OF F ERTA DI ARMI A M INE RVA E UN PROBABILE CIMELIO DE L L A S PE DIZ IO N E DI ARISTODEMO N E L L A Z IO l mio contributo a questo convegno, dedicato alla Pallade di Velletri, prende lo spunto da una dedica di armi a Minerva, anzi alla Menerva etrusca, per arrivare a una proposta interpretativa che tocca da vicino la storia arcaica non solo d’Etruria, ma anche del Lazio, e in particolare dei Colli Albani. Ce n’è abbastanza, credo, per giustificare una trattazione dell’argomento qui a Velletri, in un convegno che vede riuniti antichisti e studiosi della fortuna moderna dell’antico, alla presenza stimolante di Sir Francis Haskell, cui rivolgo il più ammirato saluto. Le armi oggetto del mio contributo sono una ghiotta novità, da poco resa nota dalla Soprintendente archeologa dell’Umbria, Anna Eugenia Feruglio, che le ha ‘scoperte’ tra i fondi ottocenteschi del piccolo Antiquarium statale annesso all’Ipogeo perugino dei Volumnii.1 Si tratta di una coppia di schinieri bronzei anatomici, la cui ripulitura dalle incrostazioni che li ricoprivano, non rimosse prima di allora, ha rivelato sia la loro splendida modellazione e decorazione a sbalzo, risalente all’età tardo-arcaica, sia l’esistenza di una iscrizione etrusca, incisa verticalmente su entrambi in piena evidenza e in perfetta simmetria grafica (Figg. 1-3). Il testo, identico nelle due stesure, a parte il ductus contrapposto, si legge Arnth Savpunias turce Menrvas, ossia ‘Arruns Sauponius ha donato a Menerva’. Purtroppo nulla sappiamo per altra via del dedicante, il cui stesso nome gentilizio non risulta altrimenti noto.2 Fonetica, ortografia e paleografia riportano comunque indiscutibilmente a età post-arcaica e all’Etruria meridionale, in contrasto patente con l’età e con la provenienza dei supporti. In un precedente lavoro credo di avere sufficientemente dimostrato, sviluppando un’opinione già espressa in merito da A. E. Feruglio, che gli schinieri sono stati iscritti a Orvieto, in età, come detto, post-arcaica, per essere dedicati a Menerva in un santuario di quella città.3 Credo anche di avere reso plausibile che gli schinieri siano arrivati a Perugia a seguito del sacco di Orvieto del 264 a.C., cui i Perugini avranno partecipato in qualità di socii dei Romani (ed è questo un dato nuovo di grande interesse). Una volta a Perugia non meraviglia che abbiano trovato ricetto nella tomba della necropoli del Palazzone, probabilmente appartenente alla importante gens perugina degli Acsi, nella quale furono rinvenuti negli anni Quaranta del secolo scorso. In questa sede intendo occuparmi del primo periodo dell’esistenza degli schinieri, quello cioè anteriore alla loro consacrazione a Menerva, testimoniata dalle iscrizioni. È un periodo anch’esso abbastanza lungo e complesso, e certamente non meno interessante dell’altro per gli insegnamenti che se ne possono trarre nei confronti della storia dell’Italia centrale. Anzitutto va detto che gli schinieri, come pure è stato già riconosciuto dalla Feruglio, invero senza trarne per intero le conseguenze, sono di produzione

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1 A. E. Feruglio, Una coppia di schinieri con dedica a Minerva. Un esempio di trofeo?, in Miscellanea etrusca e italica in onore di Massimo Pallottino («ArchCl», xli, 1991), Roma, 1992, pp. 1231-1251. 2 Rinvio all’analisi da me compiuta nell’articolo di cui alla nota seguente, p. 115. 3 G. Colonna, Volsinio capto. Sulle tracce dei donarii asportati da Orvieto nel 264 a.C., in Mélanges à la mémoire de André Magdelain, edd. M. Humbert, Y. Thomas, Paris, 1998, pp. 109-122, spec. pp. 111-116.

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Figg. 1-2. Schiniere destro dalla necropoli del Palazzone, vedute anteriore e posteriore a sinistra e laterali a destra (da Feruglio 1991). Perugia, Museo Archeologico.

greca (o piuttosto magno-greca) invece che etrusca.4 Si tratta degli unici schinieri, e anzi una delle rarissime armi sicuramente greche rinvenute finora, a mia conoscenza, in Etruria.5 Gli Etruschi infatti hanno almeno in parte fatta propria la tecnica militare oplitica e hanno largamente imitato le armi ad essa connesse, schinieri compresi, all’interno della loro fiorente produzione di strumenti della guerra, ma a quanto pare non hanno importato, perché non disponibili sul mercato, armi greche. Per le pochissime rinvenute in Etruria occorre pensare a una circolazione alternativa, e assai più ristretta ed elitaria, di quella commerciale, basata essenzialmente sui doni e sulle prede belliche. Il che è tanto più vero nel caso in questione, sussistendo un forte scarto cronologico tra il momento in cui gli schinieri sono stati prodotti, in una città del mondo greco, probabilmente occidentale, e quello in cui in Etruria, quasi certamente a Orvieto, sono stati esposti e per così dire tesaurizzati in un santuario. Gli schinieri appartengono infatti al tipo C della classificazione di E. Kunze, fondata sui cospicui rinvenimenti di Olimpia, tipo che lo studioso ha datato al cinquantennio 560-510 a.C.6 Nella più recente e sofisticata classificazione di E. Jarva gli schinieri sono 4 Art. cit., pp. 1243-1247. Tra gli schinieri etruschi lisci si annovera anche una coppia ignorata dalla letteratura, conservata nel Museo di Arezzo, inv. 1107 con la provenienza dalla Castellina di Tarquinia (Professione restauro. Esperienze formative di restauro archeologico in territorio aretino, a cura di G. Poggesi e P. Zamarchi Grassi, Cortona, 1997, p. 163). 5 Limitate ad alcuni elmi corinzi, il cui numero è giudicato a ragione ‘sorprendentemente basso’ rispetto al volume complessivo degli scambi commerciali greco-etruschi (H. Pflug, in Antike Helme. Sammlung Lipperheide und andere Beständen des Antikenmuseums Berlin, Mainz, 1988, p. 103, con carta di distribuzione a fig. 48), oltre che circoscritto nel tempo (fine vii-metà vi sec. a.C.) e nello spazio (Vetulonia e Populonia). L’esemplare predato agli Etruschi nella battaglia navale di Cuma e quindi dedicato da Hieron a Olimpia appartiene a una variante magno-greca, attestata in Campania (H. Pflug, op. cit., pp. 85 sg., 97 sg., fig. 43 sg.), quello dall’isola del Giglio viene da una nave greca (M. Cristofani, Etruschi e altre genti nell’Italia preromana, Roma, 1996, p. 35). 6 E. Kunze, Beinschienen, in Olympische Forschungen, xxi, 1991, pp. 46-53, 104-107, nn. 21-40, tavv. 27-36.

un probabile cimelio della spedizione di aristodemo nel lazio

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stati assegnati allo ‘Spiral Group’, variante ‘a S’, datata al 550-525 a.C.7 La sacralizzazione in un santuario volsiniese è invece avvenuta dopo il 450 a.C., e quasi certamente, a giudicare dalla grafia e dal formulario, alla fine del v o nella prima metà del iv secolo a.C.8 Il primo periodo di esistenza degli schinieri è pertanto durato, tra mondo greco ed etrusco, almeno un secolo: un periodo abbastanza lungo perché siano potuti passare, in teoria, anche più volte di mano, nell’uno come nell’altro ambito, fino ad arrivare in possesso di Arnth Savpunias, senza che per noi gli eventuali passaggi siano in alcun modo conoscibili. Tuttavia qualcosa possiamo forse sapere riguardo a quello che è stato indubbiamente il momento-chiave di questa partiFig. 3. Schiniere destro dalla necropoli colare forma di circolazione di beni, ossia del Palazzone, disegno con l’iscrizione il passaggio da mani greche a mani etruetrusca di dedica (da Feruglio 1991). Perugia, Museo Archeologico. sche. Esso infatti presuppone una situazione di contatto ravvicinato, di tipo personale, tra i Greci che possedevano, e verosimilmente portavano su di sé, quel genere di arma, e gli Etruschi che ambivano a entrarne in possesso. Contatto di natura ostile (preda) o, più difficilmente, pacifica (dono). Ora situazioni di contatto tra Greci in possesso di armi di pregio ed Etruschi protesi ad acquisirle ce ne sono state certamente più d’una tra la seconda metà del vi e il v secolo. Ma intanto possiamo scartare quelle che si pongono in un’età in cui il tipo di schinieri in questione non era più prodotto, essendo per così dire passato di moda, cioè tutte le situazioni di età post-arcaica, dalle spedizioni siracusane contro l’Elba e la Corsica del 453-452 a.C. a quella etrusca contro Siracusa a fianco degli Ateniesi nel 414413 a.C., nonostante l’allettante notizia che gli Etruschi ebbero un successo per il quale fu dai loro alleati innalzato un trofeo.9 E possiamo anche scartare l’eventualità, in sé teoricamente possibile ma di fatto inverosimile, che gli schinieri siano entrati in Etruria con l’armamentario di eventuali mercenari greci, che ne avrebbero fatto dono a etruschi.10 Restano in lizza le non poche situazioni di contatto, e non solo di scontro, che si ebbero in età tardo-arcaica. Tra di esse ce n’è una che si impone con evidenza sopra tutte le altre, perché coinvolgente gli Etruschi dell’Etruria interna, invece che marittima, e 7 E. Jarva, Archaiologia on Archaic Greek Body Armour, Rovaniemi, 1995, pp. 93-95. 8 La grafia è infatti del tipo ‘regolarizzato, variante A’ di A. Maggiani (in Annali della Fondazione per il Museo Cl. Faina, iv, 1990, pp. 189 e 200 sgg.), propria delle tombe dipinte volsiniesi, con theta puntuato, pi trilineare, rho a grande occhiello curvilineo senza codolo, tau a traversa calante e tangente all’asta. 9 Thuc., vii, 53, 2: Cfr. M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Roma, 1975, p. 63 sg. 10 La presenza di mercenari greci in Etruria è postulata, invero con prudenza, da J. R. Jannot, Armement, tactique et société: reflexions sur l’exemple de l’Étrurie archaïque, in Arte militare e architettura nuragica: Nuragic architektur in its military, territorial and socio-economic context, a cura di B. Santillo Frizell, Stockholm, 1991, pp. 73-81, spec. p. 81. Non basta a provarla il danzatore armato Hermchrate dell’anfora a figure nere di Dresda, che è un artifex (G. Colonna, in Amico amici. Studi in onore di Gad Rausing, Lund, 1997, p. 206 sg.).

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perché connessa all’unico intervento militare di Greci in Italia centrale di cui si abbia notizia: la spedizione di Aristodemo nel Lazio, inviata da Cuma nel 504 a.C. in soccorso di Aricia assediata già da più di un anno dagli Etruschi comandati da Arrunte figlio di Porsenna.11 Certo sappiamo che gli assedianti furono sconfitti e Arrunte ucciso, ma non è fuor di luogo pensare che anche i Cumani abbiano subito perdite e che i loro caduti siano stati spogliati delle armi, prima che le sorti della battaglia volgessero al peggio per gli Etruschi: dopo tutto si ricordava che questi erano stati vinti quando erano prope iam victores.12 Inoltre sappiamo che i Cumani combatterono a fianco dei Tuscolani e degli Anziati, che erano accorsi prima di loro in aiuto di Aricia ed erano stati ridotti a mal partito dagli Etruschi,13 sicché si può pensare ad armi scambiate a titolo di dono tra ospiti ed alleati, o anche poste in palio come premio di agoni funerari, secondo il noto uso omerico rimasto ben vivo anche in piena età storica.14 Armi giunte successivamente in mani etrusche attraverso una mediazione latina (o romana, stanti le simpatie di quella città per Porsenna su cui insiste la tradizione annalistica). Va tenuto inoltre presente che gli etruschi fatti prigionieri ad Ariccia e imbarcati alla volta di Cuma furono liberati da Aristodemo ancor prima dell’arrivo per ottenerne l’appoggio nell’instaurare la tirannide, cosa che fecero costituendo il primo contingente della sua guardia del corpo.15 Verosimilmente molti di loro avranno in seguito fatto ritorno in patria, e non senza doni. Con buona probabilità è iniziata in uno dei modi sopra accennati quella circolazione che ha portato gli schinieri in questione fino a Volsinii, facendoli arrivare nelle mani di Arnth Savpunias. Senza escludere affatto che questi sia stato un diretto discendente del personaggio che aveva guadagnato quelle armi sul campo di battaglia di Ariccia, o le aveva ottenute per il tramite di amicizie romane, custodendole in seguito nella sua casa, rispettivamente come un trofeo o come parte del proprio armamentario domestico, o come le due cose insieme.16 Ma la successiva ‘esposizione’ pubblica in un santuario da parte di Arnth depone decisamente a favore della prima alternativa, facendo ritenere ancora viva al suo tempo la consapevolezza che si trattava di illustri spolia hostium, da ostentare forse in occasione di qualche successo ottenuto da lui stesso all’epoca del primato allora detenuto da Volsinii col suo Fanum Voltumnae in seno alla lega etrusca. In proposito va ribadito come sia praticamente certa la partecipazione di quella città alla spedizione di Porsenna nel Lazio, che si avvalse a quanto pare anche di un nutrito apporto di mercenari-alleati italici.17 Infatti il re di Chiusi appare, nella storia della fulminazione del mostro Olta narrata da Plinio seniore, nella veste di re dei Volsiniesi,18 ed è comunque evidente che egli non poteva scendere nella valle del Tevere, in direzione di Roma e del Lazio, congiungendosi alle forze dei ‘Peuceti’ menzionati da Callimaco, senza il consenso e l’appoggio dei Volsiniesi. Da Bomarzo, al confine meridionale del territorio di quella città, proviene significativamente una ciotola di bucchero dell’età di Porsenna iscritta col nome di un tale che si qualifica come ‘Roma11 Liv., ii, 14, 5-9; Dion. Hal., v, 36, 1-3; vii, 5 e 6. Cfr. A. Mele, Aristodemo, Cuma e il Lazio, in Etruria e Lazio arcaico, a cura di M. Cristofani, Roma, 1987, pp. 155-177, con bibl. Su Porsenna vedi la voce di M. Cristofani in Enciclopedia Virgiliana iv, 1988, p. 220 sg. 12 Liv., ii, 14, 7. 13 Dion. Hal., v, 36, 2. 14 Cfr. E. Polito, Motivi d’armi nelle tombe pestane, in Arch. Stor. per la Calabria e la Lucania, lxii, 1995, pp. 2745, spec. p. 43 sgg. Per il mondo greco: S. G. Gröschel, Waffenbesitze und Waffeneinsatz bei der Griechen, Frankfurt a. Main, 1989, p.47. 15 Dion. Hal., vii, 7, 1 e 4. Cfr. A. Mele, art. cit., p. 168 sg. 16 Rinvio in proposito al mio Un “trofeo” di Novio Fannio comandante sannita, in Studi di antichità in onore di G. Maetzke, ii, Roma, 1984, pp. 229-241. Cfr. anche Polito, art. cit. 17 Sulla questione vedi il mio I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La Salaria in età antica, atti del convegno di Ascoli Piceno-Offida-Rieti del 1997, a cura di E. Catani e G. Paci, Macerata, in stampa. 18 Plin., n.h., ii, 140. Cfr. quanto scrivevo in Annali della Fondazione per il Museo Cl. Faina, ii, 1985, pp. 117-120.

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no’ (Runate).19 Forse anche l’ipotetico avo di Arnth Savpunias ha fatto parte del gruppo dei ‘Romani’ di area volsiniese, ossia dei reduci, più o meno fortunati, delle imprese dei due Porsenna, passati attraverso il soggiorno nell’accogliente Vicus Tuscus, che secondo molti avrebbe preso nome proprio da loro.20 In conclusione esistono non certezze, che è vano ricercare in simili ricostruzioni, pur sempre speculative, ma buone probabilità che gli schinieri in questione siano un cimelio della spedizione di Aristodemo nel Lazio, connesso direttamente o indirettamente con quell’evento di primo piano per i rapporti greco-etruschi che fu la battaglia di Aricia. Ma l’interesse dei nostri schinieri non si arresta qui. Un altro dato che merita la massima attenzione è la loro dedica a Menerva, la Minerva etrusca. Per quanto ciò possa sorprendere, è questa la prima dedica di armi alla dea inequivocabilmente garantita dal suggello epigrafico, sia per l’Etruria che per la Roma repubblicana e il mondo umbro-sabellico.21 Essa è perfettamente coerente con l’iconografia della dea, che in area etrusco-italica predilige a partire dalla metà o poco dopo del vi sec. a.C., al di fuori dei contesti narrativi e mitologici, il tipo del Palladion e soprattutto della Promachos.22 Senza infatti alcun rapporto diretto con l’etimologia del teonimo, che è di origine latino-falisca e significa ‘l’intelligente’,23 con allusione alle capacità oracolari e al ruolo, assai evidente a Roma, di patrona delle arti e della metis, l’iconografia etrusca e italica opera una esplicita omologazione della dea alla omerica Pallade Athena, che guida al fianco di Ares le schiere alla guerra nella descrizione dello scudo di Achille (Il. xviii, 516519) e viene celebrata nell’inno attribuito al poeta come «la protettrice della rocca, terribile, che insieme con Ares ama le imprese guerresche e le città devastate, e il grido di guerra e le battaglie, e protegge l’esercito quando parte e quando ritorna».24 Funzioni tornate trionfalmente alla ribalta nell’Atene di Pisistrato, salito al potere all’ombra della dea armata.25 La dea era del resto venerata con l’epiclesi di Areia, sia ad Atene che a Platea, dove il tempio eretto in suo onore celebrò la definitiva vittoria sui Persiani del 479 a.C.,26 e in varie città d’Asia Minore. Ma anche a Delfi la locale Athena Pronaia, raffigurata nel suo tempio di fine vi secolo come una Promachos, riceveva offerte di armi, a cominciare dallo scudo d’oro inviato da Creso,27 tanto da potersi considerare la custode armata del santuario di Apollo: un ruolo del tutto evidente in occasione sia della minaccia persiana che dell’attacco di Brenno. E lo stesso accadeva perfino alla pacifica Athena Lindia, raffigurata seduta, il cui tempio fu ornato di scudi da Cleobulo e alla quale il fa19 cie 10916; Etruskische Texte, ed. minor, a cura di H. Rix e G. Meiser, ii, Tübingen, 1991, p. 84, AH 2.2 (con lettura inesatta e ingiustificato sospetto di falsità). Cfr. G. Colonna, in Gli Etruschi e Roma. Atti dell’incontro di studio in onore di Massimo Pallottino, Roma, 1979, Roma, 1981, p. 169 sg.: Idem, in Etruria e Lazio arcaico, cit., p. 59, nota 30. Si ricordi che la vicina Ocriculum è posta in relazione con la Roma di Tarquinio il Superbo da Flor. i, 1. 20 Ibidem, pp. 59-61, con bibl. 21 Cfr. G. Tagliamonte, Iscrizioni votive italiche su armi, «Scienze dell’antichità», 3-4, 1989-1990, pp. 514-534. 22 limc , ii, 1984, s.v. Menerva, pp. 1050-1074 (G. Colonna); M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, pp. 20 sg., 279 sgg.; E. Simon, Die Götter der Römer, München, 1990, pp. 168-181, con bibl.; M. Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Firenze, 1992, pp. 197-199. 23 H. Rix, in Gli Etruschi e Roma, cit. a nota 19, pp. 111-122 (storicamente improbabile l’origine umbra presa anch’essa in considerazione dallo studioso). 24 Hymn. Hom., xi, 1-4 (trad. F. Cassola: cfr. anche v, 8-11). Sul culto arcaico della dea cfr. F. Cassola, Inni omerici, Milano, 1975, ed. Oscar, 1994, p. 311 sg.; limc , ii, 1984, s.v. Athena, pp. 1016-1021 (P. Demargne); Der neue Pauly, ii, 1997, p. 161 sgg. (F. Graf). 25 Herod., i, 60. Cfr. C. Ampolo, in Etruria e Lazio arcaico, cit. a nota 11, p. 85 sg.; G. Ferrari Pinney, Pallas and Panathenaea, in Ancient Greek and Related Pottery, Copenhagen, 1988, pp. 465-477. 26 Paus., i, 28, 5 (Atene); ix, 4, 1 (Platea); Plut., Arist., 20 (id.). 27 Hermod., i, 92, 1. Sul simulacro: J. Marcadé, «bch», 79, 1955, p. 179 sgg.; limc , ii, pp. 971 e 1020, n. 132.

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Fig. 4. Corazza “sannitica” da Ruvo. Museo Nazionale di Napoli.

raone Amasi donò una preziosa corazza di lino operato con fili d’oro.28 In Occidente basti ricordare la tradizione delle armi dedicate nel tempio daunio di Athena Achea da Diomede e dai suoi compagni, non sappiamo se iscritte,29 o la corazza di iv secolo iniziale con dedica dorica ad Athena forse proveniente dalla Sicilia.30 Sempre in tema di corazze, non è certo casuale che sia la testa elmata della dea a campeggiare sulle corazze ‘sannitiche’ a tre dischi da Ruvo e dalla Tunisia31 (Fig. 4). Si è del resto autorevolmente supposto che la dea abbia esteso la sua tutela agli artigiani a cominciare dai fabbri produttori di armi e dai carpentieri produttori di carri da guerra.32 La connotazione guerriera della dea è sottolineata nell’Etruria tardo-arcaica dalla ferocia con cui essa strappa nella Gigantomachia il braccio destro di Akrathe per servirsene come di una clava,33 oppure semplicemente dall’attribuzione di armi per lei insolite, quali la spada e soprattutto la corazza. La dea indossa quest’arma, sconosciuta alla iconografia greca, come un sostituto dell’egida, talvolta mutuandone il gorgoneion.34 E lo indossa non solo nella Gigantomachia (Fig. 5), ma anche quando compare in atteggiamento statico, al fianco del prediletto Ercole, in raffigurazioni probabilmente aventi per tema l’apoteosi dell’eroe. È il caso delle due statue fittili policrome del santuario del Portonaccio a Veio, fungenti da donarii, la minore del 530, la maggiore, a 28 Scudi: Chron. Lind., xxiii, C 1-5. Corazza: Herod., iii, 47, 3. Per altri esempi di armi dedicate alla dea: M. L. Lazzarini, «Mem. Acc. Linc.», s. viii, xix, 2, 1976, p. 176 sgg., nn. 46, 145, 425, 462, 966, 989; Jarva, op. cit., a nota 7, p. 12, nota 27. Per quelle offerte alla dea in Elide: Theophr. apud Athen., xiii, 609 sgg. 29 Ps. Aristot., de mir. ausc., 109. Per le armi dal santuario di Athena a Francavilla Marittima: H. Pflug, Antike Helme, cit. a nota 5, p. 93 sg., nota 121. 30 J. L. Zimmermann, Collection de la Fondation Thétis. Développements de l’art grec de la préhistoire à Rome, Genève, 1987, pp. 69-71, n. 127; H. Pflug, Schutz und Zier, cat. della mostra, Basel, 1989, p. 15, fig. 10. 32 Cassola, op. cit. a nota 24, p. 312. 31 limc , ii, cit., p. 1053, n. 21. 33 limc , ii, cit., pp. 1069 e 1073. Cfr. Antichità dall’Umbria a Leningrado, Perugia, 1990, p. 245 sg., n. 4.8. 34 Ibidem, p. 173, nn. 39, 89, 173, 222, 235.

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Fig. 5. Particolare di anfora pontica con Menerva combattente (da L. Hannestad, The Paris Painter, 1974). Copenhagen, Museo Nazionale.

grandezza naturale, del 500 a.C.35 (Fig. 6). La corazza in tale contesto sembra alludere alla virtus che la dea condivide con Ercole, il quale pure volentieri in area centro-italica la indossa.36 Ancora nel pieno iv secolo un bronzetto votivo, probabilmenFig. 6. Particolare di statua te volsiniese, mostra la dea stante armata di Menerva da Veio (da Colonna 1987). di tutto punto, con addosso la vetusta coRoma, Museo di Villa Giulia. razza rigida a campana37 (Fig. 7). L’aspetto di Minerva come dea guerriera, in quanto protettrice delle città e dei cittadini in armi, sembra particolarmente esaltato nell’Etruria interna, gravitante sul Tevere. Del santuario del Portonaccio a Veio già si è detto: la dea corazzata assolveva qui a una funzione tutelare non solo nei confronti di Apollo, come a Delfi, e di Ercole, cioè dei suoi partners abituali, ma della stessa città, stante la collocazione liminare del santuario da lei abitato, quasi a ridosso delle mura.38 Anche a Falerii la dea era venerata 35 G. Colonna, Il maestro dell’Ercole e della Minerva. Nuova luce sull’attività dell’officina veiente, «OpRom», xvi, 1987 (Lectiones Boëthianae, vi), pp. 7-41. 36 E.g. a Satricum (P. S. Lulof, The ridge-pole statues from the late archaic temple at Satricum, Amsterdam, 1996, pp. 65-67, con confronti). 37 limc , ii, cit., p. 1059, n. 111. La dea indosserebbe la corazza anche nell’altorilievo posteriore del tempio del Belvedere a Orvieto (così A. Andrén, ripreso ibidem, p. 1060, n. 134: cfr. M. J. Strazzulla, in Atti del ii congresso internaz. etrusco, Firenze, 1985, ii, Roma, 1989, p. 977, tav. i b), ma quel poco che ne resta (Fig. 8) fa pensare a un’egida. 38 G. Colonna, Note preliminari sui culti del santuario di Portonaccio a Veio, «Scienze dell’antichità», 1, 1987, pp. 419-446.

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Fig. 8. Frammento di statua di Menerva dal tempio del Belvedere (cortesia G. Della Fina). Orvieto, Museo Claudio Faina.

Fig. 7. Bronzetto di Menerva (da limc ii). Cassel, Staatl. Kunstsammlungen.

a quanto pare in un santuario, quello dello Scasato ii, posto all’ingresso della città, nei pressi della porta principale, così come si verificò più tardi a Falerii Novi.39 Bronzetti di Minerva armata vengono da Bomarzo e da Orvieto, dove il culto della dea, assimilato a quello di Nortia, va forse localizzato a Vigna Grande, ossia sulla ‘acropoli’ della città.40 Ma i bronzetti votivi della dea promachos sono particolarmente frequenti soprattutto nella parte settentrionale dell’Etruria interna, tra la Val di Chiana e Perugia (Fig. 9). È da que-

Fig. 9. Menerva dai dintorni di Perugia (da Cristofani 1985). Parigi, Musée du Louvre.

39 G. Colonna, in La coroplastica templare etrusca fra il iv e il ii secolo a.C. (atti del xvi convegno di studi etruschi e italici, Orbetello, 1988), Firenze, 1992, pp. 101-113. Cfr. M. Cristofani, A. Coen, in riasa , s. iii, 14-15, 1991-1992, pp. 73-130. 40 G. Colonna, in Deliciae fictiles, Stockholm, 1993, pp. 147-152.

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sta regione, dove il fenomeno urbano è relativamente recente, che l’iconografia atticizzante della dea combattente si è propagata tra gli Umbri all’inizio del v secolo, dando alla locale e per noi oscura compagna di Marte41 le sembianze di una Athena. In conclusione la dedica degli schinieri del Palazzone a Menerva ha il valore di una preziosa conferma di quel che molti elementi, a cominciare dalla iconografia, facevano intuire, specialmente per l’Etruria interna, contribuendo a ridimensionare altri aspetti della dea, ctonii, iniziatici e oracolari, sui quali finora si è forse anche troppo insistito. [L’offerta di armi a Minerva e un probabile cimelio della spedizione di Aristodemo nel Lazio, in Pallade di Velletri: il mito, la fortuna (atti della giornata internazionale di studi, Velletri, 13 dicembre 1997), a cura di A. Germano, Roma, 1999, pp. 95-103]. 41 La Nerio dei Sabini, latinizzata in Bellona al tempo di Atta Clauso (vedi ora F. Zevi, «ArchCl», xlix, 1987, pp. 459-463).

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VOLSINII E LA VAL D I L AG O

I

l progetto di affrontare con sistematicità lo studio dell’antico territorio volsiniese è stato da me concepito ormai molti anni fa, dopo la metà degli anni ’70, quando ho assunto la presidenza del Centro di studi etruschi di Orvieto. Creato dal compianto Paolo Enrico Arias a latere, per così dire, della Fondazione per il Museo Claudio Faina, che attraversava allora un momento difficile, il Centro aveva promosso nel 1972 il memorabile convegno sugli Aspetti e problemi dell’Etruria interna, d’intesa con l’Istituto di Studi Etruschi e Italici di Firenze.1 Trasmessami dall’Arias la guida della gracile istituzione, quando essa peraltro andava perdendo la sua stessa ragion d’essere, stante l’avvenuta ripresa a pieno ritmo dell’attività scientifica della Fondazione Faina per merito di Giovanni Pugliese Carratelli, cercai di utilizzare lo strumento delle borse di studio, che era praticamente l’unico disponibile, indirizzando i giovani laureati che le avevano meritate alla definizione e alla ricognizione del vastissimo ager, appartenuto un tempo alla Volsinii etrusca.2 Mi portavo dietro, infatti, dagli anni della mia frequentazione di Bolsena e della Val di Lago in qualità di funzionario della Soprintendenza dell’Etruria meridionale, il desiderio di ricucire sul piano della consapevolezza storica la frantumazione di quella che era stata una millenaria unità territoriale, creata dagli Etruschi e in vario modo confermata, anche sul piano istituzionale, nel corso dell’età romana e medievale, attraverso il municipio di Volsinii (Bolsena) e la diocesi di Orvieto, cui si affiancò, al tempo del suo massimo fiorire, il comune della stessa città. Una situazione che, pur indebolita in età moderna dal distacco amministrativo di Orvieto rispetto al vetusto Patrimonio di San Pietro, è durata, come tutti sapete, fino al 1860, quando la città fu definitivamente annessa all’Umbria, nella cornice del Regno Sabaudo, mentre Bolsena e la Val di Lago restavano nello Stato pontificio, ristretto ormai nei confini di quella che dopo il 1870 sarà la ‘provincia di Roma’. Si cimentarono allora con la mia guida nella ricerca dell’antico territorio volsiniese, come ho detto, giovani studiosi che in seguito hanno preso strade diverse: Lorena Rosi Bonci, Giuseppe Cateni, Ferruccio Schippa e Pietro Tamburini. La loro eredità, chiamiamola così, è stata ripresa e continuata, col sussidio di altre leve giovanili, dalla collega Simonetta Stopponi, cui è affidato il futuro di questo progetto, che mi auguro possa giungere presto e felicemente a compimento. Intanto il Comitato di consulenza scientifica della Fondazione Faina, presieduto da Pugliese Carratelli e di cui mi onoro di far parte insieme a molti illustri colleghi, ha accolto nel programma dei convegni della Fondazione il tema del territorio, con grande soddisfazione mia e, amo pensare, di tutti coloro che credono in questo genere di ricerche, convinti della profonda interazione che da sempre è esistita tra ogni città e lo spazio geografico, storicamente dato, nel quale e per il quale essa vive, grande o modesto che sia. Come introduzione all’argomento che mi sono assunto di trattare, ossia il rapporto tra Volsinii e il contiguo distretto della Val di Lago, vorrei esporre, se mi è consentito, alcune novità, che concernono gli dei, i culti e le magistrature dei due successivi capo-

1 Aspetti e problemi dell’Etruria interna (atti dell’viii convegno nazionale di studi etruschi ed italici, Orvieto, 27-30 giugno 1972), Firenze, 1974. 2 Un cenno a tale programma a conclusione del mio La posizione di Bagnoregio nell’antico territorio volsiniese, in Doctor seraphicus, «Boll. d’informazioni del Centro di Studi Bonaventuriani», xxv, 1978, p. 52.

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luoghi del territorio volsiniese, Orvieto e Bolsena.3 La prima di esse scaturisce dal riesame dei manufatti bronzei, la cui provenienza da santuari volsiniesi è certificata, per così dire, da un’iscrizione di dedica, ovviamente in etrusco. La ricerca, mai tentata finora, è stata da me recentemente condotta a titolo di verifica archeologica della notizia di Metrodoro di Scepsi, riferita da Plinio Seniore (n.h., xxxiv, 34), circa le 2000 statue bronzee, che i Romani avrebbero asportato dalla città in occasione del sacco del 264 a.C.4 La più importante, per il suo pregio intrinseco, delle dediche ascrivibili alla categoria in questione è ovviamente quella rivolta a Menerva da un tal Arnth Savpunias. Apposta nel iv sec. a.C. in ambiente scrittorio orvietano su una coppia di pregiati schinieri di fattura greca, risalenti a età tardo-arcaica, è stata rinvenuta a Perugia nel secolo scorso in una tomba gentilizia ellenistica della necropoli del Palazzone.5 La più sicura, però, quanto a originaria pertinenza volsiniese, è la dedica di un piccolo candelabro di prima metà del v secolo, approdato nel 1970 dalla Svizzera sul mercato antiquario di New York, dove se ne sono perse le tracce.6 La dedica è rivolta a una divinità di cui non resta che il finale ‘articolato’ del nome, flesso al possessivo, seguito dalla determinazione locativa velsenalıi, ossia «nel (la città o nell’agro) di Velsena».7 Quel che del teonimo è leggibile con sicurezza sulle fotografie, secondo la lettura, rettificata indipendentemente da me e da Rix rispetto a quella del primo editore Cristofani, è [- - -]xıunaitla, ossia «del [- - -]xthuna».8 La lettera mal conservata precedente il theta, che in questa iscrizione è del tipo a croce di S. Andrea,9 è stata letta da Rix, seguendo Cristofani e l’apografo Cahn, come una u, ma in realtà potrebbe trattarsi anche di una l: lettura che immediatamente restituirebbe, tenuto conto della lacuna iniziale di due lettere postulata dallo stesso autore, il teonimo [Ve]lıunaita al possessivo. In alternativa, tenendo ferma la lettura u della lettera mal conservata, ma considerando mancanti tre lettere,10 si può proporre la restituzione [Vel]uıunaita, con u anaptittica, anticipante la vocale successiva, all’interno del gruppo liquida + muta, come nella coeva legenda Herecele invece di Hercle sul noto specchio vulcente da Atri (et Pi S. 1). In entrambe le alternative è evidente il rapporto col teonimo tràdito in latino come Voltumna / Vortumnus, teonimo che nell’unica attestazione etrusca giunta fino a noi, 3 Inaccettabili, sia detto a chiare note, sono i dubbi ancora recentemente avanzati da taluni sulla identificazione della Volsinii anteriore al 264 a.C. con Orvieto (C. Morelli, Volsinî etrusca e il problema orvietano, Roma, 1990; A. Morandi, Epigrafia di Bolsena etrusca, Roma, 1990, pp. 70 sg., 101 sgg.; A. Timperi, in A. Timperi, I. Berlingò, Bolsena e il suo lago, Roma, 1995, p. 18 sg.). 4 Volsinio capto. Sulle tracce dei donarii asportati da Orvieto nel 264 a.C., in Mélanges à la mémoire de André Magdelain, Paris, 1998, pp. 109-122. 5 A. E. Feruglio, Una coppia di schinieri con dedica a Minerva. Un esempio di trofeo?, «ArchCl», xli, 1991 (Miscellanea etrusca e italica in onore di M. Pallottino), pp. 1231-1251: G. Colonna, art. cit., pp. 111-116; Idem, L’offerta di armi a Minerva e un probabile cimelio della spedizione di Aristodemo nel Lazio, in Pallade di Velletri: il mito, la fortuna (atti della giornata internazionale di studi, Velletri, 13 dicembre 1997), Roma, 1999, pp. 95-103. Per un esempio di conservazione (funeraria) di schinieri tardo-arcaici entro una panoplia di iv secolo vedi ora S. Occhilupo, «Monum. Musei e Gall. Pontificie, Bollettino», xviii, 1998, p. 38 sg. 6 Art of Ancient Italy. Etruscans, Greeks and Romans. An exhibition organized in cooperation with Münzen und Medaillen AG, Basle, Switzerland, April 4-29, 1970, ed. H. A. Cahn, New York, Andre Emmerich Gallery Inc, p. 11, n. 17. 7 M. Cristofani, «StEtr», xlvii, 1979, pp. 159-161; G. Colonna, Gli Etruschi e Roma (Atti dell’incontro di studio in onore di M. Pallottino), Roma, 1981, p. 170, n. 7, nota 7 (con riconoscimento della qualità di dedica); G. Colonna, art. cit. a nota 4, p. 120, nota 46, n. 1, con altra bibl. Per la formula di dedica con ‘localizzazione’ della divinità: G. Colonna, Le iscrizioni votive etrusche, «Scienze dell’antichità», 3-4, 1989-1990, p. 881. 8 G. Colonna, Gli Etruschi e Roma, loc. cit.; Etruskische Texte. Editio minor, ed. H. Rix, ii, Tübingen, 1999, Vs 4.5 (citato di seguito et ). 9 Contestato a torto da Morandi, op. cit. a nota 3, p. 70 sg. Sull’origine e la distribuzione del segno, rinvio a quanto ho scritto in «StEtr», liv, 1986 (ma 1988), p. 146, fig. 13. 10 Come da me supposto (art. cit. a nota 7).

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sul celebre specchio di iv sec. a.C. da Tuscania con l’extispicio di Pava Tarchies e di Avle Tarchunus, compare nella forma Veltune,11 esito di un arcaico *Velıunaie > *Velıunie.12 Anni fa proprio qui a Orvieto Mauro Cristofani impostava la sua disamina del teonimo riconoscendo in esso, sulle orme di un classico lavoro di R. Pettazzoni, un epiteto di Tina, impiegato da solo, con un processo che C. De Simone ha chiamato di autonomizzazione.13 Il che calza perfettamente con il dato fornito dal candelabro di cui discorriamo, dedicato appunto a «(Tina), quello Velthuna, in Velsena». Le forme Velıuna e *Velıumna/Voltumna/Vortumnus sono evidentemente due varianti, non morfologiche ma fattuali, dello stesso teonimo, la prima delle quali sembra preferita in area tarquiniese (Veltune) e volsiniese (dedica già a New York), mentre la seconda rinvia a Veio. Qui infatti incontriamo l’unico esempio arcaico, non posteriore alla metà del vi secolo, della sincope fonetica -mena > -mna, offerto dalle due occorrenze dell’illustre gentilizio Tulumne / Tolumnius (et Ve 3.2, 3.6).14 Né può essere casuale che a Veio il gentilizio sia continuato epigraficamente in latino, nel iv-iii sec. a.C., come Tolonio(s), con l’adozione della variante *Tulune del gentilizio etrusco, che ha con Tulumne lo stesso rapporto intercorrente tra Veltune e *Velıumna.15 Il che fa ritenere che Vortumnus sia stato introdotto a Roma, nel Vicus Tuscus, da Veio piuttosto che da Volsinii, e che più tardi la variante veiente-romana del suo nome sia stata estesa dagli annalisti anche al dio del celebre fanum presso Volsinii.16 Il candelabro di cui si discorre, se si accoglie l’integrazione testuale da me proposta, proviene, come giacitura originaria, appunto dal santuario di Voltumna ricordato da Livio, di cui costituisce il primo e finora unico cimelio giunto fino a noi, dal forte valore simbolico. Esso infatti contribuisce a connotare il dio come un essere infero, banchettante nelle oscure profondità dell’Averno come la coppia di Ade e Persefone raffigurata sul fondo della tomba Golini i, assisa presso la mensa alla luce di due giganteschi candelabri.17 Non è tuttavia da pensare che gli scavatori di frodo, cui si deve la scoperta del bronzo, in seguito immesso nel giro del mercato antiquario internazionale, abbiano inconsapevolmente messo le mani sui depositi votivi del santuario politicamente più rile11 G. Colonna, Società e cultura a Volsinii, «AnnMuseoFaina», ii, 1985, p. 112, nota 48; M. Torelli, in Studia Tarquiniensia, Roma, 1988, p. 111 sg. 12 Per la scrittura -nie > -ne, indice di pronuncia palatale di /n/, v: C. De Simone, «aion Ling», 11, 1989, p. 202 sgg. 13 M. Cristofani, Voltumna. Vertumnus, «AnnMuseoFaina», ii, 1985, pp. 75-88; C. De Simone, in Les Étrusques, les plus religieux des hommes (Actes du colloque international, Paris, 1992), Paris, 1997, p. 188. 14 Testimonianza di cui sfugge la portata sia a Cristofani (art. cit. a nota 13) che a De Simone (art. cit. a nota 12), nonostante i miei richiami di cui alla nota seguente. Con la conseguenza che Cristofani è costretto, contro tutta l’evidenza, a postulare un arrivo del signum Vortumni al Vicus Tuscus nel 264 a.C. (art. cit., p. 82). Per le varianti presenti nei teonimi un caso esemplare è quello del dio che è chiamato Tec(e) a Cortona (sul Putto Graziani e sull’Arringatore) e Tecum(e) o Tecum(na) sul Fegato. Anche i poleonimi mostrano varietà dovute alle formanti: basti ricordare che, accanto a Velsena, è attestato (sulle monete!) il nome Velsu. 15 G. Colonna, art. e loc. citt. a nota 11. Il motivo della scelta va probabilmnte ricercato nella volontà di prendere le distanze, nella Veio ormai romana, da un personaggio negativo quale era considerato il re Lars Tolumnius, uccisore degli ambasciatori romani. Cfr. quel che sarebbe accaduto a Roma nei confronti del nome di Tarquinio il Superbo, secondo Fest., p. 496 L., s. Tarquitias scalas. Cfr. anche le coppie di gentilizi Tarch(u)nas (Caere) e Tarchumenaia (Chiusi, gen.), Tequnas (Orvieto) e Tecumnal (Chiusi, gen.), Tethunas (Orvieto) e Tetuminas (Chiusi), ecc. 16 G. Colonna, in Etruria e Lazio arcaico (Atti dell’incontro di studio, Roma 1986), ed. M. Cristofani, Roma, 1987, p. 62. Poco importa che da Veio sarebbe venuto a Roma l’auriga Ratumenna (M. Cristofani, op. cit., p. 68): il fatto notevole è che solo nell’onomastica di Veio incontriamo in età arcaica la formante -mna. Notevole è anche il trovare nei Fasti consolari già nel 461 a.C. un Volumnius, di sicura origine etrusca (< *Velimna) (C. Ampolo, in Gli Etruschi e Roma, cit., p. 61, nota 48), mentre l’annalistica ricorda ancora prima una Volumnia, moglie di Coriolano. 17 S. Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milano, ed. ital., 1985, p. 284, n. 32.

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Fig. 1.

vante del territorio volsiniese, e forse di tutta l’Etruria. Assai più credibile è che il candelabro provenga dal corredo di qualche tomba a camera di una delle città confinanti, che è lecito supporre abbiano partecipato al saccheggio del 264 a.C. in qualità di alleate dei Romani, dopo aver contribuito ai pesanti oneri della guerra. Depongono in tal senso i già ricordati schinieri dedicati a Minerva in un santuario volsiniese, rinvenuti in una tomba di Perugia, e il candelabro dedicato al dio Lur® Larta, anch’esso in un santuario volsiniese, rinvenuto in una tomba della falisca Corchiano.18 Un’altra novità cui intendo brevemente accennare concerne i magistrati volsiniesi e le loro competenze, sia a Orvieto che a Bolsena. All’argomento non mi risulta sia stata portata la dovuta attenzione, a parte il caso dei veri e propri cursus honorum della già citata tomba Golini i.19 A muovere le acque è venuta la scoperta, qualche anno fa, di un frammento di anfora vinaria recante sul corpo a grandi lettere un titulus pictus in vernice rossa (Fig. 1).20 La scoperta è avvenuta lontano da Orvieto, sul litorale ceretano, alla Castellina del Marangone, ma si sa che le anfore vinarie erano fatte per viaggiare, anche 18 G. Colonna, art. cit. a nota 4, pp. 117-120. All’indomani del convegno la Dott.ssa Adriana Emiliozzi mi ha informato, con grande cortesia, di avere appreso da fonte degna di fede che il candelabro proviene dalla collezione dei conti Brenciaglia di Capodimonte e che, secondo quanto appurato a suo tempo dal maestro Umberto Pannucci, noto studioso locale oggi defunto, sarebbe stato rinvenuto nella zona del lago di Mezzano. Se il dato di provenienza è attendibile, come non vi è ragione di dubitare, siamo ricondotti anche in questo caso a una località esterna al territorio volsiniese, anche se ad esso prossima, spettante al territorio di Vulci (vedi infra). Oltre a Perugia e Falerii, anche Vulci avrebbe pertanto preso parte alla guerra e alla distruzione di Volsinii. 19 R. Lambrechts, Essai sur les magistratures des républiques étrusques, Bruxelles-Rome, 1959, pp. 52-54. Da ultimo H. Rix, in Studi di antichità in onore di G. Maetzke, ii, Roma, 1984, pp. 457-464. Menzione del solo zilacato degli etera si ha nella tomba dipinta degli Hescana (A. Maggiani, art. cit. a nota 22, p. 120) e sul cippo di tipo volsiniese da Orvieto Vs 1.205 («Larth Zertnas nello zilacato degli etera [è morto]»), databile negli ultimi decenni di vita della città. 20 G. Colonna, Anfora vinaria con iscrizione etrusca dalla Castellina del Marangone, «Arch Class», xlvii, 1995, pp. 261-266.

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all’epoca degli Etruschi. Vi si legge il nome, in caso zero, di un personaggio dal gentilizio inconfondibilmente volsiniese, Flere, e di un secondo personaggio dal gentilizio Veluske, finora noto solo a Vetulonia ma nella variante Feluske, con f- iniziale invece di v-, ossia con la stessa differenza che intercorre tra il nome di Volsinii, Velsna, e quello della principale città dell’Etruria padana, Felsna. L’ortografia dell’iscrizione, con k invece di c dinanzi alla e, e anche la mancanza nel nominativo dei gentilizi della -s finale, sono tratti settentrionali, che a Orvieto non sorprendono troppo, non essendo infrequenti nelle iscrizioni di iv-iii secolo a.C., stanti gli stretti rapporti degli artigiani locali con l’ambiente chiusino, dal pittore della tomba Golini i al pittore vascolare di Settecamini.21 L’iscrizione non menziona, ovviamente, i produttori del vino contenuto nell’anfora,22 trattandosi di personaggi senza alcun rapporto di parentela tra loro, ma i magistrati eponimi della città, i cui nomi assolvono alla funzione di datare ad annum il vino dell’anfora, garantendone l’invecchiamento.23 Abbiamo dunque la menzione di una coppia magistratuale non accompagnata dal titolo della carica, che era certamente lo zilacato, implicito nella funzione eponimica della scritta, peraltro risultante solo dal contesto situazionale e non dalla flessione dei nomi della coppia al locativo (come avviene per es. nella tomba dell’Orco I di Tarquinia: et Ta 5.2). Il caso non è isolato, benché non sia stato preso in considerazione dagli studi, anche recenti e recentissimi, sulle magistrature etrusche, basati più sui nomi delle cariche che non sui magistrati, designati o meno in quanto tali, come pure sarebbe stato opportuno fare.24 Con questa procedura si è infatti rinunciato a utilizzare una non trascurabile parte della documentazione disponibile, in cui la funzione eponimica si intreccia in larga e spesso inestricabile misura con quella commemorativa. Basti citare le iscrizioni fiesolane relative ai termini pubblici della città, in cui è costante la menzione in caso zero di una coppia (et Fs 8. 1, 4, 5) o anche di un singolo magistrato (et Fs 8. 2, 3), che evidentemente è il responsabile a tutti gli effetti dell’operazione, oltre a essere colui che col suo nome l’ha datata.25 Ad essi si è ora aggiunta la splendida iscrizione musiva dal bagno di Musarna con i nomi di un Alethna e di un Hulchnie, evidentemente i magistrati locali che hanno realizzato quell’opera pubblica, forse a loro spese.26 A Bolsena si possono ascrivere a questa categoria di iscrizioni due lapidi, di cronologia relativamente alta, anch’esse pertinenti a quanto pare a opere compiute dalla città, nel contesto sia urbano che sepolcrale. Una di esse menziona un Havrenie, appartenente a una delle gentes più antiche della città, presente a Bolsena già prima del 264 a.C.,27 e di nuovo un Flere, come già faceva l’iscrizione dell’anfora vinaria dalla Castellina del Marangone, autori di qualcosa di numerabile o di misurabile (ecn: cea(l)c: v[- - -], ossia «questi trenta v[- - -]»), che forse ha a che fare con la sfera funeraria (hinıie).28 L’altra pietra menziona un He21 Bibl. in G. Colonna, art. cit., p. 264. 22 Come nel caso dell’anfora greco-italica dai dintorni di Orvieto, che reca graffita sulla spalla la bilingue M. Lab(e)ri(us) / zerina, su cui E. Benelli, in ree , 1993, n. 43. 23 Un altro esempio è dato dall’anfora tarquiniese cie 10153 (G. Colonna, art. cit., p. 264, fig. 3). 24 Da ultimo A. Maggiani, Appunti sulle magistrature etrusche, «StEtr», lxii, 1996 (ma 1998), pp. 95-138. 25 G. Colonna, Il lessico istituzionale etrusco e la fornazione della città (specialmente in Emilia Romagna), in La formazione della città preromana in Emilia Romagna (atti del convegno di Bologna-Marzabotto, 1985), Imola, 1988, pp. 17-19. Su questo e gli altri esempi che seguono mi sono già soffermato nel mio Epigrafi etrusche e latine a confronto, in Atti dell’xi congresso internazionale di epigrafia greca e latina, Roma 1997, Roma, 1999, in stampa. 26 et At 5. 1-2. Cfr. G. Colonna, art. cit. a nota 25, con bibl. 27 Come prova la tomba gentilizia rinvenuta da D. Golini nel 1856, ricchissima di bronzi molti dei quali iscritti (cie 10818-10831; A. Morandi, op. cit. a nota 3, p. 49 sg.; F. Buranelli, M. Sannibale, «Monumenti Musei e Gallerie Pontificie, Bollettino», xviii, 1998, pp. 289-303, nn. 128-142, con bibl.). 28 et Vs 4.15; A. Morandi, ibidem, p. 96 sg., n. 33.

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Fig. 2.

scnas e un Uclnas, questi appartenente alla gens volsiniese da cui sono venuti a Roma gli Ogulnii,29 i quali hanno fatto qualcosa forse in rapporto con l’approvvigionamento idrico della città.30 Il discorso può essere allargato, ma con un crescente margine di ipoteticità, alle sigle di due o tre lettere scolpite in direzione sinistrorsa sulle facce di taglio dei blocchi delle mura di Bolsena (mentre quelle di testa hanno solo un monogramma, di norma t), specialmente nel tratto lasciato in vista dalla Soprintendenza all’angolo SE della cerchia, laddove la strada moderna entra nell’area della città antica (Figg. 2-3).31 Ritorna qui due volte la sigla fle, certamente relativa al gentilizio Flere portato, come si è visto, da due magistrati volsiniesi, a circa un secolo di distanza l’uno dall’altro. Ricorre inoltre una volta la sigla fr in legatura, da sciogliere anch’essa verosimilmente in f(le)r(es), e due volte la sigla f, che rimanda allo stesso gentilizio. Pure due volte compare la sigla se, da sciogliere certamente in se(ies),32 essendo i Seii una delle grandi famiglie volsiniesi. Una volta ciascuna ricorrono le sigle ec, riferibile al noto gentilizio volsiniese Ecnate; vl, da

29 Nonostante i dubbi di M. Torelli, «DialArch», iii, 1969, p. 287, nota 17 (cfr. F.-H Massa-Pairault, Recherches sur l’art et l’artisanat étrusco-italiques à l’époque hellénistique, Roma, 1985, pp. 84, 86). 30 et Vs 0.23; A. Morandi, ibidem, p. 94 sg., n. 32; G. Colonna, art. cit. a nota 20, p. 265, nota 20 (dove leggi ıi invece di qi). 31 Da ultimi A. Morandi, ibidem, pp. 56-59, figg. 24-28; P. Tamburini, Un museo e il suo territorio. Il museo territoriale del Lago di Bolsena, i , dalle origini al periodo etrusco, Bolsena, 1998, pp. 96-100, figg. 178-182. Il rilievo parziale a Fig. 2, più fedele di quello edito da R. Bloch (Fig. 3) (cfr. P. Tamburini, op. cit., fig. 180), si deve alla mia allieva Barbara Belelli Marchesini, che sta per pubblicare un libro sulla tecnica edilizia dell’Etruria meridionale. Esso rispecchia la situazione attuale del muro, mancante di numerosi blocchi delle due assise più alte. 32 Una volta sul tratto di muro in questione, una seconda su un concio erratico (A. Morandi, ibidem, fig. 28).

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Fig. 3.

sciogliere verosimilmente in v(e)l(usces), ca (cazlanies?), nuz (nuzrnas), ta (tatnas). La collocazione capovolta di vl e se, nonché l’originario sconfinamento su un blocco rispettivamente soprastante e sottostante, diverso da quello dell’attuale sistemazione, di una delle occorrenze di fle e di quella di vl, accertano che i blocchi di questo tratto delle mura sono almeno in parte di reimpiego. Il che significa che provengono da una o più strutture in opera quadrata smontate in occasione della costruzione delle mura (che si data a quanto pare nel primo quarto del ii secolo a.C., a oltre un sessantennio dal primo impianto della nuova città, ma quando la necessità delle mura era stata perentoriamente ribadita dalla guerra annibalica).33 Si può pertanto azzardare l’ipotesi che le sigle in questione all’origine, cioè nelle strutture smontate per costruire le mura, abbiano servito a datare o le strutture stesse o piuttosto l’estrazione dei blocchi in esse posti in opera da cave pubbliche, a cura di magistrati e in anni diversi, con una ratio che ci sfugge. Qualcosa di nuovo si può dire anche a proposito dei doni votivi del maggiore santuario della nuova Volsinii, il santuario del Pozzarello. Questi annoverano una serie di undici bronzetti di buona fattura, ristudiati recentemente da M. Bentz,34 che sono tra i più 33 Cfr. P. Tamburini, op. cit., p. 100. 34 Etruskische Votivbronzen des Hellenismus, Firenze, 1992, pp. 39-45, nn. 1-11, figg. 27-37, tav. vii sg. Ad essi si affiancano sette bronzetti di fattura più o meno schematica (nn. 12-18), in parte riprodotti in P. Tamburini, op. cit., p. 105, fig. 197. Tutto il complesso dei donari del Pozzarello è stato recentemente riconsiderato da Valeria Acconcia nella sua tesi di laurea presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’, relatore la collega Gilda Bartoloni.

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interessanti rinvenuti nell’Etruria ellenistica. Provenienti alcuni dallo scavo Gabrici del 1904 e altri da scavi abusivi degli anni precedenti, il cui prodotto confluì in parte anch’esso, tramite la collezione Prospero Sarti, dispersa nel 1906, nel Museo Archeologico di Firenze, raffigurano tutti il tipo del ragazzo ammantato, nell’atteggiamento del Sofocle lateranense. Il pezzo più notevole dell’intera serie è tuttavia quello, proveniente anch’esso da scavi abusivi, già nella collezione Arturo De Sanctis Mangelli,35 acquistato nel 1929 dal Museo d’Arte dell’Università di Princeton negli u.s.a. (Fig. 4).36 Il bronzetto, alto cm 34,60, ossia più del doppio degli altri, è l’unico a essere calzato e dotato di bulla, e anche l’unico che segua lo schema recenziore, ma sempre tardo-classico, della statua-ritratto di Eschine, con la mano sinistra portata dietro la schiena. La statuetta, che già il primo editore, L. Pollak, collegò col deposito votivo in possesso del Sarti, di cui sembra ignorare la provenienza dal Pozzarello,37 è stata datata recentemente al i secolo a.C., anzi ‘agli ultimi anni della repubblica’.38 In realtà nulla autorizza una datazione così bassa, in specie se consideriamo l’insieme dei bronzetti restituiti dal santuario, datati anche troppo prudentemente dal Bentz alla seconda metà del ii, inizio i sec. a.C., rispetto ai quali la statuetta di Princeton ha il valore di una ‘testa di serie’. Un confronto solo stilistico per il panneggio, senza uscire da Bolsena, è offerto dall’antefissa coi Thuluter del complesso Saulini,39 che si tende oggi a far risalire fino al 180-170 a.C.,40 mentre la testa è stata avvicinata, specie nella capigliatura, al notissimo Putto Graziani, datato oggi concordemente non dopo la metà del secolo.41 Ancora più antico è il bustino bronzeo di adulto, a poco meno della metà del vero (è alto cm 14,5), dalla collezione Sarti, recentemente ripulito dalla Soprintendenza di Firenze (Fig. 5),42 che il Bentz, ingannato dalle incrostazioni, accostava al ritratto di Pompeo43 e che invece presenta tratti ancora di tradizione ‘medio-italica’, evocanti addirittura l’Arringatore, ossia un’opera a mio av-

35 Collezione A. De Sanctis Mangelli. Antichità in vendita all’Excelsior-Hotel, Roma. 26-28 marzo 1923, a cura di L. Pollak, p. 38, n. 244, tav. iii (da cui la Fig. 4). 36 G. M. A. Hanfmann, An Etruscan Bronze, in Record of the Museum of Historic Art, Princeton University, ii, 1943, pp. 4-11, figg. 1-4; E. Richardson, The Types of Hellenistic Votive Bronzes from Central Italy, «Eius virtutis studiosi». Classical and Postclassical Studies in Memory of Frank Edward Brown (1908-1988), Hannover-London, 1993, pp. 281-301, spec. p. 293 sg., fig. 17, con bibl. La data dell’acquisto si desume dal n. di inventario, 29.188 (ibidem, p. 300, nota 75). 37 Seguito dall’Hanfmann, che scrive: «it is a pity that his location [del delposito Sarti] is unknown, for thus the exact provenance of the bronze boy in Princeton is uncertain» (p. 4). Eppure la provenienza era stata rivendicata da E. Gàbrici nella ‘nota’ finale del suo saggio sul Pozzarello («MonAntLinc», xvi, 1906, col. 239 sg.). A disinformare aveva contribuito il direttore del museo americano, che in una nota editoriale all’articolo dell’Hanfmann aveva scritto di avere appreso dal Pollak a Roma, in occasione dell’acquisto del bronzo, che esso proveniva dal Museo Kircheriano, che se ne sarebbe disfatto, con altri tesori, alla vigilia dell’ingresso delle truppe italiane in Roma. L’equivoco è nato dallo scambio del bronzo in questione con altri della collezione De Sanctis Mangelli, ai quali il Pollak dà a ragione quella provenienza, sia nel catalogo della collezione che nelle sue memorie (L. Pollak, Römische Memorien, a cura di M. Merkel Gurdan, Roma, 1994, p. 131). Apprendiamo da queste ultime che il bronzo di Princeton fu dapprima in possesso di Evan Gorga, che lo riacquistò alla vendita del 1923 per poi cederlo a sua volta al museo americano, forse poco prima del sequestro giudiziario subito nel luglio 1929 (M. Sannibale, Le armi della collezione Gorga al Museo Nazionale Romano, Roma, 1998, p. 12). La notizia è interessante, perché autorizza il sospetto che anche altri materiali del Pozzarello siano finiti nella sterminata collezione raccolta dal Gorga soprattutto a partire dal 1899. 38 Richardson, art. e loc. citt. Il Pollak la poneva nel ii sec. a.C., l’Hanfmann tra la fine del ii e l’inizio del i sec. a.C. 39 Da ultimo G. Colonna, in Les Étrusques, les plus réligieux des hommes, cit. a nota 13, pp. 167-170, fig. 1. 40 F. H. Massa-Pairault, La cité des Étrusques, Paris, 1996, p. 228 sg. 41 Al primo quarto risale Massa-Pairault, op. cit., p. 225. L’Hanfmann pensava a un prodotto della stessa bottega del bronzo di Princeton (op. cit., p. 10). 42 Devo la foto riprodotta alla cortesia di V. Acconcia. 43 Op. cit., p. 45 (la pretesa anastolé è inesistente).

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viso databile nel primo quarto del ii secolo.44 I bronzi del Pozzarello appartengono insomma alla fioritura della nuova Volsinii che si verificò all’indomani della guerra annibalica, tra il 200 e il 150 a.C., e che fu tale da indurre i costruttori della via Cassia a includere nel tracciato della via consolare l’attraversamento della città. Il che comportò una ‘deviazione’ non indifferente, con una difficile discesa nella Val di Lago e una non meno faticosa risalita a monte della città, che potevano facilmente essere evitate ‘tirando dritto’ da Montefiascone in direzione di Monterado e BaFig. 4. gnoregio. Venendo infine al tema più vasto del rapporto esistente tra Orvieto e la Val di Lago, in età ovviamente anteriore alla traslazione del capoluogo da Orvieto a Bolsena dopo il 264 a.C., che di quel rapporto è stata la manifestazione finale e più clamorosa, devo dire che, tutto sommato, l’impostazione da me data al problema negli anni ’7045 44 G. Colonna, Il posto dell’Arringatore nell’arte etrusca di età ellenistica, «StEtr», lvi, 1989-1990 (ma 1991), pp. 99-119. Si osservi la lieve torsione laterale della testa, il collo sfinato, le forti pieghe tra la bocca e il naso, il dettato dei capelli culminante nel caratteristico aggetto a gronda sulla fronte. 45 Principalmente con le mie Ricerche sull’Etruria interna volsiniese, «StEtr», xli, 1973, pp. 45-72.

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sembra resistere al progresso delle ricerche, di cui uno dei protagonisti, Pietro Tamburini, ci ha dato una recentissima e agile sintesi.46 La definizione di uno stato territoriale volsiniese, includente le sponde settentrionale, orientale e in parte meridionale del lago, incluse le isole, non è anteriore alla fine del vi secolo a.C. e trova la sua necessaria premessa nella elaborazione di una ‘provincia culturale’ volsiniese, che ha luogo nel corso del vii secolo, con apporti esterni provenienti in particolare dal distretto ferentano-falisco. Questa ‘provincia’ ha i suoi poli insediamentali: 1. nella Civita di Arlena (la Turona degli autori della Carta archeologica), ultima erede del villaggio villanoviano del Gran Carro, posta all’imbocco dell’antichissimo itinerario trasversale collegante la Val di Lago con Castellonchio e la valle del Tevere; 2-3. nei due più modesti abitati, assai vicini tra loro, di Bolsena-Castello e di Barano, sorti all’imbocco del più diretto itinerario tra il lago e la rupe di Orvieto;47 4. nella Civita di Grotte di Castro, che è il polo di gran lunga più importante di tutti, situato sull’itinerario, tangenziale da nord al lago, che collegava Orvieto, via Castelgiorgio (Case Perazza),48 con Vulci e il mare, dominando nel contempo l’incrocio con l’itinerario più diretto per chi si recava da Tarquinia e anche da Vulci verso Chiusi e l’Etruria settentrionale interna. La Civita di Grotte, incredibilmente dimenticata dopo la sua ‘scoperta’ da parte di Domenico Golini nel 185049 e le preziose osservazioni di Adolfo Cozza, che vi praticò saggi di scavo nel 1883, accoglie nelle sue vaste necropoli manifestazioni di architettura funeraria che sono tra le più rilevanti che ci abbia lasciato l’Etruria,50 senza confronto con quelle note ad Orvieto, dove il ricorso alla tecnica della costruzione in opera quadrata ne ha fortemente condizionato gli sviluppi. Grazie alle ricerche di Tamburini e agli scavi della Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale sappiamo oggi che il centro ha avuto la sua massima fioritura non nel v-iv secolo, come ritenevo, suggestionato dalla menzione da parte di Cozza della presenza nei corredi di ceramiche attiche a figure, ma tra la fine del vii e quella del vi secolo,51 con una notevole ripresa nel iv. È una vicenda simile non a quella di Bisenzio, che conosce un precoce apogeo nell’viii e vii secolo, senza ulteriori riprese, ma a quella di altri e più lontani centri ‘medi’ dell’Etruria meridionale interna, da Castro, Poggio Buco e Sovana a Tuscania e Acquarossa-Ferento.52 46 Op. cit. a nota 30, pp. 67-117. 47 Passante per le località Fattoraccio e Lauscello, note per le tombe di iv-iii sec. a.C. (P. Bruschetti, Castel Giorgio. Il territorio dell’Alfina tra Orvieto e Bolsena, Perugia, 1999, spec. pp. 30-36). 48 P. Bruschetti, op. cit., p. 36. 49 In realtà una prima segnalazione delle sue necropoli si trova nella xxii edizione, apparsa a Milano nel 1835, di quel predecessore del Baedecker che è G. Vallardi, Itinerario d’Italia, o sia descrizione di cxxxvi viaggi per le strade più frequentate. Ivi, nella descrizione del viaggio ciii, da Acquapendente a Roma, si legge (p. 246): «Sulle colline di tufo presso S. Lorenzo alle Grotte si osservano di tratto in tratto alcune caverne naturali nei massi tufacei ed alcune grotte artificiali, le quali servono di rifugio ai pastori ed ai contadini, e di ripostigli a’ lor strumenti rusticali. Forse da principio si saranno formate queste grotte, a fine di scavarne la pozzolana. Ma ora in varie di esse si sono disseppelliti vasi ed utensili etruschi di bronzo e di terra». 50 G. Colonna, Il contributo dell’antica Carta Archeologica alla conoscenza dell’Etruria meridionale, «Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma», vi, 1974, pp. 27-29; P. Tamburini, La Civita di Grotte di Castro, «AnnMuseoFaina», ii, 1985, pp. 182-206: A. Timperi, in A. Timperi, I. Berlingò, Bolsena e il suo lago, Roma, 1994, pp. 73-94; A. Naso, Architetture dipinte, Roma, 1996, pp. 275-286 (sepolcreto in loc. Pianezze), P. Tamburini, op. cit. a nota 30, pp. 68-72; P. Tamburini, La ricerca archeologica nel terrirorio volsiniese occidentale, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (Atti dell’incontro di studio, Tarquinia, 1996), Firenze, 1999, pp. 106-108. 51 Vedi l’oinochoe etrusco-corinzia da me esaminata e fotografata nel 1964, proveniente dal sepolcreto in loc. Campolungo (G. Colonna, art. cit., p. 29; Tamburini, art. cit., p. 201). 52 G. Colonna, Città e territorio nell’Etruria meridionale nel v secolo, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au v e siècle av. J.C. (Actes de la table ronde, Rome, 1987), Roma, 1990, pp. 16-21.

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La cultura architettonica di Grotte di Castro, bene esemplificata dalla necropoli in loc. Pianezze, ha punti di contatto con quella di Vulci, ma, come rivela tra l’altro l’assenza delle tombe a cassone di tipo vulcente, ne resta sostanzialmente distinta. Va rilevato che essa ci offre la testimonianza più settentrionale del tipo di tomba, di origine cerite, a tre celle affacciate su un vestibolo trasversale, così come del tipo di tomba ad architettura ‘dipinta’, indagato esemplarmente da A. Naso,53 e di quello con loculi parietali, di ascendenza falisca.54 Assai ragionevole appare, con queste premesse, la localizzazione a Grotte, invece che a Orvieto, della principale officina di ceramica subgeometrica del ‘gruppo Bolsena’.55 Dopo la battuta d’arresto del v secolo, il centro è assai precocemente revitalizzato nel secolo successivo, quando sembra rientrare tra quelli dell’agro orvietano che divengono sede di piccoli potentati aristocratici, come Porano, Torre San Severo, Bagnoregio e Bolsena-Castello, con caratteri tuttavia di più accentuata autonomia.56 Filtrano attraverso di esso esperienze architettoniche vulcenti, echeggiate nelle necropoli prossime a Orvieto, come quella in loc. la Capretta esplorata dal Minto57 e nella stessa Porano, nonché nella pur lontana Perugia, dove tombe come quella dei Volumni sono difficilmente comprensibili senza la mediazione, per così dire, di Grotte di Castro. Ma arrivano anche, come in età arcaica, modelli dall’Etruria meridionale tiberina, ben esemplati dalla tomba con colonna interna in comune di S. Lorenzo Nuovo, ispirata alle tombe di Bomarzo e dell’agro falisco.58 Il declassamento nel v secolo della Civita di Grotte a centro minore dell’agro volsiniese è coerente con la sorte allora riservata alla Civita di Arlena, a Bolsena-Castello e a Barano. È tentante porre in relazione questa crisi, che coincide con quello che vediamo accadere nel territorio chiusino per opera del ‘tiranno’ Porsenna, a danno di centri come Poggio Civitate, con la stretta ‘alleanza’ o federazione orvietano-chiusina, adombrata dalla tradizione pliniana su Porsenna ‘re dei Volsiniesi’.59 La risposta di Vulci a questa annessione di Grotte, per lo meno di fatto, allo stato volsiniese fu, come insegnano recenti ricerche della Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale, la fondazione del piccolo oppidum di Poggio Evangelista, in posizione strategicamente dominante sulla via verso il lago di Mezzano e il capoluogo.60 Si trattò essenzialmente di un santuario di confine, ben fornito di annessi per la conservazione di derrate alimentari – il magazzino dei pithoi – e fortificato. Tra i pochi doni votivi eccelle una testa femminile in terracotta di impronta ancora tardo-arcaica (Fig. 6),61 che ricorda la Dea di Taranto, nonché una delle più antiche serie di antefisse chiusine a testa femminile.62 La stessa funzione fu probabilmente assolta, sul versante volsi53 A. Naso, op. cit. a nota 47. 54 Presente anche ad Acquapendente (P. Tamburini, art. cit. a nota 47, p. 203; fig. 29). Invece una peculiarità locale sono le fosse scavate non solo sulle banchine, quando ci sono, ma anche nel pavimento delle camere. 55 Sostenuta a più riprese da P. Tamburini. 56 È forse a tale riassetto del territorio che si accompagnò l’emergere a livello istituzionale di tuıina, o pagi, come nel caso ben noto di Cortona, testimoniato per Volsinii dalla dedica a Selvans Tular(i)a fatta verso il 300 a.C. in un santuario evidentemente paganico da un Avle Havrnas e da un tuıina detto semplicemente apana, ossia ‘patrio’ (G. Colonna, Le iscrizioni votive etrusche, cit. a nota 7, p. 887 sg., nota 66). Considerato il gentilizio del personaggio associato nella dedica (cfr. nota 27), il tuıina in questione sarà stato quello di Bolsena-Castello. 57 G. Colonna, art. cit. a nota 11, p. 122. 58 G. Colonna, «Ricerche archeologiche», cit. a nota 47, p. 56, nota 129. 59 G. Colonna, art. cit. a nota 11, p. 118 sgg. 60 I. Berlingò in A. Timperi, I. Berlingò, op. cit. a nota 3, pp. 135-138; Eadem in Comune di Pitigliano. Museo Civico Archeologico, ed. M. Quagliuolo, Montepulciano, 1995, pp. 162-169; P. Tamburini, op. cit. a nota 30, p. 91 sg. 61 I. Berlingò, art. cit. in Quagliuolo, Pitigliano, p. 164, fig. 3 sg. 62 A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-italic Temples, Lund-Leipzig, 1940, p. 255 sg., i: 3-5, tav. 86, n. 304 sg.

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Fig. 6.

niese, dal santuario rurale, con eventuale annesso castello, sfruttante anche qui una formidabile posizione strategica, di Monte Landro, sopra S. Lorenzo Nuovo, da dove proviene una tegola di gronda dipinta di v secolo, di un tipo noto soltanto a Orvieto.63 Resta l’interrogativo circa il nome antico della Civita di Grotte di Castro. Il Gamurrini, chiosando il testo di Adolfo Cozza relativo al sito, si chiese se esso corrispondesse a Salpinum.64 L’assoluta preminenza su tutti gli altri insediamenti del territorio volsiniese, la sua condizione di unico centro ‘medio’ di quel territorio, paragonabile a quello che è stata Bisenzio sulla sponda occidentale del lago, ne fanno indubbiamente il miglior candidato all’identificazione con la città dei Salpinates, che, secondo la tradizione annalistica, nel 392 a.C. avrebbero recato il loro aiuto ai Volsiniesi attaccati da Roma dopo la presa di Veio e il conflitto coi Falisci.65 Più di questo, purtroppo, non è possibile dire, senza il sussidio di nuove scoperte, soprattutto epigrafiche. Bibliografia Sulle iscrizioni di cui alle note 27 e 29 vedi ora A. Maggiani, «StEtr», lxxvi, 2010-2013 (2014), pp. 183-198, sul santuario di cui a nota 63 A. M., E. Pellegrini, «AnnMuseoFaina», xix, 2012, pp. 485-496. [Volsinii e la Val di Lago, «AnnMuseoFaina», vi, 1999 (atti del convegno Volsinii e il suo territorio, Orvieto, 1998), pp. 9-21]. 63 P. Tamburini, op. cit. a nota 30, p. 73, fig. 121. 64 G. F. Gamurrini, A. Cozza, A. Pasqui, R. Mengarelli, Carta archeologica d’Italia (1881-1897) («Forma Italiae», s. ii, 1), Firenze, 1972, p. 7, nota 2. 65 Liv., v, 31, 5; 32, 2, 4. Cfr. G. Colonna, art. cit. a nota 4, p. 115, nota 25 (a proposito del gentilizio Savpunias, che potrebbe avere relazione col poleonimo, tràdito anche come Sappinates). Altrimenti si dovrà pensare all’insediamento di Bolsena-Castello, di cui ignoriamo il nome precedente la rifondazione come Volsinii dopo il 264 a.C., o meno probabilmente, a quello di Bagnoregio.

FELSINA PRINCEPS E TRU R IAE *

C

’ est pour moi un grand honneur de prendre la parole dans cette prestigieuse Académie, et spécialement dans une occasion comme celle-ci. Je repense avec beaucoup d’émotion à ceux dont nous évoquons aujourd’hui la mémoire, Jacques Heurgon et Raymond Bloch: ils furent de grands savants, ils furent pour moi des amis très chers. Leur souvenir est pour moi indissociable de celui qui fut mon maître, Massimo Pallottino: c’est lui qui, alors que j’étais encore un tout jeune chercheur, m’a permis de les connaître, et de les apprécier. Malheuresement, en l’espace de deux ans, tous trois nous ont quittés. Ils étaient parmi les représentants les plus illustres des études étruscologiques, trois grands esprits qu’unissait une profonde amitié, d’une qualité rare, des esprits qui, par les ouvrages qu’ils ont écrits comme par les les nombreuses entreprises dont ils furent les initiateurs, ont, sur bien des points, posé les bases de notre savoir actuel. Ils l’ont fait chacun avec ses qualités propres. Heurgon a été un philologue qui avait le goût et le sens de l’histoire, un homme de la plus vaste culture – je devrais dire de la plus vaste humanitas – qui a su, mieux que nul autre, scruter les pages des auteurs latins pour faire revivre le riche passé étrusque dont la civilisation romaine a été tellement imprégnée. Bloch a été un animateur infatigable qui, par son activité de fouilleur en Italie, par ses recherches en matière d’histoire religieuse, par ses qualités d’enseignant a su attirer vers les études étrusques et italiques une cohorte de jeunes chercheurs de son pays. Pallottino a été le créateur de l’étruscologie moderne, un modèle quasiment idéal de savant, réunissant en lui de façon étonnante la compétence de l’archéologue, celle du linguiste et celle de l’historien. C’est vers eux trois que vont mes pensées, et ma reconnaissance pour ce que je leur dois, tout en sachant bien combien il est difficile pour leurs successeurs de se montrer à la hauteur de tels maîtres en poursuivant la voie qu’ils nous ont tracée. Les quelques remarques que je voudrais présenter ici concernent le passage de l’Histoire naturelle que Pline l’Ancien a consacré à Bologne (iii, 15, 115). Dans la discriptio Italiae qu’il nous offre au livre iii de son ouvrage, le polygraphe, lorsqu’il en vient à parler de l’octava regio, commence par en fixer avec concision le cadre géographique (determinatur Arimino, Pado, Appennino), puis, après avoir mentionné les établissements situés sur la côte, évoque, comme d’habitude, les coloniae et les oppida de l’intérieur. La première place dans sa liste revient à Felsina-Bologne: Bononia, Felsina vocitata tum cum princeps Etruriae esset. Phrase bien connue, qui a fait couler beaucoup d’encre, à laquelle nous devons une des deux seules attestations que nous ayons dans la littérature antique du nom de la Bologne étrusque.1 L’autre, on le sait, figure dans le passage où l’interpolateur de Servius, commentant la mention que Virgile fait d’Ocnus dans l’Enéide (x, 198), affirme que ce héros, selon certains, aurait étè le fondateur de Felsina-Bologne (in agro * J’ai exposè une première version de cette étude le 14 mai 1998, chez le Département d’Archéologie de l’Université de Bologne, où j’avais été invité par Giuseppe Sassatelli. Une autre dette de gratitude je l’ai envers Dominique Briquel, qui très amicalement s’est donné la peine de traduire le texte de ma communication. 1 Voir Ch. Hülsen, en re , s. v. Felsina (1909). Avec l’expression Felsinam oppidum Tite-Live (en xxxiii, 37, 4) se rapporte à la Bologne gauloise, soumise en 196 av. J.-Chr. (Ch. Peyre, La Cisalpine gauloise du iii e au i e siècle avant J.-Chr., Paris, 1979, pp. 37, 51). Citation fantaisiste de Pline est la Bononia … antea Felsina a principe Hetruriae d’un obscur et tardif C. Sempronius (P. Ducati, Storia di Bologna, i, I tempi antichi, Bologna, 1928, p. 188).

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Gallico Felsinam, quae nunc Bononia dicitur, condidisse).2 Il n’est pas totalement exclu que le commentateur procède ici de Pline; mais il paraît plus vraisemblable que tous deux se soient référés à une source commune, pour laquelle il est naturel de songer à Varron, qui a été largement utilisé, à trois siècles de distance, par les deux auteurs.3 Mon étude ne concernera pas le nom de Felsina, dont l’authenticité n’a pas à être mise en doute,4 mais sa qualification de princeps Etruriae. Tous les savants qui se sont occupés de la question, de Müller à Dennis, de Grenier à Ducati, de Mansuelli à Mazzarino – pour citer seulement les représentants les plus connus de cette thèse,5 mais je pourrais rappeler que je l’ai moi-même autrefois défendue6 – ont compris l’expression comme signifiant «capitale de l’Étrurie padane». Il suffit de rapporter ce qu’écrivait Grenier en 1912: «Bologne, sous le nom de Felsina, fut la capitale de l’Étrurie circumpadane».7 Cela montre que nous avons tous jusqu’ici considéré que l’affirmation de Pline traduisait un état de fait incontestable: la position de premier plan que la citè a occupée au sein de l’Étrurie padane, et que les prétentions de Mantoue à la supplanter dans ce rôle, apparues à date tardive, n’ont pas suffi à remettre en cause.8 Mais on peut se demander si Pline n’a pas des raisons bien précises de parler ici simplement d’Etruria, sans aucune référence au milieu padan. Il sait bien que l’Etruria correspond avant tout à la septima regio, qu’il a présentée à sa place dans sa description de l’Italie (iii, 5, 50), en relevant qu’elle a souvent changé de nomina (Umbri, Pelasgi, Tirreni/Tusci). Pour l’octava regio, le passage concernant Felsina est le seul où il mentionne les Étrusques, étant donné qu’il parle de Spina et d’Adria dans l’excursus suivant, qui concerne le Pô (iii, 16, 120), de Melpum à propos de l’undecima regio (iii, 17, 125) et de Mantoue à propos de la decima (iii, 19, 130). L’incise – puisqu’il s’agit justement d’un incise – sert, dans l’économie du texte de Pline, a nous informer que: 1. Bologne avait jadis porté le nom de Felsina; 2. ce nom était étrusque et, par conséquent, elle avait été une cité étrusque; 3. en tant que telle, elle avait même été princeps Etruriae. Cette notice de Pline suit donc une progression, au terme de laquelle le polygraphe nous fournit, d’une manière tout à fait inattendue, une information érudite, dont la concision rend assurément son texte quelque peu obscur, à première vue du moins. Mais je crois qu’il est incontestable que l’Étrurie à laquelle l’auteur se réfère ici est l’Étrurie proprement dite, c’est-à-dire la seule Étrurie dont il ait jusqu’alors parlé – ou à tout le moins que cette Étrurie propre soit impliquée dans son discours au même titre que l’Étrurie padane, qu’il ne nomme jamais dans son ouvrage. Felsina n’a jamais été la ‘capitale’ de toute l’Étrurie, et, bien plus, il n’a jamais existé une capitale de ce genre, concernant la nation. Il faut donc exclure que le terme princeps 2 Felsinam, il est vrai, est ici une correction de Cluverius pour le celsenam/celsinam que donnent les manuscrits. Mais la correction est tout à fait certaine. 3 Sur l’utilisation de Varron dans le livre iii de Pline voir D. Briquel, Les Pélasges en Italie: Recherches sur l’histoire de la légende, Rome, 1984, p. 7, note 18. 4 Il suffit de rappeler qu’il est indirectement confirmé par le gentilice Felsna/Felzna et ses variantes avec anaptyxe (Felsina/Felzana), qui est largement attesté en Étrurie, surtout entre Chiusi et Orvieto (13 occurrences dans Etruskische Texte. Editio minor, éd. H. Rix, Tübingen, 1991: voir la liste dans le volume i, p. 186). Le seul personnage assez connu est le Laris Felsnas, peut-être de Pérouse, qui dans son épitaphe se vante d’avoir été à Capoue et d’avoir été blessé (?) par les gens d’Hannibal (M. Sordi, «StEtr», lvi, 1989-1990, pp. 123-125). 5 K. O. Müller, W. Deecke, Die Etrusker, i, Stuttgart, 1877, p. 132; G. Dennis, The Cities and Necropolis of Etruria, 2e éd., London, 1878, p. 510; A. Grenier, Bologne villanovienne et étrusque (Bibl. Éc. Franç. 106), Paris, 1912, p. 187; Ducati, op. cit., p. 181; G. A. Mansuelli, «StEtr», xxv, 1957, p. 19; S. Mazzarino, Intorno alla tradizione su Felsina princeps Etruriae, en La città etrusca e italica preromana, Bologna, 1970, pp. 217-219. 6 En dernier lieu dans mon Etruschi e Umbri a nord del Po, en Gli Etruschi a nord del Po. Atti del convegno, Mantova, 1986, Mantova, 1989, p. 11 sq. 7 Op. et loc. cit. 8 S. Mazzarino, art. cit.; G. Colonna, art. cit. à la note 21, p. 13 sq.

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ait ici sa signification la plus fréquente, celle d’une primauté politique et institutionelle, ce qu’exprime le Thesaurus linguae Latinae par la précision cum respectu aestimationis vel potestatis (signification iii).9 Il convient également d’écarter la signification spatiale, cum respectu loci (signification ii), puisque Felsina n’a jamais fait partie de l’Étrurie proprement dite, pas même de ses marges, et donc n’a jamais pu être définie comme étant la première citè de l’Étrurie de la manière dont l’est Luna chez Pline, lorsqu’il présente cette cité comme primum Etruriae oppidum (iii, 5, 50), bien entendu pour ceux qui venaient du pays des Ligures et en rapport à la région augustéenne. Il ne reste par conséquent qu’à admettre le sens que le Thesaurus définit en ces termes: cum respectu temporis vel originis (signification i). Sens pour lequel il fournit quatre colonnes d’exemples, alors qu’il en donne dix pour le sens politique (iii) et une demicolonne pour le sens spatial (ii). Il s’agit donc d’un emploi relativement fréquent, qui représente plus d’un tiers des occurrences du mot et qui se poursuit jusqu’à nos jours dans la locution editio princeps, dépourvue de toute référence à la notion d’autorité. Si on adopte cette perspective herméneutique, Felsina a été pour Pline – et pour sa source probable, Varron –, la plus ancienne des cités étrusques, et cela sans qu’intervienne nulle distinction entre le pays en deçà et celui au delà des Appennins. Il en va de même chez Varron lorsqu’il définit Lavinium comme étant l’oppidum quod primum conditum in Latio stirpis Romanae (l.l. v, 144). Dans cet emploi, le terme princeps peut s’appliquer à des personnes, et désigner alors l’ancêtre fondateur. C’est le cas du princeps gentis, distinct du pater, lequel est proprement le chef vivant, je voudrais dire pro tempore, de la gens (même si ce dernier peut à son tour devenir le princeps d’une nouvelle gens, comme on le voit pour Atta Clausus par rapport aux Claudii). C’est à mon avis la même signification qu’il convient d’attribuer à l’expression deus Etruriae princeps, que Varron applique au dieu Vortumnus du Vicus Tuscus (l.l., v, 46), site pour lui remontant à l’époque de Romulus. L’explication la plus probable est en effet que ce dieu, dont le culte n’est attesté ailleurs qu’à Volsinies, sous le nom latinisé de Voltumna,10 a été considéré, à un moment donné, comme l’“ancêtre” des autres dieux d’Étrurie, plutôt qu’une divinité exerçant un pouvoir hiérarchique sur les autres.11 Dans l’esquisse de théogonie et cosmologie que Varron dessine dans son traité De la langue latine à propos des noms des dieux, principes dei sont Caelum et Terra, qui omnia ex genuerunt (l.l., v, 57, 60), tandis que principes (dei) in Latio, homologues de Vortumnus/Voltumna en Étrurie, sont Saturnus et Ops (l.l., v, 57), par la suite identifiés avec le couple de Iuppiter et Iuno, auquel seulement il attribue le statut de l’autorité (l’un est appelé avec Ennius pater rex, l’autre regina) (v, 65, 67). Lorsqu’on applique cette primauté cum respectu temporis vel originis à une cité, le sens ne peut être que celui d’une antériorité chronologique au sein d’un ensemble géoethnique déterminé. Ce qui ne prend de sens que si la primauté s’accompagne d’une signification généalogique par rapport au peuple qui occupe la région. Autrement dit, tout porte à croire que l’oppidum ou l’urbs qualifiée de princeps correspond à ce que les auteurs grecs, suivis par quelques-uns des latins, désignaient par le mot ÌËÙÚfiÔÏȘ. Ce

9 Schwind, Thes. L.L. x, 8-9, Leipzig, 1995-1996, s. v. princeps. 10 C’est le dieu, appelé Veltune, qui représente l’Etruria tota dans le mythe de fondation de l’haruspicine figuré sur le celébre miroir de Tuscania (face au jeune dieu Rath, équivalent d’Apollon, qui est le maître du site). Cfr. mes remarques en Scienze dell’antichità i, 1987, p. 434 sq., et celles de M. Torelli, en Studia Tarquiniensia, Roma, 1988, p. 111 sq. 11 En ce sens aussi G. Capdeville, dans son exposé au colloque de décembre 1998 à Orvieto, organisé par la Fondation pour le Musée C. Faina.

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terme a été en effet largement utilisé par les historiens et les géographes pour désigner non seulement la cité-mère d’une colonie ou la ‘capitale’ d’une région ou d’un peuple, mais aussi le site où ce peuple peut être considéré comme ayant pris naissance, au terme d’un processus plus ou moins long et complexe d’ethnogénèse – quand bien même ce site n’a été qu’un petit village. Étudiant le cas de la ‘métropole’ des Samnites, il y a quelque an, j’au pu rassembler la vaste documentation sur le sujet, fournie principalement par Strabon.12 On y trouve par exemple le cas de Mediolanum, dite ‘métropole’ des Insubres alors que la future Milan n’était encore qu’un village négligeable (v, 1, 6), et celui de Petelia, présentée comme ‘métropole’ des Lucaniens (vi, 1, 3) alors que le site s’est retrouvé en dehors de la Lucanie à époque historique, après que Consentia fut devenue à son tour la ‘métropole’ des Brettiens (vi, 1, 5). Dans le cas des Étrusques, les Anciens nous ont transmis le souvenir de deux ‘métropoles’. L’une d’entre elles est Pyrgi, que Servius définit comme telle tout court, sans autre précision (ad Aen., x, 184). On peut se demander s’il se réfère par là à la théorie autochtoniste sur l’origine des Étrusques, comme le pense Dominique Briquel,13 ou à la thèse de l’origine lydienne, comme je suis personellement porté à le croire.14 L’autre métropole, dont le cas nous intéresse plus directement ici, est Cortone, qu’Etienne de Byzance désigne précisément comme T˘ÚÚËÓ›·˜ ÌËÙÚfiÔÏȘ (s.v. KÚfiÙˆÓ), exactement comme Pline dit de Felsina qu’elle est (urbs) princeps Etruriae. Pour ce qui concerne Cortone, la justification d’une telle désignation est évidente. Hellanicos, et peut-être déjà Hécatée avant lui, avaient fait jouer à cette cité, qui n’était parmi les plus importantes de l’Étrurie, un rôle essentiel dans le processus d’ethnogénèse des Étrusques, dans le cadre de la théorie qui faisait d’eux les descendants des Pélasges. Ceux-ci, après leur débarquement à l’embouchure du fleuve spinétique, près de Spina, seraient passés de là à Cortone, cité à partir de laquelle, selon l’expression d’Hellanicos, ils auraient «colonisé la région aujourd’hui appelée Étrurie», se transformant en Étrusques (apud Dion. Hal., i, 28, 3). Si l’explication du terme princeps que je propose est fondée, le texte de Pline autorise à envisager, à propos de Felsina, l’existence d’une variante de la même légende dans laquelle la cité padane aurait assumé le rôle de Cortone – je devrais plutôt dire aurait usurpé le rôle de Cortone, étant donné l’évidente anteriorité et autorité de la version cortonéenne, vraisemblablement connue aussi par Hérodote.15 Dans cette variante les Pélasges, débarqués à Spina, ne seraient pas arrivés en Toscane en empruntant l’itinéraire malaisé de la Romagne et de l’Ombrie, qui les faisait passer par Ravenne, Verucchio et la haute vallée du Tibre.16 Ils auraient suivi la voie, beucoup plus directe et facile, qui, remontant le cours du Reno – le fleuve qui débouche tout près de Spina – passe pour Bologne et Marzabotto, avant d’atteindre Fiesole. Les ancêtres des Étrusques auraient donc en quelque sorte suivi, en la remontant, la principale voie de communication entre les deux versants de l’Appennin tosco-émilien, par laquelle étaient descendus les migrants et les colons venus en plusieurs vagues de l’Étrurie entre 900 et 500 av. J.-Chr., et par laquelle, dans son tronçon en aval, que l’on pouvait parcourir aussi en bateau, étaient reliées entre elles Felsina et Spina. Une liaison 12 Alla ricerca della “metropoli” dei Sanniti, en Identità e civiltà dei Sabini, Atti del xviii convegno di studi etruschi ed italici, Rieti-Magliano Sabina, 1993, Firenze, 1996, pp. 107-130. 13 Les Tyrrhènes, peuple des tours, Rome, 1993, pp. 201 sqq. 14 Art. cit. à la note 12, p. 109. 15 Briquel, op. cit., p. 101 sqq. 16 G. Colonna, Gli Etruschi della Ronagna, en Romagna protostorica. Atti del convegno di S. Giovanni in Galilea, 1985, Viserba di Rimini, 1987, pp. 37-44, spéc. p. 40.

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dont l’importance est soulignée par les rapports extrêmement étroits entre les deux villes, qui ont amené beaucoup de savants jusqu’à parler de Spina comme port de Felsina (ce qui est vrai dans la mesure où il n’implique pas des liens de dépendence).17 Dans cette variante de la légende pélasgique, dont le passage de Pline fait supposer l’existence, les nouveaux venus seraient devenus des Étrusques précisement à Felsina, et non à Cortone. C’est à partir de Felsina, la cité fondée par eux (ou fondée de nouveau par eux), qu’ils auraient ‘colonisé’, ainsi que le dit Hellanicos, aussi bien l’Étrurie propre que l’Étrurie padane. Ce qui laisse en quelque mesure entrevoir la légende d’Ocnus. lorqu’elle fait de ce héros le fondateur non seulement de Felsina, mais également de Mantoue, avant que son rôle ne fut transposé très tardivement à Tarchon, en renversant le rapport historique entre les deux villes.18 L’interpretation que je propose pour le passage de Pline relatif à Felsina peut recevoir un certain appui dans ce que Diodore de Sicile écrit à propos de l’Étrurie padane (xiv, 113, 1-2), lorsque la grande invasion gauloise des débuts du ive siècle av. J.-Chr. l’amène à aborder le cadre ethnographique de cette région, devenue alors d’actualité. Pour lui, les Étrusques qui l’habitaient auraient été les descendants soit des colons venus des douze cités de l’Étrurie, soit des Pélasges venus par l’Adriatique (en une migration que Diodore situe au temps du déluge de Deucalion, mais ce point n’importe pas à notre propos).19 Il semble implicite que l’historien se réfère dans la seconde alternative précisement à la théorie sous-jacente à l’affirmation de Pline sur Felsina princeps Etruriae. La transformation des Pélasges en Étrusques – car de ceux-ci il était question au moment de l’invasion gauloise – se serait faite à Felsina, avant qu’ils abordaient les Appennins, et Felsina, pour cette raison, pouvait se prévaloir du titre de ‘première’ cité d’Étrurie. Titre que Pline lui donne, suivant probablement Varron,20 dans une perspective qui ne tient aucun compte de l’absence de la cité dans la liste des Duodecim Populi. L’époque, à laquelle cette version modifiée de la métamorphose des Pélasges en Étrusques a pu être élaborée, se situe nécessairement au moment du floruit de la phase de la Certosa à Felsina et de l’heureuse symbiose qui s’est établie alors entre Spina et Felsina, c’est-à-dire entre 480 et 400 av. J.-Chr. Il est tentant de penser qu’elle a pris naissance dans le milieu ‘pélasgique’ et cultivé de Spina, qui était en rélation directe avec Delphes et Athènes. Il n’est pas impossible qu’il faille y voir une riposte à la théorie alternative de l’arrivée des ancêtres des Étrusques depuis la Lydie, qui se faisait par la mer Tyrrhénienne et non plus par l’Adriatique. C’est la théorie qui se manifeste avec Hérodote et dont les villes de Caeré et surtout de Tarquinia allaient rapidement s’emparer. Une cité comme Cortone, trop petite et periphérique par rapport à l’ensemble du monde étrusque, ne pouvait suffire à défendre la thèse de la ‘primauté’, implicite dans la légende de l’arrivée des Pélasges, et qui se relatait pas seulement à cette cité, mais à toute entière l’Étrurie tibérine et padane.21 D’où le recours à Felsina, cité encore plus 17 G. Colonna, Spina. Storia di una città tra Greci ed Etruschi, édd. F. Berti et P. G. Guzzo, Ferrara, 1993, p. 131 sqq. 18 Cfr. note 8. 19 Cfr. D. Briquel, op. cit., p. 55 sqq. 20 Qui acceptait, à ce qu’on peut déduire de Serv. auct., ad Aen. viii, 600, et de Isid. Etym. ix, 2, 74, la théorie de Hellanicos sur l’ascendence pélasgique des Étrusques (cfr. M. Pallottino, L’origine degli Etruschi, Roma, 1947, pp. 32, 37, 43, 50; D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques. Histoire de la doctrine dans l’Antiquité, Rome, 1991, p. 91). Pline à son tour montre dans son ouvrage d’être assez sensible aux problèmes de “changement de nom” des cités et des peuples, suivant l’exemple de Callimaque, auteur d’un traité sur les ktiseis des îles et des cités et sur leurs metonomasiai (F. Della Corte, en Aegyptus xxi, 1941, p. 278; P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, ii, Oxford, 1972, p. 1074, note 36); P. Poccetti, en Strabone e l’Italia antica, éd. G. Maddoli, 1988, p. 250 sqq. 21 G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, «ArchCl», xxxii, 1980 (1983), pp. 1-14, spéc. p. 6.

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ancienne que Cortone, illustre pour son passé villanovien, et douée de monuments presque aussi vénérables et prestigieux que les tumulus de Cortone, les ‘meloni’, que l’on a invoqué pour justifier l’implication de la ville dans la légende des Pélasges en Italie.22 Bologne pouvait en effet se vanter des gigantesques stèles orientalisantes de sa nécropole, auxquelles on peut ajouter des monuments non moins impressionants, comme les cippes-autels récemment decouverts à via Fondazza, eux aussi sans comparaison en Étrurie.23 Stèles et cippes, bien visibles tout autour de la ville, pouvaient bien supporter la prétension de Felsina à une primauté face au reste de l’Étrurie. Prétension qui bientôt, à cause des Gaulois, sera tout à fait mise à part et oubliée, sauf que dans l’érudition des antiquaires. [Felsina princeps Etruriae, «crai», 1999, pp. 285-292]. 22 D. Briquel, Les Pélasges, cit, p. 165 sqq. 23 G. Colonna, en «StEtr», lii, 1984 (1986), p. 53 sq.; J. Ortalli, G. Bermond Montanari, en «StEtr», liv, 1986 (1988), pp. 15-45.

IL PICENO E I PIC E NI 1. Premessa

L

a mostra, che ho l’onore di presentare a nome del Comitato Scientifico che l’ha progettata, ha avuto una gestazione piuttosto lunga. La prima idea fu concepita nella primavera del 1990 in seno all’équipe tecnico-scientifica – riprendo la terminologia burocratica ufficiale – che la Regione Marche aveva nominato “per promuovere”, come recita la legge regionale del 7 giugno 1988, “un programma di iniziative rivolte alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale che testimonia l’insediamento dei Piceni nelle Marche”. L’équipe, presieduta da Sabatino Moscati, aveva il suo animatore in Delia Lollini, allora Soprintendente archeologo delle Marche, e contava tra i suoi membri Giovanni Scichilone, Mauro Cristofani e chi scrive. Il modello cui si guardava erano ovviamente le mostre organizzate nel 1985, nella cornice dell’“Anno degli Etruschi”, dalla Regione Toscana, alcune delle quali premiate da un notevole successo sia di critica che di pubblico. Il modello però non era facilmente esportabile e la proposta, lanciata nel 1990 dal gruppo di studiosi che ho ricordato, sprovvista com’era di ogni concreto supporto logistico è caduta praticamente nel vuoto. Si arriva così alla primavera del 1997, quando l’idea ha ripreso quota, grazie al rinnovato impulso dato all’iniziativa dall’Assessore Gino Troli della Regione Marche, che ha cercato e ottenuto il diretto coinvolgimento della Regione Abruzzo ed una più precisa definizione dei mezzi e delle strutture organizzative disponibili. Il che è stato reso possibile dal Protocollo d’intenti stipulato il 17 gennaio di quell’anno, per iniziativa degli Assessori alla Cultura delle due Regioni interessate, Gino Troli, appunto, e Alberto La Barba, che ha poi lasciato gli oneri di questo progetto al nuovo Assessore Stefania Pezzopane, tra le rispettive Regioni Marche e Abruzzo, le sei Province più direttamente coinvolte e le due Soprintendenze Archeologiche regionali. Con tale Protocollo, mirato alla realizzazione del progetto chiamato da allora “Piceni, popolo d’Europa”, è stato istituito un apposito Comitato Scientifico, composto, oltre che dalla Lollini e da chi scrive, unici superstiti dell’équipe del 1990, anche da Lorenzo Braccesi, Aldo L. Prosdocimi e i Soprintendenti Anna Maria Bietti Sestieri e Giuliano De Marinis (ma purtroppo motivi di salute hanno poi impedito alla Lollini, con rincrescimento di tutti i colleghi, di partecipare ai lavori). Nelle annesse linee di programma il Protocollo ha espressamente previsto “l’allestimento di una grande mostra di rilevanza europea sulla civiltà Picena”, oltre a una serie di iniziative “di tipo territoriale, per valorizzare in maniera permanente le località di provenienza dei maggiori reperti della civiltà picena”. Con queste premesse, e con il fattivo appoggio del Centro per i Beni Culturali della Regione Marche, diretto da Mario Canti, coadiuvato da Raimondo Orsetti, il progetto della mostra ha preso corpo, ricevendo ulteriore e decisivo impulso, sul piano organizzativo, dall’affidamento del piano di fattibilità e delle funzioni di segreteria alla società Mæcenas di Roma, amministrata da Fausto M. Tortora. Grazie alla Mæcenas l’impresa della mostra ha potuto giovarsi del contributo, molto più che puramente operativo, di Luisa Franchi dell’Orto, che ha profuso in essa la sua ben nota esperienza nei confronti di simili iniziative, la sua speciale conoscenza di uomini e ambienti a cavallo tra Abruzzo e Marche e, in generale, la sua capacità di risolvere al meglio ogni genere di imprevisti. Oltre che dalla Franchi dell’Orto chi scrive è stato validamente aiutato, nelle funzioni

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di coordinatore che il Comitato Scientifico ha voluto affidargli, da un giovane studioso di provato valore quale è Gianluca Tagliamonte. Ma tutta l’iniziativa, sia della mostra che del catalogo, è stata contraddistinta dalla più stretta, amichevole e feconda collaborazione tra studiosi di estrazioni diverse, operanti tanto nelle Soprintendenze quanto nelle Università e anche fuori di esse. Vengo ora a precisare le coordinate spaziali e cronologiche della mostra. Il titolo “Piceni popolo d’Europa” vuol richiamare l’attenzione su un popolo, i Piceni, che è stato in realtà l’esponente privilegiato di una complessa realtà multietnica, dislocata sull’intero versante medio-adriatico della penisola. I Piceni della mostra sono, sotto questo profilo, altra cosa dagli Etruschi o dai Latini, cioè da formazioni etniche che in epoca storica appaiono notevolmente omogenee e compatte. Lo stesso nome dei Piceni, è bene rammentarlo, non corrisponde a quello col quale il popolo era noto, in un’epoca vicina o coincidente con quella cui si riferisce almeno l’ultima parte della mostra, a Greci e Romani. I primi infatti estendevano ad esso, come si dirà a suo luogo, il nome dei Peuceti di area apula, i secondi usavano il nome di Picentes e, per il paese, quello di ager Picentium (Cato, fr. 43 Peter), reso in greco con Pikentikè chóra (Polyb., ii, 21, 2 e 23, 1) o semplicemente Pikentiké (Strabo, v, 4, 2). Solo alla fine della Repubblica, negli scritti di Varrone, di Cicerone e di Cesare, l’aggettivo picenus, da tempo in uso con valore di ctetico, iniziò a designare il paese, il Picenum appunto. E da esso gli scrittori di lingua greca hanno tratto, a partire almeno dalle Vite di Plutarco, ossia dall’età di Traiano, l’etnico Pikenoí, rimasto tenacemente estraneo alla tradizione latina, che non conosce Piceni, ma solo e soltanto Picenti. Altra avvertenza. L’ambito geografico preso in considerazione non è ristretto alla regio v della divisione amministrativa augustea dell’Italia, designata, anche se non ufficialmente, col nome di Picenum (Fig. 1). La regione infatti si estendeva soltanto dall’Esìno a nord al Saline, o al Pescara, a sud, e in profondità dall’Adriatico al piede dei rilievi preappenninici e appenninici, che ne restavano del tutto esclusi. Il territorio così delimitato costituisce in realtà solo lo “zoccolo duro” del più vasto ambito preso in considerazione nella mostra, che abbraccia anche: 1. l’intero ager Gallicus, annesso da Augusto alla regio vi (Umbria) e, in piccola parte, alla viii (Aemilia), giungendo a nord fino al Marecchia; 2. il versante marchigiano dell’Appennino, annesso ugualmente alla regio vi ; 3. la fascia costiera abruzzese che va dal Pescara al Sinello e al promontorio di Punta Penna, annessa alla regio iv (Sabini et Samnium); 4. la dorsale degli altopiani aquilani delimitata a ovest dal corso dell’Aterno, ossia la parte dei Vestini al di qua del Gran Sasso da cui viene il Guerriero di Capestrano, annessa anch’essa da Augusto alla regio iv . Le ragioni di questo notevole allargamento dell’ambito spaziale tradizionalmente ascritto al Piceno, ma che già dal i-ii secolo d.C. tendeva a includere le zone 1 e 2 sopra enumerate, risiedono nel taglio cronologico e storico-culturale che si è dato alla mostra. Il periodo preso in esame va infatti dalla tarda età del Bronzo (xiv-xiii secolo a.C.) al 300 a.C. o, se si vuole, alla battaglia di Sentino (295 a.C.), la “battaglia delle nazioni” dell’Italia antica, che vide sul suolo dell’ager Gallicus la vittoria pressoché definitiva delle armi romane su Galli, Etruschi, Umbri e Sanniti, riuniti in un supremo sforzo comune nel corso della iii guerra sannitica. Tuttavia l’interesse primario della mostra è rivolto al periodo che vide prima la formazione e poi il massimo splendore della civiltà picena, tra l’viii e il v secolo a.C. Età complessivamente anteriore ai sommovimenti esterni e alle trasformazioni etniche endogene, che da un lato hanno portato i Galli a stanziarsi sulla costa marchigiana a nord di Ancona, dall’altro hanno fatto emergere le popolazioni di stirpe “sannitica” e di lingua osca, o assai prossima all’osco, nell’area abruzzese costiera e paracostiera. A cominciare dai Frentani e dai Carricini ma anche dai Marrucini e dai

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Fig. 1. Le regioni storiche dell’Italia unificata al tempo di Augusto.

Peligni, senza escludere i mal conosciuti Vestini e gli stessi Pretuzi, unici tra tutti questi popoli “nuovi” a essere compresi nel territorio della regio v (Fig. 2). La mostra che presentiamo non ha praticamente alcun precedente. Non si può infatti considerare tale la mostra “Antiche civiltà dell’Abruzzo”, di respiro ben più limitato, al-

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Fig. 2. I popoli della regio iv (Sabina et Samnium) (da A. La Regina).

lestita a Roma da Valerio Cianfarani nel 1969, che pure ebbe il grande merito di portare per la prima volta sotto gli occhi degli studiosi e dell’opinione pubblica l’archeologia del versante adriatico dell’Italia centrale, all’indomani delle scoperte di Campovalano. Il compito che ci si prefigge oggi è di illustrare in tutta la sua varietà e straordinaria ricchezza di manifestazioni il patrimonio di civiltà prodotto nell’intero arco dell’Italia medio-adriatica, da Rimini a Vasto, utilizzando il più possibile l’apporto di recenti e recentissime scoperte, come quelle, tanto per citarne alcune, delle necropoli di Numana, di Matelica e di Fossa nell’Aquilano (l’antica Aveia). Il ringraziamento del Comitato Scientifico e mio va a tutti coloro, Persone e Istituzioni, che hanno reso possibili tanto la mostra che il catalogo: dal Ministero della Cultura e dei Beni Ambientali alle Autorità Regionali, dalle Soprintendenze Archeologiche ai Musei Provinciali e Civici, dai funzionari delle Soprintendenze agli studiosi tutti, italiani e stranieri, che hanno dato il loro contributo per la riuscita dell’iniziativa. L’augurio è che dalla fatica comune possa riemergere anche solo una pagina della storia perduta di questa parte d’Italia. 2. I popoli del medio Adriatico La nostra informazione sui popoli che abitavano la fascia adriatica dell’Italia media procede da fonti di natura assai disparata, che è assolutamente necessario comparare con attenzione e rispetto, senza privilegiarne alcuna a priori, se si vuole arrivare a risultati duraturi. Al primo posto stanno, come sempre per i popoli la cui memoria storica non

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ci è giunta per tradizione diretta, i dati forniti, con bastante larghezza, da oltre due secoli di ricerca archeologica, a partire almeno da Annibale degli Abati Olivieri e Giuseppe Colucci. Dati che la mostra illustra adeguatamente e la cui interpretazione, affrontata da più autori e da diversi punti di vista, occupa gran parte del catalogo. Altri dati della massima importanza sono quelli epigrafici e linguistici, anch’essi trattati specificamente in altre parti del libro.1 Resta qui da considerare l’informazione che può venirci dalle fonti letterarie, sia greche2 che romane, forse in qualche caso, specie di queste ultime, veicolanti anche tradizioni locali. Le testimonianze greche iniziano a una quota cronologica assai più alta di quelle romane, ma obbediscono a un’ottica che resta a lungo costiera e insulare, da periplo. A nord degli Iapigi, e più precisamente dei Dauni, noti fin dal vii secolo a.C. in relazione alla saga adriatica di Diomede,3 i Greci non conoscono che Ombrikoí, cioè Umbri, fino al delta padano incluso. Qui, in paese umbro, sbarcano i Pelasgi di Ellanico e forse anche i Tirreni di Erodoto, nella loro migrazione dall’Egeo in Occidente. Coerente con questa rappresentazione è il racconto della «lunga marcia» degli Etruschi padani contro Cuma, datata con precisione tipicamente timaica al 524 a.C., giuntoci attraverso Dionigi di Alicarnasso (vii, 3-4), risalente nel suo nucleo originario a fonte cumana di v secolo a.C., mediata da Timeo e ancor prima da Filisto.4 Gli Etruschi si sarebbero mossi assieme a «Umbri, Dauni e molti degli altri barbari», penetrando in Campania, a quanto pare di capire, attraverso le valli del Fortore e del Calore (Fig. 3). Tra i «molti degli altri barbari» non precisati erano certamente gli abitatori del Piceno, sulla cui costa gli Etruschi avevano “fondato”, verosimilmente proprio in quella occasione, il santuario della dea Cupra, assimilato dai Greci a un Heraion.5 Più tardi, nella prima metà del iv secolo a.C., sappiamo che il periplo di Eudosso di Cnido menzionava come «vicini degli Ombrici, verso la Iapigia» il popolo dei Phelessaioi (in latino *Felessaei), il cui nome aveva incuriosito l’erudizione ellenistica.6 Abbandonata ormai la controversa identificazione coi Peligni, proposta all’inizio del secolo da M. Mayer, si può pensare a un etnico imparentato col noto antroponimo sabino Volesus, portato dal progenitore dei Valerii e reso in greco con Ouélesos.7 L’etnico andrà in tal caso riferito ai predecessori dei Pretuzi, tenendo presente che: 1. gli abitanti della valle del Vomano si autoqualificavano agli inizi del v secolo a.C. come Sabini (iscrizioni di Penna S. Andrea); 2. l’alternanza di /u-/ semivocale e di /f-/ è attestata nell’etrusco dalle coppie onomastiche del tipo Velsina/Felsina; 3. una mediazione di Etruschi padani nella trasmissione dell’etnico al greco è, alla luce della “fondazione” etrusca del santuario di Cupra, tutt’altro che inverosimile. Il periplo di Scilace di Carianda, risalente al tempo di Dario, ma a noi giunto dopo una lunga rielaborazione, conclusasi alla metà o poco dopo del iv secolo a.C., interpone tra gli Iapigi e gli Ombrici, al posto dei Felessei di Eudosso, il popolo dei Saunítai, nome che nella tradizione manoscritta appare corretto, in ossequio alla notoria collocazione campano-tirrenica dei Sanniti e nel contempo a ricordo di quella esclusivamente adriatica dei Dauni, in Daunítai. Il paraplo di due giorni e una notte è pari a quello del paese degli Ombrici, che termina con l’enclave etrusca di Spina, ignorando i Celti del1 Vacat. 2 Su cui si può leggere più avanti il contributo, diversamente impostato, di Lorenzo Braccesi e Benedetta Rossignoli. 3 Mimn., fr. 22 B, e più tardi Ibyc., fr. 38 B, in relazione alle isole Diomedee. 4 Mele 1987, 163-167. 5 Strabo, 5, 4, 2, forse da Timeo per l’errata attribuzione all’etrusco del nome della dea: tracce etrusche di età tardo-arcaica anche nella zona di Vasto, vedi Colonna 1993, 26-31. 6 Steph. Byz. s.v. 7 Plut., Numa 5, 2.

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Fig. 3. Il probabile itinerario della spedizione etrusca contro Cuma del 524 a.C. Sono anche indicati i santuari di Cupra, sicuri o ipotetici (da Colonna 1993).

l’ager Gallicus (come fa anche il periplo in versi del Pseudo-Scimno, ispirato a Teopompo). Nel paese degli Ombrici sono collocati sia la città di Ancona – a quanto pare ancora non colonizzata dai Siracusani, mentre Spina è già una pólis hellenís – sia un santuario di Diomede, che evidentemente interessava i naviganti greci più del santuario “etrusco” di Cupra. Nel complesso la situazione sembra essere quella degli anni iniziali del iv secolo a.C., quando ancora non si può parlare di una Gallica ora,8 mentre i Frentani, i 8 Plin., nat. hist., 3, 112.

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Marrucini, i Vestini e i Pretuzi tengono la costa dal Gargano fino all’Helvinum, il minuscolo torrente Acquarossa sfociante tra Grottammare e Cupramarittima,9 i Picenti la costa dall’Helvinum a Numana e al Conero. Una glossa penetrata nel testo di uno dei codici di Scilace menziona tra le “lingue” dei Saunítai i Peuketieîs, nei quali a partire dal Cluverio sono stati identificati i Picenti, omologati nel nome ai Peucezi della Iapigia, ben più familiari di loro al lettore greco. Questi Picenti/Peucezi del Piceno sono messi in relazione con Roma da Callimaco10 e da Clemente Alessandrino,11 in passi sui quali è stata riportata solo di recente l’attenzione,12 sottolineando che quei barbari vi appaiono come protagonisti non di una semplice aggressione o anche di una presa della città, come fu quella dei Galli, ma di un vero assedio. La relativa aneddotica, tesa a esaltare la virtus romana, echeggia chiaramente quella fiorita intorno all’unico memorabile assedio subito da Roma, l’assedio di Porsenna, con la differenza che Orazio Coclite è chiamato Gaio e Muzio Scevola è chiamato Postumo, prenomi banali che tradiscono sostanziale disinteresse, o ignoranza, verso i personaggi della saga romana. Tutto lascia credere che l’assedio in questione sia proprio quello di Porsenna, come credeva G. De Sanctis, con il posto degli Etruschi preso in blocco dai Picenti/Peucezi, loro alleati o piuttosto mercenari, in un’ottica adriatica e antietrusca che ben si attaglia anche in questo caso a uno storico come Filisto. Sulla questione si tornerà a proposito dei rapporti tra gli Etruschi e il Piceno, per i quali riveste comprensibilmente grande importanza. Nella riflessione etnografica greca del iv secolo a.C. è unanime, rispetto alla concezione arcaica di un litorale medio-adriatico totalmente umbro, l’attribuzione del residuo settore a nord del gomito del Conero agli Ombrici, devoti a Diomede, dei quali viene esaltata, come per gli Adriani e i contigui Veneti, la prosperità e finanche la tryphé, dipendente dalla collocazione costiera, dalla feracità del paese e dalla contiguità con gli Etruschi.13 L’attribuzione geografica è puntualmente ripresa, quattro secoli dopo, dalla discriptio augustea dell’Italia, che include nella regio vi , come frangia transappenninica e marittima dell’Umbria, invece che, come ci aspetteremmo, nella regio v , di cui è la naturale prosecuzione verso nord, il territorio che fino all’età di Cesare era stato l’ager Gallicus d’Italia. Con l’esclusione di Rimini e, rispetto al più vasto scenario degli Umbri dello Pseudo-Scilace, di Ancona, assegnata al Piceno, senza contare l’intera costa romagnola, annessa assieme a Rimini alla regio viii . In proposito è bene ricordare che per il territorio compreso tra l’Esìno e il Rubicone la denominazione ufficiale, prima di Augusto, è stata non ager Gallicus et picenus,14 ma esclusivamente ager Gallicus, con il capoluogo chiamato Sena Gallica e i coloni che si autodenominavano Galicos colonos.15 Ben presto tuttavia fu esteso discorsivamente ad esso, ma solo per distinguerlo dalla contigua Gallia cisalpina, l’aggettivo picenus, in un’accezione puramente geografica, priva di qualsiasi spessore storico o mitostorico. È così che per Polibio nel 232 a.C. «in Gallia i Romani divisero in lotti il territorio detto Picentino»,16 che Catone correttamente colloca cis Ariminum e ultra agrum Picentium.17 Alla fine dell’età giulio-claudia si arriverà a parlare di una annessione di fatto del Gallicum al Picenum,18 ma la successiva storia amministrativa mostra che il territorio, dall’età di Marco Aurelio costantemente chiamato Flaminia dalla via consolare che lo attraversava, fu unito dapprima all’Aemilia, quindi all’Umbria e poi all’Umbria et Picenum, per restare 9 Plin., nat. hist., 3, 110: cfr. Alfieri 1982, 204 sg., 217 sg. 10 aetia 4, fr. 106 sg. 11 strom. 4, 56, 3. 12 Colonna 1999. 13 Theopomp., apud Athen., 12, 526, d-f; Ps. Aristot., de mir. ausc. 80; Ps. Scymn. 366. 14 Così Peruzzi 1990, 16-20. 15 Morel 1998, 90, fig. 17. 16 Polyb., 2, 21, 7. 17 Cato, fr. 43 Peter. 18 Colum., 3, 3, 2.

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nel tardo sistema provinciale, a partire dall’età di Aureliano, stabilmente associato al solo Piceno,19 prefigurando così la composita realtà delle moderne Marche. Nel territorio tra l’Esìno e il Rubicone secondo Plinio i Galli erano stati preceduti non dai Piceni ma dagli Etruschi – verosimile allusione agli Etruschi di Rimini e di Verucchio20 – e questi dagli Umbri, in pieno accordo con la storiografia greca. Con gli Umbri siamo a un livello “stratigrafico” in parte coincidente con quello dei Picenti, il cui capoluogo era Ascoli, mentre sul litorale sorgeva il santuario, che possiamo definire nazionale, di Cupra. Prima di questi due popoli la regione medio-adriatica sarebbe stata abitata nella parte settentrionale dai Siculi, fondatori di Ancona e di Numana, scacciati secondo Filisto da Umbri e Pelasgi,21 e nella parte meridionale dai Liburni, che avevano occupato in particolare i litorali palmense (all’altezza di Porto San Giorgio),22 pretuzio e atriano, lasciando traccia di sé in età storica solo a Truentum. Ad essi possiamo affiancare la tradizione che faceva dei Peligni i discendenti di Illiri arrivati nella valle dell’Aterno col re Volsimo Lucullo,23 così come, nel Basso Adriatico, si attribuiva origine illirica alla grande etnia degli Iapigi. E possiamo affiancare all’oscuro logos delle origini peligne anche la tradizione erudita che, prima dei Picenti, ambientava nel Piceno l’ethnos pelasgico degli Asili, arrivato anch’esso dal mare.24 Una situazione pertanto complessa, pluristratificata, che ci riporta in linea generale alla tarda o finale età del Bronzo, con solitarie sopravvivenze in piena epoca storica. Una di queste, e certamente la più importante, è quella del gruppo etnico di ignoto nome che ci ha lasciato la stele di Novilara nell’agro di Fano e forse la stele di Rimini, la cui lingua resta non classificata mentre la scrittura appare direttamente modellata su quella dell’Etruria settentrionale, senza rapporto con la scrittura sud-picena.25 Alla luce delle considerazioni fatte si può ritenere, tenendo presente la localizzazione a nord dell’Esìno, che proprio il ricordo di consimili nuclei etnici allogeni abbia fatto pensare alla presenza di Pelasgi nella regione, in parallelo a quella degli Umbri, gens antiquissima Italiae,26 e in un orizzonte anteriore a quello dei Picenti. È infatti su questo scenario che si proietta l’etnogenesi del principale tra i popoli preromani della regione, il popolo dei Picenti, considerati anch’essi allogeni, ma fatti provenire dal “profondo” interno dell’Italia, dall’alta Sabina27 (Fig. 4). A questa tradizione, venata di memorie locali, è dedicato il contributo seguente di G. Tagliamonte. Qui importa rilevare che la dislocazione reciproca di Picenti e Pretuzi conferma la maggiore antichità dello stanziamento dei primi, dato che in epoca storica essi hanno perduto l’intero litorale ascolano a favore dei secondi, risaliti lungo la costa fino a raggiungere la foce dell’Helvinum, a poca distanza dal santuario di Cupra. D’altra parte una situazione di separatezza, e forse di conflittualità, tra i due popoli si intuisce, al di là della comune matrice sabina, dal comportamento diametralmente opposto tenuto nei confronti di Roma. Infatti i Picenti sono alleati della città, ormai egemone nell’Italia centrale, fin dal 299 a.C., mentre i Pretuzi sono allineati coi Sabini in un atteggiamento ostile, culminato nella guerra del 290 a.C. e nella conseguente totale annessione come cives sine suffragio. L’espansione di Roma verso l’Adriatico, non va dimenticato, puntò inizialmente non verso l’ager Gallicus ma verso il litorale pretuzio. Qui, forse già nel 289 a.C., venne fondata la prima colonia in vista dell’Adriatico, una colonia di diritto latino, 19 21 22 24 26

Thomsen 1947. 20 Colonna 1987, Cristofani 1996. Philist. apud Dion. Hal., 1, 22, 4-5; cfr. Colonna, in La Romagna 1985, 57 sg. Alfieri 1982, 214 sg. 23 Paul. Fest. p. 248 Lindsay. Sil. It., 8, 439-445; cfr. Briquel 1984, 83-86. 25 Vacat. Plin., nat. hist., 3, 112. 27 Colonna, in Identità e civiltà dei Sabini 1996.

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Fig. 4. Carta con l’indicazione dei tratturi Pescasseroli-Candela, Celano-Foggia, e la tratta L’Aquila - Popoli del tratturo L’Aquila-Foggia (da Colonna 1996).

Hatria, che prese nome appunto da quel mare (in una veste fonetica, conservataci dalle leggende monetali, che tradisce la mediazione etrusca con cui era arrivato a Roma il nome greco del mare superum, Adrías). E qui metteva capo la prima via publica collegante Roma con l’Adriatico, la via Caecilia, probabilmente del 284 a.C.,28 che scendeva al mare per la stessa valle del Vomano percorsa a suo tempo dai Sabini di Penna Sant’Andrea. 3. Gli Etruschi e il Piceno 3. 1. Il Piceno e il mondo etrusco e latino Il tema dei contatti e degli scambi tra gli Etruschi e il Piceno o, in una prospettiva storicamente più esatta, tra i due versanti dell’Italia centrale, il tirrenico e l’adriatico, è stato già più volte toccato nel corso del catalogo, né poteva essere altrimenti, stante la sua centralità per l’argomento della mostra. In questo capitolo si cercherà di approfon28 Guidobaldi c.s.

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dirlo, partendo da punti di osservazione diversi: l’etrusco e latino, il falisco-capenate, il piceno. Si sono menzionati i due versanti della penisola, con riferimento alla dorsale appenninica. In realtà il confine tra le due Italie, la tirrenica e l’adriatica, tendeva a coincidere in età preromana, a partire dall’età del Ferro, non con lo spartiacque geografico, ma con il corso del Tevere29 (Fig. 5) e, laddove il fiume piega bruscamente verso il mare, con la barriera dei monti che incombono sul Lazio interno, da Tivoli ad Anagni e alla valle del Liri. Il territorio che si trova alle spalle, per così dire, di questo confine apparteneva per intero a popolazioni di stirpe italica e di lingua osco-umbra, tra loro più o meno strettamente imparentate, anche sul piano della cultura, materiale e intellettuale, delle strutture sociali e delle forme economiche. Tra di esse quelli più estesi in profondità erano i Sabini, che dal gomito del Tevere arrivavano ai piedi del Gran Sasso, della Laga e dei Sibillini, e gli Umbri, che addirittura scavalcavano l’Appennino, assai meno impervio in corrispondenza del loro paese, spingendosi a nord di Fabriano e dell’Esìno fino al mare. È solo attraverso la mediazione sabina oppure umbra che i Piceni e gli altri abitanti della fascia collinare adriatica potevano allacciare rapporti con i popoli e le città del Tirreno. Già da questo primo giro d’orizzonte si comprende che la linea, su cui si fronteggiavano da un lato Etruschi, Falisci, Latini e Aurunci, dall’altro Umbri, Sabini, Equi, Ernici e Volsci, presentava la sua maggiore cesura tra il gomito del Tevere e i monti di Tivoli: una cesura che a stento risarciva, alquanto più a valle, il corso dell’Aniene. Qui, nel corridoio tra il Tevere e i monti Tiburtini, metteva capo la più antica via di comunicazione tra il litorale tirrenico e l’entroterra appenninico, la via Salaria, ricalcante un itinerario preistorico, legato alla pastorizia e alla transumanza, che nel iii secolo a.C. fu prolungato dai Romani fino all’Adriatico con la costruzione della via Cecilia.30 E qui si incanalarono i Sabini provenienti dal Reatino, “sabinizzando” Capena31 e, primi fra tutti gli Italici, entrando in contatto con Roma subito dopo la fondazione romulea della città. Così da divenire, com’è noto, una delle principali componenti del suo popolamento, protagonista tra le più attive della storia della città almeno per tutta l’età regia e la prima età repubblicana. La spinta sabina verso le pianure costiere e le saline della foce del Tevere è testimoniata archeologicamente nell’viii secolo dai sarcofagi a tronco d’albero di Roma e di Gabii e soprattutto dalle tombe a circolo, tipiche dell’area abruzzese e in particolare aquilana,32 che fanno la loro apparizione a Tivoli e, tra Roma e il mare, a Casale Massima.33 Nella stessa zona, alla Laurentina, un grande tumulo dell’iniziale vii secolo è delimitato da un largo canale, secondo una tipologia ben attestata a Numana,34 mentre il tumulo a macèra di pietre di Castel di Decima, che è il maggiore del Lazio, può ricordare per certi aspetti quello di Borgorose tra gli Equicoli.35 Bronzi piceni di vii e vi secolo, per lo più spettanti all’ornato femminile e quindi riferibili a scambi matrimoniali, vengono da Praeneste e, forse in parte come riflesso degli stretti rapporti tra le due città, da Caere.36 Tra questi ultimi v’è un disco-corazza a decorazione geometrica, conservato a Bruxelles, di un tipo documentato da Sirolo a Colfiorito, da Norcia a Bevagna.37 29 31 32 33 34 35 37

Colonna 1986. 30 Catani, Paci in La Salaria c.s. Colonna 1974. D’Ercole, Cairoli 1998, 17, 111 sg.: cfr. la carta di distribuzione, «StEtr», 54, 1986, 415, fig. 26. Colonna 1988, 452. Circolo delle Fibule e altri recenziori, su cui «StEtr», 58, 1992, 629 sgg. Colonna 1988, 465, 468. 36 Colonna 1992, 16-20. Colonna 1992, 20; Papi 1996a, 125.

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Fig. 5. I popoli dell’Italia centrale tirrenica e il corso del Tevere (da Colonna 1986).

Possiamo considerarlo una lontana anticipazione del fenomeno del mercenariato, di cui è documento il guerriero con disco-corazza, dipinto sulla nota lastra fittile di inizio v secolo da Ceri.38 38 Da ultimo Tagliamonte 1994, 61 sg.

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italia ante romanum imperium

Fig. 6. Carta di distribuzione delle spade lunghe di ferro tipo machaira (da Stary con modifiche).

La distribuzione dei dischi-corazza geometrici del tipo rinvenuto a Caere praticamente coincide con quella delle “sciabole” di ferro delle fasi picene iv B e v (Fig. 6), coeve alla lastra dipinta di Ceri, che arrivano sul Tirreno portate da mercenari o alleati di Etruschi e Latini, discesi seguendo le valli del Tevere e del Nera39 (Fig. 6). Il trovare ad Aleria associati nella stessa tomba 90 i dischi-corazza inornati del tipo di Ceri e le “sciabole” di ferro appena ricordate40 prova come meglio non si potrebbe che gli Etruschi di Caere hanno inviato nell’isola come “coloni” ex-mercenari piceni con le loro famiglie, assieme a sabini romanizzati sepolti senza armi, come il Klavtie di un graffito del 425 circa a.C.41 La cosa è tanto più interessante in quanto la presenza di Piceni all’assedio di Roma, come alleati o mercenari dell’etrusco Porsenna, si evince chiaramente dall’aition di Callimaco su Gaio il Romano, già ricordato nel capitolo introduttivo al catalogo, assieme al passo di Clemente Alessandrino concernente i medesimi eventi.42 Il poeta chiama Peucezi i Piceni, prima di allora ignoti alla etnografia greca, mostrando di omologarli a uno dei grandi ethne dell’Apulia, come fa per una popolazione liburnica di cui ignoriamo il vero nome (Plin., nat. hist., 3, 139). È in fondo lo stesso procedimento per cui i copisti di Scilace hanno corretto Saunítai in Daunítai, facendo arrivare questi “Dauni” fino al Conero (cfr. quanto detto nell’Introduzione). Che il poeta, o piuttosto la sua fonte, per la quale ho 39 Colonna 1992, 29. 41 Fraschetti 1977.

40 Colonna 1973. 42 Colonna 1999.

il piceno e i piceni

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evocato Filisto, pensasse agli abitanti del Piceno e non della Gallica ora, è implicito nell’uso di un etnico diverso da quello degli Ombrikoí. Certo il racconto dell’assedio è macroscopicamente falsato a vantaggio dei Peucezi/Piceni, fino a non pronunciare il nome né di Porsenna né degli Etruschi, ma già Plinio il Vecchio sapeva che prima di Teofrasto nessun greco, e quindi nemmeno Filisto, aveva scritto diligenter di cose romane (3, 57). A favore della attendibilità della partecipazione di Piceni alle imprese di Porsenna nel Lazio sembra stare oggi un dato archeologico-epigrafico: il cippo a obelisco rinvenuto nel letto del Farfa, a non grande distanza da Cures. Le iscrizioni che reca incise su due delle sue facce sono l’unico esempio della scrittura lapidaria dei Piceni e dei loro vicini adriatici finora noto sul versante tirrenico della penisola. Il suo totale isolamento, a enorme distanza da tutte le altre iscrizioni del gruppo, e la sua cronologia tra la fine del vi e gli inizi del v secolo a.C. fanno nascere il fondato sospetto che possa riferirsi a un nucleo di Piceni venuti nel Lazio al tempo di Porsenna e quindi insediatisi nella parte del territorio curense posta al di là del Farfa. Senza escludere che Cures abbia adottato essa stessa la scrittura dei Piceni al tempo della venuta di questi nella valle del Tevere per combattere con l’esercito di Porsenna. Tutto lascia credere che altri Piceni siano stati allora gratificati di terra nel territorio romano al di là dell’Aniene, dove è ricordata l’esistenza di una Piketia (Dion. Hal., 5, 40, 5), da tenere ovviamente distinta dall’omonimo capoluogo dei Picentini deportati dai Romani nel iii secolo a.C. nell’agro dell’etrusca Pontecagnano (la pólis Tyrrhenías di Steph. Byz., s.v. Pikentia). Né sarà stato casuale che proprio a ridosso di questi Piceni i Romani abbiano stanziato nel 504 a.C. i transfughi Sabini venuti con Atto Clauso. Bibliografia Alfieri 1982: N. Alfieri, La regione v dell’Italia augustea nella Naturalis Historia, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario, Como, 1982, pp. 199-219. Briquel 1984: D. Briquel, Les Pélasges en Italie, Roma, 1984. Colonna 1973: G. Colonna, rec. a J. et L. Jehasse, La nécropole préromain d’Aleria (1960-1968), «StEtr», xli, 1973, pp. 566-572. Colonna 1974: G. Colonna, Preistoria e protostoria di Roma e del Lazio, in pcia , ii, 1974, pp. 273-346. Colonna 1986: G. Colonna, Il Tevere e gli Etruschi, «ArchLaz», vii , 2, pp. 90-97. Colonna 1987: G. Colonna, Gli Etruschi della Romagna, in Romagna protostorica. 1987, pp. 37-44. Colonna 1988: G. Colonna, I Latini e gli altri popoli del Lazio, in Italia omnium terrarum alumna, Milano, 1988, pp. 409-528. Colonna 1992: G. Colonna, Praeneste arcaica e il mondo etrusco-italico, in Le necropoli di Praeneste. Periodi orientalizzante e medio-repubblicano, Palestrina, 1992, pp. 13-51. Colonna 1993: G. Colonna, Il santuario di Cupra tra Etruschi, Greci, Umbri e Picenti, in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica (Atti del convegno di Cupra Marittima, 1992), Tivoli, 1993, pp. 3-31. Colonna 1996: G. Colonna, Alla ricerca della “metropoli” dei Sanniti, in Identità e civiltà dei Sabini, 1996, pp. 107-130. Colonna 1999: G. Colonna, I Peceuti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La Salaria in età antica (Atti del convegno, Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 2-4 ottobre 1997), Roma, 1999, pp. 147-153. Cristofani 1996: M. Cristofani, Etruschi e altre genti nell’Italia preromana, Roma, 1996, pp. 127-153. D’Ercole, Cairoli 1998: V. D’Ercole, R. Cairoli, in Archeologia in Abruzzo, 1998, pp. 99-120. Fraschetti 1977: A. Fraschetti, «QuadUrbStudiClass», xxiv, 1977, p. 1 sgg. Guidobaldi c.s.: P. Guidobaldi, in La via Salaria, c.s. Mele 1987: A. Mele, Aristodemo, Cuma e il Lazio, in Etruria e Lazio arcaico, Roma, 1987, pp. 155-177. Morel 1998: J.-P. Morel, Su alcuni aspetti ceramologici di Spina, in Spina, 1994, Roma, 1998, pp. 85-89. Papi 1996: R. Papi, Produzione metallurgica e mobilità, in La Tavola di Agnone, 1996, pp. 89-128.

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DUE CIT T À E UN T IRA N N O

A

conclusione di un convegno dedicato a Chiusi, dalle origini all’età arcaica, non si può fare a meno di parlare di Porsenna, ossia del personaggio, certamente storico, grazie al quale la città toccò, negli ultimi decenni del vi secolo a.C., l’apice della propria potenza, soprattutto politica, ma anche militare ed economica. Al punto, com’è noto, da intrecciare la propria storia con quella di Roma, che cercava allora di liberarsi definitivamente di Tarquinio il Superbo e della monarchia. Personaggio per molti aspetti singolare, Porsenna colpì, più di qualsiasi altro etrusco, il sentimento e la fantasia popolare dei Romani, lasciando una duratura e solidissima traccia nel patrimonio leggendario della città, sulla quale si affaticano gli storici e, ancor più, sulle orme di G. Dumézil, gli storici della religione romana.1 Non mi soffermerò se non marginalmente su questo ordine di problemi, sul quale del resto ho dato anch’io il mio contributo nel recente convegno di Chiusi,2 ma porterò l’attenzione sull’aspetto del caso Porsenna che credo più interessi in questa sede, ossia sulla storia pregressa del personaggio, sul suo passato etrusco, o comunque sul rapporto da lui avuto con l’Etruria. È questo un ambito di ricerca assai poco indagato, anche per l’obbiettiva carenza di fonti letterarie. Infatti, in patente contrasto con l’imponente corpo di testimonianze relativo all’avventura romana del re etrusco, giuntoci attraverso la tradizione annalistica, conservata da autori sia latini che greci,3 le notizie utili al nostro scopo sono soltanto due, entrambe trasmesse da Plinio il Vecchio, che non è uno storico, come tutti sanno, ma un erudito, buon conoscitore della grande antiquaria tardo-repubblicana e augustea, da Varrone a Verrio Flacco.4 La prima notizia concerne la folgorazione del mostro Olta, che minacciava Volsinii,5 la seconda il mausoleo-labirinto, il monumentum in cui il re sarebbe stato sepolto sub urbe Clusio.6 La notizia su Olta è introdotta da Plinio con l’espressione vetus fama Etruriae est, che allude a tradizione orale, verosimilmente confluita nelle historiae Tuscae, menzionate da Varrone a proposito della dottrina dei saecula.7 L’altra è una citazione testuale da Varrone, da lui attinta a scritti di cui lo stesso Plinio mostra di avere una conoscenza diretta, dato che integra la citazione con un dato dimensionale relativo al mausoleo, omesso, a suo dire, dal Reatino. Gli scritti in questio-

1 Cito soltanto E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma, 1990. Cfr. anche, a proposito della leggenda di Clelia, G. Capdeville, Porsenna, re del Labirinto, in La civiltà di Chiusi e del suo territorio (Atti del xvii convegno di studi etruschi e italici, Chianciano Terme 1989), Firenze, 1993, pp. 63-67. 2 Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, negli atti della giornata di studio su La lega etrusca. Dalla Dodecapoli ai “Quindici Popoli”, tenuta a Chiusi il 9 ottobre 1999, in stampa nella Biblioteca di Studi Etruschi. 3 Utili al riguardo sono, oltre al classico libro di A. Alföldi (Early Rome and the Latins, Ann Arbor, Michigan, 1965, trad. tedesca Darmstad 1977), i saggi di E. Dovere, Contributo alla lettura delle fonti su Porsenna, in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, xcv. 1984 (ma 1985), pp. 69-126; e R. Hirata, La monarchia di Porsenna, in Annuario dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, xxii. 1986-1987, pp. 7-22. 4 Allo stesso Plinio dobbiamo la preziosa informazione sul “disarmo” di fatto imposto da Porsenna ai Romani nel primo foedus stipulato con essi, in forza del divieto di usare il ferro per scopi diversi dal lavoro dei campi (n. h. xxxiv, 139: cfr. Dovere, a.c., p. 83 sg.). Il divieto avrebbe tra l’altro provocato la sostituzione, per così dire autarchica, dell’osso al ferro nella produzione degli stili scrittorii (sui quali vedi J. Gy. Szilágyi, in Bull.Mus.Hongr.Beauz-Arts, 54, 1980, pp. 13-27). 5 Plin., n. h., ii, 140. 6 Plin., n. h., xxxvi, 91-93. 7 Cens., de die natali, xvii, 6. Cfr. M. Sordi, Storiografia e cultura etrusca nell’impero romano, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze, 1985, i, Firenze, 1989, p. 42 sg. La studiosa ha successivamente avanzato una attraente proposta di ricostruzione del monumento, in collaborazione con l’architetto G. Castellani (Prospettive di storia etrusca, Como, 1995, pp. 35-47).

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ne, definiti da Plinio scetticamente fabulae Etruscae, rientrano quasi certamente tra le stesse historiae Tuscae, menzionate in altra occasione, come si è detto, da Varrone.8 La notizia concernente la folgorazione di Olta, sulla quale soltanto intendo soffermarmi in questa occasione, conferisce a Porsenna, oltre alla qualifica, per lui tutt’altro che nuova, di rex, connotati sacerdotali, da esperto di ars fulguratoria, che lo avvicinano implicitamente, nel discorso di Plinio, niente meno che a Numa Pompilio, ricordato nel seguito del passo assieme a Tullo Ostilio, il re che, all’opposto di Porsenna, non avendo osservato le norme del rito, era incorso egli stesso nella folgorazione. Porsenna avrebbe “ottenuto” (inpetratum) da Tinia, grazie a sacris quibusdam et precationibus, debitamente compiuti, un fulmen auxiliarium,9 da lui “chiamato fuori”, “fatto uscire” (Plinio usa il verbo evocatum),10 allorché il monstrum di nome Olta, dopo aver devastato i campi di Volsinii, sarebbe giunto a minacciare la stessa città. Il passo, pur nella sua stringatezza, rasentante l’ambiguità – sintatticamente il participio evocatum può riferirsi tanto a (fulmen) inpetratum, quanto a monstrum, ed è solo il senso ad avallare la traduzione proposta – il passo, dicevo, collega nel modo più stretto e diretto Porsenna a Volsinii, del tutto indipendentemente dall’essere o meno questa città, già all’epoca, la “capitale federale della lega etrusca” e Porsenna il “capo di un’alleanza militare”, come vorrebbe Capdeville,11 e come per parte mia ritengo alquanto improbabile. Porsenna, il re che si sapeva splendidamente sepolto, come si è visto, sub urbe Clusio, appare nel passo in questione come l’unico garante della sopravvivenza di Volsinii, città che in quel supremo momento non ha altro re all’infuori di lui. E, a ben vedere, è proprio in quanto suo rege, in senso pregnante, che Porsenna è abilitato a farsi intermediario tra la città minacciata e i suoi dèi. Già da tempo, a partire da una conferenza tenuta a Bagnoregio nel 1977, e poi nella relazione letta al convegno della Fondazione Faina del 1983,12 ho messo nella dovuta evidenza la portata di questa informazione per la storia arcaica non solo di Volsinii ma, non esito a ripetere, dell’intera Italia medio-tirrenica. È infatti implicita, nella tutela esercitata dal chiusino Porsenna su Volsinii e i suoi illustri santuari, l’avvenuta formazione, a livello di fatto, se non di diritto, di una compagine statale pluriurbana, estesa dalla Valdichiana a Orte (Fig. 1). Compagine che tutto lascia ritenere essere presto divenuta una scomoda vicina per Veio, da alleata quale dovette essere inizialmente (poiché senza il consenso di quella città difficilmente Porsenna avrebbe potuto installarsi di primo acchito, come ha fatto, sul Gianicolo).13 Tutta la storia dei Septem Pagi, il distretto sulla riva destra del Tevere tolto da Porsenna ai Romani, in quanto storicamente etrusco, ma poi restituito ad essi, invece che ai Veienti, non ha senso fuori di un’iniziale 8 Sordi, op. cit., pp. 35 sgg., 41 sgg. 9 Così chiamato da A. Cecina, secondo Sen., nat. quaest., ii, 49, 3, perché arriva invocantium bono, in opposizione ai fulmina hospitalia, che arrivano magno invitantium periculo. Cfr. Capdeville, art. cit., p. 69; Id., in Caesarodunum, suppl. 63, 1993, pp. 18-21. 10 Che fa pensare ai fulmini inferna di Cecina, il cui fuoco e terra exiluit, rientranti nella categoria dei fulmina terrena di Plinio (nat. hist. ii, 138). Ciò ricorda una peculiarità della religione votiva e funeraria di Volsinii, ossia i cippi di basalto nero scolpiti al sommo con un fulmine (Fig. 2), sacri al locale Tinia infero, uno dei quali proveniente dal santuario del Belvedere (G. Colonna, Società e cultura a Volsinii, in questa rivista, ii, 1985, p. 116, nota 68; Id., «RendPontAcc», lxiv, 1991-1992, p. 104). 11 In La civiltà di Chiusi, cit., p. 68 (ribadito in AnnMuseoFaina, vi, 1999, p. 114, nota 6). 12 La posizione di Bagnoregio nell’antico territorio volsiniese, in Doctor Seraphicus, xxv, 1978, pp. 43-52, spec. p. 50; Società e cultura a Volsinii, cit. a nota 10, pp. 101-131, spec. p. 120, fig. 4. 13 La scelta di quel “monte” non significa che Porsenna fosse un veiente, come pensava E. Pais (cfr. Hirata, art. cit., p. 10 sg.), ma solo che cercava una posizione strategicamente forte rispetto a Roma, al riparo delle sortite degli assediati.

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Fig. 1. Carta dell’Etruria nell’età di Porsenna.

intesa con Veio, cui presto Porsenna dovette preferire, con molta lungimiranza, quella con Roma. Non mi soffermo oggi sull’argomento se non per sottolineare che la qualifica di re di Volsinii contribuisce fortemente a conferire alla figura di Porsenna i tratti non di un re tradizionale e legittimo, sul piano istituzionale, ma di un tiranno, nel senso greco del

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termine.14 Se infatti egli è detto re sia di Chiusi che di Volsinii, è evidente che ha esteso la sua signoria dall’una all’altra città, e precisamente da Chiusi a Volsinii, secondo un modello di comportamento che trova in età tardo-arcaica larga messe di confronti, specialmente nella non troppo lontana Sicilia15 e sullo Stretto. Basti citare l’operato di Anassilao di Reggio nei confronti di Zancle, di Terone di Agrigento nei confronti di Imera, di Ippocrate di Gela nei confronti prima di Camarina, e poi delle via via più lontane Leontinoi, Nasso e Zancle, fino al passo decisivo compiuto da Gelone, successore di Ippocrate a Gela, con l’acquisizione di Siracusa, dove trasferì la sua signoria.16 La differenza rispetto ai tiranni sicelioti, chiamati anch’essi frequentemente dai contemporanei basileîs, oltre che týrannoi,17 sta essenzialmente nel fatto che l’estensione della signoria da una città all’altra sembra essere avvenuta nel caso di Porsenna, per quanto sappiamo, pacificamente. Forse proprio per questo, Fig. 2. Cippo di basalto da Orvieto. oltre che per la stretta vicinanza e le facili Museo Archeologico Nazionale di Perugia. comunicazioni, non risulta che egli abbia fatto ricorso, nel governo della città sottoposta, a un “subordinate tyrant”, legato a lui da vincoli di parentela, come accadeva normalmente in Sicilia,18 e come forse egli stesso aveva progettato di fare, una volta padrone di Roma, nei confronti di Ariccia, inviando contro di essa lo sfortunato figlio Arrunte. Come Porsenna sia arrivato a diventare signore prima di Chiusi e poi anche di Volsinii, verosimilmente tra il 530 e il 510 a.C., è destinato a restare per noi oscuro. Tuttavia è degno di nota quel che credo di aver dimostrato nella giornata di studio tenuta a Chiusi due mesi fa, ossia che il nomen del re, ricostruibile come *Pursena o, meglio, *Purzena, è un nome finora non altrimenti attestato, ma quasi certamente di estrazione volsiniese. Solo infatti a Orvieto incontriamo in età arcaica l’antroponimo dal quale esso è stato derivato, con l’intervento del suffisso aggettivale -na, normale formatore di patronimici. L’antroponimo in questione è Purze. Conosciuto in età recente anche a Vulci e a Tarquinia,19 esso non ricorre mai nel pur sterminato onomasticon di Chiusi, così come in quello della restante Etruria settentrionale. 14 Cfr. D. Briquel, La royauté en Étrurie. Les apports récents: confirmation et remises en cause, in Ktema, 12, 1987, pp. 139-148. 15 La terra quorum (tyrannorum) nulla feracior fuit (Iustin., iv, 2, 3). 16 Mi limito a citare T.J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford, 1948, p. 376 sgg.; A. Andrewes, The Greek Tyrants, London, 1956, p. 128 sgg.; N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia, Firenze, 1994, spec. p. 376 sgg. 17 Dunbabin, op. cit., p. 385. 18 Ibid., p. 384. Anche in Sicilia tuttavia, laddove maggiore era la vicinanza e più facili le comunicazioni, come tra Reggio e Zancle, si ebbe un unico tiranno, Anassilao, per le due città, con la creazione dello “stato dello Stretto”. 19 H. Rix (ed.), Etruskische Texte, i-ii, Tübingen, 1991, s.v.

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La trattazione svolta nel convegno di Chiusi trova piena conferma nell’analisi linguistica del nome Purze, che mi accingo a fare. Il nome infatti mostra, nella terminazione in -e, un tratto che l’assimila, all’interno della classe dei prenomi e dei nomi individuali, cui indiscutibilmente appartiene, a quelli tratti da nomi italici formati col suffisso -io-. I quali a Orvieto, come appare da forme quali Vipe e Luvce (ma si veda anche Vuize a Vulci),20 vedono spesso l’originario suffisso -ie alterato in -e, per un’esigenza di distinzione rispetto ai corrispondenti gentilizi, altrimenti identici, come a suo tempo chiarito dal Rix e ribadito recentemente dal De Simone.21 La forma *Purzie, così riguadagnata, consente di risalire, sul piano etimologico, al nome latino Porcius, che, prima di identificarsi con un notissimo gentilizio plebeo, è stato un nome individuale dalla trasparente etimologia (“quello del porco”, dove l’animale è con ogni probabilità chiamato in causa in quanto vittima sacrificale tra le più richieste ed apprezzate).22 La fonetica assunta dal nome in etrusco presuppone però necessariamente, e questo è il dato storicamente importante, una mediazione umbra (o, se si vuole, la derivazione da un nome umbro non attestato, di formazione parallela a quella del nome latino, dato che anche il lessico umbro possiede l’appellativo porco- / porca).23 L’intervento dell’umbro si rende necessario perché solo in quella lingua si verifica in Italia la palatalizzazione di /k/ dinanzi alle vocali palatali /i/ e /e/, sottostante all’etrusco *Purzie. Il caso non è isolato, ma, come è stato recentemente ribadito da quello specialista dell’umbro che è G. Meiser,24 trova un puntuale confronto proprio a Orvieto nel gentilizio Vuvzie(s), che rende la forma assunta nell’umbro dal prenome italico Loukio, altrimenti resa in etrusco meno fedelmente con Luvzie(s) (a Suessula, nell’Etruria campana, dove il nome potrebbe essere stato portato da un volsiniese) e con Lavsie(s) (a Fiesole, dove il sigma denota la stessa sibilante palatale, che nell’Etruria meridionale e campana è resa con z). Così stando le cose, possiamo a ragion veduta dire che il nome Porsenna ha solide radici umbre, prima ancora che volsiniesi. Anzi, conoscendo l’alta frequenza di nomi umbri a Volsinii, già nell’età arcaica, possiamo dire che l’origine umbra in un certo senso rafforza l’ipotesi che l’introduzione del nome in Etruria, dove comunque è rimasto assai raro, sia avvenuta proprio in ambiente volsiniese. A Chiusi esso è chiaramente il nome di un forestiero, anche se è impossibile determinare se il suo arrivo nella città sia avvenuto con Porsenna stesso, o con suo padre. Più indietro sembra difficile poter risalire, perché nell’umbro la palatalizzazione delle velari è ritenuta un fatto non troppo antico, le cui prime attestazioni, entrambe indirette, sono offerte per ora precisamente dalle due iscrizioni etrusche appena menzionate, di Suessula (v secolo a.C.) e di Fiesole (datata da F. Nicosia a poco prima della metà del vi secolo). Tutto ciò concorre a farci ritenere Porsenna una sorta di homo novus rispetto alle élites aristocratiche dominanti a Chiusi prima della sua ascesa. La provenienza forestiera e la competenza da gente usa alla guerra, messa in atto dal re e da suo figlio Arrunte con la grande spedizione di conquista condotta contro Roma 20 Rix, op. cit., s.vv. 21 H. Rix, Etruskische Cognomen, 1965, pp. 206 e 230, note 27 e 117; C. De Simone, «StEtr», lvi, 1989-1990 (ma 1991), p. 202 sgg. (a proposito delle forme in -se < -sie). 22 Cfr. W. Schulze, zgle , pp. 233-235; re , 1953, s.v. Porcius (Gelzer); G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer2, München, 1912, p. 411 sg. Per Varrone il porcus sarebbe stato la prima vittima sacrificale sia in Grecia che in Etruria, dove gli antiqui reges et sublimi vires usavano sacrificarlo a Ceres in occasione delle nozze (r. r., ii, 4, 7). 23 Tb. Ig. Ib, 27; Viia, 6. Cfr. A. Ancillotti, R. Cerri, Le tavole di Gubbio e la civiltà degli Umbri, Perugia, 1996, pp. 147 sgg., 398. 24 In La Tavola di Agnone nel contesto italico, a cura di L. Del Tutto Palma, Firenze, 1996, pp. 189, 191 sg., 194.

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e quindi, facendo base a Roma, contro i Latini, autorizzano l’ipotesi che egli sia stato un capo militare.25 Penso a un personaggio emerso dalla embrionale “classe oplitica”26 di Orvieto, rispecchiata nei ben ordinati sepolcreti della città, che nella seconda metà del vi secolo ha lasciato ripetute testimonianze di sé. Testimonianze che vanno dai due cippi funerari sferoidali, insolitamente scolpiti a forma di gigantesca testa elmata (Fig. 3), ai due parallelepipedi, conformati a pilastro o a stele e scolpiti con la raffigurazione dell’oplita, per non parlare dei bronzetti di guerriero, prodotti come doni votivi da consacrare al Marte etrusco, Laran, del tipo rinvenuto a Ravenna e nella stipe di Brolio in Valdichiana.27 Le iscrizioni, quando ci sono, includono gentilizi di origine alloglotta, latina (Hermenas)28 o umbro-picena (CuFig. 3. Cippo funerario da Orvieto. pures, con u interna anaptittica, equivaMuseo “C. Faina”, Orvieto. lente a Duenos, “il bravo”, nome trasparente per un guerriero di professione).29 I bronzetti confermano con la loro dispersione, assieme a carri da guerra come quello cui spettano le lamine Ferroni, rinvenute a Todi e di pressoché certa produzione volsiniese,30 le relazioni e anche la mobilità personale dei comandanti orvietani, forse in qualche caso occasionata dalla “richiesta”, oserei dire, di cui essi erano oggetto, sulle orme dei loro indubbiamente più illustri omologhi vulcenti. Questi, documentati dalle tombe arcaiche con panoplie di cui ci ha parlato Cherici nella sua bella relazione, avevano annoverato tra le loro file personaggi rimasti famosi, entrati addirittura negli annali di Roma, come i fratelli Vipienna/Vibenna, dal nomen anch’esso di origine italica, e verosimilmente umbra. Porsenna, in conclusione, possiede i tratti di un tiranno militare, come lo sono stati quasi tutti i tiranni sicelioti, forse incline, come quelli, a parteggiare per il ceto aristocratico, nonostante la sua estrazione verosimilmente modesta, a giudicare almeno dall’oscurità del nome. Ma nello stesso tempo ci appare circondato dalla fama di re-sacerdote, almeno nell’immaginario “popolare” dell’Etruria, che lo ha celebrato, come si è detto, quale salvatore di Volsinii in virtù delle sue capacità religiose e propiziatorie. A questo proposito mette forse conto riprendere brevemente in mano il tormentato dossier delle urne cinerarie di età ellenistica, raffiguranti una storia leggendaria, che è stata ripetutamente messa in rapporto col mostro Olta del racconto di Plinio: nel Settecento 25 Cfr. anche J.-R. Jannot, «mefra», C, 1988, pp. 603-607. 26 Riprendo l’espressione dal mio Società e cultura, cit. a nota 10, p. 120. Cfr. A.-M. Adam, A. Rouveret, in Crise et transformation, cit. a nota 39, pp. 338-340. 27 I monumenti sono raccolti da M. Martelli, Il “Marte” di Ravenna, in Xenia, 6, 1983, pp. 25-36. 28 Rix, Das etruskische Cognomen, Wiesbaden, 1965, p. 227 sg. 29 Su Cupures rinvio al mio cenno in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica (Atti del convegno di Cupra Marittima, 1992), a cura di G. Paci, Tivoli, 1993, p. 19 sg. 30 Martelli, art. cit., spec. p. 31 sgg.

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Fig. 4. Urna cineraria di travertino, da Corciano. Museo Archeologico Nazionale di Perugia.

dal Buonarroti, all’inizio del nostro secolo da G. Körte, che ha riscosso a lungo un ampio consenso, in anni recenti da G. Hafner, che invece non ha trovato seguaci.31 Le urne raffigurano, con notevoli varianti, dovute a cartoni diversi, un mostro dal sembiante di uomo-lupo, sostituito nei cartoni più recenti da tratti interamente animalistici, che tenta di uscire dal puteale di un mundus, trattenuto a stento con una corda o con un cappio da uomini armati che lo minacciano e ne sono minacciati, mentre quasi sempre uno di loro, generalmente il più anziano e autorevole, compie sul mostro una libazione (Figg. 4-6). L’interpretazione del mostro come Olta e del guerriero libante come Porsenna ha riscosso successo fino a che non ci si è resi conto che l’evocazione di cui parla Plinio concerne non il mostro ma il fulmine, che non è mai raffigurato in queste scene.32 Una volta acquisito questo dato di fatto, Hafner ha tentato di leggere la scena come se il mostro, invece di emergere da un mundus, sprofondasse folgorato entro un bidental: il che non ha convinto nessuno. Si è avuta invece una proliferazione di proposte ermeneutiche, che giustamente uno studioso equilibrato come Szilágyi, nella ben documentata voce del limc , giudica tutte “vorläufig unsichere”. Ma purtroppo non possiamo giudicare altrimenti anche quella, da lui avanzata, di riconoscere il mito di Olta nelle raffigurazioni etrusche del c.d. mito di Echetlo, in cui l’avversario dell’eroe armato di aratro non ha 31 Bibl. in limc vii, 1994, pp. 35-37, s.v. ( J. G. Szilágyi), cui sono da aggiungere E. Paschinger, Die etruskische Todesgöttin Vanth (Sonderschr.Österr.Arch.Inst. 20), Wien 1992, pp. 44-46; Capdeville, art. cit. a nota 1, p. 68 sg.; A. Cherici, Porsenna e Olta. Riflessioni su un mito etrusco, «mefra», 106, 1994, pp. 353-370; E. Simon, in Les Étrusques, les plus religieux des hommes, a cura di F. Gaultier e D. Briquel, Paris, 1997, pp. 453-456. 32 Cfr. il mio Società e cultura, cit. a nota 10, p. 118, nota 81.

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Fig. 5. Urna cineraria fittile, da Perugia. Museo Archeologico Nazionale di Perugia.

Fig. 6. Urna cineraria di alabastro, da Volterra. Museo Guarnacci di Volterra.

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mai sembianze anche solo in parte animalistiche, anche se calza a volte sul capo una spoglia di lupo. Né possiamo condividere la recente proposta di Cherici, che, partendo dall’assai dubbia identificazione di due degli astanti con i Dioscuri, pensa a un qualche episodio della saga degli Argonauti, in cui Giasone liberebbe sulla personificazione di un eroe defunto.33 Così stando le cose, c’è da chiedersi, tutto sommato, se non convenga, a proposito delle urne col mostro nel puteale, ritornare alla tradizionale identificazione dei personaggi, rinunciando però a leggere la scena come una diretta illustrazione del passo pliniano. Il che è possibile se ammettiamo che la scena illustri il momento immediatamente precedente la fulminazione (di per sé difficilmente raffigurabile), quando il mostro, dopo aver devastato l’agro, tenta d’irrompere nella città dal sottosuolo, letteralmente “andando sotto” la città, urbem subeunte, fuoriuscendo dall’apertura del mundus, che esisteva in ogni città etrusca, sacro a Dis Pater, Mantus o Soranus. Fig. 7. Supposto ritratto di Porsenna. Invano trattenuto con legami e minacciaFondazione Axel Munthe, Anacapri. to con armi proprie o improprie (le pietre) dagli atterriti cittadini (che lo hanno atteso al varco, dopo averlo visto scomparire sotto la rupe della città), Olta sta per avere la meglio, ma Porsenna ha un’arma segreta, la libazione, in forza della quale, e delle connesse preghiere, sarà “evocato” il fulmine che incenerirà il mostro, o almeno lo ricaccerà nel sottosuolo. Questa favola edificante deve avere non poco contribuito a propagare la fama del buon re di Chiusi e di Volsinii, anche fuori dell’Etruria. Ce ne accorgiamo dall’aura positiva che circonda nella tradizione annalistica romana il nome del re e anche quello del figlio Arrunte, cavalleresco soccorritore di Clelia insidiata dagli stessi alleati degli Etruschi.34 È noto del resto che qualcuno, tra l’età di Varrone e quella di Verrio Flacco, ha creduto bene di costruire per sé, sul luogo tra Albano e Ariccia dove si credeva che il principe etrusco fosse caduto combattendo contro Latini e Cumani, un mausoleo ispirato nelle sue bizzarre linee architettoniche al mausoleo di Porsenna, descritto nelle historiae Tuscae (sul quale oggi non ho il tempo di soffermarmi).35 Un omaggio alla memoria che possiamo affiancare alla notizia dello Pseudo-Acrone, nel commento a Orazio, secondo la quale Mecenate si riteneva, e forse si vantava, di essere un adfinis di Porsenna.36 33 Art. cit., pp. 366-370. 34 Dion. Hal., v, 33, 4. 35 Cfr. L. Crema, L’architettura romana, Torino, 1959, p. 247 sgg., fig. 273 sg.; F. Coarelli, Dintorni di Roma, Bari, 1981, p. 92 sg.; G. Ghini, in Architettura di Roma antica ii, Milano, 1993, pp. 126 sgg. 36 Ps. Acr. schol. in Horat. vetustiora, i, ed. O. Keller, 1902, p. 87.

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In realtà la celebrazione del re etrusco era iniziata a Roma alcuni secoli prima, e non aveva subito oscuramenti. Plutarco parla nella vita di Poplicola di una statua bronzea del re, “semplice e antica”, che si trovava presso la Curia, a quanto pare ancora ai suoi tempi.37 G. Hafner ha proposto di riconoscerne una copia della testa in una scultura in marmo della fondazione A. Munthe di Capri, raffigurante un guerriero con elmo a calotta del tipo Negau, inconfondibilmente etrusco (Fig. 7).38 Lo stile classico ne riconduce l’originale alla seconda metà del v secolo a.C., un’età in cui il conflitto sempre più serrato con Veio induceva forse i Romani a potenziare l’amicizia con Chiusi, isolando anche diplomaticamente la loro grande, storica rivale. Ma probabilmente si può dire di più. Sappiamo infatti che nelle frumentazioni del 440 e del 411 a fornire il grano ai Romani sono stati principalmente, se non esclusivamente, gli Etruschi dell’interno, che lo avrebbero inviato per la via del Tevere, con barche da fiume.39 È tentante pensare che proprio in nome della vecchia amicizia con Porsenna i Romani si siano rivolti ai Volsiniesi e ai Chiusini e ne abbiano ottenuto l’aiuto desiderato. Non vedo occasione più propizia di una di queste frumentazioni, probabilmente quella del 411, per l’erezione di una statua in onore del re etrusco. [Due città e un tiranno, «AnnMuseoFaina», vii, 2000, pp. 277-285]. 37 Popl. xix, 6. 38 Porsenna, in Rivista di archeologia, i, 1977, pp. 36-43. 39 Dion. Hal., xii, 1, 3; Liv., iv, 45. Cfr. Colonna, art. cit. a nota 10, p. 107; Id., Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au v e siècle av. J.-C., Rome, 1990, p. 18 sg.; A. Maggiani, ibid., p. 30 sg.

I T YRRHEN Ó I E LA BAT TAGLIA DEL MA RE S A RD O N IO

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i può parlare del ruolo dei Tyrrhenói nella battaglia del Mare Sardonio da diverse angolature, a seconda che interessino di più le cause che portarono al conflitto etrusco-foceo, o le città etrusche che vi presero parte, o le conseguenze che la battaglia ebbe per esse, sul piano interno come su quello internazionale. La prospettiva che s’intende privilegiare in questo contributo è appunto l’ultima, centrata ovviamente su Caere, l’Agylla dei Greci, che più di tutte le altre città etrusche fu, secondo la fondamentale testimonianza di Erodoto (i, 165-167), coinvolta nel conflitto. Perché Caere, anzitutto, e non Tarquinia o Vulci o Populonia, città all’epoca non meno fiorenti e, non foss’altro che geograficamente, più vicine alla Corsica?1 Il fatto è che Caere, proprio per la sua collocazione più meridionale, prossima al Tevere e ai Latini, era a tutti gli effetti la “porta” del mare etrusco – in senso stretto, il mare interposto tra l’Etruria e la Corsica – nei confronti della navigazione greca, e quindi anche di quella focea.2 La città aveva saputo trarre profitto da questa sua collocazione strategica a partire già dalla fine dell’viii secolo a.C., facendo suo il ruolo prima tenuto a quanto pare da Veio e da Tarquinia. In particolare è da presumere che Caere abbia da allora controllato per così dire a distanza, grazie ad accordi con Vetulonia e più tardi con Populonia, l’accesso dal mare alle risorse minerarie toscane, specialmente per quanto riguarda l’isola d’Elba,3 traendone rilevanti profitti. Basta a provarlo lo sviluppo, ineguagliato altrove in Etruria, raggiunto dalle manifestazioni ceriti della civiltà orientalizzante. Più tardi, nell’orientalizzante recente, tra il 630 e gli inizi del vi secolo a.C., la città aveva esteso i suoi interessi marittimi, legati anche alle eccedenze prodotte dalla sua ricca agricoltura, assai al di là dell’alto Tirreno, in direzione del Mar Ligure e del Golfo del Leone, in concorrenza con le prime navigazioni focee, che portarono alla fondazione di Massalia.4 La migliore conferma dell’importanza annessa dai Ceriti alle rotte marittime nord-occidentali – in parallelo al dilatarsi del loro retroterra economico e culturale, che raggiunse allora il Viterbese, l’agro vulcente e Orvieto5 – è offerta verso il 600 a.C. dalla netta preferenza accordata al porto di Pyrgi, nonostante la sua mag-

1 Per Populonia, com’è risaputo, si parlò addirittura, in alternativa ad altre tradizioni, di una fondazione da parte di Corsi (Serv., Aen. i. x, 172), mentre di tutto il litorale etrusco soprattutto il tratto pisano avrebbe sofferto delle incursioni piratesche dei Sardi (Strab. v, 2, 7, C 225: cfr. Bruni 1998, p. 91 sg.). Per quanto riguarda l’Etruria meridionale gli scambi con la Sardegna tra il ix e il vii sec. a.C. sembrano essere stati più numerosi e importanti a Vulci e Tarquinia che non a Caere (Gras 1985, p. 135 sgg.). Si ricordi che la traversata dall’Etruria meridionale alla Corsica (e alla Sardegna) avveniva normalmente lungo la rotta M. Argentario (o isola di Giannutri) - isola del Giglio - isola di Montecristo - Aleria. 2 Mentre per la navigazione focea di ritorno, soprattutto massaliota, lo stesso ruolo competeva naturalmente a Pisa, il cui ruolo di città marinara è stato recentemente rivalutato, sulla scorta di scoperte archeologiche per lo più inedite e non senza qualche eccesso (Bruni 1998). 3 Colonna 1985a (con la discussione a p. 372); Cristofani 1983, p. 25 sg. 4 “Les Marseillais s’installent pour ainsi dire à l’ombre des étrusques”, ha affermato recentemente F. Villard, mentre per L.-F. Gantès la “phase étrusque” della città si estende anche al secondo quarto del vi secolo (citati entrambi da Morel 1995, p. 48). La parte preminente avuta da Caere nel più antico commercio etrusco nella Gallia meridionale risulta dal bucchero e dalle anfore Py 3 (sulla cui attribuzione a Caere vedi Colonna 1985a, pp. 12-15: Gras 1987c, p. 146; Sourisseau 1997). Per le esportazioni ceriti a Pisa e in area ligure: Bruni 1998, p. 160 sg. Per la rotta di cabotaggio lungo le coste tirreniche e liguri, comune anche alla navigazione greca: Bonamici 1996, p. 24 sgg. 5 Rinvio in proposito a Colonna 1967.

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Fig. 1. Pianta di Pyrgi con i santuari suburbani. (Archivio dell’Istituto Geografico De Agostini. Disegno Studio Di Grazia).

giore distanza dalla città, rispetto a quello non meno antico di Alsium, che era proiettato naturalmente verso le più consuete rotte meridionali.6 A Pyrgi, divenuta da allora l’epíneion per eccellenza di Caere (Diod. xv 14, 3; Strab. v, 2, 8, C 226), fu impiantata una piccola città, un polichnion, quasi una colonia (del genere della Ostia di Anco Marcio) (Fig. 1), collegata alla città madre da una strada di grande comunicazione,7 sul modello di quel che avevano fatto alcune delle maggiori città della Grecia nei confronti dei loro porti, a cominciare da quella Corinto con la quale le relazioni commerciali erano allora assai strette.8 Il “primato” di Caere sull’alto Tirreno e sulle rotte che da esso si diramavano verso il sinus Gallicus fu messo seriamente in pericolo dalla fondazione focea di Alalia, intorno al 565 a.C., e ancor più, venti anni dopo, dall’arrivo dell’ultimo contingente dei profughi di Focea. Il quale non si diresse, come aveva fatto quello partito nella stessa occasione e guidato dalla sacerdotessa Aristarche,9 verso Massalia, ormai satura, ma preferì o fu costretto a fermarsi ad Alalia. I nuovi venuti “fondarono santuari” (e si pensa in primo luogo agli Artemisia che hanno dato il nome antico all’isola di Giannutri e allo Stagno di Diana presso Aleria)10 e si diedero, sempre a detta di Erodoto, ad “assalire e depredare tutti i vicini”, che erano in primis gli Etruschi e le città fenicio-puniche della Sardegna. 6 Sulla ubicazione di Alsium etrusca: Colonna 1981a, p. 19 sg., nota 14. Che Pyrgi non fosse il porto originario di Caere era stato già osservato da Nissen 1902, p. 347. 7 Colonna 1981a, pp. 16-20, con bibl. 8 Caere fu, com’è noto, la massima importatrice di vasi corinzi in Etruria (il che spiega lo scarso interesse alla produzione delle loro imitazioni, che invece prosperò a Vulci). 9 Come è stato convincentemente argomentato da Malkin 1990, seguito da Gras 1995a. Cfr. da ultimo De Polignac 1998, pp. 169-176. 10 Colonna 1962; Gras 1987b, p. 58; Gras 1995b, p. 103.

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Essi dimostravano in tal modo una aggressività a quanto pare sconosciuta ai primi abitatori di Alalia, che avevano lasciato con assai minore costrizione la madrepatria, consapevoli di doversi in qualche misura adattare, come dei normali coloni, all’ambiente e al vicinato in cui andavano a vivere.11 Particolarmente preoccupanti per gli Etruschi dovettero apparire l’intesa con la Roma di Servio Tullio, manifestatasi con la fondazione da parte del re del santuario di Diana sull’Aventino,12 e l’occupazione religiosa, se così può dirsi, di Giannutri, all’incrocio della rotta di cabotaggio dell’Etruria con la rotta diretta alle grandi isole antistanti. La situazione apparve rapidamente intollerabile, essendo in giuoco per gli Etruschi non solo il controllo della zona mineraria e specialmente del richiestissimo ferro elbano, ma anche l’accesso alla Sardegna con i suoi non meno ambiti metalli. Nell’isola infatti convivevano antichi interessi fenici, ereditati e potenziati da Cartagine, con più recenti aspirazioni etrusche, solo da poco entrate nel mirino della ricerca.13 L’intesa con Cartagine, priva per quanto sappiamo di precedenti e per così dire imposta dalle circostanze, dati i contrastanti interessi riguardo alla Sardegna, portò gli alleati a riunire le loro squadre nelle acque del Mare Sardonio – al largo di Olbia?14 – col proposito di muovere contro Alalia e metterla a ferro e fuoco. Il tempestivo accorrere della flotta focea, pur notevolmente inferiore di forze,15 prevenne il loro disegno. La battaglia navale che ne seguì – la prima nella storia del Mediterraneo occidentale di cui sia rimasta eco nella tradizione letteraria – fu definita da Erodoto una “vittoria cadmea” dei Focei, poiché salvò la città dall’asservimento e dal saccheggio, ma non impedì che i Focei, consapevoli della loro inferiorità militare, anche a seguito delle ingenti perdite subite, decidessero di abbandonare la Corsica, rinunciando per sempre all’ambizione di essere una potenza navale. Fu un grande successo politico degli alleati, che tornò a vantaggio principalmente degli Etruschi. Costoro infatti si sostituirono ai Focei nel dominio della Corsica, come sappiamo da Diodoro (v, 13, 3-4; xi, 88, 4), e fecero col tempo di Alalia, da loro ripopolata, come hanno dimostrato gli scavi di J. e L. Jehasse,16 un’importante base strategica (Fig. 2), da cui trassero materie prime e schiavi. I Cartaginesi invece ottennero soltanto di bloccare quella che era poco più di una nascente minaccia, ossia l’intromissione focea nella Sardegna, negoziando nel contempo, quel che più forse li preoccupava, la rinuncia etrusca a ogni mira sull’isola e sull’estremo Occidente, presente e futura. In compenso agli Etruschi fu lasciata mano libera sull’intero Tirreno, fino alle Lipari e alle coste della Sicilia, aprendo così la via a una “talassocrazia” che sarebbe durata fin oltre gli anni delle guerre persiane: nel basso Tirreno fino all’infausto blocco navale di Cuma del 474 a.C., che provocò il 11 Lo stesso accadde, e in forme ancora più acute, con i profughi della rivolta ionica del 499-494 a.C. fuggiti in Occidente (Colonna 1984, p. 561; Colonna 1989, p. 371). 12 Cfr. nota 10. Non si può tuttavia far dire a Strab. iv, 1, 6, che Massalia allora “fornì a Roma la statua di culto per il tempio di Diana sull’Aventino” (così Bruni 1998, p. 172). 13 Colonna 1989, pp. 367-369, con bibl.; Cristofani 1991, p. 70 sg. 14 In tal caso sarà da supporre che la squadra etrusca abbia affrontato il traiectus del Tirreno su una rotta più meridionale di quella normalmente seguita (cfr. nota 1), puntando direttamente da Capo Linaro verso la Sardegna. Sembra comunque da escludere che la riunione degli alleati abbia avuto luogo in prossimità della costa toscana (così Gras 1972, p. 702, nota 1) o davanti a Pyrgi (Jehasse 1973, p. 18). 15 Secondo M. Gras (Gras 1987a, ripreso in scritti successivi) alla battaglia avrebbero preso parte anche i Massalioti, riportando una memorabile vittoria sui Cartaginesi. Il che appare improbabile, stante il preciso computo delle forze in campo fatto da Erodoto: 60 navi di Alalia contro 60 di Cartagine e 60 degli Etruschi. Inoltre la datazione del Tesoro di Massalia è posteriore di una generazione alla battaglia e non può avere pertanto alcun rapporto con essa (vedi più avanti a nota 34). 16 Secondo l’interpretazione storica da me proposta (Colonna 1973) e universalmente accettata.

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Fig. 2. L’espansione marittima dei Tyrrhenói nel Tirreno e nell’Adriatico (G. Colonna 1985. Dis. S. Barberini).

vittorioso intervento siracusano, nell’alto Tirreno fino alle incursioni siracusane del 453452 a.C., dirette verso l’Elba, che fu temporaneamente occupata, e verso la Corsica.17 Ci fu invero, nell’immediato, lo scandaloso episodio della lapidazione dei prigionieri focei da parte dei Ceriti, che ne avevano ottenuto la maggior parte, avvenuta nei pressi di un’importante strada extraurbana che ne restò contaminata.18 Il massacro è da inten17 Colonna 1981b, p. 446 sg. 18 Hdt. i, 167, 1-2. Per il riferimento a una strada vedi Colonna 1963, p. 146 sg. In generale sulla lapidazione: Gras 1985, p. 425 sgg.

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dere quasi certamente come un sacrificio umano collettivo, celebrato secondo un ormai desueto rituale a vantaggio dei Mani di qualche eminente ghenos aristocratico che con inaudita hybris lo aveva preteso.19 Per espiarlo la città consultò l’oracolo delfico e istituì, giusta il responso della Pizia, la celebrazione di lauti sacrifici e di ludi ginnici e ippici in onore degli stranieri defunti,20 che ancora al tempo di Erodoto, ossia un secolo dopo, venivano puntualmente eseguiti.21 La gratitudine della città per la cessazione del flagello che l’aveva afflitta, paralizzando per qualche tempo una strada che si ha motivo di ritenere fosse proprio la Caere-Pyrgi,22 fu manifestata con l’invio a Delfi di doni, per alloggiare i quali fu concesso dalle autorità del santuario che i Ceriti edificassero, primi tra i barbari, con un onore più tardi esteso ai soli Spineti,23 un proprio thesaurós, noto come Tesoro degli Agyllei (Strab. v, 2, 3, C 220). Il che equivalse di fatto al riconoscimento che i Focei avevano sbagliato a installarsi in Corsica, equivocando circa il responso dato a suo tempo dalla Pizia ai primi coloni,24 e che da parte loro i Ceriti si erano comportati secondo giustizia, sia nel reagire alle provocazioni piratesche dei Focei di Alalia, sia nel riconoscere la propria colpa in merito alla lapidazione dei prigionieri. Purtroppo null’altro sappiamo del thesaurós “donato” dai Ceriti, come dice Strabone, che sembra avere appreso la notizia della sua esistenza nel santuario delfico. La datazione dell’edificio, da porsi per ovvii motivi intorno al 535-530 a.C. (è impensabile che il flagello provocato dalla lapidazione sia stato tollerato per più di qualche anno), induce a escluderne l’identificazione, recentemente riproposta, col minuscolo thesaurós n. x, situato dietro il Tesoro degli Ateniesi, eretto agli inizi del v secolo a.C.25 Né, d’altra parte, le apparenti anomalie planimetriche e strutturali del thesaurós n. xii, per lo più attribuito a Clazomene, sono tali da giustificarne il riferimento agli Etruschi, cui pure, in mancanza di meglio, si è pensato.26 Per uscire dal vicolo cieco imboccato dalla ricerca ci si può chiedere se il Tesoro delfico degli Agyllei sia da localizzare non nel santuario di Apollo, dove finora lo si è cercato e dove continua con scarsa convinzione il balletto delle attribuzioni, ma in quello, separato e liminare, di Athena Pronaia alla Marmarià.27 È un dato di fatto, invero, che qui si trovavano le testimonianze più significative della devozione focea verso Delfi, offerte da Massalia, ossia da una città anch’essa situata, come Caere-Agylla, nel lontano Occidente e certamente in qualche modo coinvolta nel conflitto etrusco-foceo. È noto d’altra parte che Delfi, più di tutti gli altri santuari panellenici, è stata teatro di una accanita “guerra di propaganda” tra città e popoli in conflitto tra loro. Guerra combattuta a colpi di donarii e, appunto, di thesaurói, come insegnano, per quanto riguarda il Mar Tirreno e la 19 Torelli 1981. Sarà da pensare probabilmente al ghenos del navarca che aveva comandato la flotta e catturato i naufraghi, forse titolare del tumulo di Montetosto (cfr. nota 22). Sul sacrificio umano come dimostrazione di hybris: Colonna 1984, p. 573 sg. 20 Thuillier 1989. 21 Come lo storico avrà appreso durante il suo soggiorno a Thurioi. 22 Che in loc. Montetosto corre tra un colossale tumulo di età orientalizzante (Rizzo 1989) e un santuario di tipo palaziale, costruito verso il 530 a.C. e frequentato fino in età ellenistica, nel quale si è proposto di riconoscere la sede dei sacrifici e dei ludi menzionati da Erodoto (Colonna 1985b). 23 Da ultimo Spina 1993, pp. 62 sg. (M. Torelli) e 131 (G. Colonna). La data del Tesoro degli Spineti è ignota ma, per ovvie ragioni storiche non può essere anteriore al 475 a.C., quando inizia il floruit della città. 24 Come sarà loro chiarito da un ignoto “uomo di Poseidonia” (Hdt. i, 167, 4). 25 Secondo l’opinione prevalente (da ultimi Briquel 1988, nota 53; Vatin 1991, pp. 247-258), ma lo stesso vale per la datazione ante 548 a.C. recentemente proposta (Bommelaer, Laroche 1991, p. 231 sg., n. 342, con un inattendibile riferimento a Spina). 26 Oggi tuttavia si esclude che il Tesoro c.d. di Clazomene, ossia il “tesoro eolico anonimo”, possa avere avuto a che fare con le fondazioni dell’edificio n. xii, per il quale si pensa piuttosto a un tesoro dorico (Bommelaer, Laroche 1991, p. 143 sg., n. 209). 27 Da ultimi Gras 1987a, pp. 166-171; Bommelaer 1997.

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Fig. 3. Delfi. Santuario della Marmarià. Particolare del settore settentrionale con il possibile thesauròs dei Ceretani.

Sicilia, il donario dei Tyrrhenói, intercalato, per così dire, tra quelli dei Liparesi, e il thesaurós di Siracusa, fisicamente affrontato a quello di Atene.28 Nel caso di Caere e di Massalia è indubbio che si tratti di città entrambe devote a Delfi ma schierate su fronti allora politicamente e militarmente contrapposti: Caere è alleata di Cartagine e nemica di Alalia, Massalia è nemica di Cartagine e, se non alleata, certo aperta fiancheggiatrice della consorella Alalia. Ora si dà il caso che sulla terrazza del santuario di Athena Pronaia esista non solo un thesaurós recenziore di ordine dorico, affiancato a quello di Massalia e databile dopo le guerre persiane,29 ma anche un terzo edificio, arcaico come il Tesoro di Massalia, situato in origine da solo nel settore occidentale della terrazza, opposto a quello in cui si trovavano il tempio di Athena, gli altari e l’ingresso principale del recinto. L’edificio in questione, tradizionalmente noto come “habitation des prêtres” o di stranieri di passaggio, si compone di due celle affiancate precedute da uno stretto vestibolo comune30 (Figg. 3, 5). La pianta è quella non di un normale thesaurós, ma piuttosto di un oikos, che tuttavia poteva altrettanto bene assolvere alla funzione di contenitore di offerte.31 Impressionante ne è la somiglianza con un tipo architettonico che in Etruria ha avuto una larghissima fortuna, sia nell’edilizia domestica che in quella funeraria, assai meglio nota 28 Cenni in Colonna 1984, p. 562 sg., Colonna 1993, pp. 61-67. 29 Bommelaer 1997, pp. 50-53 (475-470 a.C.). In teoria, ma solo in teoria, questo Tesoro anonimo di puro stile greco potrebbe essere il Tesoro degli Spineti di cui a nota 23, che avrebbero in tal caso aggiunto per così dire i Ceriti alla Marmarià. 30 Demangel 1926, pp. 95-100, figg. 108-110, tav. i; Roux 1965, pp. 41-48; Gras 1987a, p. 170; Bommelaer, Laroche 1991, p. 70 sg., n. 44; Bommelaer 1997, pp. 80 e 87, n. 44. L’edificio aveva muri in mattoni crudi su zoccolo in poligonale di calcare ed era protetto a monte da un rozzo muro di sostruzione appositamente costruito (Demangel 1926, p. 71, fig. 76). Due terrecotte architettoniche rinvenute nei pressi non sono state identificate (Roux 1965, p. 42, nota 1). 31 L’ipotesi di un piccolo tempio a doppia cella, sostenuta dal Roux e dal Bommelaer, in sé plausibile, non convince per la tecnica costruttiva adottata e per la totale assenza di testimonianze cultuali e votive. Ancor meno convincente è la proposta di vedervi un alloggio per gli artifices venuti a costruire il Tesoro di Massalia (Gras).

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Fig. 4. Tombe a camera etrusche che ripetono il tipo della casa con vestibolo e vani sul fondo.

Fig. 5. Delfi. Santuario della Marmarià. Pianta dell’ipotetico thesaurós dei Ceretani.

(Figg. 4, 6), dove si data grosso modo tra il secondo e il terzo quarto del vi secolo.32 Si tratta senza dubbio di una semplificazione della “casa larga”, a tre vani e unico vestibolo, imitata anch’essa in precedenza dall’architettura funeraria cerite: semplificazione divenuta particolarmente frequente quando il tipo di casa a tre vani affiancati è stato per così dire sacralizzato e trasferito dalla casa al tempio, dando origine al c.d. tempio tuscanico.33 Nessuna me-

Fig. 6. Caere. Tumuli monumentali della necropoli della Banditaccia con i tipi di tombe a camera a vestibolo e celle sul fondo.

32 Prayon 1975, pp. 27 sg., 74-76, tavv. 85: nn. 50-58; 87: nn. 29-32 (tipo E: per la datazione p. 51 sg., da rialzare al 575-525 a.C.); Colonna 1986, pp. 450, 460. Per le case: Prayon 1975, pp. 131, 137, 156, tav. 88: nn. 14-15; Colonna 1986, p. 424 sg.; Camporeale 1997, p. 275 sgg. La Fig. 6 mostra come le tombe del tipo indicato (in chiaro) sono le più recenti nei grandi tumuli orientalizzanti di Caere. 33 Colonna 1981c, p. 42 sg.

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raviglia che verso il 535-530 a.C. il tipo “semplificato” di oikos gentilizio allora in voga in Etruria sia stato prescelto per un edificio che non era propriamente un tempio e come tale non voleva comunque essere considerato. A questo punto sorge però un altro problema, che ci riporta al quadro complessivo dei conflitti suscitati in Occidente da quell’evento fortemente traumatico che fu l’esodo foceo del 545 a.C. Se il Tesoro degli Agyllei, sorgeva, come qui si propone, nel santuario di Athena Pronaia, resta da chiarire il rapporto dialettico in cui si poneva con le più che notevoli offerte massaliote esistenti nello stesso santuario. Queste consistevano non solo nel Tesoro di Massalia, di cui è ignota la causa della dedica, mentre se ne può fissare la data, in base allo stile del ricco apparato figurativo di cui si ammantava, verso il 510 a.C.,34 ma anche nella grande statua bronzea di Athena, dedicata per celebrare, forse assieme alla statua di Apollo che si trovava presso il tempio del dio, una vittoria navale sui Cartaginesi (Paus. x, 8, 6-7: 18, 7). La vittoria sarebbe stata ottenuta col determinante aiuto dei profughi giunti da Focea con Aristarche verso il 545 a.C., come sembra confermato da Tucidide (i, 13, 6).35 È probabile che esista una relazione, in coperta chiave polemica, tra questo donario, motivato nella sua collocazione topografica all’interno del complesso delfico dalla specifica devozione di Focea per Athena,36 e la scelta dei Ceriti di collocare a loro volta il proprio Tesoro, se la proposta identificazione coglie nel segno, nel santuario della Marmarià invece che in quello di Apollo. Quanto al Tesoro di Massalia, ignoriamo, come si è detto, la causa della sua dedica, avvenuta comunque circa vent’anni dopo quella del Tesoro degli Agyllei. La sua collocazione al centro della terrazza del santuario e in prossimità del tempio della dea esprime evidentemente la volontà di riaffermare la preminenza focea alla Marmarià, messa in forse dal Tesoro degli Agyllei. Se la causa della dedica, come tutto lascia credere, è stata una seconda vittoria navale dei Massalioti, si dovrà pensare o al conflitto con i Cartaginesi provocato da una cattura di navi da pesca, evidentemente al confine delle rispettive acque territoriali (Iust. xliii, 5, 2), oppure a un altrimenti ignoto, ma certamente ben più rilevante, conflitto con gli Etruschi. A favore di quest’ultimo milita la verosimiglianza storica, essendo Massalia l’unica potenza marittima dell’Occidente che, per quanto sappiamo, non aveva riconosciuto la “talassocrazia” etrusca sul Mar Tirreno e il dominio etrusco sulla Corsica. Un ritorno offensivo dei Focei di Massalia nelle acque liguri o còrse è tutt’altro che inverosimile negli anni critici per Cartagine che videro gli Spartani di Dorieo tentare la loro avventura nel cuore dell’eparchia cartaginese di Sicilia.37 Ciò potrebbe spiegare da un lato il crollo delle esportazioni etrusche nella Gallia greca,38 dall’altro la revitalizzazione dell’alleanza etrusco-cartaginese, che sembra verificarsi verso il 510 a.C. o poco dopo, a giudicare e dall’effimera assimilazione ad Astarte della dea locale Uni nel santuario di Pyrgi, voluta dal “re” Thefarie Velianas per esprimere il suo debito verso la dea fenicia, e dal primo trattato imposto da Cartagine a Roma nel 509 a.C.39 E potrebbe anche spiegare perché solo alla fine del vi secolo gli Etruschi, e anzi in particolare i Ceriti, a stare ai dati archeologici, epigrafici e onomastici, abbiano sentito il bisogno di prendere realmente possesso del sito di Alalia, fondandovi la città il cui nome è reso in greco da Diodoro con Nikaia.40 34 Così, dopo la magistrale analisi di E. Langlotz, il Bommelaer (cfr. nota 30) e Marcadè 1992, p. 253. 35 Cfr. nota 9. 36 Il cui tempio era stato bruciato dai Persiani nel 545 a.C. (Gras 1995b, p. 101). 37 Cenno in Colonna 1989, p. 371. 38 A cominciare dalle anfore vinarie, che soffrono ora della concorrenza massaliota: Bonamici 1996, p. 30, con bibl. 39 Per l’Astarte di Pyrgi e la portata della donazione del Velianas: Colonna 1989-1990. Per il trattato del 509: Ampolo 1987, pp. 80-85. 40 Da ultimo Cristofani 1996, p. 86 sgg., con bibl.

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Sembra in conclusione che i doni fatti al santuario di Delfi da Massalia e da Caere, cui si aggiunse più tardi quello inviato da Roma, si siano succeduti nel seguente ordine: c. 545-540 a.C. Massalia dona una statua di Athena alla Marmarià e, forse nella stessa occasione, una statua di Apollo nel santuario del dio. c. 535-530 a.C. Caere dona il Tesoro degli Agyllei, probabilmente situato alla Marmarià. c. 515-510 a.C. Massalia dona il proprio Tesoro, situato alla Marmarià. c. 395-390 a.C. Roma dona un cratere d’oro, che viene ospitato nel Tesoro di Massalia alla Marmarià. Quest’ultimo evento, accaduto quando i rapporti tra Roma e Caere erano eccellenti, come prova l’ospitalità poco dopo concessa dalla città etrusca alle Vestali e ai sacra romani,41 fa ritenere che all’epoca il Tesoro degli Agyllei fosse non più agibile o adibito a funzioni improprie, pur restandone vivo il ricordo, teste Strabone. Si può pensare a una devastazione avvenuta alla fine del v secolo a.C., nel corso della faida tra i due ghene delfici di Crates e di Orsilaos, quando parenti e amici di quest’ultimo cercarono invano rifugio nel santuario della Marmarià.42 Il che è confermato, nell’ipotesi qui caldeggiata della identificazione del Tesoro con la “habitation des prêtres”, dalla totale demolizione dell’alzato di quest’ultima che ha preceduto la costruzione, verso il 370360 a.C., del tempio in calcare, in cui oggi si tende a riconoscere l’Artemision altrimenti ignoto della Marmarià.43 Con esso la dea cara ai Massalioti venne a troneggiare nel settore occidentale della terrazza del santuario (Fig. 3), dopo averne espulso definitivamente i supposti inquilini etruschi, arrivati all’indomani della battaglia del Mare Sardonio. Bibliografia Ampolo 1987: C. Ampolo, Roma arcaica fra Latini ed Etruschi: aspetti politici e sociali, in Etruria e Lazio arcaico (a cura di M. Cristofani), Roma, 1987, pp. 75-87. Bommelaer 1997: J. F. Bommelaer (a cura di), Le sanctuaire d’Athéna à Delphes, Paris, 1997. Bommelaer, Laroche 1991: J. F. Bommelaer, D. Laroche, Guide de Delphes. Le site, Paris, 1991. Bonamici 1996: M. Bonamici, Contributo alle rotte arcaiche dell’alto Tirreno, «StEtr», 66, 1996, pp. 3-43. Briquel 1988: D. Briquel, Le città etrusche e Delfi. Dati d’archeologia delfica (comunicazione al vi Convegno di Orvieto, 1988), in Annali della Fondazione per il Museo Cl. Faina, 5, in corso di stampa. Bruni 1998: S. Bruni, Pisa etrusca. Anatomia di una città scomparsa, Milano, 1998. Camporeale 1997: G. Camporeale (a cura di), L’abitato etrusco dell’Accesa. Il quartiere B, Roma, 1997. Colonna 1962: G. Colonna, Sull’origine del culto di Diana Aventinensis, «pp», 17, 1962, pp. 57-60. Colonna 1963: G. Colonna, Un nuovo santuario dell’agro ceretano, «StEtr», 31, 1963, pp. 135-147. Colonna 1967: G. Colonna, L’Etruria meridionale interna dal villanoviano alle tombe rupestri, «StEtr», 35, 1967, pp. 3-30. Colonna 1973: G. Colonna, Recensione a J. et L. Jehasse, La nécropole préromaine d’Aléria, «StEtr», 41, 1973, pp. 566-572. Colonna 1981a: G. Colonna, La dea di Pyrgi: bilancio aggiornato dei dati archeologici (1978), in Aa.Vv., Die Göttin von Pyrgi, Firenze, 1981, pp. 13-37. 41 Sordi 1960. 42 Plut. Mor. 825 B. Cfr. Roux 1965, p. 40 sg. 43 Bommelaer 1997, p. 80 sg. (proposta Laroche, basata sull’ipotesi che Pausania descriva il santuario muovendo da ovest verso est).

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TYRRHENUS LIPAR I F R ATE R

È

mia intenzione, per onorare Paola Pelagatti, che ha diviso la sua militanza archeologica tra la Sicilia e l’Etruria, soffermarmi su un testo finora pressoché sfuggito all’attenzione degli studiosi,1 che riveste appunto uno spiccato interesse, a mio avviso, tanto per gli Etruschi quanto per i Greci di Sicilia. Mi riferisco a un passo del commento di Servio all’Eneide (i, 52), concernente il già ricco passato mitico delle isole Eolie, le insulae Siciliae per eccellenza, come sono state talvolta chiamate.2 Dopo aver informato che novem insulae, quae sunt post fretum Siciliae, appellantur Aeoliae ab Aeolo rege, Hippotae filius, licet habeant et propria nomina,3 Servio prosegue affermando che poetae quidem fingunt hunc [scil. Aeolum] regem esse ventorum sed ut Varro dicit, rex fuit insularum, ex quarum nebulis et fumo Vulcaniae insulae praedicens futura flabra ventorum inperitis visus est ventos sua potestate retinere. A questa interpretazione di stampo evemeristico dei poteri attribuiti a Eolo nell’Odissea4 l’interpolatore di Servio aggiunge, attingendo anch’egli

1 Lo menzionano, e alquanto cursoriamente, solo, per quanto so, G. Libertini, Le isole Eolie nell’antichità greca e romana, Firenze, 1921, p. 69 (con errati riferimenti alle fonti); E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninenhalbinsel, Lund, 1937, pp. 76 e 86; C. Ampolo, in Lo Stretto crocevia di culture (Atti del xxvi convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 1986), Napoli, 1993, p. 65; S. C. Bakhuizen, The Tyrrhenian Pirates. Prolegomena to the study of the Tyrrhenian Sea, «Pact xx», 1988, p. 27 sg., nota 38. Lo riporta senza commento A. Pagliara, art. cit. a nota 28, p. 308, nota 17 (cfr. anche nota 15). 2 Da autori tardi, quali Oros., iv, 8, 5; 20, 30; Isid., Etym., xiv, 6, 36; Zonar., viii, 12 d; Schol. Call., Hymn., iii, 47-48, a. Ma già Agatocle, verso il 300 a.C., poneva nelle sue memorie le sette isole âÓ ™ÈÎÂÏ›· (Schol. Apoll. Rhod., iv, 761-765 = fgh iv 290, 9). Il che giustifica a sufficienza il riferimento alle Eolie dell’espressione exercitum … in Siciliam duxit dell’elogio di Velthur Spurinna (G. Colonna, «mefra», 96, 1984, p. 568 sgg.; Idem, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, i, Roma, 1989, pp. 364 sgg., 590). Cicerone poneva le isole, senza altra specificazione, propter Siciliam (de nat. deor., iii, 22), così come facevano molti tra i lessicografi (Harpocr., Steph. Byz. e Sud., s.v. Lipara) e gli scoliasti (Schol. Hom. Od., x, 1 sgg.; Schol. Apoll. Rod., iii, 41-43). Un pressoché completo, attendibile e comodo repertorio delle fonti è offerto ora da A. Pagliara, in L. Bernabò Brea, M. Cavalier, Meligunìs Lipára, viii, 2, Palermo, 1995. 3 Il numero di nove, attribuito da Servio alle isole dell’arcipelago, rinvia a Varrone, come risulta da Isid., orig., xiv. 6, 36-37, che ne elenca anche i nomi, aggiungendo alle canoniche sette Tripodes e Sonores, cui sembra alludere quando dice che ab initio non fuerunt, postea mare editae usque nunc permanent (si tratterà dei due isolotti emersi nel 183 e nel 126 a.C.?). Su questi ultimi vedi: M. L. Zunino, Isole di fuoco. Per una nuova interpretazione dell’“eremia” eoliana, Udine, 1999, p. 32, note 5-7 (libro bene informato ma non condivisibile nella tesi di fondo). Ancora più esplicita la citazione del Reatino in Mythogr. Vat. Tertii, iii, 4, 10 (refert eum [Aeolum] Varro ix insularum regem fuisse). Nove sono le isole anche per l’Anonimo Ravennate (cosm., v, 23), che chiama però le due aggiunte Erculis (cfr. Mela, ii, 7, 120, It. Marit 517, 1, e Tab. Peut.) e Basilidin (Basiluzzo), e per un viaggiatore arabo di Spagna del xii secolo (citato da Pagliara, op. cit., p. 27, n. 3). Non va dimenticato che Varrone era stato anche ammiraglio e aveva avuto un comando, come ci dice egli stesso (de r.r., ii, pr. 6), «tra Delo e la Sicilia», nel corso della guerra contro i pirati del 67 a.C. Il poligrafo aveva scritto delle isole verosimilmente nel perduto de ora maritima (cfr. l’edizione Harvard di Servio, ii, Lancaster Penn., 1946, p. 46): si noti l’espressione post fretum Siciliae, che presuppone l’ottica di chi navighi appunto nel mar di Sicilia. Sul numero delle isole nella letteratura dà informazioni inesatte R. van Compernolle, Étude de chronologie et d’historiographie siciliotes, Bruxelles-Rome, 1959, p. 476 sg., nota 2. 4 Già avanzata da Palaiph. 17 (Myth. Gr., iii, 2, p. 25), che faceva di Eolo un astrologo. In realtà il culto divino di Eolo è bene attestato sull’acropoli di Lipari non solo dai donari iscritti col suo nome che sappiamo esposti nel Pritaneo assieme a quelli di Efesto (Diod. Sic., xx, 101, 2-3), ma anche dall’eccezionale bothros votivo scoperto nel 1964, ricolmo di offerte sulle quali l’unica iscrizione di dedica è appunto rivolta AÈÔ[ÏÔ] (da ultimi L. Bernabò Brea, M. Cavalier, F. Villard, Meligunìs-Lipára, ix, 1, Palermo, 1998, pp. 41-47, 221-245, con l’iscrizione alle pp. 75, 231, figg. 28, 121, tav. lxxxvii). Poiché la costruzione del bothros risale ai primi anni della colonia cnidia, è praticamente certo che l’identificazione dell’isola galleggiante di Eolo con Lipari risale almeno al vii secolo ed è contestuale o di poco posteriore a quella dell’isola di Circe con il Circeo, presupposta dai versi finali della Teogonia di Esiodo (di cui si sostiene ormai da più parti la datazione alta: A. Mele, Le popolazioni italiche, in Storia del Mezzogiorno, i, Napoli, 1991, p. 240 sg., e le relazioni e interventi di L. Braccesi, M. Torelli e dello

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verosimilmente a Varrone: Aeolus Hippotae sive Iovis sive Neptuni filius, qui cum immineret bellum, quo Tyrrhenus, Lipari frater, Peloponnesum vastare proposuisset, missus ab Agamennone, ut freta tueretur, pervenit ad Liparum, qui supra dictas insulas regebat imperio, factaque amicitia Cyanam filiam eius in matrimonium sumpsit et Strongulam insulam in qua maneret accepit. L’antefatto e il séguito di questa storia ci sono probabilmente noti. Ritengo infatti che ce li abbia conservati un passo, al contrario dell’altro citatissimo e celeberrimo, anche presso gli archeologi,5 di Diodoro Siculo, che concordemente si ritiene abbia attinto per esso a Timeo.6 «Dicono che un tempo le isole di Eolo erano deserte. In seguito un tale chiamato Liparo, che era figlio del re Ausone, spodestato dai fratelli, disponendo di navi da guerra e di soldati fuggì dall’Italia verso l’isola che da lui si chiamò Lipara, fondò in essa la città che porta il suo nome e mise a cultura le altre isole già nominate. Quando egli divenne anziano, approdò a Lipara con alcuni compagni Eolo figlio di Ippote e sposò la figlia di Liparo, Cyane. Questi [Eolo] regnò sull’isola facendo in modo che i suoi e gli indigeni convivessero pacificamente. Aiutò poi Liparo, che aveva nostalgia dell’Italia, a impadronirsi dei luoghi intorno a Sorrento, dove quegli regnò e morì, dopo essersi procurato grande fama. Sepolto in una tomba sontuosa, ebbe onori eroici dagli indigeni. Questo Eolo è il personaggio presso il quale raccontano che sarebbe giunto Odisseo nelle sue peregrinazioni (v, 7, 5-7)». Il racconto di Diodoro è integrato dall’interpolatore di Servio con tre informazioni, di cui due di primaria importanza e tra loro strettamente connesse. Sono il nome di uno, certo il capofila, dei ‘fratelli cattivi’, che si sarebbero ribellati a Liparo e lo avrebbero costretto a lasciare l’Italia, e il movente, su cui tace Diodoro, della venuta di Eolo in Occidente. Movente ricondotto a una ancor più bellicosa e temeraria iniziativa del medesimo fratello, cui pertanto competeva un ruolo negativo, ma tutt’altro che secondario, nei confronti dell’intera vicenda. Il nome del personaggio in questione è Tirreno. Un Tirreno non altrimenti noto, distinto sia dal fratello di Lido, che funge da protagonista nella versione lidia della saga delle origini etrusche, narrata da Erodoto, sia dal fratello di Tarconte, che compare nella versione in chiave eraclide della stessa saga, di cui si fa portavoce Licofrone nell’Alessandra.7 Il Tirreno dell’interpolatore di Servio non ha alcun legame né con la Lidia né con la Misia o altra regione dell’Asia Minore, ma, in quanto fratello di Liparo, è anch’egli figlio di Ausone e pertanto ha salde radici nella terraferma campana, dove è rimasto a regnare dopo la cacciata di Liparo, da solo o con altri fratelli, se il plurale usato da Diodoro non va inteso come un’amplificazione retorica. Un Tirreno del tutto occidentale, pertanto, ‘ausone’, forse considerato da qualcuno, al posto del Tirreno lidio,8 come l’eponimo del mare che anche nel suo vasto bacino meridionale, stesso Mele in Mito e storia in Magna Grecia (Atti del xxxvi convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 1996, Napoli, 1998). Ovviamente il testimone più antico della identificazione dell’isola omerica con Lipari non è Timeo (Mele, op. cit., p. 240, nota 8), o Filita (L. E. Rossi, in Mito e storia, cit., p. 73), o Tucidide (F. Prontera, in Lo Stretto, crocevia di culture, cit. a nota 1, p. 112), ma il santuario di Eolo indiziato dal bothros in questione. 5 Grazie a L. Bernabò Brea e alla interpretazione da lui data fin dagli anni ’50 delle sue mirabili scoperte nelle Eolie. 6 Come ha sostenuto, con particolare forza, F. Jacoby («ich habe keinen Zweifel dass der ganze Abschnitt ein reiner Exzerpt aus Timaios ist»: fgh , iii b 566, n. 164, Kommentar, p. 593). 7 Di esso non fanno parola né la voce relativa ai personaggi di quel nome nelle varie enciclopedie, a cominciare dalla re (da ultimo M. Harari, in limc , viii, 1997, s.v. Tyrsenos), né M. Gras nel suo ben documentato libro sui Tirreni (Trafics thyrrhéniens archaïques, Rome, 1985, spec. p. 646), né, quel che più sorprende, D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques. Histoire de la doctrine dans l’Antiquité, Rome, 1991. 8 Cui riporta esplicitamente il nome del mare Serv. auct., Aen. i, 67 (cfr. Briquel, op. cit., p. 440 sgg.).

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bagnante le terre e le isole un tempo abitate dagli Ausoni, dal Bruzio alle Eolie, dalla Campania al Circeo,9 nel v secolo a.C. era dai Greci comunemente chiamato Tirreno.10 Questo Tirreno, dopo aver scacciato Liparo dalla Campania ed essere diventato signore di quella regione, avrebbe concepito, ed è questa la seconda e ancor più preziosa informazione dell’interpolatore di Servio, il progetto di Peloponnesum vastare. Un’impresa marittima di grande respiro, coerente con la dimestichezza col mare attribuita a Liparo in quanto colonizzatore delle isole Eolie, fino allora deserte, ma anche perfettamente in linea con la fama di pirati goduta dai Tirreni/Etruschi agli occhi dei Greci.11 L’impresa, implicante il superamento dello Stretto, sarebbe stata contrastata in anticipo da Agamennone, che avrebbe inviato Eolo con i suoi compagni ut freta tueretur, a sbarrare appunto l’accesso allo Stretto. La menzione di Agamennone, regnante su larga parte della regione minacciata, dall’Acaia a Corinto e a Micene,12 e destinato a diventare capo riconosciuto di tutti gli Achei nella guerra di Troia, proietta i fatti Iliacis temporibus, come scrive Plinio, e più precisamente alla vigilia della spedizione contro quella città, in pieno accordo con la cronologia assegnata a Eolo sia nell’Odissea che da Diodoro, almeno nel passo in questione. Eolo infatti è divenuto anziano e ha già avuto dodici figli, quando presso di lui approda Odisseo, reduce dal decennale assedio di Troia e dalle successive peregrinazioni. La terza informazione supplementare, fornita dall’interpolatore di Servio, ha il carattere di una rettifica, secondaria ma non trascurabile, nei confronti della versione del racconto data da Diodoro. Eolo, sposata Cyane, riceve da Liparo la signoria su Strongula, ossia su Stromboli, che è l’isola più vicina e all’Italia e allo Stretto,13 comprensibilmente ritenuta la base migliore per tagliare la strada a Tirreno. L’isola di fatto è costantemente associata al nome del signore dei venti, che vi avrebbe avuto la reggia.14 Solo in seguito al ritorno vittorioso del vecchio Liparo in Campania, da lui promosso e militarmente appoggiato, Eolo erediterà dal suocero la signoria su Lipari e l’intero arcipelago, cui lascerà il suo nome, in concorrenza con quello di Liparo. Il racconto mitistorico così ricostruito è dotato, mi pare, di una apprezzabile coerenza interna. I brani dei due autori sui quali si basa la ricostruzione proposta non sembrano essere l’uno un arricchimento con aggiunte fantasiose dell’altro,15 ma piuttosto parti di un’unica narrazione, che entrambi hanno riassunto in poche righe e ciascuno a suo modo, selezionando i punti ritenuti significativi e introducendo lievi varianti. Si è detto della signoria su Stromboli, prima che su Lipari, ricordata dall’interpolatore di Servio, in linea 9 Cfr. A. Mele, op. cit., pp. 242-246. A Tirreni confusi con Ausoni sembra riportarsi la fonte di Apollod., ii, 5, 10, che attribuisce ad essi il nome îÙ·Ïfi˜ per ‘toro’ in rapporto a Reggio e all’attraversamento dello Stretto da parte della mandria di Eracle. 10 A partire almeno da Sofocle e da Tucidide (fonti in Wikén, op. cit., pp. 118 sg., 129). Dall’epiteto geografico di ‘tyrsenide’, dato a Scilla da Euripide, si fece più tardi di quella, come ricorda il Wikén (ibidem, p. 129, nota 1: vedi anche D. Briquel, op. cit., p. 446 sgg.), la figlia di un Tirreno (Apollod., Epit., 7, 20), identificato forse da qualcuno con il personaggio di cui parliamo (cui si attribuì come moglie la Crateide considerata genitrice del mostro in Od., xii, 124 sg.). 11 Cfr. M. Giuffrida Ientile, La pirateria tirrenica. Momenti e fortuna, Roma, 1983 (che però non cita il passo in questione); D. Briquel, Tyrrhènes et/ou pirates?, «Revue de Philologie», lviii, 1984, pp. 267-271; D. Musti, L’immagine degli Etruschi nella storiografia antica, in Atti del ii congresso internaz. etrusco, cit. a nota 2, pp. 19-39; S. C. Bakhuizen, art. cit. a nota 1, pp. 25-32 (che considera, credo a torto, del tutto mitico il fondamento della fama in questione). 12 Come appare nel Catalogo delle navi (Il., ii, 108, 559 sgg.). 13 Cfr. Schol. Od., x, 1 sgg. 14 Strab., vi, 2, 11; Plin., n.h., iii, 94; Solin., vi, 3; Mart. Cap., vi, 648, e altri. L’isola era chiamata anche ‘Eolia’ tout court, come in Omero, se va identificata con l’isola di questo nome menzionata da Ptol., iii, 4, 8, e da Eustath., Od., x, 174, come propone Pagliara, op. cit., p. 7, nota 5. 15 Così Pagliara, op. cit., p. 64 sg., nota 9.

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con la vulgata. Un’altra variante concerne il nome dato al padre di Eolo. Questi nel racconto in questione è chiaramente l’ospite di Odisseo, e quindi dovrebbe essere il terzo eroe di questo nome nella sequenza genealogica codificata dai mitografi all’inizio dell’ellenismo16 ed esposta dallo stesso Diodoro in iv, 67, 3, ossia il figlio di Posidone e di Arne (talora confusa con Melanippe).17 Diodoro invece lo dice figlio di Ippote, non volendo evidentemente discostarsi da Omero,18 mentre l’interpolatore di Servio al nome omerico di Ippote, padre dell’Eolo ii, fa seguire, con manifesto agnosticismo o disinteresse razionalistico alla questione, quelli di Zeus (padre dell’Eolo i, capostipite di tutti i Greci secondo la tradizione più antica)19 e di Posidone (padre appunto dell’Eolo iii). Queste lievi discrepanze, o incertezze, non impediscono di pensare che i due testi riflettano una fonte comune, assai probabilmente mediata, come si è detto all’inizio, da Varrone nel caso dell’interpolatore di Servio, e da Timeo nel caso di Diodoro. La versione di Timeo/Diodoro ha fatto cadere i riferimenti per così dire più compromettenti, ossia il riferimento a un Tirreno diverso da quello di Erodoto, conflittuale con la teoria sulle origini etrusche seguita almeno dal primo dei due autori,20 e il riferimento ad Agamennone e alla provenienza di Eolo dal Peloponneso, divergente dalla vulgata, seguita dallo stesso Diodoro in iv, 67, 3-6, che connetteva l’eroe, a partire almeno da Euripide e da Antioco,21 con l’Italia e con Metaponto. Ha invece conservato memoria, a differenza della versione di Varrone/Servio aggiunto, per i quali la questione non era più attuale, del ritorno di Liparo in Campania, che aveva suscitato evidente interesse nello storico di Tauromenio.22 Spia inconfondibile di una fonte comune, di ascendenza siracusana, resta comunque il rarissimo nome Cyane,23 assegnato in entrambi i testi – e, si badi, solo in essi –, alla sposa di Eolo,24 madre degli Eolidi che avrebbero regnato sull’Italía fino a Reggio e sull’intera costa settentrionale e orientale della Sicilia, all’epoca già abitata sia dai Sicani che dai Siculi, come ci informa Diodoro nel séguito del medesimo passo (v, 7, 8 sg.).25 Il nome Cyane è quasi un nome parlante, che riporta al culto specificamente siracusano di Kore, legato non solo ai Dinomenidi ma anche ai locali indigeni Siculi, che l’avrebbero istituito al tempo del passaggio di Eracle nell’isola.26 Né manca16 A partire, a quanto sembra, da Asclepiade di Tragilo, allievo di Isocrate. Cfr. la nota seguente. 17 L. Bernabò Brea, Gli Eoli e l’inizio dell’età del bronzo nelle isole Eolie e nell’Italia meridionale, Napoli, 1985, p. 224 sg.; A. Mele, Culti e miti nella storia di Metaponto, «Hespería», vii, 1996, pp. 9-32, spec. p. 28. Cfr. anche Der Neu Pauly, i, 1996, s.v. Aiolos, nn. 1-3 (F. Graf). 18 Per Sammartano (art. cit. a nota 30, p. 39, nota 9) Diodoro in questo passo userebbe il nome Ippote come epiclesi di Posidone. 19 A. Mele, Tradizioni eroiche e colonizzazione greca: le colonie achee, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, i, Napoli, 1995, pp. 427-450, spec. p. 436. 20 Timeo, com’è risaputo, credeva all’origine lidia degli Etruschi (M. Pallottino, L’origine degli Etruschi, Roma, 1947, p. 31; Briquel, op. cit. a nota 7, pp. 101, 110 sgg.). 21 Mele, art. cit. a nota 17, p. 17 sgg. 22 Vedi a nota 48. Sulla questione mi permetto di rinviare al mio Le civiltà anelleniche, in Storia della Campania. L’evo antico, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli, 1991, pp. 25-67, spec. p. 28 sgg. 23 Nel Lexikon of Greek Personal Names, i-iii A, edd. P. M. Frase, E. Matthews, Oxford, 1987-1997, compaiono solo due occorrenze non mitologiche, né comunque letterarie, del nome, di cui una in Sicilia. 24 Verosimilmente diversa, nonostante re , s.v. Kyane, n. 4, dalla madre della Callicrite, celebrata scherzosamente come maestra di tirannide da Anacreonte (Plat., Theag., 125 E; D. A. Campbell, Greek Lyric, ii, ed. Loeb, London, 1988, p. 114, fr. 449), che è un personaggio non altrimenti noto. 25 Il che si accorda con la cronologia alta della diabasis dei Siculi sostenuta non solo da Ellanico ma anche, a quel che sembra, da Antioco (M. Lombardo, Italo in Aristotele e Antioco: problemi di cronologia mitica, in Istoríe. Studi in onore di G. Nenci, Galatina, 1994, pp. 270-275). 26 Da ultimo F. Zevi, Siculi e Troiani (Roma e la propaganda greca nel v secolo a.C.), in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale (Actes de la rencontre scientifique en hommage à Georges Vallet, Rome-Naples, 1995), Roma, 1999, pp. 315-343, spec. p. 327 sg. Vedi anche limc , viii, 1997, s.v. Kyane (R. Lindner).

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no del resto a Lipara testimonianze archeologiche del culto delle Dee nel santuario suburbano in loc. Diana.27 Per tentare di risalire alla fonte comune di Varrone/Servio e di Timeo/Diodoro è utile comparare il racconto della mitistoria eoliana tramandato da questi autori con quello che leggiamo nell’altro passo, già ricordato, dello stesso Diodoro (iv, 67, 3-6), che si ispira a una fonte diversa da quella sottostante a v, 7, 5-7. In esso Eolo, oltre a risultare il terzo di questo nome, è un fuggiasco che, salpato da Metaponto assieme a Beoto, alla madre Arne e a uno stuolo di amici, separatosi dal fratello e dalla madre «si impadronì delle isole che da lui presero il nome di Eolie e fondò la città cui diede il nome di Lipara», nell’isola che verosimilmente si credeva avesse continuato a chiamarsi Meligunís.28 Questa versione delle origini eoliane, che ignora Liparo, almeno al momento della fondazione della città,29 non dà alcuna plausibile motivazione dell’arrivo di Eolo e considera questi come colui che ha fatto sue con la forza le isole, è stata recentemente riportata a un filone tessalo-beotico della leggenda, che forse identificava Eolo con il padre di Creteo, menzionato nella Nekyia (Od., xi, 235 sgg.) in quanto sposo dell’eroina Tyrò.30 Filone confluito più tardi in quello euboico-calcidese, la cui prima elaborazione in termini storiografici è stata attribuita, invero a titolo più di suggestione che di ipotesi, a Ippi di Reggio, che scriveva al tempo di Anassilao e negli anni immediatamente successivi.31 A questo storico, purtroppo quasi del tutto perduto, risalirebbe in ultima analisi l’inserimento di Liparo e degli Ausoni nella mitistoria delle Eolie e la rappresentazione altamente positiva sia del re indigeno che di Eolo, così come dei rispettivi discendenti, gli ultimi dei quali, strettamente affratellati tra loro, avrebbero accolto con favore i coloni cnidii e avrebbero attivamente collaborato con essi nella difesa delle isole contro gli attacchi degli Etruschi.32 Rispetto a questo racconto il nostro si differenzia per l’inserimento di un ulteriore personaggio, Tirreno fratello di Liparo, che agisce, come si è detto, da motore dell’intera vicenda. Questi infatti provoca sia il forzato esodo di Liparo che il trasferimento di Eolo in Occidente. A differenza dei suoi omonimi anatolici già ricordati, possiede una forte connotazione negativa, che ne fa a tutti gli effetti l’ipostasi del pirata-talassocrate etrusco: dopo avere spodestato e costretto all’esilio il fratello, muove guerra agli Achei e incombe sullo Stretto, minacciando d’inoltrarsi nello Ionio fino a devastare le coste del Peloponneso. Inevitabile a questo punto è il richiamo del celebre passo di Eforo, secondo il quale le prime colonie greche in Sicilia sarebbero state fondate relativamente tardi, nella decima generazione dopo la guerra di Troia, poiché «quelli [i Greci] dell’età 27 L. Bernabò Brea, M. Cavalier, Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche, ix, 1991, pp. 158-161; L. Bernabò Brea, M. Cavalier, U. Spigo, Lipari, Museo Archeologico Eoliano, Palermo, 1994, pp. 99-102, fig. 70; Agli albori della ricerca archeologica nelle Eolie. Scavi e scoperte a Lipari nel xix secolo, a cura di M. A. Mastelloni e U. Spigo, Messina, 1998, p. 25, n. 13 sg., fig. 9 sg. 28 A. Pagliara, MÂÏÈÁÔ˘Ó›˜-§È¿Ú·: Note di toponomastica eoliana, «Kokalos», xxxviii, 1992, pp. 303-318. 29 Salvo forse a recuperarlo come un successore di Eolo (cfr. Plin. iii, 93), che avrebbe dato il suo nome, in età post-odissiaca, sia all’isola, che in tal caso al tempo dell’ecista si sarebbe ancora chiamata Meligunis, che all’intero arcipelago. È tradizione già nota, a quanto pare, a Filita di Cos, che faceva arrivare Odisseo appunto «nell’isola Meligunis» (Pagliara, art. cit., p. 305 sg.; Idem, op. cit. a nota 2, p. 44, n. 5). 30 R. Sammartano, Mito e storia nelle isole Eolie, «Hespería», vii, 1996, pp. 37-56, spec. p. 39 sg.; Idem, Origines gentium Siciliae. Ellanico, Antioco, Tucidide, Roma, 1998, p. 96. 31 Sammartano, art. cit., p. 56. Su Ippi «primo storico greco d’Occidente»: G. Nenci, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, diretta da I. Lana e E. V. Maltese, i, Torino, 1998, p. 547; Sammartano, op. cit., p. 82 sgg. 32 Diversamente da quanto affermava Antioco, secondo il quale i coloni avrebbero trovato le isole deserte o ne avrebbero scacciato con la forza gli abitanti (fgh iii 590, 12 = Paus., x, 11, 3). L’atteggiamento antietrusco della rappresentazione attribuita a Ippi implica, se non erro, che lo storico scrivesse all’indomani del ‘voltafaccia’ di Anassilao conseguente alla battaglia di Imera, quando il tiranno fortificò Scilleo.

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precedente temevano la pirateria dei Tirreni e la crudeltà dei barbari del luogo, tanto che non prendevano il mare nemmeno per commerciare».33 Timore confermato da Strabone, quando scrive, nell’introduzione alla sua opera, che ai tempi di Omero «Cariddi e lo Scilleo erano occupati da pirati» (i, 2, 9),34 e ancora prima da Palefato, che interpretava razionalisticamente il mito di Scilla scrivendo che «erano navi dei Tirreni quelle che depredavano le terre prossime alla Sicilia e il golfo Ionio», tra le quali primeggiava la veloce triere recante iscritto sulla prora appunto il nome di Scilla.35 E inevitabile altresì, a proposito della spedizione progettata da Tirreno, è il ricordo delle makraì strateíai, per terra e per mare, che gli Etruschi sarebbero stati capaci di compiere quando erano uniti sotto la guida di ‘un unico capo (hegemón)’ (Strab., v, 2, 2), quale appunto poteva dirsi il nostro Tirreno. Quello però che qui più importa rilevare, per capire quando e per opera di chi ha preso forma il racconto mitico che si è cercato di ricostruire, è il fatto che alla connotazione ‘piratico-talassocratica’ di Tirreno si associa un dato per così dire intrinseco e anzi genetico, ossia la sua qualità di indigeno autoctono, intesa anch’essa in senso negativo. Tirreno, come si è detto, nasce da un Auson che non è il figlio di Odisseo, come nella tradizione euboico-calcidese confluita nella vulgata,36 ma è proiettato in un passato alquanto più lontano, poiché appartiene alla terza generazione prima della guerra di Troia. Egli è quindi verosimilmente l’eponimo, beninteso nella versione greca del mito, degli Ausoni quali ‘primi abitatori d’Italia’, secondo una tradizione indigena conservatasi probabilmente tra gli Aurunci, rappresentata per noi soprattutto dal prenestino Eliano:37 gli stessi Ausoni che per Dionigi di Alicarnasso sarebbero stati scacciati in remota età dalla Campania ad opera dei Pelasgi, così come era accaduto ai Siculi del Lazio.38 Tirreno, in quanto figlio di Auson, non può che essere a sua volta il capostipite dei Tirreni/Etruschi, in un’ottica che vuole ricondurre anche il maggior popolo d’Italia a una matrice autoctona e tende a considerarlo un popolo di barbari, emersi dal sostrato ausone della penisola, come altri ipotizzerà da quello sicano.39 Ma si può forse dire ancora di più. Il Tirreno in questione ha infatti tutte le probabilità di essere proprio l’anonimo anèr dynastés, dal quale, congiuntamente all’abitare nelle torri, sarebbero stati denominati i Tirreni/Etruschi secondo i sostenitori della tesi della loro autoctonia, esposta in età augustea da Dionigi di Alicarnasso, ma certo molto più antica di lui.40 33 fgh iii 137 = Strab., vi, 2, 2. Nel passo è anche da rilevare il giudizio negativo che dava Eforo dei Siculi, assimilati ai Ciclopi e ai Lestrigoni di Omero (localizzati in Sicilia a partire dal Catalogo esiodeo delle Donne: cfr. A. Mele, art. cit. a nota 4, p. 240). Per un indizio archeologico della frequentazione etrusca del Tirreno meridionale prima della colonizzazione greca rinvio al mio cenno in Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Firenze, 1974, p. 298. 34 F. Prontera, in Lo Stretto crocevia di culture, cit. a nota 1, p. 109 sg.; Ampolo, ibidem, p. 56, nota 18. 35 Palaiph., 20 (Myth. Gr., iii, 2, p. 28). Cfr. D. Briquel, op. cit. a nota 7, p. 447 sg., nonché la favola di Scilla figlia di Tirreno, ricordata a nota 10. 36 E. Lepore, Origini e strutture della Campania antica, Bologna, 1988, p. 61 sg.; Mele, op. cit. a nota 4, p. 244; Sammartano, art. cit. a nota 30, p. 42, nota 18; Idem, op. cit. a nota 30, pp. 93-95. 37 Ael., var. hist., viii, 16. Cfr. E. Lepore, op. cit., pp. 57-60. Aulo Gellio parla di Auruncorum aut Sicanorum aut Pelasgorum, qui primi coluisse Italiam dicuntur (i, 10). 38 Dion. Hal., i, 21, 3. Cfr. Briquel, op. cit. a nota 40, pp. 120 sgg., 168, note 25, 181. 39 Mi riferisco alla teoria esposta da Giovanni Lido, in cui tuttavia eponimo è il Tirreno proveniente dalla Lidia (D. Briquel, op. cit. a nota 7, pp. 489-509). La tendenza greca a non distinguere troppo tra Etruschi e genti indigene della Campania è evidente nella definizione di Nola come città ausone da parte di Ecateo (apud Steph. Byz., s.v.) e, all’opposto, di Nuceria come città dell’Etruria da parte di Filisto (apud Steph. Byz., s.v. Noukria). 40 i, 30, 2. Il rapporto tra le due derivazioni attribuite all’etnonimo non è chiaro nella formulazione di Dionigi: «nulla si oppone a che [gli Etruschi] siano stati chiamati dai Greci con questo nome [Tirreni] e per l’abitare nelle torri e da un loro dinasta». Briquel, al quale si deve un’attenta riconsiderazione di questo passo (Les Tyr-

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Il problema delle fonti cui si ispira lo storico di Alicarnasso è stato recentemente affrontato da Dominique Briquel, che ha concluso in maniera persuasiva, tenuto conto dello sviluppo che ha l’argomento onomastico-linguistico nell’economia dell’esposizione dionigiana, a favore di una dipendenza almeno parziale da Varrone.41 Il che coincide con quello che, del tutto indipendentemente, si è qui dedotto circa il passo dell’interpolatore di Servio. Varrone però è solo un intermediario: dietro di lui vi sono ben più antiche fonti greche, ostili agli Etruschi e tese a giustificare l’accesa conflittualità scatenata da Siracusa contro di essi. Conflittualità che, com’è noto, culminò all’epoca di Dionisio il Vecchio, nel 384 a.C., con la grande spedizione navale condotta per reprimere la pretesa pirateria degli Etruschi, nel corso della quale si verificò il saccheggio del santuario di Pyrgi, la sconfitta sul campo dei Ceriti e probabilmente l’occupazione temporanea della Corsica.42 L’immagine che il passo dell’interpolatore di Servio restituisce di Tirreno, come di un indigeno autoctono, persecutore malvagio del fratello Liparo e autore del progetto di un’ardita incursione navale contro gli Achei, concorda in pieno con la rappresentazione negativa degli Etruschi, che secondo Briquel sarebbe stata propagandata per la prima volta da Filisto, storico e protagonista egli stesso della scena politica siracusana al fianco dei due Dionisii. Briquel arriva a fare il nome di Filisto in un certo senso per esclusione, ma in base a fondate considerazioni di ordine generale, pienamente condivisibili, cui ha aggiunto nel suo ultimo libro un argomento positivo concernente la pretesa etimologia dell’etnico degli Etruschi dal nome delle torri da essi abitate.43 Alle considerazioni generali esposte da Briquel possiamo aggiungere ora, a mio avviso, il reperimento della menzione, nelle pieghe della tradizione storiografica antica, dell’oscuro anèr dynastés cui allude Dionigi di Alicarnasso, considerandolo corresponsabile del nome portato dai suoi Tirreni autoctoni. Così stando le cose riteniamo di poter attribuire a Filisto la rielaborazione del logos sulla mitistoria eoliana che si è creduto di poter ricostruire. Lo storico siracusano avrebbe basato la sua rielaborazione su antiche tradizioni calcidesi, essenzialmente orali, che forse già avevano ricevuto una prima registrazione da parte di Ippi, secondo l’ipotesi sopra riferita di R. Sammartano. Filisto avrebbe ripreso la trattazione di Ippi, che a quanto si può capire era centrata sulla cordiale intesa tra Greci e indigeni ausoni di fronte al pericolo etrusco, giunto al suo apice con l’assedio e la presa di Lipari intorno al 485-480 a.C.,44 e di suo avrebbe aggiunto la forte accentuazione nel rappresentare gli Etruschi come crudeli aggressori.45 Liparo infatti diviene, nel racconto che si è ricostruito, la prirhènes peuple des tours. Deniys d’Halicarnasse et l’autochtonie des Étrusques, Rome, 1993, pp. 68 sg., 174), pensa alla sovrapposizione di due tipi d’interpretazione distinti all’origine, ma forse Dionigi vuole semplicemente dire che gli Etruschi sono stati denominati da un dinasta, che a sua volta era così chiamato dall’abitare nelle torri come i suoi connazionali. In ogni caso Briquel riconosce che «il semble ainsi admettre l’existence d’un Tyrrhènos qui serait déconnecté de la légende lydienne» (p. 68), del quale a suo avviso non sapremmo nulla. 41 Op. cit., pp. 172-178. 42 Fonti principali sul piano storico-militare: Diod. Sic., xv, 14, 3-4 e Strab., v, 2, 8. 43 Briquel, op. cit. a nota 40, p. 192 sgg. L’etimo sarebbe basato sul nome dell’epíneion di Caere assalito dal tiranno, Pyrgi, che poteva evocare appunto le torri, e apparteneva a un sito definito da Servio come metropolis (degli Etruschi), fiorente all’epoca della loro pirateria (Aen., x, 184). La proposta, pur seducente, non convince del tutto, perché i Greci, tanto più d’Occidente, sapevano che gli Etruschi non avevano abitato nelle torri più di qualsiasi altro popolo mediterraneo. Sulla questione mi propongo di ritornare a proposito della Sardegna. 44 G. Colonna, Apollon, les Étrusques et Lipara, «mefra», 96, 1984, pp. 557-574 (cfr. Pagliara, op. cit. a nota 2, p. 74 sg., nota 9). Sul cippo dei Tirreni a Delfi: G. Colonna, in I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, a cura di A. Mastrocinque, Trento, 1993, pp. 61-67; A. Jacquemin, «aion ArchStAnt», n.s. 2, 1995, p. 145, n. 15. 45 In questa luce direi che non è affatto escluso che Callimaco, e forse prima di lui Teofrasto, abbiano tratto da lui la storia del sacrificio umano di Theudotus, compiuto dagli Etruschi all’indomani della presa di Lipari (fonti in Colonna, art. cit.).

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ma vittima della hybris etrusca, oltre che il modello della convivenza tra genti ausonie e coloni calcidesi, a lungo sperimentata in epoca storica in Campania, e specialmente tra la valle del Sarno e la penisola sorrentina,46 sia prima che dopo i due attacchi etruschi contro Cuma del 524 e del 474 a.C. Eolo assume da parte sua i tratti inediti di un precursore dei coloni cnidii, considerati, in un’ottica pervasa da solidarietà dorica, come campioni della grecità contro il barbaro, venuti in soccorso d’oltremare come avevano fatto i Siracusani, divenendo da allora i tradizionali alleati di Lipari. Più specificamente, si può dire che il figlio di Ippote o di Posidone è visto come il precursore del siracusano Ierone, che non solo si pone cavallerescamente con la flotta siracusana a capo della controffensiva contro gli Etruschi assalitori di Lipari e di Cuma, ma ristabilisce lo status quo in Campania, arginando la pressione dei barbari,47 così come fa Eolo a conclusione del logos mitistorico, riportando Liparo a Sorrento e facendosi garante del suo regno terrestre.48 Pegno dell’unione tra i due eroi è Cyane, l’eroina dal nome sentito forse allora come siculo prima ancora che siracusano, figlia di Liparo e sposa di Eolo. Né manca, in questa proiezione mitica dei conflitti e delle alleanze che coinvolsero le Eolie all’epoca delle guerre persiane, la sottolineatura del ruolo dello Stretto, che Eolo è inviato a difendere contro Tirreno: missione da lui compiuta insediandosi in quella fortezza naturale che è l’isola di Stromboli, l’isola Eolia per eccellenza. Così come un altro protagonista della storia di quegli anni, Anassilao, trasforma in una munita base contro gli Etruschi (Strab., vi, 1, 5), una volta divenuto alleato di Ierone, il promontorio di Scilleo sulla costa del Bruzio, mitica sede della tirrena Scilla all’imbocco settentrionale dello Stretto. [Tyrrhenus Lipari frater, in Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, a cura di I. Berlingò, H. Blanck, F. Cordano, P. G. Guzzo, M. C. Lentini, Milano, 2000, pp. 265-269].

46 Esemplare al riguardo la coppa di bucchero con l’iscrizione in alfabeto calcidese di un \AÚ›ÛÙˆÓ rinvenuta in una tomba di Nuceria (G. Colonna, «StEtr», xlii, 1974, p. 379 sg.). Per altre iscrizioni greche nello stesso alfabeto, da Sorrento e da Massalubrense: Idem, in La presenza etrusca nella Campania meridionale (Atti delle giornate di studio di Salerno-Pontecagnano, 1990), Firenze, 1994, p. 358 sg., nota 75. Cfr. L. Cerchiai, I Campani, Milano, 1995, p. 139 sg. 47 È allora che si arrivò a chiamare il basso Tirreno, fino al Capo Miseno, mare Siculum, quasi fosse un lago siracusano, come attesta Phaedr. ii, 5, 8-10. Cfr. F. Raviola, Napoli origini, «Hespería», 6, 1995, p. 186, nota 244, e, per il ruolo di aggressori spettante agli Etruschi, p. 185, nota 244. 48 Anche se la menzione, seppur indiretta, della ‘tomba sontuosa’ (Ù·ÊÂd˜ ‰b ÌÂÁ·ÏÔÚÂá˜) e degli onori eroici ricevuti dal re sembra denotare un’informazione assunta sul posto, per la quale si dovrà forse pensare a Timeo. Di un’analoga connessione tra le Eolie e il golfo di Napoli sembra sapere Stesicoro, se veramente faceva di Miseno un figlio di Eolo, compagno di Odisseo (H. Lloyd Jones, «zpe», 87, 1991, pp. 297-300: cfr. Cerchiai, op. cit. a nota 46, pp. 7 e 23).

I CARATT ERI OR IG INA L I DELLA CIVILTÀ E T RU S C A sempre difficile, per non dire temerario, condensare in poche pagine il “ritratto” di un popolo e di una civiltà, senza cadere nei più triti luoghi comuni. Per gli Etruschi il compito è indubbiamente facilitato dalla loro riconosciuta diversità, rispetto agli altri popoli antichi, che ha contribuito ad alimentare, più o meno consapevolmente, tanta mediocre letteratura moderna sul “mistero” etrusco. La diversità era chiaramente percepita dalla cultura classicistica di età augustea, come risulta dalla testimonianza di un intellettuale greco vissuto per molti anni a Roma, Dionigi di Alicarnasso, autore di una monumentale trattazione in venti libri della più antica storia della città allora padrona del mondo, dalle origini leggendarie alla vigilia del conflitto con Cartagine. Dionigi, contrariamente a quello che molti pensano, nutriva una malcelata ammirazione per gli Etruschi e si proponeva, come egli stesso ci informa (i, 30, 4), di dedicare alla loro storia una trattazione a sé, parallela a quella di Roma, come pochi decenni più tardi farà l’imperatore Claudio con i suoi Tyrrheniká pure in venti libri, andati purtroppo interamente perduti nel Medioevo. Per Dionigi (i, 30, 1) gli Etruschi erano un popolo “archaîón te pánu” (assai antico) e “homodíaiton” (a nessun’altra stirpe simile sia nella lingua che nel modo di vivere). Possiamo partire da questa definizione, rispecchiante un’opinione largamente condivisa in età romana, per risalire ai caratteri originali della civiltà etrusca. “Un popolo assai antico”. Il connotato dell’antichità, con il prestigio che a esso si accompagnava, era unanimemente riconosciuto agli Etruschi. Si riteneva che la loro storia fosse iniziata prima di quella dei Latini, dal cui alveo era nata a un dato momento Roma. Dionigi li considerava un popolo italiano autoctono, alla stessa stregua degli Umbri, degli Ausoni e dei Sicani, preesistente non solo a Romolo, ma anche ai progenitori Enea e Latino. Per chi li faceva discendere da un nucleo di immigrati (si ricordi che il “problema” delle origini etrusche era presente già alla riflessione storica greca, a partire probabilmente da Ecateo di Mileto), la remota antichità della loro etnogenesi era ugualmente fuori discussione. Infatti, se gli immigrati erano considerati Pelasgi si risaliva a un’età anteriore alla “invasione dorica” della Grecia e quindi alle origini stesse degli Elleni; se erano ritenuti Lidi si risaliva non meno all’indietro nel tempo, fino alla prima, favolosa dinastia che avrebbe regnato su quel popolo, all’epoca del suo mitico eponimo Lido, fratello minore (?) di Tirreno (altrimenti considerato figlio o nipote di Eracle). Dietro questa presunzione di antichità sta l’esperienza che i Greci avevano acquisito degli Etruschi fin dalle loro prime navigazioni in Occidente, dopo la parentesi dei “secoli bui” seguiti ai fasti dell’età micenea. Secondo un’affermazione che Eforo, autore verso il 350 a.C. di una storia universale spesso citata da Strabone, fa a proposito della Sicilia, in patente disaccordo col panfenicismo mostrato al riguardo da Tucidide, i Greci dopo la guerra di Troia si sarebbero astenuti per secoli anche solo dal navigare per commercio in quei mari a causa della pirateria degli Etruschi, oltre che della ferocia dei nativi, rivelatasi alla prova dei fatti, cioè della colonizzazione, irrilevante (Strabone, vi, 2, 2, C 267). Ignoti a Omero, gli Etruschi entrano nell’universo culturale greco con Esiodo, che nella sezione finale della Teogonia, di cui ormai si tende ad accettare l’autenticità, fa abitare “gl’incliti Tirreni” in un paese “mála têle” (assai lontano), posto “nel fondo delle Isole

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Sacre”, associandoli di fatto ai contigui Latini (e Sabini?), dato che su di essi avrebbero regnato Agrio e Latino, figli di Circe e di Odisseo (vv. 1011-1016), in un’insolita diarchia che potrebbe evocare il regno alterno di Tito Tazio e di Romolo. Ma quello che più colpisce nella rappresentazione esiodea è che in essa risultano significativamente contrapposti eponimi soltanto per così dire potenziali, quasi “re in cerca di sudditi”, e un popolo, gli Etruschi, già pienamente formato, anche se proiettato in remote lontananze geografiche. Alla luce di queste considerazioni appare del tutto giustificato attribuire agli Etruschi, come ha fatto in più occasioni Massimo Pallottino, le manifestazioni della cultura villanoviana, che contraddistinguono dalla fine del x a gran parte dell’viii secolo a.C. il paese abitato da quel popolo in epoca storica, da Bologna a Pontecagnano e a Eboli, con le uniche “appendici” esterne, del resto ben circoscritte ed effimere, di Fermo nel Piceno e di Sala Consilina nell’Enotria. Il che respinge nell’età del Bronzo finale (xii-x secolo a.C.), come coerentemente ha fatto lo stesso Pallottino, la fase formativa del popolo etrusco, la sua etnogenesi, le cui manifestazioni saranno da ricercare nel contesto, assai più esteso geograficamente rispetto all’Etruria storica, della cultura “protovillanoviana”, avente comunque non a caso i suoi epicentri nell’Etruria meridionale (facies di Tolfa-Allumiere) e nel delta padano (facies di Frattesina). “Un popolo a nessun’altra stirpe simile per la lingua”. È questa una peculiarità da tempo scientificamente accertata, nelle grandi linee, nonostante i tentativi, che da oltre due secoli periodicamente si ripetono, di interpretare i testi etruschi col metodo “etimologico”, postulando le più disparate parentele linguistiche. Gli Antichi, nell’affrontare il problema delle origini di quel popolo, avevano piena coscienza dell’isolamento dell’etrusco, per cui, nell’ipotesi di immigrazioni, associavano al cambiamento del nome etnico un cambiamento linguistico, introducendo il concetto di una trasformazione culturale, una metabolé, nei confronti del popolo chiamato in causa come progenitore, tale da coinvolgere la stessa lingua. Per i sostenitori della derivazione dai Pelasgi costoro, come narrava Ellanico, una volta arrivati in Italia, a Cortona sarebbero divenuti Etruschi e avrebbero “fondato” l’Etruria (in Dionigi di Alicarnasso, i, 28, 3). La diversità dell’etrusco rispetto al pelasgico è esplicitamente affermata dallo stesso Dionigi (i, 29, 2-4), sulla scorta di una controversa osservazione risalente alla curiosità etnografica e scientifica di Erodoto, secondo la quale a Cortona – “Crestona” nei manoscritti – posta “sopra gli Etruschi” in direzione del “mare Superum”, si parlava ancora pelasgico, come a Plakía e a Skyláke sull’Ellesponto: unici relitti di un grande naufragio, poiché i discendenti dei Pelasgi, a cominciare dagli Ateniesi, avevano dappertutto mutato lingua (i, 57, 3). Ugualmente per Dionigi la diversità dell’etrusco, rispetto alla lingua parlata dai Lidi, è un dato di fatto ovvio, espressamente ribadito (i, 30, 1). A Livio non sfuggiva la parentela, sicura anche per noi moderni, dell’etrusco col retico, ma, d’accordo con la comune opinione del suo tempo, la spiegava con l’ipotesi storica, oggi screditata, della discendenza dei Reti dagli Etruschi padani (v, 33, 11). Invece la parentela, anch’essa comunemente accettata ai giorni nostri, dell’etrusco col lemnio sembra essere stata ignorata dagli Antichi, che tuttavia chiamavano Tirreni gli abitanti di Lemno e Imbro scacciati dagli Ateniesi di Milziade alla fine del vi secolo a.C. E oggi va facendosi strada l’idea che, come pensava Livio dei Reti, possa in realtà trattarsi di discendenti di “pirati” etruschi, arrivati in quelle isole in età postomerica, forse entro l’viii secolo a.C. Infine, sempre secondo Dionigi, gli Etruschi erano “un popolo a nessun’altra stirpe simile per il modo di vivere”. Il termine usato, díaita, abbraccia il complesso dei fatti culturali di più immediata evidenza, caratterizzanti la vita di un popolo o anche di una minore comunità. Per Erodoto i Lidi furono costretti a mutare “tèn pásan díaitan tês zóes”

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(i, 157, 2), per obbedire a Ciro che, seguendo il consiglio del vinto Creso, dato per evitare il peggio ai suoi ex sudditi, intendeva farli diventare “donne invece che uomini”, facendoli precipitare nella “tryphé” (i, 155, 4). Tucidide usa il termine in modo più specifico quando scrive che gli abitanti dell’Attica, costretti nel 431 a.C. a inurbarsi abbandonando i loro villaggi, così facendo “mutarono la loro díaita” (ii, 16, 113). Di fatto il tratto che forse meglio di ogni altro distingue gli Etruschi, e non solo rispetto agli altri popoli dell’Italia antica, è lo sviluppo assunto presso di loro dal fenomeno urbano. L’Etruria è essenzialmente un paese di città, piccole, medie o grandi, ma tutte esteriormente simili, con la sostanziale differenza che le grandi erano sede di organismi politici di livello statale. Riunite nella lega dei duodecim populi – assai più pertinentemente dai Greci chiamata dodekápolis –, queste città di fatto si identificavano con la nazione (Fig. 1). Lo stesso accadeva nell’Etruria padana e in quella campana, a riprova del ruolo strutturante che aveva assunto la città presso di loro. Il fenomeno è antichissimo e, in partenza, del tutto indipendente da modelli esterni, greci o semitici che fossero. Possiamo dire che il processo formativo della nazione etrusca si conclude, tra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio di quella del Ferro, proprio con l’emergere delle gigantesche agglomerazioni protourbane, prive praticamente di confronti fuori del territorio etrusco, e secondariamente latino. Sono state certamente queste “protocittà”, abitate da migliaia di persone, a tenere lontani prima i Fenici e poi i Greci, nel loro moto espansivo verso Occidente, dalle coste e dalle connesse ricchezze minerarie del medio Tirreno, che pure di quel moto erano certamente uno dei principali obbiettivi. Il che ha segnato una profonda, storica differenza rispetto al comportamento di gran parte delle comunità indigene dell’Italia meridionale e delle isole: basti pensare alla sorte di tante comunità ausonie, enotrie, sicule e della Sardegna occidentale, travolte e annientate dai coloni venuti d’oltremare. Dovunque gli Etruschi furono presenti fondarono città, o comunque insediamenti di tipo urbano, riconoscibili in primis per l’impianto viario ortogonale e la connessa organizzazione dello spazio, anche cemeteriale. Ciò è evidente soprattutto nella Valle Padana, dove al classico esempio di Marzabotto (Fig. 2) si sono aggiunti negli ultimi decenni quelli di Spina-Valle di Mezzano, del Forcello di Bagnolo San Vito presso Mantova e di San Basilio nel delta del Po, tra Adria e Spina, senza contare le riprese più o meno episodiche documentate tra le contigue popolazioni locali, per esempio a Prestino presso Como, nelle valli retiche e perfino nella lontana Santa Lucia di Tolmino. Ma anche nell’Etruria propria non mancano testimonianze, tra vi e v secolo a.C., di fondazioni o rifondazioni radicali, a cominciare dagli insediamenti portuali – veri e propri epíneia di tipo greco – sorti a Pyrgi sulla costa cerite e a Regae su quella vulcente, nonché dal grande impianto di Doganella, col quale Vulci prese definitivamente possesso del fondovalle dell’Albegna. In Campania si possono citare, oltre al caso di Capua, quello di Fratte di Salerno e, al livello di centri indigeni fortemente acculturati, quello sempre meglio noto di Pompei, mentre per l’ambito oltremarino sono venute a illuminarci le scoperte di Aleria in Corsica. Non meraviglia pertanto che agli Etruschi fosse accreditata dalla tradizione romana una complessa dottrina sulla fondazione rituale delle città, imperniata sul concetto della urbs iusta, delimitata da un pomerio, orientata e dotata di un suo centro ideale, il mundus, che la metteva in comunicazione con gli dei inferi e superi. Questa dottrina, sacralizzante lo spazio della città, ha trovato numerose conferme archeologiche, almeno nelle singole sue componenti, soprattutto, ma non solo, al livello della scrupolosa ripresa e continuazione che ne fecero i Romani, a partire, secondo una inveterata tradizione, dallo stesso Romolo. Questi avrebbe “fondato” Roma Etrusco ritu, isolando ritualmente l’area del Palatino e delle sue pendici, come hanno confermato le recenti ricerche di A. Carandini, rispetto al restante, già allora ben più esteso abitato.

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Fig. 1. Città e insediamenti minori dell’Etruria antica.

Connessi col modo di vivere urbano sono molti altri aspetti che hanno contribuito, in vario modo, a distinguere e a qualificare la civiltà degli Etruschi. Anzitutto le loro città hanno modificato profondamente i rispettivi territori, trasformandoli quasi ovunque, e spesso per intero, in una “campagna” a esse subordinata, col conseguente svuotamento di significato di strutture istituzionali alternative, altrove in Italia rimaste vigorose, quali i pagi e i vici. Le città sono state in grado di realizzare immani opere di bonifica e di regimentazione delle acque, che hanno segnato indelebilmente il paesaggio italiano, dalla val di Chiana alla Terra di Lavoro, dalle pianure costiere del Tirreno, destinate a ripiombare nel Medioevo nello stato insalubre di maremma, al delta padano, sicché ap-

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Fig. 2. Veduta aerea di una parte degli scavi di Marzabotto.

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pare del tutto giustificato l’epiteto di “maestri di idraulica” dato agli Etruschi, sulle orme della tradizione antica, nel titolo di un recente convegno. Ai canali, anche navigabili, agli emissari artificiali, alle reti di cuniculi che drenavano sistematicamente estesi comprensori tufacei, come nel caso ben noto della campagna di Veio, si affiancavano le prime strade carrabili a fondo interamente artificiale, come quella collegante Caere al porto di Pyrgi, e le “vie cave” che, con tagliate arditissime, superavano i dislivelli di quota frequenti nel tormentato paesaggio tufaceo dell’Etruria meridionale interna. Appare sempre più evidente che nel campo dell’idraulica, dell’ingegneria stradale e dell’agrimensura, così come in quello delle forme architettoniche, di cui appresso si dirà, gli Etruschi sono stati i veri maestri dei Romani. Ad essi risale tra l’altro il concetto della sacralità dei termini, ossia delle pietre di confine (Fig. 3), che, secondo un testo conservatoci in traduzione latina dal Corpus dei Gromatici, la cosiddetta profezia di Vegoia, sarebbero state volute dallo stesso Giove per dividere i campi e assegnarne la proprietà ai singoli domini, come se fosse contro l’orFig. 3. Cippo di confine (Bettona, Museo). dine naturale il concetto, proprio delle società pre-urbane, della proprietà comune e indivisa della terra. Una conseguenza degli investimenti fondiari compiuti dalle aristocrazie urbane nel corso dell’età orientalizzante è stato l’incremento della produzione di olio e soprattutto di vino, quest’ultima eccedente ben presto il fabbisogno interno al punto da consentire una esportazione su larga scala della bevanda, assai richiesta anche dalle popolazioni barbare dell’Occidente. Gli Etruschi tra la fine del vii e l’inizio almeno della seconda metà del vi secolo sono stati forse il principale esportatore di vino nel Mediterraneo occidentale, a giudicare dalla distribuzione delle loro anfore da trasporto, che solo da poco si è imparato a riconoscere. Rinvenute in Campania, in Sardegna e soprattutto nel Golfo del Leone e oltre, dalla Provenza alla Linguadoca e alla Catalogna (Fig. 4), sono presenti in queste regioni in quantità superiori a quelle delle coeve anfore fenicio-puniche e greche. È questo un aspetto del commercio etrusco fuori dell’Etruria, che anticipa quello del vasellame di bronzo, fiorente tra vi e v secolo in direzione dell’Europa continentale (accompagnato anch’esso dal vino e dall’olio, come prova la saga del chiusino Arrunte, vero prototipo dell’émporos etrusco, che avrebbe provocato col dono di quei prodotti la discesa dei Celti in Italia). Si tratta, nel caso del vino esportato tra vii e vi secolo, di un commercio marittimo, che pone in evidenza un altro connotato unanimemente riconosciuto dagli Antichi agli Etruschi, ossia la loro antica dimestichezza col mare, superiore a quella di qualsiasi altro popolo dell’Occidente.

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Fig. 4. Le anfore da trasporto etrusche: ritrovamenti e rotte marittime.

L’importanza di tale rapporto si misura da un lato con la fama di pirati, indissolubilmente legata al nome degli Etruschi nell’immaginario greco, riguardo sia all’Egeo che all’Adriatico e soprattutto al Tirreno, mare questo di cui erano considerati non a caso gli eponimi; dall’altro con la fama di “talassocrati”, goduta nei confronti di entrambi i due mari occidentali, e non solo di essi. Pirateria e talassocrazia sono notoriamente due manifestazioni di potenza marittima e, più in generale, di presenza sui mari, antitetiche solo per il ruolo implicato, che nel secondo caso è assimilabile a una sorta di “dominio”, esercitato con un implicito consenso internazionale. Di fatto quando dalle affermazioni generalizzanti si scendeva al concreto, la talassocrazia sul Tirreno era riferita a Caere, evidentemente nel periodo cruciale intercorso tra la metà del vi e quella del v secolo, ossia tra la battaglia del mare Sardo e l’occupazione siracusana dell’Elba, mentre quella sull’Adriatico era attribuita a Spina, ovviamente nella sua fase apogeica, tra l’inizio del v e quello del iv secolo. Entrambe le città, caso unico tra i barbari, avevano avuto, grazie ai meriti così conseguiti, il privilegio di poter costruire un proprio thesaurós nel santuario panellenico di Delfi, nonché forse la sanzione della loro pretesa origine pelasga, che le imparentava in qualche misura con i Greci. La fama di pirati concerneva invece il versante “tirrenico” dell’éthnos etrusco, sia nell’Egeo che nell’Occidente, in relazione alla sua pretesa origine lidia o soprattutto autoctona, e a un’età più recente, il iv-iii secolo – quando era ormai in atto una profonda destrutturazione

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della nazione etrusca – oppure più antica. In proposito si può richiamare la già ricordata affermazione di Eforo circa i pericoli che a lungo avevano tenuto lontano i Greci dalle acque della Sicilia, affiancandola a quanto scrive Diodoro Siculo circa le lotte sostenute contro gli Etruschi dai colonizzatori cnidii delle isole, a partire dal 580 circa a.C. Sul piano mitistorico possiamo dire che l’incarnazione del pirata etrusco è rappresentata da quel Tirreno fratello di Liparo, l’eroe autoctono, in quanto ausone, di cui parla Servio in un passo di cui solo recentemente si è compresa l’importanza (ad Aeneidem, i, 52), attingendo probabilmente, per via indiretta, a Filisto. Dopo aver costretto Liparo a lasciare la Campania, costui avrebbe divisato di Peloponnesum vastare, inducendo così Agamennone a inviare Eolo in Occidente per sbarrargli la via dello Stretto. L’immagine emblematica dei pirati Fig. 5. Idria etrusca a f. n. (a Toledo, usa). etruschi, quale appariva a occhi greci, ci è conservata dalla saga dei Tirreni, ovviamente dell’Egeo, che tentano il rapimento a fini di lucro di un bel giovanetto, senza accorgersi che si tratta di Dioniso, dal quale sono puniti con la trasformazione in delfini. Mentre difficilmente databile è l’inno omerico al dio, incentrato sulla leggenda, le prime raffigurazioni vascolari che alludono a essa, attiche ed etrusche, risalgono all’ultimo terzo del vi secolo (e quelle etrusche sembrano testimoniare la voluta dissociazione degli Etruschi occidentali, amici di Atene, dai loro omonimi egei) (Fig. 5). Genericamente al concetto della potenza navale degli Etruschi si riporta invece l’attribuzione ad essi dell’invenzione del rostro, di cui in realtà finirono assai presto per essere armate le navi da guerra di ogni paese, e della tromba, strumento militare d’uso anche marinaro, così come la notizia di tentate navigazioni in direzione dell’Oceano, impedite dai Cartaginesi. All’immagine del pirata era solidale il connotato dell’aggressività e della crudeltà, manifestato dal sacrificio umano, che era stato da loro praticato ancora al tempo della presa di Lipari, verso il 490-480 a.C., come ricordava con orrore Tzetztes, sulle orme di Callimaco (Historiarum variarum Chiliades, viii, 889-892), e dal ricorso a supplizi particolarmente “cattivi”, come quello di legare il condannato a un cadavere, per provocarne una morte non meno atroce che lenta. La crudeltà imputata agli Etruschi è riconducibile al motivo più generale della hýbris, ossia della mancanza di misura, dell’eccesso assunto a norma di vita, che i Greci rimproveravano volentieri ai barbari, ma anche a quegli uomini al di fuori delle leggi, che erano comunemente considerati i tiranni, greci o barbari che fossero. Di fatto un fortunato giuoco di parole, nato in ambito dialettale dorico, quasi certamente siracusano, assimilava i Tyrrhanói (Tirreni) ai tiranni, quasi che gli Etruschi fossero i “tiranni” per eccellenza. In tale prospettiva il prototipo del tiranno veniva additato, stando almeno alla tradizione latina, a noi nota soprattutto da Virgilio, in Mezenzio, il re di Caere spodestato per la sua tracotanza verso gli uomini e verso gli dèi, sperimentata anche dai Latini

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al tempo di Enea (e di cui la storicità del nome è ora provata da un’iscrizione vascolare cerite del primo vii secolo a.C.). L’accusa a quanto pare era abilmente ribaltata dagli Etruschi di Caere, che sulla fronte rivolta verso la città del tempio maggiore di Pyrgi avevano raffigurato verso il 470 a.C. le empie gesta di Tideo e Capaneo davanti alle mura di Tebe, ossia i massimi exempla di hýbris reperibili nell’epos greco, con probabile allusione all’aggressività persecutoria dispiegata dai Dinomenidi contro di essi (oltre che forse, in chiave di politica interna, ai comportamenti di figure tiranniche locali, come quella dello stesso Thefarie Velianas, devoto di Astarte e amico di Cartagine, della cui biografia sappiamo peraltro troppo poco). La pietas dei Ceriti era invece significativamente esaltata sulla fronte a mare del medesimo tempio con la raffigurazione, giuntaci nel rifacimento di metà iv secolo, dell’accoglienza generosamente accordata a Leucotea e a Palemone, auspice Eracle. Anche del resto nell’area Sud dello stesso santuario uno splendido donario come la gigantesca phiále attribuita al Pittore di Brygos, raffigurante la Mnesterophonia, ammoniva lo straniero giunto in Etruria sui pericoli cui si esponeva violando i sacri vincoli dell’ospitalità. L’altro tópos ricorrente nel mondo greco riguardo agli Etruschi concerneva la tryphé, anch’essa originata dall’eccesso e dalla mancanza di misura, ma in questo caso con riferimento al benessere, ai consumi e in generale al buon uso della ricchezza, senza il quale si riteneva che essa portasse inevitabilmente alla corruzione dei costumi e, a lungo andare, alla rovina delle città e dei popoli che ne erano affetti. È un tópos di tipo moralistico e filosofico, che incontriamo in Teopompo, Alcimo, Eraclide Pontico, Timeo e, sulle loro orme, in autori più tardi, tra i quali il più equilibrato è tutto sommato Posidonio (in Diodoro Siculo, v, 40). Ma il motivo era verosimilmente presente con larghezza nei pochi scritti di autori greci espressamente dedicati agli Etruschi, di cui molto è da rimpiangere la perdita, quali i Tyrrhenôn nómima di Aristotele e il Perì Tyrrhenôn del suo discepolo Teofrasto. Tutta questa letteratura, mentre prova il non diminuito interesse della cultura greca del tempo verso gli Etruschi, è ovviamente condizionata dallo spettacolo di incipiente decadenza offerto da quella nazione tra la fine del v e la metà del iv secolo, all’indomani della perdita di gran parte del dominio campano provocata dai Sanniti, del naufragio non meno radicale dell’Etruria padana provocato dai Galli e del ridimensionamento della stessa Etruria propria grazie all’azione di Roma, iniziata con la conquista di Veio, foriera di nuovi equilibri di forze nell’Italia centrale. La base economica della supposta tryphé degli Etruschi era individuata esclusivamente nella feracità del loro territorio e nella conseguente ricchezza agricola, anche sulla scorta dell’avvertimento di Polibio, secondo il quale senza tenere conto del dominio della Campania e della Valle Padana non era possibile giustificare il grado di floridezza e di potenza raggiunto un tempo da quella nazione (Polibio, ii, 17, 1). Ma, per un giudizio storicamente meglio motivato, non si possono ignorare altre fonti di ricchezza, complementari all’agricoltura, quali il commercio, ancora fiorente nel iv secolo, e le manifatture, cui gli stessi barbari che avevano provocato il restringimento dei confini dell’Italia etrusca dischiudevano ora mercati assai promettenti. Le radici della tryphé vanno ricercate, almeno nel caso dell’Etruria, nella habrosýne, ossia nella raffinatezza dei costumi e nell’alta qualità della vita, di impronta ionica o più genericamente greco-orientale, perseguita dalle aristocrazie etrusche fin dall’epoca della fastosa cultura orientalizzante, nel vii secolo, e poi con rinnovato vigore nel tardo arcaismo, in seguito all’afflusso di profughi dalla Ionia asiatica sottomessa dai Persiani. Quali campioni di raffinatezza erano additati in Italia i Sibariti, tramite non solo virtuale, secondo Timeo, tra il lusso dei Milesii e quello degli Etruschi. Ma non da meno erano stati, secondo lo storico locale Iperoco, i Cumani, anch’essi condotti dal lusso alla pro-

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Fig. 6. Sarcofago fittile da Caere (Parigi, Louvre).

pria rovina, alla pari dei Milesii e dei Sibariti. Le manifestazioni della tryphé etrusca ricordate dagli autori citati riguardano la vita quotidiana, dalla frequenza dei pasti ai servizi pregiati della tavola, dalle coperte dei letti conviviali al numero, la bella presenza e l’abbigliamento dei servi, che, nota Posidonio (in Diodoro Siculo, v, 40, 3) disponevano di abitazioni proprie ben arredate (cosa inaudita nel mondo greco e romano). Ma soprattutto colpiva i Greci, specialmente di età classica, il fatto che le donne di casa partecipassero al banchetto e al simposio, le mogli sdraiate accanto ai mariti (Fig. 6), come nel loro paese facevano solo le etère, e in presenza anche di giovani serve nude. Da qui malignità e accuse di depravazioni sessuali a non finire, chiaramente inventate a catena, di cui si è fatto portavoce uno storico notoriamente pettegolo come Teopompo (citato da Ateneo, xii, 517d sgg.). In realtà sappiamo che la società etrusca ha in generale riservato alla donna una condizione di parità formale rispetto all’uomo. Il segno più evidente è fornito dalla denominazione personale: la donna libera riceve fin dall’inizio della documentazione epigrafica, ossia dal 700 circa a.C., una denominazione bimembre, composta di prenome e gentilizio, esattamente come l’uomo. E i prenomi femminili costituiscono, in prevalenza, una serie del tutto autonoma rispetto a quelli maschili. Inoltre fin dal vii secolo, come prova la stele di Vetulonia, si afferma a livello delle grandi casate, nei testi funerari, la menzione non solo del patronimico ma anche del metronimico: quest’ultimo diviene comune a partire dal iv secolo a.C. anche ai livelli sociali “medi”, perdurando fino alle soglie dell’età imperiale. Del resto le coppie di statue, associate alle tombe di coppie coniugali nell’Orientalizzante antico, raffigurano sempre due personaggi maschili, evidentemente il pater dell’uomo e quello della donna, posti sul medesimo piano di dignità (tomba delle Statue di Ceri, tomba D di Casal Marittimo, tomba delle Cinque Sedie di Caere, dove sono accompagnati dalle mogli). Risulta inoltre dalle iscrizioni, anche di

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epoca arcaica, che le donne non solo “scrivevano” non meno degli uomini, nella sfera dell’instrumentum domesticum, ma potevano essere padrone di schiavi e titolari di attività produttive, quali officine vascolari e figlinae. Ritornando al tema della tryphé, non mancano altri aspetti della realtà etrusca che avrebbero potuto meritare una tale accusa, anche meglio di quelli, tratti dalla vita domestica, cui essa è stata di fatto rivolta. Basti pensare a tutto il macchinoso apparato dei ludi, messo in moto a proprio lustro dall’aristocrazia in occasione dei funerali dei suoi membri, e a noi fatti conoscere dalla pittura funeraria di Tarquinia, dai cippi chiusini e dalle pitture vascolari. Ludi ginnici, ippici e scenici, cui prendevano parte atleti e attori professionisti, al soldo delle grandi famiglie, che ne potevano disporre a loro piacimento, come insegna il caso della “troupe”, composta in gran Fig. 7. Tripode vulcente da Spina parte da suoi servi, che un re di Veio ritirò (Ferrara, Museo). improvvisamente dai ludi del Fanum Voltumnae, causandone con grave scandalo l’interruzione (Livio, v, 1, 4-5). Ma tutto il versante funerario della civiltà etrusca è un colossale esempio di ostentazione e di spreco, a fini di prestigio gentilizio, cioè privato, cui le strutture cittadine non riuscirono mai a porre realmente un argine (tranne che nell’assetto esterno delle tombe, uniformato secondo parametri di relativa modestia, ma soltanto nell’età tardo-arcaica, con particolare riguardo a Caere, Orvieto e alle necropoli rupestri del Viterbese). Non conobbe invece praticamente alcun freno, tranne che a Veio, l’antica consuetudine, abbandonata dai Latini a partire dall’età di Servio Tullio e dai Greci alquanto prima, di sacrificare nelle tombe ingenti quantità di beni mobili, dalle vesti preziose al vasellame e alle oreficerie, a titolo di corredo per i defunti. L’altra faccia, possiamo dire, della condanna della tryphé è la lode che i Greci rivolgevano agli Etruschi di essere philotéchnoi (Ateneo, xv, 700c, cfr. anche Eraclide Pontico, fhg , ii, p. 217, fr. 16), ossia esperti delle varie arti. La stessa intima consuetudine e assuefazione alle esigenze di decoro della vita urbana, che aveva portato prima alla habrosýne e più tardi alla tryphé, era infatti alla base dell’operosità e della creatività artigianale, che i Greci, e ancor più i Romani, riconoscevano apertamente agli Etruschi. Eschilo, vari autori della Commedia Antica e un sofista come Crizia lasciano chiaramente intravedere l’apprezzamento di cui godevano ad Atene nel v secolo i prodotti di quel popolo, in particolare nell’ambito toreutico e metallotecnico, dai candelabri al vasellame da tavola, anche prezioso, dai sandali a taluni strumenti musicali, quali flauti e trombe (Fig. 7). Di fatto il suolo della Grecia ha restituito al riguardo non poche testimonianze, accentrate nei grandi santuari, dove tuttavia resta incerto, in assenza di iscrizioni, se i dedicanti fossero greci o etruschi. Spiccano tra i bronzi i resti del più notevole tripode vulcente con figure che si conosca, rinvenuti sull’acropoli di Atene, i thymiatéria da Olimpia e da Lindo e gli infundibula da numerose località.

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Agli Etruschi l’erudizione romana (Varrone) accreditava, sul modello di quel che aveva fatto l’erudizione altoellenistica per la Grecia, una serie di primati in campo artistico, relativamente all’Italia (centrale). Per primi gli Etruschi avrebbero modellato statue fittili di culto (Tertulliano, Apologeticum, xxv, 3), dando aspetto antropomorfo alle divinità, e, in generale, avrebbero scolpito statue di marmo (Pomponio Porfirione, Horatii Epodi, ii, 2, 180) e fuso statue di bronzo (Cassiodoro, Variae, vii, 15, 3). Ma soprattutto avrebbero per primi, sviluppando l’insegnamento ricevuto dall’équipe di artisti venuti con Demarato da Corinto verso il 640 a.C., dato impulso alla coroplastica, alla pittura parietale e all’architettura, residenziale e templare. Arte nazionale, per così dire, sarebbe divenuta la coroplastica, per merito soprattutto del veiente Vulca, chiamato verso il 580 a.C. dal primo Tarquinio a modellare in terracotta il simulacro seduto di Giove Capitolino e quello di Ercole nel foro Boario (Varrone in Plinio, Naturalis Historia, xxxv, 157), mentre a un altro, anonimo artista veiente Tarquinio il Superbo avrebbe commissionato la colossale quadriga di Giove, fungente da principale acroterio del tempio capitolino, plasmata e cotta in un’officina della città etrusca (Festo, 432 l). Nel campo della bronzistica si faceva invece il nome del mitico Mamurio Veturio, che al tempo del re Numa avrebbe replicato per i dodici salii lo scudo ancile miracolosamente caduto dal cielo: il nome, se attendibile, fa pensare anche in questo caso a un artista di Veio (città nella quale la tomba 1036 di Casale del Fosso ha effettivamente restituito alcuni tra i più antichi scudi del tipo che si conoscono). Le scoperte archeologiche hanno nel loro insieme largamente confermato il quadro tracciato dalla grande erudizione romana della fine della Repubblica. I rivestimenti e le decorazioni acroteriali delle case e dei “palazzi” di Acquarossa presso Ferento, Poggio Civitate di Murlo, Castelnuovo Berardenga e altri siti minori dell’Etruria settentrionale hanno rivelato, grazie alla loro antichità, complessità e raffinatezza tecnica, un orizzonte di coroplastica architettonica fino a pochi anni fa del tutto sconosciuto, evocando veramente l’operato di équipes come quella che sarebbe arrivata in Etruria con Demarato. Le pitture parietali delle tombe orientalizzanti di Caere e di Veio ci consentono di ripercorrere passo per passo le prime esperienze formali e tecniche della grande pittura, così come sono state ricostruite dalla storiografia artistica greca del primo Ellenismo. Lo stesso può dirsi della tradizione romana, codificata da Varrone, che attribuiva agli Etruschi l’invenzione della casa ad atrio, documentata ora già nell’età di Tarquinio il Superbo dagli esempi scoperti sulle pendici settentrionali del Palatino, e soprattutto quella del tempio di aspetto e dimensioni monumentali, fornito di podio, di pronao a colonne e di una parte posteriore articolata in tre celle o in una cella tra alae: il tempio, in altre parole, che veniva comunemente definito come “tuscanico”, con un aggettivo che alludeva insieme al suo essere etrusco e antico. In realtà abbiamo motivo di credere che questo tipo di tempio sia stato creato sì da architetti etruschi, ma a Roma, dove se ne hanno gli esempi più antichi, di pieno vi secolo (templi di Giove Capitolino e dell’area sacra di Sant’Omobono al foro Boario), venendo subito dopo ripreso e largamente replicato in Etruria, come nel Lazio. Anche grazie alla parte da loro avuta nella nascita dell’architettura templare e delle statue di culto, ma soprattutto per la capacità di comunicare col divino che era loro attribuita, gli Etruschi avevano presso i Romani la fama di essere “i più religiosi tra gli uomini” e “i più eccellenti nelle pratiche religiose” (Livio, v, 1, 6). È questo un connotato che accompagna l’immagine che si aveva a Roma dell’uomo etrusco fin dai tempi di Romolo, con un crescendo che data dal tempo del disastro gallico e dell’ospitalità concessa allora dai Ceriti ai sacra della città, al pontefice massimo e alle vestali. Il debito riconosciuto da Roma verso gli Etruschi non riguardava soltanto i riti, le caerimoniae, termine

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che si pretendeva derivato dal nome di Caere, ma investiva l’intera dottrina della interpretazione dei prodigi, così come di ogni altra manifestazione del volere divino, dai fulmini alle anomalie dei visceri delle vittime sacrificate, e in particolare del fegato. L’Etrusca disciplina offriva ai Romani quello che le proprie pratiche consultatorie, basate sull’auspicio e sulla semplice litatio dei visceri, non erano in grado di dare. Da qui l’accoglienza ufficiale concessa agli aruspici (Fig. 8) tra i sacerdoti di Stato e l’attenta cura del Senato a che non si estinguesse la trasmissione della “dottrina” nel seno delle famiglie aristocratiche d’Etruria, che tradizionalmente la detenevano. Dottrina che si era accumulata col tempo in un vero e proprio corpus di scritture sacre, i libri, privo di un termine di confronto in Grecia e a Roma, e che nel suo nucleo portante era fatta risalire a una vera e propria “rivelazione”, compiuta dal Fig. 8. Statuetta di aruspice sapiente fanciullo Tagete, emerso dalla (Gottinga, Museo dell’Università). terra, nei confronti del mitico fondatore di Tarquinia e della dodecapoli etrusca, Tarconte (ma a Chiusi si parlava anche della profezia fatta da Vegoia a un Arruns Velthymnus, dal nome connesso a quello del dio altrimenti noto come Voltumna). Quest’immagine dell’uomo etrusco si è conservata a Roma fino alla fine del paganesimo, quando anzi la disciplina ha ricevuto un inatteso ritorno di attualità in senso anticristiano, specialmente per le attese di vita ultraterrena che suscitava con la teoria dei dii animales, fondata sul sacrificio cruento. Essa contrasta sensibilmente con l’immagine che aveva forgiato di volta in volta la pubblicistica greca, tendente a rappresentare l’Etrusco come un pirata crudele o un dissoluto amante dei piaceri e della “dolce vita”. Tuttavia la notizia della pietas etrusca doveva circolare anche nel mondo greco, non foss’altro che per la consultazione della Pizia da parte dei Ceriti e per gli agoni da loro istituiti in onore dei Focei lapidati, come sappiamo da Erodoto (i, 167, 2), nonché per la testimonianza fornita dai già ricordati thesaurói delfici di Caere e di Spina. Platone esortava il suo legislatore ideale a non mutare cerimonie e riti, “siano di origine locale o etrusca o cipriota o di qualsiasi altro paese” (Leges v, 9, 738), mostrando di nutrire rispetto per la religione etrusca, e Strabone nel suo elogio di Caere poneva l’accento sulla “giustizia” di cui avevano dato prova i Ceriti, astenendosi dalla pirateria (v, 2, 3). Il che contribuisce a restituirci un quadro tutto sommato più attendibile di quel che furono gli Etruschi. Bibliografia Briquel 1984: D. Briquel, Les Pélasges en Italie, recherches sur l’histoire de la légende (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 252), 1984. Briquel 1991: D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques, histoire du thème dans la littérature antique (Collection de l’École Française de Rome, 139), Roma, 1991.

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Briquel 1993a: D. Briquel, Les Étrusques peuple de la différence, Paris, 1993. Briquel 1993b: D. Briquel, Les Tyrrhènes, peuple des tours, l’autochtonie des Étrusques chez Denys d’Halicarnasse (Collection de l’École Française de Rome, 178), Roma, 1993. Carandini, Cappelli 2000: Roma, A. Carandini, R. Cappelli, Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, Roma, 2000. Colonna 1976: G. Colonna, Basi conoscitive per una storia economica dell’Etruria, «Annali. Istituto italiano di numismatica», 22, suppl., 1976. Colonna 1981: G. Colonna, Tarquinio Prisco e il tempio di Giove Capitolino, «La Parola del Passato», xxxvi, 1981. Colonna 1988: G. Colonna, Il lessico istituzionale etrusco e la formazione della città (specialmente in Emilia Romagna), in La formazione della città in Emilia Romagna, atti del convegno di studi, Bologna, Marzabotto 1985, Bologna, 1988. Colonna 1989a: G. Colonna, Gli Etruschi e l’“invenzione” della pittura, in Pittura etrusca al Museo di Villa Giulia, Roma, 1989. Colonna 1989b: G. Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del ii Congresso Internazionale Etrusco, Firenze, 1985, Roma, 1989. Colonna 1991: G. Colonna, Gli scudi bilobati dell’Italia centrale e l’“ancile” dei Salii, «Archeologia Classica» xliii, 1991. Colonna 1993a: G. Colonna, Ceramisti e donne padrone di bottega nell’Etruria arcaica, in Indogermanica et Italica, Festschrift für Helmut Rix zum 65. Geburtstag, Innsbruck, 1993. Colonna 1993b: G. Colonna, Doni di Etruschi e di altri barbari occidentali nei santuari panellenici, in A. Mastrocinque (a cura di), I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, Trento, 1993. Colonna 1994: G. Colonna, Etrusca Arte: Urbanistica e Architettura, in Enciclopedia dell’arte antica, ii suppl., ii, Roma, 1994. Colonna 2000: G. Colonna, Tyrrhenus Lipari frater, in Scritti dedicati a P. Pelagatti, Roma, 2000. Colonna, von Hase 1984: G. Colonna, F. W. von Hase, Alle origini della statuaria etrusca: la tomba delle Statue presso Ceri, «StEtr», lii, 1984. Cristofani 1983a: M. Cristofani, Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze, 1983. Cristofani 1983b: M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, Milano, 1983. Cristofani 1983c: M. Cristofani, Il quadro ambientale e l’urbanesimo, in Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze, 1983. De Simone 1996: C. De Simone, I Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche, Firenze, 1996. Gras 1985: M. Gras, Trafics tyrrhéniens archaïques, Roma, 1985. Heurgon 1961: J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris, 1961. Mansuelli 1984: G. A. Mansuelli, Tyrrhenói philotechnoi. Opinioni di antichi sull’arte etrusca, in Studi di antichità in onore di G. Maetzke, ii, Roma, 1984. Musti 1989: D. Musti, L’immagine degli Etruschi nella storiografia antica, in Atti del ii Congresso Internazionale Etrusco, Firenze, 1985, Roma, 1989. Pallottino 1984: M. Pallottino, Etruscologia (i ed. 1942), Milano, 1984. Pallottino 1989: M. Pallottino, Prospettive attuali del problema delle origini etrusche, in Atti del ii Congresso Internazionale Etrusco, Firenze, 1985, Roma, i. Pallottino 1992: M. Pallottino (a cura di), Les Étrusques et l’Europe, Paris-Milan, 1992. Pugliese Carratelli 1986: G. Pugliese Carratelli (a cura di), Rasenna, Storia e civiltà degli Etruschi, Milano, 1986. Thuillier 1993: J.-P. Thuillier, Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique, Roma, 1993. Opere generali, ancora di utile consultazione, sono Heurgon 1961; Pallottino 1984. Tra quelle più recenti si segnalano le opere collettanee Cristofani 1983a; Pugliese Carratelli 1986. Ottima la sintesi di Briquel 1993a. Notevoli anche i cataloghi delle mostre tenute nel 1985 in varie città della Toscana in occasione dell’“anno degli Etruschi”, a cura di G. Camporeale, A. Carandini, G. Colonna, M. Cristofani, A. Maggiani e S. Stopponi, come pure Pallottino 1992. Sulla mitistoria etrusca fondamentali sono Briquel 1984;

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Briquel 1991; Briquel 1993b; Colonna 2000. Sul rapporto con la cultura villanoviana e protovillanoviana: Pallottino 1989, pp. 55-62. Sul rapporto con Lemno: De Simone 1996. Sulle “protocittà” vedi la discussione in “Opus”, ii, 1983, pp. 423-448. Sul pomerio palatino: Carandini, Cappelli 2000. Sulla città in Etruria e in particolare sul lessico istituzionale: Colonna 1988, pp. 15-36. Sulle trasformazioni agrarie, il commercio trasmarino e molte altre cose: Colonna 1976, pp. 3-23. Sul rapporto degli Etruschi col mare: Cristofani 1983b; Gras 1985; Colonna 1989b, pp. 361-374. Sulla pirateria e la “tryphé”: Musti 1989, pp. 19-39. Su Pyrgi: Enciclopedia dell’Arte Antica, ii suppl., iv, 1996, ad vocem. Su alcuni aspetti della condizione della donna: Colonna 1993a, pp. 61-68. Sui “ludi”: Thuillier 1993. Sulle manifestazioni artistiche in generale: Mansuelli 1984, pp. 355-365; Colonna 1994, pp. 554-605. Si vedano inoltre i seguenti contributi: Colonna 1981, pp. 41-59; Colonna 1984, pp. 13-59 (in collaborazione con Fr.-W. von Hase); Colonna 1989a, pp. 19-25; Colonna 1991, pp. 55-122. Sulla considerazione goduta dagli Etruschi nel mondo greco: Colonna 1993b, pp. 43-67. [I caratteri originali della civiltà etrusca, in Gli Etruschi, cat. della mostra di Venezia, a cura di M. Torelli, Milano, 2000, pp. 25-41].

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P O R S ENNA, LA LEGA ETRU S C A E IL L A Z IO

I

l mio intervento, nell’incontro che ci vede qui riuniti, non concerne propriamente la lega etrusca, ma la figura e le imprese di Porsenna, di cui ho avuto anche recentemente occasione di occuparmi.1 Non credo tuttavia di andare troppo fuori tema, poiché converrete che conoscere meglio Porsenna sia essenziale per la storia dell’Etruria tardo-arcaica e quindi, di riflesso, anche per la storia dei duodecim populi in quanto tali. Nessuno oggi dubita della storicità di Porsenna e del ruolo di primo piano da lui avuto in quel momento chiave della storia di Roma che è stato il trapasso dalla monarchia allo stato repubblicano. La letteratura al riguardo è immensa e s’accresce di continuo.2 Tuttavia sussistono zone d’ombra, aspetti che non sono stati adeguatamente indagati e che sono ancora suscettibili di fornire qualche utile informazione. Uno di questi è il nome etrusco del personaggio, il suo dato anagrafico di base, con tutti i corollari che è legittimo trarne.3 Per recuperarlo occorre partire dalla documentazione letteraria, che è concorde per il prenome – Lars, traslitterato in greco con §·ÚÔ˜ o §·Ú, corrispondente a etrusco Ları –,4 mentre per il gentilizio offre una pluralità di forme, in cui, pur attraverso le confusioni imputabili alla trasmissione manoscritta, si possono riconoscere, in base al suffisso, due distinte ‘tradizioni’. Il nome Porsenna della vulgata, attestato a partire da Cassio Hemina, Cicerone, Livio e Virgilio, rispecchia, nella parziale sostituzione del suffisso etrusco -na con l’umbro -eno-,5 l’evoluzione subita dal nome all’interno del latino, tra iii e ii secolo a.C., alla stregua di Vibenna, Ratumenna e simili.6 Invece la forma Porsĭna, accolta da Plinio il Vecchio, tributario quasi certamente di Varrone, da Dionigi di Alicarnasso e da Plutarco, nonché confermata epigraficamente dall’epitaffio urbano di un ignoto C. Porsina C.f., è la normale continuazione latina, assieme alla variante ipercólta Porsĕna, di uso quasi esclusivamente poetico,7 del nome etrusco nella sua forma recenziore, *Purs/zna (cfr. Ceicna : Caecina, Velzna : Volsinii). Infine la rara forma Porsinna, usata occasionalmente da Livio e da Plutarco, è chiaramente una contaminazione tra i due filoni onomastici.

1 Vedi a nota 26. 2 Comode sintesi in E. Dovere, Contributo alla lettura delle fonti su Porsenna, in Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche (Napoli) xcv, 1984 (1985), pp. 69, 126; R. Hirata, La monarchia di Porsenna, in Annuario dell’Istituto Giapponese di Cultura in Roma xxii, 1986-87, pp. 7-22; M. Di Fazio, Porsenna e la società di Chiusi, tesina in Etruscologia discussa presso la i Scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università di Roma “La Sapienza” nell’a.a. 1997-98 (dovrebbe apparire in Athenaeum). 3 Ancora utile la trattazione offerta dalla voce Porsenna della re xxii, 1, 1953, cc. 315-322 (W. Ehlers), cui si rinvia per i riferimenti bibliografici. Buone anche le voci della Enciclopedia Virgiliana iv, 1988, p. 220 sg. (M. Cristofani), e di Orazio. Enciclopedia oraziana i, 1996, pp. 870-872 (A. Valvo). 4 Piuttosto che Laris, come talora si è scritto. Infatti il prenome latinizzato come Lars continua la forma etrusca Larz, esito della pronuncia di Ları nell’etrusco parlato in età arcaica a Roma e tra i Falisci (G. Colonna, in Etruria e Lazio arcaico. Atti dell’incontro di studio [Roma, 1986], Roma, 1987, pp. 58 e 70; M. Cristofani, «pbsr», lvi, 1988, p. 16). 5 H. Rix, in anrw i, 1972, p. 727 sg.; Id., «AnnMuseoFaina», v, 1998, p. 213, nota 13. 6 Non si tratta certo di una innovazione virgiliana dovuta a ragioni metriche, come pensava Servio (ad Aen. viii, 646). 7 La variante compare, oltre che in Orazio, Silio Italico e Marziale, anche nel linguaggio ricercato di una scherzosa lettera di Augusto a Mecenate (Macrob., sat. ii 4, 12 = Aug., ep., ed. Malcovati, 1969, p. 20). Le occorrenze nei testi poetici sono per noi preziose, perché la metrica attesta che la vocale interna è breve. Poiché la forma è manifestamente modellata su Porsina, anche in questo nome la vocale interna va considerata breve, confermando l’interpretazione seguita nel testo.

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Possiamo pertanto ricostruire il nome del nostro personaggio, nella sua forma originaria, ossia di età arcaica, come Ları *Pursenas o *Purzenas, come da tempo vado sostenendo,8 in sintonia con H. Rix e M. Pallottino9 (mentre M. Cristofani, seguito da J.-R. Jannot e G. Capdeville, ricostruisce la forma *Pursienas, attribuendo a lat. Porsina una improbabile i lunga).10 Il gentilizio in questione non è finora documentato, ma risulta perfettamente compatibile con l’onomasticon etrusco a noi noto. Abbiamo infatti tre occorrenze epigrafiche del nome individuale Purze, rispettivamente, nell’ordine cronologico, da Orvieto (vi-v sec.), Vulci (iv sec.) e Tarquinia (iii sec.), le prime due funerarie e col nome sicuramente fungente da gentilizio.11 Da Purze è normale che sia stato derivato il gentilizio di tipo patronimico *Purzena, rec. *Purzna, latinizzato, come si è visto, in Porsina/*Porsena (cfr. per la sostituzione z/s di nuovo il caso di Velzna : Volsinii). Quel che più importa rilevare è che le tre attestazioni provengono tutte dall’Etruria meridionale e che l’unica di epoca arcaica è quella restituita da Orvieto. Si tratta dell’architrave di una tomba della necropoli della Cannicella col nome di un Ları Purze, figlio di un U®ele,12 prenome questo tipicamente orvietano, così come lo è la fonetica del gentilizio per l’uso di z al posto di s.13 Di fatto la variante *Purse è indirettamente attestata a Tuscania e a Tarquinia, dove è alla base del raro gentilizio ºurseına14 (arc. *Purseı(e)na), di estrazione certamente locale. A conclusione di questa noiosa ma necessaria disamina possiamo dire che è altamente probabile, per non dire certa, l’origo di Porsenna dall’Etruria meridionale, e precisamente da Orvieto, la città che più di ogni altra ha avuto stretti rapporti con Chiusi, in tutto l’arco della sua storia.15 Da Orvieto portatori del raro nome Purze, fungente da loro nome individuale o come base del loro patronimico, sono andati nel v-iv secolo a Vulci e a Tarquinia, nel vii-vi a Chiusi, dove uno di essi, accolto nella cittadinanza, ha fatto del proprio patronimico il gentilizio *Purzenas. L’assenza di una qualsiasi continuazione del gentilizio in età recente, nel pur vastissimo onomasticon chiusino, sia etrusco che latino, giunto fino a noi, merita ugualmente di essere rilevata. Il caso di Porsenna si distingue infatti nettamente da quello di altre dramatis personae della storia arcaica etrusca e romana, quali i Tarquinii di Roma, i Vibenna di Vulci, gli Spurinna di Tarquinia o i Tolumnii di Veio, appartenenti ad antiche e consolidate casate, dotate di lunghe progenie, che ne hanno conservato i nomina per secoli. Il nomen di Porsenna è invece uscito di scena, almeno per noi, con il re e col figlio a lui premorto, Arrunte, che è il solo figlio nominato dalle fonti, anche se, come si è detto, in età imperiale è attestato a Roma un oscuro C. Porsina e anche se Mecenate, apostrofato da Orazio come atavis editus regibus e Tyrrhena regum progenies,16 da Augusto come Cilniorum smaragdus 8 La posizione di Bagnoregio nell’antico territorio volsiniese, in Doctor Seraphicus xxv, 1978, p. 50, nota 26. 9 H. Rix, Atti del ii congresso internazionale etrusco (Firenze 1985), iii, Roma, 1989, p. 1299; M. Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, 1993, p. 309. 10 M. Cristofani, in Dizionario della civiltà etrusca, Firenze, 1985, p. 232 («Laris o Larth Pursiena»); Id., in Enciclopedia Virgiliana, cit. (nota 3), p. 220 (« Ları *Pursienas»); J.-R. Jannot, L’Etrurie intérieure de Lars Porsenna à Arruns le jeune, «mefra», C, 1988, p. 601; G. Capdeville, Porsenna re del Labirinto, in Atti Chianciano, p. 53 sg., nota 2. 12 Rix, et Vs 1.160 (= cie 5061). 11 Rix, et Vs 1.160; Vc 1.11-12; Ta 2.41. 13 Per U®ele rinvio al mio cenno «StEtr», xlii, 1974, p. 24, per lo scambio z/s a quanto scrivevo in Scienze dell’Antichità ii, 1988, p. 550. 14 Rix, et Ta 1.252; AT 1.120 (da analizzare * Êurse-ı(e)-na-s). 15 Basti pensare al caso, unico in Etruria, della suprema magistratura rivestita in una delle due città, Chiusi, da un ‘oriundo’ dell’altra, Orvieto, dove è stato sepolto nella tomba della famiglia da cui proveniva (H. Rix, in Studi Maetzke, ii, p. 462 sgg.). Un bilancio dei rapporti tra le due città, quali risultano dalle testimonianze archeologiche, è tracciato da G. Paolucci, «AnnMuseoFaina», vi, 1999, pp. 284-292. Per l’età tardo-arcaica si vedano anche le testimonianze di contatti offerte dall’epigrafia (da me raccolte «StEtr», lviii, 1992, p. 309 sgg.). 16 Rispettivamente carm. i 1, 1 e iii 29, 1.

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e berullus Porsenae,17 annoverava a quanto pare il re tra i suoi antenati.18 Del resto è significativo che al tempo di Varrone, ma probabilmente già da molto prima, il mausoleo del re costruito sub Clusio era solo un ricordo, affidato alle fabulae Etruscae.19 Il caso di Porsenna richiama sotto questo aspetto quello di £efarie Velianas, il ‘re’ di Caere approssimativamente suo contemporaneo, il cui gentilizio non ha lasciato alcuna traccia nella prosopografia, sia cerite che in generale sud-etrusca, tanto che, senza la scoperta delle Lamine di Pyrgi, non ne avremmo mai nemmeno sospettato l’esistenza. È ovviamente anche questo un indizio a favore della condizione di homines novi dei due personaggi, così come del loro potere strettamente personale, e quindi più tirannico che autenticamente regale. L’origine volsiniese di Porsenna aiuta d’altra parte a capire come egli abbia aspirato e sia riuscito a diventare, nel corso della sua impetuosa ascesa sociale e politica, re non solo di Chiusi ma anche di Volsinii, secondo l’interpretazione da me proposta, che ritengo ancora come la più attendibile,20 del passo di Plinio il Vecchio, menzionante la folgorazione del mostro Olta, che minacciava quella città.21 Il dato prosopografico finisce insomma col gettare qualche luce sulla biografia del personaggio, che resta comunque oscurissima. Altra volta mi sono soffermato sulla temporanea unione delle due città sotto il medesimo re, un fatto, questo, che ritengo fondamentale per comprendere le premesse dell’impresa di Porsenna nel Lazio, e anche della localizzazione presso Orvieto dell’epicentro della lega etrusca con la fondazione del fanum Voltumnae,22 né mi sembra ora il caso di ritornarvi sopra.23 Anche perché l’ipotesi della formazione in età tardo-arcaica di uno stato sovracittadino, esteso dalla Valdichiana alla media valle del Tevere, ha raccolto pressoché unanimi consensi.24 Esiste invece un altro aspetto oscuro della tradizione su Porsenna, che forse è oggi possibile almeno in parte elucidare. Mi riferisco all’entità e alla provenienza delle forze militari messe in campo dal re nella lunga e difficile spedizione condotta prima contro Roma e poi contro i Latini, nonché, più in generale, alla stessa cornice storica in cui quella spedizione si colloca. È infatti un dato abbastanza sicuro che Chiusi e Volsinii erano all’epoca città dal potenziale demografico piuttosto limitato, non solo rispetto alle maggiori città dell’Etruria meridionale ma anche rispetto a Roma, la ‘grande Roma dei Tarquinii’, e all’insieme dei ‘popoli’ della lega latina. Al riguardo non aiuta la tradizione annalistica, che parla in termini assai vaghi di xénoi e misthophóroi che avrebbero combattuto in buon numero dalla parte degli Etruschi, oltre agli esuli di parte tarquiniana e a pochi ‘volontari’ latini.25 Ma fortunatamente non c’è solo la tradizione annalistica, 17 Cfr. nota 7 e G. Colonna, in ac xxxii, 1980 (1983), p. 13. 18 Ps. Acron., schol. in Hor. carm. i 20, 5-6 (ed. O. Keller, 1902, p. 87): «quia de Tuscis fuit Maecenas… et Porsennae dicitur adfinis fuisse». Se, come generalmente si ritiene, Mecenate discendeva dai Cilnii di Arezzo per parte di madre (cfr. A. Maggiani, «StEtr», liv, 1986 [1988], p. 171, nota 4), è possibile che vantasse di discendere da Porsenna per parte del padre: non solo infatti l’avus maternus ma anche il paternus avrebbero comandato un tempo su magnae legiones (Hor., sat. i 6, 3-4). Di sicuro i Maecenates, a giudicare dalle attestazioni etrusche del gentilizio (mehnate: cfr. G. Colonna, «StEtr», lvi, 1989-90, p. 135, nota 31), erano di casa a Perugia, oltre che ad Arezzo: nulla vieta di pensare che un ramo della gens provenisse da Chiusi o da Orvieto. 19 Plin., n. h. xxxvi 91. Cfr. G. A. Mansuelli, in Mélanges Heurgon, p. 619 sgg.; M. Sordi, Prospettive di storia etrusca, Como, 1995, pp. 35-47, e da ultima A. Rastrelli, «aion ArchStAnt», n.s. v, 1998, p. 77 sg. 20 Nonostante Capdeville, cit. (nota 10), p. 68. 21 Plin., n. h. ii 140. 22 Cfr. «AnnMuseoFaina», ii, 1985, pp. 118-120. 23 Conto infatti di riprendere il discorso nel prossimo convegno della Fondazione per il museo Cl. Faina, (cfr. «AnnMuseoFaina», vii, 2000, pp. 277-285). 24 Pallottino, op. e loc. cit. (nota 9); M. Sordi, Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, Milano, 1989, p. 39, nota 28: Jannot, cit. (nota 10), pp. 601-603; A. Maggiani, in Crise et transformation des sociétés archaïques dans 25 Dion. Hal. v 22, 4. l’Italie centrale au v e siècle av. J.-Chr., Roma, 1990, p. 31.

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c’è anche un tenue filone di informazione greca, utile al riguardo, che ho tentato di recuperare in occasione di un recente convegno.26 La principale spia di tale tradizione, che potremmo definire difficilior rispetto alla vulgata, è l’aítion di Callimaco su Gaio il romano, di cui un rinvenimento papiraceo, edito nel 1934, ha restituito la succinta diégesis, ossia l’argomento, oltre a parte di un verso.27 In questo, che è l’unico componimento di soggetto romano del poeta di Cirene a noi noto, era narrata, probabilmente per giustificare taluni privilegi goduti dalle matrone romane, di cui era giunta qualche eco nel mondo greco, la storia della madre che aveva aspramente rimproverato il figlio Gaio, convincendolo a por fine ai rimpianti per essere rimasto zoppo combattendo gloriosamente dinanzi alle mura di Roma, assediate dai Peuceti.28 Il riferimento al più celebre zoppo della storia romana, Orazio Coclite, è apparso evidente a Gaetano De Sanctis, nonostante l’imbarazzante menzione dei Peuceti,29 e tanto più lo appare a noi, dopo che Giorgio Pasquali ha introdotto nella discussione, subito divampata con vivacità, il passo di Servio in cui si dice che il Coclite, evidentemente fatto ormai conscio del proprio valore dai rimproveri della madre, avrebbe rinfacciato enfaticamente, a chi lo escludeva per la sua menomazione dai comizi elettorali, per singulos gradus admoneor triumphi mei, «a ogni passo che faccio mi sovvengo del mio trionfo».30 L’aneddoto conobbe una certa fortuna sia a Roma che, grazie a Callimaco, nel mondo greco, poiché venne ripreso non solo per un non meglio identificato Spurio Carvilio, come sappiamo da Cicerone,31 ma fu anche riferito, del resto assai prevedibilmente, a un anonimo spartano32 e addirittura a un altro celebre mutilato di guerra, Filippo di Macedonia, con la differenza, significativa, che il re sarebbe stato consolato dal figlio, cioè dal grande Alessandro, come narra Plutarco.33 Un tale ‘pedigree’ rinvia, se ha ragione Santo Mazzarino nel ritenere le versioni greche modellate su quelle romane, e non viceversa,34 a un evento circonfuso sì di tratti leggendarii e mal definiti, e proprio per questo trasponibili anche entro altre cornici storiche, ma comunque antico e centrale nella memoria della città. Un evento che, per l’esplicita menzione di un assedio, col nemico accampato dinanzi alle mura,35 non può non evocare, come scrive il De Sanctis, «l’unico assedio di Roma che la tradizione celebra, quello famoso di Porsenna», che durò due anni e ridusse alla fame la città, secondo il racconto annalistico,36 ferma restando la difficoltà posta dalla menzione dei Peuceti. Ciò sfugge invece al Mazzarino, che pensa a una delle molte puntate offensive, condotte nel v secolo a.C. dagli Equi e da altri popoli finitimi fino ad portas,37 e a Lorenzo Braccesi, che pensa invece all’asse26 I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La Salaria in età antica, Atti del convegno (Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 1997), Roma, 1999, pp. 147-153. Cfr. anche in G. Colonna (a cura di), Piceni popolo d’Europa, Catalogo della mostra (Francoforte sul Meno), Roma, 1999, pp. 11 e 158. 27 R. Pfeiffer, Callimachus, i, Oxford, 1949, p. 109 sg. (Aetia iv, fr. 106 sg.; Dieg. v 26). 28 «Dice [il poeta] che quando i Peucezii assediavano le mura di Roma il romano Gaio uccise il loro comandante che tentava di fare irruzione [oppure: che li provocava], ma lui stesso fu ferito a una gamba. Dopo di ciò mal sopportava il fatto di essere zoppo ma smise di scoraggiarsi per i rimproveri della madre» (trad. di G. B. D’Alessio, Callimaco, ii, Milano, 1996, pp. 519-521). 29 Callimaco e Orazio Coclite, «RivFilCl», n.s. xiii, 1935, pp. 289-301. 30 Serv., Aen. viii 646 (cfr. G. Pasquali, StFilCl n.s. xvi, 1939, p. 70). 31 Cic., de orat. ii 249. 32 Da Dione Crisostomo (Stob. iii 7, 28). 33 Plut., de fort. Alex. 331 b. 34 S. Mazzarino, Il pensiero storico classico ii, 1, Bari, 1966, p. 325 sg. 35 Tale è infatti il significato del verbo proskáthemai usato nella diegesi, reso da Liddell-Scott, Greek-English Lexicon con «sit down before a town, besiege it» (cfr. per es. Herod. ii 157). 36 Cfr. Dovere, cit. (nota 2), pp. 80-83. 37 Mazzarino, cit. (nota 34), p. 268 sgg. Mazzarino parla di «attacco alle mura» (p. 260) e traduce l’espressione della diegesi con «quando i Peucezi si trovavano addosso alle mura» (p. 257), mostrando di forzarne il senso.

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dio del Campidoglio da parte dei Galli,38 in cui le mura di Roma, lasciate indifese, non ebbero alcuna parte.39 Non si potrebbe dire di più sulla questione, se non esistesse un’altra testimonianza, da riportare alla stessa tradizione, che prima ho definito difficilior, cui attinge Callimaco.40 Si tratta di un passo di Clemente Alessandrino, immesso nella discussione da L. Früchtel nel 1941,41 in cui si parla di «Postumo il romano» che, prigioniero di Peuketíon, «non solo non rivelò alcun segreto ma, posta la mano sul fuoco, la lasciò liquefare come fosse di bronzo senza battere ciglio».42 È evidente, nonostante la teoria del Mazzarino sulla atemporalità di simili racconti, adattabili alle persone e alle situazioni le più disparate, che la storia di Postumo è strettamente complementare a quella di Gaio e si riferisce a un altro celebre episodio del medesimo ciclo leggendario, quello di Muzio Scevola (l’eroe che anche un altro autore greco, il maestro di Augusto Athenodoros di Sandon, chiamava Opsígonos, ossia «Postumo», come ci informa Plutarco).43 L’episodio era narrato, a quanto pare, con assai maggiore corrispondenza alla vulgata rispetto alla prodezza di Gaio, la quale sarebbe consistita non nell’interruzione del ponte ligneo sul Tevere, come nel caso del Coclite, ma nell’uccisione in duello dinanzi alle mura del ‘comandante’ dei Peuceti, ossia di Peuketíon (evidentemente in un momento successivo all’aristéia di Postumo, secondo un ordine degli eventi invertito rispetto alla vulgata, e senza alcun rapporto né col ponte né col fiume). Ne dedurremo che il nucleo originario del racconto, comune sia a Gaio che al Coclite, consisteva nella ferita alla coscia e nel conseguente azzoppamento dell’eroe (dovuto, come precisava la vulgata, a un colpo di lancia).44 In conclusione Callimaco, Clemente Alessandrino e, forse, Athenodoros di Sandon mostrano di conoscere, a distanza di secoli l’uno dall’altro, un pur esile filone di storiografia greca, in cui si parlava dell’assedio di Roma in termini in larga misura coincidenti con quelli usati dall’annalistica per l’assedio di Porsenna, ma senza far intervenire né gli Etruschi né il loro re (e, coerentemente con questa premessa, prescindendo anche dallo scenario del Tevere, così importante nella ricostruzione annalistica).45 Il ruolo degli assedianti era assegnato, in questa prima e presto dimenticata narrazione dell’assedio, ai Peuceti e al loro ‘comandante’ Peuketíon, che sarebbe stato ucciso da Gaio/Coclite, il quale a sua volta sarebbe rimasto trafitto a una gamba da un colpo di lancia.46 Il racconto, pervaso da curiosità e ammirazione verso i costumi dei Romani, e in particolare verso la loro virtus guerriera, tradisce, nella imprevedibile sostituzione dei Peuceti agli Etruschi, l’ottica deformata di chi aveva conosciuto gli eventi da molto lontano, a quanto pare attraverso echi che ne erano giunti sulle rive dell’Adriatico. È evidente infatti 38 In Piceni popolo d’Europa, cit. (nota 26), p. 31 sg. Braccesi esclude l’assedio di Porsenna solo perché secondo Plinio il Vecchio «la più antica storiografia greca nulla avrebbe saputo di Roma prima del celebre sacco gallico». Ma Plinio (iii 57) dice solo che prima di Teopompo nessuno storico greco avrebbe menzionato la città, il che è diverso ed è comunque manifestamente inesatto, poiché almeno Antioco l’aveva nominata (presso Dion. Hal. i 73, 4). Cfr. sotto (nota 49). 39 Giustamente, ma invano, scriveva Mazzarino (cit. [nota 34], p. 268): «nessuno penserà che nei Peucezii di Callimaco possano nascondersi, p. es., i Celti, ben noti ai Greci come tali, e non mai designabili come Peucezii», massime, aggiungiamo noi, a proposito del sacco gallico. 40 Attraverso la mediazione di Teofrasto e del Peripato, piuttosto che di Timeo, come pensa P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford, 1972, i, p. 768. 41 Die Peuketier bei Kallimachos, in Philologische Wochenschrift lxi, 1941, c. 189 sg. Seguito senza riserve da R. Pfeiffer, Callimachus, ii, Oxford, 1953, p. 114. 42 Strom. iv 56, 3. 43 Popl. 17, 5. 44 Dion. Hal. v 24, 3; 25, 3; Plut., Popl. 16, 6 sg.; Suid., s.vv. Oratios e achrestia. 45 P. M. Martin, L’idée de royauté à Rome, i, Clermont-Ferrand 1982, p. 313 sg. 46 Arma regale, come ci ricorda Martin, cit. (nota precedente), p. 314, nota 186.

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che i Peuceti di questa tradizione non possono essere che i Picenti, abitanti al di là dell’Appennino sul medio versante di quel mare, dal Conero alla Vibrata, chiamati appunto Peuketieîs da una glossa penetrata nel testo del Pseudo-Scilace,47 e la cui effettiva comparsa, in qualità di alleati o di mercenari, nell’Etruria tiberina e nel Lazio, tra vi e v secolo a.C., è documentata dalle caratteristiche spade di ferro a lama curva, proprie dei Picenti del tempo, rinvenute in quelle aree.48 Nel mio precedente contributo sull’argomento ho avanzato cautamente l’ipotesi che una così unilaterale rappresentazione dell’assedio di Porsenna sia basata su informazioni raccolte, per es. nel santuario marittimo di Cupra, ma si potrebbe citare anche quello di Diomede presso Ancona, da uno storico che era andato esule eis tòn Adrían, Filisto.49 Al quale penso sia da riportare, in prima persona, l’interesse dimostrato nei confronti di Roma, sulle orme del conterraneo Antioco, che aveva fatto provenire da quella lontana città, con malcelata sorpresa di Dionigi di Alicarnasso, l’eponimo dei Siculi, divenuto tale però, non si dimentichi, solo nella terra degli Enotri, dove, una volta giunto, avrebbe dato origine al popolo in seguito passato per la maggior parte in Sicilia, sotto la guida di altri.50 Filisto invero aveva spostato ancora più lontano l’inizio del processo di etnogenesi, poiché per lui i Siculi discendevano da Liguri che avevano abbandonato le loro sedi settentrionali, appenninico-padane, sotto la pressione congiunta di Umbri e Pelasgi.51 Tuttavia anche per Filisto il momento fondante dell’etnogenesi coincideva col regno di Sikelos, considerato figlio di Italos,52 che avrebbe dato il suo nome al nuovo popolo e lo avrebbe condotto nell’isola. Non solo, ma in proposito è tutt’altro da escludere che il regno di Sikelos fosse localizzato da Filisto nel Lazio, dove s’incontrano le tracce più meridionali lasciate dai Liguri nel patrimonio leggendario dell’Italia antica,53 e dove la leggenda sicula aveva già salde radici, datanti forse dalla fondazione del culto romano della triade aventina.54 Ne è prova, tra l’altro, il rapporto privilegiato dei Dinomenidi e anche della Siracusa repubblicana con Roma, ampiamente dimostrato nel v secolo a.C. dai rifornimenti granari inviati alla città nel 492-91 a.C., al tempo di Gelone, nel 433 a.C. e anche nel 411,55 all’indomani dell’infausta spedizione ateniese contro Siracusa, cui avevano preso parte «alcuni degli Etruschi», certo quelli del mare, ma non i Romani. È ovvio d’altra parte pensare che, finché Roma è stata ostile ai suoi vicini etruschi, quasi un pungolo alle loro costole, Siracusa abbia avuto interesse a intrattenere buoni rapporti con essa. Ora è notorio che l’ostilità romana verso gli Etruschi toccò il suo apice con l’assedio e la conquista di Veio, nel 396 a.C.: un evento di risonanza internazionale, anche perché ce47 Ps. Skyl. 15. Cfr. Colonna, I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, cit. (nota 26), p. 152. 48 G. Colonna, in Piceni, popolo d’Europa, cit. (nota 26), p. 158, con carta di distribuzione a fig. 123, cui è da aggiungere una isolata presenza a Corfinio (V. D’Ercole, «StEtr», lviii, 1992, p. 640, fig. 62). 49 Tanto più se i coloni siracusani di Ancona, che secondo Strabone «fuggivano la tirannia di Dionisio» (v 4, 2, C 241), erano politicamente vicini a Filisto (così tra gli altri A. Coppola, in Piceni popolo d’Europa, cit. [nota 26], p. 173). 50 Vedi nota 38. Cfr. R. Sammartano, Origines gentium Siciliae. Ellanico, Antioco, Tucidide, Roma, 1998, p. 173 sgg., che pensa a una implicita polemica con l’origine troiana della città, sostenuta dal filoateniese Ellanico. 51 Cfr. quel che scrivevo in La Romagna tra vi e iv sec. a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale, Atti del convegno (Bologna 1982), Imola, 1985, p. 57 sg., e, per la sinecia umbro-pelasga di Ravenna, in G. Paci (a cura di), Cupra Marittima e il suo territorio in età antica, Tivoli, 1993, p. 5 sg. 52 Detto rex Ligurum da Serv. auct., Aen. i 533. 53 Fest. p. 424 L.; Serv. auct., Aen. xi 317 (Siculi romani scacciati dai Liguri). Già del resto Euripide chiamava «ligure» Circe (Troad. 437). 54 Come ha dimostrato F. Zevi, Siculi e Troiani (Roma e la propaganda greca nel v secolo a.C.), in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale, Roma, 1999, pp. 315-343, spec. p. 322 sgg. 55 Cfr. G. Colonna, «Kokalos», xxvi-xxvii, 1980-81, p. 167; D. Briquel, in Crise et transformation, cit. (nota 24), p. 168, nota 12; Zevi, cit. (nota precedente), p. 331.

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lebrato con l’invio di una decima a Delfi,56 e tale da giustificare, per la notorietà dei vinti, una qualche ammirazione per le capacità militari dei Romani. Le cose cambiarono dopo che Roma, in conseguenza del disastro gallico, si avvicinò a Chiusi e soprattutto a Caere. Nulla prova però che il cambiamento di rotta, nei rapporti tra Roma e Siracusa, sia stato repentino, né che Filisto abbia mai considerato Roma una città etrusca.57 L’intesa di Dionisio I coi Galli avvenne dopo il sacco di Roma e certamente non in funzione anti-romana. Il deterioramento dei rapporti con Siracusa interverrà quando gli effetti dell’intesa romano-cerite diventeranno palesi sul piano internazionale, prima con il tentativo romano di inviare una colonia sulle coste orientali della Sardegna nel 378 a.C.,58 poi, e soprattutto, col rinnovo del trattato con Cartagine del 348 a.C. È solo nel corso del secondo venticinquennio e intorno alla metà del iv secolo, quando Filisto aveva già da tempo scritto la prima parte della sua opera o era addirittura defunto, che a Siracusa divamperà la polemica anti-romana, che farà parlare di Roma come pólis tyrrhenís e indurrà Alcimo a considerare Romolo come il figlio di Enea e di Tyrrhenia.59 Torniamo ora alla questione posta all’inizio, ossia l’intervento di eventuali forze alleate a fianco degli Etruschi nell’assedio di Roma e in quello di Ariccia, allora ‘capitale’ della lega latina. La tradizione che sostituiva i Peuceti/Picenti agli Etruschi costituisce una manifesta forzatura, nata verosimilmente, come si è detto, in ambito adriatico, facilitata dalla distanza, sia spaziale che temporale, dal teatro degli avvenimenti, ma dietro la quale tutto induce a pensare che si celi il dato obbiettivo di una non trascurabile partecipazione di Picenti agli eventi in questione, guidati da propri comandanti, e quindi in qualità più di alleati che di mercenari. Se le cose stanno effettivamente così, s’impone un radicale ripensamento dell’impresa di Porsenna. L’attacco portato a Roma, e secondariamente ai Latini, si configura infatti in termini non troppo diversi, come già aveva intuito il De Sanctis, da quelli con i quali era avvenuto, meno di vent’anni prima, nel 524 a.C., l’attacco a Cuma da parte degli Etruschi «che abitano intorno al Po», degli Umbri, dei Dauni e «di molti degli altri barbari», come narra Dionigi di Alicarnasso, la cui ultima fonte potrebbe essere di nuovo Filisto.60 Con la differenza che a guidare l’attacco furono questa volta gli assai più vicini Etruschi tiberini, quelli appunto di Chiusi e di Volsinii, con un rapporto di forze invertito nei confronti dei ‘barbari’, che costituivano verosimilmente la minoranza degli assalitori. I ‘barbari’ della spedizione furono comunque pressoché ignorati dalla tradizione annalistica, polarizzata sulle figure di Porsenna e di Arrunte, o forse furono confusi con i loro consanguinei Sabini, che subito dopo la partenza di Porsenna si sarebbero mossi contro Roma, con le note dissensioni interne che portarono Atta Clauso con 5000 dei suoi dalla parte dei Romani. Non mancano possibili conferme esterne a questa ricostruzione dei fatti, postulante una ‘discesa’ dei Picenti verso il Lazio attraverso le valli del Velino e soprattutto del Nera, quasi in un tardivo ver sacrum, opposto a quello che avrebbe dato loro origine a partire dal ceppo sabino.61 Mi riferisco al poleonimo Picetia, no56 Bloccata dai Liparesi, che si affrettarono a rilasciarla e anzi ad accompagnarla solennemente a destinazione, una volta appreso che proveniva dal bottino di una città etrusca (Liv. v 28, 2-6). Sul significato politico dell’avvenimento: A. Momigliano, in Studia et documenta historiae et juris v, 1939, p. 395; M. Sordi, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma, 1960, p. 22. 57 Come vorrebbe G. Vanotti, in Hespería iii, 1993, p. 123. 58 Diod. xv 27, 4. Cfr. M. Torelli, in Etruschi e Roma, pp. 71-82. 59 Cfr. la bibliografia in Zevi, cit. (nota 54), p. 333 sg., nota 46 sg. 60 vii 3, 1-4. Cfr. Colonna, cit. (nota 26), p. 150 sg. 61 Rinvio al mio contributo agli Atti Rieti-Magliano Sabina, p. 112, e a quello di G. Tagliamonte, in Piceni popolo d’Europa, cit. (nota 26), p. 12 sg.

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minato da Dionigi di Alicarnasso a proposito dell’ubicazione, non lungi da Fidenae, della terra concessa dai Romani al contingente sabino di Atta Clauso,62 e a quello straordinario documento di lingua e di scrittura ‘sudpicena’, senza confronto in tutta l’Italia tirrenica, che è il cippo iscritto rinvenuto nel letto del Farfa ai confini del territorio di Cures,63 da mettere in relazione o con un secondo, più arretrato stanziamento di Picenti, o con una sopraggiunta ‘picentizzazione’ della stessa Cures. Molto certo rimane ancora da verificare e da approfondire, ma fin d’ora sembra si possa affermare che, senza il contributo militare dei Picenti, difficilmente Porsenna avrebbe tentato d’imporre il suo dominio su una città che già allora era tra le più popolose ed evolute d’Italia, in nulla inferiore a Cuma, e su un’intera lega di città di media grandezza, anch’esse allora fiorenti. [La Lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi (atti della giornata di studi, Chiusi, 9 ottobre 1999), Pisa-Roma, 2001, pp. 29-35]. 62 v 40, 5.

63 A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, i. Testi, Firenze, 1985, pp. 147 sgg., 247 sgg.

GLI UMBRI DEL T E V E RE

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l tema che ci accingiamo a trattare in questo convegno – gli Umbri affacciati sul medio corso del Tevere, da Todi a Otricoli, a diretto contatto con Etruschi, Falisci e Sabini – può essere affrontato da molti punti di vista, e certo lo sarà, a giudicare dai titoli delle relazioni in programma e dalle competenze dei relatori. Per quanto mi riguarda, partirò da un cimelio epigrafico edito di recente e ancora assai poco noto, ma tale a mio avviso da recare una importante e direi necessaria integrazione alla già molto ricca varietà di scritture adottate in età arcaica nel bacino del medio Tevere. Un’area, questa, che per tanti aspetti appare come il ‘cuore’, non solo geografico, dell’intera Italia centrale, autentica cerniera tra il versante tirrenico della penisola e quello adriatico.1 Nel convegno tenuto a Firenze nel febbraio 1996 in memoria di Massimo Pallottino ho potuto rendere noto, grazie alla disponibilità dei colleghi svedesi, un vaso biconico iscritto conservato nel museo universitario di Uppsala, pervenuto a quel museo con una collezione di antichità formata prima del 1930 e presumibilmente dopo la conclusione della prima guerra mondiale.2 Il vaso, di impasto bruno lucidato e sobriamente decorato a incisione con ornati lineari e fitomorfi di repertorio orientalizzante, assai comuni nell’Etruria meridionale e nelle aree contigue – doppi archetti intrecciati alla base del collo, linea a molla sulla spalla, palmetta fenicia isolata sul corpo in entrambe le facce (Figg. 1-3) –, trova per quanto riguarda la forma e la classe ceramica in cui è realizzata ampi confronti nella produzione falisca e capenate della metà e del terzo quarto del vii secolo (Fig. 4).3 Dalla quale tuttavia si distingue per il rapporto dimensionale tra il ventre ovoidale piuttosto espanso e il collo invece corto e rastremato,4 cui si aggiunge il dettaglio delle scanalature concentriche sul labbro, desunto dalle olle di impasto rosso, ma probabilmente funzionale alla sovrapposizione di una ciotola-coperchio.5 Su una delle facce del corpo l’ornato a palmetta fenicia è collocato leggermente fuori asse per far posto a una breve iscrizione, incisa da destra verso sinistra con caratteri alti e nitidi, assai ravvicinati (Figg. 5-6), spettanti a una scrittura che, pur manifestamente derivata da quella etrusca, etrusca non può essere. Lo impediscono sia l’occorrenza di ‘lettere morte’ quali la vocale o, resa graficamente con un semplice punto situato in al1 Mi permetto di rinviare alle considerazioni svolte ne Il Tevere e le altre vie d’acqua del Lazio antico («ArchLaz», vii, 2), Roma, 1986, pp. 90-97, e in Piceni, popolo d’Europa, cat. della mostra di Francoforte, Roma, 1999, p. 157 sg. 2 G. Colonna, L’iscrizione del biconico di Uppsala: un documento del paleoumbro, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino (Bibl. di «StEtr», 14), Pisa-Roma, 1999, pp. 19-29 (di seguito Colonna 1999). 3 Riproduco, come generico confronto per la forma, un esemplare capenate della fine del secolo recentemente pubblicato (F. Jurgeit Blanck, Su un vaso falisco a Karlsruhe, in La civiltà dei Falisci (Atti del xv convegno di studi etruschi e italici, Civita Castellana 1987), Firenze, 1990, pp. 103-108. 4 Rispetto alla tipologia delineata da M. Micozzi, «White on Red». Una produzione vascolare dell’orientalizzante etrusco, Roma, 1994, p. 39 sg., il nostro vaso appartiene a una variante definibile come B 4, forse più antica di tutte le altre del tipo B. Ampia esemplificazione di biconici in Ceramiche d’impasto dell’età orientalizzante in Italia, a cura di F. Parise Badoni, Roma, 2000, p. 55, tavv. xvii-xix. Sulla fortuna del biconico sul versante adriatico, dove sembra restare fedele all’originaria funzione di contenitore di acqua (G. Baldelli, in Acque, grotte e dei, a cura di M. Pacciarelli, Imola, 1997, p. 162), vedi Piceni, popolo d’Europa, cit., pp. 93 sg., 218 e 225. 5 Cfr. P. Santoro, «StEtr», 51, 1985, p. 15, nn. 2, 2 a.; Identità e civiltà dei Sabini (Atti del xviii convegno dell’Istituto di Studi Etruschi e Italici, Rieti-Magliano Sabina, 1993), Firenze, 1996, pp. 173, 177., figg. 19: 5, 20: 13. Interessanti al riguardo anche i due biconici di argilla dipinta di stile subgeometrico dalla tomba 22 di Monteleone di Spoleto (M. C. De Angelis, in La Romagna tra vi e iv secolo a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale, a cura di G. Bermond Montanari, Bologna, 1985, p. 284, fig. 5), peraltro di prima metà del vi secolo.

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Fig. 1.

Fig. 3.

Fig. 2.

Fig. 4.

tezza quasi a metà riga, e la consonante beta, sia l’impronunciabile sequenza di quattro consonanti che verrebbe ad aversi, attribuendo alle lettere i valori fonetici che hanno in etrusco.

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Fig. 5.

Fig. 6.

L’alfabeto dell’iscrizione di Uppsala d’altra parte non può essere ricondotto alle scritture proprie dell’area tiberina finora conosciute, dalla falisca alla latina, dalla sabina alla capenate,6 né alle scritture di aree contigue dell’Italia centrale, quali la sudpicena – 6 Per scrittura sabina intendo quella delle iscrizioni vascolari di Poggio Sommavilla e di Magliano Sabina (Fig. 7) (da ultimo M. Cristofani, Identità e civiltà dei Sabini, cit., pp. 215-226), per capenate quella dell’iscrizione del Ferrone di Tolfa (Fig. 8) e forse del coccio Campana al museo di Firenze (da ultimo Colonna 1999, note 6, 12 e 17. La cronologia della tomba del Ferrone da cui viene l’iscrizione è ora confermata da P. Brocato, La necropoli etrusca della Riserva del Ferrone, Roma, 2000, pp. 156-160). Un’iscrizione ‘capenate’ ancora più antica a mio avviso è quella della grande fiasca di bucchero da Chiusi recentemenete pubblicata (vedi infra, nota 15), risalente al tardo vii secolo.

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Fig. 7.

Fig. 8.

esemplificata nella valle del Tevere soltanto dal cippo del Farfa (Fig. 9) –, l’ernica e la volsca,7 anche se condivide con la sudpicena e con la volsca, oltre che con quella latina della base di Tivoli,8 l’esclusività della resa di o con un punto non incluso in un circolo. A parte la direzione sinistrorsa, presente solo, e per di più a titolo sporadico, in alcune di quelle scritture (la latina, la sabina, la sudpicena e l’ernica), altrimenti tutte in età arcaica preferibilmente destrorse, e a parte il mancato ribaltamento o capovolgimento di talune lettere, che contraddistingue il sudpiceno, il capenate di vi secolo e l’ernico della stessa età, oltre che il latino «periferico», in nessuna di esse occorre il theta e solo nella sudpicena il segno a tridente (chi), ma sempre capovolto e pressocché irriconoscibile, tanto da essere comunemente scambiato, tenendo d’occhio quel che più tardi è accaduto con la scrittura osca, per una u diacriticata.9 Inoltre in nessuna delle scritture citate la u ha la forma a stampella, composta da una lunga asta verticale da cui parte in alto un breve tratto obliquo, esattamente come si verifica nell’alfabetario di Marsiliana d’Albegna (Fig. 10) e in genere nelle antiquissimae tra le iscrizioni etrusche.10 Ne consegue che occorre pensare a una scrittura finora ignota, più antica di tutte le altre scritture paleoitaliche dell’Italia centrale, ma propria comunque di un ambiente in larga misura partecipe, per il particolare tipo di vaso su cui si trova l’iscrizione, della koiné culturale venutasi a stabilire nell’area del medio e basso Tevere in età orientalizzante e alto-arcaica, tra popoli pur profondamente diversi per stirpe e per lingua. Tale ambiente non può essere, per esclusione, che quello degli Umbri tiberini, e precisamente dei più meridionali tra essi, insediati a ridosso dei Sabini e di fronte a Etruschi come quelli di Acquarossa nel Viterbese, che già in pieno vii secolo scrivevano ed erano raggiunti 7 Per scrittura ernica intendo quella delle iscrizioni arcaiche di Anagni e di Minturno (M. Cristofani, Due testi dell’Italia preromana, Roma, 1996, pp. 18-20, figg. 1-3, 9), per volsca quella dell’iscrizione pure arcaica di Satricum (da ultimo G. Colonna, «Eutopia», iv, 1995, rispettivamente pp. 4 sg. e 11 sg.). 8 Da ultimo I.-J. Adiego, «Latomus», lvii, 1997, pp. 58-66. Per la funzione della base e per la sua datazione rinvio a G. Colonna, in Lapis Satricanus, ’s Gravenhage, 1980, p. 47. 9 Così ancora A. Morandi, Le iscrizioni medio-adriatiche, Firenze, 1974, p. 70, e io stesso in La Romagna, cit. a nota 5, p. 54, mentre A. Marinetti non prende posizione al riguardo. 10 Vedi l’esemplificazione raccolta in G. Bagnasco Gianni, Oggetti iscritti di epoca orientalizzante in Etruria, Firenze, 1996, passim, spec. p. 408 sgg., u 1 b.

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Fig. 9.

Fig. 10.

da importanti stimoli culturali, provenienti, come credo di avere a suo tempo dimostrato,11 soprattutto da Falerii e da Caere, ma anche da Tarquinia e da Vulci. La decifrazione dell’epigrafe di Uppsala è possibile se si attribuisce alle lettere theta e chi, ‘lettere morte’ per le lingue italiche, il valore delle vocali «intermedie» di quelle lingue, rispettivamente palatale e velare, registrate entrambe, ma con lettere in parte diverse, nella scrittura sudpicena,12 nella capenate13 e, a quanto pare, nella volsca14 (mentre nel sabino è per ora attestata, per difetto di documentazione, solo la í, e nell’ernico, fortemente latinizzante, mancano entrambe). La soluzione adottata per la ú nel paleoumbro, ossia la lettera chi, è certamente motivata dalla spiccata similarità grafica ac11 Ricerche sull’Etruria interna volsiniese, «StEtr», xli, 1973, pp. 45-72., spec. pp. 46-51. 12 A. Marinetti, «StEtr», xlix, 1981, p. 139 sgg. 13 La í nelle iscrizioni di vi-v secolo, la ú in quelle di iv-iii (sulle quali da ultimo G. Colonna, «StEtr», lxiv, 1998 [2001], p. 480 sgg.). 14 Nell’unica iscrizione finora nota, l’accettina di Satricum, compare la serie completa delle vocali palatali ma solo due delle vocali velari, la o e quella che per la posizione sembra essere la ú (dat. -úí come nel sudpiceno), resa col digamma.

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comunante la u e la chi nell’alfabeto etrusco preso a modello, tale che la seconda lettera poteva apparire come il raddoppiamento speculare della prima. Soluzione che ritroviamo più tardi nel sudpiceno, come si è detto, ma non nel volsco, che sembra avere preferito per ú, privilegiando l’affinità fonetica piuttosto che quella grafica, il digamma, notante nell’alfabeto etrusco la /u/ semivocale. Invece per la corrispondente vocale palatale í il paleoumbro ha scelto la ‘lettera morta’ immediatamente precedente la i nella sequenza alfabetica, ossia il theta, lettera anch’essa notante nell’etrusco, alla pari del chi, una consonante aspirata, mentre il sudpiceno ha fatto ricorso, così come il sabino, il capenate e il volsco, a un’altra lettera ‘morta’, questa volta tanto per l’etrusco quanto per le lingue italiche, il samech (variamente semplificato al suo interno, fino alla riduzione a un rettangolo vuoto, attuata nel sudpiceno e nel capenate di v secolo del coccio Campana).15 Si ottiene così la lettura uobúrí Si tratta evidentemente di un’unica parola, che ho proposto di intendere come il dativo singolare di un tema in sibilante, /uobos-/, corradicale al teonimo iguvino /uofiono-/ e al teonimo latino Liber, e pertanto riconducibile alla radice i.e. *leudh-, ‘crescere’, con /b/ interna notante probabilmente una spirante sonora non ancora passata a sorda.16 Secondo tale proposta il nome in questione sarebbe un teonimo del tipo del latino Tellus o Venus, flesso in dativo di dedica. La forma uobúrí sarebbe esito di *uobúseí, il che presuppone l’anticipazione al vii secolo, nella specifica variante di lingua documentata da questa iscrizione, di fenomeni ben noti nell’umbro a partire dall’inizio della documentazione epigrafica finora nota, ossia dal 400 a.C. Mi riferisco alla velarizzazione della liquida in posizione iniziale (l > w),17 alla monottongazione sia in sillaba radicale che nella finale morfologica,18 e finanche al rotacismo intervocalico.19 Sta ai linguisti pronunciarsi su questa proposta interpretativa, che ai miei occhi appare corroborata anche da un dato esterno, extralinguistico. Infatti nel vii secolo il vaso biconico, per la frequente associazione nei corredi funerari con l’olla, nobilitata di norma dalla collocazione su un alto sostegno, l’olla che gli Etruschi chiamavano thina, risulta essere nell’area tiberina un contenitore pregiato di vino, e precisamente del vino puro che nel banchetto veniva temperato nell’olla.20 Cosicché non sorprende che proprio questo tipo di vaso venisse consacrato al dio corrispondente al Liber latino, ossia al dio cui si sacrificava il mosto pro vineis et vasis et ipso vino conservandis, «per la tutela delle vigne, dei vasi (vinarii) e dello stesso vino», come scriveva Paolo Diacono epito15 Per Maggiani invece (art. cit. a nota 21, p. 67) si tratterebbe di una variante quadrata del theta, il che appare del tutto inverosimile. Si rammenti che al samech ha fatto ricorso anche l’alfabeto di Nocera per il proprio segno ad alberello, ma conservandone il valore di sibilante (G. Colonna, in Nuceria Alfaterna e il suo territorio, a cura di A. Pecoraro, i, Nocera Inferiore, 1994, p. 89). 16 Cfr. Colonna, art. cit., p. 25. 17 Attestata già nel sudpiceno centro-settentrionale (A. Marinetti, Le iscrizioni sudpicene, i, Firenze, 1985, p. 43 sg., nota 38; pp. 49, 79 sg.), mentre a Crecchio e nel volsco di Satricum si ha la palatalizzazione l > j (H. Rix, I Volsci, «ArchLaz», xi, 1, Roma, 1992, p. 38 sg.). 18 Presente nel sudpiceno, a parte il problematico isolamento della forma *raki nell’iscrizione del Guerriero di Capestrano, sostenuto da A. La Regina, solo nella tardissima iscrizione dell’elmo di Bologna (Marinetti, op. cit., pp. 91, 154 sg.), ma già nel v secolo a Capua nel presannitico umbroide dell’iscrizione Vetter 101 (ibidem, p. 93, nota 62). In sillaba radicale invece il sudpiceno sporadicamente monottonga (tútas, efidans). 19 L’unico rotacismo finora attribuito al paleoumbro è quello che interviene nei gruppi -sw- e -sg- (H. Rix, Gli Etruschi e Roma, Roma, 1981, p. 117 sg., a proposito del nome di Minerva). 20 Micozzi, op. cit., p. 230 sg.; M. G. Benedettini, «ArchCl», xlviii, 1996, p. 22 sgg., nota 78; M. P. Baglione, M. A. De Lucia Brolli, ibidem, l, 1998, pp. 130 sgg., 170, figg. 5, 23. L’associazione olla-biconico, cui si affiancano un karchesion con coperchio e una coppa, ritorna nella tomba 1/1998 di Terni, loc. Alterocca. (La vita e la morte sulle rive del fiume Nahar, schede relative alla mostra, Terni, 2000).

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mando il testo di Festo a noi giunto corrotto.21 Ma devo dire che per ora ho ricevuto in proposito dai colleghi linguisti solo il cauto apprezzamento orale di H. Rix. Quel che comunque ritengo un dato sicuramente acquisito è l’esistenza di una scrittura propriamente paleoumbra, del tutto indipendente e di pari se non maggiore antichità rispetto alle altre scritture dell’area tiberina, ossia la falisca, la sabina e la capenate (alla quale ultima verosimilmente è da ascrivere l’iscrizione della fiasca di bucchero rinvenuta all’inizio degli anni ’60 nel sepolcreto di Poggio Gaiella a Chiusi, e solo recentemente edita).22 Il che vanifica, se non erro, gli sforzi recentemente compiuti per ricondurre a un unico modello le scritture paleoitaliche di quella e di altre aree dell’Italia centrale fuori dell’area etrusca e latina.23 Giunti a questo punto ci si può e anzi ci si deve chiedere dove è stata elaborata la scrittura in questione, e da quale specifico contesto culturale essa emana. Considerata la cronologia medio-orientalizzante e la diretta dipendenza dall’alfabeto modello etrusco, non mediato né da Sabini né da Falisci, è ovvio pensare al comprensorio di ci fanno parte, movendo da nord a sud, Montecchio-Baschi, Amelia e Otricoli, che sono gli unici centri umbri fortemente etruschizzati già in piena età arcaica. Anche tra essi tuttavia è necessario distinguere. L’etruschizzazione di Montecchio-Baschi e di Amelia, a giudicare da quello che conosciamo, acquista spessore solo a partire possiamo dire dall’età di Porsenna, tra il tardo vi e il v secolo, quando si diffonde il bucchero grigio e si generalizzano le tombe a camera, scavate nel travertino anche con due camere assiali e sempre con inumazioni su banchine o in fosse pavimentali (Fig. 11).24 È l’epoca in cui fiorisce nella necropoli di Amelia il santuario in loc. Pantanelli, opportunamente confrontato dalla Stopponi con quello orvietano della Cannicella, accogliente statuette di bronzo e di osso importate dall’Etruria, tra cui primeggia per importanza culturale la dea – certamente Persefone/Cavtha – trasportata da un carro agricolo, seduta su un cuscino piegato in due sul pianale (Fig. 12).25 Peculiari del santuario, e certo da collegare al culto 21 Fest., p. 422 L.; Paul., p. 423 L. Cfr. Colonna 1999, p. 26 sg. 22 A. Maggiani, Un’iscrizione «paleoumbra» da Chiusi, «Rivista di archeologia», xxiii, 1999 (2000), pp. 64-71. Maggiani si pronuncia a favore di un inquadramento tra le iscrizioni sabine, ma il sigma plurilineare e la qualità della ceramica, che è autentico bucchero nero, come nel caso del cratere dal Ferrone di Tolfa, fanno preferire l’accostamento all’iscrizione di questt’ultimo, in cui pure ricorrono il samech e il my a quattro tratti. Per questa forma di my, condivisa dal sudpiceno (mancano attestazioni per il sabino e per il volsco), giustamente Maggiani sottolinea l’incompatibilità con l’alfabeto euboico, ma l’ipotesi di una derivazione dall’alfabeto laconico appare forzata. Meglio è pensare, a mio avviso, a un apporto protocampano, da iscrivere nel dossier dei rapporti di antica data tra la Campania e la valle del Tevere. Il segno è infatti normale nell’alfabeto di Nocera, che a sua volta lo ha verosimilmente assunto dall’alfabeto acheo. 23 Mi riferisco ai tentativi di M. Cristofani, in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale (Actes de la rencontre scientifique en hommage à Georges Vallet, Rome-Naples 1995), Rome, 1999, pp. 351 s., 354, che vorrebbe ricondurre a un modello “sabino” le iscrizioni dell’area che va da Rimini a Nocera Superiore, e di Maggiani, art. cit., p. 67 s., che avanza l’ipotesi di un “alfabeto centroitalico princeps”, indipendente e concorrente con quello etrusco Cfr. anche A. Morandi, in QuadMusCivTolfa i, 1998, p. 157 sgg. 24 L’esempio illustrato, di datazione piuttosto alta per le porte arcuate e i soffitti “a volta”, è attinto da S. Stopponi, in Museo Comunale di Amelia. Raccolta archeologica, cultura materiale, Perugia, 1996, p. 20, con fig. Per Montecchio-Baschi rinvio alle comunicazioni tenute al convegno da A. E. Feruglio e da M. Garofoli. 25 Stopponi, op. cit., con figa. p. 21 e bibl., cui sono da aggiungere E. Woytowitsch, Die Wagen der Bronze- und frühe Eisenzeit in Italien (PBF xvii, 1), München, 1978, p. 73, n. 167, tav. 34; U. Höckmann, Die Bronzen aus dem Fürstengrab von Castel san Mariano bei Perugia, München, 1983, p. 144, E 12; S. Haynes, Etruscan Bronzes, London, 1985, p. 281, n. 98 (per la statuetta d’avorio, in realtà d’osso, citata dalla Stopponi a nota 4, vd. ora C. Cagianelli, Museo Gregoriano etrusco. Bronzi a figura umana, Città del Vaticano 1999, p. 273 s.). Decisive per l’identificazione della dea sono le ruote del carro a forma di rosetta, frutto di una ricostruzione moderna, ma una delle quali è antica (E. Hill Richardson, in maar xxi, 1953, p. 90 s., nota 52) e a mio avviso sicuramente pertinente, stante l’eccezionalità del motivo della ruota-rosetta. Sul valore funerario delle rosette rinvio a quanto ho scritto in Miscellanea archeologica Tobias Dohrn dedicata, Roma, 1982, p. 41 sg.Il rustico carro con le ruote a ro-

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Fig. 11.

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Fig. 12.

della dea infera, sono gli ex voto a ritaglio eccezionalmente stampati su lamina di piombo, prodotti localmente secondo iconografie e stilemi di origine colta e di matrice tardo-arcaica (Fig. 13):26 ex voto attestati in Umbria anche, sulla direttrice della futura via Amerina, alla Grotta Bella e, con un esemplare di lamina bronzea a doppia faccia, a Todi.27 La gravitazione culturale della città è in questo periodo e nel successivo chiaramente in direzione di Orvieto, così come si verifica a Montecchio-Baschi e come è confermato a mio avviso dalla firma del vasaio orvietano Visc(e) Ameren(e)s.28 setta potrebbe specificamente alludere all’andata sui campi di Persefone per l’anthología, nel corso della quale sarebbe stata rapita dal suo futuro sposo Ade (Hymn. Hom., Cer., 6-21: cfr. M. Torelli in Locri Epizefirii [Atti del xvi convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1976], Napoli, 1977, p. 163). Le vicissitudini iniziali del bronzo contribuiscono a gettare luce sulla dispersione della grande stirpe di Amelia-Pantarelli: rinvenuto nel 1860, passò nella collezione di F. Fanelli di Sarteano, da cui l’acquistò Alessandro Castellani («BullInst», 1864, p. 265, n. 6: da qui l’erroneo sospetto della provenienza chiusina avanzato da P. J. Riis, Tyrrhenika, Copenaghen 1941, p. 123, nota1, e ripreso da Haynes, op. cit.), che nel 1865 lo rivendette al Museo Britannico. Da notare che anche ai Pantarelli, oltre che alla Cannicella, a Persefone è associato Eracle (bronzetto menzionato da G. Eroli, «BullInst», 1864, p. 56 s.). 26 Stopponi art. cit., p. 20 s.; D. Monacchi, ibid., pp. 226-229 (sul santuario anche a p. 24). La datazione della Monacchi al iv secolo urta con l’abbigliamento della maggioranza dei guerrieri (corazza rigida su chitonisco piuttosto lungo operato a rombi o frangiato) e degli offerenti (chitone aderente e frangiato, calcei repandi). Gli episemata degli scudi sono anch’essi di tradizione arcaica, compreso il gorgoneion n. 539, spettante al tipo “medio” del livello dell’altorilievo di Pyrgi (labbra spremute a parte, che tradiscono l’artigiano italico). 27 Per la Grotta Bella: D. Monacchi, «StEtr», liv, 1986 (1988), pp. 81-83. Per Todi: E. Galli, ibid., xiii, 1939, p. 412, tav. xxxvi, 4-5. Figurine ritagliate in piombo si conoscono altrimenti da una tomba da iv-iii sec. a.C. da Ielsi nel Sannio penetro (F. Della Corte, in ns 1926, p. 441, fig. 2 C). 28 G. Colonna, «AnnMuseoFaina», ii, 1985, pp. 125-127. Per G. Rocca (Iscrizioni umbre minori, Firenze, 1996, pp. 116-118, n. 20), che trascura la produzione etrusca dei due vasi e dubita a torto che si tratti di una firma, l’iscrizione sarebbe umbra. Sia umbra o etrusca (< *Amerenes) a forma Amerens implica una variante *Amera del poleonimo e l’intervento del suffisso italico -eno- con /e/ lunga.

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Fig. 13.

Diverso è il caso di Otricoli,29 che ha restituito anch’essa tombe a camera con banchine, invece che con i loculi parietali normali nella Sabina tiberina e frequenti nell’Agro Falisco, ma in aggiunta anche tombe di pieno vii secolo, una delle quali addirittura con risega alla base della volta e columen con due dischi terminali di tipo ceretano, il che è senza confronti in tutta l’Etruria interna, oltre che in Umbria e in Sabina.30 Inequivocabilmente etrusca, come nella vicina Vignanello, è anche una lastra di antepagmentum con oplita e carrista, risalente ai primi decenni del vi secolo, indizio di una residenza aristocratica del genere di quelle di Acquarossa e di Murlo.31 Né mancano buccheri assai antichi, come il piede di un calice smontabile, raro fuori di Caere, e ceramica etruscocorinzia.32 A Otricoli, non dobbiamo dimenticarlo, confluivano vie provenienti da tutte le città dell’Etruria meridionale, oltre che da Capena e Falerii, per traghettare il Tevere all’altezza del suo maggiore affluente e raggiungere per suo tramite Terni e la Valnerina, la medievale Valdinarco. Dalla quale si accedeva, risalendone le valli laterali, alla conca di Norcia e all’altopiano di Colfiorito, oppure si scavalcava senza difficoltà l’Appennino, grazie al passo delle Fornaci (m. 814 s.l.m), arrivando a Camerino, Tolentino e la costa medio-adriatica. Senza l’attivazione di questo facile itinerario transappenninico riesce incomprensibile l’enclave villanoviana di Fermo nel ix-viii secolo, orientata com’è cul29 Sulla città preromana da ultimo G. Filippi, in Scritti di archeologia e storia dell’arte in onore di Carlo Pietrangeli, Roma, 1996, pp. 73-75. 30 E. Stefani, in ns 1909, p. 281 sg.Cfr. Colonna 1999, p. 28, nota 44 s. 32 Stefani, art. cit., p. fig. a. 31 G. Dareggi, in mefra xc, 1978, pp. 627-635.

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turalmente verso l’Etruria meridionale.33 E riesce anche difficile capire come il più antico foedus stipulato da Roma con una città umbra sia stato quello, rimasto celebre, con la remota Camerino (310 a.C.), stretto in funzione verosimilmente più antigallica che antietrusca. Ad esso tennero dietro subito dopo, non a caso, il foedus con Otricoli (308 a.C.), che possiamo chiamare la porta dell’Umbria nei confronti di Roma, e il conflitto con la riottosa Nequinum (300 a.C.), concluso con la deduzione nel 299 a.C. di quella che è rimasta per cinquant’anni l’unica colonia romana in terra umbra: Narnia, la città di Nera.34 Camerino era infatti all’epoca il naturale Fig. 14. punto di arrivo dell’itinerario Otricoli – media e alta Valnerina, asse portante della transumanza delle greggi appenniniche da e verso la Tuscia romana, in età moderna35 e certo ancor più nell’antica. Forse proprio ad esso pensava Livio quando faceva arrivare a Camerino, dopo aver attraversato la silva Ciminia per evitare il paese falisco, gli emissari romani partiti da Sutri fere pastorali habitu.36 È evidente pertanto che la più antica penetrazione romana in Umbria e, direi, il più antico tentativo romano di affacciarsi sull’Adriatico, precedente la sottomissione di Sabini e Pretuzi da parte di M. Curio Dentato,37 ha fatto leva proprio su Otricoli, Terni e la Valnerina, ripercorrendo le vie battute un tempo dagli Etruschi delle grandi città meridionali e dai loro alleati falisci. Esemplare al riguardo è la distribuzione degli scudi bronzei di viii-vii secolo, di produzione veiente o tarquiniese, rinvenuti a Narce, Poggio Sommavilla, Terni, S. Anatolia di Narco (Fig. 14), Colfiorito, Pitino di San Severino, Fabriano e addirittura Verrucchio, senza che se ne conosca nessuna testimonianza nell’Umbria cisappenninica.38 Ugualmente i ben noti cinturoni femminili a placche decorate da borchie, di tipologia, se non di produzione capenate, da Narce e dalla Sabina tiberina39 raggiungono Terni, anche con esemplari vistosamente decorati a traforo come quello della tomba 23 di S. Pietro in Campo,40 e quindi da un lato Nocera Umbra,41 dall’altro l’altopiano di Norcia.42 Così come nel vi le tipiche anfore prodotte nella Sabina tiberina, a Poggio Sommavilla (Fig. 15) e a Magliano, non solo arrivano a Rieti e nella

33 Sa ultima L. Drago Troccoli, in Piceni, popolo d’Europa, cat. della mostra di Francoforte, Roma, 1999, p. 62 sgg. 34 W. V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford, 1971, pp. 49 sgg., 98 sgg. 35 L. Bonomi Ponzi, La necropoli plestina di Colfiorito di Foligno, Perugia, 1997, pp. 15, 144 s. 36 Liv., ix, 36. 37 G. Colonna, in Piceni, popolo d’Europa, cit., p. 12. 38 A. Geiger, Treibverzierte Bronzen und Schilden der italischen Einsenzeit aus Italien und Griechenland (PBF iii, 1), Stuttgart, 1994, con lista delle provenienze a p. 130 sg.Per Poggio Sommavilla vd. M. Fossati, «BullInst», 1837, pp. 66 e 209. Dei frammenti di un secondo scudo da Colfiorito ha dato notizia al convegno L. Bonomi Ponzi. 39 G. Colonna, in Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Firenze, 1974, p. 195 s., nota 7. 40 E. Stefani, in ns 1916, p. 224 s., fig. 37. Cfr. G. Colonna, «ArchClass», x, 1958, p. 71, nn. 20-23. 41 Esemplare al Museo Pigorini menzionato da L. Bonomi Ponzi nella sua relazione. 42 Cenno di L. Sensi, in Spoletium xxviii, 1986, p. 29.

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Fig. 15.

Fig. 16.

Fig. 17.

valle del Tronto ma risalgono la Valnerina almeno fino a S. Anatolia di Narco (Fig. 16).43 E possiamo forse ritenere che il linguaggio ingenuamente primitivo delle loro figurazioni “narrative”, impresse a cilindretto, abbia lasciato qualche traccia nella enigmatica stele di Terni, su cui ha riportato l’attenzione F. Roncalli (Fig. 17).44 Detto questo occorre riconoscere che Otricoli è solo l’esponente più avanzato, l’avamposto più meridionale, si sarebbe tentati di dire l’emporio, aperto ai contatti col mondo tirrenico, di una realtà etnico-politica piuttosto complessa e strutturata, includente Amelia, Narni, Terni e Cesi ai margini della conca ternana, col relativo santuario tribale in vetta al Monte Torre Maggiore, e almeno S. Anatolia di Narco nella Valnerina, sulla via dell’Appenino (Fig. 18). L’epicentro, il cuore dell’intero comprensorio era certamente Terni, l’antica Interamna Nahartium, che a giudicare dalle necropoli è

43 M. Martelli, in Civiltà arcaica dei Sabini nella valle del Tevere, iii, Roma, 1977, pp. 32-38; G. Alvino, in I Sabini. La vita, la morte, gli déi, cat. della mostra di Rieti, 1997, pp. 62-64. Per l’esemplare recenziore da Arquata nella valle Tronto: N. Lucentini, in La Salaria in età antica (Atti del convegno di Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 1997), Macerata, 2000, p. 305, fig. 2a. 44 In Antichità dall’Umbria a Leningrado, Perugia, 1990, p. 192, 2.111.

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Fig. 18.

stato l’unico agglomerato di livello protourbano formatosi a oriente del Tevere già durante l’età del Ferro, per poi consolidarsi nell’orientalizzante, all’epoca della sua pretesa “fondazione” (672 a.C.).45 Terni appare dotata fin dall’inizio di una propria, spiccata connotazione culturale: basti ricordare i biconici ad anse differenziate, generalmente con coppetta sull’ansa verticale, le grandi fibule foliate con staffa a disco, le tombe a circolo, spesso fornite di un’appendice di lastroni allineati sulla prosecuzione ideale della fosse (Figg. 19-20),46 riservati, secondo lo Stefani, a “guerrieri, forse capi-tribù”.47 È questo un elemento di incerta funzione, che le recenti scoperte di area abruzzese hanno riportato all’attenzione degli studiosi. Connota infatti la variante più antica e gerarchicamente importante delle tombe centro-italiche a circolo, circoscritta al bacino del Fucino (Scurcola Marsicana, Celano), a Tivoli e all’altopiano aquilano (Fossa, Bazzano), che ne ha restituito le testimonianze più numerose e imponenti.48 45 Rinvio in proposito alle comunicazioni tenute al convegno da L. Bonomi Ponzi, U. Broccoli e C. Giontella. Per il santuario di M. Torre Maggiore vd. L. Bonomi Ponzi, in eaa , ii suppl., s.v. Terni. 46 A. Pasqui, in ns 1907, p. 620 sgg., fig. 22 (qui a fig. 19), circoli ii (fig. 24, qui a fig. 20), iii, iv, viii, x, xi (“Taluno di questi circoli aveva da un lato una fila di alcune pietre di cava, talvolta in linea arcuata. Questo allineamento composto in genere di cinque pietre di forma allungata e appuntate sopra corrispondeva alla posizione dei piedi del cadavere, seguiva quindi l’orientamento della fossa”); E. Stefani, ibid., 1914, p. 28 s., d, tav. i, tombe 58, 72, 74; fig. 4, tomba 167 (“ad occidente del quale [circolo], in corrispondenza dell’asse della fossa, era una serie di lastroni (non meno di 3 e non più di 8), infissi nel terreno, distanziati l’uno dall’altro e segnanti, presso a poco, un allineamento est-ovest. Sono le tombe cosiddette a coda”). Cfr. Fr. v. Duhn, Italische Gräberkunde, i, Heidelberg, 1924, pp. 197 s., 443. 47 Art. cit., p. 28, nota 1 (“I sepolcri con circolo e coda, da noi scoperti, sono tutti di guerrieri, forse capitribù”). 48 Vd. ora l’esauriente trattazione di S. Cosentino, V. d’Ercole, G. Mieli, La necropoli di Fossa, i. Le testimonianze più antiche, Pescara, 2001, pp. 193-197, 228 s., con bibliografia e carta di distribuzione.

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Fig. 19.

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Fig. 20.

Nell’orientalizzante Terni continua a mostrarsi un centro assai vitale e dinamico, ora maggiormente aperto ai contatti con la valle del Tevere. Accanto ai tradizionali biconici ad anse differenziate (Fig. 21), imitati anche nell’area volsiniese e nell’entroterra vulcente,49 incontriamo tipi speciali di brocche (Fig. 22), splendidi karchesia falischeggianti come quello della tomba 1 del 1998,50 vasi multipli (Fig. 23), fiasche (Fig. 24), ecc., decorati a graffito o a incavo anche con motivi figurati, includenti accanto ai prediletti cavalli51 anche gli aironi, nella variante iconografica “irsuta” presente a Capena e a Poggio Sommavilla (Fig. 26).52 Non mancano importazioni dall’Etruria meridionale, come una piccola brocca dipinta di stile subgeometrico (Fig. 25),53 simile a una da Vulci,54 buccheri sottili, tra i quali un’anforetta a doppia spirale incisa,55 e anche una coppetta su piede del ciclo etrusco-corinzio dei Rosoni, sfuggita all’amico Szilágyi.56 Sono testimonianze che non hanno alcun riscontro in Umbria, e pochi in Sabina. Tra gli oggetti di prestigio si annovera un buon numero di sigilli d’avorio, forse di produzione vicino-orientale, e un pomo di bastone con tre teste fittili a tutto rilievo (Fig. 27), 49 Colonna, art. cit. a nota 11, pp. 52, 56, 65. 50 Cfr. nota 20. 51 Alla documentazione offerta da L. Lanzi, in ns 1914, p. 4 sgg., e E. Stefani, ibid., 1916, p. 191 sgg., va ora aggiunta quella dell’ex Poligrafico Alterocca (La vita e la morte, cit. a nota 20). 52 Spalla di un vaso d’impasto di vecchio ritrovamento, esposta nella mostra di Palazzo Gazzoli. Sul motivo vd. Micozzi, op. cit. a nota 4, p. 76, nota 44. 53 Stefani, art. cit., p. 217, fig. 26. 54 E. Hall Dohan, Italic Tomb-groups in the University Museum, Philadelphia, 1942, p. 89, n. 13, tav. xlvii. 55 Ex Poligrafico Alterocca, tomba 11/1996. Sulla diffusione del tipo vd. Colonna, art. cit. a nota 11, p. 66, nota 115. 56 A. Pasqui, in ns 1907, p. 615 s., e (coppetta alta cm 6, con “tre ocarelle dipinte con colore rosso scuro, e completate con qualche particolare graffito, specialmente nelle teste e nelle ali. Tra due ocarelle si ripete un rosoncino fatto col medesimo colore”). È l’unico vaso figurato etrusco-corinzio rivenuto al di là del Tevere, se si prescinde dai recentissimi ritrovamenti di Fossa nell’Aquilano.

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Fig. 21.

Fig. 22.

Fig. 23.

prezioso documento di plastica orientalizzante, che richiama Vetulonia.57 È in questa fervida temperie che si colloca Fig. 24. l’elaborazione di una scrittura nazionale, attuata in loco o più verosimilmente nell’avamposto di Otricoli, con l’intervento, se volete, di un maestro forestiero, ma comunque etru57 Sigilli: ns 1916, pp. 215 s., figg. 21-23; pp. 219 s., fig. 31. Pomo: ibid., p. 197, fig. 5. Cfr. a Vetulonia teste bronzee come quelle del candelabro della tomba del Duce (E. Hall Richardson, in maar xxvii, 1962, p. 176, figg. 6163) e, per la collocazione al sommo di un’asta, quelle del Circolo degli Acquastrini (ibid., p. 188, fig. 70s.).

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Fig. 25.

Fig. 26.

sco e non greco.58 Sul piano grafico la novità di maggiore portata è stata la riduzione a un punto della o dell’alfabeto teorico etrusco, destinata a una straordinaria fortuna grazie sua trasmissione all’alfabeto sudpiceno e volsco, solidalmente alla riduzione del segno a otto, notante la f, rispettivamente a due e a tre punti sovrapposti, introdotta per un principio di coerenza grafica. Culla dell’innovazione è stata certamente l’area di cui ci stiamo occupando, dove la riduzione della o è motivata dal rischio di confuFig. 27. sione tra quella lettera e il theta, conservato nell’alfabeto locale con la funzione altrove assegnata, come si è detto, al samech. Storicamente si può capire come sia della massima importanza l’accertamento che la rivoluzionaria innovazione dell’alfabeto paleoumbro sia stata recepita in ambito sudpiceno e volsco, trovando un’eco sulla base di Tivoli, senza toccare le scritture dell’area tiberina. Il che fa pensare ai più antichi contatti culturali tra la conca ternana, l’Abruzzo centro-settentrionale e Tivoli, bene esemplificati dalle tombe a circolo con allineamento di lastroni prima ricordate, da ritenere avvenuti per le vie interne del Velino e del Salto.

58 Come per la scrittura sabina vorrebbe Maggiani, art. cit. a nata 22.

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Quanto sono venuto dicendo ha un corollario: Otricoli e l’area in senso lato ternana sono una realtà etnico-culturale contigua ma distinta dalla Sabina, con la quale spesso è stata indebitamente confusa, senza tenere nel giusto conto la distinzione augustea tra le regioni VI e IV.59 Il nome storico degli abitanti del comparto in questione è Nahartes o Naharci, derivato dal nome del fiume Nera, l’antico Nar, e testimoniato dalle Tavole Iguvine. Se la lingua dell’iscrizione di Uppsala è veramente una varietà arcaica dell’umbro, come tutto lascia credere, allora questo nome è da intendere come una specificazione geografica dell’etnico Umbri, cioè “gli (Umbri) abitanti sul Nar”, così come i Sapinates dell’Appennino romagnolo60 sono “gli (Umbri) abitanti del territorio sul Sapis (la tribus Sapinia)”. Un possibile parallelo è quello dei Sileraioi, mercenari italici di Sicilia, provenienti verosimilmente dalla zona del Sele, a confine tra Sanniti e Lucani.61 Nelle tavole Iguvine i Naharci compaiono come un nomen, una “nazione” a sé, così come avviene per gli Etruschi e per gli Iapusci, e a differenza degli umbri Tadinati. Ciò significa che a Gubbio erano percepiti, nonostante la probabile comunanza di stirpe e di lingua, come una nazione diversa. A causa, possiamo dire, del diverso livello di cultura, ampiamente dimostrato dai dati archeologici, cui ora si aggiunge anche la precoce alfabetizzazione. Concludiamo parafrasando quel che avrebbe detto un autore antico dei Picenti nei confronti dei Sabini loro progenitori:62 Nahaites Umbros esse gente, natione Uohaites. [Gli Umbri del Tevere, «AnnMuseoFaina», viii, 2001 (atti del convegno internazionale, Orvieto e Terni 14-16 dicembre 2000), pp. 9-30]. 59 Sulla pertinenza agli Umbri della Valnerina almeno fino a Cerreto vd. R. Cordella, N. Criniti, «SupplIt», n.s. 13, 1996, p. 28. 60 Plin., n.h., iii, 114. Cfr. G. Susini, in Storia di Forlì. L’evo antico, Bologna 1989, p. 158. 61 G. Colonna, «Kokalos», xxvi-xxvii, 1980-1981, p. 174.; G. Tagliamonte, I figli di Marte, Roma, 1994, p. 143 s. 62 Secondo il supplemento di K.O. Müller a Fest. p. 162 l, e 20 sgg. Per H. Peter, Hist. Rom. reliquiae, i, Lipsiae, 1914, p. clxiii, l’autore in questione potrebbe essere Catone

STRABONE, LA SA RDE G NA E LA ‘AUTOCTONIA’ DE G L I E T RU S C H I che dirò, non prima di avere pòrto anch’io il mio grato saluto ai nostri squisiti Q uel ospiti di Sassari e di Oristano, concerne solo una minima parte del complesso

dossier dei rapporti etrusco-sardi.1 Tratterò infatti della mitistoria di questi rapporti, ossia della loro proiezione leggendaria, nel tempo degli eroi, e non del loro effettivo svolgimento di epoca storica (sul quale ho appena dato un contributo nella parte introduttiva del catalogo della mostra di Oristano sulla battaglia del Mare Sardonio).2 Mi conforta anche, in questa autolimitazione, il sapere che dopo di me parleranno di storia arcaica della Sardegna altri e assai qualificati studiosi. È noto che la Sardegna non ha mai fatto parte dell’‘impero’ marittimo degli Etruschi, a differenza della vicina Corsica, e nemmeno, per quanto sappiamo, è stata oggetto di loro puntate offensive, eventualmente seguite da occupazione temporanea, come invece è accaduto alle isole Eolie.3 Tuttavia un coinvolgimento degli Etruschi negli affari della Sardegna indubbiamente c’è stato, e ne troviamo un importante riflesso, a livello addirittura di storia del popolamento, nel ricco patrimonio di tradizioni leggendarie concernenti l’isola. La testimonianza chiave è fornita da una fonte autorevole, Strabone, nel v libro della sua Geografia, dedicato all’Italia non greca, dalle Alpi al Sele. Giunto a illustrare Populonia, Strabone parla delle isole che si possono scorgere dall’alto del promontorio su cui sorge la città, e che afferma ripetutamente di avere intravisto lui stesso quando è stato sul posto, con difficoltà decrescente in ragione della distanza: la Sardegna, la Corsica e l’Elba.4 Della prima, e ancor più della seconda, mette l’accento soprattutto sugli aspetti negativi, seguendo probabilmente anche in questo caso uno dei suoi autori preferiti per le cose d’Occidente, Posidonio.5 Esordisce dicendo che l’isola è «in molta parte selvaggia e non pacificata», ha un territorio largamente adatto all’agricoltura ma il clima è malsano e le zone più fertili sono esposte alle scorrerie dei montanari Diagesbei, suddivisi in quattro tribù di cui elenca i nomi, quasi tutti non altrimenti noti. Costoro abitano nelle caverne, non praticano l’agricoltura, anche dove potrebbero, e vivono di razzie a danno dei coltivatori, non solo del posto ma anche del continente, che raggiungono via mare, specialmente nella zona di Pisa (un’informazione piuttosto inattesa, stante la lontananza, che sottolinea la ricchezza agricola di quella città e che il geografo o la sua fonte avranno

1 Il testo della relazione tenuta al convegno è stato sensibilmente rielaborato e arricchito, a cominciare dal titolo, ma senza alterarne le linee portanti. 2 Gli Etruschi e la battaglia del Mare Sardonio, in M¿¯Ë. La battaglia del Mare Sardonio, cat. della mostra di Oristano, Sassari, 2000, in stampa. Mi permetto di rinviare anche al mio Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze, 1985, i, Roma, 1989, pp. 361-374, spec. pp. 366-371. 3 G. Colonna, art. cit., pp. 361-36, con bibl. 4 v, 2, 6 (C 223: «noi stessi le abbiamo viste quando siamo saliti a Poplónion»; C 224: «anche se [le isole] fossero state visibili da qualcuno, non lo sarebbero state certo da noi [se la loro distanza fosse stata quella indicata da Artemidoro]»). Già a proposito di Luni aveva scritto che dagli alti monti circostanti, ossia le Alpi Apuane, si potevano scorgere «i mari aperti e la Sardegna e molta parte delle sue coste da entrambi i versanti» (v, 2, 5, C 222). Si noti la speciale attenzione mostrata verso la Sardegna (anche se di fatto scambiata con la Corsica). 5 v, 2, 7, C 224-225. Su Posidonio come fonte del passo da ultimo D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques. Histoire de la doctrine dans l’Antiquité, Rome, 1991, pp. 422-426.

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appreso sul posto).6 Prosegue dicendo che i comandanti romani inviati a fronteggiare quei montanari spesso non hanno trovato miglior strategia che assalirli di sorpresa e catturarli in gran numero nei luoghi dove si riuniscono per più giorni a festeggiare (panegyrízein) il ritorno dalle razzie (un’informazione preziosa sull’esistenza e sul ruolo politico-istituzionale dei santuari federali dei Sardi).7 Menziona infine i mufloni, col cui vello gli indigeni fanno corazze, che usano assieme a un piccolo scudo (pelta) e a una corta spada (quello che noi chiamiamo un pugnale). In questo accumulo di informazioni, di natura geo-economica, socio-politica ed etnografica, che si ritiene attinto, come si è detto, da Posidonio, il geografo inserisce, forse almeno in parte attingendo ad altra fonte, un breve excursus di carattere insieme storico e mitistorico. Dopo aver detto che i montanari Diagesbei un tempo si chiamavano Iolei aggiunge: «si dice che Iolao sia quivi giunto alla testa di alcuni dei figli di Eracle e abbia abitato l’isola assieme ai barbari che la possedevano (si trattava di Tirreni). In seguito li sottomisero i Fenici di Cartagine, che assieme ad essi combatterono contro i Romani, finché, dopo la loro sconfitta, tutto passò sotto il dominio di Roma».8 La menzione dei Tirreni, ossia degli Etruschi, quali primitivi abitatori dell’isola, coi quali sarebbero venuti a convivere gli Iolei, ha suscitato grande interesse, fin da quando, nei primi decenni del secolo scorso, hanno cominciato a essere note anche fuori della Sardegna le architetture nuragiche.9 Interesse che si è manifestato però fuori della cornice che avrebbe dovuto essergli propria, ossia la ricostruzione della mitistoria sarda elaborata dagli Antichi. Si è citato infatti il passo come testimonianza dei rapporti di età storica tra l’Etruria e la Sardegna,10 o addirittura di un dominio etrusco sull’isola precedente quello dei Cartaginesi,11 per non parlare della pretesa parentela tra l’etrusco e il paleosardo.12 Invece chi si è occupato della mitistoria sarda è stato particolarmente reticente al riguardo, fino al punto da definire il passo di Strabone ‘reine Konstruktion’.13 In anni 6 Un cenno assai generico in C. Ampolo, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici, atti del xxxiii Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 1993), Napoli, 1996, p. 228 sg.; S. Bruni, Pisa etrusca. Anatomia di una città scomparsa, Milano, 1998, p. 91 sg.; G. Lilliu, «RendLinc», s. ix, xi, 2000, p.197. Interpretando il precedente passo di Strabone su Pisa (v, 2, 5, C 223) come fa H. L. Jones nella ed. Loeb (seguito da A. M. Biraschi nella edizione dei libri v e vi, Milano, 1988, p. 97), e come ci sembra preferibile, il geografo potrebbe avere alluso anche a questi raids parlando dei «pericoli connessi col mare», contro i quali costruivano navi i Pisati, considerati evidentemente come oriundi greci (cfr. anche Iustin., xx, 1, 11), divenuti col tempo «più bellicosi dei Tirreni» a causa dei Liguri, «cattivi vicini viventi al loro fianco», dai quali peraltro poteva venire una minaccia soprattutto terrestre (infatti secondo Diod., v, 39, 8, essi si avventuravano sul mare, con imbarcazioni precarie, solo per commercio, spingendosi comunque fino ai mari Sardonio e Libico, e quindi ribattendo la rotta percorsa dai Sardi). 7 Dei quali ci si dimentica quando si nega che i Sardi siano potuti divenire, in determinati momenti storici, un soggetto politico, capace per esempio di donare al santuario di Delfi la statua del proprio eponimo (vedi G. Colonna, in I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, a cura di A. Mastrocinque, Trento, 1993, p. 59 sg.). 8 Strab., v, 2, 7, C 225. 9 L. C. F. Petit-Radel, Notice sur les Nuraghes de la Sardaigne, Paris, 1826, p. 61; K. O. Müller, Die Etrusker, Breslau 1828 (2º ed., a cura di W. Deecke, Stuttgart, 1877, i, p. 177 sg.). Già prima sul passo di Strabone si fondava l’affermazione di G. Micali che gli Etruschi avevano inviato colonie in Sardegna (L’Italia avanti il dominio dei Romani, Firenze, 1811, pp. 121 e 151 della ristampa, Milano, 1826) e che i bronzetti nuragici, già noti in Europa dai tempi del Caylus, erano opera loro (p. 188 sg.). 10 Per es. M. Pallottino, La Sardegna nuragica, Roma, 1950, p. 14; F. Nicosia, in Ichnussa. La Sardegna dalle origini all’età classica, Milano, 1981, p. 457; M. Gras, Trafics tyrrhéniens archaïques, Rome, 1985, p. 21. 11 Per es. Müller, op. cit., p. 177 sg.; M. Sordi, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma, 1960, p. 95. 12 Sostenuta da M. Pittau in numerosi scritti: mi limito a citare il Lessico etrusco-latino comparato col nuragico, Sassari, 1984, p. 18. 13 E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937, p. 135. L’affermazione di Strabone si baserebbe sulla storiella di Sardó moglie di Tirreno (cfr. nota 18), che a nostro avviso riflette una prospettiva con essa inconciliabile, come si chiarisce avanti nel testo.

strabone, la sardegna e la ‘ autoctonia ’ degli etruschi 139 recenti Bondì e Nicosia lo hanno praticamente ignorato,14 la Breglia Pulci Doria lo ha citato solo in una nota del suo pur accuratissimo saggio, e solo per chiedersi, in un’ottica marcatamente ellenocentrica, se esso alluda a Pelasgi altrimenti ignoti, venuti dalla Beozia assieme ai Tespiadi di Iolao (ma Strabone parla di barbari stanziati nell’isola prima dell’arrivo di Iolao, e inoltre non confonde mai i Pelasgi con i Tirreni).15 Briquel, nel suo libro sulla teoria dell’origine lidia degli Etruschi,16 ha opportunamente accostato il passo all’unica altra testimonianza letteraria di un rapporto, invero di natura solo onomastica, degli Etruschi con l’isola.17 Si tratta di uno scolio al Timeo di Platone,18 in cui, a proposito dell’estensione dell’impero di Atlantide fino alla Tirrenia, cioè all’Etruria, si dice che tanto questa, quanto il mare omonimo avevano preso nome da Tirreno, venuto in quei luoghi dalla Lidia. Fin qui nulla di nuovo, ma lo scolio prosegue affermando che dalla di lui moglie Sardó – altrimenti menzionata solo da Igino19 – sarebbero state denominate sia la capitale della Lidia che la Sardegna, in precedenza chiamata argyróphlebs, ossia ‘(l’isola) dalle vene d’argento’, un hapax legomenon alludente alle sue ben note ricchezze minerarie. Con grande cautela Briquel prende in considerazione la possibilità che Strabone-Posidonio e, indirettamente, lo scoliasta di Platone facciano riferimento a una tradizione comune, secondo la quale gli Etruschi avrebbero partecipato in qualche misura al popolamento dell’isola, ma conclude il suo esame con un non liquet.20 La questione non è di poco momento, e merita di essere ripresa. Vi sono in realtà alcuni aspetti che non sono stati finora posti nella giusta evidenza, per quanto mi risulta. Il primo è l’orientamento nient’affatto favorevole, o neutrale, verso i Tirreni-Etruschi, che emerge dal passo straboniano. Questi non solo sono detti «barbari», contro il costume del geografo, che evita tale definizione per gli Etruschi, da lui anzi esplicitamente contrapposti ai barbari nel caso della Padania,21 seguendo quella che doveva essere una comune opinione,22 ma sono considerati addirittura responsabili dell’imbarbarimento dei Greci venuti a convivere pacificamente con essi al seguito di Iolao.23 Con tutte le spaventose conseguenze che abbiamo visto, dal vivere trogloditico al rifiuto dell’agricoltura e all’aggressività endemica, anche di tipo piratesco, attuata con incursioni marittime 14 S. F. BondÍ, Osservazioni sulle fonti classiche per la colonizzazione della Sardegna, «Studi fenici», i, 1975, p. 9 sgg.; Nicosia, La Sardegna nel mondo classico, in op. cit. a nota 9, pp. 421-476, spec. pp. 422-442. 15 L. Breglia Pulci Doria, La Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche, in Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes, Naples, 1981, p. 71, nota 50. In tal senso già un cenno di J. Bérard, La colonisation grecque de l’Italie méridionale et de la Sicile dans l’Antiquité2, Paris, 1957, p. 415, nota 4. Sulla inverosimiglianza di una confusione in Strabone tra Pelasgi e Tirreni cfr. già Briquel, op. cit. a nota 5, p. 424, nota 83, e le considerazioni di chi scrive in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica (Atti del convegno di Cupra Marittima, 1992), a cura di G. Paci, Tivoli, 1993, p. 5 sg. 16 Op. cit. a nota 5, pp. 407-429, spec. pp. 421-425. 17 Non è tale infatti il nome di Sardi, dato ai loro vicini dai Romani in alternativa a quello di Etrusci o Tusci, perché Etrusca gens orta est Sardibus ex Lydia (Fest., p. 439 L.: cfr. Plut., quaest. Rom., 53). Sulla questione D. Briquel, op. cit. a nota 5, pp. 431-436. Inaccettabile A. Hansen, «pp», xlv, 1990, p. 446 sg. (cfr. M. Cristofani, ibidem, xlix, 1994, p. 284 sg.). 18 Schol. ad Plat., Tim., 25 b. Già introdotto nella discussione da Müller, op. cit., p. 178. 19 Fab., 275. 20 Lo scolio dipenderebbe da un’opera poetica, di età ellenistica, se non romana. 21 v, 1, 10, C 216. 22 Vedi l’uso del termine nell’excursus di Dionigi di Alicarnasso sulle guerre combattute da Aristodemo contro gli Etruschi e i barbari loro alleati nel 524 a.C. e contro i soli Etruschi nel 504 a.C. (vii, 3-6). Cfr. il mio cenno in La Salaria in età antica (Atti del convegno di Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 1997), Roma, 1999, p. 150. 23 Così come i loro vicini barbari erano considerati responsabili della trasformazione nei «più selvaggi di tutti quanti i barbari», antropofagi e pirati, degli Achei (Achaíoi) del Caucaso, da «Elei della più genuina stirpe greca» quali sarebbero stati in origine (Dion. Hal., i, 89, 4, col commento di D. Briquel, Les Tyrrhènes peuple des tours, Rome, 1993, p. 164). Ma nemmeno di essi si diceva che vivessero nelle caverne, a mo’ di Ciclopi!

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che raggiungevano i più lontani lidi d’Etruria. Una rappresentazione così radicalmente negativa degli Etruschi non solo rinvia a un filone storiografico a loro ostile, che non sembra aver lasciato altre tracce in Strabone, a parte gli scontati accenni alla pirateria,24 ma appare difficilmente conciliabile con la teoria della loro parentela con un popolo civilizzato come il lidio, campione di tryphé, accolta dal geografo. Il secondo aspetto finora trascurato è che, all’interno del sistema di referenze etniche e culturali governante la ricostruzione della preistoria sarda tentata dalla storiografia greca, al di là delle pur notevoli stratificazioni e rielaborazioni interne (euboico-beote, ioniche, attiche, siceliote), il posto che compete ai Tirreni-Etruschi del passo di Strabone non può che essere quello del popolo indigeno, in senso lato autoctono e per definizione ‘barbaro’, al quale si è, in questo caso invano, sovrapposto l’apporto acculturante della grecità, maestra di vivere civile. Briquel invero si pone in una nota il problema dell’autoctonia dei Tirreni citati nel passo in questione, ma conclude per un’affermazione ‘neutrale’ al riguardo, fatta da Strabone senza tenere conto dello statuto degli Etruschi chiamati in causa.25 Il che a mio avviso è possibile, benché non sia nel costume dello studioso, ma presuppone comunque l’echeggiamento, seppur inconscio, di una qualche opinione altrui, e quindi non fa altro che spostare il problema da Strabone alla sua fonte. La terza considerazione da fare riguarda l’incompatibilità dell’informazione data dallo scoliasta di Platone con il sistema di referenze su cui poggia la ricostruzione della preistoria sarda seguita da Strabone.26 Per lo scoliasta i Tirreni-Etruschi sarebbero responsabili del nome più recente dell’isola, corradicale all’etnico portato in epoca storica dai suoi abitanti, Sardó, collegato anche da tutte le altre fonti, più o meno esplicitamente, all’arrivo di immigrati (dalla Libia o dalla Grecia): ne consegue che non possono esserne stati ritenuti i primi abitatori, quali risultano dal passo di Strabone. Il precedente nome dell’isola, Argyrophlebs, è evidentemente per lo scoliasta il nome attribuitole a navigantibus Graecorum,27 all’epoca in cui essa era ancora abitata dai soli indigeni, ossia all’epoca dei Tirreni-Etruschi di Strabone. L’autonomia dello scoliasta rispetto alla tradizione seguita dal geografo risulta anche dal nome greco in questione, contrastante con quelli assai meglio documentati di Ichnussa e, secondariamente, Sandaliotis, alludenti alla ‘forma’ geografica dell’isola, che interessava in primo luogo i naviganti.28 Il nome ricordato dallo scoliasta pone invece l’accento sulle ricchezze minerarie della Sardegna, mai evocate, per quanto la cosa possa apparire strana, a livello mitistorico, come del resto accade anche per l’Elba e in generale per l’Etruria.29 In conclusione Strabone sembra farsi eco, a proposito della Sardegna, di una tradizione ostile agli Etruschi, che sembra averli considerati degli autoctoni, come poi farà Dionigi di Alicarnasso, e che di sicuro imputava loro la regressione culturale, di cui sarebbero rimasti vittima i Greci che nell’età eroica avrebbero popolato l’isola, esattamen24 v, 2, 2, c 219; vi, 1, 5, c 257. Accenni del resto largamente bilanciati da quelli concernenti la talassocrazia. 25 Op. cit., p. 425, nota 87 (nel successivo libro sulla teoria autoctonista di Dionigi, citato alla nota precedente, l’argomento non è ripreso). 26 Che è quella del filone siceliota, avente a maggior esponente Timeo (D. Briquel, op. cit. a nota 5, p. 422, nota 68). 27 Per riprendere l’espressione di Isid., etym., xiv, 6, 39. 28 Elenco delle attestazioni, che vanno da Ps. Aristot., de mir. ausc, 100, al passo appena citato di Isidoro, in R. Zucca, I Greci e la Sardegna in età arcaica nel contesto mediterraneo (ii ), negli Atti di questo convegno. I due appellativi greci stanno a Sardô come Trinakie/Trinakrie sta a Sikaníe e a Sikelíe (Diod., v, 2, 2). 29 Anche se l’Elba aveva un posto, com’è noto, nel mito degli Argonauti. Il nome Argyrophlebs è stato ragionevolmente collegato da R. Zucca, art. cit., con l’emporia euboica, che era attratta in particolare dalla ricchezza di galena argentifera dell’Iglesiente, commercializzata da Sulci. Emporia cui secondo lo stesso autore è forse da riferire anche il nome Kyrnos attribuito alla Corsica, portato non solo da un figlio di Eracle (uno dei Tespiadi beoti?), ma anche da una città dell’Eubea (Herod., ix, 105).

strabone, la sardegna e la ‘ autoctonia ’ degli etruschi 141 te all’opposto di quel che era scaturito in Sicilia dall’incontro tra indigeni e colonizzatori.30 Il fatto che desta maggiore interesse, su un piano generale, è ovviamente la presunzione di autoctonia, intesa in senso negativo, riservata da questa tradizione agli Etruschi. In proposito il discorso può essere opportunamente allargato, immettendo nella discussione un testo che finora, per quanto so, è sfuggito agli studiosi che si sono occupati del problema delle origini etrusche. Mi riferisco al breve excursus su Eolo, introdotto dal Servio aggiunto nel commento al i libro dell’Eneide, verso 52:31 Cum immineret bellum quo Tyrrhenus, Lipari frater, Peloponnesum vastare proposuisset, missus ab Agamemnone, ut freta tueretur, [Aeolus] pervenit ad Liparum, qui supra dictas insulas regebat imperio, factaque amicitia Cyanam filiam eius in matrimonium sumpsit et Strongulam insulam in qua maneret accepit. Il racconto è compatibile e strettamente complementare a quello di Diodoro Siculo,32 secondo il quale Liparo, figlio di Ausone, fu costretto dalla ostilità dei fratelli a lasciare l’Italia e a rifugiarsi nell’isola in cui fondò la città di Lipari e più tardi accolse Eolo. Divenuto questi suo genero, fu da lui aiutato, una volta vecchio, a ritornare sul continente e a fondare un regno intorno a Sorrento, dove morì e ricevette onori eroici. Il Servio aggiunto menziona uno solo dei fratelli di Liparo, evidentemente il peggiore, e gli dà il nome di Tirreno. Un Tirreno che evidentemente non ha nulla a che spartire con l’omonimo principe lidio ma è invece un ausone, assunto a eponimo e degli Etruschi e del mar Tirreno in concorrenza con quello, in un’ottica di evidente autoctonia. La sua menzione è rivolta a dare un movente alla venuta di Eolo nelle isole che da lui presero nome: Tirreno infatti non solo avrebbe costretto all’esilio Liparo, con l’aiuto di uno o più fratelli, ma avrebbe ideato una gigantesca razzia, una spedizione marittima avente per obbiettivo le coste del Peloponneso: una di quelle makraì strateíai che secondo Strabone gli Etruschi sarebbero stati capaci di compiere quando erano uniti sotto la guida di un unico capo,33 al tempo appunto di Tirreno, o al più di Tarconte. Per contrastare tale spedizione Agamennone, che appare qui, come nell’Iliade, nella veste di capo di tutti gli Achei, ha inviato Eolo in Occidente, a bloccare lo Stretto. Questi adempie alla sua missione cercando una base nelle isole colonizzate da Liparo, il cui possesso in ogni tempo è stato determinante per il controllo di quella via d’acqua, come ha mostrato da ultimo Carmine Ampolo, citando tra l’altro anche il passo di cui ci occupiamo.34 Il diverso taglio del racconto di Servio, rispetto a Diodoro, discende dalla volontà di sottolineare la parte che nella vicenda ha avuto Eolo, a commento della menzione dell’eroe nel testo dell’Eneide, mentre lo storico siceliota incentra il suo discorso su Liparo, in quanto ecista di Lipari e primo colonizzatore dell’arcipelago. Ovviamente non è una discrepanza il fatto che in Servio Eolo ottenga dal suocero Stromboli, invece che Lipari, poiché è implicito anche in Diodoro che egli regnerà su Lipari solo quando il suocero sarà ritornato col suo aiuto in Campania. Fonte comune di Diodoro e del Servio aggiunto è uno storico greco informato delle cose d’Occidente, che evidentemente non credeva all’origine lidia di Tirreno, ma lo considerava uno dei figli di Ausone, e ovviamente dell’Ausone più antico, anziché del30 Come rileva Diod., v, 6, 5. 31 Ho dedicato a questo testo un esame più approfondito nel mio Tyrrhenus Lipari frater, in corso di stampa nella miscellanea dedicata a Paola Pelagatti, a cura di H. Blanck e P. G. Guzzo. Aggiungo alla bibliografia che già il vecchio K. O. Müller si meravigliava che Tirreno e Liparo fossero detti fratelli (Müller-Deecke, p. 187, nota 23). 32 v, 7, 5-6. 33 v, 2, 2, C 219. 34 In Lo Stretto crocevia di culture (Atti del xxvi convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 1986), Napoli, 1993, p. 65.

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l’omonimo figlio di Odisseo e Circe, o Calypso.35 Uno storico che faceva di Tirreno l’archetipo del pirata etrusco e che conosceva gli Etruschi anzitutto come antichi e temuti dominatori della Campania meridionale, in concorrenza con gli Ausoni.36 Si è giustamente pensato a uno storico siceliota, dato il noto interesse siracusano verso le Eolie e il golfo di Napoli, e anche, più specificamente, per il nome attribuito da entrambi gli autori alla sposa di Eolo, Ciane. Ma questo storico non può essere Timeo, come qualcuno ha supposto a proposito del passo di Diodoro, poiché questi aderiva alla vulgata erodotea e faceva pertanto di Tirreno un lidio. Non resta allora che pensare, seguendo Briquel nelle conclusioni cui giunge in merito alla teoria autoctonista delle origini etrusche,37 a Filisto, che certamente ha avuto molte occasioni di parlare degli Etruschi nei suoi Sikeliká, ed è stato anzi il teorizzatore dell’ostilità siracusana contro di loro, che si dispiegò accanitamente sui mari italiani tra v e iv secolo a.C., sotto il pretesto della lotta alla pirateria.38 Se si accetta l’attribuzione a Filisto della saga di Tirreno e di Liparo, così come è riflessa nei testi citati di Diodoro e del Servio aggiunto, è assai verosimile che allo stesso autore sia da riferire anche l’inserimento dei Tirreni-Etruschi nella saga degli Iolei della Sardegna, quale era nota a Strabone. Inserimento che, come nel caso di Tirreno per le Eolie, riveste un ruolo determinante per l’intera saga, in quanto la connotazione particolarmente negativa dei Tirreni-Etruschi poteva in qualche misura giustificare l’imbarbarimento indotto degli Iolei e quindi, in ultima analisi, la perdita della Sardegna per la grecità. Anche in questo caso si osserva una sostanziale complementarità col racconto assai più circostanziato, ma reticente quanto a riferimenti etnomastici, offerto da Diodoro sulla scorta di Timeo.39 Mentre Diodoro parla soltanto di ‘indigeni’, che sarebbero stati vinti in battaglia dai sopraggiunti Iolei, e di ‘barbari’, che avrebbero preso parte allo stanziamento dei coloni in numero maggiore dei Greci, provocando l’irreversibile imbarbarimento di questi ultimi (specie dopo che i Tespiadi erano stati scacciati e avevano trovato rifugio in Italia «nella regione di Cuma»),40 Strabone dà un nome sia ai barbari che ai Greci imbarbariti, chiamandoli rispettivamente Tirreni e Diagesbei. Per quanto riguarda l’omissione del nome dei Tirreni da parte di Diodoro, sembra ovvio che la causa sia da ricercare nell’adesione di Timeo, fedelmente seguito dallo storico di Agirio, alla teoria della loro origine lidia. Invece il nome mixobarbaro dei Diagesbei è certamente una innovazione di età recenziore, giunta a Strabone attraverso Posidonio, assieme ai nomi delle quattro tribù componenti quel popolo. * 35 Fratello pertanto di Agrio e di Latino (Hesiod., Theog., 1011 sgg.). 36 Come risulta tra l’altro dalla definizione di ausonie che Ecateo dà di città notoriamente etrusche, quali Nola e Mamarcina (apud Steph. Byz., s.vv.). 37 Op. cit., a nota 22, pp. 213-220. 38 Al punto che la conquista romana di Veio nel 396 a.C. dovette essere salutata con gioia dai Siracusani e dai loro alleati. Ce ne accorgiamo dall’episodio del cratere d’oro inviato per iniziativa di Camillo a Delfi, prima sequestrato e poi restituito con tutti gli onori dai Liparesi, che lo scortarono fino a destinazione, una volta appreso che era la decima del bottino della città etrusca (Liv., v, 28, 2-5). Il che fu inteso dai Romani come un segno di amicizia nei loro riguardi, ma era in realtà soprattutto espressione di risentimento contro gli Etruschi, che circa un secolo prima avevano espugnato la città. Quando, dopo il disastro gallico, Roma si alleò strettamente con Caere gli stessi ambienti non esitarono, con Alcimo, ad accreditarne la qualifica spregiativa di ‘città etrusca’ (sulla questione da ultimo F. Zevi, in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale, Rome, 1999, p. 333 sg., con bibl.). 39 Diod., iv, 29, 3-6; 30. Nel racconto dello stesso autore in v, 15 non si parla di abitanti dell’isola prima degli Iolei, ma costoro vi sarebbero giunti con uno stuolo composto «da Greci e da barbari». 40 Diod., v, 15, 6.

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La parte attribuita a Filisto nella rielaborazione della saga di Liparo e di quella degli Iolei di Sardegna invita a tentare di ricostruire, pur sempre con grandi vuoti e incertezze, il pensiero dello storico siracusano in merito alle origini etrusche. Anzitutto si chiarisce cosa intendesse dire, ammesso che dipenda da lui, Dionigi di Alicarnasso, quando affermava, a conclusione del suo excursus sugli Etruschi, che i Greci li avrebbero chiamati Tirreni «e dall’abitare nelle torri e da un loro dinasta».41 Il dinasta in questione, eponimo dei Tirreni, cui fa allusione Dionigi, ha molte probabilità di essere proprio il Tirreno fratello di Liparo, ricordato dal Servio aggiunto. L’abitare in una torre sarà stata una sua personale prerogativa, che si immaginava trasmessa al popolo di cui egli era ritenuto progenitore. In secondo luogo è chiaro che il quadro geografico in cui si sarebbe attuata l’etnogenesi etrusca è per Filisto molto vasto e articolato, e certamente esorbitante dai confini dell’Etruria propria. A giudicare dalla localizzazione dell’eponimo e dalla sua pretesa discendenza ausone, il primo manifestarsi dell’ethnos etrusco era ambientato in Campania, dove di fatto gli Etruschi si erano stanziati già all’inizio dell’età del Ferro, ben prima degli Euboici, e dove al tempo di Filisto sopravvivevano qua e là, a giudicare dalle iscrizioni vascolari,42 a titolo poco più che individuale, ma conservando ancora per intero l’importante ‘nicchia’ di Pontecagnano, da cui verosimilmente esercitavano la pirateria nel basso Tirreno.43 Inoltre quasi certamente nella Campania meridionale costiera è da localizzare la città di T‡ÚÛËÙ·, nota solo da Filisto, che la ricordava come (divenuta) sannita, ma dal nome corradicale a quello dell’eponimo degli Etruschi.44 Ma il fatto che ora più ci interessa è che il secondo momento della etnogenesi etrusca, quello del generalizzato ‘abitare nelle torri’, esteso all’intero popolo, a quanto pare era localizzato da Filisto, contro ogni nostra aspettativa, in Sardegna. Qui un vero popolamento etrusco sicuramente non c’è mai stato, ma c’erano, e meraviglia che non lo sia stato finora rilevato come merita, quelle tyrseis per eccellenza che sono i nuraghi, torri troncoconiche alte in origine fino a venti metri, ancora oggi dominanti il paesaggio di gran parte dell’isola, molte zone costiere comprese45 (Tav. i, a-c). Di fatto nel filone siracusano della mitistoria sarda sono attribuite agli Iolei dal Pseudo-Aristotele «costruzioni (kataskeuásmata) realizzate al modo greco antico, molte e belle, tra le quali tholoi intagliate (?)46 in varie forme», tali da costituire un’autentica «meraviglia», l’unica tramandata per l’isola.47 Diodoro dal canto suo parla di «molte e grandi opere», ancora 41 i, 30, 2. L’espressione anèr dynastés è impiegata da Dionigi anche per Italos, eponimo degli Itali (i, 35, 1), altrimenti detto anér hegemôn (i, 35, 3) (M. Lombardo, in IÛÙÔÚÈË. Studi in onore di G. Nenci, Galatina, 1994, p. 274), alla pari di Rasenna (i, 30, 3). 42 G. Colonna, Atti Pontecagnano-Salerno, pp. 343-371; cie 8772, 8774 sg. (Pompei), 8852-8857 (Pontecagnano). 43 Vedi le gesta di “Postumio il tirreno” nei confronti della Siracusa di Timoleonte (G. Colonna, «Kokalos», xxvi-xxvii, 1980-1981, p. 181). 44 Steph. Byz., s.v. Cfr. G. Tagliamonte, I Sanniti, Milano, 1996, p. 3 sg., con bibl. Potrebbe trattarsi a mio avviso del nome attribuito dai Greci a Fratte di Salerno, se questa città si identifica con l’antica Marcina, «fondazione degli Etruschi, abitata dai Sanniti» (Strab., v, 4, 13, C 251), la cui «sannitizzazione» (a opera degli Irpini?) appare essere stata precoce, a differenza di quella di Pontecagnano (sulla quale vedi L. Cerchiai, in Poseidonia e i Lucani, Milano, 1996, p. 74). Il concetto, proprio di Filisto, di un forte radicamento etrusco nella Campania meridionale risulta anche dall’attribuzione alla ‘Tirrenia’ di Nuceria, se si tratta della Alfaterna (Steph. Byz., s.v. Noukría). 45 In numero di circa ottomila. Nella vastissima bibliografia cito soltanto G. Lilliu, I nuraghi. Torri preistoriche di Sardegna, Verona, 1962; E. Contu, in Ichnussa, cit. a nota 10, pp. 5-81; F. Lo Schiavo, in eaa , ii suppl., v, 1997, pp. 150-153. Sulla distribuzione geografica: Gras, op. cit. a nota 10, p. 66 sgg., fig. 11. 46 La frequente traduzione ‘costruite’ presuppone l’emendamento di kateÍesménous in kateirgasménous, proposto da Th. Bergk (cfr. l’edizione di H. Flashar, Aristoteles Werke, 18, ii-iii, Berlin, 1981, p. 21). 47 Ps. Arist., de mir. ausc., 100.

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esistenti ai suoi tempi, chiamate Daidáleia dal nome di chi le aveva costruite, certamente da conguagliare all’insieme delle «costruzioni», di tecnica verosimilmente anch’essa megalitica,48 citate nell’altra testimonianza, e delle quali parimenti non si sapeva indicare la funzione. Le une e le altre, comunque, certamente diverse dai «vasti e sontuosi ginnasi», costruiti assieme ai tribunali e a tutto ciò che contribuiva alla pubblica eudaimonía, menzionati subito dopo da Diodoro e a quanto pare scomparsi senza lasciare traccia, alla pari della civiltà urbana di cui sarebbero stati espressione.49 È quanto mai probabile in primo luogo che Filisto abbia avuto notizia di queste opere antichissime, da presumere note, per il loro numero e la loro distribuzione, a chiunque avesse messo piede sull’isola; in secondo luogo che le abbia chiamate, com’era del tutto giustificato, tyrseis, considerandole non senza fondamento delle case-torri, ossia delle torri abitabili;50 in terzo luogo che le abbia attribuite non agli Iolei, supposti portatori di una civiltà urbana, con cui poco avevano da spartire le case fortificate, ma ai Tirreni, che da esse, oltre che dal ‘dinasta’ Tirreno, avrebbero preso nome.51 L’operazione non era in fondo troppo diversa da quella compiuta nei confronti dei Sicani, che lo storico, venendo aspramente contraddetto da Timeo, considerava venuti dall’Iberia soltanto, a quanto pare, perché in quel lontano paese esisteva un riscontro onomastico, già messo in valore da Tucidide, offerto dal fiume chiamato Sikanos.52 D’altra parte va tenuto presente che l’originaria tirrenicità della Sardegna, ipotizzata da Filisto, doveva apparire ai suoi occhi del tutto offuscata in epoca storica, se allora i discendenti dei Tirreni, ormai indistinguibili dagli Iolei, vivevano non più nelle ‘torri’, ormai abbandonate e in rovina, ma, alla pari dei Greci imbarbaritisi a causa loro, nelle caverne,53 in una situazione di generale regresso, che non conosceva più né torri abitate né città. Il terzo momento della etnogenesi etrusca non poteva aver avuto luogo, anche per Filisto, che sul suolo d’Etruria. È molto probabile che quel momento, fondante per la nazione di epoca storica con la quale si confrontavano i Greci, fosse da lui localizzato a Pyrgi, il porto di Caere, nei cui pressi sorgeva il più antico e illustre santuario d’Etruria (sacro non solo alla dea Uni, ma anche, come appare dalle scoperte degli ultimi quindici 48 Si tenga presente che Dedalo era considerato da Diodoro l’inventore dei grandi muri di terrazzamento (iv, 78, 4), per i quali la tecnica megalitica, nel paesaggio calcareo della Grecia, era d’obbligo. 49 Diod., iv, 30, 1. In v, 15, 2 si parla nuovamente della fondazione di città e della costruzione di «ginnasi e templi agli dèi». La venuta di Dedalo in Sardegna è ricordata anche da Sallustio (apud Serv., ad Verg., Buc., i, 14) e da Pausania (x, 17, 4). La distinzione tra i due ordini di monumenti corrisponde anche secondo G. Lilliu (La civiltà nuragica, Firenze, 1982, p. 10) a due momenti successivi della civiltà nuragica, per il primo dei quali «non si precisano nomi di popoli» (se non, aggiungo io, i Tirreni di Strabone). 50 Le tyrseis sono infatti definite da Dionigi di Alicarnasso «abitazioni (oikéseis) recintate da muri e dotate di copertura» (i, 26, 2). L’inabitabilità dei nuraghi (sostenuta da M. Pittau, La Sardegna nuragica, Sassari, 1980, p. 62 sgg.) è del tutto apparente, specie se confrontiamo questi ultimi con le abitazioni trogloditiche di uso comune nella Tuscia per tutto il Medioevo e oltre (cenni in E. Colonna Di Paolo, G. Colonna, Norchia, i, Firenze, 1978, p. 94 sg., nota 78). Per Lo Schiavo, art. cit. a nota 45, p. 153, i nuraghi sarebbero stati eretti dalle singole comunità «per essere la dimora del capo di una nuova famiglia o di una piccola tribù all’interno di un clan più vasto». 51 Si noti che la venuta di Dedalo non era unanimemente collocata al tempo di Iolao. Sallustio (loc. cit.) infatti la anticipava al tempo di Aristeo, ossia a un’età ritenuta ‘preurbana’ (attirandosi la critica per ragioni cronologiche di Paus., loc. cit.). A Iolao erano pertanto unanimemente attribuiti solo i ‘ginnasi’, i ‘tribunali’ e i ‘templi’, oltre alla fondazione di città e alla divisione dei campi. 52 Diod. v, 6, 1. Cfr. Bérard, op. cit., p. 450-452. 53 Che queste non siano identificabili con i nuraghi in rovina (così per es. D. Manconi, G. Pianu, Sardegna, Bari, 1981, p. 164) appare da Zonar., viii, 18 D, che parla di «grotte silvestri e introvabili» in cui si nascondevano i Sardi, tanto che per scovarli il console Pomponio dovette far venire cani da caccia dall’Italia. Tutto l’opposto dei nuraghi, collocati sempre bene in vista e lontani dalle selve, come in generale dalle zone più montagnose e impervie dell’isola.

strabone, la sardegna e la ‘ autoctonia ’ degli etruschi 145 anni, a ±uri-Apollo, il dio che, in quanto omologo del Vediovis romano, tutore dell’asylum, presiedeva ai passaggi di status, anche in senso etnico e ‘politico’).54 Il sito era considerato a mio avviso già allora dai Ceriti, proprio grazie a questa sua particolare sacralità, come la metropolis degli Etruschi, cioè il luogo dove i Lidi di Tirreno, una volta sbarcati, si erano trasformati in Etruschi, prima di conquistare la pelasga Agylla, da loro ribattezzata Caere (in etrusco *Kaiser(a)ie),55 nella cornice ovviamente della teoria delle origini che, per essere stata propagandata da Erodoto, aveva conosciuto un fulmineo successo.56 Di altro avviso doveva invece essere Filisto, che localizzava a Pyrgi il compimento della etnogenesi etrusca, come propone sensatamente Briquel, sviluppando uno spunto di M. Giuffrida Ientile,57 in base al nome del sito, che lo storico avrebbe interpretato come un sinonimo di tyrseis, facendo di Pyrgi ‘il luogo delle torri’ (anche se verosimilmente di case-torri, come altrove in Etruria, non v’era traccia, e anche se non mancavano in Grecia città dallo stesso nome, che nulla avevano da spartire con i Tirreni).58 Ciò gli offriva il destro per conferire un nuovo significato alla qualifica di metropolis, a mio avviso, ripeto, già ricorrente almeno a livello locale, riferendola non ai Lidi ma al ‘popolo delle torri’, cioè ai Tirreni venuti di Sardegna, e quindi a barbari della peggiore specie, corruttori dei Greci venuti con essi in contatto. Spia di tale operazione è il passo già ricordato di Servio, che definisce l’oscuro castellum, quale era la Pyrgi da secoli divenuta una fortezza romana, a lui certamente ben nota,59 nobilissimum al tempo in cui gli Etruschi esercitarono la pirateria, quando era addirittura considerato, come si è detto, la metropolis di quel popolo. La menzione della pirateria rivela, come pure ha giustamente sottolineato Briquel, l’atteggiamento ostile agli Etruschi, permeante l’opera dello storico siracusano, partigiano e ‘complice’ di Dionigi il Vecchio, ed appare tanto più significativa in quanto riferita a un sito che, come puntualmente ci ricorda nel séguito del passo il Servio aggiunto, era stato oggetto di un attacco, condotto con grande spiegamento di forze, da parte dello stesso Dionigi. Compiuto in nome della lotta alla pirateria, l’attacco era invece rimasto famoso per il saccheggio del ricchis-

54 Rinvio al mio L’Apollo di Pyrgi, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici (Atti del xxxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1993), Napoli, 1996, pp. 345-375. 55 Vedi ora, oltre alla lamina fenicia di Pyrgi, la lapide arcaica di Saturnia con l’etnico Kaiseriıe in funzione di nome personale (A. Maggiani, Atti dell’incontro di studio in memoria di Massimo Pallottino, Firenze, 1996, Firenze, 1999, pp. 59-61). 56 La patente di metropolis è attribuita a Pyrgi da Servio nel commento alla menzione virgiliana della Pyrgi veteres (Aen., x, 184). Mantengo l’interpretazione del passo sostenuta in «ArchCl», xxxii, 1980 (1982), p. 6, nota 25; e in Atti Rieti-Magliano Sabina, p. 109, ritenendola il necessario presupposto di quella successivamente proposta da Briquel (cfr. la nota seguente). 57 Briquel, op. cit., pp. 201-207. 58 Il nome greco di Pyrgi poteva invece evocare la leggenda pelasgica (vedi il cenno di Bérard, op. cit., p. 473). Il sito doveva apparire agli occhi di Strabone come uno di quegli ery´ mata, eretti sul mare dai fondatori delle città dell’Etruria costiera per non renderle facile preda di navigatori ostili (Strab., v, 2, 6, C 223, a proposito di Populonia). Il termine è usato dal geografo anche per le ‘fortezze’ d’altura degli indigeni còrsi, facilmente espugnate dai comandanti romani con gran bottino di schiavi (v, 2, 7, C 224). 59 Le poderose mura in poligonale della colonia marittima del iii secolo a.C., rimaste per lungo tratto conservate in tutta la loro altezza fino ai nostri giorni, erano nell’età di Servio (magister Urbis per Ps. Acron., ad Horat., Sat., i, 9, 76: cfr. G. Brugnoli, in Enciclopedia Virgiliana, s.v., p. 805) perfettamente visibili da chiunque transitasse per la via Aurelia o navigasse sotto costa recandosi o partendo da Roma. Non a caso Rutilio Namaziano definisce Pyrgi e la vicina Alsium, anch’essa colonia marittima, oppida parva, prima di diventare al suo tempo, certo parzialmente, grandi villae (de red., i, 224). Né si dimentichi che l’altra colonia marittima confinante con Pyrgi portava il nome, eloquente in questa prospettiva, di Castrum Novum. Quanto al verbo expugnatum, usato dal Servio aggiunto in relazione all’attacco siracusano, direi che esso tradisca la convinzione che il santuario, di cui non restava traccia sul terreno almeno dall’età sillana, si trovasse all’interno delle mura, come credevano gli studiosi del secolo scorso (cfr. Dennis, ii, p. 14). Non posso pertanto seguire Briquel quando riporta a Filisto i termini in questione.

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simo santuario, fondato addirittura dai Pelasgi secondo i nemici del tiranno60 e considerato dai più il vero obbiettivo dell’azione siracusana, con grave danno di immagine di fronte all’opinione internazionale (a cominciare da Delfi, dove gli Agyllei avevano potuto fondare un loro thesaurós). Non meraviglia che Filisto abbia risposto sottolineando che Pyrgi, la ‘città delle torri’, era il luogo originario, la capitale etnica dei Tirreni d’Etruria, barbari e pirati come i loro antenati di Campania e di Sardegna, in una prospettiva che, rispetto a quelle dell’origine pelasga oppure lidia, poteva sembrare, e di fatto fu ritenuta senz’altro, almeno da Dionigi di Alicarnasso, come autoctonista. In qual modo Filisto abbia collegato tra loro i tre momenti dell’etnogenesi etrusca, che abbiamo creduto di potere identificare attraverso gli scarni echi della sua opera giunti fino a noi, ossia l’apparizione dell’eponimo in Campania, la formazione di un ‘popolo delle torri’ in Sardegna e quindi il suo trasferimento in Etruria, dove i Tirreni erano ‘abitatori delle torri’ solo di nome e non di fatto,61 è destinato a restare forzatamente ipotetico. A titolo di congettura si può immaginare che, per lo storico siracusano, il malvagio Tirreno, cacciato dalla Campania grazie agli sforzi congiunti di Liparo e di Eolo, si sia recato esule in Sardegna, con un movimento inverso a quello che avrebbe portato secondo Diodoro i Tespiadi, profughi dalla Sardegna, nella zona di Cuma,62 in entrambi i casi seguendo una rotta che le recenti scoperte di Sulci e del Sassarese assicurano ben nota agli Euboici.63 Tirreno avrebbe stabilito il suo regno nell’isola ‘ricca di vene d’argento’, imparando a sfruttarle, ma dopo l’arrivo di Iolao e dei Tespiadi una parte dei suoi (guidata da Rasenna, allora un alter ego del Tarconte della leggenda lidia?) sarebbe passata in Etruria e avrebbe colonizzato quel paese a partire da Pyrgi, unica sopravvivenza toponomastica del ‘popolo delle torri’ sul continente, avendo forse come principale obbiettivo l’Etruria mineraria, dove altri favoleggiava che Populonia era stata fondata dai Corsi.64 Il traiectus, assai più breve di quello che avrebbe portato secondo Strabone i Diagesbei a saccheggiare ripetutamente le coste pisane, come si è già ricordato, sarebbe avvenuto seguendo la rotta più meridionale collegante l’isola al continente, la rotta percorsa nei due sensi dalla flotta dei Ceriti in occasione della battaglia del ‘mare Sardonio’, intorno al 540 a.C., che sull’isola metteva capo a Olbia.65 Un simile ‘va e vieni’ tra il continente e la Sardegna (Fig. 1) può apparire macchinoso e inverosimile, specie per un popolo barbaro, ma non lo è in fondo troppo, ove si consideri che tutto ruota intorno al bacino del medio Tirreno e che gli Etruschi apparivano agli occhi dei Siracusani e degli altri Greci essenzialmente come un popolo di navigatori, maestri dell’arte nautica agli stessi Pelasgi.66 Ma soprattutto, direi, è istruttivo il

60 Come asserisce Strabone (v, 2, 8, C 226), in un passo che contiene anche altre due informazioni discordanti dal resto della tradizione: l’attribuzione del santuario a Ilizia, invece che a Leucotea, e la menzione della Corsica come méta del raid siracusano. 61 A differenza dei Mossineci del Ponto, chiamati a confronto da Dionigi di Alicarnasso perché anch’essi denominati dalle loro abitazioni (i, 26, 2) (cfr. Briquel, op. cit., p. 194 sg.), come già sapeva Apoll. Rhod., ii, 1017. Giudicati da Senofonte (An., v, 4, 34) come i più barbari e i più lontani dai costumi dei Greci tra i popoli dell’Asia Minore, erano accusati tra l’altro di accoppiarsi in pubblico senza pudore, come facevano gli Etruschi secondo Teopompo (apud Athen., xii, 517 d-e). 62 Diod., v, 15, 6. 63 Rinvio alla relazione tenuta da R. Zucca al convegno. 64 Serv. Auct., ad Aen., x, 172. 65 Colonna, art. cit. a nota 2. La migliore testimonianza della funzione di Olbia come terminale della rotta diretta Pyrgi-Sardegna è offerta ora dalla statua fittile di Ercole, di cui è stata ripescata la testa nelle acque del golfo di quella città (Phoinikes b Shrdn. I Fenici in Sardegna, nuove acquisizioni, cat. della mostra, Oristano, 1997, p. 38, fig. 70), opera etrusca di fine iv-inizio iii sec. a.C. (G. Colonna, «ArchCl», xlix, 1997, p. 89, fig. 29, con bibl.). Si può ritenere che la statua fosse destinata, come un pregiato ex voto, al santuario di Giunone. dell’isoletta chiamata grecamente Heras Lutra (Plin., n.h., iii, 6, 85: cfr. la relazione di R. Zucca a questo convegno, che ne propone l’identificazione con l’isolotto di Mortorio). 66 Dion. Hal. i, 25, 1.

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Fig. 1. Il traiectus dei Tirreni dalla Campania alla Sardegna e da lì all’Etruria, ipoteticamente attribuito a Filisto.

confronto con quello che gli storici sicelioti del tempo sono riusciti a elucubrare circa le origini degli indigeni più a loro vicini, i Siculi. Antioco collocava la patria dell’eponimo Sicelo sul Tevere, a Roma, donde esule sarebbe riparato tra gli Enotri dell’Italia meridionale, tra Lucania e Bruzio, dando origine in quel paese al popolo dei Siculi, che in seguito, scacciati dall’Italia, sarebbero passati in Sicilia.67 Filisto allungava ancora il ‘viaggio’ terrestre dei Siculi, considerandoli come dei Liguri sudditi di Sicelo, che Umbri e Pelasgi avevano scacciato dal loro paese, evidentemente collocato sul remoto versante medio-adriatico della penisola, probabilmente nella zona del Cònero, dove al tempo dello storico fu fondata la colonia siracusana di Ancona.68 67 Dion. Hal., i, 12, 3; 73, 4; Strab., vi, 1, 6, C 257, 2, 4, C 270. Cfr. R. Sammartano, Origines gentium Siciliae. Ellanico, Antioco, Tucidide, Roma, 1998, pp. 173-176. 68 Dion. Hal., i, 22, 4. Per la localizzazione di questi Liguri rinvio al mio contributo in La Romagna tra vi e iv sec. a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale, a cura di G. Bermond Montanari, Imola, 1985, p. 57 sg.

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Ci si può chiedere, infine, a qual punto della sua opera Filisto abbia inserito l’ipotizzato excursus sulle origini etrusche. Le occasioni per lo storico di interessarsi agli Etruschi e alla loro mitistoria sono state verosimilmente più d’una. È probabile che la saga dell’eponimo Tirreno sia stata narrata a proposito del conflitto che oppose Etruschi e Liparesi, culminato nell’attacco etrusco del 485-480 a.C.69 Per il ruolo di Pyrgi e per la precedente ‘parentesi’ sarda si dovrà pensare piuttosto alla grande spedizione marittima del 384 a.C. contro gli Etruschi del Tirreno, che ebbe nell’attacco e nel saccheggio di Pyrgi il suo prologo e nell’attacco alle basi etrusche della Corsica il suo obbiettivo finale, come ci informa Strabone, seguendo forse, come fonte indiretta, lo stesso Filisto.70 È verosimile che la rievocazione della cacciata dei coloni focei dall’isola, di cui erano stati corresponsabili Cartaginesi ed Etruschi, abbia indotto lo storico a interessarsi del fallimento della mitica colonizzazione greca della Sardegna, addossandone interamente in questo caso la responsabilità ai barbari Etruschi, da sempre nemici dei Greci. Appendice. ‘Torri’ etrusche. Si è detto nella relazione che in Etruria verosimilmente non esistevano torri, comparabili ai nuraghi, o comunque in grado di dare anche un minimo appiglio alla interpretazione dell’etnico greco degli Etruschi come ‘popolo delle torri’. Non è però forse inutile segnalare che esistevano monumenti anche di grande spicco, in ambito funerario, che potevano evocare, ma solo nel loro aspetto esteriore, le torri nuragiche (o, forse più propriamente, le torri della protostoria còrsa, anch’esse, come quelle etrusche, di uso funerario, ma con camera interna, verosimilmente note agli Etruschi ancor meglio dei nuraghi).71 Già F. Inghirami aveva chiamato a confronto questi ultimi per i due monumenti affiancati, costruiti in opera quadrata al disopra di due piccole tombe a camera, scavati in sua presenza a Volterra nel 1831 da G. Cinci e da lui stesso rilevati.72 Si tratta di due basamenti quadrati di m 2,90 circa di lato, sormontati da una struttura troncoconica in muratura piena di uguale diametro solo in parte conservata, cui l’Inghirami attribuiva peraltro un improbabile sviluppo a sezione ogivale, culminante in un cippo a pigna (Fig. 2).73 Qualche anno prima l’architetto H. Labrouste, borsista ‘prix de Rome’, aveva rilevato a Chiusi un monumento del tutto analogo, ma di dimensioni appena più piccole (basamento di m 2,65 di lato), anch’esso conservato solo a livello delle prime assise, cui aveva attribuito nella sua ricostruzione un’altezza di m 6,10, ipotizzando una rastremazione verosimilmente eccessiva (sempre al fine di collocare al suo sommo un solitario cippo a bulbo, che sarebbe rimasto comunque del tutto invisibile e inaccessibile)74 (Fig. 3). In realtà il diametro della base e l’entità della platea di fondazione, assommante a Cfr. anche G. Vanotti, «Hesperia», iii, 1993, p. 116 sgg. (che però, con evidente forzatura del pensiero di Filisto, vorrebbe identificare questi Liguri con i Celti). 69 Vedi a nota 3. 70 Strab., loc. cit. a nota 49. 71 R. Grosjean, La Corse avant l’histoire, Paris, 1966, p. 50 sgg.; Guide des sites torréens de l’age du bronze corse, a cura di F. L. Virili e J. Grosjean, Paris, 1979. 72 F. Inghirami, Nuova scoperta di alcuni toli sepolcrali, «AnnInst», 1832, pp. 20-30, spec. pp. 26-29, tav. agg. A, fig. 3. Cfr. Dennis, 4º ed., p. 142 sg.; Å. Åkerström, Die etruskische Gräber, Lund, 1934, p. 162. J. P. Oleson, p. 47 sg.; S. Steingräber, «ArchCl», xliii, 1991, p. 1093. 73 Nella quale il monumento al centro è il nuraghe di Isili, fatto conoscere dal Petit-Radel. 74 Il rilievo rimasto inedito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, è stato pubblicato da L. Banti, «StEtr», xxxv, 1967, p. 591 sg., tav. cxx a. Il monumento chiusino è talmente simile a uno dei due di Volterra (quello di destra nella tavola di «AnnInst»), da presupporre l’intervento del medesimo costruttore, spostatosi evidentemente da Volterra a Chiusi.

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Fig. 2. Cippi a torre di Volterra, necropoli del Portone, scavi 1831 (da «AnnInst»).

Volterra a cinque assise, pari a circa m 1,50 di altezza, inducono a stimare l’altezza di questi enormi segnacoli funerari, vere torri in miniatura, in circa 7-8 metri. La datazione dei monumenti a torre di Volterra e di Chiusi è incerta, ma verosimilmente di età ellenistica, anche se le urne di alabastro rinvenute nelle camere di quelli di Volterra potrebbero essere dovute a un loro reimpiego.75 Esistono tuttavia monumenti di età sicuramente arcaica, che possono essere chiamati a confronto. Uno di essi è la celebre Cuccumella di Vulci, il più grande tumulo d’Etruria, databile alla fine del vii o nel primo quarto del vi secolo a.C., al cui centro Luciano Bonaparte rinvenne due torri in opera quadrata di arenaria, l’una troncoconica a muratura anulare, del diametro alla base di circa m 5, l’altra parallelepipeda in muratura piena, con lato di circa m 5,60, conservate entrambe per un’altezza di circa m 10, certamente molto inferiore a quella originale76 75 Mi riferisco ai «frammenti di ragguardevoli urne d’alabastro», menzionati dall’Inghirami. 76 Le misure sono ricavate dal rilievo eseguito il 30 maggio 1829 da Luigi M. Valadier, che costituisce la migliore documentazione disponibile dei due monumenti (edito da M. Bonamici, «Prospettiva», 21, 1980, p. 6 sgg., fig. 2, qui riprodotta). La torre troncoconica è andata distrutta negli scavi Torlonia del 1875-1876 (A. M. Sgubini Moretti, in Tyrrhenói philotechnoi, a cura di M. Martelli, Pisa-Roma, 1994, p. 29, nota 106), quella quadrata, ancora esistente (vedi il rilievo edito ibidem, fig. 28), è stata rimessa in luce e fotografata tra il 1928 e il 1929 da R. Mengarelli e U. Ferraguti (F. Buranelli, Ugo Ferraguti, l’ultimo archeologo-mecenate, Roma, 1994, p. 41 sg., figg. 150-156: la tomba antistante, confusa dal Buranelli con quella più nota, scavata dal Bonaparte, è invece quella chiamata B dal Marcelliani e xi bis dal Mengarelli, visibile anche nelle figg. 141 e 159, sulla quale vedi Sgubini Moretti, art. cit., p. 30, nota 108 sg.).

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Fig. 3. Cippo a torre da Chiusi (da Banti).

(Fig. 4). Destinate a essere solo in parte sepolte dalla calotta di terra del tumulo, queste ‘torri-cippo’ erano a quanto pare accompagnate da altre consimili strutture a pianta circolare, di diversa altezza, intraviste dagli scavatori ottocenteschi.77 L’insieme delle ‘torri’ 77 A. Lenoir, «AnnInst», 1832, p. 273; A. François, «BullInst», 1857, p. 27 sgg.; Sgubini Moretti, art. cit., p. 32, nota 115.

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Fig. 4. Prospetto e pianta delle torri della Cuccumella di Vulci (da Bonamici).

di questa tomba, spettante a un personaggio di rango regale,78 sembra concepito per essere visto da molto lontano, dominando il paesaggio circostante non troppo diversamente da quel che facevano i nuraghi a struttura complessa. 78 G. Colonna, Rasenna. Arte e civiltà degli Etruschi, Milano, 1986, p. 446.

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Fig. 5. Ipotesi ricostruttiva del mausoleo di Porsenna a Chiusi (da Sordi,Castellani).

Il monumento però che più di ogni altro poteva evocare le forme dell’architettura nuragica è, in fondo, il mausoleo di Porsenna, quale lo conosciamo dalla descrizione che Varrone dice di avere attinto da scritti etruschi (quasi certamente le historiae Tuscae da lui altrove citate), in quanto ai suoi tempi non più esistente.79 Constava essenzialmente di cinque ‘piramidi’, quattuor in angulis et in medio una, di diversa altezza: ‘piramidi’ che nella ridotta citazione del monumento fatta da chi ha progettato alla fine della Repubblica o in età augustea la c.d. Tomba degli Orazi e Curiazi,80 mausoleo forse degli Arruntii di Ariccia,81 sono in realtà delle torri troncoconiche. L’immagine che possiamo farci del monumento chiusino, e che ispira anche il più recente tentativo di una sua restituzione grafica82 (Fig. 5), ricorda in modo impressionante i modelli votivi di nuraghi a più torri rinvenuti in Sardegna, come quello di pietra da San Sperate e, ancor più, quello bronzeo da Olmedo al museo di Sassari (Tav. i, d). Non meraviglia troppo che monumenti certamente famosi e ben noti come il tumulo della Cuccumella e il mausoleo di Porsenna abbiano confortato, al tempo di Filisto, la convinzione che gli Etruschi un tempo erano stati gli ‘abitatori delle torri’. [Strabone, la Sardegna e l’‘autoctonia’ degli Etruschi, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del Bronzo finale e l’arcaismo (atti del xxi convegno di studi etruschi ed italici, Sassari-Alghero-Oristano-Torralba, 13-17 ottobre 1998), Pisa-Roma, 2002, pp. 95-110]. 79 Plin., n.h., xxxvi, 91-93. Cfr. G. A. Mansuelli, Mélanges offerts à Jacques Heurgon, ii, Rome, 1976, pp. 619626; O. Vasori, «Xenia», quad. i, 1981, pp. 80-96, 137-138, 159-160, 163-164; A. Fantozzi, in Bibliotheca Etrusca, cat. della mostra, Roma, 1985, pp. 75-79, tavv. viii-ix; A. Rastrelli, «aion ArchStAnt», n. s. v, 1998, pp. 77-78. 80 Da ultimo E. Tortorici, Castra Albana. Forma Italiae, i, 11, 1974; Vasori, cit., pp. 49-50, 155. 81 F. Coarelli, Dintorni di Roma, Roma-Bari, 1981, p. 92 sg. 82 M. Sordi, G. Castellani, «RendIstLomb», 124, 1990, pp. 91-98.

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a)

b)

c)

d) Tav. i. a) Chiaromonti (Sassari), nuraghe Ruggiu (da «Ichnussa»); b) Ozieri (Sassari), nuraghe (da «Ichnussa»); c) Barumini (Cagliari), modello in pietra di nuraghe monotorre (da «Ichnussa»); d) Olmedo (Sassari), modello bronzeo di nuraghe (da «Ichnussa»).

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L’ ADR I ATICO T RA VIII E INIZ IO V S E C O LO A .C . CO N PARTI COLARE RIGUARDO A L RU O LO DI A DRIA

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rendo la parola non senza qualche esitazione, perché all’invito rivoltomi dagli organizzatori del Convegno, e in particolare dal nostro Presidente Giuseppe Sassatelli, di tenere una delle relazioni introduttive non credo di essere riuscito a rispondere con una trattazione veramente adeguata. Il riferimento ad Adria aggiunto nel titolo, rispetto al programma, significa che ho rifuso nella relazione molto di quanto ho avuto occasione di dire al convegno sull’alto e medio Adriatico nel vi e v secolo a.C., ottimamente organizzato nel marzo del 1999 da Luigi Malnati e Simonetta Bonomi, la cui squisita liberalità e lungimiranza è arrivata fino a consentirmi di utilizzare in questa sede la documentazione adriese che avevo ottenuto da loro all’indomani di quel convegno. La prima parte del mio discorso verte sulle vie marittime dell’Adriatico più battute tra l’viii e i primi decenni del v secolo, ossia prima dell’affermazione della talassocrazia di Spina, che ha schiuso un nuovo periodo storico, ponendo fine, potremmo dire, alla dynasteía di Diomede su quel mare, di cui favoleggiavano gli Antichi (Strab., 5, 1, 9): dominio che s’identificava col sistema di relazioni presupposto e nel contempo stimolato dalle vie allora più frequentate. L’Adriatico è stato infatti intensamente percorso anche nei secoli che hanno preceduto la fioritura di Spina, sia con navigazioni sotto costa che con traversate da costa a costa, seguendo l’andamento delle correnti e dei moti di deriva generati dai venti. In proposito possiamo distinguere: 1. le rotte attivate dalle popolazioni rivierasche, in funzione di scambi per così dire interregionali, concernenti le coste con i loro retroterra, talora con profonde penetrazioni continentali, per lo più seguendo percorsi fluviali; 2. le rotte attivate dai Greci della madrepatria, partendo da basi sia ioniche che egee, in funzione di scambi internazionali a largo raggio, coinvolgenti non solo le coste italiane e balcaniche ma anche il continente europeo; 3. le rotte attivate o semplicemente controllate dagli Etruschi padani e adriatici (in questa età essenzialmente gli Etruschi di Verucchio e di Rimini), in connessione con le rotte attivate dagli indigeni e dai Greci. L’archeologia ha da tempo consentito di individuare una trama sottile ma tenace di vie marittime, funzionante a partire dall’viii secolo per iniziativa di indigeni che, a stare alla documentazione archeologica, ne sono stati a lungo i pressoché unici fruitori. È il sistema segnalato dalla circolazione della ceramica dipinta di stile tardo e soprattutto subgeometrico, prodotta nella Daunia (specialmente meridionale, a Herdonia e a Canosa: De Juliis 1977; De Juliis 1988, pp. 29-33, 50-52) ed esportata anche a notevolissima distanza – caso del tutto unico per le ceramiche di produzione indigena –, in un arco di tempo che va dalla seconda metà dell’viii alla seconda metà del vi secolo a.C. Dagli scali situati alla foce dell’Ofanto e nel golfo di Manfredonia i vasi dauni sono arrivati, in quanto ‘vasi-mercanzia’, richiesti come beni di prestigio, su entrambe le sponde del medio e alto Adriatico, con una distribuzione che risulta nettamente sbilanciata, per il numero dei siti coinvolti e per la quantità degli esemplari recepiti, a favore della sponda orientale, da dove i vasi in questione hanno raggiunto in quantità non trascurabile la Slovenia, e in particolare i siti tardo-hallstattiani della bassa Carniola1 (Fig. 1). A confer-

1 La migliore trattazione resta Bergonzi 1985, pp. 70 sg., 87 sg., nota 23, fig. 1 A-B. Cfr. anche Yntema 1990, pp. 230 sg., 242, e 257, figg. 210, 221 e 234: Gabrovec 1992, p. 250. La carta qui a Fig. 1 è basata su De Juliis 1977 e Bergonzi 1985.

Fig. 1. Distribuzione della ceramica daunia fuori della regione di provenienza, segnata a tratteggio. Gli asterischi segnalano i santuari di Diomede.

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mare l’apprezzamento goduto dai vasi dauni nella cerchia culturale della Dolenjska stanno le imitazioni locali di una delle loro forme più comuni, le olle-cratere, realizzate, com’era da aspettarsi, nella tecnica tradizionale dell’impasto: imitazioni che è significativo incontrare soltanto in quel distretto geografico-culturale (Frey 1969, p. 76, fig. 46; Yntema 1990, p. 244, fig. 233). Anche se fortemente selezionata nelle forme, ristrette ai vasi per contenere e per versare – le citate olle-cratere in primo luogo (Frey 1999, p. 18, fig. 8), e poi brocche ed askòi –, ossia a vasi da esibire come strumentario collettivo del banchetto, piuttosto che da usare individualmente, e anche se presente nei singoli siti in quantità contenute – la massima punta è raggiunta a Nesazio in Istria con poco più di 20 esemplari –, la ceramica daunia non ha praticamente conosciuto rivali – né da parte greca né da parte etrusca – entro il proprio pur dilatatissimo circuito distributivo. Le navi che trasportavano i vasi dauni, presumibilmente assieme ad altri e più consistenti carichi, come appresso dirò, si dirigevano, una volta doppiata la testa del Gargano, o verso il Piceno o verso la Dalmazia. La rotta ‘picena’ sembra essere la più antica, dato che nel tratto iniziale è documentata già nel x-ix secolo dal recente rinvenimento, nel sito dei villaggi costieri disseminati lungo la costa abruzzese, di frammenti di quel precedente della ceramica daunia che è la ceramica protogeometrica e geometrica iapigia, prodotta verosimilmente nella stessa Daunia (D’Ercole, Festuccia, Stoppiello 1995, pp. 88 e 103, fig. 21; Usai 1995). Alla rotta in questione sono da riferire in età più tarda i vasi dauni rinvenuti tra i Frentani (a Termoli e a Vasto: Colonna 1993, p. 8), peraltro in netta minoranza rispetto alle imitazioni locali, qui eseguite anch’esse in argilla figulina dipinta (Di Niro 1984),2 tra i Picenti (Grottammare, Cupramarittima, Belmonte, Numana, Ancona), tra gli Umbri transappenninici e adriatici (Montedoro presso Senigallia, Fabriano, Matelica) e presso il gruppo allogeno di Novilara, insediato tra Fano e Pesaro, che offre la testimonianza più settentrionale di queste precoci navigazioni (Luni 1999, p. 144 e, per Matelica, De Marinis, Silvestrini 2001, p. 317, n. 35). Alle quali sono state addebitate, credo a ragione, anche le affinità riscontrabili tra le stele daunie e quelle di Novilara, peraltro circoscritte alla presenza e in parte anche allo stile delle rappresentazioni figurate. L’altra rotta del sistema di scambi di cui stiamo parlando, la rotta ‘dalmata’, una volta lasciato lo scalo garganico di Vieste, l’antica Uria (Uria Garganica 1998), attraversava l’Adriatico poco a est del 16º meridiano, appoggiandosi a Pelagosa e a Lissa, fino a toccare la Dalmazia all’altezza del Promunturium Diomedis, fra Traù e Sebenico (Colonna 1998, p. 371 sg.). La rotta proseguiva quindi verso il Quarnaro, l’Istria e il golfo di Trieste, aree da dove, con itinerari terrestri di cui il più importante sembra essere stato quello del Carso e del valico di Postumia, i vasi dauni a partire dalla seconda metà del vii secolo sono penetrati capillarmente, come detto, nella Slovenia, mentre in direzione opposta hanno raggiunto con esemplari isolati la fascia costiera e la bassa pianura del Veneto, arrivando almeno fino a Padova.3 2 Indizio del trasferimento di maestranze, che è fenomeno circoscritto a questo ambito geografico strettamente contiguo alla Daunia. Il repertorio include anche forme sconosciute nella Daunia, come un holmos con labbro a tesa, base piuttosto bassa a profilo rigido e piede svasato, proveniente da Guglionesi (Di Niro 1984, p. 41, fig. 3 a ds.). L’esemplare, sfuggito anche al ben informato Sirano 1995, è da porre in parallelo con quello di impasto da Matelica-Villa Clara, per il quale è sicura una diretta dipendenza da modelli falisci (De Marinis, Silvestrini 2001, pp. 208 e 309, n. 151). Nel caso di Guglionesi si dovrà forse pensare a una dipendenza dagli inediti holmoi capuani di tardo viii secolo (Sirano 1995, p. 10, nota 52), e quindi a una precoce testimonianza dei rapporti di Capua con la Daunia settentrionale e l’adiacente Frentania, ben attestati in età tardo-arcaica (Colonna 1996, pp. 48 e 51 sgg.; De Juliis 1997, pp. 539 sgg., 554 sg.). Per le imitazioni da Vasto da ultimo Staffa 1998, p. 9 sg., figg. 4 e 11. 3 Come provano i rari frammenti, rinvenuti, per lo più in anni recenti, negli abitati di Concordia Sagittaria, Oderzo, Treviso e Padova (Capuis 1999, p. 295, nota 14, con bibl., da cui per prudenza sono da tralasciare i vasi

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Delle due rotte frequentate dagli indigeni la principale, a giudicare dalla quantità della ceramica veicolata, è stata senza alcun dubbio, come già detto, quella orientale. Chi fossero i vettori della ceramica daunia è ancora oggetto di discussione, anche perché sui Dauni continua a gravare, più o meno coscientemente, il pregiudizio di una congenita tendenza alla immobilità e all’isolamento (quest’ultimo reale, ma fino a un certo punto, solo nei confronti della restante Iapigia: Nenci 1984, con le eccezioni rilevate da D’Andria 1983). Sembra tuttavia assai più coerente pensare ad essi,4 piuttosto che ai Liburni, così spesso chiamati in causa sia per la loro fama di pirati (da ultimo Naso 2000, p. 178, ma relativa a tempi alquanto più recenti, come già vide Wikén 1937, p. 37), sia per il ricordo nelle fonti letterarie di un loro insediamento in età precoloniale a Corcyra5 e, con ben maggiore attendibilità, sulla costa medio-adriatica italiana. Trattandosi infatti pur sempre di un commercio acquisitivo, del tipo prexis (Mele 1979), è da escludere che i vasi dauni, pur assai apprezzati e richiesti, potessero esercitare un’attrattiva tale nei confronti dei Liburni e dei loro vicini transadriatici da indurli a procurarseli con scambi sistematici a lunga distanza (direttamente con la Daunia, perché l’intermediazione del Piceno, spesso ipotizzata, è incompatibile con la relativa esiguità delle presenze di ceramica daunia in quella regione). Ripeto qui il paragone che ho già avuto occasione di fare con la tanta ceramica greca rinvenuta in Etruria: nessuno ha mai osato pensare che siano stati gli Etruschi ad andare a procurarsela nei porti della Grecia, e nemmeno della Sicilia, nonostante la loro consolidata fama di pirati e di talassocrati. Al contrario è del tutto lecito pensare che, come gli émporoi della Grecia propria hanno frequentato intensamente le coste dell’Etruria, così navigatori dauni, fatte le debite proporzioni, si siano avventurati, assai prima dei Greci di età storica, nell’alto Adriatico, dove mettevano capo importanti vie commerciali del continente europeo, al fine di procurare alle proprie comunità di provenienza materie prime quali l’ambra, da esse redistribuita in tutta l’Italia meridionale (Negroni Catacchio 1989, p. 693 sgg.), e soprattutto i metalli, a cominciare dal ferro, abbondante nelle Alpi orientali, di cui l’intera Iapigia e il Sannio adriatico erano completamente sprovvisti. Per raggiungere i luoghi dello scambio, situati in Istria (Nesazio) e sul Carso (forse S. Canziano: Càssola Guida 1989, p. 635), i Dauni hanno dovuto solcare le acque controllate dai bellicosi Liburni, e per ottenerne il passaggio, nonché la possibilità di appoggiarsi ai loro scali, è perfettamente normale che abbiano fatto doni e versato tributi (Ampolo 1997): il che può spiegare la relativa frequenza delle ceramiche daunie anche in Dalmazia. Parimenti la frequentazione degli scali piceni sarà stata causata, almeno in parte, dalla ricerca di contatti sia con l’Etruria settentrionale, tramite gli agevoli itinerari transappenninici (via Fabriano e Matelica),6 sia con Verucchio e l’Etruria padana (via Novilara). Ovviamente i Dauni avranno usato la loro ceramica dipinta come un mezzo di scambio, di dono e di tributo

del museo di Torcello; Capuis 1999 a, p. 162; Gambacurta 1999, p. 36, nota 30). Vedi anche Malnati 2000, p. 74, nota 48. 4 Come sostengo da tempo (Colonna 1984, p. 274, nota 66; Colonna 1993, p. 8, nota 26), preceduto da Yntema 1979, p. 33, e seguito ora da Malnati 2000, p. 75 sg. (che però sembra ignorare la rotta ‘dalmata’). Cfr. anche Guzzo 1999, p. 386 (in contrasto con quanto detto della talassocrazia liburnica a p. 376). 5 Da dove sarebbero stati scacciati dai Corinzi che muovevano alla volta della Sicilia per fondare Siracusa (Strab., 6, 2, 4). Ma probabilmente il geografo, o meglio la sua fonte, confondeva i Liburni con gli Eretriesi, primi colonizzatori dell’isola, da lui del tutto ignorati, che ne furono scacciati appunto dai Corinzi in viaggio per la Sicilia (Plut., quaest. Gr., xi: cfr. D’Agostino 1967, p. 34, nota 39; Braccesi 1977, p. 98; Sueref 1984, con altra documentazione). 6 L’ipotesi che ad essi ci si riferisca nelle Tavole Iguvine col nome di Iapusci, equivalente ad Apuli (Colonna 1984, p. 274 sg.), mi sembra tuttora la più convincente (cfr. anche Sisani 2001, p. 209 sgg.).

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complementare al vino, prodotto nella ricca fascia collinare interna, da Lucera al Melfese (Adamesteanu 1984) e trasportato in otri di pelle o in botti lignee che non hanno lasciato traccia archeologica, nonché al sale così abbondante nelle loro lagune, ai cereali, alle lane per cui erano famosi (Yntema 1979, p. 34 sg.) e forse anche ai loro tessuti istoriati, di cui offrono larghissima anche se indiretta testimonianza le stele funerarie (Colonna 1984, pp. 268-270 e, per le frequenti raffigurazioni di telai, D’Ercole 2000, pp. 329337). E avranno potuto usare per lo scambio la loro ceramica solo laddove, in assenza di produzioni concorrenti, era considerata un bene di lusso, ossia nel Piceno, in Dalmazia, in Istria, in Slovenia e tra i Veneti, ma non tra gli Etruschi, dove le rare occorrenze, includenti gli attingitoi, forse usati per bere (Colonna 1974, p. 299 sgg.; De Juliis 1977, pp. 81-83), sembrano piuttosto in relazione, almeno in Campania, con l’arrivo di xénoi e di spose (per es. dé Spagnolis 2001, p. 55, figg. 86 e 100), accompagnato talora da immigrati di bassa condizione, sepolti senza corredo e in posizione rannicchiata (Colonna 1984a; Colonna 1995, p. 328 sg.). A rafforzare queste considerazioni, e a dare ad esse uno spessore anche di ordine culturale e in qualche misura ideologico, interviene quella che è una peculiarità dell’universo religioso delle popolazioni costiere del medio e alto Adriatico: il culto di Diomede come dio, reso in santuari ubicati in luoghi segnati dalla natura, a vocazione emporica. È questa una manifestazione ‘forte’, messa in atto solo in un ambito genuinamente barbarico, della vastissima popolarità goduta dall’eroe etòlo-argivo nel patrimonio leggendario di molte città, greche e non greche, del Golfo di Taranto, del basso e dello stesso alto Adriatico, come Spina e Adria (Colonna 1998, con bibl.; Giangiulio 1998, pp. 281287, 296-299), senza contare le più o meno fittizie appendici in Irpinia e in direzione del Lazio, valorizzate da Roma in funzione antisannita (Tagliamonte 1996, pp. 28-30). A fare da ponte tra l’area geografica in cui veniva localizzato il nostos finale di Diomede e quella in cui l’eroe riceveva un culto divino, anche da parte dei naviganti greci che si avventuravano nell’Adriatico, è senza alcun dubbio la Daunia, in cui va riconosciuta «l’area di irradiazione» del culto di Diomede in Occidente, «per motivi di densità e di antichità di tradizioni» (Musti 1984, p. 109: cfr. anche Pasqualini 1998, p. 667). Basti ricordare, oltre alla supposta esistenza di ‘reliquie’ dell’eroe a Lucera e altrove, la poleogenesi a lui attribuita praticamente di tutti i maggiori insediamenti della regione, dai due capoluoghi di Arpi e di Canosa agli scali marittimi di Siponto e di Salapia (Strab., 6, 3, 9 e, per Salapia, Vitr., i, 4, 12; Anton. Lib., met., 37), e soprattutto la funzione riconosciutagli di eroe civilizzatore, responsabile della cerealicoltura, della confinazione dei terreni e dello scavo di canali per l’irrigazione (Lepore 1984, p. 320 sg.). Quanto all’antichità di queste tradizioni, sappiamo che l’arrivo di Diomede tra i Dauni, dove sarebbe stato ucciso a tradimento, era noto già al colofonio Mimnermo, e quindi è tradizione risalente almeno alla seconda metà del vii secolo (Musti 1984, p. 107 sg.), mentre la svolta positiva, che ne fece un eroe culturale, è sì recenziore, ma si colloca ancora «in età preclassica» (Giangiulio 1998, p. 282 sg.), direi nella seconda metà del vi secolo. Non può allora essere un caso che il culto di Diomede risulti annidato in tutti i punti chiave delle rotte marittime attivate e frequentate dai Dauni, avendo il suo epicentro, come oggi sappiamo, in quella sorta di ‘terra di nessuno’, strategicamente assai significativa per la navigazione, che era l’isoletta rocciosa e inospitale di Pelagosa Grande (Fig. 2), posta in mezzo all’Adriatico, quasi a metà della traversata da Vieste a Lissa. Sono qui infatti venute recentemente alla luce numerose dediche votive in greco, su ceramiche databili dalla fine del vi a tutto il v secolo e oltre, rivolte a Diomede (Fig. 3) e forse in un caso anche alla sua protettrice Atena, sì da accertare al di là di ogni dubbio che è questa l’isola Diomedea, ossia l’‘isola sacra’ menzionata forse già da Ibico, accogliente

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Fig. 2.

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Fig. 3.

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il santuario e la tomba del dio (Colonna 1998, con bibl.). Un secondo santuario, localizzato anch’esso soltanto negli ultimi anni grazie a scoperte epigrafiche, peraltro non più antiche del iv sec. a.C. (ibidem, p. 369, nota 24, con bibl.), si trovava sulla costa dalmata, al Promunturium Diomedis, o Capo Planka, ossia immediatamente prima del paraplo del paese dei Liburni. Un terzo santuario, ancora non esattamente localizzato, si trovava presso quella meraviglia della natura che erano e sono le risorgive del Timavo, a brevissima distanza dal mare (Strab., 5, 1, 8; cfr. Mastrocinque 1987, p. 84 sgg.), anche qui in una ‘terra di nessuno’, intercalata tra Veneti e Istri. Siamo nell’angolo più settentrionale del golfo di Trieste, dove convergevano le vie provenienti dall’entroterra del Caput Adriae (Peroni 1983) e insieme si schiudeva l’accesso alle acque lagunari dei Veneti. Costoro veneravano anch’essi Diomede, cui rivolgevano l’offerta squisitamente funeraria ed eroica di un cavallo bianco (Strab., 5, 1, 9), oltre a pretendere, in concorrenza con la lontana Pelagosa, che l’apoteosi dell’argivo fosse avvenuta presso di loro (Strab., 6, 3, 9).7 Infine un quarto santuario di Diomede si trovava sulla rotta ‘picena’ delle navigazioni daunie: infatti secondo il periplo dello Ps. Scilace «questo popolo [gli Umbri] onora Diomede per essere stato beneficato da lui, e vi è [tra di essi] un suo santuario» (Ps. Scyl., 16). Se la localizzazione presso Ancona, città che l’autore del periplo colloca tra gli Umbri adriatici, considerandola a quanto pare il loro capoluogo, coglie nel segno (Coppola 1999, p. 173), esso sorgeva in coincidenza con la strategica ‘svolta’ del Conero, alla saldatura, come subito dirò, con altre rotte indigene attraversanti l’Adriatico. La menzione dei ‘benefici’ ricevuti dagli Umbri come movente del culto sottolinea l’analogia con la Daunia, dove Diomede era considerato, come si è detto, l’eroe civilizzatore per eccellenza, e forse anche col paese dei Veneti, dove l’allevamento del cavallo sembra essere stato considerato un suo insegnamento (allora da ritenere mediato dai Dauni, sulla cui riconosciuta ippotrofia, vedi Tagliente 1988). Particolare rilevanza, per il problema dell’introduzione del culto di Diomede nel medio e alto Adriatico, assume il santuario del Timavo, dato che si trovava, a differenza degli altri tre, in un ambito geografico non raggiunto dall’espansionismo siracusano di iv sec. a.C., cui si è voluto accreditare un ruolo decisivo nella propagazione di quel culto (ruolo peraltro già fortemente ridimensionato dalle scoperte di Pelagosa, ben più antiche dell’età di Dionisio il Vecchio).8 Il ‘recesso’ del Timavo era stato invece raggiunto tra la fine del vii e il vi secolo dalle navigazioni dei Dauni, come provano le ceramiche da essi disseminate tra i Veneti, e forse anche quelle rinvenute in Slovenia, se vi sono arrivate, come detto, per la via del Carso. Tutto insomma lascia credere che i Dauni abbiano avuto un peso determinante nel diffondere mito e culto dell’eroe presso le popolazioni con le quali sono venuti via via in contatto, facendosi di fatto mediatori fra quelle popolazioni e il mondo greco. Un ruolo che sembrerà meno inverosimile di quanto può apparire a prima vista se pensiamo alla propagazione del culto di Eracle tra le più diverse e lontane popolazioni italiche, documentato in particolare dagli innumerevoli bronzetti votivi del dio: culto riconducibile in gran parte a processi endogeni di trasmissione, irraggianti dalla Campania etrusco-sannitica (Colonna 1997). 7 Lo scarso successo di tale tentativo è evidente, almeno al Timavo, dove le dediche latine, le uniche finora note, sono rivolte al dio del fiume (Degrassi 1957, nn. 261, 262, 335; Mastrocinque 1987, p. 93) e dove la figura di Diomede sembra oscurata a partire dal ii sec. a.C. da quella di Antenore (Fontana 1997). 8 Braccesi 1994, pp. 86-110 e in scritti successivi, ove si parla di «perfetta corrispondenza in Adriatico fra località diomedee e colonie siracusane», e addirittura di Diomede come «ipostasi di Dionigi il Grande» (Braccesi 2001, pp. 82-84). Cfr. anche Mastrocinque 1990, p. 51 sg. e Mastrocinque 1996, p. 355 sg. Non sono affatto convinto, devo confessare, che nel passo del gromatico Siculo Flacco l’emendamento Thulin Diomedes cum Graiis sia da respingere a favore della lezione dei codici cum Gallis.

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Oltre alla rotta dal Gargano alla Dalmazia, di cui si è detto, vi erano altre rotte, gestite anch’esse da indigeni, che affrontavano la traversata dell’Adriatico, ma a una latitudine alquanto più alta. Sono le rotte che mettevano in diretta comunicazione il Piceno con il Caput Adriae, l’Istria e la Dalmazia settentrionale, in funzione dell’importazione di ambra, successivamente smistata dal Piceno verso la costa tirrenica, e più in generale di contatti e di scambi che, anche in questo caso, come in quello della rotta dei Dauni, dovevano avvenire soprattutto con il retroterra sloveno ricco di ferro. Fittamente percorse nei due sensi tra ix e vii-vi secolo da portatori di manufatti e soprattutto di tipologie metallurgiche (Càssola Guida 1995, p. 202 sg.), queste rotte contribuirono fortemente nel tardo vii secolo alla formazione di quella che è stata chiamata una koiné culturale adriatica, di pretto stampo indigeno (Peroni 1973, pp. 66-78; Gabrovec 1992), con vaste ramificazioni nell’Italia meridionale (Lucentini 1999). Vari indizi fanno ritenere che i principali scali della costa occidentale si trovassero – senza escluderne altri più meridionali, p.e. alla foce del Tronto – nella zona del Conero, ad Ancona e Numana, e più a nord tra Pesaro e Rimini, questi ultimi gestiti in condominio dagli Etruschi di Verucchio e da quell’altra minoranza allogena, familiare col mare, costituita dalle comunità di Novilara.9 Mentre gli scali del Conero, destinati a ricevere nuovo slancio dalla rifondazione siracusana di Ancona all’inizio del iv secolo, sembrano proiettati soprattutto verso la Dalmazia, quelli del futuro Ager Gallicus guardavano in primo luogo verso l’Istria, il Caput Adriae e la Slovenia, ossia verso gli stessi terminali della maggiore rotta dei Dauni (Fig. 1). Alle rotte che facevano capo agli scali appena nominati dobbiamo tra l’altro gli evidenti rapporti, da tempo rilevati, tra le stele di Novilara e in qualche misura anche la statuaria picena, da un lato, e le analoghe manifestazioni di Nesazio dall’altro (Fischer 1984 e, per la società di cui erano espressione, Gambacurta 1999, p. 34 sg.); la diffusione sia a Verucchio e nel Piceno che nell’Istria e in Slovenia dell’uso, altrove all’epoca assai poco praticato, di deporre nelle tombe armi di difesa, a cominciare dagli elmi (Gabrovec 1992, pp. 245-249; Bergonzi 1991, pp. 426-428, fig. 4 sg.); la disposizione concentrica delle sepolture nelle tombe a tumulo o a circolo, diffusa in gran parte dell’area umbro-sabellica, da Imola ad Opi, Alfedena e Gildone (Alvino 2000; Morelli 2001, p. 326 sg., nota 19), e ritenuta «la caratteristica di base del gruppo della Dolenjska» (Gabrovec 1992, p. 251 sg.); la trasmissione da Verucchio e dal Piceno all’Istria e alla Slovenia degli elmi conici a doppia cresta tipo Novilara (Colonna 1992, p. 93; Bentini, Boiardi 2002, pp. 147-151) e anche, a livello tipologico, di quelli a calotta composita (Gabrovec 1992, p. 427), così come delle ciste a cordoni del tipo Novilara (Micozzi 2001, pp. 11 e 15), dei flabelli del tipo Verucchio, largamente imitati in Istria (Fig. 4),10 dei morsi con montanti semicircolari, delle fibule a tre bottoni tipo Grottazzolina (Frey 1999, p. 20, fig. 9), dei bronzetti schematici di tipo umbro dalla Carniola (Dular 1980), e così via. Trasmissione accompagnata talora da ceramiche di pregio, quali l’olla con coperchio e statuette di cavalli, dipinta 9 Minoranza non così trascurabile come sembra pensare Cristofani 1997, p. 186 sg., se la sua esistenza può aver suggerito ai primi frequentatori greci dell’alto Adriatico la saga dei mitici Pelasgi, ossia di genti venute dal mare, al tempo stesso pregreche e preetrusche, di cui si additavano sparute sopravvivenze anche sulle coste dell’Egeo settentrionale e dell’Ellesponto (Colonna 1985, p. 58; Colonna 1987, p. 40). D’altra parte l’indubbia vocazione marinara della gente di Novilara, manifestata dalle figurazioni di alcune delle loro stele, non può essere anacronisticamente e unilateralmente collegata alla tutela del commercio attico con Spina (come vorrebbe Braccesi 1999). 10 Colonna 1992, p. 112; Cristofani 1996, pp. 132 e 136, fig. 31 (pensa poco credibilmente a un imprestito dall’Istria a Verucchio); Gambacurta 1999, p. 36; Bentini, Boiardi 2001, p. 133 sg. (è riportata l’inattendibile ipotesi di una diffusione tramite Spina).

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con motivi subgeometrici in rosso su bianco, da Pizzughi (Colonna 1992, p. 113, fig. 21 b), o l’oinochoe etrusco-corinzia a decoro lineare da Sti©na (Gabrovec 1992a, p. 212, fig. 10: 3).11 In senso inverso si può ricordare l’arrivo a Verucchio e nel Piceno delle spade balcaniche con lama piegata a gomito all’attacco dell’elsa e almeno di un esemplare di elmo a scodella (Torelli 1997, p. 54, fig. 41), oltre a prodotti dell’arte delle situle, come il noto frammento di coperchio da Numana e ora l’elmo a calotta composita da Pitino con tesa decorata a sbalzo (Egg 1999, p. 118, fig. 52), che hanno qualche probabilità di essere stati ritrasmessi dall’area istriano-slovena, dove quei prodotti erano di casa, piuttosto che di essere arrivati direttamente da Este.12 Accanto e in parziale sovrapposizione alle rotte indigene, o indigeno-etrusche, esistevano, anche in età anteriore alla fioritura di Spina, le rotte frequentate dai Greci. Una di esse era, nel basso Adriatico, la rotta Corcyra-Salento-Gargano, che proseguiva ben oltre il promontorio in questione, ribattendo la rotta daunia verso il Piceno, prima ricordata. La rotta corcireFig. 4. se ha portato nella Daunia il vaso egizio iscritto col nome di un ‘generale dei Greci’ dell’età di Psammetico ii, rinvenuto a Coppa Nevigata (Hölbl 1979, i, pp. 280-282; ii, p. 209 sg., n. 1035), e probabilmente ha contribuito, in età ben più antica, all’arrivo della saga di Diomede, consolidata più tardi da apporti ionico-orientali (colofonii), pervenuti da Siris via Metaponto e la valle del Bradano, assieme al culto garganico di Calcante e Podalirio (Mele 1991, p. 253 sg.) e, aggiungerei, ai culti di Lucera rivolti ad Atena Iliàs e a Cassandra. A nord del Gargano è questa la via seguita da una parte almeno degli avori orientalizzanti rinvenuti nel Piceno (Rocco 1999; Naso 2000, p. 128 sg.), da rare ceramiche greco-orientali e certo dalle idrie di bronzo laconiche (esemplari da Treia, Belmonte e Tolentino), largamente imitate dai bronzieri locali (Naso 2001, p. 88 sg.). Almeno una delle idrie importate nella regione è 11 Da confrontare con esemplari rinvenuti nel Piceno, a Cupramarittima (Colonna 1993, p. 13, fig. 3: 3) e soprattutto a Numana (Lollini 1976, pp. 147 e 150, tav. 115; Martelli 1977, p. 41, nota 102). 12 Allo stesso modo è probabile, in senso inverso, che Verucchio e il Piceno settentrionale, e non Este, siano stati mediatori di elementi culturali di provenienza etrusco-meridionale, arrivati anche più lontano della Slovenia. Alludo a taluni vasi bronzei di Hallstatt (Colonna 1989, p. 15 sg., figg. 1-4; Esposito-Maggiani 1999, p. 70 sg., fig. 65) e al simulacro ‘canopico’, consistente in una maschera e in una coppia di mani bronzee, da KleinKlein in Stiria (Maggiani 2000, p. 209 sg.), cui si possono avvicinare, su un piano di più spinta rozzezza e ‘terribilità’, alcuni eccezionali elmi piceni (De Marinis, Silvestrini 2000, pp. 310, 314 sg., n. 25), in cui ad essere raffigurata sembra l’imago dell’avo, che protegge il capo del principe-guerriero così come dal tetto di Murlo proteggeva la sua casa.

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stata ritrasmessa verso l’area hallstattiana occidentale, a Grächwil (Shefton 1999, p. 152 sg.; Baldelli 2001), seguendo la via padana segnata dagli elmi piceni a calotta composita di Sesto Calende (Gambari 1999, p. 162) e più tardi dai vasi dauni e dal bronzetto sabellico di v secolo rinvenuti in Lomellina (Colonna 1970, p. 157, n. 479; De Juliis 1977, p. 85). Un’altra rotta greca, di assai maggiore Fig. 5. rilevanza, era quella che risaliva per intero l’Adriatico seguendo la costa orientale, sulle orme delle navigazioni tardo-micenee, dirette a Frattesina e agli altri siti del Polesine. E anche, in senso inverso, sulle orme del mitico itinerario proveniente dal paese degli Iperborei, familiare ad Apollo e allo stesso Eracle, che dal Caput Adriae si dirigeva verso i grandi santuari panellenici di Delfi, Olimpia e soprattutto Delo,13 percorso anche dagli Argonauti nel loro viaggio di ritorno dalla Colchide. Questa rotta, riaperta in epoca storica dai Focei, secondo la celebre testimonianza di Erodoto (i, 163, 1), di cui non v’è motivo di dubitare, partiva anch’essa da Corcyra e, superata Epidamno, correva lungo la costa illirica, avendo il suo principale scalo intermedio, appena lasciate le acque del basso Adriatico, nell’isola di Corcyra Nigra (Curzola), dove fu fondata nei primi decenni del vi secolo dagli Cnidii, d’intesa con i Corciresi, una colonia di cui non sopravvive, per quanto finora si sa, alcuna traccia archeologica. Una rotta dunque che più propriamente dovremmo chiamare foceo-corcirese, in cui il posto dei Focei fu ben presto preso dai Samii, responsabili della tardiva ‘invenzione’ del santuario di Delo (Aloni 1993), che costituiva l’ultima meta dei doni degli Iperborei. Raggiunte le coste dalmate la rotta in questione ribatteva quella daunia verso il Caput Adriae, già ricordata, ma assai più decisamente di essa oltrepassava il golfo di Trieste e costeggiava il paese veneto, scendendo fino al delta padano. Dobbiamo a tale rotta non solo le coppe ioniche (Fig. 5) e i vasetti di vetro della necropoli di S. Lucia sull’Isonzo (Colonna 1974a, p. 16 sg.; Gabrovec 1992a, p. 215, fig. 13: 3, 6), ma probabilmente anche i meandri obliqui ad avvolgimenti concentrici presenti nell’intera area hallstattiana orientale (Frey 1969, p. 73 sgg., con carta a fig. 40). Meandri che a Nesazio appaiono in rilievo, semplificati, su una stele (Hoernes-Menghin 1925, p. 472 sg., fig. 2: 2), accanto ai più comuni motivi spiraliformi, la cui trasposizione in chiave monumentale potrebbe essere stata suggerita dagli analoghi motivi esibiti dalle terrecotte templari corciresi (esportate tra l’altro in Messapia: D’Andria 1988, p. 661, fig. 649). Nel conto va forse anche messo, addebitandolo in particolare alla componente corcirese, un contributo alla propagazione del culto di Diomede, che a quanto pare era associato tra i Veneti a quelli di Artemide Etolica e di Era Argiva (Mastrocinque 1987, pp. 2126 e 71 sg.). Né può essere casuale che Artemide era venerata, con un santuario che si diceva fondato da Medea, «su una delle isole dell’Adriatico» (Ps. Arist., mir. ausc., 105), e con un altro santuario, in cui Diomede avrebbe fatto una dedica alla dea, in Peucezia (ibidem, 110). Ma soprattutto importante è la precoce conoscenza greca dei Veneti, atte13 Mastrocinque 1991, p. 41 sgg.; Mastrocinque 1993; Briquel 1995; Bruni 1998, p. 66 sg.; Malnati 2000, p. 145 sg.; Colonna c.s. È suggestivo pensare che l’olivastro, introdotto a Olimpia da Eracle di ritorno dal paese degli Iperborei, provenisse non dalle sorgenti dell’Istro (Pind., Ol., 3, 24-29), ma dalle coste dell’Istria, dove sappiamo che quella pianta prosperava.

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stata già nel tardo vii secolo, se le cavalle evocate da Alcmane sono quelle degli Enetòi d’Occidente (Frey 1969, p. 72), da mettere significativamente in parallelo con la conoscenza dei Dauni, menzionati come si è detto nella stessa epoca da Mimnermo in rapporto con le traversie di Diomede. Veneti e Dauni sono infatti i popoli estremi, raggiunti già alla fine del vii secolo dalle rotte frequentate dai Greci nell’Adriatico, con un movimento a tenaglia che lasciava fuori tutta la costa intermedia, posta a nord del Gargano e a sud del Po, ossia la costa abitata da quelli che più tardi diverranno noti ai Greci col nome di Umbri (sull’estensione originaria dell’etnico vedi Colonna 1999, p. 10). Con il braccio superiore della tenaglia gli émporoi greci raggiunsero da nord il delta padano, dove un tempo era fiorito lo scalo di Frattesina, e diedero vita, col consenso e con la collaborazione degli indigeni, all’emporio fluviale di Adria, posto sul ramo più settentrionale del Po, che divideva il territorio dei Veneti da quello degli Umbri. * Sono arrivato così al secondo tema del mio contributo, riguardante specificamente Adria. La data di nascita dell’emporio si ricava dalla più antica ceramica greca rinvenuta in quel sito e nel vicino scalo marittimo di S. Basilio di Ariano Polesine, che possiamo considerare ad esso strettamente complementare. Da Adria provengono i frammenti di due crateri figurati mesocorinzi,14 gli unici di cui si abbia notizia in tutto l’alto e medio Adriatico, assuefatto fino allora alle sole olle-cratere daunie, mentre da S. Basilio provengono i frammenti di due kotylai pure mesocorinzie (Salzani, Vitali 1991, p. 418, fig. 13) e di una coeva, rarissima kotyle etrusco-corinzia figurata (Bruni 1994, p. 188, fig. 1; Szilágyi 1998, p. 708 sg.), arrivata da Vulci probabilmente via Orvieto-Verucchio piuttosto che via Bologna: primo segnale della forte attrazione esercitata da Adria nei confronti degli Etruschi dell’Etruria propria. Sono testimonianze che consentono di far risalire l’attivazione dell’emporio adriese almeno al 580-570 a.C., ponendolo in relazione con la già citata affermazione erodotea, secondo cui i Focei, primi tra i Greci a compiere lunghe navigazioni, utilizzando navi a cinquanta remi, avrebbero ‘scoperto’ (katadéxantes) il Caput Adriae, l’Etruria tirrenica, l’Iberia e Tartesso (i, 163, 1). Poiché l’Etruria era nota ai Greci per diretta esperienza almeno dai tempi di Demarato, e certo da molto prima, e Tartesso almeno dai tempi del samio Coleo, la ‘scoperta’ avrà riguardato la possibilità di stabilire regolari rapporti di scambio con gli indigeni, non solo grazie alla acquisita capacità di comunicazioni più rapide, ma anche e soprattutto grazie all’apertura di empori, espressamente negoziata, come insegnano per l’Etruria il caso di Gravisca e per l’Iberia quello di Huelva (Ampolo 1997; Rouillard 1999, p. 90). Dei Focei che facevano capo ad Adria e a San Basilio è difficile additare testimonianze archeologiche, come accade del resto anche a Gravisca e in quasi tutti gli empori da loro più o meno attendibilmente fondati. La traccia di una assai antica frequentazione dei luoghi da parte di Greci, e quindi da riferire per ragioni cronologiche ai Focei piuttosto che agli Ateniesi, è ravvisabile a mio avviso nel nome Tartarus, omerico ed esiodeo, rimasto fino ai giorni nostri a designare il maggiore affluente del Po di Adria, in età romana almeno in parte coincidente o connesso con la fossa Philistina (fonti in re , 1932, s.v. Tartarus; Capuis 1993, p. 16). Già al centro di un denso popolamento nell’età del Bronzo (De Marinis 1999, pp. 511-532, figg. 1, 2, 10), il fiume s’inoltrava tra le paludi (Tac., hist., 3, 9, 1) verso le terre nebbiose bagnate dal Mincio, in una regione rimasta tra il ix 14 Colonna 1974a, p. 13, nota 44, tav. 2 in alto; Mambella 1985, p. 10; Bonomi 1991, p. 7, nn. 5 e 6, tav. i; Bonomi 2000, p. 122 sg.

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e il vii secolo quasi spopolata (De Marinis 1999, p. 533 sg., fig. 14), estesa dal Po al Garda, dal grande fiume all’ancor più grande lago, che forse allora appariva ai frequentatori del litorale adriatico quasi come un mare interno, di cui si aveva solo confusa notizia. L’idronimo, del tutto, ch’io sappia, privo di confronti nel mondo antico,15 sembra evocare l’esperienza di pionieri, che proiettavano geograficamente nella sempre più lontana Hespería, alle soglie dell’Oceano (Mele 1991, p. 240, e anche Bakhuizen 1988), le tenebrose profondità del Tartaro, poste dai poeti agli éschata gaíes (Hes., Theog., 731). Del resto ancora per Erodoto il Caput Adriae si identificava con l’estremo Occidente (4, 33, 1) e ancora per uno scienziato come Dicearco, discepolo di Aristotele, la sua distanza dal Peloponneso sarebbe stata addirittura maggiore di quella delle Colonne d’Eracle (Strab., 2, 4, 2; cfr. Ballabriga 1986, pp. 145 sg., 234-236). Una pervicace concezione arcaica, rivelata anche dalla credenza popolare, riferita da Polibio (presso Strab., 5, 1, 8) e da Varrone (presso Serv., Aen., 1, 245), che «sorgente e madre del mare», a quanto pare non del solo Adriatico, fossero le copiosissime acque del Timavo, cui si attribuiva la proprietà di essere in gran parte salate (Mastrocinque 1987, p. 84). Altro e non trascurabile retaggio foceo, rivalutato dagli Ateniesi nel v secolo (Braccesi 1984, p. 33 sgg.), e forse ancor prima dagli Egineti, che erano di casa sulle coste della Paflagonia (cfr. Steph. Byz., s.v. Aiginetes), è verosimilmente la saga di Antenore, che avrebbe compiuto nell’Adriatico imprese non troppo diverse da quelle che si attribuivano ad Enea nel Tirreno. L’eroe infatti sarebbe arrivato con i suoi Eneti oriundi della Paflagonia nel Caput Adriae, dopo essersi addentrato senza danno nei domini marini dei Liburni e dopo avere oltrepassato la storica soglia del Timavo (Verg., Aen., i, 243-244), così come avevano fatto i Focei e, prima di loro, i Dauni. A somiglianza di questi ultimi tuttavia egli non avrebbe raggiunto il Po ma si sarebbe arrestato nella laguna di Venezia, alle foci del Brenta, da dove sarebbe andato a fondare Padova. Il primato sui Veneti, che questa tradizione assegna a Padova invece che ad Este, troppo eccentrica e troppo vicina al comprensorio del Tartaro, sentito come marginale e remoto, denota l’ottica di chi aveva ‘scoperto’ il paese venendo dal Timavo, ne conosceva le vaste e salubri pianure orientali, in cui prosperava l’allevamento dei cavalli, e sapeva della gravitazione marittima dei maggiori insediamenti, a cominciare da Padova. E questo perché aveva fatto diretta esperienza dei molti scali lagunari dei Veneti, che ora l’archeologia va rivelando, tra i quali primeggia proprio quello che Padova possedeva presso la foce del Brenta minore, segnalato dal santuario di Lova di Campagna Lupia, cui la città diede tra il ii e il i secolo a.C. una veste monumentale rimasta del tutto senza confronti nella regione.16

15 Alla pari del gentilizio Tartarius, noto solo da due iscrizioni urbane relative alla stessa persona (cil , vi, 14731 e dedica a Silvano edita da Panciera 1995, p. 351 sg., n. 244) e quasi certamente derivato dall’idronimo. 16 Bonomi 1999; Capuis 1999, p. 254; Bonomi 2001, pp. 245-251. Ritengo anch’io assai probabile che sia questo il luogo chiamato Troia, in cui veniva localizzato lo sbarco di Antenore (Liv., i, 1, 3-5; Steph. Byz., s.v.: cfr. Musti 1981, p. 5; Braccesi 2001, p. 55). La struttura particolarmente spaziosa dell’area sacra, comprensiva di un quadriportico e di un portico a U, oltre che di aule e vasti piazzali, autorizza l’ipotesi che i trentennali ludi cetasti, la cui istituzione era fatta risalire all’eroe (Mastrocinque 1987, p. 74 sg.; Capuis 1999, p. 35), si svolgessero non in città ma in questo grande santuario extraurbano, il cui rapporto con Padova è paragonabile a quello del santuario di Pyrgi nei confronti di Caere. Ciò ovviamente fino al momento della «radicale e deliberata distruzione», apparentemente inspiegabile, subita dal santuario verso la metà del i secolo d.C. (Bonomi 1999, p. 375), ossia all’indomani della celebrazione dei ludi che dovrebbe aver avuto luogo tra il 56 e il 58 d.C. (Coppola 2000, pp. 15-17). L’approssimativa concomitanza cronologica con la disgrazia e il suicidio imposto all’illustre senatore patavino Trasea Peto (66 d.C.), inviso a Nerone anche per aver recitato come attore tragico nei ludi cetasti, in contrasto con l’indifferenza dimostrata nei confronti dei ludi Iuvenales, da lui istituiti nel 59 (Tac., Ann., 16, 21, 1), forse non è del tutto casuale, nel senso che l’ira imperiale potrebbe essersi riverberata anche sul santuario in cui Trasea aveva esibito il proprio attaccamento alla patria e ad Antenore.

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L’alta cronologia della frequentazione greca di Adria aiuta d’altra parte a capire come sia potuto avvenire che i Greci già dal tardo vi secolo, teste Ecateo (fr. 99 Nenci), abbiano chiamato con un aggettivo derivato dal poleonimo non solo il ramo settentrionale del Po, sul quale la città si trovava,17 ma anche il bacino più settentrionale dell’Adriatico, corrispondente a un ampio settore di quello che oggi chiamiamo Golfo di Venezia. Più precisamente, possiamo dire, il braccio di mare che dal golfo di Trieste incluso arriva alla foce del Po di Adria, dove probabilmente la costa si protendeva allora in un’accentuata cuspide deltizia,18 mentre il mare bagnante l’Istria per Ecateo (fr. 100 Nenci) restava compreso nello Ionios kolpos, e così quello in cui sfociava il Po di Spina, teste Ellanico ancora nel tardo v secolo.19 Com’è risaputo, il nome di ho Adrías nell’avanzato iv secolo a.C. verrà esteso, a spese del nome di Ionio e anche di quello di Illirico, venuto alla ribalta con la colonizzazione siracusana, a tutto il medio Adriatico, fino al Gargano, con particolare riguardo al suo versante occidentale,20 per raggiungere in seguito, non senza resistenze, il canale d’Otranto (esattamente come in età moderna è avvenuto col nome di Golfo di Venezia), e finanche oltrepassarlo (Partsch 1893, col. 218). Si tratta pertanto del caso, affatto eccezionale nel mondo antico, di un mare che ha preso nome non da una regione o da un popolo o da un personaggio mitico o da una peculiarità naturale, ma da una città, per di più non propriamente marittima21 né posta in posizione centrale o comunque dominante rispetto ad esso. Il fatto è che i Greci considerarono sempre il Caput Adriae, e poi l’intero Adriatico, come un golfo, prolungante a settentrione lo Ionio, e lo denominarono, come di norma facevano con i golfi, dalla città più notevole sorgente sulle sue rive o prossima ad esse (basti citare i golfi di Corinto, di Taranto, di Marsiglia e, confronto particolarmente calzante per l’ubicazione del tutto eccentrica della città eponima, di Cuma). Tutto ciò significa, nei confronti di Adria, almeno due cose. La prima è che l’estensione del suo nome al mare antistante e a gran parte del Golfo di Venezia implica il riconoscimento da parte greca che Adria all’epoca poteva essere considerata una vera città, in pieno accordo con la qualifica di polis datale da Ecateo. Non si conoscono infatti né golfi né, tanto meno mari aperti che abbiano preso nome da semplici empori, quali per esempio sono definiti ancora in età avanzata i porti di Aquileia e di Genova (rispettivamente Strab. 5, 1, 8 e 4, 6, 1-2). La seconda conseguenza è di ordine cronologico. L’estensione del nome di Adria al bacino settentrionale dell’Adriatico presuppone che 17 Con un procedimento analogo a quello per cui il ramo meridionale dello stesso fiume fu chiamato con un aggettivo derivato dal nome di Spina (cfr. Wikén 1937, p. 95 sg., nota 3). 18 Cfr. l’espressione Adrienà aktá di Eur., Hipp., 736 sg., generalmente banalizzata dai traduttori. 19 È interessante notare che per Teopompo il nome dell’Adriatico sarebbe stato derivato dal fiume Adrias (Strab., vii, 5, 9), mentre quello della città sarebbe venuto dal suo ecista, l’illirio Adrios, padre di Ionios, mitico sovrano del mare che da lui avrebbe preso nome, nativo di Lissa (FgrHist 115 F 128 c). Nella catena onomastica che ne risulta (antroponimo > poleonimo > idronimo > talassonimo) è evidente lo speciale risalto attribuito al fiume di Adria, che avrebbe dato il suo nome al mare che si doveva attraversare per raggiungerlo. A proposito dell’origine illiria dell’eponimo di Adria, si ricordi che essa è stata supposta anche per i Veneti (Schol. Veron ad Aen., 1, 243), in alternativa a quella anatolica. 20 Una preziosa testimonianza al riguardo, solitamente trascurata, è il nome Hatria, che i Romani diedero all’inizio del iii sec. a.C. alla loro prima colonia adriatica, situata in territorio già pretuzio (Colonna 1999, p. 12). Infatti tale nome è evidentemente ricalcato su quello che ormai i Greci avevano esteso anche al mare bagnante la costa medio-adriatica italiana e che i Romani conoscevano per tramite etrusco (come rivela il trattamento fonetico della dentale, comune al nome latino di Adria, Atria). Invece, a giudicare dall’apparizione dell’eponimo Ionio sulle monete di Issa e di Faro di età post-dionisiana (Mastrocinque 1990, pp. 40-44), assai più lenta fu l’estensione del nome al versante orientale dello stesso mare. 21 Sorgeva infatti a circa 12 km dalla linea di costa dell’epoca (De Min 1988, p. 20; Peretto-Salzani 1998, p. 236 sg., fig. 3).

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Spina all’epoca non esisteva ancora o, meglio, deteneva un ruolo del tutto secondario, nei confronti dei commerci adriatici, rispetto ad Adria. Il che comporta una datazione anteriore al 480-470, quando l’archeologia insegna che Spina è stata rifondata secondo un’urbanistica regolare, evocante Marzabotto (Patitucci Uggeri, Uggeri 1993, p. 26 sgg.), e ha conosciuto un enorme incremento della sua necropoli (Berti 1993, p. 36 sgg.), in parallelo con la vertiginosa crescita delle importazioni di ceramica attica e con la comparsa dei primi graffiti vascolari in greco, dovuti a meteci (Colonna 1993a, p. 135). Nei cento anni che hanno preceduto la ‘seconda’ Spina, ossia la Spina cui è da riferire la talassocrazia sull’Adriatico e l’erezione a Delfi del suo famoso thesaurós, è stata indubbiamente Adria il porto più importante, la meta più ambita dai naviganti greci nel bacino centrale e settentrionale di quel mare. * Circa la qualificazione urbana di Adria occorre rilevare come molto probabile che essa dati dall’ultimo quarto del vi secolo, quando molti indizi concorrono nel farci ritenere che l’insediamento abbia compiuto un salto di qualità, sia sul piano urbanistico ed edilizio che su quello organizzativo e ‘politico’. Dobbiamo accontentarci di indizi, anche per quanto riguarda il primo aspetto, maggiormente connesso al record archeologico, perché la conoscenza dell’abitato preromano di Adria, sepolto sotto almeno quattro metri di depositi alluvionali, è ovviamente limitatissima. Non disponiamo altro che di saltuari ‘prelievi’ di materiale arcaico, di cui i più fruttuosi sono stati quelli effettuati dalla famiglia Bocchi presso la chiesa di S. Maria Assunta della Tomba tra il 1803 e il 1820, nel corso di scavi che meritano un posto nella storia dell’etruscologia, essendo stati espressamente rivolti, ben prima di quelli di Vulci e delle altre città dell’Etruria meridionale, alla esplorazione dell’area urbana, e non della necropoli, di una città allora ritenuta da tutti etrusca. I ‘prelievi’ in questione sono consistiti quasi esclusivamente in frammenti di vasi, tanto che, volendo inviare i Bocchi nel 1818 un omaggio all’Imperatore, per invogliare il Governo austriaco a finanziare il proseguimento degli scavi, l’unico vaso intero che riuscirono a procurarsi fu una abbastanza banale Floral-Band Cup attica (Schöne 1878, p. 135, n. 495; De Min 1988, p. 4, fig. 1). Tra i segni di un’edilizia e di un’urbanistica tecnicamente evoluta, propria di quella che è stata chiamata in termini stratigrafici ‘Adria ii’ (Donati-Parrini 1999), accanto alla notizia di fondazioni murarie in pietrame, di pavimenti con substrato di carboni e di coperture con tegole, per ora direttamente documentate solo nel sito satellite di San Cassiano (Harari 1997, p. 685 sg.; Harari 1999, p. 631 sg.), si annovera un cimelio isolato ma di grande importanza: un’antefissa fittile di tipo greco, rimasta finora praticamente inedita, benché esposta dal 1986 nel rinnovato museo di Adria.22 Consiste in una lastra semicircolare aderente a un coppo a sezione triangolare, dal quale sporge sia di lato che in alto, bordata sul margine curvilineo da un tondino. Il campo è occupato da due volute rovesce con bottone circolare al centro, raccordate da una insellatura a U da cui spuntano, contrapposti verticalmente, in alto un fiore di loto con minuscolo calice, due petali arcuati e un corto pistillo a losanga, in basso un grosso lobo a goccia triangolare (Figg. 6-7). Si tratta, per quanto è a mia conoscenza, dell’unica terracotta architettonica 22 Recando il n. di inventario I. G. 9244, dovrebbe far parte dei ritrovamenti del secolo scorso (manca tuttavia in Schöne 1878). Argilla rosso-chiara con inclusi calcarei, nessuna traccia di policromia. Misure: largh. mass. attuale cm 30 (ma in origine ca. 32), alt. cm 16. Dimensioni esterne del coppo: ca. cm 26 × 11. Un cenno assai cursorio in Strazzulla 1987, p. 337, nota 1.

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Figg. 6-7.

di età preromana rinvenuta finora a nord di Rimini e di Marzabotto, che hanno restituito antefisse di tipo etrusco a testa femminile e a palmetta, peraltro non anteriori agli inizi del v secolo (cfr. per Rimini Colonna 1985, p. 52, fig. 8 sg.; Cristofani 1996, p. 145). L’antefissa di Adria rimanda invece al cuore della Grecia, è una originale rielaborazione di tipi del genere di quelli utilizzati ad Atene su edifici minori dell’acropoli nella seconda metà del vi secolo.23 Altro indizio di una incipiente strutturazione urbana è il sorgere di insediamenti satelliti e di santuari rurali, posti ai confini di quella che sembra ormai essere divenuta una vera e propria chora della città (oltre al preesistente San Basilio e al già citato San Cassiano, è il caso di Gavello e di Le Balone), estesa a ridosso dei grandi corsi fluviali forse già allora sottoposti a costosi interventi di arginatura e regolamentazione. Prosperavano in tale territorio la cultura della vite24 e forme specializzate di allevamento, che le fonti etnografiche greche di iv secolo accomunavano a quelle praticate dagli Umbri, esaltandone non i cavalli, come per i Veneti, ma le celebri galline, lodate da Aristotele (Colonna 1974 a, p. 18 sg.). Ma soprattutto denunciano la nuova situazione le produzioni artigianali, di cui abbiamo testimonianze nel campo della bronzistica devozionale (Tombolani 1987) e della ceramica dipinta da mensa a figure nere (Mambella 1983).

23 La possiamo definire una variante assai semplificata, pur restando di formato normale, dei tipi Buschor vi e viii dell’Acropoli, non attestati fuori di Atene (cfr. Buschor 1933, pp. 36-40, figg. 47 sg., 52, tav. 3 sg.; Winter 1993, pp. 225 sg., 228, fig. 97), in cui la palmetta superiore è sostituita dal fiore di loto, l’inferiore dalla goccia, mentre il contorno semicircolare della lastra, peraltro accolto anche dal tipo vii della stessa Acropoli, è di ovvia ispirazione laconica e il tondino perimetrale dipende da modelli di Asia Minore (Winter 1993, p. 250, nota 121, con bibl.). Nessun rapporto sussiste con le banali e recenziori antefisse a palmetta di Marzabotto, chiamate a confronto dalla Strazzulla, che fonda su di esse una generica datazione al v secolo dell’esemplare adriese. 24 Provato dal deposito di vinacciuoli venuto in luce nei recentissimi scavi nel giardino del Museo, di cui ha parlato al convegno di Adria del 1999 Simonetta Bonomi. In età romana la produzione vinaria non doveva essere secondaria, se un padano come Plinio il Vecchio ha potuto attribuire alla città il rinomato Hadrianum (Plin., n.h, 14, 67), che è piuttosto da riferire ad Atri (Tchernia 1986, p. 348 sgg.).

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Fig. 8.

Assai maggiore attenzione di quella che finora gli è stata accordata merita la ceramica locale a figure nere,25 per la quale si può parlare a giusto titolo di un Gruppo di Adria, prodotto forse nell’arco di due generazioni ma ascrivibile a un’unica bottega per le caratteristiche tecniche, quali la vernice diluita e di tono tendente al rosso-bruno, il largo uso delle suddipinture in bianco e talora in paonazzo, lo scarsissimo uso del graffito, l’argilla che all’interno delle pareti tende ad essere nerastra o grigiastra per difetto di ossidazione (tanto da somigliare, secondo Schöne 1878, p. 61, a quella delle anfore vinarie). Le forme più comuni sono i piatti (almeno tre esemplari) e le anfore a collo distinto (almeno due esemplari), ma compaiono anche un coperchio carenato ad alto labbro verticale, una coppetta su piede e quello che sembra essere stato un grande stamnos o cratere, dipinto sul ventre con un fregio continuo di cui resta solo un ampio settore, integrabile in parte con un disegno fatto eseguire dallo Schöne26 (Fig. 8). Si tratta di un prodotto ambizioso, ma recenziore e di qualità piuttosto scadente. Nella parte conosciuta del fregio compare una mandria, composta da almeno due cavalli e da un bue, guardata da due cani retrospicienti ritti sulle zampe posteriori e assalita da un felino balzato sulla groppa del bue, contro il quale si scaglia un mandriano nudo armato di due lance. Se il copricapo del mandriano, noto peraltro solo dal disegno Schöne, può effet-

25 Ignorata in tutta l’ormai sterminata letteratura su Adria, i Veneti e gli Etruschi padani, non è accessibile che attraverso il meritorio studio del Mambella, condotto nei depositi del Museo di Adria: studio peraltro di carattere del tutto preliminare, viziato alla base dal preconcetto dell’appartenenza della ceramica in questione all’ambiente artistico paleoveneto. Più correttamente lo Schöne aveva proposto, per il «grande vaso panciuto» da lui pubblicato, il confronto con i vasi etruschi a figure nere del museo di Monaco, all’epoca ancora inediti (Schöne 1878, p. 61). Dal 1986 una parte del materiale è esposta nel Museo, dove ho potuto esaminarla in più occasioni. Dò un conguaglio dei vasi o frammenti di vasi resi noti, con i numeri dell’inventario Bocchi del 1868 (cfr. Mambella 1983, p. 8, nota 4), del catalogo Schöne e delle foto riprodotte dal Mambella (M.: l’asterisco segnala i pezzi che nel 1999 erano esposti): A 4* = Schöne n. 149; A 4’ = M. fig. 11; A 26 = M. fig. 13; A 27 = M. fig. 15; A 47; A 49 = M. fig. 10 b; A 50; A 51 = M. fig. 1 c; A 115* = M. fig. 10 a; A 140* = Schöne n. 148, M. fig. 1-9, Mastrocinque 1987, fig. 45 a colori (stampata al rovescio); A 157; A 1090 = M. fig. 14; A 1176 = M. fig. 15. Mancano nell’inventario Bocchi l’anfora M fig. 12* (infra, nota 27), in Mambella 1983 il piatto* qui a fig. 8 (infra, nota 26) e la coppetta su piede* della tomba 333 del Canal Bianco (De Min 1987, p. 63 n. 483: foto zenitale in Malnati, Manfredi 1991, fig. 59: 3; del profilo in Capuis 1993, fig. 47). Un prodotto non figurato del Gruppo è certamente la coppetta su basso piede da San Basilio (De Min 1987 b, p. 90, n. 545, fig. 246). 26 Schöne 1878, p. 61, n. 148, tav. xiv, 4; Mambella 1983, pp. 8-12, figg. 1-9. Il disegno non è del tutto affidabile: come appare dalle foto date da Mambella e da Mastrocinque, gli animali e il cacciatore poggiano piedi e zoccoli sulla base verniciata del vaso, il bue ha una coda più lunga e caratteristicamente annodata. Il vaso è stato rinvenuto nello stesso luogo, nella stessa data e alla stessa profondità di una kylix frammentaria a figure nere con fregio dionisiaco (Schöne 1878, p. 42 sg., nn. 71 e 71 b).

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tivamente ricordare il «baschetto aderentissimo al capo» dei servi raffigurati in ambiente paleoveneto (Fogolari 1988, p. 166), la nudità e le armi sono difficilmente conciliabili con quell’ambiente. Di fatto tutto ciò che riguarda sia l’iconografia che lo stile, di questo come degli altri vasi del Gruppo, è di chiara ispirazione etrusca. Particolari come la resa degli occhi, sia nell’uomo che negli animali, con un grosso punto al centro di un circoletto risparmiato ritornano, assieme al totale rifiuto del graffito e alla semplice verniciatura della base del vaso, nell’opera di alcuni allievi del Pittore di Micali, e in particolare del Pittore di Gerusalemme recentemente individuato, attivo a quanto Fig. 9. pare a Chiusi tra il 500 e il 480 a.C. (da ultimo Paolucci 2001). In altri vasi, certamente più antichi, sembrano invece cogliersi reminiscenze di ceramografi vulcenti della seconda metà del vi secolo. Un piatto inedito, di fattura assai accurata, accoglie nel fondo un unico grande occhio apotropaico, suddipinto in bianco, nero e paonazzo, circondato da ‘ciglia’ nastriformi, tracciate in outline con vernice diluita, inizianti dai pressi del sacco lacrimale (Fig. 9).27 Il motivo è un unicum, a mia conoscenza, ispirato dalle coppe a occhioni calcidesi, in cui la linea delle sopracciglia è sempre replicata simmetricamente al disotto dell’occhio (cfr. Iozzo 1994, tavv. lxxxviii-xcvi), ma l’effetto complessivo ricorda le combinazioni di occhioni e serpenti esibite dalle anfore del Gruppo delle Foglie d’Edera (Drukker 1986, p. 41 sg., nn. 25-29; Italy of the Etruscans, p. 225, n. 291). Allo stesso Gruppo del resto, anche se solo come approssimativa citazione, sembra rinviare il motivo, dipinto sul ventre di un’anfora a collo distinto, dell’uomo che corre stringendo nelle mani due enormi e geometrizzati viticci a più circonvoluzioni, qui a quanto pare privi delle foglie che hanno dato nome al Gruppo citato (Fig. 10).28 Né mancano richiami al Gruppo di Orvieto, come il fregio continuo sul corpo del già citato stamnos o cratere, la cornice a linguette sulla tesa del piatto con occhione e in generale la dominante tonalità rosso-bruna della vernice. In complesso si può parlare di un gruppo ibrido, opera di artigiani emigrati dal triangolo Vulci-Orvieto-Chiusi verso il 530-520 a.C., rimasti attivi forse fin verso il 480. La sua straordinaria importanza storico-culturale sta nel fatto che nulla di simile si conosce non solo nell’Etruria padana, ma anche in quella settentrionale, con la sola assai probabile eccezione di Chiusi. Questa di Adria è insomma, assieme a quella quantitativamente ben più cospicua di Capua, la sola pro27 Diam. ca. cm 15, coppia di fori di sospensione sulla tesa. L’occhio, dipinto in vernice diluita, alla pari dell’ornato a linguette della tesa, ha la cornea e la sacca lacrimale suddipinte in bianco, l’iride nera e la pupilla paonazza. Nera è anche la fascetta che delimita il perimetro del fondo. Il motivo dell’occhio isolato (in questo caso il sinistro) ritorna sulle monete arcaiche del tesoro di Auriol (cfr. Hermary, Hesnard, Treziny 1999, p. 60, fig. 4 sg.), di Skione nella Calcidica e di Samo (Head 1911, pp. 210, 603, con l’ipotesi di un’allusione, nel nostro caso improbabile, a una prua di nave). 28 Mambella 1983, pp. 16-18, fig. 12 sg. Anche gli ornati accessori (lingue sulla spalla, meandro spezzato al sommo del ventre, raggiera di base) distinguono questo vaso dagli altri e ne sottolineano il pregio (confermato dalle tracce di un restauro antico).

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duzione di vasi a figure nere che sia dato incontrare fuori dell’Etruria meridionale e di Chiusi. L’esiguità della produzione adriese è proporzionata alle dimensioni ridotte della città, all’assenza di un mercato tra i confinanti Veneti, Umbri ed Etruschi e all’ampiezza veramente enorme della importazione locale di ceramica attica,29 che meraviglia non abbia del tutto scoraggiato qualsiasi velleità di concorrenza, mentre i vasi di provenienza orvietanochiusina arrivavano fino a Bologna e tra gli Umbri di Camerino, quelli di Capua fino in Peucezia.30 Fig. 10. Il Gruppo vascolare in questione costituisce ai miei occhi la migliore testimonianza, assieme a quella assai meno esplicita dei coevi bronzi votivi di produzione locale, che Adria non è più un semplice emporio, in cui si importano vasi attici ma non li si imitano, ma una comunità strutturata e stratificata, in grado di esprimere scelte differenziate. Una comunità che accoglieva un nucleo di popolazione etrusca, dedita non solo ad attività mercantili, ma anche a produzioni artigianali, indirizzate a soddisfare esigenze di vita di livello decisamente urbano. Il carattere stabile e perfettamente integrato degli Etruschi viventi nell’Adria tardo-arcaica è confermato da sette iscrizioni vascolari, databili tra il 520 e il 460 a.C. (una a Fig. 11) in base alla grafia, alla fonetica e al tipo di supporto, cui ora se n’è aggiunta un’ottava dal sito di San Cassiano.31 Dal punto di vista della pertinenza sociale, è notevole che tre di esse si riferiscano a persone che esibiscono, anche in modeste iscrizioni vascolari come queste, la formula onomastica bimembre di cui sono in possesso, con prenomi canonici e gentilizi in due casi di tipo patronimico, mentre nelle altre, unimembri, compare il solo nome individuale, probabilmente in funzione di gentilizio. Si tratta, in queste e nella più recente delle iscrizioni bimembri, dove è certa la funzione gentilizia (se è da leggere mi venelus kais, con legatura is erroneamente copiata come r nell’unico disegno pervenutoci), del nome kai, modellato 29 Basti pensare che l’abitato di Adria ha restituito, nonostante l’estrema difficoltà di attingere gli strati arcaici, di cui si è detto, «migliaia di frammenti di ceramica attica a figure nere e rosse» (Bonomi 1998, p. 243). Per i soli vasi a figure nere «un sommario calcolo registra la presenza nei magazzini del Museo di quasi duemila frammenti» (Mambella 1985, p. 37). Sono cifre che acquistano un valore ancora maggiore, quando si pensi che si riferiscono a recuperi avvenuti per la maggior parte nei primi decenni dell’Ottocento, con metodologie di scavo assai approssimative e quando ancora la ceramica attica non era riconosciuta come tale, ma passava per etrusca. Resta sbalordito di fronte ad esse anche chi ha esperienza dell’archeologia urbana delle grandi città dell’Etruria meridionale, tanto da far ritenere praticamente certo che nella zona della Tomba, da cui viene la gran maggioranza di tale ceramica, sia esistito un santuario (Colonna 1974 a, p. 8). 30 Bologna: Pellegrini 1912, p. 232, nn. 822 e 823; zona di Camerino: Stopponi c.s.; Peucezia: D’Andria 1988, p. 668. 31 Per comodità del lettore le elenco, seguendo un ordine approssimativamente cronologico (il n. 4 è su un chous attico a f.n. del 490-480 a.C.): 1. mi venelus leceniies (Rix. et Ad 2.1); 2. mi al (Mambella 1986, p. 270, fig. 1) (Fig. 11); 3. mi larisal uselnas (Rix, et Ad 2.3); 4-6. kai (Rix, et Ad 2.72-70-71); 7. mi venelus kais (Rix, et Ad 2.8, con datazione e lettura superata); 8. manis (inedito, da San Cassiano, cenno in Peretto 1999, p. 624). Il n. 2, su un piatto del Gruppo di Adria a decorazione evanide, va inteso come «io (sono) un dono», probabilmente votivo (cfr. l’iscrizione di Pontecagnano mi alza ceriies edita in ree 2002, n. 93, con confronti da Marzabotto e da Roma, cui sono da aggiungere le tre kylikes attiche del 450-440 a.C. da una tomba di Orvieto, riprodotte in cie 10663-10665, e probabilmente ree 1989, n. 17, da Cetamura).

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Fig. 11.

sull’umbro cais, reso nel falisco arcaico con la forma kaios (Rix 1998, p. 227). L’etruschizzazione del nome può essere avvenuta già nell’Etruria meridionale, dato che è attestato in età tardo-arcaica anche a Vulci e altrove in quella regione (Colonna 1988, p. 136, nota 76; Martelli 1993), ma non si può escludere che sia avvenuta nella stessa Adria, dove la presenza di Umbri portatori del nome individuale in questione è provata dalla trasmissione di esso, e non del corrispondente gentilizio etrusco, tra i Veneti (mi riferisco all’aggettivo patronimico kaialo- del noto ciottolone di Oderzo, sul quale da ultimi Eska, Wallace 1999).32 Affine è il caso del nome mani (gen. manis) di San Cassiano, modellato sul noto prenome latino manios, la cui etruschizzazione può essere avvenuta sia nell’Etruria meridionale tiberina che, teoricamente, ad Adria.33 Comunque è un dato acquisito che tutte le iscrizioni etrusche di cui parliamo, per quanto si può giudicare non solo dall’onomastica ma soprattutto dall’ortografia, sia della sibilante del genitivo che delle velari, rinviano all’Etruria meridionale e in particolare a Volsinii,34 ponendo un problema storico che non può essere eluso. A bilanciare le otto iscrizioni etrusche di Adria e dintorni, databili in età tardo-arcaica, ve ne sono altrettante greche di uguale cronologia. Si tratta delle sei già note fin dalla prima metà dell’Ottocento e da me riportate all’attenzione degli studiosi (Colonna 1974a, pp. 5-10; Dubois 1995, pp. 174-180, nn. 70-75), cui se ne sono aggiunte una settima ( Johnston 1979) e ora un’ottava, proveniente da San Basilio (Figg. 12-13). Mentre le sei note da tempo sono state concordemente riconosciute come eginetiche, quella segnalata da Johnston sembra essere attica e quella da San Basilio è ancora sub iudice. Graffita, 32 Un altro caso, anch’esso tardo-arcaico, di trasmissione onomastica probabilmente da Adria ad ambito veneto (Padova) è quello dell’appositivo rakoi (dat.) portato dal defunto della stele di Camin, modellato sul nome etrusco raqu di ambito ceretano-veiente (Maggiani 2000, pp. 93-95). 33 Il nome era noto finora solo da iscrizioni recenti, in cui appare sia in funzione di gentilizio (femm. mania) che in quanto base del gentilizio patronimico manina di Chiusi (Rix, et s.vv.). Aggiungo in bozze che il relitto etrusco del Grand Ribaud F (fine vi sec. a.C.) ha restituito un’anfora di tipo ionico-massaliota col graffito maniies sul collo, da me presentato nella seduta del xxiv convegno di studi etruschi e italici tenuta a Lattes il 30/ix/2002. 34 Nel caso del gentilizio uselnas, la scrittura -s- induce a escludere Orvieto, nonostante la frequenza del gentilizio in quella città (Maggiani 1990, p. 203, nota 108).

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Figg. 12-13.

come la maggior parte delle altre, sotto il piede di una kylix attica, databile in questo caso verso la fine del vi secolo, è da leggere a mio avviso come ˘ÊÛÔ[ÎϘ - - -]:35 l’assenza dell’aspirazione iniziale tradisce la pronuncia di un greco proveniente da Samo o dalla Ionia d’Asia, anche se scrive la doppia /ps/ col digrafo ÊÛ invece che con „, adeguandosi all’uso eginetico e attico.36 A giudicare dai dati passati in rassegna, la svolta che ha fatto di Adria una città, dandole tra l’ultimo quarto del vi e il primo del v un indiscusso primato sull’Adriatico, è avvenuta grazie a un determinante apporto esterno, venuto da molto lontano: dall’Etruria meridionale, via la valle del Tevere, Verucchio, Rimini e Ravenna, e da quella parte della Grecia propria che faceva capo a Egina e ad Atene. Presupposto di entrambi gli apporti, ma principalmente, com’è ovvio, di quello proveniente dal golfo Saronico, è l’apertura di una rotta marittima che collegava direttamente Adria al Conero e al Gargano, correndo lungo la costa medio-adriatica italiana, per poi attraversare l’Adriatico all’altezza di Pelagosa, l’isola d’alto mare dove prende ora improvvisamente grande sviluppo, come si è detto, il culto di Diomede da parte di naviganti egineti ed ateniesi. L’apertura di tale rotta è senza dubbio da porre in rapporto con l’avventurosa spedizione militare del 524 a.C. contro Cuma, condotta da Etruschi abitanti intorno a quello che ancora veniva chiamato Ionios kolpos, in cui sono da riconoscere gli stessi abitatori dell’Adria emporica, l’‘Adria i’, assieme probabilmente agli Etruschi di Felsina e soprattutto di Verucchio-Rimini (Colonna 1993a, p. 141; Sassatelli 1999, pp. 84-87), postisi alla testa degli Umbri della regione e, strada facendo, dei Dauni e di ‘molti degli altri barbari’. Un ruolo di primo piano dovettero averlo in questi eventi da un lato i Volsiniesi dell’età di Porsenna (Colonna 1980, pp. 50-53), dall’altro gli Egineti, i cui interessi adriatici sono ora documentati anche da cospicui ri35 Il graffito è stato pubblicato, senza trascrizione né commento, da De Min, Iacobozzi 1986, p. 178, n. 34, tav. 4. Un tentativo di trascrizione è in Mastrocinque 1988, p. 13, nota 1, che però legge la prima lettera come un ¯ o un „, senza rilevare che il tratto di destra del supposto tridente è un graffio, notevolmente prolungato verso sinistra (autopsia). Inoltre Mastrocinque connette all’iscrizione il Ù che si trova notevolmente a sinistra, al margine della frattura, spettante con ogni evidenza all’inizio di una seconda iscrizione, scritta in direzione opposta e con lettere alquanto più grandi. 36 Il nome personale Hypsokles, assente in Attica, nel Peloponneso, nella Grecia occidentale, in Sicilia e in Magna Grecia, è attestato in tredici iscrizioni delle isole ioniche dell’Egeo e in due di Cirene, di cui l’unica arcaica viene da Taso (Frazer, Matthews 1987, p. 451). Il personaggio più in vista tra i portatori del nome è un arconte di Delo, l’isola da cui proviene la maggioranza delle attestazioni.

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trovamenti numismatici (Gorini 1999, p. 166 sg.). Per quanto riguarda gli Egineti, il loro ruolo sembra essere consistito non solo e non tanto nell’ispirare la spedizione, da quei frequentatori dell’emporio adriese che forse già erano allora (Cordano 1990), quanto piuttosto nel trarne i maggiori vantaggi sul piano politico, come interlocutori privilegiati, anche se effimeri, nei confronti dell’emporio. Non credo infatti, anche se oggi si è tornati a farlo, che sia lecito sottovalutare la notizia dell’invio di coloni ‘tra gli Umbri’ da parte di Egina, in un sito per cui la migliore candidata resta Adria37 e a una data che non può discostarsi da quella dell’invio di altri coloni a Kydonia nell’isola di Creta (Strab., 8, 6, 16), avvenuto intorno al 519 a.C. Tutto lascia credere, in conclusione, che Volsiniesi ed Egineti siano stati i maggiori responsabili della promozione urbana di Adria, colonia ‘atipica’ ancor più di Kydonia per la forte componente etrusca,38 che finì ben presto per prevalere, facendo della città la Tuscorum colonia di liviana memoria.39 Bibliografia Adamesteanu 1984: D. Adamesteanu, Centri e territori, in Civiltà dei Dauni 1984, pp. 53-58. Aloni 1993: A. Aloni, L’invenzione di Delo, «I grandi santuari della Grecia e l’Occidente (Atti dell’incontro di Trento, 1991)», Trento, 1993, pp. 13-30. Alvino 2000: G. Alvino, Le sepolture a tumulo di età preromana e il tumulo di Corvaro di Borgorose, in Studi sull’Italia dei Sanniti, Milano, 2000, pp. 7-13. Ampolo 1997: C. Ampolo, I rapporti commerciali, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici, pp. 223-251. Bakhuizen 1988: S. C. Bakhuizen, Italy and Sicily in the perception of the early Greeks, «Mededelingen Nederlands Instituut Rome», 48, 1988, pp. 9-25. Baldelli 2001: G. Baldelli, Ansa di idria laconica dalla necropoli di Belmonte, in Eroi e regine 2001, p. 344 sg. Ballabriga 1986: A. Ballabriga, Le soleil et le Tartare. L’image mythique du monde en Grèce archaïque, Paris, 1986. Bentini, Boiardi 2002: L. Bentini, A. Boiardi, Insegne cerimoniali ed armi, «Guerriero e sacerdote. Autorità e comunità nell’età del ferro a Verrucchio. La Tomba del Trono», a cura di P. von Eles, Firenze, 2002, pp. 132-167. Bergonzi 1985: G. Bergonzi, Società dell’età del Ferro, loro articolazioni e relazioni: l’area adriatica tra vi e iv sec. a.C., La Romagna tra vi e iv sec. a.C., pp. 67-98. Bergonzi 1991: G. Bergonzi, L’offerta votiva in Italia settentrionale durante l’età del ferro, «Scienze dell’antichità», 3-4, 1989-1990 (1991), pp. 415-436. Berti 1993: F. Berti, Appunti per Valle Trebba, uno specimen della necropoli di Spina, Spina 1993, pp. 33-45. Bonomi 1991: S. Bonomi, cva Italia. Adria, Museo Archeologico Nazionale, 2, Roma, 1991. 37 La menzione degli Umbri invece che degli Eneti non costituisce quella difficoltà che alcuni hanno voluto vedervi, trovandosi Adria sul fiume che, come detto, separava i territori dei due popoli, ma denota comunque l’ottica di chi ormai raggiungeva il Delta padano con la rotta occidentale, facendo scalo tra gli Umbri a partire dal Conero (oltre che, beninteso, a Rimini, la cui etruscità è per quest’epoca fuori discussione, come ribadisce Sassatelli 1999, p. 81 sg.). L’opzione umbra della fonte di Strabone è del resto perfettamente coerente con l’opinione di chi più di ogni altro doveva essere informato sulla geografia storica della regione, Livio. A detta del Patavino Adria era una Tuscorum colonia (5, 33, 8), ma i coloni transappenninici degli Etruschi, precisa poco più avanti lo storico, avevano occupato tutti i luoghi a nord del Po, ma non il Venetorum angulus (5, 33, 10). Dunque per lui né Adria né il suo territorio avevano mai fatto parte del paese dei Veneti. 38 Su Adria colonia eginetica rinvio alle considerazioni di Figueira 1981, pp. 268-278, che parla di «an Aeginetan settlement created with the cooperation of the local population» e di «Umbrians protected from their Etruscan neighbors» dai coloni egineti. Ovviamente gli Etruschi che gli Egineti intendevano tenere lontani da Adria saranno stati quelli di Felsina e di Spina, non quelli dell’Etruria meridionale con i quali convivevano. 39 Sono apparsi troppo tardi perché ne potessi tener conto gli Atti del convegno internazionale «I Greci in Adriatico», Urbino, 1999 («Hesperìa», 15, 2002) e M. C. D’Ercole, Importuosa Italiae litora. Paysage et échanges dans l’Adriatique méridionale archaïque, Napoli, 2002.

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I R APPORTI T RA ORV IE TO E V U LC I DAL V I LLANOVIANO AI FRAT E L L I V IBE NNA

I

l tema dei rapporti tra Orvieto e Vulci è stato già affrontato da me, indirettamente, nel primo dei convegni organizzati dalla Fondazione per il Museo Claudio Faina, che ebbe luogo nel 1975.1 Lo esaminai allora in una prospettiva padana: insegnando a Bologna ero colpito da certi fatti, come le importazioni e le consonanze orvietane di taluni materiali del sepolcreto di San Martino in Gattara, di recente scavato da Giovanna Bermond Montanari. Mi soffermai in quell’occasione sulle produzioni artigianali che, grazie anche agli studi di Giovannangelo Camporeale, sembravano riferibili a Orvieto. Così facendo toccai il tema dei rapporti tra le due città vicine, dato che, specialmente nel campo della bronzistica, tali produzioni apparivano durante il vi e i primi decenni del v secolo strettamente collegate, possiamo dire complementari, a quelle vulcenti. Orvieto, dissi allora, non ha prodotto le Schnabelkannen ma altri bronzi legati al banchetto, anch’essi di diffusione più che notevole, come gli infundibula, che a Vulci sembrano quasi assenti, mentre compaiono in tutta l’area investita dai commerci volsiniesi, proiettati com’è noto verso l’Italia orientale, la Romagna e l’alto Adriatico. Oggi, per iniziare, vorrei risalire indietro nel tempo e soffermarmi su un aspetto che è rimasto finora un po’ in ombra, almeno da parte mia, quello dei contatti tra i due centri durante l’età del Ferro, all’epoca della cultura villanoviana, decisiva per la formazione dell’ethnos etrusco. Premetto che il Villanoviano di Orvieto resta ai miei occhi alquanto enigmatico. V’è l’aporia di un sito di pianoro di ampiezza considerevole, pari a quella dell’abitato di Pontecagnano (circa 85 ettari), la cui occupazione, certo rimasta a lungo assai parziale, inizia già nell’età del Bronzo per continuare nella prima età del Ferro, senza tuttavia segni evidenti di un forte incremento demografico, paragonabile a quello che si constata nei coevi centri protourbani dell’Etruria meridionale, a cominciare da Vulci e dalla stessa Bisenzio. Per quello che si conosce finora continuo a ritenere, nonostante l’amichevole richiamo alla prudenza di Filippo Delpino,2 che il Villanoviano di Orvieto sia stato un fenomeno debole e che il sito non abbia conosciuto uno sviluppo adeguato alla sua formidabile posizione naturale nemmeno nell’età orientalizzante. Detto questo aggiungo subito che le pur esigue testimonianze villanoviane, alla pari di quelle orientalizzanti, sono del più grande interesse per il tema del nostro convegno. È un dato di fatto che la morfologia dei pochi vasi biconici provenienti da Orvieto è alquanto diversa da quella degli esemplari rinvenuti nel contesto abitativo del Gran Carro, e non solo per ragioni funzionali o cronologiche. I biconici volsiniesi noti, certamente di provenienza funeraria dato il loro stato di conservazione, sono tre, due acquistati nel tardo Ottocento dal Museo Archeologico di Firenze e uno, acceduto al Museo dell’Opera del Duomo, oggi nel Museo Claudio Faina (Fig. 1).3 Ad essi possiamo aggiungerne un quarto, posseduto da una collezione privata svizzera, adespoto ma strettamente affine, anche per le stampiglie a “rosetta”, all’esemplare del Museo Faina, che è il più recente dei tre.4 Tutti presentano un meandro impresso a pettine sulla spalla, di varia 1 «AnnMuseoFaina», i, 1980, pp. 43-53, spec. pp. 45-50. 2 Ibid., vii, 2000, p. 86. 3 P. Tamburini, in Bollettino dell’Istituto Storico Orvietano xliv-xlv, 1988-1989 (1992), p. 15, figg. 7-9, con bibl. 4 L’art des peuples italiques. 3000 à 300 avant J.-C., cat. della mostra di Ginevra-Parigi, Napoli, 1993, p. 93, n. 1. L’affinità è tale da rendere praticamente certo che il vaso provenga anch’esso dal comprensorio volsiniese. E

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Fig. 1. Biconico da Orvieto.

Fig. 2. Biconico da Vulci.

complessità, e un largo uso di stampiglie, ma quel che veramente li accomuna, al di là del profilo più o meno slanciato, è il collo un poco rigonfio e soprattutto il labbro, svasato e insolitamente sviluppato in altezza. Si tratta della versione locale di una variante di biconico che si è affermata a Vulci nel pieno viii secolo, all’epoca del Villanoviano recente (Fig. 2),5 e che negli esemplari più tardi, sui quali si è finora concentrata l’attenzione, è decorata sulla spalla con brevi solcature verticali (Fig. 3), assai spesso associate a un collo liscio.6 Il labbro assai sviluppato, che già a Vulci tende ad assumere una conformazione a tromba (Fig. 4),7 compare anche nei due ossuari (?) del Museo di Firenze rinvenuti a Sermugnano nel circondario volsiniese, peraltro privi di collo e con spalla più alta del solito, percorsa da un doppio meandro.8 lo stesso credo si possa dire per il curioso biconico con versatoio e anse a paniere, appartenente alla medesima collezione ginevrina (ibid., p. 127, n. 39). Purtroppo si tratta, come nella quasi totalità degli oggetti esposti nella mostra, del prodotto di scavi clandestini di epoca recente. 5 Esempi in M.T. Falconi Amorelli, Vulci. Scavi Bendinelli (1919-1923), Roma, 1983, p. 55, n. 18, fig. 14; p. 64 sgg., n. 29, fig. 19 (qui a Fig. 2). Per echi a Vetulonia: A. Mazzolai, Grosseto. Il museo archeologico della Maremma, Grosseto 1977, tav. ix. 6 Per i riferimenti vedi G. Camporeale, in Atti Grosseto, p. 217 sg., nota 15, e F. Delpino, art. cit., p. 83, nota 15. L’esemplare a Fig. 3 è edito da Falconi Amorelli, op. cit., p. 67, n. 31, fig. 21, e già in Atti Grosseto, tav. xxiv b, a ds. Agli esemplari da Vulci ricordati da Camporeale e Delpino sono da aggiungerne uno ad Amburgo (Kunst der Etrusker, Hamburg 1981, p. 23, n. 1), uno a Berlino (Die Welt der Etrusker, Berlin, 1988, p. 35, A 1.3, inv. F 1352) e uno al Museo Gregoriano (F. Buranelli, in Bollettino dei monumenti, musei e gallerie pontificie xi, 1991, p. 35, fig. 34), assai simile anche per l’assenza di decoro sul collo a quello del Museo Britannico detto da Caere, già esposto nella mostra Campanari del 1837 e con tutta probabilità proveniente anch’esso da Vulci (G. Colonna, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (Atti dell’incontro di studio, Tarquinia 6/7 luglio 1996), Firenze, 1999, p. 55, fig. 19). 7 L’esemplare riprodotto è in Falconi Amorelli, op. cit., p. 67 sgg., n. 32, fig. 22. Il massimo di altezza del labbro è raggiunto nell’esemplare del Museo Britannico (cva , British Museum 7, iv Ba, tav. 3, 16). 8 Camporeale, art. cit., p. 218, tav. xlv b.

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Figg. 3-4. Biconici da Vulci.

Fuori di Vulci e di Orvieto il biconico a labbro marcato è noto solo da esemplari isolati provenienti da Narce e da Chiusi, appartenenti alla variante tarda con solcature sulla spalla e collo liscio,9 sicché è lecito pensare, con Delpino, a un’irradiazione del modello da Vulci verso l’Etruria interna, avente il suo epicentro in Orvieto, dove sembra avere incontrato un più precoce e più intenso successo. Ed è anche lecito pensare che proprio da Orvieto il tipo sia stato trasmesso a Novilara, dove si assiste a una sua riformulazione, in cui il labbro è tanto alto da divenire come un secondo collo, sovrapposto a mo’ di imbuto sopra il primo, mentre il corpo si comprime (Fig. 5).10 Il biconico tipo Novilara riceverà poi nel vi secolo un labbro pendente, finendo con l’assumere la forma ‘barocca’ che nelle tombe di Nu-

Fig. 5. Biconico da Novilara.

9 Riferimenti in Camporeale, art. cit. a nota 5, p. 215, note 15 e 17 sg. 10 K.W. Beinhauer, Untersuchungen zu den eisenzeitlichen Bestattungsplätzen von Novilara, Frankfurt am Main, 1985, p. 267, tavv. 82:A (tomba a cremazione Servici 38) e 153:A (t. a inumazione Servici 107) (qui a Fig. 5).

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mana s’attarda fino all’inizio del v secolo (Fig. 6).11 Minore significato nei confronti della cultura locale ha, sempre all’epoca del Villanoviano recente, il biconico di lamina bronzea riccamente decorata a sbalzo della collezione Chigi, poi confluito nel Museo di Siena, che rispecchia una tipologia tarquiniese.12 Un dato che utilizzerei con cautela, sia perché del tutto isolato, sia perché mi domando quanto sia fondata la provenienza del vaso da Orvieto, dato che la collezione Chigi ha attinto alla fine dell’Ottocento materiali eterogenei dal mercato antiquario, rendendosi responsabile di notevoli equivoci in tema di provenienze: sono state date per ceretane, ad Fig. 6. Biconico da Numana. esempio, antefisse sicuramente di Capua.13 Tuttavia, anche ammessane la provenienza tràdita, bisogna riconoscere che avere la totalità dei (pochi) biconici in terracotta rinvenuti a Orvieto di una morfologia in tutto o in parte rinviante a Vulci è un fatto di assai maggior peso che non la presenza isolata di un biconico metallico di tipo tarquiniese, che può essere arrivato come dono o essere stato comunque acquisito come oggetto di prestigio. Si delinea da quanto detto, pur non dimenticando l’esiguità della documentazione, un rapporto privilegiato, nel Villanoviano recente, di Orvieto con Vulci, e solo secondariamente con Tarquinia, in linea con quello che si è contemporaneamente verificato a Bisenzio.14 Invece a partire dalla fine dell’viii, e soprattutto nel corso del vii secolo, la situazione cambia radicalmente. Orvieto tende ora a gravitare, assieme alla parte orientale e settentrionale della Valdilago, verso la valle del Tevere e l’area falisco-capenate, divenendo il centro geografico di un distretto culturale che si estende da un lato in direzione delle alte valli del Fiora e dell’Albegna, a ridosso dell’Amiata, dall’altro verso Ferento, Terni e la Valnerina. Al bilancio delle componenti di tale distretto, da me tracciato nel 1973,15 hanno successivamente recato qualche incremento Marina Martelli e Camporeale,16 ma il quadro è rimasto immutato, sia nelle sue linee portanti, sulle quali si è registrato un generale consenso, che nelle sue zone d’ombra, di cui la maggiore, 11 R. Vighi, Nuove scoperte di antichità picene, San Severino Marche 1972, pp. 17 sg., 21; D. Lollini, in Popoli e civiltà dell’Italia antica, v, 1976, pp. 150 e 160, fig. 14 (qui a Fig. 6) e tav. 117; S. Stopponi, E. Percossi Serenelli, in Piceni popolo d’Europa, catalogo della mostra di Francoforte, Roma, 1999, p. 93 sg.; G. Baldelli, ibid., p. 218, n. 218, con riferimenti. 12 Camporeale, art. cit., p. 232, nota 105; F. Delpino, art. cit. a nota 2, p. 86, nota 19. 13 Da ultimo C. Rescigno, Tetti campani, Roma, 1998, p. 358, nota 31. 14 Nella prospettiva ben delineata da F. Delpino, in MemLincei s. viii, xxi, 1977. 15 Ricerche sull’Etruria interna volsiniese, «StEtr», xli, 1973, pp. 45-72, e spec. le pp. 51-67. 16 Rispettivamente in Civiltà arcaica dei Sabini nella valle del Tevere iii, 1977, p. 31, nota 69 (a proposito di Chiusi) e in Atti Grosseto, pp. 219-224, con carta di distribuzione a fig. 1. Vedi anche A. Maggiani, E. Pellegrini, La media valle del Fiora dalla preistoria alla romanizzazione, Pitigliano 1985, pp. 51 sgg., 68 sgg., 77 sgg., e per Terni: G. Colonna, «AnnMuseoFaina», viii, 2001, p. 17 sgg.; L. Ponzi Bonomi, ibid., p. 324 sgg. Biconici tipo Terni nella versione frequente a Pitigliano in L. B. van Der Meer, De Etrusken, ’s Gravenhage, 1977, p. 21, fig. 10 (museo di Leida), e in L’art des peuples italiques, cit. a nota 4, p. 154, n. 60.

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dovuta alla scarsità della documentazione, concerne proprio il circondario orvietano. Al che vorrei in questa occasione porre rimedio, cercando di utilizzare al meglio il poco di cui disponiamo. Anzitutto ritengo sia da immettere nella discussione una dimenticata olla stamnoide d’impasto del Museo Archeologico di Firenze proveniente dai “dintorni di Bolsena”, usata a quanto pare come “urna cineraria”.17 Fornita di piede alto, labbro verticale e anse doppie, è decorata a rilievo con rozze figure di animali a stento identificabili (in A una sfinge e quella che il Milani definiva una razza, in B un cavallo), aventi il contorno accompagnato sia all’interno che all’esterno da una sequenza di Fig. 7. Olla dai “dintorni di Bolsena” a Firenze. cerchielli stampigliati, usati anche come cornice superiore del campo (Fig. 7). La cornice inferiore invece è data da un cordone sul quale poggiano gli animali, saldato lateralmente a due altri cordoni che disegnano un allampanato omega,18 pendente da due protomi plastiche di ariete. La concezione delle figure, dal corpo piatto, percorso internamente da solcature, rinvia a moduli stilistici del genere esibito dagli acroteri tardoorientalizzanti di Acquarossa e di Poggio Civitate,19 mentre l’affollamento di cerchielli evoca talune ceramiche d’impasto visentine di vii-vi secolo.20 Al pieno vii secolo risale la nota olla d’impasto a figure incise, con il supposto Bellerofonte appiedato che colpisce la Chimera, proveniente da Orvieto, acquistata dal Museo Archeologico di Firenze nel 1884 (Fig. 8).21 Il vaso è stato considerato un’importazione dall’area falisco-capenate, ma la forma a quanto pare senza anse, con piede alto e colletto cilindrico anch’esso piuttosto alto, la sequenza di grandi figure libere nel campo, senza alcun ornato accessorio, e la stessa iconografia della sfinge e della pantera non sembrano trovare confronti soddisfacenti nella pur ricchissima documentazione di quell’area.22 Molto più verosimile a mio avviso, per il suo isolamento, è che il vaso sia stato prodotto a Orvieto, da un abile artigiano venuto dall’area in questione, nell’am-

17 Museo Archeologico di Firenze, inv. 3496. Il vaso è menzionato da L.A. Milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1912, p. 129, con veduta della faccia A a tav. xvii, in basso al centro. Cfr. anche Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, Milano, 1955, p. 19, n. 55. Le espressioni riportate tra virgolette nel testo sono tratte da un documento d’archivio citato da A. Morandi, Epigrafia di Bolsena etrusca, Roma, 1990, p. 27, nota 37. La foto a Fig. 7 porta il n. 8007 nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza ai Beni Culturali della Toscana. 18 Evocante ben noti “pendagli” piceni (cfr. G. Colonna, in Le necropoli di Praeneste. Periodo orientalizzante e medio repubblicano, Palestrina, 1992, p. 16 sgg.). 19 Cfr. E. Rysted, Acquarossa iv, Stockholm, 1983. 20 K. Raddatz, in HambBeitrArch ix, 1982 [1983], p. 72 sgg., passim. Cfr. anche Montelius, tav. 322:7, da Narce. 21 G. Camporeale, Bellerofonte o un cacciatore?, in Prospettiva 9, 1977, pp. 55-58, con lett.; Id., La caccia in Etruria, Roma, 1984, p. 62 sg., tav. xx (qui a Fig. 8); Id., in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, ii, Roma, 1989, p. 909; I. Krauskopf, in limc iii, 1986, pp. 264 sg., 267, n. 55, tav. 214. 22 Mentre la forma ne trova nella valle del Fiora (G. Matteucig, Poggio Buco, Berkeley and Los Angeles 1951, p. 19, tav. ii: 1; G. Bartoloni, Le tombe di Poggio Buco, Firenze, 1972, p. 18 sgg., n. 6, tav. v b; E. Pellegrini, La necropoli di Poggio Buco, Firenze, 1989, p. 29, n. 29, tav. vii).

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Fig. 8. Olla da Orvieto a Firenze.

bito dei contatti che hanno portato a Orvieto kantharoi e a Chiusi olle e biconici riccamente decorati, anche a excisione.23 Meglio documentata è la più antica produzione orvietana di ceramica dipinta. Interessa al riguardo la testimonianza, risalente alla prima metà del vii secolo, offerta dal corredo di una tomba della Cannicella, anch’esso al Museo Archeologico di Firenze, che l’inventario del museo riferisce a una tomba 5 non meglio identificata e dichiara acquistato dal Mancini nel 1896 (Fig. 9 a-b).24 Il corredo comprende venticinque vasi d’impasto, dei quali ben dieci dipinti in rosso su copertura crema con ornati di stile subgeometrico (Fig. 9a),25 usciti tutti da una stessa bottega per l’omogeneità tecnica e decorativa che li distingue. Il numero dei vasi e la ripetitività di una delle forme – otto esemplari di coppa a vasca profonda con coppia di fori di sospensione sotto l’orlo, oltre a una situla con ansa a ponte e a una grande olla con coperchio – depongono a favore della localizzazione della bottega a Orvieto. Il che ben s’accorda con la forma peculiare sia delle coppe, dal profilo appena rientrante per facilitarne la presa,26 sia della situla (Fig. 10),27 dal 23 A Orvieto: J. W. Hayes, Etruscan and Italic pottery in the Royal Ontario Museum, Toronto 1985, pp. 42 sg., B 20; 64 sg., C 4. A Chiusi: Martelli, art. e loc. cit. a nota 16; Camporeale, Bellerofonte, cit. a nota 21, p. 58, nota 9, fig. 5. 24 Inv. 76932-76989. Ne devo la conoscenza a una parziale ma assai accurata descrizione, fattami cortesemente avere nel 1972, assieme ai dati d’archivio e alla foto riprodotta a Fig. 9a-b, da Marina Martelli, allora ispettrice della Soprintendenza archeologica della Toscana (Colonna, art. cit. a nota 15, p. 58, nota 76). Il corredo, spettante a una ricca inumazione femminile, come provano il rocchetto, le armille e le fibule, è ancora inedito: dopo il cenno in Milani, op. cit., p. 240, vetr. iii (“suppellettile di una tomba arcaica della Cannicella” [sec. vii a.C.; acq. 1895 (sic)]), vedi Camporeale, in Atti Grosseto, p. 219 sg., nota 31, tavv. xlvi a, xlvii a, xlviii; S. Stopponi, in M. Bonamici, S. Stopponi, P. Tamburini, Orvieto. La necropoli di Cannicella, Roma, 1994, p. 27, nota 145. 25 Inv. 76932-76941. 26 Diversamente da quelle di Saturnia e di Poggio Buco, peraltro simili (Ceramiche d’impasto dell’età orientalizzante in Italia. Dizionario terminologico, a cura di F. Parise Badoni, Roma, 2000, p. 110 sg., tav. lx, 2, 3). A Orvieto stessa la forma emisferica compare, priva di decorazione, in una tomba più antica (Fr. Prayon et alii, in aa 1993, p. 34, fig. 45:3). 27 Camporeale, in Mélanges J. Heurgon i, Roma, 1976, p. 102, fig. 2 (con attribuzione all’agro falisco, ribadita in Prospettiva 9, 1977, p. 57); Ceramiche d’impasto, cit., p. 92, tav. xxxv, 3 (da cui la Fig. 10).

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Fig. 9a. Parte del corredo della “tomba 5” della Cannicella a Firenze.

Fig. 9b. Altra parte dello stesso.

corpo rastremato verso il basso, diversamente dal modello falisco e dalle sue imitazioni del retroterra vulcente,28 sia infine dell’olla, dalle anse serpentiformi e dal coperchio 28 La forma ricorda invece quella in voga a Caere (M. A. Rizzo, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, i, Roma, 1989, p. 160, tav. iv d, con bibl.; Ceramiche d’impasto, cit., tav. xxxv: 4), che Camporeale ritiene derivata dal modello falisco (art. cit., p. 102 sg.).

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Fig. 10. La situla di cui a Fig. 9a.

Fig. 11. Olla di ignota provenienza.

con presa di ugual tipo, manifestamente ispirata a un modello chiusino,29 con la variatio dei due uncini a serpentello alternati alle anse.30 Quanto al repertorio della decorazione dipinta, esso s’attiene, a cominciare dal motivo della sequenza di clessidre verticali campite a graticcio, che decora il corpo sia dell’olla che della situla, a modelli falisco-capenati,31 ma se ne distingue per la notevole complessità delle figurazioni animalistiche di tradizione orientalizzante dipinte sulla spalla dell’olla32 e per la raggiera capovolta dipinta alla base sia dell’olla che delle coppe, ottenuta con coppie di fascette convergenti in basso. Aggiungo che un prodotto forse più antico della stessa bottega può essere riconosciuto nella situla del museo di Toronto, di forma quasi identica a quella della Cannicella, ma decorata con un fregio di grandi X trilineari entro pannelli.33 I vasi dipinti della bottega “rosso su bianco” orvietana, di stile subgeometrico, appaiono in conclusione di gran lunga più raffinati di quelli, talora decorati con schematiche figure di cavalli, prodotti nella stessa tecnica e nello stesso stile nell’alta valle del Fiora (Fig. 11).34 In via d’ipotesi li si può riferire a un ceramista che s’ispira in generale a mo29 Camporeale, art. cit., p. 220, tav. xlvii b; G. Paolucci, «AnnMuseoFaina», vi, 1999, p. 284 sg.; A. Minetti, ibid., vii, 2000, p. 130, fig. 8 (è l’esemplare più antico e più simile a quello orvietano); p. 139 sg., fig. 27. 30 Con la funzione di ganci per la sospensione di attingitoi supposta per quelli di un’olla falisca (Kunst der Etrusker, cit. a nota 6, p. 36, n. 22). 31 J. M. Davison, Seven italic tomb-groups from Narce, Firenze, 1972, p. 56, n. 3, tav. xiii a; M. Micozzi, “Whiteon-Red”. Una produzione vascolare dell’orientalizzante etrusco, Roma, 1994, p. 120. Il motivo compare anche nella tarda produzione di Bisenzio (F. Delpino, art. cit. a nota 15, p. 477, nota 93, tav. xvi a; Raddatz, art. cit. a nota 20, p. 162, n. 176, tav. 1: 3). 32 Assai mal conservate. Dalla descrizione della Martelli di cui a nota 24 rilevo l’esistenza di cavalli e capridi bicefali, cavalli e felini rampanti, molti uccelli, un serpente e riempitivi vegetali. 33 Hayes, op. cit. a nota 23, p. 138, E 2. 34 Vedi Montelius, tav. 210: 4, 5; U. Kästner, in Die Welt der Etrusker, cat. della mostra di Berlino, Berlin, 1988, p. 105, B 3.5; Pellegrini, op. cit., p. 157 sgg., nota 38, con bibl. Riproduco a Fig. 11 un esemplare che credo inedito, forse a Villa Giulia (foto G.F.N., E 16326, a sin.).

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delli falisco-capenati, ma che nella sua opera più impegnativa adotta una forma vascolare propria di Chiusi, evidentemente su richiesta del committente, da identificare con la stessa defunta (che penso sia una donna chiusina andata in sposa a Orvieto).35 Il caso è strettamente analogo a quello postulato dalla famosa anfora bronzea proveniente da un’altra importante sepoltura femminile della Cannicella, databile nel tardo vii secolo.36 Con ogni probabilità infatti l’anfora è stata prodotta, come mostra la splendida decorazione sbalzata, da un toreuta meridionale, forse cerite, attivo a Orvieto, il quale per soddisfare i desideri di chi gli aveva commesso il vaso non solo ha replicato una forma in auge a Chiusi, ma vi ha adattato anse fuse che è andato a procacciarsi nella vicina città.37 Tutto ciò rivela il prestigio che un centro di consolidate tradizioni artistiche, al servizio di una forte aristocrazia, quale era la Chiusi di età orientalizzante, esercitava su Orvieto, senza tuttavia riuscire a uguagliare il dominante apporto culturale che promanava dalla bassa valle del Tevere e da Caere. L’arrivo di ceramisti meridionali a Orvieto, nella seconda metà del vii secolo, è provato a mio avviso da tre coppie, non identiche, di grandi vasi d’impasto dipinti, destinati a contenere vino e ad essere esibiti nei banchetti, sulla cui provenienza purtroppo ben poco si sa. Le due coppie più antiche sono di anfore, dipinte nella stessa tecnica “rosso su bianco” adottata per i vasi della tomba 5 della Cannicella, ma con ornati di repertorio orientalizzante, accedute l’una alla Vasensammlung di Monaco di Baviera fin dagli anni della sua fondazione (Fig. 12), l’altra alla fine del xix secolo al Museo Nazionale di Copenhagen, con una provenienza da Orvieto che probabilmente è valida anche per la coppia di Monaco.38 In stridente contrasto con la forma, ispirata alle anfore attiche SOS del tipo “middle”, con una dimostrazione di inatteso aggiornamento culturale, i due fregi decoranti il corpo dei vasi allineano un campionario di motivi imbarbariti, campiti con punti o accompagnati da linee di punti. Si tratta di palmette a malapena riconoscibili, iscritte in archetti desinenti in volute, di palmette fenicie capovolte, trasformate in un bizzarro motivo a omega, di denti di lupo e, relegati quasi esclusivamente nei fregi inferiori, di animali: pesci e lunghi serpenti dalle teste in outline. La loro presenza ha avallato l’attribuzione dei vasi a una presunta bottega del pittore dell’anfora di Amsterdam con Medea e il drago, attivo a Caere intorno alla metà del secolo.39 Ma credo preferibile parlare di un suo allievo, buon ceramista ma mediocre pittore, andato a cercare fortuna nella lontana e più promettente Orvieto. La terza coppia di vasi dipinti di vii secolo riferibili a una bottega orvietana è di qualità assai più elevata. Nel 1928 i due vasi si trovavano sul mercato antiquario romano, da dove uno di essi l’anno seguente è acceduto al Museo Britannico,40 mentre s’ignora la sorte dell’altro, rimasto inedito, di cui esistono fotografie presso l’Istituto Archeologico Germanico di Roma (Figg. 13-14).41 Si tratta di due olle di impasto rosso ad anse verticali su 35 Il rango della donna è indiziato dalla situla, da quello che nella foto sembra un collare bronzeo di bardatura per animale da tiro e dal non comune servizio di vasi da banchetto, d’impasto sia bruno (tra i quali due oinochoai a becco, del tipo che anche a Chiusi è associato all’olla ad anse serpentiformi: cfr. Minetti, art. cit., p. 130, fig. 9) sia dipinto (le otto coppe già ricordate), che le attribuiscono il ruolo di “dispensatrice del vino” all’intemo della casa. 36 B. Klakowicz, La necropoli anulare di Orvieto, ii, Roma, 1974, p. 157 sg. Sul vaso da ultimo G. Paolucci, art. cit. a nota 26, p. 284. 37 Il che ha fatto pensare a una produzione chiusina (G. Camporeale, «StEtr», lix, 1994, p. 39 sgg.). 38 I quattro vasi sono comodamente riprodotti da M. Martelli, in Prospettiva 50, 1987, p. 8 sg., figg. 11-16 (i primi due qui a Fig. 12). 39 Martelli, art. cit., p. 4; Ead., in La ceramica degli Etuschi, Novara, 1987, p. 265. 40 cva , British Museum vii, iv Ba, tav. 9: 2. Cfr. da ultimo I. Krauskopf, art. cit. a nota 21, p. 263, n. 46, tav. 214. 41 Neg. 8369-8371. Su uno dei relativi cartoni oltre alla data 1928 si legge il nome di un antiquario Ferrari.

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Fig. 12. Anfore di ignota provenienza a Monaco di Baviera.

Fig. 13. Olla già sul mercato di Roma attr. al Pittore delle Chimere.

basso piede, dipinte nella tecnica “bianco su rosso” con ampio uso di campiture piene in paonazzo e lineari a tratteggio. La decorazione consiste in due fregi continui di chimere ‘equine’,42 in numero complessivo di dieci, avanzanti tra riempitivi a volute verticali, e in due sequenze pure continue di ornati a scala curvilinea trilineare – un autentico unicum –,43 suddipinte in “rosso su bianco” sulla fascia sottostante ai fregi animalistici, mentre alla base del vaso corrono linee orizzontali. Nell’esemplare inedito tra le chimere del fregio superiore sono inseriti uccelli (un cigno e due aironi) (Fig. 13) e dalla fascia inferiore di ornati a scala pende una serie continua di volute verticali, sostituita nell’esemplare del Museo Britannico da semicerchi allungati penduli, che ricordano quelli presenti in

42 Tipiche dell’agro falisco-capenate. Cfr. Krauskopf, cit., p. 263 sg., nn. 47 c-f, 64. 43 Il motivo sembra essere una personalissima elaborazione di quello consistente in un segmento orizzontale a tratto spesso, dalle cui estremità si dipartono in alto e in basso fascette di sottili linee oblique (il c.d. hyphenated pattern), proprio della ceramica dipinta falisco-capenate (M. P. Baglione, «ArchCl», xliii, 1991, p. 751 sg., nota 68; Micozzi, op. cit. a nota 31, pp. 121 e 282 sg., F 16 e 17, quest’ultimo di grande formato come il nostro e qui riprodotto a Fig. 15). La sua ultima origine è certamente da rintracciare nel meandro a scala di tradizione villanoviana (così giustamente Micozzi, cit., nota 317).

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Fig. 14. Altre vedute della stessa.

ugual posizione sulle anfore della classe della Polledrara.44 Lo stile è chiaramente suborientalizzante, del livello della tomba Campana di Veio e della citata classe della Polledrara, come affermato già dal Pryce,45 ma l’attribuzione a una bottega falisco-capenate, avanzata da tutti coloro che successivamente se ne sono occupati,46 è inconciliabile sia con la forma dell’olla ad anse verticali, sconosciuta in quell’ambiente e invece di casa a Orvieto e nell’alta valle del Fiora,47 oltre che a Chiusi,48 sia col motivo vulcente dei semicerchi di base penduli. Anche per questi vasi si dovrà

Fig. 15. Olla da Narce.

44 Esportate anche a Orvieto (M. Cappelletti, Museo Claudio Faina di Orvieto. Ceramica etrusca figurata, Città di Castello 1992, p. 24 sgg., n. 1). 45 F. N. P(rice), in British Museum Quarterly iv, 2, 1929, p. 31, con incongrua datazione alla prima metà del vii secolo. 46 W. Ll. Brown, The Etruscan lion, Oxford, 1960, p. 44, nota 1; O. Terrosi Zanco, «StEtr», xxxii, 1964, p. 59, n. 4, note 122 e 125; H. Salskov Roberts, in Italian Iron age artefacts in the British Museum, a cura di J. Swaddling, London, 1986, p. 421; M. Bonamici, in M. B., S. Stopponi, P. Tamburini, op. cit. a nota 24, p. 128, nota 160. 47 Bonamici, ibid., n. 48, con i confronti dati nelle note 159 e 161, cui è da aggiungere Raddatz, art. cit. a nota 20, p. 158, n. 139, tav. 27: 1, da Bisenzio, non che l’olla qui a Fig. 11 (l’esemplare da Narce citato dalla Bonamici alla nota 160 del suo contributo appartiene a una tomba che la stessa studiosa a p. 130 attribuisce a un caso di “migrazione individuale” da Orvieto a Narce). A Orvieto la forma dà luogo nel secondo quarto del vi secolo a quella degli “anforoni”, spesso usati come ossuari (Bonamici, ibid., p. 129 sg., nn. 50-52; G. Camporeale, La collezione alle Querce, Firenze, 1970, p. 136 sg., n. 149; Prayon, art. cit. a nota 26, pp. 43 e 67, figg. 59 e 92). Ed è talmente radicata nella tradizione locale che ancora alla metà del iv secolo a.C., o poco prima, è adottata dal volsiniese Pittore di Settecamini nella sua opera eponima (B. Adembri, in Contributi alla ceramica etrusca tardoclassica, Roma, 1985, p. 18 sg.; G. Colonna, in eaa , ii suppl., ii, 1994, p. 592). 48 Alcuni esempi: Ceramiche d’impasto, cit. a nota 26, p. 81 sg., tav. xiii: 6; A. Minetti, Museo civico archeologico di Sarteano, Siena, 1997, p. 43, figg. 23 sg., 26; G. Paolucci, Museo civico archeologico delle acque di Chianciano Terme, Siena, 1997, p. 96, fig. 90.

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pensare al prodotto di un ceramista immigrato, che chiamerei dal soggetto da lui prediletto Pittore delle Chimere, proveniente non da Caere ma dall’area faliscocapenate e dotato di ben maggiori capacità del suo concorrente cerite. Una terza olla ad anse verticali dipinta in “bianco su rosso”, decorata con raggi, una fila di punti, una di archetti intrecciati e un fregio di aironi estremamente schematici in teorie contrapposte, simili a running dogs, inventariata nel museo di Toronto nel 1924 (Fig. 16),49 sembra essere un prodotto più tardo, di inizio vi secolo, ascrivibile a un allievo del Pittore delle Chimere, che assai timidamente si apre alla moda corinzieggiante.50 Quanto sono venuto dicendo induce a ritenere che Orvieto sia stata già nelFig. 16. Olla di ignota provenienza a Toronto. l’Orientalizzante medio e recente un centro non secondario di produzione vascolare, erede in qualche misura, per quanto riguarda le ceramiche dipinte, della illustre tradizione etrusco-geometrica di Bisenzio. In realtà si può azzardare l’ipotesi che ceramisti visentini abbiano dato vita, alla fine dell’viii e nel primo quarto del vii secolo, alla produzione di impasti dipinti della Civita d’Arlena,51 in cui riconosciamo l’antefatto del Gruppo Bolsena, per poi spostarsi almeno in parte a Orvieto, dove sembrano essere stati raggiunti, a partire dalla metà del secolo, dai ceramisti falisco-capenati e ceriti, portatori del nuovo linguaggio orientalizzante. Quanto al Gruppo Bolsena propriamente detto, il cui carattere di tardiva e provinciale standardizzazione subgeometrica è indubbio, ritengo sia da accogliere la sua localizzazione in quello che tra la fine del vii e i primi decenni del vi secolo è divenuto il centro emergente della Valdilago, la Civita di Grotte di Castro, come proposto da Tamburini.52 Ci siamo così avvicinati al momento storico segnato da quell’enorme salto in avanti, rivelatore dell’avvento di una nuova realtà demografica, politica e forse istituzionale, che la comunità orvietana ha compiuto con la progettazione e la realizzazione di interi quartieri di nuove tombe nei preesistenti sepolcreti della Cannicella e del Crocifisso del Tufo. Quartieri organizzati secondo parametri urbanistici e architettonici ispirati a principi di isonomia e di contenimento del lusso funerario, che non arrivano a intaccare la consistenza quantitativa e qualitativa dei corredi, come invece avviene a Veio e tra i Latini, ma condizionano, ancor più dei limiti imposti dalla tecnica di costruzione adottata, le dimen49 Hayes, op. cit. a nota 32, p. 139, E 3. Il vaso appare pesantemente ridipinto. 50 La Bonamici l’attribuisce a Orvieto, ma l’accosta poco credibilmente al Gruppo Bolsena (op. cit., p. 128, ad n. 48) 51 Ora raccolta in P. Tamburini, Un museo e il suo territorio. Il museo territoriale del lago di Bolsena, i, Bolsena 1998, p. 87 sgg., figg. 147, 150a, 151 a,b,c, 153 a. Un biconico della classe, acquistato a Montalcino, si trova a Leida (Camporeale, in Atti Grosseto, p. 210, nota 27; van Der Meer, op. cit. a nota 16, p. 21, fig. 11). 52 Op. cit., pp. 67, nota 5, e 88. Un’olla del gruppo, “trouvé près du lac de Bolsena”, si trova nel Museo di Ginevra, inv. i.591 (W. Deonna, Choix de monuments de l’art antique, Genève 1923, tav. 34 in basso [in Atti Orbetello, p. 125, nota 96, l’ho erroneamente attribuita alla coll. Fol]).

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Fig. 17. Tombe di recente restauro al Crocifisso del Tufo.

sioni e le forme degli edifici sepolcrali, ora regolarmente costruiti soprassuolo. L’argomento, già da me più volte trattato, meriterebbe di essere approfondito, ma non è questa l’occasione per farlo. Rilevo soltanto che la data d’impianto dei nuovi edifici non può prescindere, ma non s’identifica automaticamente con quella della loro utilizzazione, fornita dai corredi, e questo proprio per la loro appartenenza a complessi unitariamente pianificati. Tenendo conto di ciò, e anche dei risultati degli scavi più recenti, compiuti sia alla Cannicella che al Crocifisso del Tufo,53 ritengo che la data dell’impianto, in precedenza da me posta genericamente nella prima metà del vi secolo (invece che alla metà, come proposto a suo tempo dal Bizzarri),54 possa essere oggi precisata intorno al 580-570 a.C.,55 quando ha preso vigore la produzione della ceramica etrusco-corinzia di terza generazione, bene attestata nelle tombe allora costruite,56 in approssimativa e non casuale coincidenza con la data tradizionalmente attribuita all’inizio dell’età arcaica in Etruria. L’impianto delle nuove tombe avviene, come da tempo è stato segnalato,57 nel segno di una forte impronta culturale cerite, evidente sia sul piano urbanistico che su quello architettonico (ed oggi confermata dall’accertamento che la copertura dei dadi avveniva con una terrazza di terra battuta, atta a ricevere più cippi, invece che con un rialzo a tumulo) (Fig. 17).58 Impronta già percepibile nelle rare tombe a camera del tardo vii e 53 Cannicella: Bonamici, op. cit. a nota 46, p. 155 sg. Crocifisso del Tufo: A.E. Feruglio, «AnnMuseoFaina», vi, 1999, pp. 143-145. 54 «AnnMuseoFaina», ii, 1985, p. 110. Alla data del Bizzarri mostra invece di attenersi Anna E. Feruglio (in P. Bruschetti, A.E.F., Todi-Orvieto, Città di Castello 1999, pp. 148 e 151). 55 Mentre la ristrutturazione del settore occidentale della Cannicella, con l’impianto di un secondo ‘strato’ di tombe, sovrapposto al primo, da me posta alla fine del vi secolo (art. cit., p. 110, nota 39), secondo la Stopponi dovrebbe porsi alla fine del v (op. cit. a nota 24, p. 18 sg.), ma gli argomenti apportati non mi sembrano decisivi. 56 Cfr. Stopponi, op. cit. a nota 24, pp. 10 sg., 27, note 37, 46, 147. Nell’indice delle provenienze di J.Gy Szilágyi, Ceramica etrusco-corinzia figurata, ii, Firenze, 1998, p. 752, compaiono 4 vasi di prima e seconda generazione provenienti da Orvieto contro 22 sicuri e 5 incerti di terza. 57 G. Colonna, «StEtr», xxxv, 1967, pp. 22-25. Cfr. anche P. Brocato, ibid., lxi, 1995 (1996), pp. 57-93. 58 Feruglio, op. cit. a nota 54, p. 148, figg. 93, 104, 97 (qui a Fig. 17).

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dei primi decenni del vi secolo, per lo più ipogee, per le quali sono menzionate porte ad arco59 (come nel sepolcreto di Poggio Pesce a Bolsena),60 cuscini bisomi e almeno un caso di piccolo tumulo ad alto tamburo, del tipo rappresentato a Caere dal tumulo delle Cornici di Macco.61 Con l’adozione per così dire ufficiale della tomba a dado come cellula standard della sua necropoli Orvieto diviene l’estrema propaggine del distretto culturale ‘viterbese’ dominato da Caere, che sempre più era entrato in simbiosi con quello ‘tiberino’, facente capo all’area falisco-capenate, a Veio e anche alla Roma del primo Tarquinio,62 in patente e inevitabile contrasto con gli interessi, economici e politici, di città tanto più vicine come Tarquinia e Vulci. Direi che la stessa straordinaria esibizione della scrittura, testimoniata, al di là della loro specifica funzione, dalle iscrizioni apposte sulla fronte delle tombe a partire dal primo quarto del vi secolo63 concorra ad apparentare Orvieto con Caere, la città più ‘letterata’ d’Etruria in età arcaica, e secondariamente con Veio, piuttosto che con le due città confinanti. Delle quali era Vulci quella in più forte ascesa e che, dopo aver esteso il suo dominio sulla valle dell’Albegna, non solo premeva sui centri dell’alta valle del Fiora e del versante settentrionale della Valdilago, cui Orvieto era tradizionalmente interessata,64 ma, precorrendo quello che farà alla fine del secolo Chiusi con Porsenna, nutriva mire espansionistiche verso la bassa valle del Tevere e Roma. A informarcene è la saga dei fratelli Vibenna, una volta spogliata dei suoi risvolti favolistici e avventurosi. In proposito disponiamo fortunatamente della preziosa testimonianza offerta dalle pitture di soggetto storico della Tomba François, sulle quali vorrei soffermarmi ancora una volta, a conclusione di questa relazione. Apprendiamo da esse che il riavvicinamento tra Vulci e Orvieto nel corso della seconda metà del vi secolo, testimoniato tra l’altro dalle produzioni di artigianato bronzistico ricordate all’inizio, non è stato pacifico, ma è avvenuto a prezzo di un duro conflitto, che all’epoca delle guerre contro Roma di iv secolo a.C. appariva agli occhi dei Vulcenti, assuefatti a una lunga amicizia coi loro vicini, come una lotta fratricida, paragonabile all’epica contesa tra i figli di Edipo per il trono di Tebe, resa famosa nel mondo antico dai tragici greci. Credo anch’io infatti che la raffigurazione del fratricidio tebano sulla parte sinistra della parete di fondo dell’atrio (Fig. 18) sia la chiave di lettura dell’intero ciclo pittorico65 e che, come già in passato ho avuto occasione di scrivere, “il messaggio etico-politico [della tomba François] sembra essere quello della concordia e dell’alleanza panetrusca, che sola potrà condurre a una nuova vittoria su Roma-Troia”.66 Ma, a differenza degli altri esegeti, ritengo che l’atroce duello di Eteocle e Polinice trovi il suo corrispondente di età storica non nella minacciata uccisione dell’inerme Tarquinio romano da parte di Marce Camitlnas, dipinta sulla parte destra della stessa parete, bensì nella sequenza di truculente uccisioni raffigurate in pieno svolgimento nel grande quadro della parete destra del tablino, frutto anch’esse di un’azione di sorpresa come quella di Polinice da par59 Stopponi, op. cit. a nota 24, p. 21 sg. 60 Fr. Prayon, Frühetruskische Grab- und Hausarchitektur, Heidelberg, 1975, pp. 59, 61; Tamburini, op. cit. a nota 51, p. 75, fig. 131. 61 Colonna, art. cit. a nota 54, p. 102, nota 3, con datazione troppo bassa, ripresa da Stopponi, art. cit., p. 24. Per la datazione dei dati ceriti vedi ora Brocato, art. cit., p. 83 sgg. 62 Colonna, in Gli Etruschi e Roma. Incontro di studi in onore di Massimo Pallottino, Roma, 1981, pp. 162-165. 63 Se tale è la datazione della tomba di Avile Katacinas (Tamburini, op. cit. a nota 24, p. 75 sg.). 64 Rinvio a quanto ho scritto in Atti Grosseto, p. 201 sgg., e «AnnMuseoFaina», vi, 1999, p. 18 sgg. 65 Come intuito da F. Roncalli, in La Tomba François di Vulci, cat. della mostra, Roma, 1987, p. 93 sgg., e ribadito sia da D. Musti nella relazione tenuta a Montalto di Castro nell’ottobre 2001 nel corso del xxiii convegno di studi etruschi e italici, sia da B. d’Agostino in quella tenuta sempre nell’ottobre 2001 a Sarteano nel convegno sulla pittura etrusca. 66 eaa , ii suppl., ii, 1994, p. 590.

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Fig. 18. Interno della Tomba François di Vulci.

te di Eteocle (Fig. 19).67 Nel quadro vediamo Avle Vipinas e i suoi amici (Rasce e l’anziano Larth Ulthes, dal gentilizio ben attestato a Chiusi)68 colpire a morte Laris Papathnas di Volsinii, Arnth Arcmsnas di Sovana e un Venthi Cal[e?], forse un capo mercenario celtico,69 che tentano invano di difendersi, in quanto, colti di sorpresa alle spalle o nel sonno, sono sprovvisti della spada, come il Tarquinio, mentre Macstrna/Mastarna libera Caile Vipinas. A questa rappresentazione di sanguinosa discordia si contrappone, sulla parete sinistra del tablino, l’esaltazione della concordia ritrovata in campo acheo tra Agamennone e Achille, che ha portato alla vittoria sancita dal sacrificio dei prigionieri troiani in onore di Patroclo. Ad essa corrisponde, sul versante storico, la già citata scena di Marce Camitlnas che, in nudità eroica come quasi tutti gli eroi di parte vulcente, minaccia di morte il soccombente Tarquinio, la cui posizione rannicchiata, col capo rivolto a mo’ di supplice verso l’aggressore (Fig. 20), è praticamente identica a quella del troiano sgozzato da Achille. Ciò significa che l’angolo tra la parete destra del tablino e quella dell’atrio coincide, come sulla parete sinistra, con una soluzione della continuità del discorso narrativo: la vittoria degli Etruschi sui Romani, sancita dalla violenza esercitata sullo spaurito Tarquinio, presuppone la fine delle lotte intestine, cui tanto spazio è dato nel quadro del tablino. Esiste quindi un sistema di rapporti incrociati tra le pitture del fondo dell’atrio e quelle contigue del tablino: il fratricidio tebano rimanda alla strage di Etruschi da parte di Etruschi, l’uccisione minacciata del romano Tarquinio rimanda al sacrificio dei prigio67 Come acutamente rilevato da Roncalli, cit., p. 93, che cita le Fenicie di Euripide per la finta “tessalica” attuata da Eteocle. 68 Colonna, «AnnMuseoFaina», ii, cit., p. 117 sg. 69 cie 5273, Rix, et Vc. 7.30. Ritorno alla lettura cal[- - -] dei primi editori, cui si attiene anche Roncalli (op. cit., p. 89), pur consapevole che con l’integrazione proposta diminuiscono fortemente le alternative possibili per quella del nome del supposto patrono del personaggio. L’identificazione con un mercenario nordico basata sul colore biondo della chioma, oltre che sul fatto di essere l’unico armato dei soccombenti, è di F. Coarelli, «DialArch», s. iii, i, 1983, p. 63 sg., che pensa a un veneto. Ma il nome compare in latino in età assai anteriore alla sincope già nella forma Vendius, per cui è preferibile pensare al termine celtico vindo-, “bianco” (cfr. G. Colonna, «ArchLaz», iii, 1980, p. 54, nota 1).

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Fig. 19. Il massacro dei nemici etruschi di Vulci nel “tablino” della stessa.

Fig. 20. Marce Camitlnas vittorioso su Cneve Tarchunies romano nell’atrio della stessa.

nieri troiani. Nel contempo l’aristeia di Camitlnas, raffigurata nel suo momento supremo, la vittoria sul Tarquinio, introduce per così dire la scena seguente, che è la celebrazione di Vel Saties e della sua gens, dipinta sul contiguo lato corto dell’atrio, attorno e sulla porta della cella in cui giacciono le spoglie degli antenati. Consegue da tutto questo che al per noi sconosciuto Marce Camitlnas, dal gentilizio attestato solo una volta, a Saturnia, e con un suffisso diverso,70 il programma pittorico della Tomba François conferisce un inatteso ruolo di primo piano nel conflitto con Roma dell’età dei Tarquini. L’aporia sembra ammettere una sola plausibile spiegazione: Camitlnas intrattiene uno speciale rapporto col committente delle pitture, è un suo antenato per parte di madre, dato il diverso gentilizio, e solo grazie a lui Vel Saties può idealmente collegare la sua auspicata vittoria su Roma a quella effettivamente ottenuta più di due secoli prima dai Vibenna e da Mastarna.

[I rapporti tra Orvieto e Vulci dal Villanoviano ai Fratelli Vibenna, «AnnMuseoFaina», x, 2003, pp. 511-524]. 70 Come ho segnalato in Atti Grosseto, p. 206 sg., e «DialArch», s. iii, ii, 1984, p. 142.

IL MEDIO ADRI AT IC O : TRADIZ IONI STORIO G RA F IC H E E INFORMAZ IONE S TO RIC A *

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’iniziativa del Progetto “Piceni popolo d’Europa”, cui molto mi onoro di avere contribuito, ha affratellato nel nome della cultura e della storia, che nell’antichità sono state in parte comuni, le due regioni Marche e Abruzzo, superando le artificiose barriere generate da un plurisecolare confine di stato. Credo, o almeno spero, che l’iniziativa in questione abbia recato un non effimero beneficio anche al progresso delle conoscenze, oltre che a quello della loro divulgazione e fruizione. Con questo convegno, promosso dall’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici, l’iniziativa giunge alla fase del dibattito scientifico. È un autentico traguardo, che corona nel modo più appropriato l’intero Progetto, dando spessore alla riflessione avviata con le mostre e i relativi cataloghi, cui hanno collaborato tanti illustri studiosi. Dal convegno ci si attende, ovviamente, un bilancio critico su tutte le tematiche affrontate dal Progetto, che, è utile ricordarlo, ha interessato l’intero ambito territoriale medio-adriatico, all’incirca da Rimini a Vasto, e l’intero arco cronologico precedente la romanizzazione. Per parte mia cercherò di tracciare alcuni lineamenti introduttivi, e del tutto preliminari, nei confronti delle tante questioni che sono sul tappeto e che certamente saranno affrontate nel corso dei lavori da molti altri studiosi. Parlerò principalmente di ciò che gli Antichi credevano di sapere sulla più antica ‘storia’ della regione e di ciò che possiamo da parte nostra faticosamente ricostruire al riguardo, avvalendoci anche dei dati linguistici e archeologici, con margini più o meno ampi di ipoteticità. La prima domanda concerne ovviamente i popoli che hanno abitato il versante medio-adriatico della penisola italiana. In proposito va ricordato che i Greci per lungo tempo hanno conosciuto, sulla costa occidentale dell’Adriatico, soltanto i popoli della Iapigia, dei quali il più settentrionale era quello dei Dauni, e, all’estremo opposto, i Veneti, raggiunti praticando la rotta marittima orientale, lungo le coste illiriche, liburniche e istriane, nell’intento di collegarsi alla via dell’ambra e al grande Nord iperboreo.1 Tra i Dauni, e nelle isole ad essi antistanti, i Greci localizzarono almeno dalla seconda metà del vii secolo, teste Mimnermo, il mitico rifugio di Diomede, esule da Argo dopo il ritorno da Troia. E Diomede divenne ben presto, grazie alla fortuna incontrata tra i Dauni, l’‘eroe culturale’ per eccellenza, civilizzatore dell’Adriatico, di cui i naviganti veneravano la tomba sull’‘isola sacra’ menzionata da Ibico, altrimenti deserta, dove sarebbe avvenuta la sua apoteosi. Isola identificata oggi con sicurezza dagli archeologi croati con Pelagosa, l’isola d’alto mare che possiamo definire come il minuscolo ‘ombelico’ dell’Adriatico, posta a mezza via tra le più meridionali delle isole dalmate e il promontorio del Gargano.2

* Il testo riproduce la relazione letta nella seduta inaugurale del convegno “I Piceni e l’Italia medio-adriatica”, tenuta il 9 aprile 2000 ad Ascoli Piceno. 1 Su questo e su molto di quel che segue rinvio al mio L’Adriatico tra viii e inizio v secolo a.C. con particolare riguardo al ruolo di Adria, in L’archeologia dell’Adriatico dalla preistoria al medioevo, Atti del congresso internazionale (Ravenna 2001), Ravenna, in stampa. Vedi anche M. Luni, in La Dalmazia e l’altra sponda, a cura di L. Braccesi e S. Graciotti, Firenze, 1999, pp. 14-40. 2 Vedi il mio Pelagosa, Diomede e le rotte dell’Adriatico, in ac l, 1998, pp. 363-378.

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La conoscenza greca dei Veneti è provata ugualmente dalla seconda metà del vii secolo, teste l’apprezzamento di Alcmane per le cavalle venete, per poi compiere un grande balzo in avanti con l’ambientazione tra quel popolo, avvenuta certamente assai prima della menzione da parte di Sofocle, di un altro reduce della guerra di Troia, Antenore con i suoi Eneti paflagoni, ecista di Padova.3 I versi di Alcmane precedono di poco la ricognizione del Caput Adriae da parte dei Focei, ricordata da Erodoto (i, 163, 1), che a sua volta è il necessario presupposto dell’apertura alla frequentazione greca, almeno dal 580-570 a.C., in base alle testimonianze archeologiche, dell’emporio di Adria sul ramo più settentrionale del Po.4 Apertura preceduta forse di poco dallo stanziamento degli Cnidii a Corcyra Nigra, la moderna Curzola, a metà strada tra Corcyra e il Timavo. Di tale ‘colonia’ non sappiamo di fatto nulla, ma possiamo facilmente immaginarla fondata con l’appoggio corcirese per contrastare la ‘pirateria’ liburnica, così come la coeva colonia cnidia di Lipari servì ad arginare la pressione etrusca sul basso Tirreno e sullo Stretto. Con l’emporio di Adria la frequentazione greca – focea, cnidia e corcirese – raggiunse il delta padano e ne riscoprì le formidabili opportunità come accesso alle vie d’acqua che conducevano all’interno del continente, già emerse all’epoca della fioritura di Frattesina di Fratta Polesine e dei traffici tardo-micenei. Fu solo allora che i Greci entrarono in diretto contatto sia con gli Umbri/Ombrikoí, considerati i più antichi abitatori del Delta, sia con gli Etruschi padani, che da Bologna tendevano a gravitare sullo stesso spazio marittimo e di fatto, con la fondazione di Spina verso il 530 a.C., si sostituirono del tutto agli Umbri nel ruolo di intermediari tra l’alto Adriatico e il Centro-Europa. Tuttavia nella memoria greca sia Adria, se è là che gli Egineti, seguendo le orme degli Cnidii e soprattutto dei Focei, tentarono nel tardo vi secolo la fondazione dell’apoikia ricordata da Strabone (viii 6, 16), come i ritrovamenti epigrafici del secolo xix lasciano intendere,5 sia Spina, dove fu localizzato probabilmente almeno dai tempi di Ecateo il mitico arrivo dei Pelasgi in Occidente, erano ambientate tra gli Umbri, il cui paese era fatto arrivare addirittura da Erodoto (iv, 19), risalendo il corso dell’Adige e del Mincio, fino al Po (Steph. Byz., s.v. Ombrikoí) e fino allo spartiacque alpino, con un’annessione di fatto del popolo dei Reti, ignorato dall’etnografia greca. La fondazione di Spina e la grande spedizione con la quale gli Etruschi padani, trascinando con sé gli Umbri, i Dauni e «molti degli altri barbari», mossero nel 524 a.C. contro Cuma, sono gli eventi che segnarono l’avvio della talassocrazia etrusca sull’Adriatico. A questa svolta storica ho già avuto occasione di collegare sia la tradizione riferita da Strabone (v, 4, 2) sulla fondazione etrusca del santuario marittimo di Cupra, sia testimonianze archeologiche quali lo specchio vulcente e gli ori etrusco-padani di una tomba principesca di Atri, non che la coppetta di bucchero con iscrizione lac conservata nel museo di Vasto.6 Nei confronti del traffico internazionale ciò significò il rilancio della rotta adriatica occidentale, già praticata dai Dauni e dai Greci d’Occidente lungo le coste italiane, rese ora più sicure e meglio attrezzate per la sosta e il rifornimento delle navi, grazie anche ai santuari emporici di Punta Penna presso Vasto, Cupra e quello non ancora localizzato di Diomede, situato tra gli Umbri a quanto pare nella zona del Cònero, tra Numana e Ancona. 3 L. Braccesi, La leggenda di Antenore da Troia a Padova, Padova, 1984. 4 Cfr. nota 1. 5 Manifestamente priva di ogni riscontro documentale è la recentissima proposta di localizzare la colonia a Rimini (L. Braccesi, in Hesperìa xvii, 2003, pp. 193-196). 6 Il santuario di Cupra tra Etruschi, Greci, Umbri e Picenti, in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica, Atti del convegno (Cupra Marittima 1992), Tivoli, 1993, pp. 3-31.

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Fu allora che gli Egineti e poi gli Ateniesi, divenuti in breve i maggiori frequentatori dei mercati del delta padano e, in via subordinata, di quelli del Cònero, già frequentati dai Dauni, cominciarono ad attraversare l’Adriatico non più all’altezza di Zara o dell’Istria, ma a quella di Làgosta, poco a sud di Corcyra Nigra, facendo scalo a Pelagosa per rendere omaggio a Diomede, come provano i graffiti vascolari di fine vi e di v secolo, rinvenuti dagli archeologi croati.7 Tutto lascia credere che le popolazioni italiche del medio Adriatico furono allora dai Greci assimilate in blocco agli Umbri, già incontrati nell’area del Delta, cui non si esitò ad attribuire un’abnorme estensione geografica, proiettandoli non solo come si è detto, fino alle Alpi centro-orientali, ma anche fino alla costa dell’altro mare, il Tirreno, sì da farne i primi abitatori di gran parte dell’Italia centrale, cui gli Etruschi avrebbero conquistato ben trecento oppida (Plin., n. h., iii, 113). Lo dimostra la tradizione sull’altro grande arrivo di genti esterne ☠’OÌ‚ÚÈÎÔ‡˜, dopo quelli già menzionati dei Pelasgi e degli Egineti, ossia la tradizione sull’arrivo dei Lidi fattaci conoscere da Erodoto (i, 94), arrivo che fu localizzato, come lascia intuire la qualifica di metropolis degli Etruschi assegnata a Pyrgi,8 sul mare che da secoli i Greci chiamavano Tirreno.9 Il mito totalizzante degli Umbri, in quanto gens antiquissima Italiae, preesistente a Pelasgi, Lidi, Etruschi e Sabini,10 trova probabilmente le sue lontane premesse all’epoca delle prime navigazioni greche lungo le coste medio-adriatiche della penisola, tra vi e v secolo a.C. Tuttavia la migliorata conoscenza delle popolazioni rivierasche portò ben presto i Greci a operare alcune pur sommarie distinzioni. Sappiamo che nell’opera geografica di Eudosso di Cnido, il grande scienzato attivo ad Atene nella prima metà del iv secolo, al popolo «confinante con gli Ombrici in direzione della Iapigia» era attribuito il nome di Phelessaîoi.11 Il riferimento obbligato è a un popolo dell’area abruzzese, ma non dell’interno, come nell’ipotesi peligna avanzata a suo tempo da M. Mayer, comportante per giunta un’arbitraria correzione del testo tràdito,12 bensì della fascia costiera. Poiché il phi iniziale denota certamente non una /p/ ma una /f/, fonema estraneo al greco ma ben presente nell’etrusco, nel latino e nell’italico,13 l’etnico può essere restituito latinamente come *Felessaei o *Felessani. Esso rinvia alla base */felesso-/ non altrimenti conosciuta. Tuttavia, tenendo presente l’alternanza /f/-/v/, attestata nell’onomastica etrusca accanto a quella /f/-/h/ e motivata dalla pronuncia labiodentale di /f/, coesistente con quella bilabiale,14 si può confrontarla col nome del progenitore della gens Valeria, venuto a Roma dalla Sabina,15 reso in latino con Uolesus, Uolusus, in greco con Ouélesos16 o Ouólossos,17 forma che utilizza lo stesso suffisso di */felesso-/, in etrusco 7 Cfr. nota 2. 8 Da ultimo G. Colonna, in Scienze dell’Antichità x, 2000, p. 265 sg. 9 Rinvio in proposito al mio contributo sugli Etruschi nel Tirreno meridionale, in stampa negli «Etruscan Studies», ix, 2004 (relazione tenuta a Londra il 10 dicembre 2002 al convegno “Etruscans now” organizzato dal Museo Britannico). 10 Secondo Zenodoto di Trezene (cfr. D. Briquel, Les Pélasges en Italie. Recherches sur l’histoire de la légende, Rome, 1984, p. 459 sgg.). 11 Steph. Byz., s.v. Cfr. quanto ho scritto in Piceni popolo d’Europa, Catalogo della mostra (Francoforte sul Meno), Roma, 1999, p. 10 (= Eroi e regine. Piceni popolo d’Europa, Roma, 2001, p. 10). 12 Cfr. E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937, p. 146 sg. 13 Cfr. nello stesso Stefano Bizantino i lemmi Phalérion, Phalískos, Pherentînos, Phidéne, Phrégella, Phrentanón, ecc. 14 P. Poccetti, «StEtr», lxiii, 1997, p. 289 sg., con bibl., cui è da aggiungere A. J. Pfiffig, Die etruskische Sprache, Graz, 1969, p. 44 sg., § 18.4. 15 G. Colonna, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici, Atti del xxxii Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto, 1993), Napoli, 1996, p. 369 sg., con bibl. 16 Plut., Numa 5, 1. 17 Dion. Hal. ii, 46, 3.

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(chiusino) con Velsi/Velesi,18 né si può trascurare il nome latino Uelesus attribuito a un mitico re degli Euganei, preesistente all’arrivo dei Veneti.19 Il ricorso a mediazione etrusca ovviamente non è pretestuoso per un etnico adriatico, tramandato da un autore presente ad Atene quando ancora erano vivi i rapporti con Spina. La base */veles(s)o/- appartiene a una vasta famiglia lessicale, ricca di derivazioni onomastiche, dal trasparente significato di “buono, nobile”, documentata fin dalla fine del vi secolo a.C. dall’aggettivo volo-/*volaio- e dal corrispondente superlativo volaisumo-, rispettivamente “buono” e “ottimo”, presenti sul cippo enotrio di Tortora come predicati del verbo fufuvod/fufvod, come da me rilevato in occasione del seminario napoletano sul cippo in questione tenuto nel giugno del 1998.20 Ho citato nella stessa occasione, oltre all’aggettivo osco vollo- (< *volio-) della stele lucana di Anzi (Vetter, HdbItDial 184), già chiamato in causa dal Poccetti, l’antroponimo Uelos dell’arcaicissma iscrizione falisca Vetter 246, l’aggettivo uelio- e l’antroponimo Uelaimes della lapide di Crecchio (Marinetti CH 1), infine il superlativo osco valaimo- della defixio di Vibia (Vetter 6) e della tavola di Banzi (Vetter 2, l. 10), passato precocemente in latino a designare per antonomasia, come uolaemo-, una qualità di pere particolarmente pregiata.21 Più specificamente le forme a base *veles(s)o- sembrano richiamare, per l’ampliamento in sibilante della base vel-, l’etnico Volsci (se da *Vel(e)s(i)ci) e il primo elemento del nome del re che secondo Festo avrebbe condotto i Peligni dall’Illirico nella loro sede centro-italica, Volsimus Luculus,22 se si tratta di un superlativo in -mo- del tipo di Uelaimo-, riconducibile alla forma *Uel(e)s-i-mo-. Il che dovrebbe bastare per ridimensionare la tesi della provenienza illirica dei Peligni, rivalutando la discendenza sabina affermata da Ovidio.23 Il confronto più evidente e sicuro per *veles(s)o- resta comunque il nome del progenitore sabino dei Valerii, continuato a quanto pare nel Piceno dalla gens senatoria dei Volusii, illustre in età augustea e giulio-claudia.24 Se ne deduce, credo legittimamente, che il popolo medio-adriatico menzionato da Eudosso nel suo Viaggio intorno alla Terra era di lingua sud-picena e partecipava della stessa sfera culturale e ideologica dei Sabini. La meridionalità, implicita nella localizzazione «verso la Iapigia», fa pensare in primo luogo ai predecessori dei Pretuzi, che, testi le iscrizioni, parlavano sud-piceno alla pari dei predecessori dei Picenti ma, a differenza di quelli, si qualificavano come ‘sabini’, sottolineando un rapporto privilegiato con i loro comuni vicini, insediati al di qua dello spartiacque appenninico. Il che in fondo traspare anche dalla documentazione archeologica, a giudicare almeno da Campovalano, che appare notevolmente vicina alla Sabina culturalmente più evoluta, ossia alla Sabina tiberina. Non sembra infatti che l’Ascolano, nonostante recenti recuperi e riscoperte, di cui va dato merito a Nora Lucentini, possa reggere sotto questo profilo il confronto con il Teramano, almeno per il vi e il v secolo. La stessa elaborazione della scrittura sud-picena, per quanto oggi possiamo 18 Rix, Cognomen, p. 259, nota 19. 19 Serv. Dan. Aen. i 242. Cfr. Schulze, zgle , p. 106. 20 G. Colonna, in M. Bugno, C. Masseria (a cura di), Il mondo enotrio tra vi e v secolo a.C., «Quaderni di “Ostraka”» i, 1, Napoli, 2001, pp. 245-248 (con errata interpretazione delle forme citate nel testo come nominativi singolari invece che plurali). Cfr. anche il cenno di D. Silvestri, ibidem, p. 241, e la trattazione finale degli aspetti linguistici del cippo da parte di P. Poccetti, in M. L. Lazzarini, P. P., L’iscrizione paleoitalica da Tortora, «Quaderni di “Ostraka”» i, 2, Napoli, 2001, pp. 133-138. 21 Già in Catone (r.r. vii 3). Per le altre fonti vedi Colonna, cit., p. 245, con bibl. 22 Paul. p. 248 L. Il secondo elemento del nome, corrispondente al rec. Lucullus, è un derivato in -lo- dal prenome italico Louco-, ora attestato nel volsco dall’accettina di Satricum (G. Colonna, «Eutopia», iv, 2, 1995, p. 11), e non da un’inesistente formazione in nasale (così H. Rix, in anrw i, 2, 1972, p. 721, nota 71). 23 Ov., Fasti iii, 95. Sulla questione le trattazioni più equilibrate restano quelle di F. van Wonterghem, Antiche genti peligne, Sulmona, 1975, pp. 13-15; Id., Superaequum, Corfinium, Sulmo, Forma Italiae, reg. iv, i, Firenze, 1984, p. 35 sg. 24 Aa.Vv., I Volusii Saturnini, Archeologia: materiali e problemi, 6, Bari, 1982.

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giudicare, specialmente alla luce degli adattamenti subiti dal samech per esprimere la vocale intermedia tra /i/ ed /e/,25 è avvenuta a sud del Tronto, dove sono del resto concentrate tutte le iscrizioni più antiche, e anche quelle di maggiore impegno testuale, come appare da Penna S. Andrea. Ma la questione è ancora in larga misura da approfondire, anche alla luce di quel che emergerà dai lavori del convegno. Per parte mia mi limito a constatare che i Pre-Pretuzi – ma meglio sarebbe chiamarli Proto-Pretuzi, non sussistendo validi indizi di discontinuità etnica –, pur proclamandosi ‘sabini’ non hanno tuttavia assunto quell’etnico come nome della loro touta. La quale pertanto, come ha sottolineato da ultimo Prosdocimi nel catalogo della mostra,26 nelle iscrizioni di Penna S. Andrea rimane anonima, è ‘la’ touto e basta. La mia proposta, basata sulla testimonianza di Eudosso di Cnido, è che il suo nome sia stato latinamente *Uelesia o *Uolusia, lessema approssimativamente significante “quella dei Buoni”, con valore non solo laudativo ma discriminatorio, sia sul piano interno, in senso socio-politico, nei confronti di chi godeva di minori diritti, sia verso l’esterno, in senso etnico.27 Quanto al nome Praetutii, chiaramente un eteronimo, la touta chiamata in causa come costituente del composto, ‘dinanzi’ alla quale è insediato quel popolo, in una posizione liminare che sembra sia stata sentita e vantata come di avamposto protettivo, all’opposto della connotazione restrittiva che aveva in greco il termine períoikoi, è una touta considerata come primaria, più antica e più grande, oltre che geneticamente affine: certamente, a mio avviso, la touta dei Sabini proprie dicti, estesa dall’Aquilano alla valle del Velino e alla conca di Norcia, oltre che dalla conca reatina alla bassa valle del Tevere. Touta il cui sbocco adriatico appare in questa luce essere stato piuttosto la valle del Vomano, tenuta dai Pretuzi, che la valle del Tronto, tenuta dai Picenti. In proposito hanno il loro peso anche due considerazioni retrospettive, suggerite dalla storia più recente dei popoli di cui parliamo. La prima è di ordine squisitamente politico: quando i Romani intorno al 300 a.C. decidono di dare un nuovo corso ai loro rapporti con i popoli del medio Adriatico, ottengono l’amicizia dei pur lontani Picenti, coi quali stringono un foedus nel 299 a.C., così come avevano fatto pochi anni prima con gli Umbri dell’ancor più remota Camerino,28 e incontrano invece l’ostilità tanto dei Sabini, di tutti i Sabini, quanto, fatto per noi assai significativo, dei Pretuzi, che vengono debellati assieme ai Sabini nel 290 a.C. e sono costretti alla pari di essi a cedere l’intero loro territorio. Alla base della solidarietà sabino-pretuzia, che ha accomunato le sorti dei due popoli fino alla guerra sociale, distinguendole nettamente da quelle dei Picenti di Asculum,29 sta certamente il rapporto preferenziale, che abbiamo creduto di poter individuare nello stesso nome dei Pretuzi. L’altra considerazione è di natura storico-geografica. I Pretuzi sono chiaramente ‘discesi’ sulla fascia collinare costiera seguendo la via naturale della valle del Vomano – che dopo il Tronto è il maggior fiume della regione –, come risulta chiaramente dall’estensione del territorio che è loro attribuito dalle fonti di epoca romana, rispecchianti comunque una situazione ben più antica. Anzitutto, per quanto riguarda i Vestini trasmontani, ossia i Vestini di Penne e di Angulum, è per lo meno sorprendente che il loro affaccio sul mare sia circoscritto al tratto di costa tra le foci dell’Aterno e del Salino, lungo appena 8 chilometri, contro i 35 della loro ‘radice’ pedemontana, tra Castelli e Castiglione a Casauria. Quel che ‘manca’ ai Vestini è evidentemente l’ager Hatrianus, tenuto 25 26 27 28 29

A. Marinetti, Le iscrizioni sud-picene, i, Firenze, 1985, pp. 50-53; H. Rix, in ArchGlIt lxvii, 1992, pp. 249-251. Piceni popolo d’Europa, cit. (nota 11), pp. 16-18. Analogamente al nome Rasenna per gli Etruschi o Arya per gli Indiani. G. Colonna, «AnnMuseoFaina», viii, 2001, p. 16. Alfieri, cit. (più avanti, nota 31), p. 216 sg.

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dai Pretuzi prima dell’arrivo dei coloni di Hatria.30 Se ci volgiamo a nord, in direzione dei Picenti, la situazione è ancor più sbilanciata a favore dei Pretuzi, dato che il loro territorio a detta di Plinio arrivava fino al fiumicello Helvinum, il moderno Acquarossa, che sfocia tra Grottammare e Cupra Marittima,31 precludendo agli Ascolani qualsiasi affaccio sul mare.32 Sembra logico concludere che i Pretuzi siano gli ultimi arrivati tra le popolazioni insediate sulla costa tra Marche e Abruzzo, costa che hanno in parte sottratto a sud ai Vestini e a nord ai Picenti (Fig. 1), così come i Frentani si sono estesi a nord sulla costa a danno dei Marrucini. L’estensione più che considerevole (quasi 60 chilometri) della fronte marittima tenuta dai Pretuzi, da poco a nord dell’Aterno alle porte del santuario di Cupra, venerato dai Picenti, giustifica in qualche misura l’attenzione ad essi prestata dagli informatori di Eudosso di Cnido. Ma soprattutto, direi, spiega l’offensiva romana del 290 a.C., che dal punto di vista strategico-militare sembra rivolta non tanto contro i Sabini quanto contro i loro alleati Pretuzi,33 nel cui territorio vengono dedotte le uniche colonie originate da quella guerra, Hatria e Castrum Novum. Ma non solo: risistemando il tratto già esistente della via Salaria e prolungandolo da Antrodoco ad Amiternum e da Amiternum a Hatria, si costruisce allora la prima via consolare collegante Roma con l’Adriatico, ossia la via Caecilia, come è stato recentemente ribadito.34 La via, ricalcante a ritroso fino al Passo delle Capannelle il percorso della mitica discesa dei Sabini verso il Tirreno (da Testruna a Cutilia, da Cutilia a Cures),35 col suo prolungamento fino all’Adriatico non fa che ricalcare il percorso che possiamo attribuire ai Pretuzi nella loro discesa verso l’altro mare, per tenere la costa a tutela, si potrebbe dire, dei Sabini, loro riconosciuti progenitori,36 tenendone lontani quei Liburni che secondo Plinio l’avevano in un tempo remoto popolata e dei quali non era sopravvissuto in epoca storica altro che l’insediamento di Truentum.37 Dopo Eudosso di Cnido a informarci di quello che nel mondo greco si sapeva dello stato della regione è il periplo di Scilace di Carianda, giuntoci in una rielaborazione che si tende a datare intorno alla metà del iv secolo a.C. In esso il tratto di costa già attribuito agli Umbri è ancora più drasticamente ridimensionato. A nord il Delta è occupato dagli Etruschi di Spina e dai Celti di Adria, mentre a sud dai confini della Iapigia fino al Cònero la costa è in mano ai Saunîtai, di cui questa è una delle più antiche menzioni giunte fino a noi, di poco posteriore a quella fattane da Filisto a proposito delle ignote città, verosimilmente tirreniche, di Mystía e di Týrseta (Steph. Byz., s.vv.). Evidente è la

30 Cfr. A. La Regina, Ricerche sugli insediamenti vestini, in MemLincei, s. viii, xiii 5, 1968, pp. 368-373; M. P. Guidobaldi, La romanizzazione dell’ager Praetutianus (secoli iii-i a.C.), Napoli, 1996, p. 22 sg. 31 Secondo l’attenta ricostruzione della topografia della regione v fatta da N. Alfieri, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario, Atti della tavola rotonda (Bologna 1979), Como, 1982, pp. 199-219 (ripubblicato in N. Alfieri, Scritti di topografia antica sulle Marche, a cura di G. Paci, Tivoli, 2000, pp. 195-219). 32 Il che a torto, a mio avviso, è stato riferito a “un’azione punitiva” da parte di Roma (così Guidobaldi, cit. [nota 30], pp. 24 sgg., 246). 33 Cui si erano frammisti nuclei di Galli, come ci informano le tombe recenziori di Campovalano (M. P. Guidobaldi, in D. Poli [a cura di], La battaglia del Sentino, Atti del convegno [Camerino-Sassoferrato 1998], Roma, 2002, pp. 395-403. 34 M. P. Guidobaldi, in La Salaria in età antica, Atti del convegno (Ascoli Piceno-Offida-Rieti, 1997), Ascoli Piceno, 2000, pp. 277-290. 35 G. Colonna, in Atti Rieti - Magliano Sabina, pp. 107-112. 36 Così come, in un quadro geografico assai più circoscritto, gli iuvenes dei Veienti sarebbero scesi da Capena in riva al Tevere a fondare il Lucus Feroniae, secondo la tradizione raccolta da Catone. 37 Rinvio alle considerazioni svolte in La Romagna tra vi e iv sec. a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale, Atti del convegno (Bologna 1982), Imola, 1985, pp. 56-58. Il sito di Truentum è oggi noto con precisione (Guidobaldi, cit. [nota 30], pp. 239-246), ma nulla è finora venuto a confortare l’affermazione di Plinio, esplicitamente riferita a tradizioni ancora vive in piena età storica (come nel caso di Mantua etrusca).

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Fig. 1. Carta del Piceno (da Alfieri 1982, con aggiunte).

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presa d’atto del nuovo assetto del Meridione italiano, ma in termini parziali e largamente inesatti per il versante adriatico. L’etichetta di Sanniti, giustificata nei confronti dei Frentani e dei retrostanti gruppi etnici minori dei Carricini e dei Lucanati del Sangro,38 è estesa arbitrariamente ai Marrucini, ai Vestini, ai Pretuzi e ai Picenti, tralasciando del territorio di questi ultimi solo il santuario di Diomede, storicamente legato agli Umbri, e la vicina Ancona. La sopravvalutazione della presenza sannitica riflette ovviamente i radicali sconvolgimenti di cui i Greci erano stati testimoni in Campania e sul basso Tirreno, ma denota anche l’ottica ormai saldamente ‘meridionale’ con cui ormai essi guardavano alle coste medio-adriatiche, sulle orme dell’espansione marittima siracusana. I Saunîtai medio-adriatici del Pseudo-Scilace aprono la strada ai Peuketieîs, menzionati in una glossa penetrata non sappiamo quando né come nel testo del periplo, ma verosimilmente in un ambiente bizantino in cui si leggevano ancora testi di lingua greca andati in seguito perduti. L’ignoto glossatore allude senza dubbio ai Picenti, attribuendo loro un etnico praticamente identico a quello dei Peuceti della Iapigia, così come sappiamo che aveva fatto Callimaco per un popolo dell’area istriano-liburnica.39 Di fatto un papiro rinvenuto in Egitto nel 1934 ci ha restituito un verso e l’intero riassunto di un aition di Callimaco, in cui protagonista è un Romano rimasto zoppo combattendo eroicamente contro i Peuceti che assediavano Roma. La scoperta ha indotto a riesumare un passo di Clemente Alessandrino, in cui si porta come exemplum di resistenza alla tortura il gesto di un Romano che, prigioniero di un Peuketíon, pur di non rivelare alcun segreto lasciò bruciare la propria mano sul fuoco. Ce n’è abbastanza, a mio avviso, per riconoscere in questa storia di Peuceti che assediano Roma, comandati per giunta da un Peuketíon, una versione dell’assedio della città da parte di Porsenna, come sostenuto a suo tempo da Gaetano De Sanctis, tesa a esaltare più del dovuto la partecipazione all’impresa di mercenari e/o alleati picenti. Versione elaborata in un ambiente greco ostile agli Etruschi ed edotto di tradizioni nazionali picenti, da ravvisare con ogni probabilità nella Siracusa di iv secolo, presente nel Piceno con la colonia di Ancona e patria di un esperto di cose adriatiche quale era Filisto. Ma di tutto questo ho già parlato qui ad Ascoli due anni fa nel convegno sulla via Salaria, i cui atti sono da poco apparsi,40 e poi nel catalogo della mostra di Francoforte,41 per cui non sto a dilungarmi ulteriormente. Mi preme soltanto sottolineare, e concludo, che attraverso i Peuceti di Callimaco si schiude la possibilità di recuperare una pagina, altrimenti irrimediabilmente perduta, della storia del Piceno. [Il medio Adriatico: tradizioni storiografiche e informazione storica, «StEtr», lxix, 2003, pp. 3-12]. 38 Sui quali un mio cenno in ac xlix, 1998, p. 82, nota 44. 39 Come ci informa Plinio (n. h. iii 139), senza pronunciarsi sull’esattezza di quella denominazione. 40 G. Colonna, in La Salaria in età antica, cit. (nota 34), pp. 147-153. 41 Id., in Piceni popolo d’Europa, cit. (nota 11), pp. 11 e 158. Cfr. anche quanto ho scritto in La Lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi, Atti della giornata di studi (Chiusi 1999), Pisa-Roma, 2001, pp. 32-35.

DALL’OCEANO ALL’ A DRIAT IC O : M I TO E STORIA PREROMA NA DE I L IG U RI Aåı›Ô¿˜ Ù §›Á˘˜ Ù å‰b ™Î‡ı·˜ îËÌÔÏÁÔ‡˜.

‘e gli Etiopi e i Liguri e gli Sciti mungitori di cavalle’.

L

’ esametro, citato da Eratostene di Cirene, probabilmente nella Geografia, e da lui attribuito a Esiodo (come sappiamo da Strab., vii, 3, 7, C 300), conserva la più antica memoria dei Liguri giunta fino a noi (la lettura §›Á˘˜ dei codici di Strabone è sicuramente da preferire, perché difficilior, alla lettura §›‚˘˜ di un papiro egiziano). Non sappiamo a quale opera del vasto corpus esiodeo, in gran parte perduto, il geografo alessandrino facesse riferimento (penserei all’Astronomia), ma, anche se la paternità del poeta è tutt’altro che certa, difficilmente l’opera sarà posteriore al vi secolo a.C. Il verso elenca non alcuni dei più lontani tra gli alleati di Troia, come qualcuno ha sostenuto, pensando per i Liguri a un quasi sconosciuto popolo caucasico, ma i popoli posti ai confini della terra abitata, nell’ottica di chi, stando in Grecia, riteneva di trovarsi al centro del mondo. A tale scopo sono menzionate le più remote tra le grandi etnie allora conosciute, con una sequenza circolare che segue approssimativamente il movimento del sole: gli Etiopi occupano le estreme regioni dell’oriente e del mezzogiorno (grosso modo da E a SO), i Liguri quelle dell’occidente (grosso modo da SO a NO) e gli Sciti quelle del settentrione (grosso modo da NO a E). La sequenza sarà adeguata da Eforo alla forma quadrilatera, che al suo tempo – la metà del iv secolo a.C. – veniva data alla rappresentazione dell’oikoumene, e ai progressi intervenuti nelle conoscenze geo-etnografiche, per cui come popoli ‘estremi’ sono da lui menzionati nell’ordine Indiani, Etiopi, Celti e Sciti (presso Strab., i, 2, 28, C 34), con il posto dei mitici Etiopi orientali – gli Etiopi di Memnone – preso dagli Indiani e quello dei Liguri dai Celti, che già Erodoto collocava nel più lontano occidente, fuori delle colonne d’Eracle (ii, 33, 3). Ma sappiamo che ancora nel iii secolo a.C. un geografo della statura del citato Eratostene non esitava a chiamare l’intera penisola iberica col nome vetusto di «Liguria» (Ligustiké), mentre nello stesso passo (citato da Strab., ii, 1, 40, C 92) la penisola italiana era da lui già chiamata «Italia» (Italiké), come facevano i Romani. In realtà i Greci di epoca arcaica avevano elaborato il concetto di una ‘grande Liguria’, situata immediatamente al di là dell’Etruria e del mare Tirreno, realtà a loro ben note dai primordi del movimento coloniale, se non prima, ed estesa su tutto l’arco delle restanti coste del Mediterraneo occidentale, fino alle colonne d’Eracle e oltre, in direzione dell’Oceano (Fig. 1). Rivelatori al riguardo sono alcuni lemmi del lessico geo-onomastico di Stefano di Bisanzio, compilato in età giustinianea, ma con larga conoscenza e utilizzazione di Ecateo di Mileto, il grande geografo attivo verso la fine del vi secolo a.C. Nei lemmi tratti esplicitamente da Ecateo leggiamo che Massalia è una «città della Liguria presso il paese dei Celti» (nominati qui per la prima volta), l’ignota Ámpelos dal nome parlante – in un paese grande importatore ma scarso produttore di vino – è ugualmente una «città della Liguria”, Monoíkos (Monaco) è una «città ligustica», gli Elisyci, il cui capoluogo era Narbona, sono un «popolo dei Liguri» (Fig. 2). In uno dei lemmi privi di autore si parla di una Ligustíne, «città dei Liguri vicina all’Iberia occidentale e prossima a Tartesso, i cui abitanti si chiamano Liguri»; in un altro, ancora più manifestamente ecataico, di una Agáthe, «città dei Ligustii [o Ligustini] sul lago Ligustio», precocemente

Fig. 1. I Liguri nella mitistoria.

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Fig. 2. L Liguri nelle loro sedi transalpine e italiane.

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scomparsa, che Eudosso di Cnido nel iv secolo a.C. riteneva potesse essere identica all’omonima colonia massaliota di Linguadoca (la moderna Agde), mentre Filone di Biblo nel i-ii secolo d.C. lo escludeva. La menzione del «lago Ligustio» sembra dare ragione a quest’ultimo, poiché evoca il Licustinus lacus del paese tartessio, citato nel iv secolo d.C. da Avieno nel suo poema sulle coste dell’Europa occidentale, così intessuto di letture e di reminiscenze arcaiche (v. 284), accreditando l’identificazione della città con l’altrimenti ignota Ligustíne della medesima regione atlantica, che in tal caso sarebbe stata così chiamata proprio per distinguerla dall’Agáthe di Linguadoca. Se l’ipotesi coglie nel segno, si guadagna una preziosa testimonianza della presenza massaliota nel paese del buon re Argantonio, il proverbiale amico dei Focei, finora sfuggita all’attenzione della critica, da aggiungere a quella fornita dall’Olbia iberica, ugualmente nota dal solo Stefano, che si è proposto di identificare con l’importante sito archeologico di Huelva (Antonelli 1997, p. 86, nota 46). L’epiteto Ligustina e l’etnico Liguri, attribuiti rispettivamente alla città e ai suoi abitanti, inducono a pensare a un prevalente apporto demografico degli indigeni del luogo. I quali sarebbero stati così chiamati dai Massalioti, quanto mai interessati, a tanta distanza dalla patria, nello stabilire con essi parentele e rapporti di amicizia, evocando il nome del popolo che a suo tempo aveva accolto con benevolenza i Focei fondatori della loro città. Di fatto è praticamente scontato che il concetto della ‘grande Liguria’, di cui restano tracce, come s’è visto, nel corpus esiodeo e in Ecateo, e probabilmente lo stesso nome di Liguri, significante «quelli dalla voce stridente» (Arnaud 1999, p. 16), sia stata un’invenzione dei Focei, e in particolare dei Massalioti, recepita e divulgata dalla scienza ionica in età anteriore alle guerre persiane. Il concetto, ancora affiorante in un frammento della prima tragedia di Sofocle, il Trittolemo (in cui si afferma che al di là del «golfo tirrenico», ossia dell’alto Tirreno, non vi è che «terra ligustica»), fu presto superato, come s’è detto, sul piano geo- ed etnografico, ma conobbe una inattesa e duratura fortuna nel dominio della mitistoria. Ad esso si rifà, forse sulle orme di uno dei primi storici della Sicilia, Antioco di Siracusa, lo stesso Tucidide, quando parla di Liguri insediati sulle coste dell’Iberia, che avrebbero costretto i Sicani ad abbandonare le rive del fiume Sikanós (tradizionalmente identificato con lo Júcar, che mette foce poco a sud di Valenza), per trasferirsi nella lontana Sicilia, da essi popolata per primi, dopo i mitici Ciclopi e Lestrigoni di cui parla l’Odissea: il loro arrivo nell’isola sarebbe avvenuto in età talmente antica che al tempo dello storico quel popolo si riteneva autoctono (vi, 2, seguito da Filisto e da Dion. Hal. i, 22, 2). Una costruzione che trovava evidentemente il punto di partenza in nomi di luogo iberici noti ai Massalioti e registrati già da Ecateo (Steph. Byz., s.v. Sikáne). Più difficile è individuare la fonte di altre speculazioni mitistoriche, che hanno ulteriormente dilatato il già vasto orizzonte geografico della ‘grande Liguria’ massaliota. La più rilevante e ricca di implicazioni è certo la teoria di Filisto di Siracusa, lo storico e uomo di stato che scriveva nella prima metà del iv secolo a.C., concernente l’origine dell’altro e maggiore popolo della Sicilia, i Siculi, già da Antioco messo in relazione, attraverso l’eponimo Sikelós, con la lontana Roma. Anche Filisto, come aveva fatto Tucidide per i Sicani, chiama in causa i Liguri, ma lo fa coinvolgendoli in maniera assai più diretta e riferendosi, conforme alla vulgata che voleva i Siculi provenienti dalla vicina penisola, a un diverso ramo di quella stirpe, a Liguri che avrebbero avuto le loro sedi non sulle coste iberiche ma, cosa che generalmente si omette di rilevare, nell’Italia nordadriatica. Affermava infatti Filisto che i Siculi discendevano da Liguri che erano stati scacciati con la forza dal sopraggiungere di Umbri e di Pelasgi (presso Dion. Hal. i, 22, 4, passo da confrontare con Plin. iii, 14, 12). Il che, oltre a fornire un termine cronologico

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per l’inizio della supposta migrazione alquanto anteriore alla guerra di Troia, consente di identificare il paese d’origine dei migranti con quello concordemente assegnato dalla tradizione etnografica greca agli Umbri, ossia il paese costiero esteso «tra il Po e il Piceno» (Steph. Byz., s.v. Ómbrikoi), includente le note ‘isole’ pelasgiche di Spina e di Ravenna (Colonna 1985, p. 57 sg.). L’ardita idea di un movimento per via di terra che avrebbe portato i discendenti dei Liguri dal delta padano, dalla Romagna e dal futuro ager Gallicus fin nel cuore della penisola e oltre, è stata probabilmente ispirata da un evento contemporaneo di enorme portata per la storia italiana e di sicura risonanza anche nel mondo greco: l’invasione gallica dell’inizio del iv secolo a.C., che aveva fatto arrivare i Galli Senoni fino a Roma e nella lontana Apulia. Grazie allo storico siracusano, testimone potremmo dire oculare di quegli eventi, negli anni della sua disgrazia presso Dionigi il Vecchio trascorsi nell’alto Adriatico, i Liguri sono entrati durevolmente nella mitistoria sia del Lazio, affiancati ai Siculi di Antioco (Fest., p. 424 L) o in quanto progenitori dei locali Aborigeni (Dion. Hal., i, 10, 3), sia e soprattutto della Sicilia, come progenitori dei Siculi (Sil. Ital., xiv, 37-38; Steph. Byz., s.v. Sikelía), suscitando il più vivo interessamento anche da parte dei moderni studiosi di linguistica e di paletnologia. Ma non va dimenticato che la teoria di Filisto presuppone, in primo luogo, un vistoso prolungamento della Liguria mitistorica in direzione appunto del delta padano e dell’alto Adriatico. Il che ha tanto più peso in quanto proviene da uno storico autorevole, che di quelle remote regioni, allora raggiunte in pieno dagli interessi marittimi di Siracusa, e delle loro tradizioni leggendarie aveva avuto modo di acquisire un’esperienza diretta e di prima mano. La maggiore conseguenza storiografica della localizzazione alto-adriatica dei Liguri progenitori dei Siculi sta nell’aver aperto la via a un nuovo e affascinante scenario, destinato a grande fortuna in età ellenistica e romana, quello del rapporto dei Liguri col Po-Erìdano, incentrato sulla figura di Cicno, «re della Liguria» (Hyg., Fab., 154). Questi, afflitto per la tragica fine del parente ed amico Fetonte, figlio del Sole, sarebbe stato mutato in cigno – l’uccello che si reputava cantasse flebilmente in punto di morte – per intervento di Apollo. Il mito, ruotante intorno ai motivi dell’amicizia tra maschi, dell’amore dei Liguri per il canto e della valenza solare ed ‘eroica’ attribuita al cigno, s’innesta su quello, più antico e, alla pari dell’Erìdano, di assai ondivaga localizzazione, concernente la sorte di Fetonte e il pianto senza fine delle sorelle Eliadi, generatore di un bene prezioso quale era la ricercatissima ambra. Mentre il motivo dell’amicizia omosessuale ha l’evidente carattere di uno sviluppo seriore, imputabile a quanto pare al poeta alessandrino Fànocle, contemporaneo di Callimaco, quello dell’amore del canto sembra presupposto già da Platone, che mette in bocca a Socrate nel Fedro la menzione della «stirpe musicale dei Liguri» (par. 237 a): il che ci riporta approssimativamente all’età in cui scriveva Filisto. Quanto all’esaltazione del cigno, si tratta della ripresa di un motivo che fin dalla tarda età del Bronzo, come attestano innumerevoli raffigurazioni, plastiche e disegnative, aveva goduto di un’enorme popolarità in ambito italiano e centro-europeo, in relazione con la barca solare e con le credenze sulla sorte ultraterrena dei defunti, manifestate nello stesso contesto dal diffondersi della pratica rituale dell’incinerazione. Nasce il sospetto che il mito di Cicno trasformato in cigno – conservante solo il nome dell’arcaico Cicno figlio di Ares e rivale di Eracle, di cui più avanti – sia nato proprio nell’Etruria padana, a contatto con i Greci che frequentavano Spina e che ben conoscevano la saga esiodea di Fetonte. Di fatto la plastica bronzea votiva dell’Etruria tiberina e dell’Umbria adriatica conosce tra la seconda metà del vi e la prima del iv secolo a.C., con una frequenza ignota al mondo greco, il tipo del guerriero dall’elmo desinente in un collo di cigno (Messer-

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schmidt 1942, p. 196, tav. 16: 1, da identificare con Froehner 1885, p. 181, n. 897; Colonna 1970, n. 92, tav. 26; Richardson 1983, figg. 381, 383, 393, 399, 411, 420), attribuito col tempo anche a Minerva (Dohrn 1982, p. 62 sg., tav. 42: 1). E conosce altresì il tipo dell’efebo a testa sormontata direttamente da un vistoso collo di cigno, il cosiddetto ‘Swan hero’ (Messerschmidt 1942, fig. 25; Richardson 1983, fig. 868), cui si può accostare, per il casco di piume incise a freddo che sostituisce quasi del tutto i capelli, l’efebo Sciarra, una statua bronzea a due terzi del vero di stile protoclassico (Dohrn 1982, p. 27, tavv. 8-9; Fischer-Hansen 1992, pp. 28-31, con l’avvertenza che per il casco di piume restano valide le osservazioni di Hafner 1954), attribuibile a un artista siceliota operante nell’Etruria tiberina, a Veio o a Volsinii (rinvenuta nel primo ’600 sul Gianicolo, ha buone probabilità di provenire dal lucus dell’infera Furrina e comunque di essere arrivata a Roma coi signa Tuscanica del bottino tratto dalle due città, rispettivamente nel 396 e nel 264 a.C.). Il tipo è ripreso più volte in età ellenistica (Messerschmidt 1942, figg. 20-24, tavv. 15-16), in particolare per figure alate fungenti, in ambito funerario, da portalucerne bronzee o fittili, del genere presente nella tomba dei Volumni di Perugia (Bailey, Craddock 1978, con bibl.). Né manca sulle rive dell’Adige, alle soglie del paese dei Veneti, in una tomba di vii secolo a.C., l’offerta funeraria di un uovo di cigno (Malnati 2000). Così stando le cose è lecito supporre che la metamorfosi del Cicno tessalo o macedone figlio di Ares, ucciso da Eracle perché inospitale e «divoratore di stranieri» alla pari di Polifemo (Eur., Her., 389 sg.), celebrato dallo Scudo esiodeo e da un perduto carme di Stesicoro (Cambitoglu, Paspalas 1994), nel Cicno padano campione di philia, che esprimeva i suoi sentimenti col canto, quasi fosse un buon simposiasta (Paspalas, Cambitoglou 1997), sia avvenuta nella profondamente ellenizzata Etruria padana di tardo vi-v secolo a.C. Quanto alla qualifica di ligure ricevuta dal personaggio, tutto lascia credere che sia sorta nel medesimo ambiente, sulla base di memorie risalenti alle fasi protostoriche dell’espansione etrusca e umbra nella regione (confusamente adombrate da Strab., v, 1, 10, C 216, quando parla di guerre contro «i barbari abitanti intorno al Po»), tornate attuali all’epoca della grande invasione gallica, anche grazie alle prime avvisaglie della parallela avanzata ligure verso il basso corso dell’Arno e lungo la dorsale appenninica tosco-emiliana, che col tempo avrebbe raggiunto la montagna aretina (Polyb., ii, 16, 2). Muovendosi nella scia delle credenze messe in circolazione dallo storico siracusano, Virgilio nell’Eneide farà intervenire i Liguri come unici alleati, assieme ai suoi Mantovani, di Tarconte e degli altri Etruschi partecipanti alla spedizione marittima nel Lazio in soccorso di Enea e dei Troiani. Il poeta dà come capo ai Liguri, che forse immagina discesi per la via fluviale dell’Arno, un figlio di Cicno, Cupavone, dall’elmo coronato di penne di cigno, accompagnato da un Cunar (Aen., x, 185-197), il cui nome è manifestamente ricalcato su quello del monte Cunarus, oggi Cònero, come già rilevava un commentatore antico (Serv. Dan., Aen., x, 186). Il nome sembra scelto per evocare il versante propriamente adriatico della supposta patria dei Liguri, mentre la loro dislocazione di età storica lungo l’intero arco dell’Appennino settentrionale, teatro con le sottostanti pianure, in un non troppo lontano passato, delle estenuanti guerre e guerricciole romano-liguri, è evocata dall’epiteto appenninicola dato a un anonimo figlio di Auno (Verg., Aen., xi, 700). Al quale peraltro non a caso è riservato il carattere negativo della fallacia, attribuito a suo tempo da Catone il Censore all’intero ethnos, a quanto pare anche in relazione alla «inesistenza di una memoria storica» (Mansuelli 1983, p. 8), che rendeva incerto perfino sapere se la sua prima origine fosse da ricercare al di qua o al di là delle Alpi (come rileva Dion. Hal., i, 10, 3). In realtà ai Liguri era riconosciuto un ruolo importante nel controllo dei valichi delle Alpi occidentali e dell’attraversamento degli adiacenti territori, percorsi dalle vie che

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consentivano il transito terrestre dall’Italia alla Gallia (e all’Iberia) e viceversa. Sul piano mitistorico il loro era un ruolo del tutto negativo, coerente, si direbbe, con la feroce ostilità verso lo straniero che connotava il Cicno balcanico, il Cicno prima maniera, ucciso da Eracle. E questi appare di fatto come il grande punitore dei Liguri, considerati i maggiori tra i barbari d’Italia viventi paranómoi, ossia al di fuori delle leggi e del consorzio civile: le terre a loro sottratte per punizione sarebbero state donate dall’eroe a Evandro e agli Aborigeni (Dion. Hal., i, 40, 3). Ma c’è di più. Eschilo in un frammento del Prometeo liberato fa predire a Eracle che l’«esercito» dei Liguri cercherà di fermarlo nel suo viaggio verso il paese delle Esperidi e che gli verranno a mancare frecce e armi da getto, ma avrà da Zeus in soccorso una pioggia di sassi rotondi, scagliando i quali potrà aprirsi la strada (presso Strab., iv, 1, 7, C 183, e Dion. Hal., i, 41, 3). La storiella ha certo un valore eziologico nei confronti dei campi lapidei della Crau, una curiosità naturale osservabile presso il delta del Rodano, ma in primo luogo sottolinea, e proprio nel suo aspetto più discutibile (Posidonio infatti si chiederà perché Zeus non scarichi la pioggia di sassi direttamente sui Liguri), l’esigenza per un eroe culturale come Eracle di ricorrere ad armi del tutto irrituali (lithobolía) perché il nomos possa affermarsi, esattamente come era avvenuto nell’impresa di Gerione (d’Agostino 1995). La mitica ‘battaglia dei sassi’ sarebbe avvenuta per Eschilo, che ragiona ancora secondo la ‘grande Liguria’ massaliota, in un viaggio di andata verso Occidente (per l’impresa delle Esperidi), per Dionigi di Alicarnasso, che pensa ai Liguri di epoca storica arroccati sui valichi alpini, in un viaggio di ritorno (dall’impresa di Gerione). Per altri autori il ritorno con la mandria di Gerione sarebbe avvenuto per la via costiera, passando per Monaco (Serv., Aen., vi, 830), anche perché si parla, tra i rapitori di buoi, di un Alebion (Apollod., ii, 5, 10; Mela, ii, 5, 78), personaggio difficilmente dissociabile dai poleonimi Albium Intemelium e Albium Ingaunum. Altri ancora sembra distinguere tra i barbari delle Alpi, sottomessi da Eracle, e i Liguri nominati subito dopo (Diod. Sic., iv, 19-20): la via allora aperta dall’eroe sarebbe stata la famosa via Eraclea, ricordata già in un’operetta dell’inizio del iii secolo a.C. (Ps. Aristot., de mir. ausc., 85, p. 837 a), e i barbari divenuti garanti dell’incolumità del viaggiatore sarebbero da identificare coi Celti (Braccesi 2001). In ogni caso a testimoniare la devozione rivolta a Eracle nelle Alpi occidentali stanno i molti bronzetti raffiguranti l’eroe, di produzione italica di iii-ii secolo a.C., rinvenuti sia in Piemonte, da Pollentia (Pesce 1936, p. 389, fig. 16) a Susa (Scafile 1964, p. 309, n. 435, tav. i: 1, identico a uno da Sepino) e alla stipe inedita di Borgosesia (Gambari 2001, p. 12, nota 23), sia nella Savoia (Adam 1992, p. 63 sgg., n. 74/04-07, 16, 30-32, 47-48). Un altro e non secondario aspetto della mitistoria dei Liguri concerne il loro rapporto col mare. L’arco costiero loro attribuito si estendeva dai Pirenei alla foce dell’Arno, dove la Pisa etrusca sarebbe stata fondata da Tarconte e Tirreno in un territorio tolto ad essi con la forza (Lycophr., Alex., 1355-1361), su un fiume che ancora all’inizio del iii secolo a.C. era considerato ligure (Ps. Aristot., de mir. ausc., 92, 837 b). A una loro antica proiezione lungo le coste del Tirreno fa pensare la qualifica di ligure data talora a Circe (Eur., Troad., 437), nonché il nome latino dell’Elba, Ilva, cui corrisponde quello di una tribù ligure dell’Appennino, gli Ilvates. Ma i Liguri, secondo quanto da essi sostenuto, facendo a quanto pare uno strappo al loro disinteresse per le origini, avrebbero popolato per primi la Corsica. Il che sarebbe avvenuto dopo che una Ligus mulier, di nome Corsa, pascolante i buoi sulla riva del mare, aveva ‘scoperto’ l’isola inseguendo in barca uno dei suoi animali, che usava allontanarsi a nuoto per poi ritornare meglio pasciuto dei compagni rimasti sulla terraferma (Sallust., Hist., ii, frg. 11 Maurenbrecher; Solin., 3, 3, e soprattutto Isid., Orig., xiv, 6, 41). L’arrivo dei Liguri in Corsica era noto anche a Seneca, che nell’isola fu esiliato e che tuttavia sembra confonderlo con quello degli Etruschi, dato che

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lo considera posteriore alla colonizzazione dei Focei (che avrebbero secondo lui lasciato l’isola per stabilirsi a Massalia): l’apporto demografico dei Liguri sarebbe stato comunque meno rilevante di quello, successivo, degli Ispani (all’epoca del predominio cartaginese?), che avrebbe lasciato maggiori tracce nel costume e nella lingua (ad Helv., vii, 9). Sappiamo inoltre che a loro volta i Corsi popolarono la Gallura e, secondo alcuni, fondarono Populonia sulla costa etrusca (Serv. Dan., Aen., x, 172). Una notevole dimestichezza dei Liguri col mare è presupposta dalle navigazioni che avrebbero compiuto, su navigli improvvisati, spingendosi per commercio nel mare Sardo e in quello Libico (Diod. Sic., v, 39, 8, forse da Posidonio). All’epoca del conflitto con Roma avrebbero praticato anche la pirateria e il commercio degli schiavi, spingendosi con le loro navi a più ordini di remi fino alle colonne d’Ercole (Plut., Aem., 6, 3). La dimensione mediterranea dei Liguri, la loro bellicosità e le scarse risorse del loro territorio danno largamente conto della spiccata propensione mostrata verso il mercenariato. Sappiamo che essi e i loro consanguinei Elisyci di Linguadoca hanno fornito mercenari ai Cartaginesi per la grande spedizione in Sicilia, conclusasi con la sconfitta di Imera nel 480 a.C., cui hanno partecipato anche altri popoli della paralia e delle isole, dai Libici agli Iberi, dai Corsi ai Sardi (Herod., vii, 165; Diod. Sic., xi, 1, 5). È del tutto verosimile che i Liguri abbiano fornito mercenari anche agli Etruschi, all’epoca della talassocrazia sul Tirreno e del dominio sulla Corsica. Uno di loro potrebbe essere stato quel Larth Muthiku, che alla fine del vi o all’inizio del v secolo a.C., ritornato nel suo paese, si è fatto seppellire con una stele iscritta in etrusco e imitante tipi volterrani (Colonna 1998, pp. 261-264). In ogni caso è certo che gli Etruschi conoscessero bene i loro vicini fin da epoca arcaica, poiché l’etnico col quale li designavano, Lecuste, modellato su §›Á˘˜/§›Á˘Â˜, compare spesso nella forma Lecste, esibente la sincope della vocale breve interna: alterazione fonetica che si verifica solo nei nomi entrati in etrusco prima del 480-470 circa a.C. (Rix 1984, p. 216, § 10). Inoltre l’onomastica dell’Etruria settentrionale accoglie fin dalla seconda metà del vii secolo a.C. un nome tipicamente ligure come Keivale, portato quasi certamente da un immigrato (Colonna 1988, p. 154). Bibliografia Adam 1992: R. Adam, in Répertoire des importations étrusques et italiques en Gaule, iv (Caesarodunum 1992, suppl. 62), pp. 1-83. Antonelli 1997: L. Antonelli, I Greci oltre Gibilterra («Hesperìa», 8), Roma. Arnaud 1999: P. Arnaud, Le Alpi Marittime di Nino Lamboglia tra Celti e Liguri, «Rivista di studi liguri», 63-64, pp. 11-19. Bailey, Craddock 1978: D. M. Bailey, P. T. Craddock, A bronze lamp of late Etruscan type, «StEtr», 46, pp. 75-80. Braccesi 2001: L. Braccesi, Eracle fra Celti e Liguri, «Hesperìa», 13, pp. 75-80. Cambitoglou, Paspalas 1994: A. Cambitoglou, S. A. Paspalas, Kyknos i, in limc vii, pp. 970-991. Colonna 1985: G. Colonna, La Romagna fra Etruschi, Umbri e Pelasgi, La Romagna tra vi e iv sec. a.C. nel quadro della protostoria dell’Italia centrale (atti del convegno, Bologna, 23-24 ottobre 1982), Imola, pp. 45-65. Colonna 1988: G. Colonna, L’iscrizione, in F. M. Gambari, G. Colonna, Il bicchiere con iscrizione arcaica da Castelletto Ticino e l’adozione della scrittura nell’Italia nord-occidentale, «StEtr», 54, pp. 130-164. Colonna 1998: G. Colonna, Etruschi sulla via delle Alpi Occidentali, Archeologia in Piemonte, i . La preistoria, a cura di L. Mercando e M. Venturino Gambari, Torino, pp. 261-266. D’Agostino 1995: B. D’Agostino, Eracle e Gerione: la struttura del mito e la storia, «Annali di archeologia e storia antica», n.s. 2, pp. 7-13.

dall ’ oceano all ’ adriatico: mito e storia preromana dei liguri

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NUOVI DATI PER MA RZ A BOT TO

A

proposito della grande novità di questo convegno, il tempio monumentale dell’insula i.5, vorrei dire che la sua classificazione come tempio periptero, messa bene a fuoco da Elisabetta Govi, va tuttavia precisata, se vogliamo attenerci al lessico vitruviano, col termine tecnico di areostilo. Vitruvio se ne serve a proposito dei più antichi templi peripteri romani, ritenuti diversi dai greci non solo perché decorati tuscanico more ma perché i loro portici avevano colonne assai distanziate, sì da apparire per il gusto classicistico come “baricefali”, simili a un uomo che sta a gambe larghe (Vitr., iii, 3, 5), pur con colonne più snelle che nei templi tuscanici.1 Come esempi Vitruvio adduce i due templi che erano ad Circum Maximum, dedicati l’uno alla triade aventina (nel 493 a.C.) e l’altro ad Ercole (forse di età serviana, se ospitava l’Hercules fictilis di Vulca,2 ma ricostruito da Pompeo), affiancando ad essi, evidentemente solo per l’aspetto del portico esterno, quello di Giove Capitolino, che era un tempio tuscanico racchiuso, si potrebbe dire, entro il cerchio di una peristasi, peraltro interrotta in corrispondenza del posticum. Mi sono occupato di questa variante centro-italica del periptero greco a proposito del tempio B di Pyrgi,3 che ne è l’esempio più antico e importante di area etrusca, preceduto da quelli di area campana e laziale. Ma a proposito di questi ultimi citerei non tanto Satrico ii quanto Satrico i, che presenta la particolarità della fondazione delle colonne a nuclei isolati, come questo tempio di Marzabotto, diversamente dalla griglia del tempio C dell’acropoli. Un’altra peculiarità del nuovo tempio sono i due vani oblunghi, retrostanti all’unica cella, per i quali porterei a confronto non solo i vani quadrangolari retrostanti alle celle laterali nei templi tuscanici del tipo del tempio A di Pyrgi e del tempio C di Marzabotto, ma anche i due assai più ampi, estesi sull’intero posticum, che gli scavi recenti hanno mostrato esistere nel tempio di Giove Capitolino.4 È questo un altro elemento, oltre alle proporzioni della peristasi, che da quel tempio, risalente a mio avviso alla prima metà del vi secolo come progettazione d’insieme, si travasa nella tipologia del periptero etrusco-italico. Lo ritroviamo infatti non solo nel nuovo tempio di Marzabotto ma anche nell’Ara della Regina di Tarquinia, la cui pianta ha la forma e le proporzioni di un periptero sine postico, pur essendo schermata da un muro anche sui lati lunghi, e accoglie tuttavia, ma solo nella fase monumentale di prima metà del iv secolo, i due vani oblunghi a ridosso del lato di fondo, separati in questo caso da un vestibolo intermedio.5 Purtroppo, a quanto abbiamo appreso, non abbiamo resti della decorazione architettonica del tempio di Marzabotto tali da consentirne una datazione attendibile. L’impressione è che esso sia più recente del meglio databile dei templi dell’acropoli, il tempio C,6 e che di conseguenza scenda almeno nel secondo quarto, se non alla metà del v secolo. Una datazione relativamente recente per l’accoglimento a Marzabotto di questa tipologia di edificio templare – che anche a Vulci è meno antica di quel che è stato detto, 1 Del diametro di un ottavo (Vitr., iii, 3, 10-11) invece che di un settimo dell’altezza (iv, 2). 2 G. Colonna, «La parola del Passato», xxvi, 1981, p. 47, nota 15. 3 «NSc», 1988-1989, ii suppl. (1992), p. 182 sg. 4 A. Mura Sommella, «Rend.Pont.Acc.», lxx, 1997-1998, p. 62, figg. 5-6. 5 G. Colonna, in Santuari d’Etruria, cat. della mostra di Arezzo, Milano, 1985, p. 72 sg. Il richiamo è già fatto, sulla scorta della prospezione geofisica, da S. Verger, A. Kermorvant, «mefra», 106, 1994, p. 1081 sg. 6 Sulla cui datazione rinvio a quanto detto in «Scienze dell’Antichità», 10, 2000 (2002), p. 316.

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Fig. 1.

credo non anteriore agli inizi del v secolo – sembrerebbe postulata dal tempio A dell’acropoli, che i nuovi scavi fanno ritenere anch’esso un periptero con cella unica e che Lippolis, come abbiamo sentito, colloca all’ultimo posto nella sequenza dei templi e dei ‘podii’ di quell’area sacra. In proposito devo dire, aprendo una parentesi, di aver appreso con molta soddisfazione che la struttura E si è rivelata essere anch’essa un tempio, il terzo tempio dell’acropoli, come avevo proposto anni fa, andando contro l’interpretazione vulgata come struttura di sostegno della parte più alta della collina. Tempio che Lippolis pone in un momento iniziale dell’occupazione sacra della terrazza dell’acropoli, subito dopo il ‘podio’ B, mentre il tempio A andrebbe a suo avviso nella fase finale. Ma sulle argomentazioni addotte, esclusivamente di carattere topografico, non vorrei per ora pronunciarmi.7 L’impressione di recenziorità è suggerita anche dalle dimensioni, non commensurabili a quelle dei tre piccoli templi dell’acropoli, e dalla stessa, preziosa iscrizione col nome del dio Tina, in cui giustamente Sassatelli riconosce il titolare del grande tempio urbano. La fonetica (tin® in luogo di tina®) richiede infatti, nonostante l’aspetto arcaico della nasale, una datazione non anteriore al secondo quarto del secolo. Ma a proposito di iscrizioni vorrei intervenire anche sulla questione del nome antico di Marzabotto, suscitata da Beppe Sassatelli. La questione nasce dal ritrovamento di una seconda iscrizione, dopo quella pubblicata da me molti anni fa (ree 1974, n. 44), contenente la forma kainuaıi, in cui avevo creduto di riconoscere il nome della città al locativo, nella nuova iscrizione scritto col theta a circolo con punto interno (Fig. 1). Al riguardo devo dire che la successiva scoperta dei cippi di Rubiera mi ha fatto cambiare opinione, poiché nel più recente dei due cippi, databile nel primo quarto del vi secolo, la sequenza finale zilaımi7 La lettura del contributo di Lippolis apparso in D. Vitali, A. M. Brizzolata, E. Lippolis, L’acropoli della città etrusca di Marzabotto, Bologna, 2001, che all’epoca del convegno non conoscevo, mi induce a pensare che il tempio E, per la sua collocazione in uno spazio residuale della terrazza, ampliato col ricorso a costose opere di sostruzione, sia l’edificio più recente dell’intero complesso. La sequenza più attendibile a mio avviso è podio B - tempio A e tempio C - podio D - tempio E.

nuovi dati per marzabotto

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salalatiamake, intesa da Carlo De Simone come «Zilath io a Sala fui», con un inspiegato e inspiegabile passaggio del discorso dalla terza alla prima persona,8 è stata invece da me intesa come «zilath a Misala (o Misa) fu»: il riferimento sarebbe al personaggio di cui immediatamente prima della sequenza citata resta la finale del nome individuale, fungente probabilmente da gentilizio, [- - -]enke, finale nota anche da altri nomi personali e di luogo di area padana.9 Non c’è bisogno di sottolineare che *Misala (e meglio ancora *Misa, ipotizzando la diplografia misala(la)ıi) richiama il toponimo moderno Pian di Misano portato dal sito di Marzabotto. All’ipotesi che il poleonimo in questione si riferisca a Marzabotto Beppe, col quale ho discusso la cosa, obietta che quell’abitato non poteva essere così importante all’inizio del vi secolo da avere uno zilath. Ma mi permetto di dire che giudizi di questo genere hanno sempre un ampio margine di soggettività: un sito in apparenza trascurabile può essere stato un centro di potere politico e istituzionale, indipendentemente dalla sua consistenza demografica e urbanistica, come nel caso emblematico della greca Panopeo.10 Ed è indubbio che non si andava dall’Etruria toscana a Bologna senza il consenso dei signori di Marzabotto, o della comunità dei valligiani di Marzabotto, che erano in grado di controllare a pieno titolo le comunicazioni tra i due versanti appenninici nel settore geografico in questione. L’aver esercitato lo zilacato a Marzabotto non esclude affatto che il personaggio sia venuto da Rubiera e vi abbia in seguito fatto ritorno, dove sembra, ma non è certo, che sia stato sepolto. Se questo è vero, occorre ripensare al nome di luogo cui si riferisce il locativo kainuaıi. La base kainu- è del tutto isolata in etrusco, dato che l’aspirata iniziale invita a tenere da parte, in linea di principio, il nome personale ¯ainu di Vulci (et Vc 2.45). Mi domando allora, così a caldo – non sapevo nulla finora di questa iscrizione – se non si debba pensare all’aggettivo greco ηÈÓfi˜, e anzi al neutro ηÈÓfiÓ, usato non di rado come toponimo o poleonimo, tra l’altro anche nel Lazio arcaico: in Livio Caenon è il nome di un porto nei pressi di Anzio, espugnato dai Romani nel 468 a.C. (ii, 63, 6), che già da tempo ho proposto di intendere come il ‘nuovo’ porto della città,11 si identifichi o no con Nettuno come pensava il Lugli. Il nome potrebbe essere stato attribuito, in un clima fortemente ellenizzante quale è quello dell’Etruria padana di v secolo, alla ‘nuova’ città di Marzabotto, la Marzabotto ii di Mansuelli, la Marzabotto totalmente ricostruita col grande piano ortogonale, in cui è incluso il tempio ora scoperto. Il nome greco sembra essere stato etruschizzato con il suffisso -ua, di cui il Rix, come sapete, ha negato l’esistenza, riconducendone le occorrenze a forme plurali che hanno perso la consonante iniziale del suffisso -¯va per effetto del contatto con un suono palatale. La spiegazione vale per il nome di Capua12 ma incontra difficoltà per quello di Mantua, derivato da un teonimo di cui ora è attestata la forma etrusca, Manı.13 Comunque sia, mi pare verosi8 Le iscrizioni etrusche dei cippi di Rubiera, Reggio Emilia, 1992, p. 14. 9 Ne ho scritto negli Atti dell’xi congresso internazionale di epigrafia greca e latina, Roma 1997, Roma, 1999, p. 445 sg. 10 Da me ricordato in La formazione della città preromana in Emilia Romagna, Bologna, 1988, p. 15. 11 In Die Göttin von Pyrgi, Firenze, 1981, p. 21, nota 18. Cfr. M. Guaitoli, «ArchLaz», vi, 1984, p. 381. 12 G. Colonna, in Storia e civiltà della Campania. L’evo antico, a cura di G. Pugliese Caratelli, Napoli, 1991, pp. 36-38. 13 ree 1999, n. 33. Rileggendo il testo registrato mi accorgo che in realtà è possibile applicare anche a *Kainua, e forse a Mantua, la citata «legge Rix», poiché entrambi i nomi possono essere intesi come esito, posteriore alla sincope interna, di plurali in -¯va di forme uscenti in -e. Per *Kainua nulla vieta infatti di pensare alla base K·ÈÓ‹ (fiÏȘ) e alla trafila *Kaine¯va > *Kaineva > *Kainva > Kainua. Per Mantua va osservato che l’adattamento del teonimo a poleonimo può giustificare la base ampliata *Manıe (cfr. la forma *Araıe che è alla base del gentilizio Araıenas) e quindi la trafila *Manıe¯va > *Manıeva > *Manıva > Mantua. Il plurale non meraviglia per un poleonimo anche quando questo ha per base un teonimo (basti pensare ad Athenae).

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mile che al nome più antico della città, sopravvissuto in età moderna nel toponimo Misano, sia venuto ad affiancarsene uno recenziore, specificamente riferito alla città bassa, la città rifondata verso l’inizio del v secolo.14 Da ultimo vorrei sottolineare l’importanza di quello che è stato detto sull’esistenza di una fascia periferica, interna ed esterna all’abitato, interamente riservata ai culti. La cosa mi sembra evidente, dato che oltre ai templi dell’acropoli e al santuario fontile abbiamo il tempio scavato da Sassatelli e dalla Govi, le testimonianze indirette di un’altra installazione sacra di cui hanno parlato Malnati e la Desantis e il possibile tempio intravisto da Lippolis, che urge verificare. Una parte non secondaria dell’insediamento era quindi riservata ai culti e forse anche ad altre attività di interesse pubblico, il che conferma definitivamente che Marzabotto è stata a tutti gli effetti una polis, uno spura, né più né meno di Bologna. La sua collocazione territoriale induce a far pensare che era una città interessata ai rapporti non solo con Bologna ma anche col Modenese, e il Modenese significava la via di Mantova, significava andare al Po senza sottostare ai Bolognesi, restando fuori del sistema Bologna-Spina. Marzabotto era sede di fiorenti attività artigianali, come ci hanno confermato le belle relazioni di questa mattina, ed era un centro di smistamento di manufatti. Mi pare che sia stato alquanto ridimensionato il discorso sulle risorse minerarie del circondario, risorse che non c’era bisogno di andare a cercare in loco, dato che potevano arrivare senza difficoltà dall’Etruria. Le scoperte di Prato sono molto significative al riguardo: direi che quell’insediamento non ha senso se non in relazione con l’opposto versante appenninico, e in primo luogo con Marzabotto. Ci sarebbe in realtà da parlare su tutte le relazioni che abbiamo ascoltato, ma non voglio abusare troppo del tempo disponibile e quindi a questo punto mi taccio. [Intervento in Culti, forma urbana e artigianato a Marzabotto. Nuove prospettive di ricerca (atti del convegno di studi, Bologna, 3-4 giugno 2003), a cura di G. Sassatelli e E. Govi, Bologna, 2005, pp. 317-320].

14 Quanto detto presuppone che l’iscrizione da me pubblicata sia anch’essa di v e non di vi secolo, come risulterebbe dalla stratigrafia: si dovrà pensare a un’intrusione dovuta all’impianto del muro di v secolo che taglia lo strato preesistente.

TRA ET RUSCHI E C E LT I. LE DUE FACCE DELLA LIG U RIA PRE RO M A NA

H

o aderito assai volentieri a questo convegno sui “Ligures Celeberrimi”1 e avrei voluto recare ad esso, come l’occasione avrebbe meritato, un contributo adeguato. Ma per forza di cose, data la mia scarsa dimestichezza con l’archeologia ligure, temo che quanto da me detto risulterà piuttosto sfocato, denotante un osservatore non distratto ma pur sempre lontano. Tutti sappiamo che i Liguri sono stati una delle grandi etnie dell’Italia antica e non solo di essa: possiamo parlare, senza tema di venir tacciati di panligurismo, dell’intero Occidente. Un’etnia insediata da sempre a cavallo di un ampio settore dell’arco alpino, e non a séguito di una dislocazione relativamente recente, che ha preso le mosse da sedi transalpine, come nel caso degli Insubri e degli altri Celti d’Italia, venuti secondo la tradizione liviana con Belloveso, oppure partita in senso inverso da sedi cisalpine, come nel caso dei Reti, secondo la tradizione pure liviana che ne faceva degli Etruschi fuggiti dalla Valle Padana dinanzi all’incalzare dei Galli. Per i Liguri non si è mai parlato di spostamenti e migrazioni di grande portata, a parte la teoria di Filisto di Siracusa che ne dilatava il già enorme spazio geografico ad essi attribuito dalla etnografia degli Antichi, facendone i progenitori dei Siculi, arrivati in Sicilia dall’alto Adriatico dopo aver attraversato diagonalmente l’intera penisola (Dion. Hal., i, 22, 4). Una suggestione apparentemente scaturita anch’essa, come quella sull’origine dei Reti, dall’osservazione degli eventi di fine v-prima metà del iv secolo, che avevano visto irrompere i Galli sullo scenario italiano e sciamare dalla Romagna almeno fino al basso Lazio e all’Apulia, con l’appoggio più o meno esplicito di Siracusa. Anche prescindendo da questa ardita congettura, che rivoluzionava la mitistoria d’Italia ma che, alla pari dell’ipotesi autoctonista circa l’origine degli Etruschi, probabilmente dovuta allo stesso autore (da ultimo Colonna 2002, pp. 100-105), non ebbe una duratura risonanza, i Liguri restarono nell’immaginario degli Antichi «il maggior popolo dell’Occidente prima dei Celti» (Wikén 1937, p. 86), insediato in tempi remoti dalla penisola iberica all’arco alpino e alle terre padane, attraversate dal favoloso fiume dell’ambra, l’Erìdano, ad essi collegato nel mito di Cicno e di Fetonte (Colonna 2004a, p. 12 sg.) (Fig. 1). In realtà i Liguri hanno abitato in epoca storica un areale più ristretto, ma pur sempre di notevolissima estensione, che andava dai Pirenei all’Appennino tosco-emiliano e alle sorgenti dell’Arno, a contatto a ovest del Rodano con gli Iberi, a est della Lunigiana con gli Etruschi e con gli Umbri. Di fatto occupavano la frangia meridionale di quello che possiamo definire il ‘continente’ celtico, e in particolare la sua facciata marittima, la sua paralía, bagnata dal mare che da essi aveva preso il nome di Ligustico, col quale era universalmente noto nel mondo antico. Tuttavia, nonostante tale collocazione geografica, le fonti letterarie conservano scarso ricordo di una proiezione marittima dei Liguri. Un’eccezione è il rapporto col mare, peraltro sostanzialmente ‘passivo’, indiziato dai

1 “Ligures celeberrimi. La Liguria interna nella seconda età del ferro”, tenuto a Mondovì dal 26 al 28 aprile 2002 e organizzato con tanto impegno e passione dagli amici Filippo M. gambari e Marica Venturino. Gli Atti del Convegno, curati da quest’ultima e da G. Gandolfi, sono stati pubblicati nella “Collezione di Monografie Preistoriche e Archeologiche” dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri (xiii, Bordighera 2004).

Fig. 1. I Liguri nella mitistoria.

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tra etruschi e celti. le due facce della liguria preromana

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reclutamenti di mercenari, da parte soprattutto di Cartagine (Herod., vii, 165; Diod., xi, 1, 5), ma anche di Siracusa (Diod., xxi, 3, 1) e verosimilmente degli Etruschi, come dirò, alla stregua di quel che accadeva per tutti gli altri popoli costieri e insulari della stessa area, dagli Iberi ai Balearici e ai Corsi. Con questi ultimi si riteneva che i Liguri fossero collegati da un rapporto di parentela, di vera e propria syngeneia. Secondo una tradizione presente già in Sallustio (Hist., ii, frg. 11 Maur.), ma riferita più estesamente da Isidoro di Siviglia (Etym., xiv, 6, 41), i Corsi si consideravano discendenti dei Liguri, che avrebbero popolato l’isola dopo che una Ligus mulier, di nome Corsa, pascolante una mandria di buoi sulla riva del mare, l’aveva ‘scoperta’ inseguendo in barca uno dei suoi animali uso a prendere il largo, per poi far ritorno meglio pasciuto dei compagni rimasti sulla terraferma.2 Il racconto ha più di un punto in comune con quel che narrava Filisto sull’origine dei Siculi: Siculi e Corsi sarebbero dei Liguri, giunti nelle rispettive isole guidati dal personaggio che avrebbe loro dato il nome, Sikelos (già noto ad Antioco, che lo faceva provenire da Roma) nel caso dei Siculi, Corsa in quello dei Corsi. Le differenze mettono in rilievo la maggiore ‘barbarie’ dei Corsi, che hanno un rapporto per così dire involontario col mare, un’economia in cui l’allevamento occupa un posto preponderante (anche nelle brevi pianure costiere) e soprattutto un tipo di società in cui alla donna compete un ruolo ‘forte’, in sintonia con quanto altrimenti era noto tra i Greci, per tramite massaliota e siracusano, sui costumi dei Liguri (fonti in Ampolo 2004, p. 17 sg.). Ruolo che tuttavia non bastava a fare di Corsa il dux a pieno titolo dei migranti, poiché la donna sarebbe stata a sua volta guidata da un animale, mitema questo di indubbia matrice totemica, che ricorda l’etnonimo dei Liguri Taurini e soprattutto l’istituto italico del ver sacrum. Nello specifico, l’animale chiamato in causa essendo un bos taurus, si pensa alla versione di esso concernente i Sanniti e Bovianum (Colonna 1996), forse confusamente adombrata già nel tardo v secolo da Ellanico a proposito del nome Italia, inteso come «terra dei buoi» ma collocato in una cornice etnico-geografica che restava circoscritta alla Magna Grecia ‘ausone’.3 Ne discende che fonte di Sallustio potrebbe essere stato lo stesso Filisto, il primo autore greco che aveva pronunciato con certezza il nome dei Sanniti4 e che nei suoi Sikeliká non poteva non aver parlato della Corsica, oltre che dell’Elba (Steph. Byz., s.v. Aithále), a proposito delle imprese dei Siracusani nell’alto Tirreno.5 In Seneca, che scrive dei Liguri e della Corsica durante il lungo esilio nell’isola cui era stato condannato da Claudio, s’incontra una curiosa aporia: nell’avvicendamento dei popoli che avevano abitato l’isola in epoca storica i Liguri sono nominati dopo i Focei e prima degli Hispani, che avrebbero lasciato una traccia più consistente nel costume (copricapi e calzature) e nel lessico (ad Helv., viii, 8). Sembra evidente che i Liguri di Seneca siano, alla pari dei Focei e degli Hispani, diversi dagli accolae, ossia dagli indigeni Corsi, nominati nello stesso passo. Poiché il filosofo non fa parola né del dominio 2 L’origine dei Corsi era riportata ai Liguri anche da Pausania, secondo il quale l’isola era «chiamata Corsica dai §ÈÁ‡Â˜ [codd. §È‚‡Â˜] che l’abitano», e da Solino (3, 3). Cfr. Zucca 1996, p. 30 sg. 3 Eracle avrebbe dato il nome Italía al paese attraversato nell’inseguire fino in Sicilia un vitello fuggito dalla mandria di Gerione, credendo che il nome proferito al suo arrivo dai Siculi si riferisse non all’animale, ma al paese da cui esso e loro stessi erano venuti (Dion. Hal., i, 35, 2 e, per la provenienza dei Siculi, i, 22, 3). 4 Esteso a includere arbitrariamente gli Ausoni da Strabone o dalla sua fonte, a proposito del nome di Reggio e della distruzione della Metaponto pilia (cfr. Tagliamonte 1996, p. 30 sg.). A Filisto, che probabilmente considerava autoctoni gli Etruschi e li faceva discendere da un Tirreno ausone (Colonna 2002, p. 99 sg.), dovrebbe risalire l’abnorme attribuzione agli Etruschi del nome Italía, di cui è rimasta traccia in una glossa (Apollod., bibl., ii, 5, 10: cfr. Tz., Chil., ii, 345). 5 Si noti che il nome dato dagli Etruschi ai Corsi, *Kurse/Kursike, certamente modellato sul loro autonimo, è ora attestato da un’iscrizione di pieno v secolo a.C. (Maggiani 1999, pp. 47-51).

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etrusco sull’isola né di quello punico, e poiché d’altra parte sappiamo da Sallustio (hist., ii, frg. Rylands) e da Pausania (x, 17, 5) che gli Hispani si stabilirono in Corsica in quanto mercenari/alleati dei Cartaginesi, è lecito supporre che i Liguri di Seneca siano venuti nell’isola assai dopo i loro consanguinei che avrebbero dato origine alla popolazione locale e si siano stabiliti in essa allo stesso titolo degli Hispani, ossia come mercenari, ma al seguito degli Etruschi.6 Indirettamente Seneca, reticente forse pour cause riguardo ai due popoli che erano stati al centro degli interessi eruditi dell’odiato Claudio, ci trasmette una notizia di grande rilevanza storica per i rapporti tra Etruschi e Liguri, sui quali tornerò più avanti. L’autore più informato sulla presenza etrusca in Corsica, Diodoro Siculo, è anche l’autore del più ampio excursus etnografico sui Liguri giunto fino a noi. In esso si parla di avventure marinare di quel popolo, ma solo per sottolinearne il coraggio e, direi, l’innato sprezzo del pericolo: su barche improvvisate – del genere, si direbbe, di quella della mitica Corsa – si sarebbero spinti per commercio fin nel mare di Sardegna e addirittura in quello di Libia (v, 39, 8). Strabone tace di queste navigazioni solitarie, ma afferma, a proposito di Pisa, che i suoi abitanti erano avvezzi al mare e bellicosi più degli altri Etruschi a causa dell’«incomoda» vicinanza dei Liguri, portatori evidentemente per lui delle stesse attitudini (v, 5, 223). Del resto si narrava che i Corsi, da molti ritenuti loro discendenti, come si è visto, oltre a popolare la Sardegna nord-orientale avevano, secondo una tradizione riferita dal solo Servio Danielino (Aen., x, 172), fondato Populonia sulla costa toscana, evidentemente prima della fondazione di Pisa da parte di Tirreno e di Tarconte. Di questa antichissima mobilità, all’interno di quello che in seguito si sarebbe chiamato mare Tirreno, i moderni hanno creduto di trovare una conferma nel nome indigeno dell’Elba e della Maddalena, Ilva, la cui base ritorna nel nome di una delle maggiori tribù liguri dell’Appennino, gli Ilvates dell’Emilia occidentale. Quando tuttavia si scende in età storica, il ricordo della vocazione marittima dei Liguri diviene piuttosto evanescente. A compiere razzie sulle coste etrusche, specialmente pisane, sono per Strabone (v, 2, 7, 225) i Sardi (o, se si vuole, i Corsi di Sardegna, abitanti la Gallura). Nel periplo di Scilace, che scriveva nell’età di Dario, non v’è posto per i Liguri: il dominio costiero degli Etruschi subentrava a quello massaliota a partire da Antion, che identifichiamo ormai concordemente con Antipolis/Antibes, e si estendeva pertanto sull’intera fronte marittima della regio Liguria (Bonamici 1996, pp. 37-42). E l’archeologia ci insegna che verso il 525 a.C., ossia poco prima dell’età di Scilace, gli Etruschi hanno fondato l’oppidum di Genova (Melli 2004; Colonna 2004b), il cui porto diverrà col tempo «l’emporio dei Liguri» (Strab., iv, 6, 1, 201; v, 1, 3, 211), rovesciando, potremmo dire, i termini della tradizione su Populonia fondata dai Corsi sulla costa etrusca (in una posizione arroccata non diversa da quella di Genova). Con questo riprendo il discorso sul rapporto privilegiato che i Liguri sembrano avere intrattenuto con gli Etruschi, già intravisto a proposito della Corsica. Il segnale più immediato e inconfutabile di tale rapporto è offerto dall’attestazione, nell’onomastica dell’Etruria settentrionale, non solo del tardo e raro nome servile lecusti (m.)/lecusta (femm.), ma del ben più frequente gentilizio lecstini, la cui formazione, a giudicare dalla caduta della vocale interna, etimologicamente breve, risale a età anteriore al 400, se non addirittura al 450 a.C. Il nome individuale che sta alla sua base è un adattamento, previa alterazione ĭ > e della vocale tematica e omologazione della finale ai nomi maschili in -i(e), dell’etnico greco *§ÈÁ˘ÛÙ‹˜, da cui il ctetico §ÈÁ˘ÛÙÈÎfi˜ (Wikén 1937, p. 46 sg.). 6 Che sappiamo dalla documentazione archeologica essersi avvalsi di mercenari italici, forse picenti (Colonna 1999, p. 153, nota 44).

tra etruschi e celti. le due facce della liguria preromana

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Negli Etruskische Texte di H. Rix sono registrate 2 occorrenze del nome servile, entrambe da Perugia, e 11 del gentilizio, di cui 5 dal Senese, 5 da Chiusi e 1 da Cortona.7 Ad esse vanno aggiunte 2 occorrenze del nome individuale lecu in funzione di gentilizio, rinvianti direttamente all’etnico §›Á˘˜, entrambe da Volterra e per questo preziosa conferma della mediazione pisano-volterrana nella trasmissione dell’etnico alla lingua etrusca. Complessivamente si hanno pertanto 15 occorrenze, relative ad altrettanti individui, dei quali ben 11 esibiscono un gentilizio di tipo patronimico in -*naie > ni(e), comprovante l’inserimento di immigrati liguri nelle città etrusche, con godimento di pieni diritti civili, in età anteriore alla sincope, ossia fin dal vi-v secolo a.C. Il dato acquisisce tutto il suo significato se comparato a quelli offerti dagli etnici relativi agli altri popoli confinanti con gli Etruschi, e in primo luogo ai Veneti e ai Galli. È un fatto che per venete manca un derivato gentilizio di tipo patronimico e per cale si ha solo quello uscente in -ie (calie). Il che denota recenziorità di immigrazione e soprattutto di acquisizione dei diritti civili, confermata nel caso di venete dalla mancata sincope della vocale breve interna. Quanto al numero e alla distribuzione delle occorrenze, quelle di venete sono 14 (13 individui) e vengono da Perugia (10), Bomarzo (3) e Telamone (1), quelle di cale/calie sono 29 (25 individui), provenienti da Chiusi (18), Montepulciano (1), Volterra (2), Bomarzo (2), entroterra di Tarquinia (3), Tarquinia (1), Vulci (1) e Caere (1). I Liguri etruschizzati che hanno assunto come gentilizio il proprio etnico sono quindi meno numerosi, com’era da aspettarsi, dei loro omologhi Galli, tanto più se ai cale/calie aggiungiamo le occorrenze di celthe (1), celta (2) e celtalu (1), ma un poco più numerosi degli omologhi Veneti.8 E soprattutto attestano, rispetto a entrambi, una immigrazione più antica, rimasta significativamente circoscritta all’Etruria settentrionale, da Volterra a Perugia. Ne dà conferma un gentilizio di sicuro etimo ligure, keivale, attestato nella seconda metà del vii secolo a Castelnuovo Berardenga nel Senese (Colonna 1988, p. 154), e anche l’epitaffio di Busca nel Cuneese, redatto in etrusco verso il 500 a.C. secondo gli usi epigrafici dell’agro volterrano per un personaggio di origine ligure, Larth Muthiku, rientrato in patria dopo avere soggiornato in quella regione, probabilmente come capo di mercenari (Colonna 1998, pp. 261-264). L’epitaffio di Busca è, per l’onomastica, il formulario e l’impaginazione, nonostante il tipo squisitamente locale di supporto (un masso informe, che i Greci avrebbero chiamato un argòs líthos), l’iscrizione etrusca più complessa e nello stesso tempo più vicina ai modelli della madrepatria rinvenuta fuori d’Etruria. Possiamo ritenerla senz’altro la più eloquente testimonianza del grado di etruschizzazione raggiunto dai Liguri all’epoca della fioritura tardo-arcaica di Genova. Ma il fenomeno ha origini più antiche e soprattutto più variegate, rispetto alla dominante matrice volterrano-senese rivelata dalle iscrizioni di Genova e di Busca. Restando nel campo dell’epigrafia va ricordato che già nel vii secolo s’incontrano su vasi delle tombe liguri di Chiavari lettere isolate, tra le quali un theta crociato (Melli 1990, pp. 115, 125, figg. 5, 7), che, nell’ottica costiera da privilegiare per questo sito, rinvia a Vulci, Tarquinia o, in subordine, Caere.9 Con la prima metà o alla metà del vi secolo nella Lunigiana interna si è iniziato a scrivere, seppure solo, per quanto finora sappiamo, a fini commemorativi (funerari), su grandi stele riadoperate o di nuova fattura (et Li 1.3-6). La scrittura è etrusca, come tra i confinanti Celti golasecchiani del Ticino e di Como, ma partecipa solo in parte delle innovazioni di 7 Lemmi lecstinal, lecstinei, lecstini, lecstini®, lecsutini, lecusta, lecusti, lestinal. 8 Per completezza aggiungo che in testa a questa graduatoria sono i Latini e in genere gli abitatori del Lazio (94 occorrenze), seguiti dagli Umbri (39 occorrenze) e, come detto, dai Galli e dai Celti (33 occorrenze). 9 Vedi la carta di distribuzione in Colonna 1988, fig. 13.

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quell’ambiente: è usato il theta (qui nella forma a croce, come di nuovo a Vulci, oltre che nell’Etruria settentrionale interna), con valore presumibilmente di /t/, ma non la vocale o (vemetuvis invece dell’atteso *vemedovis), sicché la fonetica assume un aspetto decisamente etrusco. Ma anche la morfologia, per quel poco che si può ricavare dai tre brevi testi superstiti, sembra essere etrusca: nomi come nemu®us (o, come altri legge, nemunius) e apus, fungenti da appositivi di personali al nominativo, uscenti in -u, sono quasi certamente dei genitivi indicanti la filiazione, e lo stesso forse può dirsi di vemetuvis, se si tratta di un nomen simplex in funzione possessiva (< *vemetuvies, cfr. a Genova nemeties), come nel leponzio arcaico lo sono gli enunciati del tipo plioiso, riferiti al possessore/donatore dei vasi su cui sono scritti. Genitivi che confermano la matrice etrusco-meridionale della scrittura, ovviamente, dato che la sibilante è sempre resa col sigma (retrogrado in due casi su tre),10 mentre un tsade (o piuttosto un sigma a quattro tratti) compare sulla stele Filetto i da solo,11 come abbreviazione di ®(uthi) o, come credo preferibile, del teonimo ®(uri). In conclusione i Liguri della Lunigiana, e forse non solo di essa (si pensi al Nemetie di Genova), quando scrivono, il che accade solo al livello ‘alto’ della scrittura lapidaria, usano non solo l’alfabeto ma, quel che più conta, la lingua etrusca, pur conservando la loro onomastica di stampo celtico. Il che basta a distinguerli, e non solo sul piano ‘culturale’, dai Celti della Padania, in pieno accordo con la tradizione letteraria, facendoci meglio capire come il Muthiku di Busca abbia potuto scrivere tranquillamente in etrusco il suo epitaffio (senza ricorrere all’ipotesi non dimostrabile di una microcomunità di etruscofoni, cui ero ricorso in Colonna 1998, p. 283). Istruttiva al riguardo, e mi avvio alla conclusione, mi sembra la forma assunta in etrusco dal suffisso patronimico -/alo/-, che l’onomastica ligure condivide con quella dei Celti padani. Nelle iscrizioni di area ligure, come insegnano il nome enistale di Ameglia e altri mutili della Lucchesia (Colonna 1998, p. 285), il suffisso assume l’uscita in -e, normale in etrusco per la resa dei nomi indoeuropei di seconda declinazione e di fatto attestata da antica data nell’Etruria settentrionale, che intratteneva rapporti diretti coi Liguri (vedi il già citato gentilizio keivale di Castelnuovo Berardenga). Invece nell’Etruria padana, dove di gran lunga prevalente era il contatto coi Celti e dove il suffisso ha trovato un’assai maggiore fortuna, incontriamo soltanto l’uscita anomala in -u (-alu), denotante l’adeguamento di quei patronimici ai nomi ipocoristici uscenti in -/on/, frequenti nell’onomastica celtica. Un iperceltismo dunque, la cui assenza nelle iscrizioni di area ligure sembra confermare che i Liguri erano sentiti come meno ‘diversi’ dei Celti. Bibliografia Ampolo 2004: C. Ampolo, Liguri e mondo mediterraneo, Genova, 2004, pp. 17-19. Bonamici 1996: M. Bonamici, \Ae ‰b \AÓÙ›Ô˘ T˘ÚÚËÓÔd öıÓÔ˜ … (Ps.Skyl., 5). Contributo alle rotte arcaiche nell’alto Tirreno, «StEtr», lxi, pp. 3-43. Colonna 1988: G. Colonna, L’iscrizione, in F. M. Gambari, G. Colonna, Il bicchiere con iscrizione arcaica da Castelletto Ticino e l’adozione della scrittura nell’Italia nord-occidentale, «StEtr», liv, 1986 (1988), pp. 130-164. Colonna 1996: G. Colonna, Alla ricerca della “metropoli” dei Sanniti, in Identità e cultura dei Sabini (Atti del xviii convegno di studi etruschi ed italici, Rieti-Magliano Sabina 1993), Firenze, 1996, pp. 107-130. 10 In tal senso ora anche Maggiani 2004, p. 221 sg. 11 Le foto, e l’autopsia, assicurano che non vi è traccia delle lettere registrate in et Li 1.4. Cfr. Genova 2004, p. 269, iv. 5.

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Colonna 1998: G. Colonna, Etruschi sulla via delle Alpi occidentali, in Archeologia in Piemonte. La preistoria, a cura di L. Mercando e M. Venturino Gambari, Torino, 1998, pp. 261-266. Colonna 1999: G. Colonna, I Peuceti di Callimaco e l’assedio di Porsenna, in La via Salaria in età antica (atti del convegno, Ascoli Piceno-Offida-Rieti 1997), Roma, 1999, pp. 147-153. Colonna 2002: G. Colonna, Strabone, la Sardegna e la ‘autoctonia’ degli Etruschi, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del Bronzo finale e l’arcaismo (Atti del xxi convegno di studi etruschi ed italici, Sassari-Alghero-Oristano-Torralba 1998), Firenze, 2002, pp. 95-108. Colonna 2004a: G. Colonna, Dall’Oceano all’Adriatico. Mito e storia preromana dei Liguri, in Genova 2004, pp. 9-15. Colonna 2004b: G. Colonna, Scrittura e onomastica, in Genova 2004, pp. 299-307. et - Etruskische Texte. Editio minor, a cura di H. Rix, Tübingen, 1991. Genova 2004, I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo (cat. della mostra di Genova), Milano, 2004. Maggiani 1999: A. Maggiani, Nuovi etnici e toponimi etruschi, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino, Firenze, 1999, pp. 47-61. Maggiani 2004: A. Maggiani, Momenti dell’acculturazione etrusca tra i Liguri orientali dalla fine dell’viii al v secolo a.C., in Genova 2004, pp. 219-223. Melli 1990: P. Melli, Buccheri ed impasti “buccheroidi” in Liguria, in Produzione artigianale ed esportazione nel mondo etrusco. Il bucchero etrusco, a cura di M. Bonghi Jovino, Milano, 1990, pp. 105-126. Melli 2004: P. Melli, Genova. Dall’approdo del Portofranco all’emporio dei Liguri, in Genova 2004, pp. 285-297. Tagliamonte 1996: G. Tagliamonte, I Sanniti, Milano, 1996. Wikén 1937: E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937. Zucca 1996: R. Zucca, La Corsica romana, Oristano, 1996. [Tra Etruschi e Celti. Le due facce della Liguria preromana, «RivStLig», lxx, 2004 (2005), pp. 5-16. È omessa l’appendice su Un culto di ±uri in Lunigiana?].

QUESTIONI TIB E RIN E : FOGLIA E L’ETNICO DE I FA L IS C I IN DIALET TO SA BINO

I

l titolo della mia breve relazione anticipa quello che è, o almeno spero sia, uno dei risultati della ricerca intrapresa, ossia l’individuazione dell’etnico col quale i Sabini del Tevere denominavano i loro vicini Falisci, abitanti l’opposta sponda del fiume. Consente di affrontare l’argomento un’iscrizione lapidaria conservata nella sacrestia della chiesa parrocchiale di Foglia, il minuscolo borgo, frazione di Magliano Sabina, arroccato su un’erta rupe tufacea, alta quaranta metri, ben nota a chiunque percorra il tratto dell’autostrada del Sole a nord di Roma. Nato con l’incastellamento del territorio nel basso Medioevo, il borgo insiste sui resti di un insediamento fortificato preromano dell’area di un ettaro, difeso sull’unico tratto facilmente accessibile da un fossato e da un muro in opera quadrata, segnalati già nel 1883 da Angiolo Pasqui nell’ambito del progetto della Carta archeologica d’Italia.1 In realtà la rupe di Foglia sembra essere stata l’arce di un assai più esteso insediamento, difeso anch’esso almeno in parte da mura, occupante il contiguo pianoro denominato non a caso Civitavecchia,2 che arriva a nord fino a incombere sul fosso Campana con una morfologia che ricorda, su scala ovviamente di gran lunga ridotta, quella dell’antica Veio. I sepolcreti circostanti, dei quali il meglio noto è quello in loc. Madonna del Rovo a est della Civitavecchia, oggetto di limitati scavi da parte del Mancinelli-Scotti nel 1895 e della Soprintendenza archeologica del Lazio nel 1979, constano in prevalenza di tombe a camera3 di iv secolo a.C., fornite di loculi parietali al modo falisco, com’è documentato in tutta la Sabina tiberina, da Magliano fino a Colle del Forno e oltre, come anche tra i contigui Latini di Crustumerium. La prossimità al fiume, tipica di quasi tutti gli insediamenti della riva sinistra, come è stato sottolineato nel convegno del 1984 sul Tevere come via d’acqua (Fig. 1),4 nel caso di Foglia diviene il dato topografico di più immediata evidenza. La spiccata vocazione strategica del sito si evince in primo luogo dai dati storici di età medievale e moderna. Dopo essere stato distrutto dai Viterbesi in lotta contro il potere 1 Gamurrini et alii 1972, pp. 344 e 353, n. 49, fig. 177 in alto a sin., tav. v (cfr. Frutaz 1972, p. 164 sg., n. lxxix.1, tav. 405). Nella carta riprodotta ibid., fig. 276, redatta da F. Mancinelli-Scotti verso il 1895, Foglia è detta “Pago Falisco e Fortilizio di Sbarramento del Fiume Tevere”. Cfr. Quilici Gigli 1986, pp. 72-75; Reggiani 1996; Verga 2002, p. 89; Cifani 2003, pp. 134-137; Santoro 2004, p. 185 sg., fig. 8; Verga 2004, p. 142 sg. 2 Firmani 1985, p. 116 sg., con disegno di un tratto di mura a tav. xix, 3 (erroneamente attribuito all’acropoli in Reggiani 1996 e in Cifani 2003). Il Firmani segnala anche l’esistenza di una tomba a camera con loculi sovrapposti sul lato nord del pianoro (p. 121, tav. xx, 2), che credo sia la stessa chiamata dei “cinque letti funebri” dall’ispettore onorario di Rieti Cesare Verani (lettera del 18 settembre 1973 in risposta al alcuni miei quesiti: cfr. Colonna 1974, p. 125, nota 1), che la pone “nei pressi del cimitero” e parla anche di “tre tombe a camera, piuttosto ampie e con soffitto sorretto da pilastro centrale, vicinissime al detto paesino di Foglia, anzi appena fuori delle sue mura medioevali” (credo siano le case ipogee descritte dal Pasqui e da lui confrontate con quelle di Vignale a Civita Castellana, mentre sarebbero per il Verani le “uniche superstiti di una necropoli piuttosto vasta le cui tombe, tuttavia, non si possono più riconoscere nei vani allargati, trasformati e adibiti a cantina, scavati nel vivo di un alto ciglione di tufo”). Il Firmani menziona inoltre l’esistenza di forni e altre installazioni per la produzione di ceramiche (p. 120, tav. xx, 1). Un’area con resti romani è localizzata presso il cimitero (Starnini 2004, p. 92, n. 52). 3 Tombe assenti in tutta la Sabina interna prima del ii sec. a.C., com’è ora attestato anche nel caso di Ocre (Alvino 2004, pp. 120-122), confermando quel che già era stato supposto al riguardo (Colonna 1974, pp. 96 e 125). 4 Colonna 1986, con la fig. 1, ripresa da Cifani 2003, fig. 146 (il sito di Foglia corrisponde al n. 45).

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Fig. 1. La media e bassa valle tiberina con i popoli rivieraschi (da Colonna 1986).

papale (1241), il castello di Foglia fu dal 1267 al centro di un dominio feudale degli Orsini del ramo di Marino, incombente sul medio corso del Tevere con i castelli di Campovaro (Castiglione?), Poggio Sommavilla (1302) e Grappignano (1334).5 Quello di Foglia con 5 Silvestrelli 1940, pp. 458-460. Cfr. Cortonesi 1988, p. 225; Agneni 1997, p. 105; Leggio 2004, p. 300, con bibl. Foglia appartenne dal 1656 ai de Rossi di Roma, che ne ebbero il titolo comitale: ad essi si deve la traslazione delle reliquie della martire Serena dalla catacomba di S. Ciriaca al Verano, dove erano in origine conservate, nella chiesa del borgo, come informa un’epigrafe del 1683 murata nella chiesa.

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l’annesso borgo, oggi semideserto a causa del passaggio ai suoi piedi dell’autostrada del Sole, ma abitato verso la metà del ’400 da più di 800 persone,6 controllava due passi del fiume, provvisti di “barche da trapasso”,7 l’uno sottostante alla rupe, l’altro ubicato poco più di 700 metri a valle, dove un’ansa del fiume che intacca profondamente la sponda sinistra dava ricetto anche a un piccolo porto.8 La più antica carta a stampa della Sabina, disegnata da un dotto medico del paesino di Torri nel tardo ’500, registra entrambi i passi, riservando al primo il nome di “P(asso) de Foglia” e lasciando anonimo l’altro,9 che viceversa, cresciuto evidentemente d’importanza di pari passo con la navigazione del fiume, è l’unico a comparire nelle carte del ’700 e degli inizi dell’’800, dove è chiamato “Passo della punta di Foglia” dall’ansa del fiume sopra ricordata.10 Entrambi i passi sono stati in funzione già nell’evo antico, ma il secondo solo a partire dal ii-i secolo a.C.,11 mentre il primo, sottoposto più direttamente a Foglia, risale, a giudicare dagli affioramenti di tegole e cocci rivelati dalla ricognizione della piana di fondovalle, fino a epoca arcaica.12 Possiamo senz’altro ritenerlo funzionale all’itinerario che in età preromana metteva in comunicazione Falerii, capoluogo dei Falisci, con Magliano, capoluogo del distretto settentrionale della Sabina tiberina sia allora che in età medievale e moderna,13 nonché con i centri umbri di Otricoli, Narni e Terni (Fig. 2), prima che la costruzione della via consolare Flaminia nel 220 a.C. non tagliasse fuori entrambi i capoluoghi, andando a superare il fiume poco a valle di Otricoli.14 L’iscrizione che ho menzionato in apertura non può dirsi inedita, poiché è stata segnalata già nel marzo 1979 da Massimo A.S. Firmani, che ne ha pubblicato un apografo e ne ha riconosciuto l’alfabeto, senza però tentarne, alla pari di chi in seguito l’ha ricordata, per quanto è a mia conoscenza, né la lettura né tanto meno la classificazione linguistica.15 Io stesso, devo confessare, mi sono finora astenuto dal prenderla in considerazione, in assenza di una fotografia che consentisse di parlarne con maggiore cognizione di causa. Ora il caso ha voluto che mia figlia Daria, studiosa di storia dell’ar6 Come è stato dedotto dalle assegnazioni semestrali di sale da parte dello Stato (Fiore Cavaliere 1986, p. 141). 7 Agganciate a una corda lungo la quale scorrevano sfruttando la corrente, come tutte le altre esistenti tra Orte e Roma (Fiore Cavaliere 1986, p. 138 sgg.). 8 Concesso dal papa agli Orsini fin dal 1409 (Silvestrelli 1940, p. 460), s’identifica col porto di S. Agata (cfr. nota 10), che nella carta del corso del Tevere, redatta nel 1744 da A. Chiesa e B. Gambarini (Frutaz 1972, pp. 8790, n. xxxix, tav. 191; Fiore Cavaliere 1986, p. 136, fig. 3), è detto “Porto de Legna”. Il castello di Foglia controllava a distanza anche il Passo e il Porto Giugliano alla confluenza del Treia (vitali per il collegamento di Civita Castellana col Tevere), dei quali sappiamo che nel 1633 divideva a metà i proventi con la Camera Apostolica (Silvestrelli 1940, p. 499). 9 Carta della Sabina di Mauro Giubilio (Frutaz 1972, p. 38 sg., n. xx, tav. 51). 10 Carta sopra citata del 1744 di Chiesa e Gambarini (vedi nota 8), carta del Patrimonio di S. Pietro e della Sabina del 1802 di B. Olivieri (Frutaz 1972, tavv. 220-221), carta del Latium Vetus e regioni contermini del 1827 e 1834 di W. Gell e A. Nibby (Frutaz 1972, tavv. 239-240). 11 Quilici 1986, p. 210, fig. 15; Verga 2002, p. 82; Starnini 2004, p. 91 sg., n. 51. Già il Verani parlava del “porto fluviale, attestato da ruderi di moli romani, ma certamente più antico, situato poco a valle di Foglia, là dove il Tevere cessava di essere navigabile per diventare guadabile … ed accessibile solo a natanti di limitatissimo pescaggio” (lettera cit. a nota 2). Sappiamo oggi che il porto era in relazione con l’insediamento di S. Sebastiano, fiorito dalla fine del iii sec. a.C. all’età tardo-antica (Verga 2004, Starnini 2004, p. 92, nn. 58-60), da cui proviene non a caso l’unica epigrafe latina del comprensorio (cil ix, 4777: cfr. Suppl. Ital. 5, 1989, p. 159). 12 Quilici Gigli 1986, p. 73. 13 Libero comune, è stata sede della diocesi della Sabina, succedendo a Forum Novum/Vescovio, dal 1494 al 1842. 14 Quilici Gigli 1986, pp. 73-75. Sull’appartenenza di Otricoli agli Umbri Naharti invece che ai Sabini, come vorrebbe la vulgata, rinvio a Colonna 2001, p. 15 sgg. 15 Firmani 1979a, p. 119, fig. 2f; Firmani 1979b, p. 116, fig. 30e; Quilici Gigli 1986, p. 73; Cifani 2003, p. 137, fig. 120.

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Fig. 2. Particolare della Fig. 1, aggiornato con il sito di Foglia e l’itinerario preromano da Falerii a Interamna (dis. Sergio Barberini).

te, si occupasse dell’inventario dei beni artistici mobili di proprietà della diocesi della Sabina e che nel corso di tale operazione si imbattesse nell’iscrizione murata nell’ormai assai poco frequentata chiesa di Foglia, intitolata a S. Serena. Devo a lei la fotografia che mi ha stimolato a interessarmi di un così intrigante cimelio, inducendomi a recarmi sul posto per esaminarlo di persona.16 Si tratta di un frammento di lastra di una pietra tenera di colore grigiastro, definita dall’editore arenaria locale, dalla superficie ben lavorata, rotto in due pezzi e misurante circa 24 cm in altezza per altrettanti in larghezza (Figg. 3-4), di spessore ovviamente og16 Il 19/12/2004.

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Fig. 3. Iscrizione sabina murata nella chiesa di Foglia (foto dell’A.).

Fig. 4. Disegno della stessa (dis. S. Barberini).

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gi non precisabile. L’iscrizione corre orizzontalmente da destra verso sinistra, con lettere alte cm 3,5, disposte su di una sola riga, come accerta l’estensione del campo superstite sia in alto (cm 15) che in basso (cm 5). È incisa con cura, ma senza una rigorosa uniformità nella spaziatura e nell’altezza delle lettere, che crescono entrambe quasi impercettibilmente nella direzione della scrittura, mentre la u stranamente non arriva in basso a toccare la base della riga.17 L’alfabeto, riconosciuto, come si è detto, già dal primo editore, è quello falisco di pieno iv secolo a.C., come attestano inequivocabilmente la direzione sinistrorsa della scrittura, il segno a freccia denotante la f e anche la a dal tratto destro diritto e il sinistro convesso. Le lettere, nitide ed eleganti nel loro ductus tendente al ‘quadrato’, sono pressoché identiche a quelle del celebre motto conviviale dipinto su due kylikes falische del Gruppo Foied, datate alla metà o poco dopo del secolo (Fig. 5).18 Benché la prima lettera sia in parte mutila sul lato destro, la trascrizione non pone problemi: [- - -]ciuifahls[- - -]. Sul margine sinistro l’ampiezza e la conformazione del tratto di campo superstite dopo la s rendono praticamente certo che, se l’iscrizione continuava, come pare indubbio, la prima lettera mancante non poteva che essere una c: si può quindi integrare [- - -]ciuifahls[c - - -]. Altrettanto certo è che la sequenza così trascritta sia da suddividere tra almeno due parole, nonostante l’assenza dell’interpunzione, che è l’unico tratto dissonante con le iscrizioni falische dell’epoca.19 Per arrivare a una lettura attendibile è importante capire quale possa essere stata la funzione di un’iscrizione lapidaria come questa. In proposito è di fondamentale aiuto il dato eruibile dalla sua provenienza. Cifani scrive, in base a informazioni avute da Giorgio Filippi e dal primo editore, che “l’iscrizione sarebbe stata rinvenuta nel 1976 in loc. Grotticelle alla periferia del borgo, davanti alla casa parrocchiale”.20 A mia volta posso precisare, in base a quanto ho appreso oralmente dal parroco dell’epoca, don Carmelo Cristiano21 – cui va il merito di avere assicurato la conservazione dell’importante cimelio –, che la lastra sarebbe stata rinvenuta da un pastore nei pressi della fontana situata sotto la rupe, raggiungibile dalla “Via di Mezzo” del borgo scendendo dietro l’isolato della casa parrocchiale (Fig. 6). Il nome della contrada, Grotticelle, allude da solo all’esistenza nella zona di tombe a camera, appartenenti a un sepolcreto di cui la parte situata più in basso è stata distrutta nei primi anni ’60, senza che la Soprintendenza competente intervenisse, dai lavori di costruzione dell’Autostrada del Sole, in questo punto quasi tangente la rupe.22 È del tutto verosimile che la lastra con l’iscrizione provenga da una delle tombe allora distrutte e che la sua funzione sia stata quella di sigillare, in sequenza con altre, un loculo parietale adibito a sepoltura all’interno di una camera:23 17 Il che non basta a giustificare il sospetto che il segno sia da collegare al precedente, da cui resta chiaramente distinto (Firmani 1979b, p. 116). 18 Cristofani 1987, p. 318, n. 148, con bibl. L’assenza di interpunzione è condivisa con una nuova iscrizione vascolare falisca dell’epoca (Berenguer-Sánchez , Luján 2004). 19 Giacomelli 1963a, p. 37 sg. 20 Cifani 2003, p. 171, nota 821. 21 Che ho potuto contattare grazie ai buoni uffici dell’Arciprete di Magliano, don Filippo di Fraia, e di mia figlia Daria. 22 Firmani 1979b, p. 116, nota 10; Reggiani 1980, p. 87. Cfr. Quilici Gigli 1986, fig. 1. 23 In effetti nella lettera più volte citata inviatami nel 1973 il Verani scriveva: “Altra tomba a camera, simile a quella dei “cinque letti funebri” [vedi nota 2], è stata rinvenuta durante i lavori dell’Autostrada del Sole, sotto la parete a picco su cui è piantato l’abitato di Foglia. Essa è stata demolita e sfondata dalle ruspe, ma non così rapidamente che un sorvegliante dei lavori non potesse appropriarsi di un piccolo vaso, decorato con una figurina di guerriero a cavallo, e di un pugnaletto di bronzo, a quanto mi hanno riferito a Foglia”. Mentre il vaso sarà un prodotto falisco a figure rosse, più difficile è capire cosa sia il “pugnaletto di bronzo” (forse uno strigile?).

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Fig. 5. Le due coppe falische del Gruppo Foied (da Cristofani 1987).

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Fig. 6. La località Grotticelle sotto la rupe di Foglia (foto dell’A.). In alto il complesso già della casa parrocchiale, a sin., la via che scende dal borgo, a ds. la rete dell’Autostrada.

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funzione normalmente assolta da grandi tegulae, sia in epoca arcaica che recente, ma che poteva essere demandata anche a lastre di tufo, come si osserva in una tomba arcaica della vicina Poggio Sommavilla (Fig. 7).24 Il che è assai rilevante per l’ermeneutica, poiché induce a ritenere che l’iscrizione contenga, alla pari di quelle spesso graffite o dipinte sulle tegole funerarie falische, il nome del defunto sepolto nel loculo, espresso con una formula bimembre o eventualmente trimembre, solo parzialmente conservata.25 Se le cose stanno così, e non v’è motivo di dubitarne, la divisione del testo è pressoché obbligata: [- - -]ciui fahls[c - - -]. Quel che resta della formula onomastica si riferisce a un uomo avente un prenome, o un gentilizio, con tema in -io-, flesso al dativo, seguito da un gentilizio, o da un cognome, di cui resta solo la base tematica. Sulle tegole falische il nome del defunto appare prevalentemente in caso zero, ma anche il dativo è più volte attestato, per lo più preceduto o seguito dal nome in caso zero di chi ha ‘donato’ al defunto qualcosa di non espresso, da identificare, dato il contesto extralinguistico, con il loculo che ne ha accolto le spoglie.26 Il nome del ‘donatore’ verosimilmente non doveva mancare anche nella nostra iscrizione, il cui sviluppo in lunghezza, distribuito su due o tre lastre, poteva largamente superare il metro, e il cui carattere celebrativo è implicito nello stesso ricorso, all’epoca del tutto insolito, a un supporto lapideo. Quanto al nome del defunto, la terminazione -ciui del suo primo elemento postula, a prescindere dalla morfologia, o un prenome di matrice italica, del tipo di Decius, Lucius, Paccius e simili, oppure, e con pari se non maggiori probabilità, un aggettivo patronimico avente la stessa origine, fungente da gentilizio, formato con l’intervento di un secondo suffisso -io(allora -*ciiui) e indistinguibile dal prenome, dato che la scrittura falisca non nota le vocali geminate. Del secondo elemento onomastico, sia esso un gentilizio, un cognome o un semplice appellativo, può solo dirsi che la base falsc- è, come tale, del tutto priva di confronti in falisco e in latino, e che la restituzione di un dativo *falsciui o *falscui appare praticamente certa. A questo punto è necessario aprire una parentesi e affrontare, nei ristretti limiti in cui essa è possibile, l’analisi linguistica del testo. La scrittura, come si è detto, è falisca, ma lo stesso non può dirsi della lingua. Consente di affermarlo anzitutto il digrafo ah, in cui il segno dell’aspirazione nota la quantità (lunga) della vocale, quantità che non è registrata né per questa né per altre vocali nel pur consistente corpus del falisco, così come di norma non lo è nel latino e nell’etrusco.27 Ma soprattutto esclude quella lingua la desinenza -ui di dativo, in cui la /o/ etimologica, stretta e lunga, è resa con u, mentre nel falisco si ha -oi (cfr. caisioi di Vetter 251), come nel latino, nell’enotrio28 e nell’osco (dove -úí rende -/oi/). La notazione della lunghezza della a potrebbe far pensare all’umbro, dove la incontriamo a partire dal Marte di Todi, ma, a parte la stranezza di un’iscrizione umbra di iv secolo in scrittura falisca, basta a escludere quella lingua anche in questo caso la desinenza -ui del dativo di tema in -o, invece della desinenza monottongata -e (cfr. tefre iuvie e tanti altri esempi delle Tavole Iguvine). Non resta allora che pensare alla lingua del posto, ossia al sabino, dialetto italico di cui finora conoscevamo solo alcune iscrizioni notevolmente più antiche, definibili come paleosabine, in scrittura epicoria, e un’unica più recente, proveniente dalla lontana 24 Martelli 1979, p. 14, fig. 2 (tomba vii del 1896). Un altro esempio a Nepi (Rizzo 1996, pp. 487 e 491, tomba 3). 25 Giacomelli 1963a, pp. 156-159. 26 Giacomelli 1963a, pp. 161-163. In Pisani 1964, p. 340 sg., n. 145 A-C, si parla di “iscrizioni funerarie dedicatorie”. Il tipo di formula è attestato anche in etrusco, specialmente in età arcaica (p.e. Rix, et At 3.2, AS 1.311, Vt 1.85, 1.154). 27 Con l’eccezione della e nell’epigrafia cortonese di età recente (Agostiniani 2000, pp. 47-52). 28 Cippo di Tortora (Poccetti 2001, spec. p. 195).

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Fig.7. Poggio Sommavilla, la tomba vii del 1896 (da Martelli 1979).

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Fig. 8. L’iscrizione paleosabina di Magliano Sabina, loc. Colle del Giglio (da Cristofani 1996).

Sabina aquilana, in scrittura latina (cippo di Scoppito).29 In essa la desinenza del dativo è divenuta -/o/ (atrno < *aternoi), mentre a Magliano alla fine del vii secolo sono compresenti -oí (doukioí) (Fig. 8)30 e -oh, a quanto pare con valore di -/o/ (nella finale ]ioh).31 Nella nostra iscrizione la mancata monottongazione della desinenza è un tratto conservatore, evocante il sudpiceno delle stele tardo-arcaiche di Penna S. Andrea.32 Inoltre la scrittura -ui segnala, rispetto a doukioí, l’esigenza nel frattempo recepita anche tra i Sabini di notare la vocale ‘intermedia’ tra /o/ e /u/, come era avvenuto fin dalla metà del vii secolo nel paleoumbro dell’iscrizione di Uppsala,33 nel corso del vi nel sudpiceno34 e nel volsco.35 La scelta della u sembra echeggiare la soluzione adottata nel paleoumbro e nel sudpiceno col ricorso al segno a tridente, che è una lettera morta ricicla-

29 Vetter 227, Durante 1978, p. 793. 30 Cristofani 1996, p. 223 (aggiornato in Cristofani 1997, p. 76, nota 11). L’opportuno richiamo al nome di Ducezio è da integrare con quello, assai più pertinente, al nome di T. Docetius T.f., quattuorviro augusteo del non lontano municipio di Carsoli in area equa, stranamente ignorato nell’opera di W. Schulze (cil ix, 4065: per una foto vedi Lapenna 2003, p. 95, fig. 6) (Fig. 9) e quindi in tutta la successiva letteratura sul nome del capo siculo (compreso Agostiniani 1992, p. 191 sg.). Si tratta di un’impressionante ‘isoglossa’ onomastica sabellico-sicula, da affiancare a quella del nome della dea Cupra. 31 Cfr. nota 32. 32 Cfr. le forme mefistrúí, titúí, brímeqlúí, qdufeniúí, posmúi delle stele di Penna S. Andrea (Marinetti 1985, p. 118 sgg.). 33 Colonna 1999, p. 23 sg.; Colonna 2001, p. 11 sg. 34 A partire dall’iscrizione del Guerriero di Capestrano. 35 Cfr. il dativo iúkúí dell’accettina di Satricum (Colonna 1997, p. 11 sg.), con F per ú.

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Fig. 9. L’epigrafe di T. Docetius da Carsoli (da Lapenna 2003).

ta, il chi etrusco, rimasto in uso nel sudpiceno e a Capena fino all’inizio del iii secolo a.C.36 Lettera che, specie dopo aver perduto nel vi secolo la ‘coda’, si prestava ad essere scambiata, come di fatto è apparsa agli studiosi moderni, che hanno parlato di una “u diacriticata”,37 per una variante grafica di u. Quanto alla notazione della quantità (ah), si tratta di un’esigenza fonetica anch’essa comune alle varie parlate italiche, soddisfatta a Magliano e nel sudpiceno a quanto pare solo nel caso delle vocali risultanti dalla contrazione delle finali morfologiche,38 nell’umbro e nell’osco (che ricorre per essa alla geminazione) anche e soprattutto in prima sillaba, ossia in sillaba tonica. A Foglia la notazione occorre proprio in questa posizione ed è realizzata con la posposizione di h, come a Magliano, nel sudpiceno e nell’umbro, dal quale si direbbe sia stata ispirata, senza però poter escludere del tutto, dati i precedenti arcaici in loco, uno sviluppo parallelo e autonomo. Una volta accertato che l’iscrizione è in sabino siamo in grado di intendere anche il secondo elemento della formula onomastica, di cui resta, come detto, la base falsc-. E qui arriviamo a quanto promesso nel titolo della relazione. Infatti quell’elemento è riconducibile senza difficoltà all’autonimo dei Falisci, alterato secondo le tendenze fonetiche proprie dell’italico, tra le quali è risaputo che “l’accento … ha una rilevanza eccezionale”.39 E proprio all’azione dell’accento espiratorio iniziale, nel nostro caso particolarmente forte, sono da ricondurre sia l’allungamento della vocale della prima 36 Sudpiceno: elmi Marinetti BO 1 e BA 1. Capena: da ultima Rocca 1996, p. 262, nn. 5-7. 37 Così Cristofani 1997, p. 75 sg. Anche nella sua continuazione nell’osco: p.e. Buck 1905, p. 21 sg. (“Nebenform” di u). 38 Adiego 1990; Adiego Lajara 1993, p. 17 sgg. 39 Così Prosdocimi 1978, p. 556.

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sillaba, etimologicamente breve e tale rimasta in latino,40 sia la sincope della vocale della sillaba interna (cfr. la forma atrno di Scoppito sopra citata), vocale che in latino risulta essere breve, a giudicare dalla forma Falesce dell’iscrizione dei cuochi, risalente al ii sec. a.C. (cil xi, 3078; cie 8341), e dall’accento acuto ricevuto dall’adattamento greco dell’etnico (º·Ï›ÛÎÔÈ).41 Il nostro personaggio porta dunque o un gentilizio derivato dall’etnico dei Falisci, come a Falerii un Cauio Latinaio porta un gentilizio derivato dall’etnico dei Latini, o un cognome aggiunto al gentilizio per qualificare il portatore come falisco, alla pari dei tanti cognomi geografici latini del tipo Tuscus42 (né l’eventuale attribuzione di un cognome stupirebbe per un personaggio di non comune livello sociale quale dovette essere il nostro).43 Apprendiamo in conclusione che i Sabini del Tevere chiamavano Falsci i contigui Falisci, sopprimendo entrambe le vocali brevi interne possedute in origine dal loro autonimo (*Falĭsĭci > Falĭsci > Falsci),44 così come era avvenuto in latino per quello dei Volsci (se è attendibile la trafila *Velesici > *Velesci > Volsci)45 e forse degli Osci (se da *Opesici > *Opesci > Opsci).46 Ma ancora maggiore è l’interesse dell’iscrizione di Foglia sul piano culturale e storico. Si tratta infatti della prima e per ora unica iscrizione sabina databile tra la metà del v secolo (graffito vascolare su vaso attico della coll. Campana, in scrittura epicoria)47 e quella del iii (cippo di Scoppito, in scrittura latina). Fino a prova contraria dobbiamo ritenere che almeno dalla metà, ma probabilmente dall’inizio del iv secolo la vetusta scrittura epicoria (Fig. 8) sia stata sostituita nella Sabina tiberina, limitatamente al suo distretto settentrionale,48 da quella falisca. Il parallelismo con quanto era accaduto alla fine del v secolo nell’Umbria tiberina è evidente, ma con un diverso modello alfabetico di riferimento: in Umbria l’etrusco (volsiniese), in Sabina il falisco. Ciò induce a ritenere che Falerii, giunta all’apogeo della propria fioritura economica e artistica all’indomani della caduta di Veio e del disastro gallico che aveva subito dopo paralizzato Roma,49 abbia esercitato una forte azione non solo commerciale ma anche di ordine culturale e politico sull’altra sponda del Tevere, assai maggiore che nel passato. Probabilmente fu allora che si arrivò su quella sponda alla creazione di centri satelliti, una sorta di ‘teste di ponte’, in funzione del controllo della navigazione e soprattutto dell’attraversamento del fiume. Il principale di essi sembra essere stato per l’appunto Foglia, che venne fortificata e forse acquisì soltanto allora la più che ragguardevole 40 Come insegna la metrica: p.e. Ov., fasti iv, 74; am. iii, 13, 35. 41 Cfr. Giacomelli 1963b, che ritiene tuttavia più probabile la quantità lunga a causa della scrittura FalIsceis, con i longum, nei Fasti Trionfali Capitolini (p. 53 sgg.). Ma quella scrittura di età augustea ha tutta l’aria di una dotta speculazione arcaizzante, basata sul nome della città, Falerii, e forse anche del suo mitico eponimo, Halesus. Una conferma della brevità etimologica di entrambe le prime due sillabe di Fălĭsci viene dalla forma etrusca Feluske, ove si accetti la sua derivazione, che credo assai probabile, da quell’etnico (Poccetti 1999, alla cui documentazione è da aggiungere la forma Feleskenas di Rix, et As 1.40: per lo scambio i/u in sillaba interna citerei l’arcaicissimo Velusinas di Rix, et Cr 0.4, se da accostare al recente Velisinas, e per lo scambio inverso le forme 42 Kajanto 1965, pp. 180, 185 sg., 188, etc. arcaiche veienti £anirsiie, turice e Ar(i)timi). 43 Improbabile, data la cronologia, un appellativo, come è possibile nel caso del veiente Tite Latine di vii secolo. 44 Cfr. Rix 1995, p. 129. 45 Colonna 2003, p. 7. 46 Colonna 1991, p. 32. 47 Colonna 1999, p. 24, nota 17. La lettura pauqs del prenome, proposta con qualche incertezza (Marinetti 1984, p. 367), riceve conforto dall’iscrizione osca in scrittura latina pao.polies.no recentemente pubblicata (rei 2003, p. 414 sg.), in cui pao è sicura abbreviazione del prenome *Pauks. 48 La conservazione a Capena all’inizio del iii secolo, in iscrizioni vascolari in scrittura latina, delle lettere sudpicene denotanti le vocali intermedie (cfr. nota 31) fa ritenere che nel distretto meridionale della Sabina tiberina sia rimasta in uso fino ad allora la scrittura sudpicena, attestata in loco dal cippo del Farfa. Per la distinzione di ordine culturale tra una Sabina tiberina ‘alta’, da Magliano a Poggio Sommavilla, e una “bassa”, dal Farfa e da Cures a Colle del Forno, vedi Santoro 1985, p. 75. 49 Colonna 1992, pp. 111-113.

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dimensione indiziata dall’occupazione del pianoro della Civitavecchia.50 Foglia sembra insomma essere divenuta nel iv secolo per Falerii quello che Fidene, fatte le debite proporzioni, è stata nel v per Veio, ossia l’alleata più fedele e strategicamente più importante al di là del Tevere. Questa situazione privilegiata si è protratta fino a quando i Romani per entrare in contatto con gli Umbri e raggiungere l’Adriatico non hanno aggirato da ovest, passando per la selva Ciminia, il territorio dei Falisci e dei Sabini, stringendo il foedus con la lontana Camerino (310 a.C.) e il trattato di amicitia con Otricoli (308 a.C.), cui seguirono l’espugnazione di Nequinum (300 a.C.) e la deduzione della colonia di Narnia (299 a.C.).51 Da allora iniziò la decadenza di Foglia, che con la distruzione di Falerii e la successiva costruzione della via Flaminia toccò ben presto il suo apice. Bibliografia Adiego 1990: I. J. Adiego, Sobra la inscripción sud-picénica CH.2, «aion Ling», 12, pp. 257-260. Adiego Lajara 1993: I. J. Adiego Lajara, Parentesco, contacto e innovación paralela: el caso de las lenguas sabélicas, in Incontri linguistici 16, pp. 11-21. Agneni 1997: L. Agneni, L’insediamento di Magliano dal Tardo Antico all’incastellamento, in Magliano, pp. 87-106. Agostiniani 1992: L. Agostiniani, I modi del contatto linguistico tra Greci e indigeni nella Sicilia antica, «Kokalos», 34-35, 1988-1989, pp. 167-206. Agostiniani 2000: L. Agostiniani , F. Nicosia, Tabula Cortonensis, Roma, 2000. Alvino 2004: G. Alvino, Nuove attestazioni funerarie nel Lazio nord-orientale, in Lazio e Sabina 2, Roma, 2004, pp. 115-124. Atti Rieti-Magliano Sabina: Identità e civiltà dei Sabini (Atti del xviii convegno di Studi Etruschi ed Italici, Rieti-Magliano Sabina 1993), Firenze, 1996. Berenguer-Sánchez , Luján 2004: J. A. Berenguer-Sánchez , E. R. Luján 2004, La nueva inscripción falisca de Cavios Frenaios, «ZeitPapEpigr», 149, pp. 213-222. Buck 1905: C. D. Buck, Elementarbuch der oskisch-umbrischen Dialekte, Heidelberg, 1905. Cifani 2003: G. Cifani, Storia di una frontiera. Dinamiche territoriali e gruppi etnici nella media Valle Tiberina dalla prima età del Ferro alla conquista romana, Roma, 2003. Civiltà dei Sabini - Civiltà arcaica dei Sabini nella valle del Tevere, ii (Incontri di studio, Roma 1973), Roma, 1974; iii (Rilettura critica della necropoli di Poggio Sommavilla), Roma, 1977 (ma 1979). Colonna 1974: G. Colonna, Per un inquadramento culturale della Sabina arcaica, incontro di studio a cura di G. C., Roma, 1973, in Civiltà dei Sabini ii, pp. 91-128. Colonna 1983: G. Colonna, Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso dell’Italia preromana, «Epigraphica», xlv, pp. 49-64. Colonna 1986: G. Colonna, Il Tevere e gli Etruschi, in Tevere, pp. 90-97. Colonna 1991: G. Colonna, Le civiltà anelleniche, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Storia e civiltà della Campania. L’evo antico, Napoli, 1991, pp. 25-67. Colonna 1992: G. Colonna, Membra disiecta di altorilievi frontonali di iv e iii secolo, in La coroplastica templare etrusca fra il iv e il ii secolo a.C. (Atti del xvi convegno di studi etruschi e italici, Orbetello 1988), Firenze, 1992, pp. 101-125. Colonna 1994: G. Colonna, Le iscrizioni di Nocera e il popolamento pre- e paleosannitico della valle del Sarno, in A. Pecoraro (a cura di), Nuceria Alfaterna e il suo territorio, i, Nocera Inferiore, 1994, pp. 85-99. Colonna 1997: G. Colonna, Appunti su Ernici e Volsci, «Eutopia», iv, 2, pp. 3-17. Colonna 1999: G. Colonna, L’iscrizione del biconico di Uppsala: un documento di paleoumbro, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino (Firenze 1996), Firenze, 1999, pp. 19-29.

50 Cfr. nota 2. Non sufficiente per una datazione molto più antica (proposta da Firmani 1985, p. 17) è l’unica tomba arcaica a camera rinvenuta all’angolo SO della Civitavecchia, potendosi riferire all’insediamento dell’acropoli. 51 Harris 1971, pp. 49-65; Colonna 2001, p. 16 sg.

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LA CITT À DI RE M O

N

el dibattito riaccesosi in questi ultimi anni, dopo un lungo disinteresse, sulla figura di Remo e sulla funzione che compete al personaggio nella saga delle origini di Roma si è riportata l’attenzione, per merito precipuo di T. Peter Wiseman, su una questione non secondaria, che sembrava ormai passata in giudicato: il luogo dove Remo avrebbe voluto fondare la nuova città. Certabant urbem Romam Remoramne vocarent, cantava Ennio nel i libro degli Annales a proposito della presa degli auspici da parte dei gemelli, volta a conoscere uter esset induperator (82 sg. Vahl.).1 Ma la contesa concerneva, oltre al ruolo di fondatore e quindi al nome della città, che ne era considerato la prima e più immediata espressione, anche e soprattutto il luogo in cui ciascuno dei gemelli aveva intenzione di fondarla.2 Mentre la tradizione non conosce alternative alla scelta del Palatino da parte di Romolo, tanto da far quasi dimenticare che, prima della inauguratio di quel colle dalla cima del Germalo, l’eroe aveva preso gli auspici in alto Aventino, per usare le parole del poeta (Ann., 81 sg. Vahl.),3 per Remo la stessa tradizione si mostra pressoché unanime nel distinguere tra il luogo della presa degli auspici e quello prescelto per la non realizzata fondazione. L’auspicazione per quasi tutti gli autori4 sarebbe stata compiuta anche da lui in summo Aventino (Paul. ex Fest., p. 345 L.) o comunque in «un luogo forte dell’Aventino» (Plut., Rom., 9, 4), identificato da Ovidio con il Saxum dell’Aventino minore (fast., v, 150 sg.): luogo che avrebbe preso da Remo il nome di Remorion (Plutarco) / Remoria (Paolo) e che più tardi per la vulgata ne avrebbe accolto le spoglie, assieme a quelle dei due pastori che avevano allevato i gemelli, Faustolo e suo fratello Plistino,5 rimasti uccisi anch’essi nella mischia sorta intorno al ‘fossato’ di Romolo (Plut., Rom., 11, 1).6 Quanto al luogo dove Remo si proponeva di fondare la città, con una divergenza dal fratello ancora più insanabile di quella vertente sul nome, il solo Plutarco sembra identificarlo con lo stesso Aventino (Rom., 9, 4):7 tutti gli altri autori di cui conosciamo l’opinione sono espliciti nel ritenerlo distinto e alquanto lontano da esso (cosa che i 1 Su tutta la questione degli auspici e degli augurii dei gemelli rinvio alla lucida messa a punto di Tassi Scandone 2001. 2 Come pongono in tutta evidenza Dionigi di Alicarnasso, che antepone la contesa per il luogo (i, 85, 6) a quella per il nome e per l’imperium (i, 86, 1), e ancor più Plutarco, che menziona solo la contesa ÂÚd ÙÔÜ ÙfiÔ˘ (Rom., 9, 4). 3 Confermate inequivocabilmente da quel relitto dell’originaria versione della saga che è il lancio da parte di Romolo dell’asta di corniolo dall’Aventino sul Germalo, preliminare alla inaugurazione del Palatino (lancio sostituito in Plutarco, che ignora ogni rapporto di Romolo con l’Aventino, dalla fondazione della «Roma quadrata», preliminare per lui non solo all’inaugurazione, ma anche alla presa degli auspici: Rom., 9, 4). 4 Tranne gli «alcuni» citati da Dionigi di Alicarnasso e l’Ineditum Vaticanum, che la ponevano nella Remoria lontana da Roma (vedi avanti nel testo). 5 Altrimenti chiamato Faustino e considerato custode delle greggi di Numitore che, a differenza di quelle di Amulio, guardate da Faustolo, pascevano sull’Aventino (Dion. Hal., i, 84, 3). 6 Per la letteratura al riguardo si rinvia all’ottima trattazione di Aronen 1999. Vedi anche Fraschetti 2002, pp. 3-36. 7 Se intendiamo così (come e.g. fa Schwegler 1853, p. 440) l’ardita ellissi del passo in questione: «Romolo fondò la cosiddetta Roma quadrata … e voleva trasformare in una città quel luogo (ηd âÎÂÖÓÔÓ â‚Ô‡ÏÂÙÔ ÔÏ›˙ÂÈÓ ÙeÓ ÙfiÔÓ), Remo invece (voleva trasformare in una città) un luogo forte dell’Aventino (¯ˆÚ›ÔÓ ÙÈ ÙÔÜ \A‚ÂÓÙ›ÓÔ˘ ηÚÙÂÚfiÓ), che da lui fu chiamato Remorion …». Si tratterebbe comunque di uno sviluppo recenziore della saga, che in origine poneva altrove la città di Remo (Mommsen 1881, p. 15 sgg., e già Niebuhr 1849, p. 40: vedi infra, nota 17).

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moderni tendono a dimenticare).8 Il più informato è Dionigi di Alicarnasso, che lo colloca «nella contrada ora chiamata dal suo nome Remoría», aggiungendo che: 1. «il luogo è un colle adatto ad accogliere una città, situato non lontano dal Tevere, distante da Roma circa trenta stadi» (i, 85, 6); 2. il luogo dell’auspicazione per Romolo era stato il Palatino, per Remo l’Aventino, «ma alcuni parlano della Remoría» (i, 86, 2); 3. in questa Romolo seppellì Remo, «poiché anche da vivo si era affezionato al luogo in vista della fondazione (della città)» (i, 87, 3). Per l’Ineditum Vaticanum Remo aveva scelto «un posto diverso [da quello di Romolo], anch’esso vicino al Tevere, e il luogo fino ad oggi è chiamato Remoría», ma, a differenza della tradizione preferita da Dionigi, ognuno dei due fratelli avrebbe preso gli auspici «nel proprio luogo» (FgrH, 839, 1, 5), e quindi Remo nella Remoria lontana dall’Aventino. Per l’autore dell’Origo gentis Romanae Remo aveva scelto per fondarvi la città «un colle che distava dal Palatino cinque miglia, e avrebbe voluto che il luogo prendesse da lui il nome di Remuria»: quanto agli auspici, Romolo li aveva presi sul Palatino, Remo, in accordo con la vulgata, sull’Aventino (23, 1-2). Poiché la distanza del colle da Roma è calcolata a partire dal Palatino invece che dalla città, ossia dalle mura serviane, risultando così maggiore che in Dionigi, e poiché l’auspicazione sarebbe avvenuta non su di esso ma sull’Aventino, nasce il sospetto che l’Origo (da qui OGR) attinga a una fonte diversa da quella di Dionigi e dell’autore dell’Ineditum Vaticanum, benché anch’essa di matrice chiaramente antiquaria. Se per quei due autori è lecito pensare a Varrone, la cui opinione al riguardo non emerge dagli scritti giunti fino a noi,9 per l’OGR si può azzardare il nome di Verrio Flacco, che nel preambolo dell’operetta appare citato quale fonte primaria.10 Il che sembra confermato da quanto hanno scritto all’argomento Festo e Paolo, notoriamente dipendenti in larga misura da quel grammatico (e tanto più quando, come in questo caso, fanno sfoggio di curiosità erudita e di sottigliezze linguistiche). Menzionano infatti entrambi un ager Remurinus altrimenti sconosciuto, che sarebbe stato così chiamato perché possessus est a Remo, e inoltre una habitatio Remi, in esso evidentemente ubicata (in simmetria, si direbbe, con la casa Romuli contigua alla Roma quadrata del Palatino), chiamata da Festo Remu[na?], da Paolo Remona,11 esplicitamente distinta dalla quasi omonima Remoria dell’Aventino (p. 344 sg. L.), che abbiamo già ricordato a proposito degli auspici di Remo. Stefano infine registra il lemma Remouría, «città presso Roma», cui attribuisce gli etnici Remouriates e Remourianos (quest’ultimo inscindibile dal latino Remurinus). Dato che l’uscita in -/u/- della base del poleonimo fa escludere Dionigi, la fonte potrebbe essere Giuba, più volte citato dal lessicografo bizantino (tra l’altro per Lavinio e per Ostia), ed è noto che Giuba dipende spesso da Verrio.12 Particolarmente preziosa appare la citazione dell’ager Remurinus, da associare, come molti commentatori hanno fatto, alla riesumazione di un altro hapax, la dea Remureine (dat.) (illrp 252), alla quale è stato dedicato sul Palatino in età tardo-augustea o giulio8 E.g. Carandini 2000, p. 119 sg., 122, e Cappelli 2000, p. 170, che localizzano la progettata città sull’Aventino maggiore. 9 Sappiamo tuttavia che era contrario all’etimologia del nome dell’Aventino da aves (l.l., v, 43), il che denota forse la volontà di minimizzare il ruolo del colle come sede auspicale. 10 D’Anna 1992, pp. xv, xxviii, xxxii, 60, e, per il passo in questione, p. 128. 11 Invece di integrare in Remuria (C. O. Müller) il nome dato da Festo e di emendarlo nella stessa forma in Paolo (Peruzzi 1966), si potrebbe vedere nel cambio di suffisso il tentativo di stabilire una falsa etimologia del nome della tribù Lemonia (> *Remonia), modellata su quella sostenuta da Ovidio (fasti v, 479-484) per le feste Lemuria (> Remuria). E ciò tanto più se già in Ennio si leggeva Remonam (come pensa Radke 1987, p. 151, nota 497). 12 Ampolo 1988, p.L sg. Un interesse particolare per Remo, da parte di una delle fonti cui Stefano attinge per la storia arcaica di Roma, sembra trasparire anche dalla menzione di lui, invece che di Romolo, a proposito dell’educazione ‘alla greca’ ricevuta a Gabii (Steph., s.v. Tábioi).

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claudia un cippo a forma di colonnetta rinvenuto, assieme ad altri tre recanti iscrizioni non meno erudite e arcaizzanti (in specie quella con l’enigmatica espressione anabestas), verosimilmente tutte riferibili al superamento del pomerio da parte di Remo,13 sulle pendici settentrionali del colle, non lontano dai resti del muro romuleo scoperti da Andrea Carandini. Grazie a queste due convergenti testimonianze, che hanno qualche probabilità di risalire entrambe al prenestino Verrio Flacco, personaggio assai vicino alla corte di Augusto,14 siamo certi dell’esistenza nel territorio romano di una località chiamata Remuria ancora in età augustea, da cui hanno preso nome l’ager Remurinus e la dea Remurina,15 ubicata a una distanza valutabile, considerando il «circa» di Dionigi un’approssimazione per lieve difetto, in quattro miglia dalla porta più vicina delle mura serviane e in cinque miglia, probabilmente al contrario approssimate per eccesso, dal Palatino.16 Località collegata dall’antiquaria romana, forse fin dai tempi di Ennio, alla memoria di Remo, con un procedimento eziologico che probabilmente muoveva non dal solo toponimo, ma da qualcosa di più, un ‘segno’ di carattere monumentale, quale un sepolcro isolato, del genere del grande tumulo di Decima e di quello di Lavinio,17 oppure un vetusto santuario rurale, sacro a una dea ormai pressoché dimenticata, e meglio ancora da entrambi questi elementi. I dati disponibili per la ricerca della Remuria extraurbana sono, oltre alle citate distanze da Roma e dal Palatino, la prossimità al grande fiume, condivisa di fatto da quasi tutti gli agri di cui abbiamo notizia all’interno all’ager Romanus antiquus,18 e una anche solo virtuale relazione topografica e visiva con l’Aventino, il colle dove per la vulgata Remo avrebbe preso gli auspici. Si può aggiungere che la località doveva trovarsi non solo entro i confini dell’ager antiquus,19 ma entro il suo nucleo originario, quale poteva essere concepito dagli annalisti e dagli antiquari romani, escludendo cioè le addizioni territo13 Da ultimi Ernout 1969; cil , i, 2, 4 (1986), p. 964, ad n. 971; Belardi 1987, p. 106, nota 21c; D’Alessio 2000, con altra bibl. La menzione del fondatore dello ius fetiale assimila la trasgressione di Remo a un atto di guerra, così come fu considerata la prima secessione della plebe, composta con l’intervento dei Feziali (Dion. Hal., vi, 89, 1). 14 È un fatto che la monottongazione -ai > -e (Remureine) sia attestata nell’epigrafia latina solo sui cippi prenestini (Wachter 1987, p. 187, nota 491; Franchi De Bellis 1997, pp. 46 e 130, n. 62), che conoscono anche la grafia, peraltro assai diffusa, ei per /i/ (Wachter 1987, p. 187, nota 493; Franchi De Bellis 1997, p. 47: particolarmente calzante il confronto con i cognomi Sabeinus e Tarenteinus della gens locale dei Tampii, come risulta da illrp 133, 1143). Considerato il carattere pubblico delle quattro dediche e la loro datazione in età tardo-augustea, sostenuta da molti, non si può non pensare al grammatico, morto intorno al 22 d.C. (D’Anna 1992, p. 60), cui Augusto affidò l’educazione dei suoi nipoti, ospitandolo in una parte della sua casa sul Palatino (Suet., gramm. et rhet., 17, 2). Se invece i cippi scendessero nell’età di Claudio si potrebbe vedere nella dedica a Remurina la vasta erudizione dell’imperatore, che non solo ampliò il pomerio urbano ma vi incluse l’Aventino, il colle che almeno dal tempo dell’augure Messala, console nel 53 a.C., era stato collegato (ma non da Varrone, come si è detto) agli infausti auspici di Remo (cfr. l’Aventinus Remus di Prop. iv, 1, 50) (Merlin 1906, p. 259). 15 Mommsen 1881, p. 17; Latte 1960, p. 112, nota 2. 16 Quattro miglia corrispondono infatti a km 5.920, ossia a solo m 160 in più rispetto a trenta stadi (km 5.760), cinque miglia a km 7.400. D’altra parte è errato affermare che Strabone e Dionigi anche in altre situazioni facciano corrispondere 30 stadi a 5 miglia (così Wiseman 1999, p. 109, nota 71, seguito da Coarelli 2003, p. 43, nota 4): il passo di Strabone su Phestoi (v, 3, 2) si riferisce a una località ancora non identificata (Scheid, 1990, pp. 98-100), quello citato di Dionigi sull’accampamento di Coriolano si riferisce al secondo accampamento dei Volsci, posto al iv miglio della via Latina (viii, 36, 3) (Fig. 1: 17), e non al primo, posto alle fossae Cluiliae, cioè al v miglio della via Appia (Fig. 1:16), che è correttamente detto non a 30 ma a 40 stadi dalla città (viii, 22, 1: cfr. Plut., Cor. 30). Sulla questione: Quilici Gigli 1981, p. 547 sg. 17 Per Decima: Bedini 1977, pp. 289-294. Per Lavinio e altre testimonianze ‘archeologiche’ utilizzate dagli antichi: Mastrocinque 1993, p. 8 sg. 18 È il caso dell’ager Latiniensis, del Vaticanus, dell’ager Tarax o Tarquiniorum (Campo Marzio), del Semurius, che era ad esso contiguo (Cic., phil. 6, 14), e del Lintirius (se il nome va con linter, “barca”). Su un fiume diverso, l’Aniene, ma sempre in una posizione di confine, era l’ager Pupinius. 19 Segnato da Numa con termini (fonti in Piccaluga 1974, pp. 177-181).

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Fig. 1. Il suburbio meridionale di Roma in epoca arcaica (da Quilici, Quilici Gigli 1978, tav. lvii, con aggiunte). 1. Rupe di S. Paolo; 2. Forte Ostiense; 3. santuario dell’eur: 4. M. del Finocchio; 5. santuario della dea Dia; 6. Acqua Acetosa Laurentina; 7. Torrino; 8. Ficana; 9. necropoli di Castel Porziano; 10. Tor de’ Cenci; 11. Casale Perna; 12. necropoli e sito antico di Decima; 13. Trigoria; 14. Tellene; 15. Mugilla; 16. Fossae Cluiliae; 17. santuario di Fortuna Muliebris.

riali attribuite a Romolo, che le avrebbe realizzate alquanto dopo l’avvenuta fondazione (dopo il ratto delle Sabine l’estensione verso N, con l’inclusione di Antemnae e il superamento dell’Aniene; ancora più tardi, morto Tito Tazio, quella verso O, al di là del Tevere).20 Come ha opportunamente ricordato Wiseman, l’unica proposta di localizzazione avanzata in passato risale al grande Barthold G. Niebuhr, reduce dal soggiorno a Roma in qualità di ministro plenipotenziario di Prussia (1816-1823), che gli aveva consentito di acquisire una conoscenza approfondita della città e dei suoi dintorni, non posseduta all’epoca della prima edizione (1811-12) della sua Römische Geschichte.21 Lo storico affermava che i gemelli disputavano tra loro «se fondare Roma sul monte Palatino o Aventino – secondo un’altra tradizione, sul Palatino oppure quattro miglia più a valle sul fiume», e precisava in nota: «Questo dovrebbe essere il monte di là da San Paolo [jenseits St. Paul]. Non dubito che sia esistita una Remoria e questa altura è assai appropriata per un insediamento, data l’aria sana».22 20 Cfr. Carandini 1997, pp. 445-456, fig. 24; Carafa 2000. 21 Come egli stesso ampiamente sottolinea nell’introduzione alla seconda edizione della sua opera (1827), che è quella comunemente citata. 22 Niebuhr 1827, p. 227 sg., nota 568 (trad. inglese: Cambridge, 1831, p. 220 sg., nota 618; trad. italiana: Pavia, 1832, p. 205, nota 618; francese: Bruxelles, 1842, p. 206, nota 618). La stessa affermazione ritorna nell’edizione in

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L’altura cui si riferiva Niebuhr non può essere la Rupe di San Paolo (Figg. 1: 1, 3: A), come ha inteso Wiseman, suggestionato dalla collocazione in quel luogo di Remuria nell’edizione inglese (1834), curata da W. Gell, della carta archeologica dei dintorni di Roma,23 realizzata dopo una lunga collaborazione con A. Nibby, che poco più tardi l’avrebbe a sua volta edita e commentata, espungendo tranquillamente il toponimo ‘gelliano’ dalla carta e senza fare ad esso alcun cenno nel testo.24 Né può essere l’altura in parte occupata più tardi dal Forte Ostiense (Figg. 1: 2, 2-3: B), ai cui piedi, in corrispondenza del iii miglio della via omonima, era stato da tempo ubicato il Vicus Alexandri.25 Le quattro miglia di cui parla Niebuhr fanno capire che egli pensava a una delle alture poste al di là del Fosso delle Tre Fontane, sulle quali a partire dal 1937 è stato edificato il complesso monumentale dell’E 42 (oggi eur), e precisamente a quella più erta e più vicina al fiume, che sulla levata del 1873 della carta dell’igmi porta il nome di «M. del Finocchio» (quota 45) (Figg. 2-3: C), compreso nella «Tenuta del Grottone» (Fig. 4).26 Altura che R. Lanciani chiama «collina dei Grottoni» e pone al iv miglio della via Ostiense, segnalando sulla sua pendice verso il Tevere i notevoli resti di una villa romana, di cui dà la pianta, venuti alla luce in occasione dei lavori per la costruzione del ponte di ferro destinato a collegare l’Ostiense con la Magliana.27 La collina, oggi completamente urbanizzata, è tuttavia ancora facilmente riconoscibile, perché sulla spianata sommitale si erge l’alta mole della chiesa dell’eur, intitolata ai Ss. Pietro e Paolo (Figg. 3: C, 6). Per altitudine (pari a quella dell’Aventino, del Palatino e del Campidoglio), prossimità al Tevere, estensione e natura geologica (tufo litoide, con l’unico affioramento di travertino un sol volume della Geschichte (Niebuhr 1853, p. 127, nota 568), mentre in quella delle lezioni universitarie curata dal figlio, basata su appunti presi da più studenti e in due corsi successivi (1827-28 e 1828-29), la distanza scende a tre miglia (Niebuhr 1849, p. 39). Non si tratta di un lapsus freudiano per giustificare la precedente ubicazione presso S. Paolo (come vorrebbe Wiseman 1999, pp. 180, nota 4, e 188, nota 74), ma della svista di ascoltatori disattenti, che nello stesso passo fanno citare dal loro maestro Plutarco al posto di Dionigi (!). Piuttosto quel che si ricava dalle lezioni è la certezza di Niebuhr che «in the earliest times there were two towns, Roma and Remuria», considerate «evidently Pelasgian places», la seconda delle quali sarebbe stata trasferita sull’Aventino da una tradizione recenziore, ancora ignota ad Ennio; notevole anche l’ampio risalto dato, nell’identificazione della Remuria lontana da Roma, all’aria sana del sito (allora rara nella Campagna, infestata dalla malaria), impensabile senza una diretta conoscenza dei luoghi (Niebuhr 1849, pp. 39-41). 23 Gell 1834, ii, p. 191 (la carta anche in Frutaz 1972, tav. 240). Poiché nella prima edizione della carta (1827) Remuria è assente (Frutaz 1972, tav. 239), è verosimile che Gell l’abbia inserita in quella del 1834 per rettificare la localizzazione datane nel frattempo da Niebuhr. 24 Nibby i-iii (ristampa dell’edizione del 1837). 25 Gell 1834, p. 347; Nibby iii, p. 491 sg.; Lanciani 1891, pp. 217-221 (“collina di Ponte Fratto”); Tomassetti 1977, pp. 154-157. Da ultimo Barbini 2001. 26 Frutaz 1972, tav. 338 sg. (toponimo caduto nei successivi aggiornamenti della carta); Tomassetti 1977, p. 158 sg. con la relativa mappa del secentesco catasto alessandrino. Sul toponimo, forse risalente ad età tardoantica, vedi a nota 36. Devo gli originali delle carte ‘storiche’ dell’igmi da me riprodotte alla cortesia dell’amica Maria Fenelli. 27 Lanciani 1891, pp. 222-224 (per la localizzazione vedi anche Lanciani 1903, tav. xii, dove il sito è segnato con un punto rosso). Nella carta di Eufrosino della Volpaia, edita nel 1547, sul M. del Finocchio insiste lo scomparso C(asale) di S. Sisto (Ashby 1914, p. 48: Frutaz 1972, tav. 29), evocante il convento dei Ss. Domenico e Sisto, che possedeva la vicina tenuta dell’Acqua Acetosa (Laurentina) (Nibby i, p. 2 sg.). Ma già nel 1554 la tenuta del Grottone (è questo il nome autentico, che Lanciani banalizza in Grottoni) risulta tra i beni del monastero aventino di S. Saba, concessi nel 1573 da Gregorio XIII al Collegio Germanico e Ungarico di Roma (Nibby ii, p. 573; Tomassetti 1977, cit.), assieme alla contigua tenuta di Tor di Valle (mappa del catasto alessandrino in Frutaz 1972, tav. 127), che arrivava fino al Torrino (Fig. 1:7), e a quella più lontana di Tor de’ Cenci (Fig. 1:10) (Nibby iii, p. 231). Il che, dopo l’annessione alla Prussia delle province cattoliche di Sassonia e della Renania, contribuisce a spiegare la conoscenza dei luoghi da parte dell’ambasciatore Niebuhr (artefice in quegli anni del difficile concordato tra la Prussia e la Santa Sede). Nella carta del corso del Tevere di Chiesa e Gambarini del 1744 sono segnate in corrispondenza della tenuta del Grottone soltanto le «Capanne per i Custodi del Carbone», prodotto nelle selve costiere e qui raccolto in attesa dell’imbarco per Roma (Frutaz 1972, tav. 194).

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Fig. 2. Particolare del foglio 150 iii NO dell’igmi, levata del 1873, aggiornata al 1925. B. sito del Forte Ostiense; C. villa romana al iv miglio dell’Ostiense; D. sito del tempio dell’eur; E. abitato di Acqua Acetosa Laurentina.

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Fig. 3. Particolare dello stesso foglio, aggiornato al 1949: A. Rupe di S. Paolo; B. Forte Ostiense; C. sito della villa romana; D. sito del tempio dell’eur.

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Fig. 4. Particolare dello stesso foglio, aggiornato al 1906.

osservabile a valle di Roma) (Fig. 5),28 la collina doveva apparire a Niebuhr assai più rispondente ai connotati attribuiti da Dionigi alla città di Remo di quanto non lo fosse l’angusta Rupe di San Paolo. L’errata identificazione del sito cui intendeva riferirsi il fondatore della moderna storiografia romana ha indotto Wiseman a rifiutare la sua proposta e ad avanzarne incautamente una propria: Remuria sarebbe stata sul Monte Sacro, colle ‘plebeo’ alla pari dell’Aventino. Ma quel colle, oltre a essere privo di ogni connessione d’ordine topografico e storico con l’Aventino, è fuori dell’ager antiquus originario, essendo al di là dell’Aniene, non ha nulla a che vedere col Tevere, si trovava paullo ultra tertium miliarum ed era sacro non a una dea ma a Giove (Fest., pp. 422, 424 L.). Rilevando tali insormontabili difficoltà, Carandini quasi incidentalmente e Filippo Coarelli con un apposito contributo hanno avanzato nuove proposte, che, com’era nelle cose, hanno riportato l’attenzione sullo scacchiere tiberino a valle di Roma. Per Carandini Remuria potrebbe identificarsi con l’abitato protostorico di Acqua Acetosa Laurentina (Figg. 1: 6, 2: E),29 28 Tevere 1986, p. 105, con fig. a p. 102. 29 Carandini 1997, p. 447, nota 8 (un cenno anche in Carandini 2000, p. 136, nota 14).

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che risale sì ad età pre-romulea, ma dista da Roma, come egli stesso riconosce, sei miglia invece che quattro.30 Per Coarelli la località si troverebbe sulla via Campana, poco oltre il santuario della dea Dia e di Fors Fortuna (Fig. 1: 5), tra il v e il vi miglio, e precisamente sull’altura nota come Colle delle Piche, nome che conserverebbe il ricordo di antiche funzioni augurali, incombente sul Fosso della Magliana poco prima della confluenza nel Tevere.31 La proposta ha dalla sua la prossimità a un antichissimo santuario, ma il luogo è anche in questo caso troppo lontano da Roma e soprattutto si trova sì nell’ager antiquus, seppure ai suoi confini, ma nella parte di esso dislocata al di là del Tevere, fuori del territorio di pertinenza albana che è lo scenario in cui la tradizione fa muovere i gemelli prima della fondazione della città. Siamo infatti nella parte del territorio di Veio che si riteneva conquistata da Romolo a distanza di molti anni dalla fondazione di Roma, dopo la conclusione della diarchia con Tito Tazio e il successiFig. 5. Carta geologica dell’area romana vo conflitto insorto con gli Etruschi per (da Tevere 1986). In A il M. del Finocchio. Fidene,32 e dove pertanto è impensabile che venisse attribuita a Remo l’intenzione di fondare la città. A questo punto non resta che ritornare alla proposta di Niebuhr, che ha dalla sua anche la naturale proiezione dell’Aventino in direzione del mare, sia in età antica33 che medievale e moderna.34 Coarelli non la prende in considerazione perché Remuria sarebbe stata a cinque miglia da Roma, e al v miglio della via Ostiense non si conoscono

30 La distanza era precisata già da Lanciani 1903, col. 140 («alla distanza precisa di 6 miglia dalla porta Nevia»), che per questo non esitava a localizzarvi i Terminalia, come poi faranno anche G. Lugli e S. Quilici Gigli (cfr. Colonna 1991, pp. 209-214). 31 Coarelli 2003. Il colle compare come “M. delle Piche” nella levata dell’igmi del 1873 (Frutaz 1970, tav. 378: cfr. Nibby ii, p. 354). 32 Carafa 2000, p. 341, n. 8. 33 Basti ricordare che sull’Aventino sarebbero stati insediati da Anco Marcio gli abitanti di Ficana, Politorium e Tellenae. Del resto il pectuscum Palati creato da Romolo al di là del Tevere fronteggiava la città e il suburbio, Remoria compresa, ea parte, in qua plurimum erat agri Romani ad mare versus, et qua mollissime adibatur Urbs (Fest. p. 232 L) (penso che pectuscum equivalga a gr. ÂÚ·›· e sia una denominazione alternativa e informale dei Septem Pagi, estesi lungo il fiume soprattutto a valle della città: le altre civitates dell’area, chiamate a confronto per avere colles aliquos oppositos, dovrebbero essere Ficana, Antemnae, Fidene e Crustumerium). 34 Quando gran parte del territorio gravitante sulle vie Ostiense e Laurentina è appartenuta ai monasteri di quel colle (S. Saba e S. Alessio) e delle sue vicinanze (Ss. Domenico e Sisto). Sappiamo che S. Saba possedeva nel xvi secolo, prima della donazione al Collegio Germanico, un latifondo stimato in circa 10.000 ettari, esteso in forma discontinua da Porta S. Paolo al confine della pineta di Castel Fusano (Lanciani 1903, col. 160).

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tracce di un insediamento antico.35 Ma, come si è detto, i circa 30 stadi di Dionigi, se misurati dalle mura serviane, corrispondono esattamente a quattro miglia, e al iv miglio dell’Ostiense sono stati osservati nella tenuta del Grottone, come pure si è detto, consistenti resti archeologici (Fig. 1: 4). Lanciani precisa che la villa romana da lui illustrata36 si trovava a km 5.400 da Porta S. Paolo (e quindi a circa km 5.900-6.000, ossia le richieste quattro miglia, dalle porte Raudusculana e Lavernale, che erano le più vicine tra quelle delle mura serviane, e a circa km 7.000 dalle Scalae Caci, cioè a poco meno di cinque miglia dal Palatino). Misti a «vasellame campano a vernice nera», simile a quello di età medio-repubblicana da lui raccolto al Vicus Alexandri, Lanciani osservò «frantumi di olle simili nel colore, nella pasta, e nella cottura a quelle che nel pascolare di Castello sogliono contenere vasellame laziale».37 Il riferimento è ai contenitori a forma di dolio delle tombe a cremazione della prima fase laziale (x-ix secolo a.C.), rinvenute nel 18161817 presso Castelgandolfo e tempestivamente illustrate da Alessandro Visconti con un celebre disegno che conferiva al dolio la massima evidenza.38 Il che è poco per parlare di un insediamento delle fasi più antiche della cultura laziale, ma sufficiente per postularne uno risalente almeno all’età orientalizzante, dato che più tardi nel Lazio non è dato incontrare, nemmeno nell’impasto più grossolano, ceramiche fatte a mano, come erano i dolii delle tombe laziali, e non al tornio.39 Ma c’è in realtà assai di più di quel che ai loro tempi potevano conoscere, o soltanto immaginare, Niebuhr e Lanciani. Il Monte del Finocchio era una sorta di arce stretta e lunga, corrispondente alla dorsale che, nell’attuale topografia dell’eur, va dalla piazza dei Ss. Pietro e Paolo al complesso del Collegio gesuitico M. Massimo, dove terminava con una punta dirupata in cui affiorava il travertino (Fig. 5). L’adiacente vallecola, nel primo tratto quasi certamente artificiale, percorsa un tempo dall’antichissima via adducente a Decima (Figg. 1: 12, 6)40 e nei secoli scorsi dalla via della Valchetta (approssimativamente ricalcata oggi dal viale U. Tupini), separava la cresta del Monte del Finocchio da un vasto e frastagliato pianoro, il Monte della Creta, leggermente depresso nella zona centrale (quota 41), attraversata dalla via Cristoforo Colombo, e rilevato a conca sui due lati, di poco a O, in corrispondenza del c.d. Colosseo quadrato, assai di più (quota 45) e per una maggiore estensione sul lato opposto, in corrispondenza del Palazzo dei Congressi e del Museo della Civiltà Romana, dove i cantieri dell’E 42 hanno messo in luce e distrutto i resti di una grande villa di età tardo-repubblicana.41 L’arce e il pianoro costituivano una sola unità orografica, isolata da ripidi cigli che offrivano una difesa naturale, della superficie di almeno un centinaio di ettari, incombente a O sul breve fon-

35 Coarelli 2003, p. 44 sg. Al v miglio si trovava – fino alla demolizione avvenuta alla fine del xvi secolo – l’imponente monumento funerario di M. Antonius Antius Lupus, morto nel 191 d.C., ubicato in quello che doveva essere il fundus Antonianus, uno dei dieci fundi della massa ad Aquas Salvias, concessa nel 604 d.C. da papa Gregorio Magno alla basilica di S. Paolo fuori le mura (ltur , Suburbium, i, ad vv.). 36 Che probabilmente ha dato nome al fundus Villa Pertusa della massa ad Aquas Salvias, che era contiguo all’Antonianus (vedi la nota precedente). Si noti che il toponimo Grottone compare già in un documento della metà del xvi secolo (Lanciani 1903, col. 156), e quindi non ha a che fare con le cave di pozzolana di cui a nota 45. 37 Lanciani 1891, p. 223, con cartina a p. 222. 38 Colonna 1974, p. 283, tav. 128 in basso. Per il toponimo “pascolare di Castello” vedi Pinza 1900, p. 148, fig. 1; Antonielli 1928. 39 Colonna 1988, p. 303; Carafa 1995, p. 18. 40 Che credo anch’io da identificare preferibilmente con Solonium (cfr. Coarelli 1997, p. 145 sg.). Selciata in epoca romana (De Rossi 1972, p. 130 sg.), la via fu vista già da Nibby, che l’identificava con la Laurentina antica (Nibby iii, p. 621, seguito da Quilici 1996), e da Lanciani che, non essendo emersa l’importanza di Decima, la chiamava via Lavinate («se ne vedono ancora evidenti le traccie attraverso il Monte della Creta sino al Casale della Valchetta [che era all’incirca dove oggi è Largo K. Ataturk]»). 41 De Rossi 1972, p. 127 sg., con cartina.

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dovalle del Tevere, a N sul Fosso delle Tre Fontane, a E sulla vallecola anch’essa in parte artificiale percorsa dalla Via Laurentina, che adduceva a Lavinio ed era quindi non meno antica dell’altra,42 a S sul Fosso di Ponte Buttero. Quest’ultimo scorreva nella valle oggi in parte occupata dal lago artificiale dell’eur, per poi piegare a gomito verso il Tevere poco prima della punta meridionale dell’arce, dov’era scavalcato dalla via antica per Decima e assumeva il nome di Valchetta, che ritorna più volte nella zona come toponimo, in relazione allo sfruttamento del corso d’acqua da parte di gualchiere43 (Fig. 2). Il pianoro era compreso in parte nella tenuta delle Tre Fontane e per una parte assai maggiore nel “quarto”, detto Monte della Creta, della tenuta di Valchetto, proprietà dei Borghese e dei Serlupi,44 che nell’Ottocento lo lasciarono devastare da un proliferare selvaggio di cave, sia di argilla, al servizio della fornace di laterizi che vi fu impiantata sul versante S, sia della pregiata pozzolana rossa, assai richiesta nell’edilizia, trasportata a Roma dai due “porti della pozzolana” attrezzati sul fiume,45 mentre la malaria imperversava intorno all’Abbazia allora semiabbandonata delle Tre Fontane. Agli occhi di un antiquario di età tardo-repubblicana è perfettamente comprensibile che il complesso dell’arce e del pianoro, ben visibile da chi percorreva le vie Ostiense e Laurentina o navigava sul Tevere, magari in occasione dell’annuale Tiberina descensio verso il santuario della Magliana, evocasse il paesaggio in cui erano stati fondati tanti dei clara oppida dei Prisci Latini, per lo più scomparsi fin d’allora sine vestigiis (Plin., iii, 68-70). Come del resto ai giorni nostri il luogo è apparso idoneo ad accogliere l’insediamento dell’E 42, quando nel 1936 si trattò di ubicare e progettare quello che nelle intenzioni doveva essere il nucleo centrale della “Terza Roma” (Fig. 6), la Roma imperiale gravitante sul mare, rimasta un’utopia alla pari della Remoria di Remo: e ciò nonostante che le preferenze iniziali fossero andate alla Magliana.46 Né meno rilevante doveva apparire, agli occhi di un osservatore antico, la valenza strategica del sito, dato che un insediamento sorto su di esso era in grado di controllare non solo la navigazione del Tevere, in corrispondenza del vecchio ponte di ferro della Magliana (oggi sostituito poco più a monte da quello dell’autostrada di Fiumicino), ma anche le comunicazioni terrestri di Roma con i vicini centri del Lazio costiero. Il pianoro e la sua ‘acropoli’ erano infatti incuneati, possiamo dire, fra le tre viae publicae che, diramandosi a ventaglio dall’unico tronco rappresentato dalla via Ostiense, raggiungevano Ficana (il proseguimento dell’Ostiense) (Fig. 1:8), Decima (la via che se ne distaccava dal “ponte fratto” sul Fosso delle Tre Fontane) (Fig. 1:12) e Lavinio (la Laurentina, che se ne distaccava già prima, dal “ponticello” sulla Marrana di Grotta Perfetta). Il che significava mettere in comunicazione Roma con l’importante asse itinerario costiero che dall’Etruria, passando per quei centri, si dirigeva verso Ardea, Satrico e l’area pontina. Il pianoro era inoltre attraversato diagonalmente da una via, della quale gli sterri dell’E 42 hanno messo in luce e subito distrutto lunghi tratti di selciato (Figg. 2-3, 6):47 via che proseguiva verso 42 Anche se meno importante, a quanto pare, in età imperiale (Quilici 1996). 43 Non solo per la follatura dei panni, molto importante in un ambiente a economia agro-pastorale, ma anche per la lavorazione di metalli (come precisa un documento citato in Tomassetti 1977, p. 196 sg.). 44 Nibby iii, p. 365. 45 Registrati nella levata del 1873 dell’igmi, ma già Nibby 1819, ii, p. 281, ricorda che al vicus Alexandri «i bastimenti che rimontano il Tevere si caricano di quella terra vulcanica, comunemente chiamata pozzolana». Le cave resero tristemente famoso il luogo per i frequenti infortuni mortali, al punto da farlo definire popolarmente “la tomba di Roma” (riferimenti in Costantini 1999, pp. 289-291). 46 Su tutta la questione cito soltanto, anche per il corredo di foto dell’epoca, Insolera 2001, pp. 225-243, non che le cronache giornalistiche riportate con dovizia da Tomassetti 1977, pp. 137-153. Invece nei pressi della Magliana sorse nel 1940 la borgata popolare del Trullo (Insolera 2001, p. 79). 47 De Rossi 1972, pp. 123-128, con le due cartine.

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Fig. 6. Viabilità antica e sito del tempio arcaico sullo sfondo del manifesto del 1939 col progetto urbanistico dell’E 42 (da Bertilaccio, Innamorati 2004).

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l’Appia sull’asse della vecchia via di Vigna Murata, ricalcando il segmento terminale di uno degli antichi itinerari che da Alba portavano direttamente al Tevere e alle saline veienti, evitando il territorio laurente (Fig. 1), e che era facile immaginare percorsi, all’epoca dei gemelli, dai pastori di Amulio e di Numitore con le loro greggi. * Orbene, sul margine settentrionale del pianoro del Monte della Creta, quasi a ugual distanza tra la via per Decima e quella per Lavinio, i lavori per l’edificazione del complesso dell’E 42 hanno portato in luce all’inizio del 193848 proprio una delle testimonianze che si cercavano per convalidare la localizzazione di Remuria: quella di un santuario di campagna, dotato già in età arcaica di un edificio templare, rimasto in piedi fino ad età tardo-repubblicana. La scoperta è avvenuta nello scavo per le fondazioni del palazzo già dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (ina), fiancheggiante da E l’ingresso nell’eur della via Cristoforo Colombo, tra il piazzale delle Nazioni Unite e la piazza J. F. Kennedy (Figg. 1: 3, 2-3: D, 6: “Tempio”). La magra notizia apparsa un anno dopo nella Cronaca dei ritrovamenti e dei restauri dell’organo della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, a firma di P. E. Arias, si esprimeva in questi termini: «negli sterri che si eseguono per i lavori dell’Esposizione Universale del 1942, si sono rinvenute casualmente, all’imboccatura di un cunicolo scavato nel tufo, due antefisse d’argilla gialla chiara» a testa femminile senza nimbo, ben conservate anche nella policromia, che dopo una sommaria descrizione venivano datate alla «fine del vi-principio del v secolo a.C.» (Figg. 7-9).49 Più di trent’anni dopo Giovanni M. De Rossi, cui si deve il primo e per ora unico tentativo di delineare la topografia antica dell’eur, ha cercato di ricostruire l’inventario del ritrovamento,50 senza però rendersi conto che in realtà i ritrovamenti erano stati due e che ad essi subito dopo erano stati erroneamente associati i frammenti dell’eccezionale antefissa tardo-arcaica con figura intera, ma conservata solo in parte, di un satiro a metà del vero, i cui zoccoli equini l’avevano fatto scambiare per un cavallo  (!), rinvenuta anch’essa casualmente ad Ardea nel 1940.51 Grazie al coinvolgimento della mia allieva Claudia Carlucci, esperta di terrecotte architettoniche, che ha avviato in proposito una ricerca ancora in corso, con la preziosa collaborazione del personale del Museo Nazionale Romano,52 sono in grado di precisare, grazie alle schede d’ingresso al museo finora reperite, che le due antefisse dell’E 42 facevano parte di un gruppo di nove terrecotte, entrate nel museo il 14-iii-1938, inventariate dopo il 1940 ricevendo i numeri da 125612 ad almeno 125622, numeri in cui sono inclusi anche un gruppo di tre terrecotte dell’E 42, entrate nel corso del 1938 senza precisazione di mese e giorno,53 e il gruppo di frammenti della grande antefissa da Ar48 Consentono di precisare di data le schede d’ingresso nel Museo Nazionale Romano dei reperti relativi, di cui è detto più avanti. 49 Arias 1939, fig. 5 (lo studioso ne parla in qualità di ispettore della Soprintendenza alle antichità di Roma). 50 Compilando due elenchi (De Rossi 1972, pp. 124-126), che di seguito chiameremo A e B. Nulla di più in Avetta 1985, p. 49 sg., n. 74. 51 Come è stato chiarito già da Andrén 1952, pp. 125-127, figg. 2-3. Delle vicissitudini museali di questa antefissa, che negli anni ’60 si trovava a Villa Giulia (cfr. Torino 1967, p. 107, n. 316), non v’è traccia in Sanzi Di Mino 1983, p. 58 sg., n. 21. Ottime foto in Roma 1990, tavv. xviii-xix. 52 In particolare della sig.ra Marilena Mulas, addetta all’Archivio. 53 La consistenza dei due gruppi si ricava dal numero d’ordine assegnato a ciascun pezzo, riferito rispettivamente a un totale di 9 e di 3. I due gruppi si distinguono inoltre per la data d’ingresso, come si è detto, e anche per l’indicazione di provenienza, che per il primo è «Zona dell’E 42 alle Tre Fontane», o simili, per il secondo soltanto «Zona dell’E 42».

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dea, non ancora riconosciuti come pertinenti a un unico esemplare. L’identificazione delle terrecotte provenienti dall’E 42 non è stata al momento completata (si dà il quadro della situazione attuale in Appendice). Poiché due delle tre terrecotte del secondo gruppo appartengono a lastre Campana, è assai probabile la loro provenienza dalla villa tardo-repubblicana rinvenuta sul lobo nord-orientale del pianoro.54 Quelle entrate nel museo assieme alle due antefisse a testa femminile sono databili al iii-prima metà del ii secolo a.C. e consistono in un frammento di sima con coppia mal conservata di cavalli in corsa ad altorilievo, un piede calzato di sandalo e uno nudo, spettanti a quel che sembra ad altorilievi, e un frammento di lastra non ritrovato «su cui sono tracciate a stecca una linea diritta e tre oblique», con due fori per chiodi. La provenienza di tutto il gruppo da quella che sembra essere stata una vera Fig. 7. Antefissa dal tempio dell’eur, e propria favissa, ossia un deposito di terinv. 125612 (da Roma 1990). recotte architettoniche accumulato entro un’opera idraulica dismessa, contigua al tempio cui le stesse erano appartenute, può dirsi a mio avviso certa. Apprendiamo così che sul pianoro su cui è venuto a insediarsi l’E 42 è esistito un tempio, verosimilmente di piccole dimensioni, decorato in età tardo-arcaica con antefisse a testa femminile di un unico tipo, cui tra iii e ii secolo a.C. si sono aggiunte una sima e forse un altorilievo frontonale. La sua esistenza offre, in aggiunta alle considerazioni fatte sopra sulla distanza da Roma e sui dati paesistico-ambientali del sito, la conferma credo definitiva che la Remuria della tradizione sia da localizzare nella zona dell’eur. Ma vediamo più da vicino quel che possono dirci, riguardo alla divinità titolare e alla cronologia, le due antefisse superstiti (e le altre due che, come subito si dirà, possono ascriversi allo stesso ritrovamento). Manca ancora per esse un adeguato inquadramento critico, benché la meglio conservata (Figg. 7-8), edita fotograficamente già nel 1939, abbia avuto un precoce esordio manualistico e sia stata poi più volte riconsiderata55 (a differenza dell’altra che ha dovuto attendere il catalogo delle antefisse del museo, apparso nel 1983, per essere riprodotta) (Fig. 9).56 Va anzitutto annotata la totale identità, a prescindere dal diverso ornato dipinto sul diadema, sia tra di esse che con un terzo esemplare, non meno ben conservato, specialmente nei colori, pervenuto non sappiamo quando né come ad una collezione privata di New York, la collezione Pomerance, formata a partire almeno dal 1953 ed esposta per la prima volta nel 1966 con un’apposita 54 Cfr. supra, nota 41. I due frammenti raffigurano un satiro che pigia l’uva suonando le tibie (inv. 125620, De Rossi B 4) e «una testa di Medusa fra motivi vegetali» (inv. 125622, assente negli elenchi De Rossi). 55 Arias 1941, p. 13 sg., tav. i: 1; Riis 1967, p. 83 sg., fig. 2; Riis 1981, p. 33, n. 11 E; Sanzi Di Mino 1983, p. 53 sg., n. 9, tavv. A, iii; Cristofani 1987, p. 295, figg. 7, 9; Colonna 1988, p. 513, fig. 479; Roma 1990, p. 142 sg., n. 6.3.1, tav. xiii. 56 Sanzi Di Mino 1983, p. 54, n. 10, tav. iii in basso; Roma 1990, p. 143, n. 6.3.2.

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Fig. 8. Antefissa dal tempio dell’eur, inv. 125612 (da Sanzi Di Mino 1983).

mostra tenuta presso il Brooklyn Museum (Fig. 10).57 Si tratta, a mio avviso senza possibilità di dubbio, di un’antefissa proveniente dal medesimo ritrovamento, trafugata prima dell’intervento del personale della Soprintendenza, o nonostante tale intervento, e quindi emigrata oltre Oceano nei travagliati anni del dopoguerra. I tre esemplari appartengono a una classe piuttosto rara di antefisse di ‘seconda fase’ a testa femminile priva di nimbo,58 contraddistinte non solo dalla costante presenza del diadema, ma anche dall’aggetto pressoché totale della testa al disopra del coppo e dalla conformazione a tutto tondo della stessa, che ha richiesto l’impiego di una seconda matrice per plasmarne la metà posteriore. È questa una tipologia che sembra discendere dagli acroteri apposti sui coppi di riva nelle terrecotte etrusche di tradizione orientalizzante,59 ma che in realtà, essendo adottata esclusivamente per teste femminili esibenti una particolare acconciatura, il tutulus, sviluppata all’indietro e verso l’alto,60 trova evidentemente proprio in essa la sua motivazione. L’acconciatura in questione consiste, com’è noto, in una catasta di trecce avvolte a ciambella e fasciate tutt’intorno da una benda (vitta), quasi sempre coperte da una cuffia o dal cappuccio ben calzato di un mantello o di uno scialle, che lascia in vista, dinanzi al diadema, solo uno o due-tre avvolgimenti iniziali della benda e una frangia 57 Pomerance Collection p. 115, n. 135 (il confronto con le antefisse dell’eur è fatto sulla base di una lettera di A. Andrén, evidentemente interpellato per un giudizio); Stuart Teitz 1967, p. 47 sg., n. 33, fig. a p. 128; Cristofani 1987, p. 295, nota 3. Alt. cm 27, alla sommità della testa foro per il menisco (presente anche nell’esemplare meglio conservato dell’eur). Nell’introduzione al catalogo della mostra si dice che la collezione sarebbe stata formata nei precedenti dodici anni (Pomerance Collection, p. 10, ma a p. 120 si cita una lettera del Beazley del 7/11/1953). 58 Winter 1978, p. 39 sg. 59 Del genere ben noto ad Acquarossa e a Capua. Cfr. Bonghi 1993, pp. 47-50, figg. 4-14; Bonghi 1994, p. 489 sg., tav. vii. 60 Rinvio in proposito a Colonna 1996, p. 178 sg. (a proposito degli struppi dei Dioscuri nella tomba del Letto Funebre).

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Fig. 9. Antefissa dal tempio dell’eur, inv. 125613 (da Sanzi Di Mino 1983).

di capelli variamente pettinata intorno al viso. La voluminosa acconciatura, derivata dalla mítra dei Lidi assieme al relativo copricapo, ha avuto una enorme fortuna sia nella Ionia asiatica che nell’Etruria tardo-arcaica, come attestano, tra il 540 e il 470 a.C., innumerevoli monumenti, tra i quali si segnalano le statuette bronzee,61 le pitture delle tombe tarquiniesi,62 gli specchi,63 i cippi chiusini64 e i cofanetti d’avorio o di osso,65 venendo sporadicamente adottata anche da uomini desiderosi, specie nel ruolo di banchettanti e di comasti, di far sfoggio di habrosýne.66 A Roma Varrone l’attribuisce alle matres familias del buon tempo antico, evocandola a proposito del copricapo sacerdotale a forma di meta (l.l., vii, 44), mentre Festo informa che l’acconciatura era rimasta in uso nel costume delle flaminicae, così come il copricapo conformato a meta era entrato a far parte del costume dei flamini e dei pontefici (Fest., p. 484 sgg. L.).67 Nel caso delle antefisse, riservate in questa età esclusivamente al decoro di edifici sacri, la funzione, confermata dalla costante assenza di partners maschili, è evidentemente quella di connotare la donna come una ninfa o una dea, sottolineandone, assieme al diadema e ai gioielli (orecchini e collana), il ruolo di sposa e di madre. Per stabilire il posto che le antefisse dell’eur occupano all’interno della classe occorre passare brevemente in rassegna il suo inventario, tenendo conto delle modifiche inter61 Ricca esemplificazione in Richardson 1983. 62 In un arco cronologico che va dalle tombe dei Giocolieri e delle Leonesse (530-520 a.C.) alla tomba delle Bighe (490 a.C.), con un’ultima isolata apparizione nella ‘coppiera’ della tomba del Letto Funebre (470-460 a.C.) (Weber-Lehmann 1985, p. 40 sg., tav. 29: 1). 63 Mayer-Prokop 1967, tavv. 18, 20, 24, 29, 33 sg., 36. 64 Jannot 1984, passim. Nel cippo del Museo Barracco il tutulus distingue chiaramente la domina dalle ancelle che l’attorniano (p. 377, fig. 319). 65 Martelli 1985. 66 Roncalli 1965, p. 41, n. 40, tav. xxii; Weber-Lehmann 1985, p. 30, tavv. 8, 18:2, 23: 1-2; Martelli 1985, passim. 67 Bonfante 1973, pp. 596 e 614.

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Fig. 11. Antefissa dal tempio B di Pyrgi (foto Reale).

venute nel corso del tempo sia nell’iconografia, riguardo al numero degli avvolgimenti della benda lasciati in vista, alla pettinatura della frangia di capelli e alla forma degli orecchini, sia nella resa stilistica. Alla testa della classe si pongono due esemplari purtroppo alquanto mutili, l’uno proveniente dalla decorazione originaria del tempio B di Pyrgi, e verosimilmente dal tetto frontonale della sua fronte posteriore (Fig. 11),68 l’altro di probabile provenienza ceretana, giunto al Louvre con la collezione Campana, conservante la policromia69 (serie i). Tratti peculiari sono gli occhi grandi e dal bulbo rilevato, la frangia di capelli bipartita al centro e mossa da ondulazioni parallele, l’unico avvolgimento della benda e il suo margine ispessito, i grandi orecchini a disco. La datazione può essere fissata verso il 520-510 a.C., ossia con un lieve anticipo rispetto a quella del tempio B (510-500 a.C.), trattandosi di una matrice a quanto pare non creata appositamente per il santuario, come è nel caso di tutte le altre antefisse spettanti alla sua decorazione originaria, ma solo adattata. Vengono quindi un esemplare del Museo delle Terme di provenienza ignota (Fig. 12)70 e uno in collezione privata a Frosinone, di provenienza locale71 (serie ii), accomunati, al di là delle evidenti differenze di matrice, dagli occhi cerchiati e assottigliati, dai due avvolgimenti della benda e dagli orecchini rimpiccoliti. La temperie stilistica ancora del tutto ionizzante depone per una datazione entro il ventennio 510-490 a.C. Seguono un esemplare da Caere alla Ny Carslberg Glyptotek72 e uno detto pure da Fig. 10. Antefissa della coll. Pomerance attribuita al tempio dell’eur (da Stuart Teitz 1967).

68 Melis 1972, pp. 343-345, fig. 276 sg. (tipo B:iii); Winter 1978, p. 40, tav. 16: 3. Per la collocazione: Colonna 1972, p. 404. 69 Andrén 1940, p. 500 sg., I 13, tav. 157: 529. 70 Sanzi Di Mino 1983, p. 51 sg., n. 7, tav. ii; Cristofani 1987, p. 295, fig. 6. 71 Cristofani 1987; Roma 1990, p. 142, n. 6.2, tav. xii. 72 Cristofani 1987, p. 295 sg., fig. 5; Roma 1990, p. 142, n. 6.1.2, con fig.

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Fig. 12. Antefissa di provenienza ignota al Museo Nazionale Romano (Sanzi Di Mino 1983).

Fig. 13. Antefissa in collezione privata ticinese (da Lugano 1986).

Caere, ma probabilmente anch’esso dall’eur, in una collezione privata ticinese (Fig. 13)73 (serie iii), usciti dalla stessa matrice, nei quali la frangia di capelli è resa con una calotta liscia dal margine irregolarmente ondulato, gli avvolgimenti della benda sono diventati tre,74 la fronte è bassa, gli orecchini piccoli e solo dipinti: il confronto con la testa di Iuno del complesso acroteriale di Satricum (Fig. 14)75 depone per una datazione nel decennio 490-480 a.C. Arriviamo infine alle antefisse di provenienza esclusivamente laziale (serie iv), che ai tre avvolgimenti della benda e agli orecchini dipinti associano una frangia di capelli spioventi sulla fronte con una cascata di sottili ciocche quasi rettilinee, ispirata a pettinature maschili di incipiente stile severo.76 Distinguiamo una prima versione (iv A), in cui la frangia è piuttosto corta e le forme del viso piuttosto piene, documentata da un esemplare adespoto al museo delle Terme77 e da altri rinvenuti isolatamente a Tivoli, Palestrina (Fig. 15) e Fidene,78 databile nel decennio 480-470, e una 73 Lugano 1986, p. 21, n. 4.1 (“probabilmente da Cerveteri”). Citata in Roma 1990, p. 142, n. 6.1.2. Suppongo che l’antefissa provenga dal tempio dell’eur sia per l’eccezionale conservazione della policromia, che l’accomuna alle tre provenienti da quel tempio, sia perché la mostra di Lugano, di cui era il pezzo di maggior richiamo, riprodotto a colori sulla copertina del catalogo, è stata ideata e curata, sull’onda delle mostre toscane dell’«anno degli Etruschi», da Pino e Stefano Donati, eredi dell’antiquario-collezionista Donati, presso il quale erano all’inizio degli anni ’50 le tre teste fittili dette dai dintorni di S. Paolo di cui si dirà più avanti, con ogni probabilità provenienti dall’eur (vedi infra, nota 82). 74 Come già apparivano nelle tombe dipinte della Caccia e Pesca e Cardarelli. 75 Roma 1990, p. 241 sg., n. 68; Lulof 1996, p. 98, fig. 53, tav. 30. 76 Come già rilevato da Cristofani 1987, p. 295. 77 Sanzi Di Mino 1983, p. 52 sg., n. 8, tav. iv. 78 Tivoli: Winter 1978, p. 40, tav. 16: 2; Riis 1981, p. 33. 10 E; Roma 1990, p. 143, n. 6.5, con fig. Palestrina: Riis 1981, p. 33, n. 12 E, con bibl.; Cristofani 1987, p. 295, fig. 8; Roma 1990, p. 143, n. 6.4. Fidene: Roma 1990, p. 157 sg., n. 7.2.3, con fig.

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Fig. 14. Testa di Iuno dal tempio di Satricum.

versione leggermente recenziore (iv B), dai tratti acerbi, pervasi da un sottile e melanconico riserbo, che è quella documentata dai tre esemplari del tempio dell’eur (Figg. 7-9), ottenuta ritoccando la matrice Fig. 15. Antefissa da Palestrina apposta per esso, per la quale si può pro(da «ArchLaz», viii). porre una datazione intorno al 470 a.C. L’identificazione della divinità con tutulus raffigurata dalle antefisse in questione, in assenza di specifici attributi,79 ovviamente non può venire che dai contesti di provenienza. Se nel caso del tempio B di Pyrgi non può esservi dubbio che si tratti dell’etrusca Uni, titolare del santuario, forse, a giudicare dal grande fiore di loto applicato sull’alto della cuffia dietro il diadema, nella sua ipostasi come Astante/Afrodite, in quello del tempio dell’eur, trovandoci in un sito che tutto lascia ritenere sia quello in cui gli antichi ubicavano la Remuria di Remo, l’ipotesi più convincente è che si tratti del numen loci, ossia della dea tutelare dell’ager Remurinus, l’esistenza della quale è provata epigraficamente, come sopra si è ricordato, dal cippo del Palatino con la dedica Remureine. Si accetti o no tale identificazione, cui le altre terrecotte del medesimo ritrovamento non recano sostegno, ma nemmeno si oppongono, resta il fatto che nel sito sorgeva un piccolo tempio che, a giudicare dalle antefisse che inizialmente ne costituivano l’unico ornamento architettonico, è stato eretto nel decennio 490-480, se da esso proviene anche l’antefissa esposta nella mostra di Lugano, oppure intorno al 470 a.C., se le antefisse sicuramente provenienti da esso vanno riferite non a un rinnovo della sua decorazione ma alla sua prima costruzione. Tempio che è rimasto in piedi almeno fino al ii secolo a.C. Tutto ciò aumenta notevolmente di significato, se consideriamo che in tutto il vasto comprensorio rurale dell’ager Romanus antiquus non sono venute alla luce, nonostante la miriade di cantieri che hanno portato prima e soprattutto dopo l’ultima guerra alla sua ormai pressoché totale edificazione, altre terrecotte templari, né arcaiche né di età

79 Come quelli che connotano le tre dèe tutulate raffigurate sul supposto dokanon da Castel S. Mariano (Colonna 1996, p. 172, fig. 13, con bibl.).

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repubblicana, se si prescinde, com’è ovvio, dai santuari di confine.80 Quanto alle terrecotte votive, l’unico ritrovamento degno di nota, in tutto l’enorme suburbio romano, è stato quello di tre teste di stile classicistico, poco note anche se di qualità superiore alla media, databili probabilmente nel tardo ii sec. a.C., che nell’immediato dopoguerra si trovavano a Lugano presso l’antiquario-collezionista Donati, accompagnate da un reticente dato di provenienza, i «lontani dintorni» («die weitere Umgebung»), di San Paolo fuori le mura.81 Non si tratta di comuni teste votive, ma di teste appartenenti in origine a busti o statue di divinità: la maschera facciale ne è stata plasmata con la stessa matrice, ma l’intervento di ritocchi a stecca e gli attributi aggiunti a riporto consenFig. 16. Testa di Cerere dai dintorni di S. Paolo tono di identificare l’una con Cerere, per il (da Hochuli-Gysel 1974). velo e la doppia corona di spighe (Fig. 16),82 le altre due probabilmente con Proserpina, per l’aspetto più giovanile conferito al viso e per il nodo trasversale di capelli al sommo del capo, che è interamente scoperto (Figg. 17-18):83 un’acconciatura questa che al Casaletto di Ariccia distingue il busto della dea da quello di Cerere ad esso associato, conferendole un tocco di seduzione femminile che ben si addice a una sposa.84 Poiché presso San Paolo non si ha notizia di alcun luogo antico di culto, è assai probabile che la sibillina indicazione di provenienza si riferisca al non troppo lontano (circa 2 km e mezzo) santuario dell’E 42, situato in un complesso urbanistico rimasto praticamente abbandonato e in rovina dal 1943 al 1951, quando lentamente iniziò la sua rinascita col nome di eur, e comunque incomparabilmente meno noto fuori d’Italia della basilica di San Paolo (senza contare l’eventualità di un equivoco tra la basilica di San Paolo sull’Ostiense, presso la tomba dell’Apostolo, e l’abbazia di San Paolo sulla Laurentina

80 Categoria cui appartengono la nota antefissa arcaica con Giunone Sospita da Antemnae e quella recentemente scoperta nell’ex aeroporto di Centocelle, al iv miglio della via Labicana (Caruso, Gioia, Volpe 1999, p. 281), le terrecotte frontonali dal iv miglio della via Latina, dove sorgeva il tempio di Fortuna Muliebris (Coarelli 1990, p. 655 sg., figg. 10-13), databili ad età augustea (cfr. Coarelli 1996, p. 515, n. 2), e l’antefissa di iii sec. a.C. con Potnia dal v miglio della via Campana, dove si trovava il tempio di Fors Fortuna (Scheid, Broise 1978, p. 77, tav. xxxii, 2). 81 Langlotz 1954 (a p. 312, nota 10, l’informazione che le teste si trovavano a Lugano presso il Donati); Hochuli-Gysel 1974 (a p. 109 il dato di provenienza che si è riportato testualmente). Devo la segnalazione di quest’articolo alla mia allieva Simona Carosi. 82 La testa si trova dal 1964 presso il Museo dell’Università di Zurigo ed è alta cm 29,5 (Hochuli-Gysel 1974; Gempeler 1976; Simon 1990, p. 49, fig. 49, con altra bibl.). 83 Accedute alla collezione Hirshborn di New York, si trovano dal 1957 in deposito presso il Royal Ontario Museum di Toronto (Langlotz 1954; Leipen 1957). 84 Roghi 1990, p. 176 sg., n. 146, tav. xxxi, con bibl. Cfr. una testa del deposito di Lucera (D’Ercole 1990, p. 34 sg., tav. 14b), forse anch’essa rappresentante Proserpina, in accordo con la tutela delle nozze attribuita da Licofrone alla dea del santuario (ibidem, pp. 293 e 297).

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Figg. 17-18. Teste forse di Proserpina dai dintorni di S. Paolo (da Hochuli-Gysel 1974).

alle Tre Fontane, presso il luogo del martirio, a meno di un km dal santuario dell’E 42). Un indizio in tal senso è offerto dalla notizia del ritrovamento, avvenuto nel 1875 «nella vallata delle Tre Fontane (ad Aquas Salvias) presso la via Laurentiana», di un «bassorilievo in cui sono espressi varii mazzi di spighe e due pavoni»,85 evocanti il culto di Cerere e forse di Libero.86 In tal caso occorrerà pensare che, col tempo, al culto dell’ormai oscura Remurina si era affiancato se non del tutto sostituito quello delle due grandi dèe venerate con Libero sulle pendici dell’Aventino, il colle su cui tendevano sempre più a concentrarsi le memorie di Remo (perpetuate nel Medioevo dalla identificazione della Piramide con la tomba dell’eroe). Comunque sia, l’antichità della monumentalizzazione dell’area sacra dell’E 42 e la sua unicità, per quanto sappiamo, all’interno della parte di ager antiquus compresa tra i santuari del i miglio e quelli del suo limite esterno, che in questa zona correva al vi miglio,87 ne accrescono enormemente l’importanza, giustificando, assieme al toponimo, l’interesse nutrito nei suoi confronti, come abbiamo supposto, dall’antiquaria romana. Ma non si tratta solo di questo. È infatti lecito e doveroso fare un passo avanti e chiedersi se l’edificazione del tempio non sia una conseguenza del collegamento paronomastico, avvenuto ben prima che intervenisse la curiosità degli antiquari, del nome di Remo al toponimo Remuria e al nome della dea Remurina, magari sotto la suggestione di qualche 85 Gori 1876, p. 271 sg.; «NSc», 1876, p. 101 (dove si confonde il ponticello di S. Paolo con quello delle Tre Fontane ma si precisa «tra le cave di pozzolana»). Il ritrovamento sarebbe avvenuto presso ‘la cella di un tempio’ in opera quadrata di blocchi di tufo, recanti come marchi di cava lettere simili a quelle dell’Aggere Serviano, e assieme all’iscrizione cil vi, 3744, datata al 362 d.C., menzionante delle feriae cui partecipavano matronae cum carpentis, sifon[ibus]…falc[ibus] e altri attrezzi. 86 Sulla simbologia dionisiaca del pavone si rinvia a Coen 1997, p. 95 sg. 87 Il che dimenticano coloro che vorrebbero localizzare all’eur il sito dei Terminalia (così A. Bedini presso Quilici Gigli 1978, p. 573, nota 26, e Scheid 1987, p. 584, nota 5, che però a p. 592 lo pone correttamente «aux portes de l’habitat de l’Acqua Acetosa»).

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tomba protostorica esistente nei pressi, del genere del tumulo di Decima o di quello lavinate di Enea, come si è detto. Il che presuppone che l’inserimento della figura di Remo nella saga della fondazione di Roma sia avvenuto assai prima degli inizi del v secolo a.C., e non alla fine del iv, come vorrebbe Wiseman nel suo libro. Quanto al significato da attribuire all’edificazione del tempio, in termini socio-politici, l’ultima parola spetta certo agli studiosi della storia romana arcaica. Per parte mia mi limito a constatare che le date proposte, oscillanti tra il 490 e il 470 a.C., corrispondono ai due decenni cruciali che videro lo strutturarsi della plebe sul piano politico e istituzionale, culminato nella riorganizzazione dei concilia per l’elezione dei tribuni, basata sull’articolazione del corpo elettorale secondo le tribù rustiche, che solo allora o solo poco prima di allora avevano coperto l’intero agro romano, raggiungendo il numero di ventuno (471 a.C.).88 Non mi sembra fuori luogo pensare che Remo, il mitico contestatore ab origine della città e dell’ordine romuleo, sia stato allora rivendicato dalla plebe come suo ideale precursore nella lotta contro il patriziato, il quale da parte sua faceva risalire proprio a Romolo, attraverso la sua uccisione e lo smembramento del corpo da parte dei patres, come argomenta Augusto Fraschetti, la detenzione degli auspicii e dell’auctoritas, di cui pretendeva essere l’unico ed esclusivo depositario.89 Sappiamo che la lotta prevedeva come arma estrema la secessione, cioè l’uscita in armi dal pomerio – che Remo per primo aveva violato, negandone il valore simbolico90 – e il trasferimento, preludio a una nuova e diversa fondazione urbana, in una località posta nell’ager, quell’ager dove anche Remo avrebbe voluto fondare la sua città, lontano dal Palatino e, aggiungiamo noi, dal già esistente agglomerato protourbano. Non meraviglia, in questa prospettiva, che all’indomani della dedica a Cerere del grande tempio ai piedi dell’Aventino (493 a.C.), assurto fin dall’inizio a epicentro religioso e politico della comunità dei plebei, sia stato eretto nell’Agro, al iv miglio della via Ostiense, in corrispondenza dell’ager Remurinus,91 un altro tempio, certo ben più modesto ma dal significato ancor più trasparente, dedicato a Remurina, la dea della città vagheggiata da Remo. Bibliografia Ampolo 1988: C. Ampolo, M. Manfredini, Plutarco. Le vite di Teseo e di Romolo, Milano, 1988. Andrén 1940: A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund-Leipzig, 1940. Andrén 1952: A. Andrén, Om Figurdekoren i Etrusko-Italisk Tempelarkitektur, in Arkeologiska forskningar och fynd …, Stockholm, 1952, pp. 118-127. Antonielli 1928: U. Antonielli, Altra tomba laziale del Pascolaro, «bpi», xlviii, 1928, pp. 169-170. Arias 1939: P. E. Arias, Antefisse, «Le Arti», ii, 1939, pp. 45-46. Arias 1941: P. E. Arias, Storia della scultura romana, Messina, 1941. Arias 1943: P. E. Arias, Storia della scultura romana2, Messina, 1943. 88 Cels-Saint-Hilaire 1995; Cornell 1995, p. 260 sg.; Hamon 2001, pp. 50-53. 89 Fraschetti 2002, pp. 110-116. È vero che, per quanto concerne Remo, l’essere un perdente costituisce una difficoltà alla sua rivendicazione da parte della plebe (Fraschetti 2002, p. 7 sg.), ma si potrebbero citare al riguardo le parole profetiche e minacciose che avrebbe rivolto al fratello (secondo la tradizione che ne negava la morte per uccisione e lo faceva andare ad abitare, sconfitto, nella sua Remoria rurale): multa in hac urbe temere sperata atque praesumpta felicissime proventura sunt (OGR 23, 4; cfr. Diod. viii, frg. 5 Loeb). Tradizione che sembra intravedersi anche dietro lo sprezzante epiteto di altellus riferito a Romolo (Paul. ex Fest., p. 6 sg. L.), da intendere certo come l’alter “nato dopo” rispetto a Remo, e non come l’alternus di minor levatura rispetto a Tito Tazio, come intende Paolo. 90 Cfr. nota 13. 91 La località potrebbe corrispondere al “luogo munito” posto, si badi, a quattro miglia da Roma, dove sarebbe avvenuta la secessione della plebe del 342 a.C., ricordata solo da Livio (Liv. vii, 42, 4: cfr. De Sanctis 1907, p. 6; Palmer 1970, p. 251 sg.).

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italia ante romanum imperium Appendice

Museo Nazionale Romano, concordanza dei numeri d’inventario 125612-125622 con le schede di ingresso al Museo e con gli elenchi De Rossi. Ingresso Museo I

inventario

elenchi De Rossi

E 42, 14-iii-1938 1 2 3 (?) 4 5 6 7 8 9

125612 bis 125613 bis 125621 bis ? 125616 bis ? 125617 bis ? 125619 bis

B1 B2 B6 A3 B3

E 42, 1938 1 2 3

125620 bis ? 125622 bis

B4 -

Ardea, 1940 ? ? ? ?

125614 bis 125615 bis 125616 bis 125618 bis

A1 A2 B5 A4

[La città di Remo, «ArchCl», lvi, 2005, pp. 1-31].

GLI ETRUSCHI NEL T IRRENO M E RID IO NA L E : TR A M IT ISTORIA, STORIA E A RC H E O LO G IA

O

ggetto della mia relazione è la presenza etrusca nel vasto spazio marino che bagna sia l’Italia meridionale, dal golfo di Napoli allo stretto di Messina, sia l’intera facciata settentrionale della Sicilia, dallo Stretto fino a Erice e a Trapani (Fig. 1). Spazio distinto da quello del medio e alto Tirreno, in cui gli Etruschi sono stati da sempre, si può dire, a casa loro, e che è chiamato Tyrsenikòs kólpos da Sofocle nella sua prima tragedia, il Triptolemos, rappresentata all’indomani della battaglia navale di Cuma, nel 468 a.C.1 L’espressione è riferita dal poeta alle coste ubicate tra l’Enotria e la Liguria, includenti quindi, prima ancora dell’Etruria, il Lazio e la Campania: regione che anche altrove il poeta attico mostra di considerare storicamente appartenente all’Etruria,2 come se quest’ultima iniziasse, nonostante Cuma, dalla penisola sorrentina3 o addirittura dal Salernitano, in accordo con il passato etrusco, confermato dalle scoperte archeologiche, dell’ager Picentinus.4 La qualifica di golfo data al mare in questione echeggia probabilmente i noti versi esiodei sul mychós delle Isole Sacre, il mare remoto, in cui Agrios e Latinos, generati da Circe, regnavano “su tutti gl’incliti Tirreni”.5 Mychós e kólpos sono termini denotanti uno spazio marino ritenuto separato e marginale, sentito come il prolungamento del mare aperto di ugual nome, assai più esteso e meglio noto, che era appunto il Tirreno meridionale, frequentato dai Greci fin dall’età micenea.6 Ne discende che con buona probabilità fino al v secolo i Greci hanno chiamato “mare Tirreno” il bacino meridionale di quel mare, al cui ingresso era la temuta Scilla “tirrena”, quasi un’ipostasi della pirateria etrusca,7 e “golfo tirrenico” il più lontano e angusto Tirreno centro-settentrionale, disseminato di isole, appartenenti agli arcipelaghi pontino e toscano (Fig. 2). Unica denominazione alternativa, riferita specificamente al basso Tirreno, è stata quella di mare Ausonio, prediletta in età ellenistica da Licofrone e da Apollonio Rodio per la sua arcaicità, di sapore erudito, richiamante il nome di quelli che erano ritenuti i più antichi abitatori della Campania e delle Eolie,8 di cui subito dirò. Tirreni e Ausoni erano popoli entrambi considerati esperti nel navigare, anche se i primi in misura enormemente maggiore, barbari maritumi secondo la nota definizione di Cicerone, che li appaiava per questo ai Punici.9 Non così gli Enotri, altra grande etnia italica, che ancora per Sofocle, come si è detto, si affacciava per lungo trat-

1 Fr. 541 Nauck (= Dion. Hal. i, 12, 2). 2 Fr. 682 Nauck, dove la Tyrsenìs límne, sede di un oracolo dei morti, si identifica certamente col lago d’Averno (E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und den Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937, p. 118 sg.). Alla stessa concezione si rifà la definizione di Pitecusa come nêsoi perì Tyrrenían in Steph. Byz., s. Pithekoûssai. 3 Si ricordi la Tyrrhena Minerva di Punta della Campanella (Stat., silv. ii, 2, 2; iii, 2, 23), la definizione di Nuceria, capoluogo della regione, come città della Tyrsenia da parte di Filisto (apud Steph. Byz., s. Noukría) e quella analoga di Surrentum. (Steph. Byz., s. Syrréntion). 4 Plin., iii, 70 (a Surrentino ad Silerum amnem xxx m.p. ager Picentinus fuit Tuscorum). 5 Theog. 1011-1016. Cfr.A. Mele, in Storia del Mezzogiorno i, Napoli, 1991, p. 240 sg. 6 Analogo è il caso dello Iónios kólpos, che in origine era l’intero Adriatico, rispetto al mare Ionio (rinvio al mio contributo in stampa negli Atti del convegno. Archeologia dell’Adriatico dalla preistoria al Medioevo, Ravenna 2001). 7 Eur., Med., 1342 sg., 1359. 8 La sequenza onomastica mare Ausonio-mare Tirreno è chiaramente stabilita in Dion. Hal. i, 11, 4. 9 Cic., de rep. ii, 4, 9 (maritumi i Punici per commercio, gli Etruschi latrocinandi causa).

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Fig. 1. Il mar Tirreno meridionale (da T. J. Dunbabin, The Western Greeks).

to sul basso Tirreno, e certo assai più degli Ausoni e dei Tirreni, ma dalla quale nessuno mai ha pensato di chiamare Enotrio quel mare.10 E lo stesso può dirsi dei Siculi e degli Elimi, che pure incombevano sull’intera sponda meridionale dello stesso mare. Non sembra eccessivo dedurne che i nomi di mare Tirreno e di mare Ausonio non sono nomi puramente geografici, come quelli di mare Siculo e di mare Sardonio, ma possiedono un significato pregnante, evocante i popoli che si riteneva avessero per primi navigato e dominato le acque di quello che ancora oggi chiamiamo mare Tirreno.11 Fondamentale al riguardo è la tradizione relativa al popolamento delle isole Eolie, che costituiscono il centro, non geografico ma itinerario e quindi strategicamente ancor più degno di nota, del basso Tirreno, e non solo per i loro vulcani che, attivi o no, sfiorano con Stromboli e Salina i 1000 metri di altezza, sì da risultare visibili da grande distanza. Le Eolie infatti si trovavano sulla rotta che, facilitata dal movimento delle correnti marine superficiali, conduceva dall’Africa e dalla Sicilia occidentale verso la 10 Mentre erano chiamate Enotrie le due isolette contra Veliam (Plin. iii, 85; Strab. vi, 1, 1 e 6), una delle quali è certamente quella di Camerota, su cui E. De Magistris, Il mare di Elea, in Tra Lazio e Campania. Ricerche di storia e di topografia antica, «Quaderni del dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Salerno», 16, Napoli, 1995, pp. 7-77, spec. p. 25 sg. 11 Come esplicitamente afferma Diod. Sic. v, 40, e implicitamente Hyg, fab. 134, quando fa derivare il nome del mare dai pirati tirreni tramutati in delfini, mostrando di ambientare nel Tirreno il tentato ratto di Dioniso da parte dei pirati.

gli etruschi nel tirreno tra mitistoria, storia e archeologia

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Fig. 2. L’Italia come appariva ai Greci verso il 500 a.C. (da Wikén).

Campania, toccando le coste della Penisola all’altezza del Cilento, e precisamente di Capo Palinuro.12 Inoltre per la loro posizione erano in grado di controllare altrettanto efficacemente anche l’altra rotta – il traiectus pliniano di cento miglia13 – che dallo Stretto puntava in linea retta anch’esso su Capo Palinuro, per proseguire poi lungo le coste della Campania. Questa eccezionale situazione contribuisce a giustificare, assieme alle molte risorse naturali, non solo la grande prosperità goduta dalle isole nella 12 De Magistris (supra n. 10), pp. 9-11, 69, con bibl.

13 Plin. iii, 71.

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preistoria, a partire dal neolitico e in particolare durante l’intera età del Bronzo, ma anche le repentine devastazioni, documentate dall’archeologia, cui le stesse sono andate soggette più volte nel corso del tempo. Devastazioni culminate in quella che ha posto drasticamente fine, intorno al 900 a.C. o poco dopo,14 all’insediamento principale dell’arcipelago, insistente sul Castello di Lipari (Fig. 3), cui seguì la cessazione di ogni forma di vita organizzata nelle isole fino all’arrivo dei coloni greci, cnidii e rodii, nella 50ª Olimpiade (580-576 a.C.). Ora è un dato di grande interesse, giustamente valorizzato dai benemeriti indagatori delle Eolie, Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, che il più antico popolamento delle isole di cui restava memoria, a livello mitistorico, era fatto risalire, nella tradizione euboico-calcidese ripresa da Timeo e riferita da Diodoro Siculo in v, Fig. 3. Il Castello di Lipari visto da N. 7, 5-7, a una immigrazione di Ausoni provenienti dalla Campania.15 Costoro sarebbero stati guidati da Liparo, figlio del re Ausone, eponimo di quel popolo. Scacciato dai suoi fratelli, e disponendo “di navi lunghe e di soldati”, egli avrebbe fondato Lipàra e accolto gli Achei condotti da Eolo, al quale avrebbe concesso in moglie la figlia Cyane, facendone il suo successore. Con l’aiuto di Eolo egli sarebbe quindi ritornato in Campania e avrebbe regnato “sui luoghi intorno a Sorrento”, dove, una volta morto, sarebbe stato oggetto di un culto eroico. Eolo e i suoi figli avrebbero invece regnato, oltre che sulle Lipari, sull’estremità della Penisola, nel territorio di Reggio, e su una vasta parte della Sicilia, sia tirrenica che ionica. È indubbio che a tali vicende, il cui inizio era collocato tre generazioni prima della guerra di Troia, nella prima metà del xiii secolo a.C., il basso Tirreno e lo stesso mare Siculo debbano il loro più antico nome di Ausonio. Gli scavi di Bernabò Brea e della Cavalier hanno arrecato, com’è noto, una splendida conferma alla saga degli Ausoni, mostrando che, all’epoca del loro presunto arrivo, la sequenza culturale delle isole conosce una brusca cesura, con la concentrazione del popolamento sul Castello di Lipari e con l’avvento di una facies archeologica, il c.d. 14 Per L. Bernabò Brea e M. Cavalier la distruzione sarebbe avvenuta «non oltre la fine del x o i primissimi anni del ix secolo a.C.» (così in Lipari. Museo archeologico Eoliano (Palermo, 1994) 40: lo stesso scrive M. Cavalier, La fondazione della Lipara cnidia, in La colonisation grecque en Méditerranée occidentale, Roma, 1999, p. 294). A. M. Bietti Sestieri aveva invece pensato a una data «probabilmente intorno alla metà del ix sec. a.C.» («Kokalos», xxvi-xxvii (1981), p. 51). 15 Rinvio in proposito al mio Tyrrhenus Lipari frater, in Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, Milano, 2000, pp. 265-269. Le fonti sono comodamente consultabili in L. Bernabò Brea, M. Cavalier, Meligunìs Lipara viii, 2, a cura di A. Pagliara, Palermo, 1995 e, per la parte concernente più specificamente gli Ausoni, nella silloge di A. Pagliara, In memoria di Luigi Bernabò Brea, Palermo, 2002, pp. 199-246 (manca il passo del Servio Dan. sul Tirreno ausone, da me valorizzato nell’articolo sopra citato).

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Fig. 4. Ceramiche dell’Ausonio ii dal Castello di Lipari (da I Micenei in Italia, 1967).

Ausonio i, presente anche a Milazzo e strettamente imparentata prima al subappenninico e poi al protovillanoviano iniziale della Penisola, ma al tempo stesso aperta alle frequentazioni egee, come rivelano le importazioni di ceramiche del Miceneo iii B e C 1. I contatti con la Penisola continuano nel Bronzo finale con il c.d. Ausonio ii (circa 1100-900 a.C.) (Fig. 4), che rappresenta il momento di massimo fulgore di Lipari, segnato da intense relazioni con la Sicilia e con la Sardegna nuragica, oltre che con l’Italia meridionale. Proprio quando Lipari è al suo apogeo, verso il 900 a.C. o poco dopo, sopraggiunge il terribile incendio, che devasta le sontuose dimore dei discendenti di Eolo con le loro copiose suppellettili ancora in posto.16 Inizia allora quel vacuum di testimonianze, protrattosi per circa tre secoli, che si è cercato invano di spiegare con 16 Sintesi dei dati in Bernabò Brea, Cavalier (supra n. 15), pp. 36-40.

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un del tutto ipotetico manifestarsi di attività vulcanica primaria nell’isola e nelle acque circostanti.17 Non esito a dire che il prolungato abbandono dell’arcipelago eoliano offre una preziosa chiave di lettura per ricostruire la storia del basso Tirreno durante l’età del Ferro. Ci si può e ci si deve chiedere chi sono stati coloro che non solo hanno distrutto Lipari, ma, fatto storicamente ancor più rilevante, sono riusciti per un così lungo arco di tempo a impedire che l’abitato rinascesse, tenendone lontani i superstiti e tutti coloro che avessero voluto insediarvisi. È logico pensare a genti che, forti di un’adeguata dimestichezza col mare, sono riuscite a sostituirsi ai Liparesi nel dominio del basso Tirreno, riuscendo nel loro intento senza bisogno di insediarsi stabilmente nell’arcipelago. Al riguardo già il nome di mare Tirreno, affiancato non sappiamo da quando, ma certo da data assai risalente, a quello di mare Ausonio, offre una prima, fondamentale indicazione, come si è detto in apertura. Ma la stessa saga di Liparo, una volta integrata, come ho tentato recentemente di fare, con i dati offerti da un passo del Servio Danielino relativo a Eolo, trascurato dalla maggioranza degli studiosi, contiene un esplicito riferimento al ‘nemico storico’ dei Liparesi.18 Il Servio Danielino dà infatti un nome al più ‘cattivo’ dei fratelli che avevano scacciato Liparo dalla Campania, e questo nome è Tirreno. E dà anche una motivazione alla venuta di Eolo sullo scenario delle isole Eolie: sarebbe stato inviato da Agamennone a sbarrare la via dello Stretto a Tirreno, che meditava un’ardita impresa piratesca, il saccheggio delle coste del Peloponneso. Per raggiungere lo scopo Eolo avrebbe stretto alleanza con Liparo, ne avrebbe sposato la figlia e lo avrebbe infine aiutato a ritornare in Campania, restando unico signore dell’arcipelago. Non mi soffermo, avendolo già fatto altrove,19 sulla notevole rilevanza che la tradizione così ricostruita ha per la conoscenza della teoria autoctonista sulle origini etrusche, a noi nota da Dionigi d’Alicarnasso, che, seguendo Dominique Briquel, ritengo sia stata formulata per la prima volta dallo storico siracusano Filisto. Qui preme invece rilevare che la tradizione di un Tirreno autoctono, ausone invece che lidio (o misio), presuppone un antichissimo radicamento degli Etruschi sulle coste della Campania, in stretta simbiosi con il popolamento ausone della regione, che sembra avere avuto il suo punto di forza nella penisola sorrentina e nella valle del Sarno. Radicamento che sembra peraltro noto e condiviso anche dai sostenitori della teoria orientale della etnogenesi etrusca, dato che per Licofrone Tarconte e Tirreno, considerati fratelli, avrebbero conquistato non solo l’Etruria, ma anche il paese abitato dai discendenti dei Giganti, cioè i campi Flegrei. Il che spiega a mio avviso la pressoché certa menzione di Hamae, sede in età storica del santuario federale dei Campani, nei pressi di Literno, nell’assai mutilo elogium di Tarconte esposto in età romana nel Foro di Tarquinia, la città che da lui aveva preso nome.20 Si può insomma recuperare per vie diverse il ricordo di una presenza etrusca nella Campania costiera, in un’età assai più antica non solo di Pitecusa e di Cu-

17 M. L. Zunino, Isole di fuoco. Per una nuova interpretazione dell’«eremia» eoliana, Udine, 1999. L’affermazione di Senofane è per lo meno ambigua, essendo citata dallo Pseudo-Aristotele in un’elencazione di «fuochi» di diversa natura, quasi tutti non vulcanici o spettanti a fenomeni di vulcanismo secondario (de mir. ausc. 33-41). Non è vero inoltre che Callimaco chiami Hierà l’isola di Lipari, anche se colloca in essa i Ciclopi, invece che a Vulcano (Zunino, p. 33 sg.). 18 Cfr. n. 15. Sono tornato sull’argomento in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del Bronzo finale e l’arcaismo (Atti del xxi convegno di studi etruschi e italici, 1998), Pisa-Roma, 2002, pp. 98-100. 19 Supra n. 18, pp. 100-105. 20 G. Colonna, Una proposta per il supposto elogio tarquiniese di Tarchon, in Tarquinia: ricerche e prospettive (Atti del convegno internazionale, Milano 1986), Milano, 1987, pp. 153-157. La proposta è stata accolta da M. Cristofani, Tabula Capuana, Firenze, 1995, pp. 85, 105 sg.

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ma, ma anche di Capua e di Nola, le città della mesogèa campana che secondo Velleio Patercolo sarebbero state fondate dagli Etruschi al tempo di Esiodo, ossia nella sua cronologia verso l’800 circa a.C. 21 Con il Tirreno figlio di Ausone e con Tarconte e Tirreno figli di Telefo, e quindi nipoti di Eracle, siamo proiettati in un’età addirittura anteriore alla guerra di Troia, l’età appunto in cui inizia l’Ausonio i a Lipari e a Milazzo. Quanto fin qui detto concerne essenzialmente la mitistoria, con i suggestivi riscontri che ad essa sembrano offrire le scoperte archeologiche delle isole Eolie. L’ostilità dei Tirreni verso i Liparesi è chiaramente adombrata in queste tradizioni, ma è un’ostilità vittoriosamente rintuzzata dagli isolani, come lo sarà nei conflitti di v e iv secolo a.C. tra i coloni cnidii e gli Etruschi, conflitti che hanno certamente contribuito al fissarsi di quelle tradizioni nei termini in cui le conosciamo, a opera forse già di Ippi di Regio e poi degli storici siracusani, con a capo il già ricordato Filisto.22 Per trovare un’eco, anche se solo indiretta, della distruzione di Lipari avvenuta alle soglie dell’età del Ferro dobbiamo invece rivolgerci a un altro filone di tradizioni, concernente gli inizi della colonizzazione greca in Occidente. E qui assume un grande rilievo quel che afferma Eforo in un celebre passo,23 a proposito della fondazione delle più antiche colonie di Sicilia, Naxos e Megara, avvenuta secondo lui nella decima generazione dopo la guerra di Troia, quindi intorno alla seconda metà del ix secolo: prima di allora i Greci avrebbero evitato di frequentare l’isola anche solo per commercio, a causa della pirateria dei Tirreni e della crudeltà degli indigeni. La data indicata dallo storico è manifestamente troppo alta per l’inizio della colonizzazione, ma non lo è nei confronti dell’inizio del commercio greco nei mari d’Occidente, che già verso la fine del Geometrico Medio è in pieno svolgimento. Comunque sia, la cronologia assoluta conta relativamente poco per il nostro assunto: l’importante è che sia rimasta memoria dell’ostacolo posto dalla pirateria tirrenica prima alle relazioni commerciali dei Greci con la Sicilia (fino alla fine del ixinizio viii secolo), e poi alle loro fondazioni coloniali sulla costa orientale dell’isola (fino alla metà o poco dopo dell’viii secolo). Il dispiegarsi della pirateria tirrenica nello Stretto e nelle acque della Sicilia trova d’altra parte la sua necessaria premessa nella fine del controllo del basso Tirreno da parte dei Liparesi di stirpe ausone, a sua volta conseguente alla distruzione dell’abitato del Castello, un evento che si tende a datare, come si è detto, intorno al 900 a.C. o poco dopo. Un’impresa in tutto degna del mitico Tirreno, che in questa luce non può non apparire come la prima manifestazione di quella stessa pirateria, che subito dopo si sarebbe proiettata sulla grande isola vicina. L’attribuzione ai Tirreni della distruzione di Lipari non è una novità, poiché è stata già a più riprese prospettata da Bernabò Brea e dalla Cavalier, ma con ripensamenti e incertezze, dovute alla difficoltà, riporto le loro parole, «di far risalire la talassocrazia dei Tirreni sul mare che da essi prende nome ad un’età così antica».24 In realtà, senza parlare anacronisticamente di talassocrazia, la dimestichezza col mare dei Tirreni-Etruschi, e insieme lo spiccato interesse da essi manifestato verso il basso Tirreno, sono provati, in sostanziale coincidenza cronologica con 21 G. Colonna, in Storia della Campania. L’evo antico, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli, 1991, p. 36. 22 Colonna (supra n. 15), p. 266 sg. 23 Noto da Ps. Scymn. 270-273 e più diffusamente da Strab. vi, 2, 2. Fonte di Eforo è probabilmente Ellanico (E. Lepore, «Kokalos» (supra n. 14), p. 184). 24 Meligunìs-Lipara iv, Palermo, 1980, p. 717. In precedenza i due studiosi si erano espressi favorevolmente, anche se di sfuggita, all’ipotesi di una responsabilità dei Tirreni nella fine di Lipari (BPI 65, 1956, p. 88). Ipotesi cui sono ritornati nello scritto citato supra n. 14, p. 42 («viene ovvia l’ipotesi che la distruzione sia dovuta ad una coalizione delle città costiere, forse dei Tirreni, per le quali la pirateria esercitata dai liparesi poteva essere particolarmente molesta»).

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la distruzione di Lipari, dall’insediamento sulla costa salernitana, in territorio già ausone, della popolosa comunità di Pontecagnano, per la quale anche i più convinti oppositori di una generalizzata identificazione etnica dei portatori della cultura villanoviana riconoscono che si debba pensare all’arrivo di Etruschi.25 Un arrivo avvenuto certamente via mare, a una distanza dai luoghi di partenza – da ubicare sul litorale tarquiniese e forse anche vulcente – ancora maggiore di quella che separa Pontecagnano da Lipari, mettendo in opera quello che appare come il più consistente trasferimento marittimo documentabile per l’intero arco della storia etrusca. L’insediamento di Pontecagnano rivela già nelle sue caratteristiche insediamentali – un agglomerato esteso per circa 80 ettari, situato in aperta pianura e nei pressi di Fig. 5. Armi e fibule di bronzo lagune costiere facilmente accessibili, con dalla tomba 180 di Pontecagnano trascurabili apprestamenti difensivi –, un (da L.Cerchiai, I Campani). formidabile potenziale di uomini e di risorse, anche militari, come provano le tombe di guerriero portate alla luce (Fig. 5),26 che ne fanno l’elemento nuovo e dinamico apparso con l’inizio dell’età del Ferro sulla ribalta del basso Tirreno. La portata delle sue capacità di espansione è rivelata dal controllo ben presto esercitato sull’intera pianura del Sele, seconda nella Campania per estensione solo alla Terra di Lavoro, e anche sulle contigue frange collinari (Eboli), accompagnato da quel tanto precoce quanto effimero ‘a fondo’ in pieno retroterra enotrio, rappresentato dall’insediamento villanoviano di Sala Consilina nel vallo di Diano. L’apertura di Pontecagnano ai contatti marittimi balza in primo piano con la ripresa della frequentazione greca del Tirreno alla fine del ix-inizio viii secolo, quando l’insediamento accoglie nelle sue tombe, contro ogni aspettativa, il massimo numero di coppe a semicerchi penduli finora venuto in luce in Occidente, oltre a un elevato numero di coppe a chevrons e di altre ceramiche medio-geometriche.27 Ma già nella seconda metà del ix secolo arrivano a Pontecagnano bronzi sardi, ceramiche dipinte ‘piumate’ dalla Sicilia, armi di bronzo e minerale di ferro dalla Calabria,28 documentando la forte proiezione marittima di una comunità già definibile a tutti gli effetti come protourbana.29 25 R. Peroni, La presenza etrusca nella Campania meridionale, Firenze, 1994, p. 195 («anche oggi ho parlato tutto il tempo per sostenere come i dati archeologici mostrino che a Pontecagnano sono venuti degli Etruschi»). Così già del resto in Popoli e civiltà dell’Italia antica, ix, 1989, p. 554. 26 L.Cerchiai, I Campani, Milano, 1995, p. 59 sg. 27 Prima di Pithecusa. I più antichi materiali greci del golfo di Salerno, cat. della mostra di Pontecagnano, a cura di G. Bailo Modesti e P. Gastaldi, Napoli, 1999 (almeno sette coppe a semicerchi penduli e dodici a chevrons). 28 P. Gastaldi, Struttura sociale e rapporti di scambio nel ix secolo a Pontecagnano, in La presenza etrusca, supra n. 25, pp. 49-59. Verosimilmente trasmessa da Pontecagnano è anche la ceramica enotria a tenda rinvenuta nell’Etruria meridionale (G. Colonna, in Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Atti del convegno di Orvieto, 1972, Firenze, 1974, pp. 297-299). 29 B. D’Agostino, L’incidenza dell’Antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, i, Napoli, 1995, p. 318 sgg.

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Il meno che si possa dire, mi pare, è che l’etrusca Pontecagnano abbia preso in qualche misura il posto lasciato vacante dalla Lipari ausonia, e questo anche nei confronti dei suoi potenziali interlocutori esterni, Greci e Fenici. La cronologia consentirebbe di chiamare in causa questi ultimi per la distruzione di Lipari, ma tutto quel che sappiamo dell’‘universo fenicio’, per richiamare il titolo di una recente sintesi al riguardo,30 depone contro una simile ipotesi, cui del resto si è fatto ricorso senza troppa convinzione.31 Oltre tutto i primi stanziamenti fenici di Sicilia, che avrebbero preceduto secondo Tucidide la colonizzazione greca e dai quali in teoria potrebbe essere partita l’offensiva contro Lipari, non erano per quanto sappiamo altro che esili ‘postazioni’ commerciali,32 scomparse senza lasciare traccia, ben diverse da un centro popoloso e strutturato come Pontecagnano. Non resta quindi a mio avviso che pensare a quest’ultimo come al maggiore indiziato per la distruzione di Lipari33 e per la conseguente imposizione di quella supremazia sul basso Tirreno, cui dobbiamo la nascita del tópos della pirateria etrusca. Quanto alla causa scatenante del conflitto, non è da escludere che sia da ravvisare proprio nell’ostilità suscitata nei Liparesi dall’insediamento di un cospicuo contingente di Etruschi in un’area, il golfo di Salerno, posta a cavallo tra l’antico reame di Liparo sulla penisola sorrentina (e forse sulla contigua valle del Sarno: lumi al riguardo potranno venire dalle sensazionali scoperte di Poggiomarino vicino Pompei)34 e la pianura del Sele, dove le importazioni di ceramica tardo-micenea di Paestum, Montedoro di Eboli e Polla rivelano antiche relazioni con l’arcipelago.35 Non è da credere che con lo stanziamento euboico prima a Pitecusa e poi a Cuma il controllo etrusco del basso Tirreno sia venuto d’un colpo a mancare, anche se sullo Stretto e sulla costa settentrionale della Sicilia si ebbero poco dopo le fondazioni di Zancle, Reggio e Mylai, seguite alla metà del vii secolo da quella di Imera, mentre i Fenici potenziavano lo scalo di Palermo. Lo stanziamento degli Euboici nella zona flegrea è infatti avvenuto a spese di una parte del ristretto territorio che era stato conservato dagli Ausoni, e più precisamente da quelli tra loro che i Greci chiamavano Opici,36 ma la collocazione sulla rotta marittima che univa Pontecagnano all’Etruria rende inverosimile che ciò sia avvenuto senza il consenso degli Etruschi, sia della madrepatria che del Salernitano. Consenso concesso evidentemente nella consapevolezza dei grandi vantaggi che il rapporto coi Greci, portatori della scrittura e in generale di una cultura tecnologicamente e intellettualmente assai più avanzata, poteva offrire, purché adeguatamente regolato. Pitecusa, e poi la stessa Cuma, sembrano di fatto avere assunto, sul piano degli scambi, un ruolo di tipo squisitamente emporico37 nei confronti di tutto il medio e basso Tirreno, in un contesto geo-politico in cui il peso degli Etruschi, che si tende volentieri a sottostimare, è invece rimasto a lungo preponderante, sia sul mare che sulla terraferma. Che gli Etruschi siano stati i partners privilegiati dagli Euboici risulta tra l’altro dalla loro presenza fisica, a titolo di meteci e di xénoi, tra la popolazione sia di Pitecusa che di Cuma, documentata in modo esplicito tra la fine dell’viii e la metà del vii secolo 30 M. Gras, P. Rouillard, J. Teixidor, L’univers phénicien, trad. it., Torino, 2000, p. 76 sgg. 31 Da Bernabò Brea, Cavalier, Meligunìs-Lipara iv, supra n. 23, e da E. De Miro, Lo Stretto crocevia di culture (Atti Taranto 1986), Napoli, 1993, p. 528. 32 P. Anello, in Palermo punica, Palermo, 1998, p. 40 sg., con bibl. 33 In tal senso ora anche R. M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi, Milano, 2003, p. 31. 34 Vedi per ora R. Peroni, «Archeologia viva», luglio-agosto 2002, p. 75. 35 Da ultima T. Cinquantaquattro, Pontecagnano ii , 6: L’agro picentino e la necropoli di località Casella (Napoli 2001), p. 12 sgg. 36 A partire da Antioco e da Aristotele. Cfr. Colonna (supra n. 21), p. 30. 37 Mi avvicino alla valutazione data da B. D’Agostino, in Apoikia. Scritti in onore di Giorgio Buchner, «aion ArchStAbt», n.s., 1, Napoli, 1995, pp. 19-27.

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dalle iscrizioni rinvenute nei due centri, che accolgono onomastica etrusca, riferita a donne immigrate (nel caso delle iscrizioni di Ame a Pitecusa e di Tataie a Cuma) o sono addirittura, come credo, in lingua etrusca (iscrizione di Hisa Tinnuna a Cuma, spettante a un personaggio di rango, la cui gens pretendeva di discendere da Tina/Zeus)38 (Fig. 6). Il nome personale reso in greco al femminile con Ame ha una speciale importanza perché costituisce la base del gentilizio Amina(s), attestato a Pontecagnano nel tardo vi secolo, dal quale hanno probabilmente tratto nome gli Aminei, famosi per il loro vino, abitanti nell’entroterra collinare della città.39 Fig. 6. Iscrizione di Hisa Tinnuna da Cuma Ma in proposito va detto che a Ponteca(da G. Colonna, in L’incidenza dell’Antico). gnano stessa è ora emersa, dalla tomba 3509, un’iscrizione etrusca della metà o poco dopo del vii secolo, che, essendo la più antica di tutta la Campania dopo quella di Hisa Tinnuna, ci invita a guardare con occhi nuovi al fenomeno di questa etruscità periferica. Come quella di Tinnuna, è un’iscrizione di dono, in questo caso sicuramente funerario, rivolto a una bambina morta nell’età di appena un anno e sepolta con uno sfarzoso corredo ascrivibile all’orientalizzante medio. I donatori sono una coppia di sesso diverso, identificabile sicuramente con i suoi genitori (Fig. 7).40 Mentre la donna Venel(i)a è priva di gentilizio, il coniuge Velchae Rasunies ne esibisce uno finora non altrimenti noto, se non tramite il lat. Rasinius e soprattutto i numerosi casi di conservazione a livello di idronimi o di toponimi moderni, concentrati non a caso nell’Etruria nordorientale e nel confinante paese umbro. Il fatto degno di nota è che il gentilizio in questione deriva dal termine istituzionale etrusco *rasuna, conosciuto finora nella veste fonetica recente rasna, equivalente a lat. populus e significante «la parte dei cittadini atta alle armi».41 Alla pari del mitico ‘condottiero’ Rasenna, da cui gli Etruschi si autodenominavano secondo Dion. Hal., i, 30, 3, un’importante gens di Pontecagnano aveva pertanto preso nome dalla qualifica di “portatore di armi” del suo capostipite. Il che conferisce al ceto dei ‘principi’, cui appartengono le splendide tombe dell’Orientalizzante antico pubblicate da d’Agostino e Cerchiai,42 una connotazione prima di tutto militare, estensibile senza difficoltà agli omologhi ‘principi’ di Cuma (tomba 104 Artiaco) e di altre comunità ugualmente di confine, ma di ambito centro-italico, quali Praeneste, Veio, Colle del Forno, Fabriano, Verucchio, Quinto Fiorentino, Comeana, Casal Marittimo e via dicendo.43 Anche Pontecagnano è stata in tutta la sua storia, ma specialmente tra il ix e il vii secolo, una marca di confine, non solo verso il retroterra amineo ed enotrio,

38 G. Colonna, in L’incidenza dell’Antico (supra n. 29), pp. 325-342. 39 Ivi, p. 330 sg. 40 L’iscrizione è pubblicata da me, con una presentazione preliminare del corredo da parte di C. Pellegrino, «StEtr», lxv-lxviii, 2002, pp. 384-388, no. 84. 41 G.Colonna, La formazione della città preromana in Emilia Romagna. Atti del convegno di Bologna-Marzabotto 1985, Bologna, 1988, p. 25 sgg. 42 Cerchiai (supra n. 26), pp. 86-89. 43 Documentazione in Principi etruschi tra Mediterraneo e Europa, cat. della mostra di Bologna, Venezia, 2000.

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ma anche, e direi soprattutto, verso lo spazio marino che dal golfo di Salerno arrivava alle Eolie e alle coste della Sicilia. La nuova iscrizione insegna che i ‘principi’ di Pontecagnano si sono assai presto appropriati del bene della scrittura, in linea con quello che accadeva nell’Etruria meridionale, e in particolare a Caere. Ma è a partire dalla fine del vii-inizio vi secolo che, di conserva con la progrediente maturazione urbana, la diffusione della scrittura conosce un notevolissimo incremento. Con le ultime acquisizioni44 il numero delle iscrizioni complessivamente restituite da Pontecagnano supera quasi di un terzo quelle finora note da Capua (53 contro 37), nessuna delle quali del resto è anteriore all’ultimo quarto del vi e posteriore al terzo quarto del v secolo a.C., mentre le Fig. 7. Calice dalla tomba 3509 di Pontecagnano con l’iscrizione di Velcae Rasunies iscrizioni di Pontecagnano coprono un ar(da «StEtr», 2002). co cronologico assai più lungo e stabile, che va dalla metà del vii alla fine del iv secolo a.C.45 Il nocciolo duro della etruscità campana è dunque da riconoscere, almeno sotto questo aspetto, non, come comunemente si crede, nella Terra di Lavoro ma nel Salernitano. L’affacciarsi di Sibari sul Tirreno, che portò verso il 600 a.C. alla fondazione di Poseidonia e di quel tipico santuario di confine che è l’Heraion del Sele, costituì di fatto una limitazione della sfera di influenza territoriale degli Etruschi di Pontecagnano. Tuttavia non abbiamo nessun motivo di credere che essi e i loro cugini dell’Etruria meridionale non abbiano conservato la loro supremazia sulle acque del basso Tirreno, considerati anche i tradizionali rapporti di amicizia tra Sibari e gli Etruschi. Né tale supremazia è stata messa in forse dalle navigazioni focee verso l’alto Tirreno e il Golfo del Leone, culminate nella nascita di Massalia, pure intorno al 600 a.C. Tali navigazioni sono infatti impensabili senza il consenso e il probabile cointeressamento degli Etruschi, indiziato dalle scoperte del porto di Marsiglia, dall’apertura dell’emporio di Gravisca e inizialmente forse dalla stessa installazione focea ad Alalia.46 La storia successiva dei rapporti tra Greci ed Etruschi nel basso Tirreno, che mi limito a rievocare per grandi linee, conferma, se non m’inganno, la prospettiva di ricerca fin qui delineata, intesa a rivalutare il ruolo storico avuto dagli Etruschi del Salernitano. Quando gli ultimi arrivati tra i molti frequentatori greci dello spazio tirrenico, i Cnidii che avevano tentato invano di installarsi nella cuspide occidentale della Sicilia, rifondano Lipari, poco dopo il 580 a.C., osando fare quello che non avevano osato gli Euboici di Zancle e di Reggio, pur tanto più vicini, inizia quella conflittualità permanente con gli Etruschi, che condizionerà la stessa organizzazione politica e istituzionale della colonia, suscitando lo stupore dei contemporanei. La risposta etrusca alla rifondazione di 44 Colonna (supra n. 40), pp. 382-409, no. 84-99. 45 Colonna (supra n. 40), p. 382 sg. 46 F. Zevi, in Damarato (supra n. 15), p. 235 sgg.; Colonna, Atti del xxiii convegno di studi etruschi e italici, Marseille-Lattes 2002 (in stampa).

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Lipari credo sia stata il rapido incremento, culminato nell’ultimo quarto del secolo, dell’insediamento di Fratte, nell’angusta valle dell’Irno, ubicato, a differenza di Pontecagnano, in una posizione strategicamente formidabile, in grado di controllare sia la via terrestre, sempre più trafficata, che univa Capua a Poseidonia, sia, e credo ancor più, la navigazione del basso Tirreno, utilizzando il magnifico porto naturale di Salerno presso la foce del fiume.47 È questa certamente l’antica Marcina, ktisma degli Etruschi per Strabone,48 che l’archeologia insegna essere stata popolata da Etruschi venuti, come indica Fig. 8. Il cippo dei Tirreni a Delfi la grafia delle iscrizioni, anche per Fratte nella ricostruzione Colonna (da I grandi santuari della Grecia e l’Occidente). ormai abbastanza numerose, da Tarquinia e da Vulci, con apporti anche etruscosettentrionali,49 mentre a Pontecagnano sembra essere rimasto dominante il modello di scrittura proprio di Caere. Il nome della città, di cui Ecateo ha conservato la forma originaria, Mamarcina,50 tradisce l’iniziativa di un gruppo gentilizio il cui nomen mostra origini latino-italiche, forse ausoni, denotando la fortissima capacità di attrazione e di assimilazione esercitata verso le popolazioni indigene da queste comunità di confine, sia etrusche che greche. Gli eventi culminati nell’alleanza etrusco-cartaginese e nella battaglia del mare Sardonio, poco dopo il 540 a.C., riguardano la storia dell’alto Tirreno, il Tyrsenikòs kólpos di Sofocle nell’accezione più ristretta. Tuttavia ebbero come conseguenza finale l’installazione dei Focei di Alalia a Elea nel Cilento, a ridosso di Poseidonia, in una posizione munita che in certo qual modo ricorda quella di Fratte. La vittoria militare fruttò agli Etruschi, in particolare di Caere/Agylla, il riconoscimento internazionale della supremazia da secoli esercitata sul basso Tirreno, o Tirreno proprie dictum. Tale supremazia però da allora rimase effettivamente incontestata soltanto fino al ‘meridiano’ congiungente Lipari con Elea, le due città greche di più recente fondazione, divenute ben presto amiche ed alleate, poste nei due punti chiave per le rotte di quel mare, le Eolie e il Capo Palinuro, anche se dotate di marinerie di ben diversa rilevanza. La situazione restò in precario equilibrio fino all’inizio del v secolo, quando iniziò la contropirateria di Dionisio di Focea, lo sconfitto di Lade, ai danni di Etruschi e Cartaginesi, che tutto lascia credere abbia avuto per base proprio Lipari.51 Si venne allora alla resa dei conti tra Etruschi e Liparesi, che portò all’espugnazione etrusca di Lipari (circa 485 a.C.), ricordata da Callimaco e, secondo la mia proposta, celebrata sia dal c.d. Cippo dei Tirreni rinvenuto a Delfi, che a più riprese si è voluto banalizzare come una dedica privata o una dedica rivolta a un

47 Fratte. Un insediamento etrusco-campano, cat. della mostra, a cura di A. Pontrandolfo e A. Greco, Modena, 1990. 48 Strab. v, 4, 13. 49 Colonna (supra n. 40), pp. 378-382, no. 82 sg., con bibl. 50 Presso Steph. Byz., s.v. 51 Per queste e le successive vicende rinvio a G. Colonna, Apollon, les Étrusques et Lipara, «mefra», 96 (1984), pp. 557-574; Idem, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, Roma, 1989, i, pp. 361-374; Idem, in I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, a cura di A. Mastrocinque, Trento, 1993, pp. 61-67.

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preteso ‘Apollo Tirreno’ (a Delfi!) (Fig. 8), sia dall’elogium del tarquiniese Velthur Spurinna, a qu[o Apollo cortina] aurea ob vi[ctoriam donatus est], come da me restituito. Fu solo dopo la battaglia di Imera che gli Etruschi poterono essere sconfitti e Lipari liberata, forse con l’intervento dei Siracusani, che di certo avevano costretto il tiranno di Reggio Anassilao, fino allora schierato con i Cartaginesi e gli Etruschi, a fortificare contro di essi la rupe di Scilla, «per impedire ai pirati il passaggio dello Stretto» (Fig. 9).52 Conseguenza immediata della perdita etrusca delle Eolie fu, nel clima di crescente conflittualità a sfondo etnico conseguente alle guerre Persiane e ad Imera, Fig. 9. La rupe di Scilla (da D. Amato, Calabria). l’attacco portato dagli Etruschi del mare contro Cuma che, morto Aristodemo, appariva come una facile preda, nonostante la rinsaldata amicizia con Capua. Gli assalitori, tra i quali non potevano mancare gli Etruschi di Fratte e di Pontecagnano, furono sconfitti solo grazie all’intervento di Hieron e dei Siracusani, che portò nel 474 a.C. alla fine della talassocrazia etrusca nel basso Tirreno (e all’inizio della vera e propria pirateria, che si prolungherà fino a tutto il iv secolo, come insegna il caso di Postumio il Tirreno all’epoca di Timoleonte).53 La potenza navale etrusca dalla battaglia di Cuma in poi è ricacciata in fondo a quel Tyrsenikòs kólpos, dal quale era partita quasi cinque secoli prima. [Gli Etruschi nel Tirreno meridionale tra mitistoria, storia e archeologia, «Etruscan Studies», 9, 20022003 (2006) (atti del xxvi Classical Colloquium del British Museum, London, 9-11 dicembre 2002), pp. 191-206]. 52 Strab. vi, 1, 5 (C 257). 53 G.Colonna, La Sicilia e il Tirreno nel v secolo, «Kokalos», xxv-xxvii (1980-1981, 1), pp. 157-183, spec. p. 180 sg.

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ono stato invitato da Patrizia von Eles a prendere la parola al termine dei lavori del convegno, cui ho partecipato senza aver potuto preparare, mancandomene il tempo, una mia comunicazione. L’invito, assai gradito, mi consentirà di aggiungere qualche considerazione personale, qualche ulteriore punto di vista, spero non troppo estemporaneo, a quanto si è detto e dibattuto durante i lavori. Anzitutto devo sottolineare che Verucchio non solo è ormai, dopo le scoperte di Gentili e tutto il lungo e prezioso lavoro dell’équipe guidata dalla von Eles, una grande, corposa realtà del patrimonio archeologico italiano, ma è un tema quanto mai accattivante di confronto scientifico, come ha mostrato il convegno. Al quale va il merito di aver riunito intorno a un tavolo, per discutere quel tema, studiosi di diversa estrazione e competenza, interessati sia alla protostoria, italiana ed europea, che agli Etruschi e all’Italia preromana. Nello specifico la scelta del rituale funerario come argomento centrale del dibattito si è rivelata quanto mai felice e appropriata, anche per la concomitante pubblicazione del volume sulla tomba Lippi 89, che ha offerto tanta materia su cui riflettere. Lo dico in generale e anche pensando a quanto di quello che qui si è detto potrà riverberarsi sulla conoscenza dei rituali messi in atto nelle tombe a camera d’Etruria. Tombe di norma non individuali ma plurime, e pertanto rinvenute quasi sempre irrimediabilmente alterate già in antico nella distribuzione spaziale dei corredi e delle loro componenti, come tutti sappiamo. La comparazione può sembrare peregrina, ma non lo è poi tanto se consideriamo i tentativi di un’articolazione interna delle tombe a pozzo, non solo virtuale ma esplicita, che affiorano proprio a Verucchio. Nel Museo è stata suggestivamente ricostruita la tomba Moroni 24, in cui il cinerario è isolato con uno steccato all’interno del pozzetto, suggerendo la distinzione rilevata da d’Agostino nelle tombe principesche di Pontecagnano tra il thalamos e il ‘recinto’ che lo circonda. Fuori dello steccato, e dunque nel ‘recinto’, era il suppedaneo, anche in questo caso, come nella tomba Lippi 89, non accompagnato dal trono. Nella Lippi 89 la notevole distanza tra l’assito che è alla base del pozzo e il coperchio del sottostante cassone, in cui erano sia il cinerario che l’intero corredo, ha generato uno spazio intermedio, che la von Eles ha giustamente assimilato al ‘vestibolo’ di una tomba a camera, considerando il cassone l’equivalente in miniatura di una ‘cella’. Se le cose stanno così, la collocazione del trono vuoto nel ‘vestibolo’ è del tutto coerente con quello che si verifica per i troni scolpiti delle tombe a camera dell’Etruria meridionale (nella lista di ventitré tombe con troni rupestri, da me data in «StEtr», lii, 1984, pp. 55-57, solo nel n. 19 la collocazione nella cella invece che nel vestibolo è frutto di una libera scelta, dato che nei nn. 2 e 22 essa è obbligata dall’assenza del vestibolo). Ciò rispecchia l’uso arcaico romano, noto dalle fonti letterarie, di porre i troni del dominus e della domina nel vestibolo della casa, assieme alle immagini degli antenati. Ma più direttamente ricorda l’uso, testimoniato dalla tomba Regolini-Galassi, dalla Montagnola di Quinto Fiorentino e dalla tomba 79 di Salamina di Cipro, di porre il letto (della prothesis), i troni (o la sella) e gli sgabelli non nella cella ma bene in vista nel vestibolo della tomba, dove aveva luogo l’epilogo delle cerimonie funebri (cfr. G. Colonna, E. Di Paolo, in Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di M. Pallottino, i, Roma, 1997, p. 158 sg.). Epilogo che probabilmente si protraeva per più giorni, fino alla ‘morte rituale’ del defunto, che a Roma era segnata, com’è noto, dalla cena novendialis. Nel caso della tomba 89 la

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collocazione in corrispondenza di uno sgrottamento della parete del vano, forse dovuto a esigenze pratiche ma comunque successivamente adattato alla funzione di fondale, se non di vera nicchia, per il trono, come prova l’inserimento alla sua base di un’asse-pedana’ (G. V. Gentili, in Guerriero e sacerdote, p. 14, fig. 3, in alto), conferma l’evidenza tutta speciale che si è voluta dare a un mobile così splendidamente istoriato. E al tempo stesso consente di precisare che il suo orientamento, e quindi quello del defunto su di esso simbolicamente assiso, era a ONO (282°), come di norma sono orientate a Caere e in altre città d’Etruria, nell’Orientalizzante antico e medio, le tombe a camera e i defunti in esse inumati, a cominciare dalla tomba delle Statue («StEtr», cit., p. 28). Il che ha fatto passare in secondo piano a Caere l’orientamento dei troni, che di fatto è del tutto incostante, anche nei rari casi in cui sono occupati dai simulacri degli antenati (alle testimonianze note si aggiunge ora il frammento da Veio con suppedaneo tipo Ceri, riprodotto in Le necropoli arcaiche di Veio, a cura di G. Bartoloni, Roma, 1997, p. 247, fig. 1). Minore importanza, nel confronto con Caere della tomba 89, va annessa alla collocazione del cinerario nell’angolo NO della cassa (Fig. 1), dato che l’interno di questa difficilmente può paragonarsi all’area ‘quadripartita’ astronomicamente dei tumuli ceriti. Il trono della tomba 89 era privo di suppedaneo, come si verifica, oltre che per i troni dei canopi chiusini e verosimilmente per quello della tomba Barberini di Palestrina, anche per una parte assai consistente, che sfiora la maggioranza, di quelli scolpiti nelle tombe dell’Etruria meridionale (nella lista data in «StEtr», cit., pp. 55-57, il suppedaneo è assente nei nn. 1, 5-9, 11, 12, 16, 17, 19-22). Nella tomba delle Cinque Sedie (n. 1 della lista) mette conto rilevare che manca dinanzi ai due troni vuoti riservati ai defunti, mentre è presente dinanzi ai sedili su cui erano sedute le statue fittili degli antenati banchettanti (F. Prayon, in Marburger Winckelmann-Programm, 1974; Colonna, «StEtr», cit., p. 37). Nel caso della t. 89 di Verucchio l’evidente diversità di fattura rispetto al trono giustifica da sola la diversa collocazione del suppedaneo, che è isolato come nella già ricordata Moroni 24 e nella totalità delle attestazioni d’Etruria (rinvio al mio intervento nella discussione), venendo adibito, certo non casualmente, all’appoggio di un’arma dal forte valore cerimoniale qual è l’ascia immanicata. Il fatto eccezionale non è l’isolamento del suppedaneo, ma piuttosto l’ideazione di un trono destinato esclusivamente a un uso funerario, come ha chiarito la von Eles: un unicum per l’esuberante decorazione figurata, in funzione manifestamente celebrativa (Torelli ha ricordato opportunamente la Sedia Corsini), che in quanto tale è stato collocato in uno spazio esterno alla tomba vera e propria e creato apposta per esso. Aggiungo che la sua eccezionalità ha fatto passare sotto silenzio la pur interessantissima decorazione geometrica del suppedaneo, che imita la trama a catene di losanghe dei tessuti di lana dell’epoca (un bell’esempio da Verucchio in P. von Eles, Verucchio. Museo Civico Archeologico, Rimini 1996, fig. 34): un motivo che ha avuto larga fortuna, assieme ai denti di lupo, nella decorazione dei soffitti delle tombe etrusche di vii secolo (A. Naso, Architetture dipinte, Roma, 1996, pp. 344-355). In tema di rituale colpisce la deposizione, sopra e in parte a ridosso del cinerario, di tre grandi e pregevoli capi di vestiario, di cui almeno i due meglio conservati erano accuratamente ripiegati più volte, come rivelano gli evidenti plis d’armoire (Guerriero e sacerdote, cit., p. 202, fig. 76). Più che alla ‘vestizione’ del cinerario, cui poteva essere adibito solo il terzo indumento, essi fanno pensare ai tria ricinia che, assieme a una tunicula purpurea, le xii Tavole consentivano di deporre nella tomba come corredo del morto, ripetendo prescrizioni risalenti probabilmente a Servio Tullio (G. Colonna, «pp», xxxii, 1977, p. 159; C. Ampolo, «aion ArchStAnt», vi, 1984, p. 84 sg.). Ed è interessante annotare che la rica, indumento certo affine al ricinium, era riservata alla flaminica e doveva essere confezionata da virgines ingenuae, patrimae, matrimae, cives (Paul., ex Fest., p.

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Fig. 1. Tomba Lippi 89.

369 L.), come forse erano le donne che vediamo intente alla tessitura nel registro superiore del trono. Molto ci sarebbe da dire sulla puntuale e brillante lettura, in generale pienamente convincente, data dalla von Eles delle figurazioni del trono, a coronamento di una difficile opera di materiale ‘restituzione del testo’. Il dato più nuovo è l’interpretazione della scena centrale del registro inferiore (Fig. 2) come una scena di sacrificio cruento all’aperto, compiuto da due donne entro un cerchio di armati e su una pedana rialzata. La von Eles pensa genericamente a un santuario, ma la macchinosità della recinzione, in cui oltre agli alberi compaiono pilastri di tronchi sovrapposti collegati da staccionate e incastellature di pali disposti a graticcio, con figure di ‘spettatori’ appollaiate su entrambe le strutture, è francamente eccessiva, anche nell’ipotesi di un templum inaugurato adibito a riti iniziatici. Penserei piuttosto a un luogo di riunioni pubbliche, situato in una bassura umida resa agibile con un tavolato e circondata da ‘tribune’ lignee su cui stare seduti e, in seconda fila, da pilastri su cui stare in piedi. Una sorta di primitivo teatro-comizio, forse non troppo dissimile da quello di cui restano avanzi di età arcaica nel centro urbano di Caere (G. Colonna, Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique, Roma, 1993, pp. 343-347), adibito per l’occasione allo svolgimento di una cerimonia religiosa almeno in parte tenuta segreta, a giudicare dalla schiera di armati dotati di altissimi ‘scudi’, quasi dei paraventi, atti a celarne la vista al momento opportuno, come ritiene la von Eles. A proposito sempre di Verucchio va dato atto a Maria Bonghi di avere ribadito, sia nella relazione che nel successivo intervento, la propria convinzione, comune a molti di noi, che quella di Verucchio sia stata una comunità etrusca, per quanto mista e di frontiera. Lo stesso mi sembra abbia detto di Pontecagnano Patrizia Gastaldi nella chiusa

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Fig. 2.

della sua relazione. Non è il caso di riaprire ora la discussione tenuta nel 1990 proprio a Pontecagnano sul rapporto tra cultura villanoviana ed etruscità, ma c’è, a proposito della lingua parlata dalle comunità sub iudice – ovviamente documentabile solo a partire dall’adozione della scrittura, ossia dall’età orientalizzante –, un dato epigrafico nuovo, che è utile rendere noto. Non viene da Verucchio, i cui sepolcreti finora noti non sembrano scendere molto nella seconda metà del vii secolo, ma da Pontecagnano. Le più antiche iscrizioni di questo sito, che ormai ne ha restituito più di cinquanta, tutte etrusche, risalgono com’è noto al primo quarto del vi secolo. Ora se n’è trovata una, di struttura complessa, formulata come un’iscrizione di dono, che risale alla metà o poco dopo del vii secolo, posteriore di non più di una generazione alle famose tombe principesche del d’Agostino (edita in «StEtr», lxv-lxviii, 2002, pp. 384-388). Autori del dono sono una Venela e un Velchae Rasunies, che porta un gentilizio derivato dall’aggettivo col quale gli Etruschi designavano i portatori di armi, *ras(u)na, tràdito da Dionigi di Alicarnasso nella forma Rasenna e considerato da lui come il nome col quale gli Etruschi si autodenominavano, tratto da quello di uno dei loro capi (i, 30, 3). Un nome insomma che più etrusco di così non si può. Certo l’iscrizione è isolata, ma anche a Cuma prima del 600 non si conoscono che due iscrizioni greche (A. Bartonĕk, G. Buchner, «Die Sprache», 37, 1995, pp. 199-204, C 1 e 2b), eppure nessuno dubita che la città sia etnicamente greca (pur ospitando xénoi etruschi come, a mio avviso, l’ormai famoso Hisa Tinnuna). Direi che l’etruscità di Pontecagnano è ormai altrettanto sicura di quella della Bologna pre-Certosa. Per Verucchio, a parte un’iscrizione etrusca di incipiente v secolo dall’abitato (cfr. Romagna protostorica, Viserba di Rimini, 1987, p. 37, fig. 3), abbiamo finora solo una testimonianza indiretta e di natura non linguistica ma epigrafica. Si tratta delle iscrizioni delle stele di Novilara, che impiegano un alfabeto modellato su quello etrusco-settentrionale, che non si vede da dove possa essere stato trasmesso se non da Verucchio. Vi è inoltre il nome Ariminus del fiume di Verucchio, derivato certamente da un gentilizio etrusco (come ho mostrato in La Romagna protostorica, cit., p. 37 sg.). Non è molto, ma l’analogia con i casi di Bologna e di Pontecagnano ha il suo peso, specie in assenza di controindicazioni. Novilara e Verucchio, col suo scalo marittimo nel sito di Rimini, sono accomunate da una forte proiezione adriatica, che è rimasta un po’ in ombra in questo convegno, incentrato sui rituali funerari. Ad essa dobbiamo tra l’altro i contatti col mondo veneto, evidenti proprio nella tomba 89, in cui il cinerario è una situla bronzea e l’ascia immanicata trova confronti puntuali solo in quell’ambente. Ma ancora più importanti sembrano essere i contatti con l’Istria e l’estremo Caput Adriae, illustrati, oltre che dall’arrivo

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dell’ambra, dalla diffusione dei ventagli del tipo della tomba 89, degli elmi conici tipo Novilara (che ormai, a giudicare dal numero delle occorrenze, saranno da chiamare tipo Verucchio) e degli stessi elmi crestati villanoviani, assenti in Emilia e nel Veneto ma presenti, anche se ne restano solo frammenti, a San Canziano e perfino a Hallstatt (Fr.-W. von Hase, in Antike Helme, Mainz, 1988, p. 204, nota 38, fig. 6). Nel convegno di Ravenna organizzato da Sassatelli l’anno scorso mi sono soffermato sulle rotte dell’Adriatico anteriori al fiorire di Spina e ho cercato di mettere nel giusto rilievo quella che doveva collegare appunto Verucchio e Novilara direttamente con l’altra sponda. Ma certo occorrerà riconsiderare la questione alla luce della migliore conoscenza che andiamo acquisendo di Verucchio, man mano che vengono pubblicate le tante tombe finora scavate. Prima di chiudere vorrei inviare un caldo saluto a Gino Vinicio Gentili, che mi dispiace di non aver potuto incontrare la sera dell’inaugurazione, essendo io arrivato troppo tardi. A Lui deve moltissimo Verucchio, anche perché, come tutti sapete, nonostante i suoi problemi di salute ha licenziato per la stampa già da tempo il volume dei Monumenti Antichi dei Lincei che conclude l’edizione dei suoi scavi in questo sito, ormai indissolubilmente legato al suo nome. Mi risulta che il volume è praticamente già stampato, o sta per esserlo, e per questo quando Patrizia mi ha parlato del convegno ho subito espresso la viva speranza che la presentazione del volume potesse avvenire proprio in occasione di questa iniziativa. Purtroppo così non è stato, ma consentitemi ancora di sottolineare la grande onestà del Prof. Gentili, che a prezzo di notevoli sacrifici personali ha sentito come un preciso dovere scientifico pubblicare i risultati dei propri scavi, riscuotendo tutta la nostra ammirazione. Vorrei anche ricordare la figura di Mario Zuffa, che dal suo osservatorio riminese ha sempre guardato con attenzione a Verucchio. Non conosco bene come sono andate le cose, ma penso che Egli abbia avuto a suo tempo un ruolo non secondario nel promuovere l’interessamento della Soprintendenza nei confronti di questo sito. Naturalmente molta riconoscenza dobbiamo tutti a Patrizia von Eles, che ha sposato con passione la causa di Verucchio, profondendo in essa, assieme alle sue collaboratrici, un impegno e un rigore di ricerca quali non è facile incontrare, peraltro largamente compensato dai risultati. Sta a dimostrarlo il Museo, che per tanti aspetti non ha l’uguale in Italia, e ora il volume sulla tomba del ‘Guerriero e sacerdote’, che presenta come meglio non si potrebbe un corredo di primaria importanza, sia per Verucchio che per l’intera Italia villanoviana. E sta a dimostrarlo anche questo convegno, ideato e organizzato in modo impeccabile, che lascerà certamente coi suoi Atti una solida traccia nella comunità degli studiosi, oltre che un lieto ricordo nei suoi partecipanti. [Conclusioni, in La ritualità funeraria tra età del Ferro e orientalizzante in Italia (atti del convegno, Verucchio, 26-27 giugno 2002), a cura di P. von Eles, Pisa-Roma, 2006, pp. 153-156].

A P RO POSITO DELLA PRE S E N Z A E T RU S C A NELLA GALLIA ME RIDIO NA L E

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l compito che mi sono assunto in questo convegno è di considerare la frequentazione etrusca delle coste mediterranee della Gallia dal punto di vista degli Etruschi, o, più modestamente, se volete, dell’etruscologo, con quel tanto di limitativo, ma anche di informato dei fatti su cui si discute, che è insito in tale qualifica. La massiccia presenza di manufatti etruschi, e in primo luogo di anfore per il trasporto marittimo di vino, sulle coste e nelle acque della Provenza, del delta del Rodano e della Linguadoca, tra la fine del vii e la metà del v secolo a.C., è da più di trent’anni un dato acquisito e universalmente riconosciuto, che s’impone all’attenzione di chiunque s’interessi alla storia, non solo economica, del Mediterraneo occidentale durante l’epoca arcaica.1 Ma sul significato di questa presenza e sulla sua capacità di attestare realmente un commercio gestito da etruschi, con proprie navi e propri punti di appoggio tra le popolazioni rivierasche, sono venute affiorando negli ultimi anni crescenti incertezze, anche perché manca totalmente al riguardo la rassicurante conferma delle fonti letterarie, greche o latine (il che a ben vedere significa solo che quella frequentazione non ha dato luogo a conflitti meritevoli di memoria, a differenza di quel che è accaduto a proposito della Corsica). Istruttivo al riguardo è il confronto tra la bella e informatissima relazione di Jean-Paul Morel al convegno sull’Etruria mineraria del 1979, tutta impostata sulla rivendicazione di un autentico commercio etrusco nel Midi, fino a ventilare nelle conclusioni l’esistenza di «stabilimenti fissi» posseduti dagli Etruschi sulle coste della regione,2 e il contributo non meno argomentato di Michel Bats su Marsiglia arcaica del 1998, recante il significativo sottotitolo Étrusques et Phocéens en Méditerranée nord-occidentale,3 in cui non solo è negata l’anteriorità cronologica del commercio etrusco rispetto a quello foceo, così come l’esistenza degli «stabilimenti fissi» ipotizzati dal Morel e da altri studiosi,4 ma è negata la stessa esistenza di un commercio etrusco autonomo: «si les Étrusques sont présents», egli scrive, «c’est comme partenaires d’emporía avec les Phocéens installés à Marseille», pur essendo costretto a concedere, in nota, la possibilità che gli Etruschi avessero «certains points de contact», almeno nella Linguadoca orientale (leggi Lattes).5 Ancora più decisamente il collega francese non aveva esitato ad affermare, nel convegno di Marsiglia del 1990, che «les amphores [etrusche] représentent le fret de retour des navires qui y ont apporté [in Etruria] les produits gaulois ou de ceux qui assurent la liaison avec le bassin oriental mediterranéen».6 1 Cito solo Heurgon 1969, p. 182 sg. («une grande vague d’expansion commerciale étrusque»), e Gras 1995b, p. 135 sg. («un commerce étrusque a pu être reconnu à partir des céramiques et amphores (…) il s’agit d’un transport (…), qui (…) se concentre en direction du marché gaulois»), p. 146 sg. 2 Morel 1981, spec. p. 508. Cfr. Morel 2002 e la relazione tenuta a questo Convegno, alla quale si rinvia. 3 Bats 1998. 4 In particolare Bouloumié 1980, p. 32 sgg.; Bouloumié 1982, pp. 74, 80-82; Bouloumié 1992. Ma anche Cristofani 1983, p. 49; Py 1995, p. 274; Bruni 1998, p. 195 sg. 5 Bats 1998, p. 624, nota 33. Assai più sfumata e problematica la posizione di Gras 2000a, p. 234, e di Sourisseau 2002, pp. 93-95. 6 Bats 1992, p. 269. Si tratta in realtà di una brusca conversione, quasi una ‘folgorazione’, poiché ancora alla vigilia del convegno lo Stesso scriveva: «Il s’agit essentiellement d’un commerce de distribution maritime (…) sans doute effectué par des bateaux étrusques (…) ils véhiculent aussi bien leurs propres amphores que les quelques produits grecs qui peuvent les accompagner au vie s.» (Bats 1989, p. 176).

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Il fatto è che nel ventennio intercorso tra le due opposte prese di posizione dei colleghi francesi si sono verificati, oltre a un generale incremento e affinamento delle conoscenze sui siti frequentati dagli Etruschi, interpretate però in modo tutt’altro che univoco, due eventi inaspettati e di notevole portata: i ritrovamenti sensazionali, specie in materia di anfore, avvenuti a Marsiglia in seguito alla ripresa degli scavi urbani a partire dal 1987,7 e soprattutto la pubblicazione, ancorché rimasta a un livello preliminare, del relitto dell’isola del Giglio da parte dello scopritore Mensun Bound.8 La nave del Giglio, affondata non prima del 580-570 a.C. a giudicare dalla datazione delle ceramiche più recenti in essa presenti, che sono un aryballos etrusco-corinzio, appartenente al Gruppo di Toronto del Ciclo dei Galli Affrontati, e alcuni aryballoi mesocorinzi del tipo «football»,9 trasportava oltre 130 anfore etrusche, a quanto pare per circa la metà di produzione cerite e per l’altra metà di produzione vulcente,10 contenenti in gran maggioranza vino ma alcune delle prime anche pece resinosa – materia prima evidentemente assai richiesta, specie per l’industria navale, fornita dalle vaste selve costiere dell’Etruria e del Lazio –, e alcune delle seconde olive. Vi era inoltre un modesto quantitativo (circa 15 esemplari) di anfore greche di provenienza disparata (samie, laconiche e corinzie), tutte facilmente reperibili nell’Etruria meridionale, mentre l’unica anfora fenicia avrà fatto parte delle provviste di bordo, imbarcate ad uso dell’equipaggio, e ovviamente in primo luogo del suo comandante, senza che questo renda lecito attribuirgli un’origine semitica. Completavano il carico, a titolo chiaramente accessorio, un consistente numero di aryballoi e di ceramiche da mensa, sia greche (mesocorinzie, laconiche, ioniche) che etrusche (buccheri e, in modesta quantità, ceramiche etrusco-corinzie e vasi d’impasto), oltre a vari lingotti di rame e di piombo e a un lotto di nove flauti di diverse misure, di cui uno d’osso e gli altri di legno. Spettavano invece alla dotazione di bordo alcune armi per contrastare attacchi pirateschi (un elmo mal conservato di tipo corinzio e un lotto di punte bronzee di freccia), sei lucerne greche, recanti tracce d’uso, alcune ceramiche da cucina e una tavoletta cerata di legno col relativo stilo, testimoniante che chi comandava la nave sapeva scrivere. Alcuni oggetti di prestigio, del tutto isolati – un elmo corinzio riccamente decorato, una kline di legno intarsiato di cui resta un pezzo di gamba, una preziosa pissidina di legno intagliato di cui resta solo il coperchio –, erano con ogni probabilità sulla nave per essere offerti in dono al momento e nel luogo opportuno, come era avvenuto per l’analogo gingillo ligneo rinvenuto nello scalo di S. Rocchino in Versilia11 e come sarebbe più tardi avvenuto per il tripode e l’elmo del tipo Negau rinvenuti nel mare di Agde.12 Invece sia essi che una parte delle ceramiche greche da simposio (un cratere e otto oinochoai), arbitrariamente estrapolate dal contesto di cui facevano parte, nonché oggetti di aspetto strettamente utilitario come i flauti e la tavoletta cerata, hanno indotto Mauro Cristofani a ipotizzare che la nave appartenesse a un naukleros greco addirittura del livello sociale di un Demarato, proveniente, come 7 Da ultimo Sourisseau 2002, p. 92 sg., con bibl. 8 Bound 1991b, coi rapporti precedenti ivi citati. Tutti abbiamo potuto comodamente esaminare il contenuto del relitto nella mostra rimasta aperta per molti anni, a partire dalla fine del 1993, presso il Museo Archeologico di Firenze. 9 Szilágyi 1998, p. 618, n. 45, e p. 647. 10 Secondo la localizzazione dei tipi Py 2 e 3b da me a suo tempo proposta (Colonna 1985, p. 14 sg.), accolta da Sourisseau 1997 e ormai generalmente accettata. 11 Bonamici 1996, pp. 3-17. Un altro ora dal relitto di Maiorca (notizia di R. Zucca, che ringrazio). 12 Marseille 2002, pp. 77-79. Anche l’abitato di Genova ha restituito un’applique di elmo da parata del tipo Negau (Genova 2004, p. 332, v.2.57). E quasi certamente diretta verso Genova o la Gallia era la nave naufragata nelle acque di Populonia da cui proviene lo splendido esemplare di elmo con applique laterale raffigurante il gruppo di Ercole e Giunone Sospita duellanti, sorretti sulle braccia da un gigante silenico, di produzione vulcente (Tav. i, a-b) (Romualdi 2000: ne devo le foto al Club subacqueo che nel 1998 ha effettuato la scoperta).

a proposito della presenza etrusca nella gallia meridionale

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mostrerebbero le coppe ioniche incluse nel carico, da Samo: costui avrebbe fatto scalo prima a Corinto e poi in Etruria, dove avrebbe caricato il grosso delle anfore, per dirigersi infine verso la Gallia.13 La proposta, ribadita in più occasioni, ha riscosso largo credito, facendo nascere il sospetto che anche il relitto di Antibes, cavallo di battaglia dei sostenitori di un autonomo commercio etrusco in Gallia con le sue 180 anfore etrusche contro solo 3 greche,14 i 65 tra kantharoi e brocche di bucchero, le 6 o 7 kylikes e il piatto etrusco-corinzio, il vasellame da cucina esclusivamente etrusco e la lucerna trilicne di tipo etrusco-punico, con evidenti tracce d’uso,15 possa essere appartenuto a un mercante greco – Bats non ha esitato a parlare di un foceo di Marsiglia16 –, andato a Pyrgi a procurarsi vino etrusco e connessi servizi potorii, così come avrebbe fatto il naukleros greco-orientale ipotizzato dal Cristofani. Dubbio che è sembrato divenire certezza con le recenti scoperte avvenute nel porto e nello stesso abitato di Marsiglia, che hanno mostrato come l’80-90% delle anfore arrivate nella città nei suoi primi decenni di vita, tra il 600 e il 540/530 a.C., sono di produzione etrusca.17 Si è detto: come è possibile che i Focei di Marsiglia, grandi navigatori dediti all’emporía, dipendessero pressoché interamente, almeno per il vino e gli altri prodotti trasportati per mezzo delle anfore, dal commercio etrusco? In realtà la domanda può essere immediatamente ribaltata: come è possibile che gli Etruschi, anch’essi grandi navigatori18 e per di più riconosciuti talassocrati, oltre che pirati, colonizzatori via mare fin dal x-ix secolo a.C. del golfo di Salerno,19 vittoriosi dei Focei di Alalia nel mare Sardo e in grado ancora tra il 490 e il 475 a.C. di espugnare Lipari, minacciare le città dello Stretto e mettere seriamente in pericolo dal mare la sopravvivenza di Cuma,20 praticassero sì il commercio con la Gallia, così come lo praticavano con la Sardegna, con la Sicilia e con Cartagine, ma, almeno nel caso della Gallia, solo a rimorchio e nella scia, per così dire, dei Focei? In proposito non vanno dimenticati due dati di fatto elementari, ma non per questo meno significativi. Il primo è che dietro i Focei non c’era che una sola e lontanissima città, dal territorio e dal popolamento esiguo, mentre sul Tirreno incombevano almeno cinque città etrusche di mare (Caere, Tarquinia, Vulci, Populonia e Pisa, senza contare Roselle, Vetulonia e la stessa Volterra),21 alcune delle quali, come Caere, erano tra le più popolose dell’intero Mediterraneo e disponevano di risorse materiali pressoché inesauribili. Secondo: per raggiungere Marsiglia e la Gallia i Greci non potevano evitare la navigazione del Tirreno, che li costringeva ad attraversare per tutta la sua lunghezza, dallo Stretto alle soglie della Liguria, proprio quel mare che chiamavano da tempo immemorabile col nome temuto degli Etruschi.22 I quali hanno esercitato sul suo bacino settentrionale, a partire almeno dalla foce del Tevere e già molto tempo prima del conflitto con Alalia, un dominio pressoché incontrastato, tale da precludere per secoli ai Greci – prima 13 Cristofani 1996a. 14 Del tipo corinzio b, probabilmente magno-greco (Sourisseau 1997, p. 94 sgg., 370, fig. 160), presente anche a Pyrgi (Colonna 1985, p. 10, figg. 16-18) e a Gravisca (Slaska 1985, p. 19). 15 Cfr. Long, Sourisseau 2002, p. 31, con fig. Il tipo, come ho ribadito invano più volte, è di casa a Pyrgi, realizzato in impasto rosso-bruno locale, e talora in ceramica verniciata apparentemente di produzione attica: Colonna 1985, p. 14; Colonna 1992, pp. 241 sg., 283 sg. 16 Bats 1998, p. 624. 17 Bats 1998, p. 618. 18 Al punto che si arrivò ad attribuire loro addirittura il progetto di colonizzare una delle isole atlantiche, sfumato per l’ostilità cartaginese (Diod. v, 20, 4). 19 Rinvio alla relazione da me tenuta a Londra presso il Museo Britannico nel dicembre 2002, i cui atti sono in stampa negli «Etruscan Studies». 20 Colonna 1989. 21 Per Pisa vedi ora Bruni 1998. Per Volterra, che verso la metà del vi secolo si cinge di mura alla pari di Roselle, Vetulonia e Populonia, vedi Cateni, Maggiani 1997, spec. p. 83. 22 Cfr. nota 19.

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Euboici, poi Corinzi, quindi Samii e Focei, infine Egineti – l’accesso diretto alle loro note e concupite ricchezze minerarie, che erano in primo luogo il ferro dell’Elba e poi il rame e l’argento delle antistanti Colline Metallifere.23 Maggiani ci ha testé ricordato che dall’Elba si scorge chiaramente la Corsica, come del resto già asseriva Strabone a proposito di Populonia: il braccio di mare tra le due isole era difficilmente percorribile a insaputa e senza il consenso degli Etruschi. Se i Focei hanno ottenuto questo consenso, e poco più tardi, verso il 565 a.C., quello ancora più significativo di installarsi in Corsica ad Alalia (direi in cambio, come minimo, della rinuncia anche solo ad attraccare nella zona mineraria),24 è stato perché gli Etruschi avevano convenienza a darlo, nella consapevolezza dei vantaggi che potevano trarne, sia come mutuo sostegno nella non facile penetrazione all’interno dell’ancora mal noto universo barbarico ligure e celtico, sia in tema di rifornimenti di beni provenienti dall’Egeo e l’Asia Minore, sia infine, come apparirà evidente nel dopo Alalia, per gli apporti artistici e tecnologici che Focei e Samii erano in grado di offrire sul piano culturale (basti pensare alla pittura parietale tarquiniese e alle idrie ceretane, o, per l’area settentrionale, alla lavorazione del marmo).25 Direi che il ricordo delle trattative ‘diplomatiche’ intercorse prima dell’installazione focea a Massalia si intraveda in filigrana dietro la tradizione sull’amicitia stretta da Protis e dai suoi compagni d’avventura con i Romani al tempo del potente re etrusco di Roma, Tarquinio figlio di Demarato.26 Quanto all’eventualità che gli Etruschi abbiano preceduto i Focei nell’apertura della rotta verso il Mediterraneo nord-occidentale, non gli si può certo opporre l’affermazione di Erodoto che i Focei avrebbero «scoperto» per primi l’alto Adriatico, l’Etruria e l’Iberia, perché tale primato concerneva esclusivamente il mondo greco e prescindeva del tutto dalle navigazioni non solo dei Fenici ma anche dei popoli indigeni, che tendiamo in genere a sottovalutare.27 Insomma, se un partenariato c’è stato, non ne sono stati necessariamente gli Etruschi l’elemento debole e subalterno, come vorrebbe far credere una visione delle cose più o meno consapevolmente ellenocentrica, riallacciantesi a una tradizione di studi che si riteneva a torto superata.28 Ma non parlerei di partenariato, sibbene di commercio paritario, riconosciuto e garantito da appositi accordi bilaterali, di cui possono dare un’idea quelli stipulati nella seconda metà del vi secolo tra Cartagine da un lato, le città etrusche e Roma dall’altro.29 I Focei hanno avuto accesso alla foce del Tevere, a Gravisca, a Pisa e certo anche ad altri porti della costa etrusca, a cominciare da Pyrgi (che ad essi deve con ogni probabilità il suo nome greco e l’assimilazione della dea locale Thesan con Leucotea),30 così come gli Etruschi e il loro vino avranno avuto accesso a Marsiglia e al delta del Rodano, conservando al tempo stesso la disponibilità degli approdi precedentemente ‘contrattati’ con gli indigeni, specialmente nell’accogliente Linguadoca, dove 23 Colonna 1981b, pp. 443-445. 24 Ma il nome dato alla città, Alalíe, se veramente echeggia il noto grido di guerra (come propone Gras 2000b, p. 40, che però pensa assai poco verosimilmente a un «nome di propaganda», dato dai Massalioti, secondo lui vittoriosi, al momento dell’abbandono della città), la dice lunga sulle difficoltà incontrate dai profughi focei nell’installarsi in Corsica. 25 Da ultimi Maggiani 2004, pp. 152-162; Bruni 2004, pp. 248-250. 26 Iust. xliii, 3, 4. Cfr. in proposito Zevi 2000, p. 236 sg. 27 Com’è particolarmente evidente per l’alto Adriatico, dove tutto lascia credere che i Focei (Herod. i, 163, 1) siano stati preceduti nell’viii e vii secolo dai Dauni (Colonna 2003, pp. 147-152, 157-160, spec. 159). 28 Specie dopo le scoperte di Aleria (Colonna 1973, pp. 569-571). 29 Accordi risalenti verosimilmente a prima della battaglia di Alalia (Mele 1993). 30 È verosimile che l’intero complesso della toponomastica greca del medio e alto Tirreno, i cui estremi meridionali sono segnati sulle opposte sponde da Pyrgi e da Olbia in Gallura, risalga alle navigazioni focee (Colonna 1981a, p. 21). Per il culto di Leucotea a Pyrgi vedi Colonna 1981a, p. 34; Colonna 2000a, p. 332 sg.

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gli Etruschi ritrovavano, dopo le impervie coste della Liguria e della Provenza, un paesaggio non meno affine a quello del loro paese di quanto lo erano la rada di Marsiglia e le altre della Provenza per i Focei. Tutto ciò non è anacronistico, perché il caso di Pyrgi e di Gravisca, fondate o rifondate ab imis verso il 600 a.C. come insediamenti portuali di forma urbana, fungenti da empória,31 insegna che all’epoca era definitivamente tramontato in Etruria il tempo delle avventure individuali e del commercio ‘prexis’, praticato anche da aristocratici del livello del bacchiade Demarato (benché il gruppo di Focei che andò a fondare Marsiglia ne conservava, come già avevano rilevato alcuni autori antichi, taluni comportamenti, almeno nei confronti del mondo ligure).32 Ad agire in prima persona erano ormai le città, a cominciare da Caere e da Tarquinia, comprese quelle settentrionali che, cingendosi di mura, dimostravano di guardare al mare e di essere consapevoli dei vantaggi come dei pericoli che potevano venirne. Di fatto l’esistenza di uno o più successivi trattati tra gli Etruschi delle città di mare e i Massalioti, delimitanti le rispettive aree di controllo marittimo, con linee di demarcazione anche puntuali, come ne compaiono più tardi nei trattati romano-cartaginesi o in quello romano-tarantino (segnate di norma da promontori), sembra presupposta dalla parte del periplo dello Pseudo Scilace concernente le coste della ‘grande Liguria’. Parte giuntaci a quanto pare pressoché inalterata, a parte i tagli subiti a opera di tardi epitomatori, rispetto alla stesura originaria di fine vi secolo, come mostra il confronto con la parallela testimonianza dello Pseudo Scimno.33 Leggiamo in esso che, navigando da occidente, la costa a partire dal Rodano fino ad Antion (Antipolis) compresa apparteneva ai Liguri e accoglieva la polis greca di Massalia con il suo limén e le sue colonie, mentre da Antion fino alla polis di Roma esclusa – di cui questa è forse la più antica menzione da parte greca, a torto trascurata dagli studiosi – apparteneva agli Etruschi.34 Sembra evidente che le foci del Rodano, del Var e del Tevere scandissero altrettanti confini e che il momento storico di riferimento sia quello in cui Marsiglia ha fondato Antipolis in funzione antietrusca, ma non ancora Nikaia né Monoikos col suo santuario di Eracle. Il che rispecchia una situazione anteriore a Ecateo, che già conosce Monoikos (e Ampelos, di cui si è supposta un’ubicazione nella Riviera di Ponente),35 e posteriore alla cacciata dei Focei dalla Corsica, quando gli Etruschi rifondarono Alalia dandole un nome allusivo alla loro vittoria, reso dai Greci con Nikaia, e più o meno contemporaneamente si insediarono in modo stabile sulla Riviera ligure, a Genova-Castello36 e anche, come è stato supposto da M. Gras, a ridosso del confine del Var, a Nizza. Città questa che, alla pari di Nikaia/Alalia, avrebbe ricevuto da essi il nome reso in greco con Nikaia, giunto fino a noi perché fatto proprio dalla colonia massaliota che prese ben presto il posto del supposto insediamento etrusco,37 mentre nel caso di Alalia l’arrivo dei Romani ha portato alla riaffermazione dell’originario po31 Colonna 1981a, pp. 16-20. Per Gravisca: Torelli 1971, p. 197 sg. 32 Bats 1998, p. 617. 33 Ps. Scyl. 4-5; Ps. Scymn. 217-220. Seguo in proposito l’ottima trattazione di Bonamici 1996, pp. 37-42. 34 Il Ps. Scimno, che segue Eforo e quindi rispecchia una situazione di avanzato iv secolo, parla di Pelasgi coabitanti con gli Etruschi, forse alludendo alla parentela degli Etruschi di Genova e di Pisa con quelli della Padania (Colonna 1998, p. 266, nota 4). Si noti che la menzione di Roma è perfettamente coerente con la data tramandata da Polibio del primo trattato romano-cartaginese (509 a.C.). 35 Apud Steph. Byz., s.v. Per l’ubicazione di Ampelos non si dispone tuttora che del toponimo di Capo S. Ampeglio presso Bordighera (Lamboglia 1939). 36 Sul quale vedi ora i contributi di P. Melli e mio in Genova 2004, pp. 285-357. 37 Gras 2000a, p. 236; Gras 2000b, pp. 40-42, e ora più diffusamente Gras 2003. Mi domando se il superamento del confine del Var, con la fondazione di Nikaia, Monoikos ed eventualmente Ampelos, non sia in relazione con l’erezione del Tesoro dei Massalioti a Delfi, verso il 515-510 a.C., in conseguenza di una ignota, ma in sé tutt’altro che inverosimile, vittoria navale sugli Etruschi (Colonna 2000b, p. 52).

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leonimo greco, evidentemente rimasto vivo fuori d’Etruria (come è avvenuto per Pyrgi con la deduzione della colonia). Quanto alla nave del Giglio, pur sapendo di andare decisamente contro corrente devo dire di non essere affatto convinto che si tratti di una nave greca, né che sia appartenuta, nonostante l’età recenziore, a un novello Demarato che, dopo aver esitato gran parte del suo carico in un porto d’Etruria, invece di tornarsene in patria ha imbarcato vino etrusco per andarlo a vendere a Marsiglia. Cristofani ha costruito la sua ipotesi, in merito alla grecità della nave e del suo proprietario, partendo dalla constatazione che i kantharoi di bucchero presenti nel carico sarebbero in quantità trascurabile rispetto alle coppe ioniche.38 Ma se si vanno a rileggere i rapporti pubblicati dal Bound ci si accorge che nel penultimo di essi si parla di almeno 5 kantharoi contro almeno 6 coppe, e nell’ultimo di 3 kantharoi interi e di frammenti di altri 10 o 11, contro una sola coppa ionica intera e più di 80 frammenti, non esemplari, di coppe:39 indicazione volutamente neutrale, che, nell’ipotesi realistica di 5-6 frammenti per individuo, corrisponderà a non più di 14 o 15 coppe, ossia un numero pressoché equivalente a quello dei kantharoi. Certo, le ceramiche greche sono complessivamente prevalenti, specie per l’incidenza del notevole quantitativo di aryballoi, indiziante uno spiccato interesse, insolito per chi si dirigeva verso la Gallia, al commercio degli olii profumati di produzione greca, ma il fatto in sé non può meravigliare nell’Etruria del tempo, e in particolare a Caere, che è stata la massima consumatrice di tutto l’Occidente, nel vii e nei primi decenni del vi secolo a.C., di vino greco e di ceramiche corinzie.40 La differenza rispetto ad altre navi trasportanti, alla pari di questa, cospicui carichi di anfore etrusche, come quelle del Cap d’Antibes, dell’Ecueil du Miet 3 e ora del Grand Ribaud F,41 sta probabilmente, a parte la cronologia più alta, nell’intenzione del suo proprietario di trafficare anche con esponenti dell’aristocrazia massaliota, o delle élites indigene che ne avevano adottato lo stile di vita, non diversamente da come si comportavano gli émporoi greci che rifornivano di vasellame pregiato e di beni di lusso le classi alte d’Etruria, pur essendo, come insegna Gravisca,42 di ben più modesta estrazione sociale dei loro clienti. A favore dell’ipotesi di un carico formato in Etruria, con tutta la varietà delle merci che si potevano mettere insieme in porti come quelli di Pyrgi, di Gravisca e di Regae, senza ricorrere alla comoda teoria delle «rotture di carico» e delle «merci residue», depongono non solo l’eterogeneità e la latitudine cronologica delle ceramiche greche, che per le corinzie va dall’ec al mc finale, ma anche la presenza di pani di rame ferroso e di lingotti di piombo, certo imbarcati in Etruria alla stregua della gran maggioranza delle anfore, dato che importare quei metalli nel paese sarebbe stato come portare vasi a Samo o nottole ad Atene.43 La prospettiva di un commercio paritario presuppone che, di fatto e in linea s’intende di larga massima, i Focei e gli altri Greci abbiano trasportato beni prodotti nel mondo 38 Cristofani 1996a, p. 26 sg. 39 Rispettivamente Bound 1991a, p. 221 sg., e Bound 1991b, p. 20 sg. 40 Per il vino vedi le anfore vinarie in Rizzo 1990, passim. Per la ceramica corinzia importata mancano statistiche attendibili, ma a provarne l’immensa popolarità, senza confronto in tutto il Mediterraneo, bastano le innumerevoli imitazioni (quasi 3500 esemplari finora noti con decorazione figurata secondo Szilágyi 1998, p. 695). 41 Marseille 2002, rispettivamente pp. 25 sgg., 33 sgg., 55 sgg. 42 Torelli 2004, pp. 128-130. 43 Sui piombi mentre la sigla ta è sicuramente in lettere etrusche, anzi ceretane (vedi le traverse ascendenti), quella eum sembra in lettere greche per la m a quattro tratti (Cristofani 1996a, p. 33). Il che apre un interessante spiraglio sulla presenza di greci, a titolo individuale, nell’industria estrattiva e nel commercio dei metalli in Etruria, richiamando la preziosa notizia, priva di ancoraggio cronologico, circa «i Greci che abitano l’isola [d’Elba]» (Ps. Arist., mir. ausc. 105, 839 b: cfr. Colonna 1981b, p. 447).

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greco e gli Etruschi beni prodotti in Etruria, con assai maggiori probabilità di sconfinamenti da parte degli Etruschi, assuefatti da quasi due secoli a ricevere, ‘consumare’ e ridistribuire prodotti greci, dentro e fuori l’Etruria,44 che non da parte dei Greci, per i quali i prodotti dell’artigianato e lo stesso vino etrusco dovevano apparire, in generale, come beni di ripiego, cui far ricorso solo in mancanza di meglio. Esemplare al riguardo è il confronto con l’unico relitto a mio avviso sicuramente riferibile a un naukleros greco-orientale, probabilmente samio, quello di Pointe Lequin 1a, nel quale a una sola anfora etrusca se ne affiancano 60 greche e alla totale assenza di vasi etruschi da mensa se ne contrappongono oltre 2000 greci, in stragrande maggioranza kylikes (ioniche e attiche).45 In particolare mi sembra difficile pensare che naviganti greci abbiano acquistato e ridistribuito la ceramica etrusco-corinzia, che, per il suo carattere largamente imitativo e ripetitivo e la sua qualità per lo più mediocre, non risulta aver trovato, a differenza del bucchero, alcuna accoglienza nel mondo greco, sia metropolitano che coloniale.46 Ma soprattutto è il vasellame etrusco da cucina o comunque di tipo domestico, d’impasto rosso-bruno o, più raramente, chiaro granuloso,47 abbondantemente rinvenuto a Marsiglia e in molti altri siti della Gallia costiera, come abbiamo appreso, che mal si adatta all’ipotesi di un trasporto e di una commercializzazione da parte di naviganti greci. Si può al riguardo dire di più: l’utilizzo di tale vasellame costituisce, assieme alle iscrizioni vascolari di cui subito dirò, la maggiore novità emersa negli ultimi anni in tema di presenza etrusca nella Gallia meridionale, dato che presuppone specifiche abitudini alimentari e talora, come nel caso delle olle, specifiche norme rituali attinenti al sacrificio. Sicché in linea di massima tale utilizzo sarà da attribuire a meteci etruschi conviventi con i Massalioti o, nel caso di insediamenti indigeni, come quelli di St. Blaise e di Lattes, a etruschi colà residenti.48 In proposito non è avventato presumere che a un dato forte, di natura in primo luogo politico-diplomatica, quale è stata l’apoikia di Massalia intorno al 600 a.C., possa aver corrisposto da parte degli Etruschi l’apertura di veri e propri fondaci presso gli insediamenti indigeni già da loro frequentati sulle coste della Gallia. E ciò tanto più dopo che la polis massaliota ebbe compiuto verso il 545 a.C. un decisivo salto di qualità, e non solo in termini demografici, accogliendo una parte consistente dei profughi della madrepatria Focea, secondo la seducente lettura delle fonti proposta da Malkin e da Gras.49 Si può anzi azzardare l’ipotesi che il via libera concesso dagli Etruschi ai Focei che navigavano verso Marsiglia per sfuggire al giogo persiano possa essere stato tra le cause della neutralità di quest’ultima, altrimenti difficilmente comprensibile (e da Gras com’è noto negata),50 nel conflitto che pochi anni dopo oppose ai Focei di Alalia sia gli Etruschi che i Cartaginesi. Comunque sia sta di fatto che nel dopo Alalia gli Etruschi, e a quanto pare non solo i vittoriosi Ceriti, sono massicciamente presenti in Linguado-

44 Come provano le loro sigle mercantili apposte su vasi greci (Johnston 1985). 45 Long, Sourisseau 2002, pp. 50-54. Altro relitto greco-orientale è quello di Maiorca («Revista de Arqueología del siglo xxi», 258, 2002, pp. 18-25). 46 A differenza del mondo fenicio-punico, come mostrano, tra gli altri, i ritrovamenti di Tharros, Cartagine e Palermo (Szilágyi 1998, p. 691, nota 3; Colonna 2000a, p. 306 sg.). 47 Uso la terminologia adottata a Pyrgi, dove quelle ceramiche (definite «céramique commune étrusque» in Py 1993, p. 343 sg.), sono comunissime, anche nell’area del santuario (Pyrgi 1972 e 1992). 48 Rinvio alla discussione che si è avuta nel convegno, nella quale chi scrive ha sostenuto la verosimiglianza, sul piano archeologico, di un quartiere etrusco, un vicus Tuscus a Marsiglia, ubicato nella zona periferica della Cattedrale (un cenno in tal senso già in Sourisseau 2002, p. 90). 49 Malkin 1990; Gras 1995a. 50 Gras 1987.

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Fig. 1. Località da cui vengono iscrizioni etrusche.

ca, tanto da imprimere ai siti costieri della regione uno sviluppo di tipo paraurbano, di cui l’esempio migliore è oggi offerto da Lattes.51 Che nasce a quanto pare in quegli anni, con le caratteristiche di un insediamento fortificato, come quelli di Alalia etrusca e della collina di Castello a Genova, ma in pianura e dotato di un’urbanistica regolare, che può alla lontana evocare Marzabotto o, meglio ancora, per l’ambientazione lagunare, Spina. A provare la presenza di etruscofoni a Marsiglia, St. Blaise, Lattes e in altri siti costieri, sta la testimonianza ‘parlante’ delle iscrizioni etrusche prodotte o comunque circolanti in loco, tutte provenienti da abitato e databili non più tardi della metà del v secolo (Fig. 1). Sono iscrizioni vascolari e di struttura elementare (a parte la lamina di Pech Maho), come si è in diritto d’attenderci in un ambiente scarsamente letterato, quale doveva essere quello di individui e gruppi familiari che si erano spinti in terre così lontane, ma comunque, per ironia della sorte, assai più numerose di quelle greche contemporanee, che sono pressoché assenti.52 Le due più antiche, risalenti alla prima metà o al più tardi alla metà del vi secolo, vengono l’una da Marsiglia e l’altra da St. Blaise. Sotto il piede a tromba, decorato a stralucido, di un calice (o, assai meno probabilmente a mio avviso, di un kantharos) di bucchero, rinvenuto a Marsiglia,53 sono contrapposte ai lati del cavo centrale le lettere destrorse.54 ar 51 Rinvio alla relazione di M. Py in questo convegno. 52 Nella raccolta più aggiornata ne compare una sola, lapidaria, da Marsiglia, databile nella prima metà del v secolo (Delcourt 2004, p. 7, n. 2, fig. 3). Sulla tendenza focea al silenzio epigrafico vedi, a proposito di Gravisca, Morel 1992, p. 19. 53 Marseille 2002, p. 101 (F. Marchand). 54 a con traversa calante e contorno allungato, r a occhiello grande e angoloso, privo di coda (autopsia).

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Fig. 2.

non spettanti né ad una sigla mercantile né all’abbreviazione del prenome Ara(n)th, del tutto improbabile in età alto-arcaica. Dovrebbe invece trattarsi del noto verbum faciendi (cfr. le forme arce e ara), qui nella forma dell’imperativo, attestato più volte in un’accezione semantica attinente alla sfera del sacro. Incontriamo infatti nell’avanzato vii secolo a Narce il sintagma ar nuna, cui segue un derivato del teonimo Turan (Rix, et Fa 0.4), e assai più tardi in tre passi del Liber linteus la prescrizione vacl ar.55 Il verbo, impiegato nel nostro caso da solo, senza indicare l’oggetto dell’azione, significherà «compi (la libazione, o simili)», in pieno accordo con la forma del vaso, che sembra essere un calice del tipo di quello recante la citata iscrizione di Narce. La seconda iscrizione di pieno vi secolo, da me recentemente pubblicata grazie alla cortesia di Jean-Christophe Sourisseau, viene da St. Blaise e si trova all’altezza delle anse sul corpo di un’anfora da trasporto etrusca di forma Py 3 a.56 Graffita dopo la cottura con ductus sottile e poco evidente (Fig. 2), a differenza di quelle apposte in Etruria, quasi sempre col pennello, dagli stessi produttori di vino che intendevano farne oggetto di dono,57 si riferisce al possessore dell’anfora ed è stata tracciata, a giudicare dalla grafia piuttosto anomala, in ambito ‘coloniale’. Le lettere alte e strette, procedono anche in questo caso in direzione destrorsa, con le traverse di a e z ascendenti al modo ceriteveiente, v di forma peculiare e assenza di interpunzione. Si legge in trascrizione interpretativa: asu zufr(e). Notevole, oltre all’adozione precoce del segno a forma di 8 per /f/ e a quella del sigma multilineare di tradizione veiente-falisca, l’uso reiterato del digamma F per notare la vocale /u/, come si verifica anche a Lattes (vedi avanti) e come è dato incontrare in Etruria, benché assai raramente, fin dal vii secolo a.C., almeno nel caso di Caere e di Veio.58 55 Wylin 2000, pp. 83 sg., 87, 125. 56 ree 2001, pp. 433-435, n. 101. 57 Elenco in Gras 1985, p. 365 sg. 58 Da ultimo ne ho scritto in ree 2003, p. 461, n. 139, a proposito di vka.

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Fig. 3.

Si tratta di un’iscrizione di possesso in nominativus pendens, con omissione, per semplice negligenza o per intenzionale ‘economia’, della vocale finale. La formula onomastica consiste nel nome individuale Asu, noto tra fine vii e fine vi secolo a Veio e a Vulci, seguito dall’appositivo zufre (o zufru), di ignoto significato, fungente probabilmente da cognome, con confronti a Chiusi e Volterra.59 L’adozione di un nome individuale al posto del prenome, seguito non da un gentilizio ma da un Nachname, denuncia l’estraneità del personaggio a una comunità di cittadini: il che in ambito paracoloniale non significa necessariamente modesta condizione sociale. La gran maggioranza delle restanti iscrizioni si data nell’ultimo quarto del vi o nel primo del v secolo e proviene da Lattes. Quattro di esse, pubblicate da me più di vent’anni fa su segnalazione e per interessamento di Michel Gras,60 vengono da uno stesso saggio, che ha intaccato un contesto abitativo risalente al 525-500 a.C. Graffite probabilmente dalla stessa mano, procedono in direzione sinistrorsa, con a dalla traversa discendente. Una si trova sull’orlo estroflesso di una piccola olla cilindro-ovoide d’impasto rosso-bruno e consiste nella paroletta (Fig. 3: 4) ka in cui va forse riconosciuto il pronome dimostrativo ika, precocemente scritto senza la i-, che all’epoca già tendeva a non essere più pronunciata, segnalante che «questa» è l’olla cui compete un determinato coperchio.61 Di fatto una delle altre tre iscrizioni del saggio in questione è inserita nell’anello di presa di una ciotola-coperchio, che per impasto e dimensioni può benissimo appartenere all’olla appena ricordata, mentre le altre due sono inserite entro l’anello del piede di altrettante ciotole di bucchero tardo, di diverse dimensioni. Sul coperchio e sulla ciotola minore il testo è lo stesso ed è scritto col ricorso a una complessa e insolita legatura, 59 Cfr. nota 56. 60 Colonna 1980a. Da ultimo Py 2001, p. 427 sg., nn. 2199-2200; p. 980, n. 5166. 61 Sulla stessa forma vascolare e nella stessa posizione s’incontra due volte a Lattes la lettera isolata sinistrorsa k (Py 2001, pp. 975 e 980, nn. 5137 e 5170).

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estesa dalla seconda alla quinta lettera, motivata dal poco spazio disponibile (Fig. 3: 12). Anche sulla ciotola maggiore il testo sembra essere lo stesso, scritto probabilmente senza legature, ma ne resta solo la prima lettera (Fig. 3: 3), che in tutte e tre le iscrizioni è un digamma con valore di /u/, come a St. Blaise.62 In trascrizione interpretativa si leggerà:  ucial L’uso di c denota un’ortografia etrusco-meridionale e richiede che la vocale successiva sia i invece di a, come sarebbe nel caso della lettura *ucal, pure paleograficamente possibile. Il nome è quello di una donna, Uci, flesso al genitivo di possesso (cfr. il teonimo Uni- Unial), che per la notazione della liquida finale postula una datazione non anteriore alla fine del vi secolo a.C.63 Lo ritroviamo a Populonia nella forma ukiia, di non sicura lezione (Rix, et Po 0.19), forse genitivo in -a, mentre il corrispondente maschile, *Uce, è eruibile dal gentilizio ‘padano’ Ucalu.64 Il nome, di probabile origine celtica, alla pari della forma parallela in -u, Uku,65 attestata anche in venetico, è continuato dal gentilizio latino Uccius, particolarmente frequente nella Gallia Narbonense, dove tra l’altro sappiamo che almeno a partire dall’viii secolo l’oppidum di St. Blaise era chiamato Ugium, conservando a quanto pare il nome antico.66 Le due ciotole assicurano alla nostra Uci, acculturata all’etrusca, qualunque ne sia stata la stirpe, un ruolo non tanto di dispensatrice ospitale di vino o di acqua, come quello che nella saga di fondazione di Massalia compete alla figlia del re indigeno Nannos,67 quanto forse di addetta al culto, cui quella foggia di vaso serviva per compiere il rito della libazione, mentre l’olla col suo coperchio evoca la cottura degli exta delle vittime, che a Roma venivano ritualmente aulicocta, ossia «bolliti nell’olla», prima di essere offerti agli dei.68 Tra le iscrizioni etrusche di Lattes edite recentemente da Marcel Py ve n’è una sola verosimilmente completa, a parte le sigle.69 Sinistrorsa, con a di tipo ceretano, apposta anch’essa su un coperchio di olla di impasto rosso-bruno, è stata letta in un primo momento au dall’editore, che ha pensato all’abbreviazione del prenome Aule, incompatibile con la cronologia tardo-arcaica del vaso, ma in seguito correttamente: al Si tratta di un termine lessicale, la cui esistenza è stata solo di recente accertata grazie a una dedica funeraria di tardo v secolo da Pontecagnano, che suona mi alza ceriies, «sono il piccolo al di Cerie [Cerere]», con alza evidente vezzeggiativo di al.70 Il termine ricorre in forma non alterata nell’iscrizione mi al, apposta su un piattello di Adria di fine 62 Pace Cristofani 1990, p. 125, nota 26. Cfr. supra, nota 58. 63 Senza necessariamente riportare al pieno v secolo, come vorrebbe Cristofani 1990, p. 124, nota 24, dimentico di quanto detto in Atti Firenze ii , pp. 146-148. All’ampia documentazione tardo-arcaica cerite (da ultimo ree 2001, n. 105), vulcente e orvietana si aggiungono, oltre a Lattes e a Busca (Rix, et Li i.i), anche Pontecagnano (ree 2002, n. 88), Pisa (ree 1994, p. 230 sg., n. 1) e Volterra (Rix, et Vt 1.162). 64 Cfr. Colonna 1980a. Per la forma Uka, attestata nel vii secolo a Veio, è preferibile pensare a un rapporto col gentilizio Aukanas, noto localmente, e a un influsso umbro-sabino per la monottongazione au > u (vedi nota 58). 65 Attestata a Bologna verso il 600 a.C. dal gen. femm. ukva (Colonna 1981c, p. 86; Rix, et Fe 2.1). 66 Bouloumié 1980, pp. 56-61. Nella stessa epoca invece l’oppidum di Ensérune aveva assunto il nome di Anseduna (Schwaller 1999, p. 29 sg.), nome fittizio, diffuso anche in Italia in relazione a città morte (come Cosa e Peltuinum). 67 Vino: Aristot. apud Athen. xiii, 576; acqua: Iust. xliii, 3, 11. 68 Fonti in Colonna 1966, p. 32; Torelli 2001, p. 126 sg. Il che è confermato dalla straordinaria frequenza delle olle nei contesti santuariali, sia a Roma (S. Omobono, area SO del Palatino) che in Etruria (Pyrgi, Caere, Gravisca, ecc.). 69 Py 1995, p. 268, fig. 2; Py 2001, p. 980, n. 5169. 70 ree 2002, pp. 400-402, n. 93 (G. Colonna).

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Fig. 4.

vi-inizio v secolo,71 e da solo, come in questo caso, in iscrizioni vascolari di Roma-S. Omobono e di Genova, approssimativamente coeve,72 provenienti sicuramente, almeno nel caso di Adria e di Fig. 5. Roma, da aree sacre. Quanto al significato, non par dubbio che sia da rendere con «dono», riconoscendo nella paroletta la radice del noto verbo di dono alice/alce, impiegato per doni rivolti tanto a divinità quanto a persone. Le sigle di due lettere (tralascio le lettere isolate) comprese tra le iscrizioni tardo-arcaiche di Lattes edite da M. Py, tutte ben documentate in Etruria, sono di incerto scioglimento: la sinistrorsa, sul collo di un’anfora vinaria etrusca del tipo Py 4;73 nu destrorsa, sul collo di una brocca di «pasta chiara massaliota»;74 ¯u sinistrorsa, con lettere legate, su una ciotola di bucchero.75 Le due lettere sinistrorse a ed e, contrapposte entro l’anello del piede di una ciotola della classe etrusco-arcaica a vernice nera (Fig. 4),76 compongono probabilmente l’inizio ae, sciattamente realizzato, di un alfabetario modificato di tipo etrusco-settentrionale, attestato anche a Genova.77 Sono invece frustuli di iscrizioni le lettere destrorse ak[- - -], legate tra loro sull’orlo di un’olla d’impasto rosso-bruno,78 riferibili all’inizio di un nome personale, probabilmente Aka o Akiu, noto a Orvieto, nel Volterrano, in Versilia e a Marzabotto (Rix, et Vs 1.145, Vt 1.74 sg., Li 1.7; Fe 2.9), e la finale sinistrorsa [- - -]e, sotto il piede di una kylix attica.79 Infine è di grande interesse trovare a Lattes un frammento dell’unica ciotola iscritta del gruppo Spurinas rinvenuta fuori dell’Etruria meridionale e di Populonia, riconoscibile per l’iscrizione dipinta circolarmente nel tondo interno in direzione sinistrorsa (Fig. 5).80 Ne restano le lettere [- - -]pe[- - -], da integrare probabilmente in [s]pe[cas], nome personale del committente-donatore, noto da un esemplare del gruppo proveniente da Vulci.81 Scendendo al secondo quarto, se non alla metà, del v secolo s’incontra a St. Blaise una seconda e assai 71 Colonna 2003, p. 166, nota 31. 72 Cfr. supra, nota 68 e Colonna 2004b, pp. 300 e 305, n. 18. 73 Py 2001, p. 43 sg., n. 191. 74 Py 2001, pp. 739, 800 sg., n. 4281 (datata 475-450 a.C.). 75 Py 2001, p. 427 sg., n. 2201 (datata 500-475 a.C., con lettura al non condivisibile). 76 Py 2001, p. 1125 sg., n. 5787. Lettera e ipertrofica, con 6-7 traverse. Sulla classe vascolare, affine al gruppo Spurinas su cui più avanti, vedi Colonna 1972, p. 241, figg. 167 e 370. 77 Colonna 2004b, p. 307, n. 28b (foto capovolta). 78 Py 2001, pp. 974 e 980, n. 5168. 79 Py 2001, pp. 414 e 416, n. 2155 (con lettura v non condivisibile). 80 Py 2001, p. 1143 sg., n. 5843 (frammento evidentemente residuale nello strato di tardo iv secolo in cui è stato rinvenuto). Esemplari anepigrafi del gruppo vengono da Pisa e da Aleria (Bernardini 2001, pp. 39-41). 81 Bernardini 2001, pp. 67 e 128, n. 37. Sulla funzione restano valide le considerazioni svolte in Colonna 1976, p. 20 sg. (non comprese da Bernardini 2001, p. 107 sg., che inventa in proposito la categoria dell’«autoreferenza»).

a proposito della presenza etrusca nella gallia meridionale più importante iscrizione, purtroppo mutila alla fine, anch’essa in scrittura continua e destrorsa, graffita sullo stretto piano di posa del piede di una Stemless Cup attica a vernice nera (Tav. i, c, Fig. 6).82 L’editore si è limitato a darne un apografo tipografico, peraltro incompleto (mifnifhit), rinunciando a una trascrizione ed escludendo solo il greco per quanto riguarda la lingua.83 In realtà si tratta di un’iscrizione sicuramente in lingua etrusca, scritta utilizzando l’alfabeto ionico in uso a Massalia, come mostrano il my a quattro tratti (m), l’het (h), il pi ( ) e il tau (Ù ).84

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Fig. 6.

mivnipivhit[- - -] Se ammettiamo che il digamma isolato nota la vocale /u/, come nelle iscrizioni di St. Blaise e di Lattes anteriori al 500 a.C., mentre il digrafo vh nota la spirante /f/, con un attardamento grafico rispetto al segno 8 riscontrato anche a Genova,85 arriviamo alla seguente trascrizione interpretativa: miunipifit[- - -] La divisione del testo non pone problemi: mi uni pi fit[- - -] La sequenza uni pi consente di riconoscere che l’iscrizione è una dedica sacra, rivolta alla dea Uni, in piena analogia con le dediche veienti aritimi pi, turan pi, rahı pi,86 oltre che con la formula di dono privato raquvu pi visıinas87 e forse con quella del dono, entro una tomba a camera, di uno spazio per la sepoltura a uno Spurie (spur(i)e pu), se pu è, come sembra molto probabile, una variante fonetica di pi.88 Sono enunciati in cui il nome del beneficiario della dedica o del dono, lasciato in caso zero, è qualificato come tale dalla posposizione pi, mentre a fungere da soggetto è il nome di ciò che viene donato, sostituito nell’iscrizione di St. Blaise dal pronome mi, riferito al vaso: «io (sono) per Uni», ossia «al servizio di Uni». Seguiva nella stessa iscrizione un secondo enunciato, di cui restano solo le prime lettere, relative a un nome personale che è certamente quello del dedicante, fungente da soggetto di un verbo di dono, espresso o sottinteso. L’antroponimo è integrabile in Fit(iu), noto in età recente a Volterra come cognome nella forma Fetiu (Rix, et Vt 1.29-32, 97, 99),89 con normale alterazione post-arcaica di timbro i > e.90 In conclu82 Bouloumié 1992, p. 89 e 267-269, n. 96, figg. 72-73. 83 M. Lejeune, da lui interpellato, si era espresso per una pseudo-iscrizione o per un’iscrizione ligure in scrittura etrusca. 84 Meno probabile che si tratti di una s retrograda e ‘raddrizzata’, come se ne trovano nel ripostiglio bolognese di S. Francesco (Sassatelli 1984, nn. 39, 41-44, 142). 85 Dove si ha hv (Colonna 2004b, pp. 301 e 304, n. 11). 86 Colonna 1987, pp. 424-427, 434; Rix, et Ve 3.34, 0.5 (con lettura non accettabile). 87 Colonna 1984, p. 316, nota 8, fig. 1; Rix, et Cr 2.6 («calice per Raquvu Visthinas»). 88 ree 1986, pp. 313-316, n. 69a (P. Tamburini); Rix, et Vs 8.1. 89 Accanto al gentilizio Fethiu (Rix, et Vt 1.33), meglio attestato a Perugia. 90 È verosimile che il nome tragga origine da lat. Fidius, su cui Schulze, zgle , p. 475.

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sione possiamo essere certi che St. Blaise ha restituito l’unica testimonianza fuori d’Etruria di un culto, verosimilmente privato, rivolto alla grande dea etrusca, il cui maggior santuario era quello di Pyrgi. Al dossier delle iscrizioni etrusche rinvenute nella Gallia meridionale va aggiunta quella, di lunghezza considerevole (stimabile in 25-30 parole), apposta sulla lamina plumbea da Pech Maho presso Narbona, databile nel secondo quarto del v secolo.91 Il testo, leggibile per meno di due terzi di ognuna delle sei righe, si riferisce a un contratto di compravendita, come quello, relativo a un battello, scritto in greco sulla faccia B dello stesso Piombo a distanza di pochi anni da due Emporitani, che lo hanno utilizzato per la seconda volta. L’ortografia è meridionale nell’uso delle sibilanti e settentrionale in quello delle velari, come si verifica ad Aleria e occasionalmente nell’area di confine tra i due ambiti epigrafici, a Vulci e Orvieto. Notevole il fatto che, al posto dei testimoni del testo greco – persone dai nomi ‘iberici’, certamente dimoranti in loco –, quello etrusco rechi la sottoscrizione dello scriba, un certo Hinu figlio di Tuz,92 nome questo attestato più tardi a Volterra (Rix, et Vt 1.42), per il quale si può supporre una funzione in senso lato notarile, a quanto pare ufficialmente riconosciuta dalla comunità locale. I contraenti sono due etruschi: uno di essi, designato nell’incipit da solo, o comunque per primo, con una formula onomastica bimembre al genitivo, è un Venel Sai, dal gentilizio noto anch’esso a Volterra, ma nella forma recenziore Sei/Seie, scritta con la sibilante marcata (Rix, et Vt 1.122, 139, 140), parallela alla forma Seie con sibilante normale propria di Volsinii (Rix, et Vs 1.213, 248, 253).93 L’altro contraente è un Utavu che, se si accetta la lettura utavum di Rix, va staccato, a causa della congiunzione avversativa -m, dalla sequenza precedente, veneluz ka, e considerato come il nome unico del secondo personaggio, alla pari probabilmente di Hinu. Il testo è complessivamente oscuro,94 ma si riconosce per generale consenso la menzione in locativo di Massalia (mataliai),95 sicché è possibile che almeno uno dei contraenti sia un etrusco di quella città. La successiva riutilizzazione del Piombo per un contratto stipulato tra greci e in lingua greca, pur se casuale, è comunque emblematica del crollo delle posizioni guadagnate dagli Etruschi in Linguadoca, sopraggiunto verso la metà del v secolo ad opera di Massalia e delle sue colonie. In proposito è molto istruttiva la testimonianza di un’anfora massaliota in frammenti rinvenuta molti anni fa sulla battigia del golfo di Baratti, ossia nel porto di Populonia, ma solo recentemente pubblicata.96 L’anfora, databile nella seconda metà del v secolo per il profilo dell’orlo, accostabile al tipo 4 della classificazione di M. Py,97 91 Colonna 1988; Cristofani 1990, pp. 123, 125 sg.; Rix, et Na 1.1; ree 1991, n. 54 (M. Cristofani); Ampolo 1992, pp. 29-32; Rix 1995, p. 123 sg.; Cristofani 1996b, pp. 83-86. Accolgo la lettura Rix, basata su autopsia, alla quale si adegua largamente anche Cristofani nel contributo più recente. 92 Per il gen. arcaico Tuzu[l] cfr. per es. Cusul (Rix, et Fa 1.6), gen. di *Cus. Ho ritenuto nel precedente intervento che l’enunciato della sottoscrizione sia formulato come «scrittura hinu di Tuz» (cfr. ora per zi¯ la Tabula Cortonensis: Agostiniani 2000, pp. 86 sg., 108). Ma un’importante testimonianza arcaica di Caere (ree 2005, c.s.) prova oggi che zi¯ può avere il valore di una forma verbale, come sostenuto inizialmente da Cristofani per Pech Malo (seguito da Wylin 2000, p. 197 sg.). Quanto al nome individuale Hinu, esiste la variante Hene di età recente, fungente da gentilizio (Rix, et Ar 1.16), nonché il derivato lat. Hinoleius (Schulze, zgle , p. 460, nota 1). 93 Il gentilizio ricalca il nome individuale *Saie/Seie, che è alla base del gentilizio di tipo patronimico Saina (Rix, et Cl.1.1240)/Seina (Rix, et as 1.1215, Cl. 1.2271, ob 2.11, ecc.), oltre che di lat. Seius e del poleonimo lat. Saena. 94 È possibile che zeke e mele siano verbi in -e, ma sul significato regna la massima incertezza. 95 La resa di /-ss-/ con /t(t)/ presuppone una mediazione dialettale di area dorica, forse corinzia (cfr. il caso di mata: Colonna 1989b, p. 30 sg.). 96 ree 2001, pp. 347-349, n. 22 (A. Romualdi). 97 Sourisseau 1997, pp. 30-32, doc. 5.

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reca sul corpo graffito con caratteri minuti in etrusco un nome personale in direzione sinistrorsa (Fig. 7): teace Caratteri e ortografia rinviano all’ambito tarquiniese-vulcente, a giudicare dalla forma di a e di t e dall’uso di c al posto di k, ma per quanto concerne la lingua è evidente e inequivocabile l’adattamento del nome greco ¢Â›·ÎÔ˜, a me noto solo da un’iscrizione di Gravisca.98 Non può esserFig. 7. vi dubbio che sia questo il nome di un mercante greco stabilitosi a Populonia o in un altro porto d’Etruria per commerciare in vino marsigliese, percorrendo a ritroso la rotta dei tanti che dall’Etruria per oltre un secolo e mezzo avevano trasportato vino a Marsiglia. Il fatto intrigante è che: 1. per svolgere la sua attività in Etruria abbia sentito il bisogno di etruschizzare il suo nome;99 2. scrivendo in etrusco dimostri di avere appreso quella lingua a Tarquinia o a Vulci; 3. sia certamente, per l’estrema rarità del suo nome, lo stesso personaggio che da giovane, verso il 470-460 a.C., ha lasciato traccia di sé nel santuario più antico di Gravisca, ormai quasi disertato dagli stranieri, dedicando ad Afrodite uno skyphos attico a figure rosse, iscritto col suo nome in greco e con la dedica alla dea in etrusco (mi turuns).100 È questo il primo e per ora unico caso di un mercante greco operante nell’Etruria marittima, sulle orme della grande emporía greco-orientale, del quale si possa fondatamente presumere l’origine marsigliese. Ma è tempo ormai di lasciare la Gallia e di ritornare in Etruria, per interrogarci su ciò che sta dietro al commercio esercitato dagli Etruschi in quella regione. Un fatto è di immediata evidenza: gli Etruschi si sono avvalsi, come mezzo primario di scambio, del vino da loro prodotto, cui hanno affiancato, specialmente quando i loro partners erano indigeni, il vasellame da tavola, di bucchero o di ceramica fine etrusco-corinzia, che usavano utilizzare per il consumo di quella bevanda e che evidentemente i loro interlocutori avevano imparato ad apprezzare, tanto da richiederlo assieme alla bevanda stessa. Solo in via subordinata hanno esportato ceramiche da cucina, vasellame bronzeo, olive, pece, pani di metallo grezzo e anche beni di lusso, come insegna il relitto del Giglio, se è da accreditare ad essi come sopra sostenuto. Il commercio etrusco in Gallia presuppone pertanto in primo luogo una estesa viticoltura, tanto più significativa in quanto circoscritta in larghissima prevalenza, come insegna la tipologia delle anfore,101 all’Etruria meridionale costiera, e in particolare ai territori di Caere e di Vulci. Una vi98 Colonna 2004a, p. 81, nota 77. È possibile che il nome etruschizzato del personaggio compaia anche su una seconda anfora da Populonia, non classificata, conservante solo le lettere te[- - -], peraltro più grandi e scritte da mano diversa (ree 1979, p. 310, n. 22). 99 Il caso ricorda quello del ceramografo attico M‹ÙÚˆÓ, che per i vasi prodotti in Etruria, o comunque per l’Etruria, fa uso della lingua etrusca (Colonna 1975, p. 190 sg.). 100 cie 10339; Maggiani 1997, pp. 22 e 39, B 5, fig. 71; Johnston, Pandolfini 2000, pp. 21 e 71, nn. 92 e 380, tav. 11. Il nome è probabilmente una variante di ¢Â¿ÏÎÔ˜/¢Â›·ÏÎÔ˜, attestato a Taso nel iv-iii sec. a.C. (Fraser, Matthews 1987, p. 120). 101 Sourisseau 1997. Vedi anche, per Pisa, Bruni 1998, pp. 128 sg., 159 sg.

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ticoltura che in taluni distretti collinari di quei territori ha probabilmente assunto il carattere se non di una monocoltura, certo di una coltura fortemente privilegiata, in grado di fornire agli émporoi delle città marittime che ne facevano richiesta partite considerevoli di vino, contenuto in anfore sigillate con tappi di sughero e adatte al trasporto su nave, prodotte in quantità considerevoli certamente negli stessi fondi in cui erano ubicati i vigneti e gli impianti per la spremitura dell’uva, secondo una pratica che si prolungherà fino in età romana. Tutto lascia credere che sia da vedere in questo fenomeno, implicante forti investimenti economici nelle campagne, con adeguate recinzioni e forme di sorveglianza, l’ultimo esito di quella rioccupazione dei siti minori, desertati nell’età villanoviana, che ebbe luogo tra la fine dell’viii e i primi decenni del vii secolo principalmente nei citati agri di Caere e di Vulci.102 Rioccupazione avvenuta per iniziativa di gruppi gentilizi, avviati ormai a costituire un’autentica aristocrazia, tesa a ritrovare nelle campagne quel potere che nel seno delle comunità urbane incontrava sempre maggiori limitazioni. L’età in cui inizia un commercio regolare e continuato con la Gallia, ossia la fine del vii e i primi decenni del vi secolo a.C., coincide con l’apogeo di questa aristocrazia ‘rurale’, che si giovava della manodopera di estese clientele e viveva in splendide residenze, di stampo regale, come quelle rivelate dagli scavi di Murlo e di Acquarossa presso Ferento, facendosi seppellire in tombe monumentali come quelle di Grotta Porcina, di Tuscania, di Castro e di tanti altri siti dell’Etruria interna.103 Come una tra le fonti non secondarie della sua prosperità possiamo oggi annoverare la produzione di vino, e secondariamente di olio, che ha alimentato una intensa esportazione di contenitori di profumi e di essenze, diretta non verso la Gallia ma verso la Sicilia e Cartagine.104 Il declino di tale aristocrazia, negli ultimi decenni del vi secolo, non ha comportato immediatamente una crisi nella esportazione di vino, ma certo ha contribuito notevolmente al suo ridimensionamento, che ebbe luogo nel corso del v secolo. Se il vino è stato il principale mezzo di scambio utilizzato in Gallia dagli Etruschi, non possiamo però certamente considerarlo il movente che ha spinto gli émporoi etruschi a recarsi in Gallia. La scoperta del potere d’acquisto consentito dal possesso del vino ha facilitato commerci che dobbiamo presumere rivolti in primo luogo all’acquisizione di materie prime di cui le città dell’Etruria meridionale difettavano. In altre parole: con quali beni gli Etruschi scambiavano il loro vino? In proposito va preso in considerazione un dato di fatto cui già si è avuta occasione di fare riferimento, rivelatore dell’interesse collettivo portato allo sviluppo dei commerci transmarini alla fine del vii-inizio del vi secolo: il potenziamento, se non l’apertura ex novo, di scali marittimi, di cui gli esempi meglio datati sono quelli di Pyrgi e di Gravisca (per Regae, scalo principale di Vulci, le conoscenze attuali non consentono di datare il momento del primo impianto).105 A Pyrgi l’insediamento portuale, risalente almeno alla fine dell’viii secolo, ricevette verso il 600 a.C. un assetto urbanistico regolare e fu collegato a Caere città con una comoda strada carrabile, larga oltre 10 metri e accuratamente drenata, che attraversava la pianura costiera con lunghi rettifili.106 Non diverso sembra essere stato il caso di Gravisca, a parte lo sviluppo precocemente assunto dal culto emporico di Afrodite e di Hera, nato intorno ai suoi pozzi di acqua potabile, ricercati dai naviganti, e alle connesse attività metallurgiche.107 Anche a Pyrgi le origini del grande santuario di Uni risalgono proba102 104 106 107

Colonna 1977a, pp. 197-202. 103 Colonna 1977a, pp. 203-206; Colonna 1986, p. 424 sgg. Morel 1981, pp. 486-488. 105 Sul sito da ultimo Colonna 1977a, pp. 210-213. Cfr. nota 31 e per la via Caere-Pyrgi Colonna 1981a, p. 19 sg. Torelli 2004, pp. 120-122.

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bilmente a questa età, ma l’enorme monumentalizzazione ricevuta alla fine del vi secolo ne ha praticamente cancellato le fasi iniziali.108 L’incremento del commercio marittimo etrusco alla fine del vii-inizio vi secolo ha avuto indubbiamente molte cause, che non è possibile analizzare compiutamente in questa sede. Ma è certo che esso si accompagna a un fenomeno che interessa tutti o quasi gli aspetti della produzione artigianale, di pari passo con l’avvento di una matura civiltà urbana. Alludo alla nascita di produzioni massificate,109 facenti largo ricorso all’uso di matrici e di stampi, evidente nell’industria vascolare e nella coroplastica architettonica, ma tutt’altro che assente nella bronzistica e in genere nella metallotecnica, per la quale gli Etruschi, com’è noto, hanno goduto di una particolare reputazione nel mondo antico. Per produrre le loro oinochoai e tutto il restante strumentario bronzeo del simposio, i loro tripodi, candelabri, bacini e via dicendo gli Etruschi hanno avuto bisogno di una quantità sempre crescente di materia prima, il che significa non solo il rame, ottenibile nella zona mineraria toscana e in Sardegna, ma anche lo stagno, le cui fonti di approvvigionamento si trovavano assai più lontano, sulle rive dell’Oceano. Una delle ragioni che hanno spinto gli Etruschi, alla pari del resto dei Focei, a spingersi nel Golfo del Leone è stata certamente, come da tempo è stato riconosciuto, la necessità di procurarsi quel metallo, così raro nel Mediterraneo, che arrivava nel delta del Rodano e sui mercati della Linguadoca per vie continentali gestite dagli indigeni.110 Ma un’altra grande risorsa della regione era la ricchezza di uomini, la polyanthropia, in grado di fornire manodopera a basso costo ai grandi centri urbani del Mediterraneo. In primo luogo manodopera militare, di cui è rimasto il ricordo negli arruolamenti di mercenari tra gli Elysici, i Liguri e i Celti, effettuati da Cartagine prima dell’invasione della Sicilia che portò alla disfatta di Himera.111 Ma anche manodopera servile, sempre più necessaria nelle grandi città dell’Etruria meridionale per lo sviluppo raggiunto dalle attività manifatturiere e dalla stessa produzione agricola specializzata, a cominciare come si è visto dalla vite. Una spia di questa manodopera, verosimilmente concernente il mercenariato, è offerta alla fine del vi secolo dalla dedica votiva fatta in un santuario urbano di Caere «a pro di Celthe» (mi Gelthestra).112 Ovviamente non si può escludere del tutto che il celta in questione provenisse dalla Transpadana e fosse quindi un discendente dei Celti installati in quella regione, dove secondo la tradizione riferita da Livio sarebbero giunti con Belloveso all’epoca della fondazione di Marsiglia. Ma, trovandoci in un centro come la Caere arcaica, tutta proiettata sul mare, è infinitamente più probabile la sua provenienza dalla Gallia meridionale, da dove Cartagine attingeva, come appena detto, i suoi mercenari. Vi è certo la difficoltà, ma più apparente che reale, della scrittura Celthe invece di *Celte, con un’aspirata che non si ritrova nelle altre attestazioni etrusche dell’etnico, invero tutte assai recenziori.113 Da qui l’obiezione che la scrittura Celthe converrebbe meglio a un’analisi del nome come Cel-the, ossia «pertinente a Cel», la divinità etrusca corrispondente alla greca Gaia e alla latina Terra, il che farebbe del nostro un 108 Colonna 2000a, p. 274 sg. 109 Colonna 1994, p. 573 sg. 110 Bouloumié 1989, spec. pp. 853-863. 111 Herod. vii, 165. Cfr. Colonna 1988, p. 554. La statua virile seduta al modo indigeno, purtroppo acefala, rinvenuta recentemente a Lattes, datata dagli editori al 500-475 a.C. (scheda di P. Melli in Genova 2004, p. 402, vi.1), restituisce l’immagine emblematica di un guerriero ligure in tutto lo splendore esotico delle sue armi, quali si convengono a un capo mercenario reduce d’oltremare. I dischi-corazza che indossa, associati al cinturone di tipo iberico, fanno pensare alla Corsica, dove entrambi i tipi di arma sono indossati dai mercenari italici al servizio degli Etruschi, come mostra la tomba 90 di Aleria (Colonna 1973, p. 568 sg.; Colonna 1999, p. 153, nota 44). 112 Commercio etrusco arcaico, p. 270 sg.; Colonna 2004a, p. 76. 113 Di iii-ii sec. a.C. (Rix, et Ta 1.140, Cl 1.1232, Pe 1.1008), tranne keltie a Spina, che risale al iv-iii (Vitali 1998, p. 262, fig. 3).

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nome teoforico.114 Tenendo conto dell’antichità dell’attestazione e del carattere di forte novità che l’etnico doveva presentare per un orecchio etrusco si può superare l’obiezione ipotizzando che dietro la scrittura Celthe si celi un tentativo di paretimologia. L’etnico sarebbe stato inteso da chi scriveva come «quello di Cel», un po’ come per S. Gregorio Magno, che ne auspicava la conversione, gli Angli pagani si sarebbero chiamati così in quanto angeli, predestinati al regno dei Cieli.115 L’etnico evocava infatti quella che per gli Etruschi era la dea dell’occaso, ossia della regione dalla quale provenivano i Celti di Gallia, richiamando in particolare l’appellativo Celsclan, «figlio di Cel», attribuito su uno specchio rinvenuto a Populonia a uno dei Giganti della mitologia greca in lotta con Laran, il dio della guerra.116 Creature immani e selvagge come dovettero apparire i Celti, per la loro statura, il loro aspetto belluino e il loro modo di combattere agli occhi degli Etruschi, non diversamente da come più tardi apparvero i Galati agli occhi dei Greci.117

114 Pandolfini 1986, e da ultimo Cristofani 1993, p. 504 sg., n. 19, nota 15. 115 Beda, hist. eccl. ii, p. 200, London, Loeb, 1954. 116 Colonna 1977b, pp. 53-56. 117 Colonna 2002.

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APPENDICE Le iscrizioni del relitto del Grand Ribaud F La clamorosa novità del relitto del Grand Ribaud F non sta solo nelle dimensioni e nella struttura della nave, senza uguali tra quelle naufragate sulle coste francesi e italiane, né solo sull’entità del carico di anfore etrusche, stimato in quasi 1000 individui, ma anche in alcune iscrizioni graffite su anfore e vasellame da mensa, che la stessa dislocazione ‘topografica’ fa ritenere appartenenti non al carico ma alla dotazione di bordo, a disposizione del comandante e dell’equipaggio. Le tre più notevoli sono state recuperate alla vigilia del convegno, appena in tempo per essere presentate nella bellissima mostra che i nostri ospiti hanno voluto farci ammirare a Marsiglia. Una di esse è graffita sulla spalla di un’anfora etrusca diversa da quelle del carico (finora a quanto pare tutte anepigrafi), scialbata di bianco e di forma vicina alla Py 5. Consta di due lettere sinistrorse tangenti tra loro:118 hu Si tratta di una nota sigla commerciale, presente sia su ceramiche attiche rinvenute in Etruria (a Caere, Gravisca, Vulci e Arezzo) e a Capua, sia su ceramiche etrusche rinvenute a Pyrgi e con particolare frequenza a Gravisca. Il che significa che si riferisce a un mercante etrusco, probabilmente tarquiniese, attivo tra la fine del vi e i primi decenni del v secolo a.C., che ha esteso il suo commercio alla ceramica attica, come già supposto, ma troppo timidamente, dal Johnston,119 e, possiamo ora aggiungere, anche al vino etrusco. Le altre due iscrizioni sono graffite sulla stessa anfora greca, che è del tipo già comunemente definito «ionico-massaliota», da me a suo tempo attribuito alle colonie calcidesi dello Stretto e della Sicilia ionica, mentre ora si tende a considerarlo piuttosto di area «calabrese», e in particolare di Locri.120 Sul collo corre l’iscrizione etrusca sinistrorsa (Fig. 8)121 maniies designante il possessore dell’anfora, verosimilmente il comandante della nave, che a quanto pare preferiva per sé il vino di Magna Grecia a quello etrusco che trasportava a Marsiglia. Il nome è noto nella stessa epoca nei pressi di Adria, a San Cassiano, nella forma manis, con riduzione del dittongo -ie e desinenza del genitivo resa ugualmente con -s secondo l’ortografia etrusco-meridionale.122 In entrambi i casi non possiamo sapere se il nome conserva la funzione di nome individuale, come è probabile, o ha assunto quella di gentilizio, attestata in età recente tra Chiusi e Perugia (Rix, et Cl 1.1342, 1933; Pe 1.740), dove ritorna più volte anche il gentilizio di tipo patronimico Manina (Rix, et Cl 1.1844, 1935 sg., 2113). Questa distribuzione non deve però far dimenticare che il nome è un calco dell’antichissimo prenome latino Manios, presente già nella Fibula Prenestina, accanto al 118 Long et alii 2003, p. 68 (autopsia). 119 Johnston 1985, p. 251, fig. 7 a-c (da leggere capovolta). Aggiungi alle ceramiche attiche una lucerna da Populonia (Martelli 1981, p. 416, nota 65, tav. xcviii:2) e l’olpe citata in Mengarelli 1937, p. 429, n. 118. Per le ceramiche etrusche: a Gravisca cie 10329, 10331 e 10377, nonché forse 10327 e 10332 (con asta anteposta), a Pyrgi , che induce allo sciogliree 2003, n. 47. Sulle ceramiche greche la sigla è talora allargata nel nesso triplice hus mento con uno dei molti gentilizi aventi quella base (su cui Colonna 1980b, pp. 170-174). 120 Colonna 1985, p. 19; Sourisseau 1997, pp. 156-160. 121 Long et alii 2003, p. 68 sg., fig. 49 (autopsia; apografo stampato con scambio ds./sin.). Sono grato a Luc Long per avermi fornito l’apografo qui riprodotto e avermi invitato a presentare a caldo l’iscrizione nella seduta del convegno che ha avuto luogo il 30 settembre a Lattes. 122 Colonna 2003, p. 166 sg., nota 31, n. 8.

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quale la forma etrusca Mane, attestata a Tarquinia in pieno vii secolo,123 testimonia l’uso onomastico anche della forma base, che è l’aggettivo manos. A circoscrivere l’origo del nostro personaggio concorre la scrittura -iie-, con geminazione della /i/ semivocale, che raggiunge la massima frequenza, tenuto conto anche delle occorFig. 8. renze di -iia- e di -iiu-, nell’area TarquiniaCaere-Veio-Roma, a giudicare dalle finali morfologiche dei lemmi con provenienza nota registrati negli et .124 La grafia dell’a con traversa discendente induce inoltre a preferire, entro l’area indicata, Tarquinia. Un’ulteriore indicazione proviene dalla seconda iscrizione apposta sull’anfora, in questo caso al disotto di una delle anse, consistente in una sequenza sinistrorsa di segni numerali:125

cccccccccii Com’è noto, l’uso del segno c per «cento», invece del segno etrusco ad asterisco, che è il segno per «dieci», x, bipartito verticalmente da un’asta, è proprio ed esclusivo della scrittura latina, in cui trova probabilmente una motivazione di ordine acrofonico.126 L’attestazione che ne offre l’anfora è a mia conoscenza di gran lunga la più antica finora nota. Essa autorizza a pensare che il nostro Manie sia un etrusco che, fedele alle origini indiziate dal nome, intrattiene rapporti di affari con Roma e i Latini e usa il loro sistema numerale, oppure, meglio, un latino (romano o forse anziate?) che scrive il suo nome in etrusco perché ha un equipaggio composto prevalentemente da etruschi, assoldato forse nello stesso porto in cui ha imbarcato il suo enorme carico di vino. In proposito non può sfuggire il fatto che il numero annotato sull’anfora, 902, ha molte probabilità di essere proprio quello delle anfore imbarcate sulla nave, che al momento gli scavatori stimano, come si è detto, in quasi 1000. La coincidenza è francamente impressionante. La quarta iscrizione restituita dal relitto, recuperata prima delle altre e già pubblicata,127 è apposta sul fondo esterno di una coppa a vernice color arancio di produzione centroitalica non determinata, entro l’alto anello del piede. Il poco spazio disponibile è ulteriormente ristretto da un grossolano cartiglio subcircolare, appuntito a un’estremità e resecato sull’altra, in cui è parso agli amici francesi di riconoscere la sagoma di un pesce (Tav. ii, a). L’iscrizione è stata tracciata circolarmente in direzione sinistrorsa, iniziando col cartiglio in posizione verticale, ossia con la punta in alto: il ductus incerto e disomogeneo, marcatamente angoloso, ne rende la lettura difficile, ma non impossibile (Tav. ii, b). La prima lettera è una grande p con appendice fortemente ri123 Morandi 2000, p. 117, nota 45. 124 Su un totale di 38 attestazioni, nell’area in questione se ne hanno 22, in Campania 10, nell’Etruria settentrionale 5, a Volsinii 1. 125 Long et alii 2003, p. 68, fig. 49. 126 Agostiniani 1995, p. 54 sgg. A complemento e parziale rettifica della importante trattazione dell’Agostiniani va detto che in etrusco alternativo al segno ad asterisco è il circolo, vuoto (a Fratte di Salerno: Colonna 1990, p. 305, nota 24) o crociato con punti (piombo di S. Marinella, gemma della Biblioteca Nazionale di Parigi), mentre per notare 1000 si è usato il circolo crociato con appendici diacritiche (piombo e gemma citata). Si è fatto inoltre ricorso al circolo vuoto per notare, dimezzandolo, la mezza unità (sulle monete, ma anche per es. Maggiani 2002, p. 167 sg.). L’unico esempio sicuro del numerale C in etrusco con valore 100 è offerto a mia conoscenza da una tardissima iscrizione di Pisa (Rix, et Li 0.2). 127 Marseille 2002, p. 60, con figura. Ne ho avuto notizia da L. Long con lettera del 14/2/01, accompagnata da una ricca documentazione, di cui lo ringrazio vivamente.

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curva, la seconda è una piccola o di forma romboidale, la terza sembra essere una piccola s dal tratto superiore cancellato da una ripresa finale della ‘cornice’ del cartiglio, la quarta è una q dal piccolo occhiello con coda laterale assai lunga, la quinta è una o, la sesta, scritta al centro del campo tagliando la coda della q, è una grande s contornata da graffi e segni casuali. Sembra in conclusione di poter leggere posqo / s L’iscrizione non è etrusca né, a mio avviso, greca.128 L’ipotesi più attendibile, anche tenuto conto di quel che si è appena detto delle due iscrizioni dell’anfora di Manie, è che sia latina. Circa la sua interpretazione, si può pensare a una variante in -o- dell’appellativo posca, che designava una bevanda ‘povera’ ma dissetante, a base di acqua e di aceto, molto popolare tra i soldati e, in età imperiale, di largo utilizzo nella medicina,129 forse all’epoca della nostra nave non così disprezzata come già lo era ai tempi di Plauto.130 Il nome della bevanda sarebbe in tal caso passato a designare, per metonimia, la coppa usata per berla e ad essa per così dire riservata in seno al vasellame di bordo. Va inoltre notato che la coppa presenta all’esterno della vasca tre segni distanziati a forma di asterisco,131 forse fungenti da marca distintiva, ma comunque riproducenti il simbolo etrusco per «cento». Sembra quindi ritornare in qualche modo anche su questa coppa l’eccezionale interferenza tra etrusco e latino osservata sull’anfora. P.S. Nel momento di licenziare le ultime bozze vedo che è stata data notizia della scoperta a Marsiglia, negli scavi in corso al Vieux-Port, di altre due iscrizioni etrusche (D. Briquel et alii, «Archéologia», 432, 2006, p. 42), oltre quella ricordata supra, p. 663 sg. L’una, su una ciotola-coperchio d’impasto “ceretano” di seconda metà vi sec., è la sigla va, già nota a Genova forse con valore sacrale (Genova 2004, p. 306, n. 20 sg.). L’altra, su un’anfora vinaria marsigliese di fine vi sec., è a quanto pare il monoverbo ı˘e, scritto col theta a croce di S. Andrea. Già attestato su due dolii di iv-iii sec. da Chianciano e dall’ager Gallicus, da me editi in «Picus», iv, 1984, pp. 95-105, il lemma significa con ogni probabilità “quello di qui” (cfr. il gen. ıue® di S. Manno), con riferimento alla produzione locale non dei fittili ma del vino in essi contenuto. Apprendiamo così che nella più antica circolazione del vino marsigliese hanno avuto parte degli etruschi (vulcenti o chiusini a giudicare dal segno a croce), che usavano, nella stessa Marsiglia, la loro lingua!

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I L COMMERCIO ET RUS C O A RC A IC O V ENT’ ANNI DOPO (E LA S UA E S T E N S IO NE F INO A TART E S S O ) l commercio etrusco arcaico è il titolo del convegno internazionale, modestamente definito ‘incontro di studio’, tenuto a Roma presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche nel dicembre 1983, i cui atti sono apparsi poco più di vent’anni fa, nel marzo 1985. Il convegno, ideato da Mauro Cristofani a complemento, potremmo dire, del suo Gli Etruschi del mare, uscito alla vigilia dell’evento,1 fu incentrato sulle anfore da trasporto, greche ed etrusche, cui il Museo di Villa Giulia dedicò per l’occasione, su iniziativa di Paola Pelagatti, una memorabile mostra, rimasta unica nel suo genere.2 Il convegno si concluse con una tavola rotonda su Le strutture del commercio, moderata da Massimo Pallottino, in cui presero la parola una dozzina di studiosi di varia estrazione che, salvo chi scrive, non avevano partecipato con una propria relazione ai lavori.3 Nella discussione si toccarono molti argomenti, ma nessuno avanzò dubbi circa la legittimità del concetto di un commercio marittimo etrusco di epoca arcaica, in larga misura autonomo rispetto a quello greco. Michel Gras fu molto esplicito nel contestare l’idea «d’une Étrurie passive face au dynamisme grec» in campo commerciale, anche se a suo avviso non è sempre possibile né giustificato isolare «le courant étrusque du courant grec»: è certo comunque che «les navires étrusques portent aussi du matériel grec».4 Jean-Paul Morel ribadì gli stessi concetti a proposito dei relitti disseminati sulla rotta verso la Gallia, compreso quello allora in corso di esplorazione presso l’isola del Giglio, affermando che si tratta per essi «non tanto di flussi commerciali paralleli e coesistenti» quanto di un «assortimento di merci per una determinata destinazione», avvenuto «al livello, diciamo così, del commercio all’ingrosso», ovviamente in Etruria. Quanto alla questione delle ‘influenze’ etrusche in Gallia, assai poco apprezzabili nel campo delle produzioni ceramiche, esse sarebbero da ricercare nella diffusione del consumo del vino e degli usi simposiaci, in genere riduttivamente ritenuti nient’altro che un segno di ellenizzazione, e ancor più «nelle strutture di una città, o almeno di un abitato», quali Saint-Blaise e Lattes.5 Spunti critici nuovi e illuminanti, ampiamente confermati dalle ricerche più recenti. Né va sottovalutato, a proposito della circolazione delle ceramiche greche, il contributo al convegno di Alan W. Johnston sui graffiti commerciali etruschi presenti talora su quelle ceramiche, accanto o al posto di quelli greci:6 prova certa del «commercio all’ingrosso» di cui parlava

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Ringrazio il dott. Fernando González de Canales dei libri che mi ha donato grazie all’amichevole mediazione di Massimo Botto. 1 Cristofani 1983. 2 Il cui catalogo è stato purtroppo pubblicato solo in parte (Rizzo 1990). 3 Commercio etrusco, pp. 275-301. 4 Ivi, p. 278. 5 Ivi, p. 281 sg. 6 Ivi, pp. 249-255. In proposito segnalo che la frequente sigla fa, dipinta o più spesso graffita (p. 250 sg., figg. 2a e 5), è quasi certamente da sciogliersi in fa(ltu), nome portato da due generazioni di mercanti vulcenti, attivi tra il 560 e il 500 a.C. nel commercio dei vasi attici a figure nere (G. Colonna, «StEtr», lxix, 2003, p. 370 sg., n. 76 della ree ). Da sottolineare anche che le sigle greche non sono finora mai apparse su anfore o ceramiche etrusche.

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Morel, che consentiva anche agli émporoi etruschi di disporre di merci greche per i loro carichi destinati alla Gallia. In tanta autorevole convergenza di opinioni la scoperta del relitto del Giglio, da poco avvenuta e sommariamente illustrata nel convegno da Mensun Bound che lo stava esplorando, non poteva non ingenerare qualche incrinatura. Bound aveva parlato al convegno di «un relitto di probabile origine etrusca»,7 ma nel suo intervento alla tavola rotonda Cristofani non mancò di annotare, con accenti in primo luogo autocritici, che da quella scoperta veniva «rimesso in gioco il ruolo esercitato dai mercanti greci in un contesto tirrenico nel quale si vorrebbe vedere, in maniera assolutamente prematura, tutto vulcente o tutto ceretano».8 Presa di posizione ancora sfumata che, dopo la più ampia presentazione del relitto da parte di Bound nel 1991 e la sua integrale esposizione nel Museo Archeologico di Firenze nel 1993, è divenuta per lui, com’è noto, una certezza: la nave, nonostante le sue anfore per il 90% etrusche, i molti buccheri e il carico di metalli grezzi (piombo e rame) provenienti fino a prova contraria dalle miniere etrusche, sarebbe appartenuta a un naukleros greco-orientale, di alto lignaggio per lo stile di vita rivelato da alcune merci di lusso, quasi un novello Demaratos, forse samio, che dopo aver fatto scalo in Etruria avrebbe proseguito il suo viaggio dirigendosi verso la Gallia con un carico misto, composto di merci etrusche e di merci greche per così dire residuali.9 A confortare questa interpretazione sembrò venire la ripresa degli scavi urbani di Marsiglia, nel quartiere del Porto Vecchio e in quello della Cattedrale: infatti la quantità venuta alla luce di anfore e ceramiche etrusche, da tavola e da cucina,10 è stata tale da ingenerare in molti la convinzione che a procurarsele non potevano essere stati che i Massalioti stessi o altri Focei. Convinzione che, maturata nel convegno di Marsiglia del 1990, ha trovato, grazie anche all’interpretazione che Cristofani veniva dando del relitto del Giglio, il più convinto assertore in Michel Bats. Studioso che è arrivato al punto da evocare, a proposito del relitto di Antibes, nonostante le sue anfore per oltre il 98% etrusche e il vasellame per intero etrusco, «aussi bien quelque aristocrate Caerétain qu’un Phocéen venu s’approvisionner à Pyrgi ou Gravisca», chiedendosi anche se lo stesso relitto del Giglio non sia in realtà da riferire a «un Phocéen de Marseille venu s’approvisionner dans l’emporion de Gravisca et surpris par la tempête sur son chemin de retour».11 Insomma nei traffici tirrenici arcaici – riprendo il titolo, volutamente neutro, del libro di Gras – gli Etruschi avrebbero avuto il ruolo piuttosto di produttori di beni commerciabili che non di navigatori e mercanti, nonostante la loro solida fama di pirati e di talassocrati. Che le cose non stessero così e che si era imboccata una falsa pista sono venute ben presto a dircelo altre scoperte. Dapprima il Piombo di Pech-Maho, documento di una transazione commerciale tra etruschi rinvenuto sulla costa della Linguadoca e non cer-

7 Commercio etrusco, p. 65 (la stessa definizione in Bound, Vallintine 1983). 8 Commercio etrusco, p. 292. In precedenza aveva giudicato i porti di Caere e Vulci «teste di ponte di rotte a lunga distanza» verso la Provenza, nei cui confronti l’apertura dell’emporion di Gravisca «dovette facilitare la navigazione greca nei due sensi, che non interruppe certo il flusso commerciale etrusco, stando per lo meno all’evidenza di Saint-Blaise e di Lattes» (Cristofani 1984, p. 7, figg. 5 = Cristofani 1987, p. 59, fig. 5) 9 Cristofani 1996. 10 Bats 1996, p. 577 (a Marsiglia «il 25% del vasellame fine e il 90% delle anfore rimangono ancora d’origine etrusca per tutta la prima metà del vi secolo»). 11 Bats 1998, pp. 624 e 630. La menzione, a proposito del relitto di Antibes, di un ‘aristocrate Caerétain’ rivela l’errata convinzione di una tardiva apertura del porto di Pyrgi ai commerci urbani (oltre che la riluttanza a parlare semplicemente di un emporos etrusco).

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to casualmente, come pure si è ventilato.12 Quindi gli scavi di Lattes, dove si sono moltiplicate, dopo le prime avvisaglie degli anni ’70, le testimonianze di ceramiche e di iscrizioni, riferibili a una comunità di etruschi residenti in quell’accogliente insediamento lagunare indigeno all’epoca, il tardo vi secolo, in cui esso ricevette un assetto urbanistico regolare.13 Infine il relitto del Grand Ribaud F presso Tolone, del 500 a.C., costruito con un’evoluta tecnica ad incastro di tipo greco ma con un carico esclusivamente di anfore etrusche, stimato in 1000 individui, e con le prime, e finora uniche, iscrizioni restituite da un relitto rinvenuto sulle coste della Gallia.14 Si tratta di una sigla commerciale etrusca, hu; di un’iscrizione etrusca di possesso, maniies, apposta su un’anfora di vino magno-greco non facente parte del carico e quindi attribuibile alle provvigioni personali del comandante; della cifra 902 scritta con numerali latini sulla stessa anfora; infine di un’iscrizione credo latina di cui ho proposto la lettura posqos, apposta sotto il fondo di una coppa forse destinata al consumo della bevanda a base di acqua e aceto chiamata in latino classico posca. Ecco dunque una grande e moderna nave da carico arrivata in vista di Marsiglia da un porto dell’Etruria meridionale, quasi certamente Pyrgi, comandata a quanto pare da un Manie il cui nome ne tradisce l’origine latina, confermata dalle altre due scritte. Un latino, o meglio un romano etruschizzato, che non meraviglia incontrare nel porto di Caere, la città che era stata il primo rifugio di Tarquinio il Superbo e che dal 390 a.C., se non prima,15 godrà di un rapporto privilegiato con Roma.16 Ma di tutto questo, come anche delle iscrizioni etrusche rinvenute a Marsiglia e a Saint-Blaise, tra le quali una probabile dedica alla dea Uni, ho parlato nel convegno tenuto nel settembre 2002 dall’Istituto di Studi Etruschi e Italici a Marsiglia e Lattes, i cui atti stanno finalmente per uscire,17 per cui non mi dilungo ulteriormente. * I progressi della ricerca portano in conclusione a ribadire la piena legittimità del concetto di un commercio marittimo etrusco, quale emerse dalla tavola rotonda del 1983, ovviamente nel senso che si può attribuire al termine in epoca arcaica. Il problema oggi è di accertare se quel commercio si è proiettato oltre la Gallia, il Golfo del Leone e la focea Ampurias, investendo le coste della penisola iberica, entro e fuori le colonne d’Ercole. Sono previste specifiche relazioni sull’argomento,18 ma intendo anch’io soffermarmi su questo delicato settore di ricerca, che dovrebbe interessare l’etruscologo più di quanto non lo sia stato finora. È noto che nel convegno del 1979 sull’Etruria mineraria Morel assunse al riguardo una posizione decisamente negativa, in netto contrasto col suo giusto apprezzamento del commercio etrusco nel Midi francese. Nel convegno del 1983 da cui ha preso le mosse il mio discorso la Spagna fu praticamente ignorata.19 Nel

12 Rix, et Na 0.1; Colonna 2006, p. 668, con l’ormai vasta bibl. Il rinvenimento in un ‘coin de bateau’ è stato prospettato da Lejeune 1988, p. 35, in alternativa a quello sulla terraferma occitana. 13 Colonna 2006, pp. 664-666, figg. 3-5, con bibl. 14 Ibidem, pp. 661, 672 sg., fig. 8 e tav. ii, con bibl. 15 Come pensava Mazzarino 1966, p. 201 sg. 16 Uomini di mare come questo e con navi simili a quella del Grand Ribaud F, ma con maggiore fortuna, avranno compiuto nel 492-491 a.C. la prima frumentazione della storia romana, arrivando fino in Sicilia, a Gela, a dispetto dell’ostilità degli Anziati e dei Cumani (Colonna 1981, p. 167 = Colonna 2005, i, p. 168). 17 Colonna 2006, pp. 662-669. 18 Da parte di M. Botto e di J. Gran-Aymerich. 19 Un solo cenno nella discussione finale da parte di S. Moscati (Commercio arcaico, p. 283).

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frattempo però cresceva il numero e la qualità dei materiali etruschi provenienti dalla penisola, puntualmente registrati nei bilanci redatti in più occasioni da M. Almagro-Gorbea e da J. Gran-Aymerich.20 Morel non conosceva di sicuramente etrusco a sud della Catalogna che tre, diconsi tre, frammenti di bucchero e un aryballos (da Villaricos) che ormai si esclude sia etrusco-corinzio.21 Oggi dal solo abitato di Huelva sono noti in letteratura frammenti di sei kantharoi di bucchero e di cinque anfore da trasporto.22 Ad essi sono da aggiungere alcuni materiali, per quanto so Fig. 1. Huelva, Museo Provinciale. Piatto etrusco-corinzio (foto dell’A.). inediti, che nell’agosto 2005 ho potuto osservare nelle vetrine del Museo Provinciale di quella città. Si tratta di: una piccola phiale ombelicata di bucchero dalla vicina località mineraria di San Bartolomé de Almonte, una grande oinochoe trilobata di bucchero grigio, di cui resta solo il collo, dagli scavi della città e, particolarmente importante, un piatto etrusco-corinzio dagli stessi scavi, con fregio interno in cui si alternano due leoni e due uccelli d’acqua, tutti destrorsi (Fig. 1).23 Il vaso è attribuibile alla produzione recente (580570 a.C.) del Pittore Senza Graffito propriamente detto,24 un ceramista tarquiniese specializzato nella produzione figurata di phialai e soprattutto di piatti, assai richiesti dai mercanti che frequentavano i mari d’Occidente, come mostrano i rinvenimenti non solo della Sardegna ma anche dell’area urbana di Marsiglia, da cui vengono i frammenti di tre esemplari, e della necropoli di Cartagine, che ne ha dato altrettanti interi,25 peraltro dal corredo di un’unica tomba, il che ne sminuisce notevolmente il significato ‘commerciale’.26 È questo senza dubbio il più notevole, oltre che il più antico e l’unico proveniente da abitato, dei pochi vasi etrusco-corinzi rinvenuti in Ispagna,27 ed è significativo che venga proprio da Huelva, in cui oggi si tende a identificare l’antica Tartesso, capitale delle ricchezze minerarie del Meridione iberico. Ricchezze che è lecito presumere fossero ambite non solo dai Fenici e dai Focei ma anche dagli Etruschi, in età orientalizzante e arcaica grandi metallurgi e non meno grandi produttori di oreficerie, bisognosi delle materie prime che scarseggiavano nel loro paese, come lo stagno, l’argento e soprattutto l’oro, che affluiva a Tartesso dalle regioni nord-occidentali della penisola iberica.28

20 Almagro-Gorbea 1989 e 1992; Gran-Aymerich 1994 e 2006. 21 Morel 1981, pp. 466 sg., 470-472. 22 Fernández Jurado 1990; González De Canales Cerisola 2004, p. 333. 23 Ricomposto per circa quattro quinti da frammenti e integrato in gesso, ha un diametro valutabile in cm 15 o poco più. Del tutto privo di disegno graffito, presenta le suddipinture in paonazzo sul corpo degli animali, tipiche del Pittore Senza Graffito. 24 Szilágyi 1998, pp. 443-454, 462-470, 715, Tavv. clxxvi-clxxxi. Cfr. in particolare i piatti a Tav. clxxvi, e-f. 25 Ivi, p. 444 sgg., nn. 19, 128-133, e p. 468, nota 117. 26 Come giustamente rileva Morel 1981, p. 467 sg., nota 14. 27 Sui quali Almagro-Gorbea 1989, p. 1153 sg.; Szilágyi 1998, pp. 596, 694. 28 Pellicer Catalán 2000.

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Fig. 2. Il contesto espositivo del piatto di cui a Fig. 1 (foto dell’A.).

Per le importazioni etrusche, sia di Huelva che della restante Andalusia, la critica è divisa tra chi sostiene una mediazione focea e chi una mediazione fenicia.29 Il contesto di rinvenimento del piatto farebbe propendere anche in questo caso per il commercio foceo (Fig. 2), ma esistono precisi indizi, finora per lo più trascurati, che depongono a favore di una diretta frequentazione dei luoghi da parte di etruschi, almeno in età tardo-arcaica.30 Non abbiamo per il momento iscrizioni nella loro lingua, il che può dipendere dal caso (quelle sicuramente greche in tutta l’Andalusia non sono più di due),31 ma abbiamo un bronzetto del 500 a.C. o poco prima, raffigurante un efebo semisdraiato, proveniente dal santuario indigeno di La Algaida presso Sanlúcar de Barrameda, alla foce del Guadalquivir,32 esposto con gli altri bronzi dello stesso ritrovamento nel museo di Cadice (Figg. 3-4).33 Si è riconosciuta in esso l’applique di un tripode vulcente riccamente decorato,34 offerto in dono da un emporos che in prima istanza è da ritenere etrusco35 e non foceo, anche tenendo conto della cronologia nettamente posteriore all’akmé del commercio foceo in Occidente. Lo stesso può dirsi dell’oinochoe bronzea di cui resta la superba ansa configurata (Fig. 5), raffinato prodotto vulcente dell’inizio del v 29 Antonelli 1997, p. 78, nota 26; González De Canales Cerisola 2004, p. 333 sg. 30 In tal senso già Llobregat 1982, p. 71; Gran-Aymerich 1994, p. 239. 31 González De Canales Cerisola 2004, p. 328 (la sigla ™I su coppa buccheroide di produzione locale potrebbe benissimo essere etrusca, mentre nulla può dirsi di un’iscrizione che “no ha sido leida”). 32 Un cenno già in Morel 1981, p. 467, nota 12. 33 Museo de Cadiz. Guía oficial, 2004, pp. 45-47 (A. Álvarez Rojas). Il santuario è stato identificato dallo scopritore, R.Corzo, con il Ùɘ ºˆÛÊfiÚÔ˘ îÂÚfiÓ, ricordato da Strab. iii, 9, C 140: la dea, chiamata dai Romani Lux dubia, era assimilata a una Venere protettrice della navigazione (Tovar 1981), a quanto pare affine alla ThesanLeucothea del santuario di Pyrgi. 34 Riis 1997, p. 60, nota 127, fig. 57, e p. 102 (dove il massimo conoscitore di bronzi vulcenti afferma senza esitazione, a proposito del ritrovamento, che «Etruscans sail so far towards the west»). Anche la testina a se stante dello stesso deposito potrebbe essere parte di un oggetto d’arredo (cfr. le testine vulcenti ivi, p. 20, fig. 9), a meno che non si tratti di un ex voto anatomico come il braccio destro piegato al gomito con la mano aperta e il grosso piede sin. con tenone, sempre dello stesso deposito, rinvianti a usi propri già in età tardo-arcaica dell’Etruria settentrionale interna (Arezzo 1985, pp. 24, 160, 175 sg.; Cristofani 1985, p. 22 sg.). La natura salutare del culto prestato nel santuario e il rapporto con l’Etruria trovano conferma nelle lamine votive d’argento con occhi incisi (cfr. gli esemplari da Bolsena in Acconcia 2000, p. 91 sg.). 35 Così già Blázquez 1979, p. 163.

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Fig. 4. Cadice, Museo. I bronzi del deposito di Sanlúcar de Barramela (foto dell’A.). Fig. 3. Cadice, Museo. Applique di tripode vulcente da Sanlúcar de Barrameda (da Riis).

secolo,36 proveniente dal quartiere di Malaga sottostante alla città alta37 e forse sufficiente da solo a indiziare l’esistenza di un altro santuario emporico frequentato da etruschi. Né vanno trascurati i più modesti, ma più numerosi, bronzi etruschi rinvenuti in case e tombe di siti dell’interno, come l’olpetta a bocca tonda e il bacile ad anse mobili da Granada, necropoli in loc. Mirador de Rolando (Fig. 6),38 le due anse di infundibula dalla ‘residenza’ di Cancho Roano in Estremadura39 e l’ansa di colum, credo inedita, da Aracena nell’entroterra di Huelva, esposta nel museo di questa città (Fig. 7),40 nonché i cofanetti d’avorio provenienti da due tombe principesche della necropoli di Los Villares presso Albacete nella Mancia.41 Oggetti che attestano l’attardarsi fino alla metà del v secolo e oltre della pratica del dono, verosimilmente da parte di etruschi, nei confronti dei membri delle élites indigene. Ma non c’è solo questo. Esistono concordanze di ordine culturale tra mondo iberico di tardo vi, v e iv secolo ed Etruria contemporanea, che non possono essere spiegate se non ricorrendo di nuovo all’ipotesi di una qualche forma di contatto diretto. La concordanza più impressionante è offerta dall’impaginazione delle iscrizioni ‘tartessie’ incise su stele di pietra, rinvenute in buon numero nell’estremo sud del Portogallo (Algarve e basso Alentejo), con isolate apparizioni anche nell’Andalusia occidentale e nell’Estremadura meridionale (Fig. 8).42 Oggetto in passato di datazioni fuorvianti, verso l’alto o verso il basso, non dovrebbero, secondo il parere di un linguista del calibro di Jürgen Untermann, cui si deve la recente e assai attesa pubblicazione del relativo corpus, essere anteriori in linea di massima al 500 a.C.43 La caratteristica esteriore che più le distingue, oltre alla pressoché totale assenza di figurazioni, è la tendenza a includere l’iscrizione entro linee-guida simili a ‘rotaie’, che accompagnano il perimetro quadran-

36 Riis 1997, p. 26 sg., nota 61, fig. 17. 37 Gran-Aymerich 1991, pp. 25, 131 sg., nota 14, tav. iii. 38 Ramos Lizana 2005, p. 135, fig. 41. Cfr. Marzoli 1991. 39 Gran-Aymerich, Du Puytison-Lagarge 1995, p. 576. 40 Decorata alla base con una doppia palmetta incisa, sembra praticamente identica a un esemplare del museo di Karlsruhe (Jurgeit 1999, p. 462, n. 778, tav. 231). 41 Gran-Aymerich, Du Puytison-Lagarge 1995, p. 576, fig. 3; Martelli 2000, p. 167 sg., nota 3, figg. 1-2. 42 Arribas 1982, pp. 88-91, con carta di distribuzione a fig. 23 (qui riprodotta). Altra carta, più dettagliata, in González De Canales Cerisola 2004, p. 303. 43 Untermann 1997, p. 136, § 340.

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Fig. 5. Ansa di oinochoe vulcente da Malaga (da Gran-Aymerich 1991).

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Fig. 6. Granada, Museo Archeologico e Etnologico. Bronzi etruschi dalla necropoli (foto dell’A.).

Fig. 7. Huelva, Museo Provinciale. Ansa di colum da Aracena (foto dell’A.).

golare o rettangolare della pietra con un percorso angoloso (Fig. 9) o, molto spesso, incurvato in alto, così da descrivere un arco più o meno ribassato (Figg. 10-11). Si tratta di un tipo di ordinatio estraneo sia all’epigrafia fenicia che a quella greca,44 e invece attestato in forme molto simili in quella che possiamo definire l’Etruria mineraria: da 44 Praticamente l’unico monumento accostabile, pur in assenza di “rotaie”, è una stele funeraria di Thera, datata nella seconda metà del vii secolo (IG xii 3, 763, riprodotta in Guarducci 1974, p. 177 sg., fig. 70).

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Fig. 8. Area di diffusione delle stele iscritte “tartessie” (da Arribas, con retino aggiunto).

Fig. 9. Stele Untermann J.12.1 da Abóbada (basso Alentejo).

Fig. 10. Stele Untermann J.11.1 da Almodóvar (basso Alentejo).

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Fig. 12. Stele di Kaile (?) Feluske da Vetulonia.

Vetulonia, dove compare con la stele di Kaile (?) Feluske (Fig. 12)45 il prototipo, potremmo dire, della variante quadrangolare (ripresa anche tra i Veneti), a Volterra e all’agro volterrano e senese, dove invece domina la variante arcuata (Fig. 13).46 La quale trova localmente il suo diretto precedente nelle stele alto-arcaiche a rettangolo centinato, con figura stante a rilievo incorniciata da un listello percorso dall’iscrizione, del genere di quella monumentale di Avile Tite.47 Da Volterra e dalla foce dell’Arno il tipo di stele iscritta entro nastro arcuato è stato trasmesso alla fine del vi secolo tra i Liguri (stele di Busca nel Cuneese) (Fig. 14) e soprattutto tra i Celti di area ticinese e comasca (a cominciare dalla stele di Vergiate: Fig. 15),48 dai quali molto più tardi è arrivato all’epigrafia runica della Scandinavia, dove è rimasto vitale fino in età medievale e moderna.49 La concentrazione delle testimonianze iberiche in una regione non urbanizzata, dal record archeologico piuttosto povero, periferica anche se non troppo lontana da Huelva e dagli altri centri andalusi toccati dai flussi migratori e commerciali mediterranei, crea indubbiamente una difficoltà, che investe del resto l’adozione stessa della scrittura, e in Fig. 11. Stele Untermann J.21.1 da Arzil (basso Alentejo).

45 Da ultimo Poccetti 1999. 46 Colonna 1988, pp. 150-152, figg. 15-17 (qui a Fig. 13) e 18, con carta di distribuzione a fig. 19 = Colonna 2005, iv, p. 1731, figg. 9-13; Colonna 1998, p. 261 sg., figg. 244-246 = Colonna 2005, i b, p. 451 sg., figg. 1-3, tav. i. 47 Cfr. la nota precedente. 48 Da ultima Piana Agostinetti 2004, pp. 205-208. 49 Cfr. nota 46.

il commercio etrusco arcaico vent ’ anni dopo

Fig. 13. Stele da Volterra e dal suo agro: in alto Rix, et Vt 1.168 e 56: in basso ibidem, 1.58 e 85 (da Colonna 1988).

Fig. 14. Torino, Museo Archeologico. Stele da Busca (Rix, et Li.1.1).

Fig. 15. Milano, Museo del Castello Sforzesco. Stele da Vergiate (Varese) (da Colonna 1998).

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particolare della scrittura lapidaria, rimasta a lungo circoscritta a questa regione della penisola.50 Al riguardo le tre proposte interpretative avanzate problematicamente da Untermann, con riferimento a grandi allevatori di bestiame aventi strette relazioni con Huelva, a comunità di pastori transumanti o a proprietari e/o imprenditori di miniere, vanno incontro, come Egli stesso non manca di rilevare, a gravi obbiezioni (le relazioni con Huelva non sono documentabili, i pastori non hanno bisogno della scrittura, le risorse minerarie della regione sono pressoché inesistenti).51 L’unico dato di fatto certo, comune a tutte o quasi le stele e che è merito dello Studioso avere ribadito con fermezza, è la loro generale rimozione dalla giacitura Fig. 16. Torso di guerriero da Elche, originaria per essere riutilizzate come maloc. L’Alcúdia (Alicante). teriale da costruzione nelle seriori, modeste tombe a cista della regione.52 Il che presuppone una profonda crisi socio-politica (Untermann ha parlato di una «soziale Revolution»),53 avvenuta forse agli albori del iv secolo, che ha portato alla scomparsa del ceto di ‘capi’ responsabile dell’introduzione della scrittura lapidaria. Da chi fosse composto questo ceto non è possibile sapere, anche perché le iscrizioni non sono state ancora interpretate e ne resta ignota la lingua. Ma i contatti con l’Etruria, presupposti dall’echeggiamento di usi epigrafici praticamente esclusivi di quella lontana regione, e l’attestazione di una precoce attività come mercenari di non meglio qualificati Iberi,54 inducono a pensare che, come si è proposto per il ligure etruschizzato Larth Muthiku, che ha lasciato il suo nome sul già citato sema di Busca in Piemonte (Fig. 14),55 anche gruppi di indigeni provenienti dall’estremo Sud portoghese abbiano militato come mercenari nell’Etruria mineraria, reclutati da Etruschi di quella regione che frequentavano l’emporio tartessio. Sono costoro che, una volta ritornati in patria, potrebbero aver dato vita al ceto dominante responsabile dell’adozione delle stele, fatte iscrivere a fini autocelebrativi secondo i modi conosciuti in Etruria, ma da scribi locali che ovviamente usavano la scrittura tartessia. In questa prospettiva una regione defilata e di scarse risorse naturali qual è quella in cui si rinvengono le stele verrebbe ad assumere una funzione analoga a quella avuta nella stessa epoca in Italia centrale dall’area appenninica e adriatica nei confronti del privilegiato versante tirrenico, ossia la funzione di un ‘serbatoio’ demografico di forza-lavoro. Disponibile per lo sfruttamento delle ricchezze minerarie del contiguo paese tartessio e quindi, a seguito della crisi sopraggiunta verso il 540-530 a.C. con l’affermarsi della potenza di Cartagine a spese dei Fenici

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Untermann 1997, p. 133. 51 Ivi, pp. 133-135, § 332-338. Ivi, pp. 132 e 135, § 329 sg. e 338. 53 Untermann 1997, p. 135, § 338. Herod. vii, 165; Diod. xi, 1, 5. Cfr. Tagliamonte 1994, p. 97 sg. Vedi i lavori citati a nota 46.

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Fig. 17. Cerveteri, Museo. Lastra dipinta da Ceri. Fig. 18. Machairai da Aleria (da J. e L. Jehasse 1973, tav. 157).

e dei Focei che di quello sfruttamento erano stati i promotori,56 disponibile a essere convogliata almeno in parte verso forme di mercenariato, al soldo dei Cartaginesi ma anche, a quanto pare, degli Etruschi, loro fedeli alleati a partire dal conflitto coi Focei della Corsica. A conforto dell’ipotesi prospettata sta un dato di fatto inoppugnabile: nell’epoca che vide l’inizio del floruit delle stele in questione, ossia il 500 circa a.C., si verificò anche, come provano in particolare le sculture di Porcuna, che oggi si tende a datare all’inizio del v secolo, l’introduzione nell’armamento del Sud iberico di due importanti elementi di sicura ascendenza italica:57 il disco-corazza, di cui si conosce anche una sontuosa versione da parata con testa di lupo a rilievo (Fig. 16),58 e la machaira di ferro, destinata a divenire, una volta modificata, l’arma più caratteristica del mondo iberico, la falcata.59 Non si tratta di armi etrusche ma delle armi proprie dei mercenari italici (soprattutto picenti e sanniti) al servizio degli Etruschi, sia nella madrepatria, come prova una pittura parietale da Ceri (Fig. 17),60 che in Corsica, dove la loro presenza è stata rivelata dai corredi delle tombe di Aleria in cui le machairai sono frequenti (Fig. 18), in un 56 Aubet 1993, pp. 273-276; González De Canales Cerisola 2004, pp. 326, 331 sg. 57 Come riconosciuto tra gli altri da Kurtz 1991 e da Quesada Sanz 1992, pp. 178-180, 187-192, 198 sg. 58 Torso da Elche (Barcellona 1998, pp. 159, 232, 236, n. 12). Il sistema di allacciamento con due bandoliere incrociate e due cinghie orizzontali, proprio sia del disco del torso di Elche che di quello liscio delle statue di Porcuna, conferma l’età dell’imprestito, poiché in Italia compare solo sulla lastra dipinta di Ceri (vedi nota 60) e nell’esemplare da Pietrabbondante (Isernia 1980, p. 133, n. 37.1), che si pongono all’ultimo posto della sequenza tipologica. 59 Quesada Sanz 1992; Barcellona 1998, pp. 125-128. 60 Colonna 1981, p. 175 = Colonna 2005, i, p. 173 sg.; Tagliamonte 1994, p. 61 sg.

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Fig. 19. Assonometria della grande tomba di Toya ( Jaén) (da Arribas).

caso associate a una coppia di dischi-corazza lisci.61 Ed è proprio la Corsica, i cui abitanti avranno opposto ai nuovi venuti una resistenza non minore di quella incontrata dai Cartaginesi di Malco in Sardegna, il luogo dove è più probabile che gli Etruschi abbiano concentrato i supposti mercenari iberici (così come, teste Seneca, fecero più tardi coi loro Hispani i Cartaginesi, quando si sostituirono agli Etruschi nel dominio dell’isola).62 La Corsica è dunque il luogo dove i supposti mercenari iberici potrebbero aver mutuato dai loro omologhi italici i tipi di arma introdotti in patria al loro ritorno, mentre sulla terraferma, nell’antistante Etruria mineraria, gli stessi avranno potuto prendere conoscenza delle stele funerarie iscritte, che in seguito avrebbero cercato di imitare. Sono queste solo alcune delle numerose concordanze culturali etrusco-iberiche di viv secolo che si potrebbero citare. Concordanze peraltro sempre isolate e parziali, frutto di un processo di selezione tipico di quel che gli studiosi di protostoria definiscono riflusso culturale,63 connesso con lo spostamento temporaneo di gruppi limitati di individui dall’una all’altra area, per ragioni e in circostanze che, a parte il caso dei mercenari, è assai arduo indagare. Si pensi a una tomba monumentale a più camere come quella di Toya

61 Colonna 1973, p. 568 = Colonna 2005, i, p. 50 sg.; Colonna 1981, p. 175 sg., fig. 3 = Colonna 2005, i, p. 174; Tagliamonte 1994, p. 92, nota 359. 62 Colonna 2004, p. 8. 63 Peroni 1973, p. 77 sg. (a proposito della cosiddetta koiné culturale adriatica di età del Ferro).

il commercio etrusco arcaico vent ’ anni dopo nell’alta Andalusia (Fig. 19),64 inspiegabile senza il precedente delle tombe arcaiche di Cerveteri del tipo più complesso, a tre camere affiancate con vestibolo traverso. O a una statua-cinerario come quella da Baza pure nell’alta Andalusia (Fig. 20),65 inspiegabile senza il precedente delle statue-cinerario di Chiusi. Un fatto sembra certo: la circolazione di modelli culturali tra l’Etruria e il mezzogiorno della penisola iberica è stata assai più intensa di quel che la distanza geografica tra i due paesi indurrebbe a prima vista a pensare. Ciò presuppone una prolungata mobilità di persone in entrambe le direzioni, ma a quanto pare soprattutto dall’Iberia verso l’Etruria, verificatasi ben prima della guerra annibalica e della fondazione scipionica, alle porte di Siviglia, della prima città romana fuori d’Italia, dal nome eloquente di Italica.66 Mobilità che almeno in parte sembra essere stata la conseguenza, tutto sommato, di quel commercio marittimo di epoca arcaica, che con ogni probabilità vide anche gli Etruschi presenti in prima persona a Tartesso.

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VEIO I dati storici

V

eii è ricordata dagli storici antichi, con evidente esagerazione, come la città più potente d’Etruria al tempo di Romolo (Dion. Hal., ii, 54, 3) e come la più opulenta non solo al tempo dell’infausta ‘guerra privata’ dei Fabii contro di essa, nel 479-477 a.C. (Liv., ii, 50, 2), ma anche al momento della sua espugnazione da parte di L. Furius Camillus nel 396 a.C. (Liv., v, 21, 17; 22, 8), quando non sarebbe stata inferiore a Roma «per quantità di armi e numero di combattenti» (Plut., Cam., 3). Nessun dubbio è lecito circa la partecipazione della città, che è detta antiquissimam Italiae oltre che ditissimam (Eutr., i, 20), alla lega dei xii popoli, e fin dal momento della sua istituzione,1 che era fatta risalire al mitistorico Tarconte, anche se solo nel corso del v secolo l’esistenza della lega risulta esplicitamente attestata.2 Le fonti letterarie ricordano per Veio, con un’insistenza maggiore che per qualsiasi altra città etrusca, l’istituto arcaico della regalità. Alla piena luce della storia appartengono sia Lars Tolumnius, le cui spolia opima furono guadagnate da A. Cornelius Cossus nel 437 a.C. sotto le mura di Fidenae (Liv., iv, 17-20; Propert., iv, 10; Dion. Hal., xii, 2 e altri), sia l’anonimo re che, preso fortunosamente il potere nel 403 a.C. (Liv., v, 1, 3-7), dopo una parentesi non sappiamo quanto lunga di regime repubblicano (almeno dal 406: Liv., iv, 58, 2), condusse la città alla rovina, senza lasciare traccia alcuna di sé. Più o meno leggendari sono invece altri re, di cui ci ha conservato il nome l’antiquaria romana: Morrius, che avrebbe istituito il sacerdozio dei Salii in onore del suo avo Halesus, figlio di Nettuno (Serv. Dan., Aen., viii, 285); Propertius, che avrebbe inviato a Capena, in una sorta di ver sacrum, i giovani veienti che in seguito, grazie al suo appoggio, avrebbero fondato in riva al Tevere il Lucus Feroniae (Cat. presso Serv. Dan., Aen., vi, 697),3 divenuto già all’epoca di Tullo Ostilio il principale santuario della regione, frequentato da Etruschi, Latini e Sabini (Liv., i, 30, 5; Dion. Hal., iii, 32, 1-2); infine Thebris, il regulus Veientium che secondo alcuni avrebbe dato nome al fiume (Varr., l.l., v, 30).4 Sono tradizioni che confusamente adombrano gli antichissimi rapporti di Veii non solo, ovviamente, col corso del Tevere ma anche con Falerii (Halesus), con Capena (Propertius) e con Roma (i Salii),5 confermati dalla cultura materiale

1 Nonostante A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor, 1965, p. 231. 2 M. Torelli, La società etrusca. L’età arcaica, l’età classica, Roma, 1987, p. 97 sgg.; D. Briquel, in La Lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi (atti della giornata di studi di Chiusi, 9 ottobre 1999), Pisa-Roma, 2001, pp. 9-18. La questione della partecipazione di Veio fu già approfonditamente discussa da G. Dennis, The cities and cemeteries of Etruria, i, London, 1848, p. 114 sg. della ristampa 1907. 3 J. Heurgon, Trois études sur le «ver sacrum», Bruxelles, 1957, pp. 11-19 (contra per Lucus Feroniae, ma in base a un’errata interpretazione del passo di Servio, G. D. B. Jones, «pbsr», xxx, 1962, p. 119 sg.). 4 Tolumnius e Morrius sono gentilizi realmente attestati in etrusco nel vi secolo a.C., il primo a Veii stessa nella forma Tulumnes (cie 6371, 6406), continuata localmente in latino con Tolonios (D. Briquel, «Archeologia Classica» xli, 1991, pp. 193-208), il secondo a Pontecagnano, nelle forme Muriie (cie 8839) e Muriu cie 8846). Thebris è attestato a Caere come prenome nelle forme Thifarie (Rix, et Cr 2.7: vii secolo) e Thefarie (l’ormai celebre Thefarie Velianas). È probabile che anche il veiente Vel Vipe, che dialoga col re albano Amulio in una pretesta di Nevio, sia stato un personaggio di rango regale (M. Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, 1993, pp. 161 e 392). 5 Il nome Halesus è lo stesso dell’eponimo della falisca Falerii e tanto Propertius quanto Thebris/Thefarie e Vipe sono nomi rinvianti all’ambito linguistico umbro-sabino cui partecipava Capena (vedi nota 12). Quanto a Morrius, depone per la stessa provenienza l’attestazione sud-picena di múreis (G. Colonna, in La presenza etrusca nella Campania meridionale [Atti delle giornate di studio di Salerno e Pontecagnano 1990], Firenze, 1994,

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e anche, a posteriori, dagli eventi del v-inizio iv secolo, che videro le tre città transtiberine costantemente alleate, e a caro prezzo, nelle guerre contro Roma. Un’altra tradizione conservataci dall’antiquaria romana, e storicamente meritevole di assai maggiore attenzione, voleva che gli Etruschi stanziati nella Campania propriamente detta, cui era attribuita la fondazione di Capua e di Nola, fossero partiti dal campus Stellatinus prossimo a Capena (Fest., p. 464 L.), da cui aveva preso nome una delle quattro tribù rustiche istituite da Roma nel 387 a.C. nel territorio già veiente, forse accresciuto con la parte contigua di quello capenate, confiscata nel 395 a.C.6 Il nome, palesemente augurale,7 evoca il locus in agro Veienti quo frui soliti produntur augures Romani, chiamato Obscum (Fest., p. 204 L.)8 e a quanto pare replicato anch’esso in Campania, alla pari del campus Stellatinus, dato che il popolo degli Osci secondo la stessa tradizione avrebbe tratto il nome da una regio Campaniae ad essi appartenuta (Paul. ex Fest. p. 121 L.).9 È pertanto verosimile che Obscum sia la località del campus Stellatinus da cui si ritenevano partiti gli Etruschi che, assieme a minori contingenti di Capenati e di Falisci,10 avevano popolato, attuando una sorta di misto ver sacrum, la bassa valle del Volturno e la Terra di Lavoro. L’asserita prossimità del campus Stellatinus a Capena induce a collocare sia esso che la località Obscum nel settore nord-orientale dell’agro veiente, lambito dalla via Flaminia e pertanto facilmente raggiungibile da Roma.11 Coerente con l’ubicazione proposta è l’evidente latinità dei due toponimi, che risale a un’età molto antica, se entrambi furono duplicati in Campania all’epoca della fondazione di Capua. Tutto lascia infatti ritenere che l’agro capenate sia stato in età prealfabetica altrettanto linguisticamente latino di quello falisco, anche se soggetto da un lato alla pressione dei parlanti etrusco, e dall’altro, in misura assai maggiore, dei parlanti sabino, immigrati dall’opposta sponda del Tevere.12 Né meraviglia che un’originaria pertinenza linguistica latina abbia avuto anche la fascia di territorio veiente contigua al territorio capenate.13 In ogni caso è manifesto che gli Etruschi implicati in questa tradizione sono i Veienti, p. 350, nota 29). Tutto ciò denota la bilateralità dei rapporti tra Veio e i suoi vicini di lingua latina e italica, ai quali nella prospettiva delle origini sembra quasi riservato un ruolo di preminenza. 6 M. Humbert, Municipium et civitas sine suffragio, Roma, 1978, pp. 79, nota 100, e 261 sg., nota 34. 7 Come mostra il lemma stella in Fest. p. 476 L. Cfr. A. L. Prosdocimi, «pp», lxvi, 1991, pp. 37-43. 8 Altro termine augurale, cui Festo, seguendo il grammatico Cloatius, inclina ad attribuire il significato di sacrum (cfr. Thes. Linguae Lat. ix, 2, 1981, c. 161 sg.) e che opportunamente accosta a obscenus, da lui inteso come «portatore di un malum omen», prendendo le distanze da Verrio, che ne faceva un derivato dell’etnico Osci (p. 218 L.). 9 Integrando l’espressione quae est Oscor dei codici in quae est Oscorum, come mi suggerisce Marco Bonocore, si restituisce al passo un senso accettabile (Osci enim a regione Campaniae, quae est Oscorum, vocati sunt). Lo stesso significato augurale è da attribuire al poleonimo iberico latinizzato nella forma Osca (oggi Huesca), che nulla ha a che fare con gli Osci, come giustamente precisa E. T. Salmon, Samnium and the Samnites, Cambridge, 1967, p. 319 (salvo a fare di obscum a p. 28, nota 5, una glossa osca!). E lo stesso può dirsi della località e del torrente Oscano a monte di Perugia. 10 Di cui è concordemente ritenuto indizio il nome dell’ager Falernus. 11 Le uniche proposte di ubicazione a me note sono quelle a suo tempo avanzate da W. Gell, «MemInst», i, 1832, p. 17 (Pietra Pertusa) e in The Topography of Rome and its Vicinity, ii, London, 1834, p. 238 (Sacrofano o Monte Musino: cfr. Dennis, op. cit., i, p. 148 sg.), alle quali si è ora aggiunta quella di F. Coarelli, in Myth, History and Culture in Republican Rome. Studies in honour of T. P. Wiseman, Exeter, 2003, p. 45 sgg. (Monte delle Piche al vi miglio della via Campana), concernente un luogo che si riteneva annesso fin dall’età di Romolo all’ager Romanus antiquus e che pertanto assai difficilmente poteva essere detto da Festo in agro Veienti. 12 G. Colonna, in Italia omnium terrarum alumna, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, 1988, pp. 411 sg., 521 sg.; Idem, «StEtr», lvi, 1989-1990 (1991), pp. 462-464; G. Rocca, in Identità e civiltà dei Sabini (Atti del xviii convegno di studi etruschi e italici, Rieti-Magliano Sabina 1993), Firenze, 1996, pp. 258-271; G. Colonna, «StEtr», lxiv, 2001, pp. 480-482. 13 Il riferimento del toponimo Obscum a un’età anteriore alla conquista romana è presupposto anche da P. Catalano, quando afferma che si tratterebbe di «un luogo reso romano per certe attività augurali» (Contributi allo studio del diritto augurale, i, Torino, 1960, p. 388, nota 9; Idem, in anrw xvi, 1, 1978, p. 499).

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inclusi quelli che il re Propertius avrebbe mandato a Capena, e che la loro menzione allude ai rapporti intrattenuti in età protostorica da Veio, assieme ai Capenati e forse anche ai Falisci, con la Campania centro-settentrionale e in particolare con Capua.14 Purtroppo non possediamo altre informazioni sulla storia della città riconducibili a fonte etrusca, seppure attraverso il filtro dell’antiquaria romana. Nella tradizione annalistica Veii compare solo per le frequenti guerre combattute da quella città contro i Romani, a partire dagli ultimi anni del regno di Romolo e con una forte accelerazione nel corso del v secolo.15 Guerre alternate a periodi di tregua o di pace, di cui uno dei più lunghi avrebbe corrisposto alla seconda metà del regno di Servio Tullio e all’intero regno di Tarquinio il Superbo (circa 538-509 a.C.). Causa primaria del contendere era indubbiamente il controllo della via d’acqua del Tevere, vitale per le comunicazioni col Mediterraneo e con l’interno della penisola di entrambe le città, messe in pericolo per Veii dall’incombere di Roma sul tratto prossimo alla costa, per Roma dall’incombere di Veii sul tratto a monte della città, dal quale si raggiungevano l’Etruria centro-settentrionale e i valichi appenninici verso il versante adriatico.16 Teatro delle ostilità furono entrambe le rive del fiume, e specialmente a monte di Roma la riva sinistra con il caposaldo di Fidenae, controllato da Veii, a valle la riva destra con le ambite saline veienti, che in origine alimentavano da sole i traffici con le regioni appenniniche cui la via Salaria deve il suo nome (Fig. 1).17 Gli Etruschi di Veii videro forse inizialmente con favore la nascita di Roma, col cui aiuto avrebbero potuto controllare il transito del Tevere nei confronti dell’itinerario, più tardi ricalcato dalla via Cornelia, che da Caere e dalle altre città dell’Etruria costiera conduceva verso Praeneste e la Campania, in alternativa a quello che da Veii si dirigeva verso le stesse mete, passando per Fidenae, La Rustica e il nodo di Gabii. Sta di fatto che il diritto romano al possesso dell’ager Vaticanus e del Ianiculum, funzionale al controllo del traghetto, non fu mai posto in discussione, mentre aspramente lo fu il suo ragguardevole ampliamento costituito dai Septem Pagi, base territoriale della tribù Romilia, che era la più vasta delle tribù rustiche incluse nell’ager Romanus antiquus (Fig. 2). Con questa annessione, ascritta agli ultimi anni del regno di Romolo, come conseguenza della prima della lunga serie di guerre combattute tra le due città, l’ager Romanus fu esteso a spese del territorio di Veii verso nord fino al fosso dell’Acquatraversa, sfociante nel Tevere quasi di fronte ad Antemnae e alla confluenza dell’Aniene e presso il quale, al v miglio della futura via Clodia, Numa avrebbe istituito la festa delle Robigalia (Plin., n.h., xviii, 69; Tertull., De spect., 5). Verso il mare l’ampliamento dell’ager a spese del territorio veiente raggiunse il fosso della Magliana, poco prima del quale, al v miglio della via Campana, i Fratres Arvales celebravano da antichissima data i loro riti.18 Da parte sua Veii, oltre a consolidare il rapporto 14 M. Torelli, Storia degli Etruschi, Bari, 1981, pp. 42-45; G. Colonna, in Storia e civiltà della Campania. L’evo antico, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli, 1991, pp. 36-38, e ora in Le necropoli arcaiche di Veio. Giornata di studio in onore di Massimo Pallottino, a cura di G. Bartoloni, Roma, 1997, p. 234; L. Cerchiai, I Campani, Milano, 1995, p. 39 sg. Da aggiungere al dossier il nome del principale insediamento moderno dell’agro capenate, Leprignano, attestato fin dall’xi secolo come Lepronianum o Leprinianum (Capena e il suo territorio, Roma, 1995, pp. 25, 114 sg., 148 sg.) e quelli, nello stesso agro veiente, chiamati Testa di Lepre e Casale Leprignano, posti a monte di Macarese nella Valle dell’Arrone. Nomi inseparabili dal noto coronimo campano Leboriae o Leborini campi e alla pari di esso rinvianti al gentilizio etrusco Lepr(e)na (G. Colonna, in Storia e civiltà della Campania, cit., p. 58). 15 T. J. Cornell, The Beginnings of Rome, London-New York, 1995, pp. 309-313. Comodo elenco delle guerre tràdite in Dennis, op. cit., pp. 101-108 (e per Fidene p. 143). 16 G. Colonna, in Il Tevere e le altre vie d’acqua del Lazio antico («ArchLaz», vii, 2), Roma, 1986, pp. 90-97. 17 Da ultimo G. Camporeale, in Le necropoli arcaiche di Veio, cit., pp. 197-199. F. Cordano, in §fiÁÈÔ˜ àÓ‹Ú. Studi di antichità in memoria di Mario Attilio Levi (Quad. di acme , 55), Milano, 2002, pp. 119-130. 18 Sull’ager Romanus antiquus si rinvia a Alföldi, op. cit. a nota 1, pp. 288-318; G. Colonna, «Scienze dell’Antichità», 5, 1991, pp. 209-212, nota 2. Non è affatto così incredibile come appare a Cornell, op. cit., p. 178, che il nome della tribù Romilia sia stato modellato, con l’eventuale tramite del gentilizio Romilius, su quello di Romo-

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privilegiato con Fidenae, che gli apriva, come detto, la via di Gabii e della Campania, dovette valorizzare la via terrestre di accesso alla foce del Tevere e ai centri costieri del Lazio che correva lungo il fosso Galeria, in direzione dei Puilia Saxa e del nodo di Ficana, da dove si potevano facilmente raggiungere tanto le saline col contiguo porto di foce, quanto Castel di Decima e Lavinium.19 Fu probabilmente allora, tra la fine dell’viii e la prima metà del vii secolo, che i Veienti s’impossessarono della Silva Maesia, la maggiore delle lo. Il confine dell’ager nel settore più vicino a Veii è scandito dagli insediamenti veienti di Monte delle Grotte, Acquatraversa e Colle S. Agata (A. Carbonara, G. Messineo, A. Pellegrino, La necropoli etrusca di Volusia, Roma, 1996, p. 13 sgg., fig. 3; A. De Santis, in Le necropoli arcaiche di Veio, cit., p. 102 sgg., fig. 1, nn. 17, 14 e 2). Il sito delle Robigalia doveva trovarsi nelle adiacenze dell’insediamento di Acquatraversa. Da ultimo F. Vistoli, in Emergenze storico-archeologiche di un settore del suburbio di Roma: la tenuta dell’Acqua Traversa, a cura dello stesso Vistoli, Roma, 2005, pp. 37-46, che con altri studiosi ritiene di identificare il fiumicello Acquatraversa con il Cremera. 19 Come rivela l’analisi degli insediamenti rurali di quel distretto (De Santis, art. cit., pp. 101-141, siti nn. 3, 5-12). La menzione in età romana di una regionis Campaniae (Lib. Col. 221 L.), situata tra Veio e la via Aurelia, postula, se si accetta l’emendamento regionis Campanae (proposto ma poi a torto respinto da P. Liverani, Municipium Augustum Veiens, Roma, 1987, p. 144, nota 5), l’esistenza di una via Campana falisco-veiente diretta alle Saline, effettivamente attestata nel tratto superiore corrente in territorio falisco (Vitr. viii, 3, 17). È verosimile che il tratto a valle di Veii si identifichi con la via del fosso Galeria di cui parla J. B. Ward-Perkins (presso Alföldi, op. cit. a nota 1, p. 294, con datazione in età tardo-orientalizzante). A Porto esisteva probabilmente un emporio costiero, indiziato dal ritrovamento ottocentesco di una barchetta bronzea nuragica (G. Colonna, in Gli Etruschi e Roma. Incontro di studio in onore di Massimo Pallottino, Roma, 1981, p. 171 sg.).

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selve litoranee del Lazio, posta a quanto pare sulla riva latina del Tevere,20 dal nome evocante le connessioni umbro-sabine incrementate dal commercio del sale.21 Ma nella seconda metà del vii secolo, con Anco Marcio, anche Ficana, la Silva Maesia e le saline veienti, incluso lo scalo di Porto, vennero definitivamente incorporate nel territorio 20 Così, accogliendo una proposta di R. M. Ogilvie, F. Zevi, in Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, Milano, 2000, p. 234, nota 23. 21 G. Colonna, op. cit. a nota 12, pp. 452 e 468; Idem, in La presenza etrusca nella Campania meridionale (Atti delle giornate di studio, Salerno-Pontecagnano 1990), Firenze, 1994, p. 351.

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romano (Liv., i, 33, 2 e 9; Dion. Hal., iii, 41, 3), assieme probabilmente a una parte del territorio che fu attribuito, al più tardi all’inizio del v secolo, alla tribù Galeria. Ai Veienti non restarono allora, come scali marittimi, altro che le lagune costiere di Maccarese e la foce dell’Arrone, dove nel 245 a.C. i Romani fondarono la colonia di Fregenae,22 raggiungibile dal Gianicolo percorrendo la via Vitellia (Suet., Vit., 1). Con l’avvento dei Tarquinii sembra che i rapporti tra le due città si siano stabilizzati sul principio dello status quo, che le rendeva di fatto interdipendenti. Veii fu quasi certamente il tramite dell’intervento dei fratelli vulcenti Aulus e Caelius Vibenna nelle cose romane, che portarono Mastarna-Servio Tullio al potere, dopo un confuso periodo di ostilità cui forse la tradizione annalistica allude quando colloca all’inizio del suo regno una ventennale guerra contro i Veienti (Liv., i, 42, 2; Dion. Hal., iv, 27, 2 e 6).23 Le relazioni dell’epoca tra gruppi aristocratici veienti e latini sono ora provate dal vaso di bucchero con iscrizione etrusca di dono rinvenuto in una tomba di Lavinium eccezionalmente ricca per l’epoca (cie 8612). Verso Tarquinio il Superbo la città si mostrò sempre favorevole, appoggiandolo militarmente nella prima fase dell’esilio, conclusa con lo scacco subito ai Prata Aesuvia presso la Silva Arsia, in territorio romano,24 e lasciando via libera a Porsenna nella sua spedizione contro Roma. Coerente con questo quadro di relazioni amichevoli è quanto apprendiamo da fonti antiquarie sulle importanti commissioni pubbliche affidate ad artisti veienti sia da Tarquinio Prisco che dal Superbo, di cui si dirà più avanti a proposito del santuario di Portonaccio. Deluse le aspettative riposte in Porsenna, che prima tolse e poi restituì ai Romani, in cambio del loro appoggio nella guerra contro la lega latina, i Septem Pagi e il restante territorio transtiberino da essi un tempo sottratto ai Veienti, questi ripresero da soli le ostilità contro Roma, approfittando della difficile situazione in cui si trovava la città a causa della discordia tra patrizi e plebei e della crescente aggressività di Volsci, Equi e Sabini. Il senato romano lasciò che a condurre la guerra fossero i Fabii con l’intera loro gens, arroccati in una forte posizione non lontano dalla confluenza del Cremera nel Tevere, dove probabilmente si estendeva la tribù rustica che da essi aveva preso nome, contigua alla Romilia. Ma le conseguenze furono disastrose: i Fabii furono sterminati e i Veienti giunsero fin sotto le mura di Roma (477 a.C.). La tregua di quaranta anni, stipulata nel 474, fu rotta nel 437 dalla defezione di Fidene ai Veienti e dalla uccisione, di cui fu incolpato il re Lars Tolumnius, degli ambasciatori romani inviati a chiedere ragione dell’accaduto. Nella guerra che ne seguì il re fu ucciso in duello, la lega etrusca rifiutò l’intervento richiesto e Veio, nonostante l’aiuto dei Falisci, fu sconfitta. Tuttavia il conflitto per Fidene si riaccese nel 427, terminando l’anno dopo con la distruzione di quella città da parte dei Romani e la stipula di una nuova tregua, della durata di venti anni, con i Veienti, i quali forse si 22 In territorio ritenuto senza fondamento ceretano (K. J. Beloch, Römische Geschichte, Berlin-Leipzig, 1926, pp. 147, 171, 562; W. V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford, 1971, p. 145; M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Roma, 1975, p. 87). La colonia sorgeva sulla riva veiente del fiume, presso la torre di Maccarese (G. M. De Rossi, P. G. Di Domenico, L. Quilici, in La via Aurelia da Roma a Forum Aureli, Roma, 1968, p. 42 sg., tav. i, n. 69). 23 Se l’Artena situata in posizione intermedia tra Caere e Veii (cfr. P. Tartara, Torrimpietra [Forma Italiae], Firenze, 1999, p. 45) fu veramente distrutta da reges Romani (Liv. iv, 61, 11), ciò potrebbe essere accaduto proprio in occasione di questa guerra. 24 Dato il ruolo attribuito a Silvano nell’assegnare la vittoria ai Romani, la dedica al dio rinvenuta presso la Madonna del Riposo, al quarto km della moderna via Aurelia (cil vi, 670: cfr. De Rossi, Di Domenico, Quilici, op. cit., p. 17), probabilmente coincidente in quel tratto con la via Cornelia, potrebbe assumere un valore pregnante nei confronti della localizzazione della Silva Arsia. Il toponimo ha dietro di sé il gentilizio etrusco arsina-, attestato a Tarquinia in un’iscrizione di inizio vi secolo su vasetto plastico facilmente trasportabile, che per accogliere l’unica occorrenza in quella città del segno a croce in funzione di sibilante (cie 100001; Rix, et Ta 2.5) è molto probabilmente da considerare veiente.

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diedero soltanto allora, in forte ritardo rispetto alle altre città etrusche, un regime repubblicano. Scaduta la tregua, iniziò nel 405 a.C. l’assedio di Veii, che si vide ancora una volta negato, a causa del ritorno al potere dell’ultimo re, inviso per la sua tracotanza, l’aiuto della lega dei xii popoli e poté contare, a parte un limitato intervento di Tarquinia, solo sull’aiuto dei Capenati e dei Falisci. Dopo dieci anni d’assedio la città fu espugnata nel 396 a.C. dal dittatore M. Furius Camillus e, pur senza avere subito gravi distruzioni, cessò di esistere come comunità organizzata, diversamente da Capena e da Falerii, sottomesse nei due anni successivi. I Veienti che avevano combattuto contro Roma furono ridotti allo stato servile, mentre il vasto territorio, interamente confiscato, fu in gran parte diviso in lotti di sette iugeri e assegnato viritim a Romani di condizione plebea, cui furono aggiunti nel 389 quelli dei Veienti, dei Capenati e dei Falisci che erano passati dalla parte di Roma durante la guerra e le erano rimasti fedeli nel momento del sacco gallico.25 Sia i vecchi che i nuovi cittadini furono iscritti nel 387 a.C. nelle quattro tribù rustiche allora istituite, che presero i nomi geografici di Arniensis, Sabatina, Stellatina e Tromentina, rispettivamente dal fiume Arrone, emissario del lacus Sabatinus, oggi lago di Bracciano, dal lago stesso, dal già ricordato campus Stellatinus prossimo a Capena e da un campus Tromentus non altrimenti noto (Paul., ex Fest., p. 505 L.), da ricercare a est o sud-est della città. Nuove assegnazioni di terra furono fatte da Cesare ai suoi veterani, finché Augusto non fondò il municipium Augustum Veiens, che occupò l’area centrale dell’antica città, nelle località Vignacce e Macchiagrande,26 nella prima delle quali gli scavi recenti hanno permesso la scoperta del Foro.27 Il nome Il poleonimo latino Veii ricalca fedelmente, interpretandolo come un plurale, il poleonimo etrusco, eruibile con sicurezza dall’etnico Veiane, formato col suffisso -ane.28 L’etnico è attestato in funzione di nome individuale a Vulci verso la fine del vii-inizio del vi secolo a.C. (cie 11161), di nome gentilizio a Caere e a Monteguragazza nell’Appennino bolognese nella prima metà del v secolo (et Cr 2.112, Fe 3.3), a Narce (et Fa 2-10)29 e a Volsinii (et Vs 1.184) nel iv-inizi iii secolo, a Chiusi e a Perugia in età recenziore (spesso nella variante fonetica Veane),30 con una distribuzione geografica che documenta da so25 Cfr. M. Humbert, Municipium et civitas sine suffragio, Roma, 1978, pp. 78-81; E. Hermon, Habiter et partager les terres avant les Gracques, Rome, 2001, pp. 117-125. 26 Liverani, op. cit. a nota 19. 27 P. Carafa, in Scavi e ricerche archeologiche dell’Università di Roma «La Sapienza», a cura di L. Drago Troccoli, pp. 148-150. 28 Mentre il gentilizio Veie(s) di Norchia e di Musarna, continuato dal lat. Veius, verosimilmente è un derivato del teonimo Vei (G. Colonna, «StEtr», xlix, 1981, p. 280), documentato non a caso nella stessa Norchia (vedi appresso). 29 Portato dai probabili antenati dei Veianii ex agro Falisco conosciuti da Varrone (r.r., iii, 16, 10) e del personaggio menzionato nell’iscrizione rupestre della cava di Fantibassi presso Falerii (M. Cristofani, «pbsr», lvi, 1988, p. 20). 30 In et i, p. 97 sg., sono riportate 7 attestazioni di Veiane contro 8 di Veane, che è la scrittura fonologicamente corretta (H. Rix, in Gli Etruschi. Una nuova immagine, a cura di M. Cristofani, Firenze, 1984, p. 218, § 15), affermatasi solo quando il legame etimologico col poleonimo, cui va attribuita la conservazione di -i-, non è stato più percepito. Interessante a Perugia l’unica attestazione di Veiaıe (et Pe 1.77), evidente calco del latino Veiatius (Rix, Cognomen, p. 308, nota 14), riferito dagli altri Etruschi agli abitanti della Veio ormai romana (M. Pallottino, in Studi di antichità in onore di G. Maetzke, ii, Roma, 1984, p. 404). Per esso, e per i gentilizi Veianus (con la variante ‘umbra’ Veienus di illrp 670) e Veianius, diretta continuazione dei due etnici etruschi, vedi W. Schulze, Zur Geschichte der Lateinische Gentilnamen, 1904, pp. 251, 377 e 593; Liverani, op. cit. a nota 19, pp. 117, 150 sg.; M. Morandi, in ree 2001, n. 25 (da Tarquinia). E da presumere che la gens Veiania di Veio discenda da emigrati o profughi veienti in seguito ritornati nella loro patria (al più tardi all’epoca della fondazione del municipio). La gens possedeva una figlina: vedi il bollo su tegola edito da F. Boanelli, in Per un museo dell’Agro Veientano, a cura

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la la mobilità dei Veienti, anche assai prima della diaspora causata dalla conquista romana e anche in direzione di località notevolmente lontane. È lecito attribuire al poleonimo una valenza teoforica, come nei casi di Mantua, Mantura(num), Sorrina, Saturnia, dai quali tuttavia si distingue per essere non un derivato, ma lo stesso teonimo in accezione eponimica.31 Infatti Vei è il nome non solo della città ma anche, come è stato riconosciuto invero solo in data piuttosto recente,32 di una importante divinità femminile del pantheon etrusco in precedenza ignorata, dal carattere insieme ctonio e infero,33 assimilata a Demeter/Ceres a Graviscae (cie 10310 sg.), a Vulci (cie 11134-11135, su uteri votivi) e nella stessa Veii, dove era titolare di un santuario con annesso in grotta, da cui viene la dedica cil i, 2, 4, 2910, situato al margine settentrionale della località Campetti,34 mentre a Volsinii, nel santuario di necropoli in località Cannicella (cie 10588), la dea sembra piuttosto assumere i connotati di Kore/Libera,35 in accordo con la provenienza di dediche alla dea rispettivamente da una tomba della necropoli di Norchia (cie 10439) e dall’area del tempio della Vigna Parrocchiale di Caere, orientato verso le infauste regioni del Nord-ovest.36 L’identità di nome tra città e dio tutelare è un fenomeno raro, ma anche altrove documentato in area italiana (vedi i casi di Luna, Cupra e Feronia),37 anche se non a un livello pari per antichità e importanza a quello della città etrusca. Sito, poleogenesi e necropoli La città sorgeva a 12 miglia da Roma, alla confluenza del fosso della Mola, o Piordo, nel torrente Valchetta, l’antico Cremera, che sfociava nel Tevere all’altezza di Castel Giubidi F. Della Ratta-Rinaldi e F. Boanelli, Roma, 1998, p. 127, e il bollo in lettere latine vei(- - -) su manico di anfora da Torre Vergara (L. Bruzza, «BullInst», 1875, p. 250), erroneamente ritenuto etrusco ancora in Buffa, NRIE 840. 31 Un caso analogo è offerto dal nome etrusco di Vetulonia, se la legenda monetale vatl è abbreviazione del teonimo vatlmi (sul quale G. Colonna, «Scienze dell’Antichità», 3-4, 1989-1990, p. 892 sgg.). 32 G. Colonna, «StEtr», xxxv, 1967, p. 547 sg. Cfr. M. Torelli, «pp», xxxii, 1977, p. 439 sg. La forma Vea del teonimo postulata da alcuni autori (cfr. C. Bernardini, Il Gruppo Spurinas, Viterbo, 2001, p. 50) non è che il genitivo tardo-arcaico di Vei, corrispondente al recente Veal (la caduta di -i- è normale nell’Etruria meridionale e settentrionale interna: cfr. Rix, in Gli Etruschi, cit., p. 218, § 15). 33 Da ultimo G. Colonna, Les Étrusques, les plus religieux des hommes (Actes du colloque international, Paris, 1992), Paris, 1997, p. 173 sg. Alle testimonianze ivi citate si sono aggiunte quelle da Regae (cie 10250-10251), Caere (vedi infra, nota 36) e forse anche la sigla ve dal santuario del Carraccio dell’Osteria di Vulci (F. Buranelli, Ugo Ferraguti, l’ultimo archeologo-mecenate, Roma, 1994, p. 52 sg.). 34 M. Santangelo, Bronzetto di offerente a Cerere proveniente da Veio, in Archeologia Classica iv, 1952, pp. 46-54; L. Vagnetti, Il deposito votivo di Campetti a Veio, Firenze, 1971; M. Torelli, Etruria, Bari, 1980, pp. 11, 19; A. Comella, G. Stefani, Materiali votivi dal santuario di Campetti a Veio, Roma, 1990; S. Carosi, «Archeologia Classica», liii, 2002, pp. 355-377. 35 G. Colonna, Annali della Fondazione per il Museo C. Faina iii, 1987, p. 22 sg. 36 Come rileva A. Maggiani, in Veio, Cerveteri, Vulci. Città d’Etruria a confronto, cat. della mostra, a cura di A. M. Moretti Sgubini, Roma, 2001, p. 140, ii A.4.28. Cfr. ree 2002, n. 135 (V. Bellelli). La prossimità al probabile ekklesiasterion della città (G. Colonna, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde ètrusco-italique (actes de la table-ronde de Rome, 3-4 mai 1991), Roma, 1993, p. 345 sgg.) conferma l’identificazione (basti citare il culto di Demeter e Kore adiacente agli ekklesiasteria di Agrigento e di Morgantina, il culto di Dis Pater e Proserpina adiacente al Comizio di Roma). D’altra parte non mancava a Demeter/Ceres un aspetto infero che l’accostava alla figlia, come appare dalla dedica etrusca a Ceriie restituita da una tomba di Pontecagnano (ree 2002, n. 91), cui ora si aggiunge quella greca a Demeter nel santuario pyrgense di Cavitha, dea identificabile con Proserpina (G. Colonna, «AnnMuseoFaina», xi, 2004, p. 72 sg.). 37 G. Colonna, in Cupra Marittima e il suo territorio in età antica (Atti del convegno di studi di Cupra Marittima, 1992), Tivoli, 1993, p. 16, nota 43. Nel caso di *Marica, eruibile dall’etnico Maricane (H. Rix, Das etruskische Cognomen, Wiesbaden, 1963, p. 308 sg.), e forse anche in quello di *Nurti-, rinviante a Nortia, eruibile dall’etnico Nurtine(s) di Bolsena (et Vs 1.281), oltre che dall’umbro Nurtins (G. Rocca, Iscrizioni umbre minori, Firenze, 1996, p. 70 sgg.) e dal latino Nortinus (cfr. A. Morandi, Epigrafia di Bolsena etrusca, Roma, 1990, p. 78 sgg.), è da pensare ai grandi santuari delle due divinità, di cui almeno quello celebre di Marica alla foce del Garigliano costituiva certamente il nucleo di un insediamento extraurbano.

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Fig. 3.

leo, di fronte a Fidenae. Occupava un vasto pianoro tufaceo alto in media 110-115 m, ben delimitato dai cigli rocciosi incombenti sui due corsi d’acqua citati, restando facilmente accessibile solo per un breve tratto a NO, lambito dalla moderna strada per Formello, mentre a SE una strozzatura lo isolava dal minore e più basso pianoro di Piazza d’Armi, probabile acropoli primitiva della città (Fig. 3).38 L’estensione complessiva della superficie difesa dalla natura dei luoghi, calcolata in 185 ettari,39 è maggiore di quella di tutte le altre città dell’Etruria e del Lazio, con la sola eccezione della Roma serviana,40 il cui 38 Fondamentale rimane J. B. Ward-Perkins, Veii. The Historical Topography of the Ancient City, «pbsr», xxix, 1961. 39 M. Pacciarelli, in Scienze dell’Antichità 5, 1991, 181 sgg. Altri hanno calcolato 175 ettari (F. Di Gennaro, Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal Bronzo finale al principio dell’età del Ferro, Firenze, 1986, p. 140 sg., tav. 27) o, su una base cartografica meno affidabile, 190 (S. Judson-P. Hemphill, «StEtr», xlix, 1981, p. 195, n. 1). 40 Pacciarelli, art. e loc. cit.; Idem, in La presenza etrusca nella Campania meridionale (Atti delle giornate di studio di Salerno-Pontecagnano, 1990), Firenze, 1994, p. 229 sgg. Delle altre grandi città etrusche Caere si estendeva

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sito morfologicamente assai accidentato non consentiva però una pari utilizzazione dello spazio a fini abitativi. Il che era ben percepito dagli Antichi, se Dionigi di Alicarnasso non esitava a eguagliare Veii per estensione areale ad Atene (ii, 54, 3) e la diceva non inferiore a Roma per i vantaggi offerti dal sito agli abitanti (xii, 15), e se subito dopo la conquista (Liv., v, 24, 5-11), e ancor più dopo l’incendio gallico (Liv., v, 49, 8; 50, 8-55, 2), i tribuni della plebe proposero insistentemente di trasferire a Veii una metà o anche l’intera popolazione di Roma, incontrando la fiera opposizione del patriziato e in particolare di Camillo. L’insediamento più antico, risalente al Bronzo finale (xi-x secolo a.C.), aveva a quanto sembra il suo epicentro non sul grande pianoro e su quella sua appendice che è Piazza d’Armi, ma al di là del fosso della Mola, sul ripido colle in parte occupato dall’insediamento medievale e moderno di Isola Farnese.41 A sporadiche presenze della stessa età osservate sui margini settentrionali del grande pianoro sono da riconnettere l’unica tomba ‘protovillanoviana’ di Veio, rinvenuta in località Casale del Fosso, e pochi resti di tombe della stessa età in località Quattro Fontanili.42 Con l’inizio dell’età del Ferro, intorno al 900 a.C. (cronologia convenzionale), abbandonato il colle di Isola l’abitato si concentrò sul grande pianoro e su Piazza d’Armi, con una occupazione che interessò tutta l’area,43 prefigurando l’estensione della città di epoca storica. All’intorno si formarono estesi sepolcreti, con tombe a pozzo per defunti cremati e a fossa di norma per inumati, spesso fornite di loculo per il corredo, riferibili alla facies archeologica che chiamiamo ‘villanoviana’, addensati a NO nelle località di Casale del Fosso e di Grotta Gramiccia, adiacenti al più facile accesso al pianoro, a N nella località di Quattro Fontanili, sull’antica e importante via per Capena, a S nelle località di Valle La Fata e di Monte Campanile (Fig. 4).44 Nel corso dell’viii e poi del vii secolo la prosperità di Veio raggiunse altissimi livelli, grazie all’emergere di una classe di ‘principi’, di cui ci restano le tombe dai sontuosi corredi, ricchi di attributi di rango, nell’viii secolo a fossa (come la tomba 1036 di Casale del Fosso) e a fossa con loculo sepolcrale (come la tomba 871 di Grotta Gramiccia),45 nel vii a camera (come la tomba 5 di Monte Michele, la tomba principale del tumulo di Monte Aguzzo presso Formello, la tomba in loc. Quarante Rubbie).46 Più precocemente di ogni altra città d’Etruria Veio importò ceramiche geometriche euboiche e ne produsse eccellenti imitazioni,47 così come più tardi importò ottima ceramica protocorinzia (basti pensare all’olpe Chigi) e alimentò una fiorente produzione di buccheri decorati e di ceramiche dipinte, sia subgeometriche che etru-

su quasi 160 ettari, Tarquinia su 150, Vulci su 125. Per la Roma serviana vedi C. Ampolo, «DialArch», n.s. ii, 1980, p. 168 sg. 41 Aa.Vv., in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. a nota 36, pp. 5-7. 42 L. D’Erme, ivi, p. 90 sg. 43 M. Guaitoli, Ricognizione archeologica. Nuove ricerche nel Lazio («Quad. dell’Istituto di Topografia antica della Università di Roma, ix»), Roma, 1981, pp. 79-82, fig. 1. Altre presenze villanoviane sono emerse coi nuovi scavi nelle località Campetti, Macchiagrande-Vignacce e Piano di Comunità (Aa.Vv., in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. a nota 36, pp. 9 sgg., 17, 24). 44 Per Casale del Fosso e Grotta Gramiccia: Aa.Vv., in Le necropoli arcaiche di Veio, cit. a nota 14, pp. 19-83. Per Quattro Fontanili, Aa.Vv, «NSc», 1963, 1965, 1967, 1970, 1972, 1975, 1976. Per Valle La Fata: G. Bartoloni, F. Delpino, «Monumenti Antichi dei Lincei», ser. misc. i, 1979. 45 Rispettivamente G. Colonna, «Archeologia Classica», xlix, 1991, pp. 69-82; F. Buranelli, L. Drago, L. Paolini, in Le necropoli arcaiche, cit., p. 69, figg. 8-14. 46 Rispettivamente F. Boitani, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. a nota 36, pp. 113-118; G. Bagnasco Gianni, Oggetti iscritti di epoca orientalizzante in Etruria, Firenze, 1996, p. 133 sg.; M. A. Rizzo, Complessi tombali dell’Etruria meridionale (Le anfore da trasporto e il commercio etrusco arcaico, I), Roma, 1990, pp. 11, 43-48. 47 Importazioni: F. Boitani. A. Berardinetti Insam, Veio, Cerveteri, Vulci, cit., pp. 106-111. Imitazioni: J. Gy. Szilágyi, Atti del ii congresso internaz. etrusco, ii, Roma, 1989, p. 616 sg.

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Fig. 4.

sco-corinzie, sperimentando pionieristicamente nuove tecniche di pittura vascolare con i due anforoni da Trevignano dipinti con figure risparmiate su fondo rosso.48 La conoscenza della scrittura è provata già alla fine dell’viii-inizio del vii secolo, contemporaneamente quindi a Tarquinia e a Bologna, dal monogramma a graffito su alcuni rocchetti di una tomba di Casale del Fosso (cie 6662-6667). Le iscrizioni di pieno vii secolo sono poche rispetto a Caere, ma annoverano iscrizioni di dono relativamente complesse, come quella dalla tomba principesca di Monte Aguzzo (cie 6673) e quella 48 M. Bonamici, I buccheri con figurazioni graffite, Firenze, 1974, pp. 139-156; M. Martelli, La ceramica degli Etruschi, a cura della Stessa, Novara, 1987, p. 18 sg., 24; J. Gy. Szilágyi, Ceramica etrusco-corinzia figurata, i, Firenze, 1992, pp. 66-79 (gruppo Castellani); G. Colonna, in Pittura etrusca al Museo di Villa Giulia, Roma, 1989, p. 24 (Trevignano).

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da Piazza d’Armi recentemente edita, che è una delle pochissime in Etruria provenienti da abitato (cie 6325). Tra le tombe a camera della stessa epoca ve ne sono alcune che accolgono pitture parietali di eccezionale interesse, pietre miliari per la nostra conoscenza della pittura etrusca: la tomba delle Anatre in località Riserva del Bagno, di stile subgeometrico, e la tomba Campana sulle pendici di Monte Michele, massima espressione dello stile tardo-orientalizzante.49 Intorno alla città si svilupparono in quest’epoca a N i sepolcreti di Picazzano e di Monte Michele, a NE di Vaccareccia, a S di Macchia della Comunità e di Casalaccio, sulle pendici stesse dell’abitato, a O di Oliveto Grande, Pozzuolo e Riserva del Bagno, mentre si continuò a seppellire sporadicamente a Casale del Fosso. Pochi e isolati grandi tumuli dominano la cerchia dei sepolcreti nelle località Grotta Gramiccia, Vaccareccia, Oliveto Grande e Pozzuolo, cui s’aggiunge quello della tomba Campana, così come altri tumuli, più lontani, incombono sulle vie che si diramavano dalla città verso l’agro, nelle località Olgiata, Pisciacavallo, Monte Aguzzo, Monte Oliverio e Via Veientana (che ovviamente per i Veienti era la Via Romana).50 A partire dal 580 circa e fino alla caduta della città si assiste, in contrasto con la ricchezza esibita dai santuari, e in particolare da quello di Portonaccio, a un drastico ridimensionamento delle testimonianze funerarie, sia a livello di corredi che di strutture architettoniche. Scompaiono non solo i tumuli ma le stesse tombe a camera, con la sola eccezione della tomba dei Pilastri, di tardo v secolo,51 sostituite da fosse o ‘vestiboli’ a cielo aperto, dotati di nicchie o loculi parietali, accoglienti in prevalenza incinerazioni.52 Evidente è la consonanza con quel che si verifica a Roma e tra i Latini a partire dall’età di Servio Tullio, come esito di spinte isonomiche che si sono manifestate all’interno dello stesso ceto aristocratico e hanno probabilmente provocato la promulgazione di leggi antisuntuarie ben più antiche di quelle delle xii Tavole.53 È questo un dato di grande rilievo, che conferma il rapporto privilegiato, di ordine culturale, che Veii, a differenza di tutte le altre città etrusche, intrattenne con Roma fin dall’età di Romolo e che con i Tarquinii raggiunse il suo apice. Il santuario di Portonaccio Nella prima metà del vii secolo iniziò l’attività del santuario in località Portonaccio (Fig. 5: 1), ignorato dalle fonti letterarie ma destinato a diventare certamente il più sontuoso della città, anche se posto appena fuori dell’abitato, su una terrazza attraversata dalla via adducente al mare e alle saline (Figg. 6-7).54 Verso la fine del secolo venne edificata la supposta ‘casa dei sacerdoti’ nel settore occidentale del santuario (‚), mentre il culto continuava a essere prestato all’aperto nel settore orientale, con l’accumulo di un deposito votivo che è forse il più notevole tra quelli di vii e vi secolo venuti in luce in Etruria e dal quale proviene tra l’altro la stragrande maggioranza delle iscrizioni veienti giunte fi-

49 G. Colonna, ivi, pp. 19, 21-25. 50 A. Berardinetti, A. De Santis, L. Drago, «Acta Hyperborea», vii, 1997, p. 334 sg., fig. 12. 51 G. Colonna, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano, 1986, p. 494, fig. 353. 52 L. Drago Troccoli, in Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di Massimo Pallottino, i, Pisa-Roma, 1997, pp. 239-280. 53 G. Colonna, Un aspetto oscuro del Lazio antico, «pp», xxxii, 1977, pp. 131-165; Cornell, op. cit., pp. 105-108; Zevi, art. cit. a nota 20, p. 235. 54 Sulla topografia e le fasi edilizie del santuario vedi ora G. Colonna, «Monumenti Antichi dei Lincei», ser. misc. vi, 3, 2002, pp. 133-159 (a proposito degli scavi di Massimo Pallottino nella zona dell’Altare); Idem, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. a nota 36, pp. 37-44.

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Fig. 5.

no a noi, graffite o dipinte su vasi (cie 6397-6476), in parte rinvenute a seguito di frane nella sottostante loc. Cannetaccio (cie 6397-6398 e forse 6714, di recupero ottocentesco). Principale destinataria del culto appare essere stata Minerva, sia come divinità oracolare, interrogata anche da persone provenienti da lontano, come il vulcente Avile Vipiiennas (6456), sia come protettrice dell’iniziazione dei giovani e più in generale delle relazioni tra il corpo civico e il mondo esterno. Tra i più antichi donarii in forma di statua si annovera un torso possente della metà del vi secolo, a scala maggiore del vero, raffigurante probabilmente Ercole ed evocante anche per questo l’Hercules fictilis del veiente Vulca, che l’artista aveva eseguito a Roma, dove era stato chiamato verso il 580 a.C. da Tarqui-

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Fig. 6.

Fig. 7.

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nio Prisco per il ben più famoso simulacro di Giove Capitolino.55 Una parte notevole del deposito votivo fu sepolta verso il 540-530 a.C. sotto il pavimento del piccolo tempio a semplice cella sacro a Minerva (ı), allora costruito assieme a un altare cubico, con condotto interno prolungato nel sottosuolo per l’offerta di libazioni (‰), e a un portico (Á). Contemporaneamente nel settore occidentale sorgeva un edificio di notevoli dimensioni (·), preceduto da una grande cisterna (D) e decorato con terrecotte architettoniche di stile ionico: la collocazione contigua alla distrutta ‘casa dei sacerdoti’ fa pensare che ne perpetuasse le funzioni, in una dimensione più scopertamente gentilizia. L’edificio ebbe vita breve, poiché cedette il posto verso il 510-500 a.C. al notissimo tempio a tre celle di tipo tuscanico (A), affiancato di lato da una grande piscina per lavacri purificatori (B) e sul retro dal recinto di quello che sembra essere stato un bosco sacro.56 Il ricchissimo apparato decorativo fittile del tempio, dotato di un complesso sistema di contrassegni alfabetici e numerali per la posa in opera dei singoli elementi (cie 64806660), culminava nelle statue a grandezza naturale o maggiore del vero, di soggetto mitologico, fungenti da acroteri, a cominciare dal celebre Apollo. Si tratta di una delle più insigni realizzazioni della coroplastica etrusca, progettato e in parte personalmente eseguito dal ‘Maestro dell’Apollo’, probabilmente da identificare col Veienti cuidam artis figulinae prudenti (Fest., p. 342 L.), cui Tarquinio il Superbo aveva affidato l’esecuzione della gigantesca quadriga acroteriale del tempio di Giove Capitolino. Si accetti o no tale identificazione, è indubbio che l’autore dell’apparato decorativo del tempio sia da considerare il massimo esponente della ‘scuola’ fondata due generazioni prima dal già ricordato Vulca, unico artista etrusco di cui resti memoria nella tradizione letteraria.57 Purtroppo non ci è noto il deposito votivo del tempio, ma i soggetti delle statue acroteriali fanno ritenere che fosse sacro ad Apollo, a Ercole e forse anche a Giove, di cui resta il trono di nuvole posto sul culmine del timpano della facciata.58 Tra le altre statue, per lo più di non comune qualità, che si affollavano nel santuario eccelle il gruppo raffigurante l’apoteosi di Ercole al fianco di Minerva, raffinatissima opera di impronta ionico-attica del 500 circa a.C.,59 trasparente metafora dell’investitura divina ambita dal potere tirannico, cui probabilmente si deve sia l’erezione del tempio che l’introduzione di una mantica profetica di ispirazione delfica. In ogni caso l’insolita associazione entro uno stesso recinto dei culti di Apollo e di Atena/Minerva trova un precedente illustre nel mondo greco-coloniale, a Selinunte (templi C e D dell’acropoli).60 La storia successiva del santuario mostra che il primato di Apollo non durò a lungo. Infatti il culto di Minerva tornò in primo piano con la costruzione, poco dopo la metà del v secolo, dell’altare monumentale ad ante (F) e del recinto (I), che sostituirono l’altare e il piccolo tempio precedenti, affiancati da due nuovi portici (G, H) e accompagnati dall’offerta di una splendida serie di statue votive di stile classico raffiguranti giovani e giovanette, protrattasi fino alla caduta della città.61 Né il culto della dea conobbe una flessione dopo il 396 a.C., ma si protrasse, come confermano alcune dediche in latino,62 fino alla fine del iii-inizi del ii sec. a.C., alquanto dopo che il tempio di Apollo era stato smantellato e la piscina colmata. 55 Ivi, p. 65 sg. Cfr. G. Colonna, «pp», xxxvi, 1981, pp. 46-48, 56-59. 56 Ivi, pp. 40-43. 57 M. Pallottino, La scuola di Vulca, Roma, 1945. 58 C. Carlucci, in Veio, Cerveteri, Vulci, p. 60 sg. 59 G. Colonna, Il maestro dell’Ercole e della Minerva, «OpRom», xvi, 1987, pp. 7-41 (= Lectiones Boëthianae vi); Idem, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit. a nota 36, p. 67 sg. 60 Cfr. M. Torelli, in F. Coarelli, M. T., Sicilia, Bari, 1984, p. 94 sg. 61 Colonna, in Veio, Cerveteri, Vulci, cit., p. 43; M. P. Baglione, ivi, pp. 69-77. 62 Oltre a cil i, 2, 4, 2909 e 2911 (cfr. L. Ambrosini, in Veio, Cerveteri, Vulci, p. 84, i.F.7.7-8) vedi Colonna, «Monumenti Antichi dei Lincei», cit. a nota 54, p. 151, nota 78, con bibl.

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Piazza d ’ Armi e Piano di Comunità Gli scavi sistematici condotti sul pianoro di Piazza d’Armi hanno rivelato che tra la fine del vii e gli inizi del vi secolo sorsero sul pianoro, al posto delle precedenti capanne a pianta circolare, alcuni edifici di prestigio decorati con terrecotte figurate, tra i quali si riconosce un tempio a cella rettangolare con annesso vano di servizio (Fig. 5: 11).63 Verso la metà del secolo fu data al pianoro una sistemazione urbanistica, con strade approssimativamente ortogonali e una vasta piazza centrale, accogliente una enorme cisterna a cielo aperto, mentre sul ciglio della collina fu eretta l’autonoma cerchia di mura ancor oggi esistente,64 che ne sancì, almeno dal punto di vista militare, la funzione di acropoli. Invece il tempio non beneficiò di alcun rinnovo dei suoi rivestimenti, né allora né dopo, per cui è stato giustamente escluso che possa identificarsi col tempio di Giunone Regina situato sull’arx Veientana, teatro dell’irruzione degli assedianti nel 396 a.C. e della successiva evocatio della dea, secondo il colorito racconto di Livio (v, 21, 10).65 La proposta di localizzare il tempio al sommo del Piano di Comunità (Fig. 5: 10), prospiciente il pianoro di Piazza d’Armi da una quota più alta di oltre 15 metri e accogliente al suo piede l’enorme deposito votivo medio-repubblicano in parte scavato da R. Lanciani nel 1889,66 è stata solo in parte verificata dagli scavi in corso dal 1997 nel quadro del ‘Progetto Veio’ dell’Università della Sapienza. Si è infatti accertato che la grande domus di età augustea ivi esistente è sovrapposta a un complesso edilizio di età medio-repubblicana, a sua volta insistente su strati della seconda metà del vi e del v secolo, includenti pozzi, crolli di tegole e un poderoso muro di sostruzione della collina, ma, per quanto finora è apparso, non strutture riferibili a un tempio, a parte alcune antefisse e pochi frammenti di terrecotte architettoniche tardo-arcaiche in giacitura secondaria.67 Sicché al momento può dirsi solo che il tempio di Giunone Regina, se era sull’altura di Comunità, consisteva in una struttura architettonicamente modesta, inclusa nel perimetro di quella che potrebbe essere stata una domus regia e adibita a un culto forse ufficialmente considerato come domestico dei re di Veii, anche se assurto di fatto a un ruolo poliadico. Un culto divenuto oggetto di una devozione largamente condivisa e di stampo popolare, quale è quella attestata dal deposito Lanciani, solo dopo la conquista romana e forse proprio a causa dell’atteggiamento sorprendentemente benevolo verso i vincitori attribuito alla divinità. Altri santuari Gli altri santuari urbani conosciuti o solo indiziati sono dislocati ai margini della città, lungo quasi tutto il suo perimetro, a ridosso o a breve distanza dalle mura,68 la cui datazione, fissata dagli archeologi inglesi alla seconda metà del v secolo, sembra da rial63 Per tutto ciò che si riferisce a Piazza d’Armi si vedano i contributi di G. Bartoloni e dei suoi collaboratori in Veio, Cerveteri, Vulci, cit., pp. 29-35, in A. M. Moretti Sgubini (ed.), Scavo nello scavo. Cat. della mostra, Viterbo 2004, Roma, 2005, pp. 45-57, e in Dinamiche di sviluppo delle città dell’Etruria meridionale. Atti del xxiii Conv. di Studi Etruschi, 2001, Pisa-Roma, 2005, pp. 73-84. Aggiungi ora Ead., Una cappella funeraria al centro di Piazza d’ArmaVeio, «aion ArchStAnt», in stampa. 64 P. Fontane, «mefra», 105, 1993, pp. 221-239. 65 M. Torelli, op. cit. a nota 2, pp. 23 sg., 117-130. 66 F. Delpino, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (Atti dell’incontro di studio di Tarquinia, 1996), Firenze, 1999, p. 80 sgg., fig. 13 sg. 67 G. Colonna, in Scavi e ricerche archeologiche, cit. a nota 27, p. 141 sgg.; Idem, in Further approaches to regional archaeology in the middle Tiber valley (atti del seminario, Roma 1998), Rome, 2004, pp. 205-219; B. Belelli Marchesini, Veio, Cerveteri, Vulci, cit., pp. 23-28. 68 Come da me rilevato in Santuari d’Etruria, catalogo della mostra di Arezzo, Milano, 1985, p. 68 sg.

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zare almeno alla fine del vi.69 Il più antico, noto solo dal recupero in superficie di terrecotte simili a quelle da Piazza d’Armi, sembra essere stato presso il casale Caprioli (Fig. 5: 9), non lontano dalla posterula da cui si accedeva al sepolcreto di Vaccareccia.70 Tutti gli altri risalgono alla fine del vi o ai primi decenni del v secolo e mostrano tracce più o meno evidenti di una continuità di vita nella fase medio-repubblicana della città, esattamente come si verifica nel santuario del Portonaccio e nel deposito al piede di Piano di Comunità. Da ovest verso est si susseguono: 1. sul pianoro di Campetti, presso la porta da cui usciva la via per Caere, un piccolo santuario probabilmente sacro a Minerva (Fig. 5: 3);71 2. sullo stesso pianoro, ma sulle pendici settentrionali, non lontano dalla porta di Formello, il santuario già ricordato della dea Vei, identificata dai coloni romani con Ceres (Fig. 5: 5); 3. presso la stessa porta, ma sul versante opposto della via antica, in località Macchiagrande, un santuario indiziato dal deposito votivo scavato nel 1963 (Fig. 5: 6);72 4. presso la porta di Capena, sempre in località Macchiagrande, un santuario la cui esistenza è testimoniata nel vi-v secolo da terrecotte architettoniche,73 nel iviii secolo da terrecotte votive74 e da un gruppo di epigrafi latine (altari con dediche ad Apollo, Iuppiter Libertas, Minerva, Pitumnus, Victoria, cippo con dedica dis deabus, tavola fittile col nome di Ercole) (Fig. 5: 7).75 Un quinto santuario è indiziato nell’area del grande complesso termale-sacrale di età romana di Campetti (Fig. 5: 2), presso la porta urbana da cui usciva la strada che scendeva al Portonaccio, dal ritrovamento di un bacino lustrale in terracotta, dipinto in stile tardo-arcaico con un busto di sileno flautista.76 Il territorio In contrasto con la dimensione più che ragguardevole dell’area urbana, il territorio propriamente veiente era meno esteso di quelli riferibili alle altre città dell’Etruria meridionale e si configurava rispetto ad essi come nettamente periferico, essendo circondato su tre lati da territori abitati da popolazioni di stirpe e di lingua diversa. Confinava infatti a E coi Capenati e coi Latini di Crustumerium, Fidenae ed Antemnae, a S coi Romani e coi Latini di Ficana, a N con i Falisci e soltanto a O e NO con gli Etruschi di Caere e di Sutri (Fig. 1). Confini naturali erano a S il Tevere, a E ancora il Tevere e quindi la dorsale percorsa dalla via Flaminia fino a Morlupo,77 a N lo spartiacque dei Monti Sabatini, da Morlupo a Campagnano e al monte Rocca Romana (m 612), a O il lago di Bracciano e il suo emissario Arrone fino alla foce. Come un’appendice del territorio veiente in di69 M. Torelli, Etruria, Bari, 1980, p. 11; Idem, La società etrusca, cit. a nota 2, p. 121; G. Colonna, Veio, Cerveteri, Vulci, cit., p. 37 sg. 70 Guaitoli, art. cit. a nota 43, p. 81, nota 11. 71 M. Torelli, in Nuovi tesori dell’antica Tuscia, Viterbo, 1970, p. 50 sg., tav. xv; I. Pohl, M. Torelli, «NSc», 1973, p. 227 sgg. 72 L. Murray-Threipland, «pbsr», xxxvii, 1969, pp. 1-13. 73 Vagnetti, op. cit., p. 20 sg. Due antefisse di v secolo con idrofore sono ricordate da A. D’Agostino, Veio. La storia, i ruderi, le terrecotte, Roma, 1965, p. 51. 74 Vagnetti, op. e loc. cit.; Guaitoli, art. e loc. cit. Al santuario è probabilmente da ascrivere l’ingente deposito, simile a quello delle pendici di Comunità per l’abbondanza di ex voto anatomici, scavato nel 1669 per conto del cardinale Flavio Chigi, in parte pervenuto al Museo Archeologico di Firenze e, tramite F. Marsili, al Museo Civico di Bologna (G. Bartoloni, P. Bocci Pacini, «StMisc», 30, 1996, p. 444 sgg.). 75 cil i, 2, 4, 2628-2633. Per la dedica a Pitumnus vedi M. Torelli, in Dialoghi d’Archeologia, ser. iii, vi, 1988, p. 69 76 G. Proietti, «StEtr», xlv, 1977, p. 454 sgg. Cfr. per i nuovi scavi Veio, Cerveteri, Vulci, cit., p. 9 sgg. 77 Ma nel tratto Prima Porta-Pietra Pertusa, e forse anche oltre, il territorio veiente con ogni probabilità scavalcava la dorsale della Flaminia arrivando fino a Procoio Nuovo sulla via Tiberina (da cui le iscrizioni cie 67056706), di fronte a Crustumerium (cfr. G. Gazzetti, Il territorio capenate, Roma, 1992, p. 8, fig. 2, h). Sul contiguo sito di Vaccareccia, appartenente a Capena (da cui le iscrizioni cie 8885-8886), cfr. G. Cifani, Storia di una frontiera, Roma, 2003, pp. 110-113 (ma lo specchio 8886 è un falso, come ha dimostrato R. De Puma, in cse u.s.a ., 4, 2005, p. 38 sg., n. 38).

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rezione della Silva Ciminia, sulla direttrice percorsa in età romana dalla via Cassia, va considerato l’agro sutrino, di cui si dirà a suo luogo. Relativamente pochi e di scarsa entità appaiono, nell’area così definita, gli insediamenti minori, ubicati pressoché tutti in prossimità dei confini e su importanti direttrici viarie. Verso la pianura costiera, a guardia della via corrente lungo il Fosso Galeria, sorgeva Monte Roncione, fiorente dal Bronzo medio al Bronzo finale e poi a partire dal vii secolo;78 sull’Arrone Careiae, nel sito della medievale Galeria, all’incrocio con la via per Caere, e più a valle Boccea; sul lago di Bracciano il maggiore di tutti gli insediamenti dipendenti, Trevignano, forse identificabile con l’antica Sabate, fiorente nel Bronzo finale e poi a partire dalla seconda metà dell’viii secolo79 (da cui le sigle nn. 6708-6709); tra i laghi di Martignano (lacus Alsietinus, cfr. il gentilizio etnico alsiti(s) di 8912) e di Baccano l’oppidum di altura di Monte S. Angelo (m 376), risalente al Bronzo finale e, caso unico nel territorio veiente, abitato anche nel ix-inizi dell’viii secolo, all’epoca del Villanoviano antico, quando sembra aver avuto la stessa funzione di avamposto del territorio veiente sulla via per Blera, Tuscania e Vulci, assolta successivamente da Trevignano; sul Tevere Prima Porta (da cui il n. 6704), Monte delle Grazie e quindi, a confine con i Septem Pagi romani, Acquatraversa sulla futura via Clodia, Colle S. Agata sulla via Trionfale e Acquafredda sul fosso della Magliana all’incrocio con la via Vitellia (Fig. 2).80 In posizione arretrata rispetto al confine romano, sulla via Veientana, era l’insediamento in loc. Volusia (da cui il n. 6703). Fitta, al contrario di quella degli abitati, è la maglia degli insediamenti rurali, segnalati per lo più da tombe isolate, indice di un intenso sfruttamento agricolo dei suoli, confermato dalla imponente rete di cuniculi e anche da modesti luoghi di culto sorti presso le strade, come quello in località Casale Pian Roseto, solo recentemente riconosciuto come tale, documentato dalla fine del vi secolo (da cui i nn. 6676-6701).81 Santuari extra-urbani, di cui peraltro si ha solo notizia indiretta, sono le Arae Muciae (Plin., n.h., ii, 211) e quello forse sulla vetta di Monte Musino (m 376), cui si riferisce una dedica latina del 148 d.C. a Iuppiter Tonans e a Hercules Musinus (cil , xi, 3778).82 Il nome Lorium di una località presso Castel di Guido, al xii miglio della via Aurelia, sembra conservare la memoria de culto del dio ctonio e guerriero Lur(s),83 che forse prototeggeva le strettoie dell’agro veiente tra il rio Galeria e il fiume Arrone. Altre località antiche non identificate sul terreno sono, oltre al già ricordato campus Stellatinus e alla connessa Obscum, il campus Tromentus pure già ricordato, evocante il gentilizio etrusco ıurmena/ıurmna, e Remens, dove si verificò un prodigio nel 173 a.C. (Liv., xlii, 2, 4), dal nome evocante il gentilizio remni(e)84 (si noti la latinizzazione di entrambi i toponimi col suffisso -entadottato anche per l’etnico Veiens coi suoi derivati). 78 Di Gennaro, op. cit. a nota 39, p. 110 sg.; De Santis, art. cit. a nota 18, p. 104 sgg. 79 A. Della Seta, Museo di Villa Giulia, Roma, 1918, p. 105; M. Moretti, in Arte e civiltà degli Etruschi, Torino, 1967, pp. 45-77; Idem, in Nuovi tesori dell’antica Tuscia, Viterbo, 1970, pp. 23-31; I. Caruso, «StEtr», lviii, 1993, pp. 563-566. 80 De Santis, art. cit. a nota 18, pp. 104 e 108-141; R. Santolini Giordani, «BullCom», ciii, 2002, pp. 312-317. 81 M. Torelli, «StEtr». lxiv, 2001, pp. 117-134, con l’ipotesi di un culto di Stata Mater basata sull’iscrizione n. 6622, considerata latina. Ma la cronologia tardo-arcaica, la direzione sinistrorsa e la documentata, ancorché poco frequente, utilizzazione del sade a Veio e nell’agro ceretano rendono del tutto improbabile la latinità dell’iscrizione. Per la possibilità di isolare il lemma sta(s) cfr. l’iscrizione Rix, et Fa 2.5. 82 A. Kahane, L. Murray Theipland, J. Ward-Perkins, «pbsr», xxxvi, 1968, p. 43 sg. Oronimo ed epiteto rinviano al nome peronale etrusco muse attestato a Stabiae (cie 8777-8778), di cui è probabile l’origine italica (G. Colonna, art. cit. a nota 5, p. 354). 83 Cfr. G. Colonna, in Mélanges à la memoire de A. Magdelain, Paris, 1998, p. 119 sg.; Id., «OpRom», 24, 1999, p.76. 84 Cfr. anche il cognome Rementianus (I. Kajanto, The Latin Cognomina, Helsinki, 1965, p. 190).

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Storia delle ricerche Grazie alla vicinanza a Roma il sito di Veii, correttamente riconosciuto nel 1641 da Femiano Nardini e Luca Holstenio,85 fu oggetto di scavi per iniziativa del cardinale Flavio Chigi già negli anni Sessanta del xvii secolo: vennero in luce non solo resti monumentali e sculture riferibili al municipio romano,86 ma anche un grande deposito di terrecotte votive, forse identificabile con quello di Macchiagrande esplorato da E. Stefani.87 Le scoperte continuarono per tutto il xviii secolo, ma fu solo nei primi due decenni dell’Ottocento che si intraprese, con gli scavi Giorgi, l’esplorazione su vasta scala dei resti del municipio, da cui affluirono gran copia di marmi e di iscrizioni ai Musei Vaticani.88 Nei due decenni successivi William Gell e Antonio Nibby impostarono su nuove e più solide basi l’indagine topografica del sito,89 cui seguirono le prime sistematiche esplorazioni dei sepolcreti: nelle località di Picazzano, Quattro Fontanili e Riserva del Bagno, comprese nella tenuta di Isola Farnese allora di proprietà della regina Maria Cristina di Sardegna, ad opera di Luigi Biondi, Secondiano Campanari e Luigi Canina (18381843); a Monte Michele, nella tenuta di Formello, di proprietà dei Chigi, da parte degli argentieri Spagna e poi del cavalier Campana, al quale si deve la scoperta nel 1843 della tomba dipinta che porta il suo nome.90 Ereditata la tenuta di Isola da M. Teresa Cristina di Borbone, imperatrice del Brasile, il Canina scavò nei sepolcreti di Picazzano e dell’Oliveto (1852-1853) (da cui forse il n. 6711), Francesco Vespignani con l’aiuto di Rodolfo Lanciani nell’area della città e nei sepolcreti di Picazzano e Vaccareccia (1888-1889) (da cui il n. 6671).91 Anche nella tenuta Chigi si ebbero altri scavi, sia a Monte Michele92 che sul Monte Aguzzo presso Formello, dove nel 1881-1882 si esplorò il tumulo contenente la tomba principesca che ha dato il noto vaso con alfabetarii e iscrizioni (n. 6673: dagli stessi scavi anche il n. 6672), la cui camera laterale fu trasportata e ricostruita nel giardino del Museo Archeologico di Firenze. Con l’inizio del xx secolo l’iniziativa degli scavi fu assunta dallo Stato. Un grandioso programma di ricerche, avviato dal Soprintendente alle Antichità della provincia di Roma Antonio M. Colini nel 1913, si protrasse per circa dieci anni: vi collaborarono Ettore Gàbrici, Giulio Quirino Giglioli ed Enrico Stefani. Dopo avere esplorata la collina di Piazza d’Armi, si scoprirono il santuario di Portonaccio, con le note clamorose scoperte, e più tardi il maggiore dei due di Macchiagrande. Nella necropoli si scavarono i sepolcreti villanoviani di Grotta Gramiccia, Casale del Fosso e Valle La Fata, non che quelli di età arcaica a Macchia della Comunità e a Pozzuolo, oltre a tombe isolate. Altre ricerche nella necropoli furono condotte negli anni ’20 e ’30 dalla Scuola Nazionale di Archeologia, a cura di G. Q. Giglioli, mentre alla Soprintendenza si devono lo scavo del 85 F. Nardini, L’antico Veio, Roma, 1647; L. Holstenio, Annotationes in Italiam Antiquam Cluverii, Romae, 1666, p. 54 sgg. Cfr. F. Delpino, Cronache veientane. Storia delle ricerche archeologiche a Veio. i: Dal xiv alla metà del xix secolo, Città di Castello, 1985. 86 Delpino, op. cit. a nota 85, p. 90 sg. Due delle statue allora rinvenute si trovano nel Museo Comunale di Formello (Boanelli, op. cit. a nota 30, pp. 113, 117-188). 87 Vedi nota 74. 88 Liverani, op. cit. a nota 19. 89 Delpino, op. cit., pp. 65-58. 90 Ivi, pp. 89-106. Da questi scavi proviene l’aryballos di bucchero di forma biconica, databile all’inizio del vi secolo, con l’iscrizione destrorsa cie 8870 (mi piana® pleniana®), erroneamente inserita tra quelle della Campania. La provenienza risulta da una scheda di S. Campanari, edita da F. Orioli (Vasellino veiente, in L’Album, xxiii, 20, 1856, p. 159), in cui si precisa che il vaso era in possesso di L. Arduini, noto impresario di scavi, all’epoca in relazione col cavalier Campana (Delpino 1985, pp. 135 sg., 140). 91 F. Delpino, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (Atti dell’incontro di studio, Tarquinia 1996), Firenze, 1999, pp. 75-85. 92 M. Cristofani, Le tombe da Monte Michele nel Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1969.

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maggior santuario in loc. Campetti da parte di M. Pallottino (1937-1938), e la ripresa dello scavo del santuario di Portonaccio da parte dello stesso (1939-1940), entrambi continuati da Maria Santangelo (1944-1950).93 La Scuola Britannica di Roma, per iniziativa di J. B. Ward-Perkins, compiva negli anni ’50 e ’60 la ricognizione sistematica dell’area di Veio e della parte centro-settentrionale dell’Ager Veientanus, rinnovandone completamente la conoscenza.94 Per ovviare alle devastazioni perpetrate dalle nuove tecniche dei lavori agricoli scavi sistematici, prontamente pubblicati,95 sono stati condotti nel sepolcreto villanoviano in loc. Quattro Fontanili, ad opera della Scuola Britannica di Roma e dell’Istituto di Etruscologia dell’Università di Roma (1961-1975), mentre la Soprintendenza riprendeva lo scavo dell’abitato di Piazza d’Armi (1968-1971) e nel 1980 metteva in luce la tomba principesca di Monte Michele.96 Nuove fruttuose ricognizioni dell’area urbana venivano intanto compiute alla fine degli anni ’70 dall’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma97 e si avviava la collaborazione della Soprintendenza con l’Istituto di Etruscologia della stessa Università per la pubblicazione degli scavi del santuario di Portonaccio. Si è giunti così nel 1996 al varo del ‘Progetto Veio’ da parte dell’Università di Roma ‘La Sapienza’ e della Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale, di cui si è detto nella Premessa. Annotazioni epigrafiche e linguistiche L’uso scritto della lingua etrusca si protrasse a Veio nel santuario di Portonaccio fino forse alla metà del iv secolo (cie 6479), in quello di Campetti sacro alla dea Vei, dalla frequentazione più popolare, fino alla metà o quasi del iii secolo a.C. (cie 6336-6341). Poche sono tuttavia le iscrizioni di tardo vi e di v secolo, così come quelle di pieno vii. La grande maggioranza, proveniente dal santuario di Portonaccio, si data tra la fine del vii e il 540-530 a.C., quando una consistente parte del deposito votivo fu sepolta, come si è detto, nel riempimento di fondazione del piccolo tempio di Minerva. Caratteri peculiari della scrittura arcaica veiente, che solo raramente, e mai associati tra loro, si incontrano fuori di Veio,98 sono la puntuazione sillabica e il segno a croce con valore di sibilante. Mentre la prima ha un lungo excursus cronologico, che dall’ultimo quarto del vii (cie 6713) arriva in pieno v secolo (cie 6401, 6465), il segno a croce ha una vita più breve, dalla fine del vii (cie 6419, 6447, 6703, 6712) al secondo quarto del vi secolo (cie 6449). La sua funzione, in accordo con la comune opinione,99 è di fatto quella di un allografo del sigma sia a tre che a quattro o più tratti, coi quali, nell’arco cronologico in cui è in uso, si alterna nelle medesime posizioni. Troviamo infatti nella stessa epoca la sibilante del morfo di genitivo scritta in 9 casi con -s (cie 6412, 6414, 6418, 6436, 6445, 6456, 6672, 6703b, 6711), in 5 casi con -s’ (cie 6327, 6416, 6671, 6710, 6713), in 12 casi con - (cie 6405, 6409, 6411?, 6419, 6424, 6431, 6447, 6449, 6454, 6455, 6672, 6712). Il prenome Laris è scritto sia con -s (cie 6436, 6455, 6676, forse 6435) che con - (cie 6449), il gentilizio Velkasnas sia con due -s (cie 6436) che con due -s’ (cie 6713), Haıisnas con entrambe le forme di sigma (cie 6711). La tesi che vorrebbe il segno a croce usato normativamente per 93 Vedi sopra, nota 34. 94 Vedi nota 38 e A. Kahane, L. Murray Threipland, J. Ward-Perkins, The Ager Veientanus north and east from Veii, «pbsr», xxxvi, 1968. 95 «NSc» 1963, 1965, 1967, 1970, 1972, 1975, 1976. 96 F. Boitani, «Archeologia nella Tuscia», i, Viterbo, 1982, pp. 95-103. 97 Vedi nota 43. 98 A Veio l’associazione si verifica in cie 6411(?), 6424, 6431, 6449, 6455, 6672, 6673, 6713. 99 G. Colonna, Atti del colloquio sul tema «L’etrusco arcaico», Firenze 1974, Firenze, 1976, pp. 14-17; M. Cristofani, «ScrCiv», 2, 1978, p. 8 sg.; H. Rix, Gli Etruschi. Una nuova immagine, a cura di M. Cristofani, Firenze, 1984, p. 213, § 4; R. Wallace, «Glotta», lxix, 1991, p. 77 sg.

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/s/ e il sigma per /š/100 è contraddetta da cie 6672 con unauras e pepunas, da cie 6703 con etiu e ıanacvilus, da cie 10443 (Blera) con ramaıas e vefariianaia. L’assenza di una vera norma è confermata dal ricorso sporadico a un quarto segno di sibilante, il sade, sia per il morfo del genitivo (cie 6410, 6703a, 6714, cie 8870)101 che in sede radicale (cie 6410).102 Si può pertanto parlare, a proposito della riesumazione del segno a croce dal novero delle ‘lettere morte’ dell’alfabeto, soltanto di un tentativo veiente, non riuscito, di normalizzazione dell’uso dei grafemi di sibilante. È solo alla fine del vi secolo che il repertorio di segni alfabetici utilizzato per numerare le terrecotte architettoniche del tempio di Portonaccio accerta l’espunzione sia del segno a croce che del sade e la conservazione di due soli segni per le sibilanti, il sigma a tre e il sigma a quattro tratti,103 probabilmente con lo stesso valore che avevano assunto a Caere a partire dal 530 circa, ossia il primo di /s/ e il secondo di /š/ (anche se lascia pensare il fatto che il primo è presente 4 volte e il secondo 11). Ma un’iscrizione approssimativamente coeva, cie 6677, mostra che per la sibilante marcata si è fatto ricorso al sade, che resta nell’uso anche più tardi (cie 6337). Nell’uso delle velari la scrittura veiente segue la norma dell’Etruria meridionale, con sporadiche anticipazioni alla prima metà del vi secolo dell’adozione di c anche davanti ad a (cie 6447) e a u (cie 6454) e conservazione di k e di q nel repertorio di segni usato sulle terrecotte architettoniche (cie 6578, 6622, 6633), in accordo con un’isolata attestazione di k nella prima metà del iv secolo (cie 6424). Altri fatti degni di nota sono la scrittura i per u dinanzi a l (cie 6426), n per m (cie 6449 e forse 6425), hv invece di vh (cie 6405, 6445) e hı al posto del semplice ı (cie 6413). Notevole anche l’azione della dissimilazione vocalica, che porta a scrivere frequentemente mine (7 exx.) invece di mini (14 exx.), con la successiva assimilazione retrograda, da cui mene (3 exx.). Si noti altresì l’occasionale omissione della notazione dell’accusativo, per cui si scrive mi invece di mini (cie 6673, 6675). Per quanto infine riguarda l’onomastica, i gentilizi non rideterminati con -s e i suoi allografi, oppure con -ie,104 sono solo tre: zuqume (cie 6418), etiu (cie 6703) e xırisna (cie 6707). [Testo pubblicato in versione latina (dovuta a M. Buonocore) in cie ii, 1, 5, Pisa-Roma, 2006, pp. 3-16]. 100 L. Agostiniani, in Lalies xi, 1992, p. 44, § 2.7.5; Idem, «agi», lxxxii, 1997, p. 243; Idem, in Atti del xxiii Convegno di studi etruschi, ottobre 2001, in stampa. Ancora meno attendibile è la distribuzione opposta, col segno a croce per /š/ (A. L. Prosdocimi, in A. L. P., M. Pandolfini, Alfabetari e insegnamento della scrittura in Etruria e nell’Italia antica, Firenze, 1990, p. 213). 101 Vedi nota 90. 102 La lettera isolata, presente in un corredo funerario alto-arcaico (cie 6708-6709), potrebbe essere un’abbreviazione di ®uıina. 103 G. De Vita De Angelis, «StEtr», xxxvi, 1968, pp. 403-444, con comoda tabella riassuntiva a tav. viii. 104 Cfr. A. Maggiani, in Annali Fondazione Museo Cl. Faina, vii, 2000, pp. 252-258.

NOVITÀ SU THEFARIE V E L IA NA S hefarie Velianas, sconosciuto fino a quarant’anni fa, è ormai un personaggio, anzi il personaggio-chiave per la storia dei rapporti etrusco-punici, di cui non si può non parlare in apertura di questo convegno. Le novità che lo riguardano sono di ordine genealogico-prosopografico e scaturiscono da una scoperta di natura prevalentemente epigrafica avvenuta nella necropoli di Cerveteri molti anni fa ma solo da poco edita, dopo un lungo e difficile studio.1 Prima però di addentrarmi nell’argomento sono lieto di annunciare che anche dall’Area Nord del santuario di Pyrgi, di cui mostro la pianta aggiornata al settembre 2006,2 è venuta una novità, questa di natura prettamente archeologica. Concerne la grande impresa edilizia cui il personaggio ha legato il suo nome, ossia la rifondazione monumentale del santuario della dea Uni, assimilata per l’occasione, come insegnano le famose Lamine d’oro, alla fenicia Astarte.3 Nelle due ultime campagne di scavo, condotte dall’Università di Roma ‘La Sapienza’ nelle estati del 2005 e del 2006, con la consueta cordiale collaborazione della Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale, abbiamo potuto accertare che l’ingresso dal lato della città nel grande temenos murato di fine vi secolo a.C., che accoglie al suo interno il tempio B, constava non di due, come si supponeva in base a dati di scavo ancora troppo parziali,4 ma di quattro fornici, e tutti di pari larghezza, come risulta dalle fondazioni dei tre pilastri o colonne che li dividevano (Fig. 1). Ne risulta un ingresso largo complessivamente tredici metri, dimensione senza uguali nei santuari dell’Italia del tempo, sia greca che indigena. Esso consentiva a chi entrava di abbracciare con un unico colpo d’occhio non solo il colonnato posteriore del tempio B e parte dell’ala delle Venti Celle, ma anche il recinto dell’area C e, di scorcio, l’intero sviluppo laterale dell’edificio, ponendone in evidenza la lunghezza di ben 100 piedi, che ne faceva il maggior tempio extraurbano mai edificato in Etruria. Poiché inoltre lo stipite destro dell’ingresso coincideva con la testata del lato lungo settentrionale del muro di peribolo, ci accorgiamo che il percorso preferenziale per raggiungere l’altare del tempio,5 per chi beninteso veniva dalla città, prevedeva necessariamente, come poteva intuirsi già dalla collocazione topografica di quello, alquanto spostata verso settentrione rispetto all’asse dell’edificio, l’attraversamento dell’area C.6 Questa doveva pertanto essere dotata sui lati corti, di cui restano purtroppo solo le fondazioni, di due opposte aperture, a somiglianza dell’arcaicissimo Ianus Quirinus del Foro e di strutture consimili, a cominciare da quella loro evocazione che sembra essere stata l’ara Pacis di Augusto:7 con la differenza che le aperture non si trovavano al centro dei lati corti ma erano traslate verso l’estremità di quelli contigua al crepidoma del tempio, posta al riparo della sua grondaia. Possiamo aggiungere che l’auspicato attra-

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1 Negli Atti, in corso di stampa, del convegno in onore di Mario Moretti, tenuto nel novembre 2003 a Civita Castellana [Archeologia in Etruria meridionale, a cura di M. Pandolfini Angeletti, Roma, 2006, pp. 419-451]. 2 Opera di Sergio Barberini dell’Università di Roma «La Sapienza», cui si devono anche tutti gli altri rilievi e disegni che corredano il contributo, a eccezione della Fig. 10. 3 Colonna 2002, pp. 275-309. 4 A partire dalla ricostruzione della pianta di fase realizzata nel 1984 (Arezzo 1985, p. 128, con figura). Cfr. Colonna 2002, p. 299, figg. 30-31. 5 Intravisto sotto la sabbia dell’arenile nel 1980 (Colonna 2002, p. 276 sg., nota 91, figg. 8, 30-31). 6 Nella Fig. 2 sono tracciati indicativamente con linee di punti i principali percorsi ricostruibili all’interno del santuario. 7 Torelli 1992, p. 31 sgg.

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Fig. 1. L’Area Nord del santuario di Pyrgi verso il 500 a.C.

versamento del recinto rivela con ogni probabilità la preoccupazione, di ordine squisitamente politico-religioso, che i visitatori provenienti dalla città rendessero omaggio per così dire strada facendo alle divinità patrie, la Uni Chia e il Tina catactonio suo paredro, venerate nell’area C (Fig. 2),8 prima di entrare nella vasta piazza del santuario, 8 Colonna 2002, pp. 298-303.

novità su thefarie velianas

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Fig. 2. Ipotesi ricostruttiva dell’area C.

aperta sul mare, e accostarsi all’altare della forestiera Uni-Astarte, insediata nella cella del tempio. E il contrario valeva ovviamente per chi veniva dal mare: dopo l’omaggio alla dea tutelare del tiranno, ed eventualmente alle sue ierodùle, insediate nelle Venti Celle, la via più breve e diretta che aveva a disposizione per uscire dal temenos e raggiungere la grande strada carrabile per Caere passava attraverso il recinto delle divinità cittadine, anticipante i culti dell’agorá. L’enfatica dimensione dell’ingresso conferiva al circuito murario del temenos un significato non tanto e non solo di difesa contro eventuali assalitori, nonché di chiusura nei confronti di frequentatori comunque indesiderati,9 quanto di ostentazione visiva dell’ampiezza dell’area murata, dandole l’opportuno risalto urbanistico nel piatto paesaggio costiero, e questo sia per chi la scorgeva dal mare sia per chi la scopriva venendo dalla città per la via Caere-Pyrgi, esistente già quasi da un secolo. La grandiosità dell’ingresso, bastante da sola a evocare con forza la memoria del Velianas, consente inoltre di capire perché quarant’anni dopo, in occasione della ristrutturazione del santuario contestuale all’edificazione del tempio A, i Ceretani abbiano deciso di murarlo e di realizzare la chiusura, data la sua inusitata dimensione, occupante più di un terzo dell’intero lato posteriore del peribolo, non con tamponature ma costruendo un nuovo muro spostato in fuori, anche se solo di un metro, rispetto al precedente (Fig. 3). 9 Una platea irregolare di spezzoni di blocchi di tufo, posta al di fuori e a breve distanza dal temenos e allineata con lo stipite sin. dell’ingresso (visibile in alto nella Fig. 1), potrebbe avere sostenuto una baracca o una tettoia, destinata a un corpo di guardia.

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Fig. 3. L’Area Nord del santuario di Pyrgi verso il 450 a.C.

* Ma lasciamo Pyrgi e portiamoci a Caere. La scoperta cui alludevo all’inizio è avvenuta nell’estate del 1981 nella necropoli della Banditaccia, in una tomba a dado posta a ridosso della via sepolcrale principale, circa 150 metri prima del c.d. Vecchio Recinto e dell’ingresso degli Scavi, a seguito di uno scavo clandestino. L’eccezionale corredo di iscrizioni parietali non scolpite né dipinte ma graffite su un intonaco di argilla, di difficile e talora disperata lettura, ha fatto sì che me ne fosse affidato lo studio e la pubblicazione da parte dell’allora Soprintendente Paola Pelagatti, cui va il mio grato pensiero. Sono riuscito ad assolvere l’impegno soltanto da poco, come ho detto all’inizio,10 dandone conto, com’era doveroso, anche nella ree del 2005 in corso di stampa.11 S’intende che quanto dirò circa i dati monumentali ed epigrafici della scoperta praticamente riassume gli scritti citati. Si tratta dunque di una tomba tardo-arcaica a dado completamente isolato e con pareti completate in larga misura da un paramento in opera quadrata di tufo, contenen10 Cfr. nota 1.

11 [«StEtr», lxxi, 2005 (2007), pp. 168-188, nn. 26-37].

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Fig. 4. Sezione longitudinale della tomba delle Iscrizioni Graffite (Cerveteri).

te due camere assiali e una cameretta laterale, aperta su un breve dromos coperto con soffitto a caditoia (Figg. 4-5). Le camere e la cameretta hanno soffitti a due falde, la prima camera con columen trasversale, e sono arredate ognuna con due letti addossati alle pareti laterali, quelli della cameretta con cuscino semplice, gli altri con cuscino doppio, sicché si hanno in totale otto posti per adulti e due per bambini (nella cameretta). Nella parete divisoria tra le due camere assiali si aprono una porta e due finestrelle, l’una e le altre incorniciate al modo dorico con proiecturae a becco di civetta. L’intera parete divisoria, e soltanto essa, è rivestita da una sottile pellicola di argilla caolinica dipinta con una campitura in color rosso chiaro, cui si aggiungono la campitura in rosso scuro degli stipiti e degli architravi sia della porta che delle finestrelle, con le rispettive cornici dipinte in nero, e una larga fascia tricolore (rosso scuro, rosso chiaro e nero) corrente orizzontalmente al disotto delle finestrelle (Fig. 6). A parte tale fascia, che trova i migliori confronti nelle coeve tombe dipinte di Tarquinia, il sistema decorativo è quello comune a Caere nella seconda metà del vi secolo, recentemente illustrato con dovizia di esempi da A. Naso nel suo libro sulle ‘architetture dipinte’.12 L’eccezionalità della tomba risiede nella serie di graffiti tracciati senza alcun ordine prestabilito esclusivamente sulla parete dipinta, graffiti sia figurativi che epigrafici, in linea di massima contemporanei tra loro. I primi consistono in tre figure umane intere e una testa barbata, rivolte tutte verso sinistra, le figure in vari atteggiamenti, le due meglio delineate sollevanti la destra in un gesto di saluto diretto verso la porta, vagamente evocante la tomba tarquiniese degli Auguri (Fig. 7). Iconografia e stile, per quanto si può giudicare, rinviano a modelli ionizzanti del 530-520 a.C. o poco dopo. Le iscrizioni che sono riuscito a individuare, giovandomi anche, nel corso degli anni ’90, della collaborazione del mio allievo Massimo Morandi e da ultimo di una sofisticata indagine multispettrale condotta nel 2000 dal dott. Giuseppe Fabretti dell’Istituto

12 Naso 1996, pp. 54-89 (con segnalazione della tomba in questione a p. 112, n. 4).

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Fig. 5. Pianta della tomba delle Iscrizioni Graffite (Cerveteri).

Centrale del Restauro, sono in tutto quindici, di cui tre rimaste illeggibili. Di esse una, la principale (n. 1), occupa quasi l’intero architrave della porta, in posizione di grande evidenza, due (nn. 3, 4) si trovano sullo stipite sn. della stessa, sei (nn. 5, 6, 6a, 6b, 7, 8) tra la porta e la finestrella sn., una (n. 9) sulla finestrella sn., due (nn. 2, 2a) sullo stipite ds. della porta, due (nn. 10, 11) tra la porta e la finestrella ds., una (n. 12) sulla finestrella ds. Evidente è la preferenza per la metà sn. della parete, dove si trovano nove iscrizioni su quattordici, con un particolare addensamento nell’angusto spazio tra la porta e la finestrella: la stessa grande iscrizione dell’architrave della porta è spostata prevalentemente a sn. Il numero e soprattutto la collocazione delle iscrizioni escludono a priori qualsiasi riferimento ai letti funerari della camera e ai defunti che potevano giacere su di essi, a differenza di quel che si verifica in età ellenistica a Cerveteri in tombe anch’esse epigraficamente assai ricche, come la tomba dei Rilievi e quella detta appunto delle Iscrizioni.13

Fig. 6. La parete divisoria tra la prima e la seconda camera della tomba. 13 Cristofani 1965 e 1966.

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L’iscrizione di gran lunga più importante è quella tracciata sull’architrave della porta (Fig. 8). Consta infatti di quindici parole disposte su quattro righe, di cui le prime due menzionano un’azione rituale (s¯anice) compiuta «qui, nella (tomba) della famiglia» (thui stalthi), da una donna, Ramatha Spesias, secondo quanto scritto da un Laris Armasiinas detto il Putu, verosimilmente un aruspice o comunque un sacerdote, mentre le seconde due righe menzionano l’esecuzione da parte della stessa (ipa) di uno zuchuna, termine sacrale ancora inesplicato, in favore di un Larice Veliinas, in cui è ovvio riconoscere il marito premorto della donna, titolare della tomba. L’iscrizione sembra commemorare e l’inaugurazione sacrale della tomba e un rito particolare, forse un sacrificio cruento, compiuto a favore del suo primo occupante. Segue in alto sullo stipite ds. un’iscrizione di cinque parole (n. 2) che commemora l’esecuzione di un ®e®, forse Fig. 7. Le figurazioni graffite sulla stessa parete. un’offerta alimentare, «nel medesimo luogo», ipei, da parte di un Velcha Sitaras (Fig. 9). Una terza iscrizione (n. 5) sembra commemorare un’azione compiuta da un Rusi Venthinas. Tutte le altre iscrizioni bastantemente conservate consistono, per quanto è dato di capire, in formule onomastiche in assolutivo, in quattro casi monomie (i prenomi o nomi individuali Thesanthe, Mama, Venel, Thanursie), in cinque casi binomie ([- - -] Anaie, Laris Peianas, Vener Lapaiena, Venel Laithiu, [H]aspe [- - -]csne, cui si aggiungono i citati Velcha Sitaras e Rusi Venthinas). I personaggi sono esclusivamente uomini e portano, quando li esprimono, gentilizi tra loro tutti diversi e quasi tutti non altrimenti attestati. Sono con ogni evidenza i membri di un’eteria, un’accolta di sodales,

Fig. 8. L’iscrizione graffita sull’architrave della porta.

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come quelli di Publio Valerio noti dalla famosa iscrizione votiva di Satricum o, restando in Etruria, come i comasti raffigurati con accanto i loro nomi nella quasi coeva tomba tarquiniese delle Iscrizioni14 (Fig. 10). Con la differenza che nel nostro caso essi hanno lasciato una testimonianza diretta di sé, scrivendo personalmente i propri nomi sulla parete dietro la quale, verosimilmente sul letto di sinistra, come d’uso a Caere per gli uomini, era sepolto il personaggio per onorare il quale si erano riuniti: Larice Veliinas. Chi era questo personaggio? Il gentiliFig. 9. L’iscrizione graffita sullo stipite destro della porta. zio è manifestamente quello stesso che sulle Lamine di Pyrgi scritte in etrusco è reso come Velianas (lamina A) e Veliiunas (lamina B), con una grafia foneticamente conservatrice, imputabile alla cancelleria del tiranno, che continuava a registrare la vocale breve in posizione interna, variamente alterandone il timbro, vocale che nel parlato non veniva più pronunciata, come attesta la grafia WLNŠ della lamina semitica, invece di *WLNYŠ. Infatti, come hanno osservato prima Szemerényi e poi Rix,15 tale grafia presuppone che sia avvenuta la sincope della vocale interna, per cui la i semiconsonante che la precedeva ha assunto ormai il valore di una vocale lunga, rendendo trisillabica la parola. Considerata l’estrema rarità del gentilizio, che a Caere è un hapax e fuori di Caere in età arcaica è attestato solo nell’agro della lontana Fiesole (nella grafia settentrionale, apparentemente ipercorretta, Viliana®),16 non può esservi dubbio che il personaggio sia un membro non solo della stessa gens ma della stessa famiglia cui apparteneva Thefarie. Poiché la morte di Larice può essere collocata, in base alla cronologia della tomba, intorno al 520 a.C., è legittimo postulare che si tratti del padre di Thefarie e che i personaggi radunatisi in occasione della sua sepoltura siano i sodali del figlio, coloro che lo avevano aiutato o si accingevano ad aiutarlo a diventare ‘re’ di Caere. L’assenza del nome di Thefarie tra quelli dei suoi supposti sodali non costituisce a ben pensare una difficoltà, poiché al ‘leader’ del gruppo spettava ovviamente un ruolo ben distinto oltre che gerarchicamente superiore rispetto ai compagni, e d’altra parte tale ruolo, in quella circostanza, e forse non solo in essa, era assolto, come attesta la grande iscrizione e come evidentemente voleva il costume etrusco, dalla vedova del defunto, Ramatha Spesias. Non dimentichiamo, come ci ha ricordato in celebri pagine J. Heurgon, il fenomeno storicamente bene attestato delle donne etrusche ‘faiseuses de rois’.17 Possiamo in conclusione ricostruire in questi termini lo stemma di Thefarie Velianas, limitatamente alla generazione che lo ha preceduto: ↔ Ramatha Spesias ↓ Thefarie

Larice

14 Steingräber 1985, p. 319 sg., n. 74. 15 Szemerényi 1966, p. 125; Rix 1981, p. 89 sg. 16 Dal cippo Antinori, secondo la lettura stabilita da A. Maggiani in ree 1985, n. 58, accolta in Rix 1991, Fs 1.5. Cfr. Morandi 2004, p. 175 sg. 17 Heurgon 1961, pp. 103-111.

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Fig. 10. Parte del fregio dipinto nella tomba tarquiniese delle Iscrizioni.

Anche circa lo status sociale e la genealogia del personaggio la tomba delle Iscrizioni Graffite – questo è il nome che le è stato dato – fornisce alcune preziose indicazioni. La relativa modestia di apparato architettonico e decorativo – del corredo, sottratto dagli scavatori clandestini, purtroppo non sappiamo quasi nulla – non deve trarre in inganno, essendo comune alla generalità, possiamo dire, delle tombe ceretane dell’epoca, spettanti sia al ceto ‘medio’ che a quello aristocratico. Conseguenza di norme cittadine, forse tradotte in leggi antisuntuarie, che hanno posto fine alla costruzione dei tumuli e previsto rigidi limiti di spazio per le tombe a dado, favorendone l’aggregazione in sequenze lineari e provocando la progressiva riduzione del numero delle camere affacciate sul vano d’ingresso fungente da vestibolo, che da tre (tipo Prayon D) scendono a due (tipo Prayon E) e infine a una (tipo Prayon F 1), come nel nostro caso. A testimoniare comunque l’antichità della gens e il ruolo primario, ma nello stesso tempo terminale, giocato in essa dalla famiglia di Larice, stanno la collocazione topografica della tomba e il suo rapporto spaziale con le tombe circostanti. È infatti un dato significativo che la tomba delle Iscrizioni Graffite sia compresa in un ‘cerchio’ pressoché completo di tombe più antiche, del quale viene per così dire a colmare l’esiguo spazio centrale, risparmiato via via dalla loro costruzione (Fig. 11). È estremamente verosimile che tali tombe appartengano allo stesso gruppo gentilizio e ne costituiscano per così dire le ‘case’ dei morti, il quartiere funerario interno alla necropoli, controparte di quello probabilmente esistente nell’abitato. La sequenza comprende: il tumulo monumentale dell’Affienatora (25 m di diam.), databile in base al corredo dell’unica tomba scavata al primo quarto del vii secolo;18 un tumulo anch’esso monumentale (15 m di diam.), ancora senza nome, databile tipologicamente all’ultimo quarto del vii secolo; il dado con le due tombe a camera 2302-2303, costruito al margine della via sepolcrale e databile al secondo quarto del vi secolo; il dado con le due tombe a camera 2304-2305, del tipo Prayon E, allineato col precedente e databile al terzo quarto dello stesso secolo. Si risale pertanto, per incontrare la prima manifestazione funeraria del rango della gens, di oltre 150 anni rispetto alla tomba delle Iscrizioni Graffite. Larice e Thefarie Velianas/Veliinas non sono homines novi, Thefarie non è in questo paragona18 Martelli 1987, p. 6 sg., figg. 1-4, 26-33.

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Fig. 11. Planimetria del settore della necropoli ceretana includente la tomba delle Iscrizioni Graffite.

bile a un Porsenna,19 ma è il rampollo di un’antica famiglia che ha cercato nel ceto ‘medio’ e popolare l’appoggio per imporsi sulla scena politica della città. Non meno significativo sembra il fatto che gli scarsissimi resti riferibili al corredo della tomba delle Iscrizioni Graffite non scendano più in basso del 480 a.C.,20 e che non vi sia traccia di una tomba ascrivibile a Thefarie e ai suoi discendenti. Il che, sommato alla totale assenza del gentilizio nell’onomasticon ceretano del v e dei secoli successivi, accredita l’ipotesi se non di una fine violenta del personaggio e dei suoi familiari, per lo meno di una loro espulsione dalla città. Thefarie Velianas comincia insomma a essere non più solo un nome. Bibliografia Arezzo 1985: Santuari d’Etruria, cat. della mostra a cura di G. Colonna, Milano. Colonna 2001: G. Colonna, Porsenna, la lega etrusca e il Lazio, in La Lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi (Atti della giornata di studi, Chiusi 9 ottobre 1999), Pisa-Roma, 2001, pp. 29-35. Colonna 2002: G. Colonna, Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea, «Scienze dell’Antichità», x, 2000 (2002), pp. 251-336. Cristofani 1965: G. Cristofani, La Tomba delle Iscrizioni a Cerveteri, Firenze. Cristofani 1966: G. Cristofani, Le iscrizioni della Tomba dei Rilievi di Cerveteri, «StEtr», xxxiv, pp. 221-238. 19 Così Colonna 2001, p. 31. 20 Il coccio più recente appartiene a una kylix attica a figure rosse di stile tardo-arcaico con scena di simposio.

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Heurgon 1961: J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris, 1961. Martelli 1987: M. Martelli, Per il Pittore delle Gru, in Prospettiva 48, pp. 2-11. Morandi 2004: A. Morandi Tarabella, Prosopographia Etrusca, i, 1, Etruria meridionale, Roma. Naso 1996: A. Naso, Architetture dipinte. Decorazioni parietali non figurate nelle tombe a camera dell’Etruria meridionale (vii-v sec. a.C.), Roma. Rix 1981: H. Rix, Pyrgi-Texte und etruskidche Grammatik, in Die Göttin von Pyrgi (Akten des Kolloquiums, Tübingen, 16-17 Jamuar 1979), Firenze, pp. 83-98. Steingräber 1985: St. Steingräber (ed.), Catalogo ragionato della pittura etrusca, trad. it., Milano. Szemerényi 1966: O. Szemerényi, Linguistic Comments on the Pyrgi-Tablets, un Studi micenei ed egeo-anatolici, i, pp. 121-127. Torelli 1992: M. Torelli, Typology and Structure of Roman Historical Reliefs, Ann Arbor. [Novità su Thefarie Velianas, «AnnMuseoFaina», xiv, 2007, pp. 9-24].

DISCHI-CORA Z Z A E DI SCHI DI ORNAMENTO F E M M INIL E : D UE DI STI NT E CLASSI DI BRONZ I C E NT RO - ITA L IC I A Delia Lollini, ricordando Giovanni Annibaldi

n un convegno tenuto nel 1989 sul Fucino nell’antichità uno dei migliori conoscitori della protostoria abruzzese, Vincenzo d’Ercole, ha esclamato, a proposito dei dischi bronzei con decorazione geometrica o prevalentemente geometrica, molto comuni tra fine viii e metà vi secolo a.C. sulle rive del grande lago, presso Equi e Marsi, ma largamente presenti anche altrove nell’Italia centrale appenninica: «sembra una specie di maledizione quella che continua a perseguitare questa classe di materiali che ce li rende noti in tutte le possibili forme di acquisizione tranne quella canonica della nostra disciplina e cioè lo scavo archeologico!».1 Apparsi timidamente sulla scena del collezionismo già nel ’700 e agli inizi dell’800,2 i dischi in questione si sono fatti via via più frequenti sul mercato antiquario, in specie romano e napoletano, a partire dal 1850, di pari passo con i primi autentici dischi-corazza,3 con un crescendo probabilmente non a caso parallelo a quello della faraonica impresa del prosciugamento del lago, che tra il 1854 e il 1876 attirò in quell’angolo defilato d’Abruzzo ingenti capitali, tecnici qualificati e grandi masse di lavoratori.4 La totale assenza di dati di scavo ha provocato già nell’ultimo trentennio dell’800 il sorgere di una querelle che ha coinvolto molti dei maggiori studiosi della

I

1 d’Ercole 1991, p. 254. 2 Come prova l’esemplare pervenuto in quell’epoca a un collezionista lombardo, spettante al gruppo Casacanditella (Bruni 2004, pp. 21 e 94, n. 82). Anche l’esemplare di produzione umbra del Museo Oliveriano di Pesaro (Tomedi 2000, p. 55, n. 131, tav. 60) ha buone probabilità di essere di acquisizione settecentesca. Per la classificazione e tipologica la denominazione dei gruppi di dischi si rinvia a Papi 1990 a e Tomedi 2000. 3 Alla vendita all’asta nel 1852 della coll. Jones fu acquistato dal Museo Britannico il primo disco del gruppo Alba Fucens di cui si abbia notizia (Walters 1899, p. 56, n. 369; Tomedi 2000, p. 75, n. 298, tav. 103). Quanto ai dischi-corazza, nel 1850 fu data notizia della coppia da Palestrina spettante al gruppo Capena, acceduta alla coll. Saulini di Roma e giudicata allora uno strumento di culto del santuario prenestino (Braun 1851; Colonna 1992 b, pp. 23-32, figg. 18-20; Tomedi 2000, p. 41, n. 44 sg., tav. 21). Anteriore al 1857 è l’acquisto da parte del marchese Campana dei quattro dischi-corazza della sua collezione, ora al Louvre e all’Ermitage (Colonna 1992 b, p. 31, nota 40; Tomedi 2000, nn. 25, 41, 55, 66). 4 Nel 1856 entrò nel Museo Britannico con la collezione di Sir William Temple, già ambasciatore inglese a Napoli, l’esemplare inedito di cui infra, nota 32 (Fig. 3); altri quattro ne entrarono in quel museo nel 1867 con la collezione del duca di Blacas, anch’egli stato a lungo ambasciatore a Napoli, oltre che a Roma (Walters 1899, p. 56, nn. 368, 370-372; Tomedi 2000, p. 65 sgg., nn. 206, 228, 233, tutti del gruppo Collarmele del Tomedi, e 292, del gruppo Alba Fucens, tavv. 76, 85, 88, 100); nel 1869 fu donata al Museo di Perugia la coppia eponima del gruppo Alba Fucens (Conestabile 1874; Bellucci 1910, p. 105, n. 168; Papi 1990 a, pp. 3 e 41, nn. 33-34, fig. 35, tav. xiii; Tomedi 2000, p. 74, nn. 283-284, tav. 97), nel 1872 due esemplari del gruppo Capracotta (nome dato dal Tomedi al gruppo Civitaluparella della Papi) furono acquistati dal Museo Britannico a Caserta (Walters 1899, p. 56, nn. 374-375; Tomedi 2000, p. 86 sg. nn. 368 e 375, tav. 132 sg.), assieme a un disco-corazza assemblato coi resti di due esemplari del gruppo Numana (Walters 1899, p. 56, n. 373; Tomedi 2000, p. 44, nn. 56-57, tav. 26); nel 1876 il Museo di Dresda acquistò un esemplare del gruppo Alba Fucens «da un negoziante che gira per le maremme toscane» (Helbig 1877; Tomedi 2000, p. 75, n. 290. tav. 99), forse quel Giuseppe Nichetti che vendette lo stesso anno al Museo Civico di Trieste un disco-corazza del gruppo Numana da lui comprato a Pisa (Kunz 1879, p. 57, tav. iv; Papi 1996, p. 122 sg., nota 32, fig. 25; Tomedi 2000, p. 44, n. 54, tav. 25). E la lista potrebbe continuare.

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protostoria italiana, da G. Conestabile a G. Gozzadini, da W. Helbig a F. Barnabei, da P. Orsi a L. Pigorini, anche, com’è normale in questi casi, con clamorosi cambiamenti d’opinione. Le ipotesi all’epoca più accreditate sulla funzione e sulla pertinenza dei dischi in questione (falere, specialmente equine, umboni di scudo, coperchi di ciste, ‘corazze’)5 hanno tenuto il campo finché la pubblicazione della necropoli di Alfedena da parte del Mariani nel 1901 non ha dato il via a un pressoché generale consenso alla loro omologazione ai dischi-corazza di quel sito, riconosciuti come tali perché rinvenuti sempre in coppia e solo in tombe di maschi con armi, in due casi addirittura nella posizione d’uso, ossia indossati dal defunto con un elemento sul petto e l’altro sul dorso.6 Dischi, questi di Alfedena, peraltro assai diversi da quelli di cui parliamo per la fodera di ferro, per l’aggancio a un balteo di placche bronzee foderate anch’esse di ferro, portato a cavallo della spalla destra, e per la superficie decorata con un animale mostruoso di repertorio orientalizzante,7 derivato da quello di ispirazione capenate esibito quasi un secolo prima dalla stele di Guardiagrele, oppure, assai più raramente, lasciata liscia, come nel coevo Guerriero di Capestrano.8 Rimasti a lungo ai margini della ricerca, nonostante la loro spesso elevata qualità artigianale, i dischi con decorazione geometrica, talora includente fregi o figure zoomorfe,9 realizzata nelle tecniche del traforo, dell’incisione, della punzonatura e dello sbalzo, spesso combinate tra loro, sono tornati alla ribalta in questi ultimi anni grazie alle ricerche di Raffaella Papi, che nella monografia dedicata agli esemplari abruzzesi conservati nei musei e in collezioni private italiane, apparsa nel 1990, ne ha censito 110 esemplari,10 accogliendone in appendice altri 18, per lo più di area fucense, raccolti e illustrati da Giuseppe Grossi.11 Parallelamente, con un’opportuna estensione della ricerca ai dischi di provenienza umbra e marchigiana e ai molti, di qualsivoglia provenienza e tipologia, conservati fuori d’Italia, Gerhard Tomedi è arrivato a schedare e classificare nella monografia sulle Italische Panzerplatten und Panzerscheiben, apparsa nel 2000, complessivamente ben 271 dischi che per brevità chiameremo geometrici,12 tralasciando i pochi da lui giudicati sicuramente pertinenti all’abbigliamento femminile13 e ignorando, a quanto pare, i rari esemplari di ambito villanoviano, di accertata pertinenza maschile, da me resi noti nel 1991.14 Resta il fatto che il corpus di testimonianze messo insieme dallo studioso austriaco, giovandosi ampiamente di quanto già raccolto dai suoi predecessori, appare veramente

5 Un bilancio in Mariani 1901, coll. 348-355, 636. Cfr. anche Barnabei, Cozza, Pasqui 1894, col. 396, nota 1; Falchi 1900, col. 480 sg. 6 Mariani 1901, tombe F 43 e D iv 3888, coll. 587 e 600. 7 Da ultima sui dischi-corazza del gruppo Alfedena Jurgeit 1999, p. 100 sg., n. 33. 8 Colonna 1992 b, p. 98 sgg., figg. 7 e 15, tav. ii; Tomedi 2000, p. 19 sg., figg. 6 B-7. 9 Eccezionale la teoria di quattro figure umane schematiche (Percossi Serenelli 1992, p. 176, nota 52, fig. 24, da S. Severino Marche). 10 Papi 1990 a, nn. 1-110, A 1-A 18 (ma i nn. 36 e 93 della Papi sono duplicati dei nn. A 13-A 14 del Grossi, come rileva Micozzi 1991, p. 88). Un aggiornamento del catalogo in Papi 1996, pp. 95-101 e 125 sg., figg. 4-7 e 26. 11 Grossi 1990. 12 Tomedi 2000, nn. 118-381 (ma il n. 275 è una duplicazione del n. 152), 384-385, 388-393, con carte di distribuzione alle tavv. 151-154. Da aggiungere, oltre a quelli di cui alle note 2, 9 e 13, i dischi di formato minore da Nocera Umbra (Bonomi Ponzi 1985, p. 38, nn. 1.24-25, tav. 2; Mangani 2005, p. 105 sg., n. b2, tav. vi, 3; p. 119 sg., n. g3, tav. v, 2), da Taverne di Serravalle (Percossi Serenelli 1992, p. 176, fig. 21), da località varie dell’Ascolano (Lucentini 2000, pp. 309 sg., 321, figg. 1 in alto, 9 e 13, tav. v), quello adattato modernamente all’Ercole umbro da Rimini (Colonna 1970, p. 25 sg. n. 1, tavv. i-ii; Romualdi 1987, p. 304 sgg., n. 3, fig. 208), alcuni della coll. Gorga (Sannibale 1998, p. 115 sgg., nn. 141, 143-146) e un disco grande a Mainz (Naso 2003, p. 165 sg., n. 223, tav. 77). 13 Provenienti da Pieve Torina, Montecassiano e S. Ginesio (Tomedi 2000, p. 51 sg., nota 1). 14 Colonna 1991, pp. 61 sgg. e 81 sg., figg. 6-7 e 18 (esemplari da Norchia e da Veio). Cfr. Iaia 2005, p. 116 sg., figg. 43 b, e (che li considera a torto pertinenti a scudi compositi). Si veda infra, app. 1.

dischi-corazza e dischi di ornamento femminile cospicuo e assai più consistente di quello dei dischi-corazza lisci o con decorazione animalistica, di cui nel 1974 ho potuto classificare solo 48 esemplari,15 divenuti 102 nella monografia del Tomedi.16 I primi dubbi sulla pertinenza maschile e sulla funzione difensiva, comunemente attribuita ai dischi con decorazione geometrica prodotti in ambito propriamente italico, e cioè fuori d’Etruria, sono stati manifestati nel 1963 da Giovanni Annibaldi in base alla constatazione, tuttora pienamente valida, che quelli di provenienza umbra e marchigiana si rinvengono o da soli o in coppie di dimensioni alquanto diverse,17 a differenza dei dischi della necropoli di Alfedena e di quelli raffigurati sulle citate sculture di Guardiagrele e di Capestrano, e sempre in tombe che, almeno a giudicare da quelle messe in luce negli anni ’50 a Pitino (tomba 4) e a Moie di Pollenza (tombe 23 e 24), appaiono sicuramente femminili.18 Il che è stato confermato nel 1976 da Delia Lollini, che ha parlato di dischi terminali di stole per le coppie rinvenute nella tomba 4 di Pitino e nella tomba 2 di Pieve Torina da lei scavata (Fig. 1).19 15 Colonna 1974, pp. 203-205, con carta di distribuzione a fig. 1. Sono ormai convinto che il disco da Civitella del Tronto appartenuto alla coll. de Guidobaldi di Teramo («NSc» 1883, p. 212 sg.; Colonna 1958, p. 77), mancante nel corpus del Tomedi, sia da identificare col n. 6 del mio gruppo Capena, acquistato nel 1922 dal museo di Saint-Louis (cfr. Tomedi 2000, p. 41, n. 40, tav. 19). 16 Tomedi 2000, nn. 22-117, 395-400, con carte di distribuzione alle tavv. 148 (triangoli e dischi) e 149-150. Quanto ai pettorali, vanno aggiunti al corpus del Tomedi un esemplare del tipo rettangolare a lati rientranti della coll. Gorga (Sannibale 1998, p. 112 sgg., n. 128) e uno del tipo Bolsena in collezione privata a Pescara (Papi 2000, p. 140, fig. 4). 17 Come già aveva osservato, a proposito di quelli di Norcia, Guardabassi 1880, pp. 20-23, seguito da v. Duhn 1924, p. 597, che li diceva «typisch für das Abruzzengebiet». 18 Annibaldi 1964, p. 93 sg. Cfr. Colonna 1974, p. 194, nota 4 (“destinazione a volte puramente ornamentale, nell’ambito del mundus muliebris”). 19 Lollini 1976, p. 175; Eadem, in Percossi Serenelli 1998, p. 69 sg. Ingiustificato lo scetticismo da me a suo tempo espresso al riguardo (Colonna 1991, p. 81, nota 42).

Fig. 1. Pieve Torina, tomba 2 (da Percossi Serenelli 1998, fig. 21).

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Ma anche le altre tombe di Pitino contenenti coppie di dischi geometrici o figurati di tipo diverso da quello canonico prima ricordato (tombe 14, 16 e 17) sono tutte da ritenersi femminili, non essendo sufficiente a provare il contrario, in corredi orientalizzanti di eccezionale prestigio e ricchezza come quelli di cui parliamo, la sola presenza di un currus (t. 14) e di uno (t. 14) o due scudi da parata (t. 17), senza la presenza di altre armi o attributi sicuramente maschili.20 Ulteriori conferme sono state offerte dal riesame delle tombe di Nocera Umbra21 e soprattutto dallo scavo della necropoli di Colfiorito di Foligno, edito nel 1997 da Laura Bonomi, dove l’unica coppia di dischi-corazza (lisci come quelli del Guerriero di Capestrano),22 risulta effettivamente provenire da una tomba maschile (t. 177), mentre i molti dischi a decoro geometrico, isolati (tt. 13, 244) o a coppie (tt. 20, 145), vengono tutti da tombe femminili.23 Nonostante tali eloquenti avvisaglie, i dischi geometrici rinvenuti in Abruzzo hanno continuato a essere considerati, nelle citate opere d’insieme e in tutta la restante letteratura, anche la più recente, come dischi-corazza, pur con un crescente imbarazzo, evidente nell’attribuzione ad essi di una generica «funzione distintiva del defunto che accompagnano, sia esso maschio o femmina»,24 e nell’ancor più ambigua definizione di «schlicht verzierte Panzer- oder Zierscheiben», data dal Tomedi a una serie di oltre ottanta esemplari, in prevalenza umbri e piceni, ma anche abruzzesi.25 Nel frattempo però è venuto verificandosi anche in Abruzzo quello che d’Ercole, come ricordato all’inizio, auspicava quasi vent’anni fa, ossia il rinvenimento di dischi geometrici in tombe scavate non solo sotto il controllo dell’archeologo,26 ma sicuramente individuali e conservanti elementi atti a denotare il sesso del defunto.27 Già negli anni ’80 in due tombe femminili della necropoli in località Le Castagne a Forca Caruso, al confine tra Marsi e Peligni, erano stati rinvenuti due dischi piccoli isolati, decorati a traforo, uno di ferro con riporti d’ambra e l’altro di bronzo, interpretati come pendagli (tt. 6 e 9).28 Lo stesso d’Ercole poté scavare nel 1990 a Lecce dei Marsi, in loc. Camerino, una tomba solo in parte manomessa da clandestini, in cui rimaneva in situ sul petto del defunto un disco bronzeo di dimensioni normali decorato a traforo, appartenente a una variante sempli20 Per il currus in tombe principesche femminili: Colonna 1997, p. 15, Bartoloni 2003, pp. 140, 143: Cuozzo 2003, p. 217 sg., nota 145. Per gli scudi rinvio a quanto detto a proposito della tomba Regolini-Galassi in Colonna, Di Paolo 1997, p. 157, nota 65. Cfr. inoltre per la tomba 17 di Pitino Percossi Serenelli 1998, p. 90 sg., e, in generale, Bartoloni 2003, p. 138 sg. 21 Bonomi Ponzi 1985, p. 31 sg. (cfr. anche supra, nota 12). 22 Vedi infra, app. 2. 23 Bonomi Ponzi 1997, passim. 24 Micozzi 1987, p. 51 sg. Sulla stessa linea Papi 1990a, p. 12, e Naso 2007, p. 285 (che cita la sua recensione, sfuggitami, al libro del Tomedi). 25 Tomedi 2000, pp. 51-61, nn. 118-200. 26 Come non è avvenuto nel caso della tomba di Capracotta illustrata da A. De Nino (Papi 1990a, p. 22, tav. ii; Papi 1996, p. 90 sg.: alle armi è “associato” un cinturone con ornati incisi, sicuramente femminile, e altri bronzi che potrebbero esserlo, quali un’armilla a più di tre giri e una fibula a ghiande), della tomba di Luco dei Marsi su cui relata refert P. Barocelli (Papi 1990a, p. 13 sg.; Grossi 1990, p. 85) e di tutti i fortunosi ritrovamenti della zona del Fucino acceduti a collezioni private o musei locali (Grossi 1990). Tra questi sono i resti di un corredo con una coppia di dischi del gruppo Collarmele, il minore imperniato a uno spesso supporto di legno: il pregiudizio della funzione militare dei dischi ha fatto ritenere quest’ultimo un umbone di scudo (Grossi 1990, p. 77, A8) o un’applique di elmo (Tomedi 2000, p. 62, n. 223), mentre può trattarsi di un caso di reimpiego, come decoro di un mobile o di un coperchio di cista. 27 Come non è il caso della t. 1 di Scurcola Marsicana, distrutta prima dell’inizio degli scavi, di cui è stata recuperata solo una coppia di dischi del gruppo Collarmele (Tomedi 2000, nn. 226 e 265), che tuttavia è bastata a fare annoverare la tomba tra le maschili (d’Ercole, Martellone 2004, pp. 40, 46 sg., nn. 29-30). Un analogo falso problema è sorto a proposito dei cinturoni di tipo capenate, la cui pertinenza femminile, massicciamente confermata dagli scavi di Campovalano, di Fossa e ora di Amatrice (Alvino 2004, p. 118, fig. 5), è stata revocata in dubbio per Capena e la Sabina (da ultimo Benelli 2003, pp. 195-197) sulla base di rinvenimenti non controllati (Pettino) o avvenuti in tombe a camera accoglienti sulle banchine e nei loculi parietali sepolture bisome o rimescolate (Colle del Forno e Capena). 28 Papi 1990a, p. 14; Papi 1990b, pp. 124, 186, 188; Tomedi 2000, n. 197 (t. 9).

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ficata del gruppo Casacanditella,29 associato ad elementi di corredo che, dopo un prolungato fraintendimento,30 sono stati riconosciuti come femminili.31 Il successivo scavo della necropoli di Fossa tra i Vestini, nell’altopiano aquilano, condotto sistematicamente dalla Soprintendenza tra il 1992 e il 2000 ad opera soprattutto del d’Ercole,32 ha rivelato una situazione affatto analoga a quella, peraltro recenziore, di Colfiorito: l’unica coppia di dischi-corazza, in questo caso del gruppo Mozzano, è stata rinvenuta in una tomba maschile, databile in pieno vii secolo (t. 118), mentre i dischi geometrici isolati (tt. 142, 414) e le numerose coppie di dischi diseguali (tt. 22, 56, 190 e 365), qui tutti di ferro e tutti lavorati a traforo, vengono senza eccezione da tombe femminili della prima fase della necropoli, datata dalla fine del ix ai decenni iniziali del vii.33 La coppia della tomba più recente (t. 365) raggiunge dimensioni inusitate (diametri rispettivamente di cm 27 e 14,5), col disco maggiore impreziosito, caso unico in tutta la classe, non da un solo castone centrale di ambra ma da nove, disposti in modo da formare un unico umbone, oltre che da quattro file periferiche di minuscole borchiette in agemina bronzea, alternate a file di ornati a traforo (Fig. 2). I dischi di ferro restituiti dalle tombe a tumulo di Fossa meritano di entrare a pieno titolo nel dibattito sul processo formativo dei dischi geometrici italici. È indubbio infatti che rappresentino il diretto precedente dei tanti dischi bronzei di vii-vi secolo decorati a traforo, per i quali, stante l’intrinseca e, aggiungerei, ostentata fragilità, la qualifica di dischi-corazza sarebbe dovuta apparire a priori come particolarmente inverosimile.34 I più vicini ai dischi di Fossa sono, oltre alla coppia di Pieve Torina già ricordata e ai due pure ricordati di Forca Caruso, quelli compresi dal Tomedi tra le sue «schlicht verzierte Zierscheiben», cui va annesso un esemplare inedito entrato nel Museo Britannico col lascito Temple (Fig. 3).35 Si tratta di un gruppo tipologicamente abbastanza omogeneo, che dal nome della località di provenienza di uno degli esemplari abruzzesi più antichi, entrato con la collezione Bellucci nel museo di Perugia, propongo di chiamare gruppo Aielli.36 Ad esso si affiancano in un momento di poco successivo i dischi con decorazione a traforo sintatticamente più complessa, classificati dalla Papi e dal Tomedi nei gruppi Casacanditella e Capracotta (ex Civitaluparella),37 in cui si afferma e rimane dominante il motivo di lontana origine euboica, così frequente sugli scudi villanoviani, della sequenza di cerchi concentrici, variamente modificati con l’inserimento al loro interno di ‘raggi’, alludenti al motivo della ruota solare (Fig. 4).38 29 Papi 1996, p. 95 sg., fig. 4; Cairoli, d’Ercole 1998, p. 117, fig. 10; Tomedi 2000, p. 84, n. 359, tav. 127; D’Ercole, Martellone 2005, p. 71, fig. 16. 30 Che ha fatto parlare di “un guerriero defunto” (Papi 1996, p. 96; Papi 2000, p. 140). 31 Cosentino, d’Ercole, De Luigi, Mieli 2001, pp. 175-178, tav. i e pianta a p. 177 (dove nella didascalia il disco è detto ancora disco-corazza e il fuso è detto pugnale); Grossi 2006, p. 65, fig. 5. 32 Cosentino, d’Ercole, Mieli 2001 (48 tombe della prima fase, databile tra la fine del ix e l’inizio del vii secolo); d’Ercole, Benelli 2004 (168 tombe del vii e vi secolo, e 6 della fase precedente). 33 Per la cronologia delle tombe più recenti: Benelli 2005, nota 11 (a me noto grazie alla cortesia dell’A.). Ivi anche la notizia del rinvenimento di un disco del tipo nella tomba 11 di Colle del Forno. 34 E di fatto è stata a suo tempo rifiutata per l’esemplare eponimo dell’ex gruppo Civitaluparella (Cianfarani 1976, p. 91; Franchi Dall’Orto, La Regina 1978, p. 359). 35 Inv. GR 1856. 12-26. 819. Diametro circa cm 20. Tre coppie di fori da sospensione (due sole conservate) da un lato, due dall’altro. 36 Gli appartengono gli esemplari schedati in Tomedi 2000, p. 59 sg., nn. 182-200, nn. 403-406, tavv. 69-73, cui va aggiunto quello dalla t. 5 di Forca Caruso (cfr. nota 28). 37 Tomedi 2000, pp. 80-88, nn. 338-379, tavv. 120-133. I nn. 346-347 e 362 sono riediti in Naso 2003, p. 160 sgg., nn. 217 e 221, figg. 80b e 80f, tavv. 74 e 76. 38 Riproduco uno dei due esemplari del gruppo Capracotta acquistati per il Museo Britannico a Caserta nel 1872 (cfr. nota 4). Sulla derivazione di alcuni motivi dei dischi dal repertorio della ceramica etrusco-geometrica vedi Colonna 1992a, p. 117.

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Fig. 2. Fossa (Aq), t. 365: disco di ferro con riporti di bronzo e di ambra (rielaborato da d’Ercole, Benelli 2004, tav. 185).

Mancava comunque finora in Abruzzo la scoperta controllata di una tomba con dischi geometrici del tipo più comune in area fucense, che è quello a decorazione incisa e punzonata invece che traforata. La lacuna è stata colmata nell’estate del 2006 da una scoperta avvenuta nel corso dello scavo preventivo condotto dalla Soprintendenza nell’area di ampliamento dell’interporto di Avezzano, in loc. Cretaro. È venuta infatti alla luce una tomba in cui giaceva sul petto del defunto una coppia di dischi del gruppo Alba Fucens nell’accezione ristretta del Tomedi, ossia del più evoluto e complesso tra i gruppi di dischi non traforati, con decorazione mista, geometrica e animalistica, databile nel tardo vii-inizio vi secolo (Fig. 5).39 Anche in questo caso la tomba è risultata, in base agli altri elementi di corredo, senza ombra di dubbio femminile. Sicché abbiamo ormai non solo il dato negativo dell’assenza costante, nelle tombe maschili di scavo controllato, dei dischi geometrici, a differenza di quelli lisci o con animale orientalizzante, ma anche, quel che più conta, il dato positivo del loro ripetuto rinvenimento in tombe femminili. Con la tempestiva pubblicazione della tomba di Cretaro, avvenuta a pochi mesi dallo scavo, si può dire di fatto conclusa, dopo oltre 130 anni da quando Giancarlo Conestabile ha illustrato i primi esemplari della classe, anch’essi provenienti dai dintorni di Alba Fucens,40 la difficile vicenda interpretativa dei dischi geometrici abruzzesi. * 39 Di Giandomenico 2006, tomba 1, nn. 3-4, fig. 128: 1 (qui a Fig. 5), foto alle pp. 164 e 167. Devo la notizia di questa pubblicazione alla cortesia di Giuseppe Grossi. 40 Conestabile 1874.

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Fig. 3. Londra, Museo Britannico: disco bronzeo dalla coll. W. Temple (cortesia dei Trustees of the British Museum).

I dischi a decorazione geometrica o geometrico-zoomorfa sono pertanto non dischicorazza, come si continua a ripetere, pur se con qualche distinguo, ma dischi ornamentali, propri del costume cerimoniale femminile di una vasta area dell’Appennino umbro-marchigiano e abruzzese, avente il suo epicentro sulle rive del Fucino. Possiamo sapere che posto occupavano in quel costume? Purtroppo manca al riguardo una inconfutabile testimonianza iconografica, affiancabile a quella offerta per il costume maschile dalle stele sipontine, nei confronti dei pettorali a lati rientranti,41 e dalle sculture abruz41 Colonna 1984, pp. 269 sg., 277; Tomedi 2000, p. 16 sg., fig. 5.

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Fig. 4. Londra, Museo Britannico: disco bronzeo “da Caserta” (cortesia dei Trustees of the British Museum).

zesi più volte citate, nei confronti dei dischi-corazza.42 Possiamo avvalerci solo dei dati offerti dalle tombe. I dischi isolati, sempre di formato assai ridotto, inferiore ai 10 cm di diametro, si rinvengono su una spalla (Nocera Umbra t. g, Colfiorito t. 20, Fossa tt. 142, 414), sul bacino (Colfiorito tt. 13, 244) o presso il ginocchio della defunta (Nocera Umbra 42 Il torso femminile da Capestrano, coevo alla statua del Guerriero, emana da un ambito culturale che all’epoca aveva ormai espunto i dischi dal costume femminile. L’unica possibile testimonianza iconografica è offerta da un frammento di stele da M. Saraceno, più antica delle stele sipontine, in cui resta la metà di un disco di grande formato con dispositivo di sospensione a bandoliera, sormontato da una cuppella a rilievo (Nava 1992, p. 268, fig. 18 sg.; Tomedi 2000, p. 23, fig. 8 B) (Fig. 6), che sembra la notazione di un seno, confrontabile, anche per le esigue dimensioni, con quelli di un torsetto femminile della stessa necropoli, purtroppo mal conservato nella parte inferiore (Nava 1992, fig. 20). Quanto all’ornato del disco, consistente in quattro fasci di linee incise convergenti verso il centro, è evidente la dipendenza dagli scudi villanoviani del tipo Geiger 1 f (Geiger 1994, pp. 70-72, tav. 52 sg.), di cui si coglie una tarda eco anche in un disco di piccolo formato dal Piceno (Percossi Serenelli 1992, p. 176, nota 52, fig. 21 d; Naso 2000, fig. 30 in basso a d.).

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Fig. 5. Avezzano, loc. Cretaro, t. 1: disco bronzeo (da Di Giandomenico 2006, fig. 128: 1).

t. b), e sono verosimilmente da ritenere appuntati alla tunica o pendenti dalla cintura. Quelli rinvenuti in coppia, sempre di formato nettamente diseguale, erano applicati, come sostenuto a suo tempo da Delia Lollini, ai due capi di una stola trapezoidale di pelle o di tessuto, lunga, a Fig. 6. Foggia, Museo: fr. di stele giudicare dalla distanza in cui nelle tombe da M. Saraceno (da Nava 1992, fig. 18). meglio conservate giacevano i dischi, circa m 0,60-0,80. La stola poteva essere deposta nella tomba distesa o ripiegata su se stessa. Se era distesa la si è rinvenuta o sul braccio sinistro della defunta, col disco maggiore sulla spalla e il minore sulla mano (Pieve Torina t. 2, forse Moie di Pollenza t. 23) (Fig. 1), oppure sul corpo. In questo caso il disco maggiore lo si è rinvenuto sul petto e il piccolo tra i femori (Pitino t. 4, Fossa t. 22) (Fig. 7) o, al contrario, il maggiore sui piedi e il minore sul bacino (Moie di Pollenza t. 24, Colfiorito t. 145) (Fig. 8). Se invece la stola era stata ripiegata su se stessa i due dischi, in tutto o in parte sovrapposti, sono stati rinvenuti entrambi sul petto (Fossa tt. 56 e 190, Cretaro di Avezzano t. 1) o entrambi sui piedi (Fossa t. 365). Più difficile, ma non impossibile, è risalire a come la stola veniva realmente indossata. Poiché nelle tombe il disco maggiore si trova, quando la stola giace sul corpo, in corrispondenza o del petto o dei piedi, mentre quello minore sembra avere una posizione fissa, trovandosi in entrambi i casi sulla regione pubica o tra i femori, si è portati a pensare che, come è a priori verosimile, la posizione d’uso era per il disco maggiore sul petto, sopra o appena più in alto dei seni, per il disco minore sul pube: se il maggiore lo si trova sui piedi ciò significa che la stola è stata adagiata sul corpo in posizione per così dire ribaltata, avendo cura comunque che il disco minore insista sul pube. Il peso non indifferente dei due dischi rende inverosimile che la stola fosse appuntata alla tunica con una o più fibule, come accadeva per es. con i cerchi da sospensione della cultura laziale,

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Fig. 7. Fossa (Aq), t. 22 (da Cosentino, d’Ercole, Mieli 2001, fig. 21).

portati sull’addome (Fig. 9),43 o con i pettorali del tipo di Loreto Aprutino.44 La stola doveva invece essere appesa al collo con un nastro, i cui capi erano avvolti intorno a un’asticella metallica o a un robusto cordone, tenuti in posto sul dorso del disco maggiore da tre, o talora quattro, perni ad anello dalla capocchia a pallottola (gruppi Alba Fucens, Casacanditella e gran parte dei dischi umbri e marchigiani, compresi quelli di Pitino) (Fig. 10). Oppure, nel caso meno frequente in cui i fori sono in coppia, da tre perni a U con capocchie pure a pallottola (gruppo Collarmele e parte degli ‘schlicht verzierte’ del Tomedi, oltre a pochi esemplari dei gruppi Alba Fucens e Capracotta).45 La distanza tra i perni consentiva un certo scorrimento laterale dei capi del nastro, facilitando il suo adattamento al collo della donna. Quanto al disco minore, esso era appeso al maggiore mediante un tirante verticale cucito sull’asse della stola e tenuto in posto sul dorso del disco maggiore da una laminetta fissata con due ribattini pure dalla capocchia a pallottola (Fig. 10), mentre all’altro capo era annodato all’anello del perno che è sempre presente al centro del disco minore. Altrimenti, specialmente nel caso dei dischi lavorati a traforo, sia il nastro per la sospensione del disco maggiore che i due capi della stola erano cuciti sul dorso di entrambi i dischi (serie di Fossa, gruppi Aielli e Capracotta).46 Il disegno a Fig. 11, opera di Sergio Barberini, dà un’idea di come potevano essere indossate le stole di cui parliamo.47 * Resta da accennare al significato simbolico, oltre che di distinzione sociale, eventualmente posseduto dai dischi, anche se in merito si possono formulare soltanto delle ipo43 Riproduco un rilievo parziale della tomba 12 dei nuovi scavi della necropoli di Caracupa (Cassieri 2002, fig. a p. 78). 44 Papi 1990b, pp. 162. 170 sg. 45 Tomedi 2000, p. 100 sg., fig. 23. 46 Espediente cui eccezionalmente si ricorreva anche nel caso di dischi non lavorati a traforo, attestato dalla sequenza continua di forellini marginali (nn. 126, 314 e 376 del Tomedi). 47 I dischi inseriti nel disegno sono i due eponimi del gruppo Alba Fucens editi dal Conestabile. Il loro peso, come ci informa Guardabassi 1880, p. 20, è rispettivamente di gr 336 e gr 64, per un totale di gr 400. Peso che diminuiva notevolmente nel caso dei dischi lavorati a traforo.

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tesi. È verosimile infatti che la loro collocazione sul pube e sul petto della donna non sia casuale ma abbia un valore pregnante, nel senso di una allusione alla capacità di partorire e di allattare, sottolineando in tal modo il ruolo fondamentale da essa posseduto, grazie alla riproduzione e all’allevamento dei figli, nei confronti della continuità della stirpe, come è stato supposto per i grandi anelli da sospensione della cultura laziale (Fig. 9).48 Significato con ogni probabilità estensibile anche a ornamenti più o meno analoghi che connotavano il coevo costume femminile piceno, ugualmente rinvenuti sul petto o sul pube delle defunte, quali i dischi composti da anelli concentrici mobili, tenuti insieme da due barre in croce nella zona cuprense e semplicemente legati a Novilara, e gli stessi anelloni a quattro o sei nodi tipici dell’area cuprense.49 Né diverso sembra essere il significato simbolico dei coevi ‘boucliers du pudeur’, propri delle tombe femminili più ricche della fase Hallstatt D  1 della Svizzera occidentale e del Jura francese (Fig. 12),50 in cui, se prescindiamo dal doppio apice centrale, è evidente la relazione coi dischi piceni ad anelli concentrici, associata a quella, percepibile nella fascia intorno agli apici, coi dischi traforati abruzzesi del tipo di Fossa. La scelta del disco metallico, sia pettorale che pubico, per esprimere il ruolo primario spettante alla donna all’interno del proprio clan familiare trova d’altra parte un vistoso precedente, come già rilevava il Déchelette, nel costume femminile Fig. 8. Colfiorito (Pe), t. 145 dell’avanzata Early Bronze Age danese (da Bonomi Ponzi 1997, tav. 109). (circa xiii-xi sec. a.C.), in cui l’elemento più appariscente, noto da quasi 150 esemplari, è appunto il disco bronzeo di notevole diametro (fino a 28 cm) applicato alla cintura, fornito di un apice assai più sviluppato che nei dischi halstattiani e con la super-

48 Bartoloni 2003, pp. 132-136, fig. 4: 3. 49 Lollini 1976, pp. 143 e 175, fig. 15: 2; Piceni 1999, p. 264 sg., nn. 536 e 540. Foto delle tombe in Dall’Osso 1915, pp. 203, 213 e 223; De Marinis, Paci 2000, p. 541, fig. 64. 50 Déchelette 1927, pp. 352-354, fig. 360; Jacobstahl 1944, p. 82, tav. 244 c; Verger 2001, pp. 301-303, con carta di distribuzione a fig. 12, che include un caso di ‘esportazione’ nell’Heraion di Perachora, avvenuto evidentemente via Piceno e mare Adriatico.

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Fig. 9. Caracupa (Lt), t. 12 (da Cassieri 2002, p. 78).

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Fig. 10. Dispositivo di sospensione dei dischi (rielaborato da Tomedi 2000, fig. 23).

ficie interamente decorata a incisione e talora a traforo (Fig. 13).51 Il fatto maggiormente per noi degno di nota è che la decorazione di questi dischi, consistente di regola in fregi concentrici di spirali continue (Fig. 14), è identica a quella del disco rivestito di lamina d’oro trasportato sul celebre carretto ippotrainato di Trundholm, pertinente allo stesso ambito culturale e cronologico e da identificare senza ombra di dubbio con un vero e proprio oggetto aniconico di culto.52 Il che apre un’affascinante prospettiva ermeneutica, assicurando il collegamento dei dischi femminili danesi col culto preistorico del sole.53 Culto peraltro bene attestato nella protostoria italiana54 e con particolare evidenza nel versante adriatico sia della penisola che della Valle Padana,55 sicché pare giustificato collegare ad esso anche i dischi femminili abruzzesi.56 Tanto più se consideriamo il motivo del fregio continuo di sole ‘ruote’, dominante nel repertorio decorativo dei gruppi Casacanditella e Capracotta (Fig. 4), il cui significato è reso ancora più esplicito, nel caso del primo, dal motivo dei cinque, e talora otto, fasci radiali di ornati alludenti ai raggi del sole nascente, in cui si è visto un segno distintivo dell’ethnos dei Marsi.57 51 Broholm 1952, pp. 54 sg., 57, 62, nn. 195-198, 228 sg., 314-321. Riproduco un modello vivente ispirato al costume della donna di cui si è rinvenuto il sarcofago in tronco d’albero a Egtved, esposto nel Museo Nazionale di Copenhagen (Piggott 1976, p. 163, tav. 43). Cfr. anche Déchelette 1910, p. 208, fig. 118. 52 Hoernes-Menghin 1925, pp. 206 sg., 496 sgg., 508; Broholm 1952, p. 55, n. 199; Ramskou 1970, pp. 18, 22 sg., 26-29; Bettelli 2006, pp. 140-142, con bibl. 53 Così già Déchelette 1910, pp. 413-415, seguito per l’ambito piceno da Dumitrescu 1929, p. 162 sg. 54 Peroni 1989, pp. 308-310, 327-329; Peroni 1994, pp. 100, 148, 306 sgg. 55 Bettelli 2006, p. 141 sg., nota 8 (a proposito dei dischi aurei del tipo di Gualdo Tadino). 56 E forse, tenendo conto dell’ornato a spirali multiple del dilatato settore centrale, gli stessi cinturoni femminili villanoviani e atestini, di cui nel Tirolo si sono rinvenuti echeggiamenti di fase HaD 1 in cui il settore centrale assume una forma quasi discoidale (Tomedi 2004, p. 386, fig. 1 a-b). 57 d’Ercole, Martellone 2005, p. 71.

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Fig. 11. Disegno illustrante come poteva essere indossata una stola con dischi terminali del gruppo Alba Fucens (S. Barberini).

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Fig. 12. Disco bronzeo dalla Forêt des Moydons, loc. la Châtelaine ( Jura) (da Déchelette 1927, fig. 60).

Né può meravigliare che, come è stato sostenuto con forza per l’ambito egeo, sia proprio la donna a esFig. 13. Copia indossata sere posta in speciale rapporto col culto del sole.58 Ciò del costume femminile restituito si verifica nel vii-vi secolo anche in ambito etrusco e da una tomba di Egtved (Danimarca) latino, in relazione a iconografie cultuali assunte dal(da Piggott 1976, tav. 43). l’Oriente, che pongono il disco solare nelle mani o sul corpo o sopra la testa di figure femminili,59 soluzione quest’ultima che riappare a partire dal v-iv secolo tra i Veneti.60 Un’ultima considerazione concerne l’ambiente culturale da cui emanano i dischi abruzzesi. L’erudizione antiquaria romana tendeva a credere che il nome del sole e lo stesso, peraltro sfuggente culto urbano di Sol, risalente ai primordi della città, avessero un’origine sabina,61 e citava in proposito il culto reso al dio dagli Auseli / Aureli, che avrebbero tratto il loro gentilizio dal nome sabino dell’astro.62 Nome sicuramente autentico, 58 Goodison 1989; Hijmans 1992, pp. 33-36. 59 Per le prime due soluzioni Krauskopf 1991, pp. 1261-1268; Krauskopf 2000, p. 319; per la terza, presente solo tra i Latini, in relazione col culto di Mater Matuta, Richardson 1976; Simon 1992, nn. 1-4, tav. 193; Mazzocchi 1997, pp. 130-133, 168 sgg., 181. 60 Lamine atestine e tarde stele funerarie patavine: Fogolari 1988, pp. 166, 177 sgg., figg. 130, 134, 208; Capuis, Chieco Bianchi 1992, p. 100, fig. 105. 61 Varr. L.l. v, 68, 74. 62 Paul. Fest. p. 22 L., s.v. Aureliam. Su tutta la questione resta a mio avviso in larga misura valido Richard 1976, nonostante le obbiezioni di Santi 1992.

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Fig. 14. Copenhagen, Museo Nazionale: disco bronzeo da cintura da Langstrup (da Ramskou 1970, fig. a p. 23).

perché indipendentemente attestato per altra via, attraverso il teonimo etrusco UÛil, che è un imprestito dal sabino anteriore alla metà del vii secolo, età cui risale la più antica attestazione del nome personale UÛile da esso derivato: imprestito mediato dal paleoumbro, cui si deve la monottongazione au > o e la sonorizzazione della -s- preludente al rotacismo (sab. *auselo- > umbro *ozel > etr. uÛil).63 Il che come minimo significa che presso i Sabini il culto del sole esisteva e godeva di un particolare prestigio, tale da irraggiarsi sui loro vicini tirrenici, che vedevano ogni giorno sorgere l’astro dalle montagne dell’Appennino. Né possono sussistere dubbi circa la parentela delle genti del Fucino coi Sabini, nonostante il silenzio delle fonti letterarie. Infatti lo stesso nome dei Marsi autorizza a riportare la loro etnogenesi a un ver sacrum, ovviamente di Sabini, guidati in questo caso 63 Rix 1998, pp. 220 sg., 226 sgg. Monottongazione e rotacismo sono ora direttamente attestati nel paleoumbro di vii secolo dall’iscrizione di Uppsala (Colonna 2001, p. 12 sg., con bibl.). Riserve immotivate sull’origine umbra del teonimo in Torelli 2003, p. 174 (che pensa giustamente al sole nascente).

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direttamente da Marte:64 il che parrebbe denotare un’antichissima autorivendicazione di ‘primogenitura’ rispetto agli altri Italici. Quel che è certo è che in epoca storica ai Marsi fu attribuito un eponimo, Marso, che era detto figlio di Circe, la figlia del Sole,65 e la loro dea principale, Angizia, fu identificata con Medea, altra ‘divinità’ solare, sorella o nipote di Circe.66 Ed è significativo che nel giuramento, non importa se autentico o fittizio, attribuito agli insorti del 91 a.C., da cui avrebbe tratto inizio il bellum Marsicum, sia stato chiamato come testimone, dopo gli dèi di Roma (tra i quali Marte come suo ‘dio patrio’), proprio il Sole, e in quanto progenitore della stirpe (ÁÂӿگ˘).67 Né forse è casuale che due dei maggiori successi degli insorti, nel 90 presso Carsoli e nell’89 tra Ercolano e Pompei, entrambi conclusi con la morte di un console, ebbero luogo, come sottolinea Ovidio (fast., vi, 563-566), nel giorno sacro a Mater Matuta, la dea che annuncia il sorgere del sole, a quanto pare divenuto infausto per le armi romane.68 Appendice 1 Novità a proposito degli scudi della t. 1036 di Veio-Casale del Fosso Ho ricordato nel testo, a nota 13, le due coppie di dischi villanoviani con decorazione geometrica da me interpretati come dischi-corazza, provenienti da Norchia (recupero) e da Veio (t. 1036 di Casale del Fosso, a inumazione in fossa). L’essere in entrambi i contesti associate a due scudi doppi del tipo ancile ha ingenerato la convinzione di un loro rapporto, peraltro non meglio specificato, con quegli scudi (così Iaia 2005, p. 116 sg., fig. 43). La mia interpretazione era basata sulla ‘stratigrafia rovesciata’ del corredo della tomba veiente, prelevato nel 1915 con una colata di gesso che, una volta in museo, era stata semplicemente capovolta, portando in superficie quello che in realtà si trovava sul fondo della fossa, a cominciare dai supposti dischi-corazza. Ne concludevo che in situ questi giacevano a contatto col torso del morto, anche se non in posizione d’uso, coperti entrambi quasi per intero da uno dei due scudi doppi. Supponevo inoltre che i dischi di questi ultimi, non conoscendone la faccia esterna, ancora annegata nel gesso, e fidandomi a torto di un disegno di scavo (fig. 13 del mio saggio), fossero semplicemente agganciati tra loro, senza il ricorso a un elemento di raccordo come avveniva in quelli di Norchia. La situazione è cambiata con lo ‘scavo in museo’ della tomba, meritoriamente compiuto da Francesca Boitani coi tecnici del Museo di Villa Giulia in occasione della mostra “Veio Cerveteri Vulci. Città etrusche a confronto”, in cui la tomba è stata esposta (Boitani 2001, che Iaia mostra di ignorare). Una volta staccati i dischi degli scudi doppi dalla morsa del gesso si è constatato che anch’essi, come quelli di Norchia, sono collegati sulla faccia esterna da una piastra di raccordo, con la differenza che le piastre sono di forma subcircolare (‘diametri’ di cm 18 e 19) e non hanno provocato il risparmio della decorazione dei dischi in corrispondenza del loro ingombro. Il disegno a Fig. 15, solo indicativo per quanto riguarda la decorazione della piastra, sostituisce pertanto quello dato alla fig. 19 del mio saggio. La scoperta ci dà la conferma che i dischi isolati e di minore diametro della t. 1036 non avevano la funzione, cui sembra alludere Iaia con l’ambigua definizione di «dischi minori di scudi plurimi», di collegare tra loro i due dischi degli scudi doppi. Pertanto resta pienamente disponibile per essi, e per quelli del recupero di Norchia, la funzione di dischi-corazza (forse da estendere anche ai dischi riprodotti da Iaia alle sue figg. 44c e 45a, rispettivamente della coll. Cima-Pesciotti e da Tuscania). 64 Sempre valide le considerazioni di Letta 1972, pp. 26-30, anche se il teonimo alla base dell’etnico era Maris, come vuole Prosdocimi 1994, p. 370 sg. 65 Plin. n.h., vii, 11; xxv, 11; Gell. xvi, 1; Solin. ii, 27. 66 Fonti in Letta 1972, p. 56 sg. 67 Letta 1972, p. 54, nota 48 bis, con riferimento a Diod. xxxvii, 11. 68 Sironen 2006, pp. 118 sg., 124 sg. Un’eco del panico che colpì Roma dopo il disastro di Carsoli (App., B.C. i, 43, 194 sg.) può forse cogliersi nell’inaspettato quanto effimero risveglio del culto di Mater Matuta a Satricum, attestato in questi anni dalla dedica di un duoviro della colonia di Anzio (cil i, 1552).

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Fig. 16. Cerveteri, Museo Nazionale: lastra dipinta da Ceri (da Bellelli 2006, fig. 39). Fig. 15. Disegno ricostruttivo di uno degli scudi compositi della t. 1036 di Veio-Casale del Fosso (dis. G. Colonna-S. Barberini).

Aggiungo che possiamo finalmente capire perché il Colini nella relazione preliminare, edita postuma nel 1919, parli di sette scudi, mentre l’inventario del museo ne registra soltanto sei. Il Colini si riferisce agli “scudi” quali erano visibili in situ (parte di un disco-corazza, i due scudi doppi e le due piastre di raccordo, omesse nel citato disegno di scavo), l’inventario agli “scudi” quali apparivano in museo dopo l’eccezionale trattamento subito dalla tomba (i due dischicorazza e i due scudi doppi).

Appendice 2 Precisazioni sui dischi-corazza italici di metà vi-inizi v secolo La pubblicazione della coppia di dischi-corazza da Colfiorito di Foligno, ricordata nel testo (cfr. nota 22), invita a fare alcune precisazioni sulla produzione più recente dei dischi-corazza. Acquista ormai consistenza la variante del gruppo Alfedena con superficie interamente liscia, priva del tipico ornato inciso a figura di quadrupede con teste di cigno: variante non cronologica ma areale (come già anticipato in Piceni 1999, p. 106). La testimonianza più antica e significativa è offerta dal Guerriero di Capestrano. Gruppo Alfedena, variante Capestrano 1-2.

Coppia raffigurata sulla statua del Guerriero di Capestrano (Colonna 1992a, p. 108).

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Coppia da Colfiorito di Foligno, t. a fossa 177 (Bonomi Ponzi 1997, pp. 30, 114 e 363, n. 12, fig. a colori 21), datata alla fine del vi secolo (ibidem, p. 360). Coppia da Aleria, t. a camera 90 (Colonna 1981, p. 175 sg., fig. 3, con bibl. [= Colonna 2005, p. 174]; Tomedi 2000, p. 49. nn. 112-113, tav. 54). L’inumazione più antica, che probabilmente è quella del guerriero, è datata dalla ceramica attica al secondo quarto del v secolo. Coppia dispersa da Rocchetta (ce), tomba scavata prima del 1830 (Caiazza 1986, p. 74, con bibl.; Tomedi 2000, p. 50 sg., nn. 116-117). L’assenza dell’ornato inciso è assicurata dalla menzione dell’«immagine di un dragone» a proposito «di alcuni ornamenti bronzei», e non degli «scudi» nominati poco prima, giustamente identificati come dischi-corazza (diversamente Papi 1996, p. 100). Il “dragone” sarà stato su dischi-pendaglio come quello da Pontecagnano (Cinquantaquattro, Cuozzo 2003, p. 262 sgg.).

Riferibile al gruppo o alla variante Capestrano è una raffigurazione a piccolissima scala, individuata solo di recente (Bellelli). 9. Disco dipinto sul petto del guerriero armato di lancia e di spadone ricurvo che apre il corteo trionfale su una sima frontonale da Palestrina, loc. Colombella (Bellelli 2006, p. 84, con fig.), datata alla fine del vi secolo (Colonna 1992b, p. 40 sgg.). Esiste anche una sottovariante seriore, in cui manca la cerchiatura di ferro, il balteo è tirato a martello dalla stessa lamina dei dischi e questa è rinforzata sia nel balteo che nei dischi con costolature parallele. 10-11. Coppia da Pietrabbondante, loc. Troccola, t. 1 (Tomedi 2000, p. 94, nn. 399-400, tav. 144, con bibl.), datata alla prima metà del v secolo. Una variante strutturale del gruppo Alfedena è quella in cui i dischi, lisci o decorati, sono tenuti in posto non da un balteo e da una sola cinghia di raccordo, entrambi obliqui, ma da due cinghie quasi verticali passanti sulle spalle e da due cinghie orizzontali passanti sotto le ascelle. È il sistema di allacciamento che viene adottato nel Sud iberico per i dischi-corazza, che fanno la loro apparizione nel corso del v secolo (Colonna 2006, p. 17, fig. 16 [da cassare la menzione della coppia da Pietrabbondante]). Gruppo Alfedena, variante Rapagnano-Ceri 1-2.

3.

Coppia da parata da una tomba di Rapagnano (ap), con unico attacco centrale per le due cinghie verticali e complessa decorazione figurata a sbalzo con scene di lotta a piedi e a cavallo (Tomedi 2000, p. 93, nn. 395-396, tav. 141; Naso 2000, pp. 190 sg., 316). Fine vi-inizio v secolo. Disco pettorale del guerriero della lastra dipinta da Ceri, con attacchi distinti per tutte e quattro le cinghie, privo della cerchiatura in ferro (Colonna 1974, p. 197, nota 13; Bellelli 2006, pp. 77-99, con altra bibl.) (Fig. 16). Inizio v secolo.

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M I GR A NTI ITALICI E ORNATO F E M M INIL E ( A P RO POSITO DI PERUGIA E D E I S A RS INAT I QUI PERUSIAE CONS E D E R AN T)

C

on una recente ricerca ho potuto accertare che il monte Tezio – il più alto dei monti sorgenti a settentrione di Perugia (m 961) e il più vicino alla città, da cui dista solo 10 km – accoglie a mezza costa del suo versante orientale, incombente sul Tevere (Fig. 1), un lucus del dio Tec San® finora inesplorato.1 L’esistenza del santuario è provata, oltre che da recuperi di superficie degli anni ’30 del secolo scorso, da iscrizioni etrusche di iii secolo a.C. col nome del dio abbreviato, e per questo finora incompreso, apposte su tre cippi di confine e sul coperchio di un dolio.2 Oggetto di un intervento di manutenzione ancora in età giulio-claudia,3 questo tipico santuario extraurbano si trovava su un itinerario collegante Perugia a Gubbio assai più antico di quello ribattuto in età ellenistica dalla Via Amerina, e precisamente laddove esso incontrava una copiosa sorgente ancora attiva, la Fontenova di Migiana (Fig. 2, A), per poi iniziare la discesa verso il passo del fiume, confine naturale non solo tra le due città ma anche tra Etruschi e Umbri. Il che evoca la situazione dell’unico altro santuario del dio finora noto, ma non localizzato sul terreno, ubicato nella valle di Sanguineto, sulla riva nord del Trasimeno, al confine tra il territorio di Cortona e quello di Perugia.4 La scoperta acquista un particolare rilievo nei confronti del poco noto pantheon perugino5 perché consente di affermare che il monte, almeno dall’epoca della grande fioritura raggiunta nel iv-iii secolo a.C. dalla città, divenuta allora uno dei capita Etruriae populorum, era per essa tout court ‘il monte di Tec’. Infatti il nome portato ancora oggi dal monte, registrato nei documenti d’archivio a partire dal xii secolo, non è altro che l’aggettivo etrusco *Tec-ie, alterato dalla palatalizzazione della velare a contatto con -i(dovuta a un’ovvia interferenza fonetica dell’umbro: *Tecie > *Tezie, così come Luvcie diviene a Orvieto Vuvzie, a Perugia Vusi), e quindi latinizzato nella sola desinenza.6 Il carattere sacrale della montagna è anticipato a età tardo-arcaica dal rinvenimento alla fine dell’800 di una stipe votiva, di cui nel 1900 il Museo Archeologico di Firenze ha acquistato un lotto di 23 bronzetti schematici tutti di produzione umbra meridionale, databili tra la fine del vi e il v secolo a.C., recentemente riprodotti da Adriano Maggiani.7 Come nel caso della coeva e per molti aspetti analoga stipe del vicino M. Acuto di Umbertide (m 926), di cui la Soprintendenza dell’Umbria ha recuperato ben 1800 bronzetti con lo scavo del recinto sommitale di età del Bronzo, trasformato all’epoca in un frequentato luogo di culto,8 così è verosimile che i bronzetti del Tezio provengano dal recinto, affatto simile ma inesplorato, esistente anche sulla sua sommità, ben visibile non solo dalla vicina Perugia ma anche da Assisi e perfino da Gubbio (Fig. 2, B). Ma anche se così non fosse, la stipe conferma comunque che il Tezio ha assunto nei confronti di Perugia, in 1 Colonna 2007a (in corso di stampa negli Studi in onore di G. Camporeale). 2 Edite tutte da lungo tempo (cii 1926, cie 3436-3438; «StEtr», xii, 1938, pp. 305-310), compaiono anche in «ThesLE» i, p. 332, s.v. tecsa, e in Rix 1991, Pe 8.5-8. 3 Come prova una tegola col bollo di L. Norbanus, console nel 19 d.C. 4 Colonna 2007a, § 1. 5 Oggetto di una recente disamina (Maggiani 2002). 6 Meiser 1996, pp. 189-194. Per Vusi vedi però le riserve di Agostiniani 2002, p. 314. 7 Maggiani 2002, p. 275 sg., figg. 7-9. 8 Cenciaioli 1998.

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Fig. 1. Il M. Tezino, propaggine del Tezio, visto dalla strada che sale dalla valle del Tevere. La freccia segnala, al di là della dorsale di Castel Procoio, la posizione del santuario di Tec San® (Fontenova di Migiana).

coincidenza cronologica con la strutturazione urbana della comunità, definitivamente realizzata nel terzo venticinquennio del vi secolo,9 un ruolo affine a quello avuto dal Soratte nei confronti sia di Falerii che di Capena, o dal Tifata nei confronti di Capua, tanto per citare alcuni tra i monti più carichi di valenze sacrali per le città sorgenti ai loro piedi o nelle immediate vicinanze.10 Ma su tutto questo mi permetto di rinviare al mio saggio in corso di stampa. Mi soffermo invece su un’altra ‘scoperta’, che getta qualche luce sulla precedente storia del Tezio, finora del tutto sconosciuta. Non esiste infatti solo il citato recinto di sommità, verosimilmente risalente, come quello di una sua propaggine, il M. Civitelle (Fig. 2, C), all’età del Bronzo recente o finale, come è stato verificato con lo scavo per quello del M. Acuto. La consultazione dell’inventario del Museo Archeologico di Firenze mi ha permesso infatti di conoscere meglio il «nucleo di materiali di età orientalizzante» entrato nel museo assieme ai bronzetti citati, come ricorda incidentalmente Maggiani. Si tratta di un consistente nucleo di reperti bronzei, connotati culturalmente anch’essi come non etruschi ma in senso lato italici, databili quasi tutti tra la fine dell’viii e la prima metà del vi secolo a.C., di provenienza verosimilmente funeraria.11 L’acquisto è 9 Come provano in primo luogo i sepolcreti disposti ad anello intorno all’area dell’abitato a partire dalla seconda metà del secolo. Cfr. Cenciaioli 2002, p. 58; Roncalli 2002, p. 142 sgg.; Stopponi 2002, pp. 232 sgg., 237 sg. 10 In ambito umbro si possono citare i monti Ingino e Ansciano per Gubbio (Sisani 2001, pp. 33-35) e il Colle S. Rufino, propaggine del Subasio, per Assisi (Monacchi 1986). 11 Ne do in appendice l’elenco ragionato (elenco A), basato per i materiali inediti non su autopsia ma sull’inventario e su alcune foto (da cui ho tratto i disegni della Fig. 6), fattemi gentilmente avere dalla Soprinten-

migranti italici e ornato femminile

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Fig. 2. Stralcio della tavoletta 122 I SO dell’igm. A: santuario di Tec San® (Fontenova di Migiana); B: recinto sommitale del Tezio; C: recinto del M. Civitelle.

avvenuto in due date diverse, il 30 giugno (inv. 79047-79057) e il 7 settembre 1900 (inv. 79086-79096), in questa seconda tornata insieme ai citati bronzetti votivi e ad alcuni strumenti e oggetti litici (inv. 79097-79106).12 La località di provenienza è indicata per entrambi i lotti come «Montetezio (Perugia)», toponimo che nei rispettivi buoni d’acquisto è precisato, a scanso di possibili equivoci, che invero non sono mancati (vedi più avanti), come «Monte Tezio, montagna del comune di Perugia».13 Inoltre una chiosa d’epoca, apposta in calce alla pagina dell’inventario, precisa che i nn. 79097-79102, corrispondenti ai bronzetti votivi, «sono trovati [sic] a 2 km dagli oggetti precedenti», coi quali manifestamente non hanno nulla da spartire (e la cui provenienza, se i bronzetti vengono dalla cima del Tezio, sarà da ricercare alquanto più in basso, in corrispondenza dei coltivi). E anche per le due asce comprese nel primo lotto (inv. 79054-79055)14 l’inventario informa che la seconda, detta, a differenza della prima, di «età del Bronzo», è stata trovata anche in un luogo diverso (nel recinto sommitale, assieme ai bronzetti votivi e agli strumenti litici?).

denza Archeologica della Toscana, nelle persone delle dott.sse Giuseppina Cianferoni e M. Cristina Guidotti. Devo un particolare ringraziamento, per l’accoglienza ricevuta in un giorno semifestivo negli uffici della Soprintendenza, alla dott.ssa Anna Rastrelli. 12 Questi ultimi consistenti in una «ascia di pietra, lunga 0,055» (79103), quattro «cuspidi di pietra in silice, lunghe da 0,035 a 0,05» (79104), un «coltello di silice, frammentario, lungo 0,06» (79105) e un «pezzo di ghiaia, lungo 0,031» (79106). 13 Cfr. Maggiani 2002, p. 276, nota 54. 14 Sono i nn. 9 e 10 dell’elenco A in appendice.

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Fig. 3. Museo Archeologico di Firenze, bronzi rinvenuti «tra Bastia e Assisi», acquisto 1901 (fot. Soprintendenza Archeologica per la Toscana).

Responsabile dei laconici ma preziosi distinguo registrati nell’inventario del museo in merito ai dati di provenienza non può essere stato che il venditore dei due lotti, un non meglio noto Dionisio Breghi,15 che già solo per queste precisazioni, ma anche per la puntigliosa inclusione tra gli oggetti offerti in vendita di frammenti e mere ‘curiosità’, affatto prive di valore venale, come il ricordato «pezzo di ghiaia» (inv. 79106), si qualifica non come un mercante antiquario ma come un raccoglitore locale, fungente per l’occasione da intermediario tra gli scopritori degli oggetti e il museo. Al medesimo personaggio si deve poco dopo, il 7 febbraio del 1901, la vendita al museo fiorentino di un terzo lotto di bronzi, in parte simili ai precedenti anche per la mediocre conservazione e per la cronologia, e anch’essi rimasti finora inediti, rinvenuti, come recita l’inventario, «tra Bastia e Assisi» (inv. 79173-79196) (Fig. 3).16 E in una lastra fotografica eseguita subito dopo quest’ultimo acquisto, riprodotta parzialmente, oltre che scomposta in tre immagini, da Luigi A. Milani nella Guida del museo del 1912 e nelle sue ristampe,17 compare una scelta di bronzi attinti da tutti e tre i lotti (Fig. 4). Bronzi che insieme furono esposti nella sala del Museo Topografico dedicata ai Perusini, inaugurata nel 1909, in cui sappiamo che un ripiano della vetrina centrale era riservato ad essi, con al posto d’onore i dischi, considerati come «tipici del territorio perugino».18 Di fatto quel che soprattutto accomuna i ritrovamenti del M. Tezio e della piana di Assisi, e che a giusto titolo più impressò il Milani, inducendolo al loro acquisto, è la pre15 Nell’elenco telefonico di Perugia e provincia il cognome è attestato due volte a Perugia, una volta a Corciano, due volte in campagna presso Rancolfo, borgo sul versante sinistro del Tevere di fronte al M. Tezio, una volta a Umbertide, Città di Castello e Citerna, località, come Rancolfo, dell’alta Valle Tiberina. 16 Anche di questo lotto do l’elenco ragionato in appendice (elenco B), in parte basato sulla foto del Museo n. 37492 (Fig. 3). 17 Milani 1912, tav. cxx (così anche nelle ristampe del 1917 e del 1923). La lastra, fortunatamente scampata all’alluvione del 1966, reca il n. 1098. 18 Milani 1912, pp. 24, 80 e 298, sala xxiv (la prima delle tre sale allora costruite nel Giardino come ampliamento del Topografico, demolite nel 1930 assieme al muro di cinta su via della Colonna).

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Fig. 4. Museo Archeologico di Firenze, bronzi rinvenuti sul M. Tezio, acquisto 1900, e «tra Bastia e Assisi», acquisto 1901 (fot. Soprintendenza Archeologica per la Toscana).

senza, eccezionalmente numerosa, dei dischi da sospensione a decorazione geometrica, eseguita per lo più a traforo. Sono ben sette quelli dal M. Tezio (Fig. 5: 1-7) e altrettanti quelli rinvenuti «tra Bastia e Assisi» (Fig. 7: 1-7), includenti in entrambe le serie, come è normale, esemplari di formato sia grande che piccolo. Si tratta di una classe di dischi propria del costume femminile centro-italico, applicati, il grande in alto e il piccolo in basso, ai due capi di ‘stole’ portate appese al collo (Fig. 8)19 (e indebitamente di norma assimilati, anche nella letteratura più recente, ai dischi-corazza della stessa area culturale).20 Mal noti all’epoca del Milani, sono stati oggetto di una recente monografia di Raffaella Papi, integrata da un’appendice di Giuseppe Grossi, dedicata agli esemplari di produzione abruzzese conservati nei musei italiani, e di una più generale trattazione da parte di Gerhard Tomedi nel volume dei Prähistorische Bronzefunde dedicato ad essi, ai dischi-corazza e ai più antichi pettorali rettangolari a lati rientranti.21 La Papi ha il merito di aver riprodotto con ottimi disegni,22 riutilizzati nel presente lavoro,23 anche la maggioranza dei dischi venduti dal Breghi, senza tuttavia far tesoro delle anticipazioni del Milani e senza tener conto della provenienza registrata nell’inventario del museo, considerata dubbia (e trascritta erroneamente come «Montelesio» per quelli del Tezio). Da parte sua Tomedi si è limitato a ripubblicare i dischi editi dalla Papi, abolendo il punto interrogativo da lei attribuito alla loro provenienza e nel contempo correggendone arbitrariamente la 19 Rinvio in proposito a Colonna 2007b, in corso di stampa. 20 Così tra gli altri Naso 2003, pp. 160-166, nn. 217-223. 21 Papi 1990, Tomedi 2000. 22 Opera di G. Miceli della Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo. 23 Previa uniforme riduzione di scala a opera di S. Barberini dell’Università “La Sapienza” di Roma, cui si devono anche tutti gli altri elaborati grafici corredanti il presente lavoro.

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Fig. 5. Museo Archeologico di Firenze, dischi a decoro geometrico dal M. Tezio (nn. 1-6 da Papi 1990, n. 7 da fot. della Soprintendenza Archeologica per la Toscana).

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Fig. 6. Museo Archeologico di Firenze, bronzi dal M. Tezio (da fot. della Soprintendenza Archeologica per la Toscana).

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Fig. 7. Museo Archeologico di Firenze, dischi a decoro geometrico rinvenuti «tra Bastia e Assisi» (i nn. 3, 6 e 7 da Tomedi 2000, gli altri da fot. della Soprintendenza Archeologica per la Toscana).

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trascrizione «Montelesio» in «Monteleto», nome di un monte e di una frazione a nord di Gubbio,24 che nulla ha a che vedere col territorio di Perugia. Il museo di Firenze possedeva già due dischi della classe a decoro geometrico, a differenza di quelli dell’acquisto Breghi veri pezzi da collezione, ottimamente conservati e patinati,25 venduti nel 1893 dal noto antiquario fiorentino Giuseppe Pacini come provenienti «dal Trasimeno» (Fig. 10: 4-5).26 Ad essi e ai sei del Tezio acquistati il 30/6/1900 si riferisce Lucio Mariani quando scrive, nell’appendice aggiunta credo in bozze alla monografia su Alfedena, in cui aggiorna la lista dei dischi-corazza data nel testo, di aver appreso dal collega Giuseppe Pellegrini, ispettore presso il museo di Firenze, dell’esistenza nei depositi di quel museo di otto dischi, «alcuni con semplice decorazione graffita, altri con decorazione a giorno, di un tipo finora a me sconosciuto».27 Diversamente la pensava Milani, che a quanto pare aveva curato personalmente l’acquisto dei dischi e li considerava come una sua riserva scientifica, convinto del loro rapporto non con l’armamentario italico ma con «la religione dattilica»28 e col «culto solare ed astrale korybantico» introdotto in Italia dagli Etruschi:29 argomento che si proponeva di approfondire in un contributo deFig. 8. Donna fucense con ‘stola’ (i dischi sono quelli editi in Conestabile 1874, stinato al iv volume degli Studi e Materiali del peso complessivo di gr 400) da lui curati,30 rimasto inedito con la sua (dis. di Sergio Barberini). morte. Confortato dall’apparente associazione con i più volte citati bronzetti votivi, smentita dall’inventario del museo, come s’è detto, Milani parla dei dischi come dei «tipici dischi votivi … propri del Perugino, dei quali abbiamo a Firenze un eccellente 24 Vedi le carte di distribuzione in Tomedi 2000 alle tavole 147 (sigla Ml), 151, 152 e 154. Per Monteleto, sede di un castelliere e di un santuario: Sisani 2001, pp. 37, 67 sg., tav. ii. 25 Tanto da essere gli unici attualmente esposti nell’Antiquarium dei bronzi del Museo (a partire dai primi anni ’80), assieme ai due ceduti dallo Stato nel 1950, anch’essi splendidi pezzi da collezione (Papi 1990, nn. 7 e 59; Tomedi 2000, rispettivamente nn. 343 e 322), credo provenienti dalla coll. Gorga. 26 Papi 1990, p. 49 sg., nn. 57-58, figg. 54-55; Tomedi 2000, p. 66 sg., nn. 225 e 237, tavv. 84 e 90. Definiti «umboni di scudo» nell’inventario del museo, nn. 75410-75411. 27 Mariani 1901, col. 636. 28 Milani 1909, p. 16, nota 1. 29 Milani 1912, pp. 80, 298. Convinzioni analoghe, ma nei confronti degli anelloni del tipo Montegiorgio (attestato anche nel trovamento tra Bastia e Assisi: n. 33 in appendice), aveva manifestato uno studioso locale con interessi vagamente antropologici, noto al Milani (Compagnoni Natali 1899, p. 135: cfr. Coen 2006, p. 35; Seidel 2006, p. 132, tav. 72). 30 Cfr. nota 28.

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saggio»,31 provenienti da «due distinti depositi sacrali trovati a Montesio»,32 oltre che da quello trovato tra Bastia e Assisi. Colpisce la storpiatura del nome del Tezio, ripetuta nella didascalia della tavola cxx della Guida, dove per di più esso è riferito erroneamente anche a una parte dei bronzi del trovamento della piana di Assisi, come del resto colpisce l’ignoranza della chiosa dell’inventario circa la provenienza ‘separata’ dei soli bronzetti votivi. È evidente che l’anziano Milani faceva affidamento solo sulla propria memoria, e ne restava ingannato. Il fatto merita di esser messo nella dovuta evidenza, perché l’inesistente toponimo ‘Montesio’ ha di certo rappresentato un rovello per gli studiosi interessati, tanto da far pensare che ricada su di esso la maggiore responsabilità del tenace silenzio osservato sui materiali in questione, altrimenti inspiegabile, tanto più essendone stata esposta, come s’è detto, una significativa scelta nel molto visitato Museo Topografico dell’Etruria di Firenze, dal 1909 almeno fino al 1925-1930, scelta in seguito trasferita in parte nell’Antiquarium dei bronzi al i piano e in parte, credo, tra i ‘confronti italici’ al ii.33 Ignorati nella pur solitamente bene informata Italische Gräberkunde di Friedrich v. Duhn, che pure concede spazio ai dischi di Norcia,34 lo sono stati anche, per quanto so, da tutta la letteratura su Perugia e il suo territorio, compresi gli atti del convegno su Perugia etrusca del 2001, come da quella su Assisi (compresi gli atti del convegno su Gli Umbri del Tevere del 2000),35 né se ne trova traccia nella letteratura sui dischi, prima beninteso del loro ingresso nelle monografie della Papi e del Tomedi. Sorprende in particolare il silenzio di Luisa Banti nel lavoro sulla storia e la topografia del territorio perugino, che pure ha pretese di sistematicità, e anche in quello sui più antichi rapporti etrusco-umbri, in cui la studiosa si sofferma su Trestina e Fabbrecce, citando ripetutamente la Guida del Milani, familiare a lei come a tutti gli etruscologi, in Italia e fuori.36 Circa il contesto di provenienza dei bronzi può invero sorgere il sospetto, indipendentemente da ogni illazione sui presunti «depositi sacrali», che si tratti non di tombe ma di ripostigli, dato il numero elevato dei dischi e l’assenza di ceramiche e di oggetti di ferro, in particolare armi. A rendere improbabile l’ipotesi sta lo stato di conservazione dei bronzi, per lo più mediocre, e soprattutto la grande varietà anche di minuti oggetti di ornamento personale associati ai dischi, quali pendagli, fibulette, catenelle, ecc. (nn. 16-31, 52-62 degli elenchi in appendice). Quanto ai dischi, sia fungenti da kardiophýlakes che da ornamento femminile, sta di fatto che i quasi 400 esemplari censiti dal Tomedi vengono tutti, per quanto si sa, da tombe, con la sola eccezione di un frammento rinvenuto del tutto fuori area nel ripostiglio di Fliess, località del Tirolo austriaco a più di 500 km da Perugia.37 L’assenza di oggetti di ferro e di ceramiche è del resto una difficoltà più apparente che reale nei confronti della provenienza funeraria. Infatti il campione della scoperta pervenuto al museo di Firenze è da ritenere il risultato di una selezione operata in loco, prima dell’intervento del Breghi, da scopritori più o meno occasionali, che non meraviglia abbiano tralasciato gli oggetti di ferro perché troppo corrosi e sformati, i fittili perché d’impasto non decorato e troppo frammentati. Inoltre nelle necropoli umbre gli oggetti di ferro di vii secolo, consistenti nelle armi da offesa e in qualche fibula, «sembrano quasi esclusivi delle tombe maschili»,38 e queste costituivano certa31 Ibidem. 32 Milani 1912, p. 298. 33 È difficile documentarsi al riguardo, perché con la gestione Minto i dischi e tutto il resto sembra vengano ignorati (Minto 1928, pp. 765 e 768; Minto 1951, p. 35). 34 Vedi Duhn 1924, p. 597 (Norcia). 35 Un cenno in Monacchi 1986, p. 79, nota 14, basato sul poco che ne dice Milani. 36 Banti 1936; Banti 1964. 37 Tomedi 2000, p. 76, n. 309, tav. 108. 38 Bonomi Ponzi 1997, p. 77 (e p. 60), a proposito di Colfiorito. Ma lo stesso si verifica nella fase antica di Nocera Umbra.

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mente nei nostri due casi un’esigua minoranza.39 Quanto alla ceramica, nelle necropoli umbre dell’epoca non è troppo rara la loro totale assenza,40 come di norma si verifica in una vasta area dell’Appennino centrale, e proprio dove i dischi femminili sono più frequenti, dal Cicolano alle rive del Fucino e all’alta valle dell’Aniene, nel paese abitato da Equicoli, Equi e Marsi.41 In conclusione possiamo essere certi che i materiali di cui parliamo documentano l’esistenza di due sepolcreti che, tenuto conto dell’excursus cronologico di almeno un secolo, dal 700 a.C. al 600, e forse oltre, esibito dai materiali, avranno annoverato assai più delle 7-8 tombe, quasi tutte femminili, che si possono attribuire a ognuno di essi in base al numero dei dischi pervenutici e a qualche altro elemento.42 Sembra evidente che entrambi i sepolcreti siano da riferire a insediamenti periferici, altrimenti del tutto sconosciuti,43 stanziati presso quelli che all’epoca erano i confini, in un caso del territorio gravitante su Perugia dal lato dei monti (l’ager antiquus, potremmo dire, di Perugia, certo ancora non ritualmente definito), nell’altro del territorio gravitante su Assisi dal lato della piana bagnata dal Tescio, idronimo evocante l’arcaico termine augurale latino-sabino tescum,44 corrispondente a quello che nella spectio augurale era appunto il territorio (selvaggio), contrapposto all’abitato delimitato dal pomerio.45 Già l’aver accertato tutto questo non è un risultato di poco conto per la topografia storica dell’alta valle tiberina nella fase pre- e protourbana. Ma si può dire di più. Intanto l’aspetto culturale italico, invece che etrusco, mostrato non solo dal ritrovamento ‘tra Bastia e Assisi’, ma anche da quello del M. Tezio, è un fatto non propriamente atteso, anche se prevedibile, considerato il carattere umbro della stipe tardo-arcaica rinvenuta sul monte. Ma il fatto più sorprendente è che i materiali di vii e prima metà vi secolo riferibili ai due sepolcreti mostrano solo una generica aria di famiglia, dovuta soprattutto ai pendagli e alle fibule, con quelli dei vicini centri umbri di cui meglio conosciamo il record funerario, ossia Nocera Umbra e Colfiorito di Foligno.46 Se infatti molti elementi sono comuni sia all’area umbro-picena che a quella abruzzese, altri fanno invece guardare esclusivamente verso Terni, la Sabina e soprattutto l’Abruzzo aquilano. Mi riferisco al disco-corazza del gruppo Mozzano, ignoto a nord di Leonessa (n. 14) (Fig. 11); alla coppia di placche da cinturone di tipo capenate (n. 15),47 ignote a nord di Terni, Norcia e la valle del Tronto;48 alla collana di cilindretti, di un tipo noto solo in Abruzzo e a Pa39 Oggetti sicuramente maschili sono soltanto sul M. Tezio un frammento di disco-corazza del gruppo Mozzano (n. 14), nella piana di Assisi un manico di rasoio (n. 56) e forse un affibbiaglio di cintura (n. 52). 40 Bonomi Ponzi 1997, p. 59, con riferimento anche a Nocera Umbra e a Pieve Torina. 41 Da ultimo Grossi 2006, con riferimenti anche agli scritti di V. d’Ercole e altri autori. 42 I dischi presuppongono un minimo di sei tombe femminili per sepolcreto (calcolando che sia i nn. 1 e 5 che i nn. 34 e 37 potevano essere accoppiati), una settima è postulata dall’anellone n. 33 e altre due sono richieste dagli elementi maschili di cui a nota 39. 43 A quello «tra Bastia e Assisi» potrebbero riferirsi due fibule a sanguisuga «da Bastia» e una a navicella con due bottoni (del tipo dei nostri nn. 57-60) «da S. Maria degli Angeli», esposte nel Museo Archeologico di Perugia tra i materiali della coll. Bellucci, inedite. 44 Come nel caso del Tescino presso Terni (diversa etimologia, non condivisibile, in Sisani 2001, p. 130). 45 Sul significato di tescum rinvio a Sisani 2001, p. 153 (l’attribuzione al sabino è in Ps. Acr., ad Hor. Epist., i, 14, 19). Non molto al di là di Bastia, in direzione di Ospedalicchio e del Tevere, fu rinvenuto nel ’700 il noto cippo in lingua umbra posto verso il 100 a.C. dai magistrati di Assisi a delimitare un’area sacra situata presso il confine occidentale della tota (Vetter 1953, p. 168, n. 236; Rocca 1996, pp. 40-46, n. 2; Rix 2002, p. 63, Um 10; Sisani 2005). 46 Rispettivamente Bonomi Ponzi 1985 e 2005, Bonomi Ponzi 1997. 47 Una seconda coppia, entrata al museo di Magonza nel 1939, acquistata nel nodo ferroviario di Terontola in data certamente assai anteriore (Naso 2003, p. 192 sg., n. 313), ha buone probabilità di provenire anch’essa dal M. Tezio. 48 Le scoperte recenti hanno arricchito ma non modificato il quadro delle provenienze risultante dagli elenchi di Colonna 1958, v. Hase 1971, pp. 53-56, Colonna 1974a, p. 195, nota 7; Colonna 1974b, p. 94 (qui la veloce

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lestrina (n. 53); al pettorale composto da una targhetta verticale traforata (n. 42) e da un dischetto con catenelle pendenti (nn. 8-9), di un tipo noto solo in Abruzzo. A questi elementi si aggiunge la testimonianza principe, che è quella dei dischi femminili a decorazione geometrica che tanto fecero fantasticare Milani, come s’è detto, e che sono ben 14, ossia praticamente un quarto del totale dei bronzi dei due siti, composto, tolte le due asce dell’età del Bronzo, da 60 pezzi. Contro ogni aspettativa uno solo di questi dischi, inserito dal Tomedi nel folto gruppo dei dischi ‘schlicht verzierte’, ma a mio avviso accostabile al gruppo abruzzese Collarmele (n. 39) (Fig. 7: 7), ha una minima possibilità di appartenere alla produzione umbra e picena, nota peraltro da un ampio ventaglio di ritrovamenti, che va dai soliti sepolcreti di Nocera e Colfiorito a Bevagna, Norcia, Taverne di Serravalle, Pieve Torina, Pitino di S. Severino, Moie di Pollenza, Fabriano, Sirolo, Tolentino,49 Marino del Tronto e Cerveteri, oltre che da molti esemplari adespoti.50 Tutti i restanti dischi del M. Tezio e della piana di Assisi appartengono a gruppi di sicura ed esclusiva produzione abruzzese, localizzata ormai con certezza intorno al Fucino, tra gli Equi e i Marsi: sette spettano al gruppo Casacanditella (nn. 1, 5, 34-38) (Figg. 5: 1-2, 7: 1-5), due al gruppo Capracotta (nn. 2, 5) (Fig. 5: 4-5), due al gruppo Aielli (nn. 4, 13) (Fig. 5: 5,7) e due (o forse tre) al già citato gruppo Collarmele (nn. 6, 40 e forse 39) (Figg. 5: 6, 7: 6-7). Una tale concentrazione di dischi abruzzesi tra Perugia e Assisi potrebbe ingenerare il dubbio di un loro arrivo nella zona col commercio antiquario, tramite il Breghi o i suoi fornitori. Ma sarebbe un dubbio ingiustificato. Troppe infatti sono le testimonianze, che additano concordemente la zona di Perugia come luogo privilegiato di provenienza per i dischi abruzzesi rinvenuti fuori d’Abruzzo. Nel catalogo della collezione milanese di Amilcare Ancona, edito nel 1886, compaiono tre dischi a decorazione geometrica «provenienti da Perugia», e altri sei ne compaiono, con la stessa provenienza, nel supplemento edito nel 1889.51 Morto l’Ancona due anni dopo, la collezione fu acquistata nel 1892 dai Musei Statali di Berlino,52 dove i dischi reperiti e schedati dal Tomedi con la provenienza «Perugia (?)» sono sei.53 Di essi uno spetta al gruppo Alba Fucens (Fig. 9: 1), due al gruppo Aielli (Fig. 9: 4 e altro pressoché identico a Fig. 5: 7), uno al Collarmele (Fig. 9: 2) e due agli ‘schlicht verzierte’ vicini a mio avviso allo stesso gruppo (Fig. 9: 3, 5). Intanto nel 1888 era entrato anche nel Museo Britannico un disco con la provenienza «Perugia», spettante al gruppo Capracotta (Fig. 9: 6),54 e nel 1889 l’industriale e collezionista tedesco Zschille aveva a sua volta acquistato a Castiglione del Lago, dove penso si trovasse in villeggiatura, tre dischi acceduti dopo la sua morte al Museo di Preistoria e Protostoria di Berlino, due dei quali spettanti anch’essi al gruppo Capracotta (Fig. 10: 12) e uno al gruppo Collarmele (Fig. 10: 3).55 Infine al 1893 si data, come già ricordato, l’acquisto da parte del Museo di Firenze, tramite l’antiquario Pacini, di due dischi «dal Trasimeno», spettanti entrambi al gruppo Collarmele (Fig. 10: 4-5).56 menzione della coppia da Norcia, che è del tipo più comune, con i tre occhielli per l’aggancio, ed è esposta con la coll. Bellucci nel Museo Archeologico di Perugia). Notevole, anche per la conferma della pertinenza femminile (vedi la fuseruola), la recente testimonianza di Saletta presso Amatrice (Alvino 2004, p. 108, fig. 5). 49 Massi Secondari 2002, pp. 40, 42 in basso, 66 in alto. 50 Papi 1996, pp. 125-127, fig. 26; Tomedi 2000, nn. 118-141, 143-154, 380-394. Tra gli adespoti si distingue Genève 1993, p. 140, n. 50. 51 Ancona 1886, p. 22, nn. 326-328; Ancona 1889, p. 9, nn. 58-63. Su taluni acquisti fatti dall’Ancona nell’entroterra di Castiglione del Lago vedi Paolucci 2002, pp. 164 e 176. 52 Furtwängler 1893, p. 98 sg. 53 Tomedi 2000, nn. 165, 174, 183, 187, 278, 336. 54 Tomedi 2000, n. 376. 55 Tomedi 2000, nn. 263, 366, 374. 56 Cfr. nota 26.

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Fig. 9. Dischi a decoro geometrico provenienti da «Perugia», conservati a Berlino (nn. 1-5) e a Londra (n. 6) (da Tomedi 2000).

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Fig. 10. Dischi a decoro geometrico provenienti da «Castiglione del Lago», conservati a Berlino (nn. 1-3) (da Tomedi 2000) e dal «Trasimeno», conservati a Firenze (nn. 4-5) (da Papi 1990).

Come si vede, sono almeno 12 i dischi abruzzesi a decoro geometrico entrati in circolazione tra il 1886 e il 1893 con le vaghe indicazioni di provenienza ‘Perugia’ e ‘Lago Trasimeno’ (detto a lungo ‘Lago di Perugia’, non dimentichiamolo), o con la sospetta menzione del capoluogo lacustre, ‘Castiglione del Lago’, che cominciava a essere una

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Fig. 11. Carta di distribuzione dei dischi-corazza dei gruppi Mozzano e Cittaducale. 1 M. Tezio, 2 Leonessa, 3 Cittaducale, 4 Fossa, 5 Bazzano, 6 Mozzano, 7 Cupramarittima.

frequentata stazione balneare (il che ricorda l’improbabile provenienza ‘Terontola’ assegnata a una coppia di placche da cinturone capenati).57 Credo che alla luce delle scoperte del Tezio si possa fondatamente presumere che anche i dischi in questione vengano dal sepolcreto di seconda età del Ferro di cui si è accertata l’esistenza su quella montagna, appartenente a pieno titolo, da sempre, al contado di Perugia. Se questo è vero, se ne dedurrà che il saccheggio di quel sepolcreto, o di altri della stessa zona montana, è iniziato, a totale insaputa delle autorità e degli studiosi perugini, già nei primi anni ’80 dell’800, con particolare attenzione rivolta alla ricerca dei dischi bronzei, considerati falere equine o umboni di scudo e molto richiesti dai collezionisti, specialmente di armi antiche, dopo che Giancarlo Conestabile nel 1874 aveva dedicato ad essi una specifica trattazione, che è stata uno dei suoi ultimi scritti, e lo stesso aveva fatto nel 1880 un altro autorevole studioso perugino, Mariano Guardabassi, anch’egli alla vigilia della scomparsa.58 Complessivamente pertanto i dischi abruzzesi a decoro geometrico cui è stata attribuita tra il 1886 e il 1901 la provenienza dal triangolo Lago Trasimeno-M. Tezio-Assisi, al cui centro si trova Perugia, sono 26. Numero assai rilevante, essendo pari a quasi un decimo del totale dei dischi a decoro geometrico abruzzesi e umbro-piceni censiti dal Tomedi, che assomma a 271, e del tutto senza confronto fuori del bacino del Fucino e delle zone immediatamente contigue. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle

57 Cfr. nota 47.

58 Conestabile 1874, Guardabassi 1880.

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Fig. 12. Carta di distribuzione dei dischi a decoro geometrico dei gruppi Aielli, Casacanditella e Capracotta. 1 M. Tezio, 2 «Castiglione del Lago», 3 «tra Bastia e Assisi», 4 Colli del Tronto, 5 «dintorni dell’Aquila», 6 «provincia dell’Aquila», 7 Magliano dei Marsi, 8 Scurcola Marsicana, 9 Alba Fucens e Antrosano, 10 Aielli, 11 Forca Caruso, 12 Lecce dei Marsi, 13 Trasacco, 14 Castel di Sangro, 15 Capracotta, 16 Civitaluparella, 17 Fara S. Martino, 18 Casacanditella, 19 «Caserta». Da aggiungere un’inedita presenza a Norcia (cfr. supra, nota 60).

carte di distribuzione, basate su quelle del Tomedi, relative ai gruppi di dischi Aielli/Casacanditella/Capracotta (Fig. 12) e Collarmele/Alba Fucens (Fig. 13), presenti nel Perugino rispettivamente con 12 e con 9 esemplari. Il contrasto è particolarmente evidente con il resto della moderna regione Umbria, che ha restituito due soli dischi di produzione abruzzese, provenienti entrambi da Norcia e spettanti l’uno al gruppo Alba Fucens, pervenuto anch’esso ai Musei di Berlino con la collezione Ancona,59 e l’altro al gruppo Aielli.60 Se in questo caso si può pensare a donne fucensi andate in spose a notabili dell’alta Sabina,61 secondo una prassi di scambi matrimoniali altrimenti ben documentata, nel caso del Perugino una simile ipotesi appare manifestamente non praticabile. Si è indotti invece a pensare, tenuto conto anche dell’esame condotto sugli altri bronzi rinve59 Papi 1990, p. 25, fig. 11a; Papi 1996, p. 127, fig. 7 in alto; Tomedi 2000, p. 77, n. 319, tav. 113. 60 Museo Archeologico di Perugia, dalla coll. Bellucci, inv. 4133 (o 4138, cartellino non ben leggibile). Assente sia in Papi che nella Tomedi. Simile ai nn. 186 e 191 del Tomedi, manca del settore centrale e conserva in situ tre anelli per l’aggancio del nastro di sospensione, fissati al filare più esterno di fori. Potrebbe fare coppia con un disco piccolo della stessa collezione e della stessa provenienza, inv. 5203. 61 Percorrendo i poco studiati itinerari di montagna longitudinali rispetto all’Appennino, tornati a pulsare di vita in età sveva e angioina, come provano i rapporti tra il regno di Napoli e il comune di Perugia (al punto che Ludovico, il santo fratello di re Roberto, divenne compatrono della città).

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Fig. 13. Carta di distribuzione dei dischi a decoro geometrico dei gruppi Collarmele e Alba Fucens. 1 M. Tezio, 2 «Lago Trasimeno», 3 «tra Bastia e Assisi», 4 Norcia, 5 «dintorni dell’Aquila», 6 Fiamignano, 7 Corvaro di Borgorose, 8 Magliano dei Marsi, 9 Scurcola Marsicana, 10 Alba Fucens, Antrosano, 11 Cerchio, 12 Ortucchio, 13 Gioia dei Marsi, 14 Luco dei Marsi, 15 “dintoni di Sulmona”, 16 Villetta Barrea, 17 Casacanditella, 18 Carsoli, 19 Civita Castellana (Mariani 1901, col. 636), 20 Cerveteri, 21 «tra Anagni e Ferentino», 22 «Capua», 23 «Cuma».

nuti sul M. Tezio e nella piana di Assisi, allo spostamento non di singoli individui ma di gruppi di qualche consistenza, includenti le donne portatrici dei dischi, che dal Fucino hanno raggiunto, via le conche reatina e ternana, la valle del Tevere, per poi risalirla fino alla stretta tra i monti perugini e assisiati. Spostamento avvenuto una prima volta verso il 700 a.C. e poi reiterato, a giudicare dalla tipologia tutt’altro che unitaria dei dischi, nel corso di tutto il vii secolo. Le modalità e le cause di tali movimenti, avvenuti per di più su una notevole distanza geografica, restano oscure. Anche se l’area di partenza non è troppo lontana da quella Sabina interna, avente per asse il Velino, da dove una consolidata tradizione faceva muovere il ver sacrum generatore di molti tra i più importanti popoli italici,62 evocare nel caso in esame una simile pratica sembra fuori luogo, sia per la dimensione relativamente ristretta del fenomeno, sia per la sicura partecipazione ad esso di una corposa componente femminile, sia per la sua reiterazione nel tempo. Sarà piuttosto da pensare allo spostamento di gruppi parentelari o clanici, anche numericamente cospicui, come quello degli Umbri e dei Dauni che avrebbero seguito gli Etruschi padani in Campania nel 524 a.C.,63 62 Tagliamonte 1994, pp. 62-66; Colonna 1996, pp. 107-112. 63 Dion. Hal. vii, 3, 1-4. Cfr. Colonna 2001, p. 35, con bibl.

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o quello che portò nel 504 a.C. Atta Clauso con i suoi 5000 ‘clienti’ dalla Sabina nell’agro di Roma,64 o, meglio ancora, se guardiamo alla cronologia, quello che avrebbe portato Tito Tazio e una parte dei Sabini da Cures a Roma nell’età di Romolo. Nulla sappiamo in proposito per Assisi, ma per Perugia è un fatto che la partecipazione di una componente italica al popolamento protourbano è confermata, anche se solo indirettamente e direi tortuosamente, dalla tradizione letteraria. Mi riferisco al notissimo passo dell’interpolatore di Servio in cui, a commento della qualifica virgiliana di Mantova come città dives avis, «ricca di antenati» (ad Aen., x, 201), si afferma che la città «fu fondata non solo da Ocno [come afferma Virgilio], ma anche da altri: prima infatti lo fu dai Tebani, poi dagli Etruschi [ossia da Ocno], per ultimo dai Galli o, come altri dicono, dai Sarsinati qui Perusiae consederant».65 Il riferimento è a un popolamento stratificato, risultante dall’arrivo, scaglionato nel tempo, di contingenti di tre stirpi diverse che, senza troppo forzare, potremmo chiamare ‘Pelasgi’, Etruschi e Galli oppure Umbri (in accordo, si direbbe, con la successiva espressione virgiliana gens illi triplex).66 Per l’ultima di queste ‘rifondazioni’, ovviamente da collegare non al Forcello ma al sito della Mantova propriamente detta, che sappiamo popolato solo a partire dalla prima metà del iv secolo a.C.,67 si nominano i Galli, restando nella sequenza generalmente accreditata per il popolamento padano, oppure, in alternativa, i Sarsinati, cioè degli Umbri. E qui interviene la notizia che più ci interessa. Per dare qualche lume sui Sarsinati, che immagina poco noti al lettore, l’interpolatore di Servio precisa: sono quelli qui Perusiae consederant, «che si erano insediati a Perugia» in un passato ormai remoto (non «che avevano fondato Perugia», come hanno frainteso e fraintendono molti dei moderni!).68 Annotazione erudita concernente la loro storia pregressa, anteriore non solo alla (ri)fondazione della Mantova di iv secolo ma anche a quella di Sarsina, su cui l’archeologia è ancora muta,69 ma che è ragionevole pensare non posteriore all’età dell’espansione umbra verso la Romagna, ossia al vi secolo e in particolare ai suoi ultimi decenni, come è stato esemplarmente documentato, dopo le precedenti scoperte nelle vallate appenniniche, dal sepolcreto pedemontano di Montericco di Imola.70 Ignoriamo chi fossero gli autori chiamati in causa, senza nominarli, dal dotto commentatore tardo-antico. Ma è scontato pensare che siano gli stessi, ‘alternativi’ rispetto alla vulgata virgiliana e ugualmente da lui lasciati anonimi, da cui ha tratto le notizie aggiunte alla glossa precedente di Servio concernente il fondatore di Mantova, Ocno, detto figlio di quello che per occhi romani era tout court il fiume etrusco, ossia il Tevere (ad Aen., x, 198). Le notizie dell’interpolatore, per noi non meno preziose di quella sull’origine dei Sarsinati, anche se altrettanto succinte, aprono uno squarcio di luce sulla versione ‘perugina’ delle origini della città e sulla sua pretesa connessione con un evento di grande portata storica quale era stata la colonizzazione etrusca della Valle Padana.71 Apprendiamo infatti che, a differenza di Servio, «questo Ocno alcuni lo dico64 Tagliamonte 1994, pp. 41 sg., 52, 59; Colonna 2000a, p. 153. 65 Questo e gli altri passi appresso citati sono comodamente raccolti in Uboldi 1986, pp. 105-107, che però non distingue Servio dal suo interpolatore (cfr. Mazzarino 1970). 66 Diversamente intesa da Mazzarino 1970. Sui tre ethne, compresenti fianco a fianco in Romagna, Colonna 1985. 67 De Marinis 1989, pp. 37-40. 68 Per es. Nissen 1912, p. 321 sg.; v. Duhn 1924, pp. 194 sg., 345; Shaw 1939, p. 4; Altheim 1950, p. 10 sg.; Bonomi Ponzi 2002, p. 588. L’interpolatore torna a usare il verbo poco più avanti (ad Aen. x, 202), a proposito degli alleati di Enea contro Mezenzio: cum omnis exercitus uno loco consederit, «quando tutto l’esercito si accampò in un sol luogo». 69 Ortalli 1987; Ortalli 1988; Ortalli 1997. 70 Von Eles Masi 1982, pp. 25-140, nn. 1-77; Bermond Montanari 1985; Malnati, Manfredi 1991, pp. 209-213, 275. Cfr. la carta geografica in Sassatelli 2005, p. 236, fig. 1. 71 Sassatelli 2005, p. 119 sgg.

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no figlio, altri fratello di Auleste, il fondatore di Perugia», il quale «per non venire in contrasto col fratello fondò in agro Gallico Felsina, ora chiamata Bononia, e permise anche ai suoi seguaci di costruire dei borghi fortificati (castella), tra i quali fu Mantova». Gli ignoti autori, esaltatori di Perugia e del ruolo ad essa anacronisticamente attribuito nello scacchiere padano, facendone addirittura la città madre di Felsina e delle connesse fondazioni urbane, non possono essere a mio avviso che autori imbevuti di lokalpatriotismus, i cui scritti, verosimilmente di iii-ii sec. a.C., saranno confluiti nelle perdute historiae Tuscae, citate da Varrone a proposito della dottrina dei saecula, e forse anche da Plinio il Vecchio, col nome irridente di fabulae Etruscae, a proposito dello scomparso mausoleo di Porsenna.72 Autori comunque bene informati sulla storia locale, che a quanto pare erano almeno vagamente a conoscenza di quello che vediamo ora emergere dal dato archeologico, ossia l’installazione verso la fine dell’viii secolo di gruppi di italici dell’Appennino centrale nell’agro perugino, nonché, sull’opposta sponda del Tevere, in quello assisiate. Installazione avvenuta certamente col consenso e l’appoggio delle rispettive comunità locali, in un momento di crisi di cui è sintomo il vacuum di testimonianze orientalizzanti offerto da Perugia, coincidente non a caso col massimo sviluppo di Fabriano, Novilara e soprattutto dell’etrusca Verucchio, nonché in generale degli itinerari scavalcanti l’Appennino. Le comunità di Perugia e di Assisi sono in possesso di una posizione strategicamente importante nei confronti della via del Tevere, sono in grado di impedire agli Etruschi di Veio, di Orvieto e delle altre città meridionali l’accesso a Verucchio, ma hanno evidentemente bisogno di rinforzi demografici per valorizzarla ed esercitare una qualche forma di controllo sul proprio territorio. Ancora fragili sul piano socio-istituzionale, sono in quest’epoca assai più ‘aperte’ verso lo straniero o comunque il diverso di quanto non lo saranno in epoca storica. La fine repentina, al più tardi alla metà del vi secolo, dei supposti microinsediamenti italici a cavallo del Tevere significa quasi certamente l’espulsione dei loro abitanti, sia nel caso di Perugia che in quello di Assisi, in coincidenza con la raggiunta maturazione, urbana o paraurbana, delle due comunità locali.73 I profughi partiti dall’agro di Perugia, risalita l’alta valle del Tevere e affacciatisi su quella del Savio, nell’Appennino romagnolo, avranno fondato Sarsina e la tribù Sapinia, divenendo col tempo i Sassinates su cui Roma trionferà, come attestano i Fasti, nel 266 a.C. e, in chiave erudita, i Sarsinates qui Perusiae consederant. Simili ma pur sempre in qualche misura diversi dagli Umbri proprie dicti, dato che una fonte antica e autorevole come Polibio nomina, a proposito delle truppe fornite dai socii a Roma nel 225 a.C., «gli abitanti dell’Appennino Umbri e Sarsinati» come due entità contigue ma distinte, così come lo erano i Veneti e i Cenomani nominati subito dopo, fornitori di un contingente numericamente uguale a quello dei due popoli appenninici.74 Forse quel che distingueva ormai i Sarsinati dagli Umbri non era più tanto la lontana origine fucense, quanto l’avere convissuto a lungo con gli Etruschi (a Perugia). Condizione che avrà facilitato l’accoglimento di un loro contingente da parte dei Mantovani, ricordato dall’interpolatore di Servio e probabilmente confermato da alcuni segnalatori archeologici, come gli ex voto bronzei ritagliati con le forbici.75 Il che presuppone che una parte dei Sarsinati sia scesa nel v secolo a vivere nella pianura e che da lì sia stata scacciata dai Galli Boii quando, passato il Po, questi non Etruscos modo, sed etiam Umbros agro pellunt (Livio, v, 35). Riparando a Mantova, come molti 72 73 74 75

Cfr. Colonna 1983, p. 12, nota 63; Colonna 2000b, p. 278. La fase protourbana di Assisi non sarà stata più tarda di quella di Gubbio, sulla quale Sisani 2001, pp. 30-38. Polyb. ii, 24, 7. Cfr. le incertezze di Briquel 1984, p. 26, nota 121 («Sarsinates malaisés à definir»). Colonna 1989, pp. 17-19, fig. 13; Sassatelli, Macellari 2002, p. 426 sg.

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Fig. 14. Dal Fucino a Mantova. Un viaggio durato tre secoli.

Etruschi a Spina e ad Adria, questi Sarsinati avranno posto fine a una diaspora (Fig. 14) iniziata a quanto pare molti secoli prima nelle alte terre del lontano Abruzzo.

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Appendice76 Bronzi rinvenuti sul M. Tezio 1 (79047, Figg. 4: 1 e 5: 1). Disco lacunoso a decorazione geometrica incisa, punzonata e traforata a giorno, ascrivibile al gruppo Casacanditella.77 Diam. 0,252. Milani 1912, tav. cxx in alto; Jacobstahl 1944, p. 82, tav. 244 a, al centro; Papi 1990, p. 34, n. 8, fig. 19; Tomedi 2000, p. 83, n. 350, tav. 124. 2 (79048, Fig. 5: 3). Disco conservato per meno di metà, a decorazione geometrica incisa, punzonata e traforata, ascrivibile al gruppo Capracotta. Diam. 0,22. Papi 1990, p. 38, n. 21, fig. 22 a; Tomedi 2000, p. 86, n. 373, tav. 132. 3 (79049, Figg. 4: 3 e 5: 4). Disco lacunoso a decorazione geometrica incisa, punzonata e traforata, ascrivibile al gruppo Capracotta. Diam. 0,215. Milani 1912, tav. cxx, in basso a sn.; Jacobstahl 1944, p. 82, tav. 244 a, a ds.; Papi 1990, p. 38, n. 20, fig. 27; Tomedi 2000, p. 86, n. 365, tav. 130. 4 (79050, Figg. 4: 4 e 5: 5). Disco a decorazione geometrica incisa, punzonata e traforata, ascrivibile al gruppo Aielli. Diam. 0,17. Papi 1990, p. 40, n. 32, fig. 33; Tomedi 2000, p. 59, n. 189, tav. 71. 5 (79051, Figg. 4: 5 e 5: 2). Disco a decorazione geometrica incisa, punzonata e traforata, ascrivibile al gruppo Casacanditella. Potrebbe essere stato in coppia col n. 1. Diam. 0,125. Papi 1990, p. 36, n. 14, fig. 22 b; Tomedi 2000, p. 83, n. 351, tav. 124. 6 (79052, Fig. 5: 6). Disco a decorazione geometrica incisa e punzonata, ascrivibile al gruppo Collarmele. Diam.0,22. Papi 1990, p. 50, n. 59, fig. 56; Tomedi 2000, p. 63, n. 202, tav. 74. 7-8 (79053, Fig. 6: 5-6). «Paio di dischi a decorazione geometrica graffita, con campanelle sui bordi. Diam. 0,102». Tre circoli concentrici di occhi di dado punzonati. Forellino centrale. Da un lato pendono 11 o più catenelle, dall’altro 4-5. Un disco pressoché identico, anche per le catenelle, è esposto nel Museo Archeologico di Perugia, inv. 544, tra i materiali della coll. Bellucci provenienti dall’Abruzzo. È appeso con le 4 catenelle superiori a una targhetta verticale traforata identica al n. 42 del ritrovamento «tra Bastia e Assisi». A questi due dischi allude Milani quando, a proposito dei «dischi a decorazione geometrica traforati e sbalzati peculiari del Perugino», aggiunge: «talora con campanelline ai bordi» (Milani 1912, p. 298). Inediti (fot. Museo 23841 del 12.2.07). 9 (79054, Figg. 4: 9 e 6: 1). «Paalstab ad aletta ricurva in bronzo. Lungo 0,08». Ascia del Bronzo Finale ad alette estese, lama assai poco sviluppata e breve tallone ad ampio incavo. Variante del tipo Silea, proprio della facies transpadana orientale (Peroni 1980, pp. 31, 72, isoida 31, tavv. xi a-b, xxxix 1-2), ma presente anche in tutta la fascia medio-adriatica, dal Marecchia al Pescara (ivi, tavv. xl 33, xli 6). Cfr. Cupitò 2000, p. 97, n. 104. Nel Museo Archeologico di Perugia ne sono esposti più esemplari della coll. Bellucci (inv. 5292, 6403 e altri). Inedita (fot. Museo 23843 del 12.2.07).

76 Tutti i materiali dei due elenchi sono conservati presso il Museo Archeologico di Firenze: tra parentesi ne è indicato il numero di inventario. 77 La classificazione dei dischi ornamentali è quella della Papi, perfezionata dal Tomedi e, per quanto riguarda il gruppo Aielli, da chi scrive (Colonna 2007b, c.s.).

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10 (79055). «Paalstab dell’età del Bronzo, trovato separatamente, lungo 0,14». Dovrebbe trattarsi di un’ascia piatta o a margini poco rialzati, eneolitica o del Bronzo antico. Inedita. 11 (79056). «Armilla piena. Diam. 0,07». Inedita (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 12 (79057). «Armilla vuota. Diam. 0,093». Inedita (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 13 (79086, Figg. 4: 13 e 5: 7). «Disco decorato con cinque serie circolari di fori di cui due doppie. Diam. 0,175». Ascrivibile al gruppo Aielli (Colonna 2007b, c.s.). Inedito (fot. Museo 23842 del 12.2.07). 14 (79087, Fig. 6: 2). «Frammento di armatura con imbullettatura all’orlo. Lungo 0,08». Frammento di disco-corazza ascrivibile al gruppo Mozzano. Per i chiodi perimetrali a capocchia assai piccola e ravvicinati in sequenza continua costituisce, assieme all’esemplare Tomedi 2000, p. 37, n. 30, tav. 14, una variante recenziore del gruppo, dalla quale a sua volta dipende l’esemplare Tomedi 2000, p. 37, n. 32, tav. 15 (dove sono scambiati i nn. 32 e 33). Inedito (fot. Museo 23844 del 12.2.07). 15 (79088, Fig. 6: 3). «Fibbione da cintura con due placche quadrate. Largh. 0,113 e 0,115». Coppia di placche da cinturone capenati, già decorate con nove chiodi con capocchia a pallottola, del tipo con aggancio a staffa rettangolare (resta solo quella della placca maschio). Cfr. Colonna 1958, tav. i: 3. Inedita (fot. Museo 23844 del 12.2.07). Menzionata in Colonna 1974, p. 195 (= Colonna 2005, i, 1, p. 842), nota 7, nn. 11-12 16-20 (79089). «Gruppo di cinque spirali a disco frammentarie». Appartengono ad altrettanti pendagli a doppia spirale, due dei quali con raccordo a doppio o triplo omega, di un tipo largamente presente nel Piceno e in Abruzzo (Dumitrescu 1929, p. 143, B 1, tav. vi: 1; Percossi Serenelli 1989, pp. 89 e 191, tipo 2; Piceni 1999, p. 258 sg., n. 480; Seidel 2006, p. 137, tavv. 11: 1, 23: 5, ecc.). Inedite (fot. Museo 23842 del 12.2.07). 21-22 (79090). «Due chicchi forati». Si tratterà di due minuscoli pendagli a cestello (Percossi Serenelli 1989, pp. 99 e 198, tipo 26) mancanti dell’anello di sospensione? Inediti (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 23 (79091). «Maglietta. Largh. 0,02». Si tratta di un pendaglio a catenella. Inedita (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 24-26 (79092). «Tre pendaglietti a goccia piena. Lungh. 0,035». Sono tre piccoli pendagli a batocchio con appendici sull’anello di sospensione, di un tipo comune nel Piceno (Percossi Serenelli 1989, pp. 90 e 192, tipo 7 c; Jurgeit 1999, p. 642, n. 1134, tav. 290; Naso 2003, p. 179 sg., n. 265, tav. 85). Ne esibisce un’intera collana il Guerriero di Guardiagrele (Colonna 1992a, p. 102, fig. 7 a). Inediti (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 27 (79093). «Pendaglio a cuspide con anello. Lungh. 0,045». Pendagli ‘lanceolati’ sono attestati nel Piceno (Percossi Serenelli 1989, p. 93, tipo 13; applicati a pettorali, pp. 101-103, tipi 3b e 9). Cfr. anche Naso 2003, p. 183 sg., n. 282, tav. 87 (da “Cortona”). Inedito (fot. Museo 23843 del 12.2.07).

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28 (79094). «Pendaglio ad anello a doppia goccia. Lungh. 0,024». È il noto pendaglio a forma di A, presente a Nocera Umbra (Pierangeli 2005, p. 31 sg., a 12, tav. iii), Colfiorito (Bonomi Ponzi 1997, p. 75, ii 31, tav. 13), Norcia (Colonna 1992b, p. 16, nota 13, fig. 8), Tolentino (Massi Secondari 2002, pp. 40 e 42 sg.), oltre che nel Piceno (Percossi Serenelli 1989, pp. 89 e 192, tipo 5; Seidel 2006, p. 137, tavv. 6: 1, 8:1, 35: 2, 51: 4) e a Fossa tra i Vestini (Benelli 2004, p. 56, tav. 32: 4, tav. v f.t.). Inedito (fot. Museo 23843 del 12.2.07). 29-31 (79095). «Tre frammenti di pendagli». Uno sembra a batocchio, un altro a cuspide. Inediti (fot. Museo 23844 del 12.2.07). 32 (79096, fig. 6: 4). «Bulla divisa in due parti, di cui una globulare ed una a disco aprentesi a cerniera. Lungh. 0,059». Pendagli a bulla bivalve con una faccia piatta e l’altra emisferica sono noti nel Piceno (Percossi Serenelli 1989, pp. 98 e 197, tipo 23 d). Per un confronto puntuale vedi Jurgeit 1999, p. 617 sg., n. 1083, tav. 283. Inedita (fot. Museo 23843 del 12.2.07). Bronzi rinvenuti “tra Bastia [Umbra] e Assisi” (Fig. 3) 33 (79173). «Cerchio di lamiera. Diam. 0,32». Anellone da sospensione a larga fascia costolata con faccia inferiore piana (?), spezzato e con piccola lacuna. Appartiene al tipo Montegiorgio recentemente definito da A. Naso (Seidel 2006, pp. 131-133; Bonomi 2006, pp. 169-171), di cui rappresenta l’unica testimonianza finora nota sul versante tirrenico dell’Appennino umbro-marchigiano. Per le dimensioni notevoli questi anelloni ricordano quelli poggiati sull’addome delle defunte nelle tombe orientalizzanti più prestigiose di area laziale, peraltro sempre a fascia piatta, che raggiungono e talora superano i 40 cm di diametro (esempi in Bartoloni 2003, pp. 133-135: alle tombe 93 e 153 di Decima va aggiunta la tomba 133, cfr. Roma 2006, p. 477, ii. 969). A questo e ai nn. 43-44 allude Milani quando parla, a proposito dei dischi a decoro geometrico «peculiari del Perugino», di «anelli laminari, con cui spesso [i dischi] si accompagnano» (Milani 1912, p. 298). Inedito. 34 (79174, Figg. 4: 34 e 7: 3). Disco a decorazione geometrica a traforo, lacunoso, conservante sul bordo inferiore la maniglietta per la sospensione del corrispondente disco minore della ‘stola’. Variante semplificata del gruppo Casacanditella. Diam. 0,215. Jacobstahl 1944, p. 82, tav. 244 a, a sn.; Tomedi 2000, p. 84, tav. 126 (con la provenienza «Umgebung von Perugia»). 35 (79175, Fig. 7: 4). Altro simile, di formato piccolo, anch’esso variante del gruppo Casacanditella. Diam. 0,11. Inedito. 36 (79176, Figg. 4: 36 e 7: 1). Altro simile, ma di formato grande, mancante di tutto il settore periferico, ascrivibile al gruppo Casacanditella. Diam. cons. 0,14. Milani 1912, tav. cxx, fig. in basso a ds., in alto. 37 (79177, Fig. 7:5). Altro simile, di formato piccolo, «con trinatura deteriorata», variante semplificata del gruppo Casacanditella. Diam. 0,105. Potrebbe essere stato in coppia col n. 34. Inedito. 38 (79178, Figg. 4: 38 e 7: 2). Altro simile, di formato grande, di cui resta solo il settore centrale. Diam. cons. 0,08. Milani 1912, tav. cxx, fig. in basso a ds., in basso a ds.

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39 (79179, Fig. 7: 7). Disco con decorazione geometrica incisa e sbalzata, di formato piccolo, ascrivibile al gruppo dei dischi ‘schlicht verzierte’ (Tomedi). Diam. 0,12. Papi 1990, p. 55, n. 76, fig. 41 d: Tomedi 2000, p. 56, n. 142, tav. 62. 40 (79180, Fig. 7: 6). Altro, pure di formato piccolo, «con medaglietta nel rovescio», ascrivibile al gruppo Collarmele. Diam. 0,11. Papi 1990, p. 55, n. 75, fig. 41 b: Tomedi 2000, p. 69, n. 264, tav. 94. 41 (79181). «Frammento di disco lavorato a sbalzo. Lungh. 0,08». Inedito. 42 (79182, Fig. 4: 42). «Targhetta traforata a ¶ ¶ con catenelle alle estremità. Lungh. 0,085». Elemento di pettorale, che trova l’unico confronto a me noto in una targhetta verticale con identica decorazione a traforo, inedita, esposta nel Museo Archeologico di Perugia, inv. 544, tra i materiali della coll. Bellucci provenienti dall’Abruzzo. La targhetta reca appeso in basso con 4 catenelle un disco pressoché identico ai nn. 8-9 del M. Tezio ed era a sua volta appesa con altrettante catenelle a un elemento mancante. Milani 1912, tav. cxx, fig. in basso a ds., in basso a sn. 43-44 (79182-79183). «Due ciambelli di lamina massiccia molto larga, da 0,10 a 0,098». Coppia di anelli da sospensione costolati simili per la larghezza e la sezione della fascia al n. 33, ma di diametro di gran lunga minore. Un buon confronto, anche per le dimensioni, è offerto da una coppia da Torre di Palme presso Ancona, rinvenuta presso il capo della defunta (Dall’Osso 1915, p. 103 sg.), da una coppia a Karlsruhe (Jurgeit 1999, p. 625, n. 1095, tav. 285) e da un esemplare da Montegiorgio (Seidel 2006, p. 130 sg., tav. 21: 2). Nel Molise se ne conosce anche una variante, probabilmente recenziore, di diametro dimezzato (Di Niro 2007, p. 67, nn. 95-97). Funzionalmente simili agli esemplari in esame erano probabilmente sia gli anelli a tarallo bivalve del Perugino (Bonomi Ponzi 2002, p. 595 sg., nn. 23 e 26) e del Piceno (Piceni 1999, p. 265 sg., n. 541, da Grottazzolina), sia quelli a fascia piatta frentani (Di Niro 2007, p. 65, nn. 87-90) e dauni, per i quali è accertata l’utilizzazione come pendagli da cintura (Colonna 1984, p. 271 sg., tav. xlv). Inediti. 45-47 (79184). «Tre ciambelli di lamina massiccia». Anelli da sospensione di tre diverse misure, più piccoli e con fascia più stretta dei nn. 43-44, ma simili per la sezione della fascia. Cfr. Grossi 1990, pp. 264 e 281, n. 6 (da Opi); Jurgeit 1999, p. 625 sg., n. 1096, tav. 285. Inediti. 48-49 (79185-79186, Fig. 4: 49). «Due spirali, diam. 0,048 e 0,045». Coppia di armille a spirale con 8-10 avvolgimenti, di fettuccia arrotondata con capi desinenti a riccio (conservati entrambi solo nel n. 49). Forma di vasta diffusione circumadriatica (Peroni 1973, p. 70, fig. 21: 13-14), presente anche, con una coppia di simile diametro, in una tomba di bambina di Nocera Umbra (Pierangeli 2005, p. 32 sg., nn. 16-17, tav. iv, con confronti da Terni e Novilara). Milani 1912, tav. cxx, in basso a sn. 50-51 (79187-79188, Fig. 4: 50). «Due armille, di cui una a tre giri ed una semplice, da 0,08 a 0,085». Semplici armille a nastro, di larga diffusione. Inedite. 52 (79189). «Gancio, lungo 0,075». Affibbiaglio di cintura di filo con infilato un anellino, gancio ottenuto ripiegando a uncino il filo raddoppiato. Un tipo simile a Colfiorito (Bonomi Ponzi 1997, p. 56, i B 21). Inedito. 53 (79190). «Gruppo di sette cannuccie a riprese, lunghe 0,05». Collana composta da sette cilindretti con costolature trasversali, identici anche nel numero a quelli di una collana da Palestrina ricomposta con l’aggiunta di pendenti, acceduta nel 1902

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con la coll. Buffum al museo di Boston (Comstock, Vermeule 1971, p. 221, n. 302). Il tipo, anche in funzione di pendaglio, è ben documentato in area abruzzese (Micozzi 1989, p. 23, n. 22, tav. iii, con confronti da Atri, Alfedena, conca peligna, Loreto Aprutino). Inedita. 54 (79191). «Manico di situla a tortiglione, da 0,13». Collare di verga ritorta con capi a riccio, frequente nel vi sec. a.C. nel Piceno (Percossi Serenelli 1989, pp. 106 e 199, tipo 1; Seidel 2006, p. 125, tav. 47: 1) e in Abruzzo (Alfedena: Parise Badoni, Ruggieri Giove 1980, p. 26 sg., tombe 54 e 55, tav. 8; Opi: Grossi 1990, pp. 264 e 281, n. 5). Inedito. 55 (79192). «Catenella frammentaria». Inedita. 56 (79193). «Manico di rasoio, lungh. 0,035». Manichetto con anello in parte mancante. Probabilmente del tipo Benacci, presente a Nocera Umbra (Mangani 2005, pp. 103 e 121, tavv. i: 1 e v: 5) e a Colfiorito (Bonomi Ponzi 1997, p. 56, i B 19), databile nella seconda metà dell’viii sec. a.C. Inedito. 57-60 (79194, Fig. 4: 57-59). Quattro «fibulette a protuberanze (una di esse graffita)». Fibule a navicella con bottoni laterali e staffa, dove conservata, più o meno lunga e priva del bottone terminale. Tipo Sundwall G iii ‚ a, di larga diffusione nel vii secolo, attestato tra l’altro a Nocera Umbra (Mangani 2005, p. 107, tav. iii: 1) e a Colfiorito (Bonomi Ponzi 1997, p. 73, ii 25). Per l’esemplare con decorazione incisa cfr. Naso 2003, p. 262, n. 280, fig. 167. Inedite. 61 (79195). Fibula ad arco serpeggiante. Inedita. 62 (79196, Fig. 4: 62). Fibula «con dischetto ombelicato». Frammento di fibula a drago con apofisi laterali e dischetto apicato senza rosetta, del tipo Sundwall H iii ‚ 4-5, noto a Tarquinia (tomba del Guerriero) e a Bologna, presente nel Perugino con un esemplare della collezione Bellucci (Bonomi Ponzi 2002, pp. 601 e 616, n. 46). La variante con rosetta sottoposta al dischetto s’incontra tra l’altro a Nocera Umbra (Pierangeli 2005, pp. 29 e 54, tavv. i: 2 e xxi: 1-2) e a Colfiorito (Bonomi Ponzi 1997, p. 73, ii 23 B).

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ETRUSCHI E UMBRI IN VA L PA DA NA *

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remetto che parlerò degli Etruschi solo marginalmente, per i riferimenti indispensabili al mio discorso, che sarà invece incentrato sugli Umbri, con qualche accenno ai Liguri: degli Etruschi parlerà in extenso Giuseppe Sassatelli, continuatore della grande tradizione etruscologica bolognese,1 risuscitata nel dopoguerra da Guido Achille Mansuelli. Ho mantenuto tuttavia nel titolo del mio contributo la menzione degli Etruschi, così come figura nel programma del convegno, in omaggio ai passi di Strabone che mi accingo a rivisitare, a oltre trent’anni di distanza,2 e che, pur nella loro compendiosità, offrono quella che per noi è l’unica rappresentazione esaustiva dell’etnografia pregallica della Cispadana, reperibile nella superstite letteratura antica. Un dato di fatto, questo, che si tende spesso a sottovalutare, se non a dimenticare. Parlerò prima in generale degli Umbri in Val Padana e quindi, nella seconda parte del contributo, di un caso esemplare, quello di Mantova e degli Umbri di Sarsina. Dopo aver illustrato il popolamento della Transpadana e della fascia costiera altoadriatica, intesa come un unico comparto geografico, da Aquileia a Ravenna, connotato dalla frequenza di paludi e lagune (héle)3 – il che lo ha portato a fare il noto elogio di Ravenna, giudicata la maggiore (megíste) città del comparto4 – (v, 1, 7, c 214), Strabone passa a considerare il popolamento della Cispadana (v, 1, 10, C 216). Esordisce dicendo che dei suoi precedenti abitatori (i principali dei quali erano stati i Boi, i Liguri, i Senoni e i Gesati), sopravvivevano solo i Liguri e le colonie (apoikíai) dei Romani. E aggiunge: «Ai Romani si è mescolato il popolo degli Umbri e anche, in qualche luogo (ópou), quello degli Etruschi». La constatazione valeva ovviamente per i suoi tempi, ossia l’età tardoaugustea, come precisa alla fine del discorso, quando afferma: «e ora sono tutti Romani ma, nondimeno, alcuni si dicono Umbri e altri Etruschi, come altri (si dicono) Veneti, Liguri e Insubri». Colpisce il fatto, certo non casuale, che il geografo nomini entrambe le volte prima gli Umbri e poi gli Etruschi, al contrario di quello che normalmente facciamo noi moderni parlando della regione, con una graduatoria d’importanza che riteniamo scontata. Coerente appieno con questa ottica è il breve excursus storico inserito nel mezzo del discorso etnografico, a motivare l’ascendenza umbra oppure etrusca rivendicata da una parte a quanto pare non trascurabile dei cives Romani della regione. Gli Etruschi avrebbero compiuto una spedizione militare (stratiá) contro ‘i barbari (abitanti) intorno al Po’, coronata da successo, ossia dalla conquista del loro paese. Il riferimento è a una, verosimilmente la principale, delle makraì strateíai condotte a detta del geografo nell’epoca remota in cui quel popolo era unito sotto un solo hegemon, come dirà poco più avanti parlando degli Etruschi d’Etruria (v, 2, 2, C 219). Il che ci riporta all’epoca del lidio Tirreno, quando il fratello (o figlio o compagno) Tarconte, cum exercitu Apenninum transgressus, avrebbe fondato la dodecapoli padana, secondo la rappresentazione del volterrano A. Caecina, fatta propria da Verrio, il grande erudito del-

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Dedico questo scritto alla memoria di Giancarlo Susini e dell’amore portato alla sua Romagna. Cito soltanto l’ottima summa offerta da Sassatelli 2005. Colonna 1974a, pp. 11-19 (ristampato, come molti dei miei lavori anteriori al 1998, in Colonna 2005). Come sottolinea per l’età tardoantica Pellizzari 2003, p. 34 sgg. Mentre Padova è detta la più prospera (aríste).

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l’età di Strabone.5 Gli eventi sono proiettati anche da questi autori nella mitistoria, ma in realtà non possono iscriversi – e solo, s’intende, come inizio di un processo storico di lunga durata – altro che nel contesto cronologico della i età del Ferro, quando fiorisce il Villanoviano di Bologna e di Verucchio. I «barbari (abitanti) intorno al Po» saranno allora le genti delle più antiche fasi della cultura di Golasecca, in cui sono ormai unanimemente riconosciuti dei Celti stabilmente insediati a sud delle Alpi ben prima della calata di Belloveso,6 e la loro asserita sottomissione significherà l’estensione del dominio etrusco non solo fino al Po ma fino «alle Alpi», ossia alle Prealpi lombarde, di cui favoleggiarono tra gli altri Catone e Livio.7 Ma in seguito, continua Strabone, a causa della sopraggiunta tryphé – fenomeno da lui menzionato qui per la prima volta –,8 gli Etruschi furono «scacciati»: probabile allusione al fiorire dell’Orientalizzante di Bologna e di Verucchio e alla successiva irruzione dei Celti di Belloveso,9 che all’inizio del vi sec. a.C. avrebbe posto fine, con la sconfitta inflitta agli Etruschi «non lontano dal fiume Ticino», al loro preteso dominio sulle terre transpadane e subalpine. Allora, è sempre il geografo che parla, sarebbero intervenuti gli Umbri, evidentemente ancora immuni da tryphé, e avrebbero marciato contro i barbari, fermandoli, com’è implicito nella logica del discorso, a ridosso della fascia di pianura bagnata dal Po (dove sorsero Melpum e Mantova, che ai tempi di Plinio appariva come la Tuscorum trans Padum sola reliqua). Quindi i due popoli, «sorta una gara per il dominio del paese [circoscritto ormai alle rive del grande fiume e al vasto ‘retroterra’ emiliano-romagnolo], fondarono molte colonie (katoikíai), gli uni etrusche, gli altri umbre, ma quelle degli Umbri (furono) in maggior numero, poiché essi erano più vicini». Siamo ormai, come tutto lascia credere, nell’orizzonte dell’arcaismo maturo e finale, quando sul versante etrusco, dopo l’ancora mal noto episodio rappresentato intorno al Po dalla cultura di Remedello-S. Ilario,10 si sviluppa la cultura bolognese della Certosa e nascono la prima Mantova (al Forcello di Bagnolo S. Vito), Adria (sul sito di un precedente port of trade), Spina e Marzabotto, per citare solo gli insediamenti maggiori, mentre sul versante umbro si manifesta la cultura espressa in pianura da ImolaMontericco, sulle alture da S. Martino in Gattara e dai tanti altri insediamenti dell’Appennino romagnolo.11 È evidente che Strabone si rifà, nella sua veloce ricostruzione della storia pregallica della Cispadana, a una fonte in qualche misura prevenuta nei confronti degli Etruschi, tacciati di tryphé e di conseguente debolezza militare, e invece meglio disposta, o almeno neutrale, verso gli Umbri. Una fonte che guardava alla regione da un punto di vista essenzialmente marittimo, attenta a sottolineare, a differenza di Polibio, l’importanza strategica degli Umbri insediati sull’arco costiero e il potenziale umano, e quindi mili5 Schol. Veron. ad Aen. x, 200 (cfr. Uboldi 1989, p. 107). Anche la più antica tradizione, che faceva risalire a Ocno l’origine di Mantova, sosteneva che questi, dopo aver fondato Felsina, permisisse etiam exercitui suo ut castella munirent, in quorum numero Mantua fuit (Serv. Dan., ad Aen. x, 198: Uboldi 1989, p. 106). Si noti come l’accento anche in questo caso verta sull’aspetto militare dell’impresa. 6 Da ultimo Sassatelli 2003, pp. 231-233. 7 Colonna 1989, pp. 11-14. 8 Tryphé citata di passaggio anche in un passo successivo, relativo a quella, peraltro alquanto più tarda, degli Etruschi di Capua (v, 4, 3, c 242). Cfr. Liébert 2006, p. 249 sg. (che non si sofferma sulle testimonianze straboniane concernenti la Valle Padana). 9 Come da tempo ventilato (Colonna 1989, p. 12). 10 De Marinis 1999, pp. 548-551, e relazioni di De Marinis e Macellari in questo convegno. L’aspetto misto, etrusco-piceno, di questa cultura non può non evocare gli Umbri di Strabone, che, dopo la disfatta degli Etruschi al Ticino, «marciarono contro quelli [i barbari] che li avevano scacciati», aprendo così la via alla seconda ‘colonizzazione’ della Val Padana. Allo stesso orizzonte culturale sono forse da ascrivere le statue-stele di Gazzo Veronese, vedi infra. 11 Basti citare il bel catalogo della mostra bolognese del 1981-1982 (von Eles Masi 1982).

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Fig. 1. La Cispadana tra vi e v secolo a.C. (da Sassatelli 2005).

tare, assicurato ad essi dalla vicinanza al cospicuo ‘bacino demografico’ di riserva offerto dall’Appennino (mentre per gli Etruschi, che ne controllavano poco più dell’esile ‘corridoio’ strappato ai Liguri, in cui avevano fondato Marzabotto, la catena montuosa costituiva un problema). Già in passato Dominique Briquel ed io, indipendentemente l’uno dall’altro, abbiamo ritenuto di riconoscere questa fonte in Filisto,12 lo storico siracusano che fu anche un eminente statista e stratego, esperto di questioni adriatiche.13 È a lui infatti che risale con ogni probabilità la menzione, apparentemente stravagante, dei Siculi come primi fondatori di Numana e di Ancona (Plin., iii, 13, 111; Solin., ii, 10) e primi abitatori, assieme a Liburni venuti dall’altra sponda, del territorio che ai tempi dello storico si avviava a divenire l’ager Gallicus per antonomasia, tra Rimini e l’Esino (Plin., iii, 14, 112).14 Territorio dal quale i Siculi sarebbero stati scacciati a opera o dei soli Umbri (Plin. ibidem) o di Umbri e Pelasgi insieme, come sappiamo che aveva sostenuto per l’appunto Filisto, polemizzando con Ellanico sull’origo di quel popolo, che per lui era un ramo dei Liguri, così denominato da un loro re, Síkelos figlio di Ítalos (Dion. Hal., i, 22, 5).15 Di fatto la menzione dei Siculi in un paese così lontano dalle loro sedi storiche, per di più accompagnata dal riconoscimento di una loro ascendenza ligure, che conferiva al mitico progenitore Síkelos (e con lui al padre Ítalos) una patria appenninico-padana,16 non meraviglia troppo in quell’autore, responsabile della politica occidentale ed ‘europea’ dei due Dionigi,17 dato il suo evidente interesse a stabilire una connessione, pur remota nel tempo, tra i principali abitatori indigeni della Sicilia e la regione in cui 12 Briquel 1984, pp. 35 sg., 45-53; Colonna 1985, p. 57 sg.; Briquel 1987, p. 9 sgg. Altri ha parlato dubitativamente di Polibio (Cristofani 1996, p. 151). 13 Su Filisto vedi ora Meister 2002, spec. pp. 453-455; Bearzot 2002; pur coi legittimi dubbi di Vattuone 2006, pp. 62-65, nonché Sordi 1999 e Braccesi 2003, pp. 152-155. 14 Sui Liburni localizzabili nel Piceno meridionale vedi ora Di Filippo Balestrazzi 2004, pp. 209-220. 15 Non è affatto escluso, a mio avviso, che a Filisto risalga anche la tesi che gli Aborigeni antenati dei Romani erano degli ápoikoi di quei Liguri “che confinavano con gli Umbri” (Dion. Hal. i, 10, 5). Barbari dunque i Romani, alla pari dei Siculi. 16 Colonna 2004b, pp. 10-14. 17 Sordi 1999, p. 113 sgg.

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tra l’altro veniva allora (ri)fondata Ancona da «Siracusani che fuggivano la tirannia di Dionigi» (Strab., v, 4, 2, C 241, in questo caso dipendente verosimilmente da Timeo).18 La menzione sia degli Umbri che dei Pelasgi ritorna nell’‘archeologia’ di Ravenna abbozzata da Strabone nel passo citato in apertura,19 di seguito all’elogio della sua peculiare forma urbana e del clima salubre, testimoniato dall’istituzione in essa di una scuola gladiatoria e dai vigneti prosperanti in mezzo alle paludi, anche se aventi vita breve.20 Notazioni che sembrano denotare informazioni acquisite personalmente, se non conoscenza diretta dei luoghi, dato che nulla di comparabile viene detto a proposito di altre città, non solo dell’alto Adriatico ma dell’intera Cisalpina.21 I Pelasgi provenienti dalla Tessaglia, fondatori di Ravenna (così anche Zosim., v, 27, 1),22 non potendo resistere alle hýbreis dei Tirreni/Etruschi, avrebbero accolto come loro sýnoikoi «alcuni degli Umbri», i quali sarebbero rimasti ad abitare da soli la città dopo che i Pelasgi ebbero fatto ritorno nella loro patria (v, 1, 7, C 213-214). L’associazione dei due popoli, già presente in Filisto a proposito dell’ager Gallicus, come si è visto, ritorna in questo secondo squarcio di mitistoria padana, complementare al primo e ancora più apertamente di quello ostile agli Etruschi e favorevole agli Umbri. Costoro vengono infatti in soccorso dei «Tessali», cioè dei semigreci Pelasgi,23 dimostrando le stesse qualità militari implicite nella cacciata dei Siculi di cui parlava lo storico (anche se a loro volta gli Umbri sarebbero stati successivamente cacciati dagli Etruschi, come afferma Plinio nel seguito del passo concernente quell’ager).24 La fonte è un autore che evidentemente non credeva alla teoria dell’origine pelasga degli Etruschi, affermata con duraturo successo da Ellanico sulle orme probabilmente di Ecateo di Mileto, e li considerava dei barbari, anche se di una specie diversa da quella degli «abitanti intorno al Po»,25 contro i quali un tempo avevano mosso guerra per fondare il loro dominio padano, di fatto conclusosi, come detto, in un condominio etrusco-umbro. L’autore in questione è anche in questo caso Filisto, come ha riconosciuto da tempo Briquel e come è confermato a mio avviso dall’accenno alle hýbreis esercitate dai Tirreni/Etruschi nei confronti dei Pelasgi di Ravenna. Infatti l’aggressività è il tratto maggiormente qualificante il Tirreno non lidio ma ausone (e pertanto autoctono d’Italia), secondo il racconto del Servio aggiunto circa l’arrivo di Eolo in Occidente (Aen., i, 52), risalente anch’esso, come credo di aver dimostrato, ai Sikeliká di Filisto.26 In esso Tirreno, dopo aver costretto all’esilio il fratello Liparo, avrebbe concepito addirittura il disegno di Peloponnesum vastare, movendo guerra agli Achei di Agamennone, che ancora 18 Buone sintesi sull’argomento in Colivicchi 2002, pp. 22-27, 447 sg., 463-467; Luni 2004, pp. 28-45. 19 Sul quale si legge ancora con profitto Mansuelli 1970. 20 Pellizzari 2003, p. 41. 21 Eccessivi mi appaiono i dubbi al riguardo per es. di Tramonti 1997, p. 98 sg., basati sulle omissioni risultanti dal confronto con Vitruvio e con Plinio, autori che avevano interessi diversi da quelli di Strabone. Tra l’altro Plinio nomina la fossa Augusta a proposito non della città ma del delta padano, che Strabone tralascia di illustrare. 22 E fondatori per Strabone anche di Spina, come risulta dal contesto del passo (Colonna 1993, p. 131, nota 5). 23 La storia va letta in parallelo a quella narrata dallo stesso Strabone per Agylla/Caere, dove è evidente che per lui i Pelasgi/Tessali parlavano greco e i Lidi/Tirreni etrusco (v, 2, 3, C 220). 24 Riferendosi evidentemente agli Etruschi di Verucchio e di Rimini, ossia agli unici Etruschi stabilmente insediati, e fin dall’età villanoviana, nel territorio in questione (Umbri eos [i Siculi e i Liburni] expulere, hos Etruria, hanc Galli). Si tratta della sola, anche se indiretta, menzione letteraria degli Etruschi del Riminese, generalmente trascurata (anche in Colonna 1987). Per Plinio e le sue fonti agli Etruschi hanno tenuto dietro non gli Umbri storici, come afferma Strabone (tò dè Arímnon Ómbron estì katoikía) e come forse è veramente accaduto (da ultimo Gentili 2003, p. 19 sg.), ma i Galli Senoni. 25 Da lui verosimilmente considerati Liguri (Briquel 1987, p. 15 sgg.). 26 Colonna 2000, ripreso in Colonna 2002, pp. 98-100, e in Colonna 2006, p. 194 sg.

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non era partito per Troia. Una makrà strateía ancora più ardita di quella condotta dai Tirreni/Etruschi contro i barbari padani, in tutto degna dell’ane`r dynaste´s dal quale, insieme all’abitare nelle torri, avrebbero preso nome gli Etruschi secondo i sostenitori della loro autoctonia (il primo dei quali tutto lascia credere sia stato proprio lo storico siracusano): teoria rifiutata, com’è noto, da Dionigi di Alicarnasso perché a suo dire gli Etruschi avrebbero chiamato il loro eponimo Rasenna (Dion. Hal., i, 30, 2-3). Il Tirreno ausone delle origini era stato a quanto pare per Filisto un campione di hýbris, esercitata nei confronti sia di Liparo27 che degli Achei, così come lo erano stati i Tirreni/Etruschi nei confronti di altri barbari – quelli del Po – e dei Pelasgi di Ravenna,28 salvo a divenire precocemente affetti da tryphé, come erano ai tempi dello storico (restando pur sempre marcati da una connotazione negativa, benché di segno diverso). Possiamo concludere che nella ricostruzione delle vicende padane e alto-adriatiche tracciata da Strabone sulle orme di Filisto – del quale, pur senza mai citarlo, il geografo anche altre volte sembra costituire una preziosa fonte indiretta –,29 gli Umbri fungono se non da protagonisti, come a Ravenna, almeno da comprimari, ovviamente nella parte della Valle Padana più vicina all’Umbria storica, cioè nella Romagna, di cui Ravenna è stata in ogni tempo il capoluogo. L’atteggiamento benevolo nei loro confronti trova certamente la sua motivazione nella politica dei Siracusani, che al tempo di Dionigi il Vecchio incombono sui due estremi del litorale adriatico considerato ab origine umbro, ossia ad Ancona e ad Adria, cercano alleati e mercenari tra i Galli e guardano con ostilità agli Etruschi superstiti di Spina e di Adria, rivendicando la grecità ‘pelasga’ della prima30 e favorendo, accanto al proprio, uno stanziamento di Galli nel territorio della seconda (Ps. Scyl., 18; Hesych., s.v. Adrianói).31 Ma il quadro complessivo tracciato da Strabone non può non rispecchiare in larga misura la reale fisionomia del popolamento della regione all’epoca in cui le conseguenze della grande invasione gallica non si erano ancora manifestate in tutta la loro incidenza, lasciando sopravvivere ampie tracce dell’assetto etnico precedente, a quanto pare non venuto del tutto meno, del resto, neanche nell’età del geografo.32 È lecito inferire da quanto si è detto che nei primi decenni del iv secolo gli Umbri apparivano come gli abitatori almeno dell’intero litorale romagnolo-pesarese, da Butrium, alla foce del Lamone (Plin. iii, 15, 115), a Rimini e ad Ancona, avendo in Ravenna il loro

27 Si noti il comportamento persecutorio verso il fratello, opposto a quello attribuito (nelle Tuscae historiae?) ad Auleste fondatore di Perugia nei confronti del fratello Ocno, che si fa pacificamente da parte e, lasciata la sua città, va a fondare l’Etruria padana (Serv. Dan., Aen. x, 198). 28 In accordo con la loro antichissima fama di pirati (da ultimo Colonna 2006, p. 195 sg.). 29 Penso in primo luogo al passo concernente i Tirreni/Etruschi di Sardegna, chiamati tout court ‘barbari’ (v, 2, 7, C 225) (Colonna 2002, spec. p. 97), e anche a quello che attribuisce agli stessi la fondazione del santuario adriatico di Cupra, assimilato a un Heraion (v, 4, 2, C 241). 30 Colonna 1993, pp. 132-134. 31 Indicativo per Adria è il lemma di Stefano Bizantino relativo alla Tyrrhenía, detta «paese presso l’Adriatico, (che prende nome) da Tirreno», cui seguono le citazioni di una città Tyrrhenía o Tyrrhené e del mare Tirseno o Tirsenide, nonché l’affermazione che “si dicono Tirreni anche gli abitanti di Adria, da Tirreno [o da Tyrrhanós] secondo il dialetto dorico, da cui con la caduta e con l’aggiunta di una lettera si è chiamato il týrannos“. Lemma di difficile interpretazione (Colonna 1983, p. 14, nota 71; Briquel 1991, pp. 295-313), risalente verosimilmente attraverso Filocoro a una fonte siracusana ostile agli Etruschi (Colonna 1984a, p. 560, nota 10), che identificherei anche in questo caso con Filisto. Lo fa pensare il riferimento iniziale a un’Etruria, evidentemente la padana, contigua all’Adriatico, e quello finale ad Adria, unica città etrusca sotto il controllo di Siracusa (l’eponimo Tirreno sarà allora non il lidio, ma il suo omonimo ausone, di cui a nota 26). Quanto alla città Tyrrhenía o Tyrrhené penserei all’erudizione di Stefano, desideroso di citare non solo il nome del mar Tirreno ma anche quello, ancora inspiegato, della meridionale Tuscana nel Viterbese. 32 A conclusioni non troppo diverse perviene l’attento riesame del passo di Strabone compiuto da Raviola 2006, p. 108 sg.

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epicentro. Ravenna città umbra alla pari di Rimini, come ribadisce con particolare insistenza Strabone, che peraltro mostra di averne, come s’è accennato, una conoscenza diretta (v, 1, 11, c 217; 2, 1, c 219; 2, 10, c 227). E come conferma Plinio, che la dice addirittura Sabinorun oppidum, con una specificazione intesa a fugare ogni possibile dubbio al riguardo (iii, 15, 115), nonostante la sua avvenuta inclusione nell’viii regione augustea invece che nella vi (finché in età severiana la città non diventerà il capoluogo, non a caso, del distretto amministrativo Flaminia et Umbria).33 Il che è pienamente solidale con quanto aveva affermato una corposa tradizione etno-geografica, dai tempi almeno di Erodoto, se non di Ecateo e di Scilace, secondo la quale gli Umbri erano un popolo adriatico, abitatore non tanto e comunque non solo dell’Appennino quanto della paralía, come scriverà, riassumendo efficacemente quella tradizione, Stefano di Bisanzio (Ómbrikoi: «popolo dell’Italia abitante presso il golfo di Adria, in mezzo tra il Po e il Piceno», cioè almeno fino all’Esino). Nella ‘grande Umbria’ dell’immaginario geografico greco, considerata a lungo una regione ai limiti dell’Ecumene,34 ma in cui comunque già si trovava una città dell’importanza di Spina (Spina in Umbris: Iustin., xx, 1, 11), gli Egineti inviarono nel tardo vi secolo a.C., seguendo come a Creta e a Gravisca le orme dei Samii e prima ancora dei Focei, un contingente di ápoikoi (Strab., viii, 6, 16, c 376), il cui stanziamento ad Adria è, se non provato, reso quanto mai verosimile dalle testimonianze epigrafiche (pubblicate già nell’800 e da me soltanto valorizzate).35 E del resto è dalla paralía della regione, come rivela la loro associazione ai Pelasgi di Ravenna, che gli Umbri si sarebbero mossi per popolare la fascia costiera fino alle porte di Ancona scacciandone i Siculi e i Liburni, secondo la riferita ricostruzione mitistorica, risalente anch’essa con buona probabilità, come s’è ipotizzato, a Filisto. Tanto forte era percepito nel mondo greco il radicamento adriatico degli Umbri che essi finirono con l’essere tacciati di tryphé, alla pari degli Etruschi. Lo affermava Teopompo, che li paragonava addirittura ai Lidi e citava, a giustificazione della loro mollezza, la «terra buona» (cho´ra agathe´) da essi abitata (apud Athen., xii, 32, 526 f-527a), venendo echeggiato dal Ps. Scimno (vv. 367-369) e dal Ps.-Aristotele, che esaltava soprattutto la fecondità del bestiame e delle donne (de mir. ausc., 80, p. 836a, ripreso anche da St. Byz., s.v. Ómbrikoi). Lodi estese alle galline di Adria, a quanto pare ben note ad Atene, da Aristotele stesso (hist. an., vi, 1, 558b; de gen. an., iii, 1, 749b), e tanto al bestiame quanto alle galline degli Illiri dal Ps. Aristotele, che anche in questo caso sembra dipendere da Teopompo (de mir. aus., 128, p. 842b). Adria, gli Umbri e gli Illiri sono esattamente la città e i popoli raggiunti dalla colonizzazione siracusana nell’Adriatico al tempo di Dionigi il Vecchio, sicché è lecito sospettare che anche questa informazione 33 Thomsen 1947, pp. 171-174. 34 Colonna 2003 a, p. 159 (idronimo Tartarus); Vattuone 2006, p. 59 sg. 35 Colonna 1974b, pp. 5-10; Colonna 2003a, pp. 167-169. Privo di ogni fondamento è il tentativo di dirottare gli Egineti da Adria a Rimini, perseguito negli ultimi anni da L. Braccesi e dai suoi allievi (da ultimo Braccesi 2006a, pp. 47-50; Braccesi 2006b, p. 98 sg.), ipotizzando da parte dei coloni centro-italici di Rimini un culto di Ecate di cui manca qualsiasi testimonianza epigrafica nel mondo romano prima dell’avanzata età imperiale (le coppe a v.n. da Rimini con H suddipinta, note a Roma e in Italia da oltre cento esemplari, si riferiscono a Ercole, come provano i contesti di provenienza: cfr. Nonnis 2003, p. 290 sg.; Harari 2006, pp. 150-153). La possibilità che il culto della dea abbia avuto corso tra gli Egineti di Adria e da lì sia stato recepito nel Veneto preromano (Colonna 1980, p. 126 sg.), non ha trovato conferme (Fogolari, Prosdocimi 1988, pp. 171, 387 sg:). Adria comunque non era collocata nel paese dei Veneti né da Strabone (che la cita separatamente da Ravenna, Butrium e Spina, come peraltro anche da Padova e Altino, solo perché l’associa alle città della fascia costiera alto-adriatica meno vicine al mare), né da tutti gli autori che la considerano una città etrusca, ossia Varrone, Livio (Colonna 2003a, p. 169, nota 37), Plinio, Plutarco e Paolo/Festo. Né meglio fondata è la recente riproposizione dell’ipotesi di E. Wikén di localizzare gli Egineti di Strabone a Numana (Luni 2004, p. 56).

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provenga almeno in parte dallo storico dei due Dionigi. Nel caso degli Umbri il tópos della mollezza continuerà, indipendentemente dal rapporto con l’ambiente fisico, a essere presente nella storiografia romana a proposito delle scarse virtù militari di quel popolo, dimostrate all’epoca dei conflitti con Roma.36 * Volgendoci alle testimonianze archeologiche, una facies di tardo vi-v secolo a.C. riferibile agli Umbri della Romagna, preceduta nella prima metà del vi secolo da testimonianze di impronta genericamente ‘picena’,37 è stata individuata da Mario Zuffa e dallo scrivente negli anni ’70, in base ai ritrovamenti di tombe, inizialmente ritenute celtiche, e di resti di abitato. Ritrovamenti avvenuti, come già accennato, a S. Martino in Gattara nell’alta valle del Lamone, Casola Valsenio, Dovadola e altri siti delle vallate appenniniche comprese tra il Santerno e il Rubicone, nonché della contigua fascia pedecollinare, dove la scoperta più rilevante, che ha segnato una nuova fase della ricerca, è stata quella della necropoli di Montericco di Imola, scavata e pubblicata con esemplare solerzia da Patrizia von Eles.38 Invece nelle aree di bassa pianura i ritrovamenti, per cause a mio avviso soprattutto ambientali, che hanno ridotto quasi a zero il record archeologico di quel territorio (anche per le attese testimonianze galliche), sono rimasti assai sporadici (come nel caso delle due tombe di Russi).39 Da questo vuoto di conoscenza sono sorti i dubbi recentemente espressi dall’amico Sassatelli circa un’effettiva presenza umbra di vi-v secolo nella pianura e nella stessa fascia pedecollinare, dove gli Umbri, a parte il caso isolato di Imola, sarebbero ‘discesi’ solo nel pieno iv secolo, occupando un territorio fino allora tenuto dagli Etruschi, in un continuum esteso da Bologna a Verucchio.40 In sostanza Sassatelli sembra estendere il caso di Rimini, centro etrusco alla pari di Verucchio, che nell’età di Filisto doveva apparire saldamente in mani umbre,41 all’intera Romagna, in cui un orizzonte etrusco, se mai c’è stato, non è posteriore all’età villanoviana e orientalizzante.42 A riprova dell’etruscità della regione all’epoca della cultura della Certosa Sassatelli adduce alcuni graffiti vascolari recentemente pubblicati da E. Govi e da lui stesso: un inizio di alfabetario dall’abitato di via Laguna a Imola con le lettere aevz, seguite da due lettere incomplete e da un ¯; un monoverbo, rana, dall’abitato del Persolino presso Fa36 Giardina 1994, p. 43 sg. 37 Lollini 1985. Per il boccale ad anse gemine vedi ora Matelica 2008, p. 100, n. 112. 38 Colonna 1974a; Zuffa 1975 e soprattutto von Eles Masi 1982. Il riconoscimento della facies archeologica in questione è stato accolto da pressoché generale consenso, in specie tra i più diretti conoscitori della regione, da G. Bermond Montanari, che è tornata di recente su S. Martino (Bermond Montanari 2004), a Gino V. Gentili (da ultimo Gentili 2003, p. 19 sg.), da Antonio Veggiani a Giancarlo Susini (entrambi in Susini 1982, pp. 93-95 e 116). Si aggiungono ora i ritrovamenti di Riolo Terme (Negrini 2007). 39 Bermond Montanari 1985, pp. 14-18, figg. 1-6; Lollini 1985, p. 323. 40 Sassatelli 1999, pp. 98-107; Sassatelli, Macellari 2002, pp. 407-415 (Sassatelli). Dubbi invero che sembrano rientrati a giudicare dalla carta dell’Etruria padana tra vi e iv sec. a.C., riprodotta in Sassatelli 2005, p. 236, fig. 1 (qui a Fig. 1). 41 Dopo avere già ospitato tra la fine del vi e il v secolo una minoranza umbra (Colonna 1989, p. 18 sg.) accanto a una ‘pelasga’, cioè novilariana (Colonna 1985, pp. 52-56; Colonna 1987), cui ho creduto di poter attribuire la nota stele di guerriero con iscrizione, risalente all’avanzato v secolo per la forma dell’elmo, che è una variante locale del tipo Berru (Colonna 1992, p. 92 sg.; Frey 1992, p. 372 sg.). Cfr., con prospettive in parte diverse, Cristofani 1996, p. 141 sgg.; Sassatelli 1996, p. 263 sgg. Quanto all’iscrizione della stele, esclusa la lettura che ne dà Cristofani e la conseguente attribuzione all’umbro (rifiutata anche, implicitamente, da Rix, ST), ne propongo la lettura mesúuos, con sigma a 4 tratti che in posizione finale è retrogrado e ribaltato di 45° all’indietro. Ma di ciò eventualmente altrove. 42 Mi riferisco al sepolcreto villanoviano scavato recentemente a Imola.

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enza; due tardi frustuli di disperata lettura da ‘pozzi’ stratigrafici aperti nel centro storico di Ravenna.43 L’inizio di alfabetario si affianca, restando a nord degli Appennini, a quelli pure di fine vi-prima metà v secolo provenienti non solo dall’Etruria padana,44 ma anche da una tomba di umbricità non contestata della vicina S. Martino in Gattara (aev) e, con due esemplari, dall’abitato ‘leponzio’ di Prestino presso Como (aev).45 È evidente che questi alfabetari segnalano la conoscenza da parte degli scriventi dell’alfabeto teorico etrusco (nella variante riformata di area settentrionale in vigore a Bologna), ma non necessariamente l’impiego della lingua etrusca. Non va infatti dimenticato che i Celti golasecchiani si servivano di quell’alfabeto, opportunamente adattato nelle sue regole d’uso, per scrivere nella propria lingua fin dalla prima metà del vi secolo, né v’è ragione di dubitare che almeno a partire dalla prima metà del secolo successivo abbiano fatto altrettanto gli Umbri della Romagna, tanto più vicini agli Etruschi di Bologna e tanto più, è da presumere, da essi acculturati. Quanto all’iscrizione rana, essa evoca certo i nomi personali etruschi Ranaza e Ranazu, antichi vezzeggiativi46 di cui peraltro non è finora attestata la forma di base, sia essa onomastica o no (potrebbe infatti non esserlo, come nel caso di Avile, un derivato di avil, ‘anno’, assunto assai presto tra i prenomi etruschi più comuni). Ma evoca anche il plurale *rana dell’appellativo umbro *ranum,47 che compare con l’abl. sing. ranu nel contesto delle prescrizioni sacrificali di una delle Tavole di Gubbio (ii b 19). Un termine del linguaggio sacrale, pertinente a un tipo particolare di scodella o, come è stato più di recente sostenuto, credo a ragione, a una specifica offerta (contenuta in una scodella), traducibile con ‘salamoia’, la miscela di acqua e sale macinato corrispondente alla muries che a Roma serviva alle Vestali per preparare la mola salsa (Fest., p. 152 L.), di cui venivano cosparse le vittime di ogni sacrificio cruento.48 Depone a favore di questa interpretazione il fatto che la scodella d’impasto grigio su cui si trova l’iscrizione è sì di un tipo assai comune nell’abitato del Persolino, ma si distingue da tutti gli oltre 40 esemplari di quella foggia pubblicati insieme con essa49 per essere l’unica ad esibire una pur sommaria decorazione graffita, che la rendeva a prima vista riconoscibile: all’interno della vasca uno zig-zag incorniciante l’iscrizione a mo’ di festone (Fig. 2), all’esterno una sequenza di virgolature.50 Sembra pertanto verosimile che il vaso abbia avuto una funzione rituale – non mancano al Persolino tracce di uno o più depositi votivi51 – e sia stato per questo iscritto a crudo all’interno della vasca – come di solito accadeva non per le normali iscrizioni di possesso, ma per quelle di dedica o di dono funerario – col nome 43 Sassatelli 1999, pp. 98-106, figg. 8-11; Sassatelli, Macellari 2002, p. 411, fig. 1: 4-6, 8. 44 Pandolfini 1990, nn. 9 (Bologna), 25 (S. Polo d’Enza), 27, 33, 34 (Spina). 45 S. Martino: Pandolfini 1990, n. 24. Prestino: 1. Colonna 1988, p. 162, n. 9, ripreso da Prosdocimi 1990, p. 297; Solinas 1995, p. 347, n. 71, con apografo attribuito per errore al n. 118; Morandi 2004, p. 641, n. 185, fig. 22, tav. xxv; 2. Solinas 1995, p. 348, n. 74; Morandi 2004, p. 641 sg., n. 186, fig. 22, tav. xxv. 46 Citati da Sassatelli, che pensa per rana a un gentilizio. Cfr. anche la variante fonetica Ranasu (ThesLE, ii suppl., 1991, p. 50). Per l’alternanza nell’uscita -a/-u, ipotizzabile anche in *Laruza/Laruzu, cfr. De Simone 1978, p. 380 sg. Normali diminutivi per Agostiniani 2003, p. 188, ma quando, nel caso di appellativi iscritti su vasi, andiamo a controllare forma e dimensioni del supporto, constatiamo che le¯tumuza, qutumuza, sunıeruza si riferiscono a vasi non solo piccoli ma riccamente decorati, quasi dei gingilli, né d’altra parte, nel caso di zavenuza, il vaso, peraltro impreziosito dalla lunga iscrizione di dono, appare più piccolo di quelli su cui compare zavena (e lo stesso si può dire delle occorrenze di putlumza e di le¯tumuza). 47 Da affiancare a plurali come veskla, iuka, krematra, tefra, presenti delle Tavole. 48 Untermann 2000, p. 630, con bibl. L’interpretazione preferita è quella proposta da Ancillotti 1996, pp. 161-163, sviluppando quanto già intuito da Prosdocimi 1978, p. 784. 49 Morico 1982, pp. 188.192, nn. 88-132, tav. 100 sg. 50 Morico 1982, p. 188, n. 88:98, tav. 100; Sassatelli 1999, fig. 9 (l’integrazione dell’ornato è mia). 51 Miari 2000, pp. 278-280.

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di ciò che era destinato a contenere. Né è da escludere, come è stato del resto già da tempo proposto, che alla base dei nomi Ranaza e Ranazu stia un appellativo etrusco ricalcante il termine umbro in questione,52 dal quale comunque è direttamente derivato il raro gentilizio latino Ranius, attestato fuori di Roma solo tra gli Umbri dell’ex ager Gallicus e tra gli Equi.53 Ammettiamo tuttavia che rana sia esso stesso un nome di persona e che l’iscrizione sia in lingua etrusca: il suo valore documentario nei confronti del popolamento del territorio non sarebbe maggiore, in assenza di indicatori culturali inequivocabilmente etruschi, della nota dedica sacra del bronzetto di Marte che continuo a credere proveniente da Ravenna,54 o delle rare iscrizioni etrusche dal Montefeltro e dall’ager Gallicus,55 testimonianti la circolazione di persone o di particolari classi di manufatti fuori rispettivamente della loro patria e del loro luogo di produzione. Fig. 2. Scodella frammentaria iscritta C’è poi la questione dei toponimi e dedal Persolino di Faenza. gli idronimi uscenti in -eno-/-ena/-enna, con alla testa Ravenna, da me a suo tempo introdotti nella discussione.56 Sassatelli cita G. B. Pellegrini che, dopo qualche incertezza,57 ha fatto sua la tesi dell’etruscità di quei suffissi e quindi del nome Ravenna, allineandosi esplicitamente a quanto scritto nel 1904 da W. Schulze, seguito da A. Rosenberg, C. Battisti58 e G. Devoto, che da lui è ripetutamente citato.59 Ma è facile elencare 52 Come pensava Pfiffig 1976, p. 24, ad n. 14. 53 A Urbino, Suasa e Alba Fucens (Schulze 1904, p. 281, nota 1). Da tener presente anche il gent. Granius, noto in Umbria e in Etruria, stante la connessione etimologica di umbro *ranum e lat. granum, nel significato primo di ‘chicco’, proposta da A. v. Blumenthal (Untermann 2000, l.c.). Sarà inoltre un caso, ma è un fatto che il nome più antico di Ravenna sarebbe stato \P‹ÓË (Zosim. v, 27, 1), possibile adeguamento greco, condizionato dal nome dell’isoletta contigua a Delo meglio nota come Rheneia (Steph. byz., s.v. \P‹ÓË), di un toponimo umbro *Rana, quanto mai adatto a un luogo interamente circondato dall’acqua (salata), peculiarità cui il toponimo è ricondotto dallo stesso Zosimo (che allude al verbo W¤ˆ). 54 Apparendomi più che dubbia la provenienza dalle vicinanze di Perugia affermata di seconda mano dal collezionista romano F. Ficoroni e rifiutata implicitamente dal primo editore della statuetta, il ben più informato A. F. Gori, forse seguendo una segnalazione lasciata da F. Buonarroti (Colonna 2003b). 55 Carpegna: Rix 1991, Um 3.2; Sestino: Um 2.3; Suasa: Um. 2.9; Ostra: Colonna 1984b, nonché, ovviamente, la stessa bilingue di Pesaro. 56 Colonna 1974a, p. 18 sg. Citavo allora, oltre a Ravenna, Caesena e gli idronimi Vatrenus e Marzeno, cui è da aggiungere almeno Luzzena, fraz. di Cesena (Angiolini 2003, p. xiv), forse da *Lauciena. Il suffisso in questione appare produttivo nella regione anche nell’alto Medioevo, a giudicare dall’idronimo Padenna (dal vii sec.: Fabbri 1990, p. 19 sgg.), dai due toponimi Bondeno del Ferrarese e della Bassa Mantovana (rispettivamente dall’viii e dal ix sec.: DT, p. 86) e dall’etnico Saxenas, alternante con Saxanas, attribuito al vescovo di Sarsina (Angiolini 2003, pp. 139, 149, 178). 57 Pellegrini 1989, p. 1596. 58 A partire da Battisti 1927, pp. 344-34759 Pellegrini 1990, pp. 70-72. Ma già Trombetti ammoniva che «siffatta terminazione è diffusa assai più che non si creda» e citava toponimi anatolici e iberici, oltre alla lingua slava (Trombetti 1940, p. 236).

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un buon numero di attestazioni toponomastiche dei suffissi in questione, a cominciare da qualche derivato dello stesso nome Ravenna,60 presenti in ambiti linguisticamente italici che non hanno mai conosciuto insediamenti di Etruschi,61 così come del resto anche in ambito ligure e celtico.62 Il fatto è che Schulze ha fondato quasi esclusivamente il suo asserto, con un’involontaria petitio principii, sul repertorio toponomastico del Granducato di Toscana raccolto nella prima metà dell’800 dal benemerito E. Repetti, cui Pellegrini ha aggiunto quanto raccolto da S. Pieri, restando per lo più nei confini della stessa regione, e poco altro. Ma se si scorre la lista dei toponimi toscani citati da quei due autori si constata che in gran maggioranza risultano concentrati nel Casentino, nel Valdarno superiore, nel Chianti, nel Senese e in Val di Chiana, ossia nella fascia centroorientale della regione, ovviamente la più esposta, assieme alla corrispondente parte del Lazio, all’impatto dialettale umbro-sabino, impatto che ha portato già in età romana ad alterare la pronuncia di nomi etruschi quali *Purzĕna (lat. Porsenna), Vipina (lat. Vibenna), Rasna (gr. \P·Û¤ÓÓ·).63 In realtà Pellegrini non ha tenuto alcun conto di quanto ha scritto nel 1972 il compianto Helmut Rix, che era alla base della mia presa di posizione. Questi infatti ha sostenuto, ribadendolo anche recentemente senza essere per quanto sappia contraddetto da alcuno, che il suffisso -eno- con le sue varianti, contrariamente alla comune opinione, è estraneo all’etrusco e appartiene invece all’indeuropeo, che lo ha conservato nell’iranico, nel baltico, nello slavo e, per l’appunto, nell’umbro, coi dialetti affini,64 nonché a mio avviso, come già accennato, anche nel ligure e nel celtico.65 Esemplare è il caso del poleonimo Velzna, lat. Volsinii, che per influsso umbro è divenuto col tempo *Volsena (cfr. il gent. Volsienus di Assisi: cil , xi, 5390) e infine Bolséna.66 In Romagna abbiamo il caso di Caesena, alla cui base è un nome personale ‘italico’, attestato in etrusco come Kaisie > *Kaise > Ceise, forma quest’ultima sottostante al gentilizio Keisna, fungente da gamonimico sulla stele sepolcrale di tardo v secolo appartenente a una donna di probabile origine retica, Reithvi, rinvenuta nel Bolognese a Tombarelle presso Crespellano.67 Il poleonimo latino Caesena può rispecchiare l’umbrizzazione di un poleonimo etrusco *Keisna, identico al citato gentilizio di matrice italica di cui peraltro quella di Tombarelle è l’unica occorrenza finora nota,68 ma non meno plausibile, tenuto conto del forte ra60 Che ricorre nell’alta valle del Volturno, in pieno Sannio (Serra 1957). 61 Nel Sannio i toponimi Aufidena, Palena, Sicalenum, Tavenna (DT, p. 646), tra i Vestini Ofena (< Aufinum), tra i Sabini (TÈÒÚ·) M·ÙÈ‹ÓË, tra i Marsi Cerfennia, tra gli Equi (Trebula) Suffenas e l’idronimo Tolenus, tra i Volsci Cesennia (Liv. ix, 44) e gli idronimi Amasenus e Fibrenus. 62 Vedi nota 65. 63 Colonna 2001, pp. 29-31. Particolarmente evidente ed antico è l’apporto sabino nella toponomastica di entrambi i versanti della bassa valle del Tevere: Fescennium, Capena, Fidenae (?), Tellenae, Artena (Colonna 2007a, p. 106), Fregenae. 64 Rix 1972, p. 727 sg.; Rix 1998, p. 213, nota 13 (a proposito del teonimo etrusco Cilens). In umbro, oltre ai nomi della decuvia Talenate e della porta Tesenaca delle Tavole di Gubbio, si possono citare il nome del Trasimeno e i gentilizi delle iscrizioni Rocca 1996, nn. 2, 20, 22, 24 (= Rix 2002, Um 10, 23, 35-36, 38), nel sud-piceno i nomi personali Titieno- e Kdufenio- (Rix 2002, TE 3 e TE 7). 65 Per il ligure vedi il nome dei Bagienni e gli idronimi Audena e Scultenna (Liv. xli, 16, 19 e 22) dell’Emilia occidentale, per il celtico gli etnonimi Carnuteni, Ruteni, Ucenni, e la lista di oltre venti nomi in -enna data da Holder 1896, col. 1439, s.v., tra i quali il poleonimo Vienna nella Narbonese, il monte Cevenna in Aquitania e la selva Arduenna nella Belgica. Per il celtico cisalpino vedi gli antroponimi Raneno- (Mesocco: Morandi 2004, p. 519 sg.) e Belleno- (di un Cenomane emigrato a Padova: Capuis 1992, p. 221) e toponimi di area ‘leponzia’, come Ardena, Ardenno, Baveno, Civenna, Lavena, Laveno, Varenna, o retica, come Vipitenum e Clavenna, presente anche, come idronimo, nel Piacentino. 66 Allo stesso modo, tanto per fare un altro esempio, nell’entroterra di Volsinii il coronimo *Prucna (cfr. il gent. Prucina di Rix, et At 1.151) è divenuto il moderno Procéno. 67 Sassatelli 1989, pp. 67-69; Govi 2004, p. 248, nota 63; Sassatelli 2005, p. 251. Miei cenni in Colonna 2004a, p. 76, e Colonna 2007b, p. 20, nota 55. 68 Così Colonna 1974a, p. 19.

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dicamento e del rilievo sociale dei Caesii, e fin da età repubblicana, tanto in Umbria che nella stessa Romagna,69 è l’ipotesi che il poleonimo sia in relazione col nome degli antenati umbri di quella gens. Né si può escludere che lo stesso marito della Reithvi sia un umbro che, accolto nella comunità felsinea, ha assunto come gentilizio il suo patronimico, */Kais-iio-/ o */Kais-idio-/, etruschizzato per l’occasione nella forma Keisna. Nel caso di Ravenna Devoto ne ha indagato a fondo la base toponomastica rava-, stabilendo che si tratta di una base ‘mediterranea’ di larga diffusione in Italia. Ma di fronte alle tre alternative da lui storicamente ritenute possibili per il poleonimo, la romana, l’umbra o l’etrusca, non ha esitato a concludere che «dal suffisso -enna acquista diritto di precedenza l’eventualità etrusca».70 Pellegrini scarta a priori l’alternativa romana, a ragione, e conclude: «il suffisso -enna o -ena rappresenta un suggello indubbio di etruschità in un nome locale sicuramente preromano».71 Nulla di più di quanto era stato scritto a suo tempo da Schulze. * Vengo ora all’ultima parte del mio contributo, concernente gli Umbri di Sarsina e di Mantova. È noto che per gli Antichi Mantova – l’unica città esistente nell’‘Oltrepò’ etrusco, assieme alla non localizzata Melpum – aveva avuto un popolamento multietnico, risultante da una sequela di fondazioni e rifondazioni. Mentre infatti Servio nel commento a Aen., x, 202 si limitava a menzionare, piuttosto banalmente, gli Etruschi e i Veneti (questi ultimi solo perché la città si trovava nella Venetia, il che fa il paio con l’attribuzione di Adria ai Veneti da parte di Tolemeo),72 il Servio aggiunto lo correggeva precisando che si sarebbero avvicendati nel ruolo di fondatori della città i Tebani venuti con Manto figlia di Tiresia (equivalenti, si direbbe, ai Pelasgi di Spina, di Ravenna e forse di Bologna),73 gli Etruschi venuti con Tarconte o con Ocno, e infine non i Veneti ma i Galli (ovviamente Cenomani) o, secondo altri, i Sarsinates qui Perusiae consederant, ossia un contingente di Umbri, abbastanza consistente da ‘rifondare’ la città. L’alternativa gallica, scontata nel cuore della Padania, non trova conferme, né storiche né archeologiche, anche se non manca nel patrimonio epigrafico della città l’isolata testimonianza di un nome personale di origine celtica.74 Diverso è il caso degli Umbri, cui sono stati giustamente attribuiti da R. De Marinis alcuni ex voto di lamina bronzea ritagliata provenienti da più luoghi del Forcello, del tipo bene attestato a Montefortino di Arcevia, associati ad altri pressoché laminari ma ottenuti a fusione, spettanti ad una variante ancora più schematica del mio gruppo ‘Marzabotto’, diffusa in ambito ligure.75 Trovare una pur tenue traccia archeologica di Umbri non sulla costa, a Ravenna o a Spina, ma nei pressi di Mantova, la città dell’Etruria padana più lontana dalle vallate appenniniche, integrata per di più da testimonianze rinvianti ai Liguri montani, è assai significativo. Presuppone infatti che quegli Umbri siano riparati a Mantova e nel suo territorio da siti della bassa 69 Dove sono presenti a Sarsina, Galeata, Cesena, Imola e Ravenna (Schulze 1904, p. 135; Susini 1956, pp. 31-44; Cenerini 1996). 70 Devoto 1934. 71 Pellegrini 1990, p. 71. 72 Anche se si è autorevolmente affermato che «a Mantova convivevano tre stirpi: etrusca, veneta e celtica» (Malnati 2005, p. 281). 73 Alludo alla definizione di Felsina princeps Etruriae, in probabile alternativa a Cortona, dove i Pelasgi si erano trasformati in Etruschi, sicché poté essere definita metrópolis Tyrrheno˜n (Colonna 1999). 74 De Marinis 2005, p. 75, fig. 27: 1 (Eluveitie). 75 De Marinis 1986b, fig. 173 sg.; Colonna 1989, pp. 17-19, fig. 13; Miari 2000, pp. 356-359, fig. 59 C-D; Sassatelli, Macellari 2002, pp. 426-428, con carta di distribuzione degli schematici umbro-liguri a fig. 14.

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pianura abitati a contatto coi Liguri, e certo più vicini al Po che alle vallate da cui sia gli uni che gli altri provenivano. La menzione dei Sarsinati quali ‘fondatori’ della terza Mantova viene quindi a essere una testimonianza preziosa, anche se indiretta, della precedente ‘colonizzazione’ umbra della Cispadana di cui aveva parlato Strabone, comparandola con evidente esagerazione, ma non senza un fondamento di verità, con quella etrusca. Nel caso di Mantova veniamo con essa a conoscere quella che era stata la sede di partenza dei suoi ‘coloni’: Sarsina, ossia uno dei principali stanziamenti umbri dell’Appennino romagnolo, posto sull’importante direttrice viaria che dalla valle del Tevere scendeva in quella del Savio. E soprattutto veniamo a sapere, indirettamente, che la ‘colonizzazione’ ha interessato un settore tutt’altro che trascurabile della pianura, spingendosi al di là dei confini della Romagna, nel Ferrarese e nella contigua Bassa Modenese, in piena coerenza con quel che scrive Livio a proposito della grande invasione: i Boi e i Lingoni, senza oltrepassare l’Appennino, ossia restando a nord di Rimini, non Etruscos modo sed etiam Umbros agro pellunt (v, 35, 2). Ovviamente questi Umbri della pianura non avranno avuto città ma saranno vissuti katà ko´mas nei campi e nelle paludi, con scarse possibilità di lasciare apprezzabili tracce archeologiche. L’avanzata degli Umbri verso il Po diventa meglio comprensibile se teniamo conto del fatto che essa avrà ripercorso itinerari segnalati già nel tardo vii-prima metà del vi secolo da elementi culturali di matrice ‘picena’, ossia umbro-picena, presenti sia a nord del Po che nelle stesse sedi di partenza.76 Mi riferisco per la Romagna ai corredi delle due tombe già citate di Russi, al pettorale da Castrocaro77 e al supposto kardiophýlax ovale dal Rio Carpena,78 oltre che alle fibule del tipo Grottazzolina presenti in molti siti. Al di là del Po una significativa concentrazione di elementi ‘piceni’ si riscontra tra Mincio e Adige, in direzione di Este e del paese dei Reti. Al primo posto vanno ricordate le c.d. statue-stele di Gazzo Veronese, sito-chiave sul Tartaro, riguardo alle quali occorre fare alcune precisazioni. A giudicare dai due unici esemplari in qualche misura leggibili si tratta infatti di stele a terminazione arcuata e sagoma vagamente antropomorfa, concepite ab origine senza l’indicazione né della testa né delle braccia o di altre membra, come semplice supporto degli abiti e degli attributi scolpiti su di esse.79 Tale peculiare tipologia fa guardare piuttosto verso l’Adriatico che non verso il Tirreno, dato che l’unico termine di confronto è offerto, nonostante le grandi differenze stilistiche, dalle stele della Daunia, in alcune delle quali, pur ‘vestite’ e adornate in modo non dissimile dalle altre, sono omesse le braccia e, almeno in un caso, anche il collo e la testa.80 La meglio conservata delle due stele di Gazzo (Fig. 3) porta, sopra la tunica e sotto il caratteristico mantello a falde triangolari dai bordi decorati, una coppia di grandi dischi-corazza (ben visibile solo l’anteriore), che è merito di L. Malnati aver riconosciuto:81 dischi non allacciati tra loro ma con i relativi tiranti che pendono cogli anelli terminali bene in vista. È questa un’arma difensiva inconfondibilmente ‘picena’, le cui provenienze più settentrionali sono da Numana, Colfiorito di Foligno e M. Tezio sopra

76 In questo senso è vero, come è stato scritto, che «la colonizzazione [umbra] del vi secolo a.C., antagonista di quella etrusca, fu un fenomeno posteriore, proveniente da sud, dalla valle del Savio e dall’Appennino: essa si innestò in un contesto etnico già sostanzialmente italico, affine a quello dei nuovi venuti» (Vattuone 1990, p. 56 sg.). 77 Colonna 1974a, p. 17, nota 1, tav. I b; Miari 2000, p. 271 sg., fig. 43 A. 78 Colonna 1985, pp. 46-49, fig. 3 sg. (altrimenti considerato un umbone di scudo: Tomedi 2000, p. 13). 79 Capuis 1993, p. 186, fig. 41; Malnati 2005, p. 282 sg., figg. 4-5. 80 Nava 1988, p. 191 sg., fig. 204 sg. (tipo v B). 81 Malnati 2005, l.c.

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Fig. 3. Stele antropomorfa da Gazzo Veronese (da Malnati).

Perugia.82 Arma già nota in Val Padana dalla riproduzione di un esemplare del tipo Mozzano o Vetulonia, alquanto più antico di quello in questione, su una stele da Castelletto Ticino.83 Inserita a Gazzo nel costume di un dignitario per accrescerne il prestigio, la vediamo riapparire, come ben visto da A. M. Chieco Bianchi, su una minuscola statuetta fittile di guerriero (Fig. 4), appartenente al ricco corredo della tomba Benvenuti 79 di Este, datata verso gli inizi del vi sec. a.C.84 La sua presenza non meraviglia, dato che nello stesso comprensorio delle Valli Veronesi, a Oppeano, le recenti ricognizioni di superficie hanno fatto conoscere pendagli di evidente ispirazione picena: a stivaletto, a manina, a palla, a batocchio (Fig. 6),85 già noti sporadicamente anche a Este.86 Si comprende allora come sia arrivato nel Tirolo austriaco, risalendo il corso dell’Adige fino al passo di Resia, il disco a decoro geometrico del gruppo Alba Fucens, portato in origine da una donna umbra, di cui si è rinvenuto un frammento nel deposito di Fliess.87 82 Tomedi 2000, carte di distribuzione (incomplete) alle tavv. 149 sg.; Colonna 2007b, p. 25 sg.; Colonna 2007c, fig. 11. [Da aggiungere una coppia da Matelica: Matelica 2008, p. 209, cat. 247]. 83 Da ultimi Tomedi 2000, pp. 17-19, fig. 6 A; Piana Agostinetti 2004, p. 45 sg., fig. 48 a. 84 Chieco Bianchi 1999, p. 383 sg., tav. ii v; Capuis, Chieco Bianchi 2006, p. 129, n. 26, tavv. 53, xli d. La doppia linea di contorno sembra alludere alla cerchiatura in ferro di un disco-corazza del tipo Paglieta o Alfedena. La statuetta non è un’importazione, come si potrebbe pensare, poiché il gonnellino indossato dal personaggio rinvia alla tradizione locale che ha prodotto la statuetta di ugual modulo da Montagnana (Babbi 2008, p. 30 sg., tav. i A, fig. 1 A, con datazione troppo alta) e quelle, di modulo assai maggiore e fattura più elaborata, da Remedello Sotto (De Marinis 1986a, p. 85, nn. 155-156, fig. 36) (Fig. 5). Qualcosa di simile si intravede del resto addosso ad alcuni dei guerrieri della prima schiera della situla bolognese della Certosa e all’aratore di un prodotto dell’arte delle situle da Treviso (Capuis 1993, p. 218, fig. 33). 85 Salzani 2008, p. 152, fig. 93; 7-14. 86 Nella stessa t. Benvenuti 79 e nella Benvenuti 133. 87 Tomedi 2000, pp. 76 e 79, n. 309, tav. 108.

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Fig. 4. Figurina fittile da Este, tomba Benvenuti 79 (da Chieco Bianchi 1999).

Ma torniamo alla testimonianza del Servio aggiunto. La sua credibilità è stata finora indebolita, se non del tutto inficiata, dalla chiosa erudita che segue il nome dei Sarsinati: qui Perusiae consederant, ‘che avevano abitato a Perugia’. Affermazione che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, sia sul versante mantovano che su quello perugino. Direi che essa risponda all’esigenza di far sapere al lettore che i Sarsinati non erano degli Umbri qualsiasi, ma degli Umbri che un tempo erano vissuti in un’importante città dell’Etruria propria, o nei suoi pressi. Umbri pertanto in qualche misura assuefatti alla convivenza con gli Etruschi, che avrebbero replicato a grande distanza temporale e geografica stabilendosi a Mantova. In proposito c’è un fatto Fig. 5. Statuette fittili da Remedello Sotto nuovo, su cui di recente ho portato l’atten(da De Marinis 1986). zione: il rinvenimento sul M. Tezio, alle porte di Perugia, avvenuto intorno al 1900 ma passato pressoché inosservato, di testimonianze archeologiche riferibili a una comunità di Italici venuti a più riprese con le loro donne, portatrici dei tipici dischi a decoro geometrico, dalla regione del Fucino, abitata da Marsi ed Equi. Italici vissuti nel territorio di Perugia, certo col consenso dei Perugini, tra la fine dell’viii e la metà del vi secolo a.C., a stretto contatto con gli Umbri di Gubbio insediati al di là del Tevere.88 L’età della loro scomparsa coincide col momento storico che vede Perugia acquisire definitivamente il proprio statuto urbano, alla pari di Arezzo e di Fiesole, in approssimativa sincronia con la formazione della cultura della Certosa e di quella di Imola-S. Martino in Gattara. Da qui l’ipotesi di una migrazione di questi Italici tra le affini popolazioni delle valli romagnole, dove avrebbero dato origine, 88 Colonna 2007c.

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Fig. 6. Pendagli bronzei da Oppeano (da Salzani 2008).

risalito il Tevere fino alle sorgenti e disceso per un tratto il Savio, all’insediamento di Sarsina, non lontano dal quale non sembra mancare qualche segnale del loro arrivo.89 Per poi partecipare a pieno titolo alla ‘colonizzazione’ umbra della pianura e infine arrivare a Mantova. A favore di questa, che è e resta beninteso un’ipotesi, stanno per ora solo alcuni indizi. Li elenco brevemente: 1. la distinzione operata da Polibio tra gli Umbri e i Sarsinati (Polyb., ii, 24, 7), come se questi fossero degli Umbri in qualche misura ‘diversi’ dagli altri, almeno sul piano politico-militare, il che è confermato dai Fasti che menzionano per il trionfo del 266 a.C. i soli Sassinates;90 2. la distinzione presente in Livio (xxxi, 2, 6) tra l’Umbria nel suo insieme e il territorio di cui Sarsina era stato un tempo il capoluogo, la tribus Sapinia, che prendeva nome dal Sapis ma aveva un’estensione assai maggiore dell’alta valle del Savio;91 3. il nome del capoluogo, Saxĭna > Sassĭna > Sarsĭna, che per la base92 si confronta con la Sassula equa (Liv., vii, 19, 1), mentre per il suffisso si allinea 89 Mi riferisco al prezioso arredo bronzeo cui apparteneva il bronzetto di cavaliere nudo nell’atto di sfilare al passo come sulle lastre fittili di Tuscania (Lubtchansky 2005, pp. 234, 288, R 63, fig. 160), ma con la testa rivolta verso lo spettatore, rinvenuto nella vicina Galeata (Guzzo 1995; Mazzeo Saracino 2005, p. 28, con fig.) (Fig. 7). Avvicinato giustamente da Guzzo alla serie “colta” degli Schurzkouroi nord-etruschi (cfr. Cristofani 1985, pp. 30 sg., 263, n. 17; Maetzke 1987, p. 190, n. 11495 e, per il cavallo, p. 196, n. 11541; Jurgeit 1999, p. 26 sg., n. 13), dovrebbe datarsi non dopo il primo quarto del vi secolo. A età di poco più recente della supposta migrazione, verso il 540-520 a.C., risale un bronzetto votivo di offerente maschile ammantato, anch’esso da Galeata (Romualdi 1987, p. 295 sg., n. 3, fig. 198; Miari 2000, p. 276, n. 2, con datazione errata; Mazzeo Saracino 2005, p. 10), ornato del torques come molte sculture arcaiche di area ‘picena’ (Colonna 1992, p. 103). Si tratta di un prodotto umbro che trova per la vistosa sproporzione testa-corpo un buon confronto nel Museo di Arezzo (Richardson 1983, p. 125, n. 1, fig. 261 sg.; Maetzke 1987, p. 190, n. 11564). I due di Galeata sono i più antichi, assieme al Marte di Ravenna, dei molti bronzetti rinvenuti nella Romagna: non si conosce il loro contesto di provenienza, ma probabilmente vengono da un santuario. 90 Mentre nella relativa periocha di Livio si fa il nome degli Umbri (Harris 1971, pp. 84, 98). Anche il famoso gioco di parole plautino tra umbra e Umbra (Mostell. 770) depone a ben vedere in questo senso: «Ma ci hai almeno una donna di Sarsina, se non ce n’hai una dell’Umbria?» (trad. E. Paratore) (Sarsinatis ecqua est, si Umbram non habes?). Come dire: «Ci hai almeno una donna di Lugano, se non ci hai un’italiana?». Se i Sarsinati appartenevano a pieno titolo alla nazione umbra, la battuta sarebbe risultata incomprensibile. 91 Susini 1982, p. 116. In questa luce va letta la distinzione di Plinio (iii, 14, 114) tra i Sarsinati del municipio romano e gli scomparsi Sappinates, etnico pertinente alla fase pre-urbana di un più vasto territorio (Roncalli 1988, p. 399 sg.). 92 Coincidente con un nome personale italico (da cui il gent. Sassius, noto a Larino e Benevento: Schulze 1904, p. 369), etruschizzato in *Sakse (cfr. il derivato patronimico ±aksalu di Spina) o *Saksu (cfr. il gentilizio arcaico Sasuna di Orvieto) (Colonna 1993, p. 140, nota 69).

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con le etrusche Felsĭna e Mutĭna: possibile spia di una comunità che aveva conosciuto una precedente, secolare convivenza con Etruschi, come appunto è il caso dei Sarsinati qui Perusiae consederant; 4. il culto di Ercole che, a giudicare dall’epiteto Saxinas attribuito al dio, era il principale di Sarsina,93 e che era stato praticato in età tardoarcaica, accanto a quello di Marte, anche sul M. Tezio,94 per non parlare della regione del Fucino; 5. l’esistenza tra i centri minori della tribus Sapinia sia di Mevaniola (Galeata), che solo il diminutivo distingueva dalla Mevania umbra, sia di un castrum detto Mutilum (Liv., xxxi, 2, 7; xxxiii, 7, 2), omonimo dell’insediamento probabilmente sannitico di cui un’iscrizione etruFig. 7. Bronzetto di cavaliere da Galeata sca da Eboli, databile verso il 500 a.C., ci ha (da Mazzeo Saracino 2005). conservato l’etnico (mi Mutilates);95 6. il gent. Velcenna di un notabile di Mevaniola onorato con una statua,96 che ricalca così fedelmente, per tradizione familiare, il gent. *Vel/¯(a)na di Perugia e Arezzo da conservare, contro le esigenze della fonetica latina, cui si adeguano i Volcena di Ravenna, il timbro vocalico della sequenza vel-.97 Ma ovviamente l’ultima parola al riguardo può venire solo dal prosieguo dell’esplorazione archeologica dell’alta Romagna, che vivamente si auspica. Appendice L’iscrizione da S. M. Maddalena di Cazzano Penso che meriti di essere riesaminata in questa sede l’iscrizione graffita entro l’anello del piede di una ciotola di impasto buccheroide, rinvenuta nel 1875 nel Bolognese, a S. Maria Maddalena di Cazzano, com. di Budrio, ma edita solo nel 1978.98 Del vaso è stato scritto da chi quei materiali conosce che «per l’impasto e la forma (tipo 12 B) presenta una certa affinità con i materiali romagnoli»,99 il che ne rende assai probabile la datazione al v sec. a.C. L’iscrizione consta di tre lettere tracciate con ductus angoloso in piena evidenza al centro del campo (Figg. 8, 10): zbr se la direzione è sinistrorsa, vbr se invece è destrorsa, cosa che oggi credo senz’altro più probabile.100 Scrivevo nel 1978: «l’alfabeto 93 Come suppone Panciera 1969 (ristampato, con nota di aggiornamento, in Panciera 2006, pp. 683-686), pubblicando l’ara con dedica Herculi Saxinati proveniente dall’agro di Todi. Di fatto il dio è l’unico raffigurato tra gli undici bronzetti della stipe di iii-ii sec. a.C. rinvenuta nei pressi del Foro di Sarsina (Ortalli 1988, p. 169 sg., fig. 24 sg.: attualmente [2008] nel Museo di Sarsina ne sono esposti dodici, ossia l’Ercole più nove offerenti maschili e due femminili). Né si conoscono in Romagna altri bronzetti del dio, oltre a quello ben noto di inizio v sec. dai pressi di Rimini. 94 Maggiani 2002a, p. 276, fig. 7. 95 Ree 2001, pp. 430-432, n. 100 (G. Colonna). 96 cil xi, 6605; Mazzeo Saracino 2005, pp. 7 sg., 15. 97 Schulze 1904, p. 99. 98 Colonna 1978, p. 400 sg., tav. lxxv, b-c. 99 G. Morico, in von Eles 1982, p. 155, nota 7. 100 Perché: 1. la z con le traverse ravvicinate e montanti di lato senza affatto tagliare l’asta è assai rara prima del iv sec. a.C.; 2. tra le 28 lettere tracciate senza ordine all’interno della vasca (Fig. 9) vi sono tre v e nessuna z; 3. delle 19 lettere della vasca di cui è riconoscibile l’orientamento 11 sono destrorse.

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Figg. 8-9. Ciotola iscritta da S. M. Maddalena di Cazzano (bo) (fot. Museo Civico Archeologico, Q 271 e 272).

è etrusco ma la presenza di b è imbarazzante. Assieme al ductus angoloso fa guardare verso l’area medio-adriatica, in direzione sud-picena». Oggi sappiamo che il beta è presente anche nelle iscrizioni paleoumbre (fiasca da Chiusi e biconico forse da Otricoli a Uppsala),101 oltre che sulle stele di Novilara e nelle iscrizioni sud-picene, mentre ne è confermata l’assenza nelle iscrizioni etrusche (alfabetari a parte),102 leponzie e venetiche. L’ipotesi più ragionevole è pertanto che l’iscrizione in esame sia umbra e che essa confermi anche per l’ambito umbro-padano di v secolo l’uso della scrittura, praticato col ricorso all’alfabeto etrusco non riformato, come era avvenuto un secolo prima in ambito leponzio e venetico (il che non significa che l’alfabeto riformato non fosse all’epoca conosciuto dagli Umbri e dai Celti di Como: vedi gli alfabetari parziali di Faenza, S. Martino di Gattara e Prestino menzionati in precedenza). Altro dato di fatto è che si è in presenza di una scrittura abbreviata, come in talune iscrizioni vascolari ‘devocalizzate’ del Comasco, coeve approssimativamente alla nostra.103 Si schiudono in proposito due possibilità interpretative, a seconda che b stia per /f/, come è probabile nell’iscrizione di Uppsala, risalente al vii secolo, oppure per /b/. Nel primo caso un’integrazione possibile, accettando per l’aggettivo vufru delle Tavole Iguvine (ii b 21. 24, 25) il significato di ‘votivo’ recentemente proposto,104 sarebbe v(u)fr(u) L’aggettivo, che in questa occorrenza sarebbe di genere neutro, si riferirebbe alla destinazione assegnata al vaso entro un contesto santuariale: il che, oltre a non trovare alcun riscontro nei ritrovamenti della località di provenienza, non appare compatibile col caleidoscopio di lettere isolate tracciate all’interno della vasca dalla stessa mano cui si deve

101 Rix 2002, p. 62, Um 40 e 41. 102 E a parte il lemma abat sovrapposto alle ultime due lettere dell’alfabetario arcaico di Perugia da uno scrivente umbro-etrusco (Roncalli 2002, pp. 142-144). 103 Solinas 1995, nn. 53 d (kpp) e 55 (prn). Cfr. i nn. 100 (setupk) e 111 (spt), di età più tarda, quormsklp del ciottolo di S. Bernardino di Briona (lettura di Rubat Borel 2005, pp. 15-19) e anche un graffito etrusco di v secolo da Adria (amnz: Maggiani 2002b, p. 58). 104 Cerri 1996, p. 437.

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italia ante romanum imperium l’iscrizione (Fig. 9).105 Se a ciò si aggiunge la difficoltà che nel v secolo, quando era da tempo disponibile il segno 8 dell’alfabeto etrusco, gli Umbri con la b notassero ancora la /f/, come forse accadeva due secoli prima, l’integrazione e la conseguente interpretazione appaiono da rifiutare. Se invece, come è scontato in questa età, la b nota soltanto /b/ e se, come suggerisce il contesto funerario del vaso, nel lemma in questione è da riconoscere un nome di persona in nominativus pendens, la restituzione del testo sarà, in trascrizione interpretativa, ub(e)r vel u(m)b(e)r

È noto infatti che nella scrittura etrusca la v dinanzi a consonante nota di regola in tutte le epoche, e non solo sul Fegato di Piacenza e sui Cippi di Tunisia, la vocale u,106 e che l’omissione di una nasale davanti a un’occlusiva, labiali comprese, è anch’essa sicuramente attestata in quella scrittura.107 La forma così guadagnata ha l’aspetto del nom. sing. di un tema in -ro- (cfr. appellativi come ager e pacer), riferibile a un nome personale ricalcante l’etnico dei lontani Uberi, popolo celtico del Vallese,108 o, assai più verosimilmente, quello degli Umbri. Avremmo in tal caso la prima, e per ora unica, attestazione dell’etnico degli Umbri nella loro lingua, *Umber, da affiancare all’aggettivo ombriíen (loc.) del sud-piceno, al greco Ómbroi di Licofrone, Polibio e Stefano Bizantino, al latino Umbra (femm.) di Plauto, per citare solo le testimonianze più antiche.109 Data la prossimità a Bologna e alla conseguente verosimile situazione di contatto linguistico, è ovvia l’ipotesi che il nostro abbia finito con l’adottare, riconvertendolo nella sua lingua, il nome con cui era chiamato dagli Etruschi della vicina città, Umre, Umrie o Umrce.110 Un procedimento analogo, ma di senso inverso, a quello per cui il padre o un avo del famoso Tursikina di Chiusi, reduce da un lungo soggiorno in Umbria, ha adottato come proprio, nella forma etrusca *Turs(i)ce, il nome con cui era stato chiamato nel paese vicino.111 Fig. 10. Apografo dell’iscrizione da S. M. Maddalena di Cazzano.

105 L’unico confronto a me noto è una kylix attica con almeno 16 lettere etrusche graffite disordinatamente nella vasca, proveniente da una tomba a camera di Tuscania (cie 10398). L’intento sembra essere stato di rendere inutilizzabile il vaso, una volta ‘donato’ al defunto ed entrato a far parte del corredo funerario. Nel nostro caso l’identità di mano risulta anche dalla peculiare forma della b, che vi compare due volte. 106 Vedi gli esempi editi nelle annate recenti della ree : 1999, n. 10 (vmranal); 2001, n. 101 (zvfr)); 2002, n. 139 (vka). 107 Esempi in Pfiffig 1969, p. 50 sg. (tra i quali pupu® per pumpu® in Rix 1991, Pe 1.339, 341). 108 Plin. iii, 135, 137. 109 Sulle attestazioni dell’etnico: Ancillotti 1996, pp. 21-23. Per Plauto vedi anche nota 91. 110 *Umre è attestato da Rix 1991, ah 1.74 e, indirettamente, dal gent. Umrana di Chiusi (29 occorrenze elencate in Rix 1991, i, p. 182, cui aggiungi ree 1994, n. 33, e 1999, n. 10), la cui -a- è anaptittica: *Umrena > *Umrna > Umrana. Umrie: Fa 1.7; Pe 1.1268, oltre ai femm. Umria (Cl 1.1913, 2620 sg., 1294) e Umprea (Pe 1.187) e al gent. Umrina (Cl 1.352-353, 1383). Umrce: AS 1.129, ThesLE I, iii suppl., p. 52 (Populonia), oltre al gent. femm. Umrci (AS 1.395). 111 De Simone 1993, p. 31 sg., con bibl.

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I L MITO DI ENEA TRA V E IO E RO M A

A

rgomento della mia relazione è, come recita il titolo e come è bene ribadire fin da ora, non il mito di Enea come tale, con le sue molteplici implicazioni – storiche, storico-religiose, letterarie, archeologiche – sulle quali esiste ormai una vastissima letteratura, ma, come ritengo si possa ipotizzare, il mito di Enea quale indicatore di una comune credenza dei Veienti e dei Romani circa la più remota origo delle loro città, rivendicata come propria dai primi nel v secolo, all’epoca della lunga conflittualità con Roma culminata nel memorabile assedio, fatale per le sorti della città etrusca. In un convegno che replica fin nel titolo Gli Etruschi e Roma quello tenuto nel 1979 per festeggiare i 70 anni del mio maestro Massimo Pallottino,1 ho scelto infatti di occuparmi della città etrusca che, anche a causa della sua prossimità geografica (poco più di 15 km in linea d’aria), è stata più intensamente di ogni altra, oltre che da più antica data, in relazione con Roma. Alla quale ha conteso a lungo, forse più a lungo di quanto era a priori prevedibile, il dominio del basso Tevere, pur avendone perduto già nell’età di Anco Marcio il possesso della foce con le ambite saline.2 Aggiungo che la scelta del tema è stata favorita dal fatto che conosco Veio e i suoi problemi per esperienza diretta, di studioso e di scavatore, meglio di ogni altra città etrusca di primaria grandezza. Oltre a occuparmi da molti anni coi miei collaboratori dell’edizione degli scavi effettuati in passato nel santuario di Portonaccio,3 ne ho avviato di nuovi nello stesso Portonaccio e soprattutto nell’area sommitale di Pian della Comunità. Ciò è avvenuto nell’ambito del progetto di indagini sull’enorme comprensorio della città – quasi 200 ettari, interamente esplorabili e solo in minima parte esplorati –, avviato nel 1996 dall’Università “La Sapienza” per iniziativa del rettore Giuseppe Tecce, d’intesa con Anna Moretti e la Soprintendenza Archeologica da lei diretta.4 Progetto che ho avuto il privilegio di coordinare sul versante universitario fino all’anno scorso, quando ne ho passato il testimone all’amica Gilda Bartoloni. Nel convegno del 1979 mi ero soffermato sulle profonde convergenze di ordine culturale tra Roma e Veio nel corso del Villanoviano e dell’Orientalizzante antico, affiancate a partire dall’Orientalizzante medio da crescenti apporti ceretani e ‘costieri’, culminati con l’ascesa al potere del tarquiniese Lucumo figlio di Demarato.5 Ma già due anni prima, nel convegno sul Lazio e il mondo greco ideato da Giovanni Pugliese Carratelli, avevo sottolineato il comportamento dei Veienti, unici tra gli Etruschi nel condividere con i Romani e gli altri Latini la drastica riduzione dei consumi funerari, attuata a partire dall’età di Servio Tullio.6 Sono quindi ritornato sul tema dei rapporti etrusco-romani nel convegno organizzato da Mauro Cristofani nel 1986, mettendo in 1 Roma 1981a. Su Pallottino e Roma cfr. Colonna 2007a. 2 In Etruria l’unico caso comparabile di contiguità topografica tra città di pressoché pari dimensione, con le conseguenti difficoltà di convivenza, è quello di Vetulonia e Roselle, gravitanti entrambe sul lacus Prile che ne assicurava l’accesso al mare (ancora attuale Banti 1960, p. 94 sg.). Sui rapporti anche territoriali tra Veio e Roma rinvio alla mia introduzione a Veio nel relativo fascicolo del cie (ii, 1, 5, 2006, spec. pp. 3-7, figg. 1-2), realizzato in collaborazione con D. F. Maras. Ho trattato specificamente del rapporto di Etruschi e Latini col Tevere in Colonna 1986 (ristampato, come molti degli articoli di cui alle note seguenti, in Colonna 2005). 3 Dopo l’edizione degli scavi di M. Pallottino nella zona dell’altare (Veio 2002) è in corso, a cura mia e di L. Ambrosini, quella degli scavi Santangelo (1944-1952). 4 Roma 2001, p. 3 sg. (G. Colonna). Mi piace ricordare che mia precipua collaboratrice è stata in questi scavi Barbara Belelli Marchesini (che ne scrive ivi, pp. 23-28). 5 Colonna 1981b, pp. 161-165. Cfr. anche Colonna 1988, pp. 296-300, e ora Martínez-Pinna 2008. 6 Colonna 1977, spec. pp. 158, 161 sg.

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evidenza il ruolo tutt’altro che meramente ricettivo avuto in essi da Roma nel vi secolo, a cominciare dalla straordinaria impresa architettonica del tempio di Giove Capitolino e dalla connessa ‘invenzione’ del tempio a tre celle su podio,7 che Vitruvio chiamerà tuscanico, di cui il tempio del Portonaccio offre la più compiuta ed esemplare realizzazione.8 E ancora, con il saggio del 1991 sugli scudi bilobati e sul costume dei Salii ho messo in luce un altro caso di piena sovrapponibilità, culturale e religiosa, tra Roma, con gli altri Latini, e Veio,9 ampiamente valorizzato nella recente mostra della Regione Lazio sulle città etrusche comprese nei suoi confini.10 Questi richiami hanno lo scopo di delineare lo sfondo su cui si colloca la mia trattazione, rendendone espliciti in anticipo i presupposti. Posso pertanto entrare in argomento. All’origine di tutto c’è il rinvenimento di un frammento di statua fittile tardoarcaica, avvenuto in uno dei cantieri operanti nel quadro del citato Progetto Veio della ‘Sapienza’, il cantiere aperto in loc. Campetti da Andrea Carandini con i suoi collaboratori. Presane visione nel settembre 2007, quando fu organizzata dagli scavatori un’esposizione sul campo dei reperti più notevoli, in occasione della visita agli scavi compiuta dal ministro Rutelli, ho chiesto e ottenuto generosamente dal collega Carandini e dallo scopritore dott. Ugo Fusco il permesso di occuparmene. Cosa che ho iniziato a fare parlandone sei mesi fa nelle due giornate di studio dedicate dalla ‘Sapienza’ allo stesso Carandini per i suoi 70 anni,11 per cui mi scuso con chi mi avesse allora ascoltato per le inevitabili ripetizioni. Il vocabolo Campetti abbraccia tutto il vasto comparto nord-occidentale dell’insediamento etrusco di Veio,12 rimasto fuori della urbanizzazione di età augustea conseguente all’istituzione del municipio.13 Il luogo del rinvenimento è diverso e lontano da quello del santuario noto con lo stesso vocabolo, scavato in tempi successivi da Pallottino, dalla Santangelo e dal g.a.r., situato sulla pendice settentrionale del pianoro (Fig. 1: 8).14 Il cantiere aperto da Carandini si trova invece sull’opposta pendice, poche decine di metri a nord-ovest della porta antica detta di Portonaccio e poco più di duecento metri a sud della porta detta di Caere (Fig. 1: 5). Qui, a ridosso delle mura urbiche, che in questo tratto sono interamente franate nella sottostante valle del Fosso della Mola, si estende su un’area di circa un ettaro il più vasto complesso edilizio di età romana finora noto a Veio, distribuito su tre terrazzi e dotato di bagni, cisterne e fontane, che lo hanno fatto ritenere in passato una sontuosa villa suburbana.15 7 Colonna 1987. Sul tempio capitolino da ultimo, a proposito di Vulca, Colonna 2008, pp. 54-56, 62. 8 Colonna 2008, pp. 59-62, con la ricostruzione grafica della pianta da me elaborata con l’aiuto di Germano Foglia (per quella dell’alzato si vedano i prospetti riprodotti in Roma 2008, p. 200, dove anche una veduta della sua realizzazione virtuale in loco realizzata nel 1993 dall’arch. C. Ceschi per conto della Soprintendenza, mentre quella collocata nel 2008 al centro della mostra in corso sulle città etrusche del moderno Lazio, opera dell’arch. M. di Puolo, si intravede nel disegno a p. 18 dello stesso catalogo, senza stranamente alcun riscontro nel testo). 9 Colonna 1991. Sono ritornato sulla tomba 1036 di Veio, dopo il suo ‘scavo in museo’ ad opera di F. Boitani, in Colonna 2007c, p. 23 sg. 10 Roma 2008, pp. 44 sg. (G. Bartoloni), 176 sg. (M. Torelli), 186 (S. Fortunelli), 265 sg., nn. 255 e 258 (Eadem). Mostra, mi sia consentito di aggiungere, in cui risulta incomprensibile la presenza del santuario di Gravisca e l’assenza di quello, ben più rilevante e a livello panetrusco, di Pyrgi. 11 Con una comunicazione dal titolo Ancora sorprese per la conoscenza della scuola di Vulca, e non solo, dal suolo di Veio, tenuta il 16 giugno 2008 nell’Odeion del Museo dell’Arte Classica della “Sapienza”. Mi sono deciso a riprendere in questa sede l’argomento in quanto mi è stato comunicato dagli organizzatori dell’incontro che non è prevista la pubblicazione dei relativi atti. 12 Così denominato a causa della sua precoce messa a coltura (xvii secolo) come terra disboscata e arabile, a differenza della contigua Macchiagrande. 13 Liverani 1987. 14 Vagnetti 1971, Comella Stefani 1990, Carosi 2002. 15 Ward-Perkins 1961, p. 69, figg. 2 (“Large Roman building” e “Roman cistern”), 16 e 20, tav. xvi b; De Agostino 1965, p. 27, tavv. ix-x; Torelli 1965; Liverani 1987, p. 153, nota 57; Fusco 2001a, pp. 255-258, fig. 2;

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Fig. 1. Le aree sacre di Veio. 1. Piazza d’Armi; 2. Pendici di Piano di Comunità; 3. Piano di Comunità; 4. Portonaccio; 5. Campetti Sud (scavi Carandini); 6. Porta Caere; 7. Campetti, scavi Fenelli; 8. Campetti Nord (scavi Pallottino e Santangelo); 9. Macchiagrande (scavi inglesi); 10. Macchiagrande (scavi Stefani); 11. Casale Caprioli (da Colonna 2006c, con aggiunte).

Gli scavi di Carandini (Fig. 2) hanno invece rivelato che si tratta di un complesso di carattere pubblico, definito come ‘termale-terapeutico’, ma connotato da forti valenze Fusco, Cerasuolo 2001; Ceci 2008, pp. 67 e 79-81, figg. 74 e 89. Il dott. Fusco mi comunica che una sua relazione è in stampa nei «RendPontAcc».

Fig. 2. Il complesso termale-terapeutico di Campetti Sud (cortesia U. Fosco).

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cultuali, a giudicare da alcune iscrizioni lapidarie di piena età imperiale con dediche rivolte a Ercole associato alle Fonti, a Diana e a Igea forse associata con Esculapio.16 Valenze indiziate anche per l’epoca arcaica, dato che nel 1976 era stato portato alla luce, in giacitura secondaria nel riempimento di una cisterna cavata nel masso, un bel frammento di bacino fittile di louterion dipinto all’interno con un busto di Satiro flautista, databile alla fine del vi-inizio del v sec. a.C. (Fig. 3),17 del tutto simile a quello, dipinto con una protome di ariete, rinvenuto nel 1939 nel vicino santuario di Fig. 3. Frammento di louterion fittile dipinto Portonaccio.18 Inoltre dagli scavi Carandida Campetti Sud. ni provengono sia alcuni frammenti di terrecotte architettoniche con fregi figurati di i fase, sia un calice di bucchero iscritto sul fondo interno con la sigla etrusca ha, rinvenuto una cum aliquot vasibus ad cultus usum pertinentibus, come si legge nel cie .19 Nel 2003 si è aggiunto a questi già eloquenti indizi il rinvenimento che ha attirato la mia attenzione. Si tratta di un cospicuo frammento di statua fittile policroma, proveniente dai livelli sottostanti al terrazzo inferiore del complesso edilizio di età romana, nel settore oggi più vicino al ciglio della rupe e un tempo alle mura urbiche,20 dove giaceva nel livello più basso di un saggio allora eseguito fino a raggiungere la superficie del masso (us 3248).21 Il frammento consiste in un ‘attributo’, chiamiamolo per ora così, che il personaggio raffigurato dalla statua sosteneva orizzontalmente con le due mani. Conservato per intero, l’oggetto ha una forma allungata, cilindroide, appena avvallata nel mezzo: misura cm 32,5 di lunghezza per non più di cm 9 di diametro (Fig. 4). Sulla faccia posteriore si aprono due ampie finestre subrettangolari, ottenute ritagliando a crudo, a modellazione già avvenuta,22 la porzione di superficie corrispondente a due profondi cavi di alleggerimento, risparmiati in corso d’opera all’interno del fittile, anche al fine di agevolarne il processo di cottura (Figg. 5-6).23 Finestre certamente tamponate in antico col riporto della stessa porzione di superficie, oggi mancante, in precedenza asportata a crudo e cotta a parte, con lo stesso procedimento messo in atto per tutte le 16 Solo quest’ultima finora edita (Fusco 2001a, pp. 268-270). Delle altre due è stata data una notizia preliminare nei rapporti annuali dei responsabili del Progetto Veio. 17 Proietti 1977; Proietti 1980, p. 108, n. 129, con foto a colori; Colonna 2002, p. 145, nota 56, tav. l, in basso a ds., con altra bibl. Già all’epoca era stato osservato che la costruzione della supposta villa «aveva inglobato strutture in grossi blocchi tufacei squadrati pertinenti assai probabilmente ad un complesso più antico» (Proietti 1977, p. 456). 18 Veio 2002, p. 238, n. 514 (L. Michetti), tav. l. 19 Terrecotte: Fusco 2001b, p. 14 sg., nn. 18 e 19. Vasi cultuali di bucchero: cie 6342 (O. Cerasuolo). In un contesto sacrale l’unico teonimo cui la sigla può riferirsi è Ha(rıan)/Fa(rıan), equivalente a “Progenitore”, Pater Indiges (Colonna 1980, pp. 161-170: per h- al posto di f- cfr. la dedica Rix, et Cl 4.4). 20 È il settore illustrato in Fusco, Cerasuolo 2001, fig. 2. 21 Devo queste informazioni alla cortesia del dott. Fusco, che mi ha anche consentito, d’intesa con la Soprintendenza, di studiare con ogni agio il frammento e di farlo disegnare con altrettanto agio dal nostro bravo Sergio Barberini, entrambi senza muoverci dalla Sapienza (il frammento è custodito presso l’Ufficio Scavi della Soprintendenza a Isola Farnese). 22 Ma prima della dipintura, come si rileva dalle scolature sul taglio delle finestre. 23 Secondo una prassi ben nota nella grande coroplastica arcaica: basti osservare il dorso dell’altorilievo dei Sette del tempio A di Pyrgi (Colonna 2000, p. 313, fig. 36).

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Figg. 4-5. Frammento di statua fittile da Campetti Sud.

statue acroteriali del tempio di Portonaccio, rivelato dalle finestre visibili sul dorso dell’Apollo, dell’Ercole, del Mercurio e della Dea col bambino (Fig. 9).24 L’aspetto dell’‘attributo’ è quello di un fagotto, potremmo dire, risultante dall’avvolgimento di un panno, con cura ma senza spianare le pieghe createsi con tale operazione, attorno a un qualcosa di rigido che in tal modo si è voluto celare del tutto alla vista.25 L’involto era portato orizzontalmente sulla testa – ne resta sulla faccia inferiore l’inconfondibile impronta subcircolare (cm 6,5 × 9) – da un personaggio che, per mantenerlo in equilibrio e scaricarne in parte il peso, si aiutava con le mani, afferrandolo saldamente alle due estremità (Fig. 7). Le mani – unica parte superstite della figura – fortunatamente consentono, con le loro dimensioni26 e con quella dell’apertura delle braccia, di attribuire alla statua una grandezza pari a circa due terzi del vero (ossia circa m 1,20 di al24 Colonna 1987, p. 23, figg. 60 e 62. 25 Simile alla lontana all’involto che Rea porge a Crono sui vasi attici, contenente una pietra al posto del neonato Zeus. 26 Cm 8-8,5 di lunghezza per 5-5,5 di larghezza.

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Fig. 6. Prospetti e sezioni dello stesso.

tezza della figura, se in piedi, e circa m 0,45 di lunghezza dell’involto). E inoltre consentono, grazie alla dipintura di colore rosso scuro, propria nella tradizione della scuola di Vulca, Maestro dell’Apollo compreso, dell’incarnato maschile, di riconoscere che il portatore, ed è questo un dato di primaria importanza ai fini esegetici, era un uomo. Il panno dell’involucro, dipinto di un bianco tendente al verdognolo, appare di un tessuto sottile e aderente, mosso da una serie continua di pieghe parallele, oblique e poco profonde, come può esserlo solo un panno di lino. Lo cingono tre brevi nastri dipinti di un nero violaceo, larghi poco meno di 3 cm e lunghi il centrale e il sinistro, rispetto alla figura, circa 25 cm, il destro poco più di 10 cm: nastri che adempiono a una funzione essenzialmente simbolica e/o decorativa, essendo non annodati ma semplicemente trattenuti per uno dei capi dal portatore dell’involto, grazie alla pressione esercitata su di essi con la testa e col palmo delle mani. La loro disposizione, assieme a quella delle pieghe – meno accentuate sulla destra, fino a mancare quasi del tutto sulla testata dell’involto (Fig. 6) – e allo stesso trattamento delle dita, che nella mano destra sono un poco più corte che nella sinistra, fa ritenere che la figura era leggermente ruotata verso la propria destra, mostrando in primo piano la mano sinistra con la corrispondente estremità del fagotto (Fig. 7). Tornando ai nastri, il loro tessuto immaginato diverso e apparentemente più pesante di quello dell’involucro (lana? porpora?) fa pensare a quelli che in Etruria compaiono con una certa frequenza tra gli accessori dell’abbigliamento aristocratico, a partire dalla

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Fig. 7. Parziale ipotesi ricostruttiva della statua da Campetti Sud.

media età arcaica e almeno per tutto il v e iv sec. a.C., appuntati sul chitone col capo superiore all’altezza della spalla, inizialmente solo a destra, poi anche a sinistra, allo scopo di segnalare il rango divino, principesco o sacerdotale dei personaggi così insigniti.27 Ne mostro alcuni esempi databili nella prima metà del v secolo: il ‘Vertumno’ di Isola di Fano,28 il Tina dell’altorilievo del tempio A di Pyrgi,29 il Turms di un altorilievo pure templare di Arezzo (Fig. 8).30 Un antecedente, a mio avviso, dei clavi di porpora cuciti verticalmente nella tunica dei senatori e dei cavalieri romani, così come dei loro omologhi etruschi, a cominciare dall’Arringatore.31 La presenza di questi ‘legami’, in realtà solo apparenti, induce a ritenere che il panno in questione sia per l’appunto il chitone di lino di un personaggio eminente, cui l’ignoto plasticatore ha immaginato sia stato fatto eccezionalmente ricorso, assieme ai nastri che di solito lo impreziosivano, per avvolgere un oggetto di particolare prestigio. Non mi soffermo sullo stile perché appare evidente la parentela con le grandi opere di coroplastica uscite dall’officina veiente del Maestro dell’Apollo.32 La resa del tutto convenzionale e ‘astratta’ delle pieghe dell’involucro, la cadenza ripetitiva delle loro creste, evocanti una superficie marina increspata da un colpo di vento, ricordano in particolare la Dea col bambino, cui pure rimandano le dita sottili e affusolate (Figg. 9-10). Non credo possano esservi dubbi sulla fattura veiente dell’opera e sulla sua datazione nei primi due o al massimo tre decenni del v secolo a.C. 27 Bonfante 1975, p. 39 («tassels»). Per le testimonianze arcaiche, di cui la più antica è offerta dal Paride dell’omonimo giudizio delle lastre dipinte Boccanera: Colonna 1992, p. 41, nota 80. 28 Cristofani 1985, pp. 154 e 268, n. 44. 29 Colonna 2000, p. 31, nota 282. 30 Maetzke 1987, pp. 54, 58. 31 Dohrn 1968, p. 6 sg., tav. 16 sg.; Colonna 1991, p. 106 sg. 32 Cfr. nota 8.

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Fig. 8. Particolare dell’altorilievo dei Sette a Tebe da Pyrgi (sinistra). Frammento di altorilievo da Arezzo (destra).

Assai più difficile, ma anche più intrigante, è risalire al soggetto rappresentato. Personaggi maschili che sorreggono al di sopra della testa qualcosa di pesante con le braccia alzate, talora aiutandosi con la stessa testa, non mancano nell’arte greca ed etrusca, ma gli oggetti sollevati, a prescindere ovviamente da Atlante33 e dai tanti telamoni, anche in funzione di manici o di sostegni dei più vari oggetti,34 sono massi, scogli, tronchi o pezzi di mobilio, e i personaggi sono centauri, giganti, tritoni, ciclopi o altri esseri mostruosi o comunque subumani (Fig. 11).35 Non è certo questo il nostro caso. Ugualmente da scartare è l’ipotesi di un accolito che porti eccezionalmente non sul braccio ma sulla testa, al modo delle canefore,36 il cesto o vassoio (kanoûn) con gli accessori per il

33 limc iii, s.v. Atlas, figg. 11 sg., 34 sg., 38 (Aa.Vv.). 34 Per es. Caruso 1988, p. 49, n. 96, tav. xiv; Venezia 1996, p. 688 sgg., nn. 126-129, 163. 35 limc iv, 1988, s.v. Kentauroi et kentaurides (Aa.Vv.); viii, 1997, s.v. Gigantes (F. Vian). Un esempio di satiro lithobolos in Rausa 1991, p. 57, fig. 5. Il tritone di Fig. 11 è su un’anfora etrusca a figure nere da Falerii (Bonamici 2004, p. 528, fig. 5 sg., con bibl.). Il motivo degli uomini che sollevano e scagliano massi dall’alto delle mura di città assediate, di origine orientale, è ripreso nel fregio dell’heróon di Trysa (Boardman 1995, tav. 222.11) e nelle urne tardo-etrusche con i Sette a Tebe (Small 1981, p. 154, tavv. 9a, 39a, 40a, 42b, 43a). Figure femminili con pesi sulla testa nella bronzistica sarda: Alba 2005, pp. 96 sg., 178 sgg. 36 Schelp 1975, passim; Durand 1986, pp. 91, 106 sg., figg. 17 b, 25; Neils 1996, p. 178 sgg., figg. 8.1, 3-5. Cfr. anche le portatrici di diphros nelle Panatenee (Simon 1983, pp. 63, 67, tav. 20), di cista nel culto di Demetra (ibid., pp. 18, 34, tav. 3: 1) o addirittura di una statua di divinità (Artemide in Venezia 1996, p. 740, n. 348).

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Fig. 10. Statua di Latona dal tempio di Portonaccio (particolare).

Fig. 9. Statua di Latona dal tempio di Portonaccio.

Fig. 11. Anfora etrusca a figure nere da Falerii.

sacrificio, perché la forma dell’oggetto portato è inconciliabile con un attrezzo di quel genere e il suo peso, pur a fronte di un minore ingombro, sembra esserne stato ben maggiore, avendo richiesto l’uso di entrambe le mani. Inoltre il kanoûn non compare mai coperto e tantomeno interamente avvolto da un panno, anche se sappiamo che in esso veniva celato, in mezzo ai grani d’orzo e d’incenso, il coltello del vittimario. L’avvolgimento entro un panno di pregio è in effetti il tratto distintivo e semanticamente significante della rappresentazione. Istruttivo è il confronto col líknon, il setaccio da grano dal forte valore simbolico, che nelle raffigurazioni di cortei nuziali presenti sui vasi attici è portato dalle donne sulla testa, scoperto e in bella mostra,37 mentre nella cerimonia misterica svolta dinanzi a una coppia divina (forse Cibele e Sabazio), raffigurata sul cratere del gruppo di Polignoto dalla tomba VT 128 di Spina, è portato solo dall’anziana sacerdotessa in prima fila e appare velato con un panno trapunto dalle ampie ricadute, che rende ancor più manifesta, come è stato opportunamente osservato, la sacralità del suo non visibile contenuto (Fig. 12).38 Sacralità che nel nostro caso è 37 Bérard 1986, pp. 24 sg., 88, figg. 26, 135. 38 Bérard 1986, pp. 19-27, fig. 21 a-b; Spina 1993, p. 288, n. 268 (A. Parrini); Gilotta 2004, p. 138, con bibl. a p. 154; Krauskopf 2005, n. 848.

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Fig. 12. Cratere attico dalla t. VT 128 di Spina.

ulteriormente esaltata dai nastri che cingono l’involto senza essere annodati, in modo non dissimile dalle bende o taeniae di lana con cui si usava acconciare, lasciandone pendere i capi a mo’ di nappe, le vittime animali destinate al sacrificio.39 Abbiamo in conclusione un personaggio maschile che porta sulla testa, tenendolo ben saldo e nella posizione che gli conferiva la massima visibilità, praticamente esibendolo, un oggetto connotato come spiccatamente sacro. Il personaggio non può essere un accolito e nemmeno un sacerdote nell’atto di compiere un rito misterico, dato il modo del tutto anomalo, per un uomo, di portare l’oggetto, giustificabile solo in circostanze e per cause eccezionali. E non può esserlo anche perché l’uomo è stato ritenuto meritevole di essere eternato in quell’atteggiamento con una statua, e in un luogo che, come si è detto all’inizio, con ogni probabilità era all’epoca un santuario. In questa situazione il pensiero corre inevitabilmente ai due protagonisti della saga che nel mondo antico ha rappresentato il paradigma mitico del salvataggio di oggetti sacri in occasione di un evento disastroso (e, in subordine, del loro trasferimento in altra sede). Mi riferisco al vecchio e invalido Anchise che, portato sulle spalle da Enea, fugge da Troia in fiamme recando con sé i sacra della città, affidatigli dal figlio. Anchíses kaì tà hierá, recita la didascalia della scena dell’imbarco eis te´n Esperían, illustrata nel i sec. a.C. sulla Tabula Iliaca capitolina (Fig. 13), sulla cui sostanziale dipendenza dalla perduta Ilíoupersis di Stesicoro non vedo ragione di dubitare.40 Da parte sua Dionigi di Alicarnasso, parafra39 Cfr. per es. le teste di buoi della tomba dei Rilievi di Cerveteri (Blanck 1986, p. 41, tav. xxii a). 40 Come hanno argomentato da ultimi Malkin 1998, pp. 229-232 (trad. ital.), e Debiasi 2004, pp. 161-177, nonché Debiasi 2008, p. 69 sg. Cfr. anche Roma 2000, p. 198 (R. Cappelli); Mavrogiannis 2003, p. 42 sg., e, per i temi e la composizione della Tabula capitolina, Maras 1999, pp. 90-93; Basel 2008, pp. 237 (E. Simon), 440, n. 199 (P. Blome). Sull’antichità del nome e del concetto di Hesperia: Mele 1991, pp. 240-242.

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sando quanto aveva narrato nel tardo v sec. a.C. Ellanico di Lesbo nei suoi Troiká, anch’essi perduti, nomina dapprima, e due volte, gli hierà tà patro˜a (i, 46, 1-2), quindi i theoùs toùs patro´ous (i, 46, 4) e infine i tà héde to˜n theo˜n (i, 47, 6), «i simulacri degli dei», identificando anch’egli, implicitamente, i sacra in questione non col Palladio ma con i Penati di Troia.41 Il racconto di Ellanico era stato ripreso già nel iii sec. a.C. da Licofrone, che nell’Aléxandra aveva nominato i patro˜’agálmata … theo˜n (v. 1262), «le immagini degli dei patrii», che Enea «assieme al vecchio padre» avrebbe messo in salvo prima di ogni altra cosa, prima della sposa, dei figli e di ogni sua ricchezza, péplois perischo˜n, «avvolgendole in pepli» (v. 1266). Precisazione per noi preziosa perché, a parte l’uso estensivo, forse condizionato dal metro, del plurale péploi, indica esattamente il genere di involucro che avvolge l’‘attributo’ della statua veiente. Forma e dimensione del Fig. 13. Particolare della Tavola Iliaca Capitolina. quale, d’altra parte, sono non a caso quelli che ci si aspetterebbe per una coppia di statuette (sigilla) di formato medio-grande,42 e anche eventualmente per una coppia di «caducei di ferro e bronzo» (o di scettri?), ossia di quei loro sostituti aniconici che, come Timeo affermava di aver appreso sul posto, erano gelosamente custoditi a Lavinio nell’adyton, inaccessibile ai profani, del santuario dei Penati.43 L’ipotesi pertanto che il frammento in questione appartenga non a una statua isolata ma a un gruppo, il gruppo appunto di Anchise che, stando sulle spalle di Enea, porta in salvo i sacra di Troia, sembra risultare non solo attraente, ma del tutto plausibile. Se è così, la prima considerazione da fare riguarda la struttura compositiva attribuibile all’ipotizzato gruppo veiente. Dato che Anchise sostiene sulla testa il prezioso fardello aiutandosi con entrambe le mani, non poteva ovviamente essere aggrappato con una o due braccia al collo del figlio, le gambe rannicchiate o penzoloni, come appare in quasi tutte le circa settanta raffigurazioni del mito presenti sui vasi attici, in gran maggioranza a figure nere e provenienti quasi tutti dall’Etruria o dalla Campania etrusca, databili nei decenni dal 540 al 460 a.C., da Exechias al Pittore di Brygos, con la massima 41 Jacoby 4 F 31, con le ottime precisazioni di Ampolo 1992, pp. 322-326 (dove anche alle note 2 e 3 tutta la precedente bibliografia). Le opere databili di Ellanico – il primo poligrafo dell’antichità – risalgono «all’ultimo terzo del v secolo», ossia all’età tardo- e post-periclea (Meister 1998). 42 L’altezza di circa m 0,45, attribuibile ad esse tenendo conto della riduzione a 2/3 del vero calcolata per la statua, ossia circa un piede e mezzo, non è infrequente nei bronzi votivi etruschi e italici (esempi in Colonna 1970, p. 29, nota 15, nn. 2, 119; Richardson 1983, figg. 385, 472, 474, 479, 811; Cristofani 1985, nn. 4.7, 46, 55, 67; Berlin 1988, pp. 217, n. 1; 255, n. 6). 43 Assieme a un «fittile troiano», che poteva essere il vaso nel quale si riteneva fossero stati trasportati (Dion. Hal. i, 67, 4). Cfr. Dubordieu 1989, pp. 124, 264 sgg.

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concentrazione tra il 510 e il 490 a.C.44 Doveva invece essere seduto su una spalla di Enea nel c.d. Schultersitz, che è la postura esibita dalla Tabula Iliaca appena citata, divenuta normale in età romana e oltre,45 anche perché sancita dalla sua adozione per il gruppo di Enea con Anchise ed Ascanio, che nella galleria di statue-ritratto dei mitici re dei Latini antenati della gens Iulia, ospitata nell’esedra sinistra del Foro di Augusto, occupava il posto d’onore, accompagnato dall’elogium dell’eroe.46 In quella postura la spalla portante, per lasciare in piena vista la testa del portatore, è di norma quella in secondo piano, che nel nostro caso è la destra, dato che il gruppo muoveva, come sopra si è rilevato in base alla disposizione delle pieghe dell’involto e al trattamento delle mani, verso la sinistra dello spettatore, in direzione opposta a quella usuale,47 adottata anche nel Foro di Augusto. La postura ha goduto di un grande favore in età romana perché consentiva di porre in mano ad Anchise il recipiente dei sacra troiani – motivo notoriamente sconosciuto a tutta l’iconografia greca del mito, nonostante le non poche fondazioni di città ascritte ad Enea –, ma in realtà non si può dire meno antica dell’altra, anche se non ha avuto successo e risulta assai poco documentata.48 Compare infatti su due vasi attici a figure nere databili intorno al 510 a.C. – l’idria Astarita dei Musei Vaticani attribuita al Pittore di Priamo, in cui Enea con Anchise sulla spalla destra assiste all’oltraggio di Aiace a Cassandra,49 e un’olpe a Malibu con il gruppo dei fuggiaschi strutturato in modo analogo, preceduto da una Creusa retrospiciente –,50 oltre che sul noto tetradramma incuso, databile intorno al 490 a.C., coniato da Aineia, la città della Calcidica non lontana da Tessalonica che faceva risalire la sua fondazione all’eroe, in cui il gruppo di Enea con Anchise sulla spalla sinistra è preceduto da quello di Creusa retrospiciente con una figlia sulla medesima spalla (Fig. 14).51 La postura in questione appare del resto sul piano tipologico, accanto ovviamente a quella a cavalcioni,52 come la più antica, essendo di immediata lettura nella sua semplicità paratattica,53 e di fatto risulta attestata per altri personaggi del mito fin dall’età arcaica: in Grecia per i gruppi del sileno che porta sulla spalla una menade54 e di Demetra con Kore bambina,55 in Etruria per i gruppi anche

44 Elenco delle raffigurazioni in Schauenburg 1960, pp. 178-181; Canciani 1981; Mangold 2000, pp. 175184, nn. 1-67. Cfr. Fuchs 1973, pp. 615-619; Pontrandolfo 2008. In questa postura sembra immaginato Anchise in fuga da Sofocle nei versi superstiti del suo Laocoonte (Dion. Hal. i, 48, 2). L’iconografia ritorna nel iv sec. a.C. per il gruppo di Eracle traghettante Ploutos (Paribeni 1985, p. 83, fig. 134 sg.). 45 Come mostra il suo frequente riapparire nell’iconografia di S. Cristoforo che traghetta senza saperlo Gesù Bambino. 46 Fuchs 1973, Spannagel 1999, pp. 90-131, 365-396, tavv. 3-9. Da ultimi Grandazzi 2008, pp. 859-868, spec. p. 866; Geiger 2008, passim, spec. pp. 103 sg., 130, 195 sg. 47 Schauenburg 1960, p. 182. Il movimento verso sinistra sembra talora alludere in età romana all’arrivo in Occidente invece che alla fuga da Troia (Zevi 1989, p. 250 sg.). 48 Mangold 2000, p. 77, figg. 25 e 39. 49 Idria acceduta alla collezione Astarita prima del 1964, proveniente probabilmente da Vulci. Da ultimo Iozzo 2002, pp. 74-78. n. 84, tavv. xlvii e xlix; Iozzo 2008. 50 Mangold 2000, p. 65 sg., fig. 39. 51 Canciani 1981, n. 92; limc vi, 1992, s.v. Kreousa; Ampolo 1992, pp. 325 e 331, nota 19; Vanotti 1995, p. 31, nota 38, e sulla città pp. 149-152. 52 Per es. Boardman 1974, figg. 137 (coro di cavalieri a cavallo di satiri) e 239 (giocatori di palla); Lissarrague 1995, p. 180, fig. 14 (sileno liricine a cavallo di Eracle). 53 Come rileva giustamente Fuchs 1973, p. 618. 54 Per esempio su una lekythos a f.n. del Pittore di Gela (Blome 1990, p. 81 sg., n. 125) e su un cratere a f.r. del Pittore di Siracusa da Falerii (De Lucia Brolli 1991, p. 44, fig. 20). 55 Mollard-Besques 1954, p. 100, n. C 98, tav. lxxii. Cfr. anche le statuette fittili rodiote e siceliote con la donna che porta sulla spalla sinistra uno dei figli (Higgins 1954, p. 64, n. 119, tav. 22; Orlandini 1968, p. 39, fig. 22, a sin.), motivo ripreso in età ellenistica a Veio (Vagnetti 1971, p. 89, N II, tav. xlvii), o quella che sembra essere una statua di culto (Blome 1990, p. 121, n. 180, con bibl.).

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qui del sileno che porta una menade56 e di un eroe privo di attributi che porta una donna chiamata Turan esibente a quanto pare clava ed arco (Eracle e Onfale?),57 oltre che, proprio a Veio, per Latona col piccolo Apollo (Fig. 10). Ma veniamo alle raffigurazioni etrusche della fuga di Enea e Anchise da Troia. Un precedente isolato, più antico di un secolo rispetto agli altri documenti, è offerto dalla nota oinochoe etrusco-corinzia attribuita alla cerchia del Pittore della Sfinge Barbuta, rinvenuta a Caere,58 in cui il riferimento alla Ilioupersis è assicurato dalla presenza del Cavallo di Troia da cui stanno Fig. 14. Moneta di Aineia. uscendo, o sono appena usciti, quattro guerrieri (Fig. 15).59 Li hanno preceduti due compagni che già affrontano altrettanti difensori accorsi dalla città, uno dei quali (Enea?) è stato trasportato sul carro dall’auriga, mentre dal lato opposto delle mura si allontanano a piedi quelli che sembrano essere un Anchise cieco guidato dal piccolo Ascanio e una Creusa che tiene per mano una figlia.60 Le altre raffigurazioni etrusche del mito si datano nel v sec. a.C.: fatta eccezione per due sommità di candelabro da Spina, databili verso il 440-420 a.C., in cui Anchise cieco cammina sorretto da Enea,61 si attengono tutte allo Schultersitz, con il padre sempre barbato e a capo scoperto, seduto sulla spalla sinistra del figlio. Le elenco brevemente in ordine cronologico: 1. Scarabeo di corniola già De Luynes alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Anchise indossa solo un breve mantello che gli lascia il torso scoperto, solleva con la sin. all’altezza del viso il contenitore dei sacra e si appoggia con la destra alla lancia tenuta verticalmente dietro la spalla da Enea. Questi è inginocchiato, è nudo, ha la barba e imbraccia con la sin. lo scudo. 490-480 a.C. (Fig. 16);62 2. Scarabeo di corniola già nel mercato antiquario svizzero (1992), quindi nel Museo di Gerusalemme. Anchise, a torso nudo col mantello sul braccio sin., solleva obliqua-

56 Richter 1915, p. 42 sg., n. 61. 57 Scarabeo stilisticamente affine ai nn. 1 e 2 della lista che segue nel testo, di cui sono state date le interpretazioni più stravaganti: Zazoff 1968, pp. 43-45, n. 45, tav. 14; Maaskant-Kleibrink 1992, pp. 133-135, fig. 6; Krauskopf 1995, p. 88, n. 165; Maaskant-Kleibrink 1997, p. 30 sg., fig. 13; Emmanuel-Rebuffat 1997, p. 63 sg., fig. 7; Torelli 2002, p. 136 sg., fig. 89; Bruni 2006, p. 64, nota 27; Maggiani 2009, p. 75, add. 15, tav. 39. 58 Szilágyi 1992, pp. 122, 125 sg., n. 102, tav. xli, a-b, con bibl. 59 Canciani 1984, p. 62, fig. 21 b; Colonna 1989, p. 313, tav. xli, 1-3; Venezia 2000, p. 607, n. 209 (G. Paolucci). Fraintende la scena Krauskopf 1974, p. 4 sg., seguita da Szilágyi 1992, p. 125. Si dimentica generalmente l’unica altra raffigurazione etrusca del Cavallo, presente su uno scarabeo tardo-arcaico proveniente non da Populonia, come nella vulgata, ma da Vulci (Giglioli 1941, pp. 10 sg., 16, fig. 4; Zazoff 1968, p. 211 sg., n. 1568; Sadurska 1986, p. 816, n. 30). Sulle raffigurazioni greche del Cavallo vedi ora D’Agostino 2007. 60 L’anomalia della raffigurazione, con Priamo che fugge mentre Enea a quanto pare combatte, e non entro la città ma fuori di essa, dove è fermo il Cavallo, non giustifica lo scetticismo invalso nei confronti della sua pertinenza alla Ilioupersis (per es. Sadurska 1986, p. 816 sg.). 61 Sassatelli 1987; Colonna 1998, p. 223. Cfr. Mangold 2000, p. 72 sg., fig. 45. 62 Zazoff 1968, pp. 41-43, n. 44, tav. 14; Canciani 1981, n. 95; Maaskant-Kleibrink 1992, p. 133 sg., fig. 5; Krauskopf 1995, p. 114, n. 771; Maaskant-Kleibrink 1997, p. 31, fig. 14; Spannagel 1999, p. 119, tav. 5: 9.

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Fig. 15. Particolare di oinochoe etrusco-corinzia da Caere alla Biblioteca Nazionale di Parigi (sopra). Disegno dello stesso (da Canciani 1984).

mente con la sin. un bastone con sommità dotata di appendice ricurva63 e appoggia la destra sulla spalla corrispondente di Enea. Questi è raffigurato come nel n. 1, ma con la lancia tenuta verticalmente davanti alla spalla. 480-470 a.C.;64 3. Anfora a figure rosse suddipinte del gruppo di Praxias, Pittore di Jahn, da Vulci, già Candelori, alle Antikensammlungen di Monaco, inv. 3185. Anchise indossa chitone e mantello, siede in posizione semieretta, con le braccia distese verticalmente ai lati 63 Da anziano invalido, come sulla lekythos del pittore di Brygos da Gela (Mangold 2000, pp. 72 sg., 184, iii 64, fig. 45), che in Etruria però dopo il 500 a.C è divenuto un’ insegna di potere magistratuale (Jannot 1993, pp. 231-237). 64 Maaskant-Kleibrink 1997, p. 31, fig. 15; Spannagel 1999, p. 124 sg., nota 230, tav. 5: 10 (la foto migliore a mia conoscenza); Simon 2009, p. 35, add. 4, tav. 24. La cronologia leggermente recenziore rispetto al n. 1 è motivata dal trattamento dei nudi e dallo scudo raffigurato leggermente di scorcio. Devo la prima segnalazione del pezzo al dott. Enrico Giovanelli, allievo della Scuola di dottorato della “Sapienza”.

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3. del tronco e le mani poggiate sulle spalle di Enea. Questi è imberbe ed armato, ma senza elmo né scudo, e avanza a capo chino per la fatica, aiutandosi con un lungo bastone nella sin. e una lancia nella destra, entrambi piantati verticalmente a terra come i bastoncini di uno sciatore di fondo in azione. 480-460 a.C. (Fig. 17);65 4. Frammento di un gruppo statuario in terracotta a circa 2/3 del vero in collezione privata tedesca, acquistato a Roma nel negozio del noto antiquario e poeta dialettale Augusto Jandolo. Resta solo parte della gamba sin. di Anchise, che è nuda e viene afferrata sotto il ginocchio dalla mano destra di Enea. 470450 a.C. (Fig. 18).66 Fig. 16. Scarabeo già De Luynes 5. Statuetta in terracotta plasmata a stamalla Biblioteca Nazionale di Parigi. po, alta cm 19 (con la basetta fino a cm 20,5), di cui si conoscono finora sette esemplari, più o meno conservati, tratti tutti da matrice piuttosto logora. Sei di essi, custoditi nel Museo di Villa Giulia, sono stati rinvenuti a Veio in scavi regolari (Fig. 19): tre nel santuario di Portonaccio, loc. Cannetaccio, nel 191567 e tre in quello delle pendici nord di Campetti nel 1937-1938.68 Il settimo, in collezione privata romana, è di provenienza imprecisata ma anch’essa presumibilmente veiente.69 Anchise, semicalvo e apparentemente vestito, stringe con entrambe le braccia il collo del figlio e reclina la testa sul cimiero del suo elmo, in un atteggiamento che ne esalta la senile fragilità. Enea, imberbe, è armato compiutamente da oplita. Seconda metà del v sec. a.C.70 65 Sul vaso esiste un’ampia bibliografia. Da ultimi, con bibliografia precedente: Bruni 2007, pp. 68 sg., 75, n. 3, fig. 3; Scarrone 2008, c.s. 66 Schauenburg 1960, p. 177; Hafner 1979. Cfr. Canciani 1981, p. 393, n. 206; Zevi 1981, p. 149 sg. (con dubbi ingiustificati sull’identificazione del gruppo: Anchise non è portato “a cavalluccio” sulla schiena ma, secondo la convincente lettura di Hafner, è seduto sulla spalla sin. del figlio, in una posa simile a quella data dal Bernini al famoso gruppo della Galleria Borghese, già citato e riprodotto in Giglioli 1941, p. 14, fig. 10). 67 Colini 1918, pp. 21 e 23; Giglioli 1941, p. 8, fig. 1, tav. ii b. L’esemplare intero, alto cm 19,5, reca il n. 1592 nell’inv. di scavo, il n. 40272 in quello di Villa Giulia, il n. vpv 1793 nel catalogo inedito delle terrecotte votive del santuario, redatto da S. Marchiori. I due mancanti in parte delle gambe rispettivamente i nn. 1140, 39820, vpv 1795 (alt. cm 7,5) e 914, 39595, vpv 1794 (alt. cm 12,3). 68 Vagnetti 1971, p. 181, con bibl. 69 Inedito, con la figura di Enea mancante dei piedi da sopra la caviglia e la coscia destra scheggiata. Ne devo la conoscenza all’amica Anna Mura, che ha avuto occasione di osservare il pezzo e me ne ha procurato cortesemente una foto, assieme a quelle di altri due fittili posseduti dallo stesso collezionista: una testa di statua votiva maschile di iii sec. a.C. e la statuetta di un maiale (?). La testa appartiene a un tipo noto da un esemplare proveniente da Roma e da altri tre, inediti, provenienti da Veio, conservati nel Museo Nazionale Romano (Pensabene, Rizzo, Roghi, Talamo 1980, pp. 191, 196, n. 457, tav. 73), mentre una variante velata è nota da Roma e da Lavinio (Roma 1981b, p. 259, n. D 249). 70 Datazione prudenziale, suggerita dall’atteggiamento di confidente abbandono di Anchise (peraltro simile a quello della fanciulla di un gruppo fittile da Medma di stile severo: Langlotz 1968, p. 286, tav. 94 in alto), poiché la corazza di Enea, che è del tipo bivalve a campana, senza spallacci né fimbrie, richiederebbe una datazione più alta (cfr. il tipo Vagnetti J ii a-b, datato al 450 a.C. anche in Comella, Stefani 1990, pp. 175 e 188). Invece Torelli, dando corpo a suggestioni di altri studiosi (tra i quali Martelli Cristofani 1972, p. 576), ha sostenuto una datazione più bassa, alla prima metà del iv secolo, in base al presupposto che nel v secolo

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Fig. 17. Particolari dell’anfora etrusca con la fuga di Enea da Vulci a Monaco di Baviera (da Alföldi 1957).

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Come si può vedere, il motivo del trasporto dei sacra, sconosciuto alle raffigurazioni greche del mito, è presente nei nn. 1 e 3 ed assente nei nn. 2 e 5, restando fuori dal computo il troppo esiguo frammento n. 4. Nel n. 1, che è uno scarabeo di raffinata fattura, è Anchise ad averli con sé, non in una cista, come si ripete per una svista presente già nelle Antiken Gemmen del Furtwängler,71 ma in un contenitore di fortuna, ottenuto sovrapponendo due phialai metalliche baccellate in modo che l’una funga da coperchio dell’altra:72 phialai forse d’argento e di tipo achemenide,73 che probabilmente si immaginavano prelevate dai kemélia degli Eneadi,74 di cui è menzione nell’Aléxandra (v. 1264). Nel n. 3 i sacra sono invece affidati a Creusa,75 che precede il gruppo di Enea con Anchise volgendosi indietro a guardare il vecchio negli occhi, alla pari del piccolo Ascanio che la donna si tira dietro con la destra, come avveniva nella citata moneta di Aineia. Creusa porta il prezioso bagaglio sulla testa, come il supposto Anchise del frammento in esame, aiutandosi però solo con la mano sinistra, dato che con la destra stringe il polso di Ascanio. Inoltre il bagaglio non è avvolto in un panno ma è racchiuso in un contenitore che «questo genere di produzione fittile votiva [scil. le statuette a stampo] è affatto ignota» (Torelli 1973a, p. 336) e che «la tradizione delle statuette fittili votive locali nell’Etruria meridionale e nel Lazio non risale mai ad epoca anteriore agli inizi del iv sec. a.C.» (Torelli 1984, p. 228). Opinione manifestamente infondata, come insegna proprio il santuario di Campetti, dove ben 951 statuette, corrispondenti a più di un terzo del totale (e non solo i tipi Vagnetti F i-vi, H i e forse J i, come concede Torelli 1973b, p. 399), sono state datate, da studiose tutt’altro che inclini a contraddire il maestro, tra la fine del vi e l’inizio del iv secolo (Comella, Stefani 1990, tabelle riassuntive alle pp. 188-190: nel novero sono incluse anche le tre con Enea e Anchise, fatte scendere tuttavia al iv secolo alle pp. 47 e 213). La datazione ‘alta’ è stata ribadita da Comella 2004, p. 341 sgg. (le statuette compaiono «contestualmente alle più antiche teste votive», che a Veio si datano «tra la fine del vi secolo e gli inizi del v», come viene detto a p. 336), pur continuando a seguire Torelli per il gruppo di Enea e Anchise (ibid., p. 345, n. 138). Né ha valore per l’abbassamento della cronologia il caso specificamente considerato da Torelli della statuetta di kourotrophos seduta tipo Vagnetti G xxvii e Comella, Stefani E ix, dato che il kernos della t. Valsiarosa 12 di Falerii su cui compare (Michetti 2003, p. 204, n. 355, tav. lxxvii, con data troppo bassa) è associato sì a qualche vaso falisco ma soprattutto a buccheri, vasi attici a figure rosse, vasi bronzei etruschi, specchi, portafiaccole e una corniola databili dalla fine del vi a tutto il v secolo (Cozza, Pasqui 1981, p. 196 sg., nn. 14, 7, 14-17, 31-40, 43-44, 51). Anche del resto per la tipologia del supporto a colonnetta, delle ollette e dell’ansa a ponte il kernos falisco si pone alla testa della serie, accanto all’esemplare da Lavinio, giustamente datato da M. Fenelli alla seconda metà, probabilmente ultimo quarto del v secolo (Roma 1981, p. 219, D 190), e a quello dalla tomba 87 di Aleria, datato alla fine dello stesso secolo (Jehasse, Jehasse 1973, p. 421, n. 1638, tav. 133: corredo e data alle pp. 420-428). E ancor meno peso per una datazione nel iv secolo ha l’occorrenza della citata kourotrophos (segnalata in Vagnetti 1971, p. 74, nota 6) con un solo esemplare tra le molte migliaia di ex voto del deposito di iv-iii sec. a.C. delle pendici di Piano di Comunità. In generale sulla cronologia e sul significato di questi votivi, oltre Comella 2004: Mastrocinque 2005, p. 228; Gentili 2005 (sintesi esauriente ed equilibrata). La datazione di Torelli della statuetta di Enea con Anchise riposa sulla convinzione che essa sia da riferire ai coloni romani dell’agro veiente (Torelli 1973b, p. 400; Torelli 1984, l.c.). Ma non si comprende perché i coloni, che restavano cives Romani optimo iure ed erano lontani solo 10-15 miglia dalla loro città, avrebbero dovuto ritenersi degli esuli, al punto da evocare il mito di Enea (e poi perché solo loro, dei tanti coloni andati in terre anche molto più lontane?). L’alternativa di «un palese messaggio di propaganda politica … in favore di un «trasferimento» della città da Roma a Veio» (ibid.) si riferisce a propositi troppo circoscritti nel tempo (tra il 393, quando partono i primi coloni, e il 389 a.C., quando si aggiungono ad essi i novi cives veienti, capenati e falisci e di quei propositi non si sente più parlare), perché sia credibile trovarne un’eco nella pratica votiva dei santuari veienti. 71 Da ultima Scarrone 2008, p. 58, nota 9. 72 L’espediente, elementare nella sua semplicità, ricorda le coppe doppie o multiple realizzate dai ceramisti ionici per aumentare la capacità della kylix (per es. Boldrini 1994, p. 187, n. 451; un’imitazione etrusca in bucchero in Reusser 1988, p. 42, n. E 49). Ovviamente si sarà pensato a sigilla del modulo più comune, ossia dell’altezza al massimo di un piede. 73 Sul tipo e sulla sua popolarità nell’Atene tardo arcaica: Luschey 1938, col. 762, figg. 3 (frammento di Eufronio da Atene) e 4 (esemplare dal Caucaso) (Fig. 20, a-b). 74 Come pensa Richter 1968, p. 210 sg., nota 861. 75 Non valida, stante l’eccezionalità della situazione, l’obiezione che Creusa, non essendo una sacerdotessa, non poteva portare oggetti sacri (Scarrone 2008, p. 58, nota 68).

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per la sua manifesta rigidità non può essere né un otre né un sacco, e per la sua forma non può essere un vaso di terracotta (e tanto meno identificarsi, come è stato proposto, con un dolium o doliolum) (Fig. 17).76 Manca infatti sia del piede o della base, necessari per l’appoggio, sia della bocca, necessaria per accogliere e contenere qualcosa, non essendo tale la presa cilindrica afferrata dalla mano di Creusa ed essendo ben visibile la linea che divide il contenitore nel senso della lunghezza in due metà, tenute insieme da tre fasci distanziati di lineette, alludenti ad altrettanti legami trasversali. Si è voluto a mio avviso raffigurare un contenitore di legno,77 appositamente confezionato per l’eccezionale trasporto, diverso dal kéramos Troikós che forse si pensava avesse assolto alla stessa funzione, associato, come Timeo diceva di aver appreso dai Lavinati, ai sacra che sarebbero stati in esso custoditi nel viaggio Fig. 18. Frammento di gruppo statuario fittile da Troia.78 in collezione privata tedesca (da Hafner 1979). Nel gruppo cui si è attribuito il frammento di statua ora reso noto i sacra sono presenti (come nei nn. 1 e 3), sono portati da Anchise (come nel n. 1), ma non sul palmo di una mano bensì sulla testa (come fa Creusa nel n. 3), e inoltre non sono racchiusi in una custodia ma sono avvolti in un panno (come in nessuna delle raffigurazioni note ma come aveva poetato Licofrone, forse seguendo il perduto Ellanico). È evidente che non è esistita al riguardo in Etruria una tradizione iconografica unitaria, a parte la pressoché generale adozione dello Schultersitz, che consentiva al vecchio Anchise non solo di trasportare i sacra ma di apparire, come è evidente nel n. 3, in un atteggiamento di particolare dignità, seduto come conveniva a un pater familias, e tanto più a un princeps gentis (basti pensare agli acroteri di Poggio Civitate di Murlo). Dignità esaltata dalla calvizie e dalla barba fluente (che gli è sempre attribuita, mentre il figlio appare imberbe sia nel n. 3 che nel n. 5), nonché dalla presenza, dove questo era possibile (n. 3), di Ascanio, pegno vivente della continuità della stirpe. Tenendo conto di tutto questo non credo sia azzardato proporre una ricostruzione grafica del gruppo in questione, ovviamente del tutto indicativa, in cui Anchise regge sulla testa l’involto dei sacra ed è seduto sulla spalla destra di Enea, che si muove verso la sinistra dello spettatore (Fig. 21).79 * 76 Come sostenuto da molti a partire da Alföldi 1957, p. 16, nota 89. 77 Così già Horsfall 1979 («light case of wood or leather on a wooden frame»), seguito da Zevi 1989, p. 286 (ma entrambi escludono senza ragione che il contenuto dell’imballaggio siano stati i sacra). 78 Cfr. nota 43. 79 Ricostruzione realizzata col mio aiuto da Sergio Barberini, autore anche degli altri disegni che corredano la relazione.

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Fig. 19. Statuette votive col gruppo di Enea e Anchise dai santuari di Campetti Nord (in basso) e di Portonaccio (in alto).

il mito di enea tra veio e roma A questo punto posso avviarmi a concludere, riallacciandomi a quanto ricordato all’inizio sullo speciale rapporto esistito in ogni tempo tra Roma e Veio. Scriveva anni fa Carmine Ampolo, riferendosi a un’opinione allora, come adesso, largamente condivisa, specialmente tra gli storici:80 «conoscenza e popolarità di un mito non significano la sua accettazione come mito di fondazione e neppure l’esistenza di un culto. Ma se nulla prova con certezza l’adozione di Enea come fondatore da parte di etruschi e latini in epoca arcaica o nel v secolo, non si può neanche provare il contrario».81 Oggi, se quanto sono venuto argomentando a proposito del frammento statuario rinvenuto negli scavi di Carandini ha un fondamento, esiste almeno una prova del culto di Enea in Italia centrale nel v secolo, ed è offerta da Veio. Tutto infatti lascia credere, come si è visto, che in questa città Enea, grazie ai sacra Troiana portati sulla testa dal padre nel gruppo statuario che si è cercato di ricostruire, sia stato raffigurato nella veste appunto di fondatore, e questo non all’interno di una residenza aristocratica, come nel caso delle gemme nn. 1-2, il cui uso come sigilli personali è sicuro, e della grande anfora n. 3, un vaso d’apparato che sarà stato esposto in una sala da banchetto e da simposio prima di seguire nella tomba il suo possessore, ma nello spazio consacrato, per definizione pubblico, di un santuario cittadino: il santuario di Campetti Sud, ancora di fatto inesplorato – che potremmo chiamare delle *Aquae Veientanae –, in cui forse già allora era venerato come divinità titolare, alla stregua del santuario di Caere in loc. S. Antonio e delle Aquae Caeretanae presso il Sasso, un Ercole connesso con le sorgenti.82 Tanto più

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Fig. 20. Frammento di Eufronio da Atene (sopra). Phiale argentea dal Caucaso (sotto) (da Luschey 1938).

80 Cfr. al riguardo Castagnoli 1982, p. 3 sg., nota 11. 81 Ampolo 1992, p. 332 sg. 82 Supra, note 15-19. Per i citati santuari di area ceretana: Colonna 2000, p. 292 sg., nota 158 sg.; Colonna 2001, p. 160 sgg.; Roma 2001, pp. 143 sgg. (A. Maggiani, A. M. Rizzo) e forse 157 sgg. (G. Nardi). Si noti che anche

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Fig. 21. Proposta ricostruttiva del gruppo cui si è attribuito il frammento di statua da Campetti Sud.

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Fig. 22. Antefissa con testa di eroe troiano a Basilea (da Reusser 1988).

che nello stesso santuario all’eroe era dedicato, con buona probabilità, anche un secondo gruppo statuario, di poco più recente, di cui rimane il frammento fittile n. 4 in collezione privata tedesca (Fig. 18).83 Né si può escludere che vi sorgesse un sacello a lui sacro, se da quell’area proviene, come si ha motivo di sospettare, un altro unicum, l’antefissa di piccolo modulo, alta cm 27,2, con una testa barbata calzante un elmo frigio dalle vistose paraguance a testa d’ariete, certamente raffigurante un eroe troiano,84 databile stilisticamente nel tardo v sec. a.C.,85 pervenuta nel 1959, ancora sporca di terra, all’Antikenmuseum di Basilea (Fig. 22 a-b).86 a Pyrgi era attribuito a Ercole il ruolo di “padrone di casa” nel santuario fondato dai Pelasgi, sia nei confronti di Era/Uni (tempio B) che di Thesan/Lerucotea (tempio A) (Colonna 2000, pp. 280-294, 308, 325-328, 331). 83 Pubblicando il pezzo nel 1979, dopo che già nel 1960 Schauenburg ne aveva fatto menzione, Hafner lo dice «rinvenuto [dall’attuale anonimo possessore] decenni prima nel giardino [dell’antiquario Jandolo], dove giaceva inosservato» (Hafner 1979, p. 27). L’indicazione temporale riporta agli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra, il che è confermato dalla biografia di Augusto Jandolo (morto quasi ottantenne l’11 gennaio 1952: EI, App. iii, 1961, p. 820 sg.). Poiché l’area in questione è stata oggetto di uno scavo già nel 1940, per iniziativa del soprintendente Salvatore Aurigemma (Bovini 1941, p. 274), l’ipotesi che il pezzo sia stato trafugato in quell’occasione, o nel momento critico dell’occupazione tedesca e del passaggio del fronte (1943-1944), appare tutt’altro che peregrina. 84 Enea in primo luogo, o Anchise, meno probabilmente Priamo. 85 Il confronto migliore, e non solo per il trattamento della barba e dei baffi, è con l’Efesto di Alcamene (420415 a.C.), altra immagine di mitico progenitore (Hölscher 1979, pp. 357, 366, 377, tav. 11 c). A Veio se ne coglie forse un’eco anche in una testa mutila dal Portonaccio, edita in Roma 2001, p. 77, I.F.6.10 (M. P. Baglione). 86 Pubblicata trent’anni dopo in un catalogo del museo (Reusser 1988, p. 80 sg., n. E 112) da Andrea Bignasca, che gentilmente mi informa di non sapere di altre pubblicazioni. L’antefissa, di cui non si conoscono repliche, è di ignota provenienza (il museo l’ha acquisita con la collezione di Giovanni Züst, in cui abbondano i reperti dell’Etruria meridionale). Gli scavi clandestini hanno imperversato a Veio nel dopoguerra non solo nell’area della necropoli ma anche in quella della città (Mura 1969, pp. 50-53), favoriti a partire dal 1951 dalle

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Fig. 23. Frammento di vaso di bucchero di Portonaccio.

Fig. 24. Testa di dea con elmo frigio dal santuario Nord di Paestum (da Cipriani 2002).

Ma a Veio non c’è solo questo. Alla luce delle nuove acquisizioni (ri)acquistano tutto il loro valore documentario le molte repliche, note da tempo, della statuetta votiva di Enea con Anchise, provenienti sia dal santuario di Portonaccio, che condivide con quello di Campetti Sud la gravitazione, in termini urbanistici, sulla via d’importanza vitale assicurante il collegamento diretto della città con il mare, sia dal santuario alquanto più lontano di Campetti Nord, prossimo alla via che conduceva invece alle zone più interne e accidentate del territorio. Le repliche della statuetta confermano con la loro duplice provenienza la popolarità e il carattere squisitamente ‘locale’ del culto veiente di Enea,87 anche perché assolutamente nulla di comparabile è stato rinvenuto, nonostante il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte, nelle altre città dell’Etruria e nemmeno, quel che più sorprende, in quelle del Lazio, inclusa Lavinio.88 arature profonde praticate dai coloni dell’Ente Maremma e dai loro vicini (cfr. Colonna 2007b, p. 89, a proposito di Tragliatella). La c.d. villa di Campetti attirava l’attenzione dei clandestini perché all’epoca era l’unico complesso di ruderi visibile sul pianoro della città, solo in minima parte scavato nel 1940: la ripresa dell’esplorazione, a partire dai primi anni ’60 (Torelli 1965; Brunetti Nardi 1972, p. 64 sg.), fu in buona parte motivata dal pericolo di nuovi interventi abusivi. 87 Già energicamente difeso da Pfiffig 1975, p. 357. 88 Dove i ritrovamenti di terrecotte votive, sia nel santuario dei dodici altari che in quello orientale, sono stati particolarmente abbondanti.

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Ed acquista in questa luce una non meno straordinaria pregnanza anche un ritrovamento minore di cui posso dare notizia in questa occasione: un’ansa di bucchero a nastro espanso lateralmente alla sommità, recante sulla faccia interna una grossa applique a testa umana, venuta casualmente in luce nel 1939 nel santuario di Portonaccio, appartenente ad un kyathos di foggia particolare (Fig. 23).89 La testa calza un elmo di tipo ionico, a giudicare dalle paraguance e dal frontale, ma dalla calotta prolungata superiormente come in un elmo frigio, quasi interamente ricoperto dal mantello che lo avvolge come un cappuccio e reca affisso al sommo della fronte un ‘bottone’ a disco liscio. L’inaspettato quanto vistoso attributo ritorna, uguale e nella stessa posizione, sull’elmo frigio, questa volta di tipo canonico, di una piccola testa fittile di dea armata, proveniente dalla stipe del c.d. tempio di Cerere a Paestum, databile alla pari del kyathos nel terzo quarto del vi secolo (Fig. 24).90 In entrambe le occorrenze il disco non sembra possa essere interpretato altro che come un’allusione simbolica all’astro solare, secondo una tradizione figurativa nota in Oriente per Ishtar e Astarte, ben documentata in area laziale, soprattutto a Satrico, da una serie di bronzetti femminili recanti un disco sul capo, ritenuti immagini di Mater Matuta.91 Il kyathos veiente, databile al pari del fittile poseidoniate nel terzo quarto del vi secolo, è tipologicamente un unicum, prodotto su commissione del santuario dalla stessa bottega cui si devono le grandi oinochoai, i calici, le statuette e gli altri buccheri privi altrove di confronto rinvenuti al Portonaccio.92 Il riferimento a Enea, raffigurato come un guerriero sacrificante capite velato al modo romano e italico,93 appare scontato e porta con sé la conferma, assicurata in questo caso dal ruolo spettante al kyathos nel rito della libazione,94 che a Veio il culto dell’eroe non solo esisteva, ma era praticato già alla metà o poco del vi sec. a.C. E lo era, dettaglio importante, in stretta dipendenza dal mondo latino, a giudicare dalla raffigurazione capite velato e dall’attributo interpretabile come disco solare, evocante l’assimilazione di Enea divinizzato con Sol Indiges, operata a Lavinio e forse anche a Roma.95 89 Il ritrovamento mi è noto solo da un foglio volante conservato tra le Carte Santangelo, consultabili dal 2007 nell’Archivio della Soprintendenza dell’Etruria meridionale, che è la fotocopia di una ‘scheda’ con la foto del frammento, qui riprodotta, accompagnata da un appunto di mano dell’assistente Augusto Falessi: «Veio (isola Farnese), loc. Portonaccio, 19-12-39. Bucchero rinvenuto sotto l’ara». Si tratta di un rinvenimento casuale, avvenuto nell’intervallo tra le due campagne di scavo condotte nella zona dell’altare da M. Pallottino con l’aiuto del Falessi (sulle quali rinvio alla trattazione in Colonna 2002). 90 Sestieri Bertarelli 1989, p. 34 sg., fig. 22; Cipriani 2002, p. 41, fig. 4. L’attributo potrebbe essere stato riportato, a giudicare dalla foto, anche su una statuetta di dea armata da Gela calzante un sorta di berretto frigio (Orlandini 1968, p. 34, fig. 13). Sull’elmo frigio la trattazione più esauriente resta quella di Dintsis 1986, pp. 23-56 (“tiaraartige Helm”). 91 Richardson 1983, p. 22 sg., figg. 28 sg., 613 sg., 625 sg.; Krauskopf 1991, p. 1269; Mazzocchi 1997, pp. 131-133, 168 sg. Confronti orientali, oltre quelli citati dalla Richardson: eaa iv, 1961, p. 233, fig. 281; Coarelli 1988, p. 316, fig. 65; Bell 2000, p. 248, nota 39, fig. 17 (busto di Persefone come Tanit). La testina di Paestum raffigurerà pertanto non Atena ma un’Afrodite/Astarte. Tra i Veneti il disco sulla testa è attribuito, anche in piena età romana, a figure femminili divine o eroizzate (Fogolari 1988, p. 166 sg., figg. 103, 134, 208; Colonna 2007, p. 21 sg., nota 59, con bibl.). 92 Dei quali manca ancora uno studio adeguato. Vedi intanto Veio 2002, pp. 164-181, 230-234, tavv. xxxiv-xliii. 93 Come nell’Ara Pacis e su un cratere neoattico (Cappelli 2000, p. 158, figg. 9 e 11). Su tale costume, e sulla sua eziologia: Ampolo 1992, pp. 338-341 (cfr. anche Bonfante Warren 1972, pp. 597 e 606). In Etruria, dopo sporadiche e motivate eccezioni (per es. il Tiresia della tomba dell’Orco II), il costume guadagna terreno a partire dal 200 a.C., a giudicare da sarcofagi, urne e teste votive, in parallelo con la diffusione generalizzata della tunica nell’abbigliamento maschile, che è un altro portato della dilagante romanizzazione. 94 Col tempo sostituito da quello che a Roma era chiamato simpuvium, sul quale siamo meglio informati (Kleine Pauly 5, 1979, s.v.). Il precedente uso del kyathos è documentato in Etruria da alcuni bronzetti tardo orientalizzanti (Cristofani 1985, pp. 127, 132, nn. 10 e 16). 95 Torelli 1984, p. 173 sgg. Cfr. ltur iv, 1999, s.v. pulvinar Solis (F. Pesando).

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Ciò induce a ritenere che il culto di Enea come eroe fondatore, non attestato in Etruria fuori di Veio, come si è detto,96 sia stato accolto in questa città nell’ambito del continuo e intenso interscambio culturale con Roma e i Latini, che è forse il tratto più saliente della sua storia.97 Provenendo da dove? Si pensa ovviamente in primo luogo a Lavinio, dove i primi indizi sicuri del culto dell’eroe sarebbero databili secondo l’opinione comune già nella prima metà del vi secolo,98 tanto più che non manca per quest’epoca la testimonianza epigrafica di relazioni dirette tra gli esponenti dell’aristocrazia delle due città.99 In proposito però sarebbe un grave errore di prospettiva dimenticare Roma, che coi due Tarquini e con Servio era divenuta la città di gran lunga più potente del Lazio,100 e tale era rimasta anche con l’avvento della repubblica. Al punto da attirare, unica tra le molte città della regione, almeno dalla metà del v secolo, se non prima, l’attenzione di chi nel mondo greco nutriva interesse per i popoli barbari, sul piano della politica e secondariamente della storia, soprattutto mitica, e dell’etnogeografia. È infatti da Roma – una Roma anteriore alla guerra di Troia – che per Antioco di Siracusa101 era fuggito, esule, colui che sarebbe divenuto re ed eponimo dei Siculi, forse non senza allusione da parte dello storico alle discordie intestine che ai suoi tempi travagliavano la città.102 Ma già verso il 500 a.C., in piena coerenza con la notorietà internazionale presumibilmente ricevuta con la sottoscrizione nel 509 a.C. del primo trattato con Cartagine, la città era stata nominata da Scilace di Carianda, se risale a lui, come si ritiene, il passo del Periplo concernente il tratto di costa controllato dagli Etruschi: «da Antion [scil. Antipolis] il popolo dei Tirreni fino alla città di Roma» (Ps. Scyl., 5).103 Ora è un fatto che lo stesso Ellanico, prima ricordato per aver narrato nei Troiká la fuga di Enea con i sacra Troiana, nella sua opera principale, Le sacerdotesse di Argo,104 in 96 Le stesse raffigurazioni del mito di ambito gentilizio (nn. 1-3 del nostro elenco), essendo su oggetti di produzione e, nel caso del n. 3, di sicura provenienza vulcente, potrebbero in teoria riferirsi a personaggi in qualche modo collegati con Veio, stanti i rapporti che questa città sembra avere avuto nel vi secolo con Vulci più che con qualsiasi altra città d’Etruria, testimoniati in particolare dalle dediche di Avile Vipiennas e di Avile Acvilnas nel santuario di Portonaccio e ora dall’accertamento dell’attività svolta a Veio da un ceramografo del Ciclo dei Rosoni (Colonna 1981b, p. 163 [= Colonna 2005, p. 522], Colonna 2006b), nonché dal dato di fatto che l’unica attestazione anteriore al v sec. a.C. dell’etnico veiane viene proprio da Vulci (cie 11161, Colonna 2006c, p. 7: mi veianes, “io [sono] del Veiente”). La scarsa popolarità di Enea in Etruria risalta anche dalla totale assenza di sicure attestazioni epigrafiche del suo nome (quella sullo specchio Rix, et Cl S 17 è più che dubbia, tanto da essere stata espunta nel ThesLE i2, 2009), come anche di eventuali nomi gentilizi da esso derivati. 97 Supra, note 5-9. 98 Quando, verso il 560 a.C., sarebbe avvenuta la ‘ricognizione’ della tomba di età medio-orientalizzante posta al centro del tumulo in cui verso il 330 a.C. fu costruito l’hero˜on dedicato al Pater Deus Indiges visto da Dionigi di Alicarnasso e da lui attribuito ad Enea (i, 64, 4-5). 99 Mi riferisco all’iscrizione di dono del veiente Mamarce Apuniie, apposta su un’anfora di bucchero coeva alla ‘ricognizione’ della supposta tomba di Enea, rinvenuta in una tomba a camera di Lavinio (cie 8612). Si noti che lo stesso gentilizio compare in età tardo-arcaica su tre piattelli o coppe Spurinas (Bernardini 2001, p. 45 sg.) e su un piattello da Pitigliano (cie 11292), sicché sembra certa l’origine vulcente della gens cui apparteneva l’aristos di Veio. 100 Colonna 1987; Pallottino 1993, pp. 290-293; Cornell 1995, pp. 198-214. 101 In un passo del suo perì Italías citato con toni increduli da Dionigi di Alicarnasso (i, 73, 4-5). 102 Come pensa Martinez-Pinna 2002, pp. 84-89. Da parte mia non escluderei che abbia contribuito alla genesi della saga del romano Sikelós l’eco, giunta fino a Siracusa, del cognome Siculus dei Cloelii, portato da Q. Cloelio Siculo, cos. 498 a.C., connesso con l’istituzione della dittatura, e da T. Cloelio Siculo, tr. mil. cons. pot. 444 a.C., che curò come triumviro nel 442 la deduzione di una colonia ad Ardea, città marittima probabilmente nota già da allora ai Siracusani. Cfr. Zevi 1989, p. 263 sg. 103 Bonamici 1996, pp. 37-42; Zevi 2000, p. 236, nota 58. Il passo è da ritenersi originale perché attribuisce agli Etruschi il controllo della costa tirrenica da Antipolis/Antibes esclusa fino a Roma, cioè a Ostia e alla foce del Tevere, riflettendo una situazione anteriore alla fondazione massaliota di Nizza e di Monaco e anche all’annessione romana del tratto di costa veiente a nord del Tevere dove sorgerà Fregene (Colonna 2006a, p. 660 sg.). 104 Forse pubblicata verso il 423 a.C. (Spoerri 1979).

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cui aveva tentato di costruire una cronologia universale, aveva scritto che Roma era stata fondata da Enea, venuto in Italia dal paese dei Molossi con Odisseo, e che sarebbe stata da lui chiamata col nome di una donna troiana, Rho´me: costei avrebbe incitato le compagne a dar fuoco assieme con lei alle navi della spedizione, stanca del loro peregrinare. Dionigi di Alicarnasso, cui dobbiamo anche in questo caso la parafrasi del passo dello storico di Lesbo, aveva aggiunto che concordavano con lui Damaste di Sigeo (che sappiamo pressappoco suo contemporaneo) e «alcuni altri» autori greci non nominati.105 E aveva anche aggiunto, a proposito degli autori latini che avevano molto più tardi trattato l’argomento, attingendo agli annali pontificali (i, 73, 3), che alcuni attribuivano a Romo, figlio di Enea e fratello di Ascanio,106 la fondazione non solo di Roma, ma anche di Capua, di Anchisa – che ha buone probabilità di identificarsi con la marsa Angitia, divenuta con lo statuto municipale Lucus Angitiae107 –, e di Aineia, che secondo Dionigi «in seguito fu chiamata Ianiculum» e che Stefano Bizantino (s.v.) definisce pólis Tyrrhenías.108 Si pensa generalmente a una leggenda inventata di sana pianta in ambito greco, ma già Momigliano molti anni fa aveva ammonito che «resta possibile che non i Greci, ma i Latini stessi avessero suggerito per primi l’origine troiana di Roma (e di Lavinio)».109 Sulla stessa linea si è mosso Ampolo a proposito della leggenda di Ulisse: «[I Latini] erano andati ben oltre la semplice conoscenza di miti e leggende elleniche: ne avevano fatta propria una che verosimilmente presupponeva la discendenza da Ulisse dell’eponimo dei Latini».110 Momigliano aveva aggiunto che «l’origine troiana fu in certo senso una dichiarazione di indipendenza da parte dei Romani in confronto al mondo greco». Il che può sembrare paradossale, dati i tanti segnali di apertura verso il mondo greco che si incontrano nella Roma alto-repubblicana, dall’adozione della scrittura destrorsa111 al culto di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino, officiato secondo il rito greco, dalla chiamata di artisti greci per la decorazione del tempio della triade aventina alla frumentazione siciliana del 492 a.C., per non parlare dell’ambasceria inviata ad Atene al tempo dei Decemviri. Il fatto è che a vantare una remota ascendenza greca, anche se solo indiretta,112 erano allora gli Etruschi, come testimonia la leggenda dei Pelasgi che Ellanico, probabilmente seguendo Ecateo, aveva narrato in un’altra sua opera, la Phoronís, in un passo citato anch’esso da Dionigi di Alicarnasso (i, 28, 3),113 e come appare con tutta l’evidenza delle

105 Jacoby 4 F 84 = Dion. Hal. i, 72, 2. Cfr. Momigliano 1980; Ampolo 1992; Malkin 1998, pp. 232-236. 106 Il nome PáÌÔ˜ denuncia l’antichità della fonte perché «appartiene al mito eneadico e sarà destinato a scomparire quando questo mito si fonderà e si armonizzerà con quello dei gemelli» (D’Anna 1989, p. 234 sg.). 107 Letta 1972, pp. 61-63, con bibl. 108 Mi pare evidente che le tre città scandiscano il perimetro dell’estensione raggiunta dallo stato romano intorno al 300 a.C.: Capua a sud, Anchisa (confinante dal 304 a.C. con la colonia di Alba Fucens) a est, Aineia a nord. Quest’ultima allora dovrebbe identificarsi non, come pensava Dionigi (seguito da Martin 1972, pp. 2838; Liverani 1996, p. 4; Liverani 2005, p. 82), col Gianicolo, monte che era romano fin dai tempi di Romolo, ma con Veio, conquistata nel 396 a.C. In tal caso il nome attribuitole potrebbe essere stato suggerito dal culto veiente di Enea, di cui nulla esclude che si sia conservato il ricordo presso i coloni romani. 109 Momigliano 1980, p. 1224. Cfr. Cornell 1995, p. 66. 110 Ampolo 1994, p. 277, a proposito del passo di Teofrasto (hist. pl. v, 8, 3) che attribuisce agli abitanti del luogo la localizzazione della tomba di Elpenore al Circeo. Un caso analogo, in cui però a essere chiamati in causa sono «i Greci abitanti nell’isola», è quello delle tracce di sudore lasciate dagli Argonauti sui ciottoli dell’isola d’Elba (Ps. Arist., mir. ausc. 105: cfr. Colonna 1981a, p. 447). 111 Colonna 2005, pp. 1645-1647. 112 Ma non mancavano, come tra i Latini, salde tradizioni di una diretta discendenza da Ulisse (Briquel 1999). 113 Briquel 1984.

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immagini nel ciclo di pitture della tomba François di Vulci.114 L’opzione troiana dei Romani (e dei Lavinati), presupposta dal racconto di Ellanico ma verosimilmente alquanto più antica di lui, va intesa pertanto come una presa di posizione non tanto antigreca quanto antietrusca, potremmo dire antipelasgica, che non a caso fu recepita tra gli Etruschi, come si è visto, dalla sola Veio, città del tutto immune da connessioni pelasgiche,115 a differenza delle contigue Caere e Falerii, e invece culturalmente assai vicina ai Latini. Ma per i Romani, a differenza che per i Lavinati, quella troiana non poteva che essere un’opzione minoritaria, caldeggiata da una parte sola del patriziato, in pratica da quelle che saranno chiamate in seguito le familiae Troianae, come bene ha visto Fausto Zevi.116 Sempre maggiore consenso era andato infatti acquistando il mito di una fondazione indigena, ‘nazionale’, imperniata su Romolo e sulla Lupa,117 indipendente sia dai Greci che dagli Etruschi e relegante Enea nel ruolo di avo del fondatore.118 Non meraviglia che in questa situazione i Veienti, una volta riaccesosi nel v secolo l’antico conflitto politico e militare con Roma, siano non solo rimasti fedeli ad Enea ma abbiano finito per rivendicarlo polemicamente tutto per sé, esaltandone il culto. Inutile aggiungere che si attendono conferme, riguardo a gran parte di quel che si è detto, dal prosieguo degli scavi di Veio, e in particolare dell’area sacra di Campetti Sud, che finora è stata solo intravista. Auguro a Carandini e ai suoi collaboratori di avere fortuna e di riuscire presto a far meglio conoscere un complesso monumentale che molto promette. Bibliografia Alba 2005: E. Alba, La donna nuragica, Sassari, 2005. Alföldi 1957: A. Alföldi, Die trojanischen Urhanen der Römer, Basel, 1957. Ampolo 1992: C. Ampolo, Enea ed Ulisse nel Lazio da Ellanico (FGrHIST 4 F 84) a Festo (432 L), «pp», xlvii, 1992, pp. 321-342. Ampolo 1994: C. Ampolo, La ricezione dei miti greci nel Lazio. L’esempio di Elpenore ed Ulisse al Circeo, «pp», xlix, 1994, pp. 268-279. Banti 1960: L. Banti, Il mondo degli Etruschi, Roma, 1960. Basel 2008: Homer. Der Mythos von Troja in Dichtung und Kunst, cat. della mostra di Basel e Mannheim, München, 2008. Bell 2000: M. Bell, A stamp with the monogram of Morgantina and the sign of Tanit, in Damarato, pp. 246-252. Bérard 1986: C. Bérard, in La città delle immagini. Religione e società nella Grecia antica, cat. della mostra di Salerno, a cura di A. Pontrandolfo, Modena, 1986, pp. 19-31, 79-95. Berlin 1988: Antikenmuseum Berlin. Die ausgestellten Werke, a cura di W.-D. Heilmeyer, Landshut, 1988. Bernardini 2001: Ch. Bernardini, Il gruppo Spurinas, Viterbo, 2001. Blanck 1986: H. Blanck, in H. Blanck, G. Proietti, La tomba dei Rilievi di Cerveteri, Roma, 1986. Blome 1990: P. Blome, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig. Orient und frühes Griechenland, Basel, 1990. Boardman 1974: J. Boardman, Athenian black figure vases. A handbook, London, 1974. 114 Da ultimi Colonna 2003, pp. 522-524, e Musti 2005 (solo in parte condivisibile). 115 A parte la pretesa discendenza di un suo mitico re, Morrius, da Halaesus (Briquel 1984, p. 323 sg.), che non concerne la fondazione della città. 116 Zevi 1989, p. 261 sgg., 276; Zevi 1999, pp. 340-343. 117 Giustamente si è parlato della “ingombrante presenza di Romolo”, che ha impedito ogni forma di culto “anche quando i Romani hanno considerato Enea avo dei Latini e di Romolo” (Carandini 2006, p. lxxiv). 118 Come sarà celebrato, prescindendo ancora da ogni connessione con Alba, da Nevio e da Ennio (D’Anna 1996).

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I L DI O TEC SAN± , IL MONT E T E Z IO E PE RU G IA

T

rent ’ anni fa, considerando i culti dei territori bagnati dal Trasimeno, mi è riuscito di trarre dall’oblio, lo dico con una punta di orgoglio, due divinità etrusche, e non di poco conto, anche se non ne conosciamo ancora con sicurezza l’immagine: la dea Cel Ati, ossia Cel ‘madre’, venerata sul versante chiusino, e il dio Tec San®, ossia un dio ‘padre’ (nell’accezione di parens, genitor), venerato al confine tra il breve ‘affaccio’ cortonese sul lago e l’inizio del ben più esteso versante perugino.1 Due divinità fino allora praticamente ignorate, benché i nomi di entrambe compaiano sul Fegato, invero senza gli epiteti, omessi per ovvie ragioni di spazio come su quel bronzo si verifica nella quasi totalità dei casi:2 il nome della dea in forma piena (gen. Cels), quello del dio in una variante abbreviata, Tecvm-3, sulla quale mi soffermo a chiusura del contributo. La riscoperta di Cel Ati – dea identica nel nome alla °Ä M¿ÙËÚ venerata a Dodona (Paus., x, 12, 10) e già bene attestata nel pantheon miceneo4 – è stata accolta da unanime consenso e ha ricevuto di recente definitiva conferma, anche per quanto concerne l’epiteto, dalla Tavola di Cortona, nel cui ricco onomasticon il gentilizio più frequente, portato da tre o probabilmente quattro diversi personaggi, è per l’appunto Cêlatina.5 Un gentilizio teoforico non altrove attestato, manifestamente derivato dalla sequenza nome + epiteto della dea percepita come un composto (Cêlati-na, come il personale ¢ËÌ‹ÙÚ-ÈÔ˜ rispetto a ¢ËÌ‹ÙËÚ), continuato in latino dal raro gentilizio Celatius, che nel ii-i sec. a.C. è portato a Caere da una donna evidentemente di origine cortonese.6 *Cêlati non è pertanto l’etnico di una fantomatica località etrusca *Cela, cui pure si è pensato, evocando toponimi di etimo esclusivamente latino,7 ma il teonimo che in area chiusina (Castiglione del Lago) veniva scritto Cel Ati (gen. Cel® Atial), mostrando di

1 Giovanni Colonna, La dea etrusca Cel e i santuari del Trasimeno, «Rivista storica dell’Antichità», vi-vii, 1976-1977 (Scritti in memoria di Gianfranco Tibiletti), pp. 45-62. La provenienza dei cinque bronzetti dedicati alla dea è ora precisata in base a documenti d’archivio da Giulio Paolucci, A Ovest del lago Trasimeno: note di archeologia e di topografia, «AnnMuseoFaina», ix, 2002, pp. 177 sg., 186-192: non Castiglione del Lago paese, ma la frazione di Casamaggiore nei pressi di Gioiella, dove nel 1902 un possidente di Castiglione condusse uno scavo autorizzato in una località La Fonte, dal nome parlante anche nei confronti del luogo di culto. Ascrivono erroneamente i bronzetti al territorio cortonese gli Etruskische Texte, Editio minor, i-ii, a cura di Helmut Rix, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1991 (in seguito citato Rix, et ), Co 4.1-5. Nella stessa svista incorrono Carlo De Simone, Dénominations divines étrusques binaires: considérations préliminaires, in Les Étrusques. Les plus religieux des hommes (Actes du colloque international, Paris 17-19 nov. 1992), a cura di Françoise Gaultier, Dominique Briquel, Paris, La Documentation Française, 1997, p. 194; Luciano Agostiniani, in L. A., Francesco Nicosia, Tabula Cortonensis, Roma, L’Erma, 2000, p. 130; Mario Torelli, in V. Scarano Ussani, M. T., La Tabula Cortonensis, «Ostraka», xi, 2, 2002 (2003), p. 34 dell’estratto, che in alternativa pensa addirittura al territorio di Perugia. 2 Rix, et Pa 4.2. Uniche eccezioni Cvl(s) Alp(ans) della casella 14 e Marisl Lar(ns?) della casella 26 (Giovanni Colonna, A proposito degli dei del Fegato di Piacenza, «StEtr», lix, 1993 (1994), pp. 131-134). 3 Caselle 5 (tecvm) e 13 (cels). 4 Cornelis J. Ruijch, La Mère Terre dans les texts grecs classiques, in I culti primordiali della grecità (Contributi del centro linceo interdisciplinare B. Segre, 109), Roma, Bardi, 2004, pp. 81-100. 5 Righe A 11, 24, 26; B 7-8. 6 cie 6058 (cfr. Martin Blumhofer, Etruskische Cippi. Untersuchungen am Beispiel von Cerveteri, KölnWeimar-Wien, Böhlau, 1993, p. 85 sg., n. 7). Si ha anche un’isolata attestazione africana del cognome Celatianus (cil ii, 6181: Iiro Kajanto, The Latin Cognomina, Helsinki, 1965, p. 350). 7 Spiace che nell’equivoco sia caduto Carlo De Simone, La Tabula Cortonensis: tra linguistica e storia, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. iv, iii, 1998 (ma 1999 o 2000), p. 74; Id., rec. a V. Scarano Ussani, Mario Torelli, op. cit., «aion ArchStAnt», n.s. viii, 2001 (2003), p. 238.

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percepire ancora il secondo elemento come un epiteto, invece che come una componente del nome.8 Diversamente sono andate le cose per Tec San®. L’accoglienza riservata al dio è stata assai larga,9 ma si è scontrata sul piano linguistico con obbiezioni, che sono giunte fino alla negazione perfino del suo nome.10 Si rende pertanto opportuno da parte mia un nuovo intervento, che chiarisca e integri con le più recenti acquisizioni i dati in merito disponibili. Intervento che offro volentieri a Giovannangelo Camporeale, amico di lunga data, anche in segno di riconoscenza per l’impegno che dedica alle sorti del nostro Istituto. Anzitutto è opportuno precisare che in entrambe le iscrizioni del Trasimeno il nome bimembre del dio era percepito, come si verifica a Cortona per Cel Ati, alla stregua di un composto, del tipo in questo caso dei latini Iuppiter, Marspiter, e dell’umbro Iupater/Iuvepatre (dat.). Infatti nelle due occorrenze del nome, entrambe in caso obliquo, a essere flesso è solo l’epiteto, né è da pensare a un fenomeno di ‘Gruppenflexion’, perché, pur essendo entrambe le iscrizioni regolarmente interpunte,11 tra il primo e il secondo elemento del nome nel Putto non v’è traccia del punto e nell’Arringatore (Fig. 1) la superficie è scrostata, sicché il punto registrato in quella posizione da tutti gli editori, a partire da cii 1922 e cie 4196, è un’integrazione che il confronto con l’altro bronzo fa ritenere arbitraria.12 La lettura corretta del teonimo è pertanto sul Putto Tecsan®l, sull’Arringatore Tecesan®l. Data la cronologia in piena età ellenistica delle 8 Come intuito, per quanto mi è noto dell’ormai straripante bibliografia, dal solo Torelli, op. cit., pp. 34 e 89 sg. Si noti che la scrittura cortonese *Cêlati, con e marcata, pone una grossa pregiudiziale contro il rapporto etimologico del lemma celtinêitiss delle righe B 3-4 della Tavola con l’appellativo cel (a Cortona *cêl), “terra”, sottostante al teonimo (rapporto postulato, con pesanti ricadute ermeneutiche, da Agostiniani, op. cit., pp. 112-114). 9 Agli scritti citati in Giovanni Colonna, Il posto dell’Arringatore nell’arte etrusca di età ellenistica, «StEtr», lvi, 1991, p. 104, nota 28, vanno aggiunti, tra gli altri, I. E. M. Edlund, The Gods and the Place, Stockholm, P. Åström, 1987, p. 56, vedi 3.1; Martin Bentz, Etruskische Votivbronzen des Hellenismus («Biblioteca di Studi Etruschi 25»), Firenze, Olschki, 1992, p. 207, n. 13; François-Hélène Massa-Pairault, La citè des Étrusques, Paris, cnrs, 1996, pp. 225, 242; De Simone, op. cit. a nota 1, p. 201, s.v.; Cristina Cagianelli, Museo Gregoriano Etrusco. Bronzi a figura umana (Museo Gregoriano Etrusco, Cataloghi, 5), Città del Vaticano, 1999, p. 133 sg.; Koen Wylin, Il verbo etrusco. Ricerca morfosintattica delle forme usate in funzione verbale, Roma, “L’Erma”, 2000, pp. 114117; Sybille Haynes, Etruscan Civilization. A Cultural History, London, British Museum, 2000, p. 362 sg.; Armando Cherici, Frammento bronzeo iscritto da Castelsecco, in Etruschi nel tempo. I ritrovamenti di Arezzo dal ’500 ad oggi, Firenze, Nuova Grafica, 2001, pp. 245-247; Adriano Maggiani, I culti di Perugia e del suo territorio, «AnnMuseoFaina», ix, 2002, p. 274; Torelli, op. cit., pp. 26, 34 sg.; Sabrina Batino, Stagnis Thrasymennus opacis: archeologia e mito nella storia di un lago, «Archeologia Classica», liv, 2003, p. 412 sg.; Luciano Agostiniani, in Palazzo Pitti. La reggia rivelata, cat. della mostra, Firenze, Giunti, 2003, p. 517, n. 40; Jean MacIntosh Turfa, Votive Offerings in Etruscan Religion, in The Religion of the Etruscans, a cura di Nancy Thomson de Grummond, Erika Simon, Austin, Texas Press, 2006, pp. 92, 106. 10 Mauro Cristofani, Sul processo di antropomorfizzazione nel pantheon etrusco, «Miscellanea etrusco-italica», i, 1993, p. 17, nota 43 (nega l’esistenza dell’epiteto e pensa che il nome sia una formazione in -ans del tipo Selvans, il che è escluso dalla forma Tecvm- del Fegato); Dieter Steinbauer, 1999, pp. 304-307, 475 (il teonimo sarebbe San® mentre Tec(e) sarebbe un riferimento toponimico al locativo: il che va contro la sintassi formulare, che in simili occorrenze richiede la posposizione del toponimo al teonimo); Massimo Pittau, Tabula Cortonensis, Lamine di Pyrgi e altri testi etruschi, Sassari, Democratica Sarda, 2000, pp. 83-85 (ritorna alla superata interpretazione di tec e tece come forme verbali, in linea con Alessandro Morandi, Le ascendenze indoeuropee nella lingua etrusca, ii, Roma, G.A.R., 1985, p. 18); Giulio M. Facchetti, L’appellativo etrusco etera, «StEtr», lvilviii, 2002, p. 234, nota 16 (traduce tec(e) e tecum con “omaggio pregevole” e Tecum del Fegato ipoteticamente con “Favor” o simili). 11 Anche quella del Putto, a torto data come ininterpunta in tle 624 e in et Co 3.8, ma non in cie 4561 (cfr. l’apografo in Cagianelli, op. cit., p. 122, in cui tuttavia è omesso il trattino fungente da punto tra la prima e la seconda parola, considerato a p. 134 un “tratto inspiegabile”). L’interpunzione è in entrambe le iscrizioni a punto unico (quella dell’Arringatore per errore è data a due punti in Rix, et Pe 3.3). 12 Colgo l’occasione per riprodurre, emendato al riguardo, l’apografo fornitomi a suo tempo dal Museo di Firenze (Colonna, op. cit., p. 102, fig. 1) (Fig. 1).

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Fig. 1. Apografo emendato dell’iscrizione dell’Arringatore.

due iscrizioni, è da escludere che la vocale interna -e- di quella dell’Arringatore sia etimologica. Si tratterà di un fenomeno secondario di anaptissi, condizionato dal timbro della vocale in posizione iniziale (quindi Tecsan® > Tecesan®). Il primo elemento del nome, una volta isolato l’appellativo san®, non è l’inesistente *Tece, ma Tec. Una conferma al riguardo viene, anche in questo caso, dall’onomasticon della Tavola di Cortona. Mi riferisco a un altro hapax, il gentilizio Têcsina, sul quale stranamente hanno sorvolato i molti commentatori della Tavola, fungente da metronimico di due fratelli,13 probabilmente appartenenti a un ramo dei Cucrina (che il metronimico valeva a distinguere da quello del magistrato di più alto grado menzionato nella Tavola, ritenuto l’autore della sentenza giudiziaria in essa trascritta).14 Alla base del gentilizio in questione, continuato in latino da Dexius e Dexonius con le loro varianti grafiche,15 è infatti il prenome *Têcsie (*Têcsie-na > Têcsina), derivato a sua volta, mediante il noto formante onomastico -sie,16 dal primo elemento del teonimo di cui ci stiamo occupando, Tec (in grafia cortonese Têc). Il prenome va incluso tra i non numerosi, ma nemmeno rari, prenomi teoforici etruschi, da affiancare per l’elemento formante a £anursie, derivato dal nome della dea Than(u)r.17 Ma veniamo alle testimonianze del culto del dio. 1. Il santuario del Trasimeno Finora conoscevamo, e solo indirettamente, un unico santuario di Tec San®, ubicato nella valle di Sanguineto, nei luoghi in cui si svolse la battaglia del Trasimeno, non lontano dalla riva paludosa del lago, all’epoca assai più avanzata di quanto non lo sia oggi. La valle è bagnata da un modesto torrente, il Macerone, che tuttavia ha creato coi suoi apporti detritici la maggiore alterazione della linea di costa esibita dalla riva settentrionale del lago. È 13 Righe A 30-31. La lacuna precedente la sequenza [- - -]inaıur Têcsinal non poteva contenere più di due prenomi. 14 Torelli, op. cit., p. 88 sg. Sull’etimo del gentilizio: Giovanni Colonna, I Greci di Caere, «AnnMuseoFaina», xi, 2004, p. 83, nota 89. 15 Wilhelm Schulze, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin, 1904, p. 272, nota 2 (la testimonianza più antica, di età tardo-repubblicana, da Capua). 16 Carlo De Simone, *Numasie/*Numasio-: le formazioni etrusche e latino-italiche in -sie-/-sio-, «StEtr», lvi, 1991, pp. 191-215; Id., Falisco faced – latino arcaico vhevhaked: la genuinità della Fibula Prenestina e problemi connessi, «Incontri Linguistici», 29, 2006, p. 164. Si noti che il formante è presente anche in teonimi: lat. Numisius Martius, Mercurius (De Simone, Latino Mercurius *Tecie) e quindi alterato dalla palatalizzazione della velare a contatto con i, provocata da un’interferenza fonetica dell’umbro, pienamente plausibile a Perugia (*Tecie > *Tes/zie). Basti citare in proposito il classico esempio dell’antroponimo italico *Loucio-, reso in etrusco, nelle aree più esposte al contatto con genti di lingua umbra, con le forme Lavsie, Luvzie, Vuvzie e Vusia (femm.).110 Ne discende che il Tezio è letteralmente «la (montagna) di Tec»,111 così come il Soratte apparteneva a Soranus Pater, il peraltro modesto M. Soriano di Narce al suo omologo ±uri, i vari M. Giovi ovviamente a Iuppiter, ecc. Poiché il Tezio è per definizione la montagna di Perugia, il dio non può non avere avuto un posto di rilievo nel pantheon della città, anche se finora è rimasto del tutto ignorato. Non meraviglia pertanto che sia stato venerato sia nell’eventuale santuario di vetta che in quello di versante, e in questo con un culto assai più intenso e duraturo che in quello, entro un lucus forse accolto, nonostante la lontananza dalla città, nel novero dei tre cui l’istituzione del sacerdos iii lucorum ha conferito un particolare risalto. E non meraviglia nemmeno che il dio del Tezio sia stato venerato come custode dei confini, sia sul monte che da lui prendeva nome, baluardo nei confronti dell’umbra Gubbio, sia nella valle di Sanguineto, zona cuscinetto nei confronti di Cortona.112 107 Maggiani, op. cit. a nota 9, p. 275 sg., nota 54. 108 Maggiani, op. cit., p. 275 sg. Su questi materiali, menzionati sommariamente da Luigi A. Milani, Il R. Museo Archeologico di Firenze, i, Firenze, Ariani, 1912, p. 298, tav. cxx, mi riprometto di tornare presto in altra sede [v. «Ocnus», 15, 2007, pp. 89-115]. 109 Cfr. nota 31. 110 Gerhard Meiser, Accessi alla protostoria delle lingue sabelliche, in La Tavola di Agnone nel contesto italico (Atti del convegno di Agnone, 13-15 aprile 1994), a cura di Loretta Del Tutto Palma, Firenze, Olschki, 1996, pp. 189 sg., 192, 194). Un altro esempio è forse il teonimo Tlenasie/*Tlenasi (Maggiani, op. cit., p. 271 sg.), se da *Tlena¯eie (cfr. il pagus *Tlena¯e dell’agro cortonese, noto da Rix, et Co 3.6 e Pe 3.2). 111 Come confusamente intuito da Conestabile, op. cit. a nota 39, p. 20, partendo dall’incompresa forma tecsa (cfr. Buonamici, op. cit. a nota 44, p. 307). 112 Cfr. nota 19.

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Alla luce di queste considerazioni diventa assai meglio comprensibile quanto si è osservato sull’antichità e sul ‘prestigio’ della via che collegava Perugia a Gubbio passando per il santuario di Fontenova. Evidentemente la via, prima ancora che a Gubbio, conduceva al Monte Tezio, collegava Perugia con la sua montagna sacra e i santuari da essa ospitati,113 sul cui percorso iniziale, come lascia sospettare il toponimo Oscano, è verosimile che si trovasse l’auguraculum connesso con la spectio del territorio al momento della fondazione rituale della città.114 E, all’inverso, siamo autorizzati a pensare che anche agli occhi degli Eugubini la via più antica e tradizionale, delle due adducenti a Perugia, sia stata considerata anzitutto come la via che conduceva al Tezio, il monte dominante il passo del Tevere. Infatti in base ai nomi già ricordati della frazione di Tessenara e della stessa porta Tesenaca, da cui usciva quella via, è stata da tempo ipotizzata l’esistenza di un luogo chiamato *Teseno-115 che, alla luce di quanto si è detto, propongo di intendere come «quello del * Tes/zie», ossia «posto sulla via del Tezio», supponendo che sia intervenuta la sostituzione del suffisso etrusco -ie dell’oronimo col suo omologo umbro -eno- (etr. *Tes/z-ie > umbro *Teseno-).116 A favore di tale eventualità sta il riconoscimento della sacralità del monte anche da parte degli Iguvini, rivelato dai bronzetti umbri di cui si è parlato, i cui tipi sono presenti, oltre che ad Arna, anche a Gubbio nel santuario di M. Ansciano.117 5. *Tecu e Tec. Prima di chiudere questa ricerca è il caso di ritornare brevemente sul nome del dio. Si è detto che sul Fegato il nome compare nella forma abbreviata Tecum- (la scrittura v per u è frequente sul Fegato e in genere nelle epigrafi etrusche di i sec. a.C.).118 La base è la stessa del gentilizio arcaico Tequna, più volte attestato a Orvieto,119 e del gentilizio recente Tecumna/Tecumuni, tipica formazione etrusca in -me-na,120 attestata a Chiusi (et Pe 1.1410, 1209) e continuata da lat. Tecumenus (Arezzo) / Decumenus ( Jesi),121 nonché dai prediali moderni Tecognano (Cortona) e Decugnano (Orvieto).122 Tecumna va pertanto considerato un gentilizio teoforico, del tipo di lat. Veltymnus vs. *Veltumna/ lat. Voltumna, ossia del tipo ricalcante direttamente il nome del dio, che in questo caso, come in quello in esame, è un epiteto sostantivato.123 Non è infatti dubbio, a mio avviso, che il

113 Oltre ai due citati, un terzo si trovava, com’è noto, sulle pendici occidentali del monte, in loc. Compresso Vecchio (Matteini Chiari, op. cit. a nota 71, p. 16, tav. i: 21; Maggiani, op. cit., pp. 276-278) (Fig. 2: D). 114 Cfr. nota 89. 115 Giacomo Devoto, Problemi della filologia umbra, in Atti del i convegno di studi umbri, Gubbio, 26-31 maggio 1963, Perugia, 1964, p. 66 sg. Cfr. Cerri, op. cit., pp. 221 sg., 422. 116 Su -eno-: Helmut Rix, Zum Ursprung des römisch-mittelitalischen Gentilnamensystems, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, i, 2, Berlin, 1972, p. 727 sg. Altrimenti si può pensare che alla base di *Tesseno- sia una variante *Tes/ze dell’oronimo etrusco: per lo scambio -ie/-e (e -sie/-se), attestato per es. da Vipie/Vipe e Vuisi(e) > Vuize, cfr. De Simone, *Numasio…, cit. a nota 16, pp. 202-204. 117 Da ultimi Cerri, op. cit., p. 206 sg., fig. 36; Sisani, op. cit., p. 33 sgg., fig. 11. Per Arna cfr. supra, nota 106. 118 Giovanni Colonna, Il Fegato di Piacenza e la tarda etruscità cispadana, in Studi in memoria di Mario Zuffa, i, Rimini, Maggioli, 1984, p. 173. 119 Massimo Morandi, Prosopographia Etrusca, Roma, “L’Erma”, 2004, p. 532 sg. 120 Tralasciata da Carlo De Simone, Etrusco Tulumne(®) - latino Tolonio(s) e le formazioni etrusche in -mena, «aion Ling», 11, 1989, pp. 197-206. 121 Schulze, op. cit., pp. 159, 272 (l’accostamento a lat. Decumius/Decimius non tiene conto dei precedenti etruschi della stessa area). 122 Tecognano: Torelli, op. cit. a nota 1, p. 27. Decugnano: Pellegrini, op. cit. a nota 31, pp. 189 e 204. 123 Mauro Cristofani, Voltumna: Vertumnus, «AnnMuseoFaina», ii, 1985, pp. 75-78; Giovanni Colonna, Società e cultura a Volsinii, ibidem, p. 112 sg.

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teonimo abbreviato sul Fegato nella forma Tecum- sia da sciogliere proprio in *Tecum(na).124 Tutto lascia supporre che anche Tequna sia un gentilizio teoforico, ma del tipo più comune e diffuso, derivante coi suffissi -na, -nie o -ie dal nome del dio, come nel caso di Culna, Larana, San¯una, Tinana, Celnie, Veie, ecc.125 Si risale pertanto con buona probabilità da entrambi i gentilizi a una protoforma *Tecu del teonimo, di cui resta da chiarire il rapporto con Tec. L’ipotesi a mio avviso più attendibile è che già in età arcaica sia stato comunemente attribuito al dio l’epiteto san® e che dalla sequenza *Tecusan®, sentita come un composto, sia nata nella prima metà del v secolo, in conseguenza della sincope della vocale breve interna, la forma Tecsan® attestata nel santuario di Fontenova e sul Putto Graziani (divenuta Tecesan® sull’Arringatore, come si è argomentato all’inizio, per anaptissi). Da questa forma, una volta isolato di nuovo l’epiteto, che era un appellativo ancora pienamente vitale, si è recuperato per il dio il nome Tec, presupposto, come è stato illustrato a suo luogo, dal prenome cortonese *Têc-sie e dall’oronimo perugino *Tec-ie. L’operazione deve essere avvenuta assai precocemente, comunque prima del 400 a.C., dato che anche il gentilizio *Têcsiena ha conosciuto la sincope interna, come appare dal recente Têcsina.126 Il teonimo *Tecu così riguadagnato s’iscrive in una serie di formazioni in -u sulle quali solo di recente si è portata l’attenzione, distinguendole dai noti sostantivi verbali di significato passivo, del tipo mulu. Mi riferisco a voci quali, in ordine di attendibilità, zi¯u, tenu, putu, ıelu,*capu, formate su radici di verbi transitivi altrimenti noti (zi¯-, ten-, put-, ıel-,*cap-): voci che si tende oggi a considerare sostantivi verbali di significato attivo.127 La radice tec- non è altrimenti conosciuta in etrusco,128 ma è ovvio nel nostro caso il richiamo alla radice i.-e. *deik-, «dire, annunciare», assai produttiva in osco-umbro e in latino.129 La contiguità all’area linguistica umbra delle attestazioni di *Tecu e derivati, quasi tutte di area orvietana, perugina e cortonese, rende praticamente certo che il teonimo sia stato coniato in una di quelle aree (la cronologia privilegia Orvieto), attingendo al lessico sacrale degli Umbri. Il procedimento può sembrare linguisticamente aberrante, ma trova conferma in un altro teonimo, *Sancu, attestato in età arcaica, e anch’esso solo a Orvieto, dal gentilizio Sanquna,130 formato ugualmente, col suffisso -u dei nomina agentis etruschi appena citati, su una radice i.-e. ignota all’etrusco e invece assai produttiva nell’umbro, *sank-, «sancire, rendere inviolabile».131 Che la trasmissione sia avvenuta a livello di linguaggio del sacro, e non di teonimi,132 è confermato dal fatto che la religione degli Umbri non conosce alcun equivalente, per quanto sappiamo, 124 O, meglio, nel gen. *Tecum(nas). Il nome, nonostante l’apparente vicinanza, non può ricalcare il teonimo umbro Tikamne (dat.) (così L. B. Van Deer Meer, The Bronze Liver of Piacenza, Amsterdam, Gieben, 1987, p. 45 sg.) a causa della quantità lunga della vocale interna (Jürgen Untermann, Wörterbuch des Oskisch -Umbrischen, Heidelberg, Winter, 2000, p. 753), che esclude oscillazioni di timbro in quella posizione. 125 Colonna, op. cit. a nota 123, p. 112, nota 49. 126 Ma è possibile anche la trafila *Têcusiena > Têcsina. 127 Helmut Rix, La scrittura e la lingua, in Gli Etruschi. Una nuova immagine, a cura di Mauro Cristofani, Firenze, Giunti Martello, 1984, p. 235, § 53 (dove invece di «scritto» leggi «avendo scritto»); Wylin, op. cit. a nota 9, pp. 139-141; Giulio M. Facchetti, Appunti di morfologia etrusca, Firenze, Olschki, 2002, pp. 94-98; Giovanni Colonna, in ree 2005, n. 25 (putu). 128 Se non come base dell’oscuro appellativo tece (Rix, et 01.04 e Piombo di Cerveteri), tecu(m) (et ll xii.5), su cui mi riprometto di tornare altrove. 129 Untermann, op. cit., p. 753 sg.; Helmut Rix (a cura di), Lexikon der indogermanischen Verben, Wiesbaden, Harrassowitz, 2001, p. 108 sg. 130 Morandi, op. cit., p. 439 sg. 131 Ancillotti, op. cit. a nota 72, pp. 186 sg., 192; Cerri, ibidem, p. 408; Untermann, op. cit., p. 656. 132 A differenza, per fare un esempio, del teonimo ‘umbro’ (volsco) Declona (Untermann, op. cit., p. 164), che è alla base del gentilizio teoforico perugino Tecluni (Rix, et Pe 1.5).

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né di *Tecu né di *Sancu. Né del resto ne conosce per *Crap, dio etrusco noto solo dal Liber e quindi quasi certamente perugino, dal nome ricalcato su quella che in umbro è una semplice voce lessicale, anche se fungente coi suoi derivati da epiteto, come nel caso di *sank-, di altre divinità.133 In conclusione molto verosimilmente *Tecu/Tec è il dio «che parla», alla stregua del romano Aius Locutius. Che ha invano parlato alla vigilia del disastro dell’Allia, come il nostro ha forse fatto nella giornata del Trasimeno. Appendice La più antica descrizione dell’Arringatore (c. 1605) apparsa in un’opera a stampa (Cesare Crispolti , Perugia Augusta, a cura del nipote omonimo, Perugia, Tomassi e Zecchini, 1648, p. 205). «Non voglio però tralasciare di porre, come nel distretto del Castello di Pila, fu gli anni addietro dalle acque correnti scoperta una statua di bronzo di marauigliosa bellezza, la quale portata di nascosto al Gran Duca Cosimo Primo di Toscana, venne dall’istesso nel più riguardeuole luogo della sua augustissima Galleria collocata; è creduto da molti per simulacro di Malot-Tagete, il cui nome è celebrato da Lucano, da Ouidio, da Cicerone e da altri Scrittori per la peritia, ch’egli hebbe de gli Augurij. Altri lo stimarono, mà non sò con qual particolar ragione, simulacro di Scipione Affricano. Altri finalmente congetturando dall’habito che haueua in dosso, e da alcune lettere Etrusche incise alla falda di quello, lo credettero un de i Lucumeni, che come Regi dominarono la Toscana; che sia che sia, certo è, che la statua è opera di maestro eccellentissimo, il che è gran marauiglia, poiché auanti à i tempi de gl’Imperatori, ne i quali fu gittata, non fioriuano, particolarmente in Italia, mastri di gran valore». P.S. Quando il presente contributo era già praticamente terminato sono venuto a conoscenza del pregevole saggio di Chiara Berichillo , Studi sul territorio perugino nell’antichità, «Ostraka», xiii , 2, 2004 (ma novembre 2005), pp. 177-247, in cui si affrontano alcuni dei temi da me indipendentemente trattati. Di qualche utilità anche Giovanna Benni , L’alta valle del Tevere fra tarda antichità e basso Medioevo. Insediamenti incastellati e signorie rurali, «Temporis signa», i , 2006, pp. 237-265. [Il dio Tec San®, il Monte Tezio e Perugia, in Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, a cura di S. Bruni, i, Pisa-Roma, 2009, pp. 239-253]. 133 Ancillotti, op. cit., p. 181; Cerri, op. cit., p. 470; Untermann. op. cit., pp. 308-310 (nome di luogo). In etrusco il teonimo compare nel sintagma che nel Liber designa un dio anonimo suo ‘inquilino’, il Flere in Crap®ti, ossia il «Nume che abita nel (santuario) di Crap» (Colonna, op. cit. a nota 2, p. 130). Altre attestazioni etrusche del teonimo, indirette, sono i gentilizi Crapna (Rix, et Ad 2.29) e Crapilu, frequente a Chiusi (et , 1,290, ecc.), variante di *Crapile (cfr. le coppie Aule/Aulu, Titele/Titelu, ecc.).

I LEONI DI SORRE NTO ( E I L SUPPOSTO MN EMA D E L RE L IPA RO )* ntervenendo nella discussione che è seguita alle relazioni tenute nella sessione mattutina del convegno ho fatto cenno alle statue di leoni acquistate quarant’anni fa dal Museo di Villa Giulia su sollecitazione di Paola Zancani. Torno ora sull’argomento, dopo avere riesaminato attentamente le statue (e la stele acquistata insieme con esse), avere riordinato i miei ricordi personali e soprattutto aver preso visione, per la prima volta, della documentazione d’archivio relativa all’acquisto, esistente presso la Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale.1 Documentazione cui ho avuto libero accesso grazie all’interessamento della Soprintendente, l’amica Anna Maria Moretti Sgubini, che ha facilitato in tutti i modi la mia ricerca.2 Trattandosi di un gruppo di sculture sostanzialmente inedito, e non solo fotograficamente, ne è necessaria in via preliminare una descrizione piuttosto analitica, accompagnata da un adeguato corredo di immagini (sulle circostanze dell’acquisto rinvio al § 3.).

I

1. Anzitutto alcune considerazioni valide per l’intero gruppo. La pietra. Sia i leoni che la stele sono scolpiti in un tufo di colore grigio, tenero e poroso, disseminato di minuscoli inclusi neri, in molti casi distaccatisi dalla superficie lavorata lasciando in vista gli alveoli in cui erano alloggiati. Sui leoni a-b-c restano avanzi, di varia estensione ma sempre esigui e posti nelle parti più riparate, in specie nelle zone d’angolo, di una crosta di stucco di colore bianco, dello spessore massimo di circa mm 2, destinata a coprire le rugosità delle superfici e forse anche a fungere da preparazione per un’eventuale dipintura, di cui comunque non resta traccia. La collocazione originaria. Della stele manca la parte inferiore con l’eventuale base, che invece è conservata dalle statue dei leoni. Infatti tutti e quattro i leoni sono scolpiti in un sol blocco col plinto su cui sono sdraiati, fungente loro da base, destinato, a giudicare dai fianchi lasciati grezzi, a essere alloggiato entro un incasso appositamente scavato nella struttura del monumento cui le statue appartenevano. Monumento del quale si può dire con certezza soltanto che, come provano le vistose tracce di erosione esibite dalla sommità sia delle teste dei leoni che della stele, si trovava all’aperto, in un luogo eminente dove è rimasto esposto per secoli, con le sue sculture ancora in situ, all’azione della pioggia e del vento. Dalla struttura di supporto i leoni sono stati divelti a forza, spezzandone i plinti e con essi le estremità delle zampe anteriori, oltre che, nel caso del leone d, anche di quelle posteriori, con la conseguente frattura del torso dell’animale. Un danneggiamento così esteso, e certamente involontario, fa supporre che il leone d, più piccolo degli altri, sia stato il primo a essere rimosso, con una procedura ancora maldestra. Il restauro. A giudicare dalla quantità dei frammenti recuperati – ben 26 – è lecito immaginare che i resti delle statue divelte siano stati sepolti con cura entro un’unica ‘colmata’, il cui scavo è stato eseguito anch’esso con la dovuta attenzione. Né meno profes* Sono grato a Mario Russo per aiuti vari e scambi di idee. 1 Archivio della SAEM, fasc. 4 H. 2 Sono altresì grato a Francesca Boitani, direttrice del Museo, per la possibilità avuta di rintracciare la stele già associata ai leoni e per le foto dell’archivio fotografico della SAEM qui pubblicate.

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Fig. 1. Roma, Museo di Villa Giulia. Leone a (inv. 71845) (foto Museo).

sionale, per così dire, appare il successivo restauro delle statue, realizzato senza mascherare le fratture né integrare in alcun modo le superstiti lacune (anche nel caso dei plinti, per i quali le integrazioni sarebbero state tanto facili quanto sicure). A ciò si aggiunge che, a restauro ultimato, a ogni leone è stata sottoposta, per consentirne il trasporto senza pericolo per la stabilità degli attacchi, una lastra rettangolare di travertino appositamente predisposta, di uguale spessore per tutti (cm 4) e di superficie uguale per i leoni a-b-c (cm 88 × 45), minore per il leone d, che è più piccolo degli altri (cm 86 × 42). 1.1. Ed ora le schede delle singole sculture. a) Leone ruggente, accovacciato sulle quattro zampe col torso inarcato nella posizione preludente all’attacco («Sprunglage»)3 (n. inv. 71845) (Figg. 1, 2 a sin., 3 a sin., 4). 3 Gabelmann 1965, p. 19 sg.

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Fig. 2. Idem. Leoni a e d (foto A.).

Fig. 3. Altra veduta degli stessi (foto A.).

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Collo e testa eretti e leggermente ruotati verso la destra dell’animale, profilo delle spalle appena rilevato, zampe con artigli, plinto rettangolare. Criniera interamente liscia e piatta, che scende all’indietro fino al garrese e sul davanti fino a metà altezza del petto, contornata da un leggero scalino che intorno al muso diventa una risega piuttosto marcata, cui sono addossate le orecchie. Coda robusta che risale bene in vista lungo il margine interno della coscia sinistra per poi adagiarsi sul dorso in corrispondenza delle natiche, con ingrossamento finale a ferro di lancia. Labbra formanti intorno alla bocca spalancata una banda ricurva, incisa da solchi trasversali; lingua assai larga e appena rilevata, un poco eccentrica verso sinistra; arcata dentaria superiore appena visibile, denti canini di entrambe le mascelle in forte evidenza, serrati due a due nell’atto di digrignare. Per quanto lasciano intravedere le superfici assai corrose la fronte è bassa, il naso tozzo, i baffi marcati, gli occhi stretti, lunghi e inclinati obliquamente verso l’esterno, le orecchie verticali, col padiglione formato da due ‘conche’ sovrapposte. Riattaccate le due zampe anteriori con Fig. 4. Veduta frontale del leone a (foto A.). le corrispondenti porzioni del plinto. Sommità della testa e del muso assai corrose. Vistose tracce di lavorazione in senso orizzontale sul davanti della coscia sinistra. Resti di una sottile linea di riferimento per la sgrossatura della statua incisa sull’asse longitudinale della figura, dal labbro superiore alla nuca e alla base posteriore della criniera, dove sembra corresse una seconda linea in direzione trasversale. Alt. massima 0,78. Misure del plinto: 0,82 × 0,43 × 0,08/10. b) Leone simile al precedente, anch’esso con la testa appena ruotata verso destra (n. inv. 71846) (Figg. 5-7, 8 a sin., 9 a ds.). Sul petto la criniera è più larga e termina un poco più in basso, la spalla destra non è rilevata, la coda è un poco più lunga. Labbra meglio conservate, con solchi più marcati; lingua più stretta e con solco mediano, spostata a sinistra; orecchie anch’esse meglio conservate, in specie quella sinistra, con padiglione a doppia conca di forma quasi umana, evidenti tracce dei baffi ai lati del naso. Avanzi relativamente estesi di stucco sul petto e sulla parte adiacente delle spalle. Plinto ricomposto, con alcune lacune, da otto frammenti, comprendenti anche le zampe anteriori. Testa e muso un poco meno corrosi che in a. Tracce di lavorazione sulla fronte della coscia sinistra come in a. Alt. massima 0,78. Misure del plinto: 0,88 × 0,44 × 0,08/10. c) Leone simile ai precedenti, anch’esso con la testa appena ruotata verso destra (n. inv. 71847) (Figg. 8 a ds., 9 a sin., 10, 11). Se ne distingue per la coda che, risalita lungo

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Fig. 5. Leone b (inv. 71846) (foto Museo).

la coscia sinistra, descrive sul dorso una curva in direzione del collo, e anche per altri particolari, quali il margine della criniera sinuoso anche sul fianco destro, le cosce meno alte del dorso in corrispondenza delle natiche, il ventre prominente in basso a ridosso delle spalle. Sul petto la criniera ha un taglio simile a quello di a ma col vertice un poco più in alto e spostato a sinistra, a seguito di un pentimento intervenuto in corso d’opera. Lineamenti facciali assai marcati, fronte più alta, lingua assai larga, canini serrati come in a, orecchio destro con padiglione a conca unica. Conserva, anche se minori che in b, avanzi relativamente estesi di stucco sul petto e sulla parte anteriore delle spalle.

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Fig. 6. Altra veduta dello stesso (foto Museo).

Fig. 7. Particolare dello stesso (foto A.).

Plinto ricomposto, con ampie lacune, da quattro frammenti, comprendenti anche le zampe anteriori. Manca gran parte della mascella superiore. Alt. massima 0,78. Misure del plinto: 0,96 × 0,42 × 0,08. d) Leone anch’ esso accucciato e ruggente, con la testa e il petto ruotati verso destra (n. inv. 71848) (Figg. 2 a ds., 3 a ds., 12). Formato un poco minore e aspetto assai più rozzo e legnoso dei precedenti, dovuto al mancato completamento della lavorazione. Criniera assente, spalle e cosce solo sbozzate, accenno di coda solo per un bre-

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Fig. 8. I leoni b e c (foto A.).

Fig. 9. Altra veduta degli stessi (foto A.).

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Fig. 10. Leone c (inv. 71847) (foto Museo).

ve tratto lungo la coscia destra, testa informe, fauci consistenti quasi solo in una profonda cavità, con traccia del dente canino destro superiore. Il plinto a differenza degli altri leoni termina in corrispondenza degli arti posteriori a forma di trapezio.4 Superfici più erose che negli altri leoni. Sommità della testa mancante, torso ricomposto da tre frammenti, plinto e zampe da otto, con vaste lacune nel settore posteriore. Alt. massima 0,67. Misure del plinto: 0,86 × 0,36 × 0,06. e) Stele di cui resta solo il lastrone fungente da capitello (sulla tipologia della stele si rinvia al § 2. 2.), peraltro alquanto sviluppato in altezza, scolpito a bassorilievo su entrambe le facce con un ornato vegetale complesso, sorgente da un sottile listello di base (n. inv. 71849) (Figg. 13-15). Consiste in una grande palmetta circoscritta da un tondino che ne segue il perimetro e termina in alto avvolgendosi in due volute con occhio liscio, contrapposte come quelle di un capitello eolico, da cui pendono lateralmente due foglie spinose di acanto dai bordi ondulati a sega. Compongono la palmetta un cuore delimitato da due cordoncini semicircolari e otto coppie di foglie, di cui l’ultima con le punte ingrossate e flesse a uncino verso un elemento centrale più alto, a forma di ferro di lan-

4 Peculiarità che ritorna in alcuni leoni di Mileto (Gabelmann 1965, p. 92, leoni nn. 127 e 128).

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cia con linea incisa sull’asse e cuspide romboidale a punte acuminate e lati rientranti. In corrispondenza della sua punta sommitale sorge tra le volute quello che sembra essere un fiore o un quarto di palmetta. L’ornato è lo stesso sulle due facce della pietra, ma è scolpito con rilievo più marcato e rifinito su quella che evidentemente era considerata la faccia principale, o faccia A, per la presenza sul fusto sottostante di un’iscrizione o di un decoro figurato, o anche solo perché collocata più in vista (Fig. 13). Entrambe le facce appaiono erose nel settore sommitale ma la faccia B assai più dell’altra (Fig. 14), il che fa pensare a un’esposizione in situ meno favorevole (verosimilmente a settentrione o a maestro). Il lastrone, alto 0,65, largo 0,45, spesso 0,24, presenta al centro del piano superiore un cavo di cm 4 × 4, profondo cm 10, per l’alloggio del perno verticale di legno duro con cui era fissato il coronamento della stele, non conservato, verosimilmente consistente in una palmetta più piccola, Fig. 11. Altra veduta dello stesso (foto A.). sovrapposta alle volute del capitello. Un altro perno di legno, alloggiato in un cavo di cm 6 × 4, profondo cm 9, praticato nel piano inferiore della pietra, ancorava il capitello al fusto, verosimilmente monolitico. Attualmente (2009) la sommità del lastrone manca dell’intero settore di centro-sinistra (rispetto alla faccia A). La lacuna corrisponde, nella foto del 1981 riprodotta a fig. 13, a fratture subite in occasione degli spostamenti cui il pezzo è stato sottoposto dopo l’arrivo a Villa Giulia.5 Nessuna traccia di stucco. 2. Seguono alcune considerazioni di commento. 2. 1. I leoni a-b-c costituiscono un insieme unitario sotto l’aspetto dimensionale, iconografico e stilistico, anche se probabilmente opera di due scultori, l’uno autore della coppia a-b, l’altro di c. Alla mano di un loro inesperto apprendista si può attribuire l’incompiuto leone d, che condivide con gli altri, nonostante il minore formato, la postura sdraiata con le quattro zampe aderenti al suolo e il ventre un poco inarcato, insolita per l’epoca cui i leoni manifestamente vanno ascritti in base a stile e iconografia, che è quella dell’arcaismo finale (cfr. § 5. 1.). Ne risulta un gruppo di statue leonine che per numero e omogeneità progettuale non trova praticamente confronto né in Etruria né altrove nell’Italia arcaica. Comune a tutte e quattro è la testa sollevata e ruotata un poco verso 5 Nella descrizione che si legge nell’Inventario del museo, basata sulla ‘perizia’ da me redatta nel 1970 (vedi infra), si dice solo che «su di un lato il fregio manca della parte superiore», con riferimento all’erosione subita dalla faccia B. Attualmente la stele è conservata, a differenza dei leoni, nel lapidario all’aperto, riparata alla meglio da una tettoia, situato sulla pendice della collina soprastante la Villa.

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Fig. 12. Leone d (inv. 71848) (foto Museo).

la propria destra, mentre la coda sale sul dorso, nei tre esemplari la cui lavorazione è stata portata a termine, passando intorno alla coscia sinistra: il che denota che quello era il fianco esibito alla vista, come confermano la posizione della lingua e il modellato delle orecchie, più accurato sul lato sinistro che non sul destro. Se ne deduce che i leoni erano collocati di profilo verso sinistra rispetto allo spettatore, nell’atto di ruggire minacciosi montando la guardia a un elemento posto al centro del loro ‘giro’, cui sembrano guardare come di sottecchi. Se il monumento era a pianta circolare, come a priori si è indotti a ritenere, si sarà trattato di un piccolo tumulo, sormontato da un sema a forma di cippo, di colonna o di stele, che ne costituiva il punto focale.6 2.2. La stele e si componeva in origine di tre elementi sovrapposti, lavorati separatamente, dei quali resta solo il mediano, assimilabile dal punto di vista tettonico, come si è detto, a un capitello. La tipologia di base è quella delle stele funerarie attiche del 550-525 a.C. con capitello a palmetta entro doppie volute, del tipo “a lira”, e corona6 Kurtz - Boardman 1971, pp. 218-246.

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Fig. 13. Stele e (inv. 71849), faccia A (foto Museo).

mento figurato, per lo più a forma di sfinge.7 In questo caso tuttavia il coronamento, se consisteva, com’è assai probabile, in una palmetta di formato minore, rinvia al tipo semplificato di stele in cui quell’eleFig. 14. La stessa, faccia B (foto A.). mento sorgeva direttamente dal fusto, su volute troncate in basso senza dar luogo al motivo “a lira”: tipologia questa che si afferma con le stele samie e attiche del 525500 a.C.,8 imitate in Occidente in età tardo-arcaica a Populonia9 e nella Campania settentrionale,10 in età tardo-classica e alto-ellenistica a Velia, Lipari e Taranto.11 L’anomala sovrapposizione, come probabilmente avveniva nel nostro caso, di un acroterio a piccola palmetta su un capitello “a lira” può ricordare talune pietre fiesolane tardoarcaiche,12 ma di fatto sarà stata ispirata, come rivela l’assenza delle volute inferiori, dai trofei di palmette sovrapposte che compaiono sul collo o sotto le anse di vasi attici (soprattutto anfore, crateri, stamnoi e idrie) di stile classico e tardo-classico,13 larga7 Tipo I c di Richter 1961, pp. 2 sg., 27-36, nn. 37-53. Cfr. Boardman 1978, p. 162 sg., fig. 224: 3. 8 E. Buschor, Altsamische Grabstelen, in AM 58, 1933, pp. 26-31, figg. 3 sg., Beil. X. Per Atene vedi in particolare Richter 1961, n. 43 sg. Cfr. anche Kurtz-Boardman 1971, pp. 220-222, tavv. 48 sg., 51 sg. 9 M. Martelli, in Studi per Enrico Fiumi, Firenze, 1979, pp. 42-45, tavv. xi e xii: 1. 10 Stele da Montanaro di Francolise nell’agro di Cales: Cerchiai 1995, pp. 175 e 240, con bibl. 11 W. Johannowsky, in Atti Soc. Magna Grecia, n.s. xviii-xx, 1977-1979, pp. 189-191 (Velia); BTCGI ix, 1991, s.v. Lipari, p. 92 (L. Bernabò Brea, M. Cavalier); E. Lippolis (ed.), Cataloghi del Museo Nazionale di Taranto, iii , 1, Taranto, 1994, p. 114, fig. 80. 12 Come il cippo da Settimello e soprattutto la stele da Londa (G.Q. Giglioli, L’arte etrusca, Milano, 1935, tavv. lxxvii: 1 e clvi: 2, 4). 13 Esempi: A.A. Peredolskaya, Krasnofigurnye attischeskie vazby v Ermitaje, Leningrad, 1967, tav. cxli: 2 (stamnos eponimo del P. di Kleophon); Napoli antica, cat. mostra, Napoli, 1985, p. 236 sg., n. 36.1 (P. di Nicia); J. Boardman, Athenian red figure vases. The classical period, London, 1989, figg. 177 (P. del Dinos, da Nocera), 311 (P. di Kadmos), 329: 1 (P. di Suessula), 336 (P. di Meleagro); F. Curti, La bottega del Pittore di Meleagro, Roma, 2001, tavv. 33, 36, 38, 40, 43 (crateri a campana), 52 (anfora), 54, 61 (idrie).

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Fig. 15a. Stele e, prospetto (anteriore) e sezione verticale (dis. Sergio Barberini).

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Fig. 15b. Stele e, prospetti (laterale e posteriore) (dis. Sergio Barberini).

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Fig. 16. Stamnos falisco da Falerii del P. dell’Aurora (foto Arch. ex Istituto Etruscologia, Univ. La Sapienza).

mente imitati nella prima metà del iv secolo dai ceramografi italioti, etruschi e falisci (Fig. 16).14 Per la datazione della nostra stele determinante non è il tipo di trofeo vegetale e nemmeno il motivo delle foglie pendenti di acanto, attestato in Attica già dalla metà del v 14 Esempi: M. Russo, in Albore Livadie 1990, p. 129, tav. x b (da Piano di Sorrento); A. Pontrandolfo, in A. P., A. Rouveret, Le tombe dipinte di Paestum, Modena, 1992, p. 410 sgg., figg. 65, 67-69 (ceramica pestana); Aa.Vv., Aristaios. La collezione G. Sinopoli, i, Venezia, 1995, pp. 370, 385, nn. 100 e 103 (ceramica apula); p. 406. n. 110 (P. del Primato); J.D. Beazley, Etruscan vase-painting, Oxford, 1947, tavv. ix: 1, xvi: 1 e 2 (cfr. Fig. 16), xvii: 3, xviii: 11, xxxv: 2; F. Gilotta, «AnnMuseoFaina», x, 2003, p. 212, fig. 8; B. Adembri, in La civiltà dei Falisci (Atti del xv convegno di studi etruschi e italici, Civita Castellana 1987), Firenze, 1990, p. 233 sgg., tavv. ii: c; iii: d, e; iv: d.

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secolo,15 ma la particolare configurazione della grande palmetta del capitello, in cui l’elemento centrale è affiancato da due foglie che, a differenza di tutte le altre, hanno la punta curvata a uncino verso di esso. Una combinazione, a quanto pare introdotta dai ceramografi italioti,16 delle normali palmette a foglie curvate verso l’esterno con quelle, assai meno frequenti, a foglie introverse, del tipo “a fiamma chiusa”.17 Combinazione che inizia ad apparire in un momento avanzato della prima metà del iv secolo a.C., incontrando particolare favore nelle manifestazioni ‘tirreniche’ di quella ceramografia, ossia nella produzione campana, pestana e liparese,18 nonché nelle terrecotte architettoniche, anche recenziori, prodotte nei medesimi ambienti.19 Di tale tipologia la stele in questione rappresenta, per quanto ho potuto verificare senza approfondite ricerche, l’unica manifestazione lapidaria finora nota. 2.3. Sembra a questo punto inevitabile supporre che il sema del tumulo ipotizzato si identifichi proprio con la stele e, acquistata insieme ai leoni, scolpita nella medesima pietra e rinvenuta verosimilmente nel medesimo scarico.20 La difficoltà offerta dal divario cronologico di almeno 150 anni esistente tra essa e i leoni può essere superata attribuendo la stele a un intervento seriore, in sostituzione del sema originario, ritenuto non più idoneo ad assolvere la funzione simbolica e di comunicazione visiva che gli era stata affidata. A titolo puramente indicativo si può immaginare che il monumento abbia assunto intorno al 350-300 a.C. l’aspetto evocato graficamente, seguendo le mie indicazioni, da Sergio Barberini (Figg. 17-18). Aggiungo che è da presumere per la stele una collocazione in situ con la faccia A – non solo meglio lavorata, ma anche meglio conservata – rivolta a mezzogiorno, mentre il leone d, più eroso degli altri, sarà stato quello esposto a maestro. 3. Veniamo ora alla ricostruzione delle vicende, durate due anni, che hanno portato all’acquisto delle sculture (non avvenuto sul mercato antiquario, come invece si è scritto).21 Le premesse risalgono all’ottobre del 1969, quando ricevetti, nella stanza che occupavo presso il Museo di Villa Giulia in quanto Ispettore della Soprintendenza (lo 15 Jacobsthal 1927, p. 191. Cfr. H. Möbius, Die Ornamente der griechischen Grabstelen2, 1968, p. 11 sg., tav. i (acroteri dei sarcofagi di Sidone). 16 Jacobsthal 1927, p. 177 sg., fig. 145 a, tavv. 117 c-d, 122 a. 17 R. Ginouvès, R. Martin, Dictionnaire méthodique de l’architecture grecque et romaine, i, Roma 1985, p. 172, tavv. 50: 14, 57: 4, 59: 7. 18 Ceramica campana: Mingazzini, Pfister 1946, p. 217, n. 3, tav. xliv (da Vico Equense); Napoli antica, cit. a nota 14, p. 323 sg., nn. 98.2, 99.1 (P. di Caivano, P. CA); Trendall 1989, p. 159 sg., figg. 280 (P. del Laghetto), 287 (P. di Issione); J.GY. Szilágyi, in Acta Acad. Scientiarum Hung., xviii, 1970, p. 246, fig. 12 (Pitt. B.M. F 63); Id., cva Hongrie i, 1981, p. 80 sgg., tav. 38: 2 (Pittore di Errera). Ceramica pestana: Pontrandolfo, op. cit. a nota 15, p. 410 sg., fig. 65 (P. di Paestum 5397); p. 414 sgg., figg. 73 e 74 (maniera del P. di Sidney); (loc. Gaudo): pp. 380 e 411, con fig. a p. 381, n. 1 (Assteas); J.GY. Szilágyi, in Bull. Mus. Hongr., 44, 1975, p. 14, n. 10, fig. 11 (maniera del P. di Sidney); A.D. Trendall, Red figured vases of Paestum, Hertford, 1987, p. 84 sg., nn. 126, 127, 129, tavv. 45, 46, 49 (Assteas); p. 109, n. 141, tav. 61 (cerchia di Assteas), p. 387 sg., tav. 240, g-f (cerchia di Assteas-Python). Ceramica liparese: M. Cavalier, Nouveaux documents sur l’art du peintre de Lipari, Naples, 1976, tavv. iii, xii; Trendall 1989, p. 241, fig. 19 c. Qualche esempio anche nella ceramica lucana (ibid., p. 62 sg., fig. 97: P. del Primato), siceliota (U. Spigo, in Studi classici in onore di Luigi Bernabò Brea, Messina, 2003, p. 110 sg., tav. iv: tra i gruppi Borelli ed Etna) e alto-adriatica (F. Berti, in Classico e anticlassico, cat. della mostra di Comacchio, Bologna, 1996, p. 100). 19 Esempi: H. Koch, Dachterrakotten aus Campanien, Berlin, 1912, p. 78 sg., tavv. xxiii: 4 (Capua), xxiv: 1 (S. Angelo in Formis); G. Greco, in La coroplastica templare etrusca fra il iv e il ii secolo a.C. (Atti del xvi convegno di studi etruschi e italici, Orbetello 1988), Firenze, 1992, pp. 237-239, tavv. vii b-ix (Fratte di Salerno). A Fratte compare anche la contaminazione opposta, ossia la palmetta a foglie introverse con le due foglie superiori estroverse (ibid., tav. vii a). 20 In cui l’eventuale assenza del fusto è facilmente spiegabile con l’ipotesi del suo recupero come materiale da costruzione. 21 Cfr. infra, note 39 e 41.

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Fig. 17. Ricostruzione ipotetica del monumento dei leoni, veduta zenitale (dis. Sergio Barberini).

sono stato, vincitore di concorso, dal gennaio 1964 all’ottobre 1972), una visita inaspettata della Zancani (che avevo incontrato più volte nella biblioteca dell’Istituto Archeologico Germanico e da ultimo, più distesamente, in occasione del convegno di Taranto del 1968, dedicato ai rapporti di età arcaica tra la Magna Grecia e Roma). La Studiosa mi parlò di alcune statue di leoni in tufo in possesso di privati, rinvenute nel corso di lavori edilizi a Sorrento, che sapeva essere in procinto di andare disperse sul mercato antiquario. Per questo ne caldeggiava l’acquisto da parte dello Stato e mi invitava a parlare della questione col mio Soprintendente, che era Mario Moretti,22 quel giorno assente, 22 Da me ricordato poco dopo la scomparsa, «RendPontAcc», lxxiv, 2001-2002, pp. 335-339. Si vedano inoltre i vari contributi apparsi in Archeologia in Etruria meridionale. Atti delle giornate di studio in ricordo di Mario Moretti (Civita Castellana, 14-15 novembre 2003), a cura di M. Pandolfini Angeletti, Roma, 2006.

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Fig. 18. La stessa, veduta anteriore (dis. Sergio Barberini).

a quanto ricordo, dall’ufficio. Aderii non senza imbarazzo all’incombenza affidatami, che mi appariva per lo meno anomala (perché rivolgersi a noi e non alla Soprintendenza di Napoli, competente per territorio, o, meglio ancora, al Nucleo Carabinieri preposto alla tutela, diretto allora dal colonnello Mambor?). Anche Moretti, com’era prevedibile, si mostrò tutt’altro che entusiasta della proposta. Sta di fatto che i possessori dei leoni si affrettarono a scrivere alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, che rispose loro, dimostrando una sollecitudine del tut-

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to insolita, con la seguente lettera della Divisione Musei, datata 21/xi/1969, di cui esiste copia nel fascicolo concernente l’acquisto conservato nell’Archivio della SAEM. «In relazione all’istanza in data 8 novembre c.a. con la quale viene richiesta l’autorizzazione ad inviare per esame a Roma del materiale archeologico di proprietà delle SS.LL., si comunica che il materiale stesso deve essere portato presso la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale - Museo di Villa Giulia - Roma. Si prega di far conoscere con urgenza [corsivo mio] la data d’invio di quanto sopra».

La consegna avvenne si può dire a giro di posta, il 2/xii, come risulta dalla dichiarazione di ricevuta prot. 5352, firmata per il Soprintendente dalla collega anziana Gabriella Perina Begni e quindi trasmessa al Ministero il 6/xii/1969, con lettera prot. 5444. «In riferimento a lettera ministeriale nº 14594, datata 21/11/69 della divisione Musei, in data odierna vengono consegnati a questa Soprintendenza dai Sigg. LONGOBARDI Enrico e D’AMORA Alessandro,23 entrambi di Gragnano (NA), per essere sottoposti ad esame, i seguenti pezzi: N. 4 leoni accovacciati, restaurati e mancanti di parti: misure 1º) lunghezza cm 85 largh. 40,5 alt. 78 misure 2º) “ 88 “ 44 “ 80 misure 3º) “ 83 “ 35 “ 67 misure 4º) “ 95 “ 41 “ 78 Una lastra rettangolare di tufo con palmetta (alt. cm 59 largh. cm 41 spessore cm 21)».

A questo punto mi trovai di nuovo coinvolto, poiché fu affidato a me il compito di procedere al richiesto esame delle sculture pervenute al Museo,24 cosa che feci attestandone l’autenticità con una breve relazione indirizzata al Soprintendente.25 Questi dopo alcuni mesi ricevette dal Ministero26 la seguente lettera, datata 1/vi/1970, prot. 6929, che girò a me per competenza con l’annotazione di suo pugno «già fatto» (Fig. 19), alludente all’avvenuta trasmissione per le vie brevi del resoconto del mio esame. «Si prega la S.V. di voler inviare la relazione scientifica specificando altresì il valore delle quattro statue di leoni di proprietà dei Sigg.ri Longobardi D’Amora, al fine di sottoporre la questione all’esame della I Sezione del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti che si riunirà il 5 p.v.»

Si voleva evidentemente da noi non solo la certificazione dell’autenticità delle sculture ma anche la stima del loro valore venale. Tuttavia la risposta da me stilata, che Moretti firmò e fece spedire in data 4/vi/1970, prot. 2448, fu del tutto elusiva al riguardo (Fig. 20). 23 Non ometto i nomi, essendo registrati fin dal 1971 nell’Inventario Generale del Museo Nazionale di Villa Giulia, che è un documento pubblico, e comparendo anche in Van Kampen 2003, pp. 24-27. 24 E provvisoriamente ricoverate dove tuttora si trovano, a eccezione della stele (cfr. supra, nota 5), ossia in prima fila nel vestibolo posteriore del Tempio di Alatri, ricostruito nel giardino della Villa da Adolfo Cozza nel 1890-1891 come modello al vero di tempio etrusco-italico (P. Tamburini, in P.T., C. Benocci, L. Cozza Luzi, Adolfo Cozza, Perugia, 2004, p. 95 sg., figg. 99-101, con bibl.). I due vestiboli del Tempio nel dopoguerra hanno finito un po’ alla volta con l’accogliere, accanto alle sculture in pietra del vecchio Antiquarium della Scultura, molti altri pezzi, anche assai pregevoli, benché stranamente ne tacciano tutte le guide del museo. Foto del vestibolo anteriore in G. Colonna, Urbanistica e architettura, in Rasenna, Milano, 1986, p. 457, fig. 381, del posteriore in G. Colonna (ed.), Santuari d’Etruria, catalogo della mostra di Firenze, Milano, 1985, p. 50, n. 3.2: i leoni di cui parliamo si intravedono, due per lato, a ridosso delle colonne del tempio. 25 Di cui non ho ritrovato copia, né presso di me né presso l’archivio della saem. Un’eco ne è offerta dalla descrizione delle sculture registrata nell’Inventario del museo ai numeri, come già detto, 71845-71849. 26 Probabilmente sollecitato da donna Paola, e in questo caso è lecito supporre tramite la mediazione di Massimo Pallottino, suo collega nel ristretto Comitato di redazione delle Notizie degli Scavi e dei Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei, oltre che membro autorevole del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

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Fig. 19. Lettera del Ministero della Pubblica Istruzione concernente l’acquisto dei leoni (Arch. Sopr. Etruria Merid.).

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Fig. 20. Risposta della Soprintendenza al Ministero (Arch. Sopr. Etruria Merid.).

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«Facendo seguito alla ns. del 6/12/69, prot. 5444, si comunica che questo Ufficio, dopo attento esame, ritiene sicura la autenticità del materiale in oggetto, consistente in quattro statue di leoni accosciati ed una stele a palmetta. Ritiene altresì conveniente, stante la rarità di simili sculture in ambiente campano, l’acquisizione delle stesse al patrimonio dello Stato».

Con la minuta di questa lettera ebbe termine il mio coinvolgimento nella pratica dell’acquisto, e con esso il mio interessamento alle sculture in questione (avevo molto altro da fare, e da pubblicare, nella febbrile attività di quegli anni, gli ultimi della mia militanza a tutto campo nell’Etruria meridionale).27 Il Ministero comunicò al Soprintendente in data 16/x/1970, prot. 12449, il parere emesso dal Consiglio Superiore, in cui le sculture in questione, sulla base di fotografie fatte avere non dalla Soprintendenza ma, presumo, dai loro possessori, venivano per la prima volta qualificate tout court come «etrusche» e si attribuiva ad esse un valore di mercato per l’epoca di tutto rispetto, specialmente se si considera il loro tutt’altro che eccellente stato di conservazione.28 «Il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti ha esaminato la proposta di acquisto di 4 figure di leoni ed una stele a palmetta etruschi [corsivo mio], avanzata dai Signori Enrico Longobardi e Alessandro d’Amora, domiciliati in via Ponte S. Marco 32 Frazione Madonna delle Grazie Gragnano (Napoli). Detto Consesso ha espresso parere favorevole all’acquisto del predetto materiale archeologico per la somma complessiva di L. 20.000.000 (ventimilioni). La S.V. è pregata di comunicare quanto sopra agli interessati, che, qualora gli stessi ritengano soddisfacente tale valutazione, dovranno far pervenire all’Ufficio scrivente l’offerta in vendita delle opere per la cifra predetta che dovrà essere allegata alla relazione che sarà inoltrata per il prescritto parere al Consiglio di Stato».

Il parere del Consiglio Superiore, che il Ministero aveva fatto proprio, fu comunicato dalla Soprintendenza agli interessati, assieme alla lista degli adempimenti da compiere, il 28/x/1970, con lettera prot. 4699. L’acquisto, che nel frattempo aveva ottenuto l’assenso del Consiglio di Stato, si concluse un anno dopo, quando la Soprintendenza trasmise al Ministero, in data 15/xi/1971, prot. 1916, la seguente documentazione: 1. Contratto di compravendita [in data 21/vii/1971], debitamente registrato [in data 4/viii/1971]; 2. Dichiarazione inventariale di assunzione in carico dei pezzi [nn. 71845-71849 dell’Inventario generale del Museo Nazionale di Villa Giulia]; 3. Nulla-osta di questa Soprintendenza al pagamento della somma convenuta in L. 20.000.000 (diconsi ventimilioni); 4. Dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, rilasciate dal Comune di Gragnano [in data 28/vi/1971), dalle quali risulta che i proprietari degli oggetti in questione non esercitano attività commerciale; 5. Generalità complete dei predetti. 27 Militanza cessata, invero solo in parte (alludo alla prosecuzione degli scavi di Pyrgi e di Norchia), col passaggio, come vincitore di concorso, alla cattedra di Etruscologia e Archeologia Italica allora istituita dall’Università di Bologna. 28 Trovo nei miei taccuini che nel marzo 1969 avevo stimato per conto del Soprintendente in L. 7.900.000 il valore complessivo degli otto sarcofagi figurati di iv e iii sec. a.C., ben conservati e alcuni con iscrizione, scoperti due anni prima a Tuscania nella tomba I dei Curuna, tra i quali era la pregevolissima cassa con Amazzonomachia scolpita sulle quattro facce (A. M. Sgubini Moretti, Tuscania. Il museo archeologico, Roma, 1991, pp. 44-49, 66 sg.). Apprendo dalla cortesia dell’ing. Antonio Di Paolo che in base agli indici istat dei prezzi al consumo venti milioni di lire del 1970 corrisponderebbero oggi a L. 329.738.393,25.

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La dichiarazione resa dai venditori, di cui al punto 4, era la stessa per entrambi: «dichiaro di non essere mai stato, né lo sono oggi, commerciante di articoli di antichità. Preciso che ho esercitato sempre il mestiere di bracciante agricolo». Risultava altresì che entrambi erano nativi di Gragnano e vi risiedevano,29 e che uno era in possesso di una patente di guida, l’altro di un porto d’armi. 4. Concluso l’acquisto intorno alle sculture è calato il silenzio. Silenzio mio, che nella convinzione di una loro provenienza campana non ne ho fatto parola nella corposa rassegna dedicata all’Italia centrale, con la quale ho dato inizio nel 1973 alla rubrica “Scavi e scoperte” degli Studi Etruschi,30 né in seguito le ho più menzionate, certo che se ne sarebbe occupata da par suo la Zancani, finché ho finito, per mia colpa, col dimenticarle. Silenzio del Soprintendente Moretti, scontento di un acquisto quasi impostogli dal Ministero31 e probabilmente insospettito, da quel funzionario navigato che era, dal contrasto tra l’accurato restauro subito dai leoni e la qualifica di “bracciante agricolo” che i due venditori, peraltro dotati di patente e porto d’armi, si attribuivano. Tanto da far pensare non ai soliti scavatori clandestini ma piuttosto a malavitosi che, avvalendosi di qualche ‘sponda’ nella burocrazia ministeriale, si erano rivolti allo Stato non essendo riusciti a collocare le sculture sul mercato antiquario, a causa dello scadente stato di conservazione e del prezzo assai elevato che ne pretendevano. Sicché ne aveva taciuto sia nella ristampa, edita nel 1975, della guida del Museo da lui scritta che nel catalogo della mostra “Nuove scoperte e acquisizioni nell’Etruria meridionale”, aperta a Villa Giulia nello stesso anno, in cui ampio spazio era invece riservato all’acquisto della collezione Cima-Pesciotti.32 E silenzio tanto inatteso quanto eloquente da parte di donna Paola,33 che era stata il tramite dell’operazione e che sembrava averla per così dire affatto rimossa, una volta acquisita la consapevolezza di essere rimasta invischiata in una vicenda di malaffare.34 Senza escludere, per giunta, la delusione di aver constatato che i leoni, osservati da vicino, apparivano, contro le sue aspettative, più etruschi, o comunque indigeni, che greci.35 29 L’uno in via Ponte Carmiano, l’altro in via Madonna delle Grazie 32. 30 In cui davo notizia anche di recentissime acquisizioni del Museo di Villa Giulia, quali le collezioni CimaPesciotti e Berman («StEtr», xli, 1973, p. 542, n. 43). A proposito di quest’ultima informo, a complemento di quanto si legge in A. M. Moretti Sgubini (ed.), Scavo nello scavo. Gli Etruschi non visti, cat. della mostra, Viterbo, 2004, p. 205, che la sua donazione allo Stato fu l’esito di contatti avuti da me con Eugene Berman tra il 1969 e il 1971 per il tramite di Giovanni Carandente, amico dell’artista e anch’egli funzionario delle Antichità e Belle Arti: contatti cui fece seguito per mia iniziativa una campagna fotografica effettuata dalla saem. Aggiungo che per gran parte della sua componente archeologica la donazione era intesa onestamente dal Berman come la ‘restituzione’ di beni abusivamente scavati nell’Etruria meridionale e per questo sottratti, come amava ripetermi con disarmante schiettezza, al Museo di Villa Giulia. 31 In famiglia, ricorda Anna M. Moretti, il padre ne attribuiva la responsabilità a Pallottino, da cui talvolta dissentiva, pur essendogli fraternamente amico. 32 M. Moretti, Il Museo Nazionale di Villa Giulia2, Roma, 1975; Nuove scoperte e acquisizioni nell’Etruria meridionale, Roma, 1975. 33 Interrotto solo, negli ultimi anni di vita, da una confidenza fatta a Mario Russo (vedi nota 77). 34 Analoga sotto vari aspetti a quella della pregevole copia romana del Doriforo, rinvenuta a Stabia nel 1976, fatta restaurare a Roma da mani esperte e quindi esportata clandestinamente prima a Monaco di Baviera e quindi a Minneapolis negli USA (U. Pappalardo, in Stabiae: storia e architettura [Atti del convegno internaz., Castellammare di Stabia, 25-27 marzo 2000], Roma, 2002, pp. 167-169). Il sospetto di un coinvolgimento della camorra, notoriamente tornata nel dopoguerra a essere potente in tutto il Napoletano (I. Sales, in Enciclopedia Italiana, App. v, 1, 1991, p. 468 sg.), è inevitabile. 35 Sulla scarsa simpatia della Studiosa verso tutto ciò che era etrusco o italico si legga quel che narra Mario Russo in M. Russo (ed.), Paola Zancani Montuoro (1901-1987), Sorrento, 2007, p. 40 sg.

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4.1. Perdurando questi silenzi i leoni e la stele sono rimasti a lungo del tutto ignorati, nonostante l’avvenuta musealizzazione al più alto livello che si poteva per essi auspicare – il Museo romano di Villa Giulia – e in un luogo, uno dei portici della ricostruzione al vero di un tempio etrusco-italico edificata nel giardino della Villa, liberamente accessibile non solo agli studiosi, ma a qualsiasi visitatore, dove erano e sono ospitate, in assenza di spazi più idonei, pregevoli opere di scultura, assieme a non trascurabili testimonianze epigrafiche etrusche.36 La quarantena è durata fino a che non ha preso corpo la convinzione che i leoni, giudicati etruschi fin dal 1970 nel parere del Consiglio Superiore sopra riportato, provenissero da Vulci, alla pari delle tante sculture di scavo clandestino, per lo più animalistiche, sequestrate o, ma solo nel caso di quelle più appetibili dai collezionisti, andate disperse sul mercato antiquario negli anni ’50 e ’60: anni in cui toccò il suo apice, anche in conseguenza della riforma agraria attuata dall’Ente Maremma, la piaga endemica del saccheggio dell’immensa necropoli di quella città.37 Nel luglio del 1989 i leoni furono per la prima volta fotografati uno per uno,38 dopo di che due di essi – i leoni a e b – trovarono posto, per lodevole iniziativa di A.M. Moretti, nella mostra organizzata dalla SAEM dal titolo Les Étrusques à Vulci, aperta nel novembre dello stesso anno a Clermont-Ferrand e inviata nei due anni successivi, con molti incrementi, in varie città del Giappone. Nella scheda inserita nei cataloghi delle due mostre – assai breve nel primo, un poco più ampia nel secondo –, si è creduto di ravvisare nei leoni «un tipo iconografico accostabile a schemi diffusi nella scultura funeraria vulcente del primo arcaismo», con conseguente datazione alla prima metà del vi secolo a.C.39 Almeno due dei leoni erano così usciti di fatto dalla quarantena, ma bisogna dire che ben pochi se ne accorsero. Occorre infatti attendere il 2005 per incontrare nella letteratura specialistica il primo, cursorio accenno all’esistenza di «una coppia di felini del Museo di Villa Giulia», accostati per la testa dalla «tettonica squadrata» a quella, mancante del corpo, pervenuta di recente al Museo di Gerusalemme, peraltro sotto ogni altro aspetto affatto diversa, attribuita al 36 Vedi supra, nota 24. Nel portico posteriore che accolse i leoni si trovavano fin dagli anni ’60 i sarcofagi iscritti di Tuscania cie 5767 e 5771, i due leoni in tufo di Falerii Novi (A. Emiliozzi, «ArchCl», xliii, 1991, p. 952, B: a-b) e il sarcofago più antico della tomba Lattanzi di Norchia (E. Colonna Di Paolo, G. Colonna, Norchia, i, Firenze, 1978, p. 374, A 2, tav. 418: 1), in seguito trasferito altrove. Negli anni ’80 si aggiunsero ad essi le sei urne perugine e le due “madri” capuane, già esposte nel Portico della Villa e prima ancora nel c.d. Antiquarium della Scultura, un raro sarcofago in marmo di età augustea o giulio-claudia nonché, da ultimo, lo splendido sarcofago etrusco da Vulci con Amazzonomachia sulle quattro facce, già esposto nella sala v del Museo (R. Bartoccini, in Gli archeologi italiani in onore di A. Maiuri, Cava dei Tirreni, 1965, pp. 81-97; W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom., 4º ed., iii, Tübingen, 1969, pp. 470-473, 507 sg.; M. A. Rizzo, «StEtr», li, 1983, ma 1985, p. 524, tav. lxxxviii, c). 37 Basti ricordare che ai 35 pezzi da Vulci o attribuiti a Vulci, catalogati da A. Hus nel 1961, lo studioso ne aggiungeva nel 1975 altri 29, quasi tutti apparsi sul mercato antiquario dopo il 1960 e in maggioranza (18 casi) finiti all’estero (Hus 1977). Ad essi vanno aggiunte almeno le due teste di leone e la testa di sfinge della coll. Berman, ancora inedite (menzionate in «StEtr», li, 1983, p. 393), acquisite dal collezionista tra il 1956 e il 1969, quando ebbi occasione di vederle (cfr. nota 30). 38 Foto SAEM, negg. 136052-136056 del 25/vii/1989, qui riprodotte, nell’ordine, alle figg. 12, 1, 10, 6, 5, da stampe abilmente realizzate da Sergio Piccolo. In precedenza i leoni comparivano in foto d’insieme eseguite negli anni ’70 (neg. 59333, 59334, 59338, 59340), nel 1981 (neg. 68406, 68429, 68534-68536, 68538) e nel 1988 (neg. 129722). La stele compariva nelle foto d’insieme del 1981 (neg. 68429, qui riprodotta a fig. 13 da un ottimo ingrandimento del Piccolo, e 68535). 39 Les Étrusques à Vulci. Le Peintre de Micali et son monde, Clermont-Ferrand, 1989, p. 61, nn. 51-52, fig. 53 (= fig. 1); La civiltà degli Etruschi. Scavi e studi recenti, a cura di F. Boitani, ed. giapponese, 1990, p. 147, nn. 195 a-b, con foto a colori espressamente eseguite; ed. italiana, Roma, 1993, p. 58, n. 195 a-b, senza foto. Cfr. anche il cenno della stessa Moretti in Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, ii, Pisa-Roma, 2009, p. 629.

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Gruppo Amburgo e datata di conseguenza verso il 550-540 a.C.40 Nel frattempo tutti e quattro i leoni di Villa Giulia erano stati presi in esame in una tesi di dottorato sulla scultura etrusca di età orientalizzante e arcaica, esauriente e ben documentata, in cui si è data per certa la loro provenienza da Vulci, li si è considerati “un’anticipazione” del Gruppo Amburgo e se n’è confermata la datazione «entro la prima metà del vi secolo a.C.».41 5. In realtà a rendere improponibile la provenienza vulcente dei nostri leoni potevano bastare, a prescindere da quanto asserito privatamente da Paola Zancani: 1. le generalità dei venditori, entrambi nati, residenti e attivi come “braccianti agricoli” in un comune della penisola sorrentina; 2. la stele venduta assieme con essi e con essi inventariata nel Museo di Villa Giulia, che è di un tipo affatto sconosciuto a Vulci e in tutta l’Etruria; 3. la qualità della pietra vulcanica, ed è questo l’argomento decisivo, in cui leoni e stele sono stati scolpiti. La pietra in questione non è infatti il nenfro grigio, normalmente utilizzato dagli scultori vulcenti, e nemmeno il peperino o il tufo rosso, utilizzati in altri centri artistici dell’Etruria meridionale, ma, come si è detto (§ 1.), un tufo sì grigio ma punteggiato di minuti inclusi vetrosi neri, identico a quello della lastra tombale da Sorrento recante l’iscrizione osca letta giustamente da M. Russo Vipineis42 e simile in larga misura a quello delle “madri” di Capua, come mostra il confronto coi due esemplari esposti accanto ai leoni nel Museo di Villa Giulia.43 Tufo classificabile come “tufo grigio campano”, chiamato dai geologi Ignimbrite Campana, prodotto dal vulcanismo dell’area flegrea che, in un’età anteriore all’attività del Somma-Vesuvio, ha ricoperto con una spessa coltre gran parte della regione, compresa la piana del Sarno e il versante settentrionale della penisola sorrentina, dove ha dato origine all’alto terrazzo tufaceo sul quale sorgono gli abitati di Sorrento e di Vico Equense.44 5.1. Messa da parte la provenienza da Vulci si potrebbe in teoria ipotizzare che i leoni siano opera di scultori vulcenti attivi nella penisola sorrentina, dove non mancano nel vi-v secolo testimonianze di relazioni col mondo etrusco,45 anche se, quando è possibile accertarne l’origine, concernenti per lo più l’Etruria campana.46 Ma si oppone all’ipotesi di opere riferibili alla scuola vulcente una non piccola serie di motivi iconografici presenti nei leoni sorrentini e assenti in quelli vulcenti di età arcaica (così come in generale nei leoni etruschi in pietra), o al contrario presenti nei secondi e as40 M. Martelli, in B. Adembri (ed.), Aeimnestos. Miscellanea di studi per Mauro Cristofani, Firenze, 2005, p. 396, con la nota 6. 41 Van Kampen 2003, pp. 23-27 e 364, nn. 8-11, tav. i. La datazione è stata motivata con l’accostamento, a mio avviso non convincente, a un gruppo di pantere «databile entro il primo quarto del vi o all’inizio del secondo quarto del vi secolo a.C.», riunito intorno a un esemplare a doppia coda del museo di Boston (sul quale Hus 1977, p. 42 sg., n. 17, tav. xiv c, con bibl.). 42 Si veda la buona foto riprodotta in Russo 1998, p. 77, n. 16; Russo 2005, p. 95, n. 4 e anche in questo volume a p. 84 (articolo Poccetti). 43 Supra, nota 36. 44 A. Cinque, in F. Senatore (ed.), Pompei, il Sarno e la Penisola Sorrentina, Castellammare di Stabia, 1998, p. 12 sg.; Id., in F. Senatore (ed.), Pompei, il Vesuvio e la Penisola Sorrentina, Roma, 1999, p. 129; Russo 1998, pp. 24, 39; Aa.Vv., in P-G. Guzzo, R. Peroni (edd.), Archeologia e vulcanologia in Campania, Napoli, 1998, p. 20 sg. 45 A cominciare dalle iscrizioni etrusche, rinvenute peraltro solo a Stabia (cie 8776-8781) e a Vico Equense (8782, 8794, 8802 sg., 8806). 46 Come nel caso dell’alfabetario di Vico Equense (cie 8782), a giudicare sia dal theta crociato, all’epoca non più in uso nell’Etruria propria e invece conservato tenacemente in Campania, sia dall’inversione di e e v e dall’assenza di h, peculiarità che, eccezionali nei ben più numerosi alfabetari dell’Etruria propria, ricorrono entrambe, benché separatamente, nei quattro di Nola (M. Pandolfini, A.L. Prosdocimi, Alfabetari e insegnamento della scrittura in Etruria e nell’Italia antica, Firenze, 1990, pp. 66-72, nn. 19-22). Tipicamente etrusco-campano è anche il tsade a farfalla di una sigla da Piano di Sorrento (Russo 2005, p. 117, n. 6).

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senti nei primi. Li elenco rapidamente: 1. la già ricordata (§ 1. 1.) postura sdraiata col torso un poco sollevato dal plinto: motivo questo che, frequente nell’arte micenea e tardo-ittita,47 ritorna in auge nell’orientalizzante sia in Grecia che in Etruria,48 mentre in età arcaica appare riservato nella scultura alle pantere e alle sfingi,49 restando praticato per il leone solo nell’ambito ionico-orientale e greco-anatolico;50 2. l’assenza della criniera dorsale, anche nella versione ridotta, normale in Etruria dopo l’orientalizzante, consistente in una sottile cresta che scende dalla nuca senza oltrepassare il garrese;51 3. l’assenza del “collare” rilevato intorno al muso, più o meno esteso e variamente conformato, di norma presente nei leoni etruschi di età arcaica;52 4. la criniera che, nella postura sdraiata cui si attengono i leoni sorrentini, scende sul petto fino a metà altezza, senza arrivare a contatto delle zampe e tanto meno del plinto, come avviene di norma a Vulci;53 5. la coda adagiata nel tratto finale sull’asse del dorso, nella posizione di massima evidenza, invece che avvolta intorno a una coscia o immediatamente a essa contigua;54 6. le orecchie con padiglione verticale – peraltro non ben leggibile a causa dell’erosione subita dalle teste degli animali – invece che rivolto obliquamente all’indietro;55 7. la posizione delle orecchie, addossate al margine anteriore della criniera invece che posposte, così da restare in connessione con le tempie dell’animale;56 8. le labbra allargate ai lati della bocca in una banda movimentata da solchi trasversali. A parte il n. 6, che sembra essere un’innovazione locale, i motivi elencati, assenti a Vulci e nel resto dell’Etruria, ricorrono tutti, anche se mai tutti insieme, nei leoni in pietra di seconda metà del vi secolo di ambiente ionico-orientale, soprattutto microasiatico, da Pergamo, Smirne e Sardi a Efeso, Samo e Mileto,57 ambiente peraltro già ri47 Esempi rispettivamente in Hampe - Simon 1981, figg. 35 sg., 278, e in Gabelmann 1965, pp. 20, nota 105, e 92. 48 Esempi: Hampe - Simon 1981, figg. 411, 455; F. Poulsen, Der Orient und frühgriechische Kunst, Kopenhagen 1912, figg. 174, 197 (pithoi cretesi); Brown 1960, tavv. xi a, b; xii, c-d (bronzi etruschi); G. Colonna, «StEtr», lii, 1984, p. 50, n. 9, fig. 16 (sarcofago fittile etrusco dal Procoio di Ceri). 49 Esempi: Boardman 1978, p. 178 sg., fig. 187.6, 189 (pantere dei frontoni di Corinto e dell’Acropoli); Van Kampen 2003, p. 102 sg., tav. 15, nn. 96-100; tav. 33, n. 179 (statue vulcenti di pantere e di sfingi); Moretti Sgubini, art. cit. a nota 39, p. 627 sg., fig. 14 sg. (statue vulcenti di sfingi). Diverso è il caso nella bronzistica, nella coroplastica e nelle arti minori in generale: per es. Gabelmann 1965, p. 117, n. 69: e, tav. 13: 1 (leoncino bronzeo laconico); Brown 1960, p. 86, tav. xxxi b (lamina bronzea con leone); U. Höckmann, Die Bronzen aus dem Fürstengrab von Castel San Mariano bei Perugia, München, 1982, p. 48 sgg., nn. 13 e 15, tav. 18 sg. (lamine bronzee con leoni e sfingi); N.A. Winter, Symbols of wealth and power. Architectural terracotta decoration in Etruria and Central Italy, 640-510 B.C., Ann Arbor, 2009, p. 338 sg. (sima fittile da Veio con sfingi); A. Maggiani, «AnnMuseoFaina», xiii, 2006, p. 321, figg. 1-2 (tessera hospitalis d’avorio con leone da Roma-S. Omobono). 50 Esempi: E. Buschor, Altsamische Standbilder, iii, Berlin, 1934, p. 58, fig. 218 (Samo); Gabelmann 1965, nn. 105, 108, 101, 128, 148 sg., tavv. 20 sg., 25: 1, 27: 1, 30; Strocka 1977, p. 484 sgg., nn. 3-9, figg. 5-29, 42. 51 Hus 1961, pp. 46 e 203 sg., nn. 18-19 («arête» o «bourrelet» sulla nuca dell’animale). 52 Brown 1960, p. 92 sg.; Hus 1961, pp. 203-205, 286. 53 Con l’eccezione di un esemplare peraltro noto solo da vecchi disegni (Hus 1961, p. 52, n. xi, tavv. ix e xxxviii: 13; Van Kampen 2003, p. 22, n. 6, tav. 1). 54 Come accade di norma in Etruria, con la possibile eccezione anche in questo caso di una pantera dalla Cuccumella nota solo da vecchi disegni (Hus 1961, p. 52, n. xii, tavv. ix e xxxviii: 11; Van Kampen 2003, p. 94 sg., n. 93, tav. 15). 55 Il che ricorda gli assai più pronunciati “pointed ears” di origine ittita di molti leoni orientalizzanti etruschi (Brown 1960, tavv. viii b, ix, xi c, xii c-d, xxi, a, c). 56 Come nella tradizione ittita e protocorinzia (G. Rodenwaldt, Korkyra, ii, Berlin, 1939, p. 148; cfr. Boardman 1978, fig. 265; J. Boardman, Early greek vase painting, London, 1998, figg. 178: 3, 271). 57 Esempi: Akurgal 1961, p. 279, fig. 246 sg.; Gabelmann 1965, pp. 91-95, nn. 126, 126 a, 127, 128, tavv. 18: 34, 21: 1-2; 25: 1; 26: 1, 27: 1; Strocka 1977, nn.1-4, 8-10, figg. 1-7, 21-32, 42. Per il motivo n. 7 i confronti vanno dalle idrie ceretane e dal disco bronzeo da Samo alle statue di Efeso e dell’Acropoli (Brown 1960, tavv. xxvi a, c; xxvii b; lxiii a, c; R. Bonaudo, La culla di Hermes, Roma, 2004, fig. 20).

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italia ante romanum imperium petutamente chiamato in causa nella letteratura per lo stile dei coevi leoni etruschi.58 Il trattamento delle labbra (n. 8) richiede un discorso a sé, avendo un peso decisivo per l’ambientazione e la cronologia dei nostri leoni.

5.2. Il motivo delle labbra dilatate e ‘increspate’ ai lati della bocca non va infatti confuso con quello del tratto di gengiva solcato da fitte pieghe per lo più curvilinee e spesso pendente come un lembo floscio sopra il labbro sottostante, introdotto verso la metà del vi secolo nelle raffigurazioni arcaiche di leoni ruggenti, sia etrusche (Fig. 21) che greche,59 per accrescerne l’aspetto mostruoso. Le labbra dilatate mirano allo stesso fine ma pongono piuttosto l’accento, come avveniva nelle maschere gorgoniche, sull’ampiezza delle Fig. 21. Filadelfia (USA) fauci spalancate e sui denti canini lasciati Univ. of Pennsylvania Museum of Archaeology. bene in vista, a differenza degli altri semiLeone alato di bottega vulcente inv. 59.24.1 nascosti. Il motivo comincia ad apparire (da Macintosh Turfa 2005). già nella prima metà del vi secolo,60 ma si afferma anch’esso dopo la metà del secolo e quasi solo in ambito ionico, dapprima nella statuaria61 e quindi, dal 530 circa, nei doccioni a protome leonina di templi e altri edifici monumentali, in cui tende ovviamente a porre in risalto la bocca di uscita dell’acqua piovana.62 Doccioni che vengono ben presto imitati, trattamento delle labbra compreso, nella Magna Grecia achea, a Metaponto63 e a Poseidonia,64 per poi incontra58 Brown 1960, pp. 70-72 (a proposito del suo secondo gruppo dei leoni vulcenti); Hus 1961, pp. 197 sg., 205 sg.; M. Martelli, in Un artista etrusco e il suo mondo. Il Pittore di Micali, cat. della mostra di Roma, a cura di M.A. Rizzo, Roma, 1988, p. 23 (a proposto dei suoi gruppi Amburgo e Amsterdam). 59 Gabelmann 1965, p. 73 sg., n. 79, tav. 15 (leoncino da Praisos); Brown 1960, pp. 71 (“curved areas with radiating creases”), 92 (“hanging flaps on lower jaws”), 99, n. 7 (“semicircular flaps with radiating lines”); N. Scala, in Miscellanea etrusco-italica, i, Roma, 1993, p. 166 sg. (“mandibola striata” dei c.d. lacunari bronzei tarquiniesi); Van Kampen 2003, pp. 18, 60, 349 (“motivo decorativo a semilune” caratteristico del Gruppo Amburgo); Martelli, op. cit. alla nota 40, p. 396 sg. (“pliche semicircolari multiple” del Gruppo Amburgo). Cfr. anche la tomba dipinta tarquiniese del Topolino (M. Moretti, Nuovi monumenti della pittura etrusca, Milano, 1966, p. 75) e un frammento d’idria ceretana al Louvre (Bonaudo, op. cit. alla nota 57, cat 38). Il motivo è ancora presente verso il 500 a.C. nella protome di una grande bocca di fontana dal suburbio di Orvieto (Colonna 2005, i, p. 244, nota 84, fig. 5 sg.). 60 Gabelmann 1965, n. 50, tav. 6: 3 (leoncino bronzeo dall’Acropoli). 61 Leoni di Mileto (Gabelmann 1965, n. 127, tav. 26), Smirne (Akurgal 1961, p. 279, fig. 246 sg.; Gabelmann 1965, n. 126, tav. 25: 1), Sardi (Akurgal 1961, p. 279, fig. 245; Gabelmann 1965, n. 109); Atene (H. Payne, G.M. Young, Archaic marble sculpture from Acropolis, London, 1936, p. 50 sg., tav. 133: 1-2). Un accenno anche nei leoni di Loutraki (Rodenwaldt 1939, p. 146 sg., fig. 143; Gabelmann 1965, p. 83). Per la cronologia cfr. MertensHorn 1988, p. 38, nota 141. 62 Mertens-Horn 1988, p. 47 sgg., n. 15, tav. 8 a (Tesoro dei Sifni a Delfi); n. 16, tav. 8 b, d (Tesoro dei Massalioti a Delfi); p. 52, n. 22, tav. 9 d (Smirne). 63 Mertens-Horn 1988, pp. 139-142, 145-147, nn. 52, 55, 65, 68, tavv. 66 sg., 72 sg. 64 Mertens-Horn 1988, p. 117, n. 34 a, tav. 48 (t. di Athena); p. 128 sg., n. 43, tav. 55: b-c (sporadico); pp. 132134, nn. 48, tav. 56: c-d (predecessore del t. di Nettuno).

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re nel corso del v secolo larghissima fortuna, specialmente nella variante con le labbra dal margine esterno marcatamente ondulato, sia in Magna Grecia che, soprattutto, in Sicilia,65 con echi vistosi anche in Etruria, a cominciare dalla Chimera di Arezzo.66 L’enfatizzazione delle labbra è pertanto il motivo senza dubbio più recente tra quelli presenti nell’iconografia dei nostri leoni, ed è tale da escludere per essi una datazione anteriore al 530 a.C. D’altra parte l’impronta stilistica complessiva, nettamente ionizzante, rivelata in particolare dalla forma degli occhi e dal trattamento della criniera, esclude una datazione post-arcaica. Per giustificare tale impronta si è indotti a guardare da un lato alla sponda opposta del golfo, dove proprio intorno al 530 esuli samii fondano l’insediamento di Dicearchia, purtroppo ancora archeologicamente muto,67 dall’altro a Poseidonia e ad Elea, città quest’ultima fondata poco prima dai Focei profughi dalla Corsica. Fermo restando che i leoni per la molteplicità dei motivi iconografici loro propri sono da ritenersi creazioni originali, opera di scultori provinciali che potremmo chiamare ionico-campani, l’ipotesi di insegnamenti venuti soprattutto da Poseidonia, via Fratte di Salerno68 e forse Nocera, appare privilegiata da più di un dato di fatto. Al primo posto ovviamente è l’evidenza offerta dalla fase tardo-arcaica del tempio dorico di Pompei, con la sua sima laterale in terracotta dotata di doccioni a protome leonina di tipo poseidoniate,69 ai quali si affianca il ritrovamento nell’Athenaion di Punta della Campanella di tre frammenti di protomi leonine per le quali si è ugualmente proposto, seppure in via del tutto ipotetica, il confronto coi doccioni della c.d. Basilica di Poseidonia.70 Vi è poi il ritrovamento negli anni ’30 a Vico Equense, nell’area della necropoli di via Nicotera, di due capitelli di tufo locale, di modulo diverso ma entrambi di stile dorico di tipo acheo,71 pertinenti a colonne aventi probabilmente una funzione votiva72 o meglio, dato il contesto, di segnacolo funerario, anche se le dimensioni piuttosto notevoli (diametro al sommoscapo di m 0,39 e 0,46) hanno indotto a non escludere del tutto una destinazione architettonica.73 Le colonne in questione presuppongono 65 A cominciare dal santuario di S. Biagio presso Metaponto (Mertens 2006, p. 252, fig. 456: per la cronologia Mertens-Horn 1988, p. 148 sgg.) e dal lato N del tempio di Himera (Mertens-Horn 1988, p. 95 sgg., cat. 23 B, tavv. 32-35; Mertens 2006, p. 268, fig. 479 a). 66 M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, pp. 228-231, 295-297, n. 121. Cfr. anche un leone in pietra da Blera (L. Ricciardi, «StEtr», li, 1985, p. 390 sg., tav. xlix c-d-e). 67 M. Frederiksen, Campania, ed. N. Purcell, Hertford, 1984, p. 87 sg.; Raviola 1995, pp. 140-150. 68 Dalla necropoli di Fratte provengono ben cinque iscrizioni in alfabeto acheo, di cui tre in lingua greca, coi nomi rispettivamente di un poseidoniate Dymeias (L.H. Jeffery, The local scripts of archaic Greece, Oxford, 1961, pp. 252 sg., 260, n. 6; Colonna 2005, iii, p. 1620, fig. 2), di un etrusco Velcha e di un italico Visuvs, e due in lingua osca, l’una col nome di un italico Trebis e l’altra con l’appellativo pok(lom), di cui questa è l’unica attestazione in osco (G. Colonna, in La presenza etrusca nella Campania meridionale [Atti delle giornate di studio di Salerno-Pontecagnano, 16-18 novembre 1990], Firenze, 1994, p. 359, nota 78, con bibl.). 69 B. d’Agostino, in J. A. K. E. de Waele (ed.), Il tempio dorico del Foro triangolare di Pompei, Roma, 2001, pp. 142-146, 176, 335 sg., figg. 212-214. 70 Russo 1990, p. 234, n. 340, tav. xxxvii; Rescigno 1998, p. 304 sg., nota 3 e Id. in questo volume. 71 S. Ferraro, La necropoli preromana di Vico Equense e l’Antiquario Equano, estr. da Decennale primo, Vico Equense 1970, p. 5 sg.; Id., Osci Etruschi e Greci nella penisola sorrentina2, Napoli, 1977, p. 21; Mertens, Der alte Heratempel in Paestum und die archaische Baukunst in Unteritalien, Mainz a. Rh., 1993, p. 173 sg., fig. 82, tav. 92: 36; Russo 1998, p. 40, nota 106; Mertens 2006, p. 255, fig. 460; M. Bonghi Jovino, Mitici approdi e paesaggi culturali. La Penisola Sorrentina prima di Roma, Castellammare di Stabia, 2008, p. 94 sg., fig. 124. 72 Al pari della colonna murata in una casa di Pompei, dorica ma di tipo tuscanico e anch’essa di tufo grigio campano (M. Bonghi Jovino, Ricerche a Pompei, i, Roma, 1984, pp. 364-369, tavv. 3, 5: 3-4). Votiva era nella stessa Pompei anche la colonna, forse dal Foro Triangolare, di cui resta parte del grande capitello fittile dorico di tipo acheo (L. A. Scatozza Höricht, in Omni pede stare. Saggi in memoriam di Jos de Waele, Salerno, 2005, p. 195 sg.). 73 Mertens op. cit. a nota 71, p. 173, nota 849 («ihre Grösse wäre für Grabsäulen beachtlich»); T. Budetta (ed.), Museo archeologico territoriale della Penisola Sorrentina “Georges Vallet“, Salerno, 1999, p. 21 (ipotesi di un edificio templare «di cui rappresenterebbero, con pochi altri indizi, l’unica testimonianza»).

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Fig. 22. Ufficio Scavi di Nocera Inferiore (?). Bocca di fontana da Nuceria (da Mertens-Horn 1988).

comunque l’attività verso il 500 a.C. di abili maestranze di scalpellini, in grado di produrre opere di notevole impegno, anche se non di elevata qualità, alle quali nulla vieta che si possano attribuire anche i nostri leoni. Va inoltre tenuto conto, più di quanto non lo si sia fatto finora, della splendida protome leonina, scolpita verso il 460-450 nel marmo delle Cicladi, rinvenuta a Nocera in un’officina marmoraria di età imperiale, cui era pervenuta dopo essere stata adattata a bocca di una fontana monumentale (Fig. 22).74 Anche a voler ritenere originaria questa 74 Mertens-Horn 1988, p. 125 sg., n. 38, tav. 54, con bibl.

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funzione, invece che conseguente al riutilizzo di quello che era stato in origine un doccione di sima,75 è evidente che chi ha scolpito la protome ha preso a modello i doccioni dei templi magno-greci e sicelioti, guardando in direzione di Poseidonia e, di là dal mare, di Himera. Aggiungo che la protome offre uno dei migliori confronti disponibili per i nostri leoni per quanto riguarda la stilizzazione delle labbra, inducendo a postulare per essi una datazione relativamente bassa, intorno al 500 a.C. se non agli inizi del v secolo a.C. 6. Una volta accertato che i leoni e la stele acquistata insieme con essi provengono dalla penisola sorrentina e sono opera di scultori locali, rimane da individuare, per quanto è possibile, la località in cui sono stati rinvenuti. La circostanza che i venditori erano di Gragnano e risiedevano nella frazione di S. Maria delle Grazie, nel cuore della maggiore necropoli dell’antica Stabia, oggetto di estesi scavi, per lo più clandestini, cui ha dato occasione la disordinata espansione edilizia degli anni ’50, ’60 e ’70 del secolo scorso,76 può a prima vista ingenerare il sospetto che le sculture provengano da quella necropoli. Ma sta di fatto che Paola Zancani parlò nel 1969 di una scoperta avvenuta a Sorrento e che la Stessa, conversando con Mario Russo intorno al 1985, menzionò il ritrovamento a Sant’Agnello, «dall’area delle case popolari, tra via Tordara e Maiano», di «tre sculture funerarie in tufo», e precisamente «di due leoni, da Lei visti, ma poi immessi nel mercato antiquario e di una statua (?) finita in una villa di Positano».77 Non credo si possa mettere in dubbio che i leoni fatti vedere alla Zancani siano stati i due meglio conservati dei quattro acquistati poco dopo, per suo tramite, dal Museo di Villa Giulia (mentre la «statua (?)», da Lei non vista, potrebbe essere stata il fusto della stele, di cui sapremmo in tal caso che era scolpito, forse a tutto tondo, con una figura antropomorfa). Del resto, se i venditori erano coinvolti nel commercio clandestino di antichità, come pare indubbio, è ragionevole supporre che il loro raggio d’azione non sia rimasto limitato a Stabia ma si sia esteso anche agli altri siti archeologici della penisola sorrentina, e forse non solo di essa. Pertanto si può ritenere sicuro che il monumento cui le sculture appartenevano si trovava nel comune di Sant’Agnello, nella necropoli di metà vi-primi decenni del iii secolo ubicata a monte delle piazze Sant’Agnello e Municipio, nella località San Martino, necropoli in cui Mario Russo riconosce un possibile “prolungamento verso est di quella più antica di Sottomonte”, compresa nel comune di Sorrento.78 6.1. La necropoli di San Martino sembra essersi attestata lungo il tratto superiore del vallone Croce,79 a circa km 2-2,500 in linea d’aria dalle mura urbane di fine iv-inizi iii 75 Come è stato sostenuto dallo scopritore, il compianto Werner Johannowsky (da ultimo in Crotone [Atti del xxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1983], Napoli, 1986, p. 305 sg.), con riferimento al tetto del tempio di Hera Lacinia, le cui tegole sappiamo essere state parzialmente asportate in età tardo-repubblicana (ma il senato romano ne aveva subito imposto la restituzione). L’ipotesi, ignorata da D. Mertens (op. cit., pp. 294-300) e da Mertens-Horn 1988 (loc. cit. a nota 74), è respinta da E. La Rocca, in R. Spadea (ed.), Il Tesoro di Hera, cat. della mostra, Roma, 1996, p. 97, nota 21. 76 C. Albore Livadie, in In Stabiano. Cultura e archeologia da Stabiae: la città e il territorio tra l’età arcaica e l’età romana, cat. della mostra, Castellammare di Stabia, 2001, p. 17 sg.; Ead., in G. Bonifacio, A. M. Sodo (edd.), Stabiae: storia e architettura (250º anniversario degli scavi di Stabiae, 1749-1999), Roma, 2002, pp. 119-132 (a p. 120: «la necropoli stabiana si può configurare come l’archetipo del malcostume legato all’abusivismo campano degli anni ’50-’70»). 77 Russo 1998, p. 49 sg., nota 168. Russo scrive di aver appreso la notizia «dalla viva voce di Paola Zancani». 78 M. Russo, in Albore Livadie 1990, p. 112; Russo 1998, p. 50. Cfr. Budetta (ed.), cit. a nota 73, p. 40 sg., nonché la carta corredante la voce Piano di Sorrento in BTCGI xiii, 1994 (C. Albore Livadie). 79 Russo 1998, pp. 26 e 50, figg. 3: 3, 5, 6.

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secolo (Fig. 23),80 a ridosso di quello che inclinerei a considerare il limite orientale del più antico ager di Sorrento. Il monumento dei leoni in tal caso avrebbe marcato, in corrispondenza di una delle vie provenienti dalla città,81 il confine di quello che potremmo chiamare, sul modello della Roma protourbana, l’ager antiquus, sacralmente delimitato, di Sorrento.82 La datazione dei leoni intorno al 500 a.C. costituirebbe allora un terminus ante quem per la ‘fondazione’ della città, inducendo a coglierne un segnale nell’impianto, al servizio di un minore insediamento sorto a guardia del confine,83 della necropoli di S. Martino, le cui prime tombe risalgono, come già detto, alla metà circa del vi sec. a.C.84 Nella grande incertezza sulla data della nascita di Surrentum, intesa in senso non urbanistico ma politico e istituzionale, sarebbe questo, se confermato da altre scoperte, un risultato non da poco. 7. Ma c’è di più. Il monumento dei leoni riveste un carattere di assoluta eccezionalità nella Campania preromana, dato che questa regione non ha conosciuto strutture funerarie corredate da un apparato esterno di statue paragonabile, neppure alla lontana, con quelli del tumulo della Cuccumella di Vulci, del Fondo Sterbini di Castro e della stessa tomba a forma di casa di Tuscania in località Pian di Mola, tanto per citare esempi di differente complessità, tutti peraltro della prima metà del vi secolo.85 Né è possibile reperire confronti tra le statue in pietra o in terracotta di vi e v secolo, di ambito votivo o cultuale, rinvenute nei santuari della Campania, tutte di un livello culturale assai più modesto di quello colto e marcatamente ellenizzante, anche se provinciale, esibito dai nostri leoni.86 80 Riproduco uno stralcio della carta a 1.500000 della Penisola Sorrentina, edita nel 1983 dal tci (il numero 2 segnala, a titolo puramente indicativo e largamente ipotetico, il sito del rinvenimento). 81 Non la via di gran lunga preminente nelle successive fasi storiche, diretta verso Vico Equense e Stabia, ma quella ipotizzabile in direzione del golfo di Salerno, in parte ricalcata dalla moderna rotabile Meta - Positano, che scende fin quasi al livello del mare seguendo il vallone dello Scaricatore (toponimo evocante una forma embrionale di scalo per le merci, credo utilizzato in passato per le comunicazioni marittime sotto costa con Amalfi e Salerno [cfr. M. Starke, Travels in Europe and in the Island of Sicily: With an Account of the Remains of Ancient Italy, Paris, 18369, p. 383], e in antico forse per quelle con Fratte e Pontecagnano, evitando le temute bocche di Capri). Il vallone trae origine dalla sella che dal mare appariva a L. Holstenio come la quota più bassa nel profilo della costiera amalfitana (vedi il disegno del 1637 riprodotto in Russo 1990, tav. lv, a sin. nella striscia mediana). Aggiungo che approssimativamente da questo vallone, fungente nell’alto Medioevo da confine tra il ducato di Sorrento e quello di Amalfi (vedi la cartina di D. Camardo, in Pompei, il Sarno e la Penisola Sorrentina, 1998, p. 103, fig. 8), sarà iniziato l’ager Picentinus, dato che la sua fronte a mare, estesa dall’agro di Sorrento alla foce del Sele, non era lunga più di trenta miglia (Plin., n.h., iii, 70). 82 Cfr. Colonna 2005, i, 2, pp. 693-698. 83 Ubicato nel rione Angri-Cappuccini, con il suo approdo alla foce del vallone nel golfo del Pecoriello e la sua probabile area sacra nel giardino del Pizzo (Russo 1998, p. 50). 84 Cfr. nota 78. Da questa necropoli proviene (Beloch 1890, p. 30; Russo 1998, p. 49 sg., nota 67) uno dei vasi più pregevoli rinvenuti nella pensola sorrentina, l’idria a figure rosse già Pourtalès, conservata a Berlino, recante sul ventre la raffigurazione, unica in tutta la ceramografia italiota, delle tre Sirene riunite in concerto (Antikenmuseum Berlin. Die ausgestellten Werke, Berlin, 1988, p. 168 sg., n. 7) (Fig. 24). Un «extremely difficult vase to place» all’interno della produzione campana, cui peraltro appartiene (A.D. Trendall, The red figured vases of Lucania, Campania and Sicily i, Oxford, 1967, p. 376, n. 121), probabilmente prodotto per un committente sorrentino dato il tema quanto mai appropriato per la patria delle Sirene, che vediamo raffigurate anche su una lekanis campana da Vico Equense (ibid., p. 242, n. 124; Mingazzini, Pfister 1946, p. 217, n. 3, tav. xliv) e, con particolare evidenza, già verso il 550-540 a.C. su un’anfora calcidese da Massalubrense (faccia A: Bonghi Jovino, op. cit. a nota 71, p. 30, fig. 28; faccia B: V. Sampaolo, in Albore Livadie 1990, p. 110, fig. 15; Russo 1998, p. 63, fig. 33 b). Sull’antichità e sulla complessità strutturale della formazione urbana di Surrentum sensate osservazioni in Cerchiai 1995, p. 126 sg., e ora la trattazione di Rescigno in questo volume. 85 Cuccumella: Hus 1961, pp. 188-193, 418-422; A.M. Sgubini Moretti, in M. Martelli (ed.), Tyrrhenói philotechnoi, Roma, 1994, pp. 29-33. Castro: da ultimo F. De Ruyt, in AntClass lii, 1983, pp. 70-85. Tuscania: A.M. Sgubini Moretti, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, i, Roma, 1989, pp. 331-335. 86 Mi riferisco in particolare alle sculture di Capua (L. Adriani, Cataloghi illustrati del Museo Campano, i, Scultura in tufo, s.l., 1939; M. Bonghi Jovino, Capua preromana. Terrecotte votive, ii, Firenze, 1971), di Fratte (A.

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Fig. 23. Stralcio della carta del TCI a 1: 500000 (Golfo di Napoli, n. 2), 1983. 1. Athenaion di Punta della Campanella; 2. Presunto luogo di rinvenimento dei leoni e della stele. Linea di punti: percorso del vallone Croce; linee a tratti: antichi tracciati stradali (in buona parte ipotetici).

Nel contesto storico e sociale della Campania tardo-arcaica un monumento come quello di cui parliamo non sembra possa riferirsi altro che a una committenza pubblica. Come nel caso di Pompei, dove si deve certamente ad essa l’erezione nella seconda metà del vi secolo, a breve distanza di tempo l’uno dall’altro, di due templi di tipologia affatto diversa ma entrambi di carattere monumentale, adorni di sontuosi rivestimenti fittili.87 E come nel caso di Sorrento, dove dobbiamo allo stesso genere di committenza, benché di scala indubbiamente assai più modesta, l’erezione nel santuario extraurbano di Punta della Campanella, sacro a Menerva, di almeno un edificio decorato da terrecotte architettoniche, di cui purtroppo non restano che miseri frustuli.88 7.1. Ora è un fatto che le fonti letterarie non conoscono nel territorio sorrentino soltanto l’Athenaion di Punta della Campanella (e il santuario ancora non localizzato delle Sirene, Fig. 24). C’è anche la tradizione, riferita da Diodoro Siculo, delle «esequie sontuose» e delle «onoranze eroiche» tributate a Liparo (figlio di un Ausone che non nasce da Circe e Odisseo ma è l’autoctono eponimo degli italici Ausoni). Costretto dalla malvagità dei Pontrandolfo, in Fratte: un insediamento etrusco-campano, cat. della mostra di Salerno, Modena, 1990, pp. 9397) e di Teano (F. Sirano, Il museo di Teanum Sidicinum, Napoli, 2007). 87 Rescigno 1998, pp. 282-299; J.A.K.E de Waele, op. cit. a nota 69, con contributi di vari autori, tra i quali si distinguono quelli di B. d’Agostino, pp. 133-196, 335 sg. 88 Cfr. nota 70, nonché P. Carafa, Culti e santuari della Campania antica, Roma, 2008, pp. 132-138.

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Fig. 24. Il concerto delle Sirene. Idria campana a figure rosse da Sorrento a Berlino, Antikenmuseum (da Furtwängler-Reichold 1931).

fratelli a lasciare l’Italia, questi avrebbe colonizzato Lipari e le altre isole dell’arcipelago, per poi ritornare da vecchio, con l’aiuto del genero Eolo, nella sua patria, dove avrebbe regnato «sui luoghi intorno a Sorrento».89 Una specificazione topografica che, accompagnata com’è dalla menzione di un culto di tipo eroico, presuppone quasi certamente l’esistenza, appunto «nei luoghi intorno a Sorrento», di un mnema, intorno al quale la memoria di quel mitico progenitore si era conservata nel tempo, o piuttosto era stata artificiosamente revitalizzata per intervento della città appena costituita, in quanto potente fattore di coagulo comunitario.90 Tutto lascia pensare che si sia di fronte a un caso analogo a quello delle tante ‘tombe’ di eroi, per lo più presi in prestito dal mito e dall’epos greci, che si additavano sulle coste, le isolette e anche la mesogèa della penisola, sempre all’esterno degli abitati, da Palinuro a Miseno, dal Gargano (Calcante) a Pelagosa (Diomede), da Lavinio (Enea) a Reate (il Pater Reatinus), da Cortona (Nanas/Odisseo e poi Còrito) a Mantova (Ocno/Bianor).91 Il racconto di Diodoro è concordemente ritenuto 89 Diod., v, 7, 5-6, da integrare con Serv. Dan., Aen. i, 52 (cfr. il mio Tyrrhenus Lipari frater, in Damarato. Studi di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, Milano, 2000, pp. 265-269). Cfr., ma per il solo passo di Diodoro, A. Pagliara, in Meligunìs Lipára viii, 2, 1995, p. 64 sg., nota 9. Inaccettabile il riferimento a Eolo, invece che a Liparo, del culto eroico tributato dai Sorrentini (così Beloch 1890, p. 482 sg., nota 2, seguito dubitativamente da G. Libertini, Le Isole Eolie nell’antichità greca e romana, Firenze, 1921, p. 70, nota 1: meraviglia che tale riferimento sia ripreso acriticamente da G. Huxley, in Riv.Fil.Istruz.Class. cxx, 1992, p. 386). 90 Come nel caso della tomba di Enea presso Lavinio e di quella di Romolo a Roma nel Comizio (cfr. M. Torelli, Lavinio e Roma, Roma, 1984, pp. 173 sgg., 189 sgg.). 91 D. Briquel, Les Pélasges en Italie. Recherches sur l’histoire de la légende, Roma, 1984, pp. 164-167, 480-483; Id., L’origine lydienne des Étrusques, Roma, 1991, p. 283 sg.; G. Colonna, Pelagosa, Diomede e le rotte dell’Adriatico, «ArchCl», l, 1998, pp. 363-378. Cfr. C.M. Antonaccio, An archaeology of ancestors tomb cult. A hero cult in early Greece, Lanham (Maryland), 1995, spec. p. 145, nota 1; F. Neri, in MG. Angeli Bertinelli, A. Donati (edd.), La comunicazione nella storia antica. Fantasie e realtà (Serta antiqua et mediaevalia xi), Roma, 2008, pp. 223-227.

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una derivazione da Timeo, che dipenderà a sua volta da Filisto, come ho proposto anni fa, rilevando che il ritorno di Liparo in Campania, vittorioso del malvagio Tirreno e degli altri fratelli che lo avevano cacciato, si configura come la proiezione mitica delle vittorie dei Liparesi e dei Siracusani sui barbari Etruschi, prima nelle acque di Lipari e subito dopo, nel 474 a.C., in quelle del golfo cumano.92 Ma la conclusione del racconto, ossia la localizzazione a Sorrento del regno e della tomba di Liparo, ha tutta l’aria di una precisazione dello storico di Tauromenio, suggeritagli dalla consapevolezza dell’assenza di un culto di Liparo nelle Eolie93 e viceversa dall’esistenza presso Sorrento del supposto mnema dell’eroe, di cui avrà avuto conoscenza a Napoli o addirittura sul posto.94 Il monumento sorrentino, di cui si è proposta la ricostruzione come un tumulo con quattro leoni all’intorno e al centro una grande stele culminante, nel suo rinnovo di metà del iv secolo (prova sicura del perdurare del culto eroico), con un trofeo di palmette (Fig. 18), ha tutte le carte in regola, a mio avviso, per essere identificato col mnema di Liparo presupposto dal racconto di Timeo/Diodoro. 7.2. Se le cose stanno così, possiamo fare, basandoci su quanto detto, due ulteriori considerazioni. La prima è che, mentre Aristodemo, divenuto tiranno della sua città, dava attuazione al disegno di una rinnovata egemonia sul golfo cumano promuovendo egli stesso, come s’inclina ora a credere, la fondazione di Neapolis,95 gli Ausoni di Sorrento ribadivano la propria autonomia dando veste ufficiale al culto di Liparo, il buon re venerato come mitico progenitore, venuto a stabilirsi dall’arcipelago eoliano nella penisola grazie all’aiuto di Eolo. Il che significava esaltare le relazioni allacciate con le città del golfo pestano e del basso Tirreno, ossia con gli Etruschi del Salernitano e coi Greci di Poseidonia e di Elea, oltre che, ovviamente, di Lipari, piuttosto che quelle con Cuma e con Capua. La seconda considerazione è che questo orientamento, politico e culturale insieme, consente forse di dare un significato pregnante all’esclusiva e reiterata presenza del leone sul monumento. Che non è affatto scontata, dato che nelle tombe arcaiche d’Etruria più affollate di statue (citate al § 7.1) i leoni sono sempre associati ad altri animali (sfingi, pantere, mostri marini e via dicendo), e in quelle di apparecchio meno impegnativo i leoni, collocati uno per lato davanti all’ingresso della camera, non sono mai più di due.96 I quattro leoni del monumento sorrentino sono pertanto un’eccezione, che autorizza il sospetto di uno specifico rapporto di quell’animale con Liparo e coi Liparesi. Di fatto il grande bothros cultuale arcaico rinvenuto sull’acropoli di Lipari, contenente l’unica dedica a Eolo finora nota, era chiuso da un coperchio litico sormontato da un leone sdraiato e accoglieva al suo interno un leoncino di bronzo anch’esso sdraiato.97 92 Art. cit. a nota 89, p. 267. 93 Giustificata a quanto pare dal fatto che gli indigeni onoravano come loro progenitore Eolo (infra, nota 97). 94 Sul probabile soggiorno di Timeo a Napoli prima dell’esilio ateniese, ossia verso la fine del iv secolo: Raviola 1995, p. 91. 95 L. Cerchiai, in F. Pesando (ed.), L’Italia antica. Culture e forme del popolamento nel i millennio a.C., Roma, 2005, p. 197. 96 Hus 1961, pp. 406 sg., 422 sg. La sola eccezione sarebbero le due coppie di leoni della tomba Campana di Veio (ibid., p. 404, fig. 4 sg.; Van Kampen 2003, pp. 316-319), ma nulla ci assicura che una di esse non provenga da una tomba vicina o addirittura da un altro sito, essendo stato acclarato che il ‘corredo’ della tomba è una falsificazione del Campana. Due erano anche i leoni alati del santuario di Giunone Curite a Falerii (Hus 1961, p. 92 sg., nn. 4 e 5) e due sarebbero stati secondo Varrone i leoni collocati sulla tomba di Romolo nel Comizio (apd. Ps. Acr. in Hor. ep. 16, 13-14). 97 U. Spigo, in L. Bernabò Brea, M. Cavalier, U.S., Lipari. Museo archeologico Eoliano, Siracusa, 1994, p. 47 sg.; L. Bernabò Brea, M. Cavalier, in Meligunìs-Lipára ix, 1, 1998, pp. 28, 41-77 (il leone del coperchio a pp. 45-47, fig. 10, tav. x sg.).

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Giustamente si è ricordato in proposito che Lipari era colonia di Cnido e che il leone, in quanto attributo dell’Apollo del Triopio – il centro religioso dell’Esapoli dorica, situato nel territorio della città –, ne era divenuto il simbolo araldico, costantemente raffigurato, ruggente, sulle sue monete,98 oltre che su quelle della rodia Lindo.99 Il dio inoltre era certamente assai venerato nella stessa Lipari, a giudicare anche solo dai costosissimi donari inviati più volte al santuario di Delfi tra v e iv secolo.100 Sono indizi tenui, ma che forse possono contribuire a farci meglio comprendere il supposto mnema di Liparo. N.B. Il saggio ha provocato l’immediato trasferimento dei leoni e delle stele nel Museo archeologico “Georges Vallet” di Piano di Sorrento. Bibliografia Akurgal 1961: E. Akurgal, Die Kunst Anatoliens von Homer bis Alexander, Berlin, 1961. Albore Livadie 1990: C. Albore Livadie (ed.), Archeologia a Piano di Sorrento, cat. mostra, Napoli, 1990. Beloch 1890: K. J. Beloch, Campanien2, Breslau, 1890, citato dalla trad. it., Napoli, 1989. Boardman 1978: J. Boardman, Greek sculpture. The archaic period, London, 1978. Brown 1960: W. Ll. Brown, The etruscan lion, Oxford, 1960. Cerchiai 1995: L. Cerchiai, I Campani, Milano, 1995. Colonna 2005: G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), i-iv, Pisa-Roma, 2005. Gabelmann 1965: H. Gabelmann, Studien zum frühgriechischen Löwenbild, Berlin, 1965. Hampe-Simon 1981: R. Hampe, E. Simon, The birth of greek art, London, 1981. Hus 1961: A. Hus, Recherches sur la statuaire en pierre étrusque archaïque, Paris, 1961. Hus 1977: A. Hus, La statuaire en pierre archaïque de Vulci (Travaux et découvertes de 1961 à 1975), in La civiltà arcaica di Vulci e la sua espansione (Atti del x convegno di studi etruschi e italici, 29 maggio2 giugno 1975), Firenze, 1977, pp. 31-47. Jacobsthal 1927: P. Jacobsthal, Ornamente griechischer Vasen, Berlin, 1927. Kurtz-Boardman 1971: D. C. Kurtz, J. Boardman, Greek burial customs, London, 1971. Mertens 2006: D. Mertens, Città e monumenti dei Greci d’Occidente, Roma, 2006. Mertens-Horn 1988: M. Mertens-Horn, Die Löwenkopf - Wasserspeier des griechischen Westens im 6. und 5. Jahrhundert v. Chr. (RM 28. Ergh.), Mainz, 1988. Mingazzini, Pfister 1946: P. Mingazzini, F. Pfister, Surrentum (Forma Italiae), Firenze, 1946. Raviola 1995: F. Raviola, Napoli. Origini, Roma, 1995. Rescigno 1998: C. Rescigno, Tetti campani. Età arcaica, Cuma, Pitecusa e gli altri contesti, Roma, 1998. Richter 1961: G. M. A. Richter, The archaic gravestones of Attica2, London, 1961. Rodenwaldt 1939: G. Rodenwaldt, Korkyra, ii, Berlin, 1939. Russo 1990: M. Russo, Punta della Campanella. Epigrafe rupestre osca e reperti vari dall’Athenaion, in mal , ser. misc. vi, 5, 1990. Russo 1998: M. Russo, Il territorio tra Stabia e Punta della Campanella nell’antichità. La via Minervia, gli insediamenti, gli approdi, in F. Senatore (ed.), Pompei, il Sarno e la Penisola Sorrentina, Pompei, 1998, pp. 23-98. Russo 2005: M. Russo, Sorrento. Una nuova iscrizione paleoitalica in alfabeto ‘nucerino’ e altre iscrizioni arcaiche dalla collezione Fluss, Capri, 2005. Strocka 1977: V. M. Strocka, Neue archaische Löwen in Anatolien, in aa 1977, pp. 481-512. 98 Ibid., p. 29, tav. xi: 1, 4. Cfr. C. M. Kray, Greek coins, London, 1966, tav. 186, nn. 629-631. 99 Ibid., tav. 188, n. 641. 100 Bernabò Brea, Cavalier, op. cit., p. 29.

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Trendall 1989: A. D. Trendall, Red figure vases of South Italy and Sicily, London, 1989. Van Kampen 2003: I. J. Van Kampen, La scultura in pietra ad altorilievo e a tutto tondo dell’Etruria meridionale nei periodi orientalizzante e arcaico, tesi di dottorato in Etruscologia (Università di Roma La Sapienza, a.a. 2001-2002). [I leoni di Sorrento (e il supposto mnema del re Liparo), in Sorrento e la Penisola Sorrentina tra Italici, Etruschi e Greci nel contesto della Campania antica, (Atti della giornata di studio in omaggio a Paola Zancani Montuoro, Sorrento, 19 maggio 2007), a cura di F. Senatore e M. Russo, Roma, 2010, pp. 317-377].

UN MONUMENTO RO M A N O DELL’INIZ IO DELLA RE PU BBL IC A the splendid, but still enigmatic, wolf of the Capitol Brown 1960, p. 140 a composite beast, zoologically and stylistically Brendel 1978, p. 252

P

rendo anch’io la parola in questo incontro perché, da studioso sia degli Etruschi che della Roma arcaica, e un poco anche, me lo concederete, di bronzi antichi,1 sono comprensibilmente imbarazzato dalla attribuzione della Lupa Capitolina a età carolingia. Anche per una questione di metodo e, mi perdoni l’amico La Regina, di comportamento, visto che l’attribuzione è stata avanzata non come una proposta, passibile come tale di discussione, ma come una certezza, addirittura una «scoperta»,2 meritevole di essere annunciata in anticipo sui giornali, come di fatto è avvenuto. Di essa non resterebbe che prendere atto e trarne le debite conseguenze, se fosse veramente tale. Ma tutto m’induce a credere che non sia così. * Gli argomenti addotti a favore della datazione medievale sono in primo luogo, anche per il peso che si è loro accordato, di ordine negativo, concernenti la tecnica di fusione e, in via subordinata, il lavoro a freddo. In sostanza si è detto: tutti i grandi bronzi antichi sono stati fusi in parti separate e poi congiunte con saldatura metallurgica,3 la Lupa è un grande bronzo ed è stata fusa in un sol pezzo, la Lupa non è antica. Il sillogismo funzionerebbe se le premesse fossero esenti da qualsiasi dubbio, il che non è. Intanto non bisogna dimenticare che il mondo antico comprende non solo la Grecia e l’Italia, ma anche l’Egitto e il Vicino Oriente. Paesi le cui ben più precoci civiltà hanno intrattenuto a più riprese intensi rapporti con l’Occidente e nei quali la bronzistica ha prodotto senza far ricorso a saldature statue e arredi a fusione piena o cava, anche di dimensioni monumentali, ben prima del Medioevo e delle campane delle chiese, cui si vorrebbe far risalire l’introduzione della tecnica fusoria messa in opera nella Lupa.4 Basti ricordare la statua a grandezza naturale della regina elamita NapirAsu proveniente da Susa (xiii secolo a.C.),5 o gli arredi giganteschi del tempio del re Salomone a Gerusalemme, puntualmente descritti nell’Antico Testamento, opera di un artefice inviato dal re Hiram di Tiro e chiamato a quanto pare col suo stesso nome 1 Colonna 1970, 1975, 1996 e 1997. 2 Così La Regina 2006, p. 9. 3 Carruba 2006, pp. 28, 36 («la tecnica di fusione impiegata per la Lupa [ … ] non è presente in età antica, mentre è attestata esclusivamente in epoca medievale»), 45 («sculture a grandezza naturale, o più grandi del vero, mai venivano realizzate, nell’antichità greca e romana, in un’unica colata: era necessario dividere il modello in parti, fonderle separatamente e poi saldarle»); La Regina 2006, l.c. («i bronzi d’epoca antica, greci, etruschi e romani, si distinguono da quelli medievali per la fusione in parti separate, poi saldate tra loro»). 4 Carruba 2006, p. 30, fig. 31, echeggiata da La Regina 2006, l.c. 5 Frankfort 1954, p. 204, tav. 175; Amiet 1988, p. 98, fig. 57, con bibl. Si è accertato che la statua, del peso di ben 1750 kg, è una fusione cava la cui anima di terra è stata sostituita, per accrescere il valore dell’opera e renderla inamovibile, da una colata di bronzo (Meyers 2000).

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(x secolo a.C.),6 dei quali può dare una qualche idea la grande tavola sacrificale sorretta da cinque statue-cariatidi rinvenuta anch’essa a Susa.7 Oppure le molte statue e statuette egiziane, per lo più fuse sì in parti separate, ma congiunte meccanicamente invece che saldate, databili dal Medio Regno all’età saitica.8 Anche in Grecia del resto la colonna serpentina del tripode celebrante la vittoria di Platea sui Persiani del 479 a.C., ora a Istanbul, alta quasi 5,50 m nello stato attuale, è a fusione cava realizzata, secondo l’autopsia compiuta a suo tempo da K. Kluge, in un sol pezzo.9 Occorre inoltre intendersi sulla definizione di grande bronzo, in termini dimensionali, e soprattutto distinguere tra bronzo e bronzo, grande o piccolo che sia, in base alla conformazione data alla figura per esigenze tematiche, iconografiche e soprattutto di stile, al conseguente grado di “compattezza” in termini compositivi, all’occorrenza o meno di strozzature, gomiti e sottosquadri, passibili di rallentare lo scolo della cera liquefatta, la fuoriuscita dell’aria e, ovviamente in primis, la colata del metallo fuso. Sono questi infatti i condizionamenti, reali o soltanto temuti, che hanno indotto – assieme al vantaggio, nel caso di metodo indiretto, di risparmiare metallo –, ad adottare la tecnica delle parti separate poi congiunte con la saldatura metallurgica, tecnica che è semplicistico definire a priori come più facile, oltre che più economica.10 E in proposito non va dimenticato che la figura di un lupo o di un leone è già per sua natura assai diversa da quella di un essere umano, avendo un collo assai più robusto e mancando ovviamente di mani, di polsi e di caviglie. Ma su questo ritornerò. Consideriamo anzitutto le dimensioni. La Lupa, alta al garrese 75 cm, è un bronzo grande al vero11 ma, rispetto alla categoria dei grandi bronzi, quale comunemente la intendiamo, il suo è un formato obiettivamente ridotto. Non troppo lontano, quanto a difficoltà per la fusione, dai maggiori tra i piccoli bronzi a figura umana di età medio- e tardo-arcaica, che nell’Italia centrale raggiungono un’altezza di 40, 50 e perfino 60 cm,12 pari o anche superiore a quella delle zampe del nostro animale (che aggettano dal tronco per circa 45 cm). I bronzi cui mi riferisco sono a fusione piena (per es. il kouros dalla località Selvanera del litorale vulcente, tra il lago di Burano e la foce del Chiarone, l’Ercole da Castelbellino, il Giove da Apiro, il Giove, o Ercole che sia, da Cagli, questi ultimi due con gli arti parzialmente riportati come nelle citate testimonianze egiziane (Figg. 1-2).13 O più spesso, almeno in area etrusca, sono a fusione cava (per es. il kouros 6 1 Re, vii, 13-47; 2 Cronache, ii, 6-13; iii, 15-17; iv, 1-18. Cfr. eaa iii, 1961, s.v. «Hiram» (G. Garbini); Busink 1970, p. 299 sgg. Le due colonne poste ai lati della porta del tempio, alte 18 cubiti (9,45 m), erano a fusione cava, dato che in ognuna di esse «lo spessore del bronzo era di quattro dita mentre dentro era vuota» (1 Re, vii, 15, trad. di A. Rolla, ed. Paoline). 7 Amiet 1988, p. 97 sg., fig. 56. 8 Ortiz 1994, nn. 33-37 (Medio Regno); Donadoni 1981, figg. a p. 225 (Nuovo Regno), 242: 1 (xxii dinastia), 249 (xxv dinastia), 256 e 261 (xxvi dinastia); Bianchi 1990, pp. 63 sg., 66, 74, figg. 2, 4, 6 (xxii-xxv dinastia). 9 Kluge 1929, p. 2 sg. Per Mattusch 1988, p. 96 sg., fig. 5.6, più probabile la fusione in sezioni separate congiunte con tenoni. 10 Così Carruba 2006, p. 26, che arriva finanche a postulare, a giustificazione della fusione diretta in un sol pezzo, che riconosce come più dispendiosa, la disponibilità nel Medioevo di «maggiori quantità di metallo derivate dalla rifusione di bronzi più antichi». Tesi manifestamente insostenibile, alla pari di quella che attribuisce ai fonditori medievali la scelta del metodo diretto «in quanto espressione di unicità e irripetibilità dell’opera d’arte» (ibid.). 11 Le misure sono quelle del lupo appenninico (Canu 2005, p. 276). 12 È il caso, oltre che della kore da Sessa Aurunca di cui più avanti, di due statuette che sarebbero state rinvenute a Marzabotto nel xviii secolo (Sassatelli 1990, p. 71, nota 51). Ricordo d’altra parte che anche le statuette nuragiche raggiungono talvolta quasi 40 cm di altezza. 13 Kouros da Selvanera: Romualdi 1998 (inesatta la localizzazione del ritrovamento alla fig. 1). Ercole da Castelbellino: Colonna 1970, p. 26 sg., n. 2, tav. iii; Chianciano 2003, p. 87 sg. (G. Baldelli); Giove da Apiro: Cristofani 1985, p. 164, fig. 55; Fabing 1988, pp. 225-228, n. 40. Giove da Cagli: Colonna 1970, p. 59, n. 119, tav. xxxii; Roma 2001, p. 233, n. 362 (G. Baldelli). La saldatura al tronco degli arti della statuetta da Cagli è moderna.

un monumento romano dell ’ inizio della repubblica

Fig. 1. Ancona, Museo Archeologico Nazionale. Ercole da Castelbellino (an) (da Colonna 1970).

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Fig. 2. Kansas City, Museum. Giove da Apiro (mc) (da Teitz 1967, p. 154).

da Chiusi a Berlino, il Marte umbro del Museo Britannico, l’atleta etrusco del Louvre) (Figg. 3-4),14 eventualmente con gli avambracci riportati a fusione piena (è il caso della kore da Sessa Aurunca al Museo Britannico) (Fig. 5 a-b).15 Prendiamo quest’ultima, che ritengo con Cerchiai un simulacro di culto (di Turan-Afrodite), collocato all’aperto (su una colonna?) come lo Zeus da Ugento di cui più avanti: è alta 61 cm, ossia più di due piedi e appena un quinto meno della Lupa, e alla pari di essa conserva all’interno sia residui della terra di fusione sia la barra verticale di ferro che ne costituiva lo scheletro (la cui estremità superiore fuoriusciva in antico dal sommo della testa perché, dopo avere assicurato durante la fusione il collegamento dell’anima al mantello esterno, sarà stata conservata in funzione di menisco contro gli uccelli). Ed è proprio la barra che, cresciuta di volume per ossidazione, ha provocato le macroscopiche fessurazioni deturpanti i fianchi e il dorso della piccola statua.16 Tutto lascia credere che una simile armatura sia presente più di una volta anche nei bronzi etruschi arcaici a fusione cava di minori dimensioni, così come si verifica in Grecia.17 La radiografia ha infatti consentito di osservarla, contro ogni aspettativa, al14 Kouros a Berlino: Brendel 1978, p. 310 sg., fig. 229; Richardson 1983, p. 133 e nota 51 («the finest, and one of the handsomest as well as the tallest of all Middle Archaic kouroi»); Haynes 1985, p. 258, n. 37; Heilmeyer 1988, p. 217, n. 1 (ne devo le foto alla squisita cortesia del dott. Martin Maischberger, curatore dei bronzi dell’Antikensammlung). Marte a Londra: Richardson 1983, p. 168, fig. 385 («the earliest hollow cast votive bronze that I know»). Atleta del Louvre: Cristofani 1985, pp. 156 sg., 268 sg., n. 46; Riis 1997, p. 88 sg., fig. 92. 15 Cristofani 1985, pp. 146 sg., 266, n. 36; Firenze 1985, p. 282, 10.26 (M. Cristofani); Haynes 1985, pp. 165, 270 sg., n. 68; Cerchiai 1995, p. 165 sg. Per esempi greci: Mattusch 1988, pp. 52-54, figg. 4.2, 4.3. 16 Solo in parte simili a quelle mostrate dalle zampe posteriori della Lupa (cfr. infra, nota 121). 17 Mattusch 1988, p. 52 sg., nota 7, fig. 4.2.

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Fig. 3 a-b. Berlino, Musei Statali, Antikensammlung. Kouros da Chiusi (foto del Museo).

Fig. 4. Londra, Museo Britannico. Marte umbro-settentrionale (da Richardson 1983).

l’interno della kore Morgan del Metropolitan Museum, raffinato prodotto etrusco di stile ionizzante della fine del vi secolo a.C., alto solo 29,4 cm, ossia un piede.18 E quando la barra manca può essere stata asportata, come forse è avvenuto nel caso del citato kouros da Chiusi a Berlino, alto un piede e mezzo (46 cm), databile a mio avviso non molto dopo la metà del vi secolo.19 Infatti la finestrella di circa 1,5 × 1,5 cm, praticata a metà altezza del dorso (Fig. 3 b), è servita quasi certamente non ad assicurare la statuetta a un qualche arredo, come generalmente si pensa,20 ma ad estrarre l’ormai inutile e anzi dannosa verga di ferro che armava la terra di fusione (sostituita con una colata di piombo in tutta o quasi l’estensione del cavo, a giudicare dal peso della statuetta).21 La funzione dell’apertura dovrebbe pertanto essere la stessa, a prescindere dalle dimensioni, di quel18 Fabing 1988, pp. 195-199, n. 33. In precedenza la statuetta era stata giudicata a fusione piena (Richardson 1983, p. 297, fig. 706). 19 Per il confronto del nudo col torso colossale da Megara (Richter 1960, p. 91 sgg., n. 92, figg. 297-299) e col grande torso fittile da Veio-Portonaccio (Colonna 2001, p. 65 sg.). 20 Cfr. la bibliografia a nota 14 (la Richardson lo cita solo per confronto nel suo libro sui bronzi votivi). 21 Mi scrive il dott. Maischberger in data 26.3.2007: «il peso notevole potrebbe indicare sia un bronzo pieno, sia una fusione vuota riempita più tardi con piombo». Alternativa questa che gli fa sospettare un intervento moderno, anteriore all’ingresso della statuetta nella collezione di J.S. Bartholdy, acquisita dal Museo nel 1827. Il che pare invero poco verosimile.

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la delle ben tamponate finestre (7 × 7 cm), rivelate dal recente restauro sul fianco destro della Lupa (Fig. 6),22 evidentemente considerato il suo lato “posteriore”.23 Con la differenza che, nel caso del bronzetto, l’apertura è stata richiusa non con un tassello ma appunto con piombo fuso, come forse è avvenuto anche in un piccolo kouros da Delfi, coevo e quasi di pari altezza, a giudicare dalla cavità esistente sulla nuca, modernamente risarcita con cera.24 Armata un tempo quasi certamente con una barra di ferro, a giudicare dalle tracce di ossidazione mostrate dalla terra di fusione, era la statua maschile alta circa 80-90 cm, ascrivibile alla categoria delle statuae tripedaneae,25 cui apparteneva la teFig. 5 a-b. Londra, Museo Britannico. sta Tyszkiewicz del Museo Britannico, daKore o dea da Sessa Aurunca (ce) tabile verso il 480-470 a.C. (Fig. 7).26 La te(da Cristofani 1985). sta merita di essere ricordata anche per il trattamento delle ciocche frontali, assai simili, come è stato notato da molti, a quelle che, rivolte verso l’esterno, incorniciano la fronte e il muso della Lupa. Nel caso della testa in questione si può ritenere che la barra sia stata asportata attraverso un’apertura di cui restano tracce sulla calotta, oggi in parte mancante.27 Come a mio avviso è sicuramente avvenuto nel caso della statua, alta poco più di 1,20 m, ossia circa tre quarti del vero, e pressappoco coeva alla precedente, di cui è stata rinvenuta la sola capigliatura a Chianciano, nel santuario in località Bagni di Sillene (Fig. 8).28 Infatti l’ampia e sottile “parrucca”, simile a uno scalpo, che era stata fusa a parte e riportata sulla statua con ribattini, presenta sull’alto della calotta il foro per il menisco e in corrispondenza della nuca una finestra quadrangolare (9,2 × 9,4 cm), ritagliata lasciando in basso e in alto un battente per il riporto, anch’esso con ribattini, del relativo tassello. Lo stesso può forse dirsi per la statua di modulo simile, ma di poco più antica, cui apparteneva la nota testa da Ariccia della Ny Carlsberg Glyptotek,29 mancante di quasi tutta la regione occipitale a causa di una lacuna che ha allargato a dismisura, a quanto pare, un’analoga finestra esistente in antico sulla nuca.30 22 Parisi Presicce 2000, p. 77, figg. 10-12; Carruba 2006, p. 19, figg. 9-12. 23 Meno visibile dell’altro se la statua era collocata contro una parete (il che privilegia l’ipotesi di un luogo almeno parzialmente chiuso, quale era la grotta del Lupercale: infra, nota 106). 24 Richter 1960, p. 104, n. 106, figg. 330-333; Rolley 1969, pp. 125-128, n. 182; Mattusch 1988, p. 53, nota 8. 25 Assai numerose sia a Roma (Plin., n. h., xxxiv, 24) che in Etruria (Roncalli 1982, p. 95 sg.). 26 Haynes 1985, pp. 170, 274, n. 77; Cristofani 1985, pp. 219, 290, n. 112; Colonna 1994, p. 580; Riis 1997, p. 89, fig. 93. La testa sarebbe stata rinvenuta, in base a una notizia dell’archivio Gamurrini, a Incisa in Val d’Arno (Romualdi 1989-90, p. 636, n. 11.1), ai margini del territorio fiesolano. 27 Foto in Ortiz 1990, p. 246, fig. 12 b (con sospetti non condivisibili sulla autenticità della testa). 28 Cristofani 1976, p. 122, fig. 164 sg. (le migliori foto finora pubblicate); Bonamici 2003, pp. 48-51, fig. a p. 52. Un frammento di “parrucca”, di minore formato ma non troppo diversa, viene dal trovamento di Selvanera di cui a nota 13: Romualdi 1998, p. 368, nota 11, tav. cv, 4. 29 Cristofani 1985, pp. 218, 290, n. 113; Roma 1990, p. 144, n. 6.9, tav. xiv (M. Cristofani); Colonna 1994, p. 579 sg.; Riis 1997, p. 41 sg., fig. 34. 30 Riis 1966, pp. 72-75, fig. 4 c.

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Fig. 6. Fianco destro della Lupa con le “finestre” tamponate (da Carruba 2006).

Fig. 7. Londra, Museo Britannico. Testa di kouros da Incisa in Valdarno (fi) (da Cristofani 1985).

Fig. 8. Chianciano Terme (si), Museo Civico Archeologico. Parte di testa bronzea dai Bagni di Sillene (da Cristofani 1976).

Le aperture in questione, simili per forma e dimensioni, almeno nel caso verificabile di Chianciano, a quelle della Lupa (Fig. 6) e di alcuni grandi bronzi medievali (Fig. 9),31 31 Per la Lupa vedi nota 22, per i bronzi medievali Carruba 2006, pp. 19, 60 sg., 63, figg. 13-14.

un monumento romano dell ’ inizio della repubblica trovano nell’esigenza di estrarre dalla statua la barra di ferro annegata nell’anima di terra una motivazione tecnica più convincente sia di quella del Milani, che per la testa di Chianciano pensava fantasiosamente all’alloggio segreto di un lume, riverberante i suoi bagliori a fini oracolari attraverso le aperture degli occhi,32 sia di quella del Riis, che per la testa di Ariccia ha ipotizzato l’attacco a una traversa orizzontale, un dókanon, che l’avrebbe collegata alle altre due teste di un simulacro triforme, forse quello di Diana Nemorense riprodotto su un conio monetale del 43 a.C.33 Ritengo invece che si tratti di un accorgimento avvicinabile, anche se motivato con ogni probabilità da esigenze diverse, a quello esibito dalle teste di molti grandi bronzi antichi, a cominciare dall’Auriga di Delfi, nei quali è stata fusa a parte e quindi riportata l’intera calotta cranica con la corrispondente porzione di capigliatura.34

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Fig. 9. Perugia, Galleria Nazionale. Particolare del Grifo di Perugia (da Carruba 2006).

* Ma torniamo alla questione della fusione in parti separate congiunte a saldatura, che secondo i sostenitori della datazione medievale della Lupa sarebbe stata normale nel mondo antico per i grandi bronzi. Qui occorre anzitutto aprire una parentesi di natura filologica. Dal novero delle testimonianze addotte al riguardo va infatti espunto quello che ne è comunemente considerato il prototipo, il perduto Apollo Pizio di Samo, opera di Telekles e di Theodoros, databile intorno alla metà del vi secolo in base a quanto si sa delle molte attività di Theodoros, coautore con Rhoikos del primo tempio monumentale edificato nell’Heraion di Samo (570-540 a.C.).35 Diodoro, nostra unica fonte al riguardo,36 ci informa che i due artefici, detti per l’occasione fratelli invece che padre e figlio,37 avrebbero lavorato, stando per giunta in luoghi diversi (rispettivamente a Samo e a Efeso), ciascuno una metà della statua, poi risultata perfettamente combaciante con l’altra. Diodoro parla di uno xóanon «tagliato in due a partire dalla sommità della testa», evidentemente secondo il suo asse verticale, dato che il taglio intersecava «la parte mediana della figura fino ai genitali», il tutto «in accordo con la prassi artigianale degli Egiziani». E conclude, mostrando di non avere una 32 Milani 1887, p. 225 sgg. 33 Ipotesi estesa alla statua di Chianciano da Bonamici 2003, p. 54 sg. 34 Auriga: Chamoux 1955, p. 60 sg. Statue più recenti, dal Bruto Capitolino al Colosso di Barletta: Lahusen, Formigli 2001, p. 461; Papini 2003, p. 100. 35 Walter 1990, p. 120 sg., fig. 139. 36 Diod. Sic. i, 98, 5-9, da cui Athenag., leg. pro Christ. 17, che nella sua polemica antipagana menziona la statua in un’elencazione dei simulacri di culto di cui si conoscevano per nome gli autori. 37 Come nella vulgata, certamente più attendibile anche perché Telekles non è altrimenti noto come artista (eaa vii, 1966, s.v. «Telekles» [P. Moreno]).

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conoscenza diretta del monumento: «dicono che sia simile agli [xóana] egiziani, avendo le braccia distese e le gambe in atto di camminare».38 Il «dicono» rivela che la notizia deriva, come il resto del passo, da Ecateo di Abdera,39 vissuto ad Alessandria alla corte del primo Tolemeo, che nei perduti Aigyptiaká aveva esaltato oltre ogni misura il debito culturale della Grecia nei confronti della sua nuova patria.40 I due artefici avrebbero appreso in quel paese il canone di proporzioni della figura umana, praticato da tempo immemorabile, che aveva reso possibile il metodo di lavoro adottato per l’Apollo di Samo. Il fatto è ricordato per la sua eccezionalità («questo metodo di lavoro non è affatto [medamo˜s] praticato presso i Greci»),41 il che già pone una grossa ipoteca sul rapporto della statua con l’invenzione della fusione dei grandi bronzi in più parti saldate con la tecnica della “brasatura forte”, che si vorrebbe attribuire ai suoi autori.42 Ma c’è di più. Che la statua fosse di bronzo a fusione cava, come comunemente si ripete, invece che di legno o di pietra,43 è solo una congettura moderna, risalente a M. Collignon (1892), suggerita dalla fama di bronzista attribuita da Pausania, e solo da lui, al poliedrico Theodoros, in coppia fissa con Rhoikos.44 Ma, anche ammesso che la materia era il bronzo, nulla autorizza a dedurne che le due metà di cui si componeva fossero state saldate45 tra loro invece che congiunte a incastro con tenoni, secondo l’antichissima tecnica delle statue “composite” egiziane.46 Tecnica che in Grecia non solo è normale per gli acroliti, ma è ora testimoniata anche da alcuni grandi bronzi di recente scoperta, databili nel corso del vi secolo,47 oltre a essere stata constatata, accanto alla saldatura metallurgica, per parti secondarie dello stesso Auriga di Delfi, verso il 480-470 a.C.48 Senza contare che tutta la storiella riferita da Diodoro potrebbe essere stata inventata sulla base, come è stato supposto,49 dei nomi dei due artisti iscritti il primo su una coscia e il secondo sull’altra. Oppure, ricordando che, come s’è detto, per la vulgata Telekles era il padre e non il fratello di Theodoros, in base al nome in genitivo Theodo´ rou (preceduto o no da érgon) scritto su una coscia, e al nome Telekléous, fungente da patronimico, scritto sull’altra.50 38 Il richiamo agli xóana egiziani ritorna in Pausania (i, 42, 5) a proposito di due statue lignee conservate nel tempio di Apollo a Megara, contrapposte a una terza, pure lignea, «simile alle opere eginetiche», evidentemente per le braccia staccate dal corpo. 39 Citato per nome come sua fonte in un passo precedente (i, 46, 8). 40 FGrHist 264 F 25. Cfr. Burton 1972, pp. 31, 284-290; Spoerri 1988. 41 Di fatto il canone di ispirazione egiziana, se mai è stato adottato dagli scultori greci, è stato abbandonato assai presto (Boardman 1978, p. 20 sg.; Boardman 1980, p. 155 sg.). 42 Cfr. nota 45. 43 Come si sostiene in limc ii, 1984, s.v. «Apollon», p. 190, n. 7 (W. Lambrinudakis). Cfr. Casson 1933, p. 155 (fusione piena); Davaras 1972, p. 23 (legno o pietra); Papadopoulos 1980, pp. 2, 63 (fusione piena o legno); Mattusch 1988, pp. 50 e 84, nota 91 (legno). 44 Paus. viii, 14, 8; ix, 41, 1; x, 38, 6. La fama di Theodoros come andriantopoiós era antica (Plat., Ion. 533 B), ma Pausania confessa nell’ultimo passo citato di non conoscere alcuna sua statua in bronzo, mentre ne cita una di Rhoikos (la c.d. Notte esistente nell’Artemision di Efeso). Altrimenti ne è attribuita al Nostro una sola, il suo creduto autoritratto che si trovava nell’Heraion di Samo (Plin., n. h., xxxiv, 83), probabile ex voto di un bronzista. 45 Così Carruba 2006, p. 28, seguita da La Regina 2006, p. 9, che attribuiscono a Rhoikos e Theodoros (o a Telekles e Theodoros) l’invenzione della saldatura metallurgica “forte”, sviluppando, senza peraltro citarla, una proposta avanzata a titolo di ipotesi e in riferimento al solo Theodoros da Bol 1985, p. 118. 46 Donadoni 1981, p. 198 sg., figg. 4-5. 47 Età cui risalgono la statua forse di sfinge, grande al vero, di cui è stata recuperata la testa in Adriatico (Lulof, Moormann 2000) e la statua di culto da Metropolis (Tessaglia), alta 0,80 m, raffigurante un dio armato di corazza a campana, forse Apollo, tagliato a metà altezza in due parti, fuse separatamente e collegate con quattro tenoni verticali (Intzesiloglou 2000). 48 Mattusch 1988, pp. 97, 134 («the mechanical joins are all clearly visible today, with the exception of the one concealed by the chiton at the neck»). 49 Stewart 1990, p. 245; Ebbinghaus 2004, p. 446. 50 Per iscrizioni su kouroi inizianti su una coscia e terminanti sull’altra vedi Richter 1960, p. 134 sg., nn. 155 e 157. La storiella della lavorazione della metà di Telekles a Samo e della metà di Theodoros a Efeso potrebbe

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Messo da parte l’Apollo di Samo, la fusione separata con successivo ricorso alla saldatura è sicuramente documentata, tra i grandi bronzi greci di stile arcaico o severo giunti fino a noi (o dei quali, come nel caso del più antico, l’Apollo dell’Agorà di Atene, abbiamo i resti del mantello di terra refrattaria), soltanto per la testa, come nel caso appunto dell’Apollo dell’Agorà,51 o anche per le braccia, le mani e almeno in parte i piedi (così nello Zeus di Ugento, nell’Apollo del Pireo, nel Dio dell’Artemisio e forse negli stessi Eroi di Riace).52 Nello Zeus di Ugento, che è alto solo due dita meno della Lupa (71,8 cm) ed è armato internamente con una barra di ferro alla pari di quella, sono fusi col metodo diretto e in un sol pezzo il tronco, le braccia, le gambe e forse anche i piedi, nonostante il forte aggetto delle prime e la marcata divaricazione delle seconde, il dio essendo raffigurato nell’atteggiamento del prómachos, con un avambraccio in posizione orizzontale e l’altro sollevato verticalmente (Fig. Fig. 10. Ugento (le), Museo Civico. 10). E lo stesso può dirsi della statua di atleZeus da Ugento (da Degrassi 1981). ta in azione, di grandezza superiore al vero, raffigurata dal Pittore attico della Fonderia sulla sua citatissima kylix eponima, distesa su un apposito giaciglio con un lavorante che sta terminando il montaggio delle mani mentre la testa giace ancora a terra.53 In Etruria purtroppo non sappiamo se il kouros di inizio v secolo, alto a quanto pare quasi un metro, di cui si sono rinvenuti resti del mantello di fusione nella fonderia scoperta a Marzabotto negli anni ’60, sia stato fuso in parti separate o, come direi più probabile, in un sol pezzo.54 Sta di fatto che gli esempi sicuri di statue etrusche fuse in parti

essere nata dal fatto che al patronimico Telekléous seguiva l’etnico Samíou, riferito anch’esso a Theodoros, oltre che dalla notorietà della partecipazione di quest’ultimo alla costruzione dell’Artemision di Efeso (eaa vii, 1966, p. 811 sg., s.v. «Theodoros 1º» [P. Moreno]). 51 A giudicare dal confronto della lunghezza della fossa di fusione con l’altezza della statua ricostruibile in base ai resti del mantello (Mattusch 1988, pp. 54-59). Di altre statue appena più piccole, alte circa un metro, resta solo la testa, che appare di fatto fusa a parte (testa di Zeus da Olimpia, testa di guerriero dall’Acropoli e testa di kouros da Citera: ibid., pp. 63 sgg., 71 sg., 91 sgg.). 52 Zeus di Ugento: Degrassi 1981, spec. pp. 137-151. Apollo del Pireo: Formigli 1999, p. 85, fig. 3. Dio dell’Artemisio: Tzachou-Alexandri 2000, fig. 1 c. Statue di Riace: Mattusch 2002, pp. 78-80. Nel caso del Poseidon di Livadhostro potrebbero essere state fuse a parte anche le gambe (Mattusch 1988, pp. 79-83). 53 Zimmer 2002, p. 42 sg., fig. 4; Mattusch 2002, p. 77 («apparentemente fusa in quattro parti – testa, mani e il resto della figura»). Coerentemente un piede, una mano e altre due teste sono raffigurate appese al muro, assieme a quattro disegni di figure da usare come modelli. 54 Gentili 1968, p. 117; Sassatelli 1990, p. 70 sg., tav. ii, 1 (parte della testa); Marzabotto 1982, p. 63, fig. 54 (uno degli arti). Sullo scavo della fonderia vedi ora Locatelli 2005.

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saldate tra loro sono tutti di stile classico,55 a differenza della Lupa, e si datano alquanto dopo la metà del v secolo: il supposto Apollo di cui si sono rinvenuti alcuni lacerti ai Bagni di Sillene presso Chianciano,56 la Chimera d’Arezzo,57 il Marte di Todi,58 il cinerario a figura di recumbente da Perugia all’Ermitage.59 Nel caso della Lupa il notevole diametro del collo (circa 30 cm), le zampe diritte o appena flesse, la coda massiccia anch’essa a caduta pressoché verticale, con appoggio della punta su una delle zampe posteriori, e forse non da ultima la disponibilità di sufficiente metallo nonché di un forno e di crogioli adeguati, hanno evidentemente fatto ritenere non necessario il ricorso a una prassi operativa di cui probabilmente non si aveva ancora completa padronanza. Non mi soffermo su altri argomenti di ordine tecnico, quali l’assenza, d’altronde forse solo apparente, di chiodi distanziatori e di tasselli di riparazione.60 Basti dire che i primi mancano del tutto nello Zeus di Ugento,61 mentre al contrario sono presenti nei due bronzi medievali ritenuti più vicini cronologicamente alla Lupa: il Gallo di S. Silvestro in Capite (che è a fusione indiretta!) e il Leone guelfo di Brunswick.62 I tasselli d’altra parte mancano anche in bronzi greci dove, per la difettosa riuscita della colata, ce li saremmo aspettati,63 oppure sono usati con grande parsimonia.64 Non sono certo questi gli elementi di prova su cui può fondarsi uno spostamento di datazione di circa tredici secoli. Quanto alle tracce piuttosto evidenti dell’uso della lima, denotanti una mancata o insufficiente rifinitura a freddo delle superfici, fatta la tara degli interventi conservativi subiti dal bronzo nei circa duemila anni di esposizione all’aperto la si può ritenere un indicatore di bottega o di scuola, utile più per la ricerca dell’ambiente culturale che ha prodotto la Lupa che non per quella della sua cronologia. Senza dimenticare che il labor limae era pur sempre il vanto del bronzista, tanto da far assurgere lo strumento a simbolo per eccellenza della sua téchne.65 Per quanto infine riguarda l’occhio, il riporto in altro materiale e in un apposito cavo della sola pupilla, per lo più assieme all’iride, invece che dell’intero globo oculare (Fig. 11), ricorre in sculture medievali,66 ma anche, e largamente, in bronzi e terrecotte etrusche di vi e v secolo a.C. (Figg. 2, 12),67 mentre senza confronto tra i bronzi medievali chiamati in causa sono le sopracciglia della Lupa, finemente incise a freddo con una serie di tratti obliqui paralleli (Fig. 13), come si verifica di frequente sui bronzi etruschi (Fig. 12) e italici a partire dall’età alto-arcaica.68 55 Un’eccezione di stile severo sarebbe l’Efebo Sciarra (Fischer-Hansen 1992, pp. 28-30, n. 3, con bibl.), la cui etruscità è però controversa (da ultimo Bell 2000). A mio avviso è opera prodotta in Etruria, a Veio o a Volsinii, ma da artista siceliota (Colonna 2004, p. 13). 56 Carruba 2006, pp. 52-54, n. 2, con bibl. 57 Carruba 2006, p. 51 sg., n. 1, con bibl. 58 Carruba 2006, p. 54, n. 3. 59 Cristofani 1985, pp. 226, 293, n. 117. 60 Carruba 2006, p. 30. L’affermazione va ridimensionata, a stare a Parisi Presicce 2000, p. 78 («sulla Lupa sono stati individuati, per lo più sulle zampe, pochissimi chiodi distanziatori»). Cfr. gli interventi al convegno dello stesso Parisi Presicce e di M. Sannibale. 61 Degrassi 1981, p. 150. 62 Gallo: Carruba 2006, p. 57, n. 5 («tre chiodi distanziatori in ferro»). Leone: ibid., p. 58 sg., n. 6 («inseriti tra anima e mantello 25 chiodi di ferro»). 63 Come nel caso della testa forse di sfinge di cui a nota 47, della testa di Zeus da Olimpia (Mattusch 1988, p. 63: «there are no visible patches covering flaws») o del celebre flautista di Samo (ibid., p. 48). 64 Sul Poseidon da Livadhostro, alto 1,18 m, è segnalato un solo tassello (Mattusch 1988, p. 83). 65 Al punto che Theodoros si sarebbe raffigurato con una lima in mano nel suo celebrato autoritratto (supra, nota 44). 66 Carruba 2006, p. 42, figg. 44-46. 67 Quali i due sarcofagi fittili degli Sposi, il moscoforo d’avorio da Castel S. Mariano (Milano 1955, n. 238, tav. xxxv), bronzetti votivi o d’arredo (Teitz 1967, nn. 51 e 65; Richardson 1983, fig. 328 A; Cristofani 1985, n. 4.6; Haynes 1985, p. 146, n. 39), lo stesso splendido Lampadario di Cortona (ibid., p. 290 sg., n. 122). Né il riporto della sola pupilla era ignoto alla scultura greca arcaica (per es. Richter 1960, p. 147, n. 188, figg. 560-563; Boardman 1978, figg. 51 sg., 76, 112). 68 Esempi, anche di ciglia, su bronzi di vi e v secolo: Mühlestein 1929, figg. f.t. 112 sg., 144, 177 sg.; Bartoloni, Sprenger 1977, tav. 114; Höckmann 1982, p. 48 sg., n. 46; Richardson 1983, figg. 191, 200, 240, 512, 565,

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Fig. 11. La testa della Lupa Capitolina (da Carruba 2006).

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Fig. 12. Londra, Museo Britannico. Particolare del Marte dalla stipe del Falterona (da Cristofani 1985).

In merito alle cursorie considerazioni finali, insieme di ordine tematico, iconografico e stilistico, addotte a conferma della datazione post-antica della Lupa,69 ovviamente spetta anzitutto agli studiosi di arte medievale esprimere un giudizio. Per parte mia rilevo il carattere apodittico dell’affermazione di partenza: «è solo nell’epoca medievale che, perso il significato di mater Romanorum e divenuta simbolo della giustizia, [ … ] essa può essere stata creata come opera a sé stante, priva dei gemelli». Intanto il dittico d’avorio scolpito nell’urbe per l’abbazia di Rambona in età carolingia raffigura la lupa romana con la didascalia Romulus et Remus a lupa nutriti, dimostrando la perdurante consapevolezza del suo ruolo primario di nutrice dei gemelli.70 Né l’eventuale omissione di questi è di per sé sufficiente per escludere la connessione del lupus Martius, se femmina, con la saga romulea. Lo dimostra, a cinque anni dalla disfatta finale, subita nell’82 a.C. a Porta Collina dagli insorti Italici (che sulle loro monete avevano raffigurato la lupa conculcata dal toro sannita),71 il denario di L. Satrienus con una minacciosa lupa senza gemelli, sovrastata dalla scritta Roma in pregnante evidenza (Fig. 14).72 Sta inoltre di fatto che nel caso della Lupa Capitolina la perdita dei gemelli nel suo trasferimento di età tardo-antica 842, 861; Cristofani 1985, nn. 2.6, 4.6 sg., 4.10, 21, 28-31, 91, 99. Senza contare i canopi chiusini più tardi: Gempeler 1974, p. 224 sgg., tavv. 27-29, 31. In generale, sui diversi modi di rendere le sopracciglia: Lahusen 2004, p. 576 sg. 69 Carruba 2006, pp. 36-43. 70 Sul dittico: Settis 1986, p. 436 sg., fig. 401; Parisi Presicce 2000, p. 108, n. 25, con bibl. Anche sullo scrigno Franks, prodotto in Inghilterra nell’viii secolo, la raffigurazione della lupa romana è accompagnata da una didascalia menzionante l’allattamento di Romolo e Remo (Settis 1986, p. 437, fig. 402; Roma 2000, p. 240). La qualifica di mater Romanorum è del resto esplicitamente riferita, in uno scritto risalente alla metà del x secolo, alla lupa che dava nome al luogo in cui era amministrata la giustizia papale (Libellus de imperatoria potestate: Zucchetti 1920, p. 145, ll. 15-16, e, per la data, p. lxxviii sg.; Parisi Presicce 2000, p. 96; Carruba 2006, p. 13). 71 Briquel 1997, pp. 111-116, tav. i. Cfr. anche Colonna 1996, pp. 113 e 129. 72 Dulière 1979, i, p. 143 sg.; ii, p. 79, fig. 57 (per le gemme che si ispirano al conio, confermandone il messaggio ideologico: ibid., p. 71, fig. 59). Il gesto di sollevare una zampa guardando in alto, tipico, ma non esclusivo, dei felini (esempi in Brown 1960, passim; Tierbilder 1983, nn. 2, 86, 137, 173, 175, 182; Micozzi 1994, p. 85, nota 95), ha i suoi precedenti in bronzetti etruschi di iv-iii secolo a.C. raffiguranti canidi, provenienti dall’agro di Chiusi (Teitz 1967, n. 83) (Fig. 15) e da Cortona (con la dedica ±(elansl) Calu®tla, “a S(elvans) quello di Calu”, ossia a un Selvans infero: Simon 1984, p. 155, e, per l’iscrizione, Colonna 1966, p. 170, nota 22; Rix 1991, Co 4.10) (Fig. 16).

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Fig. 13. Particolare della testa della Lupa Capitolina (da Carruba 2006, fig. 34).

Fig. 14. Denario di P. Satrienus (da Dulière 1979).

Fig. 15. Boston, Museum of Fine Arts. Cane, o lupo, da Sarteano (da Teitz 1967).

Fig. 16. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca. Cane, o lupo, da Cortona (da Simon 1984).

al Laterano non può essere a priori esclusa dal movimento della testa, che è rivolta di lato e non all’indietro, nell’atteggiamento materno della vulgata. Infatti su tutte le coniazioni urbane di Adriano e di Antonino Pio, nonché su raffigurazioni coeve forse da esse dipendenti, la lupa allatta senza volgere la testa verso i piccoli, con un’effimera innovazione probabilmente non estranea al «tradizionalismo arcaizzante» di quei due imperatori.73 E la Lupa Capitolina, non dimentichiamolo, se ha a che fare con la saga romulea, come tutto fa ritenere, ne è la testimonianza monumentale di gran lunga più antica e l’unica 73 Dulière 1979, i, pp. 166-169 (l’espressione citata a nota 147); ii, figg. 63, 123, 130 sg., 133-138; Weigel 1992, nn. 9 e 33, tav. 151; Parisi Presicce 2000, p. 50. La variante iconografica in questione sembra riapparire all’inizio del iv secolo, se dobbiamo prestar fede allo schizzo seicentesco di un perduto mosaico parietale, appartenente a una ricca domus dell’Esquilino (Dulière 1979, fig. 128; Roma 2000, p. 254 sg.), ed è comunque quella adottata nel primo ’400 dai Senesi per la loro lupa allattante i gemelli (Parisi Presicce 2000, pp. 99-101, figg. 6-7, 9). Cfr. anche la lupa romana con la testa volta di lato come la Capitolina di un rozzo mosaico provinciale pure di inizio iv secolo (Dulière 1979, fig. 125), e la gemma greco-persiana con una cagna allattante un bambino guardando in avanti (Boardman 1970, pp. 319, 355, tav. 952).

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Fig. 17. La criniera dorsale della Lupa Capitolina (da Parisi Presicce 2000).

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Fig. 18. Ancona, Museo Archeologico Nazionale. Leone di un dinos da Amandola (ap) (da Brown 1960).

di epoca arcaica, anteriore di circa due secoli al donario dei due edili Ogulnii in cui ha fatto la sua prima comparsa ufficiale l’immagine, riprodotta sulla nota didramma romano-campana e quindi divenuta canonica, della mater Romanorum allattante. Quanto ai dati iconografici, possiamo essere certi che «il motivo delle lunghe e sinuose ciocche che rappresentano il pelame lungo il dorso della Lupa» (Fig. 17), ripetuto quasi alla lettera sul dorso e sulle cosce di taluni leoni romanici, deriva non, come viene ora asserito, «dalla tradizionale treccia, immancabile nei rilievi altomedievali»,74 ma dalla criniera dorsale dei leoni etruschi, che fin dall’età orientalizzante ed arcaica è consistita in una lunga sequenza di ciocche disposte simmetricamente a spinapesce (Fig. 18).75 Il fatto che quella criniera sia stata copiata nel Medioevo non meraviglia, poiché 74 Carruba 2006, p. 39, con le figg. 39 sg., 42 sg. per i leoni romanici chiamati a confronto. 75 Per es. Mühlestein 1929, p. 108, fig. 11; Brown 1960, tavv. i a-b, iii, xxxi c, xlii a, xliii a, l b, li c, lii a (da Amandola, qui a Fig. 18).

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Fig. 19. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia. Particolare dell’olpe Chigi da Formello (rm) (da Boardman 1998).

nel vi secolo a.C. in ambito ionico76 e a partire dal iv fino ad età tardo-repubblicana e protoimperiale nel resto della Grecia, in Etruria e nel mondo romano, è normale vederla comparire sulle statue di leoni in pietra o bronzo,77 cioè su monumenti non facilmente deperibili e soggetti a un frequente riuso nel Medioevo, non meno dei sarcofagi romani, venendo anche spesso imitati, alla pari di essi, da scultori e marmorari.78 La stessa stilizzazione a fiamma delle ciocche, che ha suggerito il confronto della Lupa coi leoni romanici, non è una novità alto-medievale, ma risale addirittura al repertorio formale della civiltà orientalizzante, sia nella variante “liscia” – vedi notissimi vasi protocorinzi quali l’olpe Chigi (Fig. 19) e l’aryballos Macmillan79 – che in quella con fitta campitura di linee parallele, presente per es. su avori siro-ittiti ed etruschi.80 In età arcaica la stiliz76 Gabelmann 1965, p. 93, nota 386, tavv. 21, 26 sg. 77 Leoni greci di marmo: Collignon 1911, pp. 227-234, figg. 147-153; Brown 1960, p. 150, tav. lxiv a, b; Boardman 1995, p. 120, figg. 18.2, 112.3, 114; Ortiz 1994, n. 160. Leoni etruschi di pietra: Brown 1960, pp. 150154, 162, tavv. liii-lv; Emiliozzi 1991, con bibl. Leoni etruschi di bronzo: Brown 1960, p. 162, tav. lviii b-e, e soprattutto la statua di leonessa (o, meno probabilmente, di lupa) da Fiesole (Parisi Presicce 2000, p. 34, n. 1, con bibl.). Leoni romani di pietra: Marini Calvani 1980, p. 8, figg. 1, 3, 7-8, 12, 13. Si vedano inoltre le pitture etrusche, parietali e vascolari: Minetti 2004, p. 118 sg., tav. xxv (tomba della Quadriga Infernale); Cristofani 1967, pp. 197 e 202, n. 8, figg. 23 b (tomba François) e 34 (idria a figure rosse), nonché piedi di ciste prenestine (Jurgeit 1986, pp. 53 sg., 125 sgg., tav. xxxi). 78 Per es. Settis 1986, spec. p. 365, fig. 363 (sarcofago di Biduino a Pisa); Cellini 2003 e Rimini 2008, pp. 105108 (coppia di leoni a Villa Borghese). Cfr. anche infra, nota 81. 79 Boardman 1998, p. 87, figg. 176.1, 178.3. Cfr. anche il vaso plastico EC a fig. 407, e l’anfora melia a fig. 253. 80 Avori siro-ittiti: Boardman 1980, p. 66, fig. 32 sg. Avori etruschi da Comeana e San Casciano: Bologna 2000, p. 246 sgg., nn. 294, 297, 338. Cfr. anche gli avori dalla tomba Castellani di Palestrina (Brown 1960, p. 3, n. 2, tav. i b), risalenti al primo quarto del vii secolo a.C.

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zazione a fiamma è attestata sia in Etruria81 che in Grecia, dove compare anche su leoni di marmo,82 in alcuni casi con le ciocche sontuosamente campite come sui leoni romanici: basti citare il leone seduto da Perachora a Boston (Fig. 20).83 Direi a mo’ di conclusione che le argomentazioni dei sostenitori della datazione medievale della Lupa sono tali da non meritare maggior credito di quelle che, in direzione opposta, sono state avanzate alcuni decenni fa da autorevoli archeologi per avallare la retrodatazione in epoca antica del Grifo e del Leone di Perugia,84 ossia di due dei grandi bronzi, guarda caso, chiamati oggi in causa per datare la Lupa in età medievale. Mi auguro che, come già si è verificato da tempo per quei bronzi, nonostante il rumore che intorno a essi era stato sollevato, anche il caso della Lupa venga presto archiviato. * Il mio intervento potrebbe finire qui, ma Fig. 20. Boston, Museum of Fine Arts. Leone sarebbe un peccato lasciar cadere questa da Perachora (da Boardman 1978). occasione senza tentare, con considerazioni non più soltanto negative, di fare qualche passo avanti nell’inquadramento artistico e storico della Lupa, che è il vero e attualissimo problema, ancora irrisolto, come giustamente scrive La Regina.85 È noto il disagio manifestato al riguardo da alcuni studiosi del xix secolo, che li ha portati a prendere in considerazione l’accostamento ai leoni romanici, ma in termini assai più problematici di quelli coi quali esso viene ora riproposto, e solo in scritti di taglio periegetico, destinati a un vasto pubblico di persone colte, desiderose di conoscere l’Italia e i suoi monumenti.86 Il disagio nel considerare la Lupa un bronzo sic et simpliciter 81 Si vedano ad es. i quattro leoncini rampanti di un cippo di pieno vi secolo a.C. da Settimello presso Firenze, la cui peculiare tipologia è tra quelle imitate nel Medioevo, come mostra il cero pasquale di xiii secolo della basilica di S. Paolo fuori le Mura (Brown 1960, p. 137, nota 2, tav. xlviii e-f ). 82 Da Atene (Brown 1960, p. 93, tav. lxiii a, c) e dall’Istmo (Payne 1931, p. 243 sg., tav. 50, 3-4, 7-8). Cfr. anche la pardalís di una statua seduta di Dioniso da Atene (Boardman 1978, p. 86, fig. 162). 83 Gabelmann 1965, pp. 48-50, tav. 5; Boardman 1978, p. 168, fig. 267 (si notino le frange di ciocche sulle cosce, come nei leoni del Duomo di Parma: Carruba 2006, fig. 39 sg.). Cfr. anche squisiti lavori di oreficeria tardo-arcaica quali i pendenti etruschi a Berlino e a Parigi (Cristofani 1983, pp. 173, 294 sg., n. 157, con bibl.). 84 Caputo 1961; Caputo 1964, pp. 188-190; Magi 1972. 85 La Regina 2006, p. 10. 86 Braun 1854, pp. 124-126; Burckhardt 1855, p. 534; Bode, Fabriczy 1909, p. 180 sg. (l’accostamento è ripreso, venendo poi lasciato cadere, in Loewy 1934, p. 96). L’unico studioso che si è detto convinto della datazione medievale, e precisamente in età carolingia, peraltro in una nota di poche righe e in un’opera di tutt’altro argomento, ha addotto al riguardo solo «une étude minutieuse de l’original», ossia il proprio esame autoptico (Fröhner 1878, p. 288, nota 2). Sul personaggio, che molto teneva alla sua fama di connaisseur perché professionalmente coinvolto nel commercio antiquario internazionale di fine secolo, si rinvia al ben documentato profilo tracciato in Hellmann 1992.

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Fig. 21. Cerveteri, tomba dei Leoni Dipinti (da MonAnt xlii, 1955).

etrusco,87 e tanto meno greco o magnogreco, a mio avviso è giustificato, ma occorre battere altre strade per cercare di superarlo. Penso che il punto di partenza possa essere offerto da un elemento della sua iconografia finora rimasto nell’ombra, nonostante la vasta letteratura sull’argomento. È stato scritto recentemente che nella Lupa «l’animale appare naturalisticamente caratterizzato, come se l’artista avesse potuto osservare un modello dal vero».88 Ma è indubbio, e a questo si riferisce il riferimento alla zoologia nella spiritosa definizione di “bestia composita” da parte di O. J. Brendel,89 che i tratti somatici desunti dalla natura, evidenti nella testa, nelle fauci e nella morfologia complessiva dell’animale, sono stati combinati con altri attinti dall’iconografia del leone maschio, quale era stata elaborata in Etruria, traendo ispirazione da prototipi orientali, nella prima metà del vii secolo a.C. (Figg. 21-22).90 Gli elementi che la Lupa ha in comune col leone dell’Orientalizzante etrusco si possono così riassumere: 1. il vello del collo assimilato a una criniera e prolungato sul dorso fino al garrese, da dove scende lungo il profilo posteriore della spalla con una banda verticale di ciocche (Fig. 23); 2. la vistosa “criniera dorsale”, o «back-mane» (Brown), di tipo equino, già ricordata a proposito della sua imitazione da parte dei leoni romanici, composta da grandi ciocche a forma di fiamma contrapposte a spinapesce in una sequenza che dalle orecchie arriva all’attacco della coda, celando nel primo tratto la sommità del vello con l’inizio della sua appendice a banda verticale (Fig. 17); 3. lo stretto “collare”, o «Gesichtsmähne» (Gabelmann), incorniciante la protome dell’animale con una fascia continua di piccole ciocche, anteposta alle orecchie e al vello del collo (Figg. 11 e 13); 4. la stilizzazione delle narici e della sottostante piega del labbro in una forma che si potrebbe chiamare “a capitello” (Fig. 11).

87 Come si è fatto troppo spesso in passato, anche da chi scrive, e come si continua a ripetere (per es. Bellelli 2005, p. 233, nota 62; Bonfante, Swaddling 2006, p. 53, fig. 39). 88 Parisi Presicce 2000, p. 78. Sulla stessa linea già vedi Vacano 1973, pp. 550-553, e ora Canu 2005, pp. 276284. 89 Nell’espressione citata in epigrafe a questo contributo. 90 Brown 1960, p. 27 sgg.; Micozzi 1994, pp. 83-87, con bibl. Aggiungi l’inedito leone da Poggio Gallinaro al Museo di Tarquinia.

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Fig. 22. Città del vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. “Presentatoio” dalla tomba Regolini Galassi (da Mühlestein 1929).

Fig. 24. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. Leone da un portico di Sakçagözü (da Temizer s.d.).

Fig. 23. Testa e parte anteriore della Lupa Capitolina (da Parisi Presicce 2000).

Si tratta di motivi di origine assira e siro-ittita – la criniera che scende dietro la spalla lasciandola scoperta e bene in vista,91 il collare continuo intorno al muso,92 le narici “a capitello”93 –, associati a quello, che di tutti è il più appariscente, della criniera dorsale, propria del leone etrusco “fenicizzante” (Brown), al quale rinvia anche il profilo relativamente snello

91 Nel leone assiro e siro-ittita (Fig. 24, da Temizer s.d., fig. 162), come anche in quello neo-babilonese, dell’Urartu (Akurgal 1966, fig. 141, tav. 46) e di Frigia (Prayon 1987, p. 56 sgg., tav. 6 a-b; eaa , Secondo Supplemento 1971-1994, i, 1994, tav. a p. 272), il prolungamento si salda in basso alla criniera ventrale (per es. Matthiae 1996, figg. 9.20, 10.3, 10.6-20; Akurgal 1966, figg. 12-15, 74 sg., tavv. 16, 23 b), di norma omessa in Etruria (con qualche eccezione, come il pendente d’oro edito in Tierbilder 1983, n. 86, e la placca bronzea riprodotta in Mühlestein 1929, tav. 152). La connessione può talora non essere compiutamente realizzata (per es. Frankfort 1954, tavv. 75 a-b, 87) o anche mancare del tutto (come nel leone di Sheih Saad nell’estremo sud della Siria: Jrku 1958, p. 131, tav. 97). Su ulteriori varietà del motivo cenni in Canciani 1970, p. 75 sg., note 36-38. 92 Leoni assiri e siro-ittiti: Akurgal 1966, p. 129, figg. 26, 73, tavv. 1, 8, 23 b. Leoni etruschi: Brown 1960, tav. xviii; Micozzi 1994, tav. vi b. Il motivo compare anche sui vasi del Chigi Painter protocorinzio (evidente in specie sull’aryballos Macmillan: Akurgal 1966, tav. 53). 93 Leoni siro-ittiti: Akurgal 1966, figg. 28, 67-69, tav. 21.

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dell’animale (che peraltro nel lupo è un dato di natura).94 Messi temporaneamente da parte dopo il 600 a.C., col prevalere di modi artistici d’intonazione corinzia e  in generale peloponnesiaca,95 questi aspetti dell’iconografia del leone orientalizzante tornarono in auge intorno alla metà del vi secolo, nel clima culturale intriso di ionismo allora dominante, che li  vide affermarsi largamente anche nel mondo greco.96 Con una sola, rilevante eccezione: il prolungamento della criniera al di là della Fig. 25. Pisa, Camposanto. Sarcofago romano spalla. Un motivo di antica ascendenza riutilizzato (da Stroszeck 1998). orientale, attestato in Mesopotamia fin dal iv e iii millennio a.C.,97 recepito a Creta tra viii e vii secolo a.C. ma non altrove nel mondo greco,98 totalmente dimenticato in Etruria dopo l’età orientalizzante. Per vederlo riapparire nell’Occidente greco e italiano si deve attendere l’età imperiale romana. Dopo un’isolata testimonianza dell’età di Tiberio, di impronta schiettamente ellenistica – il noto rilievo paesistico Grimani con la leonessa allattante i suoi piccoli –,99 il motivo compare nel corso del iii secolo su non pochi dei tanti sarcofagi a tinozza scolpiti a forte rilievo sui fianchi con leoni passanti o più spesso azzannanti la preda (Fig. 25).100 La sua presenza, spesso associata a un residuo di criniera sul ventre e sulle zampe, conferma la supposta dipendenza dei gruppi leonini di questi sarcofagi, peraltro di sicura produzione urbana, da prototipi orientali.101 Ed è proprio questo il tipo di leone, come rivela l’appendice di criniera dietro la spalla, che incontrò il massimo favore nella straordinaria rinascita dell’Antico che si ebbe a Pisa tra xii e xiii 94 Brown 1960, p. 28 sg. Cfr. Frankfort 1954, tavv. 172 B, 173 B; Akurgal 1966, pp. 142, 188 sg., figg. 47, 87, 89. 95 Una delle ultime attestazioni della criniera estesa dietro la spalla è offerta dal leone funerario, ormai di tipo “assiro”, da Valle Cappellana presso S. Giuliano (Colonna 1984, p. 50 sg., n. 10, tav. xix e, con bibl.). 96 Criniera dorsale: Brown 1960, pp. 28 sg., 87, 108-111, ecc., tavv. xxxi c, xlii a, xliii a, l b, li; Langlotz 1968, tav. 32 (arula da Centuripe con Eracle e il leone nemeo). Il collare continuo è meno comune della sua variante a curva interrotta all’altezza delle orecchie, ma è comunque bene attestato in Grecia (per es. Tierbilder 1983, n. 89 sg.) e in Etruria, anche nella scultura in pietra: Brown 1960, tavv. xxiv b, xxv b, xxvii a, xl c, xlii c, xliii d, xlviii f, xlix a, lii a-b, nonché il leone in pietra conservato a Houston, in cui compare assieme al naso “a capitello” (Bartoloni, Sprenger 1977, tav. 61). In Attica la criniera dorsale venne attribuita anche all’iconografia di Cerbero e di Orthros, i mostruosi cani infernali (limc vi, 1992, s.vv. «Kerberos» e «Orthros»), il primo in Etruria eccezionalmente raffigurato tout court come un leone (Bonaudo 2004, p. 143, fig. 81). Nel iv secolo a.C. la criniera sia del collo che dorsale fu estesa in Attica all’iconografia del feroce cane molosso in statue fungenti da monumento funerario (per es. Collignon 1911, p. 240 sg., fig. 158, e ora DAI Rom neg. 2006, 650-670, dal calco del Museo dei Gessi dell’Università “La Sapienza” di Roma). 97 Frankfort 1954, pp. 12, 19, tavv. 6 a-c, 11 b. 98 Bronzi cretesi: Coldstream 1977, p. 287, fig. 93 b (tranne il leone minore, o leonessa, del fregio interno); Rolley 1983, p. 67, fig. 48. Il motivo fa una timida apparizione anche su un’anfora attica del LG ii (Cook 1976, p. 35, fig. 23). 99 Proveniente dalla fontana monumentale eretta nel foro di Preneste in onore di Verrio Flacco: Dulière 1979, i, p. 117 sg., fig. 114; Coarelli 1987; Gatti 1996, p. 27 sgg., fig. 15. 100 Stroszeck 1998, nn. 171, 175, 189, 191, 193, 196, 209, 212, 215, 228, 243 (Camposanto di Pisa), 332, 342, 349, 352, 357, 361, 363, 365, 370, 376, 408. 101 Greco-asiatici per Scerrato 1952, p. 272, ma si veda infra, nota 107.

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Fig. 26. Cagliari, Cattedrale. Leone da un ambone di Guglielmo Pisano (da Carruba 2006).

secolo, ad opera di scultori quali Guglielmo Pisano (Fig. 26),102 Biduino, Nicola e Giovanni Pisano.103 Quanto alla lupa, il motivo in questione compare in età imperiale solo su due rilievi che la raffigurano nella grotta del Lupercale: un tondo decorante il teatro di Ilium Novum, di età antonina (Fig. 27), e un fianco del grande sarcofago Mattei con scene del mito di Romolo, di età severiana (Fig. 28).104 In quest’ultimo la quasi completa riduzione della banda di ciocche dietro la spalla a una fascia di linee ad andamento serpeggiante, denuncia chiaramente, assieme all’accenno di criniera ventrale, la dipendenza dai leoni dei sarcofagi citati,105 o eventualmente dai loro modelli, senza escludere il concomitante ricordo, quasi direi la “citazione”, della Lupa Capitolina, di cui quell’elemento costituisce il tratto iconografico maggiormente connotante.106 102 Pulpito del Duomo di Pisa, poi trasferito in quello di Cagliari, dove tuttora si trova, ma smontato (Carruba 2006, p. 42, fig. 45). 103 Biduino: sarcofago del Camposanto di Pisa (Testi Cristiani 2005, p. 423 sgg., figg. 480, 483; Rimini 2008, p. 69, fig. 12). Nicola Pisano: pulpito del Duomo di Pisa, poi trasferito nel Battistero (Testi Cristiani 2005, p. 425 sgg., fig. 485 sg.; Rimini 2008, l.c., fig. 11) e pulpito del Duomo di Siena (Testi Cristiani 2005, p. 429 sgg., fig. 487). Giovanni Pisano: pulpito di S. Andrea a Pistoia (ibid., p. 492, fig. 534). Oltralpe il tipo di leone dei sarcofagi romani fu echeggiato nel xii secolo dal leone bronzeo di Brunswick (Carruba 2006, p. 58 sg., n. 6). 104 Parisi Presicce 2000, p. 29, nota 25, fig. 10; p. 42, n. 20, fig. a p. 42 a destra, con bibl. 105 Cfr. in particolare Stroszeck 1998, nn. 228, 243, 365 e 376. 106 Nel qual caso la testa rivolta verso i gemelli sarebbe una concessione alla vulgata, che aveva avuto la sua consacrazione con la statua dedicata dai due Ogulnii nel 296 a.C., a quanto pare collocata nel Comizio (Coarelli 1995), luogo incomparabilmente più frequentato della grotta del Lupercale. Della statua che si trovava nella grotta in età augustea sappiamo solo (Dion. Hal. i, 79, 8) che «offriva ai due bambini le mammelle», non

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Fig. 27. Berlino, Musei Statali, Antikensammlung. Rilievo da Ilium Novum (da Dulière 1979).

Fig. 28. Città del Vaticano, Cortile del Belvedere. Fianco del sarcofago Mattei (da Parisi Presicce 2000).

Non è difficile risalire ai prototipi cui si rifanno per l’appendice della criniera dietro la spalla i monumenti citati. Nel rilievo Grimani e nel tondo di Ilium Novum il motivo è reso con una banda di ciocche plasticamente rilevate, che dal ventre salgono lungo la spalla senza arrivare a congiungersi in alto con la criniera del collo. Il modello va ricercato in questo caso nell’Oriente ellenistico, che ne offre una realizzazione monumentale nel rilievo del hierothésion del Nemrud-Dagh col leone recante l’oroscopo di Antioco I di Commagene (69-34 a.C.).107 Invece nella maggioranza dei citati LöwenSarkophage romani e nel sarcofago Mattei, come secoli prima nella Lupa, avviene il contrario: la banda di ciocche, ridotta per lo più a una sorta di nastro, scende dalla groppa dell’animale restando in basso priva di un collegamento, sia o no presente un accenno di criniera ventrale. Il motivo, echeggiato anche nelle più antiche oreficerie del periodo sassanide,108 risale all’iconografia conferita al leone, nel solco della grande tradizione assira e neo-babilonese,109 dalle maestranze attive presso la corte achemenide al tempo di Dario (522-486 a.C.) e di Serse (485-465 a.C.), che con ogni probabilità è stato anche il tempo della Lupa Capitolina. Nei leoni lottanti scolpiti sulle pareti delle imponenti scalinate della reggia di Persepoli (Fig. 29), così come nel leone di bronzo a tutto tondo da che volgeva la testa verso di loro (come suppone D’Alessio 2006, pp. 309, 314 sg., citando la rappresentazione della leggenda della lupa su uno specchio prenestino), ed era «di antica fattura»: giudizio stilistico che si confà meglio alla Lupa Capitolina che a un prodotto d’arte medio-repubblicana, qual è quello cui, peraltro assai ipoteticamente, allude lo specchio. 107 Humann, Puchstein 1890, pp. 329 sgg., 345 sgg., tav. xl; limc viii, 1997, s.v. «Zodiacus», p. 495, n. 20 con fig. Cfr. una gemma da Cipro di età giulio-claudia firmata da Hyllos: Boardman 1970, p. 365, tav. 1014; Karageorghis 1977, fig. 159. Per un’eco nell’arte sud-arabica: eua ii, 1958, col. 517, tav. 304. 108 Mi riferisco al piatto d’argento di tardo iii o inizio iv secolo con scena di caccia ai leoni (Ghirshman 1962, p. 209, tavv. 248-251; eaa vii, 1966, tav. a p. 64). 109 Che in un ambito periferico aveva già conosciuto qualcosa di simile: cfr. supra, nota 91 (Sheih Saad nel Hauran).

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Fig. 29. Persepoli, in situ. Rilievo dell’apadana di Dario (da Frankfort 1954).

Susa, fungente da peso (Fig. 30), per citare solo monumenti tra i più noti,110 ritroviamo il nastro di ciocche appiattite pendente sul fianco dell’animale, anche se curvato ad arco per contornare da vicino la spalla, accrescendone l’evidenza, e assai accorciato per lasciar spazio all’immancabile, e sempre ingombrante, criniera ventrale.111 Prescindendo da queste differenze, relative a peculiarità del modello rifiutate in Occidente perché troppo estranee all’immagine del leone divenuta in esso canonica, i connotati principali della componente leonina presente nell’iconografia della Lupa – ossia, lo ripetiamo, il prolungamento della criniera dietro la spalla, all’epoca costantemente omesso in Etruria da più di un secolo, e la sua riduzione a una banda di ciocche a forma di nastro – trovano l’unica possibilità di confronto nella contemporanea arte di corte persiana. Nella stessa direzione fanno guardare anche altri elementi, presenti per es. nei capitelli di Persepoli con busti di tori androcefali,112 quali la raggiera di sottili ciocche estroverse intorno al muso e il dettaglio della palpebra superiore sopravanzante l’inferiore nell’angolo esterno dell’occhio (Fig. 31).113 Tutto ciò conferma e dà forza al richiamo all’arte della Persia 110 Frankfort 1954, p. 230, tavv. 178 b, 179 b, 181, 188 a; Ghirshman 1964, pp. 192 sgg., 262 sg., figg. 240, 318; Amiet 1988, p. 133, fig. 84. Cfr. Temizer s.d., fig. 201. 111 Soluzioni che richiamano l’iconografia egiziana del leone e della sfinge (Porada 1965, p. 162), forse mediate da artisti ionici, dato che compaiono, non associate alla criniera ventrale e in forma meno sviluppata, su due statue di leoni arcaici da Mileto (Collignon 1911, p. 89, fig. 47; Pryce 1928, p. 113 sg., B 222, fig. 173, definito «like an Egyptian wig»; Gabelmann 1965, p. 92 sg., n. 127 sg., tav. 26 sg.) e anche, ma in forma diversa, su un bronzetto ritenuto ionico (Brown 1960, p. 112, nota 1, tav. lxii b). 112 Frankfort 1954, p. 232, tav. 185; Ghirshman 1964, fig. 213. 113 Trattamento che non ha pertanto il peso che si è voluto attribuirgli per abbassare la datazione della Lupa alla metà del v secolo (Riis 1967, p. 90 sg., seguito da v. Vacano 1973, p. 573).

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Fig. 30. Parigi, Louvre. Peso bronzeo da Susa (da Amiet 1988).

achemenide avanzato trent’anni fa dal Brendel a proposito della concezione puramente grafica e astratta del vello della Lupa, basata sulla ripetizione ad infinitum del motivo dei riccioli piegati a uncino («not unlike a modern question mark», come egli scrive).114 Come spiegare queste convergenze, di ordine sia iconografico che di stile, tra ambienti artistici coevi ma molto lontani geograficamente tra loro? La risposta non è facile. Il momento storico è quello, successivo all’intesa con Cartagine datante dalla battaglia del mare Sardo, in cui compaiono sporadicamente a Pyrgi e in altri centri dell’Etruria meridionale costiera, entro il contesto dello ionismo internazionale, motivi iconografici di origine egizia e vicino-orientale, anche assai antica, sempre peraltro in forme del tutto ellenizzate.115 Brendel pensava nel caso della Lupa che il modo di trattarne il vello fosse stato trasmesso in Occidente da uno scultore della Ionia d’Asia, già attivo in uno dei grandi cantieri achemenidi: a Roma quel trattamento sarebbe stato adottato da un coroplasta, diverso dal bronzista responsabile della fusione (che per lui è un greco), istruito artisticamente nel cantiere del tempio capitolino, alla scuola del Maestro dell’Apollo di Veio. Da qui la già ricordata definizione che lo studioso dava della Lupa come di una “bestia composita” anche per lo stile.116 L’aver riconosciuto che l’apporto greco-persiano 114 Brendel 1978, pp. 250, 253. Meraviglia che si sia arrivati a parlare della voluta rappresentazione di un «vello bagnato», traendone deduzioni ermeneutiche per il mito della Lupa (Carandini 2006, pp. 65, nota 179, e 276), oppure di un espediente disegnativo per evitare di «rendere il pelame in tre dimensioni» (Canu 2005, p. 283 sg., nota 1802). 115 Krauskopf 1991, spec. pp. 1269-1280; Krauskopf 2000, pp. 319-322. Cfr. anche Sannibale 2006, pp. 118 sgg., 130 sgg. 116 Cfr. nota 89. In un suo scritto postumo Brendel ribadisce che la Lupa «è la prima significativa opera d’arte esistente, fatta per Roma e a Roma» (Brendel 1979, p. 148).

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non è limitato all’aspetto formale del vello ma ne investe l’impianto iconografico e affiora anche in altre parti della statua, induce a ritornare sulla questione. Ci si può chiedere infatti se non sia preferibile pensare all’opera di un bronzista formatosi in un ambiente diverso da Roma ed assai più esposto alle suggestioni della prestigiosa arte achemenide, trasferitosi, come si raccontava avesse fatto non molto più tardi il faber elvezio Helicone,117 nella città – la “grande Roma” dei Tarquini e della prima Repubblica – divenuta l’attraente melting pot in cui tra il 530 e il 470 operarono, senza perdere la loro identità, artisti sia etruschi (di scuola veiente o cerite)118 che magnogreci o sicelioti (come Damofilo e Gorgaso).119 Al contatto col nuovo ambiente sarebbero in tal caso da addebitare i tratti “occidentali” esibiti dalla sua opera, dalle Fig. 31. Chicago, Oriental Institute. notazioni anatomiche (vene, costole, muParticolare di un capitello di Persepoli con scoli), che muovono e animano molta parte delle superfici, all’espressione quasi busto di toro androcefalo (da Frankfort 1954). umanizzata della maschera facciale, prodotta dall’affossamento delle occhiaie e dagli arditi corrugamenti che le sovrastano, fino alla criniera dorsale, (re)introdotta allora sia in Etruria che in Grecia tra gli attributi del leone e dei cani infernali, al fine di accrescerne la terribilità.120 Di fatto sembra obbiettivamente difficile che elementi siffatti, conviventi fianco a fianco con la fissità inanimata del vello in un connubio solo in parte riuscito (che faceva inorridire nell’800 un classicista benpensante come Emil Braun), siano da addebitare al retaggio culturale dell’autore invece che alla volontà di dar prova di un recente e ancora acerbo arricchimento delle proprie esperienze.121 * A questo punto assume inevitabilmente un peso a prima vista insospettato il recente accertamento della provenienza del minerale di rame, utilizzato per ottenere la lega con la quale è stata fusa la statua. Gli esperti hanno infatti potuto stabilire, grazie alla 117 Venuto a Roma non ad apprendere ma a esercitare la sua arte, secondo una tradizione che considerava, come obiettivo primario della grande invasione gallica del 400 a.C., non Chiusi (storiella della gelosia di un Arrunte per il tradimento della moglie con un Lucumone) ma Roma (Plin., n. h., xii, 2, 5, forse da Varrone). Cfr. Colonna 1998, p. 263 sg.; Sassatelli 2003, p. 234 sg. 118 Da ultimo Colonna 2008. 119 Da ultima Lulof 2007. Sull’intensità della componente ellenizzante nella Roma dell’epoca la dice lunga l’adozione della direzione destrorsa nella scrittura (Colonna 1980, pp. 48-50). 120 Supra, note 75 e 94. 121 A ciò si aggiunge, sul piano della tecnica, la velleità di affrontare la fusione di un bronzo di notevoli dimensioni senza possedere l’esperienza necessaria, a giudicare dalle vaste fessure prodotte sulle zampe posteriori della Lupa dalla dilatazione delle barre di armatura (Formigli 1985, p. 52, nota 85), avvenuta già nel corso della colata (Parisi Presicce 2000, p. 76, figg. 7-8), o dalla scarsa fluidità della colata stessa (Carruba 2006, p. 23 sg., fig. 23).

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Fig. 32. Scarabei di diaspro verde da Tharros. a) Cagliari, Museo Archeologico Nazionale (da Uberti 1978); b) Palermo, Museo Archeologico Regionale (da Milano 2004); c) Cagliari, Museo Archeologico Nazionale (da Milano 2004).

determinazione dell’isotopo del piombo contenuto in natura da quella componente della lega, che esso viene non dalla vicina Etruria, come sembrava scontato supporre, ma dalla Sardegna, e precisamente dalla zona di Calabona nella Nurra, sulla costa nord-occidentale dell’isola, nei pressi di Alghero.122 La provenienza del metallo di una statua ovviamente non s’identifica di per sé con la provenienza del suo autore, ma può esserne un indizio, specialmente in un grande centro urbano come Roma, privo non solo di risorse minerarie ma anche di una propria tradizione metallurgica (a differenza delle vicine città etrusche, a cominciare da Caere).123 Ora è un dato di fatto che la Sardegna è stata interessata, e proprio a causa delle sue notevolissime ricchezze minerarie, da rapporti eccezionalmente precoci e continuati col Vicino Oriente, e in particolare con Cipro e il Levante. Rapporti che portarono tra la metà dell’viii e quella del vii secolo alla fondazione sulle coste dell’isola di numerose città e scali fenici, il cui orientamento culturale non mutò col loro ingresso a pieno titolo, nella seconda metà del vi secolo, nell’orbita di Cartagine, che impose il suo dominio, a prezzo di aspre guerre, anche su una notevole parte della popolazione indigena.124 D’altra parte nello stesso momento storico, com’è ben noto, i Persiani con Ciro, Cambise e Dario inglobarono nel loro smisurato impero non solo l’intero Vicino Oriente, ma anche l’Egitto e la Cirenaica, portandone i confini a ridosso dei territori libici controllati da Cartagine.125 122 Gale, Giardino, Parisi Presicce 2005 (per Sant’Imbenia e i lingotti, p. 139). Un cenno già in Parisi Presicce 2000, pp. 9 e 83. La difficoltà nascente dall’assenza di tracce di coltivazione e anche di frequentazione antica nella zona di Calabona (Canu 2005, p. 145) è superata dalla constatazione che nel non lontano insediamento nuragico di Sant’Imbenia si sono rinvenuti, in un contesto cronologico di seconda metà dell’viii secolo a.C., lingotti di rame che all’analisi sono risultati provenienti dalla zona in questione (Gale, Giardino, Parisi Presicce 2005, p. 139). 123 Colonna 1994, p. 578, a proposito del “bronzo agilleo”; Bellelli 2005. 124 Bondí 2000, pp. 65-68; Bernardini 2000, pp. 185-189. Sul coinvolgimento dei Sardi, che continuo a ritenere determinante nell’opposizione al dominio punico: Colonna 1989, pp. 366-371. In tema di tracce archeologiche delle operazioni militari di Malco e dei Magonidi citerei non solo la devastazione dei siti di Cuccureddus e di M. Sirai ma anche quella, dal fortissimo valore simbolico, del complesso statuario di M. Prama (Bartoloni, Bernardini 2005, p. 71, nota 164). 125 Liverani 1988, pp. 919-928, carta a fig. 171. Sulla progettata sottomissione di Cartagine da parte di Cambise, impedita dal rifiuto opposto dai Fenici alla partecipazione della loro flotta alla spedizione: Herod. iii, 17, 19.

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Fig. 33. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Leone da Tharros (da Barreca 1981).

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Fig. 34. Roma, Museo Barracco. Leone da S. Antioco (da eaa vi, fig. 642).

In una situazione geopolitica come quella venutasi allora a creare sulle sponde del Mediterraneo non meraviglia, in linea di principio, che in Sardegna sia potuta arrivare già in età tardo-arcaica qualche eco di arte achemenide, mediata dall’Egitto, dalla Fenicia o da Cipro, anche se la scarsità dei reperti disponibili non rende agevole provarlo. Una testimonianza sicura, a mio avviso, è offerta da quattro scarabei della produzione in diaspro verde tipica di Tharros, databili tra la fine del vi e il v secolo a.C., in cui compare in un caso una testa di toro dalle arcate sopraccigliari rese con un fascio di pieghe ricurve come nei capitelli di Persepoli (Fig. 32 a),126 negli altri tre una figura di leone seduto con la testa in posizione frontale, attorniato da motivi egittizzanti di repertorio (due a Fig. 32 b, c).127 La criniera contorna la spalla descrivendo un arco come nei leoni assiri e achemenidi, nonché in qualche testimonianza di area greco-ionica imparentata con questi ultimi.128 La stessa disposizione della criniera a cavallo della spalla si osserva, con qualche difficoltà a causa della cattiva conservazione della pietra (arenaria), su una statua grande al vero di leone seduto (Fig. 33), rinvenuta, assieme al frammento di un’altra, nei pressi del c.d. tempio, in realtà un altare monumentale, di Tharros, datato tra il iv e il iii secolo a.C.129 Un’analoga collocazione santuariale avrà avuto la statua tardoarcaica di leone sdraiato di pregiato alabastro, di cui resta solo la grande protome con le sottostanti estremità delle zampe anteriori, resecata probabilmente a opera di scavatori clandestini (Fig. 34). Acquistata intorno al 1899 per il suo “museo” romano dal barone Barracco, che l’ha detta, senza ulteriori precisazioni, dalla Sardegna, la protome in 126 Uberti 1978, p. 162, tav. xiii, 7 (Museo di Cagliari). 127 Uberti 1986, pp. 124-126, fig. 176, in mezzo a sin. (Museo di Sassari): Milano 2004, p. 75, nn. 107 (Museo di Palermo) e 108 (Museo di Cagliari). 128 Per l’Assiria cfr. ad es. il peso bronzeo da Khorsabad (Brown 1960, tav. lxi f ), per la Ionia mi riferisco al bronzetto del museo di Baltimora citato supra, nota 111. 129 Scavo di G. Pesce degli anni ’50 del 900: Moscati 1980, p. 172, fig. 2; Barreca 1981, p. 375, fig. 398; Barreca 1986, p. 222, fig. 189 b; Perra 1998, pp. 151-155, fig. 29 sg., con bibl.

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realtà proviene, come risulta dalle carte Pollak, da S. Antioco.130 Nel suo caso l’accento vicino-orientale si percepisce nella stilizzazione delle narici, confrontabili per esempio con quelle del già citato leone bronzeo da Susa, mentre il largo collare di ciocche lisce mostra qualche affinità con le note teste leonine fungenti da gocciolatoio sul tetto dei templi di Imera e di Siracusa.131 Connessioni cipriote sembra invece avere il busto fittile di personaggio con barba, doppi baffi e turbante, forse una divinità, databile nel v secolo avanzato, proveniente dalla necropoli di Cagliari in località Tuvixeddu (Fig. 35).132 Come si vede quello che si conosce non è molto, ma forse basta per suffragare Fig. 35. Cagliari, Museo Nazionale. l’ipotesi che l’itinerario Persepoli-Roma, Busto fittile dalla località Tuvixeddu postulato da alcuni aspetti dell’iconografia (da Barreca 1981). e dello stile della Lupa, sia passato per la Sardegna, l’isola nella quale i Romani hanno acquistato i poco meno di cinque quintali di rame che si ritiene siano stati necessari per la fusione della statua (pesante 250 chili).133 Sappiamo dalla versione polibiana del trattato tra Cartagine e Roma del 509 a.C. che ai mercatores romani era concesso di commerciare nell’isola solo se le transazioni avvenivano sotto il controllo e con la garanzia dello stato cartaginese.134 Il che nel caso in discorso accresce notevolmente la rilevanza dell’operazione, facendole assumere con ogni probabilità anche un risvolto politico-diplomatico. Si trattava infatti di un acquisto fatto per conto non di privati cittadini ma del popolo romano, concernente un donario che, data l’eccezionalità per il contesto etrusco-laziale dell’epoca di una statua di bronzo fuso di dimensioni medio-grandi,135 non poteva che essere un monumento pubblico, offerto dalla città non con una generica funzione apotropaica, come spesso si è scritto, ma con un preciso significato celebrativo, relativo alla saga delle origini.136 L’episodio ci insegna che, entrata in rotta con le città etrusche in seguito alla cacciata dei Tarquini e ben presto impegnata nel duello mortale con Veio, la Roma repubblicana ha cercato e ottenuto nel 492 a.C. il grano e l’amicizia del tiranno Gelone,137 ma per i 130 Barracco 1910, p. 21, n. 59 («l’unico esempio conservato della grande scultura fenicia trovato finora in Sardegna»); Pietrangeli 1960, p. 41, n. 59; Brown 1960, p. 116, tav. xliv b; Nota Santi, Cimino 1991, p. 44, fig. 4; Aa.Vv. 1996, p. 125 sgg. Il silenzio osservato nei suoi confronti da parte degli studiosi sia della Sardegna che dell’arte fenicia mi aveva fatto sospettare della sua autenticità, che risulta invece confermata dall’ultima pubblicazione citata, di cui devo la conoscenza alla squisita cortesia della dott.ssa Nota Santi. 131 Langlotz 1968, p. 280 sg., tavv. 76-79; Mertens 2006, pp. 268, 271, figg. 476, 478 sg., 489. 132 Barreca 1981, p. 376, fig. 426; Ribichini, Xella 1994, p. 102, fig. 34. 133 Carruba 2006, p. 26, nota 19. 134 Bondí 1988, p. 179 sg.; Zucca 2006, p. 27 sg. 135 A detta di Plinio il Vecchio (n. h., xxxiv, 15) l’esempio più antico a Roma, almeno nell’ambito delle raffigurazioni di divinità, era la statua dedicata a Cerere nel 484 a.C., verosimilmente nel tempio della triade aventina, col bronzo acquistato grazie alla confisca dei beni di Spurio Cassio (Colonna 1983, p. 62; Zevi 1987, p. 130 sg.). Se veramente nella stessa occasione furono fatte offerte anche in altri luoghi sacri (Dion. Hal. viii, 79, 3), la Lupa Capitolina in teoria potrebbe aver fatto parte del loro numero. 136 Probabilmente nella grotta-santuario del Lupercale (cfr. supra, nota 106). 137 Liv. ii, 34; Dion. Hal. vii, 1, 3. Cfr. Colonna 1980-81, p. 167.

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metalli – compreso forse quel ferro che secondo la tradizione antiquaria Porsenna aveva vietato ai Romani di usare se non per lo strumentario agricolo, ossia per la sola sopravvivenza sul piano alimentare138 –, si è rivolta all’alleata Cartagine, forse giovandosi del consiglio e della mediazione dello stesso bronzista che sarebbe stato l’autore della Lupa. È ovvio pensare che i lingotti di rame siano stati acquistati in un mercato della costa nord-orientale dell’isola, in quella che era da poco divenuta un’epicrazia punica, probabilmente facendo capo a Olbia, che esisteva già molto prima di ricevere dai Cartaginesi la sua forma urbana.139 Che sia stato di origine sarda, anche se da qualche tempo immigrato a Roma, il bronzista che ha modellato e fuso la Lupa naturalmente non può essere provato. Lo rendono comunque proponibile, se non m’inganno, non solo le considerazioni già fatte sulle reminiscenze vicino-orientali percepibili nella sua opera sul piano iconografico e stilistico, ma anche due dati tecnici pure già menzionati, che mal si attagliano all’operato di un bronzista etrusco o greco. Uno di essi è la scarsa dimestichezza con la fusione cava di bronzi della statura della Lupa, dimostrata dai macroscopici difetti di fusione esibiti ab origine dalle zampe posteriori della statua: difetti che non si è tentato di risarcire né con tasselli né con ricolate, dando un ulteriore segnale di poca capacità.140 Un deficit di esperienza comprensibile in un bronzista proveniente da un ambiente artigianale di antica tradizione metallurgica ma in cui la grande statuaria bronzea non risulta sia stata coltivata, né sul versante nuragico né su quello fenicio,141 a differenza della cospicua produzione di piccola plastica. L’altro dato è la quasi assente rifinitura a freddo delle superfici, che già nell’800 il Braun non aveva mancato di rilevare nel suo giudizio totalmente negativo sull’opera:142 rifinitura alquanto trascurata anche nella pur per altri aspetti brillante produzione dei bronzi nuragici. Più di questo non saprei dire. Sono grato, per l’aiuto ricevuto in varie forme e occasioni, a Laura Michetti Nigro, Nadia Canu e Marco Rendeli, oltre che a Gilda Bartoloni per la pazienza con cui ha atteso questo contributo. Bibliografia Aa.Vv. 1996: Arte del Vicino Oriente Antico (Quaderni archeologici del Museo Barracco, n. 4), Roma, 1996. Akurgal 1966: E. Akurgal, Orient und Okzident, Baden-Baden, 1966 (trad. it., Milano, 1969). Amiet 1988: P. Amiet, Suse. 6000 ans d’histoire, Paris, 1988. Barreca 1981: F. Barreca, «La Sardegna e i Fenici», in Ichnussa. La Sardegna dalle origini all’età classica, Milano, 1981, pp. 349-417. 138 Plin., n. h. xxxiv, 139 (il divieto è ricordato perché avrebbe provocato la sostituzione “autarchica” dell’osso al ferro nella produzione degli stili per scrivere). Cfr. Colonna 2000, p. 278, nota 4. 139 D’Oriano 2000 e 2005. 140 Cfr. supra, nota 121. La loro ubicazione sul lato “posteriore” della statua li rendeva in qualche modo tollerabili solo se la Lupa era posta a ridosso di una parete (il che privilegia la sua collocazione nel Lupercale, entro o appena fuori della grotta, ai piedi della rupe del Palatino: supra, note 23 e 106). 141 A parte la notizia della statua bronzea del Sardus Pater vista a Delfi sulla terrazza del tempio di Apollo da Pausania (x, 17, 1), che poteva però essere a fusione piena, ovviamente di ridotte dimensioni. Un anathema che continuo a credere sia stato offerto non dai Cartaginesi ma dai Sardi, e forse proprio dopo la vittoria su Malco (Colonna 1989, p. 370 sg.; Colonna 1993, pp. 59-61), sia stata o no conseguita assieme a qualcuna delle città fenicie di Sardegna, a cominciare da Tharros (la cui pacifica convivenza coi nativi è dimostrata a mio avviso dal complesso santuariale di M. Prama, situato in quello che era il suo immediato e vitale retroterra). Cfr. anche supra, nota 124. 142 Supra, nota 86. Il Braun riconosceva nelle fessure delle zampe un difetto di fusione, aggiungendo che esso «non meraviglia in un’opera così rozza da non lasciar scorgere alcuna traccia del cesello rifinitore» (p. 126).

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A P ROPOSITO DEL PRI M O T RAT TATO ROMANO- CARTAG IN E S E ( E DELLA DONAZ IONE PYRG E N S E A D A S TA RT E ) remetto a quel che dirò che non intendo riaprire la discussione sull’autenticità del primo trattato tra Roma e Cartagine, di cui ci informa il solo Polibio,1 rivendicando con una punta di orgoglio che ai suoi tempi nemmeno i più anziani e «quelli che sembrerebbero più esperti di cose politiche», ossia di cose della città e della sua storia, mostravano di averne conoscenza.2 Ritengo infatti, con la maggioranza degli studiosi, che la testimonianza dello storico greco sia del tutto attendibile, ovviamente nei limiti, dichiarati da lui stesso, di quella che era al suo tempo l’intelligibilità di un testo redatto in un latino preletterario, risalente a età propriamente arcaica (limiti che comunque non potevano concernere la menzione e l’onomastica dei magistrati eponimi, Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, e quindi non tali a mio avviso da inficiare la datazione del documento verso la fine del primo anno della Repubblica, ossia al 509/508 a.C.).3 Vorrei invece soffermarmi sulle testimonianze monumentali ed epigrafiche che è lecito porre in relazione col trattato, sia coeve che precedenti o successive, basandomi quindi esclusivamente, anche per non essere troppo lungo, sull’evidenza materiale che abbiamo oggi a disposizione.4 Evidenza che credo possa essere incrementata, come dirò, da un nuovo, straordinario cimelio epigrafico, da poco pubblicato.

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1. Il primo posto, tra i monumenti approssimativamente coevi al trattato giunti fino a noi, spetta com’è ovvio alle lamine auree, venute in luce quarantacinque anni fa, nel luglio 1 iii, 22-23. 2 iii, 26, 2 (trad. di C. Schick). Polibio parla al plurale dei trattati romano-cartaginesi, ma è ovvia l’allusione al primo di essi, del tutto ignorato sia dal siceliota Filino che dagli annalisti romani. Il trattato era inciso come gli altri su una tavola bronzea, conservata «nell’aerarium degli edili presso il Giove Capitolino» (iii, 26, 1). Aerarium da identificare o con l’atrium publicum in Capitolio, ricordato da Livio perché colpito da un fulmine nel 214 a.C. (xxiv, 10) (D. Palombi, in ltur i, 1993, s.v.), o, meglio, con un edificio non altrimenti noto (Walbank 1957, p. 353 sg.; E. Papi, in ltur v, 1999, p. 222), per il quale, stando alla lettera della locuzione polibiana («presso il dio», non presso il suo tempio), si è pensato a una parte dello stesso tempio capitolino (Wissowa 1912, p. 128, seguendo il parere del Mommsen). A mio avviso potrebbe trattarsi di uno o di entrambi i grandi vani del posticum, di cui sono apparse le fondazioni negli scavi recenti (Sommella Mura 1997-1998, fig. 6), situati dietro il muro di fondo delle tre celle e quindi in immediata prossimità al colossale simulacro del dio (su cui Colonna 2009, p. 55 sg.): vani appartenenti al progetto originario dell’edificio, assimilabili all’opistodomo di un tempio greco (di cui è attestata la funzione secondaria di archivio: vedi appresso). 3 Datazione ribadita con la precisazione che i magistrati – in realtà il solo M. Orazio, il cui nome appariva nell’iscrizione commemorante l’evento, testi Liv. vii, 3, 8 e Dion. Hal. v, 35, 3 (Latte 1960, p. 150, nota 2) – erano gli stessi che avevano dedicato il tempio di Giove Capitolino (Polyb. iii, 22, 1). Il fatto che la menzione degli eponimi sia premessa da Polibio alla sua parafrasi del trattato non è a mio avviso argomento sufficiente per espungerla dal testo da lui conosciuto (così tra gli altri Mastrocinque 1988, p. 215, nota 14: l’ipotesi di una trasmissione indipendente dei nomi degli eponimi va contro l’affermazione di Polibio circa la generale ignoranza del primo trattato, di cui a nota 2). Da notare anche che il giuramento del primo trattato sarebbe avvenuto da parte romana «al modo antico», ossia per Iovem lapidem (Latte 1960, pp. 122-124), mentre per quello del secondo sarebbero stati invocati Marte e Quirino (iii, 25, 6-9). Eventuali difficoltà nella lettura del testo da parte di Polibio e di chi lo assisteva sono da presumere inesistenti, data la sua incisione su bronzo (cfr. nota 2). 4 I disegni delle Figg. 2-5 sono opera di Sergio Barberini, mio prezioso e intelligente collaboratore.

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Fig. 1. Le lamine d’oro di Pyrgi (a ds. le due che costituiscono la bilingue etrusco-fenicia) (dis. A. Morandi).

del 1964, nel corso degli scavi condotti a Pyrgi dall’Università di Roma (Fig. 1).5 Su di esse si è scritto molto, forse anche troppo, ma nondimeno, facendo tesoro dei progressi conseguiti col tempo dalla ricerca, non appare ozioso ritornare su alcune questioni. A cominciare da quella del supporto cui le lamine erano affisse. Si è detto che l’affissione era probabilmente avvenuta nel pronao del tempio B, ma dove esattamente? La natura sicuramente lignea del supporto, la sua robustezza e la preziosità del metallo delle lamine mi hanno indotto in passato a pensare a una delle valvae della porta della cella, cui riferivo anche i chiodi con larga testa rivestita di lamina d’oro rinvenuti nella stessa ‘vasca’ di deposito o nei pressi.6 Credo tuttavia oggi più verosimile che tanto le lamine quanto i chiodi fossero affissi sul fianco interno degli stipiti (postes) della porta, che avevano notevole spessore.7 La materia lignea sia di quegli elementi che dell’architrave è presupposta dal fregio fittile di palmette ‘dentate’ e fiori di loto, di raffinato stile ionico (un unicum!), che era inchiodato sulle loro facce esterne, anteriore e posteriore, sì da incorniciare la porta da entrambi i lati (Figg. 2-4).8 Sappiamo che nel mondo greco le iscri5 Da ultimo Maras 2009, pp. 349-354, con bibl. Si è arrivati a definire enfaticamente la loro scoperta «eine Sternstunde in der etruskologischen Forschung des 20. Jahrhundert» (Weeber 1985, p. 37). 6 Colonna 1965, p. 204 sg. (= Colonna 2005a, iv, pp. 2169-2171); Colonna 2000a, p. 294, nota 169. 7 Il muro anteriore della cella, in cui si apriva la porta, aveva uno spessore pari, o addirittura superiore (a giudicare dalla sua fondazione), a quello dei muri d’anta del pronao, misuranti alla base, come attestano i blocchi superstiti della loro sommità (reimpiegati per costruire la ‘vasca’ delle lamine), circa m 0,90, ossia tre piedi attici (Colonna 1970, pp. 282 sg., 600). 8 Edizione dei frammenti del fregio, con tentativo di ricostruzione dell’intera cornice, in Melis 1970, pp. 380-387, figg. 299-304, e in Pyrgi 1988-1989, p. 204, fig. 171 (l’assenza di proiecturae dell’architrave sorprende in Etruria in questa età, ma è in linea con l’ispirazione ellenizzante dell’intera costruzione). Poiché l’unica porta del tempio era quella della cella, la replica della cornice sul lato della porta rivolto verso l’interno è postulata dal numero dei frammenti di lastre del fregio tagliate a 46º, pertinenti a non meno di otto esemplari (Melis 1970,

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Fig. 2. Ipotesi ricostruttiva del prospetto della porta della cella del tempio B, basata su Pyrgi 1970, fig. 304 (dis. S. Barberini).

zioni esposte all’interno dei templi – di cui già Timeo era stato un accanito ricercatore, come scrive Polibio (pur criticandolo per il cattivo uso che ne avrebbe fatto) – si trovavano preferibilmente o negli opistodomi, su stele a sé stanti, o nei pronai, sugli stipiti (phliái) della porta della cella (Polyb. xii, 11, 2). Il particolare valore che si annetteva agli stipiti, in quanto pars pro toto del tempio, era esaltato nella vicina Roma dal rito della dedicatio (e consecratio), che prevedeva fin da quella che per noi ne è la più antica attestazione, concernente anche in questo caso il tempio capitolino, il gesto di postem tenere p. 385), e quindi a non meno di quattro incontri angolari tra stipiti e architrave. Considerata la larghezza del fregio fittile (m 0,19), si può ritenere che ogni stipite constasse di tre montanti di m 0,20 × 0,30, posti in opera col lato lungo verso la porta. Attribuendo ai battenti di quest’ultima uno spessore di m 0,15, il fianco dello stipite adiacente alla porta risultava largo m 0,375, misura che consentiva l’affissione sia delle tre lamine d’oro affiancate (larghe ognuna circa cm 9) che, in un secondo momento, della lamina bronzea, larga circa cm 29, in origine affissa al muro di cinta dell’area C (come proposto in Colonna 2000a, pp. 298-303, fig. 32).

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Fig. 3. Ipotesi ricostruttiva della pianta degli stipiti e della porta della cella del tempio B (dis. S. Barberini).

Figg. 4-5. Ipotesi di collocazione delle lamine e dei chiodi a testa d’oro su uno stipite della porta della cella del tempio B (dis. S. Barberini).

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con entrambe le mani da parte del magistrato durante la cerimonia.9 Se un rito analogo era praticato a Caere, com’è verosimile,10 le lamine saranno state affisse là dove aveva appoggiato le mani il dedicante del tempio (che quasi certamente era stato lo stesso Thefarie Velianas!), nel giorno che ne aveva segnato a tutti gli effetti la ‘nascita’ (il dies natalis della tradizione romana). Quanto agli otto chiodi di ferro con grossa testa bronzea rivestita di lamina d’oro, rinvenuti assieme alle lamine iscritte, si tratta certamente di bullae, ma il diametro delle loro teste – cm 2,4-2,9 – è in realtà troppo esiguo per una decorazione della porta, in specie se comparato a quello delle borchie affisse sulle porte riprodotte nelle coeve pitture delle tombe tarquiniesi. Si adatta bene, invece, all’interpretazione funzionale dei chiodi come clavi annales, affacciata inizialmente, a titolo di suggestione, da Garbini e Pallottino, ma poi da entrambi lasciata cadere.11 Clavi assimilati di fatto, grazie al rivestimento in oro della loro testa, una volta infissi nel legno, ad autentiche bullae, l’Etruscum aurum per eccellenza,12 e come tali a quanto pare identificati nella chiusa del testo etrusco,13 mentre l’estensore della versione fenicia – che poco sapeva di quel particolare tipo di oggetto e del suo significato profilattico-augurale – li ha assimilati poeticamente per la loro lucentezza alle stelle del cielo. Clavi che erano infissi non sull’uscio ma sulla faccia degli stipiti non ricoperta dal fregio di terracotta (Fig. 5), la cui superficie era sufficiente ad accoglierne in teoria molte centinaia, restando sempre nella prossimità delle lamine.14 I testi delle due lamine affisse fianco a fianco per prime, approssimativamente di pari lunghezza, costituiscono l’ormai giustamente famosa bilingue etrusco-fenicia, che non solo è l’unica bilingue finora restituita dall’epigrafia etrusca,15 se prescindiamo dai banali titoli funerari etrusco-latini di i secolo a.C.,16 ma è anche la più antica bilingue dell’epigrafia fenicio-punica d’Occidente. Il nesso indiretto, ma sostanziale, esistente tra il trattato e la bilingue risiede non solo e non tanto nella redazione di quest’ultima per l’appunto in etrusco e nella lingua di Cartagine, quanto nella testimonianza da essa recata dell’introduzione ufficiale nel santuario di Pyrgi – il più illustre dello stato ceretano, la cui origine era fatta risalire agli stessi Pelasgi ritenuti fondatori di Agylla – del culto di una Uni assimilata in toto alla fenicia Astarte. Introduzione avvenuta per personale 9 Liv. ii, 8, 6-8; Cic., dom. 20, ecc. Cfr. Wissowa 1912, p. 473, nota 1; Latte 1960, p. 200 sg., § 64; Lambrinoudakis 2005, pp. 304, 341. 10 Tenendo conto di quanto si ricava dallo stesso testo delle lamine (Colonna 1965, pp. 217-219 = Colonna 2005a, iv, pp. 2178-2180). 11 Garbini 1964, p. 74; Pallottino 1964, pp. 97 e 103 sg., seguiti tra gli altri da Mazzarino 1966, pp. 352 e 407. Presa di distanza di entrambi in Lamine di Pyrgi 1970, pp. 56 sg. e 60. L’associazione gambo di ferro/capocchia di bronzo, che presuppone un gambo di notevole lunghezza, è attestata anche per i chiodi di Murlo e di Satricum (Colonna 2005a, ii, 2, p. 1217, nota 81). 12 Pfiffig 1975, pp. 361-363. Cfr. Goette 1986. 13 La corrispondenza lessicale (ed etimologica?) tra pulum(¯˘·) e lat. bulla (Durante 1965, p. 312 sg.) è anche a mio avviso probabile, per cui ho proposto anni fa di tradurre in questi termini la chiusa: «del luogo sacro (acnaÛver) invero gli anni (sono) quanti queste (eniaca) bulle» (Colonna 2000a, p. 336). Sul valore di eniaca conto di ritornare altrove. 14 Anche nel tempio di Giove Capitolino i clavi erano non sulla porta della cella di Minerva ma su una parete laterale, verosimilmente del pronao, assieme alla lex vetusta … priscis litteris verbisque scripta, recante il nome di M. Orazio, che ne prescriveva l’infissione (Liv. vii, 3, 5-8: cfr. Heurgon 1964). Il riferimento nella lamina fenicia di Pyrgi a «queste stelle» presuppone che almeno uno dei clavi sia stato infisso insieme alla bilingue, e di conseguenza che questa sia stata esposta in occasione del primo anniversario della dedica del tempio. 15 Non esito a considerarla tale, nonostante talune evidenti discordanze tra i due testi, dovute al diverso pubblico di lettori cui teoricamente si rivolgevano e soprattutto alla diversa formazione culturale dei rispettivi estensori (per il testo fenicio vedi più avanti). Ricordo che per il linguista Giorgio R. Cardona «le lamine [di Pyrgi] sono uno degli esempi più interessanti di documento bilingue e biculturale, interessanti proprio per le domande che sollevano più che per le risposte che forniscono» (Cardona 1988, p. 9 sg.). 16 Raccolti in Benelli 1994. Cfr. anche Benelli 2007, pp. 136-138, 143 sg., 152 sg., 175 sg.; Hadas-Lebel 2004, pp. 349-387.

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iniziativa di un «re» di Caere, Thefarie Velianas, in segno di riconoscenza per l’aiuto ricevuto nella sua ascesa al potere. L’evidente significato politico dell’evento, e la sua ambientazione nel momento storico che vide a Roma la conclusione dell’intesa diplomatica con Cartagine, fu avvertito da Massimo Pallottino fin dal momento della scoperta. Inaugurando nel dicembre dello stesso anno i corsi dell’Istituto di Studi Romani Pallottino affermò: «i nuovi documenti di Pyrgi si inseriscono come prova decisiva, se non erro, a favore della storicità e della datazione arcaica del primo trattato romano-cartaginese».17 La constatazione, ripetuta con le stesse o con altre parole in tutti i molti interventi del grande etruscologo sull’argomento,18 è stata largamente ripresa dagli storici della Roma arcaica.19 Con essa Pallottino, grazie all’acuta sensibilità per il farsi della storia che lo ha sempre accompagnato, coglieva indubbiamente nel segno, anche se poi finiva con l’indebolire la sua intuizione quando, in quella e in altre occasioni, datava le lamine «agli anni intorno al 500 o al primo decennio del v secolo».20 Il che non solo le separava cronologicamente, seppure di poco, dalla stipulazione del trattato polibiano, ma, quel che più conta, induceva lo Studioso a riferire il culto di Astarte, cito ancora le parole della prolusione del 1964, «a un’edicola eretta intorno o dentro il secondo tempio scavato a Pyrgi [cioè il tempio B], se non si tratta addirittura del tempio stesso».21 Allusione questa alla tesi da me prospettata nel contributo sulle risultanze dello scavo apparso nell’editio princeps della scoperta,22 in cui tra l’altro introducevo nella discussione la testimonianza di Agostino (Heptat. vii, 16), poi largamente ripresa nella letteratura, secondo la quale l’interpretatio Punica di Iuno – e quindi di Uni, sua omologa etrusca –, era per l’appunto Astarte.23 I progressi compiuti nell’esegesi testuale delle lamine consentono oggi di ritenere che il dono di Thefarie Velianas a Uni/Astarte concerneva non solo il tempio propriamente detto (chiamato šr qdš nel testo fenicio, tmia nell’etrusco), accogliente al suo interno la cella (tw nel testo fenicio, *tamera nell’etrusco) ai cui stipiti erano verosimilmente affisse le lamine, ma l’intero santuario, che consisteva in un recinto murato – un temenos – includente, oltre al tempio e al suo altare, che ne erano le componenti essenziali, una serie di annessi (stanze, recinti minori, pozzi, altari secondari, ecc.), sì da poter essere inteso, non diversamente che nella Bibbia e in generale nel mondo vicino-orientale, come la “casa”, la “residenza” della dea (bt nel testo fenicio, *heramva e il plurale *heramaÛva nel testo etrusco, forse propriamente le “stanze”, con riferimento specifico al c.d. edificio delle venti celle) (Figg. 6-7).24 L’attendibilità del riferimento di mqdš, si17 Pallottino 1965, p. 9 (= Pallottino 1979, i, p. 384). 18 Fino al libro Origini e storia primitiva di Roma, Milano, 1993, pp. 298 e 388. 19 Mi limito a citare. Ogilvie 1976, p. 82 sg.; Ampolo 1983, p. 16, nota 19; Cornell 1995, p. 212; Ampolo 1996, p. 245. 20 Pallottino 1965, p. 12 (= Pallottino 1979, i, p. 387). L’anno dopo, parlando ai Lincei, dirà: «si datano certamente all’inizio del v secolo» (ibid., p. 396). Nel 1970, tracciando una sintesi delle questioni concernenti le Lamine, non escluderà una datazione del ‘regno’ di Thefarie «verso la fine del primo venticinquennio del v secolo» (in Pyrgi 1970, p. 741), aprendo la via alle infondate speculazioni di M. Cristofani circa la seriorità dell’area C rispetto al tempio B (cui ho risposto in Colonna 1989-1990, p. 215 sg. [= Colonna 2005a, iv, p. 2288 sg.]). 21 Pallottino 1979, i, p. 382. Determinante al riguardo era per lui l’orientamento dei semitisti, ai quali appariva inconcepibile che fosse dedicato ad Astarte un tempio ‘greco’ come il tempio B di Pyrgi. 22 Colonna 1964, p. 56. Proposta meglio argomentata in Colonna 1965a, pp. 206-208 e Colonna 1965b, pp. 286-290 (ora rispettivamente in Colonna 2005a, iv, pp. 2168-2170 e 2181-2184). 23 Colonna 1964, p. 56; Colonna 1989-1990, p. 199 sg. (= Colonna 2005a, iv, p. 2273). 24 Colonna 1989-1990 (= Colonna 2005a, iv, pp. 2271-2289). Cfr. anche Colonna 2000a, pp. 296-298, fig. 30 sg. Cristofani in uno dei suoi ultimi scritti (Sulla dedica di Pyrgi, ristampato in Cristofani 2001, iii, pp. 12051212) ritorna sull’ipotesi che lo ’šr qdš sia da identificare con l’area C e il tw con una “camera” o “edicola” in essa contenuta (p. 1211, nota 22), continuando a fraintendere i dati stratigrafici e planimetrici dell’Area (sui quali sono ritornato da ultimo in Colonna 2007b, p. 10, fig. 3).

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Fig. 6. Il santuario monumentale di Pyrgi all’epoca di Thefarie Velianas coi riferimenti spaziali desunti dalla lamina fenicia (rielaborazione da Colonna 2000a, fig. 30).

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Fig. 7. Il santuario monumentale di Pyrgi all’epoca di Thefarie Velianas coi riferimenti spaziali desunti dalla lamina etrusca lunga (rielaborazione da Colonna 2000a, fig. 31).

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nonimo recenziore di (’šr) qdš,25 all’edificio templare, già attestata dalla bilingue latinopunica di Sulcis in cui il termine è reso in latino con aedes,26 è ora confermata dalle iscrizioni neo-puniche del santuario di Astante a Malta, il fanum Iunonis di Cicerone, apposte sulla suppellettile vascolare usata nel culto, in cui l’espressione ’šh mqdš, «(proprietà) del santuario», come intende M. Giulia Amadasi, è resa in greco con ÔÈÎÔ˘, «(proprietà) dell’oikos», ossia, alla latina, “dell’aedes”, identificata per metonimia col santuario (il fanum di Cicerone).27 Ne deriva che la datazione del tempio B è la stessa della bilingue, la cui funzione è di commemorarne solennemente l’avvenuta dedicatio. Ora il ricco apparato decorativo del tempio, il ‘tetto’ del tempio (e quello, consistente nelle sole antefisse, del citato edificio delle venti celle, ossia del più notevole architettonicamente dei suoi annessi), si data per suo conto, indipendentemente dalle lamine, intorno al 510 a.C., ossia all’inizio della svolta ‘campanizzante’ che investì allora la coroplastica templare etrusca, come da tempo ho proposto,28 riscuotendo ora il consenso della maggiore specialista in materia di terrecotte architettoniche arcaiche, sia greche che etrusche.29 La quantità di confronti, stilistici e tipologici, offerti dai templi del triangolo Caere-Veio-Roma, a cominciare da quello di poco più recente in loc. Portonaccio a Veio,30 rende a mio avviso assolutamente certa questa datazione, che può oscillare solo di qualche anno, alla pari di tutte le datazioni formulate su base soltanto archeologica. Il momento storico che vide a Pyrgi l’ostentata donazione di Thefarie e a Roma la stipulazione del primo trattato con Cartagine è pertanto quello del definitivo assoggettamento da parte della metropoli africana delle colonie fenicie, e degli indigeni con esse in rapporto, non solo della Sardegna ma anche della Sicilia nord-occidentale, una volta conclusa la breve avventura in quei luoghi dello spartano Dorieo. Ed è dal veneratissimo santuario elimo di Erice – piuttosto che da quello alquanto defilato di Malta, dove la dea era ugualmente venerata – che con buona probabilità il culto di Astarte è irradiato fino a Pyrgi (seguendo l’itinerario che tre secoli dopo, tramontata l’intesa romano-cartaginese, sarà ripercorso dal culto di Venere Ericina per approdare a Roma).31 Possiamo aggiungere al riguardo che quello dell’Astarte di Pyrgi è, insieme al culto di Era insediato alla fine del iv sec. a.C. nell’area centrale della città,32 l’unico esempio etrusco a noi noto del genere di culti che l’antiquaria romana di età augustea, teste il De verborum significatu di Verrio, definiva peregrina sacra, distinguendo tra quelli “evocati” in circostanze di guerra e quelli quae ob quasdam religiones in pacem sunt petita.33 Categoria quest’ultima esemplificata con la citazione del culto di Cerere venuto a Roma “dalla Grecia”, di Esculapio venuto da Epidauro e della Magna Mater venuto dalla Frigia: culti quae coluntur eodem more, a quibus sunt accepta.34 Nel caso del culto pyrgense di Astarte è ovvio identificare la religio che ne aveva provocato l’introduzione nella “richiesta” rivolta a Thefarie dalla stessa dea in cambio dell’aiuto concessogli nell’ascesa al potere, “richiesta” espressa da un verbo che in fenicio è ’rš, in etrusco il passivo vatie¯e. Ed è del tutto verosimile che la dea sia stata accompagnata da sacerdotesse della stessa provenienza, 25 Corrispondenza liquidata come «congetturale» da Garbini 1992, p. 84, nota 26. Ma si veda Lipiński 1992, p. 381, s.v. sacré, saint. 26 Colonna 2005a, iv, pp. 2183, nota 11, p. 2277. 27 Amadasi Guzzo 2000, p. 184 sg. 28 Da ultimo Colonna 2000a, pp. 275-294. 29 Winter 2009, pp. 350, 491. Concorda con questa datazione anche il riesame della ceramica attica restituita dai terrapieni di fondazione (Reusser 2002, ii, p. 77 sg.). 30 Da ultimi Colonna 2009 e Carlucci 2009. 31 Lacam 2010, p. 162. 32 Colonna 2004, p. 79 sg. 33 Fest. p. 268 L., ll. 27-33. Nell’epitome di Paolo: peregrina sacra sunt dicta, quae ab aliis urbibus religionis gratia sunt accepta (p. 269 L.). Cfr. Wissowa 1912, p. 45 sg. 34 Fest. p. 268 L., l. 32 sg.

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secondo la prassi attestata per i sacra peregrina sin dall’età arcaica, come insegna il caso, solo di pochi anni più recente (493 a.C.), del citato culto di Cerere – in realtà di Cerere, Libero e Libera, identificatio Romana di Demetra, Dioniso e Core –, officiato sulle pendici dell’Aventino da sacerdotesse di lingua greca fatte venire dall’Italia meridionale35 o piuttosto dalla Sicilia (dove subito dopo i Romani avrebbero ottenuto il grano della frumentazione del 492/1 a.C.).36 L’estensione del concetto romano di sacra peregrina al culto pyrgense di Astarte ridimensiona l’idea largamente diffusa che esso presupponga una particolare ‘apertura’ del santuario di Pyrgi, considerato erroneamente da molti un santuario emporico più o meno affine a Gravisca, alla frequentazione da parte di Punici.37 Il fattore etnico-linguistico è infatti del tutto estraneo al ricorso a sacra stranieri, che appare invece motivato da ragioni di politica religiosa, con più o meno evidenti risvolti di carattere propriamente politico, a suo tempo bene messi in evidenza per Pyrgi da Pallottino. Di fatto, nonostante gli oltre cinquant’anni di ricerche, non è emersa alcuna apprezzabile traccia archeologica, né tanto meno epigrafica, di una frequentazione punica di vi-v secolo sia del santuario monumentale38 che dell’area Sud di Pyrgi39 (come del resto mancano testimonianze di una frequentazione greca dei santuari romani di Cerere e di Esculapio, e anche di quello cerite di Era, non essendo tali i pocola col nome in greco della dea, iscritti a cura del santuario e non dei fedeli).40 Il che certo non esclude la realtà di tali frequentazioni, ma ne riduce drasticamente l’importanza. Quanto all’iniziativa di ‘pubblicare’ l’iscrizione commemorante la dedica del tempio e dell’intero santuario anche nella versione fenicia, è da vedere a mio avviso in essa la volontà di sottolineare, in primo luogo nei confronti della dea, la completezza del dono di Thefarie, in una chiave che si può definire col Garbini in senso lato “propagandistica”,41 denunciando l’affidamento del culto a un clero esperto nella lingua e nelle tradizioni culturali del mondo fenicio-punico.42 Un’iniziativa in fondo analoga, pur su un piano del tutto diverso, a quella che ha fatto decorare da artisti greci, che hanno ‘firmato’ in greco la loro opera, il tempio della citata triade aventina,43 in un momento storico in cui, come nel 293 a.C. per l’arrivo di Asclepio, non è attestata né appare ipotizzabile una presenza a Roma, stabile e consistente, di loro connazionali.44 All’interno del clero che inclino a ritenere il principale responsabile della versione fenicia della dedica di Pyrgi al primo posto saranno state le sacerdotesse che si è suppo35 Colonna 1965a, p. 209 sg. (= 2005a, iv, p. 2173 sg.). Cfr. Latte 1960, p. 161 sg. 36 Da ultimo Zevi 1999, pp. 330-338. 37 Cito solo, tra i molti sostenitori di questa opinione, Cristofani 1991, p. 74 (= 2001, i, p. 251) e Gras 1995, pp. 52, 168. 38 L’unico oggetto di cui si può ipotizzare l’arrivo per un tramite punico resta un bronzetto egizio di Osiride di età saitica raccolto sul terreno prima dell’inizio degli scavi (Colonna 1965a, p. 213, tav. lxi, a-b = Colonna 2005a, iv, p. 2175 sg., tav. vi, a-b; Hölbl 1979, ii, p. 39, n. 119, tav. 154: 2). 39 Che ha restituito un’ampia messe di offerte votive, in più casi corredate da dediche di grecofoni (Colonna 2004, pp. 69-74). 40 Cfr. nota 32. 41 Garbini 1988, p. 77. 42 Senza necessità di postulare che la «conoscenza diretta della religione punica», attestata dalla lamina fenicia, «poteva venire solo da un prolungato contatto con genti fenicie che esplicavano in loco la loro devozione tradizionale», come vorrebbero Ribichini, Xella 1994, p. 135. Già Heurgon aveva parlato di «collaboration, au moment de la dédicace, des deux clergés associés dans la cérémonie et rédigeant parallèlement leurs procés verbaux» (Heurgon 1965, p. 91), salvo poi aderire alla communis opinio di una «Phoenician colony» a Pyrgi (Heurgon 1966, p. 15). 43 Plin., n.h., xxxv, 154. Cfr. Colonna 1977, p. 162 sgg. (Colonna 2005a, i, 2, p. 517 sg.); Colonna 2000a, p. 304; Lulof 2007. 44 Nonostante la relativa prossimità di entrambi i santuari al portus Tiberinus, dove certo non mancavano greci di passaggio (come ci ricorda Marcattili 2009, p. 84 sg.).

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sto abbiano seguito la dea, sul modello di quanto sappiamo essere avvenuto a Roma nel caso di Demetra e Core. Che esse fossero ospitate nell’edificio delle venti celle e vi praticassero in onore della dea la prostituzione sacra, come avveniva a Erice, è questione sulla quale non intendo ritornare in questa sede.45 Mi limito a dire che la loro presenza può essere indiziata anche per altra via, in base alla constatazione che le lucerne di viv sec. a.C. di cui si sono rinvenuti molti frammenti nel santuario – dispersi nei residui strati pavimentali (o in giacitura secondaria nel riempimento delle trincee di spoliazione), il che le fa ritenere pertinenti non a offerte votive ma all’instrumentum in uso nel culto e nelle attività quotidiane – sono tutte, a differenza di quelle di Gravisca, di tipi derivati più o meno fedelmente da modelli fenicio-punici, compresi i due esemplari verniciati forse prodotti su commissione da botteghe attiche o atticizzanti (fatto questo che sottolinea l’attaccamento affettivo a quei tipi da parte dei committenti).46 2. L’ingresso di Astarte nel santuario di Pyrgi, cui per l’occasione è stato conferito un assetto monumentale, e il trattato di amicizia tra Cartagine e Roma, che segnò il riconoscimento internazionale del ruolo egemonico di Roma nel Lazio, sono due eventi assai diversi tra loro ma in qualche misura connessi, entrambi dovuti a capi di stato dai connotati tirannici, Thefarie Velianas a Caere e Tarquinio il Superbo a Roma. Non v’è dubbio infatti che l’intesa diplomatica con Cartagine, sancita dal giuramento dei primi due consoli della Repubblica, abbia avuto nel Superbo il suo artefice (così come opera sua era stato il compimento del gigantesco tempio capitolino, dedicato da uno degli stessi magistrati).47 Ed è indicativo dei buoni rapporti postulabili tra i due personaggi che Tarquinio, trovate sbarrate le porte di Roma al suo precipitoso rientro dall’assedio di Ardea, secondo Livio sarebbe riparato con due dei suoi figli a Caere48 e da lì avrebbe cercato per via diplomatica, con l’appoggio verosimilmente di Thefarie, di ottenere la revoca dell’esilio o almeno la restituzione dei suoi beni (senza trascurare il ricorso a congiure intestine come quella dei Vitellii e degli Aquilii).49 Ciò prima di ottenere un aiuto militare, evidentemente negato da Thefarie (interessato come i Cartaginesi ai buoni rapporti con Roma), dai Veienti e dai Tarquiniesi, per poi, sconfitto, ripiegare su Tuscolo e i Latini, ospite di Ottavio Mamilio, e infine trovar ricetto a Cuma, ospite di Aristodemo. 45 È noto infatti che l’esistenza stessa di tale pratica viene oggi sempre più insistentemente negata, in specie nel mondo anglosassone, non solo per l’Occidente ma anche per la Lidia, il Vicino Oriente e Babilonia (bibl. in Colonna 2000a, p. 303, nota 206: da ultima, con estrema decisione, Lynn Budin 2008, che considera il caso di Pyrgi alle pp. 247-254). La questione appare comunque ai miei occhi tutt’altro che chiusa (cfr. Lambrinoudakis 2005, p. 334 sg.). 46 Pyrgi 1989-1990, pp. 241 sg., 244, 283 sg. e passim, figg. 211, 250 sg. (G. Colonna). Il loro numero ha fatto pensare in prima istanza a forme di culto notturno, del genere della pannychís greca (Colonna 1981, p. 27, nota 47 = Colonna 2005a, iv, p. 2263, nota 47). Da notare altresì che finora di tali lucerne non è stata segnalata alcuna occorrenza tra i reperti degli scavi urbani di Caere e del territorio ceretano. La lucerna di tipo greco a ponte cui si riferisce Pavolini 1982, p. 292 sg. (citando una notizia orale di F. Boitani) viene non dal santuario ma dalla scarpata a mare, ossia dall’abitato (Colonna 1981, p. 17, nota 8, tav. viii, d, 1 = Colonna 2005a, iv, p. 2256). 47 Entrambi i fatti non sono stati presi in considerazione nel recente tentativo di rivalutazione da parte di D. Briquel della figura del Superbo, che pure appare incentrato sulla sua politica estera – dal foedus Gabinum a quello coi Latini – e religiosa (feriae Latinae in onore di Giove Laziare) (Briquel 2009). 48 Liv. i, 60, 2. Per Dion. Hal. v, 3, 1, avrebbe cercato asilo prima a Gabii e quindi a Tarquinia. 49 Liv. ii, 3-4. Gli antichi interessi dei Vitellii verso l’Etruria marittima sono confermati dal percorso della via Vitellia, adducente dal Gianicolo al mare: ltur , Suburbium, iv, 2008, p. 261 (Z. Mari). Il mancato intervento militare in suo favore da parte dei Ceriti significa probabilmente che Thefarie, come del resto Cartagine, antepose l’amicizia coi Romani a quella col tiranno deposto.

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Se non molto di attendibile sappiamo della biografia del Superbo prima degli eventi che ne provocarono l’esilio,50 nulla affatto sapevamo di quella di Thefarie prima di una scoperta recente, avvenuta a Cerveteri nella necropoli della Banditaccia.51 Mi riferisco alla tomba, databile per la tipologia e lo stile delle sue decorazioni nel decennio 530-520 a.C., di un Larice Veliinas, identificabile con sicurezza, mancando qualsiasi altra attestazione del gentilizio a Caere e nell’Etruria meridionale, col padre del personaggio.52 La tomba, del tipo a dado con l’interno parzialmente dipinto, è stata chiamata delle Iscrizioni Graffite per il gran numero di iscrizioni, tracciate sull’intonaco della parete sfinestrata d’ingresso alla camera nella quale giaceva il Veliinas, assieme ad alcune figure in atto di omaggio (Fig. 8).53 Mentre la lunga iscrizione apposta sull’architrave della porta commemora il rito funebre compiuto nella tomba da una Ramatha Spesias, probabilmente nella veste di vedova e di mater familias,54 le altre undici brevi iscrizioni si riferiscono a personaggi tutti maschili, menzionati per lo più coi soli nomi individuali, seguiti in pochi casi da un gentilizio, peraltro quasi sempre non altrimenti noto: il che denota la loro appartenenza a un ceto sociale basso o decaduto. È questa l’evidente manifestazione di una sodalitas di homines novi,55 la stessa che con ogni probabilità ha contribuito all’ascesa al potere, nel successivo decennio 520-510 a.C., del nostro Thefarie e che in questa occasione si è mobilitata per rendergli onore partecipando alle esequie del padre. Costui è stato certamente il rampollo di una gens di antico lignaggio, a giudicare dalla collocazione della sua tomba al centro di una sequenza di tombe a tumulo e a dado disposte intorno ad essa in semicerchio, di cui la più antica, il tumulo dell’Affienatora, risalente alla fase iniziale dell’età orientalizzante. Una gens destinata con Thefarie a balzare in primo piano sullo scenario politico e istituzionale della città, per poi altrettanto rapidamente scomparire senza lasciare nessuna traccia di sé nella necropoli e, più in generale, nella pur ricca prosopografia ceretana.56 Non sappiamo quanto a lungo sia durato il “regno” di Thefarie. A Caere è stata messa in relazione con la sua caduta la costruzione intorno al 490-480 a.C. nella zona centrale della città, a prezzo di vaste demolizioni di strutture precedenti, di un tempio di tipo tuscanico e di una struttura ellittica per assemblee e spettacoli avvicinabile a un ekklesiasterion greco.57 Di sicuro il “regno” era terminato da qualche tempo quando, verso il 470 a.C., il santuario da lui edificato in onore di Uni/Astante fu completamente rimodellato e ampliato dai Ceriti con la costruzione del tempio A, sacro a Thesan/Leucotea, che ‘oscurò’ con la sua mole e la sua posizione avanzata il tempio B, e col trasferimento alle sue spalle dell’ingresso principale del santuario, previa la totale cancellazione del monumentale tetrapilo eretto da Thefarie alle spalle del tempio B.58 Tuttavia l’intesa con Cartagine, risalente ai tempi della battaglia del Mare Sardo e dalla quale, una generazione più tardi, Thefarie probabilmente aveva ricevuto un aiuto determinante per la sua ascesa al potere, certamente gli sopravvisse a lungo. È noto che Aristotele, volendo 50 Briquel 2009. 51 Colonna 2006, p. 438 sg. 52 La scrittura Veliinas, con -ii- per /-i-/, rispecchia lo stato fonetico raggiunto da *Velienas nella lingua parlata, alla pari della scrittura wln® che compare nella lamina fenicia di Pyrgi al posto dell’atteso *wlyn®. 53 Colonna 2006, Colonna 2007a, Colonna 2007b, pp. 11-16. 54 Rito che è detto esser stato compiuto secondo le prescrizioni di un Laris Armasiinas detto il Putu, quasi certamente un aruspice o altro sacerdote. 55 Su tale istituto ottima messa a punto di Fiori 1999. 56 Morandi Tarabella 2004, p. 176 sg. (con indebita menzione del gentilizio Velna); Colonna 2006, p. 439 sg., nota 78. 57 Colonna 2004, pp. 74-77, con bibl. 58 Rivelato dalla ripresa dello scavo del grande santuario a partire dal 2005 (Colonna 2007b, pp. 9-11, figg. 2, 4). Anche il numero limitato di clavi rinvenuti induce a sospettare che la pratica della clavifixio non sia durata per più di due o tre decenni.

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Fig. 8. La parete iscritta della tomba cerretana delle Iscrizioni Graffite (da Colonna 2006, fig. 16).

citare compagini statali rimaste tra loro straniere e indipendenti, pur essendo vincolate da solidi accordi commerciali includenti clausole di difesa comune, non ha trovato esempio più appropriato di quello offerto dagli Etruschi e dai Cartaginesi (dove gli Etruschi saranno stati in primo luogo i Ceriti, come avveniva nella narrazione erodotea del conflitto del Mare Sardo). Sicché siamo certi che la loro fu un’intesa di lungo periodo, ancora pienamente attuale al tempo del filosofo, ossia nella seconda metà del iv secolo a.C.59 2. 1. La stessa lunga durata dell’intesa tra gli Etruschi e i Cartaginesi contraddistinse quella tra i Cartaginesi e i Romani, nonostante le ripetute aperture dei secondi verso il mondo magnogreco e siceliota nei primi decenni del v secolo, ad alcune delle quali si è fatto cenno (aperture che del resto erano state precedute da quelle dei Ceriti verso Delfi, culminate nella fondazione del tesoro delfico degli Agillei).60 Il primo trattato di amicizia rimase a lungo in vigore, finché, com’è noto, non fu rinnovato due volte nella seconda metà del iv secolo. Si deve con ogni probabilità ad esso se Roma poté approvvigionarsi di ferro e di rame dopo che, con l’espulsione di Tarquinio il Superbo e col successivo intervento militare di Porsenna, entrarono in crisi i rapporti con l’Etruria, che deteneva praticamente il monopolio della estrazione e del commercio di quei minerali nell’Italia centrale.61 Se ne è avuta conferma a proposito dell’unico grande bronzo statuario prodotto a Roma nei 59 Ampolo 1996, p. 239 sg. 60 Sulla cui supposta localizzazione alla Marmarià rinvio a Colonna 2000b, pp. 49-53. 61 Sul foedus imposto da Porsenna, che avrebbe interdetto l’uso del ferro ai Romani, tranne che per gli attrezzi agricoli, da ultimo Ampolo 2009, p. 21 sg.

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italia ante romanum imperium primi decenni del v secolo giunto fino a noi, la Lupa Capitolina, per la cui fusione si è calcolato che siano stati necessari quasi cinque quintali di rame.62 Le analisi archeometriche hanno consentito di accertare che il minerale utilizzato proveniva dalla Sardegna, e precisamente da Calabona nella Nurra, sulla costa tra Tharros e Alghero.63 Poiché il commercio nell’isola era allora sottoposto al controllo formale di Cartagine, come risulta dalle clausole del primo trattato, l’acquisto del rame necessario per la Lupa assume il carattere di una transazione ‘diplomatica’, nel quadro dei buoni rapporti allora in vigore tra le due città. E lo stesso era forse accaduto per il simulacro bronzeo di Cerere, fuso nel 483 a.C. coi proventi della vendita dei beni confiscati a Spurio Cassio e collocato nel più volte citato tempio della dea alle pendici dell’Aventino.

Fig. 9. La tessera hospitalis da Roma, tempio di S. Omobono.

3. A monte di entrambi gli eventi considerati – l’introduzione del culto di Astarte a Pyrgi e la stipulazione del primo trattato tra Cartagine e Roma – stanno le relazioni esistenti da antica data tra il mondo fenicio-punico da un lato, l’Etruria e il Lazio dall’altro. L’argomento è vastissimo e non potendo in questa occasione nemmeno sfiorarlo rinvio alla ben documentata relazione tenuta qui a Orvieto tre anni fa da Massimo Botto, centrata sul ruolo di primo piano avuto in essi dalla Sardegna.64 Mi soffermo soltanto sulla presenza di mercatores fenici e punici nell’Etruria del vi sec. a.C., quale si può desumere dalle tesserae hospitales finora conosciute. Il loro numero è andato accrescendosi, rispetto all’unica da Cartagine conosciuta fino a trent’anni fa,65 specie con la pubblicazione da parte di Adriano Maggiani degli esemplari scavati da K.M. Phillips a Murlo nel 1971 e rimasti fino allora inediti. Nella relazione tenuta nel 2005 in questa sede, in cui ha riesaminato l’intera classe,66 egli ne ha potuto elencare sette esemplari, di cui cinque provenienti dallo strato di distruzione della residenza di Murlo di età tardo-orientalizzante, suggellato intorno al 580 a.C., uno dal deposito votivo alle spalle del tempio romano di S. Omobono, deposto dopo il 540-530 a.C. (Fig. 9),67 ma databile stilisticamente e paleograficamente verso la metà del vi secolo, e uno, approssimativamente di uguale datazione, che è quello già citato di Cartagine, proveniente da una tomba rinvenuta nel 1898, di cui poco sappiamo (Fig. 10). 62 Carruba 2006, p. 26, nota 19. Sulla Lupa, la cui antichità è stata contestata a mio avviso a torto, rinvio a Colonna 2010. 63 Gale, Giardino, Parise Presicce 2007. 64 Botto 2007. 65 Di cui, seguendo Peruzzi 1970, p. 22 sg., riconoscevo già allora che «documenta più il commercio punico in Etruria che non quello etrusco a Cartagine» (Colonna 1980, p. 185). 66 Maggiani 2006. Cfr. anche Maggiani 2007b. 67 Virgili 1989, pp. 45 e 58, fig. 12, tavv. iv e xxi.

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Fig. 10. La tessera hospitalis da Cartagine.

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Fig. 11. Una delle tesserae hospitalis da Murlo (da Maggiani 2006, tav. iii, b).

Il merito maggiore di Maggiani è di avere risolto, in modo a mio avviso del tutto convincente, l’aporia del ‘doppio gentilizio’ presente nel formulario delle tessere. Questo infatti, a giudicare dalle iscrizioni più estesamente conservate, prevede in prima posizione, preceduta o no dal pronome mi, una formula onomastica bimembre al nominativo e in seconda posizione un gentilizio, anch’esso al nominativo (o nel consueto genitivo afunzionale). Nella formula bimembre secondo tale ipotesi è da riconoscere il nome del forestiero, nel gentilizio isolato quello dell’ospite-patrono, che ha ‘prodotto’ la tessera: l’assenza del prenome significa probabilmente che il rapporto di ospitalità è esteso all’intera gens del contraente, anche se questi solo era in grado di verificare, con la metà della tessera in suo possesso, l’autenticità di quella dell’ospite.68 Ora delle cinque tessere che conservano in tutto o in parte significativa il nome del forestiero, questo in un caso è quello di un punico di Cartagine (mi Puinel Karthazies) (Fig. 10),69 in un altro di un fenicio forse di Ibiza ([mi] Puinis Ep[- - -]) (Fig. 11)70 e in un terzo di un fenicio di Sulcis di Sardegna che, accolto nell’Etruria meridionale come cittadino, ha assunto un prenome etrusco71 e un gentilizio derivato dall’etnico col quale era conosciuto (Araz Silqetenas) (Fig. 9).72 Negli altri due casi l’ospite, il cui antroponimo semitico gli scribi etruschi non sapevano trascrivere o non si curavano di farlo, è identificato con un appositivo derivato dal nome del luogo di provenienza (Karthazies, Ep[- - -]), preceduto da un nome individuale modellato sulla forma etrusco-latina dell’etnico (Puinel)73 o ricalcato sulla forma greca dello stesso (Puinis).74 68 Determinante al riguardo era la coincidenza dei fori attraversanti entrambe le due metà della tessera, che nell’esemplare da Cartagine, alquanto più grande degli altri, erano eccezionalmente quattro. La loro assenza è sicura solo nell’esemplare da S. Omobono. 69 Karthazies, con -s, è la lettura di Maggiani (cfr. ree 2007, n. 82), che condivido. Trattasi di un imprestito da lat. *Carthadius (De Simone 1970, p. 165), derivato aggettivale di Carthada, antico nome latino di Cartagine attestato da Catone (fonti in Benveniste 1933, p. 246 e Peruzzi 1970, p. 23: cfr. gli antroponimi K·ÚÙ·‰·˜/X·ÚÙ·‰· citati da Vattioni 1979, pp. 66 sg., 84). L’imprestito appare rimodellato in etrusco col suffisso -ie (*Carthadius > *Karthaze > Karthazie), così come Latine di Veio diviene a Orvieto Latinie. 70 Mi discosto da Maggiani, che legge la finale del primo nome come -is ma la ritiene «un errore di scrittura parzialmente erasa», proponendo l’arbitraria integrazione *Puinel (Maggiani 2006, p. 324 sg., n. 6). L’ultima lettera, di cui resta solo il tratto iniziale di una traversa discendente, è data come incerta da Maggiani: la somiglianza con la traversa della p di Puinis, iniziante alquanto a destra dell’asta, mi induce a riconoscere anche in essa una p. Il nome latino di Ibiza – uno dei più antichi insediamenti fenici del Mediterraneo occidentale – era com’è noto Ebusus (Lipiński 1992, pp. 222-226, s.v. Eb(o)usos), per cui si può pensare, in via del tutto ipotetica, a una forma etrusca *Epuse del poleonimo. 71 Araz, variante dialettale di Ara(n)th propria dell’etrusco parlato a Roma e nell’agro falisco (Colonna 1987, pp. 58 e 70; Cristofani 1988, p. 16), forse attestata nel v sec. anche al M. Castellaro presso Pisa (Maggiani 2007b, p. 182 sg., nn. 8-10). 72 Colonna 1981, p. 202 sg. Per l’eventualità che *silce- stia per *sulce-: Colonna 1987, p. 59, nota 33; Colonna 1989, p. 368, nota 32. 73 Come propone Maggiani 2006, p. 319, nota 17, citando come modello il prenome Venel. 74 Puinis < ºuinis (tomba François di Vulci) < ºÔÖÓÈÍ. Cfr. De Simone 1970, pp. 136, 175.

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La provenienza dall’area fenicio-punica di tre dei cinque mercatores di cui le tessere restituiscono il nome, associata all’assenza tra essi di persone di origine greca, è un dato di fatto che da solo denuncia l’importanza della componente semitica nel quadro dei “traffici” che interessarono il Tirreno nell’età di Tarquinio Prisco e di Servio Tullio. E il fatto tanto più sorprende in quanto i mercanti fenici e punici a quanto pare non si fermavano nei centri costieri ma si spingevano fin nel cuore dell’Etruria settentrionale, come prova la presenza di uno di essi a Murlo, all’incrocio delle vie che conducevano dalla valle del Tevere all’Etruria mineraria e dalla valle dell’Ombrone all’Etruria padana e adriatica. È questa la situazione che fa da sfondo, nell’età di Tarquinio il Superbo, al primo trattato romano-cartaginese e all’ingresso di Astarte nel santuario di Pyrgi. 4. Vengo ora al nuovo documento epigrafico, cui ho alluso all’inizio del discorso. Si tratta di un piccolo calice su piede ad anello di ceramica buccheroide, rinvenuto a Magliano Sabina in frammenti in una tomba del sepolcreto del Giglio nel 1994, ma pubblicato soltanto nel 2008.75 Il vaso, di un tipo documentato senza apprezzabili variazioni morfologiche dal secondo quarto del vi al primo trentennio del v secolo a.C.,76 reca due nomi di persona in nominativo assoluto, iscritti sulla parete in posizioni diametralmente contrapposte (Fig. 12). Come appare dall’andamento del ductus, che in entrambi i casi ‘scende’ inizialmente rispetto alla carena del vaso dai cui pressi le sequenze hanno la loro partenza,77 le iscrizioni sono state tracciate tenendo il fittile capovolto, ma in direzione in un caso (a) destrorsa (Fig. 13), nell’altro (b) sinistrorsa (Fig. 14).78 La lettura cui si attengono gli editori è per (a): Iatinoz, per (b): Qunoz. L’uscita in -oz dei due nomi accerta senza ombra di dubbio che la lingua è falisca, alla pari della scrittura,79 peraltro alquanto sciatta e disomogenea.80 Entrambi i nomi, se si accetta per le loro lettere iniziali la lettura degli editori, sono degli hapax. Poccetti connette Iatinos al noto prenome falisco Ia(n)ta,81 ipotizzando un intervento del suffisso -ino- che nell’antroponimia falisca è assai poco produttivo.82 Chi vi parla aveva a suo tempo letto L.atinoz, ritenendo che la scrostatura visibile alla base dell’asta della prima lettera celasse una traversa mal riuscita. Se così non è, la forma Iatinoz può comunque essere considerata una variante dialettale di Latinoz, influenzata nella fonetica dal sud-piceno o dal volsco, lingue in cui, alla stessa 75 Contributi di P. Santoro, E. Benelli, P. Poccetti e F. Roncalli in Una nuova iscrizione. Una mia breve anticipazione, basata sulle foto del vaso (qui a Fig. 12) esposte senza commento nel Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina fin dagli anni Novanta, in Colonna 2005b, p. 18, completamente errata per l’iscrizione (b). La provenienza del vaso da una tomba di Magliano Sabina è stata contestata da A. Morandi (in Lazio e Sabina 7, c.s.), che afferma di aver visto e copiato le iscrizioni nel 1985 nelle vicinanze di Civita Castellana: il calco a lapis in suo possesso accerta che il vaso è lo stesso detto da Magliano Sabina. 76 Una nuova iscrizione, p. 16, nota 2 (P. Santoro). 77 Il che non è stato notato dagli editori, anche perché il disegno che ne offrono alla fig. 2 è infedele al riguardo, come appare dal confronto con le foto. 78 Per gli editori invece, che leggono (b) capovolta, l’iscrizione è anch’essa destrorsa. 79 Per il supposto q iniziale di (b) vedi avanti. La lettura capovolta dell’iscrizione fa ritenere agli editori che la u sia anch’essa capovolta e che la n segua la direzione della sequenza, mentre invece è retrograda. 80 Si veda la diversità di dimensioni e di tracciato delle due o, la diversa direzione delle due n, le troppo lunghe traverse della a, della t e delle due z, per di più in (a) tese e discendenti, in (b) leggermente curvilinee e ascendenti. 81 Attestato in etrusco a Spina e Adria nella forma Anta (Colonna 1993, p. 141 = Colonna 2005a, i, 2, p. 397), con regolare caduta di i- (cfr. fal. Iuna / etr. Una). 82 Né ha alcuna plausibilità storica l’ipotesi di un rapporto col nome Iantinus di un gladiatore frigio di età imperiale (cil v, 4506; Delamarre 2007, p. 107, s.v.), anche se la radice indo-europea della famiglia di nomi in questione (Delamarre 2003, p. 32 sg., s.v. adiant(u)-) è probabilmente la stessa del prenome falisco Ianta.

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Fig. 12. Il calice di impasto buccheroide da Magliano Sabina in una foto esposta nel locale Museo Civico Archeologico (foto G. Colonna).

quota cronologica tardo-arcaica (vedi appresso), è attestato epigraficamente il passaggio l->i- in sede iniziale.83 Quanto a Qunoz, Poccetti non trova di meglio, per accreditare la lettura adottata da lui e dai coeditori della nuova iscrizione, che citare altri due hapax, i gentilizi etruschi *Kuna® di Spina (Rix, et Sp. 2) e Cunui (femm.) di Perugia (Pe 1.647). Ma il primo è una vox nihili, nata da una falsa divisione del gent. Klutikuna®,84 e il secondo con ogni probabilità è un normale gentilizio di tipo patronimico, formato sul nome individuale *Cue, variante di *Kuve/Kuvei, di supposta origine celtica,85 per cui l’esistenza di un nome personale *Cuno- resta un’indimostrabile ipotesi. È il caso allora di ritornare sul presunto qoppa iniziale del nome. Dato che la sua forma, a cerchio tagliato internamente da una traversa verticale, non trova confronto nelle iscrizioni falische, Benelli non esita a porlo in relazione con l’analogo segno presente 83 Mi riferisco alle forme iepeten < *lepeten di Crecchio (Rix 2002, p. 69, Ch 1, l. 2) e Iúko- < *Louko- di Satricum (ibid., p. 66, VM 1). Cfr. Rix 1992, pp. 38, 48; Colonna 1997, p. 11 sg.; ree 2010, commento alla scheda n. 54 (G. Colonna). 84 Colonna 1993, p. 140 (= Colonna 2005a, i, 2, p. 396 sg.). 85 Nome attestato, oltre che a Rubiera, anche dal gen. femm. Cua (ree 2002, n. 47; 2003, nn. 78 e 82) e dal patronimico leponzio Kualo- (Leyeune 1971, pp. 63, 68; Delamarre 2007, p. 78).

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Figg. 13-14. Apografi delle iscrizioni del calice (da Una nuova iscrizione, p. 43, figg. 5-6).

nella scrittura sud-picena, che l’avrebbe mutuato da quella falisca.86 Il che, alla luce delle note relazioni tra i due ambiti epigrafici, e anche di quanto appena osservato sul piano fonetico a proposito di Iatinoz, potrebbe avere una qualche attendibilità. Ma da un lato la forma del segno sud-piceno risponde a una logica grafica propria di quella scrittura, che ne esclude un imprestito dall’esterno,87 dall’altro nelle iscrizioni falische il qoppa non è più attestato, alla pari di k, dopo la metà-terzo quarto del vi secolo,88 sicché si può presumere che la scomparsa dei due segni sia solidale con quella degli stessi dalle iscrizioni etrusco-meridionali a partire dal 525 circa a.C.89 Secondo gli editori la nuova iscrizione sarebbe anteriore a quella data, trovandosi su un vaso datato aprioristicamente «non oltre il secondo quarto del secolo».90 Ma in proposito va ricordato non solo che la sua tipologia, come detto, si attarda per generale consenso fino al primo trentennio del v secolo, ma anche che lo stesso contesto di rinvenimento della nuova iscrizione include due piattelli su basso piede a tromba, non riprodotti nella pubblicazione, i cui confronti 86 Una nuova iscrizione, p. 25 sg. Per il qoppa sud-piceno: Marinetti 1985, pp. 50 e 56, con le tavole a p. 59 sg. L’unica attestazione avvicinabile a quella falisca è nell’iscrizione di Loro Piceno (MC 1). 87 Marinetti 1985, p. 56. 88 L’esempio più recente di q è su una coppa di bucchero della coll. Froehner di ignota provenienza (Giacomelli 1962, p. 66, n. 56), di k sul calice di bucchero da Falerii molto simile a quello in esame e anch’esso con doppia iscrizione (ibid., p. 48 sg., n. 4; Napolitano 2000, con datazione troppo alta). L’iscrizione destrorsa nuikux, di v sec. a.C. da Falerii (Giacomelli 1962, p. 60 sg., n. 37) è dubbio che sia falisca. 89 Colonna 1976, p. 16 sg. = Colonna 2005a, iv, p. 1613. Per attardamenti del q e del k in Campania: cie 8681, 8699, 8709, 8821. 90 Una nuova iscrizione, p. 44 (F. Roncalli).

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Fig. 15. Due alfabetari da Chiusi del 500 a.C. circa, con la lettera Ê in evidenza (da Pandolfini 1990, p. 57).

orvietani e chiusini vanno «dal terzo all’ultimo quarto del vi secolo a.C.».91 Concorre a raccomandare una datazione relativamente bassa l’uscita in -oz del nominativo dei temi in -o-, sconosciuta alle iscrizioni falische anteriori alla metà o poco dopo del vi secolo, che hanno Zextos, Euios, Ofetios, Caios, Velos, Amanos, Lartos, e presente solo in iscrizioni di iii-ii secolo. Anche in etrusco del resto l’oscillazione fonetica -s / -z, caratteristica di Orvieto, non è attestata prima dell’iscrizione di Pech-Maho (475-450 a.C.).92 Messa da parte la suggestione del q sudpiceno, s’impone il confronto del segno in questione con la forma assunta in età tardo-arcaica dal Ê etrusco, quale appare per es. negli alfabetari di Perugia, Magliano, Roselle e Chiusi (Fig. 15).93 La lettera non ricorre in altre iscrizioni falische, ma l’occorrenza reiterata in quel corpus di un’altra lettera etrusca notante una consonante aspirata, ı,94 la rende plausibile nel testo di cui parliamo. La lettura che si propone è pertanto ºunoz. Il nome ha tutta l’aria di essere l’etnico col quale i Falisci chiamavano i Cartaginesi. Etnico affine nella trafila fonetica a lat. *Poinos > Poenus >Punus (cfr. il ctetico Punicus),95 ma conservante nell’aspirata iniziale il ricordo della forma greca del nome, ºÔÖÓÈÍ, che in latino (e in etrusco) è resa con p. Così nel iv sec. in Lucania, nella defixio di Roccagloriosa scritta in alfabeto osco-greco, un punico è designato con l’etnico (ºÔÈÓÈÎȘ) e col suo un nome semitico (M·¯È˜) in cui compaiono rispettivamente le lettere Ê e ¯, altrimenti sconosciute in quell’alfabeto.96 91 92 94 95 96

Una nuova iscrizione, p. 18 (P. Santoro). Colonna 1988, p. 550. 93 Pandolfini 1990, pp. 46-52, 55-58. In ben otto iscrizioni, tutte invero di età recente (Giacomelli 1932, pp. 34 e 39, § 8 e 22). Leumann 1963, p. 78 sg. La forma Punus era nel Poenulus di Plauto secondo Priscian. iii, 84. Campanile 1993; Poccetti 2001, p. 199. In Rix 2002, p. 130, Lu 45, il nome compare con π-.

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Giustamente Roncalli nel suo contributo definisce le due iscrizioni un ‘brindisi’ tra le persone nominate, come nel caso delle iscrizioni del calice Giacomelli n. 4.97 Un brindisi, aggiungo, tra un latino e un punico, messo per iscritto nella sua lingua da un falisco, avvenuto se non in occasione del primo trattato romano-cartaginese, nel clima storico che ne è stata la premessa, o l’immediata conseguenza. Bibliografia Amadasi Guzzo 2000: M.G. Amadasi Guzzo, Quelques tessons inscrits du sanctuaire d’Astarté à Tas Silg in Actas del iv Congreso internacional de Estudios Fenicios y Punicos, Cadiz, pp. 181196. Ampolo 1983: C. Ampolo, La storiografia su Roma arcaica e i documenti, in E. Gabba (a cura di), Tria corda. Scritti in onore di Arnaldo Momigliano, Como, pp. 9-26. Ampolo 1996: C. Ampolo, Greci d’Occidente, Etruschi, Cartaginesi. Circolazione di beni e di uomini, in Magna Grecia Etruschi Fenici (Atti del xxxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 8-13 ottobre 1993), pp. 223-252. Ampolo 2009: C. Ampolo, Presenze etrusche, koiné culturale o dominio etrusco a Roma e nel Latium Vetus in età arcaica?, «AnnMuseoFaina», xvi, pp. 9-32. Benveniste 1933: E. Benveniste, Notes étrusques, «StEtr», vii, pp. 243-249. Botto 2007: M. Botto, I rapporti tra la Sardegna e le coste medio-tirreniche della penisola italiana: la prima metà del i millennio a.C., «AnnMuseoFaina», xiv, pp. 75-118. Briquel 2009: D. Briquel, Incongruenze nella tradizione sul regno di Tarquinio Superbo, in RendIstLomb 142, 2008, pp. 317-346. Campanile 1993: E. Campanile, Un fenicio a Roccagloriosa, «StEtr», lviii, pp. 369-371. Campanile, Cardona, Lazzeroni 1988: E. Campanile, G. R. Cardona (a cura di), Bilinguismo e biculturalismo nel mondo antico (Atti del colloquio, Pisa, 1987), Pisa. Carlucci 2009: C. Carlucci, Il sistema decorativo del tempio di Portonaccio della fase dei “Grandi acroteri”, in Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio (Catalogo della mostra di Roma), Milano, pp. 200-205, nn. 1-17. Carruba 2006: A. M. Carruba, La Lupa Capitolina. Un bronzo medievale, Roma. Colonna 1964: G. Colonna, Scavi nel santuario etrusco di Pyrgi. Relazione preliminare della settima campagna, 1964, e scoperta di tre lamine d’oro inscritte in etrusco e in punico. I dati dello scavo, «ArchCl», xvi, 1964, 1, pp. 50-57. Colonna 1965a: G. Colonna, Il santuario di Pyrgi alla luce delle recenti scoperte, «StEtr», xxxiii, pp. 191-219. Colonna 1965b: G. Colonna, La donazione pyrgense di Thefarie Velianas, «ArchCl», xvii, pp. 286292. Colonna 1970: G. Colonna, Le strutture e Il recinto delle lamine, in Pyrgi 1970, pp. 275-289 e 597604. Colonna 1976: G. Colonna, Il sistema alfabetico, in L’etrusco arcaico (Atti del colloquio, Firenze, 4-5 ottobre 1974), Firenze, pp. 7-24. Colonna 1977: G. Colonna, Un aspetto oscuro del Lazio antico. Le tombe del vi-v sec. a.C., «pp», xxxii, pp. 131-165. Colonna 1980: G. Colonna, Graffiti etruschi in Linguadoca, «StEtr», xlviii, pp. 181-185. Colonna 1981: G. Colonna, La dea di Pyrgi: bilancio aggiornato dei dati archeologici (1978), in Die Göttin von Pyrgi (Akten des Kolloquiums, Tübingen, 16-17 Januar 1979), Firenze, pp. 13-37. Colonna 1987: G. Colonna, Etruria e Lazio nell’età dei Tarquini, in Etruria e Lazio arcaico (Atti dell’incontro di studio del 10-11 novembre 1986), Roma, pp. 55-66. Colonna 1988: G. Colonna, L’iscrizione etrusca del Piombo di Linguadoca, «ScAnt», 2, pp. 547-555. Colonna 1989: G. Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, i, Roma, pp. 361-374. 97 Una nuova iscrizione, p. 47 sg. Cfr. Napolitano 2000.

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ITALIA ANTE ROMANUM IMPERIUM

G I OVA N N I C O L O N NA

ITAL I A AN T E RO MA N U M IM PER I U M Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1999-2013) vo lum e se sto

P I S A · RO M A I ST I TU T I EDI TO R I AL I E P O L I GRAFICI INTE RNAZIONALI MMX V I

Comitato di redazione: Daria Colonna Sinisgalli, Elena di Paolo Colonna, Rita Gianfelice, Alice Landi, Laura M. Michetti * A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2016 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net

isbn 978-88-8147-440-0 (brossura) isbn 978-88-8147-441-7 (rilegato) e-isbn 978-88-8147-442-4

SOMMARI O ii. tra arte e archeologia L’architettura sacra e la religione degli Etruschi (con particolare riguardo agli altari, ai recinti e ai sacelli) Arte del Piceno Populonia e l’architettura funeraria etrusca La cultura orientalizzante in Etruria Il santuario di Portonaccio a Veio Divinazione e culto di Rath/Apollo a Caere (a propostito del santuario in loc. S. Antonio) Celti e celtomachie nell’arte etrusca Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea Osservazioni sulla tomba tarquiniese della Nave La ‘disciplina’ Etrusca e la dottrina della città fondata Tra architettura e urbanistica (a proposito del tempio di Mater Matuta a Satricum) Un pittore veiente del Ciclo dei Rosoni: Velthur Ancinies L’officina veiente: Vulca e gli altri maestri di statuaria arcaica in terracotta L’Apollo di Pyrgi, ±ur/±uri (il “nero”) e l’Apollo sourios The ‘Seven Against Thebes’ Relief (Tydeus and Capaneus at the Siege of Thebes)

605 639 651 661 675 691 709 735 815 831 843 853 869 887 927

iii. epigrafia L’iscrizione del biconico di Uppsala: un documento del paleoumbro 935 Epigrafi etrusche e latine a confronto 947 Dolio con iscrizioni latine arcaiche da Satricum 961 I greci di Caere 967 L’iscrizione di Osteria dell’Osa 987 Cerveteri. La tomba delle Iscrizioni Graffite 993 Il cippo di Tragliatella (e questioni connesse) 1033 Un etrusco a Perachora. A proposito della gemma iscritta già Evans col suicidio di Aiace 1065 Presentazione di M. Russo, «Sorrento. Una nuova iscrizione paleoitalica in alfabeto ‘nucerino’ e altre iscrizioni arcaiche dalla Collezione Fluss» 1073 iv. storia della ricerca Ancora sulla mostra dei Campanari a Londra Massimo Pallottino e il santuario di Veio Ravenna o Perugia? A proposito della provenienza del Marte Corazzi a Leida Pinelli e la pittura di storia

1089 1125 1133 1139

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sommario

De la fouille au pastiche: les casques en bronze à couronnes en or étrusques Pallottino e Roma Pallottino, Pyrgi e l’Università di Roma Biografia di Massimo Pallottino

1151 1165 1171 1179

Indice lessicale, a cura di Laura M. Michetti Indice dei nomi, a cura di Daria Colonna Sinisgalli e Alice Landi

1181 1197

II. TRA arte E ARCHEOLOGIA

L’ARCHITETT UR A S AC RA E LA RELIGIONE DEG L I E T RU S C H I ( CO N PART ICOLARE RIGUA RD O AG L I A LTA RI, AI RECINT I E AI S AC E L L I) l compito che mi sono assunto in questo convegno è quello di offrire un panorama, ovviamente assai rapido, dell’architettura sacra degli Etruschi, rivolto a mettere in evidenza quello che essa può insegnarci sulla religione di quel popolo. Per architettura sacra intendo tutte le manifestazioni dell’arte del costruire aventi una finalità di culto, sia in luoghi e contesti specificamente sacri – i santuari – che altrove. Non potrò essere veramente esauriente perché la materia è troppo vasta e ricca di diramazioni, specialmente sul versante funerario. Cercherò comunque di mettere a fuoco i problemi, avvalendomi anche di scoperte recenti e recentissime. Parlerò ovviamente molto del santuario di Pyrgi, non solo perché ne sono stato e ne sono tuttora lo scavatore, fino al 1980 al fianco di Massimo Pallottino e successivamente come unico responsabile, ma anche perché, sommando alle precedenti clamorose scoperte quelle non meno rilevanti dell’ultimo quindicennio, esso appare indiscutibilmente come il maggior santuario di tutta l’Etruria, esibente in riva al mar Tirreno una concentrazione di templi, sacelli e altari che non trova confronto in Occidente altro che in pochi grandi santuari di Sicilia e di Magna Grecia (Figg. 1 e 2). Il discorso, per seguire un ideale filo ‘storico’, dal più antico al più recente, ovviamente in termini tipologici, non può che iniziare dagli altari. In proposito va detto che la relativa casistica, già piuttosto complessa (Steingräber 1982, Thuillier 1991), si è arricchita negli ultimi anni, grazie allo scavo dell’area Sud del santuario di Pyrgi, di un tipo nuovo per l’Etruria, e raro altrove: l’altare di pietre brute, o ‘unworked rubble altar’, varietà ‘amorphous’ (Rupp 1991). Si tratta di cumuli lenticolari di pietre spaccate, per lo più calcaree, di formato medio-piccolo, attinte ai non vicinissimi letti fluviali: cumuli alti non più di 30 cm e aventi una pianta subcircolare o ellittica, col diametro maggiore superante talora i due metri. I due esempi più grandi e più evidenti sono dislocati lungo il limite E dell’area sacra, il cui perimetro non era marcato, a differenza della ben nota area N, messa in luce tra gli anni ’50 e ’70, da un muro di recinzione. Sono le formazioni zeta (Fig. 3) e iota (Fig. 4), la cui natura appunto di altari è garantita nel primo caso dall’adiacente, vasta ‘fossa sacrificale’ omicron, contenente anche offerte votive (un magmentarium nel senso di Varr., l.l., v, 112), nel secondo dal contiguo blocco di tufo posto a livello del suolo e forato da un condotto verticale a sezione cilindrica, della cui esistenza ci siamo accorti solo l’anno scorso, dopo aver rimosso il masso di arenaria che ne occultava e ne proteggeva l’imbocco. Il condotto aveva la stessa funzione di quello dell’altare cilindrico dell’area C del santuario di Pyrgi e di quello, meglio confrontabile perché anch’esso terragno, contiguo all’altare di Menerva del santuario di Portonaccio a Veio, ossia la funzione di condurre ben addentro nel sottosuolo il sangue delle vittime dei sacrifici, o eventuali altre offerte liquide in esso versate. Un terzo altare di pietre brute, ny, non così grande e così conservato come lo sono i primi due, si trova più verso l’interno dell’area sacra, su quella che era la direttrice d’accesso al sacello più antico di tutti, il sacello beta. A differenza degli altri cumuli esso era

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Fig. 1. Pyrgi, area Nord, circa 450 a.C.

completato in superficie da un lastrone circolare di arenaria, del diametro originario di m 1,20 (ne resta solo uno spicchio), fungente da ‘table of sacrifice’, come in talune raffigurazioni di altari di pietre sui vasi attici a figure rosse (Rupp 1991), e come è in questo caso accertato dall’anello di terreno scuro con ceneri e ossa animali che lo circonda. Di simili dischi o ‘ruote’ di pietra ne sono stati rinvenuti uno al centro del sacello di Poggio Casetta a Bolsena e altri, fuori posto, nel santuario di Pieve a Sòcana nel Casentino (Fig. 5), al Poggio della Melonta presso Orvieto, nel piccolo santuario rurale di Grotta Por-

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Fig. 2. Pyrgi, area Sud, circa 350 a.C.

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Fig. 3. Area Sud, altare zeta.

Fig. 4. Area Sud, altare iota.

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Fig. 5. Pieve a Sòcana, una ‘ruota’.

cina presso Blera e, da ultimo, nel santuario in località Fùcoli presso Chianciano, che ha dato tante straordinarie scoperte, ben esposte nel locale museo, da poco inaugurato. I lastroni recano sul piano superiore, a Sòcana e alla Melonta, un’iscrizione col nome non della divinità ma del donatore, il che in passato ha fatto pensare erroneamente a donarii (Colonna 1985a, p. 168). Sono invece ‘ground altars’, sorretti o no da uno o più strati di pietre, dedicati, assieme ai sacrifici che su di essi avevano luogo, a divinità ctonie e insieme solari, di cui appresso dirò. Un quarto altare di pietre, più piccolo degli altri – circa m 0,90 di diametro –, è all’interno del sacello alpha del santuario (Fig. 6), che è il più recente dei tre venuti in luce, costruito intorno alla metà del iv sec. a.C. e coperto con un tetto dotato di almeno una tegola con opaion. La posizione troppo vicina a uno dei muri, quello N, sul lato dell’edificio defilato rispetto all’ingresso, rende tuttavia poco verosimile che esso fosse un altare da fuoco, a differenza dell’ancor più piccola eschara circolare posta quasi al centro del vano, sufficiente da sola a motivare la necessità di uno o più opaia. La preminente rilevanza cultuale dell’altare, rispetto all’intero settore in cui si trova il sacello, è comunque provata dal fatto che l’interno di quest’ultimo continuò a essere frequentato, come provano le offerte votive, anche dopo che, intorno al 270 a.C., crollato il tetto in seguito alla generale devastazione allora subita dal santuario, esso rimase a cielo aperto (e si dovette pertanto provvedere al drenaggio del vano con un’apposita cunetta, che ne attraversò brutalmente il muro S). Lo stesso prolungamento delle pratiche devozionali, almeno fino alla fine del iii secolo a.C., si verificò del resto, a giudicare in particolare dalle monete della serie della prora, nel caso del già ricordato altare periferico zeta con la contigua fossa omicron. Oltre a questi cumuli di pietre, riconoscibili con sicurezza come altari, l’area sacra Sud di Pyrgi ne accoglie altri, in genere più piccoli, di interpretazione dubbia, anche per

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Fig. 6. Sacello alpha. Pyrgi, area Sud.

lo stato di conservazione. Quanto alla cronologia, tutti e quattro gli esempi sicuri sono fortunatamente databili. Dell’altare interno al sacello alpha si è già detto che risale alla metà del iv sec. a. C., quando il sacello fu costruito. Quelli zeta e iota risultano stratigraficamente coevi all’ampliamento dell’area sacra, che ebbe luogo verso il 480-470 a.C. Il ny invece, che è l’unico guarnito, come si è detto, di un piano sacrificale a lastrone litico (di forma circolare), si colloca nella prima fase di vita dell’area, iniziante intorno alla metà del vi secolo. Una eccezionale scoperta, avvenuta nel settembre 1998, appena pochi mesi fa, consente oggi di precisarne la datazione al 510-500 a.C. Si tratta del bothros a fossa emisferica rho, scavato nell’argilla gialla del dosso originario e ricolmo di oltre quaranta vasi dipinti, esclusivamente greci e in gran maggioranza attici a figure nere, includenti come elementi recenziori alcune ‘Floral Band-cups’ e una lekythos del Gruppo di Phanyllis (Fig. 7). Situato a soli due metri a E dell’altare, è da intendere verosimilmente come una sontuosa offerta sepolta in occasione della sua fondazione. Nei pressi, sulla sommità del dosso Est, sono state rinvenute numerose lamine di ferro a forma di

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foglia, forate alla base per essere legate a mazzo (Fig. 8), uguali a quelle comprese nel deposito kappa, di cui appresso dirò, e interpretabili come sortes cleromantiche appunto a forma di foliae (cfr. Verg., Aen., iii, 445-450). Ciò fa ritenere che l’altare fosse sacro a una divinità oracolare, certamente la stessa cui è dedicata una parte almeno del deposito citato. Gli altari descritti, ancora sconosciuti all’epoca del mio ‘Santuari d’Etruria’ (Colonna 1985a), così come del libro della Edlund sui santuari extraurbani e rurali (Edlund 1987), non trovano confronti a quel che so né in Etruria, a parte le citate ‘ruote’ rinvenute fuori posto nei santuari dell’Etruria interna, né nel resto dell’Italia antica. Essi sono tuttavia riconducibili alla tradizione, rimasta viva fino in piena età imperiale, anche per le occasioni più solenni e ufficiali (Tac., Hist., 4, 53), degli altari di zolle di terra erbosa, che Varrone faceva risalire alla religione prenumaica, quando presso i Romani non esistevano ancora né templi né simulacri divini. In quella lontana e mitizzata età si sarebbe fatto ricorso per il culto soltanto a temporaria de caespite altaria, oltre che a umili vasa samia, ossia di argilla (Antiquitates rerum divinarum, i, fr. 38 Cardauns; per i vasa samia vd. Onorati, 1992, p. 226 sgg.). Questi ultimi corrispondevano a quello che noi chiamiamo genericamente ‘impasto’, come si evince dai passi, verosimilmente anch’essi varroniani, di Isid., etym., xiv, 6, 31 e xx, 4, 3 (i ‘samii’ sarebbero i più antichi vasi fittili, inventati a Samo, anteriori a quelli in Red-Ware, la cui invenzione, almeno nell’ambito della coroplastica, era attribuita da Plin., n.h., xxxv, 152, sulle orme anche lui di Varrone, al sicionio Butades). Sostituite le zolle con pietre, ammassate senz’ordine, ecco gli altari di terra diventare duraturi e sfidare il tempo, giungendo fino a noi, beninteso laddove le aree sacre sono state scavate con la dovuta attenzione e soprattutto in misura esauriente. Gli esempi di Pyrgi sono tanto più interessanti in quanto non risalgono, come i pochi messi in luce in Grecia, all’età geometrica o alto-arcaica, anche se sappiamo che in zone periferiche di quel paese gli altari di pietre sono rimasti in uso fino ad età imperiale (vedi il caso di Pharai in Acaia: Paus., vii, 22, 5), ma ad età tardoarcaica e classica, con un fenomeno di conservatorismo religioso degno della massima attenzione. È verosimile che esso sia stato favorito, nel nostro caso, dal valore fortemente simbolico attribuito nel lessico iconografico etrusco ai massi e alle rocce, quali allusioni alla soglia che separa il mondo dei vivi da quello dei morti (Roncalli 1997). Particolarmente significativi al riguardo sono le raffigurazioni sul sarcofago di Laris Pulenas e su quello da Torre San Severo, dove il sacrificio di Polissena si svolge accanto a quello che sembra un vero e proprio altare di pietre, sul quale poggia il piede l’ombra di Achille (Roncalli 1997, fig. 10) (Fig. 9). Che siano in ballo fattori ideologici e di conservatorismo è mostrato da altrettanti altari, di tipo diverso e per così dire normale, che troviamo nella stessa area Sud di Pyrgi, verosimilmente consacrati alle stesse divinità, anche se è da presumere per riti di altro carattere. Mi riferisco agli altari theta (Fig. 10) ed epsilon, posti al servizio dei sacelli beta e gamma e spettanti rispettivamente alla prima e alla seconda fase del santuario, nonché all’altare delta, anch’esso spettante stratigraficamente alla seconda fase, demolito quando nelle immediate adiacenze sorse, nella fase successiva, il sacello alpha già ricordato. Sono altari che, per quanto è dato giudicare dalla superstite assisa di fondazione o, nel caso di epsilon, dai resti della prima assisa dell’alzato, erano costruiti in opera quadrata di blocchi di tufo rosso e avevano una forma parallelepipeda tendente al cubo («simple, built altars with a short, rectangular plan», nella terminologia di Rupp 1991). All’altare epsilon, privo di un’assisa di fondazione e con l’alzato in ‘frame construction’, era addossata sul lato NW una piccola cista quadrata di lastre di pietra, fungente da bothros e forse, nello stesso tempo, da bassa prothysis. Rinvenuta scoperchiata, conteneva ancora due

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Fig. 7. Ceramiche dal bothros rho dell’area Sud.

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Fig. 8. Lamina bronzea dal deposito Kappa.

vasi miniaturistici alludenti alla libazione (un craterisco acromo e un’oinochoe attica a f. n. tarde), mentre nei pressi era sepolto quale offerta di fondazione un lingotto parallelepipedo di piombo. Un quarto altare costruito, di cui resta solo la sottofondazione rettangolare di schegge di tufo compattate, si trovava al margine S dell’area sacra, in una posizione quindi non dissimile da quella degli altari di pietre zeta e iota, ma in corrispondenza di una vasta bassura del terreno. Anche forse per compensare tale situazione, ma certo non solo per quello, era stato collocato su un podio, avente forma circolare di quasi quattro metri di diametro, collegato a una larga rampa per agevolare la salita, si direbbe più al bestiame da sacrificare che agli attori del sacrificio (Fig. 11). La struttura (lambda), spogliata e dell’altare e del paramento murario del podio in occasione della dismissione dell’intera fascia S dell’area sacra, avvenuta all’indomani del sacco siracusano di Pyrgi, intorno alla metà del iv secolo a.C., conserva solo l’anello di fondazione con il nucleo terroso interno (accogliente una vistosa concentrazione di offerte di piombo grezzo, in forma di lingotti parallelepipedi di tre misure diverse, la minore simile a quella del lingotto già ricordato a proposito dell’altare epsilon). Priva di confronto non solo nel santuario di Pyrgi, ma anche negli altri sia dell’Etruria che del mondo greco, la struttura ricorda fortemente il c. d. altare di Grotta Porcina presso Blera, della prima metà del vi sec. a.C., che era anch’esso in realtà il basamento, in questo caso rupestre, di un altare, o in alternativa di uno o più cippi (a obelisco?) (Fig. 12). Scolpito sui fianchi del tamburo e della ‘rampa’ d’accesso con un maestoso corteo di quadrupedi, era collocato verso il centro di un’area teatriforme a gradoni, anch’essi rupestri. La prossimità al colossale tumulo che ha dato nome al luogo fa ritenere tutto l’insieme funzionale al culto funerario, prestato ai propri avi dai componenti della gens aristocratica proprietaria del tumulo. Il richiamo tipologico a un simile monumento, entro la cornice del santuario pyrgense, significa probabilmente, come nel caso del ‘palazzo’ di Montetosto (Colonna 1985b), appropriazione da parte della comunità di Caere di forme architettoniche che, nate per appagare esigenze di ‘visibilità’ gentilizia, vengono ora messe al servizio della religione civica, ricevendo un nuovo contenuto (in questo caso, come mi appresto a dire, connesso al culto degli dèi dell’Oltretomba).

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Fig. 9. Particolare del sarcofago da Torre San Severo.

Fig. 10. Area Sud, altare delta.

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Fig. 11. Area Sud, altare lambda.

Fortunatamente infatti possiamo conoscere non solo l’età dell’altare lambda, ma anche le divinità cui esso era consacrato. Lo spiazzo circostante il monumento accoglie i resti di alcune thysiai deposte nella nuda terra, la più notevole delle quali è la formazione kappa, scavata nel 1994. Consta di tre gruppi di offerte, deposte in buche poco profonde separate da poche pietre e ricoperte da un unico cumulo di terra, una sorta di tumuletto (‘mound’), asportato assieme alla sommità del deposito quando, verso la metà del iv sec. a.C., tutta la fascia al limite S del santuario fu, come detto, dismessa, recuperando terra e materiali per la costruzione di un piazzale sull’opposto lato N dell’area. Le offerte, di natura assai varia, a differenza di quelle del già ricordato deposito rho, comprendono aes rude, bronzi lavorati, un mazzo di probabili sortes di lamina di ferro e bronzo a forma di foglia, terrecotte (due protomi a stampo di tipo magno-greco raffiguranti una divinità femminile), vasi vitrei, alabastrini e soprattutto fittili, di ceramica sia attica a f. r. che, in minor quantità, etrusca. I vasi meglio databili, in corso di studio da parte di M. P. Baglione, sono un kantharos gianiforme attribuito al Pittore di Syriskos e un

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Fig. 12. Grotta Porcina. In basso il c.d. altare, in alto a destra il tumulo.

cratere a colonnette con Eracle bevitore servito da un satiro, attribuito al Pittore di Tyskiewicz, entrambi del 480-470 a.C.: datazione estensibile all’altare su podio lambda, che appartiene pertanto alla seconda fase di vita del santuario. Il cratere reca sotto il piede l’iscrizione etrusca mi fuflunusra (Colonna 1997), in cui l’aggettivo fuflunusra, ossia ‘fuflunio’, è da intendere verosimilmente come epiteto di una divinità maschile. Divinità che una seconda e ancor più importante iscrizione dello stesso deposito, apposta sul piede di una perduta kylix attica, chiama col nome di ±uri, associandolo in asindeto a quello della dea Cav(a)tha (mi ®uris cavaıas). I nomi degli dèi ±uri e Cavtha, entrambi già noti in altri santuari, ma finora misconosciuti, ritornano, separati, in numerose iscrizioni vascolari rinvenute in più luoghi dell’area Sud (Colonna in «StEtr», lvi, 1989-1990, pp. 313-324, più altre inedite). Anche per l’assenza ormai ben verificata di teonimi diversi, non può esservi dubbio che si riferiscano agli dei che in quell’area erano i titolari del culto. Alle menzioni esplicite vanno aggiunti ovviamente gli epiteti, che per il dio sono Apa, ‘padre’, e forse Lapse, presente al possessivo su due targhette bronzee di donarii, inedite (cfr. il gentilizio latino Laberius, di ignota etimologia, passibile pertanto di una origine teoforica), mentre per la dea

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si potrebbe pensare al nome Ecile, dipinto sotto il piede di una tarda coppa locale a v. n. (se rapportabile, attraverso la trafila fonetica *Eicle > *Ecle > Ecile, al greco AúÁÏË, ‘la Splendente’, nome portato tra l’altro da una sposa o figlia di Helios e quanto mai adatto a Cavtha, dato che l’omonima pianta, nota anche come millefoglie o achillea, è detta Solis oculus in una glossa di Dioscoride). Poiché ±uri, il cui nome compare a Orvieto nella variante ±ur, è certamente identico al Soranus dei Falisci e, tramite questo, è stato passibile dell’assimilazione da un lato ad Apollo e dall’altro al Dis Pater dei Romani, non che al greco Hades, la sua compagna ha molte probabilità di essere un’ipostasi di Persefone/Proserpina. Dis Pater e Proserpina furono venerati insieme a Roma sia presso il Comizio, in relazione al mundus risalente alle origini della città, sia nel Tarentum del Campo Marzio, dove si celebrarono per tutta l’età imperiale i Ludi Saeculares, con riti notturni intorno ad arae temporales (La Rocca 1984, p. 43 sgg.), forse non dissimili da quelle di pietre dell’area Sud di Pyrgi. La verifica della identificazione proposta per Cavtha viene dall’epiteto ±e¯ ‘Figlia’, trasparente calco dell’appellativo greco Kore, attribuito alla dea in una dedica orvietana di metà v sec. a.C. Istruttiva è anche la più tarda dedica di un cippetto bronzeo «a Espi, madre di Ca(v)tha», o, il che è lo stesso, «a Espi, la Madre, (e) a Ca(v)tha», resa nota da Larissa Bonfante in «StuEtr», lix, 1994, p. 269 sgg., nella quale Espi, se Ca(v)tha è Kore, non può che essere un appellativo, finora sconosciuto, di Vei/Demeter. Quanto alla connotazione ‘solare’ di Cavtha, essa non può troppo meravigliare, sia per la credenza che il sole di notte splendesse nell’Ade, attestata a partire da Pindaro e da Aristofane (Rohde 1897, p. 541, nota 1), sia perché già nell’Odissea non solo le porte dell’Ade sono dette le ‘porte di Helios’ (xxiv, 12), ma è Circe, la figlia di Helios, a insegnare a Odisseo come scendere appunto tra i morti. A ciò si aggiunge il carattere ctonio assunto da Sol nell’Italia centrale, rivelato dall’antichissimo epiteto di Indiges ricevuto a Roma e a Lavinio, che ne faceva l’antenato mitico dei Latini (Torelli 1984). Anche a Pyrgi, del resto, i culti più notevoli della colonia romana erano, a giudicare dalle iscrizioni, quelli di Sol Iuvans e del Pater Pyrgensis. Meno convincente appare l’identificazione della dea con Ecate, recentemente proposta (Maggiani 1997), dato che, pur restando in un ambito infero, non si appoggia a specifici attributi, resi noti dagli scavi, e non tiene conto né del rapporto di coppia con ±uri né dell’epiteto di ‘Figlia’, dato ad essa per antonomasia. Sempre in tema di altari, nell’area Sud di Pyrgi anche il sacello gamma, di cui appresso dirò, ne accoglieva uno al suo interno, ma di un tipo affatto diverso da quello del sacello alpha, anche se altrettanto rudimentale: due conci mal squadrati di tufo, posti l’uno accanto all’altro nella ‘cella’, sulla destra, dotati ciascuno di una grossa cuppella incavata nella faccia superiore, con canalicolo per il deflusso (Fig. 13). Una versione semplificata, si direbbe, delle mensae per libazioni e offerte incruente, proprie del culto etrusco degli antenati, sia domestico che funerario, come insegnano la tomba Campana e la tomba delle Cinque Sedie di Caere, alcune tombe a fossa dell’agro di Bolsena (la maggiore con la mensa di pietra, posta a ridosso del sema a stele e recante significativamente una dedica a Farı[an], il ‘Progenitore’), i c.d. foculi fittili delle tombe dell’agro vulcente e i c.d. incensieri o presentatoi bronzei delle tombe orientalizzanti (Colonna 1996a). L’unico altro tempio etrusco in cui è stato segnalato il ritrovamento di blocchi con cuppella, ma in questo caso fuori posto, è il tempio del Belvedere a Orvieto, che ha restituito non a caso anch’esso dediche vascolari tardo-arcaiche a ±ur(i) e ad Apa, cui più tardi è subentrato Tinia Calusna, ossia un Tinia imparentato alla divinità infera Calus. Ritornando agli altari su podio, l’esempio lambda dell’area Sud di Pyrgi è privo di confronti nell’ambito dei santuari, come si è detto, per la forma circolare del basamento e

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Fig. 13. Pyrgi, area Sud. Sacello gamma.

per la rampa di accesso, ma non per il principio della collocazione su un’apposita piattaforma rialzata, che lo isola dall’area circostante. Funzionalmente simili sono infatti i podii B e D del santuario dell’acropoli di Marzabotto (Fig. 14), entrambi a pianta quadrata, forniti di scala di accesso e del tutto indipendenti dai templi A e C che sorgono al loro fianco, i cui altari sono da ritenersi perduti con il franamento dell’area antistante. Il podio D, riccamente scorniciato in pietra da taglio, accoglieva verosimilmente sulla sua superficie di oltre 80 mq non solo uno o più altari, ma anche donarii e forse un simulacro. In altre parole era un minuscolo temenos, che la pianta quadrata formalmente assimilava, a differenza di quello rinvenuto a Monteguragazza nel secolo scorso (Edlund 1987, p. 83 sgg.), a un templum, cioè a un locus inauguratus. Il podio B, assai più piccolo (17 mq) e disadorno, si prolungava notevolmente nel sottosuolo racchiudendo al suo interno, in posizione centrale, un pozzo profondo ben m 6,50, in cui è stato giustamente riconosciuto quello speciale tipo di ‘altare’ per divinità ctonie e catactonie che era il mundus. Costruito, per ovvii motivi strutturali, quando ancora non esistevano i templi vicini, probabilmente è da considerare la prima installazione cultuale sorta sull’acropoli della città. Poiché secondo la tradizione conservata da A. Caecina tutte le città dell’Etruria padana erano state consacrate dall’ecista Tarconte al dio che i Romani chiamavano Dis Pater, non può esservi dubbio che quello del podio B sia per l’appunto il mundus sacro a questo dio, che gli Etruschi padani chiamavano non ±uri ma Mantus, come risulta sia da Servio (Aen., x, 199) che dal nome stesso della ‘capitale’ Mantua/Mantova, patria di Virgilio. Che si tratti di un omologo di ±uri è ora provato da una dedica arcaica a Manı, in corso di pubblicazione in «StEtr», lxiii, 1998, proveniente dallo stesso bothros del

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Fig. 14. Marzabotto, santuario dell’acropoli.

santuario di Via Verdi a Pontecagnano, che ha restituito le tre dediche vascolari in greco ad Apollo già da tempo rese note. Infatti sia a Pyrgi che ad Arezzo, sia a Falerii che sul M. Soratte la corrente interpretatio Graeca di ±uri/Soranus era, come informano le fonti letterarie ed epigrafiche, proprio Apollo, stanti in primo luogo le competenze oracolari del dio indigeno, attestate dalle sortes col suo nome rinvenute presso Viterbo e ad Arezzo, e verosimilmente più l’Apollo infero di Cuma che non quello delfico (Colonna 1996b). Altri altari su podio, alto e di forma quadrangolare, dotato di un complesso apparato di cornici, sorgevano isolati appena fuori le mura urbane, in probabile relazione con le contigue necropoli, a Vignanello nell’agro falisco e nel fondo Patturelli di Capua, sacro quest’ultimo a una dea prossima a Venere Libitina (da ultimo Coarelli 1995) (Fig. 15). Invece al Fontanile di Legnisina nel suburbio di Vulci l’altare di v-iv sec. a.C., che era adiacente, come a Marzabotto, a un tempio monumentale a tre celle, sorgeva a livello del terreno all’interno di un angusto recinto rettangolare, quasi addossato col lato di fondo alla rupe ma anche su quel lato chiuso da un alto muro a ortostati, con ingresso probabilmente sul lato corto S, dove la modanatura di base, presente sugli altri due lati esposti alla vista, sembra mancare (Fig. 16). L’intento comunque evidente di rendere ‘segreto’ l’altare fa ritenere che, delle due divinità menzionate dagli ex-voto, Uni e Vei, fosse quest’ultima, comunemente assimilata a Demeter, la dea dei misteri, a essere la signora del recinto, mentre a Uni, venerata come Huinthnaia, forse con allusione alla copiosa sorgente che ha dato nome al luogo e ne costituisce l’elemento più caratterizzante (Colonna 1988), era dedicato il tempio, di cui non conosciamo l’altare perché l’area antistante risulta devastata. Ciò a prescindere dall’unicità del deposito votivo, che era stata favorita

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Fig. 15. S. Maria Capua Vetere, altare del fondo Patturelli (da Koch 1907).

dalla disponibilità di un sito per così dire predestinato quale era l’intercapedine tra il recinto dell’altare e la rupe (basti citare al riguardo il caso del santuario di Portonaccio a Veio, dove le clamorose scoperte del 1916 ebbero luogo appunto tra il muro del recinto e il piede dell’incombente rupe). Un simile recinto, ma bipartito internamente e occupato da più fondazioni di piccoli altari (?), va probabilmente riconosciuto nella struttura quadrata tardo-arcaica beta, inglobata nel terrazzo del tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia. Gli altari su podio, o entro recinto, fin qui menzionati sono ovviamente altra cosa dagli altari, a volte ugualmente scorniciati e di notevole mole, quale è per es. quello di Pieve a Sòcana, che non erano spazialmente isolati rispetto alla restante area sacra né defilati nei confronti del tempio. Altari sui quali si sacrificava stando a livello del terreno, e quindi in basso rispetto al tempio (Vitruv., iv, 9), ma in relazione visiva con la sua fronte, e possibilmente con la porta della cella in cui si trovava il simulacro (Vitruv., iv, 5, 1). Non mi soffermo su questi altari, che non pongono problemi particolari. Mi limito a ricordare che nel santuario monumentale di Pyrgi l’altare del tempio B giace, ridotto alla sola fondazione, sotto la coltre di sabbia dell’arenile, mentre quello del tempio A è stato interamente distrutto dal mare. Merita invece qualche altra considerazione il tipo dell’altare su podio e soprattutto quel suo precedente logico che, almeno in Etruria, sembra esserne stato l’altare entro recinto. Ho iniziato a portare l’attenzione su di esso scavando, nei lontani anni ’60, quella struttura del santuario monumentale di Pyrgi che chiamammo Area C (Colonna 1966) (Fig. 17). Essa infatti in origine non era altro che un recinto, racchiudente un pozzo per acqua e due altari monolitici, l’uno cilindrico e forato da un canale verticale sull’asse, già ricordato a proposito dell’analogo apprestamento dell’altare iota dell’area Sud, l’altro invece di forma rettangolare, conservato solo per quanto riguarda il grosso masso di peperino, irregolarmente trapezoidale, che fungeva da base. Il recinto fu costruito assieme al contiguo tempio B (Fig. 18), per un culto, verosimilmente doppio essendo due gli altari (la grande lamina di bronzo trovata assieme alle lamine d’oro menziona una Uni Chia e un Tina Thvariena), comunque indipendente da quello cui si

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Fig. 16. Vulci, santuario in loc. Fontanile di Legnisina (da Massabò-Ricciardi 1988).

riferiva il tempio (una Uni assimilata ad Astarte), anche se ad esso strettamente affine. Lo prova il contatto diretto tra le due strutture, a differenza di quel che accadeva a Marzabotto e al Fontanile di Legnisina, dove il tempio e il podio, o il recinto, restavano separati l’uno dall’altro. Lo stesso accadeva ai recinti con altari, bothroi e cippi, ricolmi di offerte votive, che accompagnano per quasi tutto il suo sviluppo uno dei lati lunghi del tempio monumentale, ancora non scavato, posto ai piedi di uno dei colli di Narce, nella località che porta il nome forse non casuale di Le Ròte (De Lucia Brolli 1996) (Fig. 19). Invece alla Civita di Tarquinia il complesso messo in luce dall’Università di Milano in piena area urbana consiste esclusivamente di un’agglomerazione di siffatti recinti, risa-

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Fig. 17. Pyrgi, area C del santuario Nord.

lente a età protostorica, attorno a una fenditura naturale della roccia, fatta oggetto a quanto pare di culto (Fig. 20). Sostanzialmente un unico grande recinto a pianta quadrata di m 54 di lato, fasciato internamente su almeno tre lati da ambienti di varia forma e dimensione e con uno o più altari nella corte centrale, è il santuario tardo-arcaico in località Montetosto, sulla via Caere-Pyrgi, solo parzialmente scavato (Colonna 1985b). Eretto verso il 530-520 a.C. forse per il culto ‘eroico’ dei Focei lapidati dopo la battaglia del Mare Sardo, il complesso edilizio, la cui decorazione fittile fu rinnovata più volte nei secoli successivi, era palesemente ispirato alle forme ormai desuete dell’architettura palaziale, fatte proprie dalla Città. Strutture come l’Area C di Pyrgi, i recinti di Monteguragazza, Narce e Tarquinia, non che quelli, ridotti all’accezione minima possibile, del Fontanile di Legnisina e dell’Ara della Regina, e quello, al contrario ingigantito, di Montetosto, così come i podii geneticamente recenziori di Marzabotto, Vignanello e Capua, sono probabilmente ciò che

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Fig. 18. Pyrgi, il tempio B con la contigua area C.

con un termine tecnico, frainteso già da Trebazio nell’età di Cicerone, era chiamato sacellum. Infatti con questo diminutivo dell’aggettivo sostantivato sacrum, equivalente al greco åÂÚfiÓ ‘santuario’, ma nel latino di età storica non più usato in quella accezione (nella quale era stato sostituito da fanum, templum e anche delubrum: cfr. Castagnoli 1984,

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Fig. 19. Narce, santuario in loc. Le Ròte.

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Fig. 20. Tarquinia, sacello beta, ipotesi ricostruttiva (M. Bonghi Jovino).

pp. 3-6), erano designati i loca dis sacrata sine tecto (Fest., p. 422, L.), o un locus parvus, deo sacratus cum ara (Trebatius, apud Gell., vii, 12, 5) (Colonna 1985a, p. 23). A queste definizioni, che ben si attagliano ai recinti e ai podii in questione, a prescindere dalle dimensioni, si può aggiungere il consaeptum sacellum adiacente all’Ara Maxima di Ercole al Foro Boario, che nel mondo romano era la più veneranda di tali strutture a cielo aperto (Coarelli 1988, p. 71 sgg.). La loro ‘invenzione’ era fatta risalire addirittura al mitico progenitore e civilizzatore Foroneo (Varr., de gente populi Romani, fr. 13 Fr.), lo stesso cui era ascritta l’invenzione del fuoco (Paus., ii, 19, 5), preliminare a quella del sacrificio. Nel mondo italico a tale tipo di struttura, rimasta assai più centrale nel panorama dell’architettura religiosa che non nell’Etruria e nel Lazio, fu dato il nome di sakaraklúm, ossia di ‘luogo dove si fanno i sacra’ (Franchi De Bellis 1988, p. 104 sgg.), usato per estensione nel significato di ‘santuario’, in contrapposizione a fììsnú, ossia al tempio o sacello posto al suo interno (Fig. 21). Va da sé che il sacello, nell’accezione delle lingue moderne, e anche in quella presupposta in latino dalla fantasiosa etimologia di Trebatius, giustamente rifiutata da Gellio (> sacra cella), è tutt’altra cosa, anche se nasce, per così dire, dal recinto, di cui inizialmente non è che una componente accessoria, come mostra bene il grande recinto in mattoni crudi di Roselle (Colonna 1986, p. 401 sgg.). Esso corrisponde alla forma più antica di aedes, che Varrone chiama delubrum (apud Nonius, 792, L.), con un termine ambiguo, valido sia per l’edificio che per l’area circostante ubi aqua currit, secondo l’etimologia dell’antiquario L. Cincius (apud Serv., Aen., ii, 225), ed anche per il tipo di feticcio più comunemente in esso ospitato, ossia il palo scorticato (Paul. ex Fest., p. 64, L.). Nella ricostruzione che il grande reatino ha tracciato dello sviluppo storico della religione romana il sacello fa la sua apparizione con il re Numa, per ospitare non il simulacro – introdotto soltanto alla fine del regno di Tarquinio Prisco, con la statua fittile di

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Fig. 21. Santuario di Ercole al confine tra Nola e Abella (da Franchi De Bellis).

Giove Capitolino commissionata all’etrusco Vulca (Colonna 1981) – ma quel suo diretto antecedente che era appunto il feticcio non antropomorfo (del genere del delubrum del passo citato di Paolo). Nella versione in mattoni crudi presente a Roselle il sacello era internamente circolare, come l’aedes Vestae romana, a imitazione delle primitive capanne di legno e frasche. Di norma invece il tempio numaico, per quanto possiamo capire, aveva già una ben più evoluta pianta rettangolare. Le sue caratteristiche, esemplificate per tutta la durata del mondo antico dall’aedes di Giove Feretrio sul Campidoglio, erano la totale inaccessibilità ai fedeli, stante l’assenza del pronao e del peristilio, le esigue dimensioni e la copertura con tetto testudinato, ossia a quattro o almeno a tre falde, ini-

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Fig. 22. Santuario della Grasceta dei Cavallari.

zialmente certo straminee. Si tratta sostanzialmente del tipo di tempio che definiamo anche in Italia a oikos, dall’aspetto più o meno ‘domestico’, ma passibile anche di sofisticati rivestimenti fittili, come insegna all’inizio del vi secolo a.C. il tempio di Piazza d’Armi a Veio. Molti sono gli edifici sacri che si rifanno a questa tipologia in Etruria, nel Lazio e nel mondo italico, dove è durata più a lungo, venendo talora combinata con quella del tradizionale sakaraklúm. Esemplare al riguardo è il santuario di S. Giovanni in Galdo nel Sannio, in cui il sacello quadrato, posto sul fondo di un recinto porticato, riceve il podio ma resta un abaton inaccessibile (da ultimo Coarelli 1996, p. 8 sgg.). In Etruria una disposizione simile, con sacello su podio anche qui privo di scala di accesso, aveva il recinto rurale della Grasceta dei Cavallari sui monti della Tolfa (Colonna 1986, p. 506), al confine interno ceretano-tarquiniese. In questo caso forse il sacello era attorniato non da un portico ma da una serie di piccoli altari quadrati (Fig. 22), paragonabile a quella che nel santuario Nord di Pyrgi fronteggiava il c.d. edificio delle venti celle, o, meglio, a quella presumibilmente esistente nell’hortus cererio cui si riferisce la Tavola osca di Agnone. Ma la più istruttiva esemplificazione dei sacelli di età relativamente avanzata, coeva alle manifestazioni della grande architettura templare, è fornita per l’Etruria anche in questo caso dall’area Sud di Pyrgi, di cui abbiamo già illustrato i numerosi e disparati altari (Fig. 2). Si potrebbe in realtà citare anche Gravisca, ma in quel santuario, ugualmente costiero e portuale, l’aspetto emporico, legato alla intensa frequentazione di Greci, è stato talmente soverchiante, che è passata in secondo piano, almeno fino al iv secolo a.C., ogni preoccupazione di carattere architettonico e urbanistico, col risultato di una agglomerazione quasi selvaggia di strutture strettamente funzionali. Abbiamo invece nell’area Sud di Pyrgi uno spazio chiaramente organizzato con tre sacelli in suc-

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cessione cronologica, nell’ordine beta, gamma (Fig. 13) e alpha (Fig. 6), databili rispettivamente al 530-520 a.C., alla metà del v e alla metà del iv secolo a.C. Di essi beta è stato il primo a essere demolito, in concomitanza con la costruzione di alpha e la creazione del piazzale Nord, la cui cunetta di drenaggio ha attraversato l’area del distrutto sacello. Privi tutti di podio, sono costruiti con muri di pietrame rinforzato qua e là da blocchi di tufo, oppure, nel caso di beta, con i muri esterni a blocchi, successivamente in gran parte asportati, e i muri interni in pietrame. I tetti di tegole erano integrati da un parziale apparato figurativo, di complessità decrescente da beta (acroteri e antefisse) a gamma (sole antefisse), fino a scomparire del tutto in alpha. Elementi comuni a tutti sono l’ingresso a semplice porta, che si apre in facciata ma in posizione decentrata rispetto all’asse dell’edificio, evidentemente per conservare segretezza all’interno, e la presenza di una banchina addossata esternamente alla facciata per la sosta dei fedeli, composta da un unico filare di blocchi di tufo. Inoltre gamma e alpha accolgono, come si è detto, altari all’interno, anch’essi decentrati, nel primo del tipo a cuppella, nel secondo di pietre brute. Assai diverse tra loro, ma tutte prive finora di puntuali confronti tra i sacelli conosciuti, sono le piante degli edifici, nonostante le dimensioni piuttosto simili (le superfici coperte assommano per beta a mq 32, per gamma a mq 49, per alpha a mq 44). Il sacello più piccolo e più antico, beta, ha una pianta oblunga, con due piccole celle di larghezza diseguale e un portico retrostante in antis, non comunicante con le celle. Il ritrovamento nel battuto tufaceo che pavimentava la cella sinistra di una coppia di orecchini d’oro a piccolo grappolo agganciati insieme, interpretabile come un’offerta di fondazione, accerta che quella cella, maggiore dell’altra, era sacra a una divinità femminile, da identificare certamente, dopo tutto quello che si è detto a proposito degli altari e delle iscrizioni di dedica, con Cavtha. L’altra cella, nel cui battuto era un’olpetta a solo collo verniciato, di tipo ionico, adatta a libazioni di vino sull’altare theta antistante, sarà stata la cella di ±uri. I due dèi sembrano pertanto essere stati venerati in celle separate, ma sotto lo stesso tetto, decorato da acroteri di colmo e di falda in forma di grandi, originalissimi torsi rampanti di Acheloo (Fig. 23) e di figure mal conservate di animali, non che dalle solite antefisse a testa femminile senza nimbo di stile ionizzante. L’aspetto complessivo dell’edificio ricorda, se si prescinde dalla collocazione posteriore del ‘pronao’ e dalla decorazione del tetto, quello di un noto modellino votivo dall’agro di Velletri, anch’esso con due celle e di datazione tardo-arcaica (Staccioli 1968, n. 32) (Fig. 24). Si può proporre come luogo della sua collocazione originaria il santuario, verosimilmente pertinente pur esso a una coppia di divinità, situato poco oltre sul percorso della via Appia nella località dal nome parlante di Soleluna (Melis, Quilici Gigli 1983, p. 9 sgg.). Alla Cannicella di Orvieto il vasto sacello a pianta pressoché quadrata dei primi decenni del v secolo, che occupava il settore centrale della terrazza del santuario, comprendeva due celle di larghezza quasi uguale, prive a quanto pare di pronao e costruite con muri in opera a telaio. La decorazione fittile includeva antefisse a testa femminile nimbata e acroteri a volute, uno dei quali raffigurante forse il truce sacrificio di Polissena (Stopponi 1991), cui nel tardo v secolo si aggiunsero appliques con i busti della coppia di Ade e Persefone (Stopponi in Colonna 1985a, p. 119), e forse anche della coppia di Demetra e Kore (Prayon 1993, p. 417). Il sacello gamma è un oikos a pianta rettangolare allungata, con angusto ingresso fuori asse e ampia ‘cella’ che ripete la pianta dei muri perimetrali (Fig. 13). La cella è delimitata da un esile zoccolo di pietre raccogliticce, includente un mezzo ceppo di àncora litica, sì da presupporre un alzato assai leggero, di legno o di graticcio, simile a quello che è necessario postulare per il sacello esistente sul fondo del cortile del palazzo di Murlo. In questa sorta di adyton o penus si trovano a terra, sulla destra, i due blocchi di

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Fig. 23. Pyrgi, area Sud. Acroterio del sacello beta.

Fig. 24. Modello di tempietto dall’agro di Velletri.

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Fig. 25. Antefissa del sacello gamma dell’area Sud di Pyrgi.

tufo con cuppella prima ricordati. Nel 1997 una trincea di saggio, scavata dietro l’edificio sul suo asse, ha messo in luce un grosso lingotto parallelepipedo di piombo infisso verticalmente nel terreno, evidentemente sia come riferimento planimetrico per la progettata costruzione che come offerta di fondazione, rivolta, come nel caso dell’antistante altare epsilon e dell’altare lambda, al dio infero, signore delle ricchezze del sottosuolo. Il tetto era decorato con antefisse a testa nimbata di donna e di Gorgone, di tipi presumibilmente campani finora a quanto pare non attestati in Etruria (Fig. 25). Trattandosi del sacello in cui sembra essere stato trasferito alla metà del v secolo il culto di ±uri, dissociato da quello di Cavtha, è in esso che doveva trovarsi la trapeza d’argento di ‘Apollo’, fatta asportare da Dionisio il Vecchio durante il sacco siracusano del 384 a.C. (Aelian., var. hist., i, 20). La pianta rettangolare ricorda quella dei più antichi sacelli, di vii e prima metà di vi secolo, quali l’‘edificio sacrificale’ della Civita di Tarquinia, adiacente al crepaccio oggetto di culto (Fig. 20), il primo sacello di Afrodite sorto a Gravisca, il sacello già ricordato di Piazza d’Armi a Veio, quello adiacente alla ‘reggia’ di Acquarossa e quello, assai piccolo ma contenente un simulacro eccezionalmente scolpito nel tufo, che precedette il famoso tempio di Giunone Curite in località Celle sotto l’acropoli di Falerii. Nel Lazio si possono citare il sacello del santuario orientale di Gabii e quello che precedette il primo tempio periptero di Mater Matuta a Satricum. La pianta si collega direttamente al tipo di casa signorile di età orientalizzante imitato dalle tombe ceriti del genere delle tombe della Nave, degli Animali e dei Leoni Dipinti. Celle parimenti strette e lunghe avevano i templi monumentali di tipo tuscanico e anche molti di quelli a cella unica, a cominciare dal più antico tempio dell’Ara della Regina, recentemente individuato (Bonghi Jovino 1997). Il sacello alpha ha una pianta quadrangolare assai vicina al quadrato (m 6,30 per 7), con ingresso sul lato corto rivolto verso il mare. La sua costruzione ha coinciso con la

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demolizione dell’altare delta, diversamente orientato, le cui funzioni sembrano essere state continuate dall’altare di pietre brute posto all’interno dell’edificio, come si è detto. Le dediche vascolari, rinvenute all’interno o nei pressi, menzionano la sola dea Cavtha (la sigla an¯, graffita sotto uno skyphos, si riferisce probabilmente alla funzione sacrale del vaso: cfr. i vasa anclabria usati nel culto dai sacerdoti secondo Paul. ex Fest., p. 10, L.), pure chiamata in causa dal ritrovamento di gioielli, quanto mai adatti alla pulchra Proserpina (Verg., Aen., vi, 142). Sembra evidente che la dea, rimasta unica abitatrice di beta dopo il trasloco di ±uri nel sacello gamma espressamente per lui costruito, abbia più tardi ricevuto anch’essa un sacello tutto per sé, quando beta fu demolito a seguito del saccheggio siracusano. L’assenza di ogni decoro del tetto, antefisse comprese, significa probabilmente una completa ‘mimetizzazione’ dell’edificio, assimilato a una normale abitazione. La pianta quasi quadrata trova confronto nel già citato sacello palaziale di Murlo, nel sacello di Menerva all’angolo E del santuario di Portonaccio a Veio e nei sacelli, anch’essi già citati, del santuario di Cannicella a Orvieto e di Poggio Casetta a Bolsena, peraltro forniti il primo di due celle e di un pozzo, il secondo di una coppia di pilastri interni. Una diversa categoria di sacelli, di carattere ancor più marcatamente domestico, anche perché era previsto che fossero aperti a un’ampia frequentazione, è quella che accoglie all’interno banchine disposte a squadro, evidentemente per il consumo di pasti comuni in occasione di feste o altre ricorrenze. Ne sono esempi il sacello minore del santuario rurale della Grasceta dei Cavallari e quello esistente in capo al ponte arcaico di San Giovenale, il cui aspetto sacrale è testimoniato dalle iscrizioni vascolari rinvenutevi, includenti una dedica a L[urs] Larunita (Colonna, Backe Forsberg 1999) (Fig. 26). Di questo tipo erano con ogni probabilità i sacelli ‘privati’ costruiti dalle grandi gentes aristocratiche presso le proprie tombe a tumulo, dei quali solo recentemente sono stati rinvenuti resti sicuri e consistenti. Mi riferisco al sacello di fine vii secolo di cui sono state scoperte le fondazioni a Vulci presso il tumulo della Cuccumelletta, a pianta rettangolare con vestibolo (Sgubini Moretti 1994, p. 23 sgg.), e a quello di prima metà del vi secolo testimoniato dalle terrecotte architettoniche rinvenute a più riprese presso i tumuli dell’Ara del Tufo a Tuscania (Sgubini Moretti, Ricciardi 1993). Lontani successori di questi sacelli arcaici a oikos sono i vani, con o senza banchine e spesso porticati, inseriti nell’architettura delle tombe a facciata rupestre a San Giuliano, Norchia, Castel d’Asso e nell’agro falisco (Colonna Di Paolo 1978, p. 11 sgg.; Colonna 1990, p. 120 sgg.). Ovviamente non era in tali sacelli, né nei vani delle tombe a facciata, che aveva luogo, come spesso si afferma, la prothesis dei defunti, cerimonia strettamente connessa con la casa e ambientata nel relativo vestibolo o nell’antistante cortile, al riparo dei suoi portici o di appositi velari. Presso la tomba si svolgevano invece i banchetti funerari con i connessi ludi e sacrifici, per i quali si crearono in età arcaica altari monumentali come quello già citato di Grotta Porcina e quello ad ante recentemente messo in luce nei pressi della Cuccumella di Vulci (Sgubini Moretti 1994, p. 36 sgg.). Analoga funzione ebbero probabilmente i due monoliti cilindrici, splendidamente modanati e scolpiti con fregi di stile tardo-orientalizzante, rinvenuti in via Fondazza a Bologna, all’ingresso di quello che sembra essere stato un piccolo santuario suburbano (Ortalli, Bermond Montanari 1986). Anche il tipo di sacello a cielo aperto, su piattaforma, del genere dei podii B e D di Marzabotto, trovò nell’architettura funeraria manifestazioni ‘parallele’ di grande prestigio. La scoperta dell’avancorpo a gradini del secondo Melone del Sodo a Cortona, che con i suoi 64 metri di diametro è uno dei maggiori tumuli esistenti in Etruria, ha riproposto, con la sua eccezionale monumentalità e raffinatezza decorativa, il significato cultuale che tali apprestamenti, funzionali all’accesso alla calotta dei tumuli, possono assu-

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Fig. 26. San Giovenale, sacello del ponte.

mere. Si tratta di una terrazza di m 5 per c. 6,5, alta due metri e preceduta da dieci gradini (Zamarchi Grassi 1992). Terrazza e gradinata sono bordate da un parapetto sormontato da sei grandi acroteri a palmetta su doppia voluta, desinente in basso con i due gruppi scultorei di una leonessa in lotta con un guerriero che la trafigge con la spada (Fig. 27). Databile nel secondo quarto del vi secolo, il monumento è sicuramente ispirato ai grandi altari greco-orientali del genere di quello di Capo Monodendri presso Mileto. L’assenza dei resti di un altare o di cippi rende a prima vista problematica la supposta funzione cultuale, così come nel caso della terrazza ricostruita sul portico della tomba a forma di casa di Pian di Mola a Tuscania (Sgubini Moretti 1989) (Fig. 28) e della terrazza scolpita agli angoli con colossali teste di leone e di ariete su una tomba a tre camere nella necropoli di Castro in loc. Crocifisso del Tufo (Colonna 1986, p. 448 sgg.). Tuttavia la presenza dei cippi sull’antistante calotta del tumulo e, nel caso della tomba di Tuscania, sul columen del coronamento displuviato del monumento rende verosimile che le azioni cultuali (preghiere, libazioni) si potessero svolgere anche in vista e non a diretto contatto con i semata dei defunti, verosimilmente su apposite cavità del pavimento di cui lo stato di conservazione delle strutture non consente di verificare l’esistenza. Il contatto diretto con quei sostituti degli altari si ebbe invece di regola sulle terrazze di coronamento delle tombe a facciata rupestre di iv-iii sec. a.C. di Norchia, Castel d’Asso, Sovana, ecc., in cui i cippi sono, o erano, materialmente infissi nel piano di calpestio (Fig. 29). Resta da dire dei templi di pianta più complessa e articolata, di norma monumentali per dimensioni, tecnica costruttiva e apparato decorativo, di cui il più notevole rappre-

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Fig. 27. Cortona secondo Melone del Sodo. Avancorpo monumentale in corso di restauro.

sentante è il tempio di tipo tuscanico descritto da Vitruvio, sul quale esiste ormai una imponente letteratura. Il poco tempo rimasto non mi consente tuttavia che un rapidissimo accenno. L’apparizione dei nuovi tipi di architettura sacra è collegata da Varrone, con un nesso che non sembra essere solo di ordine cronologico, alla introduzione dei simulacri antropomorfi, a suo dire avvenuta a Roma a più di 170 anni dalla fondazione della città, ossia intorno al 580 a.C., come già ricordato. Da quel momento nel tempio sarebbe stata distinta la cella, contenente il simulacro e coperta dal tradizionale tetto testudinato, ovviamente ormai solo a tre falde, e dal pronao, aperto verso l’esterno e accessibile ai fedeli, coperto da un tetto displuviato (Colonna 1981). In realtà una svolta intorno al 580 a.C., documentabile archeologicamente, c’è stata nell’architettura templare, ed è quella che ha visto l’introduzione del pronao in antis, di norma con colonne, e del podio modanato. A Roma essa avvenne trasponendo al tempio la pianta della ‘casa larga’, affermatasi nell’architettura domestica con l’orientalizzante recente, e il risultato fu il tempio tuscanico a tre celle con l’ampio vestibolo ipostilo. Di esso la prima testimonianza resta per noi il tempio serviano di S. Omobono (570-560 a.C.), in attesa che lo scavo delle gigantesche fondazioni del tempio capitolino, a quanto pare imminente, ne verifichi la datazione al 580 circa tramandata dall’annalistica (Fig. 30). Nell’Etruria, più tradizionalista, la pianta del nuovo tipo di tempio risultò dall’aggiunta del pronao a un edificio del vetusto tipo a oikos, come è documentato dal piccolo tempio rurale in loc. Punta della Vipera presso S. Marinella, sacro a Menerva, e ora dalla prima fase del tempio dell’Ara della Regina, databile verso il 560-550 in base ai dati stratigrafici e ai pochi frustuli dei rivestimenti fittili (Bonghi Jovino 1997). Il tempio, verosimilmente già allora sacro ad Artumes, la dea di cui i Focei andavano propagando il culto in Occidente, aveva dimensioni imponenti (m 12 per 27, su un basamen-

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Fig. 28. Tuscania, tomba in loc. Pian di Mola (da Sgubini Moretti 1989).

Fig. 29. Norchia, terrazza sommitale con cippi.

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Fig. 30. Roma, tempio di Giove Capitolino (da Mura Sommella 1998).

to di m 31,5 per 55), ingrandite a dismisura quando, nel corso della seconda metà del vi secolo a.C., assunse la pianta di un tempio tuscanico ad alae, con un secondo e mag-

Fig. 31. Tarquinia, tempio dell’Ara della Regina.

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giore pronao a colonne, che si prolungava ad avvolgere sui due lati il precedente edificio (Fig. 31). Verso il 510 a.C., col tempio B di Pyrgi, sacro a Uni-Astarte, al tempio tuscanico ad alae si affianca il tempio periptero a cella unica, di chiara impronta greco-campana. Ad esso seguì subito dopo, col tempio di Portonaccio a Veio, il ‘classico’ tempio tuscanico a tre celle, destinato anche e soprattutto in Etruria a una rapida fortuna, che nel v secolo fece passare in secondo piano tutte le altre forme di tempio monumentale sperimentate nel secolo precedente. Negli ultimi anni il numero delle testimonianze si è alquanto arricchito, grazie alla scoperta a Caere di due templi urbani, l’uno nel cuore della città, in località Vigna Parrocchiale, sacro forse a Uni, l’altro in località S. Antonio, sacro a Hercle, entrambi ancora inediti. Ad essi si aggiungono il tempio di Vulci in località Legnisina, già ricordato, quello intravisto a Narce in località Le Ròte, quello di Pieve a Sòcana e quello dei Castori al Foro, assai simile anche nelle misure al tempio A di Pyrgi, sacro a Thesan-Leucotea, che resta il meglio conservato di tutti, soprattutto nella splendida decorazione fittile. E col ricordo di Pyrgi e dei suoi monumenti, che vanno, come si è visto, dagli umili altari di sassi ai templi di grande mole, adorni di autentiche opere d’arte, chiudo la mia relazione ringraziando ancora una volta la collega ed amica Nancy De Grummond e quanti hanno avuto la pazienza di ascoltarmi. Bibliografia Atti Chiusi-Chianciano 1993: La civiltà di Chiusi e del suo territorio, Atti del xvii Convegno di Studi Etruschi e Italici a Chiusi-Chianciano 1989, Firenze, 1993. Bonghi Jovino1997: M. Bonghi Jovino, “La phase archaïque de l’Ara della Regina à la lumière des découvertes recentes”, in Les Étrusques, les plus religieux des hommes. État de la recherche sur la religion étrusque (Actes du colloque international, Paris, 17-19 novembre 1992), Paris, 1997, pp. 69-92. Castagnoli 1984: F. Castagnoli, “Il tempio romano: questioni di terminologia e di tipologia”, «pbsr», 52, 1984, pp. 3-20. Coarelli 1988: F. Coarelli, Il Foro Boario, Roma, 1988. Coarelli 1995: F. Coarelli, “Il santuario del Fondo Patturelli a Capua”, in L’incidenza dell’antico: studi in memoria di Ettore Lepore, vol. 1. Napoli, 1995, pp. 371-387. Coarelli 1996: F. Coarelli, “Legio linteata. L’iniziazione militare nel Sannio”, in La Tavola di Agnone nel contesto italico. Atti del convegno di Agnone 1994, Firenze, 1996, pp. 3-16. Colonna 1966: G. Colonna, “Nuovi elementi per la storia del santuario di Pyrgi”, «ArchCl», 18, 1966, pp. 82-108. Colonna 1981: G. Colonna, “Tarquinio Prisco e il tempio di Giove Capitolino”, «pp», 32, fasc. 196-198, 1981, pp. 41-59. Colonna 1985a: G. Colonna, “Santuari d’Etruria”, Catalogo della mostra di Arezzo, Milano, 1985. Colonna 1985b: G. Colonna, “Il santuario di Montetosto”, in Case e Palazzi d’Etruria. Catalogo della mostra di Siena, Milano, 1985, pp. 192-196. Colonna 1986: G. Colonna, “Urbanistica e architettura”, in Rasenna: Storia e civiltà degli Etruschi, ed. G. Pugliese Carratelli, Milano, 1986, pp. 371-530. Colonna 1988: G. Colonna, “Una nuova dedica alla etrusca Uni”, «BdA», 48, 1988, pp. 23-26. Colonna 1990: G. Colonna, “Corchiano, Narce e il problema di Fescennium”, in La civiltà dei Falisci. Atti del xv Convegno di Studi Etruschi e Italici a Civita Castellana 1987, Firenze, 1990, pp. 127-135. Colonna 1996a: G. Colonna, “Il dokanon, il culto dei Dioscuri e gli aspetti ellenizzanti della religione dei morti nell’Etruria tardo-arcaica”, in Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi, ed. L. Bacchielli and M. Bonanno Aravantinos, «StMisc», 29, Roma, 1996, pp. 165-184. Colonna 1996b: G. Colonna, “L’Apollo di Pyrgi”, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici. Atti del xxxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1993, Napoli, 1996, pp. 345-375.

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ART E DEL PIC E NO 1. Le forme della devozione el momento storico che vide l’apogeo della civiltà picena, tra vii e prima metà del vi secolo a.C., le manifestazioni collettive del sentire religioso, rivolte verso gli dèi riconosciuti come propri da ciascuna comunità o gruppo di comunità, toccarono il punto più alto di una crisi che era iniziata praticamente con l’età del Ferro. Il fenomeno è strettamente connesso, come nell’Italia tirrenica, allo strutturarsi di una società aristocratica, che antepone i valori dell’oikos e del genos a quelli del gruppo di appartenenza, a livello sia paganico che tribale. I luoghi deputati tradizionalmente ai culti collettivi, per lo più marcati da peculiarità naturali, quali le sommità montane, le caverne, i laghi e le sorgenti, scenario privilegiato di raduni e di feste che certamente avranno contribuito a promuovere e consolidare i processi di autoidentificazione etnico-politica, non ricevono più offerte copiose come nell’età del Bronzo (basti pensare al “sistema” di grotte delle gole del Sentino e, su un piano più limitato, all’opposta estremità del territorio considerato, alla Grotta del Colle presso Rapino),1 al punto da apparire, alla verifica archeologica, come pressoché disertati. Al loro posto prendono grande sviluppo, secondo una linea di tendenza affermatasi già alla fine dell’età del Bronzo e poi sempre meglio nella prima età del Ferro, le forme di culto domestico e “privato”, specialmente in quella fondamentale variante, privilegiata dalle fonti documentarie per noi disponibili, che è il culto funerario, rivolto in primo luogo ai patres e alle matres familias defunte, e in generale ai maiores. Espressioni di questo culto, che finisce con l’assumere un carattere eroico e celebrativo, sono le stele, iconiche o no (come nel caso di Novilara e di Fermo), e le statue funerarie, che rappresentano uno dei tratti distintivi della civiltà picena, in parte prese in considerazione in questo catalogo in quanto portatrici di messaggi affidati alla scrittura, ma non meno importanti, come si dirà appresso, in quanto manifestazioni di arte. Comunque tutto l’universo funerario, con la complessità degli apprestamenti architettonici (tombe a circolo e a tumulo) e la ricchezza spesso addirittura abnorme dei corredi, coi loro beni anche suntuari “sacrificati” a pro dei defunti, osservabile a Numana, Belmonte, Pitino, Campovalano e in tante altre necropoli, di vecchia e nuova scoperta, sta a dimostrare, al di là della ostentazione di status e di benessere, che si è in presenza di una esaltazione del ruolo dei morti nei confronti della società dei vivi, perseguita dai gruppi aristocratici sul modello di quanto si stava verificando al di qua dell’Appennino, e specialmente in Etruria. Avvicinandoci al vi secolo non mancano segnali di ripresa degli antichi culti a base comunitaria, per lo meno nel caso di quelli che si svolgevano fuori delle grotte e in rapporto con le nuove realtà insediamentali vicaniche o addirittura para-urbane. Nelle immediate adiacenze dell’abitato preromano di Cupra Marittima, sul colle di Sant’Andrea, è stato di recente messo in luce un deposito votivo, accumulato entro un ampio sulcus rettilineo lungo almeno 8 metri, composto esclusivamente da migliaia di oggetti miniaturizzati di impasto modellati a mano: in gran maggioranza vasi ma anche mestoli, fornelli, un tavolino tripode e utensili vari pertinenti alla casa.2 Il deposito sembra in relazione con un limite, evidentemente considerato come sacro, separante l’abitato dalla

N

1 Per esemplari databili al primo quarto del vii secolo a.C. cfr. Lazio 1976, 139, 269-270; Martelli 1977, pp. 24-26. 2 Santoro 1996, 212, tav. xvb; Martelli 1977, pp. 26-32.

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contigua necropoli, sede di un culto in cui un ruolo essenziale doveva competere alla libazione, o comunque al consumo di liquidi. Resti di un deposito in parte analogo vengono da un santuario fontile presso Montefortino d’Arcevia,3 dove per l’età imperiale alcuni supporti di bacili hanno fatto pensare al culto della Bona Dea.4 Ma è a partire dalla fine del vi-inizio v secolo che torna a manifestarsi con frequenza il fenomeno dei depositi votivi, aventi però ora un carattere del tutto nuovo. Praticamente scomparse le offerte fittili, il loro posto è preso da offerte metalliche, soprattutto statuette di bronzo fuso a cera persa, di produzione etrusca o, assai più spesso, locale. Queste ultime sono state da chi scrive definite “umbro-settentrionali”, perché le provenienze fanno ritenere che siano state prodotte in quelle parti del “grande Piceno”, che nella divisione augustea vennero a costituire l’Umbria transappenninica, ossia l’area a nord dell’Esìno e la fascia montana che si estende da Fabriano a Pieve Torina, senza escludere botteghe operanti in siti piceni assai prossimi a tali settori (le provenienze includono Stàffolo e Apiro). Le statuette raffigurano offerenti o, più spesso, con una innovazione di enorme portata, divinità locali omologate iconograficamente a quelle del pantheon greco ed etrusco, quali Ercole, Giove, Minerva e soprattutto Marte, nelle vesti di un guerriero che muove all’assalto.5 Raffigurazioni di esseri divini o demoniaci, anche se rare, si erano avute già durante il periodo orientalizzante e alto-arcaico, ma solo in contesti decorativi o latamente narrativi, pertinenti a speciali oggetti di arredo. È il caso dell’essere a testa umana con quattro protomi equine a mo’ di braccia, costituente l’impugnatura di un grande coperchio (?) bronzeo dalla tomba 14 di Pitino di S. Severino6 (Fig. 1), del più esplicito “signore dei cavalli” delle grandi anse di idrie da Belmonte, Tolentino e Foligno, o della dea alata sovrastante due piccoli kouroi, presente su lastrine d’avorio da Belmonte che forse rivestivano un cofanetto.7 Nei bronzetti in questione invece le divinità sono raffigurate a sé stanti, come fossero dei simulacri di culto, di cui qualche volta raggiungono la dimensione minima di un piede e mezzo (l’Ercole da Castelbellino (Fig. 2), il probabile Giove da Cagli e due degli esemplari Ortiz di Ginevra superano i 40 cm, così come il Giove etrusco da Apiro al museo di Kansas City). Si tratta di un tardo e parziale riflesso del processo di antropomorfizzazione del divino, che in Etruria e nel Lazio si era compiuto tra la fine del vii e il primo trentennio del vi secolo (Vulca), in diretto rapporto con lo sviluppo della religione civica e con la monumentalizzazione dell’architettura sacra, segnata dalla creazione del tempio “tuscanico” (tempio di Giove Capitolino a Roma). I depositi votivi piceni, per essere costituiti, come quelli dell’Umbria propria e dell’Etruria settentrionale interna, interamente di bronzi, possono essere considerati come vere stipi, ossia accumuli di ricchezza reale e non simbolica. Essi sono per noi l’unica testimonianza di santuari privi di strutture in muratura, e quindi altrimenti destinati per solito a rimanere ignoti. Situati sempre fuori degli abitati, si trovavano preferibilmente presso corsi d’acqua o sorgenti, come nel caso delle stipi di Isola di Fano e di Cagli, o di bronzetti isolati come quello, eccezionale è già citato, dal greto dell’Esìno sotto Castelbellino,8 opera di un maestro tra i più acculturati in senso etrusco, attivo agli inizi della bronzistica picena di ambito devozionale. Altri bronzetti relativamente antichi e di non comune levatura, anch’essi isolati sia come ri-

3 Annibaldi 1960, p. 379, n. 3, fig. 20.3; Lollini 1976, tav. 114. 4 Cianfarani 1976, tav. 27; Papi 1990, fig. a p. 138. Ad un analogo vaso multiplo di Pitino sembra alludere Moretti 1992, p. 48, n. 214. 5 Baldelli 1994, p. 218, n. 389, fig. a p. 152. 6 Bianchi Bandinelli 1925, pp. 360, b e 361, fig. 47b; Stefani 1916, pp. 205, 226, fig. 14. 7 Percossi Serenelli 1987, fig. 21 d; Lollini 1976. 8 Lucentini 1997, fig. a p. 38 e fig. a p. 48 n. 25.

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Fig. 1. Coperchio con figure plastiche da Pitino.

trovamento che come stile, sono il Marte da Villa Ruffi di Rimini e il Giove da Firenzuola nell’alta valle del Santerno,9 indizianti una circolazione di artigiani e di prodotti che dall’alta Romagna raggiunge il corso dell’Esìno. È questa l’area che, prima di diventare in gran parte ager Gallicus, conobbe una forte spinta colonizzatrice di provenienza umbra, rivolta verso le terre padane (Strabo 5, 1, 10). Sarà pertanto opportuno parlare per i bronzetti in questione di un ambito umbro-piceno, segnato da un forte dinamismo culturale, attivato dagli intensi contatti con l’Etruria, soprattutto volsiniese e chiusina. Contatti testimoniati in primo luogo dalle importazioni, ma anche dalla trasmissione di tipologie di ex voto di più lontana estrazione, come le figure di lamina ritagliata, talvolta di imponenti dimensioni, che dal Lazio raggiungono Montefortino.10 Anche ai margini meridionali della regione medio-adriatica si coglie, scendendo nel v secolo, un fiorire di bronzistica devozionale, legato ai fermenti che accompagnano l’affermarsi delle nuove realtà etnico-politiche, in particolare dei Frentani e dei Marrucini. Torna ora a essere frequentata la Grotta del Colle, che il ritrovamento della Tavola di Rapino nel secolo scorso fa ritenere sede di un culto nazionale dei Marrucini.11 Il bronzetto raffigurante la dea “giovia” venerata nella grotta è opera di un maestro documentato “fra Sangro e Tronto”, di cui ci è giunta una nutrita serie di Ercoli, che sono tra le crea9 Percossi Serenelli 1987, p. 126; Baldelli 1997, fig. a p. 166. 10 Martelli 1977, pp. 24 sgg., 44, con bibl. prec.; più di recente: Santoro 1986, p. 120 sg.; Id. 1997, p. 551 sgg. Per un’analisi delle vie seguite dagli scambi culturali nelle Marche: Percossi Serenelli 1981. 11 Cfr. il kantharos dalla tomba xxi di Grottazzolina con la decorazione a meandro eseguita mediante l’applicazione di lamelle metalliche (Lollini 1976, tav. 113) come accade in omologhi esemplari dell’Etruria meridionale interna (Colonna 1973a, p. 65). Questa tecnica decorativa, particolarmente in uso in ambiente golasecchiano, compare anche a Poggio Sommavilla (Martelli 1977, p. 21) e a Monteleone di Spoleto (De Angelis 1985, p. 284).

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italia ante romanum imperium zioni più originali della produzione sabellica di v secolo, da porre nella scia del notissimo Marte del Louvre dalla Sicilia.12 Dalla vicina Pretoro viene un Ercole appartenente anch’esso a una serie copiosa, imparentata con l’Ercole da Posada, portato in Sardegna verosimilmente intorno al 386 a.C. da “coloni” romani devoti di Feronia, provenienti da aree sabelliche di recente annessione.13 È evidente che la fascia costiera a sud dell’Aterno è ormai parte integrante di una nuova realtà, che ha come referenti politici e culturali da un lato Roma e dall’altro i Sanniti. 2. La scultura in pietra

Fig. 2. Ercole in assalto da Castelbellino.

Nell’Italia preromana la produzione di scultura in pietra ha conosciuto uno sviluppo assai diseguale e discontinuo, a differenza di quel che si è verificato nel mondo greco non coloniale. In generale si può dire che abbia costituito una difficoltà la qualità modesta, se non decisamente mediocre, della pietra disponibile, prima della “scoperta” del marmo lunense, avvenuta soltanto all’inizio dell’età augustea. Ciò ha portato a privilegiare, in campo artistico, la statuaria in bronzo e soprattutto in terracotta, che Varrone riteneva «condotta a perfezione in Italia, e principalmente in Etruria», citando subito dopo l’opera di Vulca.14 Il primato in tale tecnica, la cui matrice greca è sottolineata dalla tradizione secondo la quale sarebbe stata introdotta in Italia dagli artisti venuti con Demarato poco dopo la metà del vii secolo a.C., spetta in realtà all’Etruria meridionale, anzi a Caere e Veio e di riflesso al Lazio e alla Campania. Città e territori dove la lavorazione della pietra è rimasta praticamente circoscritta ai tufi vulcanici locali, facili da tagliare ma troppo grossolani per essere scolpiti con arte.

12 Marconi 1933, tav. xvi.3; Annibaldi 1968, tav. viii.1; Moretti 1992, p. 48, n. 212; Percossi Serenelli 1992, fig. 24b. 13 Bonomi Ponzi 1997, p. 206, n. 20.5, tav. 69; Neri 1988, p. 62, n. 2.49; Stefani 1914, p. 61 sg. 14 Plin., nat. hist. 35, 157.

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Tanto più colpisce il fatto che proprio in questa regione, a Caere, s’incontra la più antica testimonianza etrusca di scultura in pietra, risalente alla fine della prima età orientalizzante (circa 680 a.C.). Si tratta di una coppia di figure maschili sedute, scolpite ad altorilievo sulle pareti del vestibolo della tomba delle Statue a Ceri, riferibili per stile e iconografia a un maestro di formazione culturale nord-siriana.15 L’episodio conferma il ruolo di primo piano avuto dalla città nella elaborazione della cultura orientalizzante d’Etruria, grazie alla fortissima capacità di attrazione esercitata verso artisti e artigiani anche di lontani paesi, ma non sembra tuttavia avere avuto un apprezzabile seguito in loco. Gli scultori vicino-orientali venuti a Caere devono ben presto essersi trasferiti altrove, là dove era viva la tradizione di segnalare esternamente le tombe dei “principi” con stele o cippi monumentali, e cioè nell’Etruria settentrionale tirrenica e soprattutto a Bologna, dove hanno lasciato testiFig. 3. Le due statue monianze insigni della loro maestria, note di Casale Marittimo (metà vii secolo). da tempo. In pratica questi artisti sono andati a stabilirsi ai margini, per così dire, di quel mondo ligure dove, in Lunigiana, non era mai venuta meno la tradizione preistorica delle stele antropomorfe.16 Il recupero presso Casale Marittimo, avvenuto nel 1987 ma solo oggi reso noto, di una coppia di statue stanti (Fig. 3), collocate in origine sulla sommità di un tumulo, databili in base ai resti del corredo e alla tipologia della camera cui si riferivano alla metà del vii secolo,17 mostra con quanta prontezza sia stata recepita nell’Etruria nord-occidentale la concezione della statua a tutto tondo, del tutto indipendentemente dall’insegnamento greco. Si tratta anche in questo caso, come già a Ceri, degli antenati (maiores) del defunto sepolto nell’unica camera del tumulo, raffigurati però, a differenza della tomba delle Statue e in linea con quello che poco più tardi avverrà a Vetulonia nel tumulo della Pietrera, senza attributi e in un atteggiamento di compianto, peraltro ben diversificato, con le braccia disposte simmetricamente sul torso oppure portate enfaticamente al collo. Davanti a monumenti come questi, scolpiti con autentica acribia artigianale, diventa comprensibile l’affermazione, risalente al grammatico Porfirione, forse dipendente anch’egli da Varrone, che «tra gli Itali furono gli Etruschi i primi a fare statue di marmo».18 Dove ovviamente l’accento va posto non solo sull’impiego del marmo, che in effetti nell’agro volterrano e pisano è assai più precoce e comune di quanto in passato non si pensasse»,19 ma anche sul concetto di “statua antropomorfa”. 15 Colonna, von Hase 1984. 17 Esposito 1999. 19 Bonamici 1991, p. 814 sg.

16 Da ultimi Gervasini, Maggiani 1996. 18 Schol. Horat., ep., 2, 2, 180.

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Fig. 4. Carta di distribuzione delle sculture di area medio-adriatica. Il circolo indica le stele “a erma” (tipo 1), il triangolo le stele a lastra grezza (tipo 2), il quadrato le statue-stele (tipo 3).

Di fatto quelle di Casale Marittimo sono attualmente le più antiche statue che si conoscano in Italia, colonie greche comprese. La loro esistenza aiuta a comprendere episodi come quello della copiosa statuaria del sepolcreto-santuario di Monti Prama presso Cabras in Sardegna, del tutto priva di confronti e di veri precedenti nell’isola. Il richiamo è tanto più pertinente se essa realmente si data nell’Orientalizzante recente,20 quando i rapporti etrusco-sardi sono in pieno sviluppo.21 E, quel che più importa in questa sede, Casale Marittimo aiuta a comprendere le manifestazioni di statuaria di ambito medio-adriatico, che a differenza di quelle sarde sono diffuse su un areale vastissimo, da Numana alla valle del Sinello, penetrando nell’interno fino al Fucino22 (Fig. 4). 20 Tronchetti 1988, p. 73 sgg.

21 Ugas 1989.

22 Colonna 1992

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Sull’Adriatico il discorso tuttavia si fa più complesso, perché occorre tenere conto degli antefatti locali, databili a partire dalla fine dell’età del Bronzo, offerti dagli allineamenti di stele aniconiche di Scurcola Marsicana e ora anche di Fossa nei Vestini, in relazione anche qui con tombe a tumulo (nella variante a circolo), benché si pensi che il loro significato sia prevalentemente di ordine “astronomico”.23 Si deve inoltre tenere conto della prossimità di un antichissimo focolaio di scultura litica, quale è quello dauno-garganico, risalente con i cippi a scudo e a testa umana alla fine del x secolo a.C.,24 per poi fiorire tra vii e vi secolo con la lussureggiante produzione delle stele sipontine,25 gli andriántes la cui fama sembra aver confusamente raggiunto il mondo greco, in connessione con la leggenda di Diomede.26 La più antica stele medio-adriatica, proveniente da Guardiagrele ai piedi della Maiella, combina possiamo dire una protome umana, scolpita a rilievo su un informe elemento di supporto, con un lastrone antropomorfo di tipo sipontino, sulle cui facce, spessore compreso, sono delineati a sola incisione gli elementi del costume considerati particolarmente qualificanti, dalle armi (dischi-corazza con relativo balteo, lancia) agli ornamenti (collana a pendenti). I dischi-corazza, riproducenti in forma semplificata esemplari bronzei del gruppo Capena da me a suo tempo definito, consentono di datare la pietra nella seconda metà del vii secolo. La conformazione per così dire a erma della stele di Guardiagrele è a capo di una trafila tipologica, che arriva fino alle stele di Penna Sant’Andrea, in cui la testa è ridotta a una maschera e la lastra, alta anche più di due metri, funge da supporto a una iscrizione incisa verticalmente su più righe con grandi caratteri. Con queste stele, menzionanti la touta sabina della valle del Vomano, si scende verosimilmente nei primi decenni del v secolo (mentre con le iovile capuane a lastra fittile, che possiamo considerare come l’ultima eco di questo genere di monumenti, arriviamo al iv-iii secolo a.C.).27 Di gran lunga più notevole è il filone tipologico delle statue-stele, che ha la sua testa di serie nel torso colossale di Pallano tra Sangro e Sinello, nel paese dei Lucanati,28 per arrivare al Guerriero di Capestrano (Fig. 5) e alla sua compagna, nonché alle statue di Rapino e di Collelongo tra i Marsi, alla testa di Loreto Aprutino e al frammento della seconda statua da Pallano. Alla documentazione sono da aggiungere quasi certamente le teste di dimensioni colossali, giunteci isolate, di Numana (Fig. 6) e di Manoppello nella valle del Pescara. Con questi monumenti si fa lentamente strada sul versante medio-adriatico, tra il tardo vii e la fine del vi secolo a.C., il principio della statua a tutto tondo, che ha il suo punto di arrivo nella Dama di Capestrano e nel Guerriero di Rapino. Nelle sculture più antiche del gruppo la dipendenza genetica dalla stele è rivelata dai pilastri che inquadrano la figura a partire dalle ascelle (Pallano, Guerriero di Capestrano), in quelle recenziori dalla lastra che fa da fondale alla intera figura, testa compresa, scolpita a forte rilievo (testa di Loreto Aprutino, gambe di Collelongo e della seconda statua da Pallano, e inoltre il frammento garganico da Monte Saraceno,29 che sembra essere un mediocre echeggiamento delle esperienze abruzzesi). Un episodio collaterale e secondario è rappresentato dalla stele di Bellante, in cui la figura risalta a bassorilievo su un pietrone lasciato volutamente grezzo, con l’iscrizione che le si avvolge intorno ad andamento spiralico. 23 25 27 29

d’Ercole, Cairoli 1998, i, 17, 112. Nava 1980; 1988. Franchi De Bellis 1981. Nava 1992, p. 272 sgg., fig. 23.

24 Nava 1987. 26 Nenci 1984, p. 206 sg. 28 Colonna 1997a, p. 82, nota 44.

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Fig. 5. Statua di guerriero da Capestrano.

Un elemento che accomuna stele ad erma e statue-stele maschili di area abruzzese, collegandole entrambe alle stele sipontine, è il grande copricapo a disco, scolpito in un blocco riportato con l’aiuto di un robusto tenone, presente sulla testa di Manoppello, sul Guerriero di Capestrano (dove la grande crista lo assimila a un elmo), sulla testa di Loreto Aprutino e sulle stele di Penna Sant’Andrea, dove non è più in connessione diretta con la testa. Le stele sipontine, d’altro canto, con il loro ricchissimo repertorio di raffigurazioni narrative incise a piccola scala,30 costituiscono, com’è ben noto, il mi-

30 Nava 1980; 1988.

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glior confronto disponibile per le stele di Novilara. Sembra come se, nella frangia costiera a nord dell’Esìno, i contatti marittimi con l’area garganica prendano, assieme a quelli transadriatici (motivi spiraliformi), il sopravvento sui contatti terrestri con l’Etruria, predominanti nel Piceno vero e proprio. Si tratta comunque di un fenomeno ben circoscritto e in fondo contraddittorio, poiché senza un apporto nord-etrusco la scrittura di Novilara risulta incomprensibile.31 Per la datazione si può dire che la testa di Numana è fatta risalire dal tipo di elmo conico a doppia cresta tipo Novilara al più tardi alla fine del vii secolo, mentre il Guerriero di Capestrano dovrebbe scendere al secondo quarto o alla metà del vi secolo per i dischi-corazza del tipo Alfedena, ma privi di episémata. Anche se questa caratteristica è indice, più che di recenzioFig. 6. Testa di guerriero in pietra rità, di pertinenza ad aree esterne a quella da Numana. di origine del tipo, compresa tra il Pescara, il Fucino, il Sangro e il Trigno, come provano gli esemplari, tutti aniconici, da Aleria, Colfiorito32 e Rocchetta di Pietramelara,33 con l’eccezione del disco da Camerano presso Numana,34 che è evidentemente un pezzo importato. Le statue-stele adriatiche riprendono la gestualità delle statue di Ceri, di Casale Marittimo e di Vetulonia, con le braccia portate l’una sul petto e l’altra sull’addome, ma tutto lascia credere che raffigurino il defunto (o eccezionalmente la defunta) e non i suoi avi, come accadeva in Etruria, entro una società aristocratica assai più strutturata. Il gesto assume pertanto il valore di un segno di rango, come era stato nella tomba di Ceri, segno reso esplicito sul Guerriero di Capestrano dall’ascia impugnata con la destra, e in generale dalla attribuzione alle figure di armi e di ornati. Non è facile precisare da quali ambiti e per quali vie l’impulso verso la statuaria sia arrivato dall’Etruria sul versante adriatico. Probabilmente, come si è detto all’inizio, i primi apporti sono venuti dall’Etruria nord-occidentale, dove sembrano aver operato scultori vicino-orientali (Casale Marittimo), e in particolare da Vetulonia, attraverso la mediazione di Caere e di Capena. Lo fanno pensare l’esasperato allungamento e la struttura tubolare, priva di scansioni, del torso di Pallano, che ricorda monumenti quali la stele colossale di Sant’Angelo a Bibbione e taluni bronzi vetuloniesi, echeggiati anche dal carrello di Strettweg.35 La testa di Numana da parte sua sembra rivelare connessioni con l’Etruria tiberina e chianina, dalle urnette fittili di Orte ai canopi di Chiusi. A questi più antichi apporti fanno seguito quelli cui si deve la particolare cifra stilistico-iconografica esibita dai Guerrieri di Capestrano, Rapino, Pallano 2 e Collelongo, che ricorda for-

31 Colonna in La Romagna 1985. 33 Caiazza 1986, p. 74.

32 Bonomi Ponzi 1997, pp. 114, 363, tomba 177, fig. 21. 34 Papi 1996, p. 124. 35 Colonna 1992.

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temente i bronzetti etrusco-settentrionali del “Gladiatorentypus”, ma anche i maestri etrusco-corinzi di Vulci di seconda generazione (600-580 a.C.). A favore di un ruolo preminente di Vulci nel processo di trasmissione di stilemi e iconografie sta il ritrovamento, sul tumulo di Corvaro presso Borgorose nel Cicolano, sulla via che conduceva dalla Sabina verso il Fucino, di una statua di sfinge, di impronta chiaramente vulcente.36 Né, più in generale, si può trascurare il grande sviluppo avuto a Vulci in età alto- e medioarcaica dalla scultura in nenfro, anche se il tipo della figura umana stante non sembra sia stato affrontato.37 A Vulci del resto è stato recentemente rinvenuto l’unico esempio noto in Etruria di un’ansa bronzea tipo Grächwil col signore dei cavalli, del tipo assai popolare nel Piceno.38 La scultura in pietra medio-adriatica ha esercitato a sua volta una forte azione di stimolo verso altri ambiti culturali, transadriatici e transalpini, provocando manifestazioni isolate di statuaria, incomprensibili senza la sua mediazione. Rinviando al contributo di O.-H. Frey in questo stesso catalogo, ci si limita a sottolineare la particolare importanza delle testimonianze di Nesazio in Istria, provenienti come sono da un santuario. Le due statue virili in nudità eroica compiono infatti lo stesso gesto delle sculture abruzzesi, confermandone il significato non funerario ma di esaltazione del rango. Inoltre l’effettiva esistenza di contatti con l’area picena è provata dal gran numero di lastre scolpite con motivi spiraliformi, simili a quelli delle già ricordate stele di Novilara. E anche la statua di cavaliere richiama analoghe sculture rinvenute in santuari della valle del Trigno nel contiguo Sannio.39 Si è quindi certamente in presenza di relazioni dirette, attuate per via marittima, in cui la parte avuta dal versante medio-adriatico italiano sembra essere stata predominante. Bibliografia Acque, grotte e Dei 1997: M. Paciarelli (a cura di), Acque, grotte e Dei. 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo, Catalogo della Mostra, Imola 1997; Fusignano (ra), 1997. Alvino 1992: G. Alvino, Nuovi apporti per una conoscenza delle sepolture a tumulo; l’area cicolana, in La civiltà picena 1992, pp. 255-264. Annibaldi 1960: G. Annibaldi, Grottazzolina (Ascoli Piceno). Rinvenimento di tombe picene, «NSc», 85, 1960, pp. 366-392. Annibaldi 1968: G. Annibaldi, La necropoli picena di Pitino di San Severino, in «StMac», 4, 1968 (1970), pp. 236-246. Antica terra d’Abruzzo 1990: V. d’Ercole, R. Papi, G. Grossi, Antica Terra d’Abruzzo. Dalle origini alla nascita delle repubbliche italiche, Roma, 1990. Antiche genti 1994: P. G. Guzzo, S. Moscati, G. Susini, Antiche genti d’Italia, Catalogo della Mostra, Rimini, 1994; Roma, 1994. Archeologia in Abruzzo 1998: V. d’Ercole, R. Cairoli (a cura di), Archeologia in Abruzzo. Storia di un metanodotto tra industria e cultura, (M.B.C.A. Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo), Tarquinia, 1998. Baldelli 1994: G. Baldelli, Tomba di guerriero dalla necropoli picena di Numana, in Antiche genti 1994, pp. 216-219, tav. a p. 152. Baldelli 1997: G. Baldelli, Deposito votivo da Cupra Marittima, Località Sant’Andrea, in Acque, grotte e Dei 1997, pp. 161-179. Bianchi Bandinelli 1925: R. Bianchi Bandinelli, Clusium, «MonAnt», 30, 1925, pp. 209 sgg. Bonamici 1991: M. Bonamici, Nuovi monumenti in marmo dall’Etruria settentrionale, «ArchCl», 41, 1991, pp. 795-817. 36 Alvino 1992. 38 Sgubini Moretti 1994, p. 97 sg.

37 Hus 1961. 39 Colonna 1996a, p. 47.

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POPULON IA E L’ ARCHITETT URA F UNE RA RIA E T RU S C A

T

occa a me, secondo il programma, esporre qualche considerazione finale, a mo’ di conclusione: compito che assolvo volentieri, anche se un po’ a braccio e restando nei limiti delle mie esperienze, che riguardano soprattutto l’Etruria meridionale.1 Prima però lasciatemi sottolineare il grande interesse che ha avuto l’Incontro, non solo per Populonia ma anche, come era giusto fare, per i confronti e per le novità di scavo che sono state presentate, che hanno chiamato in causa gran parte dell’Etruria settentrionale, e non solo essa. L’Incontro è inoltre riuscito particolarmente bene per il clima di cordialità e direi addirittura di familiarità che si è instaurato nel corso di questi due giorni, per merito di tutti i convenuti ma soprattutto delle due Amiche organizzatrici, cui dobbiamo anche per questo il più sentito ringraziamento. Volendo sintetizzare i risultati dell’incontro, direi che esso ha fatto risaltare sempre di più e sempre meglio, sotto vari aspetti, l’originalità dell’architettura tombale di Populonia. È una originalità che ha radici antiche, risalenti addirittura alla piena età villanoviana, ai decenni intorno all’800 a.C., stando alla cronologia tradizionale. Non bisogna dimenticare che in questa età in Etruria un’architettura funeraria semplicemente non esiste: le tombe sono strutture elementari, a pozzo o a fossa, segnalate talora in superficie da un piccolo mucchio di pietre, come nel sepolcreto di San Giuliano nell’entroterra di Tarquinia, da una stele, come a Bologna-San Vitale, o da un circolo interrotto di pietre, come a Vetulonia. A Populonia si incontrano invece fin da allora piccole camere praticabili, con ingresso laterale, che hanno ospitato documentabilmente più deposizioni – ed è questo l’aspetto forse più notevole –, includenti talora non solo una coppia di coniugi, ma anche consanguinei. Il che rappresenta un avanzamento persino rispetto a quello che offre un secolo dopo, intorno al 700 a.C., l’Etruria meridionale, dove le tombe a camera più antiche accolgono normalmente soltanto coppie di defunti. Ma forse l’anticipazione, sul piano del sociale, nei confronti del resto dell’Etruria è solo apparente. In tutti i grandi agglomerati protourbani, tra i quali si annoverava certamente Populonia, era già in atto un processo di frantumazione gentilizia delle comunità, ma fattori ideologici si opponevano al suo manifestarsi a livello funerario. Si tendeva a perpetuare l’idea di un’eguaglianza di ruolo degli individui nei confronti del gruppo, senza tenere conto della loro eventuale appartenenza a nuclei familiari ormai socialmente ed economicamente differenziati. Una realtà di fatto che sempre più si intuisce al di là della diffusa uniformità del costume funerario, ereditata dai Campi d’Urne del Bronzo finale. A Populonia il freno ideologico era meno efficace che altrove, probabilmente per il carattere di insediamento per così dire di frontiera che aveva la città, stante la sua stretta contiguità topografica col porto, rilevata da Strabone (v, 2, 6, cfr. Plin. N.H., iii, 5, 50), e con la sua economia anomala, legata non tanto al tradizionale possesso della terra (è arduo in verità parlare di un territorio agricolo, di una vera chora di Populonia), quanto allo sfruttamento delle miniere. Il che avrebbe significato ben poco, se non si fosse avuta

1 In generale sull’architettura funeraria etrusca di epoca orientalizzante e arcaica si rimanda a Prayon 1975; Colonna 1986; 1994, pp. 558-562; Naso 1997. Per le manifestazioni ceriti dell’Orientalizzanre antico: Colonna, v. Hase 1986. Sui cippi: Blumhofer 1993.

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una forte e ben assestata attività di scambi, anche a lunga distanza, con l’Etruria meridionale, con la valle Padana, con le grandi isole antistanti: in ogni tempo infatti si scavano e si sfruttano le miniere perché si fa commercio dei metalli. Non meraviglia pertanto che gli altri Etruschi, pur giovandosene, avessero un concetto abbastanza negativo di Populonia, come provano le affermazioni di Servio (ad Aen. x, 172) sulle sue origini in qualche modo spurie (mi perdonino i cultori dell’archeologia populoniese), legate anche all’arrivo di allogeni (i Corsi), e soprattutto il dato di fatto, incontrovertibile, del tardivo accoglimento della città tra i Duodecim populi d’Etruria (Torelli 1985). Le tombe villanoviane a deposizioni plurime di Populonia possono però essere viste anche in un’altra prospettiva, come riesumazione, con funzione diversa, delle tombe di tipo collettivo dell’età del Bronzo, da parte di una società che andava riscoprendo il valore dei legami parentelari, veri o presunti che fossero. Ciò accadeva forse dietro suggestioni, non solo architettoniche, provenienti dalle isole e in particolare dalla Sardegna nuragica. E qui vengo a un punto che è stato più volte toccato, con accenti critici, come mi è parso di capire, sia da Gilda Bartoloni che da Antonella Romualdi. In proposito devo fare una piccola precisazione, devo cioè rivendicare il contributo dato molti anni fa a favore del richiamo alla Sardegna a proposito delle tombe a camera villanoviane di cui stiamo discorrendo, perché allora se ne parlava solo nei confronti delle tholoi della Valdarno. Nel convegno di Napoli sulla monetazione etrusca, in cui ero stato chiamato a fare una sintesi sulla storia economica della nazione, io sottolineai l’antichità delle tholoi populoniesi, intendendo dire: “guardate che le tholoi della Valdarno sono un fatto recenziore, se c’è stato un contatto con la Sardegna in tema di architettura funeraria questo è avvenuto in età villanoviana, ed è avvenuto a Populonia” (Colonna 1977, p. 4 sg.). È ovvio che in quella sede ero interessato a valorizzare ogni possibile testimonianza di rapporti di scambio, anche culturale, ma oggi, specie dopo quello che ho ascoltato in questo convegno, sarei indubbiamente anch’io più cauto. Occorre infatti a mio avviso operare alcuni distinguo. Gilda Bartoloni ha richiamato, mi sembra per la Tomba del Rasoio di Bronzo, la forma della tomba a pozzo. Personalmente sarei propenso a vedere, nella forma che assumono le tombe del tipo di quella del Rasoio di Bronzo, ossia piccole camere a pianta circolare (Fig. 1), l’evocazione semplicemente della tradizionale capanna rotonda. Sappiamo infatti quanto abbia pesato, ancora in età storica, il modello ancestrale di quella capanna, da secoli scomparso dalla realtà abitativa, almeno nell’Etruria propria. Non sappiamo che forma avesse la casa Romuli del Palatino e del Campidoglio, ma l’architettura templare si attiene esclusivamente alla pianta rotonda, a Roma con l’aedes Vestae numaica, a Roselle con la tholos del grande recinto in mattoni crudi, quasi certamente carica di valori sacrali. E non ne mancano echi anche a Caere, in quel gran laboratorio di esperienze architettoniche che sono le tombe di età orientalizzante. Mi riferisco al vestibolo a pianta circolare di alcune delle più antiche e notevoli tra le tombe principesche, dalla Tomba Mengarelli a quella degli Animali Dipinti. In quest’ultima l’ambiente circolare è qualificato come il principale della tomba dalla fastosa decorazione dipinta e dalla banchina perimetrale, destinata non ai defunti, inumati nella camera rettangolare successiva, ma agli spettatori e partecipi della parte finale del rituale funebre, che aveva luogo dinanzi o nel vano d’ingresso della tomba. Il vestibolo assume ben presto la pianta quadrata o quadrangolare, ma almeno in un caso, in una tomba in località Monteroni, si conserva a latere, come un relitto, l’ambiente circolare con la sua banchina (Naso 1997, pp. 139 sgg., 303 sgg.). Cosa dire allora del rapporto a suo tempo postulato con la Sardegna nuragica?

populonia e l ’ architettura funeraria etrusca

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Fig. 1. Pianta e sezione della tomba a camera «del rasoio lunato di bronzo» (Necropoli delle Granate).

A mio avviso il rapporto sussiste, ma circoscritto alle coperture e in generale all’idea stessa di un’architettura costruita e in pietra, con vani coperti a pseudocupola o anche a pseudovolta, come abbiamo sentito da Fabio Fedeli a proposito delle interessantissime tombe villanoviane di Poggio del Molino. Qui la tomba 4, a camera rettangolare coperta a pseudovolta (Fig. 2), offre si può dire il prototipo delle tombe costruite dell’Orientalizzante Antico dell’Etruria meridionale, non solo di Caere ma anche di Tarquinia, di Veio e di altri siti minori.

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Fig. 2. Poggio del Molino o del Telegrafo: pianta e sezioni della tomba 4.

E cito l’Etruria meridionale perché è la parte d’Etruria dove l’architettura funeraria compie rapidamente, all’inizio dell’Orientalizzante, i maggiori progressi. Il ruolo della Sardegna, ma citerei anche la Corsica che, non dimentichiamolo, è assai più vicina della Sardegna e ancor più di essa storicamente connessa a Populonia, è consistito probabilmente nel riproporre agli Etruschi di quella città modelli di architettura e soprattutto princìpi di tecnica costruttiva di larga diffusione mediterranea tra l’Eneolitico e l’età del Bronzo, come poco fa ci ricordava Gennaro Tampone, ma di fatto del tutto assenti sul versante tirrenico della Penisola. All’interno dell’Etruria non pare dubbio, d’altra parte, che Populonia abbia influenzato all’origine l’architettura funeraria del Volterrano e della Valdarno, con le sue tholoi monumentali di avanzata età orientalizzante. Queste rappresentano l’ultimo e più

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grandioso esito di esperienze che nella città costiera erano ormai in gran parte superate, reso possibile dal formarsi in quei territori di veri e propri potentati gentilizi, incompatibili con l’assetto urbano precocemente raggiunto da Populonia, pur con le peculiarità prima accennate. Ciò senza escludere che l’enorme capacità di attrazione, esercitata in particolare dai potentati della media Valdarno, che controllavano l’accesso alla Valle Padana, abbia provocato l’arrivo di nuovi impulsi dalla Sardegna, eventualmente mediati questa volta da Pisa o da Vetulonia. Restando all’interno dell’Etruria, emerge oggi un ruolo propulsivo di Populonia anche nei confronti dell’Etruria meridionale costiera. Alle origini dell’architettura funeraria cerite e tarquiniese vi sono infatti strutture rettangolari a corridoio, costruite o semicostruite, che trovano ora l’unico precedente, come si è accennato, a Populonia (Poggio del Molino). I rapporti di Populonia con quelle città, nell’età villanoviana e nel primo Orientalizzante, sono anche meglio documentabili che con le grandi isole tirreniche. Ceriti e Tarquiniesi hanno certamente frequentato da sempre, possiamo dire, l’Etruria mineraria, a cominciare dall’Elba, esercitando nel contempo lucrose forme di controllo e di selezione del traffico nei confronti delle rotte marittime meridionali dirette verso di essa, provenienti dal golfo di Napoli e dal basso Tirreno (Colonna 1981). Ciò non solo nel vi secolo, come sembra ritenere Antonella Romualdi nel suo recente e pregevole lavoro di sintesi su Populonia (Fedeli et al. 1993, p. 108), ma durante tutto l’arco cronologico che qui ci interessa, a partire almeno dal ix secolo. Essi hanno potuto pertanto conoscere direttamente le forme assunte dall’architettura funeraria populoniese e hanno potuto apprezzare i vantaggi offerti dalla copertura con filari di pietre aggettanti nei confronti delle tombe a fossa, che nelle loro città in formazione andavano divenendo nel corso dell’viii secolo sempre più grandi e spaziose. Quello dell’ingrandimento dimensionale delle fosse era infatti un vicolo cieco, finché non si fosse trovato un sistema di copertura dei vani e di protezione del corredo diverso dall’accumulo informe di pietre, dal ricorso alle casse litiche con coperchio e anche dal soffitto a tavolato, sperimentato per esempio a Bologna e a Verucchio (Malnati, Manfredi 1991, figg. 15.1, 19). Senza contare che la copertura a filari aggettanti comportava, come necessario corollario statico, il tumulo, cioè un elemento dalle grandi potenzialità architettoniche per la sua visibilità, quanto mai consono alle esigenze di prestigio e di propaganda del ceto gentilizio in ascesa. Dopo la fase iniziale dell’Orientalizzante il rapporto tra Populonia e l’Etruria meridionale marittima in tema di architettura funeraria si affievolì: i due ambiti culturali procedettero ognuno per proprio conto, con elaborazioni assai complesse e raffinate che non è il caso di analizzare in questa sede, se non per mostrarne le forti differenze. In particolare è istruttivo il confronto tra Caere e Populonia, le due capitali, potremmo dire, di quel fenomeno di enorme rilievo nella civiltà e prima ancora nel paesaggio dell’Etruria arcaica che furono le tombe a tumulo architettonicamente conformato. A Caere, e nel vastissimo territorio ad essa tributario sul piano culturale, includente quasi tutta l’Etruria meridionale interna, con echi fino a Cortona e nella media Valdarno, si fa il tumulo perché sia accessibile. La calotta viene innalzata con terra di riporto, o raramente viene in parte scolpita nel masso, preoccupandosi sempre, per quanto è da noi controllabile, di creare degli apprestamenti stabili per salire su di essa, scavalcando la cintura della crepidine, di norma più o meno riccamente scorniciata. Il più comune di tali apprestamenti sono le famose rampe a gradini, ricordate anche da Andrea Zifferero questa mattina a proposito dei tumuli costruiti dei Monti della Tolfa. Rampe che potevano rivestirsi di apparati decorativi scultorei di primaria importanza, come dimo-

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stra il secondo Melone del Sodo presso Cortona nella parte recentemente scavata (Zamarchi Grassi 1992). Il che significa che la calotta del tumulo aveva una sua precisa funzione, di natura sacrale e religiosa, confermata dai cippi che su di essa dovevano trovare la loro collocazione privilegiata, anche se eccezionale ne è la conservazione loro o dei loro alloggiamenti. Ne abbiamo un esempio di scavo recente a Blera, dove un piccolo tumulo rupestre è sormontato da una struttura circolare costruita a mo’ di altare con tre grosse buche per cippi (Ricciardi 1987), ma soprattutto abbiamo le copiose testimonianze restituite dalle tombe a dado del Viterbese e di Orvieto, succedanee dei tumuli a partire dalla prima metà del vi secolo. A Orvieto gli scavi recenti al Crocefisso del Tufo ne hanno restituito un gran numero di esempi, confermando quel che già gli scavatori dell’800 avevano potuto constatare. A Tuscania la tomba a forma di casa in loc. Pian di Mola è apparsa sovraccarica di cippi e di statue di leoni e di sfingi (Moretti Sgubini 1989), facendo ritenere che lo stesso doveva accadere sulla Cuccumella di Vulci (il cui pilone centrale era certo destinato a sostenere qualche gran cippo, magari a obelisco). Per non parlare delle piattaforme delle tombe rupestri ellenistiche, da Norchia a Sovana, con i loro cippi ancora infissi nel masso o, più spesso, coi relativi alveoli rimasti vuoti. La funzione di tali piattaforme, come da tempo abbiamo riconosciuto mia moglie ed io scavando a Castel d’Asso e a Norchia, è proprio quella di sostenere i cippi e di consentirne la venerazione da parte dei sopravvissuti, che potevano accedere ad essi mediante apposite scale, costantemente presenti (talora con partenza dall’alto della rupe invece che dal piede, se la conformazione dei luoghi lo richiedeva) (Colonna Di Paolo, Colonna 1970 e 1978). A Populonia invece, e in generale nell’Etruria settentrionale marittima, il tumulo, come è stato splendidamente illustrato dai restauri del prof. Barbi e di Antonella Romualdi (Fig. 3), conserva fino alla fine una funzione essenzialmente statica, in relazione alla pseudocupola interna, associata ovviamente a quella di segnacolo monumentale della tomba, con tutti i valori estetici ad essa connessi. Coerentemente con queste funzioni, che non richiedono l’accessibilità della calotta, il tumulo non solo è privo di qualsiasi dispositivo per salire su di esso, ma oppone a chi volesse farlo l’ostacolo della notevole altezza del tamburo e del forte aggetto della grondaia (che è del tutto sconosciuta nel meridione). Altrettanto coerentemente a Populonia mancano, o sono estremamente rari, i cippi, a differenza di quel che si verifica nell’Etruria meridionale. Un’altra differenza sostanziale riguarda il dromos. A Caere e nell’Etruria interna il corridoio di accesso a ciascuna delle tombe a camera o a più camere ospitate dal tumulo è in realtà tutt’altro che un dromos, essendo percorribile solo in occasione di ogni seppellimento: negli intervalli, e a utilizzazione completata della tomba, esso restava interamente colmato e invisibile, tanto che ci si preoccupava di risarcire accuratamente la crepidine in corrispondenza del varco di accesso, fino a mascherare del tutto la sua esistenza. Poteva accadere che, scavando una nuova tomba a notevole distanza di tempo da quella già esistente, non si fosse in grado di localizzare esattamente quest’ultima e si finisse con l’intercettarla, sventrandola, come è accaduto nel monumentale tumulo Campana di Monte Abbadone a Caere. A Populonia invece, e a Vetulonia, il dromos è una galleria ben costruita, sempre agibile, chiusa all’esterno con un lastrone inserito in piena vista nel tamburo del tumulo. Si arriva addirittura, nella classe dei tumuli ad avancorpo, a ostentare l’ingresso del dromos, a sottolinearne l’ubicazione, facendone il punto focale dell’intera struttura. Ciò an-

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Fig. 3. Spaccato assonometrico della Tomba dei Carri.

che grazie al piazzaletto lastricato talora ad esso anteposto, come nella Tomba delle Pissidi Cilindriche, o a grandi monoliti lastriformi infissi nel terreno adiacente, in sostituzione, se si vuole, dei cippi sempre assenti. Coerentemente con la considerazione del dromos come una parte integrante della tomba, e non meramente accessoria e di servizio, esso poteva accogliere al suo interno, in tumuli di eccezionale rilevanza, come quello della Pietrera a Vetulonia, una sequela di statue disposte lungo le pareti e raffiguranti probabilmente gli antenati dei sepolti, in veste di afflitti per la morte dei loro discendenti (Colonna, v. Hase 1986, p. 40). Altra differenza. A Caere e nell’Etruria interna, fino a Cortona, Asciano, Castellina in Chianti e la stessa Quinto Fiorentino, i tumuli accolgono spesso più tombe, e queste di norma sono composte da più camere. Invece a Populonia e a Vetulonia i tumuli, anche di grandi dimensioni, accolgono un’unica tomba e questa consiste sempre in una sola camera, a prescindere da eventuali camerette aperte sul dromos, adibite non a sepoltura ma ad accogliere parte del corredo, come avveniva nel Tumulo dei Carri. Il che non discende dal fatto che si tratta di tombe costruite, e non escavate, perché anche i tumuli dell’Etruria settentrionale interna con tombe a più camere sono costruiti. In essi si osserva che le camere si dispongono di norma in successione assiale, con il vano anteriore in funzione di vestibolo, e questo anche in tombe del tipo a tholos come quella della Mula. L’assenza del vestibolo è la conseguenza che più colpisce della scelta di Populonia di attenersi al principio della tomba a camera unica. Il vestibolo è in realtà un elemento importante nell’economia della tomba, sia a Caere, come si è detto a proposito dei vestiboli a pianta circolare, che nell’Etruria interna. In esso aveva luogo una parte, quella finale, del rituale delle esequie, in alternativa all’area attrezzata con gradini dinanzi alla tomba, preferita a Tarquinia e a Vulci (basti citare la Cuccumella) (Colonna 1993). Mia moglie ed io abbiamo avuto occasione di occuparcene in un lavoro recente dedicato alla più nota delle tombe orientalizzanti, la tomba Regolini Galassi, lavoro che

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sta per uscire nella miscellanea di studi dedicata a Massimo Pallottino (Colonna, Di Paolo Colonna 1997). Alla luce di un documento rimasto stranamente inutilizzato, sia dal Pinza che dal Pareti, ossia la dichiarazione rilasciata nel 1841 dallo scopritore della tomba, l’arciprete Regolini, ad Achille Gennarelli, che la pubblicò subito dopo, abbiamo concluso che il letto di bronzo collocato nel vestibolo, rinvenuto sicuramente vuoto, era servito per esporre la salma della principessa defunta in una sorta di prothesis alla rovescia, fatta cioè non sulla soglia della casa, nel momento di uscirne, ma all’ingresso della nuova dimora. Ingresso “arredato” a imitazione del vestibolo della casa, con in più il corredo della defunta e una piccola folla di statuette di piangenti, disposte intorno al letto. Dal quale la salma era stata successivamente traslata nella “cella”, dove giaceva circondata dagli oggetti personali e dai beni più preziosi, come se si trovasse nel thalamos della propria casa. A Populonia, in assenza di vestiboli e di aree esterne attrezzate, è da presumere che il rituale descritto si svolgesse nel dromos, come sembra provato alla Montagnola dai resti del letto di ferro rinvenuti appunto alla testata di quello, e comunque in forme assai più contenute. Quanto al principio “un tumulo, una tomba”, esso è probabilmente indizio di un meno forte senso della continuità gentilizia, analogo a quello che, nel vi secolo, presiederà nell’Etruria meridionale alla fioritura delle tombe a dado, da Caere a Orvieto. Ogni tumulo è destinato in sostanza a una sola generazione di defunti adulti, o, meglio, a un solo pater familias con i suoi familiari, più o meno numerosi. A ogni ricambio generazionale si costruisce un nuovo tumulo, senza tornare a usare per una seconda tomba, senza manomettere in alcun modo quei piccoli gioielli di statica che, come abbiamo appreso, sono i tumuli di Populonia. Queste sono le considerazioni che ho creduto di poter fare, per recare anch’io un contributo al tema del nostro Incontro. Sono considerazioni scaturite da quello che abbiamo visto e ascoltato in questi due giorni. Avviandoci ormai alla chiusura dei lavori, lasciatemi esprimere ancora una volta la riconoscenza di quanti sono qui convenuti verso tutti coloro che hanno contribuito al successo di queste giornate di studio: in primo luogo Gilda Bartoloni e Antonella Romualdi, e poi l’Università di Siena, la Soprintendenza Archeologica della Toscana, presente con il Soprintendente Angelo Bottini, la Società che gestisce il Parco Archeologico, il Comune di Piombino e l’Associazione degli Amici di Populonia. Bibliografia M. Blumhofer 1993, Etruskische Cippi, Köln, Weimar, Wien. G. Colonna 1977, Basi conoscitive per una storia economica dell’Etruria, in Atti del v Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatici, Napoli, pp. 3-23. G. Colonna 1981, Presenza greca ed etrusco-meridionale nell’Etruria mineraria, in L’Etruria mineraria. Atti del xii Convegno di Studi Etruschi e Italici, Firenze, pp. 443-452. G. Colonna 1986, Urbanistica e architettura, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano, pp. 369-530. G. Colonna 1993, Strutture teatriformi in Etruria, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique. Actes de la table-ronde, Rome, pp. 321-367. G. Colonna 1994, Etrusca arte, «EAA», ii suppl., pp. 554-605. G. Colonna, E. Di Paolo Colonna 1997, Il letto vuoto, la distribuzione del corredo e la “finestra” della Tomba Regolini-Galassi, in Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di Massimo Pallottino, i , PisaRoma, pp. 131-172. G. Colonna, Fr.-W. von Hase 1986, Alle origini della statuaria etrusca: la tomba delle Statue di Ceri, «Studi Etruschi», lii, 1984, pp. 13-59. E. Colonna Di Paolo, G. Colonna 1970, Castel d’Asso, Roma.

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E. Colonna Di Paolo, G. Colonna 1978, Norchia i , Roma. F. Fedeli, A. Galiberti, A. Romualdi 1993, Populonia, Firenze. L. Malnati, V. M. Manfredi 1991, Gli Etruschi in Val Padana, Milano. A. M. Sgubini Moretti 1989, Tomba a casa con portico nella necropoli di Pian di Mola a Tuscania, in Atti ii Congresso Internazionale Etrusco, i , Roma, pp. 321-335. A. Naso 1997, Architetture dipinte, Roma. Fr. Prayon 1975, Frühetruskische Grab-und Hausarchitektur, Heidelberg. L. Ricciardi 1987, Recenti scoperte a Blera e nel suo territorio, «La Torretta», iv, 3, pp. 13-17. M. Torelli 1985, I Duodecim Populi Etruriae, «Annali della Fondazione per il Museo “Claudio Faina”», ii, pp. 37-53. P. Zamarchi Grassi 1993, Il Sodo: il tumulo ii , in La Cortona dei principes, Cortona, pp. 121-138. [Populonia e l’architettura funeraria etrusca, in L’architettura funeraria a Populonia tra ix e vi secolo a.C. (atti del convegno, Castello di Populonia, 30-31 ottobre 1997), a cura di A. Zifferero, Firenze, 2000, pp. 253-260].

LA CULTURA ORIENTALIZ Z A N T E IN E T RU RIA roppo si è insistito in passato per l’Etruria sulla distinzione, sentita spesso come una contrapposizione, tra cultura villanoviana e cultura orientalizzante, anche fuori dell’arbitrario collegamento di quest’ultima con la questione dell’etnogenesi etrusca, che oggi tutti riconoscono, sulle orme di M. Pallottino, essere stata cosa affatto diversa. In realtà il progresso delle conoscenze mostra come sia sempre più arduo individuare una cesura nel corso di un’età, i cent’anni cruciali che vanno dalla metà dell’viii alla metà del vii secolo a.C., percorsa da incalzanti innovazioni, tali da farla apparire una tipica fase di transizione: dalla protostoria alla storia, dall’oralità alla scrittura, dalla ‘protocittà’ alla città arcaica. L’Orientalizzante, che per generale consenso si tende ora a far iniziare, tenendo d’occhio la scarsa e modesta ceramica corinzia d’importazione, non dopo il 720 a.C., introduce un colpo di acceleratore in un processo che investe le radici stesse della società etrusca (e latina), portando alla ribalta quel che di fatto esisteva forse già da molto tempo, ma era rimasto fino allora nell’ombra. Determinante, nell’attuare la svolta, è stata la coscienza di sé acquisita dagli áristoi, o ‘principi’ che dir si voglia, veri protagonisti dell’orientalizzante d’Etruria, cui giustamente è intitolata la Mostra. Autocoscienza emersa in primo luogo nel seno delle enormi, per i tempi, agglomerazioni ‘protourbane’, formatesi agli inizi dell’età del Ferro, intorno al 900 a.C., nell’Italia centrale tirrenica, intesa nell’accezione più ampia, includente sia Bologna che Pontecagnano, e solo più tardi propagatasi ai ‘capi’ delle comunità paganiche o tribali di quasi tutta l’Italia centrale, versante adriatico compreso. Solo infatti le abnormi agglomerazioni villanoviane offrivano i necessari presupposti al dispiegarsi del fenomeno storico di cui si discorre. La loro unicità, quanto a consistenza demografica e a disponibilità di risorse, rispetto a tutto l’Occidente mediterraneo costituì una non resistibile attrazione per chi, venendo dai lontani lidi del Mediterraneo orientale, era portatore dei nuovi saperi artistici e tecnologici, in cui riconosciamo la base materiale della cultura orientalizzante. Ciò è avvenuto tuttavia solo quando gli áristoi, senza alcuna preconcetta suggestione di fasto orientale, furono talmente consapevoli del loro effettivo primato, in seno alle comunità di appartennza, da uscire per così dire allo scoperto, ostentando la propria ricchezza in una ricerca di sempre maggiore habrosýne, sia nella sfera domestica che nelle tombe, senza più alcun freno di natura sociale e ideologica. In proposito va rilevato che ricchezza e habrosýne non sono stati, in fondo, che strumenti di ‘propaganda’, funzionali alla conquista di spazi sempre maggiori di prestigio e di potere. Grazie ai quali possiamo ritenere che furono sovvertiti equilibri ormai secolari, mettendo verosimilmente in crisi gli stessi ordinamenti politico-istituzionali delle comunità, a cominciare dalla monarchia ereditaria di tipo tradizionale, di cui non sembra essere rimasta traccia nell’Etruria storica, così come nel Lazio. Di pari passo vediamo crescere l’esaltazione dei legami parentelari, al livello ravvicinato della famiglia nucleare e della gens che ben presto mettono in crisi i vetusti quadri organizzativi delle curie e delle tribù, noti per Roma ma estensibili per analogia alle protocittà etrusche. Si arriva così alla definitiva frammentazione in senso gentilizio del corpo sociale: premessa indispensabile per l’affermazione della città arcaica. Spia diretta di questo processo è l’adozione del nomen gentilicium, che distingue il caso dell’Italia (mediotirrenica) nel contesto dell’intero mondo antico e che ha luogo in Etruria già nel corso della fase iniziale dell’Orientalizzante, a Roma della fase matura (il primo re dotato di gentilizio è

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Tullo Ostilio, e non a caso il suo gentilizio è contemporaneamente attestato in etrusco a Vulci). Il gentilizio trae origine dal congelamento dell’aggettivo patronimico (o, secondariamente, del nome individuale, per chi, come gli stranieri, ne era privo), inerente a quello dei successivi patres familias di ciascun lignaggio che a un dato momento fu considerato, retrospettivamente, come il princeps gentis. Esso è trasmesso di generazione in generazione come elemento fisso della designazione personale dei membri della gens, qualunque sia il pater familias per così dire in carica. L’ereditarietà del gentilizio ne pone in evidenza la relazione con l’heredium e in generale con la proprietà privata della terra, trasmissibile ai discendenti, oltre che con la clientela, anch’essa trasmissibile e di fatto indispensabile per coltivare la terra nel caso di patrimoni consistenti. L’adozione del nome gentilizio testimonia da sola, con tutto quello che gli sta dietro, l’entità dei privilegi, di ordine economico e sociale, che gli áristoi mediotirrenici avevano saputo procurarsi e che intendevano gelosamente assicurare, forti del pubblico consenso, alla loro discendenza, distinguendosi dai loro pari di Grecia e d’Oriente, pur appartenenti a società più evolute. Contemporaneamente l’adozione della scrittura, avvenuta non più tardi in Etruria della fine dell’viii, nel Lazio del secondo quarto del vii secolo, oltre a documentare per noi, attraverso l’enunciato delle iscrizioni, la gradualità dell’affermazione del gentilizio, fornisce allo stesso ceto magnatizio un ulteriore elemento di distinzione, utilizzata com’è ad abundantiam per suggellare e commemorare gli scambi di oggetti non necessariamente di lusso, ma comunque di alto valore simbolico, avvenuti con la pratica cerimoniale del dono, all’interno e soprattutto fuori della gens, anche nei confronti di stranieri, purché di eguale condizione. Oppure la scrittura è utilizzata, con crescente frequenza, per marcare il possesso dello stesso genere di oggetti, probabilmente in relazione indiretta, preliminare o consequenziale, con il dono. La quantità di iscrizioni etrusche di vii secolo giunte fino a noi, è superiore a quella restituita da molte delle coeve città greche, specialmente coloniali, e dimostra che l’Orientalizzante etrusco è una cultura litterata, non solo a livello magnatizio ma anche al livello degli artigiani, cui si devono le iscrizioni impresse o dipinte su commissione prima della cottura dei vasi, oltre alle tante lettere o gruppi di lettere usate come contrassegni (per es. per l’assemblaggio di oggetti compositi). L’alta considerazione in cui era tenuta la scrittura nell’Etruria del tempo traspare dall’uso che si è fatto delle iscrizioni come principale ‘ornato’ non solo dei vasi su cui sono apposte, anche con grandi lettere a rilievo (olla da Vulci donata da Laris Velethnice) o dipinte (olla da Narce donata a Lar Ruvrie), ma anche delle tombe a camera sulle cui pareti sono talora dipinte (tomba dell’Alfabeto a Monteriggioni). Così come traspare dalla frequente deposizione nei corredi funerarii di abbecedari e talora anche degli strumenti per scrivere, realizzati in materia pregiata (tabula cerata del formato pugillaris, rinvenuta assieme a stili e spatole pure d’avorio nel ‘circolo degli Avori’ di Marsiliana d’Albegna). Naturalmente la scrittura consentiva la registrazione di atti pubblici e privati, elenchi di magistrati, prescrizioni rituali e via dicendo, assicurandone la conservazione per i posteri, in una graduale, e mai totale, sostituzione della millenaria pratica della tradizione orale. Anche se nulla ci è giunto di questo genere di prodotti (ma non dimentichiamo che le aree urbane sono state assai poco esplorate), è ragionevole supporne in linea di massima l’esistenza, sulla scorta di quel che è documentato a partire dalla fine del vi secolo a.C., quando i rilievi chiusini includono nel loro repertorio la rappresentazione emblematica dello scriba pubblico intento al suo lavoro, abbigliato come i magistrati al cui fianco è seduto. La scrittura utilizzata dagli Etruschi fin dagli inizi dell’età orientalizzante è di trasparente matrice greca, e precisamente euboica, al di là degli adattamenti resi necessari dal

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diverso registro fonematico della lingua. Da sola essa conferisce evidenza e ‘peso’ alla componente greca della cultura orientalizzante, anche se verosimilmente è il frutto di contatti ed esperienze maturate già prima, all’epoca della splendida fioritura della ceramografia etrusco-geometrica, di segno prevalentemente euboico (e argivo), avvenuta tra Veio, Vulci e Tarquinia tra terzo e inizi dell’ultimo quarto dell’viii secolo. Depone in tal senso l’apparizione di un maldestro tentativo di ‘scrivere greco’ a Gabii già nella prima metà del secolo, dovuto a qualcuno che aveva appreso i rudimenti delle lettere e qualche parola di greco dai portatori delle coppe a semicerchi penduli rinvenute a Veio e forse a Roma, o dai portatori delle brocchette enotrie rinvenute pure a Veio e a Capena, provenienti dal golfo di Salerno, precocemente frequentato dagli Euboici (e la tipologia del vaso su cui è apposta l’iscrizione fa propendere per questa ipotesi). Il ruolo degli Euboici della Campania nella elaborazione della scrittura etrusca balza a ogni modo in piena evidenza verso il 700 a.C. con l’iscrizione di dono, recentemente riconosciuta come etrusca da chi scrive, di Hisa Tinnuna, il magnate ‘figlio di Tina (il Giove tirreno)’, rinvenuta in una tomba di Cuma, dove quel signore temporaneamente risiedeva o comunque intratteneva relazioni di ospitalità. L’Orientalizzante d’Etruria è tuttavia ancor più profondamente segnato, nelle sue manifestazioni più antiche, dalla componente in senso lato vicino-orientale. Anch’essa è stata preceduta e preparata, per così dire, da contatti ‘silenziosi’, che hanno avuto luogo in piena età villanoviana. Basti pensare alla importazione non solo di piccole cose, quali sigilli, perline di vetro ed aegyptiaca, ma anche di un oggetto di spicco come la patera bronzea assira decorata con fregi animalistici, rinvenuta in una tomba di Vetulonia. O, ancor meglio, alla ripresa di tipologie orientali per classi di oggetti che incontrano larga fortuna nel villanoviano recente, quali i morsi di cavallo, le fiasche di lamina bronzea e i kardiophýlakes a disco. Ma il salto di qualità si compie solo alla fine dell’viii secolo, con l’arrivo di artisti e artigiani, che vanno a stabilirsi a Tarquinia e soprattutto a Caere, il centro etrusco ora in vertiginosa ascesa, in posizione chiave tra il litorale tirrenico e il basso corso del Tevere. Ai nuovi arrivati si deve verosimilmente l’apparizione, assai precoce, dei grandi tumuli funerari, che marcano ora indelebilmente il paesaggio delle città etrusche meridionali. A Tarquinia i tumuli sono preceduti da ‘corti’ spaziose, evocanti le tombe regali di Cipro, mentre a Caere esibiscono un tamburo modanato con pesanti e complesse cornici, cui la necropoli della città deve uno dei suoi caratteri peculiari, assieme alle aperture ad arco delle camere sepolcrali, ispirate all’architettura in mattoni del Vicino Oriente. Ma ancor più eloquente è il quadro offerto dalla scultura in pietra, anch’essa del tutto estranea alla tradizione villanoviana, che ugualmente fa ora la sua apparizione nell’agro di Caere (tomba delle Statue a Ceri), in forme che rivelano una diretta ispirazione da modelli siro-ittiti. I capostipiti della coppia coniugale sepolta nella tomba sono raffigurati nell’anticamera della stessa a grandezza quasi naturale, scolpiti ad altorilievo nel caratteristico ‘Blockstil’, seduti su un trono dall’alto sgabello nell’atto di esibire gli attributi del loro potere e della loro dignità, a cominciare dalla barba. Brandelli di sculture simili vengono da tombe di Veio e di Falerii, come pure si ha notizia di statue di ‘afflitti’ nel gesto panmediterraneo delle braccia conserte dal dromos della tomba cerite della Capanna, del 700 circa a.C., e dalla necropoli della Castellina sul Marangone, né manca una statua di sfinge (?) sdraiata a doppia coda dal tumulo principesco di Montetosto, antesignana delle innumerevoli statue animalistiche dell’arcaismo etrusco, specialmente vulcente e chiusino. È evidente tuttavia che il meglio della scultura monumentale, a partire dal 670 circa, è stato prodotto altrove, dove evidentemente questi artisti usi a scolpire la pietra sono stati attirati da una più allettante domanda, stimolata dal costume,

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di origine preistorica ma rimasto vivo in loco fino a tutta l’età arcaica, di collocare fuori delle tombe, in piena vista, cippi o stele, la cui funzione celebrativa è talora confermata dall’iscrizione che li accompagna. La diaspora degli scultori orientali all’interno dell’Etruria è avvenuta da un lato, come insegnano scoperte recentissime, verso le città marittime settentrionali – certo con la mediazione di Vetulonia, la capitale del distretto minerario, seconda solo a Caere come fucina dell’orientalizzante etrusco – e dall’altro verso Bologna, la cui prosperità è provata dal ripostiglio di S. Francesco, includente tra l’altro una delle iscrizioni più antiche d’Etruria, e dove a lungo si attarda in tutto il suo splendore il ceto dei ‘principi’ cui è intestata la Mostra. Della prima dislocazione sono prova le scoperte di Casale Marittimo, un sito dominante le comunicazioni di Volterra col mare, non lontano dall’agro pisano e versiliese in cui fu per secoli in auge la consuetudine di drizzare sulle tombe cippi, anche colossali, a forma di clava. Per i signori del posto uno scultore verosimilmente di estrazione orientale ha affrontato, non senza incongruenze compositive, ma con virtuosa perizia nel lavorare la pietra, il tema per lui nuovo della figura maschile stante, vestita al modo di Fauno e dei Luperci romani, ossia col solo perizoma sorretto dal cinturone. Il risultato di questo esperimento, imposto per così dire dalle esigenze della committenza, sono le due statue, pubblicate nel 1999, collocate probabilmente al sommo del tumulo presso cui sono state scoperte da clandestini, in rapporto con la tomba a piccola camera ivi esistente, costruita dalla seconda generazione dei proprietari del tumulo, verso il 670-650 a.C. (tomba C). I maiores del defunto, o piuttosto della coppia di defunti giacenti nella tomba (l’uno sul letto della camera, l’altro, cremato, nella celletta affacciata sul dromos, esattamente come accadeva nella stessa epoca nella tomba RegoliniGalassi), sono raffigurati senza barba, con treccia dorsale di diversa lunghezza (la cui estraneità in Etruria al costume maschile probabilmente tradisce reminiscenze tardoittite) e con le braccia diversamente atteggiate a esprimere cordoglio. I loro gesti, simili a quelli delle statuette tunicate di bucchero della Regolini-Galassi, sono canonici per il compianto funebre in area etrusca e medioadriatica già da epoca protostorica. A differenza di quel che accadeva nella tomba di Ceri, e che si ripeterà all’inizio del vi secolo sul tetto della ‘residenza’ di Murlo, e in linea invece con quanto si osserva poco dopo a Vetulonia nel tumulo della Pietrera, i maiores sembrano evocati nell’atto di accogliere nella loro dimora i nuovi defunti, inscenando per essi il rito di passaggio della ploratio, già compiuto dai superstiti sulla soglia della casa. Più numerose, varie ed artisticamente valide sono le testimonianze lasciate dagli scultori orientali attivi a Bologna, probabilmente tra secondo e terzo quarto del secolo, anche se sussiste qualche difficoltà a datare monumenti privi quasi tutti di un vero contesto, anche perché frequentemente assoggettati alla pratica del riuso. In un ambiente che si mostra assai più ricettivo e malleabile di quello cisappenninico, i nuovi venuti possono introdurre senza resistenze temi e iconografie genuinamente orientali, creando monumenti che restano senza confronto in tutto l’Occidente. La colossale Pietra Malvasia è una scultura quasi a tutto tondo, un betilo cui è stata conferita la forma di due figure animali, due ‘vitelli’ rampanti contro il tronco di un ‘albero della vita’, culminante in un corposo fiore di palma aperto a ventaglio sulle teste retroverse degli animali. Sulle due facce della stele tabulare di via Tofane lo stesso albero sacro, sul cui fusto non a caso è delineata una lancia, simbolo di potere regale, distende a basso rilievo una trama flessuosa di rami, da cui sbocciano graziose palmette. Nella stele Zannoni, al disotto di un fregio floreale insolitamente pesante, nel cui intricato arabesco si è riconosciuta una citazione a memoria di ornati tardo-ittiti (esemplati dalle basi di co-

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lonna dei palazzi di Zincirli e di Tell Taynat), vediamo avanzare, su un fondale scandito da un crescente lunare e da un albero di palma, il signore defunto seduto sul carro, preceduto da un demone (?) abbigliato come un nocchiero: apparente anticipazione di un tema che avrà larghissima fortuna sulle stele della Certosa. La millenaria cultura architettonica del Vicino Oriente sta dietro anche ai due cippi a tronco di colonna di grande diametro, recentemente scoperti in via Fondazza alla periferia dell’abitato, dal fusto tornito e modanato come se fossero elementi di mobilio o di arredo, impreziositi da fregi a basso rilievo, anticipando soluzioni che saranno riprese dalla grande architettura ionica d’Asia Minore. Sono opere che si pongono al centro di una intensa produzione scultorea, spesso soggiacente, com’era da attendersi, a tipologie locali, come quella della stele a disco. Ottime testimonianze ne sono state restituite anche dalla Romagna (stele di S. Varano di Forlì) e dall’Emilia occidentale (cippi di Rubiera, del tipo a colonnetta, datati dalle iscrizioni verso il 600 a.C.). Si può ben dire che il linguaggio artistico allora immesso nella Valle Padana sia alla base, assieme ad altri e più moderni apporti giunti sul finire del secolo dall’Etruria, del cosiddetto orientalizzante settentrionale (Mansuelli), che ha trovato nell’‘arte delle situle’ la sua più importante espressione, avidamente recepita ed elaborata dalla bronzistica anche del contiguo mondo alpino e transalpino. Mentre le esperienze di statuaria, realizzate a Casale Marittimo, hanno trovato un’eco particolarmente feconda, con esiti anche qui arricchiti da altri e più avanzati apporti (chiusini e vulcenti), sul versante medioadriatico, a Numana e soprattutto in Abruzzo (a cominciare dal Guerriero di Capestrano). Tanto più sorprende che fuori di questo aggiornamento culturale sia rimasta l’area intermedia, tra Verucchio e Novilara, dove si attardano in pieno vii secolo, nel disegno e nell’intaglio, modi stilistici subgeometrici, peraltro di grande suggestione (trono ligneo di Verucchio). Quello degli ‘architetti’ e degli scultori è forse il meglio tangibile, ma certo non il solo arrivo di artigiani ed artisti orientali in Etruria, tra l’ultimo quarto dell’viii e il primo del vii secolo. Altri arrivi sono presupposti dal repentino fiorire della lavorazione dell’oro, connesso con le nuove tecniche della filigrana, della granulazione e del pulviscolo, e così da quella dell’avorio, dell’ambra e della pasta vitrea, cui più tardi si aggiunse la lavorazione della faïence e dell’alabastro, non che la sofisticata decorazione delle uova di struzzo e delle conchiglie di tridacna. Sono produzioni di lusso, normalmente riservate a pochi, ma ora richieste da una committenza che si è mano mano allargata alle élites aristocratiche di quasi tutta l’Italia centrale, accomunate da una forte inclinazione al consumo, a fini competitivi o puramente ostentatorii, come si è ricordato all’inizio. Resta comunque assai difficile distinguere l’opera degli artigiani immigrati da quella dei loro fedeli discepoli e imitatori, cui certamente si deve la gran maggioranza dei prodotti giunti fino a noi. Si è pensato a ‘maestri di bottega’ orientali per pezzi unici di oreficeria, come la coppa del Victoria & Albert Museum, detta da Preneste, la cui forma è una variante delle note patere bronzee baccellate, calata entro una fitta e ben calibrata trama di ornati geometrici e vegetali, ottenuti, secondo un calcolo attendibile, con oltre 137000 globuli, che ne fanno un monstrum sul piano tecnico. Lo stesso può dirsi della gigantesca fibula a disco di tradizione villanoviana (Fig. 1) e del non meno imponente pettorale egittizzante della defunta sepolta nella tomba Regolini-Galassi, in cui vi è perfetta fusione tra la foggia del supporto, le tecniche di decorazione, anch’esse di diversa origine, e le iconografie degli ornati, tutte prettamente orientali. E può dirsi lo stesso anche della situla iscritta a bulino due volte col nome di un Plika®na chiusino, in cui la tradizione narrativa delle patere fenicie è integrata da inserti ellenizzanti, che hanno fatto pensare a un maestro orientale attivo a Caere nell’età di Aristonothos. Opera certamente di ar-

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tigiani immigrati sono la kotýle d’argento di Pontecagnano, di foggia ovviamente protocorinzia, percorsa come unica ed emblematica decorazione dal nastro di un’iscrizione pseudogeroglifica, e quella dorata della tomba del Duce di Vetulonia, i cui fregi minori sembrano ispirati agli ideogrammi delle stesse iscrizioni, ugualmente calati in una dimensione ornamentale, in quello che si direbbe un revival egittizzante. In realtà la disinvolta commistione di motivi greci e orientali è quasi la regola nell’Orientalizzante etrusco, ove si prescinda da ambiti particolari come quello della scultura monumentale, cui ben poco aveva ancora da offrire l’esperienza artistica greca. Ciò aggiunge un ulteriore tratto di eclettismo a quelli già abbondantemente presenti nelle produzioni della madreFig. 1. Fibula d’oro a disco, patria siro-fenicia, elaborate attingendo da Cerveteri (Roma), tomba Regolini Galassi, non solo alle tradizioni locali ma anche, e 650 a.C. circa. Città del Vaticano, più largamente, a quelle dell’arte egizia, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco. assira e urartea. Il risultato è uno stile figurativo prevalentemente animalistico, con spiccata predilezione per mostri e ‘Mischwesen’, obbediente a precisi canoni di leggibilità visiva, che portano a isolare le figure e a staccarle nettamente dal fondo, talora scontornandole con una doppia linea includente una fila di punti o, viceversa, puntinando il fondo per far meglio risaltare le figure, mentre per la composizione si privilegiano le sequenze paratattiche distribuite in registri sovrapposti, separati per lo più da trecce o da catene di palmette fenicie e di archetti allacciati. Questa ‘maniera’ fenicizzante, permeata di grecismi (basti ricordare le figure dei centauri e delle chimere), appare già pienamente formata all’epoca dei bronzi della Regolini-Galassi: la sua fortuna si colloca nel secondo e nel terzo quarto del secolo ed è evidente soprattutto nella toreutica, negli avori intagliati, nel bucchero a rilievo e inciso (accompagnato dagli onnipresenti ventaglietti), nella ceramografia a suddipintura su impasto. Grazie ad essa possiamo dire che furono definitivamente acquisiti in Etruria e nell’Italia tirrenica i rudimenti di una solida cultura figurativa, superando la tendenza al linearismo astratto insita nelle esperienze di arte geometrica, cui il restante mondo barbarico occidentale restò a lungo tenacemente invischiato. Le creazioni più notevoli del nuovo stile si ebbero nell’ambito della pittura parietale, che conosciamo – caso praticamente unico in tutto il mondo del tempo – attraverso le testimonianze conservateci dalle grandi tombe a camera di Caere e dei centri del suo retroterra, imitanti fedelmente anche sotto il profilo architettonico l’interno delle dimore aristocratiche del tempo, coi loro singolari tetti a padiglione dal trave di colmo desinente in due dischi e sorretto da coppie di pilastri. La decorazione pittorica, applicata direttamente sul tufo e basata sui quattro colori rimasti a lungo canonici (rosso, giallo, bianco e nero), non si limita a sottolineare l’architettura, ma occupa intere pareti. Si può parlare di una autentica pittura monumentale, in cui i fregi animalistici lasciano talora

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Fig. 2. Riproduzione delle pitture della tomba dei Leoni Dipinti (camera a destra del dromos), Cerveteri (Roma), 620-580 a.C.

spazio a inserti narrativi, quali il ‘signore dei leoni’ (tomba dei Leoni Dipinti) (Fig. 2), le scene di caccia (tomba degli Animali Dipinti) e l’enfatica raffigurazione di una nave, probabilmente allusiva all’incontro di Ulisse con le Sirene e al difficile viaggio che attende il defunto (tomba della Nave). Sono pitture che una diffusa tradizione di studi tende, svalutandole, a datare troppo in basso, alla fine del secolo, senza tenere conto sia della tipologia architettonica delle tombe che della composizione dei corredi associati. Strettamente collegata alle pitture parietali è la pittura vascolare realizzata nella tecnica, che ora tocca il suo apogeo, del ‘bianco su rosso’, cui dobbiamo opere anche di notevolissimo impegno, quali il pithos in collezione privata americana con l’accecamento di Polifemo, seduto come un signore dinanzi all’anfora di vino ricevuta in dono (Fig. 3), e la pisside-cratere del Louvre, assai ridipinta, con la caccia calidonia e la nascita di Atena, probabilmente ispirata dal lato iconografico a una megalografia corinzia (come quella di Kleanthes conservata in un tempio dell’Elide) (Fig. 4). Il vaso si segnala anche per la firma, espressa con la curiosa perifrasi ‘nella (casa) di Kusnai’, alludente allo status clientelare, se non servile, dell’artigiano, evidentemente attivo al servizio di una casata aristocratica, in seno alla quale l’arte vasaria era posta sotto la tutela della domina, alla stregua delle altre produzioni domestiche. L’ingresso prepotente del mondo del mito e dell’epos omerico nel repertorio figurativo anche del filone orientale dell’orientalizzante etrusco tradisce da solo la forza della componente greca, che in esso agisce fin dall’inizio, come si è già avuto occasione di dire. Componente che torna scopertamente alla ribalta, dopo i fasti tardo-geometrici, con la pittura su vasi di argilla depurata di età medio-orientalizzante. Non esiste infatti, nei primi tre quarti del vii secolo, solo la produzione subgeometrica o di impronta banalmente protocorinzia, mediata all’inizio da Cuma, in cui si attardano molte officine vascolari etrusco-meridionali, prima tarquiniesi e poi ceretane, ripetendo a sazietà, tranne rare eccezioni (il pittore delle Palme), i motivi dei pesci, dei serpenti, dei cani correnti e soprattutto degli ‘aironi’, gli uccelli d’acqua il cui originario significato simbolico è messo esemplarmente in evidenza dalla tomba delle Anatre di Veio, dipinta intorno al 680-670 a.C. nella tecnica combinata del risparmio (‘outline’) e della campitura (‘silhouette’). A partire da questa data alla produzione citata se ne affianca una assai più aggiornata e ambiziosa, che echeggia la ceramografia orientalizzante di area cicladica, protoattica e siceliota, senza perdere tuttavia un carattere fortemente originale, che la rende immediatamente riconoscibile. Produzione da riportare in primo luogo a Caere e, secondariamente, a Veio e all’area falisco-capenate.

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Fig. 3. Pithos etrusco in ceramica detta «white on red» con l’accecamento di Polifemo, 650-625 a.C. New York, Collezione Mr. and Mrs. Lawrence Fleischman.

Fig. 4. Pisside di impasto con scena di caccia al cinghiale e nascita di Atena, da Cerveteri (Roma), 620 a.C. Parigi, Museé du Louvre.

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Tra i pionieri di questa corrente si annoverano il pittore delle Gru e il pittore dell’Eptacordo, che si cimentano con grandi figure, indifferenti alla tettonica dei vasi, per lo più anfore di notevole formato, su cui sono dipinte. Il secondo, più innovatore, predilige le figure umane impegnate in azioni narrative, isolate su fondali poveri di riempitivi: la donna che molcisce il guerriero in uno scenario di leoni e di cavalli in movimento coinvolgente tutto il vaso (biconico da M. Abatone), l’acrobatica danza in armi ritmata da un suonatore di cetra (anfora a Würzburg) (Fig. 5), il signore che sale sul carro condotto dall’auriga (anfora in coll. privata americana). Le tecniche usate sono le stesse della tomba delle Anatre, identificabili con la pictura linearis o skiagraphía, cioè la citata ‘outline’, e con la graphiké, o campitura di colore: tecniche che la storiografia artistica greca poneva alle origini stesse della pittura, collegandole a successive ‘invenzioni’. Poco Fig. 5. Anfora del pittore dell’Eptacordo, più tardi è attivo a Caere un ceramista greprovenienza sconosciuta, 670 a.C. Wüzburg. co, Aristonothos, che firma nella propria Martin von Wagner Museum. lingua l’opera di maggiore impegno, a riprova del clima di straordinaria ‘apertura’ verso lo straniero vigente all’epoca in quella e nelle altre città, sia etrusche che latine (confermata dai numerosi grecismi, per lo più termini tecnici, penetrati allora nel lessico delle due lingue). Si tratta del notissimo cratere dipinto su una faccia con l’accecamento di Polifemo, qui raffigurato senza alcuna dignità accanto ai suoi rustici attributi, e sull’altra con lo scontro tra una imponente nave oneraria, difesa da una scorta armata, e una nave da combattimento, a quanto pare di pirati. Trasparente allusione ai pericoli rispettivamente dei viaggi in terre sconosciute, simboleggiati dal Ciclope antropofago, e dei viaggi per mare, assai più temibili, simboleggiati dall’attacco dei pirati. Sono precisamente i pericoli che, secondo un celebre passo di Eforo, avevano a lungo tenuto i Greci lontano dalla Sicilia (e quindi dall’Occidente), e che forse i committenti ceriti del pittore si apprestavano a combattere, dotando le loro navi di valide scorte. La componente greca della cultura orientalizzante d’Etruria ricevette un fortissimo impulso quando, secondo una tradizione giunta fino a noi perché intrecciata con l’origo dei re etruschi di Roma, il nobile corinzio Demarato, già da tempo interessato al commercio con gli Etruschi, si stabilì esule a Tarquinia dopo l’ascesa al potere di Cipselo nel 657 a.C., divenendo il princeps gentis dei Tarquinii. Infatti il Bacchiade sarebbe stato accompagnato da una ‘équipe’ di fictores, dai convenzionali ‘nomi d’arte’, che avrebbero introdotto in Italia (centrale) la plastice, ossia la coroplastica, destinata a diventare, anche grazie alle possibilità offerte dalla policromia, l’arte nazionale degli Etruschi, sopperendo alla loro scarsa disponibilità di buone pietre da taglio. In realtà intorno alla metà del secolo vediamo svilupparsi a Caere una produzione coroplastica di grande impegno, che riprende i temi introdotti all’inizio del secolo dai maestri siriani e li sviluppa secondo

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nuove prospettive. Basti ricordare le statue terzine degli antenati seduti a banchetto, rinvenute nella tomba delle Cinque Sedie, la grande sfinge accosciata dal dromos della tomba dei Doli e degli Alari, lavorata in parti separate, e, un poco più tardi, il monumentale sarcofago dei Leoni, proveniente da una tomba presso Ceri. La coroplastica tuttavia trovò il suo più fecondo e duraturo campo d’impiego, in perfetto accordo con quello che già lasciavano intuire i nomi del trio di artisti seguaci di Demarato (includenti, oltre al ‘buon plasmatore’ e al ‘buon dipintore’, anche, presenza rivelatrice, ‘colui che usa il traguardo’), nell’ambito architettonico, applicata alla decorazione dei tetti delle case. Che i signori etruschi volevano non solo rivestiti di tegole, come ormai si verificava sempre più largamente, con un fondamentale progresso rispetto alle precedenti strutture deperibili di legno e strame, ma segnalati e ‘personalizzati’ da apparati orFig. 6. Oinochoe, da Tragliatella (Roma), namentali (sime, acroteri, antefisse, ecc.), 630 a.C. Roma, Musei Capitolini. instaurando con i loro simili una competizione anche in termini di visibilità entro il contesto urbano. Echi di questa gara si colgono, negli ultimi decenni del secolo, nelle abbondanti terrecotte architettoniche della pur provinciale Acquarossa presso Fèrento, dipinte nella tecnica e con il repertorio antiquato della ceramica in ‘bianco su rosso’, accogliendo però anche (dalla Sicilia?) ben più moderne doppie trecce e mezze rosette, oppure modellate o ritagliate riesumando vetusti motivi orientalizzanti, dalle protomi di grifo alle coppie di quadrupedi che si mordono la coda. Contemporaneamente nella piccola Murlo sulle colline senesi i signori locali edificano una prima residenza di tipo palaziale, poi ricostruita secondo un piano del tutto diverso nei primi decenni del vi secolo, decorata già in questa fase con largo sfoggio di terrecotte architettoniche, eseguite a ritaglio o, a cominciare dalle antefisse, con la tecnica delle matrici, ormai maneggiata con padronanza. L’impiego delle matrici è alla base anche della straordinaria fioritura raggiunta sempre nei decenni finali del secolo dalla coroplastica funeraria di Chiusi con i macchinosi ‘ossuari’ del tipo Paolozzi e soprattutto con i canopi di tipo evoluto. Questi ultimi non sono il prodotto di un’‘arte rurale’, coltivata a tempo perso dai vasai, cui pure si è pensato, ma una delle più originali manifestazioni dell’orientalizzante etrusco, come è stato messo in evidenza anche da scoperte recenti. A seguito di un accanito cimento artigianale la rappresentazione della testa umana è stata portata a un livello di astrazione naturalistica senza confronti nell’arte del tempo, in una perfetta fusione di reminiscenze orientali, suggestioni dedaliche e tradizione indigena. Ancora meglio comunque che nella coroplastica l’apporto ‘demarateo’ si coglie nelle sculture del già citato tumulo della Pietrera di Vetulonia, in cui tratti dedalici affiorano specialmente nelle statue maschili, che hanno una solidità di impostazione ignota alle

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Fig. 7. Particolari della decorazione della pisside in avorio, da Chiusi (Siena), tomba della Pania i , fine del vii secolo a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

statue di Casale Marittimo, condivisa da molte delle statuette bronzee votive che fanno ora la loro apparizione nell’Etruria settentrionale. Ma soprattutto senza di esso sono impensabili realizzazioni come le preziose olpai ceriti di bucchero a rilievo decorate con figurazioni complesse, a cominciare da quella recentemente scoperta che racconta la storia di Medea, Giasone e gli Argonauti, cui partecipa Dedalo, accompagnata dalla ‘traduzione’ etrusca dei nomi, dorici, dei personaggi (e delle cose). O come l’oinochoe policroma decorata a incisione dalla Tragliatella (Fig. 6), narrante una storia, riferibile a quanto sembra a Teseo e Arianna, reinterpretata, a giudicare dalle didascalie, in chiave etrusca, sia mitistorica che rituale (allusione al lusus Troiae), a uso e consumo del committente. E sono da citare al riguardo anche le pissidi d’avorio, rinvenute nelle tombe chiusine della Pania ma probabilmente vulcenti (una a Fig. 7), intagliate con storie odisseiche immesse, assieme a narrazioni ‘realistiche’, entro un ancora vitalissimo bestiario orientalizzante. Con questi ultimi monumenti siamo già nella fase recente dell’orientalizzante, che si afferma verso il 630-620 a.C., avendo ormai a protagonista il filone d’impronta greca, presente, ripetiamo, fin dall’inizio. In questa fase all’apporto corinzio, dominante nei decenni precedenti, all’epoca dell’importazione in Etruria di finissime ceramiche tardoprotocorinzie e transizionali (vedi l’olpe Chigi), tende sempre più ad affiancarsi quello dei Greci orientali, di stirpe dorica e soprattutto ionica, in conseguenza di eventi quali l’apertura dell’emporio di Naucrati nel delta egiziano e le successive navigazioni occidentali, ormai sistematiche, di Samii e Focei, culminate nella fondazione di Massalia verso il 600 a.C. Alla quale è approssimativamente coevo l’impianto del santuario emporico di Gravisca sulla costa tarquiniese, dove evidentemente quei navigatori facevano scalo. L’oinochoe della Tragliatella appartiene alla incipiente produzione etrusco-corinzia, che è uno dei fenomeni più appariscenti e meglio studiati dell’orientalizzante recente.

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Fig. 8. Riproduzione delle pitture della tomba Campana (parete di fondo della prima camera), Veio (Roma), 600 a.C.

Il suo epicentro, dopo le esperienze ‘policrome’ di Caere, Veio e Tarquinia, cui è da riferire l’oinochoe della Tragliatella, è localizzabile a Vulci, la città in rapida ascesa che non solo dà vita per la prima volta in Etruria alla produzione su larga scala di ceramica dipinta (a figure nere), ma è in grado di esportarla in quasi tutto il paese, e ben presto anche fuori, specialmente verso il Golfo del Leone, seguita a ruota da Tarquinia. Ciò rivela che la strutturazione urbana è ormai, nei centri dell’Etruria marittima, una realtà consolidata, anche sul piano socio-economico (ma l’apertura dell’emporio di Gravisca consente di pensare anche al piano istituzionale). La produzione vascolare di Vulci inizia con la bottega di un maestro greco-orientale, il pittore delle Rondini, e con quella, assai più prolifica e feconda di sviluppi, del pittore della Sfinge Barbuta, di formazione transizionale. Seguono, al volgere del secolo, alcune personalità assai spiccate e tra loro diverse, tra le quali eccellono il pittore di Feoli e quello di Boehlau, mentre con i grandi ‘cicli’ dei Rosoni e della Hercle, di ispirazione mesocorinzia, possiamo dire di essere ormai entrati nell’ambito delle produzioni massificate dell’alto arcaismo. L’esito finale delle esperienze orientalizzanti, sul piano formale, è ravvisabile nello stile ‘fiorito’, o ‘fiammeggiante’, che si compiace nel moltiplicare i fregi e i riempitivi floreali, avvolgendo anche le figure dei fregi narrativi o animalistici in una trama di flessuose movenze, di grande effetto coloristico e decorativo. Ben rappresentato nella pittura parietale dalla tomba Campana di Veio, anche per la ricca policromia (Fig. 8), lo stile in questione trova le sue manifestazioni più riuscite nell’intaglio (pissidi già citate della Pania, uova di struzzo vulcenti della tomba d’Iside, esportate anche nel Piceno a Pitino di S. Severino), nel bucchero inciso e soprattutto nei bronzi sbalzati. Tra questi un vero pezzo di bravura è il carro rinvenuto a Colle del Forno nella Sabina tiberina, prodotto verosimilmente da una bottega cerite, nel solco della rinomata metallotecnica di quella città, che anche più tardi darà importanti testimonianze. In campo architettonico l’orientalizzante si conclude con l’affernazione di un nuovo tipo di casa signorile, il cui nucleo è costituito da tre camere affiancate precedute da un

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unico vano d’ingresso, fungente da atrio. È il tipo di casa, di origine greca, probabilmente mediata dalla Sicilia, che conosciamo principalmente attraverso le imitazioni funerarie, anche riccamente decorate, della necropoli cerite. Nella successiva età arcaica esso sarà preso significativamente a modello, terrecotte architettoniche comprese, per il tempio definito tuscanico da Vitruvio, ossia il tempio monumentale, col quale le città etrusche e latine affermeranno il primato della religione e delle istituzioni civiche sugli oikoi aristocratici, ormai definitivamente ridimensionati. Bibliografia Ove non altrimenti specificato, si fa riferimento alla trattazione dell’Orientalizzante compresa nella voce Etrusca arte dell’eaa, ii suppl., iii, 1994, pp. 556-560, con bibl. a p. 565 (architettura), pp. 568-573, con bibl. a p. 602 sg. (arti visive). Inoltre, in generale: M. Pallottino, Orientalizzante, in eua , x, 1963, coll. 223-237; M. Cristofani, M. Martelli, Lo stile del potere e i beni di prestigio, in Storia d’Europa, ii, Torino, 1994, pp. 1147-1166; M. Menichetti, Archeologia del potere, Milano, 1994, pp. 24-75; G. Colonna, L’Italia antica: Italia centrale, in Carri da guerra e principi etruschi, cat. della mostra di Viterbo, a cura di A. Emiliozzi, Roma, 1997, pp. 15-23. Sull’onomastica gentilizia: G. Colonna, «StEtr», xlv, 1977, pp. 175-192. Per il gentilizio Hustil(i)e di Vulci: Idem, in Atti del x convegno di studi etruschi e italici, Orbetello-Roselle-Vulci 1975, Firenze, 1977, pp. 77-80. Sui primordi della scrittura: Idem, L’écriture dans l’Italie centrale à l’époque archaïque, in Revue de la société des élèves, anciens élèves et amis de la Section des Sciences religieuses de l’é.p.h.é. , Paris, 1988, pp. 2-31. Le iscrizioni citate sono in H. Rix, Etruskische Texte, ii, Tübingen, 1991, Vc 3.1; Fa 3.2. Per la tomba dell’Alfabeto: G. Bartoloni, in Etrusca et Italica. Scritti in memoria di M. Pallottino, Pisa-Roma, 1997, pp. 25-49. Sulle funzioni e la dignità dello scriba: G. Colonna, Mélanges J. Heurgon, Rome-Paris, 1976, pp. 187-192. Iscrizione di Gabii: C. Ampolo, in Le necropoli arcaiche di Veio, a cura di G. Bartoloni, Roma, 1997, pp. 211-217. Coppe a semicerchi penduli da Veio: Ivi, pp. 85-88. Ceramica enotria da Capena e Veio: G. Colonna, in Atti dell’viii convegno di studi etruschi e italici, Orvieto 1972, Firenze, 1974, pp. 297-302. Iscrizione di Hisa Tinnuna: Idem, in L’incidenza dell’Antico. Studi in memoria di E. Lepore, i, Napoli, 1995, pp. 325-342; D. Ridgway, «Oxford Journal of Archaeology», 16, 1997, pp. 336-338. Contatti precoci col Vicino Oriente: F. W. V. Hase, Beitr. Zur Urnenfelderzeit nördlich und südlich der Alpen, Monographien, «rgzm», 35, 1995, pp. 239-286. Sui tumuli: A. Naso, in Regensburger Beitr. zur prähistorischen Archäologie, 4, 1998, pp. 117-156. Sulle origini e sugli sviluppi della statuaria resta fondamentale il contributo di G. Colonna, V. Hase, «StEtr», lii, 1986, pp. 13-59, nonostante F. Prayon, in Regensburger Beitr., cit., pp. 191-207, che vorrebbe ricondurre le origini della ‘grossformatiger Plastik’ alla antropomorfizzazione delle urne villanoviane! Sulle statue di Casale Marittimo: A. Maggiani, in Principi guerrieri. La necropoli etrusca di Casale Marittimo, a cura di A. M. Esposito, Milano, 1999, pp. 33-39; G. Colonna, Piceni popolo d’Europa, cat. della mostra di Francoforte sul meno, Roma, 1999, p. 105. Sui cippi claviformi bibl. in G. Colonna, «StEtr», liv, 1988, p. 155, nota 146; S. Bruni, Pisa etrusca, Milano, 1988, pp. 146 sg., 273 sg. Sul costume di Fauno: G. Colonna, «AnnMusFaina», iii, 1987, p. 17 sg. Per la t. Regolini-Galassi e la ploratio: G. Colonna, E. Di Paolo, Etrusca et Italica, cit., pp. 131-172. Sulle stele protofelsinee: L. Cerchiai, «aion ArchStAnt», x, 1988, pp. 227-238 (con proposte solo in parte condivisibili). Per il pithos con l’accecamento di Polifemo: Odysseus. Il mito e la memoria, cat. della mostra, a cura di B. Andreae, Roma, 1996, p. 174, 3.1. Sull’anfora del pittore dell’Eptacordo in America: Carri da guerra e principi etruschi, cit., tav. i, 1-2. Sui canopi e gli ‘ossuari’ chiusini: Chiusi etrusca, a cura di A. Rastrelli, Chiusi, 2000, passim. Sull’olpe con Medea v. ora F.-H. Massa-Pairault, «ParPassato», xlix, 1994, pp. 437-468. Sul carro da Colle del Forno: P. Santoro, Carri da guerra, cit., pp. 291-300. [La cultura orientalizzante in Italia, in Principi etruschi tra Mediterraneo ed Europa, cat. della mostra di Bologna, Venezia, 2000, pp. 55-66].

I L S AN T UARIO DI PORTONAC C IO A V E IO

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no dei fulcri della mostra è costituito indubbiamente, per volontà della Soprintendente Anna Maria Moretti, dall’ampia scelta di materiali, tutti poco noti se non addirittura inediti, provenienti dal santuario in località Portonaccio. Benché sconosciuto alla tradizione letteraria, perché non connesso a eventi che abbiano interessato la storiografia greca o romana, e benché privo di una spiccata monumentalità, probabilmente anche per rispetto dell’ambiente in cui si trovava e delle specifiche funzioni cultuali cui era destinato, il santuario finì col primeggiare, a giudicare dall’arredo architettonico e votivo, tra quelli non solo di Veio ma dell’intera Etruria (Arezzo 1985, pp. 99-109). Sorgeva in un sito letteralmente suburbano, su un non grande terrazzo naturale in origine piuttosto accidentato, a causa della sensibile pendenza sia nella direzione della lunghezza, da ovest a est, che, limitatamente all’area del temenos vero e proprio, in quella della larghezza, da sud a nord, dove terminava, allora come oggi, contro il ripido pendio culminante nel gradino roccioso su cui correvano le mura urbane, dalle quali poteva agevolmente essere osservato e tenuto sotto controllo (Fig. 1). A sud, verso valle, il terrazzo affaccia su uno strapiombo di rocce, al cui piede scorre il fosso della Mola, da poco uscito dalla gola in cui ha compiuto il salto che in passato azionava, grazie all’accelerazione impressa alla corrente, il mulino eponimo, oggi in rovina. Nonostante la prossimità a una porta urbana, cui metteva capo la via non secondaria proveniente dal litorale e dalle saline veienti, il luogo era piuttosto appartato, essendo raggiunto solo da un diverticolo, che si staccava dalla strada maestra all’inizio dell’erta finale adducente in trincea alla porta delle mura. Il raccordo passava laddove sarebbe stato costruito in età moderna l’ingresso – il “Portonaccio” – di una vigna da tempo scomparsa, correva per poco più di 100 metri a mezza costa e quindi sboccava sul terrazzo, che attraversava per intero nel senso della lunghezza. Dopo la conquista romana l’erta fu abbandonata e la strada per entrare in città utilizzò il diverticolo del santuario, aggirando con un’ampia curva, sorretta da apposite sostruzioni, lo sperone roccioso che incombe sull’estremità orientale del terrazzo, per poi risalire l’adiacente vallecola. Il percorso ricalcava in senso inverso quello, piuttosto disagevole e inadatto ai carri, che dovette a lungo essere in uso prima della costruzione delle mura e della porta, che si tende a datare non prima della metà del v secolo a.C. (Ward-Perkins 1961, p. 36; Fontaine 1993, p. 222), ma che più verosimilmente è da riportare almeno alla fine del vi (essendo impensabile, a prescindere da ogni considerazione sulla cronologia delle ceramiche domestiche su cui è stata basata quella datazione, che Veio restasse priva di mura quando Roma e le altre città latine erano da tempo potentemente fortificate) (Guaitoli 1984). I mutamenti intervenuti nell’assetto viario danno conto del fatto, altrimenti incomprensibile, che il nucleo più antico e venerato del santuario è sorto, come si dirà, all’estremità orientale del terrazzo, nella sua parte più angusta e infossata, oltre che più lontana dalla porta delle mura, e che lo sviluppo topografico dell’area è avvenuto da est verso ovest, ossia in direzione opposta a quella del diverticolo proveniente dalla strada maestra di età tardo-arcaica. Risulta già da quanto si è detto il carattere assai particolare del santuario, ubicato in una cornice naturale fortemente marcata da rupi scoscese, acque impetuose e certo anche, come oggi, rigogliose frange di bosco. La collocazione a mezza costa spiega sia la sua precoce e totale scomparsa sotto l’imponente massa di terra scivolata dall’alto nel

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corso dei secoli, sia le circostanze del suo ritrovamento. Infatti il parziale crollo del muro arcaico di sostruzione della terrazza ha determinato il franamento a fondovalle, in loc. Cannetaccio, di un’ampia porzione del retrostante riporto, in cui erano state ammassate, in una sorta di “colmata dei Persiani”, moltissime terrecotte votive e architettoniche, in occasione sia della costruzione del muro nella seconda metà del vi secolo sia delle successive ristrutturazioni subite dal santuario (Colonna 1987a, pp. 33-39). Il casuale affioramento di alcune di tali terrecotte, dovuto all’erosione del torrente, provocò nel 1914 l’avvio delle prime ricerche da parte di Ettore Gàbrici, con scoperte subito clamorose (cfr. cat. I.F.5 e I.F.6), proseguite da Giulio Q. Giglioli, che nei due anni successivi spostò il cantiere sul terrazzo del Portonaccio. Vennero allora in luce il pressoché intatto e ben presto celebre Apollo, con altri resti delle statue acroteriali (cfr. cat. I.F.2), la strada romana e i primi lembi dei muri della piscina e del tempio (Giglioli 1919 e 1923). Entrambe queste strutture furono scavate per intero da Enrico Stefani, che tra il 1917 e il 1920-21 lavorò intensamente su quasi tutto il terrazzo, scoprendo il grande altare del settore est col vicino sacello e i portici annessi (Stefani 1953, Baglione 1987) (Fig. 3). Seguirono nel 1939-40 lo scavo da parte di M. Pallottino degli strati più profondi nella zona dell’altare (cfr. cat. I.F.1), col rinvenimento dell’altare arcaico, della Dea col bambino e del grande torso maschile (cat. I.F.4), e quelli del 1944-50 da parte di M. Santangelo, cui si deve la scoperta della cisterna dinanzi al tempio (cat. I.F.7) e, previa la rimozione quasi completa della ben conservata strada romana, del muro di temenos, del torso dell’Ercole e di altri resti degli acroteri del tempio (Santangelo 1952). Pallottino fece costruire la tettoia sull’altare (cfr. ibid., fig. 1) e avviò anche l’anastilosi, completata con qualche forzatura da S. Aurigemma e da Stefani negli anni successivi, dei settori delle fondazioni del tempio travolti dal cedimento delle gallerie della sottostante cava di età imperiale, dando così al monumento l’aspetto meglio leggibile che tuttora conserva. Da ultimo si tornò a sterrare nei primi anni ’50 il fondovalle del Cannetaccio, a quanto pare con poco frutto. La recente ripresa dell’interesse per Veio ha fatto sì che, nell’ambito delle iniziative “etrusche” della Regione Lazio, si realizzasse nel 1993 un coraggioso esperimento di ricostruzione virtuale dell’alzato del tempio, con strutture leggere direttamente sovrapposte alle murature esistenti, secondo un progetto elaborato per la parte scientifica da chi scrive, che ne curerà la pubblicazione, coadiuvato da G. Foglia, e per la parte architettonica ed espositiva da F. Ceschi, con la supervisione di F. Boitani (Boitani, Ceschi 1995: cfr. eaa , ii suppl., s.v. “Veio”, fig. 1230). Contemporaneamente veniva realizzato, secondo le linee dello stesso progetto, un nuovo allestimento della sala dedicata al Portonaccio nel Museo di Villa Giulia, comunque del tutto insufficiente a dar conto della complessità delle scoperte. Ma soprattutto ci si è tornati ad occupare del santuario, né poteva essere diversamente, nell’ambito del Progetto Veio dell’Università di Roma La Sapienza, citato nella nota introduttiva alla città. Sul campo è stata esplorata nel 199697 l’area retrostante il tempio, ancora mal nota, si è ritrovata la cisterna Santangelo e sono stati rilevati sia i cunicoli sottostanti la zona dell’altare sia l’intera sostruzione della strada di età repubblicana, oltre a numerosi altri interventi di verifica (Colonna 1998, pp. 139-141), mentre nei depositi di Villa Giulia si è dato impulso allo studio e al restauro dei materiali dei vecchi scavi, rimasti in gran parte inediti. Si è così pervenuti all’edizione integrale, curata da L.M. Michetti, degli scavi compiuti da Pallottino nella zona dell’altare (Colonna et alii 2001) e all’aggiornamento (Colonna 1998, fig. 1) (Fig. 1) della troppo lacunosa pianta generale del santuario pubblicata da Stefani (Stefani 1953, fig. 4) e quindi da tutti riprodotta, dando luogo a equivoci specialmente per quanto riguarda l’ampio spazio centrale (dove in Ward-Perkins 1961, p. 39 si ipotizza “one other substantial building”, ignorando la presenza della cisterna).

Fig. 1. Planimetria generale del santuario di Portonaccio.

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italia ante romanum imperium Il culto a cielo aperto con i suoi annessi (i fase del santuario)

Per la ricostruzione della morfologia originaria del sito e della storia più antica della sua occupazione religiosa, oltre che per l’identificazione dei culti praticati, riveste particolare importanza lo scavo dei livelli profondi esistenti nella zona dell’altare e delle sue adiacenze, iniziato da Stefani e compiuto, con maggiore sistematicità e consapevolezza, da Pallottino. La zona in questione è stata infatti livellata, come oggi ci appare, solo in un’età relativamente recente: in origine esisteva un forte dislivello tra il dosso su cui si trova l’altare e la bassura in cui si trovano le fondazioni del sacello e dove metteva capo il più antico collegamento viario con la città. I livelli indagati da Stefani e da Pallottino insegnano che il culto è iniziato in questa zona almeno nella prima metà del vii secolo a.C. (cfr. cat. I.F.1.28), ricevendo la sanzione di una prima, peraltro assai modesta sistemazione urbanistica ed edilizia nella seconda metà o verso la fine dello stesso secolo. Fu allora steso su tutto il dosso, in precedenza occupato da capanne, un piano battuto, delimitato sul lato settentrionale da un muro di sostruzione in cappellaccio e accogliente forse già allora al centro un altare, di cui comunque non è rimasta traccia, mentre in basso fu costruita, in corrispondenza del futuro sacello, una platea irregolare di blocchi pure di cappellaccio, forse a supporto o al servizio di una piccola struttura di tipo precario, del tipo di un’edicola. Nei pressi di tale struttura fu accumulata all’aperto un’ingente congerie di offerte, prevalentemente ceramiche (soprattutto vasi etrusco-corinzi e di bucchero), che costituisce, assieme alla selezione dei coevi donari metallici o comunque preziosi, sepolta più tardi in qualità di offerta di fondazione nel corpo del grande altare (Stefani 1953, pp. 81-87; Ward-Perkins 1961, p. 30; G. Colonna, in Colonna et alii 2001), il più notevole deposito votivo di età tardo-orientalizzante, alto- e medio-arcaica finora rinvenuto in Etruria. Nessun dubbio può sussistere, a giudicare dalle offerte, sulla natura prevalentemente femminile delle divinità venerate, confermata dalle numerose iscrizioni vascolari di dedica, che menzionano più volte Menerva, associata in una delle occorrenze ad Aritimi e a Turan, nonché isolatamente una *Venai non altrimenti conosciuta (Colonna 1987b, pp. 420-428). Non manca però una dedica al dio Rath (ibid., pp. 433435), che sul noto specchio da Tuscania con extispicio è assimilato iconograficamente ad Apollo e la cui venerazione da parte dei Veienti è confermata dal gentilizio Ratumenna dello sfortunato “auriga” di quella città, che morendo avrebbe lasciato il suo nome alla porta del Campidoglio rivolta verso il Campo Marzio e la via Trionfale (Colonna 1996c, p. 363, nota 41). La plastica fittile comprendeva, oltre a un busto “canopico” dalla testa di forma astrattamente geometrizzata, inedito, e a statuette, tra cui una orientalizzante di “signore” in trono (Colonna, von Hase 1984, p. 48, nota 96, tav. xvi, c), anche statue, di cui restano pochi avanzi irriconoscibili, esposte verosimilmente all’aperto. Ad esse si affiancò in un momento finale, verso la metà del vi secolo, una statua maschile maggiore del vero, di cui resta il torso vigoroso, finora erroneamente interpretato, evocante l’Hercules fictilis di Vulca (cat. I.F.4). L’aspetto oracolare del culto di Minerva, specificato in senso cleromantico da una piccola arca di bucchero dedicata alla dea (Colonna 1987b, p. 423), può essere esteso entro certi limiti a Ercole (Champeaux 1982, p. 63 sgg.) e all’assai meno noto Rath (mantica “aruspicale”), ai quali comunque competeva un ruolo almeno in questa fase chiaramente subordinato. L’esistenza dell’oracolo giustifica la provenienza anche da altre città, vicine o lontane, come Caere, Vulci, Castro e Orvieto, degli autori delle dediche, talora identificabili con personaggi di alto lignaggio o assurti a posizioni politicamente

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rilevanti, a Veio o altrove (come un Tulumne e un Vipienna), il cui arrivo tra le rupi del Portonaccio non può esser dovuto che alla fama e alla autorevolezza dei responsi che vi venivano dati (e non alla pretesa rilevanza politica del santuario in senso federale, come qualcuno ha astrattamente congetturato). Le iscrizioni d’altra parte testimoniano, con il loro numero assai elevato e l’evidente predilezione per fatti grafici rari altrove in Etruria, quali il sigma a forma di croce e l’uso frequente della punteggiatura sillabica, da qui verosimilmente irradiata in Campania e tra i Veneti, l’esistenza di una sorta di locale scriptorium, gestito dagli addetti al santuario (Colonna 1976, p. 18; Cristofani 1978b, p. 10), i quali, oltre al compito primario di iscrivere le sortes e di garantirne la consultazione, si saranno presi cura di redigere anche, a richiesta, le dediche dei fedeli. Per tali addetti, residenti sul posto e col tempo, tramandate di padre in figlio le loro funzioni, trasformatisi verosimilmente in un potente gruppo gentilizio, ospitante i visitatori di riguardo venuti di lontano, non è ipotizzabile una sede diversa e migliore dell’edificio di cui resta il basamento a vano semisotterraneo, di pianta quadrata leggermente trapezoidale incassata su tre lati nel masso, situato a ridosso della gobba rocciosa incombente da ovest su quello che diverrà il settore occidentale del santuario, in una posizione all’epoca nettamente periferica, ma dominante. A giudicare infatti dai rinvenimenti avvenuti all’interno del vano (Stefani 1953, p. 103 sg.; Baglione 1987, pp. 408410), le cui parti costruite sono già in tufo rosso, esso ha conosciuto lo stesso arco di vita dei primi apprestamenti sacrali realizzati nel settore orientale ed è stato continuativamente adibito ad abitazione e a hestiatorion, con notevole consumo di carni, a giudicare dai reperti faunistici, riferibili a una ricca varietà di animali sacrificati. Al robusto edificio, per il quale si può ipotizzare l’ingresso sul lato sud e una conformazione a torre, come nel caso di quello, assai più esiguo, esistente presso il ponte di San Giovenale (Colonna, Forsberg 1999, p. 78, con bibl.), va attribuito un tetto di tegole dotato assai presto di una sima decorata con fasce di denti di lupo incavati (Stefani 1953, p. 104; Baglione 1987, p. 410, nota 34) e forse, tra il primo e il secondo quarto del vi secolo, di un fregio a rilievo con felini incedenti, del tipo della terza Regia di Roma (Andrén 1974, p. 4, nota 21). I primi sviluppi monumentali (ii fase) La seconda fase di vita del santuario, assai più breve (540/530-510/500 a.C.) della precedente, è stata tuttavia determinante per il suo divenire, avendo segnato l’avvio di una generale, anche se ancora contenuta monumentalizzazione, realizzata interamente in tufo rosso. Fu allora costruito il lungo muro di terrazzamento dal lato del dirupo, munito dei contrafforti interni messi in luce dalle frane (Ward-Perkins 1961, p. 30, fig. 8), e, contestualmente ad esso, il sacello del settore orientale (vano G di Stefani), che è un oikos a cella rettangolare, simile nelle dimensioni al vano semisotterraneo del settore occidentale ma rivolto a OSO, come è normale per Minerva, Giunone e altre grandi divinità femminili (Prayon 1991). Il suo pavimento fu portato a livello del dosso, seppellendo nel capiente vano di fondazione gran parte del deposito votivo accumulato presso la preesistente struttura di cappellaccio, e precisamente la parte recuperata da Stefani (assieme alle intrusioni seriori di cui si dirà). L’aspetto del sacello è assai probabilmente evocato da un minuscolo modello votivo (Arezzo 1985, p. 107, 5.1.G.5), che per la porta leggermente decentrata come nei sacelli dell’area Sud di Pyrgi postula un’esigenza di segretezza, coerente col tipo di culto richiesto dall’altare di cui subito appresso. Al sacello può essere attribuita una sima laterale con sfingi a rilievo (ricomposta graficamente da F. Melis, in Arezzo 1985, p. 101, 5.1.B.1), e forse anche una sima frontonale con an-

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themion soltanto dipinto (Stefani 1953, p. 54, fig. 29). In fase col sacello è l’altare quadrato antistante, ma in posizione del tutto disassata, scoperto da Pallottino al disotto della platea circostante l’altare recenziore e rimasto finora inedito (G. Colonna, in Colonna et alii 2001). Il robusto condotto che attraversa verticalmente la struttura a mo’ di bothros ermeticamente sigillato, fino a raggiungere il masso (Stefani 1953, p. 43, fig. 20), indizia un culto di tipo ctonio, come avviene sia a Pyrgi (area C e ora anche area Sud, altare iota) che a Punta della Vipera, dove è venerata precisamente una Minerva oracolare (Torelli 1968). Il complesso fu inoltre dotato di un profondo portico, bordato dal canale di scolo della grondaia, e di una scala per accedere all’area dalla strada sottostante, al cui piede rimase accumulata la parte di doni votivi che è stata scavata da Pallottino. Nel settore occidentale fu innalzato qualche anno dopo, in relazione topografica con la supposta “casa dei sacerdoti”, che venne allora demolita colmandone il basamento semisotterraneo, il primo edificio di notevoli dimensioni sorto nel santuario. Ne resta solo il muro laterale nord, orientato a ESE come il tempio che ne prese il posto e di quasi pari lunghezza (Stefani 1953, p. 103, fig. 70, lett. B, cfr. fig. 13 a ds.; Baglione 1987, p. 408, nota 31, fig. 22), ma troppo esile perché si possa pensare a un podio e a una pianta con esso comparabili: si sarà piuttosto trattato di un vasto oikos a pianta stretta e lunga, comparabile anche nelle dimensioni a quello di Piazza d’Armi, peraltro assai più antico e, a differenza di questo, di sicura destinazione cultuale. Gli sono attribuibili alcune terrecotte di rivestimento di “prima fase” evoluta rinvenute nei pressi, tra le quali un posto particolare hanno i minuti frammenti di fregi figurati a bassorilievo, con cortei di pedoni e carristi, trainati anche da cavalli alati, convivio e “assemblea divina”, riferibili alla nota serie Veio-Roma-Velletri e databili intorno al 530 a.C. (Stefani 1953, pp. 56-59, fig. 32, ai, m-p, r-s; Gantz 1975, p. 564 sg., figg. 33-42), cui forse si aggiungevano alcune belle antefisse a testa femminile senza nimbo, leggermente seriori, di stile ionico-attico (Arezzo 1985, p. 101 sg., 5.1.B.2; Colonna 1987a, p. 28 sgg., fig. 65). In relazione con esso, piuttosto che con il tempio che ne ha preso in seguito il posto, va probabilmente considerata la grande cisterna cilindrica con fodera di argilla, ubicata nell’area intermedia tra i due settori del santuario, in quella che si avviava a diventarne la piazza e il centro focale (purtroppo completamente devastato dalla cava di età tardo-repubblicana a cielo aperto, che ha risparmiato solo la parte profonda della cisterna). Non è affatto probabile che l’edificio in questione sia da interpretare alla stessa stregua del suo succedaneo, ossia come un tempio vero e proprio (come chi scrive inclinava a pensare in Arezzo 1985, p. 100). L’ideologia tipicamente aristocratica dei suoi fregi figurati, includenti, a differenza di quel che accade nel tempio di S. Omobono, i temi del convivio e dell’apoteosi di Ercole (Torelli 1992, dove tuttavia non è utilizzata la testimonianza del Portonaccio), l’evidente nesso topografico con la vetusta “casa dei sacerdoti”, che l’edificio sembra avere fisicamente sostituito, nonché la presenza dell’antistante cisterna, probabilmente coeva, propria più di un contesto abitativo che santuariale, fanno piuttosto pensare a una sorta di regia, sede ufficiale della gens che ha ereditato dagli antichi sacerdoti-scribi la gestione del santuario, a cominciare dall’oracolo di Minerva. Una situazione analoga a quella che a Roma intravediamo nel Tarentum, a lungo in epoca storica appannaggio dei Valerii, o nello stesso santuario di Ercole al Circo Massimo, gestito dai Potitii e dai Pinarii fino al tardo iv secolo. Purtroppo non possediamo un deposito votivo spettante a questa fase, e quindi neanche iscrizioni che possano illuminarci sui culti. Restano solo pochi avanzi di statue e statuette votive, rimaste più o meno a lungo esposte all’aperto, come si è supposto per la grande statua maschile già menzionata, eretta sullo scorcio della fase precedente, o piuttosto nel portico di Minerva. Le principali sono due kouroi di stile e iconografia io-

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nica, vestiti e calzati, uno dei quali ricomposto quasi per intero da M.P. Baglione, mentre dell’altro, di dimensione superiore al vero, resta solo una gamba (cat. I.F.6.1-2); un Ermes a un quarto del vero di cui resta solo il busto (limc viii, 1997, s.v. “Turms”, p. 100, n. 18, tav. 75); un “cacciatore” calzato in cui si potrebbe riconoscere Ercole in costume iperboreo (cat. I.F.1.20, cfr. Mastrocinque 1993); il più antico dei due gruppi di Ercole e Minerva (Colonna 1987a, p. 32, figg. 64 e 76; Colonna 1987b, p. 423, fig. 5 sg.), a scala in questo caso a metà del vero, e quindi vicina alla misura tripedanea considerata honorata per eccellenza (Plin., nat. hist. xxxiv, 24: cfr. Roncalli 1982, p. 95 sg.), realizzata per la prima volta in Etruria con la statua alabastrina della tomba d’Iside a Vulci. Il gruppo, coevo al notissimo acroterio romano di S. Omobono, ma di qualità più elevata anche perché interamente plasmato a mano, mostra un Ercole tunicato, “trionfale”, come nella apoteosi raffigurata sul tripode vulcente dall’Acropoli di Atene (Riis 1997, p. 62 sgg., fig. 60; Colonna 2000 cds). È questa la prima, scoperta manifestazione di aspirazioni tiranniche nel seno delle dominanti cerchie aristocratiche della città. La fase apogeica, o dei sommi maestri della terracotta (iii fase) La terza fase edilizia coincise, a partire dagli anni finali del vi secolo a.C., con una radicale ristrutturazione del santuario, che gli conferì l’aspetto col quale universalmente lo conosciamo. Opera certamente di una autorità di stampo regale, che con essa pose fine alla tutela gentilizia esercitata sul santuario nei precedenti decenni in forme, come si è visto, vistosamente ostentate, la ristrutturazione iniziò in concomitanza, e certo in diretta relazione, con l’apertura del raccordo stradale carrabile, che ne facilitava notevolmente l’accesso per chi, come avviene anche oggi, proveniva da ovest. Demolita la supposta residenza “privata”, decorata con fregi figurati e antefisse, al suo posto furono costruiti il tempio di media grandezza di cui restano le fondazioni, in parte modernamente ricostruite, e la grande piscina rettangolare, foderata di argilla come la cisterna e alimentata da un apposito cunicolo, posta a ridosso dell’edificio dal lato della strada, praticamente in corrispondenza di quello che da allora divenne l’ingresso più frequentato del santuario (Fig. 2). Secondo la ricostruzione grafica elaborata nel 1993 dallo scrivente, di cui qui si dà succinta notizia, il tempio fu progettato sulla base di un modulo di tre piedi attici (m 0,89), coincidente con l’altezza del podio, l’imoscapo delle colonne e lo spessore di base dell’elevato dei muri. L’edificio sorgeva su un podio quadrato di 62 p. di lato e aveva un alzato pure quadrato di 60 p., un pronao profondo 24 p. e tre celle profonde 30 p., larghe la centrale 18, le laterali 15 p. (del tutto improbabile l’alternativa spesso avanzata di una cella tra alae, stante la presenza di due diverse cornici fittili di porta, coeve e di formato leggermente diverso). Il pronao era in antis, aperto in facciata con due sole colonne di tufo a fusto liscio (se n’è ritrovato un tamburo: Colonna 1998, p. 139), alte 21 p., ossia m 6,22. Assai vicino al modello cui già si erano attenuti il tempio serviano di S. Omobono (Colonna 1991b) e forse quello di Velletri, ma con celle al posto delle alae, il tempio rappresenta la prima realizzazione in terra etrusca delle Tuscanicae dispositiones teorizzate da Vitruvio, così come le sue terrecotte sono, assieme a quelle del tempio B di Pyrgi, il primo esempio, ancora di carattere largamente sperimentale, della c.d. seconda fase della coroplastica templare d’Etruria e del Lazio. Si tratta in realtà di un gioiello architettonico, finora non adeguatamente apprezzato, contraddistinto da una esuberanza e insieme una cura estrema nella decorazione che lo rendono unico in Etruria, comparabile solo con i più sofisticati monumenti dell’arcaismo greco, a cominciare dal Tesoro dei Sifni. Evidente è la personalità di un maestro progettatore, un epistátes, che ha saputo abilmente combinare le armoniose

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Fig. 2. Il santuario verso il 500 a.C. A. Tempio. B. Piscina. C. Cunicolo di alimentazione della piscina. D. Cisterna. ·. Muro della supposta regia. ‚. Vano semisotteraneo. Á. Portico. ‰. Altare di Minerva. Â. Canale di scolo dell’altare. ˙. Scala. Ë. Muro di temenos. ı. Sacello di Minerva.

strutture portanti con gli assai complicati rivestimenti fittili, numerati per la messa in opera con un raffinato sistema di sigle sillabiche, in tutto degno degli scribi veienti (De Vita De Angelis 1968; Pandolfini, Prosdocimi 1990, p. 185 sg.), oltre che prova sicura dell’assoluta etruscità di tutto l’insieme. Di tali rivestimenti generosamente arricchiti da inserimenti e applicazioni plastiche, oltre che da minuti riporti bronzei e da una squillante policromia, è presentato un campione, relativo a uno dei raccordi angolari del tetto, ricostruito da C. Carlucci (cat. I.F.3). Il vasto repertorio di statue e statuette a tutto tondo, protomi, bassi e alti rilievi, quasi sempre modellato a mano, anche nel caso delle splendide antefisse di modulo maggiore, che restano senza confronto nel mondo antico, esprime al meglio la capacità tecnica e la straordinaria inventiva dei plastae veienti, degni eredi della tradizione inaugurata da Vulca negli ultimi anni del regno di Tarquinio Prisco. La parte più impegnativa e originale del denso programma figurativo risiedeva indubbiamente nella folla di statue acroteriali – a giudicare dal numero delle basi, dodici sul culmine del tetto e forse otto sugli spioventi delle due facciate – di grandezza per lo più pari o superiore al naturale, coinvolte in narrazioni mitiche a gruppi di due o di tre, paragonabili ad altrettanti donarii, quali ne conosciamo soprattutto dai santuari panellenici. Dovute a più di una mano, sono tuttavia accomunate da una stessa impronta stilistica, tesa a esaltare il movimento e a scandire nettamente i volumi, schiacciando i panneggi, in una concezione formale dinamica e vitalistica (cat. I.F.2.1-4). Si è parlato in proposito di un Maestro dell’Apollo, ad avviso di chi scrive da identificare, per la sua eccezionale dimestichezza coi problemi posti dai grandi acroteri figurati, col “Veiente

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esperto di coroplastica”, cui Tarquinio il Superbo commissionò, poco prima del 509 a.C., la quadriga di Giove, issata a circa 25 metri di altezza sul fastigio del colossale tempio capitolino (Fest., p. 342 L.). Le statue erano sorrette e insieme sospinte verso l’alto da altrettante monumentali basi a zoccolo variamente conformato e dipinto, poste a cavallo del kalyptèr hegemón (cat. I.F.2.5-6) e della fila di kalyptéres poggianti sulle tegole terminali degli spioventi (anche se nessuna delle basi di questa seconda categoria è stata in passato interpretata e restaurata correttamente). Soltanto la statua posta al culmine della facciata principale, purtroppo andata perduta, era direttamente seduta sul kalyptèr hegemón, entro una schiumeggiante cornice di brevi volute, che risaliva alle sue spalle formando una sorta di schienale ricurvo (Stefani 1946, p. 45 sg., fig. 12 sg.), con probabile allusione a un trono composto o circonfuso di nuvole (cat. I.F.2.7). Appena più recente degli acroteri, ma opera di un maestro di altra scuola, assai più attento alla ricerca anatomica e allo studio del modellato, è il fragile gruppo di Ercole e Minerva a tre quarti del vero, certamente votivo ed esposto, come il precedente gruppo dello stesso soggetto, nei pressi del sacello di Minerva, nel cui sottosuolo fu in seguito sepolto (cat. I.F.5). Il gruppo ribadiva l’esaltazione dell’ideologia tirannica, implicita nel precedente donario e ora forse pienamente messa in atto dal committente, inducendo a ritenere che il tempio sia stato edificato con larghissimo dispendio, quasi come fosse esso stesso un prezioso dono di ringraziamento, da qualcuno che governava da re la città, forte di una vantata investitura divina, come contemporaneamente faceva a Caere Thefarie Velianas costruendo il tempio B di Pyrgi (Colonna 2000 cds). Sostituzioni di rivestimenti e di antefisse, avvenute con ampiezza nel secondo quarto del v secolo, documentano come il tempio conservasse una posizione centrale nel panorama dei culti cittadini e come non si lesinassero spese per mantenerlo e abbellirlo, esattamente come accadeva a Pyrgi col tempio A, in patente contrasto con quel che sappiamo della Roma del tempo, governata dal patriziato. Intorno al 470 a.C. o poco dopo si data, tra l’altro, un intero ciclo di pitture su terracotta, disposte in più fregi continui ed applicate probabilmente alle pareti del pronao, esibenti una grande varietà di temi mitici, per lo più oscuri, tra i quali si riconosce una pirrica danzata da giovanette (Stefani 1953, pp. 67-80; Colonna 1987b, p. 444). Dinanzi al tempio dovette essere costruito un apposito altare, essendo impensabile che per una fabbrica come quella fosse considerato adeguato il modesto altare di Minerva, posto per di più a 30 metri di distanza e in tutt’altro contesto topografico e sacrale; né meraviglia che di esso non sia rimasta traccia, dopo la totale devastazione della piazza provocata dalla cava di età tardo-repubblicana. Inoltre l’area leggermente sopraelevata posta alle spalle del tempio e della piscina, raggiunta per prima da chi arrivava al santuario con la nuova via proveniente da ovest, fu in questa fase recintata con un proprio muro di temenos, bordato dalla via sul suo lato settentrionale. Benché quasi dappertutto manomessa dalla cava di età imperiale che, diramandosi da essa, ha provocato la rovina delle fondazioni del tempio, l’area è risultata, a seguito delle ricerche di Stefani e di quelle ancora più estese condotte nel 1996-97, del tutto priva di costruzioni al suo interno, anche se sono apparse sicure tracce, anche epigrafiche (Colonna, Belelli Marchesini 1998), di attività cultuali. Da qui l’ipotesi di un lucus, sorto in relazione col vicino tempio (Colonna 1998, p. 141). Circa la divinità o le divinità venerate nel tempio dobbiamo confessare che sussiste ancora qualche incertezza, anche perché non si conosce un deposito votivo ad esso specificamente correlabile, come invece si è visto accadere per l’altare e il sacello di Minerva. La dea è forse presente, anche se in forma indiretta, solo nelle figurazioni secondarie del tempio, sì da non sembrare verosimile che ne sia stata la titolare, eventualmente as-

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sociata al solo Ercole (come vorrebbe d’Agostino 2000). Nel ciclo degli acroteri, mentre, per quanto finora sappiamo, non c’è traccia di Minerva, Ercole e Apollo compaiono almeno due volte, da soli o riuniti nella contesa che li vede contrapposti. Il primo è evocato dai resti inediti di quella che sembra essere l’idra di Lerna (e a lui o a Iolao potrebbe appartenere la testa dai capelli corti riprodotta in Santangelo 1952, p. 149, fig. 14), il secondo è raffigurato fanciullo in braccio a Latona, nel mito di fondazione dell’oracolo delfico che lo vede affrontato vittoriosamente al serpente Pitone, raffigurato su un altro acroterio: mito ai cui antefatti forse alludono alcune pitture del pronao (Colonna 1987b, p. 444). Adulto, Apollo avanza con impeto, reclamando, in qualità di dio delfico e insieme iperboreo, prima ancora che di fratello di Artemide, la cerva sacra conculcata da Eracle, oggetto di un’altra delle fatiche canoniche, preliminari alla sua apoteosi. In questo episodio il dio è notoriamente perdente, ma la presenza di Ermes – la cui bellissima testa, capolavoro del Maestro dell’Apollo, non può essere dissociata dal gruppo – ci ricorda che ciò avviene solo per volere di Zeus. Il dio messaggero, dall’espressione sovranamente irridente, quasi provocatoria, è da immaginare frapposto tra i due contendenti, vero protagonista della scena, mentre fronteggia l’ira di Apollo volgendo le spalle a un Eracle ringhiante sulla sua preda come una belva. L’iconografia a tre del gruppo rinvia alla più antica raffigurazione del mito – un piatto della maniera di Lydos – in cui tuttavia è Atena a dare man forte al suo protetto (d’Agostino 2000, tav. i, 1). La sostituzione della dea con Ermes introduce nella narrazione, come accade nella contesa per il tripode raffigurata nel frontone principale del Tesoro dei Sifni, l’intervento supremo e imperscrutabile del re degli dèi. Questi era quasi certamente presente sul tetto del tempio, e al posto d’onore, se va identificato col dio assiso sul fastigio della facciata nel citato trono di nuvole (cat. I.F.2.7), ed eventualmente anche con quello stante, alto più di due metri, di cui resta la possente mano destra stringente un tempo lo scettro o la folgore, e forse anche i piedi calzati (cat. I.F.2.3-4), per il quale non si può indicare collocazione migliore del fastigio posteriore, rivolto verso chi si avvicinava al santuario. Per entrambi gli attori della contesa, e specialmente per Apollo, non mancano nel santuario terrecotte votive che ne documentano il culto (Colonna 1987b, pp. 431-441), cui si aggiunge per Apollo la citata dedica arcaica al suo omologo Rath (si noti che le prime menzioni cultuali di Aplu non sono anteriori al tardo iii secolo a.C., quando cessano quelle di Rath e di ±uri: cfr., per una sors di Arezzo, Colonna 1996c, p. 358 sgg., nota 77, e ora per una vera e propria dedica Bentz, Steinbauer 2001, che peraltro ignorano la testimonianza aretina e negano addirittura l’esistenza delle due divinità indigene). La scelta di inserire l’episodio, assai poco rappresentato nell’immaginario greco, nel programma figurativo del tempio, e in una posizione di grande evidenza, dipenderà in prima istanza dall’essere l’unico (se si prescinde dal tentato scippo del tripode, troppo negativo per Eracle) a contemplare la partecipazione di entrambi in qualità di protagonisti, oltre a valere come exemplum della protezione divina accordata all’eroe. Il che fa pensare che le due divinità, profondamente interrelate nel culto in Etruria come nel mondo italico, a cominciare dal santuario di Villa Cassarini a Bologna (Colonna 198485, p. 87 sgg.), abbiano condiviso la titolarità del tempio, forse assieme al loro genitore e pacificatore Zeus/Tina, occupandone le tre celle, ospiti del santuario che restava tradizionalmente sacro a Minerva. Vi è pertanto motivo di ritenere che la costruzione del tempio e della piscina abbiano segnato, nei confronti dell’oracolo veiente, l’affermazione di una mantica di tipo profetico, ispirata all’illustre modello delfico e collegata a riti preliminari di purificazione, da compiere nell’adiacente boschetto sacro e soprattutto nella vasta piscina. Questa non a caso ritorna, affiancata al tempio e con funzioni anche di cisterna, nel santuario dello

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Scasato I di Falerii, sacro a un Apollo mantico e “aruspicale”, diverso dall’infero Soranus falisco, identificato pur esso con Apollo sull’acropoli in loc. Vignale (Arezzo 1985, p. 87 sg.; Comella 1993b, pp. 147-149). Una svolta in senso delfico dell’oracolo di Veio, alla fine del vi secolo, dopo che sia Caere che la Roma dei Tarquinii avevano allacciato rapporti con quel lontano santuario (Coarelli 1993), non può affatto sorprendere. E potrebbe cogliersene un’eco nella dedica, alquanto rara in Etruria, di dinoi e crateri a colonnette a figure nere e rosse (per il primo cfr. cat. I.F.6.11), che prendono il posto delle phialai etrusco-corinzie, dei calici e soprattutto delle gigantesche oinochoai di bucchero (cfr. cat. I.F.1.1) delle fasi precedenti, evocando in questa prospettiva il cratere d’oro, spedito da Camillo a Delfi come decima della presa di Veio (Liv., v, 25, 10; 28, 2). D’altra parte occorre tenere presente che il culto di Ercole in Etruria, oltre a possedere anch’esso valenze oracolari, era specificamente collegato con l’elemento idrico, corrente e non, e quasi da essa richiamato, tanto che il tempio cerite del dio, da poco scoperto e anch’esso di età tardo-arcaica, ingloba nel pronao una preesistente fontana (Cristofani 2000 cds). L’importanza dell’acqua, evidente nel contesto ambientale del santuario veiente (Ward-Perkins 1961, pp. 48, 51 sg.), è sottolineata nella decorazione del tempio dalle antefisse con Acheloo della serie maggiore e dal motivo della coppia di delfini guizzanti, ripetuto sia a rilievo sui mutuli angolari (tale è la lastra in Stefani 1953, p. 56, fig. 31) che, dipinto, sulla maggioranza delle basi degli acroteri (cfr. cat. I.F.2.5-6), con un’insistenza che fa pensare a un suo valore pregnante (in rapporto anche con la pretesa discendenza da Nettuno dei re di Veio? o con l’essere il santuario sulla via che adduceva al mare?). È inoltre probabile che la colossale opera di regolamentazione idrica dell’agro veiente, cui si deve l’escavazione di migliaia di pozzi e di cuniculi, sia stata avviata o abbia ricevuto un impulso decisivo proprio grazie al potere tirannico cui si è attribuita la costruzione del tempio. Ma soprattutto avrà contribuito ad attualizzare la figura di Ercole il ruolo, mostrato dai due donari che lo raffiguravano al fianco di Minerva, di cui lo gratificava l’ideologia di quel tipo di potere. Il ritorno di Minerva (iv fase) Poco dopo la metà del v secolo, mentre sembrano cessare del tutto gli interventi conservativi e integrativi a vantaggio del tempio e in particolare del suo tetto, che conosce al contrario le prime rimozioni, come si dirà, anche l’intero settore orientale del santuario venne radicalmente ristrutturato (Fig. 3). Demolito il sacello di Minerva, evidentemente ritenuto ormai inadeguato e d’altra parte non ingrandibile per mancanza di spazio, sembra che al suo posto sia stato creato, ampliandone un poco la superficie, un recinto d’ingresso al santuario, in cui vennero sepolti, in corrispondenza dei rimossi muri nord e ovest, i due gruppi di Ercole e Minerva e altri donari. Il livello del settore fu portato dovunque alla stessa quota della piazza e del tempio, previo l’interramento della scala e la sostituzione dell’altare con un altro assai più grande e monumentale, posto a quota più alta e spostato a ridosso dell’ex sacello. Conformato ad ante come gli altari di Lavinio, accolse nel suo nucleo interno, come offerta di fondazione, una scelta degli oggetti non ceramici del deposito votivo della i fase, forse in precedenza conservati all’interno del sacello. All’intorno fu steso un lastricato, lasciandovi emergere l’imboccatura del bothros, conservato in uso, dell’altare precedente. Al portico già esistente, ricostruito anch’esso a quota più alta, ne fu affiancato un secondo, di cui resta un tamburo di colonna di tufo, addossato al nuovo muro di temenos, che delimitò l’intero santuario dal lato della strada, accompagnato esternamente da un grande collettore fognario. L’ormai completata unificazione spaziale dei due settori, che tuttavia conservavano al-

Fig. 3. Portonaccio: l’area del sacello e dell’altare di Minerva nella fase finale (da Colonna 1987b).

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tari distinti, fu sottolineata dal seppellimento sotto il lastricato dell’altare di Minerva di una statua acroteriale del tempio, quella con Latona e il piccolo Apollo, evidentemente danneggiata (da un fulmine, come sappiamo avvenne nel 278 a.C. per quella di Summano che era sul tempio di Giove Capitolino?), assieme ad alcune delle cornici traforate sovrapposte alle sime frontonali e al grande torso maschile più volte citato, residuo di una statua votiva anch’essa danneggiata. La ceramica attica sepolta sotto il lastricato data la ristrutturazione, contrariamente a quanto da tutti ritenuto in passato, a un’età non posteriore al 450-440 a.C. A questa fase di vita, che durò fino alla conquista romana e oltre, sono da riferire le numerose statue votive di stile classico, raffiguranti a varia scala giovani e giovanette, anche di alta qualità artistica come quella cui apparteneva la famosa testa Malavolta, ricomposte da M. Santangelo e soprattutto da M.P. Baglione (cat. I.F.6.3-10), nonché teste votive e statuette, raffiguranti, oltre ad Apollo, figure femminili in trono, a volte con bambino sulle ginocchia (cat. I.F.1.21; cfr. Arezzo 1985, p. 107 sg., 5.1.G.3-5). Sia esse che le statue di giovani documentano una netta ripresa del culto di Minerva, non più come dea oracolare ma come protettrice delle nascite, della iuventus e in particolare delle iniziazioni giovanili, analogamente a quanto si verifica negli stessi anni a Lavinio, ma con testimonianze che appaiono complessivamente di minore qualità. La ripresa è confermata anche dalla dedica a Minerva di una kylix attica di metà v secolo, con efebi conversanti nel tondo, eponima del Pittore di Veio, significativamente rinvenuta nei pressi della piscina (ibid., 5.1.F.3). Storicamente la svolta è molto importante, poiché segna con tutta probabilità la fine del regime tirannico cui si sono attribuite sia la costruzione del tempio che l’esaltazione della figura di Ercole e il potenziamento in chiave delfica del culto di Apollo. Il ritorno in primo piano di Minerva, ossia della divinità collegata alle origini del santuario, mai del resto venuta meno, significa probabilmente che l’aristocrazia cittadina si è ormai riappropriata del santuario e ne ha rifunzionalizzato i culti al servizio della collettività. L’epilogo romano (v fase) È importante notare che, contrariamente all’opinione comune, l’assedio e la conquista di Veio, con la conseguente annessione della città allo stato romano, non hanno apportato né danni materiali di qualche entità al santuario, evidentemente temuto e rispettato, né mutamenti di rilievo al panorama dei culti quale si era venuto definendo intorno alla metà del v secolo. Il tempio con l’annessa piscina sono rimasti in funzione, ma sempre più abbandonati a se stessi, finché, forse non prima dell’inizio del iii secolo, il primo fu smantellato, seppellendo l’Apollo e altre statue, sia acroteriali che votive, a ridosso del muro di contenimento della scarpata incombente sul terrazzo del santuario, costruito nella ii o iii fase, e la seconda fu colmata con la massa delle terrecotte architettoniche e delle offerte votive custodite nel tempio (ma per una parte di queste, rinvenuta nel fondovalle, occorre ipotizzare il seppellimento in fosse a ridosso del franato muro di sostruzione del terrazzo del santuario). Invece l’altare di Minerva e i suoi annessi continuarono a essere intensamente frequentati, sia dai superstiti abitanti che dai nuovi coloni, viventi soprattutto nell’agro, con offerte e dediche votive, ovviamente in latino, a cominciare dalla celebre dedica di L. Tolonio (cat. I.F.7.7). Un vasto accumulo di tali offerte è stato rinvenuto, oltre che intorno all’altare, anche all’interno della cisterna della piazza, dove fu riversato quando il santuario venne definitivamente abbandonato: l’ingente deposito, identificato da L. Ambrosini tra i materiali conservati a Villa Giulia, è in parte esposto nella mostra (cat. I.F.7).

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Risalgono a questa fase anche importanti interventi volti a migliorare la viabilità e soprattutto il difficile drenaggio del terrazzo del santuario, ponendolo al riparo dalle alluvioni. Il muro di sostruzione a valle fu notevolmente prolungato verso est e per garantire il deflusso delle acque nell’area circostante l’altare furono scavati un pozzo e un sistema di cunicoli, questi ultimi esplorati nel 1996, mentre a lato della strada fu costruita, per comodo dei frequentatori dell’altare oltre che dei viandanti, una fontana alimentata con le annesse cisterne da un proprio acquedotto. Il culto si protrasse almeno fino all’inizio del ii secolo a.C., quando i portici furono demoliti, la cisterna colmata e l’altare smontato, compiendo sacrifici di riparazione sopra il suo basamento (Colonna et alii 2001). Alla cessazione del culto tenne ben presto dietro l’apertura della grande cava di tufo a cielo aperto più volte citata, che tuttavia rispettò sia la zona dell’altare che quella del tempio, devastando solo la piazza intermedia. La zona dell’altare fu rispettata anche dalle tombe della prima età imperiale, disseminate invece in buon numero sull’area del tempio e del supposto bosco sacro (Stefani 1953, pp. 97-102), né fu aggredita dalla successiva apertura della cava in galleria, che devastò anche quelle due aree. Sembra in conclusione che l’antica sacralità dell’altare di Minerva e della zona circostante sia stata in qualche modo percepita anche quando da secoli era venuta meno ogni forma di culto e che proprio ad essa il settore orientale debba la sua conservazione notevolmente migliore di quella del resto del santuario. Bibliografia Andrén 1974: A. Andrén, “Osservazioni sulle terrecotte architettoniche etrusco-italiche”, «OpRom», viii, 2, 1974, pp. 1-16. Arezzo 1985: G. Colonna (a cura di), Santuari d’Etruria, catalogo della mostra (Arezzo 1985), Milano, 1985. Baglione 1987: M. P. Baglione, “Il santuario di Portonaccio a Veio: precisazioni sugli scavi Stefani”, «ScAnt», 1, 1987, pp. 381-417. Bentz, Steinbauer 2001: M. Bentz, D. Steinbauer, “Neues zum Aplu-Kult in Etrurien”, in aa 2001, pp. 69-77. Boitani, Ceschi 1995: F. Boitani, F. Ceschi, “La rievocazione del tempio dell’Apollo a Veio”, in I siti archeologici. Un problema di musealizzazione all’aperto, Atti del secondo seminario di studi (Roma 1994), Roma, 1995, pp. 88-97. Champeaux 1982: J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, des origines à la mort de César, 1. Fortuna dans la religion archaïque (Collection de l’Ecole française de Rome 64), Rome, 1982. Coarelli 1993: F. Coarelli, “I Tarquini e Delfi”, in A. Mastrocinque (a cura di), I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, Atti del Secondo incontro trentino dedicato a problemi di storia antica (Trento 1991), Trento, 1993, pp. 31-42. Colonna 1976: G. Colonna, “Il sistema alfabetico”, in L’Etrusco arcaico, Atti del Colloquio (Firenze 1974), Firenze, 1976, pp. 7-24. Colonna 1984-85: G. Colonna, “Novità sui culti di Pyrgi. Ancora sul culto etrusco di Apollo”, «RendPontAc», lvii, 1984-85, pp. 57-88. Colonna 1987a: G. Colonna, “Il Maestro dell’Ercole e della Minerva. Nuova luce sull’attività dell’officina veiente”, «OpRom», xvi, 1 (Lectiones Boëthianae vi), 1987, pp. 7-41. Colonna 1987b: G. Colonna, “Note preliminari sui culti del santuario di Portonaccio a Veio”, «ScAnt», 1, 1987, pp. 419-446. Colonna 1991b: G. Colonna, “Le due fasi del tempio arcaico di S. Omobono”, in M. Gnade (a cura di), Stips votiva, Papers presented to C.M. Stibbe, Amsterdam, 1991, pp. 51-59. Colonna 1996c: G. Colonna, “L’Apollo di Pyrgi”, in Magna Grecia, Etruschi, Fenici, Atti del xxxiii Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 1993), Napoli, 1996, pp. 345-375.

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DIVINAZIONE E CULTO DI RATH/APOLLO A CAERE (A PROPOSITO DEL SANTUARIO IN LOC . S. ANTONIO)

N

elle pagine che precedono Gabriella Bevilacqua ha dato l’attesa edizione del chiodo magico da Caere, di cui avevo avuto alcuni anni fa circostanziata notizia, assieme a uno schizzo dell’oggetto e all’apografo dei segni incisi su di esso (Fig. 1),1 da un appassionato cultore del patrimonio archeologico del proprio paese, che ha anche amministrato da assessore alla cultura, la sig.ra Rita Lucarini. Faccio seguire alla dotta esposizione della studiosa alcune precisazioni sulla funzione attribuibile al raro cimelio, per passare quindi a un riesame dei culti dell’importante complesso santuariale, ancora troppo poco noto, dal quale il cimelio proviene. Scorrendo la lista dei quindici chiodi magici raccolti per confronto dalla Bevilacqua, aggiornante quella pubblicata nel lontano 1855 da Otto Jahn, allo scadere di un decennio di fervido interesse verso questo tipo di documenti,2 balza agli occhi la sicura affinità, opportunamente rilevata dalla studiosa, con uno soltanto dei chiodi della sua lista.3 Mi riferisco all’esemplare acquistato nel 1898 a Bergama (Pergamo) da Alexander Conze per i Musei Statali di Berlino (Fig. 2), assieme ad altri oggetti magici che compongono un insieme del tutto coerente, come è stato dimostrato da Richard Wünsch nella sua esemplare edizione dello straordinario complesso, che resta a tutt’oggi un unicum.4 Il chiodo pergameno e quello cerite non solo sono degli autentici clavi trabales dalla proverbiale tenuta,5 del tipo usato nella carpenteria dei tetti, con stelo a sezione quadrangolare e testa conica, realizzato per lo più in ferro,6 ma si differenziano da tutti gli altri chiodi magici della stessa categoria per essere ricoperti non da iscrizioni o da ‘ornati’, lineari o figurativi, per lo più animalistici, ma esclusivamente dai segni chiamati charaktêres.7 Questi ultimi sono infatti presenti solo su pochissimi degli altri chiodi e sempre a titolo accessorio, con un numero assai limitato di occorrenze,8 mentre sul cerite sono ben 35 e sul pergameno, che è iscritto su tutte e quattro le facce, addi-

1 Lo schizzo è stato messo in pulito da Sergio Barberini, cui si devono anche le elaborazioni grafiche date alle Figg. 3 e 4. 2 Jahn, 1855, pp. 106-110. La lista dello Jahn comprende sei esemplari, corrispondenti ai nn. 1-5 e 12 della lista Bevilacqua, che include anche due esemplari già pubblicati nel xviii secolo, ma tralasciati dallo Jahn (nn. 7 e 9). Non meraviglia che il primo collezionista di tali chiodi risulta essere stato nella seconda metà del xvii secolo un personaggio dalla inesauribile curiosità intellettuale, il romano Giovan Pietro Bellori (nn. 10 e 11, entrambi a Berlino, resi noti solo nel 1871 col catalogo dei bronzi di quel museo: sul Bellori collezionista di antichità v. i contributi di vari autori in Roma 2000, p. 499 sgg.). 3 Cui è da aggiungere il perno di serratura edito in Walters, 1899, p. 334, n. 2605. 4 Wünsch, 1905. 5 A differenza dei nn. 7 e 15 della lista Bevilacqua, il primo per la sua conformazione, specie della testa, e il secondo per essere di piombo e per essere stato rinvenuto infisso in un muro (è l’unico della lista di cui si conosca il contesto di provenienza, che è il tempio di Asclepio a Paro). Cfr. Saglio, 1887, con le fonti ivi citate (Cic., Verr., ii, 5, 21, 53; Horat., Carm., i, 35, 18; Arnob., ii, 13); Ginouvès-Martin, 1985, p. 90. Una bella serie da Cipro è in Richter, 1915, p. 357 sg., nn. 1215-1223. 6 Cfr. Pyrgi, 1970, p. 726 sg., figg. 545: 12, 13; 558: A 2, 4, B 1; 561: 3. 7 Rinvio alla bibliografia data dalla Bevilacqua alla p. 130 del suo contributo, nota 5. 8 Nn. 1 e 10 della lista Bevilacqua. L’unico a quanto pare accostabile alla nostra coppia è il n. 5, perduto e praticamente inedito, di cui sappiamo solo che aveva ‘le facce ricoperte da segni egiziani’, oltre che da ‘un segno numerico’ (Welcker, 1853). Da notare che, essendo stato fatto conoscere in una seduta dell’Instituto di Corrispondenza archeologica, è assai probabile la sua provenienza dall’Italia, se non proprio dall’Etruria, alla pari del nostro esemplare.

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Fig. 1. Chiodo magico da Caere, loc. S. Antonio (2:3).

Fig. 2. Chiodo magico da Pergamo (da Wünsch 1905).

rittura 39. Il repertorio dei segni è molto vario, massime sul cerite, essendo composto rispettivamente di 23 e di 22 tipi, dei quali 10 comuni a entrambi e almeno 3 molto simili. I segni comuni o simili sono in maggioranza derivati da lettere greche, in specie arcaiche: Á angoloso (Cae. A 10, C 4, 11; Per. B 8). ı crociato (Cae. B 1, Per. D 5), Ì (Cae. A 4, Per. D 2), Ó (Cae. B 10; Per. A 6, C 3), Ô (Cae. C 10; Per. A 10, B 1, C 10, D 1), ˘ coricato (Cae. B 7; Per. A 4, C 4, 8, D 10), segno a croce (Cae. A 2, Per. C 9), „ (Cae. A 9; Per. B 7, D 3). Né mancano tra i segni restanti di entrambi i chiodi altri casi probabili o solo possibili di derivazione dalla medesima fonte,9 accanto a quelli vagamente ispirati ai geroglifici egiziani, che rivelano la matrice alessandrina dell’intero repertorio. Fa inoltre la sua apparizione, peraltro in misura ancora contenuta, il ricorso ai caratteristici circoletti, che infiorano gli apici dei segni, e specialmente delle aste, secondo un’usanza introdotta dalla grecità alessandrina e proseguita localmente in epoca romana, trovando col tempo grande fortuna in ambiente copto, bizantino e arabo.10 La datazione del chiodo cerite non dovrebbe comunque discostarsi di molto, se non forse nel senso di una leggera priorità, da quella dell’esemplare pergameno, fissata dal Wünsch alla prima metà del iii secolo d.C.

9 Á a uncino (Cae. B 8), ‰ (Per. D 4), Â coricato (Cae. B 3),  (Cae. C 1), Û lunato (Cae. B 11). 10 Cardona, 1986, p. 112 sg., fig. 11 sg. (‘lettere con gli occhiali’).

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Così stando le cose è corretto presumere che alla particolare affinità riscontrata tra i due chiodi, e solo tra essi, corrisponda un’analoga funzione nei confronti delle pratiche magiche di cui gli stessi erano strumento. Fortunatamente sulla natura di queste pratiche siamo informati a sufficienza dal corredo di bronzi, acquistati a Bergama assieme al chiodo e a tre amuleti litici e da allora conservati presso i Musei di Berlino.11 Come è stato chiarito dal loro editore, si tratta di un meccanismo oracolare, completo di tutte le sue componenti (Fig. 3): una sorta di roulette divinatoria, il cui funzionamento riceve luce dal dettagliato resoconto che Ammiano Marcellino fa dei processi svoltisi ad Antiochia nel 371-372 d.C., durante uno dei soggiorni dell’imperatore Valente, contro gli indiziati di una congiura di palazzo, soffocata nel sangue.12 Lo storico riporta la confessione estorta a un indovino, che avrebbe vaticinato il nome dell’aspirante usurpatore avvalendosi di un dispositivo magico portatile, per molti aspetti simile a quello rinvenuto a Pergamo. Quest’ultimo ha per base una sorta di vassoio triangolare, inteso come allusivo al tripode delfico, con tre figure della dea Ecate sbalzate diagonalmente sul fondo, accompagnate da iscrizioni e charaktêres.13 Una colonnetta saldata al centro del vassoio sostiene un dischetto di lamina, sul quale poggiava in posizione instabile, a causa della pronunciata convessità della sua faccia inferiore, un disco di bronzo fuso con ansa mobile, la cui faccia superiore è ripartita in 32 caselle disposte su quattro giri, occupate da charaktêres e, nel solo giro più interno, anche da sequenze composte con le vocali dell’alfabeto greco. Completano l’armamentario due anelli, diversi per peso e diametro, più il chiodo già descritto, evidentemente destinato a essere infisso in un ramo d’albero o, se l’operazione avveniva al chiuso, in una trave del soffitto, allo scopo di sospendervi uno degli anelli, scelto a seconda del tipo di responso richiesto, sì da farlo penzolare a mo’ di pendolo sopra le caselle del disco,14 come appare nel suggestivo assemblaggio realizzato nell’Antikenmuseum di Berlino-Charlottenburg (Fig. 4).15 Una volta impresso al disco, agendo col dito sulla maniglietta, un movimento rotatorio, il suo arresto, per inerzia o provocato, consentiva all’anello di ‘additare’, per così dire, la casella contenente il responso, o piuttosto una sua componente. È quanto mai verosimile che il chiodo di Caere abbia fatto parte di un dispositivo analogo a quello pergameno, in cui comprensibilmente deteneva un ruolo di primaria importanza l’elemento fisso cui era appeso l’anello e che ne comandava i movimenti, trasmettendogli quelli che erano ritenuti impulsi divini. A questo punto assume particolare rilevanza il dato di provenienza del chiodo cerite. La Sig.ra Lucarini anche recentemente ha confermato, su mia esplicita richiesta, che il chiodo è stato rinvenuto negli anni ’80 nella località S. Antonio, entro un mucchio di terra caduta nell’alveo della via omonima, laddove essa penetra con un doppio gomito nel ciglio rupestre che segna il limite dell’area urbana, assumendo l’aspetto di una via

11 Bibliografia più recente: Hiller, 1978, pp. 37-47, figg. 25-32; Donnay, 1984, p. 204, nota 2; Zimmer, 1988, p. 247; Sarian, 1992, p. 1011, n. 323. 12 Amm. Marc., xxix, 1, 28-32. Cfr. l’ampia trattazione di Clerc, 1995, pp. 204-237, spec. pp. 210-214, con citazione di altre fonti letterarie e bibliografia. 13 La non casualità della forma e delle figurazioni è provata da un esemplare pressoché identico, per quanto lascia giudicare lo stato assai frammentario, rinvenuto nel 1977 nella non lontana Apamea, tra le macerie del piano superiore della casa detta del Cervo (Donnay, 1984; Sarian, 1992, n. 324). 14 Mentre nella confessione attribuita all’indovino antiocheno sarebbe stato egli stesso a sostenere il filo con l’anello, stando al di sopra del disco, che a quanto pare restava fermo. 15 Foto in Zimmer, 1988, p. 246, cui è ispirato il disegno dato qui a Fig. 4. È probabile che il foro passante, praticato al di sotto della testa del chiodo già Caylus della Bibliothèque Nationale (n. 9 della lista Bevilacqua), sia servito per il filo di un analogo ‘Ringorakel’.

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Fig. 3. Dispositivo oracolare da Pergamo (rielaborazione da Wünsch 1905).

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Fig. 4. Lo stesso completato col chiodo e uno degli anelli, come esposto nell’Antikenmuseum di Berlino.

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Fig. 5. Cerveteri, il terreno Calabresi da est. Al centro il santuario, a sin. il tratto incassato della via di S. Antonio, in basso il tratto della stessa sottostante alla rupe in corso di scavo (da Cristofani 1996).

cava (Fig. 5).16 Il mucchio giaceva nei pressi della cappellina del Santo che dà il nome alla via, ai piedi di un’angusta ‘calatora’, da cui la terra era evidentemente scivolata con le piogge, sicché è certa la provenienza del chiodo dall’estrema punta meridionale del pianoro sovrastante, occupato dal terreno Calabresi, un tempo vigna, oggi oliveto. Terreno all’epoca costellato su tutta la sua superficie dalle buche degli scavi clandestini,17 durati fino a che la Soprintendenza non ha intrapreso nel 1993, a cura di M. Antonietta Rizzo e col supporto scientifico dell’Istituto per l’Archeologia Etrusca e Italica del c.n.r., diretto da Mauro Cristofani e, dopo la sua scomparsa, da Adriano Maggiani, lo scavo sistematico dell’area, tuttora in corso.18 Quel che è venuto alla luce, come hanno potuto constatare di persona, con comprensibile sorpresa, i partecipanti al xxiii Convegno di studi etruschi e italici, all’inizio dello scorso ottobre 2001, è il maggior santuario finora apparso a Caere, rivaleggiante per dimensioni, monumentalità e complessa articolazione interna con l’area Nord del santuario di Pyrgi, oggetto delle ben note cure prima da parte del ‘re’ Thefarie Velianas e poi della città.19 Comprende infatti, oltre a 16 Nardi 1986, p. 17 sg., foto aerea a tav. i e veduta a tav. vi, 2 (il luogo del ritrovamento è nella parte in ombra della via cava: la stessa foto, ingrandita e a colori, in Nardi, 1985, fig. 156); Merlino, Mirenda, 1990, p. 34, figg. 37, 39, con i reperti di superficie alle figg. 35: 2, 4; 41 sg.; 62: 1; Cristofani 1996, p. 40, fig. 17 (da cui la nostra Fig. 5); Rizzo 1997a, p. 66, fig. 1. La prima segnalazione del sito si trova in Colonna 1973, p. 540 (cfr. Brunetti, Nardi 1981, p. 62: è possibile che ad esso si riferisca già Rosati 1890, p. 182 sg., a proposito di rinvenimenti avvenuti nel 1884). 17 Nardi 1989, p. 64, n. 18; Rizzo 1995, p. 22, fig. 1, n. 4 (non 3, come detto nel testo!); Rizzo 1997a. 18 Ampia notizia in Maggiani, Rizzo 2001, con veduta aerea dello scavo a fig. 1 (qui a Fig. 6), che tiene il posto della pianta ancora non pubblicata. V. anche Rizzo 1995, fig. 17. 19 Da ultimo Colonna 2000.

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Fig. 6. Il santuario visto da sud-ovest. A sin. il tempio A, a destra il tempio B e al centro, in corrispondenza dell’albero, l’altare C (da Maggiani, Rizzo 2001).

strutture di servizio ancora inedite, due grandi templi di tipo tuscanico, chiamati dagli scavatori A e B, databili entrambi nei primi decenni del v secolo a.C., aventi le fronti allineate tra loro e orientate a SO, separati da una vasta area intermedia in cui quasi al centro sorgeva, in posizione leggermente arretrata, ‘un altare di dimensioni cospicue’,20 certamente indipendente dai templi vicini, che chiameremo altare C (Fig. 6). Il luogo di rinvenimento del chiodo magico lo pone manifestamente in relazione col settore del santuario gravitante sul tempio B, che aveva dimensioni un poco maggiori dell’altro ed era preceduto e fiancheggiato, a SO e a SE, da una ‘piazza’ assai più estesa di quella contigua al tempio A. Arrivava infatti fino al ciglio rupestre incombente sulla via di S. Antonio, tanto da risultare in parte franata sul lato SE, in corrispondenza del tratto inferiore della via, che scende obliquamente verso il fosso della Mola, fiancheggiato da un monumento funerario di età romana (Fig. 5).21 Molti elementi concorrono nel far ritenere che il santuario nel suo insieme aveva per referente Hercle, nonostante che la pluralità di sedi di culto presupponga una pluralità di figure divine.22 Si pensa giustamente che a Hercle sia stato specificamente dedicato il tempio A, nel cui pronao è inglobata, in posizione di forte evidenza, una fonte sacra preesistente, trasformata al momento del costruzione del tempio in cisterna coperta 20 Maggiani, Rizzo 2001, p. 144 (a p. 145 è detto «l’unico altare monumentale» del santuario). 21 Rizzo 1995, p. 22, fig. 18. Il monumento, a edicola, è avvicinabile al tipo studiato da Di Paolo Colonna 1982, pp. 513-523. 22 Così come il santuario maggiore di Pyrgi era sacro a Uni, la dea venerata nel tempio B, mentre l’area C apparteneva a Tina e Uni Chia, il tempio A a Thesan (cfr. Colonna 2000).

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con pozzo per attingere. Un elemento questo quanto mai confacente al culto del dio,23 che anche per altra via è chiamato in causa dal rinvenimento, all’interno della struttura, di una dedica ad Apa, il ‘Padre’,24 epiclesi di molte divinità maschili, tra le quali era certamente anche Hercle.25 L’attribuzione è confermata da un ‘modellino di clava’ rinvenuto in un contiguo deposito votivo,26 da una minuscola clava bronzea, raccolta in superficie,27 e da una clava pure bronzea che possiamo dire di grandezza naturale, recante la dedica al dio da parte di un lautni (trafugata dai clandestini verosimilmente nella medesima zona, è finita in collezione privata a Londra nel corso degli anni ’80).28 Viceversa l’ormai celebre kylix di formato gigante, autentico ‘pezzo da parata’, restituita nel 1999 all’Italia dal J. P. Getty Museum di Malibu, opera di Eufronio come vasaio e di Onesimo come pittore,29 reca lungo il margine inferiore del piede una lunga iscrizione di dono (a), di cui sappiamo solo, a causa della perdita di più dei due terzi del testo, che terminava col nome di una divinità uscente al genitivo con -s.30 Infatti l’assai più breve iscrizione (b), apposta in un secondo momento sotto la prima, in posizione capovolta e con lettere leggermente più piccole, menziona sì Hercle, ma solo come titolare della struttura sacra, non meglio identificabile, in cui il prezioso cimelio era conservato:31 un’informazione del tutto superflua, se il dio fosse stato anche il destinatario del dono. Né i soggetti troiani dello splendido apparato figurativo del vaso – all’esterno due storie trat23 Il confronto più calzante è con il c.d. Capitolium di Cosa, che accoglie ugualmente nel pronao una cisterna, consacrata, come risulta dall’iscrizione (praticamente inedita) di uno dei due sovrastanti puteali, a Ercole Argivo (cenni alquanto reticenti in Brown 1960, p. 65; Brown 1980, p. 56, nota 18: il puteale, datato al i secolo a.C., è esposto nel locale Antiquarium). A giudicare anche dai soggetti delle antefisse e degli altorilievi frontonali è assai probabile a mio avviso che il tempio cosano fosse dedicato non alla triade capitolina, poco appropriata per una colonia latina, ma a Giove, Ercole e Minerva. Un bell’esempio di santuario di Ercole con fonte sacra è quello recentemente messo in luce presso Corfinio (Imola 1997, pp. 184-202). Sotto questo aspetto il santuario di Ercole più famoso nell’Antichità era quello presso Gades, il cui pozzo di acqua sorgiva di livello oscillante in senso opposto alle maree era considerato una meraviglia naturale già da Polibio (Strab., iii, 5, 7). 24 Maggiani, Rizzo 2001, p. 148, ii, B.3.1. 25 Cfr. la consacrazione a Farthan, il ‘Genitore’, del simpulum rinvenuto in uno dei due pozzi antistanti il tempio A di Pyrgi, in pregnante associazione, come oggi credo, con la statua frontonale raffigurante il dio deposta nello stesso pozzo (Pyrgi, 1988-1989, pp. 121-123; et , Cr 4.15). Su Ercole in quanto Genius e come tale associato a Giunone: Massa-Pairault 1998, p. 234 sgg., con le fonti citate a nota 14. 26 Maggiani, Rizzo 2001, p. 144. 27 Ibidem, p. 153, ii, B.5.3. 28 Colonna 1989-1990, p. 894 sgg. La provenienza dal santuario è affermata da: Rizzo 1995, p. 22, e da Cristofani 1996, pp. 39, nota 2, e 54, sulla scorta di tradizione orale. Verosimile la provenienza dallo stesso santuario, in occasione di scavi ottocenteschi (dei fratelli Calabresi?), anche della kylix con dedica a Hercle della collezione Campana, ora a Firenze, dipinta con raffigurazioni atletiche (Maggiani 1997, p. 31), e della grande antefissa acceduta al Louvre con Hercle ristorato da Menerva (Colonna 2000, p. 331, nota 330). Alla presenza della dea sembrano alludere anche alcuni oggetti votivi (Maggiani, Rizzo 2001, pp. 144, 154). 29 Williams 1991; Rizzo 1997b; Pipili 1997, p. 652, n. 7, tav. 400; Maggiani, Rizzo 2001, pp. 150-152. 30 Come ho riconosciuto, rettificando la lettura del primo editore, in Colonna 1989-1990, pp. 899-903 (apparso nel 1991, non nel 1993, come scrive Cristofani 1996, pp. 39, nota 2, e 55, posponendolo a Martelli 1991, apparso in realtà nel 1992). Menzione dell’iscrizione, fattami conoscere dalla cortesia del prof. Heurgon con lettere del 22/4/ e del 25/6/1984, è già in Colonna 1987, p. 436, nota 68. 31 Accogliendo i due emendamenti di lettura proposti da Martelli 1991, penso oggi che l’iscrizione sia da leggere e da integrare come eca vica [¯i]suli Hercles, citando per vica il lessema veka, che compare da solo, come qualifica del supporto, su vasi di forma aperta di v secolo a.C. (et , Fa 0.5, Sp 2.13), e intendendo ¯isuli come un locativo formato su *¯isul, normale genitivo arcaico di *¯is, variante del termine sacrale ¯i (su cui Colonna 2000, p. 300). La variante è attestata anche dalla dedica dell’Arringatore (et , Pe 3.3), ove compare nella denominazione del tuıina responsabile della dedica: ¯isvlic® è infatti l’ablativo ‘articolato’ di *¯isvl-i-ca, «quello (che sta) nel (territorio) del ¯is», qui non specificato dal teonimo, con -v- come ‘suono di passaggio’ tra la sibilante, che nell’etrusco settentrionale è palatale, e la liquida (cfr. H. Rix 1984, p. 230, par. 41). Traduco pertanto il testo (b): «questo vica (è) nel (luogo) del ¯is di Hercle». La scritta con ogni probabilità è stata apposta a cura del santuario (v. la ricercatezza della punteggiatura sillabica), dopo che il distacco del piede del vaso aveva reso necessario il pesante intervento di restauro ancor oggi visibile.

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Fig. 7. Interno della kylix di Onesimo da Cerveteri, loc. S. Antonio (da Roma 1999, fig. 6).

te dai primi canti dell’Iliade, all’interno una sintesi della Ilioupersis, culminante nell’uccisione di Priamo sull’altare di (Zeus) Herkeios e nello stupro di Cassandra nel tempio di Atena (Fig. 7) – mostrano alcuna attendibile connessione con Eracle,32 come pure ci si aspetterebbe per un donario così eccezionale, se l’eroe, venerato in Etruria come dio, ne fosse realmente il dedicatario.33 Di fatto la notizia che il frammento del vaso recuperato per ultimo, nel 1990, sarebbe stato raccolto «sotto la rupe, sotto la strada di S. Antonio»,34 ossia nel tratto inferiore della strada di S. Antonio, a valle del gomito in cui sorgeva la porta, esclude un rapporto topografico col tempio A e, pur nella sua indeter32 Nonostante Maggiani 1997, p. 32, che, in mancanza di più persuasivi argomenti, cita in proposito i rapporti tra Eracle e il re Laomedonte, appartenenti a tutt’altro contesto mitico. 33 Secondo il principio, timidamente formulato ibidem, p. 48, che «le immagini avevano talvolta, quasi certamente nel caso dei donari più importanti, una relazione, più o meno trasparente, col destinatario divino dell’offerta». 34 Rizzo 1997a, p. 68.

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minatezza, giustifica l’ipotesi che la kylix provenga dall’area circostante il tempio B, alla pari del chiodo di cui ci occupiamo.35 Sicuramente dalla stessa regione del santuario proviene il peso di bronzo e piombo da bilancia, o aequipondium, raccolto anch’esso sotto la rupe, nel corso dello scavo opportunamente condottovi nel 1994 dalla Rizzo.36 Il peso, databile nell’avanzato iv secolo a.C., reca una lunga e in parte ancora oscura iscrizione di dedica, intesa dall’editore come rivolta al solo dio Turms, ma in realtà coinvolgente entrambi gli dèi Rath e Turms, i cui nomi sono menzionati in asindeto nella prima riga del testo (Raıs Turmsal),37 seguiti dal nome in genitivo della persona a pro della quale è fatta la dedica, Vel Luvchm(e)s (Velus Luv¯msal), e quindi da una lunga perifrasi che qualifica i due dèi come dimoranti «insieme qui nella città (ıusti ıui meılmı) . . . . . nel macun (?) di Hercle».38 Ecco dunque che, fermo restando il riferimento a Hercle, già incontrato nell’iscrizione (b) della kylix di Onesimo, sono rivelati i nomi delle due principali divinità synnaoi, cui sono da riferire il tempio B e l’altare C. Poiché Rath, interpretazione etrusca di Apollo nel suo aspetto di dio profetico e purificatore,39 precede Turms, l’omologo etrusco di Hermes, alle cui competenze nei confronti della mercatura il peso sembra specificamente da riferire,40 è altamente probabile che al dio simile ad Apollo sia stato consacrato il tempio B, mentre per Turms resta disponibile l’altare monumentale con l’area circostante. Si delinea pertanto una sequenza, attinente alla storia cultuale del santuario, piuttosto che al risalto dei singoli dèi, che vede al primo posto Hercle, originario signore del luogo, titolare del santuario e insieme del tempio verosimilmente più antico, il tempio A, cui si sono aggiunti a breve distanza di tempo Rath, titolare del tempio maggiore, il tempio B, e almeno dal iv secolo Turms, titolare dell’altare C. Appaiono pertanto riunite nel santuario le tre divinità maschili più ‘greche’ tra quelle del

35 Quanto mai probabile, a mio avviso, è la provenienza dal santuario ceretano anche di un secondo ‘pezzo da parata’. la phiale di formato gigante, firmata da Duride, acquisita dal J. P. Getty Museum negli stessi anni, tra il 1981 e il 1988, e con lo stesso ritmo ‘a singhiozzo’ della kylix di Onesimo (Robertson 1991). Il vaso, simile per forma e dimensioni a quello che appare come il donario più prestigioso dell’area Sud di Pyrgi (Baglione 2000, pp. 370-380), recava sulla parete esterna un’iscrizione etrusca di cui restano solo due lettere, e incomplete (Robertson 1991, p. 86 sg., fig. 1 l), sufficienti tuttavia per farla ritenere un’iscrizione di dono, analoga a quella della kylix di Onesimo: [ita]n t[uruce ……]. Il soggetto del fregio esterno – la contesa tra Eracle e i i figli di Ifito, alla presenza di Iole – postula la pertinenza del vaso al tempio A. 36 Cristofani 1996. 37 Cfr. la dedica arcaica dell’area Sud di Pyrgi mi ±uris Cavaıas (Colonna, Maras 2001, pp. 376, 418, n. 36). 38 Mi attengo, per il riferimento della formula onomastica della r. 2 al beneficiario della dedica, a quanto suggerisce Maras 2002, e per la lettura del gentilizio dello stesso personaggio alla proposta di Maggiani (in Maggiani, Rizzo 2001, p. 153, coincidente con Giannecchini, Reali 2001, p. 456 sgg.), che però interpreta diversamente la formula onomastica. Sulla funzione avverbiale di ıusti (r. 3) e sul suo significato concordo con Cristofani 1996, p. 45 sgg., ma riferisco il termine non ai due dedicanti, menzionati troppo lontano (alle righe 8-9), bensì alle due divinità menzionate subito prima nella r. 1. Annoto infine che Maggiani legge non macuni, ma masani. 39 Come si evince dal noto specchio di Tuscania con scena di extispicio, cui assiste il dio Rath in aspetto giovanile e con lungo ramo di alloro nella destra (Colonna 1987, pp. 433-435, fig. 21, con rassegna delle dediche al dio rinvenute a Veio-Portonaccio, Chiusi e S. Polo d’Enza, cui forse è da aggiungere l’area Sud di Pyrgi, cfr. Colonna 1991-92, p. 91 sgg., n. 6). Scettici senza fondati motivi sull’esistenza del dio sono Cristofani 1996, p. 43 sg., che pensa, seguito da Maggiani, a un epiteto di Turms, e Bentz, Steinbauer 2000, p. 75, che pensano a una personificazione dell’aruspicina. 40 Tuttavia è un fatto che a Rona l’unica bilancia in dotazione a un tempio era, per quanto sappiamo, la trutina del tempio di Saturno (Varr., l.l., v, 183: cfr. Zevi 1987, p. 124, con bibl.). Ricordo inoltre di aver visto una bilancia bronzea in miniatura, assai ben conservata, tra i materiali rinvenuti nel santuario suburbano orientale di Gabii, che ha restituito anche la nota statuetta bronzea di augure togato (Mazzocchi 1997, p. 151, tipo iv) e per il quale è stata proposta l’identificazione col santuario di Apollo menzionato da Liv., xxxii, 1, 10 (Quilici 1990, p. 160). Cfr. lo specchio con Aplu che assiste Turms nella psychostasia (es 235, 1) (Fig. 8).

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Fig. 8. Specchio etrusco con Aplu e Turms (da van der Meer 1995, fig. 21).

pantheon etrusco, protagoniste a Roma del primo dei lettisterni ordinati dai libri Sibillini, quello del 399 a.C.,41 nel quale Apollo, avendo a paredra Latona, occupa un posto di indiscusso predominio. Corollario di quanto detto è che la kylix di Eufronio e Onesimo, proveniente dallo stesso comparto topografico del peso e priva di qualsiasi richiamo interno al mondo di Eracle, sia stata anch’essa dedicata a Rath, il cui nome è perfettamente compatibile con quel che resta dell’iscrizione (a), apposta per prima, allora da integrare, a prescindere dal nome dell’ignoto dedicante, in it[a]n turuc[e . . . . Raı]s, secondo il formulario della poco più antica dedica tarquiniese ai Dioscuri di Venel Atelinas (et , Ta 3.2). Di fatto Apollo ha un ruolo tutt’altro che secondario nel programma iconografico della kylix, almeno nei confronti del fregio maggiore, posto all’esterno, che nei vasi con fregio sia

41 Dumézil 1977, pp. 484-486.

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interno che esterno sembra essere quello maggiormente significante nei confronti del destinatario della dedica.42 Il dio protettore dei Troiani è infatti presente di persona al centro della faccia B, dove lo vediamo al fianco di Ettore minacciare col suo dardo Aiace Telamonio (Hom., Il., vii, 244-272), mentre al margine della scena Atena sembra invitare l’araldo Taltibio a intervenire per porre fine al duello,43 come forse già faceva il troiano Ideo, se a lui appartiene la gamba di orientale visibile all’estremità opposta del fregio. Il dio inoltre incombe sinistramente sulle figurazioni della faccia A, in cui è raffigurata la consegna di Briseide a un assai poco regale Agamennone, intento a trastullarsi con un’oca, mentre all’altro capo della scena Achille, cui si rivolgono con apprensione i due araldi che chiudono il corteo, è a stento trattenuto dalla madre Teti. È stata infatti l’ira di Apollo, come sa ogni lettore dell’Iliade, a indurre Agamennone a restituire Criseide al padre sacerdote del dio e a pretendere in cambio la fanciulla cara ad Achille. Ma Apollo incombe anche sulle vicende raffigurate all’interno del vaso (Fig. 7), qui assieme ad Atena,44 poiché la furia sacrilega di Neottolemo, che ‘sacrifica’ Priamo sull’altare domestico,45 avrà per contrappasso il ‘sacrificio’ dell’eroe sull’altare del dio a Delfi, mentre l’oltraggio inferto a Cassandra nel tempio di Atena da Aiace di Oileo sarà punito col naufragio e l’affogamento del colpevole (Hom., Od., iv, 499-511). Ce n’è abbastanza per motivare la scelta del vaso per un’offerta votiva, rivolta a un dio percepito da chi in Etruria ne ‘leggeva’ le immagini come molto vicino ad Apollo,46 entro la cornice della saga troiana che Atene dall’età di Pisistrato andava rivalutando, sulla scia delle sue contrastate mire verso la Trioade,47 e alla quale gli Etruschi, come altri popoli del lontano Occidente, non potevano non essere particolarmente sensibili, e massime a Caere, culla della loro pretesa discendenza pelasgica. L’alleanza cultuale tra Rath/±uri/Apollo e Hercle/Ercole in Etruria, e nell’Italia preromana in genere, è un dato di fatto, attestato fin dal vi-inizi v secolo a Veio nel 42 Il caso più evidente è quello della mnesterofonia, dipinta all’esterno della grande phiale del pittore di Brygos proveniente dall’area Sud del santuario di Pyrgi, citata a nota 35, da porre in relazione col culto locale di un altro dio etrusco assimilato ad Apollo, ±uri (Colonna, 1996, p. 355 sgg.), o in subordine con quello di Menerva, ora attestato nella stessa area Sud (Colonna, Maras, 2001, p. 421 sg.), in piena corrispondenza col ricorrere del raro tema nelle pitture del recinto di Apollo a Corinto (Paus., ii, 3, 3) e del tempio di Atena Areia a Platea, dove tuttavia prevaleva il significato etico-politico, percepibile anche a Pyrgi a livello di ideologia dell’hospitium (Colonna, 1991-92, p. 110 sgg.; Colonna, 2000, p. 334). Un altro esempio è quello dell’aristeia di Eracle dipinta all’esterno della phiale di Duride citata nella stessa nota 35, se il vaso è stato dedicato a Hercle, come sopra proposto. 43 Rizzo, 1997b, p. 81, figg. 17, 20 e 21 (stampata a rovescio); Rizzo, in Maggiani, Rizzo, 2001, p. 152. L’araldo è individuato dall’iscrizione ı·Ïı[˘‚ÈÔ˜], non menzionata né dal Williams né dalla Rizzo. 44 Dea presente anche nel santuario cerite, benché in relazione con Hercle (v. nota 28). 45 In realtà il segno iconico della palma, che s’erge dietro l’altare nell’idria Vivenzio del pittore di Kleophrades e già prima nella kylix di Oltos a Malibu (Pipili, 1997, nn. 4 e 11, tavv. 400 e 402), fa intuire l’esistenza di una tradizione alternativa (stesicorea?), che collocava l’uccisione di Priamo nello stesso santuario di Apollo Timbreo in cui Achille aveva ucciso Troilo e Paride aveva ucciso Achille. Nel tondo della kykix di Onesimo valore di segno iconico sembra avere la machaira dipinta in bella mostra nell’«esergo», senza riferimento né a Neottolemo, che ha al fianco inguainata la propria spada e uccide Priamo percotendolo col corpo esanime di Astianatte, né al morente Deifobo, cui pensa Williams, 1991, p. 50, senza tener conto della collocazione del troiano al di là dell’altare. L’arma, il cui uso occasionale come strumento del sacrificio è provato (e proprio dalla lastra dipinta cerite citata per dimostrare il contrario da Di Fazio, 2001, p. 476, nota 197: v. D’Agostino, 1991, p. 233, nota 40), è forse allusiva al «sacrificio» che Neottolemo farà di Polissena, raffigurata eccezionalmente accanto al padre, nonché a quello che lo stesso Neottolemo subirà sull’altare di Apollo da parte di Machaireus, l’«uomocoltello» (Cerchiai, 1995, p. 161). 46 Anche se Rath, a differenza di ±uri, sembra più affine all’Apollo delfico che a quello troiano, e in genere anatolico, venerato a Cuma, Elea, Metaponto e Punta Alice (Maddoli, 1988, p. 131 sg.; Colonna, 1996). Ma tra i due aspetti della divimità sussistono profonde interferenze, già rilevate dagli Antichi (Hesych., ed. Schmidt, iii, p. 54, r. 1374), come rileva Cerchiai, 1995. 47 Perret, 1976. Cfr. ora Quattrocchi, 2000.

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santuario del Portonaccio,48 a Falerii nel santuario di Vignale49 e in un certo senso anche a Pompei, dove i due dèi si spartiscono i maggiori santuari della città.50 Più tardi li ritroviamo associati a Bologna nel santuario di Villa Cassarini, ai Bagni di Stigliano nell’agro cerite e in ambito centro-italico, come prova nel modo più esplicito la dedica ad Apollo incrostata in argento su un bronzetto di Ercole.51 Più insolita è l’associazione a entrambi di Turms/Mercurio, anche a causa della rarità delle attestazioni etrusche del culto del dio. Ma una testimonianza esplicita è fornita dallo stesso santuario del Portonaccio, dove Turms non solo fa da ‘paciere’ nel gruppo acroteriale con la contesa tra i due dèi per la cerva cerinite, ma compare anche tra le statue votive più antiche del santuario, con quella che è la prima raffigurazione a tutto tondo del dio giunta fino a noi, risalente al 530-520 a.C.52 Turms inoltre è presente con grande evidenza nel decoro architettonico del tempio del Vignale a Falerii, sacro ad Apollo, per lo meno a partire dal primo quarto del iv secolo a.C.53 E per converso Hercle è presente nella decorazione frontonale tardo-arcaica del tempio suburbano di Arezzo-S. Iacopo, in cui Turms aveva un posto eminente,54 autorizzando l’ipotesi che sia questo il tempio in cui si trovava il simulacro bronzeo del dio menzionato in occasione di un prodigio avvenuto nel 93 a.C.55 Se ci si interroga su cosa potesse accomunare le tre divinità, una risposta convincente può essere trovata nel rapporto che tutte e tre hanno intrattenuto con la divinazione, anche se in misura e con evidenza notevolmente diversa. La divinazione infatti non era appannaggio esclusivo degli dèi della cerchia di Apollo, cui apparteneva a pieno titolo Rath. Poco sappiamo ancora di Hercle, ma è noto che nel vicino Lazio Ercole era una divinità dal pronunciato carattere oracolare, sia nell’antichissimo santuario di Tivoli che in quello recenziore di Ostia,56 né mancano fondati indizi al riguardo in ambito italico:57 il che è del tutto coerente con quel che in Grecia fa intravedere il mito e che di fatto si verificava almeno in Beozia e in Acaia, oltre che nel lontano santuario fenicio-greco di Gades.58 Quanto a Turms, il suo omologo Ermes, dio del sorteggio, godeva in Grecia di una riconosciuta competenza oracolare, non circoscritta alla cledonomanzia, praticata a Fere in Acaia, ma estesa a tutte le forme di mantica ‘minore’, che Apollo avrebbe accettato di insegnare al fratello ancora fanciullo, in cambio del dono della lira: dai vaticini, tratti dal volo delle api nelle plaghe del Parnaso, alla cle-

48 Colonna, 1987, p. 431 sgg.; Colonna, 2001, p. 42. 49 Sacro ad Apollo Sorano (Colonna, 1984-1985, p. 76: Comella, 1986, pp. 195-198), accoglieva negli altorilievi frontonali una o più imprese di Ercole (Carlucci, 1995, pp. 77-82, fig. 3). 50 Cerchiai, 1998. Opportunamente Cerchiai ricorda che secondo Serv., Aen., viii, 269 la fondazione dell’Ara maxima di Ercole a Roma era fatta risalire a un oracolo di Apollo delfico (forse per giustificare il rito di sacrificarvi coronati d’alloro, come attesta Varrone, citato da Macrob., Sat., iii, 12, 1-9). D’altra parte la fondazione del grande altare di ceneri del santuario di Apollo a Didyma era attribuita ad Eracle (Paus., v, 13, 11). 51 Colonna, 1984-1985, p. 87 sg., fig. 28 sg. 52 Santangelo, 1960, p. 100, a ds.; limc , viii, 1997, p. 100., n. 18, tav. 75 (M. Harari); Colonna, 2001, p. 40. 53 Da ultima Carlucci, 1995, p. 90 sg., fig. 13. 54 limc , cit., p. 104, n. 72. Cfr. Maggiani, 1990, p. 33 sg. 55 Iul. Obseq., 92. La testimonianza è svalutata senza motivo da Combet-Farnoux, 1980, p. 173 sg. 56 Champeaux, 1990, pp. 273-276. Lo stesso Ercole del Foro Boario era del resto collegato nel mito di Acca Larentia alla divinazione coi dadi (Coarelli, 1983, p. 277 sg.). 57 Forniti dal santuario di Ercole Curino presso Sulmona, secondo un’ipotesi di Guarducci, 1981, p. 231 sg., giudicata a torto labile da Champeaux, 1990 a, p. 285, nota 29. Cfr. ora Campanelli, 1997, p. 189. 58 Bouché-Leclercq, 1880, pp. 108 sg., 308-313. Particolarmente interessante la divinazione con gli astragali praticata nel santuario di Eracle a Bura in Acaia (Paus., vii, 25, 10: cfr. Grottanelli, 2001, p. 160 sg.). Secondo Plutarco (de E apud Delphos, 6) Eracle sarebbe divenuto col tempo mantikótatos.

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romanzia con i ciottoli,59 tanto popolare in Italia,60 della quale il dio sembra essere stato di fatto il patrono.61 Collocata in questo quadro di riferimento, la provenienza del chiodo magico dall’area del santuario, e precisamente dai pressi del tempio B, ha molte probabilità di non essere affatto casuale. Certo all’epoca del chiodo (ii-iii secolo d.C.) il santuario era da tempo in completo abbandono, ma la natura sacra del luogo doveva essere ancora ben percepita, se l’area è rimasta immune da ogni intervento edilizio di età tardo-repubblicana e imperiale.62 In tale situazione non meraviglia che, cessata ogni forma di culto ufficiale, la divinazione vi sia stata ancora praticata a titolo privato e clandestino, o semiclandestino, nelle forme della cleromanzia più popolare, da parte di indovini più o meno improvvisati. Il chiodo magico in questione assume pertanto ai nostri occhi il valore di un’ultima, degradata testimonianza dell’attività oracolare del santuario. Se così stanno le cose, c’è da chiedersi, in conclusione, se il santuario in loc. S. Antonio non sia identificabile con l’oracolo cerite ricordato dalle fonti letterarie, finora invano ricercato nei luoghi più disparati.63 Oracolo famoso, la cui memoria durò a lungo, se ancora nel v secolo d.C. il dotto vescovo Sidonio Apollinare, evocando in un suo carme le varie forme di divinazione pagana, portava a esempio per la cleromanzia le sortes Lyciasque Caeritumque e per la mantica profetica i responsa Themidis priora Delphis, citando subito dopo per la fulguratura i riti compiuti dall’aruspice etrusco saeptum ad bidental e per la tecnica romano-italica dell’auspicio il caso dell’augure che da Padova avrebbe pronosticato in tempo reale la battaglia di Farsalo e la vittoria di Cesare.64 Sidonio sembra pertanto porre l’oracolo di Caere sullo stesso piano di quello famoso di Apollo Licio a Patara, dove si riteneva che dimorasse d’inverno il dio di Delo,65 e finanche di quello panellenico di Delfi. Fatta la tara dell’evidente ricercatezza erudita, resta il fatto che l’oracolo cerite doveva aver raggiunto, al tempo del suo fiorire, una fama non comune nell’ambito della divinazione cleromantica. Purtroppo di esso non abbiamo, com’è noto, che un’unica notizia: nel 218 a.C., all’indomani del disastro della Trebbia, che aprì ad Annibale l’ingresso nella penisola, le sortes di Caere si sarebbero spontaneamente extenuatae, ossia, come credo, distanziate tra loro, come avveniva di norma a opera del sortilegus, per consentire il taglio del filo che le teneva riunite e anche per facilitarne, una 59 Hom. Hymn., Merc., 550-566; Apollod., iii, 115 (e anche Sud., s.v. kleros Hermou). Cfr. Càssola, 1975, p. 542 sg. e Grottanelli, 2001, pp. 161-165, con interpretazioni in parte divergenti. Ermes aveva un ruolo anche nella idromanzia, come attesta Varrone, apud Apul., Apolog., 42 (cfr. Garosi, 1976, p. 56). Non meraviglia troppo che nel clima sincretistuico tardoantico si arrivasse ad affermare l’identità di Ermes e Apollo (Macrob., Sat., i, 18, 7-8). 60 Maggiani, 1994, pp. 69-71 (ma molti degli esempi citati sono di tutt’altra natura, come rileva giustamente Poccetti, 1994, p. 129 sgg.). Cfr anche Bagnasco Gianni, 2001. 61 Il che s’intravede anche per Mercurio, a giudicare dal «marchio» sors Mercuri su recipienti bronzei passibili di essere usati come urne («cil», iii, 6017.1 e x, 8072.13 = De Meester De Ravestein, 1871, p. 482 sg., n. 699, ignorati da Combet-Farnoux, 1980). 62 Maggiani, Rizzo, 2001, p. 144 sg. (a partire dall’età ellenistica «sembrerebbe che questa zona, scarsamente frequentata, fosse stata lasciata libera da costruzioni, indizio questo di una perdurante sacralità del luogo»). 63 La Regina, Torelli, 1968, p. 228 (Punta della Vipera presso S. Marinella); Champeaux, 1982, pp. 75, nota 329, e 444 (Pyrgi, confermato in Champeaux, 1990b, p. 815); Cristofani, 2000, p. 397 (Cerveteri, loc. Vignaccia). 64 Sidon. Apoll., Carm., ix, 190-196. L’exploit dell’augure, un tal C. Cornelius, aveva avuto larga risonanza (fonti in Loyen, 1960, p. 88, nota 3). 65 Verg., Aen., iv, 143-146. La menzione da parte di Sidonio delle sortes del dio è probabilmente una reminiscenza delle Lyciae sortes che avrebbero ordinato a Enea di raggiungere l’Italia (Aen., iv, 346, 377: cfr. Bonamente, 1987).

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volta cadute, il conseguente sparpagliamento.66 Per espiare il prodigio il Senato romano ordinò un lettisternio, da tenere nella città ubi sortes adtenuatae erant, verosimilmente nello stesso santuario in cui era avvenuto il prodigio. Forse oggi l’archeologia ci consente di dare un volto all’oracolo cerite, specialmente se le ricerche, così felicemente iniziate in località S. Antonio, porteranno alla integrale rimessa in luce del santuario. Bibliografia Atti Milano 2000: Sorteggio pubblico e cleromanzia dall’Antichità all’età moderna (Atti della Tavola Rotonda, Milano 2000), Milano, 2001. Baglione, 2000: M. P. Baglione, I rinvenimenti di ceramica attica dal santuario dell’area Sud, «Scienze dell’Antichità», x, 2000 (2002), pp. 337-382. Bagnasco Gianni, 2001: G. Bagnasco Gianni, Le sortes etrusche, in Atti Milano 2000, pp. 197-220. Bentz-Steinbauer, 2001: M. Bentz-D. Steinbauer, Neues zum Aplu-Kult in Etrurien, «AA», 2001, pp. 69-77. Bonamente, 1987: G. Bonamente, Lycia, in Enciclopedia virgiliana, iii, 1987, p. 212 sg. Bouché-Leclercq, 1880: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’Antiquité, iii, Paris, 1880. Brown, 1960: F. E. Brown, Cosa ii . The Temples of Arx, «maar», xxvi, 1960, pp. 1 sgg. Brown, 1980: F. E. Brown, Cosa. The Making of a Roman Town, Ann Arbor, 1980. Brunetti Nardi, 1981: Repertorio degli scavi e delle scoperte archeologiche nell’Etruria meridionale, a cura di G. Brunetti Nardi, iii (1971-1975), Roma, 1981. Campanelli, 1997: A. Campanelli, Il santuario di Ercole a Corfinio. Il culto, in Imola 1997, pp. 188-192. Cardona, 1986: G. R. Cardona, Storia universale della scrittura, Milano, 1986. Carlucci, 1995: C. Carlucci, Il santuario falisco di Vignale. Nuove acquisizioni, «ArchCl», xlvii, 1995, pp. 69-101. Càssola, 1975: F. Càssola, Inni omerici, Milano, 1975. Cerchiai, 1995: L. Cerchiai, L’immagine di Apollo nell’agguato a Troilo: osservazioni su tre anfore etrusche a figure nere, in Modi e funzione del racconto mitico nella ceramica greca, italiota ed etrusca (Atti del convegno internazionale di Raito di Vietri sul mare 1994), Salerno, 1995, pp. 159-164. Cerchiai, 1998: L. Cerchiai, Aspetti della funzione politica di Apollo nell’area tirrenica (in collaborazione con B. d’Agostino), in I culti della Campania antica (Atti del convegno internazionale in ricordo di N. Valenza Mele, Napoli 1995), Roma, 1998, pp. 123-128. Champeaux, 1982: J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain des origines à la mort de César, i, Roma, 1982. Champeaux, 1989: J. Champeaux, Sur trois passages de Tite Live …, «Philologus», 133, 1989, pp. 63-74. Champeaux, 1990a: J. Champeaux, Sors oraculi: les oracles en Italie sous la République et l’Empire, «mefra», 102. 1990, pp. 271-302. Champeaux, 1990b: J. Champeaux, Sorts et divination inspirée. Pour la préhistoire des oracles italiques, ibidem, pp. 803-828. Clerc, 1995: J. B. Clerc, Homines magici. Étude sur la sorcellerie et la magie dans la société romaine impériale, Bern, 1995. Coarelli, 1983: F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma, 1983. 66 Liv., xxi, 62, 5. Per il significato dei sinonimi extenuare e adtenuare seguo solo in parte La Regina, Torelli, 1968, p. 225 sg. (fraintesi da Bagnasco Gianni, 2001, p. 217, nota 32), ritenendo che a Caere nel 218 a.C. le sortes si erano solo distanziate, mentre a Falerii l’anno dopo, in una situazione di assai maggiore pericolo, si era anche spezzato il filo e, ulteriore prodigio, una sola di esse era caduta, manifestando inequivocabilmente il responso del dio (il che manca nel corrispondente passo di Plutarco, che parla solo di caduta e di sparpagliamento). Di altro avviso è Champeaux, 1989.

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CELTI E CELTOMACHIE NE L L’A RT E E T RU S C A

L

’ interesse per la raffigurazione del barbaro in quanto diverso, portatore di peculiari tratti somatici, o anche solo di costumi e di armi esotiche, è antico in Etruria non meno che in Grecia.1 Risale per lo meno alla grande fioritura artistica della seconda metà del vi secolo, che fu a tutti gli effetti un momento decisivo, favorito dalla raggiunta maturazione urbana, nell’avvicinamento dell’Etruria alla civiltà greca, e in particolare a quella della Ionia asiatica.2 Tra le molte raffigurazioni di Sciti, di Orientali e di Etiopi3 allora prodotte, non ne mancano altre decisamente rare, come il probabile egiziano, forse il re Busiride o, meglio, uno dei suoi spauriti sudditi, di cui ci rimane la deliziosa testina, pertinente a un altorilievo del santuario di Montetosto presso Caere.4 Un documento cui si può accostare, in tema di esotismo e sempre restando nell’ambito di produzioni dovute sicuramente ad artisti etruschi, il cammello dipinto sulla parete di ingresso della coeva tomba tarquiniese dei Giocolieri.5 Per quanto riguarda più specificamente le armi è il caso di ricordare l’isolata raffigurazione di un guerriero italico, riconoscibile come tale per il pettorale a disco, indiziante forse un mercenario sabino o picente, inserita nella megalografia su terracotta di cui ci resta una lastra proveniente dall’agro ceretano, con la quale siamo già alla fine dell’età arcaica.6 Stanti queste premesse, non meraviglia troppo incontrare su un’anfora a figure nere del pittore di Micali, ascrivibile alla sua produzione matura, intorno al 510 a.C. o poco dopo, una figura maschile emergente di profilo dal suolo con il collo e la testa, contraddistinta dalle dimensioni più che umane – rispetto all’altezza del fregio e alla statura dei tre leoni che le fanno intorno la ronda –, e soprattutto dai baffi sottili, ma assai evidenti sul volto glabro, piegati in fuori ai lati della bocca (Figg. 1, 2).7 I baffi in assenza di barba

1 Inutile sottolineare che esso precede di gran lunga quella che è stata definita l’“invenzione del Barbaro” da parte di Atene all’epoca delle guerre persiane (da ultima E. Hall, Inventing the Barbarian. Greek Self-definition through Tragedy, Oxford, 1989), e che permea di sé, anche dopo quella svolta, la “visione ‘orizzontale’” del mondo conosciuto”, “organizzato in antitesi, quale per esempio Nord opposto al Sud” (A. Greco Pontrandolfo, A. Rouveret, La rappresentazione del barbaro in ambiente magno-greco, in Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche, Pisa-Roma, 1983, pp. 1051-1066, la citazione da p. 1052). Cfr. per le testimonianze archeologiche W. Raeck, Zum Barbarenbild in der Kunst Athens in 6. und 5. Jahrhundert v. Chr., diss. Bonn, 1981. 2 Dove l’interesse per il barbaro era stimolato dai contatti con le civiltà dell’Oriente e dell’Egitto, che avevano da sempre coltivato una “fortissima caratterizzazione delle popolazioni straniere, sia nella fisionomia che nell’abbigliamento” (E. La Rocca, Ferocia barbarica. La rappresentazione dei vinti tra Medio Oriente e Roma, «JdI», 109 (1994), pp. 1-40, spec. p. 8 ss.). 3 Di cui le antefisse nimbate del tempio B di Pyrgi (510 a.C.) offrono una versione iconografica finora non altrimenti nota (F. Melis, «ns», 1970, ii suppl., pp. 332-334; G. Colonna, Die Göttin von Pyrgi (Atti del colloquio di Tübingen, 1979), Firenze, 1981, p. 26). Per le raffigurazioni di Orientali il maggior campionario è offerto dagli altorilievi del tempio di Satricum spettanti al rifacimento del 490 circa a.C. (G. Colonna, Satricum. Un progetto di valorizzazione per la cultura e il territorio di Latina (Atti del convegno di Latina, 1983), Latina s.d. (1985), pp. 19-21: da espungere tuttavia la testa del supposto morente, come hanno dimostrato P. S. Lulof, R. R. Knoop, «Med.ed.Rom», 54 (1995), pp. 39-51. 4 G. Colonna, Case e palazzi d’Etruria, Cat. della mostra di Siena, Milano, 1985, p. 195, 8:1. 5 Riconosciuto da C. Weber-Lehmann, in S. Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milano, 1985, pp. 52, 316. 6 G. Colonna, «Kokalos», 26-27 (1980-1981), p. 175, tav. 3; G. Tagliamonte, I figli di Marte, Roma, 1994, p. 161 sg., tav. 1a; G. Colonna, La Salaria in età antica (Atti del convegno di Ascoli P.-Offida-Rieti, 1997), Roma, 1999, p. 153, nota 44. 7 «cva», Budapest, 1 (1981) ( J. Gy. Szilágyi), p. 52 sg., tavv. 15, 1-2; 16, 1-4; N. J. Spivey, The Micali Pianter and his Followers, Oxford, 1987, p. 12, n. 46, e p. 49; Idem, Un artista etrusco e il suo mondo, cat. della mostra di Villa Giulia, Roma, 1988, p. 19 sg., fig. 19.

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Fig. 1.

Fig. 2.

celti e celtomachie nell ’ arte etrusca

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richiamano, insieme ai capelli lunghi sul collo, la peculiarità più marcata dell’acconciatura facciale dei Celti,8 da essi tenacemente mantenuta nei secoli in quanto segno di distinzione sociale, come prova una ricca serie di monumenti, dal Guerriero di Glauberg e dai metalli sbalzati del La Tène antico9 alla ben nota testa di pietra del Museo di Praga e alle falere di Manerbio.10 L’acconciatura in questione aveva molto incuriosito i Greci, come già prima gli Etruschi, tanto da entrare stabilmente nell’iconografia del Celta. Basti citare sia i tanti monumenti di età ellenistica, a cominciare dal Gallo di Gizeh e dal grande donario pergameno (Fig. 3),11 sia il puntuale excursus etnografico di Diodoro Siculo, basato verosimilmente su Posidonio: «alcuni si radono la barba, altri la lasciano crescere un poco. I nobili si radono le Fig. 3. guance ma lasciano crescere i baffi al punto che quelli ricoprono loro la bocca. Per questo quando mangiano i baffi si compattano col cibo, e quando bevono le bevande passano attraverso di essi come attraverso un filtro».12 La testa dipinta dal Pittore di Micali, su un vaso di probabile destinazione funeraria, ha un significato escatologico, in relazione all’auspicata anodos del defunto dal buio della tomba nel mal noto Aldilà dove risiedono gli eroi-antenati.13 Quel che qui interessa rilevare è che essa implica la metamorfosi del defunto, in prima istanza, in un gigantesco e pallido uomo del Nord, abitatore di terre prossime alle remote Isole dei Beati, sulle rive dell’Oceano, e in particolare al favoloso paese degli Iperborei prediletto da Apollo (il dio cui potrebbe alludere il carosello apotropaico dei leoni intorno alla testa).14 Al de-

8 Assieme al pizzo sul mento, talora bipartito, su cui infra, nota 31. 9 Glauberg: Piceni popolo d’Europa, cat. della mostra di Francoforte sul Meno, Roma, 1999, p. 29 sgg., fig. 17. Toreutica e oreficeria: R. V. Megaw, Celtic Art, London, 1989, p. 69 ss, tavv. 8, 79, 81, 87; I Celti, cat. della mostra di Venezia, Milano, 1991, figg. alle pp. 136, 162. 10 Testa da Mšecké Žehrovice: Megaw, op. cit., p. 124, fig. 178, tav. 17; I Celti, cit., fig. a p. 28; V. Kruta, Les Celtes, Paris, 2000, pp. 92, 743, fig. 122. Manerbio: R. Bianchi Bandinelli, A. Giuliano, Etruschi e Italici prima del dominio di Roma, Milano, 1973, p. 59, figg. 62, 64 sg.; I Celti, cit., figg. alle pp. 466-468; M. T. Grassi, I Celti in Italia, Milano, 1991, p. 56 sg. 11 P. R. v. Bieńkovski, Die Darstellung der Gallier in der hellenistischen Kunst, Wien, 1908; Idem, Les Celtes dans les arts mineurs gréco-romains, Vienne, 1928. 12 Diod., 5, 28, 3. 13 Come giustamente rileva Spivey, Un artista etrusco…, cit., p. 20, riferendosi anche a un secondo vaso del pittore, un’oinochoe dell’Ermitage, in cui il motivo dell’anodos è incorniciato da un fregio di melagrane a mammella (Spivey, The Micali Painter, cit., p. 23, n. 140, tav. 24a). In questo vaso la testa è senza baffi, coerentemente con le sue dimensioni infantili e con l’atteggiamento protettivo del cane, o lupo che sia, che inarca il suo corpo sopra di essa volgendo indietro la testa verso una Sirena, accorrente da destra come per assolvere anch’essa all’ufficio di “levatrice”. Si direbbe pertanto che il “parto” è ancora in corso e la metamorfosi incompiuta. 14 Sul dio da ultimo J. Bouzek, Apollon hyperboréen, le héros solaire et l’âme humaine, «bch», suppl. 38 (2000) (Études d’iconographie en l’honneur de Lilly Kahil), pp. 57-60. Per le fonti: G. Celli, La sapienza greca, i, Milano, 1977, p. 322 ss., col relativo commento. Sul leone come attributo del dio, che in età post-arcaica verrà sostituito dal grifo: limc , 2, 1984, pp. 221-223, nn. 317-322; p. 229 s., nn. 363-370; E. Bevan, Representations of Animals in San-

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funto che si immaginava rinascere a nuova vita, avviandosi ad assumere uno statuto eroico, sono conferite le sembianze di un nobile celta, appartenente alla stirpe che si riteneva più vicina a quel popolo mitico e che con esso veniva di fatto confusa ancora nel iv secolo a.C., come sembra fare Eraclide Pontico quando attribuisce il sacco di Roma, «città greca», a barbari venuti appunto dal paese degli Iperborei.15 Non è un caso che contemporaneamente all’ingresso del tipo del Celta nell’immaginario etrusco, attestato dal pittore di Micali, ci imbattiamo, grazie a una recente scoperta epigrafica, nella menzione del più antico etnonimo etrusco di quel popolo, ricalcante il termine greco attestato negli stessi anni da Ecateo e finora noto solo indirettamente attraverso il tardo gentilizio chiusino celtalu.16 Mi riferisco all’iscrizione vascolare su bucchero mi celıestra,17 proveniente dall’area urbana di Caere, di cui continuo a ritenere ragionevolmente sicura l’interpretazione come «io (sono donato) a pro del Celta», con *celı/te = KÂÏÙfi˜.18 Probabilmente a Caere in età tardo-arcaica risiedevano mercenari non solo italici ma anche celtici, reclutati nella valle del Rodano o sulle coste della Linguadoca, come indica il nome mediato dal greco, piuttosto che nella Valle padana.19 Il successivo momento della metamorfosi post mortem augurata al defunto vede innestarsi sulle fattezze del celta quelle del satiro, ossia dell’essere demoniaco dalla prorompente sessualità cui il genitore o progenitore defunto ha finito in Etruria con l’essere stabilmente assimilato, nella cornice della religione dionisiaca, grazie al rito cruento previsto dalla dottrina dei dii animales. Dottrina che sappiamo codificata nei perduti e non databili libri Acheruntici, ma che monumenti come un celebre sarcofago chiusino del Louvre lasciano credere già concepita e praticata nell’età di cui discorriamo.20 A conferma si può addurre una seminedita oinochoe a figure nere del primo o secondo decennio del v secolo a.C., prodotta verosimilmente nella stessa Vulci in cui ha operato il pittore di Micali ma per ora non attribuita,21 nel cui fregio ritorna in grande evidenza la testa gigantesca, sbarbata e con i lunghi baffi del celta, ma vista di prospetto e come sospesa nel campo, senza il supporto del collo. Evidente è l’adeguamento, tipologico e ctuaries of Artemis and other Olympian Deities («bar intern. series 315»), i, Oxford, 1986, p. 233. Il colore biondo attribuito talora nell’Etruria tardo-arcaica ai capelli del defunti più prestigiosi, in contrasto stridente con la barba e i baffi neri (M. F. Briguet, Le sarcophage des époux de Cerveteri du Musée du Louvre, Firenze, 1989, p. 132 ss.), allude verosimilmente non solo alla loro eroizzazione (così già A. J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz, 1975, p. 179), ma a una sorta di assimilazione ad Apollo, il dio per eccellenza dai “capelli d’oro” (fonti: limc , cit., p. 185, n. 3). 15 Herakl., Frg. 102 Wehrli (= Plut., Cam. 22, 3). Sulla localizzazione degli Iperborei: E. Wikén, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und Völkern der Apenninenhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund, 1937, p. 141 sgg. (dove è anche citato il passo di Servio sul re dei Celti Pisus, eponimo di Pisa, figlio di Apollo Iperboreo). Qualcuno a Siracusa favoleggiò che i Galati discendevano da un Galeote, figlio di Apollo e di una principessa degli Iperborei, venuto a stabilirsi in Sicilia (Steph. Byz., s.v. Galeatai). Cfr. anche A. Fraschetti, «aion (ling)», 11 (1989), pp. 81-95, e L. Braccesi, Hespería, 2 (1991), p. 93, nota 10. 16 Derivato da *celte come kraikalu da *k/craice (cfr. ora G. Sassatelli (ed.), Iscrizioni e graffiti della città etrusca di Marzabotto, Bologna, 1994, p. 59, n. 69). 17 H. Rix (ed.), Etruskische Texte, ii, Tübingen, 1991 (di seguito et ), Cr 3.22. 18 Nonostante le precipitose riserve di M. Cristofani e il “principio di restrizione” di A. L. Prosdocimi (Celti ed Etruschi nell’Italia centro-settentrionale dal v secolo alla romanizzazione (Atti del colloquio intern. di Bologna, 1985), Bologna, 1987, p. 575), che ha un limite anch’esso nel buon uso della etimologia (G. Colonna, Atti del ii Congresso internazionale etrusco (Firenze, 1985), i, Roma, 1989, p. 372 s.). Scettico anche, senza addurne le ragioni, C. de Simone, «aion ling», 12 (1990), p. 261, nota 7. L’identificazione è accolta senza riserve da V. Kruta, in V. Kruta, V. M. Manfredi, I Celti in Italia, Milano, 1999, p. 40. 19 G. Colonna, art. cit. 20 Rinvio al discorso da me iniziato, ma da portare ancora avanti, con L’anfora etrusca di Dresda col sacrificio di Larth Vipe, in Amico amici. Gad Rausing den 19 maj 1997, Stockholm, 1997, pp. 195-216, spec. p. 208 ss. Sul sarcofago chiusino cfr. anche S. Bruni, Aspetti della cultura di Volterra etrusca (Atti del xix convegno di studi etruschi e italici, Volterra 1995), Firenze, 1997, p. 147 sg., nota 69. 21 N. Spivey, S. Stoddart, Etruscan Italy. An archaeological History, London, 1990, p. 120 sg., fig. 71.

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compositivo, alle grandi ‘maschere’ di Dioniso dei tardi vasi attici a figure nere (soprattutto kylikes a occhioni e lekythoi), talora alternate o sostituite da quelle del satiro e più raramente della Gorgonie.22 Nel nostro caso un richiamo alla iconografia della Gorgone è offerto dalla bocca con la minuscola lingua pendente, ma soprattutto invadente è l’impatto dell’iconografia del satiro, rivelato dalle lunghe orecchie equine, sovrapposte a quelle umane, e dalle rughe solcanti la fronte: motivi tutti che vietano di pensare a Dioniso.23 La figuretta accorrente da destra, con i ramoscelli dell’orante nelle mani, denota che la protome, una volta assunti tratti satiresco-gorgonici, che vengono a sommarsi a quelli del Celta, è uscita per così dire di tutela ed è divenuta oggetto di culto funerario, in quanto immagine simbolica del defunto eroizzato.24 Corollario di questo percorso, insieme ideologico e iconografico, interamente compiuto nell’Etruria meridionale e nel solco del nascente dionisismo misterico, è l’apparizione sulle stele felsinee della Certosa del cosiddetto gigante silenico.25 Lo vediamo raffigurato di profilo, con il busto e il braccio destro proteso ad additare la via al minuscolo cavaliere posto sotto la sua protezione,26 o assai più spesso ridotto alla sola testa, ‘appesa’ come una maschera al bordo sinistro del campo. La testa, in cui sarà da riconoscere la personificazione abbreviata dell’Aldilà abitato dai defunti-satiri, è oggetto di preghiere e di offerte da parte di donne stanti o sedute,27 oppure funge da meta del viaggio oltremondano del defunto, compiuto a cavallo o su un carro dai cavalli alati, che anticipa in termini visivi la condizione eroica cui è destinato.28 Nelle immagini delle stele felsinee la testa ha ormai assunto un compiuto carattere silenico, semicalvizie compresa, senza conservare nessuna traccia del tipo facciale del Celta, che ne costituisce il precedente di età tardo-arcaica nell’Etruria meridionale. Tipo che tuttavia riappare inaspettatamente in due curiosi vasi configurati a testa umana, raffiguranti demoni dell’Oltretomba, privi peraltro di confronti iconografici veramente esaurienti. Il più antico, rinvenuto a Spina, è un prodotto attico a figure rosse ascrivibile al Pittore di Sotades, ma appartenente con ogni verosimiglianza alla categoria dei ‘bespoken vases’ e destinato ab origine all’esportazione nell’Etruria padana, dove appunto è stato rinvenuto.29 Raffigura una testa dal volto interamente dipinto di nero,30 sbarbata 22 Dioniso: F. Frontisi-Ducroux, Le dieu-masque. Une figure du Dionysos d’Athènes, Roma, 1991, pp. 162-166, 177-183, 253 sg., figg. 99-101, 104-109. Satiro: ibidem, pp. 164 sg., 180, 182-184, 255, figg. 102, 110. Gorgone: ibidem, p. 184, fig. 112. Sul controverso significato di tali “maschere” cfr. i contributi di C. Bérard, Ch. Bron e della stessa Frontisi-Ducroux, in Dionysos. Mito e mistero (Atti del convegno internaz., 1989), Comacchio, 1989, p. 309 sgg. 23 Nonostante il parere espresso dubitativamente da Spivey, art. cit, (nota 21), didascalia a fig. 21. Ma vedi già L. Cerchiai, «pp», 50 (1995), p. 394, nota 17. 24 Su questa via si arriverà nel iv secolo a.C., previa l’aggiunta di una corona di serpentelli, alla protome incisa sul simpulum rinvenuto in uno dei pozzi del tempio A di Pyrgi, recante significativamente la consacrazione al Farthan, ossia al “Progenitore” (G. Colonna, «ns», 1988-1989, ii suppl: (1992), p. 121 sgg., fig. 96), nel quale penso sia da riconoscere il Pater Pyrgensis noto da «cil», xi, 3710. 25 Da ultimo A. Mastrocinque, in Dioniso. Mito e mistero, cit., pp. 278 sg., 282 sg. Cfr. anche Cerchiai, art. cit., p. 386 sgg., che però non dà peso alle dimensioni sovrumane del satiro. 26 Mastrocinque, art. cit., p. 278, fig. 1; Cerchiai, art. cit., p. 386, fig. 5. 27 Mastrocinque, art. cit., figg. 3,5; Cerchiai, art. cit, figg. 7 s. 28 Mastrocinque, art. cit., figg. 4, 2; Cerchiai, art. cit., fig. 6. 29 Come pensa giustamente I. Krauskopf, Todesdämonen und Totengötter im vorhellenistischen Etrurien, Firenze, 1987, pp. 40-43 e spec. p. 42, tav. iv, a-b (contraddicendosi un poco quando ne propone l’identificazione con Eurynomos: in realtà il colorito nero è attribuito in Etruria a un demone dell’Oltretomba già su una lastra dipinta di tardo vi secolo, riprodotta da B. d’Agostino, «ArchClass», 43 (1991), p. 232 sg., fig. 1 sg., nella quale potrebbe riconoscersi proprio Charu, oggetto all’epoca della dedica su cui mi sono intrattenuto da ultimo in Les Étrusques, les plus religieux des hommes, Paris, 1997, p. 171 sg.). 30 Che ricorda il travestimento da Erinni, col volto dipinto di rosso, delle vergini daunie votate al culto di Cassandra (G. Colonna, La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico (Atti del xiii convegno di studi etruschi e italici, Manfredonia 1981), Firenze, 1984, p. 264).

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ma con baffi e pizzo lisci, resi a rilievo,31 così come lo sono le rughe sileniche della fronte. L’altro è un vaso del Museo di Antichità di Monaco, di produzione etrusca, forse chiusina, probabilmente della prima metà del iv secolo a.C., la cui testa è comunemente identificata con quella di un Charu a causa del vistoso naso adunco. Sulla faccia solo sommariamente rasata, come mostrano gli ampi resti di peluria, spiccano in nero pieno i baffi sottili che incorniciano la bocca saldandosi al pizzo appuntito, mentre i capelli ritti formano sulla fronte una cresta setolosa e dall’alto delle orecchie ne spuntano altre, a quanto pare equine (Fig. 4).32 La caratterizzazione esotica tocca l’apice con gli orecchini e l’anello nasale cui si riferiscono i fori di sospensione, per i quali penserei a una suggestione venuta dall’ornato di Celti che erano stati mercenari a Cartagine o altrove nel mondo punico. Sono figurazioni che dimostrano come l’iconografia del celta, combinata con quella affine del satiro,33 sia sopravvissuta in Etruria per i demoni dell’Aldilà fino alle soglie dell’ellenismo, contribuendo anch’essa in qualche Fig. 4. misura alla formulazione del tipo canonico del Charu.34 Tornando alle stele felsinee va detto che, oltre al gigante silenico, esse ci hanno lasciato anche una compiuta raffigurazione del Celta combattente, inserita in un contesto narrativo. Mi riferisco alla notissima stele Ducati 168, la cui cronologia è stata rialzata in maniera convincente da Sassatelli alla seconda metà del v secolo, intorno al 440-420 a.C., contro la datazione del Ducati alla prima metà del secolo successivo.35 Nel registro

31 L’associazione ai baffi di una barbetta a pizzo, di aspetto caprigno, è frequente nella iconografia ellenistica del Celta: basti citare il fregio di Civitalba (Bieńkovski, op. cit., p. 93 sgg.) e i denarii di Saserna (J. L. Desnier, «mefra», 103 (1991), pp. 608-613, figg. 1-3). Baffi e pizzo possono essere ridotti a una leggera peluria intorno alla bocca e sul mento, come si osserva su alcune teste di Giganti del grande Altare di Pergano, assimilate a Galati (J. Papadopoulos, Le sculture della collezione Astarita, Napoli, 1984, p. 30 sgg., fig. 22 sg.). 32 J. D. Beazley, Etruscan Vase-Painting, Oxford, 1947 (di seguito «evp»), p. 188 sg., tav. 40, 1-2; Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, Milano, 1955, p. 111, n. 370, tav. 90; Krauskopf, op. cit., pp. 41, nota 111, 43 sg., tav. iv, c-d. 33 L’affinità non era sfuggita a occhi greci: oltre a impastarli col gesso “tirano continuamente i capelli all’indietro dalla fronte verso la cervice e la nuca, sicché appaiono simili a Satiri e a Pani” (Diod., 5, 28, 2). Probabilmente non a caso alla base dell’ansa del vaso di Monaco il vasaio ha applicato una insolita protome di Pan a rilievo (al dio pastorale sarà del resto accreditato un ruolo importante nella storica vittoria di Antigono sui Galati: cfr. G. Colonna, art. cit. a nota 83, p. 351 sg., nota 77). 34 Anche se il pizzo caprigno per es. delle maschere Faina (Arte e civiltà degli Etruschi, cat. della mostra, Torino, 1967, p. 116 sg., n. 325) potrebbe in teoria derivare dal Caronte delle lekythoi attiche, che ne è talora provvisto. 35 G. Sassatelli, in Atti del ii congresso, cit. (nota 18), ii, p. 946 sg., nota 117, tav. v, b.

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Fig. 5.

inferiore della faccia B si affrontano, la spada in pugno, un cavaliere con corazza e un pedone completamente nudo, che lo pareggia in altezza (Fig. 5). Il pedone è riconoscibile come un Celta non tanto per la statura, che potrebbe essere condizionata da esigenze compositive, quanto per la nudità, la capigliatura rigogliosa e soprattutto le armi: la spada dall’impugnatura a tre globuli e lo scudo lungo con spina e umbo centrale.36 Alla diffusa convinzione di un riferimento per così dire storico, se non addirittura biografico, a scontri armati con Galli sostenuti dal defunto G. Sassatelli ha giustamente contrapposto una interpretazione in chiave di rito funerario, con riferimento a ludi di tipo gladiatorio che prevedevano l’effusione di sangue, come largamente documentato nel secolo successivo dalla pittura pestana.37 Tuttavia ciò non intacca il dato di fatto che il combattente a corpo nudo, apparentemente destinato a soccombere, agevolando col suo sacrificio il viaggio ‘trionfale’ del defunto raffigurato nel soprastante registro della stele,38 è caratterizzato come un Gallo, da presumere prigioniero di guerra.39 36 L’impugnatura a tre globuli è stata riconosciuta da A. M. Adam, V. Jolivet, Guerre et sociétés en Italie (v eiv e s. avant J.-C.), Paris, 1986 (ma 1988), p. 136, nota 34. Nello stesso lavoro ampia messe di confronti alle pp. 136138. Spade di v sec. a.C. con impugnatura del tipo dalla Champagne e dall’area di Golasecca in I Celti, cit. (nota 9), pp. 98. 718, n. 216 sg. 37 E già nella seconda meta metà del v secolo dalle sculture iberiche di Porcuna e altri siti (J. M. Blázquez, S. Monteiro, «Veleia», 10 (1993), pp. 71-84). 38 Sul lato A della stele è raffigurato l’approccio del defunto col demone simile a Eros che guiderà il suo viaggio sul carro, raffigurato nel registro mediano della faccia B. L’approccio ha luogo dinanzi a quello che non è un sema alludente alla tomba (così Cerchiai, art. cit. a nota 22, p. 386, fig. 2), ma un altare con sopra quella che sembra essere un’offerta per gli dei dell’Oltretomba. 39 In tal senso anche Adam, Jolivet, art. cit., e P. J. Holliday, «Etruscan Studies», 1 (1994), p. 25 s. L’episodio narrato da Polyb., 3, 62 s., fa capire che i prigionieri celti preferivano di gran lunga l’alea di un duello mortale alla prospettiva di restare nella loro condizione.

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Scendendo nel iv secolo, venuta meno l’Etruria padana, raffigurazioni di guerrieri celti sono presenti nella ceramica dipinta a figure rosse dell’Etruria meridionale e di Falerii, non paragonabili certo, per numero e varietà, a quelle dei guerrieri apuli e italici sui vasi dipinti dell’Italia meridionale,40 ma comunque anch’esse istruttive e interessanti.41 Alla prima metà del secolo spetta l’importante cratere a colonnette del museo di Lipsia,42 in cui su quella che sembra doversi considerare la faccia B si fronteggiano due cavalieri, impegnati si direbbe più in un torneo che in un duello, visto che l’uno carica con la lancia e l’altro si limita a schivarlo tenendo verticalmente lo spadone latèniano a lama larga, in posizione di attesa o di saluto (Fig. 6).43 Il cavaliere di sinistra è interamente rivestito Fig. 6. da una tuta di lana tessuta a rombi (resi sommariamente con linee a zig-zag), che lo copre fino ai polsi e alle caviglie: una tenuta da amazzone o da scita,44 indossata tuttavia anche dai Celti e fin dal v secolo a.C., come mostra ad abundantiam il fodero di Hallstatt.45 Inequivocabilmente celtiche sono comunque le spade di entrambi i cavalieri (quella del cavaliere di sinistra appesa a una sottile cintura con bene in vista la classica impugnatura a tre globuli, già incontrata sulla stele di Bologna),46 e così gli enormi scudi oblunghi dall’orlo a fascia chiodata, la cui faccia esterna, visibile in quello del cavaliere di destra, appare rinforzata dalla spina, dall’umbo e da due elementi curvilinei contrapposti,47 cui è assicurato un arco (altro richiamo al mondo degli Sciti).48 Entrambi i cavalieri sono imberbi e con lunghi capelli, ma quello di sinistra si distingue come più autorevole per la clamide e per avere il capo

40 Me ne sono occupato di recente in Un Ercole sabellico dal vallo di Adriano, «ArchClass», 49 (1997), pp. 65-100. 41 È merito del Beazley aver portato l’attenzione (in «evp») su queste raffigurazioni, trascurate dal Bienkowski (opp. citt. a nota 11): Più di recente è da ricordare il pregevole saggio di Adam e Jolivet su un cratere fino allora inedito del Louvre (art. cit. a nota 35). 42 Beazley, «evp», pp. 48-50, 98: s., tav. 7: 3; E. Paul, Die Welt der Etrusker (Atti del colloquio internaz. di Berlino, 1988), Berlin, 1990, pp. 253-258, tav. 47, con bibl. Il vaso è stato attribuito dal Beazley al Pittore del Vaticano G 111, attivo verosimilmente a Vulci, anche se il vaso è stato rinvenuto a quanto pare nell’agro falisco. 43 Cfr., sul piano tematico, un’idria del Pittore di Micali (Italy of the Etruscans, cat. della mostra di Gerusalemme, a cura di I. Jucker, Mainz, 1991, p. 229, n. 298). 44 Cfr. in Etruria i due crateri gemelli “earlier-red” di Amburgo e di Monaco («evp», p. 32 sg.; Kunst der Etrusker, Hamburg, 1981, p. 83 sg., n. 101; F. Gilotta, Prospettiva, 45 (1986), p. 11 sgg., fig. 29 sg.), nonché l’altorilievo con Amazzonomachia del tempio A di Pyrgi (G. Colonna, op. cit. a nota 24, p. 23 sgg., n. 1). 45 Kruta, Manfredi, op. cit. (nota 18), p. 18, fig. 3: Kruta, op. cit. (nota 10), pp. 425-427, 490, fig. 11. L’aver scambiato un tale capo di abbigliamento con una cotta di maglia ha condotto l’editore del vaso, F. Studniczka, e ancora Adam e Jolivet (art. cit., p. 139), a considerare il guerriero come un “italico”. 46 Cfr. nota 35. Il particolare non mi risulta sia stato finora rilevato. 47 Propri degli scudi celtici (Adam, Jolivet, art. cit., p. 139, nota 47). 48 I due gruppi di punti disposti a triangolo ai lati dell’umbo sono da ritenere non stelle (così P. Jacobstahl, in Beazley, «evp», p. 99), ma chiodi che fissavano la manopola dall’interno (A. Rapin, I Celti, cit. a nota 9, p. 124 sgg.). Insolito, per un’età così antica, l’uso dello scudo da parte dei cavalieri (Kruta, op. cit. a nota 10, p. 486).

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coperto da un elmo, del tipo a gola con ritaglio per le orecchie, in uso nell’Etruria del tempo.49 La scena sembra voler rappresentare un confronto tra i campioni di una delle etnie celtiche del grande Nord, prossime agli Sciti e ai mitici Iperborei, affacciatesi anch’esse sull’orizzonte italiano al tempo della grande invasione, suscitando nelle città etrusche meridionali una curiosità quasi di tipo etnografico.50 Sulla faccia A del vaso probabilmente non casuale è la raffigurazione della libazione compiuta su un altare, con l’assistenza di un satiro che gli tiene la cetra, da un giovane laureato e con bulla, nel quale si è tentati di riconoscere Apollo, il dio che usava, come si è ricordato, soggiornare tra Fig. 7. gli Iperborei.51 Il cratere di Lipsia non è isolato nella sua illustrazione, per così dire, dei nuovi barbari. Gli si affiancano due stamnoi del coevo Pittore di Londra F 484, dei quali uno è al Vaticano e l’altro, fornito anche di un’ansa verticale, a Cambridge (Fig. 7).52 Su entrambi ritorna il motivo del cavaliere, che in essi non finge nemmeno di combattere ma è soltanto preceduto o seguito da un pedone armato di lancia, scudo oblungo con spina e, nel caso del vaso di Cambridge, spada dall’impugnatura a tre globuli appesa alla cintura. Tutti, tranne il cavaliere di Cambridge che è elmato, hanno una «abbondante capigliatura bionda svolazzante all’indietro»53 in un’unica massa compatta, che non trova confronto nelle altre figure maschili del pittore ed è tale da far pensare all’uso del gesso di cui parla Diodoro.54 Indossano inoltre una curiosa tunica corta, manicata e con grandi spallacci, anch’essa priva di confronti cui uno dei cavalieri aggiunge la clamide. La scena è unica nel vaso di Cambridge, mentre in quello del Vaticano è contrapposta a una faccia A, che mostra questa volta con certezza Apollo con un ramo d’alloro, in compagnia di una donna in veste lunga senza altro attributo che una

49 H. Pflug, Antihe Helme. Sammlung Lipperheide und andere Bestände des Antikenmuseums Berlin, Mainz, 1988, p. 287, fig. 13. Alcune linee ricurve sulla calotta dell’elmo sembrano alludere a una decorazione sbalzata, dando all’arma un valore da parata. 50 Curiosità forse dimostrata anche da una delle teste di un vaso gianiforme del Museo di Tarquinia, se in essa si devono riconoscere le fattezze non di un semita (così Beazley, «evp», p. 189 sg., tav. 40:8) ma di un mongolo (G. Hafner, «mdai(r)», 77 (1970), p. 53, nota 40), conosciute in Etruria presumibilmente attraverso la mediazione dei popoli delle steppe. 51 Cfr. nota 14. Per altre scene di libazione su altare cfr. M. Cristofani, Tabula Capuana, Firenze, 1995, p. 114 sg., tav. 19 sg. (protagonista è Minerva nel n. 7 e forse Fufluns nel n. 2). L’attributo della bulla è comune per Aplu (cfr. M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, p. 284, n. 100 sg.). Il Paul vorrebbe interpretare la scena come un rituale dionisiaco, compiuto da due mortali, di cui uno travestito da satiro. 52 Bealey, «evp», p. 44 sg., nn. 4-5; Q. F. Maule, H. R. W. Smith, Votive Religion at Caere: Prolegomena, Berkeley-Los Angeles, 1959, p. 33 sgg., tav. 5 (stamnos del Vaticano); Adam, Jolivet, art. cit., p. 139, fig. 12 (stamnos a Cambridge). Sulla datazione del pittore alla prima metà, e probabilmente al secondo quarto del iv secolo cfr. Gilotta, art. cit. (nota 44), p. 13 sgg. 53 A. D. Trendall, Vasi antichi dipinti del Vaticano, 1, Città del Vaticano, 1953, p. 224. 54 Cfr. nota 12.

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Fig. 8.

corona anch’essa d’alloro, nella quale, meglio che Artemide, riconoscerei una partner iperborea del dio.55 A questo gruppo di ceramiche dai toni favolistici, prodotte a Vulci poco dopo la grande invasione, seguono, nei decenni intorno alla metà del secolo, i due vasi falisci resi noti rispettivamente dal Beazley e da Adam e Jolivet. Nel primo, lo stamnos lacunoso del Museo di Bonn (Fig. 8), è raffigurata una autentica celtomachia, la più antica celtomachia giunta fino a noi, sia dalla Grecia che dall’Etruria, anche se, per ovvie ragioni di spazio, ristretta a due soli gruppi di combattenti. Al centro un giovane cavaliere affronta due celti appiedati, di cui poco rimane, mentre da sinistra gli si avvicina un terzo avversario, assalito a sua volta alle spalle da un oplita barbuto, verso il quale di scatto si volge. A terra giace ai piedi del cavaliere il cadavere di un barbaro morto, aggredito da un uccello rapace, mentre un secondo uccello è in attesa ai piedi del barbaro retrospiciente.56 Questi è interamente nudo, alla pari del caduto, e porta il fodero della lunga spada appeso alla catena che gli cinge la vita. L’altro vaso, di poco più recente, del 340 circa, è

55 Anche I. Krauskopf esprime forti dubbi sulla identificazione con Artemide (in limc , 2 (1984), pp. 341, n. 31, e 780, n. 36). 56 Beazley, «evp», pp. 96-100, tav. 24. 1-2. Cfr. Adam, Jolivet, art. cit., p. 138 sg., fig. 5: I Celti, cit. (nota 9), p. 61 sg. (B. Andreae, con lettura in parte diversa e non convincente). Il motivo del caduto aggredito dagli avvoltoi è notoriamente antichissimo sia in Grecia che in Etruria (da ultimo J. Gy. Szilágyi, Ceramica etruscocorinzia figurata, i, Firenze, 1992, pp. 245-248), né manca sulle sculture iberiche di Porcuna (BlázquezMontero, art. cit. a nota 37, p. 74).

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Fig. 9.

un cratere a campana del Louvre,57 sul quale è raffigurata una sanguinosa tenzoFig. 10. ne, che ha luogo questa volta tra Celti (Fig. 9). Un capo, riconoscibile per l’elmo dal cimiero svolazzante sorretto da un caratteristico elemento antropomorfo a tridente (Fig. 10),58 si fa avanti brandendo la spada dall’impugnatura trilobata, ma il suo avversario stramazza a terra trafitto alla gola dal giavellotto nel frattempo scagliato dal gregario che gli sta dietro. Anche in questa composizione a tre i Celti, interamente nudi, portano il fodero della spada appeso alla cintura e imbracciano scudi assai lunghi, visibilmente ovali e forniti di spina. Il cratere del Louvre allude a quanto pare a un episodio di quelle lotte intestine o conflitti tribali, che tra i Celti dovettero ripetersi di frequente:59 un episodio comunque ben conosciuto tra le popolazioni della valle del Tevere, che con i Galli bene o male erano in contatto da tempo,60 se ha potuto entrare nel repertorio di un ceramografo falisco. Il vaso testimonia indirettamente lo status quo, che dopo la metà del iv secolo si era stabilito nell’Italia centrale, consentendo l’allacciarsi di relazioni anche di ordine non puramente materiale tra i nuovi venuti, ormai saldamente insediati nel Bolognese e

57 «cva», France, 33 (1984), p. 20, tav. 1 (V. Jolivet); Adam, Jolivet, art. cit., pp. 129-144. 58 Identico a quello di un elmo della necropoli gallica di Filottrano (ibidem, p. 135, fig. 8). 59 Adam e Jolivet inclinano invece a pensare alla rappresentazione di un cruento gioco funerario, come nel caso della stele 168 della Certosa e delle pitture delle tombe pestane, senza tuttavia nascondersi che i combattenti sono in due contro uno e appaiono in qualche misura differenziati sia dal vestiario (p. 141 sgg.) che dalle armi (la spada del soccombente ha un’impugnatura leggermente diversa da quella dei vincenti). 60 Dall’Etruria meridionale, e forse proprio dalla tiberina Bomarzo, viene lo specchio coevo con la più antica menzione del gentilizio cale (= lat. Gallus), (H. Rix, et , AH 3.3), i cui legami con l’ambiente volterrano sono infondati (cfr. E. Mangani, «ba», 33-34 (1985), p. 27). Spade latèniane di iv-iii secolo vengono da tombe di Perugia, Todi e Capena, e quella da quest’ultimo sito appartiene ad un tipo di prima metà iv secolo, non attestato altrove in Italia (L. Kruta Poppi, «EtCelt», 23, 1986, pp. 41-46: cfr. Kruta, Manfredi, op. cit. (nota 18), p. 92, fig. 25).

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Fig. 11.

nell’ager Gallicus, e le popolazioni indigene più o meno loro vicine. Relazioni che vanno ben al di là del semplice prestito, largamente attestato, di taluni tipi di armi, a cominciare dalla più volte citata spada con presa a globuli, di cui non esitarono ad appropriarsi gli Etruschi, come provano per Caere una statuetta di guerriero del deposito votivo in località Vignaccia61 e più tardi gli stucchi della tomba gentilizia dei Rilievi (Fig. 11), per Tarquinia le pitture della tomba Bruschi.62 Al volgere del secolo possiamo dire che l’immagine del Gallo presso gli Etruschi oscilla tra atteggiamenti opposti, di simpatia o di repulsione, anche a seconda dell’ambiente cui le immagini sono destinate. Su uno specchio rinvenuto nel Bolognese, in paese boico, un cavaliere nudo fa bella mostra di sé sul61 Berlino 8219: Maule, Smith, op. cit. a nota 52, p. 5 sgg., fig. 1. Cfr per il soggetto G. Millemaci, Atti e Memorie dell’Accademia La Colombaria, 62 (1997), p. 57. 62 Caere: H. Blanck, G. Proietti, La tomba dei Rilievi di Cerveteri, Roma, 1986, p. 46 sg., fig. 32. Nella tomba Bruschi una spada del tipo è portata, appesa al balteo, dal personaggio in vesti militari che apre il corteo della parete sinistra (H. Blanck, Malerei der Etrusker im Zeichnungen des 19. Jahrhunderts, Mainz, 1987, p. 194, fig. 178: cfr. Pittura etrusca al Museo di Villa Giulia, cat. della mostra, Roma, 1989, p. 168 sg., fig. 125 sg.). Meno significanti sotto questo riguardo, perché riferite a personaggi del mito o dell’epos, sono l’attestazione dello skyphos di Boston (Beazley, «evp», p. 166 sg., tav. 37, 2) e quelle delle kelebai volterrane, dove le spade in questione sono portate, assieme a scudi con spina, da Pigmei che lottano o si accingono a lottare con le gru (M. Montagna Pasquinucci, Le kelebai volterrane, Pisa, 1968, p. 59, n. 39; p. 82, n. 71). Non è da escludere però che l’introduzione dei Pigmei nell’arte funeraria etrusca (G. Colonna, art. cit. (infra, nota 83), p. 344, nota 40; M. Cristofani, Aspetti della cultura di Volterra etrusca (Atti del xix convegno di studi etruschi e italici, Volterra 1995), Firenze, 1997, pp. 183-185), sia dovuta alla credenza che quel popolo abitasse sulle rive dell’Oceano (Eustath., Il., p. 372), non lontano dai Celti e dagli Iperborei.

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Fig. 12.

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Fig. 13.

lo sfondo della clamide gonfiata dal vento come una vela, la spada con presa a globuli snudata e appoggiata alla spalla.63 Invece su un frammento di skyphos volterrano a figure rosse di ottima qualità, rinvenuto nella Spina rimasta in mano etrusca, un combattente gallico visto di dorso è ritratto con la testa irsuta di un ciclope, anche se per la prima volta porta il balteo alla greca sul corpo nudo.64 La testimonianza migliore della compiuta ‘accettazione’ del Gallo, anche nei suoi caratteri somatici, realisticamente osservati, viene dalla più evoluta Etruria meridionale ed è offerta da una vigorosa testa-ritratto del Museo Gregoriano Etrusco (Figg. 12-13), rinvenuta a Cerveteri nel grande deposito votivo della valle del Manganello, messo in luce nel 1826.65 La testa, plasmata a mano e pertinente con ogni probabilità a una statua a figura intera, è stata a ragione apprezzata da G. v. Kaschnitz-Weinberg come una delle più pregevoli tra le ‘medio-italiche’, fittili o bronzee, anche se è raro vederla citata: nella sua scia se n’è occupato in anni recenti G. Hafner, che l’ha datata convincentemente, sulla base del confronto con le teste dipinte sui crateri volterrani, al primo quarto del iii secolo.66 Il personaggio è identificato come un Gallo dai lineamenti marcati, 63 Specchio da Monte Morello di Monteveglio (bo) (Kruta, Manfredi, op. cit. (nota 18), p. 111, fig. 28). 64 M. Harari, Celti ed Etruschi, cit. (nota 18), pp. 167-170; M. Cristofani, «StEtr», 58 (1992), p. 109; E. Mangani, ibidem, p. 138. Attribuito al Pittore di Spina. 65 Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom, 4º ed., Tübingen, 1963, p. 585, n. 793 (T. Dohrn); The Etruscans. Legacy of a lost Civilization, a cura di F. Buranelli, Memphis, 1992, p. 90, n. 50, con bibl. Sul deposito del Manganello cfr. G. Colonna, E. Di Paolo, Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di Massimo Pallottino, i, Pisa-Roma, 1997, p. 135 sg., nota 11. 66 G. v. Kaschnitz-Weinberg, «mdai(r)», 41 (1926), p. 160 sg., Beil. 21c-22c (“Kopf eines Barbares”); G. Hafner, ibidem, 73-74 (1966-1967), p. 47 sg., tav. 18, 1-2 (pensa non a un barbaro, ma a un poco credibile “Vertreter des traditionsgebundenen Etruskertum”).

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dai capelli raccolti in ciocche pesanti e scomposte, e soprattutto dai baffi, tracciati a crudo con la stessa tecnica usata per le sopracciglia: baffi che spiccano sul volto rasato, come accadeva sui vasi a figure nere e sui vasi plastici a testa di demone prima ricordati. Il donario, ché di questo si tratta, dimostra che alle élites dei Galli era ormai consentito frequentare i santuari delle città etrusche e offrire alla divinità la propria immagine, convenzionale come tutti i ritratti del tempo, ma fatta eseguire, come nel caso in questione, anche dai migliori plasticatori locali. E questo proprio nella città che menava vanto di avere cent’anni prima combattuto e vinto i Galli all’epoca del sacco di Roma,67 e di averne addirittura recuperando il bottino.68 Del resto altrove, nell’Etruria del Nord-Est, tra Chiusi, Perugia e Cortona, non si esitò negli stessi anni ad accettare o addirittura sollecitare l’alleanza politica e militare dei Galli per contrastare l’avanzata di Roma, come insegnano le battaglie di Sentino (295 a.C.) e del lago Vadimone (283 a.C.).69 E sappiamo che lo stesso idillio romano-cerite fu bruscamente interrotto in occasione della spedizione di Pirro (280-275 a.C.), con conseguenze disastrose per la città e il santuario di Pyrgi.70 Quanto detto costituisce una premessa all’esame delle celtomachie ellenistiche, cui ora dobbiamo rivolgerci. Gli Etruschi hanno conosciuto e avuto a che fare coi Celti ben prima dei Greci, a parte beninteso i Massalioti.71 Non hanno tuttavia fatto delle loro secolari contese coi Celti, iniziate secondo la tradizione con la migrazione di Belloveso (circa 600 a.C.), un tema figurativo autonomo, una ‘celtomachia’ epica, come è accaduto nella Grecia del primo ellenismo. È verosimile che lo stamnos di Bonn conservi il ricordo di uno scontro vittorioso sostenuto contro i Galli dai Falisci, in occasione di una delle tante loro incursioni nella valle del Tevere, se non proprio della già menzionata vittoria di cui si vantavano i Ceriti, che Strabone colloca nella Sabina, evidentemente tiberina prossima ai Falisci.72 Ma fati del genere non erano bastati, a quanto sembra, per dar vita a una ‘storia’ di respiro nazionale, tale da coinvolgere l’intera Etruria o almeno un’ampia parte di essa, come per esempio era accaduto per la saga di Cacu e dei fratelli Vibenna.73 Non meraviglia pertanto che dopo il 280 a.C., rovesciate ormai le alleanze e definitivamente seppellita ogni simpatia filogallica, le città dell’Etruria settentrionale, con in testa Chiusi, si siano rivolte a modelli creati in terra greca per esaltare in termini figurativi la sospirata e ormai raggiunta superiorità militare nei confronti dei barbari incombenti sui loro confini: barbari dai quali le aristocrazie urbane, allineate con la politica del senato romano, intendevano sempre più dissociarsi. I modelli erano a portata di mano, carichi di attualità, e per raggiungerli bastava la mediazione di Taranto: sono i cicli pittorici e scultorei che artisti greci avevano prodotto per celebrare le vittorie sui Celti conseguite a caro prezzo tra il 278 e il 277 a.C., a Delfi e sull’Ellesponto, vittorie che avevano liberato la Grecia da un tremendo pericolo, sentito come non inferiore a

67 Diod., 14, 17, 7. Cfr. A. Fraschetti, «aion StAntArch», 2 (1980), pp. 147-155. 68 Strab., 5, 2, 3. Cfr. M. Sordi, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma, 1960, pp. 32-36, 146 sgg. 69 W. V. Harris, Rome in Etruria and Umbria, Oxford, 1971, pp. 66-82. 70 G. Colonna, op. cit. (nota 24), p. 325 sg. 71 A. Momigliano, Alien Wisdom. The Limits of Hellenisation, Cambridge, 1975, p. 50 sgg. Cfr. anche H. D. Rankin, Celts and the Classical Word, London-Sidney, 1987, p. 34 sgg.; J.-P. Morel, Les Grecs et la Gaule, in Les Grecs et l’Occident (Actes du colloque de la villa “Kérylos”, 1991), Rome, 1995, pp. 41-69; J. Kolendo, La conoscenza dei territori dell’Europa centrale nel mondo greco (vi -v sec. a.C.), in Dall’Indo a Thule: i Greci, i Romani, gli altri, a cura di A. Aloni e L. de Finis, Trento, 1996, pp. 73-87. 72 Cfr. le note 57 sg. 73 Cfr. F.-H. Massa-Pairault, Récherches sur l’art et l’artisanat étrusco-italiques à l’époque hellénistique, Roma, 1985, p. 47 sgg.

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quello còrso due secoli prima al tempo dell’aggressione persiana.74 Quei cicli erano stati ripresi e sviluppati, con grande novità e varietà di realizzazioni, specialmente scultoree, dovute ai migliori artisti del tempo affluiti nella Pergamo di Filetero, di Eumene i e specialmente di Attalo i. Il che era avvenuto in occasione delle reiterate vittorie sui Galati, come ormai erano chiamati i Celti d’Asia Minore, cui Attalo doveva lo stesso titolo reale e che avevano scandito l’irresistibile ascesa del giovane stato, dal 241 al 197 a.C.75 La fortuna del tema della celtomachia in Etruria praticamente non è per noi conoscibile fuori della sfera funeraria, cioè di ambito privato, poiché il fregio fittile a forte rilievo da Civitalba, di destinazione certamente templare, è un’opera di diretta emanazione romana e di ambito paracoloniario (Sena Gallica), celebrante con ogni probabilità, sul luogo della storica battaFig. 14. glia di Sentino, la definitiva sottomissione dei Galli Boi conseguita nel 191 a.C.76 Né purtroppo sappiamo abbastanza della supposta celtomachia del tempio della Catona fuori le mura di Arezzo, ritenuta coeva a quella di Civitalba e ad essa verosimilmente assai superiore per qualità.77 Tuttavia non mancano altri indizi dell’accoglimento del tema nel programma decorativo dei templi etruschi o falisci. Mi riferisco alla bella testa di giovane barbaro, dalla chioma a ciocche ribelli, ceduta in deposito all’Università di Yale da F. E. Brown, che l’aveva acquistata prima del 1954 (Fig. 14).78 Testa a due terzi o poco meno del vero, che tutto fa ritenere spettante a un altorilievo: il gran ciuffo satiresco al sommo della fronte, andato in parte perduto, ritorna immiserito nelle teste del fregio di Civitalba (Fig. 15), mentre i baffi, anche per la prevista visione a distanza, sono indicati solo da una lieve prominenza del labbro superiore, prolungata lateralmente creando un filo d’ombra intorno alla bocca. Lo stile della testa Brown, vigoroso e ricco di chiaroscuri, conserva nel movimento della chioma qualche ricordo di ritratti lisippei di Alessandro diversi dal tipo Azara, come avviene anche in una raffinata testa votiva cerite di ragazzo al Gregoriano.79 Prevale tuttavia nella nostra terracotta una interpretazione in senso decisamente ellenistico, 74 Momigliano, op. cit. (nota 71), p. 61 (“one of the most emotional reactions of the Greeks to the impact of an alien society”). Cfr. Rankin, op. cit., p. 83 sgg.; Kruta, op. cit. (nota 10), pp. 240-250. 75 Rinvio alla ottima sintesi di P. Moreno, Pergamena arte, in eaa , ii suppl., 4 (1996) e, per i dati storici, a K. Strobel, Keltensieg und Galatersieger, in Forschungen in Galatien, Bonn, 1994, pp. 67-96. 76 F.-H. Massa-Pairault, in I Galli e l’Italia, cat. della mostra, Roma, 1978, pp. 197-202; Eadem, Iconologia e politica nell’Italia antica: Roma, Lazio, Etruria dal iv al i secolo a.C., Milano, 1992, pp. 228-230, fig. 213 sg.; Höckmann, op. cit. (infra, nota 85), p. 212 sgg.; M. J. Strazzulla, in eaa , ii suppl., 2 (1994), s.v. Civitalba. 77 E. Ducci, «StEtr», 55 (1987-1988), pp. 147-152 (gruppo di frammenti a metà del vero); Massa-Pairault, op. cit., pp. 224-227. 78 R. Stuart Teitz, Masterpieces of Etruscan Art, Worcester, 1967, p. 100 sg., n. 93, fig. a p. 193, con bibl. 79 Hafner, art. cit., p. 43 sg., tav. 13.

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che evoca il ritratto di Antistene, recentemente riferito a Phyromachos,80 e lo stesso Galata suicida del primo donario di Attalo. Si potrebbe pensare a una derivazione dal donario di Filetero, innalzato nel 263 a.C. a Delo per la vittoria ottenuta sui Celti a Cizico quattordici anni prima, opera dell’ateniese Nikeratos, di cui ci resta la base iscritta.81 Di sicuro la testa offre quello che è forse il miglior confronto iconografico per il Gallo con torques raffigurato sul dritto dell’aes grave anepigrafe di Rimini (Fig. 16), fuso immediatamente prima del 268 a.C. dalla locale comunità umbra, o, più probabilmente, poco dopo quella data dalla colonia latina appena dedotta.82 Dopo queste prime avvisaglie alto-ellenistiche inizia nell’Etruria settentrionale, con epicentro a Chiusi, la produzione di sarcofagi e urne funerarie, decorate con rilievi aventi per tema una disfatta dei CelFig. 15. ti, ambientata o in campo aperto, o in un santuario ricco di preziose suppellettili che i barbari sono intenti a saccheggiare, o in una combinazione per così dire delle due situazioni. Produzione che in un secondo momento si estende alle urne di Volterra e, ancor più marginalmente, a quelle della periferica Perugia, coprendo nel complesso un arco cronologico che dalla metà del iii arriva, fortemente assottigliandosi dopo il 200, fino al 170-160 a.C. Le date sono quelle acquisite dalla più aggiornata ricerca in materia, i cui bilanci sono reperibili nel catalogo della mostra di Volterra del 1985, curato da A. Maggiani, e negli atti del convegno di Chianciano Terme del 1989, in cui chi vi parla si è occupato della produzione dei sarcofagi, stranamente fino allora poco esplorata in confronto a quella delle urne.83 Le ricerche del Maggiani e mie si sono mosse sulla linea, inaugurata negli anni ’50 con strumenti ancora imperfetti da J. Thimme,84 basata sulla valorizzazione non solo dei corredi di accompagno e della struttura delle tombe, ma anche dei dati genealogici forniti dalle iscrizioni e della distribuzione spaziale di sarcofagi e urne all’interno delle 80 Cfr. B. Andreae, in eaa , ii suppl., 4 (1996), s.v. Phyromachos. Affine anche la testa di Asclepio attribuita allo scultore (ibidem, fig. 479). 81 Moreno, art. cit., p. 309. 82 N. Parise, in Italia omnium terrarum parens, Milano, 1989, pp. 591-593, figg. 370-375; F. Catalli, Monete dell’italia antica, Roma, 1995, p. 98 sg., figg. 294-299. 83 Artigianato artistico. L’Etruria settentrionale interna in età ellenistica, cat. della mostra di Volterra, a cura di A. Maggiani, Milano, 1985, spec. pp. 32-61 e 74-122; G. Colonna, I sarcofagi chiusini di età ellenistica, in La civiltà di Chiusi e del suo territorio (Atti del xvii convegno di studi etruschi e italici, Chianciano Terme 1989), Firenze, 1993, pp. 337-374 (di seguito Colonna, 1993) 84 J. Thimme, Chiusinische Aschenkisten und Sarkophage der hellenistischen Zeit. Ein Betrag zur Chronologie der etruskischen Kunst, «StEtr», 23 (1954), pp. 25-147; 25 (1957), pp. 87-160. Su questa linea già G. Colonna, Per una cronologia della pittura etrusca di età ellenistica, «DialArch», s. iii, 2 (1984), pp. 1-24.

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Fig. 16.

tombe a camera. Dei risultati di questa ricerca molti studiosi continuano a non tenere conto, restando fedeli a una lettura puramente stilistica e iconografica dei monumenti, oltre che a pregiudiziali storiche non vincolanti nella loro genericità. Cito per tutti il saggio di U. Höckmann, che fin dal titolo privilegia il ii secolo a.C. come termine cronologico di riferimento, forzando la prospettiva in cui vanno posti i monumenti e creando un falso problema, quello della sfasatura cronologica tra le guerre galliche e la produzione delle celtomachie.85 Al momento attuale possiamo dire che il tema della battaglia, frequente nel repertorio dei sarcofagi tarquiniesi della seconda metà del iv e della prima metà del iii secolo, ma in chiave esclusivamente epica o mitologica, fa la sua apparizione nel repertorio funerario dell’Etruria settentrionale con il sarcofago chiusino d’alabastro scoperto dal François, pertinente a una donna che resta anonima, vicino stilisticamente al noto sarcofago dell’Obeso del Museo di Firenze e databile poco dopo di esso, verso il 260 a.C.86 L’iconografia è ancora quella tardo-classica e alto-ellenistica, propria delle battaglie di Alessandro, per cui i soccombenti non sono esplicitamente identificati come Celti. Lo stesso accade in una numerosa serie di urne, tutte chiusine e tutte tagliate anch’esse nell’alabastro locale, che ha alla sua testa l’urna più antica della tomba dei Matausni (Fig. 17).87 La completa nudità e soprattutto la grande corporatura del caduto in posizione centrale, visto di dorso, che sulle urne viene calpestato dal cavaliere trionfante, denotano tuttavia come dietro la genericità della battaglia vada facendosi strada, un poco alla volta, il tema della celtomachia, caro ai committenti chiusini. Sia il sarcofago François che le urne iconograficamente ad esso connesse sono infatti opera di scultori locali, di

85 Gallierdarstellungen in der etruskischen Grabkunst des 2. Jahrhunderts v. Chr., «JdI», 106 (1991), pp. 199-228 (per la cronologia spec. pp. 204-206: 200-125 a.C.) (di seguito Höckmann, 1991). In precedenza la stessa autrice aveva proposto una cronologia ancora più bassa: (175-125 a.C.: Akten des xiii . Internationaler Kongress für klassische Archäologie, Berlin 1988, Mainz, 1990, p. 376 sg.), incontrando l’immediata approvazione di T. Hölscher (ibidem, p. 81 sg.). La cronologia della Höckmann è accettata da Holliday, art. cit. (nota 39), p. 30 sgg. 86 Colonna, 1993, pp. 346 sgg., 372 sg., ma spec. p. 349 sg., tav. ix, b-c. 87 Colonna, 1993, p. 350, tav. xi, a.

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Fig. 17. Fig. 18.

vario livello, evidentemente sollecitati dalla committenza, che annovera gentes di tutto rilievo, a giudicare dalle tombe, come i Matausni, i Purni e i Sentinate. Gentes desiderose di celebrare le proprie gesta, vere, presunte o forse solo auspicate, compiute militando nelle file dei socii di Roma, dalla guerra di Pirro a quella annibalica. Come risulta dalla cronologia che, anche sulla base della tipologia e della iconografia dei defunti sdraiati sul coperchio, scagliona questi monumenti dalla metà, come si è detto, a non oltre la fine del iii secolo a.C. I demoni catactonii Charu e Vanth, regolarmente presenti sulla maggioranza delle urne, comprese quelle più tarde di questa serie,88 significano che le battaglie hanno assunto, in una prospettiva religiosa perfettamente normale per dei monumenti funerari etruschi, il ruolo di un sacrificio cruento, in cui i soccombenti fungono da vittime immolate ai Mani del defunto e della sua gens.89 Il che è confermato nel modo più esplicito dall’urna n. 6 della tomba dei Matausni, in cui gli infelici stritolati dal gigantesco Tritone, trasparente simbolo della morte, sono per l’appunto due guerrieri celti, stranamente non riconosciuti dal Thimme nonostante la nudità, le armi e soprattutto i lunghi capelli gettati in massa compatta all’indietro, come già nel Pittore di Londra F 484 (Fig. 18).90 Una vera e propria celtomachia, immediatamente riconoscibile come tale, fa il suo ingresso verso il 250-240 a.C. nel repertorio chiusino col notissimo sarcofago di Laris Sentinate Larcna, scoperto dal Sozzi nei poderi del vescovo di Chiusi.91 Opera di uno scultore a quanto sembra proveniente dall’Etruria meridionale, probabilmente da Tarquinia, al quale si deve la prima, incisiva svolta stilistica in senso ‘ellenistico’ nella produzione chiusina di sarcofagi e urne, anche fittili, come prova la stupenda urna da Vigna Grande a Worcester con battaglia mitologica a lui ascrivibile.92 Il maestro utilizza abilmente cartoni ispirati a pitture celebrative della respinta invasione celtica della Grecia 88 Mi riferisco a Höckmann, 1991, p. 229 sg., nn. 25, 27, 29-32. 89 Cfr. supra, nota 39. 90 Thimme, art. cit. (1954), p. 77 sg., fig. 25; Colonna, 1993, p. 356, tav. xv, b. 91 Colonna, 1993, pp. 351-353, tav. xiii, a. 92 Colonna, 1993, p. 352, tav. xiv, a.

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Fig. 19.

centro-settentrionale, inserendovi il motivo dell’anziano capo che accorre sul campo guidando il suo carro (Fig. 19), nonché la miracolosa partecipazione alla battaglia di un demone emergente dalla terra, come si narrava avesse fatto Neottolemo a Delfi uscendo dalla sua tomba.93 Allo stesso maestro, o comunque alla sua bottega, si deve l’urna di Larth Afuni conservata a Siena,94 che offre il primo esempio di combinazione del tema della battaglia, anodos del demone compresa, con quello del saccheggio di un santuario, di cui appresso si dirà. Il sarcofago del Sentinate Larcna inaugura la serie, numerosa e piuttosto omogenea, delle celtomachie raffigurate sulle urne, normalmente ridotte a poche figure e tutte iconograficamente imparentate tra loro, quasi esclusivamente chiusine e scolpite nell’alabastro.95 Pressoché costante è la partecipazione a pieno titolo alla battaglia di almeno un demone armato, che nella maggior parte dei casi è una Vanth, brandente una spada o talora una fiaccola. Un posto di spicco, sul piano della qualità, spetta alle urne dei due Seiante, probabilmente fratelli, poste l’una a fianco dell’altra nella camera principale della tomba della Pellegrina e databili verso il 230-220 a.C. (Fig. 20).96 In quella qualitativamente più pregevole e forse più antica, che è la n. 5, i Galati impugnano la spada con presa a globuli e hanno la vita, almeno nel caso del gigantesco oppositore del cavaliere,

93 Paus. 1, 4, 4. 94 Höckmann, 1991, p. 229, n. 24. 95 La lista della Höckmann ne annovera dodici (p. 226 sgg., nn. 11-23), contro una sola volterrana, di tufo, che è il suo n. 21. 96 Thimme, art. cit. (1954), p. 108 sgg., nn. 4 e 5; Höckmann, 1991, p. 227, nn. 14 e 15, tav. 50, 1-2; Per la cronologia: A. Maggiani, «AnnMusFaina», 4 (1990), p. 213 (i due Seiante fratellastri del Cae Sentinate dell’urna n. 3); Colonna, 1993, p. 356 sg.

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Fig. 20.

cinta dalla tipica catena portaspada (Fig. 21). La raffigurazione compositivamente più complessa è ovviamente quella del monumentale ma purtroppo mal conservato sarcofago anepigrafe Giulietti del museo di Firenze, non anteriore al 210-200 a.C., in cui si affollano ben quattordici figure sommariamente delineate, in una palese rielaborazione dello stesso cartone pittorico che è alla base del sarcofago del Sentinate Larcna, con l’aggiunta del tutto convenzionale, in termini compositivi, di due Vanth dadofore poste a chiudere lateralmente il lungo fregio.97 Negli stessi anni in cui la tomba della Pellegrina si arricchiva delle urne dei Seiante un maestro chiusino ancor più dotato scolpiva la migliore, che probabilmente è anche la più antica, conservata a Firenze, delle quasi venti urne decorate rinvenute nella tomba dei Purni nell’agro di Città della Pieve (Fig. 22).98 Abbiamo in essa una battaglia nitidamente disegnata, a rilievo piuttosto basso, in cui i demoni sono assenti e i soccombenti, nudi come due dei loro avversari, portano la spada appesa al balteo come i Greci e imbracciano scudi che per due di essi sono rotondi. Che si sia voluto raffigurare una celtomachia è comunque provato, a prescindere dalle controverse raffigurazioni dei fianchi dell’urna con l’accecamento di un guerriero e il suicidio del compagno, dal torques ben visibile sul collo di due dei soccombenti e dallo scutum imbracciato da quello di sinistra. È questa la più ellenizzante delle celtomachie etrusche, in cui il motivo del soccombente inginocchiato su uno scudo visto di scorcio, posto al centro della composizione (Fig. 23), ha un ovvio precedente nel gruppo del Galata morente e del Galata suicida del Grande Donario, commissionato da Attalo i all’indomani della vittoria alle 97 Höckmann, 1991, p. 226, n. 8, tav. 46, 2; Colonna, 1993, p. 354 sg., tav. xvii. 98 Bieńkovski, op. cit. (nota 11), pp. 80-82, figg. 90-92; Thimme, art. cit. (1957), p. 127 sg., n. 12; Holiday, art. cit. (nota 39), p. 31 sg., figg. 5-7.

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Fig. 21.

Fig. 22.

Fig. 23.

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Fig. 24.

sorgenti del Caico, verso il 240 a.C.99 In questo caso, peraltro, il tema del guerriero caduto in ginocchio accanto all’assalitore che lo sovrasta rinvia più specificamente al donario offerto a Pergamo in onore di Attalo i dal suo generale Epigene per una vittoria sui Galati e su Antioco (Hierax), come recita l’iscrizione della base.100 Donario forse replicato a Delo, dove pure ci resta una base iscritta ad esso riferibile e da dove proviene il Galata ferito conservato al museo di Atene, recentemente ad esso attribuito contro la precedente datazione tardo-ellenistica.101 Nello stesso filone iconografico, in cui i Galati sono esteriormente assimilati ai loro vincitori, si pongono, a vario livello, almeno altre tre urne chiusine, delle quali una dalla stessa tomba dei Purni e un’altra di una donna dal significativo gentilizio Sentinati.102 Il tema tuttavia che prevale sullo scorcio del iii, restando praticamente senza concorrenti man mano che si scende nei primi decenni del ii secolo, è quello del saccheggio di un santuario da parte dei Celti, interrotto dall’intervento divino che massacra o mette in fuga i saccheggiatori. In proposito è da rilevare che già il maestro del sarcofago del Sentinate Larcna aveva raffigurato sul sarcofago Casuccini a Palermo la ‘battaglia in un santuario’, poi ripresa da altro scultore sul sarcofago di Vel Arntni al museo di Chiusi,103

99 F. Coarelli, Da Pergamo a Roma. I Galati nella città degli Attalidi, Roma, 1995. 100 Holiday, art. cit., p. 33 sg., fig. 9; Moreno, art. cit. (nota 75), p. 310. 101 Moreno, art. cit., p. 312, fig. 421. 102 Bieńkovski, op. cit., pp. 80-83, nn. 38, 40 e 42, delle quali il n. 38 corrisponde a D. Levi, Il Museo civico di Chiusi, Roma, 1935, p. 52, n. 753, fig. 26; Thimme, art. cit. (1954), p. 129; il n. 40 a Thimme, art. cit. (1957), p. 125 sgg., tav. iii, 3. 103 Colonna, 1993, p. 351, tav. xiii, b, e p. 354, tav. xvi, a-b.

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Fig. 25.

ma non aveva connotato gli assalitori né come Celti né come predoni. Ciò avviene più tardi, quando il tema si insinua in quello della celtomachia, come appare nell’urna già ricordata di Larth Afuni a Siena, con la quale siamo all’inizio dell’ultimo quarto del iii secolo.104 Tuttavia è solo con l’urna chiusina Firenze 81692 che i Celti, fedelmente raffigurati nelle loro caratteristiche fisiche e di armamento, sono sbaragliati quando già appaiono onusti di prede (Fig. 24),105 esattamente come accade, oltre che nei fregi di Civitalba e forse di Arezzo, su un gruppo di patere calene a vernice nera, almeno in parte più antiche sia delle urne che delle terrecotte.106 Affine, ma più sommaria è l’iconografia dei predoni nell’affollata urna di Larth Velu, posta nella cella sinistra della tomba della Pellegrina e spettante, per il cambio di gentilizio, a chi aveva ereditato la tomba dopo l’ultima generazione dei Sentinate, quindi non prima del 210-200 a.C.107 Ancora più modesta è la qualità dell’urna Firenze 5797, di iniziale ii secolo, nella quale il tema della celtomachia è contaminato goffamente con quello del saccheggio.108 È questa, assieme alla battaglia lasciata incompiuta e sostituita da altro tema sul sarcofago di Vel Tlesna (200-190 a.C.),109 l’ultima testimonianza di Celti e di celtomachie restituita da Chiusi. A Volterra, dove la produzione di urne si sviluppa soprattutto nel corso del ii secolo, le raffigurazioni di Celti sono di gran lunga più rare e sporadiche che a Chiusi, oltre che recenziori.110 Le più antiche sono alcune modeste urne in tufo della fine del iii-inizio ii 104 Cfr. nota 94. 105 Höckmann, 1991, p. 224, n. 2, tav. 45, 1. 106 Höckmann, 1991, pp. 208-210, con bibl. 107 Höckmann, 1991, p. 224, n. 1. 108 Höckmann, 1991, p. 226, n. 9, tav. 49, 1. 109 Colonna, 1993, p. 359 sg. 110 Nell’elenco della Höckmann solo 5 urne sulle 30 schedate, ossia 1 su 6, sono volterrane. Mentre da Chiusi vengono 22 urne e 2 sarcofagi, da Perugia solo 3 urne.

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Fig. 26.

secolo, raffiguranti il saccheggio e la profanazione di un santuario.111 Il tema ritorna, combinato con quello della celtomachia, in due urne di alabastro del secondo quarto del secolo, di alta qualità, in una delle quali, attribuita alla bottega delle Piccole Patere, compare il motivo del gigante celta contrapposto al cavaliere (Fig. 25),112 già incontrato nell’urna n. 5 della tomba della Pellegrina, mentre nell’altra, attribuita alla bottega delle Rosette e Palmette, la composizione è del tutto nuova (Fig. 26).113 Sono queste le ultime raffigurazioni di Celti che è dato incontrare nell’arte etrusca. Tiriamo le conclusioni. È indubbio che l’akmé delle raffigurazioni etrusche di celtomachia, includendo sotto questa etichetta anche il tema del saccheggio di un santuario, si pone non nel ii ma nella seconda metà del iii secolo, intorno al 220 a.C., in approssimativa coincidenza con l’ultima grande incursione gallica nell’Italia centrale, conclusasi con la sconfitta di Talamone. A introdurre il tema, sollecitando il ricorso ai modelli creati dalla coeva arte greca, sono, alla metà del secolo, le gentes chiusine che non hanno approvato l’alleanza etrusco-gallica ai tempi di Sentino e del Vadimone, a cominciare dai Sentinate, che per essere oriundi, come dice il loro nome, da un centro umbro posto a ridosso dell’ager Gallicus già tenuto dai Senoni saranno stati particolarmente sensibili al problema dei rapporti con i Galli.114 Gentes che forse hanno combattuto fin d’allora dal111 112 113 114

Höckmann, 1991, p. 224 sg., nn. 3 e 6, tavv. 45,2; 47, 1. Höckmann, 1991, p. 226, n. 10, tav. 51, 2; Steuernagel, op. cit., pp. 93 sg., 215, tav. 48, 1. Höckmann, 1991, p. 226, n. 10, tav. 51, 2. Rinvio alla comunicazione tenuta da A. Maggiani in questo convegno.

celti e celtomachie nell ’ arte etrusca

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la parte dei Romani e che sono comunque divenute ben presto fautrici dell’alleanza militare con Roma, le cui prime testimonianze, indirettamente fornite dall’archeologia, risalgono per noi al bellum Volsiniense del 265-264 a.C.115 In ogni caso non bisognerà aspettare la guerra siriaca e la pace di Apamea, quando oltre tutto la grande stagione delle vittorie pergamene sui Galati è già finita, perché i socii etruschi di Roma inizino a produrre le loro celtomachie. [Celti e celtomachie nell’arte etrusca, in La battaglia del Sentino (atti del convegno di CamerinoSassoferrato, 10-13 giugno 1998), a cura di D. Poli, Roma, 2002, pp. 163-187].

115 G. Colonna, in Mélanges à la mémoire de André Magdelain, Paris, 1998, pp. 109-122.

IL SANT UARIO DI PYRG I DALLE ORIGINI MITIS TO RIC H E AGLI ALTORILIEVI F RO N TO NA L I DEI SET T E E DI LE U C OT E A

L

o scavo del santuario di Pyrgi è iniziato esattamente quarant’anni fa, la mattina del 28 maggio 1957, col colpo di piccone che Massimo Pallottino volle fosse dato dal senatore Raffaele Ciasca, ed è stato portato avanti con continuità – a parte le inevitabili interruzioni del 1960 e degli anni dal 1972 al 19761 – fino ad arrivare nel settembre 1996 alla xxxi campagna, senza contare gli interventi di minore portata avvenuti in corso d’anno. Esso è il primo, in ordine cronologico, dei ‘grandi scavi’, condotti dall’Università di Roma La Sapienza usufruendo di una apposita concessione dello Stato, e si è svolto con la costante, generosa collaborazione della Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale e dei suoi funzionari. Sommando la durata delle singole campagne possiamo dire che si è lavorato sul campo per circa 40 mesi, senza tuttavia che lo scavo sia esaurito o prossimo alla conclusione: tanta è la dimensione dell’area da esplorare e la mole dei problemi da essa posti agli scavatori. Ciò detto, va subito aggiunto che molti traguardi sono stati raggiunti, molti risultati sono stati ottenuti, tra i quali primeggia il ritrovamento, la ricomposizione e il restauro, ormai felicemente concluso, del grande altorilievo mitologico, oggetto nell’autunno scorso della mostra tenuta nel vestibolo dell’Aula Magna della Sapienza,2 e oggi del convegno che ci vede qui riuniti. Con l’altorilievo, anzi, come si vedrà, con gli altorilievi dei Sette a Tebe lo scavo di Pyrgi ha restituito alla nostra ammirazione, come purtroppo sempre più raramente si verifica, un’autentica opera d’arte, unica sotto molti aspetti anche perché non decontestualizzata: mi auguro che si possa meglio capirla e valutarla grazie al contributo degli studiosi che hanno accettato di prendere parte a questo incontro e ai quali fin d’ora rivolgo un caldo ringraziamento. Così come ringrazio il Rettore Giorgio Tecce, che ha voluto la mostra, e gli Organi istituzionali della Sapienza, che hanno finanziato il convegno, oltre ad aver creduto nell’impresa di Pyrgi e ad averla sostenuta per tanti anni, il Preside Emanuele Paratore per il rinfresco che terrà dietro alla seduta di questa mattina, il collega Andrea Carandini che ci ospita nel Museo universitario dell’Arte Classica, la Soprintendente Anna Maria Moretti per l’ospitalità di cui godremo domani nella bella Villa Giulia, dove sta per essere riaperta, in altra e migliore sede, la sala di Pyrgi, il Sindaco di Santa Marinella Achille Ricci e il Direttore della Pro Loco di Santa Severa per la comprensione dimostrata nei nostri riguardi e per l’aiuto ricevuto nella organizzazione della visita di Pyrgi che faremo dopodomani. Non posso ringraziare ricordandone i nomi, perché sono una legione, tutti coloro che hanno contribuito con il loro lavoro e con la loro abnegazione al successo degli scavi, nel corso di questi quarant’anni: nomino soltanto Francesca Melis e M. Paola Baglione. Purtroppo manca Colui che ha concepito

1 Causate la prima dal mio anno di alunnato presso la Scuola archeologica italiana di Atene, la seconda dall’allestimento dell’Antiquarium (G. Colonna, L’Antiquarium di Pyrgi, in Musei e Gallerie d’Italia, 48, 1972, pp. 313) e dall’avvio del mio insegnamento di ruolo nell’Università di Bologna. 2 L’altorilievo di Pyrgi. Dei ed eroi greci in Etruria, a cura di G. Colonna, Roma, 1996.

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l’impresa di Pyrgi e l’ha diretta per oltre vent’anni, profondendo in essa le sue migliori energie, la propria sapienza e un’autentica passione di studioso. Mi riferisco di nuovo a Massimo Pallottino, il maestro di tanti di noi, alla cui memoria credo sia grato a tutti i presenti dedicare il convegno. Illustrare in maniera compiuta i risultati di uno scavo della complessità di quello di Pyrgi, nel quadro della relazione introduttiva ai nostri lavori, non è ovviamente possibile. Cercherò di riassumerli, soffermandomi sulle acquisizioni più recenti e meno conosciute, aiutato in questo da ciò che dirà M. Paola Baglione a proposito delle importazioni greche, anch’esse venute in luce soprattutto negli ultimi anni.3 La mia non sarà comunque una cronaca degli scavi ma una rivisitazione della storia del santuario in tutti i suoi molteplici aspetti, dalle origini alla massima espressione, non solo monumentale, che ne è stato il tempio A con i suoi altorilievi frontonali, sia di stile subarcaico che classico, lasciando da parte tutto ciò che è venuto dopo, specialmente nell’area Sud, che meriterebbe un lungo discorso. Possiamo oggi tentare di ricostruire questa storia sulla base di una somma ormai più che ragguardevole di dati archeologici, epigrafici, cultuali e anche paleoambientali, questi ultimi finora alquanto trascurati, tenendo conto fin dove possibile dei suggerimenti offerti dalla letteratura, che per le scoperte più significative è veramente imponente, grazie anche alla rara tempestività con cui, per merito di M. Pallottino, quelle scoperte sono state rese note.4 Tra natura, mito e storia: ubicazione e forma del santuario Fino al 1957 Pyrgi era nota agli studiosi solo per alcune iscrizioni latine, custodite fino al ’700 nel recinto del Castello,5 e per le belle mura in opera poligonale della terza maniera di G. Lugli, rimaste per un lungo tratto ben conservate e visibili, della colonia civium Romanorum di quel nome. Colonia fondata, in funzione antipunica, sul sito di quello che era stato l’unico epíneion, ossia l’unico scalo portuale ‘attrezzato’, dei Ceriti,6 devastato in occasione degli oscuri eventi di guerra che nel 273 a.C. avevano preceduto la confisca da parte di Roma di metà del territorio cerite e la conversione della restante

3 La relazione, più lunga del normale, fonde insieme, aggiornate nella bibliografia alla primavera 2001, le due tenute nel presente convegno e quella su «Eracle a Pyrgi e la mitistoria etrusca», tenuta nel novembre 1996 al convegno organizzato dall’École Française de Rome su Le mythe grec dans l’Italie antique, a cura di F.-H. Massa-Pairault, i cui atti sono apparsi a Roma nel 1999 (citati di seguito Le mythe grec). Nell’approntare l’apparato illustrativo mi è stata di particolare aiuto Barbara Belelli Marchesini, cui devo i disegni riprodotti alle figg. 12, 25, 27, 35-37). Sergio Barberini ha realizzato i disegni alle figg. 20, 32 e 44, oltre a tutte le carte e piante. A entrambi va il mio sentito ringraziamento. Devo la foto a fig. 26 alla cortesia di A. Naso, quelle alle figg. 18 e 21-23 alla Ny Carlsberg Glyptothek di Copenhagen, quelle alle figg. 38-42 alla Soprintendenza archeologica della Toscana, che ha eseguito il restauro finale dell’altorilievo. 4 Caso limite le lamine auree, scoperte nel luglio 1964 e a Natale già pubblicate, per di più in modo impeccabile. 5 «cil», xi, 1 (1888), 3710-3714. Le due di maggiore interesse, attinenti ai culti della colonia, sono riprodotte in Colonna, 1992, p. 114 sg., fig. 48 sg. L’unica di età repubblicana, relativa a un collegio di magistri e di ministri non sappiamo di quale culto, è venuta in luce nel dopoguerra («cil», i, 2, 4, 3338). Uso il termine Castello in riferimento al complesso del borgo murato medievale, chiamato nei secoli scorsi Casale o Fortezza di Santa Severa, includente al suo interno, in posizione eccentrica, la Rocca propriamente detta. Ricordo che al Casale, di proprietà dell’Ospedale romano di S. Spirito dal 1471, faceva capo il più esteso latifondo esistente sulla via Aurelia tra Roma e Civitavecchia (rubbia 2409, pari a circa 4452 ettari: cfr. F. Eschinardi, Descrizione di Roma e dell’agro romano, Roma, 1750, p. 340; A. Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de’ dintorni di Roma, iii, Roma, 1837, p. 95, con elenco dei 16 «quarti» in cui la tenuta era suddivisa). 6 G. Colonna, Die Göttin von Pyrgi (Akten des Kolloquiums, Tübingen 1979), Firenze, 1981 (di seguito Colonna, 1981), p. 18 sg., tav. vi sg., con bibl. La sovrapposizione della colonia è avvenuta, in realtà, solo sulla parte prossima al porto dell’abitato etrusco, che fu comunque per intero sgomberato e distrutto.

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metà, includente il capoluogo, in praefectura.7 Gli studiosi sapevano dell’esistenza del santuario dalle fonti letterarie greche e latine, che gli hanno riservato un’attenzione del tutto insolita per un santuario d’Etruria, dovuta al saccheggio infertogli da Dionisio i di Siracusa nel 384 a.C., poco prima del terzo conflitto che l’oppose a Cartagine.8 Ma pensavano, gli studiosi del secolo scorso e della prima metà del nostro, da L. Canina a H. Nissen e R. Mengarelli, che il santuario, fatto risalire da Strabone ai mitici Pelasgi, ossia ai fondatori preetruschi di Agylla-Caere, sorgesse alle spalle del porto e al riparo delle possenti mura in opera poligonale,9 sulle quali in Etruria l’ipoteca pelasga, com’è noto, ha gravato più a lungo che altrove, tramutandosi col tempo per Pyrgi in una non meno erronea attribuzione a Greci di epoca storica.10 E lo stesso probabilmente pensavano nel iv secolo d.C. Servio e il suo non meno autorevole interpolatore, quando del santuario, a differenza delle mura, da oltre 500 anni non era visibile sul terreno alcuna traccia. L’uno infatti affermava che Pyrgi era un castellum, quale appariva, allora come adesso, a chi percorreva la via Aurelia o navigava sotto costa, e l’altro aggiungeva che era stato expugnatum da Dionisio i, con implicito riferimento al santuario e agli eventi cui Pyrgi doveva la sua fama.11

7 Cfr. M. Cristofani, Atti del ii congresso internaz. etrusco, Firenze 1985, i, Roma, 1989, p. 168 sg.; M. Torelli, ibidem, p. 396. Di uno specifico contributo del Torelli, in stampa, dà notizia A. Carandini, Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, a cura di A. Carandini, R. Cappelli, Milano, 2000, p. 261 sg. 8 Fonti in Pyrgi 1959, pp. 261-263. Cfr. anche Pyrgi. Il santuario etrusco e l’Antiquarium, Roma, ed. De Luca, 1990, p. 13. 9 A questa conclusione era giunto il fondatore dell’archeologia pirgense, L. Canina («Ann.Inst.», 1840, pp. 34-44, spec. 42, tav. agg. F); dopo precedenti incertezze e contraddizioni che gli avevano fatto collocare il porto, e di conseguenza il santuario, che riteneva ad esso organicamente collegato, «nella parte orientale della torre di S. Severa, ove la spiaggia forma un piccol seno, ed ove un maggior fondo d’acqua si rinviene», in una posizione che di fatto si avvicina molto a quella rivelata dagli scavi (Descrizione di Cere antica, Roma, 1838, p. 48 sg., tav. i, dove è anche da notare il tracciato della via Caere-Pyrgi correttamente ricostruito) (Fig. 1). Alle conclusioni sbagliate del 1840 aderirono tra gli altri G. Dennis, The Cities and Cemeteries of Etruria, 2, London, 1848, rist. 1907, pp. 10-15 (anche nella edizione del 1878, rist. 1883, pp. 289-293, arricchita da una pianta derivata dal Canina) (Fig. 2); F. Barnabei, Le «Memorie di un archeologo», a cura di M. Barnabei, F. Delpino, Roma, 1991, p. 268 sg., figg. 148-151 (sopralluogo del 4 maggio 1882); R. Fonteanive, relazione ms. (su segnalazione di Giacomo Boni) alla Direzione Generale delle Antichità in data 3 maggio 1890 (Arch. di Stato, vers. ii, ser. ii, b. 443, fasc. 4873), in cui si dice che il castello «occupa una piccola parte dell’area chiusa dall’antico recinto, forse sul posto del tempio di Leucotea o Lucina»; H. Nissen, Italische Landeskunde, 2, 1, Berlin, 1902, p. 346 sg.; G. Tomassetti, La Campagna romana, 2, Roma, 1910, p. 539. Secondo il Dennis prima sarebbe stato fondato il santuario, poi il recinto murario per difenderlo, infine il porto (op. cit., p. 11, n. 1), ma se la dea era veramente Leucotea, e non Mater Matuta (come molti pensavano, sulle orme del settecentesco commento a Diodoro del Wesseling), allora la priorità andava al porto (ibidem, p. 12 sg., n. 4). Stranamente le mura di Pyrgi erano sfuggite alle pur accanite ricerche del fondatore della teoria pelasgica, L. C. F. Petit-Radel (1756-1836), a differenza di quelle di Cosa e di Saturnia (Recherches sur les monuments cyclopéens ou pélasgiques, Paris, 1841, pp. 220-226). 10 Infatti al mito dei Pelasgi (combattuto a suo tempo dal nostro G. Micali, e proprio a proposito delle mura di Pyrgi: vd. G. Colonna, «StEtr», 31, 1963, p. 155, n. 30) subentrò per Pyrgi quello di un insediamento autonomo, tardivamente conquistato dai Ceriti (A. Solari, Topografia storica dell’Etruria, 1, Pisa, 1918, pp. 124-128), identificato con una imprecisata colonia o emporio greco (così R. Mengarelli, «StEtr», 10, 1936, 84; Idem, Atti del iv convegno nazionale di Studi romani, Roma, 1938, p. 7, e in altri scritti), cui sarebbero appartenute le mura (così L. Ross Taylor, Local Cults in Etruria, Roma, 1923, p. 125), nella convinzione che «die griechischen Namen von Stadt und Göttin [Ilizia e Leucotea] bestätigen sich gegenseitig» (F. Altheim, Der Ursprung der Etrusker, Baden-Baden, 1950, p. 27 sg.). Lo storico L. Pareti arrivò ad affermare che le mura sarebbero state costruite dai Greci di Pyrgi «per difendersi contro le rivendicazioni dei Ceriti» (La tomba Regolini-Galassi nel Museo Gregoriano Erusco e la civiltà dell’Italia centrale nel sec. vii a.C., Città del Vaticano, 1947, pp. 23, 29), i quali avrebbero «preso» la città intorno al 570-550 a.C. (ibidem, p. 72). All’esistenza di una «colonia commerciale» greca aveva del resto prestato qualche credito lo stesso Pallottino (Gli Etruschi, Roma, 1939, pp. 86, 102). 11 Diversa l’opinione di D. Briquel, Les Tyrrhènes peuple des tours, Roma, 1993, pp. 201-207, che pensa per i due termini a una derivazione libresca da Filisto. Rinvio in proposito alla mia relazione al convegno su Etruria e Sardegna centro-settentrionale, cit. a n. 33. Cfr. anche l’intervento di Briquel, Le mythe grec, p. 125 sg.

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Fig. 1. Pyrgi e il suo territorio (L. Canina, 1838 [a n. 9]).

Gli scavi dell’Università di Roma hanno rivelato che il santuario si trovava a sud del Castello e iniziava a una distanza di quasi 300 metri dalla porta sud-est della colonia, da cui usciva la via che subito dopo si diramava in direzione di Caere e di Alsium. In termini urbanistici il santuario rappresentava la prosecuzione dell’abitato di epoca etrusca, che a differenza di quello romano si distendeva su un ampio tratto dell’arco costiero (Fig. 3). Anche se la saldatura tra città e santuario è avvenuta solo nella prima metà del v secolo, quando il nucleo originario di quest’ultimo, posto alquanto più a sud, è stato ampliato in direzione dell’abitato, pare certo, anche in considerazione dell’identità di orientamento delle strutture, che fin dal momento della prima pianificazione del comprensorio urbano, avvenuta intorno al 600 a.C., sia stato destinato al santuario l’intero

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Fig. 2. Pyrgi e il castello di S. Severa (G. Dennis, 1878 [a n. 9]).

spazio da esso progressivamente occupato alla periferia dell’insediamento. Il santuario era ubicato in pianura e pressoché a contatto della battigia, che è avanzata a sue spese, rispetto all’evo antico, di almeno 10-20 m, distruggendo ogni traccia della via litoranea diretta ad Alsium. Una collocazione così letteralmente ‘epitalassica’12 non trova confronti monumentali né in Etruria né altrove, a mia conoscenza, nel mondo antico, anche se non manca nella tradizione letteraria il ricordo di apprestamenti per il culto, per lo più altari, insistenti sulla riva del mare.13 12 Per riprendere un’espressione di M. Torelli, Il tempio greco in Sicilia. Architettura e culti, Catania, 1985, p. 87. 13 Vd. per es. quello sacro a Venere sul luogo dello sbarco di Enea (M. Fenelli, Bibl. topografica. della colonizzazione greca in Italia (di seguito «btcgi»), 8, Pisa-Roma, 1990, pp. 467, 487 sg.; G. Colonna, «Arch.Class.», 47, 1995, p. 2 sg., n. 7) e quello sacro ad Apollo dinanzi alle mura di Gela (Diod., 13, 108, 4: cfr. de Polignac, op. cit. a n. 35, p. 104). Santuari suburbani o extraurbani situati a livello e in prossimità, ma non a contatto con la spiaggia, sono in Italia il santuario di Gravisca (F. Boitani, in eaa , ii suppl., 2, 1994, s. v.), il lucus Solis Indigetis presso la foce del Numico (F. Castagnoli, Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Roma, 1981, pp. 157, 167 sg.; Fe-

Fig. 3. Pianta di Pyrgi con l’abitato, il santuario, il porto, la via per Caere e i diversi tracciati avuti dal fosso di scolo della retrostante pianura.

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Occorre d’altra parte riconoscere che manca una diretta connessione topografica tra il santuario e il porto,14 gravitando quest’ultimo sul versante opposto dell’insediamento. Infatti l’unico porto esistente a Pyrgi, che ad esso forse deve il suo stesso nome greco.15 È quello che possiamo definire un piccolo limèn kleistós, situato dinanzi alla Rocca, sul prolungamento verso mare della lieve emergenza su cui insistono sia il Castello che una parte della colonia. Il profondo ‘canale’ sottomarino ivi ancora ben visibile, scavato nel banco roccioso (‘panchina’) in direzione normale alla costa da un corso d’acqua pleistocenico, fu utilizzato, assieme al retrostante bacino, come approdo e riparo per le navi almeno a partire dal momento della urbanizzazione del sito, collocabile intorno al 600 a.C.16 Ristrutturato radicalmente in età romana, con opere che lo resero notevolmente più ampio ed efficiente,17 rimase in uso per tutto il medioevo e oltre, fino

nelli, art. cit., pp. 467, 487; Colonna, 1992, p. 115, n. 159), il santuario di Apollo Aleo a Punta Alice (J. de la Genière, «btcgi», 5, 1987, s.v. Cirò; R. Leone, Luoghi di culto extraurbani in Magna Grecia, 1998, p. 87 sgg.); il santuario del tempio dorico di Caulonia, che però era incluso nel perimetro delle mura (E. Greco, Magna Grecia, Roma-Bari, 1980, p. 104 sg.); l’Aphrodision di Locri nelle località Centocamere e Marasà Sud (M. Barra Bagnasco, I Greci in Occidente. Santuari della Magna Grecia in Calabria, Napoli, 1996, pp. 27-29; Leone, op. cit., p. 79 sgg.), i due santuari di Naxos contrapposti ai lati della foce del Santa Venera, in origine entrambi extramurani (C. Ciurcina, «Not.Sc.», 1984-1985 (1988), pp. 386-392, fig. 90; P. Pelagatti, «btcgi», 12, 1993, p. 281 sg.), il Koreion fuori le mura di Eloro (G. Voza, in eaa , suppl. 1970, s.v.). In Grecia basti ricordare, tra i molti esempi, il santuario di Hera Akraia a Perachora, quello di Apollo a Delo e soprattutto l’Heraion di Samo (H. Walter, Das griechische Heiligtum dargestellt am Heraion von Samos, Stuttgart, 1990, p. 11 sgg., fig. 15). 14 A differenza di quel che si verificava nel citato Aphrodision di Locri (M. Barra Bagnasco, Studi di archeologia classica dedicati a G. Gullini, Alessandria, 1999, pp. 1-189), nell’Heraion di Cuma (L. La Rocca, C. Rescigno, G. Soricelli, Studi sulla Campania preromana, Roma, 1995, pp. 51-79), nel santuario di Fortuna e Mater Matuta rispetto al portus Tiberinus (chiamato anche per questo a confronto con Pyrgi da F. Coarelli, Il Foro Boario. Dalle origini alla fine della Repubblica, Roma 1988 (di seguito Coarelli, 1988), p. 359, nr. 1) e forse nell’Heraion del Sele rispetto al portus Alburnus ricordato da Lucilio (M. Mello, «btcgi», 14, 1996, p. 302). Invece a Naxos, come a Pyrgi, il porto era piuttosto lontano dalla foce del Santa Venera e dai santuari connessi, anche se i primi coloni greci erano probabilmente sbarcati proprio in quella zona, come farà Ottaviano nel 36 a.C. ponendovi il campo (App., Bell. civ., 5, p. 454 sg.), sicché in essa sarà da ricercare l’altare di Apollo Archegete, se sorgeva sul luogo dello sbarco (T. J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford, 1948, p. 181 sg.; F. Cordano, Antiche fondazioni greche, Palermo, 1986, pp. 96, 105: penso all’area del santuario appena intravisto a O della foce, in proprietà La Musa). 15 P. Poccetti, in La Magna Grecia e il mare. Studi di storia marittima, a cura di F. Prontera, Taranto, 1996, p. 68. A un faro pensava il vecchio Th. Dempster (De Etruria regali, 2, Florentiae 1724, p. 87: Pyrgi a pharo sic dicta). 16 E forse da epoca notevolmente anteriore, anche se resta incerta la datazione delle «strutture» in roccia e dell’associato aes rude, rinvenuti negli anni ’80 in mare sul prolungamento dell’alveo a oltre 200 metri dal Castello (F. Enei, F. Gentile, Il Castello di Santa Severa, Santa Marinella, 1999 (di seguito Enei-Gentile), p. 12; A. Zifferero, in Leopoli-Cencelle. Le preesistenze, 1, a cura di L. Ermini Pani, S. Del Lungo, Roma, 1999, p. 89 sg.). Tipologicamente assai antiche sono anche le due àncore di pietra subtriangolari ricordate in Colonna, 1981, p. 19, n. 12. Sulle anfore arcaiche rinvenute sui fondali del porto cenni di Oleson, art. cit. a n. 17, p. 308, e di G. Colonna, Il commercio etrusco arcaico (Atti dell’incontro di studio, Roma 1983), Roma, 1985, p. 6, n. 14. 17 Colonna, 1981, p. 19, n. 12, con bibl. e pianta a tav. 3, rettificata, per quanto concerne il lato corto SO delle mura della colonia, in Colonna, 1992, fig. 1 (in base alla segnalazione di un tratto delle mura conservato nella cantina di una casa del borgo, in precedenza per noi inaccessibile: cfr. G. Colonna, in eaa , II suppl., 4 (1996), p. 684, con bibl.; B. Belelli Marchesini, La colonia romana di Pyrgi: le mura poligonali nella Legnaia del Castello, pieghevole edito dal Comune di Santa Marinella in occasione della Settimana dei BB.CC. del 1997, Santa Marinella, 1999, p. 52), nonché, per quanto riguarda il bacino interno del porto, nella pianta data qui a Fig. 3. Esso era infatti in antico alquanto più ampio di come appare oggi, poiché si estendeva non solo lateralmente, con il braccio delimitato a S dalla banchina in calcestruzzo scoperta nel 1974, adibito ad ormeggio (J. P. Oleson, «Journal of Field Archaeology», 4, 1977, p. 305 sgg., struttura B), ma anche verosimilmente sull’asse del «canale», in direzione del cortile da cui si accede alla Rocca e ai circostanti fabbricati. L’ingresso a questo bacino più interno si trovava tra la c.d. Torre Saracena, il cui primo impianto potrebbe risalire al ix secolo (G. M. De Rossi, Le torri costiere del Lazio, Roma, 1971, p. 42, 45), e la «torre» rettangolare romana in opera reticolata su base in opera quadrata di tufo (F. Castagnoli, L. Cozza, «pbsr», 25, 1957, p. 18, fig. i, nr. 4), adattata alla fine del xvii secolo a «caricatore» per i natanti addetti al trasporto del grano (cfr. n. 19).

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a circa la metà del xvii per le navi18 e fino ai primi decenni del xix secolo per piccoli natanti,19 venendo in parte surrogato dalla contigua insenatura scavata dall’erosione marina. Infatti al sommo della falesia, qui alquanto alta, appaiono in successione stratificata residui dello stoccaggio sia del minerale ferroso elbano (ematite), scaricatovi dalle navi fino agli inizi del xix secolo, sia del carbone di legna, successivamente esportato dalla tenuta, che ne produceva in abbondanza grazie agli immensi boschi disponibili.20 L’approdo appare nel complesso di gran lunga il migliore esistente sulla costa tra Ostia e Civitavecchia, sia nell’età antica che in quella moderna, quando a metterne in evidenza il significato strategico bastano le artiglierie di cui fu dotata la Rocca a cura e a spese del governo pontificio.21 A ciò si aggiunge che la pur lieve sporgenza della costa in corrispondenza del Castello segna il punto di arrivo di una corrente superficiale marina, che ha portato fino ad essa, e non oltre, la sabbia ricca di ferro (magnetite), caratterizzante le spiagge di Ostia, Fregene e Ladispoli,22 sì da fare di quell’esiguo promontorio il limite geografico tra le spiaggie a sabbia nera e quelle a sabbia gialla del litorale tra Ostia e Civitavecchia (le seconde inizianti con la moderna S. Severa, per la cui edificazione furono prescelti nel 1934 i terreni dell’Ospedale di S. Spirito situati a nord del Ca18 Quando il porto, fino allora atto ad accogliere quattro o cinque galere (Ph. Cluverius, Italia antiqua, 1, Lugduni Batavorum, 1624, p. 496), fu forse volutamente reso inagibile per il timore di attacchi pirateschi come quelli del 1642 e del 1643, che indussero a demolire le strutture portuali costruite solo qualche anno prima a S. Marinella (De Rossi, op. cit., pp. 39 sg., 43; P. A. Gianfrotta, Castrum Novum, Forma Italiae, vii, 3, 1972, p. 54, n. 2). Divenuto il porto di S. Severa impraticabile per le navi riacquistò qualche credito la vecchia teoria, già combattuta dal Cluverio e dall’Holstenio, della collocazione di Pyrgi nel territorio di S. Marinella (per esempio C. Fea, Storia dei vasi fittili dipinti…, Roma, 1832, p. 45. n. 3, e l’agnostico A. Coppi, «Diss.Pont.Acc.Arch.», 8, 1838, pp. 77-79), del tutto screditata dopo gli interventi del Canina (cfr. n. 9), ma non senza qualche strascico nella letteratura (come il riferimento a S. Severa, leggi Pyrgi, dei mosaici di Prato Rotatore, su cui «Bull.Inst.», 1843, p. 74 e Gianfrotta, op. cit., p. 50, nr. 52). 19 Nelle Memorie istoriche del Castello di Santa Severa di F. Tofani, risalenti al 1794 («asr», S. Spirito, b.1072, fasc. 512), si afferma, a proposito delle granaglie ammassate in enormi quantità nei magazzini del Castello, che «se ne può fare comodamente l’estrazione dalle navi straniere; e per maggior comodo dell’imbarco [che avveniva evidentemente per mezzo di barconi] vi è il caricatore astricato [sic] sulla riva del Mare» (p. 113). Il «caricatore» in questione va riconosciuto nella piattaforma insistente sui resti della «torre» portuale romana di cui alla nota precedente, definita «Fabbrica per uso dell’imposta del grano» nel Catasto Gregoriano del 1819, fig. 75, n. 76 (= n. 6 della mappa riprodotta in Enei-Gentile, p. 34). La legna – altra importante «voce» dell’export marittimo della tenuta, cui nell’800 si sostituirà il carbone – veniva invece caricata di preferenza agli Scoglietti dinanzi Furbara (come precisa la carta anonima del 1624, che è una sorta di portolano: Frutaz., op. cit. a n. 43, tav. 57), dove pure si hanno tracce di un antico approdo (D. Brusadin Laplace, S. Patrizi Montoro, «Origini», 11, 19771982, p. 376 sg., fig. 7 sg.). 20 La sovrapposizione stratigrafica del carbone al minerale di ferro, da me a suo tempo rilevata (Pyrgi 1959, p. 257 sg.), è da leggere alla luce delle informazioni fornite da Tommaso Tittoni (il futuro uomo politico e statista era, anche per motivi familiari, di cui a n. 59 sg., un ottimo conoscitore dei luoghi, elogiato per le sue esplorazioni geologiche sui «monti di Santa Severa» da Q. Sella, «Transunti R. Accad. dei Lincei», s. 3, 1, 1876-1877, pp. 66-68). Il Tittoni aveva osservato, in «Boll. della Soc. geologica italiana», 4, 1885 (1886), p. 351, che «sulla spiaggia dove approdano i battelli a caricare il carbone si trova un deposito di minerale di ferro colà scaricato dai bastimenti». Il minerale sarebbe stato quindi trasportato con bestie da soma «non solo ai forni della Lenta e del Mignone, ma anche alle ferriere di Bracciano, che fiorivano sul principio del secolo [xix]». Lo scarico del minerale avveniva per lo meno dalla fine del xvi secolo (G. Colonna, Pyrgi, 1970, p. 20) ed era forse allora indirizzato soprattutto alla ferriera dell’Ospedale di S. Spirito a Manziana (cfr. A. Zifferero, «StEtr», 57, 1991, p. 227, n. 50), mentre la ferriera degli Orsini a Bracciano era rifornita soprattutto dal porticciolo di Palo (ibid., p. 226 sg., n. 49; P. Toscano, M. Prezioso, in La miniera l’uomo e l’ambiente, a cura di F. Piola Caselli, P. Piana Agostinetti, Firenze, 1996, p. 223). Per le operazioni di carico e scarico ci si serviva del tratto di «falesia» antistante le mura della colonia (Tittoni, art. cit., p. 339). 21 G. M. De Rossi, op. cit., p. 43 sg.; Enei, Gentile, pp. 30 sg., pp. 54 sg., pp. 73 sgg. I cannoni erano sistemati sulla terrazza sommitale della Torre e soprattutto all’angolo SE del recinto del Castello, sull’apposito baluardo recante la scritta «Batteria» nella mappa del Catasto Gregoriano (ibidem, p. 34), rivolto sia verso il mare aperto che verso l’insenatura dove si sbarcava il minerale di ferro. 22 Vd. Zifferero, art. cit., p. 204, figg. 3-5, con bibl.

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Fig. 4. Mandibola di balenottera (Antiquarium di S. Severa).

stello non al fine di salvaguardare la zona archeologica etrusca, allora non conosciuta, ma per l’attrattiva offerta dalla spiaggia adiacente). Alla stessa corrente costiera va attribuito un fenomeno raro sulle rive del Mediterraneo, ossia l’arrivo di grossi cetacei, che le burrasche invernali hanno spinto più volte nel corso dei secoli ad arenarsi sulla spiaggia a sud del Castello o sugli scogli della vicina S. Marinella.23 Nel motivare l’ubicazione del santuario, e nel promuoverne la nascita, all’epoca della fondazione urbana di Pyrgi, pensiamo oggi che la responsabilità maggiore spetti non al ‘canale’ sottomarino esistente dinanzi al promontorio, ma a un diverso elemento naturale, in antico ritenuto strettamente complementare ai vantaggi dell’approdo nel determinare l’attrattiva di un porto, come leggiamo già nell’Odissea.24 Mi riferisco alla vena perenne d’acqua sorgiva, sgorgante al piede della collina (q. 21) che chiude a sud il paesaggio di Pyrgi, dotandolo di un buon osservatorio naturale, accresciuto in età moderna dalla costruzione sulla sua sommità, dove oggi sorge una casa colonica, della 23 Come risulta dal bilancio tracciato da V. Diorio, sulla scorta anche di informazioni avute da A. Guglielmotti, nella pubblicazione della balenottera recuperata nel 1866 («Atti Acc. Pont. Nuovi Lincei», 19, 1866, p. 196, n. 3, ristampato in La balenottera del Museo di Anatomia Comparata, Roma, 1994, di cui devo una copia alla cortesia del prof. Ernesto Capanna: vd. anche A. Guglielmotti, Storia della marina pontificia, 1, Roma, 1886, pp. 441-443). Abbiamo notizia di tali arrivi per il 1624, quando un esemplare si arenò tra S. Marinella e Capo Linaro e un secondo a S. Severa (vd. anche il raro opuscolo d’epoca, a stampa, citato in G. Tomassetti, op. cit., n. 9, p. 542, e in P. De Angelis, op. cit. a n. 26, p. 35: uno dei due cetacei potrebbe identificarsi col capodoglio del cui scheletro giunsero parti al Museo Kircheriano, ricordato da E. Capanna, in Athanasius Kircher. Il Museo del Mondo, a cura di E. Lo Sardo, Roma, 2001, p. 171, fig. 72), per il 1828 (a S. Severa, notizia del solo Diorio), per il 1866 (Balaenoptera physalus lunga quasi 20 metri, finita fra gli scogli a «la Selciatella fra la stazione ferroviaria di Rio-Fiume e S. Marinella» [V. Diorio, art. cit., p. 189], il cui scheletro fu esposto nel Museo dell’Orto Botanico dell’Università di Roma: V. Vespignani, Triplice omaggio alla Santità di Papa Pio IX nel suo giubileo episcopale offerto dalle tre romane accademie, Roma, 1877, sez. Belle Arti, p. 34; E. Capanna, I Musei dell’Università «La Sapienza», Roma, 1993, p. 109 sg., fig. 2) e per il 1956 (altra balenottera di cui restava parte della carcassa sulla spiaggia quando iniziammo nell’autunno i preliminari delle ricerche archeologiche: una mandibola, portata nell’Antiquarium di Pyrgi, vi è tuttora conservata come registro delle firme dei visitatori) (Fig. 4). Vanno aggiunti alla lista il capodoglio avvistato a Maccarese e arenatosi a Palo nel 1833 (nel 1834 per Guglielmotti), la cui carcassa è anch’essa pervenuta al Museo universitario romano (V. Diorio, art. cit., p. 197), e il cetaceo arenatosi nel 1282 «presso Civitavecchia» al tempo della occupazione angioina della città, il cui muggito, emesso prima di morire, fu considerato un presagio dei Vespri siciliani scoppiati subito dopo (A. Guglielmotti, op. e loc. cit.). L’esemplare di maggiori dimensioni risulta essere quello arenatosi a S. Severa nel 1624, lungo 91 palmi, ossia m 20, 22. 24 In quella sorta di identikit del porto ideale tracciato a proposito dell’isola antistante i Ciclopi «c’è un porto comodo, dove non c’è bisogno di fune … in capo al porto scorre acqua limpida, una sorgente sotto le grotte: pioppi crescono intorno» (Od. 9, 136-141: trad. R. Calzecchi Onesti).

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Fig. 5. Il recinto della Vigna murata di S. Severa, con il fontanile-abbeveratoio sulla sinistra.

Torretta di S. Severa.25 La vena ha favorito, assieme alla posizione riparata dai venti marini, l’impianto almeno dagli inizi del xvi secolo della grande Vigna murata di S. Severa,26 dinanzi al cui ingresso principale tuttora alimenta un non meno vetusto e imponente fontanile-abbeveratoio per gli animali (Fig. 5), distante circa 200 metri dal santuario (Fig. 6). All’epoca della fondazione della colonia la vena fu captata dai coloni con un acquedotto sotterraneo di cui la prospezione geofisica ha consentito di leggere perfettamente il percorso,27 sicché il rivo che ne traeva origine rimase praticamente inaridito. 25 Chiamata così per distinguerla dalla maggiore Torre di S. Severa, che sorgeva in piano nella località Macchiatonda, da cui ha finito col prendere il nome (G. M. De Rossi, op. cit., p. 46 sg., nr. 11), detta Torre dei Cavallari nelle carte geografiche dell’Holstenio e dell’Oddi (A. P. Frutaz, op. cit. a n. 52, tavv. 65, 72), evidentemente perché base logistica del drappello di cavalieri di stanza nel Castello (De Rossi, op. cit., p. 44). Entrambe erano parte del sistema difensivo della costa laziale, creato o ristrutturato nel 1568 per iniziativa di papa Pio v (P. Zampa, «Quad. dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n. s. 13, 1989, p. 48, n. 8, dove però si confonde la Torre di S. Severa col maschio della Rocca). La Torretta, fatta saltare dai Tedeschi nel 1943 alla pari della Torre (la si intravede sullo sfondo di una vecchia foto riprodotta in Il Lazio di Thomas Ashby, 1891-1930, 1, Roma, 1994, p. 45, fig. 2.5), assolveva a una funzione non solo di avvistamento ma anche di difesa nei confronti della Vigna sottostante, che era il podere di maggior pregio dell’intera tenuta di S. Severa (vd. n. seguente). 26 «Vi è una grandissima Vigna tutta murata, che fa ottimo vino e in buona quantità e bonissimi frutti», «una Vigna di S. Spir(ito) di pezze n. 40 circa, bonissima, che un anno per l’altro farà Botti 70 di vino, la quale netta da ogni spesa alla peggio rende un anno per l’altro Scudi 400», pari a più di un ottavo del reddito agrario dell’intero latifondo, di cui non sono conosciute altre vigne (relazioni mss. della seconda metà del xvi secolo, riportate da P. De Angelis, Santa Severa, antica Pyrgi, porto di Caere, Roma, 1963, rispettivamente pp. 48, 50). Ancora nel 1665 si mostrava ai visitatori del Castello «una gran cantina con molte botti piene» (memoria ms. citata da Enei-Gentile, p. 30). La casa-torre cinquecentesca ancora esistente all’interno del recinto della vigna (detto il «Rimessone» nel Catasto Gregoriano, mappa pp. 74-75, nrr. 165-177), è stata l’unico edificio esistente fuori del Castello nei suoi dintorni fino alla costruzione della Posta al bivio dell’Aurelia (1841). Dopo il 1870 la vigna fu estesa anche a O del recinto, arrivando quasi a toccare il gomito del fosso del Caolino, come risulta dalle vecchie redazioni della tavoletta igm 143 iii S.O. (Fig. 7). Nella zona, assai umida, saranno da localizzare anche le vigne, gli orti e le canapine menzionate nei documenti medioevali (donazioni del 1068 e del 1130: Enei-Gentile, p. 23 sg.). Per l’epoca romana è segnalata un’area di interesse archeologico nella metà verso mare del recinto, all’altezza del fontanile (registrata col nr. 342 sulla copia della tavoletta dell’igmi con annotazioni degli assistenti di R. Mengarelli, esistente presso l’archivio del Museo di Villa Giulia). 27 G. Colonna, La via Caere-Pyrgi, «Quad. Ist. Top. Ant. Univ. Roma», 4, 1968, p. 84; Colonna, 1992, p. 64, n. 5, fig. 2; Colonna, 1996a, pp. 345 sgg., fig. 1. La sorgente fu nuovamente captata, e anche questa volta con un condotto sotterraneo, nel 1791, per alimentare il fontanile allora costruito dinanzi alle mura del Castello. Fu tuttavia lasciato in funzione il vecchio fontanile-abbeveratoio, fronteggiante l’ingresso principale della Vigna, a lato della carrareccia che ricalcava l’antico percorso stradale per Caere (Fig. 5). La presenza del corso d’acqua aiuta a capire perché la più antica ed intensa frequentazione preistorica del litorale pyrgense, risalente fino al neolitico medio, sia avvenuta proprio nell’area del santuario (Pyrgi, 1970, pp. 267-274; Colonna, 1981, p. 14 sg.).

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Fig. 6. Veduta aerea del santuario e dell’area retrostante. La freccia segnala la posizione del paleoalveo separante le due aree sacre.

Invece in epoca etrusca esso confluiva in un fosso, scavato o comunque regolarizzato in occasione della urbanizzazione del sito, che attraversava in diagonale la pianura, drenandone i campi e proteggendo dalle alluvioni l’abitato del tempo, con un percorso spostato leggermente più a sud rispetto a quello del moderno fosso del Caolino. Ricevuta l’acqua della sorgente, il fosso piegava a gomito in direzione del mare, assumendo lo stesso orientamento del santuario e dell’abitato. Costruito l’acquedotto, esso perse anche l’altra e più importante funzione, quella di collettore, poiché i coloni, come appresso si dirà, ne spostarono probabilmente il tracciato a NO del nuovo abitato28 (Fig. 3), sicché finì col ridursi a un paleoalveo, che solo la prospezione geofisica è stata in grado di rivelare. La novità più importante scaturita dagli scavi dell’ultimo quindicennio è che il santuario messo in luce tra il 1957 e i primi anni ’80 si trovava immediatamente a nord del fosso di epoca etrusca e costituiva solo una parte, anche se per molti aspetti la principale, di un complesso assai più esteso, dislocato su entrambe le rive del corso d’acqua. Infatti appena a sud di esso è venuta in luce, a partire dal 1983, una seconda area sacra, l’area Sud, meno vasta dell’area Nord e priva dell’assetto monumentale di quella, ma in compenso assai meglio conservata, nei suoli e nelle strutture. Oltre infatti a non essere 28 Vd. infra, n. 52.

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Fig. 7. Parte della tavoletta 143 iii SO dell’igmi nella edizione 1894.

stata aggredita in età imperiale dalla sistematica ricerca di blocchi di tufo, che ha trasformato l’area Nord in una cava, essa è rimasta sempre a una quota più bassa dell’altra, così da non essere raggiunta dalle arature, venendo soltanto intaccata da alcuni canali di dre-

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naggio moderni. Attualmente possiamo pertanto dire che il santuario di Pyrgi si componeva fin dalle origini di due distinte ma pressoché contigue aree sacre, poste a cavallo del fosso di cui resta il paleoalveo. Nella loro massima estensione, raggiunta nella prima metà del v secolo a.C., le due aree si susseguivano lungo la spiaggia con una fronte di quasi 180 m, occupando una superficie di poco inferiore a un ettaro e mezzo, pari a circa un settimo dell’intera area urbana (Fig. 8). L’entità di tale superficie esclude da sola, e fin dalla fase pre-monumentale, il confronto con i santuari di campagna, costieri o no, cui si sono voluti ricondurre i suoi initia,29 ed eccede di molto anche la media dei santuari urbani o periurbani di Caere, del resto d’Etruria e dell’intera Italia centrale, avvicinandosi invece a quella dei santuari mediograndi del mondo greco, sia metropolitano che coloniale.30 Ognuna delle due aree accoglieva contemporaneamente, a partire dalla metà circa del v secolo, due templi o sacelli, più un buon numero di altari e di strutture accessorie. Se alle dimensioni, del tutto fuori misura per l’Etruria, aggiungiamo la fama di remota antichità che lo circondava, implicita nella pretesa fondazione pelasga, e soprattutto la favolosa ricchezza dei suoi arredi e dei suoi donarii, che avrebbe indotto Dionisio i a muoversi apposta da Siracusa per depredarlo, come fece per l’Heraion del Lacinio,31 non crediamo di allontanarci dal vero affermando che l’esistenza del santuario abbia avuto un peso determinante nel far accreditare a Pyrgi – la Pyrgi veteres di Virgilio32 – il ruolo storico, altrimenti difficilmente comprensibile, di metropolis. Non della pirateria etrusca, come a lungo si è creduto fraintendendo riduttivamente il conciso passo di Servio, già ricordato per la definizione del sito come castellum, ma dei Tusci, ossia dell’intera nazione etrusca,33 in una prospettiva mitistorica perfettamente appropriata per un santuario extraurbano che è arrivato ad avere funzioni e risalto poliadico, non diversamente dal santuario di Diana Tifatina nei confronti di Capua, dall’Heraion del Lacinio nei confronti di Crotone (da cui dista quasi quanto Pyrgi da Caere), dal santuario ericino di Afrodite nei confronti di Segesta34 e in generale dai santuari delle città definibili sotto questo aspetto come ‘bipolari’.35 29 Cristofani, 1996, pp. 61-63, e ora in questo volume. 30 Ferma restando la prossimità alla spiaggia, le dimensioni richiamano il già citato Heraion di Samo, sorto tra i due rami in cui si divideva il fiumicello Imbraso, mentre la dislocazione a cavallo di un fosso canalizzato trova il confronto più stringente nel pure già citato Aphrodision extramurano di Locri, quale si configura dopo i recenti scavi (M. Barra Bagnasco, «Ostraka», 3, 1994, p. 240, figg. 1, 2:Z), oltre che nel santuario di Apollo e Artemide a Eretria (Roma. Romolo, Remo, cit. a n. 7, p. 288 sg., con bibl.). 31 Non si spiega altrimenti la notizia che si sarebbe impossessato del celebre mantello di Alkisthenes, «esposto» in quel santuario, che avrebbe «venduto» ai Cartaginesi per 120 talenti (Ps. Arist., De mir. ausc., 96), verosimilmente a parziale sconto dell’indennità di 1000 talenti che fu costretto pochi anni dopo a pagare per chiudere il terzo conflitto con quelli (il che apre uno spiraglio sulla sorte finale di almeno una parte del bottino di Pyrgi!). Cfr. Kleine Pauly, 3, s. Kroton, p. 365 (G. Radke); A. Mele, Santuari della Magna Grecia in Calabria, Napoli, 1996, p. 237. Mi domando se quanto dice Cicerone sul saccheggio del santuario di Proserpina a Locri e sulla cinica battuta del tiranno nella navigazione di ritorno (De nat. deor., 3, 83) non si riferisca invece all’Heraion del Lacinio, tenuto conto dei buoni rapporti di Dionisio con Locri e dei vistosi lapsus nella denominazione dei santuari menzionati nel passo (cfr. Colonna, 1992, p. 98, n. 86, nonché A. Scarpa Bonazza Buora, Libertà e tirannide in un discorso siracusano di Diodoro Siculo, Roma, 1984, pp. 61-65). 32 Aen., 10, 184. 33 Serv., Aen., 10, 184 (nam illic [scil. Pyrgis] metropolis fuit). Cfr. D. Briquel, L’origine lydienne des Étrusques, Roma, 1991, pp. 235-248; Idem, art. cit., n. 11, p. 125 sg.; G. Colonna, Identità e civiltà dei Sabini (Atti del xviii convegno di studi etruschi e italici), Rieti-Magliano Sabina, 1993), Firenze, 1996, p. 109, n. 11; Idem, Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’età del bronzo finale e l’arcaismo (Atti del xxi convegno di studi etruschi e italici, SassariAlghero-Oristano-Torralba 1998), Pisa-Roma, 2001, c.s. 34 Nella prospettiva delineata da D. Musti, Gli Elimi e l’area elima fino all’inizio della prima guerra punica (Atti del secondo incontro di studio, Palermo-Contessa Entellina 1989), Palermo, 1990, p. 158 sg. 35 Cfr. G. Vallet, La città e il suo territorio (Atti del vii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1967), Napoli, 1970, pp. 91-94, e soprattutto F. de Polignac, La naissance de la citè grecque, trad. it., Milano, 1991, passim, spec. pp. 46-52, 87-94, 97 sgg., dal quale riprendo il concetto di città bipolare.

Fig. 8. Il santuario di Pyrgi dopo la campagna del 1996.

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Nel caso di Pyrgi il coinvolgimento mitistorico avveniva, riteniamo, nel quadro della teoria della provenienza lidia degli Etruschi divulgata da Erodoto, in concorrenza con la precedente attribuzione del medesimo ruolo fondante alla periferica Cortona, avanzata ovviamente nel quadro della teoria della provenienza pelasga, che Ellanico aveva divulgato ma che si ritiene risalga almeno ad Ecateo. A Pyrgi, in altre parole, e precisamente nell’area periferica occupata in età storica dal santuario, lambita dalla corrente costiera risalente il Tirreno e bagnata dall’acqua sorgiva tanto preziosa per la navigazione di cabotaggio, nonché punto di partenza, come diverrà evidente all’epoca della costruzione del tempio A, della via che portava alla città madre, è da ritenere che sia stato localizzato dai Ceriti lo sbarco dei Lidi di Tirreno, detto da Licofrone nipote di Eracle, i quali da Pyrgi avrebbero «fatto irruzione» su Agylla,36 mutandone il nome in *Kaiseraie >*Kaiserie > Caere.37 Il sacello beta e gli inizi del santuario Le strutture murarie più antiche attualmente note nel santuario sono venute in luce nell’area Sud (Fig. 9). Qui i saggi compiuti in profondità, specialmente negli ultimi tre anni, hanno consentito di accertare che il primo intervento dell’uomo è consistito nell’accumulo di un riporto di argilla gialla mista a sabbia di uguale colore, approssimativamente parallelo al fosso e quindi diretto da nord-est verso sud-ovest. Sul leggero dosso così ottenuto è stato edificato il sacello più antico che, contrariamente a quello che si era inizialmente ritenuto,38 è il sacello beta, rivolto a sud-ovest come poi lo saranno i templi dell’area Nord. La pianta, faticosamente leggibile a causa della precoce demolizione e spoliazione, avvenuta nella fase di iv secolo a.C., è quella di un piccolo edificio più largo che lungo (m 6,50 × 5,50), comprendente due celle affiancate di diseguale larghezza, rivolte verso il mare, e un ‘vestibolo’ indipendente aperto in antis sul retro a mo’ di opistodomo, in direzione della sorgente e della via Caere-Pyrgi.39 Infatti da questa via, preesistente alla fase del santuario di cui discorriamo,40 verosimilmente si staccava all’altezza della sorgente un diverticolo che, costeggiando il fosso, portava al mare, consentendo l’accesso all’area sacra per chi veniva dal capoluogo. La pianta oblunga aperta 36 Lycophr., Alex., 1355 (echeggiato forse da Verg., Aen., 8, 478-480: cfr. D. Briquel, Le mythe grec, p. 126) e, per la discendenza eraclide, 1245 sgg. In una cornice ambientale analoga, lagune a parte, sarebbe avvenuto il già citato sbarco dei Troiani di Enea sul litorale latino (cfr. n. 13). La localizzazione a Pyrgi dello sbarco di Tirreno a mio avviso ha preceduto e aperto dialetticamente la strada alla teoria, dovuta probabilmente a Filisto, che faceva della città il luogo d’origine dei Tyrsenoi autoctoni, sulla base dell’equivalenza semantica tyrseis/pyrgoi. Cfr. Briquel, L’origine lydienne, pp. 201-213, e il secondo dei miei articoli citati a n. 33. 37 Da ultimo sulla forma etrusca del poleonimo A. Maggiani, Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino, Pisa-Roma, 1999, pp. 59-61. 38 Colonna, 1992, p. 84 sg. Cfr. ora Colonna, 1996b, p. 445 sg. 39 A parte il ribaltamento posteriore del vestibolo, il tipo architettonico è ben noto a livello funerario (tipo Prayon E), anche nella variante a vani diseguali, Vd. E. Berggren, K. Berggren, San Giovenale, i, 5, 1972, pp. 114-122, fig. 53 (Pontesilli 1: cfr. G. Colonna, Ultra terminum vagari. Scritti in onore di C. Nylander, Roma, 1999, p. 65, n. 64, fig. 16); F. Boitani, Archeologia nella Tuscia, Viterbo, 1982, p. 98, fig. 3 (Veio, M. Michele, tomba 9); F. Prayon, Frühetruskische Grab-und Hausarchitektur, Heidelberg, 1975, p. 74, tav. 87, nr. 32 (Vulci, Gsell, 79); P. Tamburini, «Ann.Mus.Cl.Faina», 2, 1985, p. 193 sgg., figg. 5, 6, 8, 12 (Grotte di Castro). A livello domestico cfr. L. Donati, La casa dell’impluvium, Roma, 1994, p. 11 sg., fig. 2 C; G. Camporeale (ed.), L’abitato etrusco del Lago dell’Accesa. Il quartiere B, Roma, 1997, p. 277 sg. (casa iii). 40 La via risale, nel tracciato a lunghi rettifili a noi noto, con carreggiata larga oltre 10 m, all’inizio del vi secolo a.C.: Colonna, 1981, p. 19 s., con bibl. Analoghe caratteristiche dimensionali, da tipica hamaxitòs, aveva a quanto pare la via Tarquinia-Gravisca (L. Quilici, in Atti del ii congresso internaz. etrusco, Firenze 1985, i, Roma, 1989, p. 462, nrr. 1º-11, fig. 3), di cui però non si conosce la data. Sul significato di tali vie come assi portanti del territorio delle città vd. de Polignac, op. cit. a n. 35, p. 51 sg., 109.

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Fig. 9. L’area Sud del santuario. Al centro il sacello beta.

a portico su uno dei lati lunghi dell’edificio costituisce una peculiarità, tuttavia non priva di confronti nell’architettura sacra dell’Italia tirrenica.41 Nel battuto tufaceo pavimentale della cella maggiore, posta a nord, giaceva, a titolo di offerta di fondazione, un paio di orecchini d’oro allacciati tra loro, di un tipo che si può considerare un precedente arcaico, ancora malnoto, degli orecchini a grappolo di iv secolo a.C.42 Nel corrispondente battuto della cella minore si trovava invece un’olpetta ionica verniciata solo sul collo, ossia un tipico vaso per libazioni di vino. Sembra assicurata la pertinenza del sacello a una coppia divina di sesso diverso, e precisamente alla coppia che le numerose iscrizioni vascolari di v-iv secolo finora rinvenute nell’area Sud consentono di identificare nel dio ±uri e nella dea Cav(a)tha,43 ospitati nello stesso edificio e venerati forse inizialmente entrambi sull’altare theta, antistante la cella minore, a così breve distanza da far pensare a una sua pur lieve precedenza cronologica. Al sacello può essere riferito un discreto numero di antefisse frammentarie a testa femminile di stile ionico, senza nimbo né diadema, databili intorno al 530 a.C., rinve41 Vd. un modello votivo di Minturno e soprattutto quello di Fratte (R. A. Staccioli, Modelli di edifici etrusco-italici. I modelli votivi, Firenze, 1968, p. 85 sg., tavv. 52 sg., 63 sg., nonché Fratte. Un insediamento etrusco-campano, a cura di G. Greco, A. Pontrandolfo, Modena, 1990, p. 98, fig. 144: le aperture triangolari dei lati corti alludono ovviamente a finestre, né sembra giustificata la tarda datazione proposta). 42 Colonna, 1996b, p. 445, n. 6, tav. 52, d-f. 43 Colonna, 1992, pp. 92-94, con bibl. Il corpus epigrafico, oggi notevolmente accresciuto (G. Colonna, D. F. Maras, M. Morandi, «StEtr», 64, 1998 [2001], pp. 369-422, nrr. 33-96), conferma l’assoluta preminenza delle due divinità nel pantheon dell’area Sud (ibidem, pp. 418-421).

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Fig. 10. Frammento di acroterio a testa di Acheloo dal sacello beta (serie più antica).

nute in giacitura secondaria in contesti assai disparati dell’area Sud e del tutto simili alla maggioranza di quelle, meglio Fig. 11. Acroterio a torso di Acheloo conservate, rinvenute anch’esse in giacidallo stesso sacello (serie recenziore). tura secondaria nell’area Nord.44 A queste antefisse, distribuite sui lati lunghi del tetto, si affiancavano in posizione angolare, bene in vista per chi aggirava l’edificio per raggiungerne la fronte, quattro straordinari acroteri di falda su cassetta dipinta, raffiguranti a più di due terzi del vero un torso di Acheloo a testa umana, corna, orecchie e corpo taurino, rampante con le zampe nel vuoto, nell’atto si direbbe di nuotare.45 Un unicum nel repertorio delle terrecotte architettoniche antiche, le cui teste spettano a due tipi diversi. Il più antico, noto solo da pochi frammenti (Fig. 10), è forse coevo alle antefisse,46 mentre l’altro, del 500 circa a.C. o poco dopo (Figg. 11-12), sembra essere stato prodotto, in un momento leggermente recenziore della propria attività, dalla stessa bottega cui si devono gli altorilievi del tempio B e le antefisse a figura intera, ad essi strettamente affini, di cui appresso si dirà.47 Rimangono inoltre resti numerosi, ma poco leggibili, di acroteri di colmo a figura di arieti e di torelli accosciati, privi anch’essi, come gli Acheloi, di adeguati confronti, tipologici e tematici, nel pur così ricco panorama della coroplasti44 Colonna, 1992, pp. 68 sg., 75, nn. 12 e 25, fig. 20; Colonna, 1996b, p. 445, tav. 52 b. 45 Il motivo ritorna sul coevo tripode vulcente dall’Acropoli di Atene (P. J. Riis, Vulcentia vetustiora, Copenhagen, 1997, p. 62 sgg., fig. 60 a-b; A. Naso, Die Ägäais und das westliche Mittelmeer (Akten des Symposion, Wien 1999), Arch. Forschungen, 4, 2000, p. 161 sg., fig. 183; Fr.-W. v. Hase, Röm.-Germanische Forschungen, 59, 2000, p. 186, fig. 10:1-2) (Fig. 26). 46 Colonna, 1996b, tav. 52 c. 47 G. Colonna, in Scavi e ricerche archeologiche dell’Università di Roma «La Sapienza», a cura di L. Drago Troccoli, Roma, 1998, p. 131, fig. 5. Per la definizione della bottega del tempio B: G. Colonna, Pyrgi 1970, pp. 402404; M. Cristofani, L’arte degli Etruschi. Produzione e consumo, Torino, 1978, p. 96, figg. 66-68; G. Colonna, Pyrgi 1988-1989, p. 186.

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Fig. 12. Veduta frontale ricostruttiva dello spiovente del sacello con l’acroterio di cui alla Fig. 11.

ca architettonica etrusca. Colpisce d’altra parte l’assenza degli altri elementi che sono normali per il tetto di un tempio etrusco arcaico, anche di ridotte dimensioni, quali le lastre di rivestimento dell’architrave e degli spioventi, le tegole di gronda decorate e le sime frontonali. Il risalto conferito alla figura mitologica di Acheloo, in misura francamente sproporzionata rispetto alla sua popolarità in Etruria, merita attenzione.48 Quasi certamente la presenza di quel Mischwesen sul tetto del sacello beta è da intendere non solo in una funzione apotropaica, in riferimento al pericolo di inondazioni cui erano esposti il santuario e lo stesso abitato, ma anche, e più specificamente, come un dovuto risarcimento al dio per la modifica apportata all’assetto naturale delle acque col tracciamento del fosso di cui resta il paleoalveo.49 Fosso cui spettava il compito di convogliare verso il mare le acque non solo della sorgente ma anche, e soprattutto, di un ampio bacino imbrifero, capace di rovinose alluvioni nei confronti dell’angusta pianura che s’estendeva alle spalle del santuario e della città antica, tra le pendici della Torretta, la stazione ferroviaria e le prime ville della moderna S. Severa.50 Non è forse inutile al riguardo una breve digressione sulle molte variazioni subite in epoca post-etrusca dall’assetto idrografico dei luoghi, con pesanti riflessi anche di carattere toponomastico (vd. lo specchio riassuntivo in Appendice). Vi è infatti motivo di ritenere, benché manchi una specifica ricerca in proposito, che il tracciato di epoca etrusca del fosso di cui si discorre, raccogliente con i due rami del suo corso superiore le acque defluenti dalle ripide alture argillose delle Terre Nuove 48 Sul dio, oltre alla monografia di H. P. Isler, Acheloos, Bern, 1970, e al contributo dello stesso in limc , 1, 1981, pp. 12-36, vd. per quanto riguarda Veio G. Colonna, «Scienze dell’Antichità», 1, 1987, pp. 437-441, e in generale E. Mussini, La diffusione dell’iconografia di Acheloo in Magna Grecia e Sicilia: tracce per l’individuazione del culto, «StEtr», 65, 1999 (2002), che sottolinea la distribuzione quasi esclusivamente costiera delle testimonianze. 49 Così come presso Megara si mostrava l’altare dedicato ad Acheloo dal tiranno Teagene (seconda metà metà del vii sec. a.C.) dopo aver deviato un corso d’acqua che minacciava la città (Paus. 1, 41, 2). 50 Come si è verificato più volte a nostra memoria negli anni ’70 e ’80, sì da rendere intransitabile l’Aurelia e da provocare l’allagamento sia dell’area dello scavo che del moderno abitato di S. Severa.

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(messe a coltura probabilmente nel xvii secolo),51 oltre che dal retrostante pianoro travertinoso di Pian Sultano (Fig. 7), sia stato deviato a NO del Castello, come già accennato, dagli stessi coloni romani, responsabili della captazione della sorgente della Vigna. Il motivo dell’operazione è abbastanza scontato: porre al riparo dalle alluvioni il nuovo insediamento col porto antistante, allora ristrutturato, e al tempo stesso drenare la bassura esistente a N e a O di esso, tra il bivio della via Aurelia e il sito della moderna Colonia Marina.52 Il fosso è rimasto in quella posizione, a parte secondarie correzioni di tracciato, fino alla seconda metà del xvii secolo,53 quando, venuta meno la preoccupazione di evitare l’interramento del porto, venne spostato sulla dorsale collegante in linea retta l’Aurelia al Castello, coincidente con l’ultimo tratto della via proveniente da Manziana (Fig. 3). Nella nuova posizione esso venne a trovarsi pochi metri a E tanto dello ‘stradone’ quanto dell’acquedotto costruito o forse solo ristrutturato negli stessi anni,54 che nel tratto in discorso correva sopra terra accanto alla strada (provenendo, alla pari del fosso, dalla derivazione del torrente Eri azionante la mola che serviva S. Severa).55 Il fosso reca sulle carte geografiche della fine del xvii e del xviii secolo il nome Castrica, in seguito non più attestato,56 mentre all’Eri le stesse carte attribuiscono il nome Carcari57 o, in alternativa, a partire dalla carta dell’Ameti 51 Forse dal Precettore Racagni all’epoca di Urbano viii (Enei-Gentile, p. 60). Compaiono come seminativi nel Catasto Gregoriano, che denomina Monterozzi la località. Sede di cave d’argilla e di fornaci di laterizi nel nostro secolo, lo furono anche all’epoca della colonia romana (G. Colonna, «StEtr», 31, 1963, pp. 152-155; A. Maffei, Caere e il suo territorio da Agylla a Centumcellae, Roma, 1990, p. 180). L’emergenza di q. 74 reca sulla carta archeologica ms. di cui a n. 26 il n. 401 e l’annotazione «Pagus etrusco con sovrapposizioni di villa romana». 52 Bassura forse occupata in antico da una laguna costiera, in cui si è proposto di riconoscere un bacino portuale, il che andrà verificato con lo scavo (B. Frau, ibidem, p. 319 sgg., fig. 425). In ogni caso la sua esistenza ha reso necessaria la sottofondazione del quadrante NO delle mura poligonali con una poderosa platea di blocchi di tufo di grandi dimensioni (G. Colonna, «Boll.Arte», 50, 1965, p. 126), per la quale è da escludere l’attribuzione, invero cautamente avanzata, a un preesistente circuito murario di epoca etrusca (Enei-Gentile, p. 57 sg., con fig.). 53 Come risulta dalla mappa del Catasto Alessandrino del 1661 (A. P. Frutaz, Le Carte del Lazio, Roma, 1972, tav. 96, di cui un particolare a colori è in Enei-Gentile, p. 30) e anche dalla veduta del Castello, dipinta nella seconda metà del secolo nel palazzo dei Commendatori di S. Spirito a Roma (ibidem, p. 31: il fosso è sulla destra, la veduta essendo presa dal lato di terra). Il fosso in questione reca nel Catasto Alessandrino il nr. 66 ed è definito nella rubrica a tav. 95 «Fosso sopra argini che trauersa la strada della mola di S.ta Seuera». La mola si trovava a quota 51 sul versante sin. del Fosso Eri, al margine della macchia di Pian Sultano e di fronte al casale oggi detto della Scaglia (cfr. la carta austriaca del 1851 in Frutaz, op. cit., tav. 291, e la prima edizione della tavoletta dell’igmi, ibidem, tav. 372). 54 Già da noi rilevato in Pyrgi 1970, 18, fig. 1 («antico acquedotto»). Sui lavori di ristrutturazione del borgo, iniziati già alla fine del ’500 (cfr. la veduta del Castello nell’affresco della chiesa parrocchiale: Enei-Gentile, p. 50) ma solennemente inaugurati solo nel 1633 da papa Urbano viii, vd. G. M. De Rossi, op. cit. a n. 17, p. 44 sg.; Enei-Gentile, pp. 29, 38, 48. In precedenza la strada di accesso correva obliquamente in direzione dello spigolo NO del Castello, con andamento grosso modo parallelo a quello del fosso. 55 Vd. per la mola a n. 53. La situazione descritta è registrata nella mappa del Catasto Gregoriano del 1819 (Enei-Gentile, p. 34), in cui il precedente tracciato del fosso sopravvive come ramo secondario, ma è già presupposta dalle carte di G. B. Cingolani (1692) e di G. F. Ameti (1696) (Frutaz, op. cit., tavv. 163 e 181). Il fosso proseguiva entro l’area della colonia rasentando il tratto E delle mura castellane e sfociando dinanzi all’ultima torre del recinto, dove fino a pochi anni fa il suo alveo era ben visibile in sezione sulla scarpata a mare (Colonna, 1981, tav. 6 b, a sin.). 56 Cfr. Appendice. Il nome è attribuito, a partire dalla carta anonima del 1624 (Frutaz, op. cit., tav. 57) e dal Catasto Alessandrino (ibidem, tav. 95, nr. 70), anche al fosso di Castelsecco presso S. Marinella. Penso possa trattarsi di un derivato tardo-antico di castrum (vd. nel lessico del Forcellini le voci castricius e castricianus), riferito a Castrum Novum e al Castrum di S. Severa, ricordato nei documenti medioevali (Enei-Gentile, p. 23 sg.). 57 Il nome, forse derivato da quello del giunco carex, è attribuito al fosso Eri nel Catasto Alessandrino e nella carta di i Mattei (Frutaz, op. cit., tav. 155). In età successiva lo troviamo esteso, nella variante Carcara, anche al tratto in pianura del Rio Fiume. Nell’uso locale l’idronimo Carcari sopravvisse per tutto il ’700, tanto che ancora per il Tofani (op. cit. a n. 19) Eri è soltanto un nome dotto, ritenuto con la vecchia tradizione umanistica una corruzione del Caeretanus (amnis) di Plinio e come tale riferito al fosso Vaccina di Cerveteri.

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(1696), il nome che porta attualmente (per l’innanzi riferito al maggior corso d’acqua della zona, chiamato modernamente Rio Fiume, forse per la paretimologia Heriflumen > *Erifiume > Rio Fiume).58 Il fosso Castrica assunse il percorso attuale, tornando ad avvicinarsi a quello di epoca etrusca subito dopo il 1870,59 ad opera dei Tittoni, facoltosi esponenti della borghesia imprenditoriale romana, divenuti latifondisti con l’affitto delle contigue tenute di S. Severa e di Manziana, ai quali si deve tra l’altro l’apertura della cava di pietra, incombente sulla gola dell’Eri di fronte alla ormai diruta Mola di S. Severa, a monte del casale detto ancor oggi della Scaglia.60 Invece per incontrare il nome di fosso del Caolino bisognerà aspettare gli anni Trenta di questo secolo, quando la cava iniziò a coltivare un giacimento appunto di caolino,61 sfruttato per la produzione di laterizi fin verso il 1980. Se gli acroteri a torso di Acheloo del più antico sacello dell’area Sud sono probabilmente in relazione con il pericolo sempre incombente delle alluvioni e con gli interventi di regimentazione messi in opera dall’uomo, come nel caso delle ‘Firstantefixe’ a maschera di Acheloo, così frequenti a Capua e a Fratte,62 è alle acque benefiche della vicina sorgente, responsabili dell’autentica nicchia ecologica rappresentata in età medioevale e moderna dalla Vigna, che sembrano invece rimandare le antefisse a testa femminile. È infatti praticamente certo che quelle teste, prive come sono di un partner maschile, sia nell’area Sud che nell’area Nord, raffigurino le Ninfe, ossia le antichissime divinità delle sorgenti, considerate figlie o sorelle di Acheloo e ad esso frequentemente associate nel culto e anche nella ‘decorazione’ dei tetti dei templi, indipendentemente dalle divinità che li abitavano.63 Un rapporto specifico, di dipendenza funzionale, dell’area Sud nei confronti della sorgente, in tutto l’arco della sua esistenza, è del resto suggerito dal

58 Colonna, art. cit.a n. 10, p. 150 sg. È legittimo chiedersi se a sua volta l’Heriflumen dei documenti medioevali non sia l’esito di una tautologia, del tipo Mongibello, Linguaglossa e forse Flumendosa (cfr. Poccetti, art. cit. a n. 15, p. 68, a proposito di portus Naustathmus di Plin., N. h., 3, 89), prodotta da una situazione di bilinguismo. In altre parole i parlanti etrusco, ancora maggioranza nelle zone interne, rimaste nella prefettura cerite, avrebbero «tradotto» nella loro lingua il nome Flumen, usato antonomasticamente dai coloni romani di Pyrgi e Castrum Novum. A favore dell’ipotesi che *heri significhi in etrusco «fiume» si può addurre l’idronimo Era del volterrano, la cui etruscità pare sicura (Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, 2ª ed., Torino, 1997, s.v.). 59 Come risulta dalla più volte citata tavoletta dell’igmi, la cui fascia costiera fu rilevata nel 1874 (fig. 3), nonché dal rinvenimento nel 1879 sulle sponde del fosso, a 40 metri dal mare, a seguito di una violenta mareggiata, di un «piccolo busto senza braccia, di fine lavoro e di aspetto magnifico, massime la testa che conservava la lucidezza dell’oro», del peso di un chilo e mezzo (a.s.r., Ministero della P.I., Direz. Gener. aa.bb.aa , Antichità e scavi 1860-1890, busta 149, fasc. 308: il pezzo – a quanto pare un aequipondium bronzeo di età romana – rimase in posseso dei fratelli Tittoni, né se ne conosce la sorte). Sul giovane Tommaso Tittoni, destinato a un brillante avvenire, vd. quanto detto a n. 20. 60 Cava allora raccordata con un apposito tronco a scartamento ridotto alla stazione della linea ferroviaria Roma-Civitavecchia, che era stata inaugurata nel 1859. Mi risulta che all’epoca dei Tittoni fu addirittura progettato un collegamento ferroviario S. Marinella (Rio Fiume)-Manziana, con eventuale diramazione per Tolfa. 61 Tomassetti, op. cit., ed. aggiornata a cura di L. Chiumenti, F. Bilancia, Firenze, 1979, p. 658, n. a. 62 Da ultimo P. Danner, Westgriechische Firstantefixe und Reiterkalypteres, Mainz, 1996, pp. 26-28, F 39-44; p. 41 sg., Fa 3 s., tavv. 11, 16, cui è da aggiungere Fratte: lavori in corso, (cat. della mostra), Salerno, 1997, p. 63 sg. Se Capua era minacciata dal Volturno, Fratte lo era ancora di più dall’Irno che scorreva impetuoso tra le montagne. 63 Rinvio alla prospettiva assai bene delineata da M. Mertens Horn, Una «nuova» antefissa a testa femminile da Akrai ed alcune considerazuioni sulle Ninfe di Sicilia, «Boll. d’arte», 66, 1991, pp. 9-28: Eadem, in eaa , ii suppl., 1, 1994, s.v. antefissa, p. 247, fig. 291. Cfr. anche G. Herderen, Silens, nymphs and «maenads», «jhs», 114, 1994, pp. 47-69. Si ricordi che alle Ninfe era fatta risalire la fondazione dell’Heraion di Samo (Menodotos di Samos, apd. Athen., xv, 671 E), già più volte citato per l’affinità dell’ambiente naturale. L’accostamento di una triade di ninfe e di un avancorpo di Acheloo ricorre sulle tavolette fittili del santuario di Grotta Caruso a Locri (E. Mussini, art. cit. a n. 48, n. 35 sg., fig. 3, con bibl.; Il museo naz. di Reggio Calabria, a cura di E. Lattanzi, Roma s.d., fig. a p. 79).

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fatto che nell’area finora non è venuto in luce nessun pozzo, mentre nel recinto dell’area Nord se ne contano quattro, e ben distribuiti (uno, assai capace, alle spalle del tempio B, uno nell’area C e due agli angoli anteriori del tempio A). È lecito pertanto supporre che nell’area Sud, non recintata, per i bisogni del culto si ricorresse all’acqua del fosso, o si andasse ad attingere direttamente alla sorgente. Anche nell’area Nord non mancano del resto probabili riferimenti all’acqua sorgiva, sia a livello mitologico (nel programma decorativo del tempio B, come si vedrà), sia a livello cultuale, se il graffito nex[- - -] si riferisce a Nethuns, dio in primo luogo delle acque terrestri, in Etruria come a Roma, che oggi sappiamo sicuramente venerato a Caere.64 La presenza così marcata di Acheloo e delle probabili Ninfe nell’apparato decorativo del più antico sacello dell’area Sud induce d’altra parte a riaprire il dossier non della ninfa Venilia madre di Turno,65 ma dell’oracolo di Tethys «in Tyrrhenía», di cui l’oscuro Promathion ricordava la consultazione da parte del re di Alba Longa Tarchetios, in una mal nota versione ‘etrusca’ della saga della fondazione di Roma, probabilmente non posteriore al v secolo a.C.66 Tethys è infatti nella Teogonia esiodea, come negli inni orfici, figlia della Terra e del Cielo, oltre che sorella e consorte di Oceano: dalla sua unione con quest’ultimo avrebbero tratto origine sia il mare che tutte le acque dolci, dato che la dea è detta madre non solo di Acheloo e degli altri innumerevoli fiumi terrestri, ma anche delle altrettanto numerose Oceanine, ninfe delle sorgenti.67 La localizzazione a Pyrgi dell’oracolo di Tethys, avanzata nel secolo scorso68 sulla base dell’ubicazione costiera del santuario, che è il primo in cui ci si imbatte a nord della foce del Tevere ed è situato nel territorio di una città legata a Roma da speciali rapporti di amicizia, acquista oggi una inattesa credibilità se rapportata specificamente all’area Sud, dato che ±uri è un noto dio oracolare etrusco, comunemente identificato con Apollo, oltre che con Dis Pater,69 e nell’area Sud è stato rinvenuto, in un contesto di offerte rivolte alla sua paredra Cavatha, un pacchetto di lamine a foglia di alloro, di 64 Il graffito, databile al iv secolo a.C., è edito da me in «StEtr», 35, 1968, p. 225, nr. 1 (cfr. Pyrgi 1970, p. 731, nr. 14). Poiché la lettera mutila sembra essere una t, occorre postulare la scrittura *Netuns, pienamente accettabile per un teonimo di origine italica (cfr. l’oscillazione Seıume/Setume nella resa dell’italico Septumos: G. Meiser, in La Tavola di Agnone nel contesto italico, a cura di L. Del Tuitto Palma, Firenze, 1996, p. 197 sg.). Sul pocolom da Caere col nome del dio: G. Colonna, «StEtr», 59, 1994, pp. 137-139. Sulle competenze di Neptunus: J. Scheid, «aion ArchStAnt», 2, 1980, pp. 46-48; A. Arnaldi, Ricerche storico-epigrafiche sul culto di «Neptunus» nell’Italia romana, Roma, 1997, passim. 65 Il cui rapporto con Pyrgi riposa solo sull’ardita e non verificabile restituzione di un passo corrotto degli Scholia Veronensia a Verg., Aen., x, 78 (R. E. A. Palmer, Illinois Studies in Language and Literature, 59, 1969, p. 303 sgg.). Sulla ninfa, considerata abitatrice del Lupercale, vd. ora A. Carandini, La nascita di Roma, Torino, 1997, p. 212, n. 99, passim. 66 Plut., Rom., 2, 4, col commento di C. Ampolo nell’edizione a cura dello stesso e di V. Manfredini, Verona, 1988, pp. 272-276. Cfr. J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris, 1961, pp. 312-314; A. Mastrocinque, Romolo, Este, 1993, pp. 61, 64 sg.; T. P. Wiseman, Remus: a Roman Myth, Cambridge, 1995, trad. ital., Roma, 1999, pp. 54-58. 67 Hes., Theog., 126-136, 337-370; Orph., Hymni, 22, ecc. Le fonti sono raccolte in Roscher, Lex., 5 (1917), pp. 394-398 (Höfer). Cfr. anche Wiseman, op. cit., p. 55, n. 107. Ricordo che per Platone (Cratyl. 402 cd) l’etimologia del teonimo, dai poeti usato metonimicamente per «mare» (p.e. Lycophr., Alex., 1069), ricondurrebbe al concetto di «sorgente». 68 Prima, dubitativamente, da K. O. Müller, W. Deecke, Die Etrusker, ii, 1877, p. 55 sg., poi con più decisione, da R. H. Klausen, Aeneas und die Penaten, ii, Hamburg-Gotha, 1840, p. 772 (che non escludeva Caere), e da E. Gerhard, Über die Gottheiten der Etrusker, Berlin, 1847, p. 25, n. 28. Cfr. anche L. Euing, Die Sage von Tanaquil, Frankfurt a. M, 1933, p. 24 sg.: Heurgon, op. cit., p. 314; J. Champeaux, «mefra», 102, 1990, p. 815 sg., che conclude con un non liquet. 69 G. Colonna, Les Étrusques, les plus religieux des hommes (Actes du colloque intern., Paris 1992), Paris, 1997 (di seguito Paris 1992), p. 176 sgg.; Colonna, 1996a, p. 354 sgg., con bibl., cui è da aggiungere A. M. Comella, «Ostraka», 2, 1993, p. 313 sgg.; Eadem, «StEtr», 64, 1998 (2001), pp. 419-421.

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bronzo o di ferro, con foro di sospensione alla base,70 in cui sono quasi certamente da riconoscere sortes oracolari. Va inoltre rilevato che nelle origini mitiche del più famoso Heraion dell’Occidente, quello già ricordato del Lacinio,71 oltre a Eracle ha una parte non secondaria Thetis, la madre di Achille, e in un ruolo insolito per una divinità marina, che fortemente evoca la nonna Tethys, con la quale di fatto risulta talora confusa72 o assimilata (già in antico, e coscientemente, come risulta dal frammento del poema cosmogonico di Alcmane recentemente venuto alla luce).73 La Nereide avrebbe infatti donato a Era, in ringraziamento del compianto per la morte del figlio, il promontorio su cui sorgeva il santuario della dea e in particolare un «giardino (orchatos) ricco di piante», e di quel loro presupposto che è l’acqua dolce, espressamente equiparato a un kepos dagli scoliasti.74 Il racconto mirava evidentemente a motivare sul piano eziologico l’esistenza, tra le dipendenze del santuario, di un giardino, diverso dal grande bosco accogliente nelle sue radure animali pascenti di ogni genere, privi di pastore, di cui parla Livio come di una delle maggiori ricchezze del Lakinion.75 Un giardino ovviamente recintato, per proteggerlo dal bestiame brado errante nel bosco, simile a quello di cui forse a Pyrgi tramanda tuttora il ricordo la Vigna murata di cui si è parlato. Si delinea pertanto la concreta possibilità di una antichissima identificatio Graeca di Cavatha, la dea oracolare dell’area Sud, con Tethys, la madre di Acheloo e delle ninfe delle sorgenti, raffigurati l’uno e le altre sul tetto del sacello beta. Ed è lecito congetturare che, come al Lakinion Thetis, così a Pyrgi la quasi omonima Tethys fosse ritenuta l’originario numen loci, responsabile del dono a Era/Uni del sito coi suoi preziosi annessi (la sorgente e l’eventuale ‘giardino’ da essa alimentato), in cui al tempo dei Pelasgi sarebbe stato fondato il santuario (riservandone verosimilmente il nucleo meridionale all’‘oracolo’ appunto di Tethys/Cavatha).76 Un dono ben motivato sul piano mitologico, comparendo Tethys in Omero quale antica nutrice di Era, oggetto di ostentate premure da parte della dea.77 Né va trascurata la possibile affinità con un terzo santuario costiero, il topos sacro alla ninfa-capra Amaltea, figlia di Tethys e nutrice di Zeus, fondato da Gelone all’indomani della vittoria di Imera, verosimilmente d’intesa coi Locresi e in concorrenza con l’Heraion crotoniate, in quella che sembra essere stata un’altra nicchia ecologica affacciata sul Tirreno, il bosco «insigne per bellezza e ricco di acque» situato nei pressi di Ipponio.78

70 Colonna, 1996b, p. 443, tav. 54 e. Già indipendentemente da questa scoperta la dea era stata accostata, oltre che a Persefone/Proserpina, alla sabina Feronia e alla romana Carmenta (G. Colonna, Paris 1992, p. 179 sgg.; Colonna, 1996a, p. 368 sgg.), divinità entrambe dalle sicure capacità oracolari. 71 Che poteva essere nominato anche senza precisarne l’ubicazione, come fa Dion. Hal., 1, 51, 3, a proposito della phiale inscritta col suo nome lasciatavi da Enea nel viaggio dal Salento allo Stretto. 72 P.e. da M. Verzár, «mefra», 92, 1980, p. 76, n. 177. 73 M. Detienne, J.-P. Vernant, Les ruses de l’intelligence. La mèthis des Grecs, Paris, 1974, pp. 136-140. Cfr. L. Cerchiai, Il programma figurativo dell’hydria Ricci, «Antike Kunst», 38, 1995, pp. 81-90, spec. 85 sg. 74 Lycophr., Alex., 857 sg. (per gli scolii vd. l’ed. Scheer, 279). Sulla metafora «curotrofica» del giardino, in rapporto al giovane Achille, che Thetis avrebbe allevato come un arbusto in una vigna, vd. Mele, art. cit. a n. 31, p. 235 sg. Vd. anche E. Schwarzenberg, in In memoria di Enrico Paribeni, Roma, 1998, p. 415. 75 Liv., 24, 3, 3-7. Cfr. A. Mele, ibidem, p. 236. A una identificazione col giardino sembra invece pensare M. Giangiulio, «Arch. St. Calabria e Lucania», 49, 1982 (1984), pp. 8, 10, seguito da G. Maddoli, Crotone (Atti del xxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1983), Napoli, 1986, p. 315 sg.; M. Torelli, in Storia della Calabria, 1, Reggio C., 1987, p. 595 sgg., e M. Osanna, Chorai coloniali da Taranto a Locri, Roma, 1992, p. 180. 76 Non va dimenticato in proposito il rapporto privilegiato dei Pelasgi con l’oracolo di Dodona, ritenuto «il più antico degli oracoli di Grecia, e al loro tempo l’unico» (Herod., 2, 52). 77 Il., 14, 201, 302. 78 Duride di Samo, apud Athen., 12, 542a. Cfr. G. De Sensi Sestito, «mefra», 93, 1981, p. 620 sg.; M. C. Parra, Santuari della Magna Grecia in Calabria, cit. a n. 32, p. 140; M. Lombardo, «Ann.Univ.Pisa», 19, 2, 1989, p. 420. Vd. anche infra, n. 240.

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Alla luce di quello che insegna l’area Sud si può ritenere che anche nell’area Nord il grande riporto di argilla gialla sabbiosa, incontrato in più punti del sottosuolo del tempio B e dell’area circostante (ma non, si badi, del tempio A),79 sia stato accumulato per rialzare il terreno formando un dosso fiancheggiante da quel lato il corso d’acqua. Ed è da presumere che su di esso sia stato costruito il sacello, o piuttosto i sacelli, a giudicare dalla varietà dei rivestimenti scoperti, dei cui muri nei saggi finora effettuati non si è incontrata alcuna traccia ma la cui esistenza è provata da alcune antefisse a testa esclusivamente femminile, in maggioranza dello stesso tipo dell’area Sud e anch’esse forse da riferire alle Ninfe della sorgente, qui poste al ‘serFig. 13. Applique di bucchero dall’area Nord vizio’ di Uni, oltre che da numerosi framcon testa di dea. menti di altre terrecotte architettoniche, di vario tipo e datazione, ma comunque anteriori alla fine del vi secolo, rinvenuti in giacitura secondaria, o addirittura raccolti sul terreno prima dell’inizio degli scavi.80 Essi lasciano intravedere, dato l’assai maggiore spettro tipologico, includente anche antefisse e lastre rinvianti a matrici campane,81 la preminenza già allora detenuta dall’area Nord, e soprattutto l’anteriorità del suo impianto, certamente precedente la metà del vi secolo.82 Impianto al quale dovrebbe risalire anche l’analogo riporto di argilla gialla accumulato alle spalle dell’area in cui più tardi sorgerà il tempio A, in evidente relazione col percorso della via proveniente da Caere, che dopo aver lambito la sorgente piegava in quel punto a gomito in direzione dell’abitato e del porto.83 Anche se ne manca tuttora una prova epigrafica,84 è praticamente certo che la divinità venerata nell’area Nord fosse fin da allora la già nominata Uni, il cui rapporto con le acque correnti è provato nei santuari della dea in loc. Fontanile di Legnisina a Vulci (sorgente), in loc. Vigna Parrocchiale a Caere e in loc. Celle nei dintorni di Falerii (apprestamenti idrici di vario genere).85

79 Pyrgi 1970, pp. 276, 281, fig. 193; Pyrgi 1988-1989, pp. 177, 276, figg. 144, 240. 80 Pyrgi 1959, p. 182 sg., fig. 32 = Colonna, 1981, p. 22, tav. 10 d; Pyrgi 1970, pp. 648-654, 660 sg., figg. 493 sg., 496-498; Pyrgi 1988-1989, p. 313 sg., figg. 268-270. 81 Cfr. R. R. Knoop, Antefixa Satricana, Van Gorcum, 1987, pp. 157, 188 sg.; C. Rescigno, Tetti campani. Età arcaica, Roma, 1998, p. 359 sg. 82 Colonna, 1981, p. 22 sg., tav. 10 a-d, 1. L’applique di bucchero di stile orientalizzante offre forse la più antica raffigurazione della dea del santuario (Fig. 13). 83 Pyrgi 1959, p. 167 sg., fig. 16 sg. (strato C); Pyrgi 1970, pp. 457, 638 sg., figg. 7, 476. 84 Ma potrebbe esserlo, se si tratta di una sigla, la lettera u, graffita su due diversi cocci rinvenuti all’interno dei terrapieni di fondazione del tempio B (Pyrgi 1988-1989, p. 226, nrr. 75 (bucchero) e 1 (impasto buccheroide), la cui portata documentaria è accresciuta dall’essere l’unica lettera presente sugli oltre 4000 cocci rinvenuti in quei terrapieni. La lettera ritorna su due pesi lenticolari da telaio dagli strati superficiali (Pyrgi 1970, p. 543, fig. 399: 9, 10). 85 Vulci: G. Colonna, B. Massabò, L. Ricciardi, «Boll.Arte», 48, 1988, pp. 23-38. Caere: M. Cristofani, in questo volume. Falerii: G. Colonna, Santuari d’Etruria, p. 111 sg.

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Il tempio B, l ’ area C e l ’ edificio delle 20 celle Verso il 510 a.C., o poco dopo, la relativa omogeneità, in termini di impegno artistico e architettonico, esistente tra le due aree sacre, letteralmente ‘rivali’ rispetto al corso d’acqua intermedio, fu radicalmente alterata, e per sempre, dalla costruzione del temenos monumentale accogliente il tempio B,86 che cancellò tutto quello che preesisteva sul dosso posto a nord del fosso.87 L’area, rialzata ulteriormente di livello, fu recintata con un robusto muro di Fig. 14. Ceramica attica da tombe blocchi di tufo, delimitante un ‘lotto’ di dell’altura della Torretta. terreno lungo e stretto, orientato con il fosso ma col lato posteriore obliquo, forse per rispettare un preesistente percorso viario,88 sul quale fu aperto l’ingresso del temenos. All’interno fu innalzato, contestualmente al muro di recinzione e al terrapieno della piazza circostante,89 il tempio B, un hekatómpedos (al livello inferiore dello stereobate) su basso podio o crepidoma, a cella unica piuttosto piccola, con profondo pronao in antis e peristasi di quattro per sei colonne a fusto liscio di tufo stuccato di bianco alla pari dei muri, anch’essi in opera quadrata (Fig. 16).90 A ridosso del muro di peribolo fu costruito sul lato obliquo un grande pozzo, in asse col tempio, sul lato lungo nord il recinto pressoché quadrato da noi chiamato area C, e sul lato lungo sud una sequenza di minuscole celle – ne restano 17, ma il loro numero arrivava probabilmente a 20, mancandone alcune in direzione del mare –, precedute in origine da altrettanti piccoli altari quadrati, mentre un ben più grande altare, a pianta rettangolare, fu eretto a 18 m di distanza dalla fronte del tempio e certamente in relazione con esso.91 86 Anche a Naxos l’area sacra a E della foce del Santa Venera, contigua all’abitato, fu isolata nel pieno vi secolo con il muro di temenos in opera poligonale, contestualmente alla costruzione del tempio e al prevalere del culto di Afrodite su quello forse preesistente di Hera (cfr. M. C. Lentini, Damarato. Scritti di antichità classica offerti a Paola Pelagatti, Milano, 2000, pp. 155-161). È questo verosimilmente il témenos epithalássion di Zenob. 3, 116, mentre l’area sacra posta a O della foce dovrebbe essere quella di Apollo Archegete (cfr. n. 14). 87 La retrostante bassura, più tardi occupata dal tempio A, non ha infatti restituito traccia alcuna di costruzioni precedenti (i pochissimi frammenti erratici di terrecotte riferibili a sacelli, da me elencati in Pyrgi 1970, p. 249, n. 1, sono da ritenere provenienti dalla contigua fascia del temenos del tempio B, intaccata con la parziale demolizione del muro settentrionale di quello in occasione della costruzione del nuovo tempio). 88 Che doveva staccarsi dal gomito della via Pyrgi-Caere in direzione dell’altura minore della Torretta (quota 11), dove è segnalata l’esistenza di tombe (G. Colonna, art. cit. a n. 28, p. 83 sg.: riproduco due cocci di un’anfora (?) attica a figure nere con Eracle che assiste a una scena di lotta e uno a figure rosse con testa di Dioniso (?), da me raccolti nel 1958 perlustrando il terreno) (Fig. 14). Ma ovviamente la via poteva servire anche per raggiungere l’area Sud, aggirando il temenos che era privo, a quanto sembra, di aperture in quella direzione. 89 Come provano la sezione trasversale maestra, riprodotta in Pyrgi 1970, figg. 194 (sez. i-i), pp. 207 e 363 (cfr. qui l’inedita Fig. 15), e quella longitudinale, riprodotta in Pyrgi 1988-1989, figg. 144 (sez. D-D), 240, e più completa in Colonna, 1984-1985, tav. i (sez. A-A). 90 Da ultimo G. Colonna, Pyrgi 1988-1989, pp. 171-183. Cfr. B. Belelli Marchesini, in eaa , ii suppl., 5, 1997, p. 633. 91 Ne è stata soltanto intravista la fondazione, rimuovendo nel 1980 la spessa coltre di sabbia della spiaggia. Si trova non sull’asse del tempio ma spostato di circa 5 m verso sinistra, apparentemente per consentire all’officiante la vista non solo della cella del tempio ma anche del recinto dell’area C.

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Fig. 15. Sezione trasversale maestra I-I attraverso la piazza adiacente da Nord al tempio B (ai cui blocchi di fondazione è addossata la palina alla testata della trincea).

Particolare evidenza fu conferita, per la sua posizione ‘strategica’, ostacolante la circolazione intorno al tempio, al recinto dell’area C. Si utilizzarono infatti per esso un tratto del podio o crepidoma del tempio e uno dell’antistante muro di peribolo, collegati da due muri trasversi appositamente costruiti (il cui alzato fu rimosso, assieme a quello del muro di peribolo, in occasione dell’ampliamento del santuario nella prima metà del v secolo a.C., di cui si dirà).92 Nel comparto centro-meridionale del recinto fu stesa una platea di blocchi, con orientamento leggermente discordante da quello del tempio e dello stesso recinto, collegata a uno degli angoli con la bocca di un normale pozzo per acqua, cui fu sovrapposto un basso puteale di tufo bianco. Nel centro appositamente risparmiato della platea fu alloggiato un altare cilindrico pure di tufo bianco, preceduto a NE da un gradino e forato verticalmente da un condotto a sezione circolare che si prolungava nel sottosuolo a mo’ di bothros, denotando il carattere (ca92 G. Colonna, «Arch.Class.», 18, 1966, pp. 87-94; Pyrgi 1970, pp. 587-597.

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Fig. 16. Modello ricostruttivo del tempio B e della contigua area C (Museo di Antichità etrusco-italiche dell’Università di Roma «La Sapienza».

ta)ctonio del culto.93 Nel quadrante settentrionale del recinto, isolato in origine da un leggero gradino, trovò posto un grande monolite trapezoidale di peperino, fungente da base, per il tipo di pietra e la sua forma irregolare, assai meglio a un altare da fuoco che non a una statua di culto.94 L’insieme (Fig. 16) ricorda quello che a Roma era chiamato tecnicamente un sacellum, ossia un locus parvus deo sacratus cum ara,95 e più esattamente un consaeptum sacellum, come quello antichissimo di Ercole al Foro Boario, che col tempo finì col diventare una sorta di appendice collaterale dell’Ara Maxima, cresciuta a dismisura a sue spese,96 e in cui di sicuramente coperto non c’era che l’aditus, dove si custodivano la clava e lo scifo del dio.97 A Pyrgi l’addossamento al podio del tempio ricorda, ancor meglio che i sacella su podio B e D di Marzabotto, da me a suo tempo richiamati, i recinti a fior di terra, attrezzati con altari, cippi e doni votivi, allineati sul fianco O del tempio monumentale di Narce in località Le Rote, peraltro

93 Uguale struttura aveva l’altare del settore est del santuario del Portonaccio a Veio nella sua forma originaria, di pieno vi secolo (G. Colonna, «Mon.Ant.Linc.», vi, p. 3, c.s.). A servizio dell’altare dell’area C era un blocco sagomato a rocchetto, utilizzato forse come appoggio di strumenti e di arredi (Pyrgi 1970, p. 507, fig. 445). 94 Ipotesi affacciata da M. Pallottino, «Arch.Class.», cit., p. 265, e da me presa in considerazione, con risultato negativo, in Pyrgi 1970, p. 593 sg. Contro di essa, aggiungo, sta anche il fatto che la statua si sarebbe trovata alle spalle dell’officiante, dato che l’altare cilindrico è orientato a SO dal gradino di prothysis (semidistrutto dall’aratura, ma chiaramente riconoscibile). Si noti inoltre che il peperino è stato altrimenti impiegato nel santuario soltanto per i capitelli del tempio A (Pyrgi 1970, p. 43 sg.), forse nella convinzione che quella pietra fosse resistente al fuoco (G. Colonna, «Arch.Class.», cit., p. 269). Da notare infine che, se di altare si tratta, l’orientamento era opposto a quello dell’altare cilindrico. 95 Trebatius, apud Gell. 7, 12, 5. Cfr. G. Colonna, Santuari d’Etruria, cat. della mostra di Arezzo, Milano, 1985 (di seguito Santuari), p. 23. 96 Coarelli, 1988, pp. 71-77; Idem, Lexicon Top Urbis Romae, 3, (1996), p. 15 sgg. 97 Si diceva infatti che il dio clavam vero in aditu reliquisse, il cui odore bastava a tenere lontani i cani (Solin. 1, 10 sgg.).

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Fig. 17. Saggio di scavo nel terrapieno dell’area C (cfr. n. 100). In basso il muro perimetrale del tempio B.

ancora non scavato.98 La contemporaneità dell’area C allo stereobate del tempio B e al muro di peribolo, che la delimitavano, come si è detto, sui lati lunghi, è stata contestata, fraintendendo i dati di scavo a suo tempo pubblicati,99 ma è invece da ritenere ragionevolmente sicura.100 98 Notizie preliminari di M. A. De Lucia Brolli, L’Agro Falisco, Roma, 1991, pp. 23-25, fig. 15; «StEtr», 58, 1993, pp. 540-542; ibidem., 61, 1996, pp. 432-435 (con G. Benedettini). 99 Cristofani, 1996, p. 65 sg., fig. 18 (il contributo rielabora Ripensando Pyrgi, in Miscellanea ceretana, i, Roma, 1989, pp. 85-93, replicato, per la parte concernente le iscrizioni sulle lamine auree, negli Studi in onore di S. Moscati, 3, Pisa-Roma, 1996, pp. 1117-1126). L’affermazione che «le fondazioni trasversali, ammorsate allo stereobate e al muro di temenos» sono «pertanto posteriori a quelli» è un’evidente forzatura di quanto da me scritto in «Arch.Class.», 18, 1966, p. 87 sg. e in Pyrgi 1970, pp. 587 sgg. Né esiste alcun riscontro oggettivo all’ipotesi, inverosimile anche sul piano strutturale e architettonico, che l’area C abbia sopportato «un’edicola» (Cristofani, 1996, p. 78, che sviluppa un accenno avanzato cautamente da M. Pallottino, Pyrgi 1970, p. 742, e da A. J. Pfiffig, art. cit. a n. 203, p. 191). 100 Come riteneva anche M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, Milano, 1983, p. 120. Le sezioni pubblicate in Pyrgi 1970, figg. 193 (sez. A-A), pp. 200, 438 (sez. A-A, B-B, C-C) mostrano che le fondazioni in questione sono coeve al terrapieno della piazza, il quale a sua volta è coevo allo stereobate del tempio (cfr. nota 89). Vd. già in proposito Colonna, 1989-1990, p. 215 sg. Aggiungo qui una foto del tasto eseguito nel terrapieno dell’area C a ridosso della piattaforma dell’altare (Pyrgi 1970, p. 589, n. 1) (Fig. 17), tasto che ha permesso di costatare l’identità del terrapieno con quello della piazza.

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Il sontuoso apparato decorativo in terracotta policroma del tempio B è quello che ormai tutti conosciamo, definibile, assieme al tempio del Portonaccio a Veio, come il più antico esempio in Etruria di ‘tetto’ della cosiddetta ii fase, ispirato da precedenti esperienze campane, tra l’altro direttamente documentate, come si è detto, proprio sul dosso nord di Pyrgi nella fase edilizia, immediatamente anteriore, dei sacelli.101 Oltre agli altorilievi affissi alle testate del columen e dei mutuli e ai piccoli acroteri applicati alle sime frontonali, gli uni e gli altri modellati a mano, anche tutte le componenti del complesso ottenute a stampo, dalle sime frontonali alle lastre di rivestimento, dalle grandi antefisse nimbate (a testa di donna, di etiope e di satiro)102 a quelle senza nimbo (a testa di donna),103 dalle tegole di gronda alla cornice della porta della cella,104 continuano a non trovare puntuali confronti né a Caere105 né altrove,106 per cui è lecito ritenere che siano state concepite appositamente per il tempio e che ne sia stata gelosamente preclusa qualsiasi ulteriore utilizzazione, anche nella città madre, pur così prodiga di testimonianze di coroplastica architettonica. E lo stesso può dirsi per la serie delle antefisse a figura intera, attribuite all’edificio delle 20 celle: anch’esse modellate a stampo, hanno per soggetto sei diversi personaggi, corrispondenti ad altrettanti unica iconografici, posti su due diversi tipi di base.107 In proposito va notato che tre di essi, alati e di entrambi i sessi, ‘corrono’ verso destra,108 mentre un quarto, femminile, con le ali raddoppiate in diago101 Vd. n. 81. 102 L’iconografia del negro resta unica, anche dopo la pubblicazione dell’antefissa dello stesso soggetto da Taormina (G. Bacci, Damarato, cit. a n. 86, p. 51 sgg.). 103 Ne resta un solo esemplare (Pyrgi 1970, pp. 343-345, tipo B iii, destinato ai tettucci frontonali). 104 Terrecotte modellate a mano: da ultimo Pyrgi 1988-1989, pp. 183-191. Terrecotte modellate a stampo: ibidem, pp. 197-208. 105 Sia dagli scavi ottocenteschi che da quelli in corso nella città ormai da quindici anni (solo in parte editi: M. Cristofani, Caere 3.1. Lo scarico arcaico della Vigna Parrocchiale, Roma, 1992, p. 31 sgg.). Si verifica anzi il contrario, come prova la mediocre imitazione a stampo degli acroteri pyrgensi con Amazzone, discussi più sotto, rinvenuta nella vigna Marini-Vitalini (G. Colonna, Pyrgi 1970, pp. 311, 403). 106 Dubbia la pertinenza a una lastra del tipo B: 1 di due frustuli dal Campidoglio (A. Mura Sommella, «Rend.Pont.Acc.», 70, 1997-1998, p. 72, fig. 12). 107 Da ultimi Colonna, 1985, pp. 62-64; Idem, Santuari, p. 133, nr. 7.1 D; Coarelli, 1988, pp. 351-355; Pyrgi 1988-1989, pp. 191-196; S. Stucchi, «Arch.Class.», 43, 1991, p. 421 sg.; I. Krauskopf, ibidem, pp. 1269-1273: F.-H. Massa-Pairault, Iconologia e politica nell’Italia antica, Milano, 1992 (di seguito Massa-Pairault, 1992), pp. 6871. M. Menichetti, Archeologia del potere, Milano, 1994, pp. 106-109; Cristofani, 1996, p. 80, n. 63; I. Krauskopf, Der Orient und Etrurien (Akten des Kolloquiums Tübingen 1997), Pisa-Roma, 2000, p. 319. Sulla dibattuta questione della loro esegesi rinvio alle considerazioni, in larga misura condivisibili, di E. Simon, in Indogermanica et Italica (Festschrift H. Rix), a cura di G. Meiser, Innsbruck, 1993, pp. 420-423 (= Schriften zur etruskischen und italischen Kunst und Religion, Stuttgart, 1996, pp. 73-78), con bibl. precedente. 108 Nell’uomo a testa di gallo il campo dipinto di nero e la distribuzione delle «gocce» sia sotto che sopra le ali, tutte in posizione verticale e con l’apice in alto, fa pensare a una pioggia di rugiada che scende dal cielo notturno piuttosto che a gocce o schizzi scrollati dalle ali bagnate del personaggio (come vorrebbe F.-H. Massa-Pairault, Recherches sur l’art et l’artisanat étrusco-italiques à l’époque hellénistique, Rome, 1985 (di seguito Massa-Pairault, 1985), pp. 13-15, fondando su tale presupposto la sua ipotesi di un uccello Memnonide, accanitamente difesa in Le mythe grec, pp. 537-541, n. 54). Nella Ny Carlsberg Glyptothek è esposta dai primi anni ’80 la metà inferiore di un esemplare del tipo (inv. hin 887) (J. Christiansen, «Meddelelser fra Ny Carlsberg Glyptotek» 44, 1988, p. 66, fig. 11) (Fig. 18), che attacca alla metà superiore da noi ricomposta con frammenti rinvenuti nella seconda campagna di scavo, tra il 30-6 e il 2-7-1958, più due aggiunti nel 1959 e nel 1961, edita in Pyrgi 1959, p. 186, nr. 10, fig. 37, e in Pyrgi 1970, p. 323, nr. 2, fig. 251 (Fig. 19). Il frammento di Copenhagen è stato certamente raccolto da cercatori non autorizzati prima dell’inizio dei nostri scavi e dopo l’aratura profonda di fine agosto-inizio settembre 1956 (un recupero degli anni ’50, forse dalla scarpata a mare, è anche il bucchero con frustulo di iscrizione pervenuto con un lascito al Museo di Antichità Classiche dell’Università di Lund, edito da Ö. Wikander, «Op.Rom.», 14, 1983, pp. 77-79). L’ottima conservazione della policromia mostra che il chitonisco dell’uomo-gallo è orlato da una balza nera e una rossa, come quello di Usil, e che nel campo tra le gambe sono dipinte in alto una «goccia», che si aggiunge alle quattro già documentate, in basso quelle che sembrano due onde marine, peraltro diverse da quelle delle antefisse con Usil e con la dea a quattro ali. Il pezzo

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nale, è fermo ma con le gambe di profilo anch’esse verso destra. Lo stesso fanno gli altri due personaggi, che costituiscono una coppia di sesso diverso: apteri, trattengono per il morso una pariglia di cavalli alati, ritti ai loro fianchi in uno schema araldico. Ne risultano due gruppi di tre figure, più imponenti delle figure isolate anche per il tipo di base, accresciuta in altezza e modanata come un altare, e per la maggiore visibilità, essendo interamente scontornate, mentre le altre emergono a bassorilievo da un fondale variamente conformato, ‘sorretto’ in basso da un motivo a onde, alludente alla superficie del mare (coperto nella donna che solleva le phialai dal manto che scende fino a terra Fig. 18. come un velario). Sia le ali dei cavalli che le basi ad altare109 connotano le due figure di ‘signore degli animali’ come divine, o più divine delle altre: il dio, calzando sul capo la leonté, è certamente Eracle, tra i cavalli alati alludenti al carro della sua apoteosi;110 la dea, ingioiellata, calzata e a capo velato,111 non può che essere la titolare del tempio, Uni, tra i cui attributi un posto non secondario compete notoriamente al carro e ai cavalli.112 Anche la donna con quattro ali ha buone probabilità di essere una dea, e precisamente, ergendosi sulle onde in una specie di epifania, una dea marina, per la quale forse non vi è da pensare di meglio, trovandoci nell’area Nord del santuario, che a Thesan-Eos-Leucotea, di cui si dirà a proposito del tempio A. Essendo le antefisse con i cavalli rampanti e la base ad altare assai più numerose di tutte le altre, a giudicare dai frammenti superstiti, può ipotizzarsi l’iterazione dei due tipi all’interno di una sequenza modulare composta non da sei, come si è finora ritenuto, ma da otto antefisse, con alternanza di figure isolate e tra cavalli, di basi normali e ad altare, di figure a due a due maschili e femminili è stato acquistato nel 1977 con un lotto di terrecotte architettoniche di ambiente cerite (J. Christiansen, «Meddelelser» 41, 1985, p. 150, n. 1), includente anche alcuni resti di acroteri di sima (sui quali vd. a n. 121). Ringrazio la Dott.ssa Jette Christiansen per le fotografie gentilmente inviatemi e per il permesso di pubblicarle [aggiungo la ricostruzione grafica dell’antefissa recentemente realizzata] (Fig. 19a). 109 E non a base di colonna, come vorrebbe Massa-Pairault, 1985, p. 24, pensando alle colonne d’Ercole e ai confini dell’universo. 110 Cfr. uno scarabeo arcaico da Tarquinia, inedito (J. Boardman, Archaic Greek Gems, London, 1968, pp. 46, 49, nr. 80). Per il carro coi cavalli alati vd. una nota lastra di Acquarossa (M. Torelli, «Ostraka», 1, 1992, p. 263 sg., fig. 22). Il gruppo dell’eroe tra i cavalli, peraltro non alati, compare sul coperchio di una cista prenestina di inizio iv sec. a.C. (limc , 5, 1990, p. 223, nr. 238, tav. 175; F. Coppola, Le ciste prenestine, 1, 3, Roma, 2000, p. 25 sg., 91, tav. 23 sg.), probabilmente in riferimento alla cattura delle cavalle di Diomede o alla tradizione delle cavalle che trainavano il carro dell’eroe nel viaggio attraverso il paese degli Sciti con i buoi di Gerione, cavalle collegate all’origine mitica degli Sciti (Herod., 4, 8, 3; 9, 1-3). 111 Il disegno ricostruttivo in Pyrgi 1970, fig. 240 è stato sostituito da quello in Pyrgi 1988-1989, fig. 160, che lascia impregiudicata la lunghezza del chitone indossato, stante la contradditorietà della documentazione. 112 Come è documentato dal parapetto del carro di Castel S. Mariano (limc , 8 (1997), p. 168, nr. 74) e da quel che sappiamo della Iuno sia Curitis (Serv., Aen., i, 8, 17; limc , 5 (1990), p. 835, nr. 149) che Sospita (ibidem, p. 831, nrr. 18, 24), per non parlare della sua omologa Astarte (cfr. A. W. J. Holleman, «cedac», Carthage, 6, 1985, p. 41). Si ricordi inoltre l’Hera Henioche di Lebadeia (Paus., 9, 39, 5).

Fig. 19.

Fig. 19a. Fig. 2o. Ricostruzione della sequenza delle antefisse a figura intera di Pyrgi.

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(Fig. 20).113 Poiché tutte le figure della serie si muovono o sono comunque rivolte, come si è detto, nella stessa direzione, è sicura la loro collocazione in riva a un tetto a falda unica, quale era quello dell’edificio delle 20 celle, che da esse e dalla fila di piccoli altari antistanti risultava a pieno titolo sacralizzato.114 Nell’avanzato iv secolo la serie delle antefisse a figura intera fu integrata da una figura di dea stante, calzata, panneggiata e adorna di monili, e da una figura di giovane dio nudo, anch’esso stante, entrambe a tutto tondo.115 È logico presumere che i due tipi, raffiguranti verosimilmente Uni/Astarte con un giovane paredro, in cui si è tentati di riconoscere Adone,116 abbiano sostituito le antefisse cadute o danneggiate, e in particolare quelle di cui ci è giunto un minor numero di frammenti. Per la dea panneggiata sarà forse da pensare alla sostituzione della dea con quattro ali, la supposta Leucotea, il cui culto era stato da tempo interamente assorbito dal tempio A, mentre il giovane dio potrebbe aver sostituito l’Eracle tra i cavalli, di cui possediamo assai meno frammenti rispetto a quelli dell’omologa dea. Contemporaneamente, come si dirà più avanti, si intervenne anche sulla fronte principale del tempio, introducendo tematiche nuove. Venendo al programma figurativo che informa le terrecotte del tempio B, quel che ne rimane appare incentrato per intero, a parte le antefisse,117 sulla figura di Eracle, cui pure è riferibile il gruppo a tutto tondo di due o tre combattenti, che è l’unico donario arcaico di cui sono stati rinvenuti frammenti nei pressi del tempio.118 L’eroe compariva da protagonista nelle parti maggiormente significanti dell’apparato decorativo del tempio, ossia gli acroteri di sima e di colmo e gli altorilievi che, simili compositivamente a metope dilatate, erano affissi su entrambe i lati corti alle testate del columen e dei quattro mutuli che in questo edificio sono attribuibili al tetto. Consideriamo anzitutto questi ultimi, realizzati con figure a circa metà del vero. Agli athla canonici possiamo riferire complessivamente cinque altorilievi, ripartiti tra le due fronti. Particolare risalto era dato all’uccisione dell’Idra, che occupava uno spazio un poco maggiore delle altre fatiche per il tipo di composizione adottata, che è quella simmetrica con il mostro al centro, a quanto pare tra Eracle a sinistra e Iolao a destra (di entrambi rimane la testa),119 per cui 113 La ricostruzione della sequenza data a fig. 20 sostituisce pertanto quella in Colonna, 1985, p. 63, fig. 4 (= Santuari, 132). 114 Il che ha fatto preferire l’interpretazione delle celle come oikoi destinati all’esercizio della prostituzione sacra, legata al culto di Astarte (Colonna, 1985, pp. 59-68), rispetto a quella, altrettanto verosimile sul piano planimetrico, di un katagógion per pellegrini (peraltro inatteso in un santuario privo di riconosciute valenze salutari, le cui pretese «politiche» in senso panetrusco, connesse al concetto di Pyrgi come metropolis, sono venute solo più tardi, sulla scia della teoria erodotea sulle origini etrusche: cfr sopra nn. 33 e 36). Contra: Cristofani, 1996, p. 79 sgg., che parla di «visitatori occasionali», al cui «viaggio» alluderebbero i soggetti delle antefisse, e ora F. Glinister, The epigraphic landscape of Roman Italy, A. Cooley ed., London, 2000, pp. 27-31, che aggiunge l’ipotesi, non meno inverosimile, di negozi o di ambienti per il deposito delle offerte votive. 115 Pyrgi 1970, pp. 414-416, fig. 322 sg. (A. Rallo); Pyrgi 1988-1989, pp. 211-213, fig. 177 (Eadem). Cfr. Colonna, 1981, p. 27. 116 Come suggerito da M. Torelli nella discussione. Sul culto etrusco del dio, connesso a quello di Turan/ Afrodite, fondamentale ora M. Torelli, Paris 1992, pp. 233-291. 117 Per la serie nimbata (B i) sono propenso oggi ad accogliere l’interpretazione che vede nella donna UniAstarte, affiancata da un satiro normale (assai poco documentato) e da uno «etiope», in funzione di accoliti. Alla dea, o a una ninfa, dovrebbe riferirsi anche la testa della coeva antefissa senza nimbo, recante sulla cervice un vistoso fiore di loto (B iii). Che l’etiope fosse legato più del satiro alla dea è mostrato dal fatto che quando, verso il 490-480 a.C, si adottarono nuovi tipi per sostituire le antefisse danneggiate, solo quelli della dea e dell’etiope (B ii) furono collocati sulle rive del tetto, mentre quello del satiro, privo di nimbo (B iv), fu destinato ai tettucci frontonali (Pyrgi 1970, pp. 338-346, 404 sg.; Pyrgi 1988-1989, pp. 200-202). Si noti che tutti e tre i nuovi tipi, a differenza dei precedenti, risultano utilizzati anche a Caere e, il terzo, anche a Roma (tempio dei Castori) e tra i Falisci. 118 Pyrgi 1970, p. 672 sg., figg. 514-516. Il torso della fig. 516: 1 fa pensare a una amazzonomachia. 119 Pyrgi 1970, pp. 294, 300, fig. 216 sg., 221; Pyrgi 1988-1989, p. 186, fig. 153 sg.

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è da presumere che le fosse riservata una delle due testate di columen disponibili. L’impresa era inoltre replicata sul corrispondente vertice frontonale, a giudicare da un gruppo di terrecotte inedite della Ny Carlsberg Glyptothek di Copenhagen: un torsetto di Eracle, attaccante questa volta da destra, un tratto del corpo strisciante dell’Idra e sei delle sue teste erette (Figg. 21-23).120 Terrecotte che erano direttamente sovrapposte alla cornice della sima, al posto dell’assente cornice traforata, assolvendo alla funzione di piccoli acroteri, analogamente ai cavalieri rinvenuti nello scavo, di cui dirò subito dopo. Poiché la fatica dell’Idra era ambientata a Lerna in Argolide, in un paesaggio costiero non troppo diverso da quello di Pyrgi per le forti valenze sacrali e mitistoriche, connesse allo sbarco di Danao con le cinquanta Danaidi e alla sorgente Amymone fattavi scaturire da Posidone, presso la Fig. 21. Frammento di acroterio di sima quale il mostro, fin dal nome connesso acceduto alla Ny Carlsberg Glyptotek, con l’acqua, avrebbe avuto la tana,121 è veattribuito al tempio B, raffigurante Eracle. rosimile che la preminenza di questa fatica sia imputabile alla vicinanza della sorgente della Vigna e alla tutela probabilmente esercitata dal santuario su di essa, oltre che allo specifico rapporto di Eracle con le sorgenti e con gli animali pascenti, minacciati dal mostro. Comparivano inoltre negli altorilievi, a giudicare dai pochi brandelli conservati, l’uccisione del leone nemeo, la cattura di Cerbero (chiamata in causa dalla testa digrignante di quello che sembra essere un cane) (Fig. 24), e forse la lotta con Gerione, se al mostro si riferisce una coscia col margine di quella che sembra essere una corazza di cuoio, sovrapposta ai lembi del chitonisco.122

120 Provenienti dal medesimo acquisto del frammento di antefissa di cui a nota 107. Recano i nrr. hin 873 (il torsetto), hin 874 (il corpo dell’idra con la sommità della cornice), hin 875-880 (le sei teste). L’anatomia ben scandita del torso dell’Eracle indica una mano diversa da quella cui si devono gli altorilievi, e forse una datazione leggermente recenziore, coeva alle antefisse della serie B: ii. La sequenza delle teste, tutte al medesimo livello, e la dislocazione a destra dell’eroe ricorda l’idria ceretana del J. Paul Getty Museum (cfr. n. 151). I frammenti sono menzionati da M. Cristofani, «Boll.Arte», 35-36, 1986, p. 23, nrr. 31-33 (con attribuzione «a antefissa o a piccolo gruppo plastico»), e in Etruria e Lazio arcaico, cit. a n. 137, p. 109 («rilievi frontonali»). Nella comunicazione al convegno Cristofani ha parlato ancora di «antefisse». 121 Apollod., 2, 5, 2 (tana sulla contigua collina); Paus., 2, 37, 4 (tana sotto un platano accanto alla sorgente). Cfr. l’edizione del secondo libro di Pausania a cura di D. Musti, M. Torelli, Milano, 1986, pp. 335-337. Anche per la distanza dal capoluogo e per la posizione piuttosto defilata nei suoi confronti Lerna ha qualche affinità con Pyrgi. La vocazione marittima del luogo era esaltata dalla credenza che quella di Danao fosse la prima nave costruita dall’uomo (Apollod., 2, 1,4). Inoltre lo sbarco sarebbe avvenuto, regnando Pelasgo sull’Argolide, presso un rilievo su cui sorgevano altari, circondato da un bosco in cui rifugiarsi (Aesch., Suppl., 188 sg., 222 sg., 508 sg., 713). 122 Leone nemeo: Pyrgi 1970, p. 298, nr. 5, fig. 219 sg. Cerbero: testa inedita di animale (cfr. G. Colonna, in eaa , ii suppl., 1996, p. 681, fig. 895). Gerione: Pyrgi 1970, p. 300, nr. 10, fig. 223: 3 (cfr. Massa-Pairault, 1985, pp. 20, 23; Massa-Pairault, 1992, p. 71).

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Figg. 22-23. Frammenti di acroteri di sime acceduti alla Ny Carlsberg Glyptotek, attribuiti al tempio B, raffiguranti l’Idra di Lerna.

Un animale dalla pelle scura, di cui restano solo due mammelle,123 potrebbe essere il cinghiale d’Erimanto, se ammettiamo che l’artista etrusco lo abbia confuso con la scrofa di Krommyon uccisa da Teseo, forse raffigurata nella tomba tarquiniese della Scrofa Nera.124 O comunque abbia voluto dare al feroce animale le sembianze di una scrofa. Quanto agli acroteri di sima con ‘cavalieri’, la prospettiva ermeneutica che si viene delineando suggerisce una loro radicale riconsiderazione. È indubbio che nel torsetto indossante la leonté sul chitone, in un modo che arieggia l’Eracle cipriota anche per la cintura stretta intorno alla vita, ma se ne distingue per non avere Fig. 24. Testa di Cerbero (?) le zampe annodate sul petto,125 sia da rida uno degli altorilievi del tempio B. conoscere non una delle Amazzoni (raffigurate talora con spoglie animalesche, ma non di leone né calzate sulla testa), ma ancora una volta Eracle, a quanto pare appiedato come nel caso del torsetto di Copenhagen, nell’atto di colpire alle spalle un av123 Pyrgi 1988-1989, p. 189, nr. 27, fig. 189. 124 Come propone S. Stopponi, La tomba della Scrofa Nera, Roma, 1983, p. 83 sg. (ma vd. G. Camporeale, La caccia in Etruria, Roma, 1984, p. 147 sg., n. 12). 125 Pyrgi 1970, p. 310 sg., fig. 236 sg.; Pyrgi 1988-1989, p. 191, nr. 2, fig. 155: b. La tenuta ricorda l’Eracle «iperboreo» (A. Mastrocinque, Ercole in Occidente, Trento, 1993, pp. 49-61), il che ben si confà alla lotta con le Amazzoni: da sottolineare che nella coll. Campana del Louvre, e quindi verosimilmente da Caere, si conserva la testa di una statua fittile del dio con berretto da arciere, approssimativamente coeva (F. Briguet, Aspects de l’art des Étrusques dans les collections du Louvre, Paris, 1976, nr. 39). In comune con l’Eracle in veste cipriota da Caere (M. Cristofani, «Boll. d’Arte», cit., p. 15, tav. 3, c) vi è nei nostri acroteri l’aspetto villoso della parte inferiore della spoglia (a Caere solo dipinto).

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versario da lui avvinghiato intorno al petto col braccio sinistro, che doveva risultare seminascosto alla vista. Questo avversario non può essere che uno dei cavalieri, come quello ben noto del quale rimane solo la parte inferiore del corpo, apparentemente cavalcante di lato, ma in realtà sbalzato o nell’atto di saltare dal cavallo per combattere da pedone.126 Il colorito rosso dell’incarnato e l’armilla con quattro bulle esibita da uno dei cavalieri non bastano per escludere che si tratti di Amazzoni, cui il coroplasta ha voluto conferire un aspetto marcatamente virile, uniformando il loro colorito a quello dell’Eracle, anche per farne meglio risaltare le gambe sul manto bianco del cavallo.127 Abbiamo pertanto raffigurata con buona probabilità un’altra fatica canonica dell’eroe, la conquista della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni.128 Il gruppo, sovrapposto ai due angoli inferiori della sima frontonale, sulla verticale dei mutuli con altorilievi di soggetto equestre di cui ora dirò, a giudicare dal numero degli esemplari documentati era replicato, alla pari di quegli altorilievi, su entrambe le fronti del tempio, componendo una amazzonomachia a gruppi distaccati, in cui s’affrontavano sempre gli stessi due protagonisti. A queste raffigurazioni esplicite, di carattere narrativo, di alcune delle fatiche se ne aggiungeva una soltanto allusiva, ma ripetuta più volte, con un impatto visivo più forte di quello posseduto da tutte le altre fatiche, compresa quella dell’Idra, anche forse per restituire unità, entro una ‘cornice’ di alto valore decorativo, a tutto l’insieme. Pare infatti certo che tutti e quattro gli altorilievi dei mutuli angolari, prossimi più degli altri all’osservatore, raffigurassero una pariglia di cavalli scalpitanti rivolta verso il centro della facciata, trattenuta da un giovane scudiero dalle lunghe trecce e il portamento elegante, quasi femmineo (Fig. 25).129 Sviluppando un suggerimento di F.-H. Massa-Pairault,130 vedrei in questi puledri la progenie delle cavalle antropofaghe del re trace Diomede, use a divorare gli stranieri capitati in quel paese, come sarebbe accaduto al giovane famulus e amante di Eracle, Abderos, eponimo dell’importante colonia ionica di Abdera, al quale l’eroe le aveva affidate in custodia.131 Vinto Diomede e posto fine alla barbara usanza, dopo averla applicata per contrappasso al crudele re trace, Eracle avrebbe domato le cavalle e le avrebbe quindi consegnate a Euristeo. Donate da questi, secondo la versione della saga tramandata da Diodoro, alla Era di Argo, avrebbero dato origine presso il santuario della dea a un allevamento di cavalli di razza, durato fino all’età di Alessandro 126 Pyrgi 1970, pp. 306-310, figg. 231-235, 238, tav. iii: 2. Anche gli acroteri di sima del tempio del Portonaccio, già da me chiamati a confronto, raffigurano cavalieri che saltano da cavallo (F. Melis, Santuari, p. 102, 5.1 B 35). Quanto a quelli di Pyrgi, cadono con questa lettura le proposte di Massa-Pairault, 1985, p. 20 sg. (il combattente con leonté sarebbe un’Amazzone, come anch’io avevo erroneamente creduto, il cavaliere un seguace di Memnone, accorsi sotto le mura di Troia), di J. R. Jannot, «Röm.Mitt.», 93, 1986, p. 130 («cavalier glissant de son cheval», senza tener conto della figura dell’Eracle) e di Coarelli, 1988, p. 149 sg. (il cavaliere sarebbe Astarte cavalcante «all’amazzone», anche in questo caso ignorando l’associazione con Eracle). 127 Rosso chiaro è anche l’incarnato delle Amazzoni della serie di acroteri ceriti dalla Vigna Marini-Vitalini (cfr. n. 105 e, per una lista di confronti, A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund, 1940, p. cxcix, n. 1). Il rosso del resto non è adottato per le figure maschili degli altorilievi, che hanno la pelle di colore avorio più o meno tendente al bruno, così come la maggioranza dei citati cavalieri del Portonaccio (dove il colorito rosso è riservato ai loro avversari «barbari» a torso nudo, come mi fa notare Claudia Carlucci). L’opposizione rosso: bianco (avorio) per i due sessi si ha nella Pyrgi dell’epoca solo nelle antefisse, sia del tempio B che dell’edificio delle 20 celle. Sull’uso etrusco della bulla vd. M. Söldner, «Mediterr. Archaeology», 12, 1999, pp. 96 sg., 105. 128 Sul significato della fatica di Eracle rinvio a J. M. Bremer, «Acta ant. Ac. Sc. Hung.», 40, 2000, pp. 51-54. 129 Pyrgi 1970, pp. 290-293, figg. 211-215; Pyrgi 1988-1989, pp. 183-185. La composizione sembra echeggiata in pieno v secolo dalla tomba dipinta di Grotte S. Stefano (S. Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milano, 1985, p. 283, nr. 29, Psn). 130 Massa-Pairault, 1985, p. 11 sg., 23. 131 Apollod., 2, 5, 8; Strab., 7, fr. 46; Hyg., Fab., 30, 9; Philostr., Imag., 2, 25; Steph. Byz., s.v. Abdera (con citazione di Ellanico).

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Fig. 25. Le parti restanti dell’altorilievo di un mutulo angolare del tempio B.

Magno.132 La vicenda, quanto mai edificante per un santuario d’emporio, aperto alla frequentazione straniera, sembra evocata a posteriori dalle pariglie di cavalli e dai giovani che le accudiscono, il cui aspetto ne fa dei veri modelli di habrosyne arcaica. Vedrei in essi, oltre che la ‘citazione’ dello sfortunato Abderos, vittima del percorso iniziatico intrapreso a fianco di Eracle, come amante e compagno di rischiose avventure, un’immagine esemplare della gioventù aristocratica esperta del buon uso dei cavalli, sia nella Argo pelasga devota di Era che, indirettamente, nella Agylla-Caere contemporanea, devota di Uni-Ilizia, con una possibile, più specifica allusione ai ludi equestri, oltre che ginnici, istituiti pochi anni prima dai Ceriti per suggerimento delfico in onore dei Focei lapidati sulla via che da Pyrgi conduceva alla città.133 Il ciclo degli altorilievi era completato con tutta probabilità dall’apoteosi di Eracle, narrata nella versione ‘matrimoniale’ che poneva in speciale risalto il ruolo positivo avuto in essa da Era, attraverso l’ipostasi della dea rappresentata dalla prediletta figlia Ebe.134 Lo suggerisce un torso di donna riccamente abbigliata, che nulla induce a iden132 Diod., 4, 15, 4 (direi da Ellanico, attraverso Timeo). 133 Herod., 1, 167. Da ultimo, in una prospettiva interna al mondo foceo, Fr. de Polignac, Mito e storia in Magna Grecia (Atti del xxxvi convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1996), Napoli, 1998, p. 174 sg. Ludi analoghi erano celebrati nei pressi di Agyrion in onore di Eracle (Diod., 4, 24, 5). 134 Documentata anche sul piano cultuale ad Argo e a Mantinea (Giangiulio, art. cit. a n. 74, p. 21).

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Fig. 26. Frammento di tripode vulcente dall’Acropoli di Atene.

Fig. 27. Ricostruzione del culmine della facciata del tempio B.

tificare con Atena, raffigurata nell’atto di salire da sinistra su un carro,135 alla quale può essere attribuito anche un frammento di testa diademata.136 È inevitabile pensare proprio a Ebe, la promessa sposa che s’accinge a condurre col suo carro l’eroe tra gli dei, secondo lo schema iconografico rispecchiato in quel raffinatissimo prodotto nord-ionico di ambiente cerite, di non molto più antico del tempio B, che è l’idria Ricci.137 Ad esso si può affiancare il coevo gruppo bronzeo rinvenuto sull’acropoli di Atene, proveniente da un tripode che doveva essere uno dei più notevoli tra quelli usciti dalla bottega di Vulci, in cui quattro personaggi riccamente calzati procedono a piedi: ad Atena che apre il corteo, in veste di flautista, segue un Eracle in abito ‘trionfale’, con lungo chitone e himation sotto la leonté,138 che trascina per mano Ebe, seguita da Ermes che chiude la pompé, nel ruolo di mediatore tra gli umani e i celesti (Fig. 26).139 Il dio è forse presente, 135 Pyrgi 1970, p. 294 sgg., nr. 3, fig. 218: 1. Accolgo per il movimento della figura la lettura cui accenna Verzár, art. cit. a n. 72, p. 35. 136 Pyrgi 1988-1989, pp. 186, 189 sg., nr. 4, fig. 185. 137 A.-F.Laurens, «bch», suppl. 14, 1986, pp. 53-55: Cerchiai, art. cit. a n. 73, p. 89, tav. 20: 3-4. Per altre raffigurazioni di Hebe alla guida del carro: limc , 5 (1990), s. v. Herakles, p. 161 sg., nrr. 3292-3295 (A.-F. Laurens); Eadem, Heraclès. Les femmes et le féminin, cit. a n. 146, pp. 235-251. 138 Tenuta evocante l’Hercules triumphans del Foro Boario, come tale abbigliato con tunica e toga (C. Ampolo, in Etruria e Lazio arcaico, a cura di M. Cristofani, Roma, 1987, p. 86 sg.). 139 Per l’interpretazione come apoteosi dell’eroe, ma con divergenze sulle singole figure vd. limc , 5 (1990), p. 212, nr. 121, tav. 170 (S. Schwarz), 332, nr. 559; P. J. Riis, op. cit. a n. 44, pp. 60-64, 120, fig. 60 a-b, con bibl.; A. Naso, art. cit., n. 45, p. 161 sg., fig. 83. Per R. Jannot («Rev. Arch.», 1977, p. 8, n. 5) la figura con leonté sarebbe Dioniso e la compagna da lui tenuta per la mano un uomo. Il corteo è aperto da una dea con aulòi, in cui non esito a riconoscere Atena, ricordando che Pindaro (Pyth., 12, 6-27) e Corinna (fr. 29 Bergk; Plut., De mus., 14) attribuivano alla dea l’invenzione dello strumento (cfr. F. Lasserre, Plutarque. De la musique, Lausanne, 1954, p. 50; Th. J. Mathiesen, Apollo’s Lyre, Lincoln-London, 1999, p. 178 sg.) e che la Minerva dell’Aventino era la protettrice dei tibicines romani (Varr., l.l., 6. 17; Fest., 134 L.). Eracle che tiene per il polso Ebe ritorna anche su gemme di v secolo (vd. D. Emmanuel Rebuffat, Paris 1992, p. 65, fig. 9, che pensa anacronisticamente ad Alcesti).

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Fig. 28. Frammenti dell’acroterio posto al culmine della facciata del tempio B.

e nella stessa posizione, anche nell’altorilievo di Pyrgi, se gli può essere riferita la figura in cammino con calcei, invero apteri, adiacente al margine sinistro di uno dei quadri.140 Il tema, comportante almeno quattro figure ed un carro, appare quanto mai adatto all’altorilievo del columen della facciata principale del tempio, a coronamento delle fatiche rappresentate sui mutuli. Il programma figurativo del tempio B culminava nel gruppo statuario di due figure a grandezza naturale, collocato al sommo del tetto in funzione di acroterio principale (Fig. 27). Ritengo infatti che si possa ormai sciogliere ogni riserva circa la funzione del gruppo di cui ci restano poco più di cinquanta frammenti, facilmente distinguibili dai pochi spettanti a statue votive non solo per il formato maggiore delle statue cui si riferiscono, ma anche per la struttura più robusta, il corpo ceramico più grossolano, di uniforme colore rossastro, le superfici assai deteriorate, oltre che prive della originaria policromia, e specialmente al livello delle spalle e delle braccia (Fig. 28).141 Indizi che depongono tutti a favore di un gruppo acroteriale,142 esposto da ogni lato all’aggres140 Pyrgi 1970, p. 294, nr. 1, fig. 218: 2. Cfr. Massa-Pairault, 1985, p. 23, che pensa al guardiano dei buoi di Gerione (dei quali non v’è traccia tra i frammenti degli altorilievi). Altrimenti la figura sarà da collocare sempre alle spalle di Eracle, ma nel quadro della lotta con l’Idra (Pyrgi 1988-1989, p. 190), posto sulla facciata posteriore del tempio, rivolta verso la sorgente. 141 Pyrgi 1970, p. 668, figg. 509-512. I frammenti a Fig. 28 sono fotograficamente inediti, tranne il nr. 6 (= fig. 512:4). Hanno i nrr. 18153 (nr. 1), 46763 (2), 40475 (3). 29343 (4), 36081 (5), 957 (6). 142 Il cui plinto era ancorato verticalmente con perni metallici da due cm. in un apposito alloggiamento a cassetta, posto sul dorso del coppo di colmo, rinforzato esternamente da robuste nervature (Fig. 28: 1).

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sione delle intemperie, il cui riconoscimento fa rientrare anche il tempio B in quella che è la norma per i tetti non solo di i fase, a cominciare dalla residenza di Poggio Civitate, dal tempio di S. Omobono e dallo stesso sacello beta di Pyrgi.143 Ma anche della ii fase iniziale, come sappiamo dalle fonti letterarie per il tempio di Giove Capitolino (quadriga di Giove) e dai resti giunti fino a noi per i templi di Veio-Portonaccio, Satricum, Falerii-Vignale e Arezzo-S. Jacopo, databili tra il 500 e il 480 a.C.144 Il gruppo acroteriale di Pyrgi raffigurava un guerriero e una donna panneggiata, affiancati in posizione frontale, con la donna alla sinistra dell’uomo, entrambi a piedi nudi col sinistro avanzato. Il guerriero era certamente Eracle, poiché resta una zampa della leonté annodata sul petto (Fig. 28:5): un Eracle oplita,145 armato degli schinieri (decorati con serpenti a sbalzo) avuti in dono da Efesto146 e della corazza (a doppio ordine di pteryges) avuta dallo stesso Efesto o da Atena, come premio per gli athla.147 Tuttavia sui monumenti di età arcaica, e non solo su di essi, l’eroe indossa la corazza sporadicamente, ma nelle più disparate occasioni: vedi, per quanto attiene alla scultura templare, il frontoncino dell’Acropoli con l’uccisione dell’Idra, il frontone orientale di Egina con la spedizione contro Laomedonte, il tesoro dei Massalioti a Delfi, se nel personaggio con corazza e spoglia ferina è da riconoscere Eracle, impegnato nella gigantomachia o nella amazzonomachia, e ora anche il ciclo acroteriale di Satricum con la gigantomachia.148 Evidentemente la riluttanza a raffigurare l’eroe con vesti ed armi improprie, nell’aspetto di ‘ladrone’, introdotto da Pisandro o da Stesicoro, invece che in quello tradizionale di eroe aristocratico,149 era piuttosto diffusa. Nell’Etruria arcaica troviamo l’eroe armato di corazza in una battaglia del Pittore di Micali e nella gigantomachia raffigurata su una delle lamine bronzee da Tarquinia, nella lotta con l’Idra dell’idria ceretana del J. Paul Getty Museum e in alcune raffigurazioni vascolari della lotta con Gerione, col centauro Nesso e con Kyknos.150 Rarissima comunque, anche se del tutto coerente con lo Scutum pseudoesiodeo, è l’associazione della corazza agli 143 Cui ora si aggiunge a quanto pare il «sacello» ionizzante di Satricum (P. S. Lulof, Stips votiva. Studies presented to C. M. Stibbe, Amsterdam, 1991, pp. 111-115; Eadem, Meded Rome, 56, 1997, pp. 87-90). Per S. Omobono vd. infra, n. 304. 144 Per Satricum vd. ora P. S. Lulof, The ridge-pole statues from the late archaic temple at Satricum, Amsterdam, 1996; per Falerii-Vignale C. Carlucci, «Arch.Class.», 47, 1995, p. 81 sg., n. 45; per Arezzo-S. Jacopo A. Maggiani, in Crises et transformations, p. 33 sg. In generale sugli acroteri di culmine: P. Danner, Deliciae fictiles, Stockholm, 1993, p. 95 sgg. 145 Come l’Eracle hoplisménos, fungente da simulacro nel tempio del dio a Sparta, in riferimento alla lotta sostenuta contro gli inospitali figli di Ippocoonte (Paus., 3, 15, 3), campioni di hybris armati di clava (M. Giangiulio, in Heraclès. Les femmes et le féminin (Actes du colloque de Grenoble, 1992), a cura di C. Jourdain-Annequin, C. Bonnet, Bruxelles-Rome, 1996, p. 229, n. 50). Cfr. G. Becatti, «Bull.Com.Arch.», 67, 1939, pp. 43-45. 146 Ps. Hesiod., Scut., 122 sg. 147 Ibidem, 124-127 (Atena); Diod., 4, 14, 2 (Efesto); Apollod., 2, 11 (Efesto). 148 Vd. in generale limc , 4 (1988), e 5 (1990), s.v. Herakles, nrr. 46, 48, 73, 1995, 2021, 2177, 2308, 2330, 2464, 2479, 2821, 2975, nonché, per Satricum, Lulof, op. cit., p. 63 sgg. Per il tesoro dei Massalioti (su cui ora J. Marcadé, Delphes. Centenaire de la «grande fouille» (Actes du colloque de Strasbourg 1991), Leiden, 1992, pp. 253-255) mi riferisco al torso M 1 in E. Langlotz, Studien zur nordostgriechische Kunst, Mainz, 1975, p. 50 sg., tavv. 8, 1-4 (cfr. Guide de Delphes. Le musée, Paris, 1991, p. 50 sg., fig. 14:a). Talora l’eroe non indossa la corazza ma ha gli schinieri (limc , cit., nr. 2007, e s.v. Hercle, nr. 294, con le considerazioni di A. Cambitoglou, St. A. Paspalas, limc , 7 (1994), p. 986, nr. 166, tav. 713). 149 B. d’Agostino, Eracle e Gerione: la struttura del mito e la storia, «aion ArchStAnt», n.s. 2, 1995, pp. 7-13. 150 Pittore di Micali: N. J. Spivey, The Micali Painter and his Followers, Oxford, 1987, pp. 14, 67, nr. 63 (potrebbe riferirsi alla battaglia spartana con gli Ippocontidi). Lamina tarquiniese a Vienna: G. Colonna, Deliciae fictiles, cit. a n. 145, p. 149 sg., fig. 7. Idria ceretana: limc , 5 (1990), s.v. Herakles, nr. 2016, tav. 56, e ora J. M. Hemelrijk, Greek Vases in the J.P.Getty Museum, 6, 2000, p. 122 sgg. Altre raffigurazioni: limc , 5, s.v. Hercle, nrr. 256, 294, 296, 309. Cfr. anche F. Jurgeit, in Atti del ii Congresso internaz etrusco, Firenze 1985, 2, Roma, 1989, p. 723 sg.; J. Gy. Szilágyi, Ceramica etrusco-corinzia figurata, 2, Firenze, 1998, p. 364, n. 217.

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schinieri: l’incontrarla sull’idria ceretana con l’impresa dell’Idra e su una gemma greco-fenicia di Ibiza151 fa pensare a una iconografia rimasta viva, oltre che a Sparta,152 nella periferia occidentale del mondo greco, in ambito etrusco, punico e forse ionico. La donna, vestita di chitone poderes manicato e di himation trasverso, con cascata di trecce nodose sul petto e sulle braccia, senza alcuna traccia di egida e di altre armi, non sembra possa essere Atena:153 si tratterà invece, coerentemente col tema riconosciuto nei resti dell’altorilievo principale della facciata, di Era, la madre di Ebe, che l’eroe aveva difeso dalle voglie dei Sileni, in un mito popolare più in Etruria che nel mondo greco, e anche dalle attenzioni del ‘re’ dei Giganti Porfirione, in un episodio centrale della gigantomachia,154 cui forse specificamente alludono la tenuta da oplita dell’eroe e i piedi nudi della dea. Il gruppo celebra a quanto pare l’apoteosi di Eracle, conseguita per intercessione della dea da cui l’eroe aveva tratto il proprio nome e da cui aveva ottenuta in sposa la figlia, a ricompensa non tanto delle dodici fatiche quanto dell’aiuto portato alla dea e agli altri Olimpii nel momento supremo dello scontro con i Giganti.155 Se quanto si è detto corrisponde al vero, quella del tempio B s’impone alla nostra attenzione come la più complessa, anche se disperatamente mutila, testimonianza del ciclo mitologico di Eracle finora restituita dall’Etruria arcaica, in particolare per quanto riguarda il sopraggiunto rapporto di mutua solidarietà tra Eracle ed Era, che ne è l’aspetto più significativo. La testimonianza di Pyrgi va ad affiancarsi, per tale aspetto, alla silenomachia delle metope del tempio più antico dell’Heraion del Sele156 e alla tradizione che attribuiva a Eracle la fondazione del già più volte ricordato Heraion del Lacinio, oltre che del tempio di Era Aigophagos a Sparta, celebrante, nella prospettiva tipicamente peloponnesiaca dell’ostilità della dea verso l’eroe, l’avvenuto superamento di quel rapporto conflittuale.157 Il ruolo di fondatore del culto di Era può invero fondatamente supporsi per Eracle anche nei confronti del temenos di Pyrgi, considerato il posto pressoché esclusivo, diversamente che all’Heraion del Sele, detenuto dal’eroe nell’apparato figurativo del tempio B e, come vedremo, sulla fronte principale del tempio A. Si può in altre parole pensare che a Eracle, transitato secondo una consolidata tradizione sulla costa ceretana e sulle retrostanti colline con la mandria di Gerione, nel

151 limc , 4, p. 736, nr. 46, tav. 448. Sull’idria indossa corazza e schinieri anche Iolao, cui quelle armi sono riservate nella storia dell’Idra sia sui vasi attici coevi (J.-J. Maffre, «Rev. du Louvre», 35, 1985, p. 89, fig. 9 sg.) che nei piedi di cista vulcenti di inizio v secolo (limc 5, p. 220, nr. 200, tav. 172). 152 Vd. n. 146. 153 Come vorrebbe P. M. Lulof, Archaic terracotta acroteria reptresenting Athena and Heracles: manifestations of power in central Italy, «Journal of Roman Archaeology», 13, 2000, pp. 207-219, spec. 210 sg., fig. 5 (altrettanto dubbia l’identificazione con Atena della compagna di Eracle nei gruppi, ancor più frammentari, di Caere e di Satricum: una forzatura è anche l’interpretazione come acroteri, invece che donari, dei due gruppi di Atena ed Eracle provenienti da Veio-Portonaccio, con la conseguente, inaccettabile datazione anche di quello recenziore al terzo quarto del vi secolo). 154 Apollod., 1, 6, 2 (e Pind., Pyth. 8, 17 per il titolo di «re»). Cfr. N. Valenza Mele, Recherches sur les cultes grecs et l’Occident, 1, Naples, 1979, pp. 29-31. 155 Per le fatiche, intese in senso iniziatico: F. Bader, D’Héraklès à Poséidon. Mythologie et protohistoire, a cura di R. Bloch, Paris, 1985, p. 121 sgg. Per la lotta coi Giganti: Valenza Mele, art. cit., p. 24 sg. 156 Accuratamente riesaminate da C. Masseria, M. Torelli, Le mythe grec, pp. 209-222, 244 sgg., con bibl. 157 Lacinio: Serv., auct., Aen. 3, 552 (da Timeo); Sparta: Paus., 3, 15, 9. Cfr. Giangiulio, art. cit. a n. 75, pp. 52-57; Idem, art. cit. a n. 146, pp. 220-233. Le testimonianze del Lacinio e del Sele dipendono da tradizioni euboiche (d’Agostino, art. cit. a n. 150, p. 11, con bibl.) o, più genericamente, della Grecia centro-settentrionale (A. Mele, L’incidenza dell’Antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, 1, Napoli, 1995, pp. 448-450). Si noti che la Era «divoratrice di capre», cui Eracle dedica il tempio, corrisponde alla Iuno Sospita latina ed etrusca, ossia alla Iuno più ostile al dio (E. Simon, «Atti e mem.Soc.M.Grecia», s. 3, 1, 1992, pp. 209-217).

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tragitto da Portus Herculis a Roma, con soste obbligate presso lagune, sorgenti e specchi lacustri,158 nonché fatto oggetto a Caere, posta sullo stesso itinerario, di un culto urbano particolarmente intenso ed antico, legato anch’esso a una fonte,159 fosse attribuito il ruolo di fondatore dell’area Nord, sacra a Uni-Era. Il che sarebbe accaduto al tempo della Agylla pelasga160 e nel sito già donato alla dea, come sopra si è supposto, dalla ninfa Tethys, originaria signora del luogo. Detto questo bisogna però subito aggiungere che a distinguere nettamente il tempio di Pyrgi dalle testimonianze spartane e magno-greche del rapporto di philia stabilitosi tra Eracle ed Era sta l’utilizzazione della aristeia dell’eroe in funzione, per così dire, della sua apoteosi finale, raffigurata con un’enfasi celebrativa del tutto sconosciuta al mondo greco.161 È questa speciale evidenza, affidata agli acroteri principali dei templi o a donarii di grande prestigio, a fare dell’apoteosi di Eracle in ambito etrusco e latino, come da tempo è stato riconosciuto, un tema squisitamente ‘tirannico’, pubblicamente esibito, dopo le precedenti, discrete allusioni dei fregi fittili di ambito palaziale,162 con opere d’arte di notevolissimo impegno nella Roma di Tarquinio il Superbo e nella Veio alleata di Porsenna.163 Andando molto al di là della pur assai vasta fortuna goduta nel mondo greco in quanto simbolo di mobilità e di promozione sociale,164 il mito dell’apoteosi diventa nell’Italia centrale, indipendentemente dal possibile significato dina158 L’eroe aveva lasciato il suo nome a un Fons Herculis, menzionato per uno dei prodigi avvenuti dopo la sconfitta del 217 a.C. al Trasimeno (Liv. 22, 1, 10: cfr. Pyrgi 1988-1989, p. 45), attorno al quale si svilupparono le Aquae Caeretanae, situate nell’entroterra di Pyrgi, a monte di Pian Sultano (così denominate perché rimaste nell’ager di Caere dopo la fondazione della colonia di Pyrgi, nonostante la pertinenza geografica a quel centro). Di fatto il sito ha recentemente restituito dediche di età imperiale a Ercole, Giove e Fons (R. Cosentino, P. Sabbatini Tumolesi, Miscellanea ceretana, cit. a n. 99, pp. 95-112; Eaedem, «Boll.Archeol.», 7, 1991, pp. 75-82). Vd. anche, per una nuova testimonianza dalla zona del Mignone, A. Naso, Zeitschr für Papyr. u. Epigraphik, 105, 1995, pp. 57-62. Si ricordi che a Taso è attestata l’esistenza di un kepos di Eracle, ricco di acque (M. Launey, Etudes thasiennes, 1, Paris, 1944, pp. 161, 185-187). Per il tema di Eracle alla fonte vd. ora F.-H. Massa-Pairault, Aspetti e problemi della produzione degli specchi etruschi figurati (Atti dell’incontro internaz., Roma 1997), Roma, 2000, p. 183 sgg., con bibl. 159 Nel santuario in corso di scavo alla Vigna Calabresi, di cui ha dato notizia M. Cristofani in questo convegno (cfr. anche M. A. Rizzo, «Boll.Arte», 101-102, 1997, suppl., pp. 65-70). L’antichità del culto è provata dalla dedica sotto il piede di una kylix del 490 circa firmata da Euphronios come vasaio, di cui sono state date interpretazioni divergenti (Colonna, 1989-1990, pp. 901-903; M. Martelli, «Arch.Class», 43, 1991 [1992], pp. 613621, seguita da M. Cristofani, Due testi dell’Italia preromana, Roma, 1996, pp. 55-60, con altra bibl.). La popolarità dell’eroe a Caere è comunque già provata verso il 580-570 a.C. dal cratere etrusco-corinzio detto dei Gobbi (Szilágyi, op. cit. a n. 151, pp. 387-392). Il santuario si trova all’uscita dalla città in direzione di Roma dell’itinerario proveniente da Pyrgi e dalle Aquae Caeretanae. 160 Interessante al riguardo, come mi fa notare J. P. Thuillier, che ringrazio, il nome di Agylleus, dato da Stazio al figlio di Eracle, che partecipa nella Tebaide alla spedizione dei Sette (Theb., 6, 836-910; 10, 249-313). 161 Dove, com’è noto, la scultura templare accoglie il tema dell’apoteosi solo in un frontoncino dell’Acropoli (ritenuto da alcuni parte marginale di uno dei frontoni del più antico tempio di Atena: J. Boardman, Greek Sculpture. The archaic Period, London, 1978, p. 154, figg. 192, 194). Il tema compariva anche sul trono e sull’altare di Amyclae (Paus., 3, 18, 11; 19, 5), ma in un contesto mitografico particolarmente affollato e senza avere particolare risalto (A. Faustoferri, Il trono di Amyklai e Sparta. Bathykles al servizio del potere, Perugia, 1996, pp. 115 sg., 241). 162 Menichetti, op. cit. a n. 107, p. 94 sgg. 163 Ampolo, art. cit. a n. 139, p. 85 sg.; G. Colonna, «Op.Rom.», 16, 1987, p. 32 sg. Cfr. da ultime M. Mertens-Horn, Deliciae fictiles, 2, Amsterdam, 1997, pp. 143-145, che ricorda opportunamente il «travestimento» da Eracle di Milone, hegemón dei Crotoniati vincitori di Sibari nel 510 a.C., e Lulof, art. cit. a n. 144, con bibl., La critica di P. Bruun all’identificazione del tema sulle lastre di Velletri (in Deliciae fictiles, cit. a n. 145, pp. 267-275; ma vedi M. Torelli, art. cit. a n. 116, p. 255 sg.) non tocca minimamente gli altri e ben più significativi monumenti in cui il tema e la sua valenza ‘tirannica’ sono stati riconosciuti. 164 In tal senso J. de la Genière, L’immortalité d’Héraclés: voyage d’un mythe grec (Actes du du colloque de la Villa «Kerylos»), (1995), Rome, 1996, pp. 99-111. Significativo che a Poseidonia l’apoteosi di Eracle compaia non nell’Heraion del Sele ma nel cenotafio dell’ecista nell’Agorà, cui era attribuito uno statuto eroico (ibidem, p. 104 sg., fig. 3).

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stico attribuitogli dai re Tarquinii,165 la massima espressione delle aspettative nutrite da chi era riuscito a conquistarsi, anche col vantato appoggio della divinità, un forte potere personale. Incontrare il tema a Pyrgi (e nella stessa Caere),166 con un risalto ancora maggiore che a Roma e a Veio, induce ad attribuire al tempio B e al suo temenos, anche a prescindere dai documenti epigrafici di cui si dirà subito appresso, il valore di una testimonianza di storia, facendo intravedere anche per la regalità cerite, del tutto ignorata dalle fonti letterarie, a parte il leggendario Mezenzio, l’assunzione di connotati ‘tirannici’. Nel pieno iv secolo si intervenne, come già accennato, anche sull’apparato figurativo del tempio B, oltre che sulle antefisse dell’edificio delle 20 celle, con integrazioni peraltro assai limitate. Fu allora messo in opera sulla fronte principale del tempio un altorilievo simile per il modulo delle figure a quelli di età arcaica sopra illustrati, ma su lastre di fondo di taglio rettangolare, in numero di almeno due, affisse probabilmente alla base del triangolo frontonale.167 Per quanto apprendiamo dai pochi resti pervenutici, non vi compariva Eracle ma una dea riccamente abbigliata e ingioiellata, dai capelli raccolti in un sakkòs, da identificare con Uni/Astarte o con Turan/Afrodite, un’altra dea dalla chioma fluente seminascosta da un elmo attico civettuosamente sollevato, da identificare con Atena, e almeno un personaggio maschile stante, che potrebbe essere Paride, impegnato nel famoso giudizio (un tema assai appropriato per la funzione cui riteniamo fosse destinato il vicino edificio delle 20 celle, come si dirà appresso). I culti del tempio B e dell ’ area C S’impone a questo punto un riesame, pur rapido, dei culti attestati epigraficamente nel temenos dell’area Nord e delle rispettive localizzazioni. Possediamo al riguardo, oltre a quei pocola deorum assai antichi e particolari che sono le ciotole dipinte col nome di Uni al possessivo,168 le iscrizioni delle tre lamine d’oro e della grande lamina bronzea, rinvenute, assieme ai chiodi che erano serviti per la loro affissione e a una parte delle bullae auree della porta del tempio B,169 in un ripostiglio a cista rettangolare, frettolosamente apprestato nei pressi dell’area C dopo la parziale demolizione delle strutture del tempio e contestualmente all’accatastamento a terra delle sue terrecotte architettoniche, in relazione col nuovo piano battuto allora creato (secondo quarto del iii secolo a.C.).170 Il ripostiglio utilizzava come sponde su tre lati elementi di spoglio del tempio B (blocchi d’anta intonacati e sime frontonali fittili) (Fig. 29), sul quarto un fianco del monolite, che si è supposto fungere da base al secondo altare dell’area C: un apprestamento composito, che non a caso accostava tra loro materiali e componenti dei due poli cultuali del temenos. Le quattro lamine iscritte giacevano nella parte alta del ripostiglio, in posizione approssimativamente centrale: pur nella patente diversità di mano che distingue la ‘bella’ lamina bronzea, assieme a un non meno evidente conservatori165 Su cui insiste D. Briquel, Le mythe grec, pp. 101-120, sviluppando il discorso sui «re corinzi» di Roma aperto da F. Zevi, L’incidenza dell’Antico, cit. a n. 157, pp. 291-314. 166 Frammenti seminediti dalla Vigna Parrocchiale (Lulof, art. cit., p. 210, fig. 4). 167 Pyrgi 1970, p. 604 sgg., fig. 461 sg.; Pyrgi 1988-1989, p. 209 sg., fig. 175 sg. 168 Da ultimo Pyrgi 1988-1989, p. 285, fig. 251: 2. Sul gruppo Spurinas ha in corso uno studio D. F. Maras. 169 Sulle bullae (talmente connesse all’idea di porta da non mancare nemmeno nelle riproduzioni miniaturistiche di porte urbiche presenti sulle gemme. Krauskopf, op. cit. a n. 283, tav. 4 c, nr. 290) sono tornato in Colonna, 1989-1990, p. 215, n. 63. 170 Il che dimentica M. Torelli, quando considera il ripostiglio come funzionalmente pertinente all’area C, interpretandolo come il contenitore della sepoltura rituale di Adone, in una prospettiva che vorrebbe fare dell’area C un Adonion simile a quello da lui identificato nell’edificio ‚ di Gravisca (Paris 1992, p. 266, fig. 30).

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Fig. 29. Il ripostiglio delle lamine d’oro sovrapposto al suolo arcaico della piazza.

smo sia grafico che fonetico, le lamine sono sostanzialmente coeve tra loro171 e con i due complessi citati, ossia il tempio B e l’area C, tra i quali vanno ripartite secondo una ratio che è ancora oggetto di discussione. Le tre lamine d’oro,172 accomunate dalla forma, dalle dimensioni e dalla menzione di Thefarie Velianas, si distinguono tra loro per essere due in etrusco e la terza, qualificante Thefarie come ‘re su Kaisrie’, in fenicio. Esse ci restituiscono il nome del personaggio cui allude abbastanza scopertamente l’apoteosi di Eracle raffigurata, come abbiamo visto, dall’acroterio e dall’altorilievo principale del tempio B. Si tratta certamente del detentore di un potere ‘regale’ nella Caere del tempo, amico di Cartagine, dato che fa tradurre in fenicio il testo della lamina maggiore, e responsabile della monumentalizzazione dell’area Nord del santuario. A mio avviso infatti le lamine d’oro commemorano la costruzione dell’intero temenos dell’area Nord, ma danno comprensibilmente uno speciale risalto al tempio B, che ne era il centro focale, sotto il profilo sia cultuale che architettonico (non foss’altro che per i suoi quasi 600 metri quadrati di superficie coperta), e al quale il contesto di provenienza fa ritenere che fossero materialmente affisse. La divinità menzionata è una sola, Uni nel testo etrusco lungo, Astarte nel paral-

171 Colonna, 1989-1990, p. 209 sg., n. 47, con bibl. Contra Cristofani, 1996, p. 68 (mentre in Die Göttin von Pyrgi, Firenze, 1981, p. 60, aveva attribuito la lamina bronzea allo stesso scriba di quelle auree!). 172 L’uso dell’oro per documenti pubblici non mi risulta altrimenti attestato in Occidente, anche se si affermava che Romolo avrebbe fatto iscrivere in tabulas aureas i nomi dei primi senatori, che da esse sarebbero stati chiamati patres conscripti (Isid., Etym., ix, 4, 11). L’augurio di eternità, implicito nell’uso dell’oro, è confermato dall’uso che se ne è fatto per le lamine orfiche (cfr. A. Bottini, op. cit. a n. 332, p. 105 sg.).

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lelo testo fenicio, manifestamente identificate tra loro da chi ha dettato i due testi. La dea compare nella veste di colei che ha ‘chiesto’ per sé, come recita il testo etrusco, «questo tempio e quel santuario (letteralmente forse ‘quelle case’)», mentre nel testo fenicio si parla della dedica alla Signora Astarte di «questo tempio … in dono nel santuario (letteralmente ‘nella casa’)».173 L’enfasi posta nel testo fenicio sul tempio (in fenicio ’šr qdš, in etrusco tmia)174 non autorizza a ritenere, contro la vincolante evidenza del dato stratigrafico, che il santuario, o temenos che dir si voglia (in fenicio bt, in etrusco herama®va),175 sia ad esso preesistente.176 Così come l’enfasi ulteriore posta nel testo fenicio, in una sorta di crescendo, sulla cella (tw), che in esso è l’unica ‘richiesta’ esplicitamente attribuita ad Astarte e alla cui porta, tempestata di bullae d’oro, erano probabilmente affisse le lamine, non deve far pensare che il termine si riferisca a una diversa struttura, di carattere accessorio – si è parlato di un’edicola –, costruita successivamente e al tempio e al santuario, e precisamente sopra l’area C,177 che nulla autorizza a credere essere mai stata nemmeno in parte coperta e il cui interno era completamente occupato dai due altari e dal pozzo. In proposito aggiungo a quanto da me scritto in precedenza che la menzione della cella, compresa di fatto in quella del tempio, si recupera con ogni probabilità anche nel testo etrusco in forma esplicita, con riferimento al donatore Thefarie Velianas. Nel lungo e ancora in parte oscuro enunciato, che occupa tutto il corpo centrale del testo, da ıemiasa a seleitala, si distinguono abbastanza chiaramente due sezioni, di cui la prima, contenente il nome del donatore Thefarie Velianas (ıemiasa me¯ ıuta ıefarie(i) velianas sal cluvenias turuce munistas ıuvas tameresca), termina con il verbo turuce, seguito dal sintagma munistas ıuvas tameresca, mentre nella seconda, da ilacve a seleitala, sono state da tempo riconosciute due formule di datazione, inerenti al voto e alla dedica del tempio. Sintatticamente il sintagma munistas ıuvas tameresca non può essere, stante il pronome al nominativo -(i)ca, che un’apposizione del soggetto del verbo precedente, ossia di ıefarie(i) velianas.178 Se, come è stato autorevolmente proposto, l’ultimo lemma è da consi-

173 Nel testo etrusco l’azione della dea è espressa, come da tempo è stato riconosciuto (cfr. Colonna, 19891990, p. 201 sg.), col verbo in forma passiva (vatie¯e) e il teonimo in caso agentivo (unialas-), seguito dalla posposizione -tra anch’essa in agentivo (le perplessità «fattuali» di C. de Simone, «aion ling», 12, 1990, p. 264, sono infondate, così come la sua interpretazione di -tra), mentre nel secondo enunciato del testo fenicio la stessa azione è espressa col verbo all’attivo (’rš) e il teonimo al nominativo. Cfr. ora K. Wylin, Il verbo etrusco. Ricerca morfosintattica delle forme usate in funzione verbale, Roma, 2000, pp. 266-269. 174 Wylin, op. cit., p. 275 sg., ritiene che ’šr qdš corrisponda a me¯ ıuta (e tmia a tw), ma veramente arduo è intendere con lui zilaı me¯ rasnal come «praetor della zona etrusca» o «della zona del popolo». Per Cristofani, 1996, p. 71, ‘šr qdš corrisponde ancora più inverosimilmente a sal cluvenias. 175 Forma questa di plurale, alternante con heramve (loc.sing. di *heramu, rec. hermu) nella chiusa. Forse l’alternanza plurale/singolare è connessa a quella tra forma ampliata in-(a)s e forma ampliata in -u, che a sua volta potrebbe avere valore semantico (le «stanze» rispetto alla «casa»). Con entrambe le forme ci si riferisce al «santuario», ma con la prima l’accento è posto sulla parte coperta della «casa», e nella fattispecie, essendo già stato nominato il tempio, sulla sequenza delle 20 celle. 176 Come ritiene Wylin, op. cit., p. 270 sg., nell’errata convinzione che la dea avrebbe chiesto il tempio e il santuario, ma Thefarie Velianas avrebbe costruito solo il tempio, perché il santuario esisteva già. Ma è facile obbiettare che la dea non poteva richiedere qualcosa che già esisteva. Per Cristofani l’enunciato iniziale si riferirebbe alla «descrizione» di una realtà monumentale già esistente, ma ciò non dà conto della «richiesta» della dea e contrasta col ruolo di Thefarie esplicitamente affermato nel corrispondente enunciato del testo fenicio. 177 Cfr. n. 99. Altrimenti si è continuato a parlare di una costruzione interna al tempio B, sede di un culto diverso da quello di Uni (C. Bonnet, Astarté. Dossier documentaire et perspectives historiques, Roma, 1996, p. 123). A favore della teoria dell’edicola i semitisti non hanno saputo addurre di meglio che le dimensioni e il tipo delle iscrizioni di fondazione (così da ultimo G. Garbini, in Studi di egittologia e di antichità puniche, a cura di E. Acquaro e S. Pernigotti, 11, 1992, p. 84, n. 26), senza tener conto dei confronti addotti in Colonna, 1989-1990, p. 206, n. 39. 178 H. Rix, Die Göttin von Pyrgi, p. 85. Cfr. Wylin, op. cit., p. 271.

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derare l’esito, sul piano fonetico, della metatesi *tamerasica > *tameraisca e della successiva monottongazione *tameraisca > tameresca,179 allora il sintagma in questione andrà inteso come «quello del tamera del (luogo) muni(s) ıuva»,180 con la stessa distribuzione dei deittici -ita e -ica presente nell’incipit del testo («codesto tmia», vicino a chi legge, «e questi herama®va»). Sul significato di muni(s) sussistono molte incertezze, a mio avviso superabili se si accetta per esso il valore di Fig. 30. Graffito inedito di Spina, tomba 494 «luogo», in un’accezione assai vasta, che di Valle Trebba (Museo di Ferrara, inv. 22795). dalla singola tomba o tempio o area sacra arriva fino all’intera città in cui è gestita la suprema magistratura.181 Nel nostro caso il termine è specificato dall’attributo ıuva, «di qui».182 Invece tamera è un termine tecnico, riferito nelle iscrizioni funerarie alla ‘camera’ sotterranea, per definizione chiusa e segregata, in cui giacciono i defunti, assimilabile a quello che nel lessico della casa (e della nave) greca è il ı·Ï·ÌÔ˜.183 Nell’iscrizione di Pyrgi, trattandosi di un tempio, è ovvio il riferimento alla ‘cella’, cioè al luogo chiuso, interdetto ai comuni fedeli, in cui abita la dea. Non è allora troppo ardito pensare che la qualifica di «addetto alla cella del (luogo) sacro di qui»,184 di cui è gratificato Thefarie, 179 H. Rix, ibidem, p. 97 sg. Altrimenti Rix pensa a una metafonia palatale (cfr. Rix, 1984, p. 230, seguito da G. Giannecchini, «StEtr», 62, 1996, p. 290), che però non giustifica il dileguo della -i- di -ica. 180 Foneticamente munistas sembra essere, coerentemente con tameresca, esito della metatesi *munisitas > *muniistas. La base è munis, con -s tematica, come in munsle e in munisuleı, nonché nella dedica di Manchester et , OA 3.9. 181 Da ultimi A. Maggiani, in «StEtr», 62, 1996, p. 106; K. Wylin, op. cit. (a n. 173), p. 242 s.; G. M. Facchetti, Frammenti di diritto privato etrusco, Firenze, 2000, pp. 22-24; D. F. Maras, Munis turce: novità sulla basetta di Manchester, in «Rend.Pont.Acc.», c.s. (qui tutta la documentazione). L’accezione più vasta risulta da et , Ta 1.162 (municlat zila¯nce = «domi praeturam egit», cfr. G. Colonna, in «St.Etr.», 52, 1984, p. 286, nr. 10) e et , Cr 1.161 (secondo la lettura accolta da Wylin, cit.). Per quella minima vd. il graffito muni (< muni-ie) sotto il piede di una kylix a v. nera di prima metà v sec. da un corredo funerario di Spina (G. Colonna, in Spina, Storia di una città tra Greci ed Etruschi, Ferrara, 1993, p. 138), dichiarante l’appartenenza del vaso «al luogo» in cui si trova, ossia alla tomba (concetto espresso, in altra età ed ambito, con la scritta ®uıina) (Fig. 30).Tale significato trova conferma nelle scritte che appaiono su banchine di tombe a camera e cippi della necropoli di Caere, in riferimento a posti inizialmente lasciati liberi (come i primi due a destra dell’ingresso nella tomba dei Sucu, forse destinati alla coppia dei fondatori della tomba: et , Cr 0.29 s.) e a strutture di servizio, quali il pozzo-ossario (cippo in funzione di coperchio con la scritta hupni munis, «deposito del luogo»: et , Cr 0.35) e la nicchia perietale adiacente all’ingresso, forse per l’appoggio di lucerne e torce (munise < muni-sie, cfr. forse come ce¯ase: et , Cr 0.35). Il «luogo» può essere specificato in relazione al defunto che lo occupa (munsle nacnvaiasi della tomba dell’Orco I [et , Ta 5.2]: «nel luogo del nonno», cfr. spureıi apasi) o con una perifrasi alludente alla sua natura funeraria (lupuce munisuleı calusurasi [et , At 1.107 e 109]: «giacque morto nel luogo dei Calus»; calusi(m) lupu meani municleı [et , Ta 1.170]: «giacque morto nel mean di Calu, in questo luogo»). Il «luogo», infine, ha una sicura valenza santuariale, come ha dimostrato Maras, art. cit., nella dedica di Manchester. 182 Corradicale all’avverbo, ıui, «qui». Vd. infra, n. 191. 183 Camera altrimenti chiamata cela (et , Ta 1.66, Vc 0.40), con un imprestito dal latino o dal falisco. Sul significato di tamera nelle iscrizioni funerarie, riconosciuto da K. Olzscha, Glotta, 48, 1970, p. 265 sgg., vd. da ultimi A. Emiliozzi, Miscellanea etrusco italica, i, Roma, 1993, p. 135, n. 38 (a proposito delle tombe degli Alethna di Musarna), e L. Agostiniani, in Studi linguistici offerti a Gabriella Giacomelli, Firenze, 1996, pp. 1-16. Sull’equiparazione concettuale della camera in cui giacciono i defunti a un thalamos: G. Colonna, E. Di Paolo, in Etrusca et Italica. Scritti in ricordo di M. Pallottino, i, Roma-Pisa, 1997, pp. 160 sgg. 184 Già il Pallottino nella editio princeps del testo («Arch.Class.», 16, 1964, p. 90 sg.) pensava a «cose o ad incarichi spettanti all’addetto o agli addetti del sacrario o di sue singole parti».

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Fig. 31a-b. L’area Nord del santuario intorno al 500 a.C., con la terminologia architettonica della lamina d’oro fenicia e del corrispondente testo etrusco.

alluda alla sua qualità di ‘sposo’ di Uni-Astarte,185 in rapporto al rito della ierogamia cui sembra alludere anche il testo semitico,186 oltre che, come si è visto, la decorazione figurata del tempio. Se si accetta questa interpretazione la corrispondenza del lessico architettonico dei testi scritti nelle due lingue diviene completa: l’articolazione spaziale cella-tempio-santuario è resa in fenicio con tw - ’šr qdš - bt (Fig. 31a), in etrusco con tamera - tmia187 - herama®va (alternante con *heramu, rec. hermu) (Fig. 31b). Del tutto diverso, per forma e contenuto, è il testo della lamina bronzea, una tabella a sviluppo orizzontale, faticosamente ricostruita per circa tre quarti della sua estensione188 da una miriade di frustuli, rinvenuti non in connessione ma dispersi dal

185 Così come in Sofocle thalamepolos è sinonimo di nymphios, «sposo» (Oid Tyr. 1210). 186 Colonna, 1989-1990, p. 202, n. 22, con bibl., cui ora aggiungi Torelli, Paris 1992, p. 266. Una menzione esplicita del rito è giustamente negata con forza da Garbini, art. cit. a n. 177, p. 77 sg. 187 Coi possibili sinonimi munis e acna®ver (*Atelenas), presente nella celebre dedica tarquiniese ai Dioscuri già ricordata in proposito da Pallottino, quali Papalnas, Rapalnas, ecc., rinviante al nome di funzione ata/ate (cfr. lat. Atta/us, gr. AÙÙ·, AÙÙ·ÏÔ˜), che significa qualcosa come «capo» (A. Marinetti, «Res publica litterarum», 5, 1982, pp. 169-181), con allusione alla regalità di Tina. ±ea ha un unico confronto, che la diversità della sibilante iniziale a mio avviso non basta a inficiare, con gli «dèi ±eu» (gen. aisera® ±eu®) del Liber, per i quali è proponibile un accostamento ai Titani del pantheon greco (vd. infra, n. 320 sgg.). Dovrebbe pertanto trattarsi di un epiteto per così dire genealogico. 191 Già riconosciuto come epiteto da M. Cristofani, «Ann.Museo Faina», 3, 1985, p. 80, e in Miscellanea etrusco-italica, cit. a n. 182, p. 21: cfr. anche C. de Simone, Paris 1992, p. 201. L’analisi *ıva-ra-ie consente di risalire all’aggettivo *ıva, di cui è attestato il genitivo ii ıval (che compare in posizione marcata nelle espressioni ıval veal, «della Vei di qui», e ıval meılumes, «della città che si trova qui») e il locativo ıve ( e, si può pensare alla titanide Aethra, che Igino dichiara sposa del fratello Iperione e madre di Aurora, oltre che di Sol e di Luna,320 altrimenti nota come Theia o Euryphaessa.321 Nel clima ellenizzante ed erudito del santuario di Pyrgi la dotta precisazione genealogica non desta sorpresa, anche perché accompagnata da una ricercatezza come la puntuazione sillabica, mai come in questo caso motivatamente riferibile ad ambito sacerdotale, stante la sua rarità nella Caere del tempo e la sua occorrenza, affatto insolita, in un’iscrizione su bronzo. Coerente con entrambi i fatti è la conservazione delle vocali brevi atone e anche del genitivo arcaico in -(ii)a (Uniiaıi) e di quello in -naial invece che in -nal (Caıarnaial). Dedurne una datazione nel tardo vi secolo, anteriore a quella delle altre lamine iscritte di Pyrgi,322 appare fuorviante, perché le meglio databili tra le iscrizioni vascolari di v secolo mostrano che tanto la conservazione delle vocali interne quanto il genitivo in -a dei teonimi femminili uscenti in -i, come Uni e Vei, si attardano a Caere e altrove almeno fino al secondo e al terzo quarto del secolo,323 e ancora nel secolo successivo è dato di imbattersi a Tarquinia in un genitivo di gentilizio femminile in -naial.324 D’altra parte depongono a favore di una datazione piuttosto avanzata, posteriore alle lamine auree, come rilevò a suo tempo M. Pallottino,325 sia il dimostrativo iniziale eta, invece di ita,326 sia la grafia poco curata, dovuta, in contrasto con la ricercatezza del testo, a un incisore inesperto, sia la citata monottongazione *Aitra > Etra (se da AúıÚ·), che trova un buon parallelo nella forma esia < *aisia di uno specchio probabilmente ceretano, coevo all’altorilievo dei Sette.327 La specificazione «nel (santuario) di Uni» denota un momento iniziale del culto pyrgense di Thesan, quando la dea e il suo tempio sono considerati ‘ospiti’ del santuario di Uni: una situazione che all’epoca del sacco dionigiano, quando Leucotea sarà a occhi greci tout court la titolare del santuario, risulterà almeno di fatto capovolta, con Astarte decaduta a ‘ospite’ appena tollerata di Leucotea.

317 L.L., 5, 19 sg. Seguo l’interpretazione di H. Rix, art. cit. a n. 196, pp. 677, 680, 686, accolta e sviluppata da C. de Simone, Paris 1992, pp. 190, 192. 318 Come in Hercle Unial clan (et , AV 4.1b) e in Cels clan (Co 4.1-5). 319 L.L. 2, 12; 5, 7 sg. Sul significato di farıan: G. Colonna, «StEtr», 48, 1980, pp. 161-170. 320 Hyg., fab., praef., 12 (ex Hyperione et Aethra, Sol Luna Aurora). Cfr. M. Cristofani, «StEtr», 48, 1980, p. 412 sg.; G. Colonna, ibidem, 51, 1983, p. 158, n. 81. 321 Rispettivamente da Hes., Theog., 134 sg. (e Apollod., 1, 1, 3; 2, 2) e da Hymn. Hom. 31, 2. 322 Come sostiene M. Cristofani fin da cie , p. 6312, Vd. da ultimo Cristofani, 1996, p. 68, e in Tabula Capuana, cit. a n. 267, p. 87. 323 Alcuni confronti.per la mancata sincope: et , Cr 2.114 (Atena), 123 (Ramaıas), 125 (Tauturial), 126 (£ana¯vilus), Ve 4.1 (Menervas), Vc 4.2 (Fuflunsul), «StEtr», 56, p. 339 sg. (Orvieto, Kavuıas), ibidem, 61, 1995, pp. 324 sg. (Aveles), 343 sg. (Atana). Per l’omissione di -l nel genitivo ii si può citare verso il 500 a.C. Uneia (et , Cr 2.79) e ancora verso la metà del v secolo due attestazioni di Ve(i)a, gen. di Vei (Ta 0.17; S. Polo d’Enza, cfr. G. Colonna, Paris 1992, p. 174, n. 43, fig. 9) Sugli stessi piattelli Spurinas si incontrano d’altronde sia Unial che Vea (et , O.17). Per la datazione di alcuni dei supporti vascolari citati vd. A. Maggiani, Vasi attici figurati con dediche a divinità etrusche, «suppl. 18 a «Riv. di Archeol.», 1997, p. 21 sgg. 324 et , Ta 1.7 (Pinaial). Vd. anche, sempre nel iv sec., le forme Titaias e Ataias (et , Fe 2.14 e 15). 325 «Arch.Class.», 19, 1967, p. 336 sgg. 326 Associato alla mancata sincope vocalica nell’incipit di un’altra iscrizione di area cerite (et , Cr 3.4: etan turuce). 327 Colonna, «StEtr», cit. a n. 287, p. 156 sgg.

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L’introduzione del culto di Thesan nell’area Nord del santuario, in relazione al nuovo e maggiore tempio allora costruito, anche se preceduta dalla probabile comparsa della dea nel ciclo delle antefisse attribuite all’edificio delle venti celle,328 ha un indubbio significato politico, già rilevato da chi scrive al momento dello scavo ma successivamente per lo più dimenticato, in specie dai sostenitori della cronologia alta del tempio. È infatti la Città che con esso si riappropria del suo grande santuario portuale, dopo la parentesi del ‘regno’ di Thefarie Velianas, che dovette protrarsi, in forma diretta o indiretta, fino al 480 o poco dopo, ossia fino agli anni cruciali che videro l’alleata Cartagine duramente sconfitta a Imera e i Fabii scatenare la loro guerra ‘privata’ contro la vicina Veio. Lo stesso del resto era accaduto qualche anno prima nel capoluogo con l’edificazione dei tre templi tuscanici prima ricordati, dei quali quello in località Vigna Parrocchiale sorse a spese di sontuose dimore aristocratiche e fu accompagnato dalla costruzione del probabile ekklesiasterion civico a pianta ovale.329 Il nuovo corso inizia a Pyrgi sotto il segno di Eracle, che solo apparentemente è un simbolo di continuità, dato che l’eroe è celebrato sulla fronte principale del tempio A non come l’eroe solitario che si è guadagnato con le sue imprese il favore della dea già nemica, arrivando all’apoteosi, ma come il paladino dell’intera società civile, che alla testa di uno stuolo di opliti affronta l’intera comunità delle Amazzoni, e non la sola Ippolita, come accadeva nelle monomachie del tempio B. Al suo fianco sta forse Atena, come si è visto, la dea che nella grande antefissa cerite del Louvre, coeva o di poco posteriore all’altorilievo dei Sette, è intenta a ristorarlo con la sua magica brocca, il cui contenuto era stato rifiutato a Tideo nello stesso altorilievo.330 Ancora più forte comunque è la svolta impressa sul versante religioso con il risalto conferito al culto di Thesan a spese di quello di Uni/Era, troppo compromesso con Astarte e il precedente regime e soprattutto inadatto a esprimere, sul piano ideologico, le istanze di matrice collettiva espresse dalla Città. Al contrario infatti di Uni-Era, Thesan, grazie alla assimilazione avvenuta certo da lungo tempo con Eos è una dea vicina alle ansie dei comuni mortali, una dea alata pronta ad accorrere ovunque come un angelo soccorritore, una dea che ama e soffre, per il figlio Memnone come per i molti giovani di cui si è invaghita, ponendosi in qualche modo come intermediaria tra l’uomo e i Celesti, fino a ricevere col tempo, come si è ricordato, un culto di tipo domestico e funerario. Le molte raffigurazioni che la mostrano nell’atto di trasportare in volo il figlio morto o uno dei giovani rapiti (Fig. 49),331 nell’atteggiamento di una mater dolorosa, ne fanno una dea salvifica per eccellenza, confusamente sentita come dispensiera di immortalità.332 Il che è ancora più esaltato dalla successiva assimilazione con Leucotea, avvenuta forse proprio a Pyrgi, come è richiesto dal carattere spiccatamente marino, oltre che curotrofico, della dea, sulle orme di quello che nella ‘grande Roma dei Tarquinii’ 328 Vd. supra, p. 169 sg., Fig. 20. 329 G. Colonna, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique (Actes de la table ronde, Rome 1991), Roma, 1993, pp. 343-347, fig. 10. 330 Sprenger, op. cit. a n. 246, p. 20 sg., nr. 2 (che la confronta stilisticamente con lo specchio con Athanasia personificata). Le dimensioni fanno pensare a un grande tempio cittadino, forse quello già più volte citato di Ercole in loc. Vigna Calabresi, e a una collocazione alla base del triiangolo frontonale. L’affinità all’altorilievo dei Sette è confermata dal trattamento del dorso, profondamente incavato in corrispondenza delle due figure (vd. la relazione Cristofani, fig. 16). 331 R. D. De Puma, Eos and Memnon on Etruscan Mirrors, in Murlo and the Etruscans: Art and Society in Ancient Etruria, a cura di R. D. D. P. e J. P. Small, Madison, 1994, pp. 180-189. 332 J. de La Genière, «mefra», 99, 1987, p. 43 sgg.; A. Bottini, Archeologia della salvezza. L’escatologia greca nelle testimonianze archeologiche, Milano, 1992, p. 106 sgg.; E. Mugione, Miti della ceramica attica in Occidente, Taranto, 2000, p. 140 sg.

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era avvenuto nei confronti di Mater Matuta:333 uno squarcio di mitologia etruscolatina, di cui l’altorilievo tardo-classico del tempio A offre, come tutto fa ritenere, un’ulteriore conferma archeologica, seguito a breve distanza da quello del tempio di Ercole a Lanuvio.334 Leucotea infatti è, da sola o assieme al figlio Palemone, una divinità fatta oggetto di un culto stabilmente strutturato in tutto il mondo greco, a differenza di Eos, e non solo da parte dei naviganti, ma con «ampia disponibilità all’identificazione sincretistica con altre divinità femminili»,335 come risulta tra l’altro dagli aspetti salutari336 e soprattutto dalla crescente valenza iniziatica, manifestata visivamente dalla benda purpurea di cui si cingevano i mystai in memoria dell’aiuto prestato dalla dea al naufrago Odisseo.337 Sia essa che il figlio erano infatti invocati come divinità soteres, in una accezione dichiaratamente misterica,338 Fig. 49. Bronzetto da Sinalunga confermata per Palemone dai riti segreti al Museo Britannico. celebrati nell’adyton sotterraneo del grande santuario dell’Istmo, centrale per il suo culto. Come giustamente è stato osservato, la presenza forte di Palemone accanto a Leucotea al Foro Boario, nonché la sua apparizione anche a Pyrgi, denunciano rapporti cultuali con Megara, dove aveva avuto luogo il katapontismòs dell’eroina col figlio tra le braccia, e soprattutto con Corinto, sede nel santuario dell’Istmo del loro culto più rilevante, piuttosto che con la Ionia, come si tende a pensare.339 Un antico culto demarateo, dunque, anteriore alle navigazioni focee in Occidente, che tanto hanno contribuito a propagare il culto della dea marina, resuscitato a Roma dai Tarquinii per motivi di orgoglio dinastico e nella Caere post-tirannica per motivi assai più profondi di ordine ideologico ed etico. Alla luce di queste considerazioni, è opportuno ritornare, a chiusura del nostro bilancio, agli altorilievi originali della fronte posteriore del tempio, per cercare di comprendere meglio la scelta di raffigurare in essi la spedizione dei Sette. Se infatti è indubbio che tale scelta significhi in primo luogo la condanna della hybris umana, impersonata esemplarmente dai capi della spedizione coi loro riprovevoli comportamenti, non è al333 Coarelli, 1988, p. 247 sgg.; Mertens-Horn, art. cit. a n. 306, p. 147 sg. 334 G. Colonna, in La coroplastica templare etrusca fra il iv e il ii secolo a.C. (Atti del xvi convegno di studi etruschi, Orbetello 1988), Firenze, 1992, pp. 113-121. 335 G. Cerri, «aion fil.», 16, 1994, pp. 137-155. 336 Rivelati dalla stretta contiguità al culto di Asclepio, attestata a Delo, Leuttra e Brasiai in Laconia (Krauskopf, art. cit., p. 143, n. 24, con riserve eccessive). 337 I. Krauskopf, Leukothea nach den antiken Quellen, in Die Göttin von Pyrgi, cit. a n. 6, pp. 137-148, spec. 143 sg., n. 25. 338 Orph., hymn., 74, 75 (col commento di G. Ricciardelli, Milano, 2000, pp. 505-508). 339 Colonna, 1981, p. 34; Coarelli, 1988, p. 252 sg. Per il rapporto con Corinto vd. M. Mertens-Horn, art. cit. (a n. 306).

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trettanto evidente la scelta di quella specifica saga per un tempio che tutto lascia credere sacro a Thesan/Leucotea. Le diverse motivazioni via via addotte contengono tutte un nucleo di verisimiglianza, ma non risultano completamente convincenti. Tebe certo è la patria di Ino e di suo figlio, come ha sottolineato E. Paribeni nel 1969 ponendo le basi della discussione,340 ma teoricamente per evocare la città poteva essere raffigurata anche un’altra storia dell’assai ricco e variegato ciclo tebano, invece di quella dei Sette. È vero che questi venivano dalla Argo pre-dorica, pelasga alla pari di Agylla, e che la loro impresa pur tragicamente conclusa poteva essere sentita a Caere, come sembra lo fosse ad Argo, teste il grande donario delfico per la vittoria di Oinoe sugli Spartani (456 a.C.), alla stregua di una pagina remota della propria storia, come ho sostenuto nel 1972, riscotendo l’approvazione di M. Cristofani.341 Ma il donario delfico, e quello contemporaneamente eretto ad Argo stessa, raffiguravano accanto ai Sette anche gli Epigoni, che avevano espugnato Tebe vendicando i loro padri, così come avevano fatto gli Argivi riscattando con la giornata di Oinoe la terribile sconfitta di Sepeia del 494:342 senza gli Epigoni i due donarii non avrebbero avuto alcun senso per gli Argivi, anche se i padri erano in generale molto più famosi dei figli. Altra proposta: si è voluta condannare la hybris tirannica, con riferimento sia a quella interna e già trascorsa di Thefarie, sia e soprattutto a quella incombente dei Dinomenidi, che dopo aver sconfitto gli Etruschi nelle acque di Cuma minacciavano ora la stessa Etruria, come ho accennato in occasione della esposizione dell’altorilievo ad Arezzo nel 1985.343 Ma devo riconoscere che ciò, se può valere per la rappresentazione di Capaneo che assalta le mura di Tebe, non spiega il particolare risalto dato alla storia di Tideo e Melanippo. Ancora: la saga dei Sette è un exemplum delle terribili conseguenze della discordia tra consanguinei e delle lotte intestine, con riferimento alla situazione di una Caere post-tirannica ipoteticamente dilaniata dalle fazioni, come ha sostenuto la Massa-Pairault in un suo libro del 1992.344 Ma ciò, a parte la coloritura un poco anacronistica,345 non si accorda con l’accento posto in primis sulle storie di Capaneo e di Tideo, invece che sul fratricidio di Eteocle e Polinice, che, se presente, era narrato su una placca laterale. Come si vede, tutte queste proposte contengono un nucleo di vero e aiutano a capire la realtà assai stratificata dei messaggi affidati alla raffigurazione della saga. Ma è evidente che con esse si è andati sempre più lontano dal dato di partenza, che è la dedica del tempio a Thesan/Leucotea. Occorre invece chiedersi cosa può avere in comune la figura della dea, quale ci è dato coglierla in questo momento e in questo ambiente, con la saga dei Sette, come la vediamo raffigurata nei nostri altorilievi. È infatti evidente, come già si è accennato, che il semplice richiamo alla patria e alla stirpe tebana della eroina 340 Seguito tra gli altri da Colonna, 1981, p. 31; Coarelli, 1988, p. 252. 341 Pyrgi 1970, p. 61 sgg. Cfr. M. Cristofani, art. cit. a n. 247, p. 200. Alle osservazioni da me avanzate si aggiunga che Stazio nel suo poema chiama gli Argivi 2 volte col loro nome e 22 con quello di Pelasgi. 342 Paus. 2, 20, 5 (Argo); 10, 10, 4 (Delfi). Cfr. al riguardo i contributi di A. Pariente e J. F. Bommelaer, «b.c.h.», suppl. 22, 1992, nonché P. Moreno, op. cit. (a n. 246), passim. 343 Santuari d’Etruria, p. 138. 344 Massa-Pairault, 1992, pp. 72-75. Cfr. anche della stessa La cité des Étrusques, Paris, 1996, p. 118. Di scarso peso è l’obbiezione alla mia proposta «siracusana» basata sul fatto che la saga si trova sulla fronte del tempio rivolta verso la città e non su quella rivolta verso il mare. Quest’ultima infatti, in quanto fronte principale, accoglieva cone si è visto, la celebrazione di Eracle come nume tutelare dell’intero santuario e garante della buona accoglienza dello straniero. 345 Il ricorso alla saga tebana come condanna delle discordie interne e della disunione politica balza in primo piano in Etruria solo al tempo del conflitto con Roma, dalla metà del iv secolo in poi, trovando nella tomba François di Vulci la prima e più eloquente manifestazione. Per una testimonianza poco nota da Blera vd. G. Colonna, art. cit. a n. 334, pp. 121-125.

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divinizzata non è sufficiente a motivare l’introduzione della saga e lo spazio ad essa riservato nel programma figurativo del tempio, pari all’intera sua fronte posteriore: oltre tutto, in nessun tempio antico, sia greco che etrusco, dèi non meno ‘tebani’, come Eracle e Dioniso, hanno ricevuto lo stesso trattamento. Occorre individuare una pista diversa, di natura possibilmente religiosa, connessa alle funzioni e alla sfera d’azione della divinità. Questa pista credo possa essere offerta da quanto si è detto sulle aspettative di salvezza coagulate in quest’epoca, la prima metà del v secolo, intorno alle figure sia di Thesan che di Leucotea, in Etruria non meno che in Grecia. Dèe entrambe soccorritrici, erano infatti ritenute vicine all’uomo nei momenti più critici, nei passaggi più difficili dell’esistenza, fino a quello supremo della morte, secondo pulsioni e credenze che, sfociando anche in culti misterici, agitavano tanto l’Etruria che il mondo greco del tempo.346 Ora è indubbio che la rappresentazione della saga dei Sette realizzata a Pyrgi culmina, al di là della condanna della hybris e di tutti i significati connessi che abbiamo cercato di passare in rassegna, nella immortalità negata da Atena a Tideo. A questo tema rarissimo nell’arte greca, e del quale comunque non si conoscono altre realizzazioni monumentali, è affiancata, con pari evidenza, la fulminazione di Capaneo, che può essere letta in questa luce come la premessa della resurrezione dell’eroe di cui aveva parlato Stesicoro nell’Erifile, attribuendola all’intervento di Asclepio.347 Sia Tideo che Capaneo appaiono insomma come eroi favoriti dagli dèi, che li hanno destinati l’uno all’immortalità e l’altro a una seconda vita, e perciò tanto più colpevoli rispettivamente per la propria bestialità ed empietà, che quel destino ha inesorabilmente precluso (Tideo) o anticipato a prezzo della vita presente (Capaneo). Direi pertanto che sia il tema della morte e del destino che ci attende in relazione con essa, fortemente condizionato dai comportamenti umani, il motivo più profondo sottostante all’introduzione della saga dei Sette nel programma figurativo del tempio di Leucotea. Abbreviazioni speciali Colonna, 1985 = G. Colonna, Novità sui culti di Pyrgi, «Rend.Pont.Acc.», 57, 1984-1985, pp. 5788; Colonna, 1989-1990 = Idem, “Tempio” e “santuario” nel lessico delle Lamine di Pyrgi, «Sc.Ant.», 3-4, 1989-1990, pp. 197-216; Colonna, 1992 = Idem, Altari e sacelli. L’area Sud di Pyrgi dopo otto anni di ricerche, «Rend.Pont.Acc.», 64, 1991-1992, pp. 63-115; Colonna, 1996a = Idem, L’Apollo di Pyrgi, in Magna Grecia, Etruschi e Fenici (Atti del xxxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1993), Napoli, 1996, pp. 345-375; Colonna, 1996b = Idem, Scavi e scoiperte, nr. 9: Pyrgi, «StEtr», 61, 1995 (1996), pp. 440-446; Cristofani, 1996 = M. Cristofani, Pyrgi, in Etruschi e altre genti nell’Italia preromana. Mobilità in età tardo-arcaica, Roma, 1996, pp. 59-81; Pyrgi 1959 = Santa Severa (Roma), «Not.Sc.», 1959, pp. 143-263; Pyrgi 1970 = A.v., Pyrgi, «Not.Sc.», 1970, ii suppl. (1972); Pyrgi 1988-1989 = A.v., Pyrgi, Not. Sc., 1988-1989, ii suppl. (1992). 346 G. Colonna, in Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi (Studi Miscellanei 29), 2, Roma, 1996, p. 175 sgg. 347 Apollod., 3, 10, 3; Sch. Vet. Pind., Pyth., 3, 96; Sch. Eur., Alc., 1. Cfr. M. A. Tiverios, art. cit. (a n. 285), p. 522 sg., e E. Cingano, art. cit. (a n. 281), p. 98, n. 18 sg. La ‘riabilitazione’ di Capaneo è in pieno svolgimento anche nelle Supplici di Euripide, come già notava E. Rohde, Psyche, trad. it., Bari, 1970, p. 324 sg.

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APPENDICI 1. Idronimia del territorio di Pyrgi (xvi-inizio xix secolo) (vd. pp. 56-61)

G. Bellarmato, 1536 B. Ligustri, 1609 Cat. Alessandrino, 1661 I. Mattei G. B. Cingolani, 1692 G. F. Ameti, 1696

Rio Fiume

fosso Eri

fosso del Caolino

Eri Rio F. Rio Fiume Eri f. olim Ceretanus Carcara Riuo Carcara R.

– – Carcari Carcari R.

– – – –

– fl. Eri olim Caeretanus Eri olim Caeretanus f. Eri f.

Castrica Riuo Castrica R.

fosso fosso della Carcara

fosso della Cisterna –

G. B. Ghigi, 1777



G. Morozzo, 1791

Rio Fiume/ Carcara R. Rio Fiume –

Cat. Gregoriano, 1819 A. Coppi, 1836

Castrica f. Castrica f.

2. La Lamina etrusca lunga nella versione di G. Colonna, corredante dal 1997 l’apparato espositivo delle Lamine nel Museo di Villa Giulia (vd. n. 187). Codesto tempio e questi edi/fici sacri (?) sono stati richiesti / da Uni in suo pro. Avendoli costrui/ti a sue spese (?) Thefa/rie(i) Velianas come offerta (?) / . . . li ha dona/ti, di codesto luogo . . . / (custode?) della cella, nella festa / del (mese) Tulera, quando tre anni / pieni (?) (furono) dal (giorno) Tesiame / della festa del (mese) Alsa, / quando (divenne) . . . della magistra/tura grande. Del luogo sa/cro invero nel santua/rio gli anni (sono) quanti queste bul/le. [Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea, «Scienze dell’Antichità», 10, 2000 (2002), pp. 251-336 (relazione letta, in una prima stesura, al Convegno internazionale Dèi ed eroi greci in Etruria: l’altorilievo di Pyrgi con i Sette contro Tebe, Roma e Santa Severa, 14-16 aprile 1997. Nuove sono le Figg. 19 e 20].

OSSERVAZIO NI S U LLA TOMBA TARQUINI E S E D E L L A NAV E «[Le pitture delle tombe etrusche] sono documento di grande importanza (e generalmente non conconsiderato abbastanza come tale) per intendere lo svolgimento della pittura antica». (R. Bianchi Bandinelli, in eaa, vi , 1965, p. 208)

a tomba della Nave non è certamente, sul piano della qualità artistica, tra le più notevoli di Tarquinia, nemmeno nei confronti di quelle ‘subarcaiche’ o dell’inizio dell’età della crisi, la “Interimsperiode” di T. Dohrn, al cui novero indubbiamente appartiene, anche se rivela pur sempre un buon mestiere. Ma è di particolare interesse, se non m’inganno, per i temi delle sue figurazioni e per l’ideologia ad essi sottesa, oltre che per l’eccezionale struttura compositiva esibita dal paesaggio marino, cui la tomba deve la sua meritata notorietà.1 Personalmente ho un conto sospeso, posso dire, con le pitture di questa tomba (distaccate subito dopo la scoperta, avvenuta nel 1958, e quindi tempestivamente pubblicate da M. Moretti).2 Ho cercato infatti di porre in evidenza le novità formali presenti nel paesaggio marino già nella rapida trattazione delle scoperte tarquiniesi della fondazione Lerici, richiestami da R. Bianchi Bandinelli nel 1967 per l’ eaa ,3 riscattandolo dalla lettura parziale e in più punti inesatta che ne era stata data, sulla base di riproduzioni inadeguate.4 Ma la mia lettura è rimasta quasi ignorata e comunque non ha raggiunto gli studiosi della pittura greca, che ne erano i primi destinatari, venendo citata raramente dagli stessi studiosi di arte etrusca, e senza troppa convinzione.5 Il fatto è che la proposta non era stata accompagnata da foto dell’intera parete e soprattutto da un nuovo disegno. Alla prima carenza ha ovviato solo in parte il Catalogo ragionato di St. Steingräber, che ha offerto la riproduzione fotografica dell’intera parete, ma a scala troppo piccola e senza, ripeto, l’indispensabile sussidio di un disegno interpretativo.6 Ho pertanto ripreso in mano l’argomento, nel quadro di una ricerca complessiva sulla tomba, di cui anticipo i risultati.

L

1 Le foto alle Figg. 1 e 8-10 fanno parte della serie scattata per me nel Museo Nazionale di Tarquinia, col permesso della Dott. M. Cataldi Dini, dal Dott. Massimo Morandi, cui rinnovo il mio ringraziamento. Le foto alle Figg. 6 e 12 sono dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma (neg. 82.2103 e 61.301), quella a Fig. 13 di Mimmo Belletti, Lipari. I grafici alle Figg. 2-4, opera dei disegnatori del Museo di Villa Giulia Renzo Sammarco e Antonio Zanelli, sono riprodotti da Moretti 1962, quello a Fig. 11 è la rielaborazione del grafico a Fig. 3, eseguita sotto la mia guida da Sergio Barberini dell’Università di Roma «La Sapienza». Tutte le novità di lettura da me proposte sono state verificate con autopsia. 2 M. Moretti, «ba», 45, 1960, pp. 346-352; Moretti, 1962; M. Moretti, Nuovi monumenti della pittura etrusca, Milano, 1966, pp. 195-203. 3 Apparsa con notevole ritardo e senza aggiornamento bibliografico nel Supplemento 1973 della eaa , sotto la voce Tarquinia, pp. 766-769. 4 Cfr. nota 2. 5 Vedi M. Sprenger, G. Bartoloni, Die Etrusker. Kunst und Geschichte, München, 1977, p. 127 sg.; S. Stopponi, in Gli Etruschi di Tarquinia, cat. della mostra di Milano a cura di M. Bonghi Jovino, Modena, 1986, p. 268; M. A. Rizzo, in Pittura etrusca a Villa Giulia, cat. della mostra di Roma a cura della stessa Rizzo, Roma, 1989, p. 145; I. Zanoni, Natur- und Landschaftsdarstellungen in der etruskischen und unteritalischen Wandmalerei, Bern, 1998, pp. 39 sg., 169. Incomprensibilmente il mio contributo è assente in entrambi i repertori di E. P. Markussen (Painted tombs in Etruria. A bibliography, Odense, 1979 e Painted tombs in Etruria. A catalogue, Roma, 1993). 6 Steingräber, 1985, p. 333, tavv. 118-120.

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Fig. 1. Tomba della Nave, parete di fondo.

Anzitutto va detto che la tomba della Nave, di cui accolgo senza riserve la datazione alla metà o poco dopo del v secolo, proposta dal primo editore,7 si distingue nel panorama delle tombe tarquiniesi non solo per il paesaggio marino ma anche, a ben vedere, per il contesto figurativo, assai coerente e omogeneo, di cui esso è una parte tutt’altro che accessoria. Si tratta infatti di un contesto esclusivamente ispirato al tema del simposio e, in via subordinata, della danza, che del simposio è l’inscindibile complemento. Il simposio non solo occupa, come in molte altre tombe di v secolo, la parete di fondo 7 L’abbassamento della cronologia alla fine del secolo, sostenuta da C. Weber-Lehmann, è stata generalmente rifiutata, ma senza discuterne le motivazioni, fondate essenzialmente sul disegno del chitone delle danzatrici (C. Weber-Lehmann, in Die Aufnahme fremder Kultureinflüsse in Etrurien und das Problem des Retardierens in der etruskischen Kunst (Schriften des Deutschen Archäologen-Verbandes VI), Mannheim, 1981, p. 166, figg. 7-8; Eadem, in Steingräber, 1985, p. 59). In proposito va detto che la tendenza a disegnare l’orlo inferiore del chitone con un lieve scorcio dal basso, svelante caviglie e polpacci, è un’innovazione tardo-arcaica, abbandonata nel disegno vascolare attico a partire dallo stile severo (cfr. G. M. A. Richter, Attic red-figured vases. A survey2, New Haven, 1958, pp. 40, 62 e 92, figg. 16 e 28), ma rimasta saldamente in vigore in Etruria (p. es. nel Gruppo Vagnonville: S. Bruni, in La civiltà di Chiusi e del suo territorio (Atti del XVII convegno di studi etruschi, Chianciano Terme 1989), Firenze, 1993, p. 271 sgg., tavv. ix, xiiib, xviii, xix). Chitoni rigonfi, senza pieghe e con orlo convesso, simili a gonne scampanate, s’incontrano, specialmente addosso a crotaliste e giocoliere, già nelle tombe delle Bighe e del Triclinio (H. Blanck, C. Weber-Lehmann, Malerei der Etrusker im Zeichnungen des 19. Jahrhunderts, Mainz am Rhein, 1987, figg. 68-71 e 113). Nelle tombe Giustiniani, Maggi, della Nave e del Gallo il motivo è progressivamente accentuato, fino a far aprire l’orlo della veste in una sorta di ‘ruota’. Il motivo s’incontra a partire dal 410 circa anche nella ceramica italiota (Pittore delle Carnèe: cfr. Weber-Lehmann, 1981, p. 170, nota 29 sg.), ma senza alcun precedente e circoscritto a poche e specifiche raffigurazioni di danzatrici e di Menadi, per le quali non sembra scandaloso pensare alla ripresa di un motivo ‘esotico’, rimbalzato dalla non troppo lontana Etruria. Aggiungo che si confanno meglio a una datazione alla metà invece che alla fine del v secolo anche i pochi frammenti ceramici rinvenuti nella camera, spettanti a una kylix attica a figure rosse, dipinta nel fregio con «figure di uomini e palmette risparamiate», di una probabile glaux pure attica e di una ciotola di «bucchero grossolano» (Moretti, 1962, p. 39, nota 1). Cfr. S. Stopponi, La tomba della Scrofa Nera, Roma, 1983, p. 83, nota 5.

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Fig. 2. Tomba della Nave, ricostruzione grafica della parete di fondo.

(Figg. 1-2) e ampi settori delle pareti laterali, senza tenere alcun conto degli angoli (Figg. 3-4), ma invade, come accade assai raramente nelle tombe di v secolo, i comparti laterali di entrambi i timpani (Figg. 1-2, 6-8). Il simposio raffigurato sulle pareti è un simposio di gruppo che si svolge all’aperto, sullo sfondo dei soliti alberelli spogli, allietato da una coppia di musici e ‘preceduto’, nel settore centrale della parete destra, da un breve corteo di danzatori che si dirigono verso di esso, sul medesimo sfondo di alberelli. Vale la pena esaminarlo da vicino. I simposiasti sono suddivisi in quattro coppie, composte da un uomo e dalla sua compagna ben vestita e ingioiellata, recumbenti su klinai con i sandali allineati in piena vista sugli sgabelli. Li accudiscono giovani servi nudi cui sovrintende, al di là del kylikeion, concludendo a sinistra la scena (Figg. 3, 5, 11), un servo con mantello avvolto sui fianchi, intento alla importante operazione di temperare il vino8 contenuto nel cratere a colonnette9 poggiato sul tavolo. Il servo attinge l’acqua da un bacino metallico posto entro un secondo bacino assai più grande, anch’esso metallico, fornito di piedi e di anse ad anello mobile, contenente neve gelata o forse brace, per raffreddare o riscaldare il liquido da mescolare al vino.10 Il piano del mobile – a quanto pare una trapeza – appare ingombro di vasi contenitori, prevalentemente metallici, cui se ne aggiungono altri poggiati a terra, oltre ai due già menzionati, mentre due kylikes fittili assai grandi, destinate evidentemente alle bevute finali, pendono dall’alto, ‘appese’ alla cornice (i vasi sono in tutto 15, di cui 11 metallici, segno di autentica ricchezza: un vero primato per questo ge8 Non dunque un servo qualunque, come sembra credere Stopponi, 1986, p. 268. Il vaso metallico di cui stringe l’ansa con la sinistra sembra essere una situla. 9 Dipinto a figure rosse, reca non a caso sul ventre la Centauromachia dei Lapiti, exemplum di banchetto finito in tragedia per l’uso smodato del vino. 10 H. Blanck, G. Proietti, La tomba dei Rilievi di Cerveteri, Roma, 1986, p. 42 sg., con bibl.

Fig. 4. Tomba della Nave, ricostruzione grafica della parete di destra.

Fig. 3. Tomba della Nave, ricostruzione grafica della parete di sinistra.

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nere di raffigurazioni).11 Un citarista e un secondo musico, verosimilmente un flautista, stanno l’uno ai piedi della prima e l’altro a capo dell’ultima kline, alle spalle di un servo dinanzi al quale è un candelabro (?), di cui resta solo la base. Il ruolo protagonistico del citarista è confermato dall’intensa partecipazione alla sua performance dimostrata, sia coi gesti delle mani che, verosimilmente, col canto, dalla donna distesa sulla prima kline. Il tema del simposio, come si è detto, non è circoscritto al fregio delle pareti. Due simposiasti, riconoscibili come tali anche perché a piedi nudi, entrambi maschi, sono sdraiati a terra nei semitimpani della parete di fondo, appoggiati a un cuscino, il meglio conservato intento a tendere una collana (Figg. 1-2).12 Due coppie su klinai – verosimilmente entrambe miste, ma di quella di sinistra resta poco più che lo sgabello – riempiono invece i semitimpani della parete d’ingresso, con il servizio di vasi in parte poggiato a terra nell’angolo (Figg. 6-8). I sostegni centrali dei timpani sono assai mal conservati, ma in quello della parete di fondo si distinguono scarsi resti di almeno due figure, a quanto pare di danzatori. Complessivamente la raffigurazione del simposio coinvolge direttamente, nei suoi vari episodi, ben quattordici partecipanti, ripartiti in sei coppie, cui si aggiungono i due maschi singoli, cui sembra competere una posizione subordinata (filii familias?). Un ugual numero di partecipanti, suddiviso in sette coppie miste, s’incontra solo nella pressoché inedita e inaccessibile tomba 3988, di cui però è stata messa in dubbio, almeno parzialmente, l’autenticità.13 Altrimenti le accolte più numerose che è dato incontrare nella pittura tarquiniese sono i dieci simposiasti maschi della tomba delle Bighe, suddivisi nelle tre coppie su klinai del grande fregio e nei quattro singoli sdraiati a terra in entrambi i timpani della camera; i dieci, tra cui una sola donna, recumbenti su cinque klinai nella tomba della Scrofa Nera e forse anche nella tomba dei Demoni Azzurri; i nove, anche qui con una sola presenza femminile, recumbenti su quattro klinai nella tomba Querciola i; i nove sdraiati a terra in due gruppi quasi uguali di uomini e donne, contrapposti sulle pareti della tomba del Letto Funebre e intenti in quello che sembra essere un lectisternium in onore dei Dioscuri, divini intermediari tra il mondo dei vivi e quello dei morti.14 Il nostro è pertanto l’unico caso sicuro di un simposio di oltre dieci persone, ed anche l’unico cui partecipano quasi esclusivamente coppie miste, sicuramente coniugali. Lo si potrebbe definire un ‘simposio di coppia’15 moltiplicato, in cui si immagina riunito, come nel caso della tomba del Letto Funebre, un intero gruppo gentilizio, compresi alcuni membri probabilmente non sposati. Complementare al simposio delle pareti, che occupa l’intero terzo posteriore della camera, è il corteo che muove verso di esso sulla parete destra, composto da due donne e da un uomo in posizione mediana. I tre sono in atto di danzare, invero agitando più le braccia e le mani che i piedi, abbigliati ed ornati non diversamente dai simposiasti, bende sul capo comprese (Fig. 4). Lo sfondo è sempre quello della sequenza di alberelli, che continua anche su tutta la parete dell’ingresso. Alle spalle della prima 11 Nel disegno edito da Moretti è omessa la brocca metallica posata sull’angolo destro del mobile. Un numero eguagliabile di vasi, ma composto in maggioranza da kylikes, ben 9, banalmente impilate, ritorna solo nella tomba Querciola i (Steingräber, 1985, p. 342 sgg., n. 106). Cfr L. B. van der Meer, in Ancient Greek and related pottery (Proceedings of the intern. Vase Symposium Amsterdam 1984), pp. 298-304. 12 Il motivo ritorna nella tomba del Biclinio (Steingräber, 1985, p. 294, n. 46, kline C). 13 Steingräber, 1985, p. 369, n. 152. 14 G. Colonna, in Scritti di antichità in memoria di Sandro Stucchi (Studi Miscellanei 19), ii, Roma, 1996, pp. 174-180. Cfr. anche Torelli, 1997, p. 138 sg., e Scala, 1997 (con il giusto ma riduttivo richiamo al rapporto dei Dioscuri con l’aristocrazia). 15 Per il concetto cfr. B. d’Agostino, Prospettiva, 1983, p. 2 sgg. (cfr. B. d’Agostino, L. Cerchiai, Il mare la morte l’amore, Roma, 1999, p. 20 sgg.).

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Fig. 5. Tomba della Nave, il kylikeion.

Fig. 6. Tomba della Nave, parete d’ingresso.

danzatrice16 sta un flautista rivolto verso la semiparete a sinistra della porta, su cui resta la metà inferiore di altri due personaggi, un uomo e una donna ammantata, raffigurati nell’atto di muovere dalla porta della camera verso il corteo, cui sembrano volersi accodare (Figg. 6-7). Immediatamente a destra della porta, sempre per chi osserva dall’interno, sta un secondo musico, forse anch’egli un flautista, in posizione simmetrica a quella dell’altro nei confronti e della porta e della coppia che ne è appena entrata (Figg. 6 e 8). La narrazione pertanto non tiene affatto conto dell’angolo della parete, come già si è visto accadere per il simposio e come si verifica piuttosto spesso nelle tombe dipinte etrusche:17 la cesura compositiva è data dalle figure, ‘retrograde’ rispetto alle vicine, dei due musici. Questi sono intenti a festeggiare l’arrivo dei nuovi venuti (che, si badi, sono una coppia, come quella che sappiamo effettivamente sepolta nella tomba),18 e pertanto partecipano a pieno titolo a quello che possiamo chiamare l’adventus dei defunti, un tema mai per l’innanzi rappresentato in chiave esplicita nella pittura tarquiniese. Di esso è parte integrante anche la porta aperta, cui conferiscono una particolare evidenza gli stipiti dipinti in rosso partenti dal pavimento (purtroppo nulla resta dell’architrave), finora inosservati ma assolutamente sicuri. Nel lessico della pittura funeraria tarquiniese il motivo della coppia di musici affrontati tra loro, volgendo le spalle ai vicini, è un ‘segno’ forte, utilizzato per sottolineare il punto focale della rappresentazione: il gigantesco cratere del simposio nella tomba delle Leonesse; la porta chiusa alludente alla dimora ultraterrena del morto nelle tombe del gruppo Cardarelli-Fustigazione-Teschio-Porta di Bronzo (in cui i musici prendono il posto che avevano i ploranti nella tomba degli Auguri); il loculo conformato a edicola 16 Di cui non è esatto il disegno dell’orlo inferiore del chitone (Weber-Lehmann, 1981, nota 37, fig. 16). 17 Sensate osservazioni in proposito di G.A. Mansuelli, «ra», 1967, p. 51, di cui non tiene conto J. Ch. Balty, «Académie Royale de Belgique, Bulletin de la classe des Beaux-Arts», s. 5, 67, 1985, p. 159, nota 62. 18 Come provano gli incassi per le zampe di una kline, presenti sul pavimento nell’angolo posteriore destro, e la cassa di nenfro liscia, rinvenuta ancora in situ a ridosso dell’ultimo tratto della parete sinistra, col coperchio, displuviato e con columen a rilievo, sparso in pezzi all’intorno. La kline era verosimilmente destinata all’uomo, il sarcofago, che è tra i più antichi rinvenuti a Tarquinia, alla donna. In corrispondenza del sarcofago sei chiodi di ferro infissi nella parete poco sotto la cornice superiore del fregio a intervalli regolari indicano che erano state appese delle ghirlande o delle bende.

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Fig. 7. Tomba della Nave, angolo tra la parete d’ingresso e la parete destra.

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Fig. 8. Tomba della Nave, angolo tra la parete d’ingresso e la parete sinistra.

in cui riposa il morto eroizzato, in attesa di prendere parte al contiguo simposio, nella tomba della Pulcella; le porte delle ‘celle’ in cui giacciono i defunti nella tomba a più camere 1560. Nel nostro caso, e in quello cronologicamente vicino della tomba del Gallo, oltre che nella seriore tomba del Guerriero,19 la coppia di musici conferisce un valore pregnante all’ingresso della camera, che i nuovi venuti hanno varcato, esaltandone il significato liminare, di tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Così facendo i musici assolvono a una funzione non diversa da quella che hanno i demoni Charu e Vanth in tante tombe tardo-classiche ed ellenistiche, in cui li vediamo all’ingresso della tomba o ai lati della finta porta alludente all’ingresso nell’Ade.20 Conferma tale interpretazione un altro ‘segno’, finora da tutti trascurato, sul quale pertanto è opportuno soffermarsi: il portale dipinto, di tipo architettonico, che nelle tombe della Nave e del Gallo incornicia internamente l’ingresso, dotato, almeno nel caso della tomba del Gallo, di un semplice architrave di tipo dorico. Il motivo, sconosciuto agli ingressi delle tombe dipinte di vi secolo,21 compare per la prima volta nella tomba del Citaredo (500-490 a.C.), associato, come mai più si ripeterà, a quello ‘tradizionale’ della finta porta – in questo caso gemina – sulla parete di fondo: come se la camera fosse considerata uno spazio intermedio tra il mondo dei vivi e quello dei morti, una sorta di 19 Dove i musici (riconoscibile solo un flautista) sono dipinti sulle guance del varco d’ingresso. 20 Basti pensare alle tombe tarquiniesi dei Caronti, dei Festoni e Anina (Colonna, 1984, figg. 7 e 13). V. anche a nota 27. 21 Non può infatti essere riconosciuto nella sottile fascia che incornicia l’ingresso della tomba del Topolino.

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anticamera dell’Aldilà.22 Successivamente il portale d’ingresso ritorna all’interno delle tombe del Triclinio, del Letto Funebre, della Caccia al Cervo e Maggi, oltre che in quelle della Nave e del Gallo: tombe tutte in cui al posto della finta porta troviamo il simposio di gruppo, accompagnato dalle danze (che nella tomba del Citaredo compaiono da sole, ‘preliminari’ rispetto al simposio che, come in tutte le tombe con finte porte, s’intende in corso al di là di queste, riservato ai defunti che hanno avuto il privilegio di oltrepassarle).23 Il portale d’ingresso ritorna inoltre, profilato da un cordone marginale, all’interno della tomba dell’Orco ii,24 che è assimilato nel modo più esplicito alla porta dell’Ade dai temi delle pitture della camera, e anche all’interno di alcune tombe monumentali ceretane di iv secolo.25 In proposito va aggiunto che quando a Tarquinia le tombe hanno più camere, ed è quindi possibile distinguere tra un ‘vestibolo’, comunicante con l’esterno, e una o più ‘celle’ destinate alle sepolture, le porte di queste ultime appaiono sempre inquadrate da un portale dorico (vedi nel vi secolo le tombe dei Tori, della Caccia e Pesca e Bartoccini, nel v la tomba 1560), esattamente come si verifica per le finte porte, mentre non lo è mai quella da cui si entra nel ‘vestibolo’. E lo stesso si verifica in genere per le nicchie e i loculi parietali, se si trovano in tombe a camera unica (t. delle Leonesse, 3098 e, nel v secolo, 2327).26 Con apprezzabile coerenza le pareti della camera fungente da ‘vestibolo’, reale o immaginario, cioè con finte porte, non accolgono mai il tema del simposio,27 ma solo quello dei giuochi e soprattutto della danza, più o meno orgiastica, ambientata in un paradeisos (tomba della Caccia e Pesca), che può anche sussistere senza danzatori (tomba dei Tori e soprattutto del Topolino e degli Alberelli e Corone). La porta d’ingresso incorniciata si configura insomma come l’‘altra’ faccia delle finte porte chiuse, la faccia interna, dalla quale s’immagina che i defunti entrino nella camera,28 concepita ormai come la loro domus aeterna, raggiunta dopo l’ultimo e più difficile viaggio. 22 Cfr. Torelli, 1997, p. 141 sg. 23 Simposio cui nella t. del Citaredo allude l’enorme kylix brandita dal danzatore della parete destra più vicino alle finte porte, con una funzione semantica simile a quella dei contenitori di vino posti a terra accanto alla finta porta nelle tombe della Fustigazione e Cardarelli (d’Agostino, Cerchiai, 1997, p. 27). Con un linguaggio diverso assolve in fondo alla stessa funzione ‘intermedia’ il komos della prima camera della tomba della Caccia e Pesca. Nel v secolo continuano la tematica della tomba del Citaredo la c.d. Tomba Guasta e numerose altre (nn. 2015, 3713, 4021). 24 Vedi le foto riprodotte da Cristofani in Tarquinia: ricerche, scavi e prospettive, a cura di M. Bonghi Jovino e C. Chiaramonte Trerè, Milano, 1987, tavv. xlix, fig. 11 (errato il disegno a fig. 12), liii, fig. 21. 25 Tombe dei Sarcofagi, del Triclinio, Maclae e delle Iscrizioni (G. Colonna, Studi Etruschi, 41, 1973, p. 335, tav. C xiia; Steingräber, 1985, p. 271, n. 11). 26 Non incorniciata è la nicchia della ‘cella’ della t. della Caccia e Pesca, in cui la presenza del morto è già segnalata dall’incorniciatura esterna della porta del vano. La nicchia, certamente originaria (P. Romanelli, Le pitture della tomba della «Caccia e Pesca» (Monumenti della pittura antica scoperti in Italia, Tarquinia 2), Roma, 1938, p. 3), accoglieva le ceneri dell’uomo raffigurato nella corrispondente metà destra del timpano, mentre la contigua kline, disposta di traverso lungo la parete di fondo, avrà accolto la salma della donna. Notevole l’adozione del rito crematorio da parte dei titolari di tombe come questa e come quella delle Leonesse, dal programma figurativo fortemente ideologizzato. 27 Unica eccezione è la perduta tomba del Biclinio, in cui la finta porta ha con ogni probabilità una funzione analoga a quella del loculo della tomba della Pulcella, ossia di tramite col mondo dei vivi, da cui i simposiasti si attendono l’entrata, o nel caso del loculo il risveglio, dei defunti eroizzati (con un rapporto tra spazio interno ed esterno ribaltato rispetto a quello delle finte porte delle tombe di vi secolo). Per l’età e lo stato di conservazione della tomba importante la testimonianza di G. Micali, che potè ancora visitarla nel maggio 1809 e ne lodò sia la «vera maniera toscanica» che il «fresco e vivace colorito» (L’Italia avanti il dominio dei Romani, ii, Firenze, 1810, p. 167, nota 2; cfr. W. Dobrowolski, in Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (Atti dell’incontro di studio, Tarquinia 1996), Firenze, 1999, p. 16, nota 2). 28 Come appare in tutta evidenza nella pittura del basamento dell’urna posta al fondo della tomba dei Volumni, in cui a qualificare l’ingresso come porta dell’Ade è anche il profilo ad arco (G. Colonna, Studi Etruschi, 57, 1991, p. 107, nota 37, tav. xlii b).

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Possiamo concludere che nella tomba della Nave, come nelle altre che abbiamo menzionato, a cominciare dalla tomba del Triclinio, il simposio e le danze sono proiettati in una dimensione ultraterrena. I partecipanti sono non i viventi, impegnati nel compiere un rituale funerario, come a lungo si è creduto e ancora da molti si ritiene, ma i loro maiores, uomini e donne, raffigurati tutti in età giovanile, come richiede l’acquisito statuto di Beati (mákairoi), e tanto più numerosi quanto più antica è la gens cui appartengono. Alcuni di loro sono andati incontro alla coppia per la quale è stata approntata la tomba e la conducono, cantando e danzando, verso gli altri simposiasti.29 La lunga premessa si è resa necessaria per comprendere il significato del paesaggio marino. Questo apparentemente non fa parte della rappresentazione ma è come una ‘finestra’ aperta verso l’esterno dello spazio tombale (tanto che qualcuno non ha esitato a considerarla, in senso ultrarealistico, come una veduta della marina e del porto di Tarquinia, quale la si poteva avere dalla necropoli dei Monterozzi).30 Le fanno per così dire da sponda non i soliti alberelli ma due figure maschili ammantate rivolte verso di essa, nella veste di spettatori, con la stessa funzione sintattica, isolante e insieme enfatizzante che hanno i musici nei confronti dell’adventus dei nuovi defunti e del simposio. L’uno volge le spalle al flautista adiacente alla porta (Fig. 8), l’altro al servo addetto al cratere del kylikeion (Fig. 10), entrambi a diretto contatto del paesaggio marino, di cui ‘segnano’ col loro corpo gli estremi, senza che si sia tenuto alcun conto, anche in questo caso, dell’angolo della parete. Tutto lascia pensare che i due siano membri della gens allontanatisi dal simposio per assistere all’arrivo della nave che ha dato nome alla tomba, così come hanno fatto i tre che sulla parete destra tornano danzando seguiti a distanza dai nuovi venuti. Quello che è alle spalle del servo addetto al cratere fa col braccio destro alzato un segno di saluto, dell’altro non sono conservate le braccia. Il paesaggio, lungo m 2,75 e alto m 1,05 (Figg. 9-11), è un’autentica megalografia, che occupa più della metà della parete sinistra, a partire dall’angolo con la semiparete d’ingresso, sconfinando forse appena su di essa (Fig. 8). È raffigurata un distesa marina, la cui linea d’orizzonte nel settore di sinistra è più bassa che in quello di destra: a sinistra supera di poco un terzo dell’altezza del quadro, a destra raggiunge quasi la sua metà. Emergono dalla linea d’orizzonte non una, come tutti hanno scritto, sulla base del rilievo inesatto edito dal Moretti, ma due grandi rocce torreggianti, attorte a fiamma su se stesse e completamente isolate, simili a faraglioni, di cui quella di destra, interamente conservata, arriva quasi a toccare la cornice superiore. La diversa altezza dell’orizzonte fa apparire la roccia di destra più lontana dell’altra, coerentemente con l’attribuzione a quest’ultima di una base più dilatata e di ‘venature’ verticali più massiccie, che la fanno sembrare più vicina. Sul tratto di mare antistante campeggia una nave da carico a due alberi dalle bianche vele spiegate, che è un autentico unicum di ordine non solo iconografico, ma antiquario.31 Sfiora anch’essa, col lungo pennone della vela maggiore, la cornice superiore, e anzi gli si sovrappone con la coffa, ma emerge dalla superficie marina, a giudicare dalla linea di galleggiamento, molto più in basso delle due rocce (Fig. 11, e). L’effetto di vicinanza è accresciuto dalle dimensioni, di gran lunga più ‘invasive’ di tutti gli altri elementi della composizione, e specialmente dall’altissimo scafo, la cui imponenza è messa ancor più in evidenza dalla campitura di colore nero. Manifesta29 In tal senso già C. Weber-Lehmann, in Steingräber, 1985, p. 57 (le danze nel v secolo sono «rappresentate durante il banchetto ancora in pieno svolgimento»). 30 R. Ross Holloway, «aja», 69, 1965, p. 347. Cfr. A. M. Adam, «Ktema», 15, 1990 (1994), p. 145. 31 M. Bonino, in Atti del secondo congresso internazionale etrusco, Firenze 1985, iii, Roma, 1989, pp. 1526-1531, fig. 6 sg., con bibl.; P. Pomey, in La navigation dans l’Antiquité, a cura di P. Pomey, Aix en Provence, 1997, p. 81 sg.

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Fig. 9. Tomba della Nave, parete di sinistra, settore sinistro.

Fig. 10. Tomba della Nave, parete di sinistra, settore centrale.

mente la nave non è in partenza né alla fonda, come molti hanno scritto, ma sfila in primo piano a poca distanza dalla costa, se questa coincide con la cornice inferiore del quadro, navigando in direzione dello spettatore di destra che la saluta, mentre le due rocce si stagliano in secondo piano, a distanze, come si è detto, tra loro diverse. In coperta si scorgono le figurette di cinque componenti dell’equipaggio, di cui solo tre sufficientemente conservate. Una è sul castello di prua e scruta lo spazio dinanzi a

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sé: è il nocchiero, che ha condotto la nave sulla giusta rotta e la dirige verso l’approdo. Le altre due sono presso l’albero maestro, volte di spalle a guardare all’indietro, agitando le mani in atteggiamento di paura.32 Di fatto contro la roccia di sinistra, che la nave si è lasciata dietro di sé, sembra andare a infrangersi di prua una seconda nave, anch’essa con vele bianche e probabilmente a due alberi (ne resta, e solo in piccola parte, quello di prua), ma più piccola e dallo scafo incomparabilmente più sottile (Fig. 11, a), mentre la barca (b) che la precede sembra sbattuta di fianco contro la stessa roccia. Altre barche si trovano in primo piano, anche se leggermente più lontane della nave maggiore: la prima, antistante alla roccia di sinistra, è inclinata come se stesse inabissandosi di poppa, risucchiata da un vortice (c), la seconda sembra seguire la scia della nave maggiore (d), affiancata ai due grandi remi-timone di quella, la terza, di cui resta solo la poppa, la precede navigando ormai in acque tranquille ( f). Di tutte le barche è delineato il solo scafo, nero come quello delle navi, senza indicazione né di albero né di remi. Non mi soffermo sull’enorme interesse che un paesaggio come questo riveste nella storia della pittura antica. Il confronto con il paesaggio marino della tomba della Caccia e Pesca, in cui rocce, barche, pesci. delfini saltanti ed uccelli giacciono verticalmente tutti sullo stesso piano e l’ondulata superfice marina coincide orizzontalmente con la sommità dello zoccolo delle pareti,33 dà la misura delle innovazioni nella rappresentazione dello spazio, introdotte in Grecia dai pittori dello stile severo, a cominciare da Mikon e Polignoto.34 Non ritengo esagerato affermare che, sotto questo aspetto, la marina della t. della Nave è più vicina ai paesaggi odissiaci dell’Esquilino (Fig. 12) che non a quello della t. della Caccia e Pesca, pur così superiore per qualità. La dislocazione su piani diversi degli elementi che compongono il paesaggio, raffigurati in modo da apparire alia abscedentia (le rocce, la nave a e la barca b), alia prominentia (soprattutto la grande nave e, ma anche le barche c, d, f ), per usare le parole di Vitruvio,35 presuppone esperienze di ‘trompe-l’oeil’ teatrale,36 se non di autentica ricerca prospettica, per le quali ho a suo tempo fatto il nome di Agatharchos di Samo.37 Questi per primo avrebbe realizzato una scaena in occasione dell’allestimento in Atene di una tragedia di Eschilo – si pensa alla trilogia dell’Oresteia del 458 a.C., ma non è esclusa una data anteriore – e avrebbe anche scritto un libro per commentarla, suscitando una vasta eco nella cultura del tempo, soprattutto scientifica e filosofica.38 Direi che il paesaggio della t. della Nave sia oggi l’unico in grado di darci un’idea, pur fievole e lontana, delle scaenae di Agatharchos39 e, più specificamente, della loro trasposizione nell’ambito della pittura parietale, ossia della 32 Come ha osservato per primo O. J. Brendel († 1973) nell’opera postuma Etruscan Art, Kingsport, 1978, p. 271 sg. 33 Da ultima N. Lubtchansky, «mefra», 110, 1998, pp. 114-122. 34 Anche se un critico avveduto non ha esitato a scrivere che quello della t. della Nave è «uno squarcio paesistico che avrebbe potuto datarsi, se rinvenuto isolato, a settant’anni prima», cioè all’epoca della t. della Caccia e Pesca (F. Roncalli, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, 1986, p. 658). 35 vii, praef. 11. 36 Riprendo il termine adottato da A. Rouveret, Histoire et imaginaire de la peinture ancienne (v e siècle av. J.-C.-i er siècle ap. J.C.), in befar , 274, Roma, 1989, pp. 25 sg., 55 sgg., 65 sgg. 37 In eaa , Suppl. 1973, p. 768. 38 Vitr., l.c. Per Aristotele (Poet., iv, 17, 1449a) l’introduzione della skenographia sarebbe avvenuta con Sofocle, la cui prima vittoria comunque risale al 468 a.C. Cfr. Rouveret, 1989, pp. 106-115. E già R. Bianchi Bandinelli, in eaa , iv, 1961, p. 166 39 Il modesto squarcio paesistico con la barca di Caronte, sulla parete destra della tomba dei Demoni Azzurri (M. Cataldi Dini, in Rizzo 1989, p. 151, fig. 110, tav. xia), è infatti ancora in pieno nella tradizione polignotea (v. la ricostruzione della Nekyia da parte di C. Robert, riprodotta in eaa , Atlante, 1973, tav. 235). Da notare tuttavia che in esso la massa liquida, da cui emerge la chiglia della barca, termina a destra contro le gambe della donna velata, con lo stesso ripiego, facile ma efficace, messo in atto nel nostro paesaggio per delimitare lateralmente la distesa marina, utilizzando come ‘sponde’ i due spettatori.

Fig. 11. Tomba della Nave, grafico dell’intera parete di sinistra.

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Fig. 12. Roma, Esquilino, paesaggi dell’Odissea.

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pittura di interni, iniziata probabilmente dallo stesso pittore.40 In particolare nel nostro caso sarà da pensare a un’ispirazione tratta dagli scenari del dramma satiresco, giudicati da Vitruvio acconci, alla pari di quelli della tragedia e della commedia, alla decorazione di grandi edifici.41 Scenari che ornantur arboribus, speluncis, montibus reliquisque agrestibus rebus in topeodi speciem deformati («s’adornano di alberi, grotte, montagne e altre componenti della campagna, assumendo l’aspetto di un paesaggio ben conformato»).42 Ma ovviamente non potevano mancare le marine (p. es. ne I pescatori con la rete di Eschilo e nella Nausicaa di Sofocle) e le rocce, come di certo avveniva nell’unico dramma satiresco giuntoci per intero, il Ciclope di Euripide. In questa occasione tuttavia preme di più rilevare il significato della raffigurazione. Già Otto J. Brendel, nel libro apparso postumo nel 1978, ha parlato di una metafora del pauroso viaggio per mare verso l’Aldilà.43 Ma il suo accenno è rimasto inascoltato.44 Si è preferito pensare a un’allusione alle attività commerciali del defunto,45 meramente biografica o al più intesa a esprimere un segno di status, in una prospettiva sociologica che in questo caso appare francamente forzata. È solo negli anni Novanta che si è ritornati all’ipotesi Brendel, peraltro senza mostrare di conoscerla e in base a considerazioni di altro genere.46 La nuova lettura del paesaggio consente di addurre a suo favore un argomento decisivo: la presenza non di una ma di due pétrai scoscese e isolate, cui è data pari evidenza e che non hanno nulla a che fare con la rappresentazione di una costa rocciosa.47 Anche senza il corollario della nave, che va a infrangersi contro una di esse, e delle barche che nei suoi paraggi affondano o sono in procinto di affondare, le due rocce sono immediatamente riconoscibili come le mitiche plotaí o planktaí, le pericolose “isole vaganti” o “cozzanti”, le prime altrimenti chiamate Symplegades o Kyaneiai, ubicate ai margini del mondo conosciuto, e quindi variamente dislocate nel corso del tempo.48 In direzione dell’Occidente ne restava il più antico ricordo dinanzi alle coste dell’Etolia, 40 Sappiamo infatti che dipinse le pareti della casa di Alcibiade. Cfr. P. Moreno, in Storia e civiltà dei Greci, 4, Milano, 1979, p. 655 sg.; Rouveret 1989, p. 114 sg. 41 Vitr., vii, 5, 2. 42 Vitr., v, 6, 9. Cfr. Rouveret, 1989, pp. 108 e 115. 43 Brendel, 1978 (sopra, nota 32), p. 271 sgg. 44 Mostra di conoscerlo e di condividerlo G. Walberg, in Studi Etruschi, 54, 1986 (1988), p. 58. 45 M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, Milano, 1983, p. 124 («una nave da carico alla fonda…esprime simbolicamente l’attività del proprietario»); Idem, Gli Etrushi. Una nuova immagine, Firenze, 1984, p. 11 (il defunto «va identificato proprio in un componente di quel ceto ‘imprenditoriale’ che caratterizza la società urbana»); Steingräber, 1985, p. 332 («la rappresentazione della nave potrebbe in qualche modo alludere all’attività del committente, forse un ricco commerciante»); M. Torelli, L’arte degli Etruschi, Roma-Bari, 1985, p. 159 («un aristocratico legato ai commerci transmarini»); Stopponi, 1986, p. 268 («un ricco impresario che ha affidato al commercio la sua fortuna»); Rizzo, 1989, p. 145 («un ricco commerciante … che … ha voluto ricordare anche l’attività marinara che ha certo contribuito al raggiungimento del suo prestigio economico»); F. Roncalli, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.C. (Actes de la table-ronde, Rome 1987), Roma, 1990, p. 243 («raffigurazione della nave cui certo [il fondatore della tomba] deve le sue fortune»); F.-H. Massa-Pairault, Iconologia e politica nell’Italia antica, Milano, 1992, p. 91 («la nave raffigurata negli affreschi indica la fonte dei proventi economici della famiglia»). Più prudente, ma sulla stessa linea interpretativa, è Zanoni, 1998, p. 168. 46 F. Roncalli, in Les Étrusques, les plus religieux des hommes (Actes du colloque international, Paris 1992), Paris, 1997, p. 43 («le navire…s’approche d’un hait rocher, au-delà duquel s’étend ce qui, dans des représentations ultérieures, figure sans équivoque le HÏ˘ÛÈÔÓ ‰ÈÔÓ»); Torelli, 1997, p. 134 («…figurano una nave da trasporto e un battello minore, chiare allusioni alla ‘lunga’ traversata da lui [il defunto] compiuta per giungere fino all’oltretomba»); L. Cerchiai, in Le mythe grec dans l’Italie antique (Actes du colloque international, Rome 1996), Roma, 1999, p. 365 («metafora della morte come navigazione rischiosa nel mare dell’Aldilà», espressa con «la citazione del paradigma di Teseo»). 47 Cui pensano invece, tra gli altri, Zanoni, 1998 (sopra, nota 5), p. 167 sgg., e Cerchiai, 1999, p. 365. 48 O. Jessen, in Roscher, iii, 2, 1909, coll. 2540-2548; A. B. Cook, Zeus, iii, 2, Cambridge, 1940, pp. 975-978; A. Ballabriga, Le Soleil et le Tartare: l’image mythique du monde en Grèce archaïque, Paris, 1986, pp. 35 sg., 95-98.

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sulla rotta verso l’Hesperia; quindi tra lo Stretto di Messina e le Eolie, sulla rotta verso il Tirreno (evocate forse dagli altissimi scogli che vi si possono incontrare) (Fig. 13); infine appena al di là delle Colonne d’Ercole, alle soglie dell’Oceano. In direzione dell’Oriente si favoleggiava che isole di quel genere avessero un tempo sbarrato l’accesso al Bosforo e al Ponto Eusino. Le rocce cui si attribuivano movimenti repentini e imprevedibili, incubo dei primi naviganti alla pari, si direbbe, di ciò che sono stati a lungo gli icebergs per i frequentatori dei mari artici, simboleggiano le insidie dei mari più lontani e specialmente, nel v secolo, del semisconosciuto Oceano, lungo le cui rive, ai confini della terra, si collocavano le mitiche isole dei Beati e i Campi Elisi, dimora degli eroi.49 Ciò può dar conto della scelta di dare alla nave che è riuscita a giungere fino alla meta, ritratta Fig. 13. Lo scoglio La Canna di Filicudi. in primo piano assieme alle barche che le fanno da scorta, l’aspetto a prima vista incongruo di una nave oneraria, a differenza di quella che in lontananza s’infrange contro lo scoglio di sinistra, mentre affondano le barche che l’hanno preceduta. L’aspetto della nave felicemente prossima all’arrivo, contraddistinta da uno scafo eccezionalmente alto e dalle cinte particolarmente robuste, alla pari dei remi-timone, finisce con l’essere esso stesso un segnale, indiretto, della pericolosità dell’estremo viaggio. In proposito si può aggiungere che nemmeno gli uccelli erano ritenuti capaci di passare indenni attraverso la barriera delle rocce vaganti e/o cozzanti. Lo dimostra la tradizione sugli stormi di colombe che dall’Oceano avrebbero portato il nutrimento dell’ambrosia a Zeus, sia da fanciullo a Creta che più tardi sull’Olimpo. Il re degli dèi sarebbe stato infatti costretto a rimpiazzare continuamente le colombe che non superavano quella terribile barriera semovente.50 Non si può allora non rilevare, per contrasto, che proprio gli uccelli gioiosamente volteggianti nel cielo sono il motivo unificante, in termini compositivi, del paesaggio ‘globale’ della seconda camera della tomba della Caccia e Pesca. Direi che l’assoluta libertà di movimento di cui fanno sfoggio gli uccelli sia sufficiente per far riconoscere in esso il paesaggio utopico dei Campi Elisi, dove «bellissima per i mortali è la vita: neve non c’è, non c’è mai freddo né pioggia, ma sempre soffi di Zefiro che spira sonoro manda l’Oceano a rinfrescare quegli uomini»,51 così come «intorno all’isola dei Beati soffiano le brezze dell’Oceano, rifulgono i fiori d’oro, alcuni sulla spiaggia dagli alberi belli, altri nutriti dall’acqua».52 Ovviamente i soffi ‘sonori’ di Zefiro, e l’eterna primavera ad essi sottesa, sono espressi, in linguaggio pittorico, dal-

49 Ballabriga, 1986; V. Manfredi, Le isole Fortunate. Topografia di un mito, Roma, 1993; L. Antonelli, I Greci oltre Gibilterra, Roma, 1997, p. 31 sgg. 50 Od., xii, 62-65. 51 Od., iv, 564-568 (trad. di R. Calzecchi Onesti). 52 Pind., Ol., ii, 71-74.

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la vastità del cielo e dai battiti d’ala degli uccelli, che avvolgono tutte e quattro le pareti, in gara coi pesci e coi delfini saltanti sulla superficie del mare. Pescatori, uccellatori e ‘tuffatori’ popolano le rive e le acque antistanti in totale sintonia con la natura, alcuni arrampicandosi o sostando su rocce che qui sono a misura d’uomo e ben radicate nella terraferma. Più che a un’allegoria del buon governo53 il paesaggio fa pensare a un paese di favola, dove la terra non ha bisogno di essere coltivata per dare i suoi frutti e dove gli uomini possono tranquillamente dedicarsi agli svaghi della caccia e della pesca.54 E a un’altra mitica isola, quella di Eolo, fa pensare la coppia di coniugi raffigurata nel frontone nell’atto di banchettare, mentre quelle che sembrano essere le figlie intrecciano corone.55 Infatti nella loro isola i figli di Eolo «per sempre col padre caro e con la madre amorosa banchettano; davanti a loro stanno infinite vivande…»,56 al riparo dalle tempeste e dagli affanni del mondo abitato. Abbreviazioni speciali Colonna 1984: G. Colonna, Per una cronologia della pittura etrusca di età ellenistica, in DialArch, s. iii, 2, 1984, pp. 1-24. Moretti, 1962: M. Moretti, La Tomba della Nave, Milano, 1962. Scala 1997: N, Scala, La tomba del Letto Funebre di Tarquinia: un tentativo di interpretazione, in Prospettiva, 85, 1997, pp. 46-52. Steingräber, 1985: St. Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, tr. it., Milano, 1985. Torelli 1997: M. Torelli, Il rango, il rito e l’immagine. Alle origini della rappresentazione storica romana, Milano, 1997. [Osservazioni sulla tomba tarquiniese della Nave, in Pittura etrusca. Problemi e prospettive (Atti del Convegno, Sarteano-Chiusi, 26-27 ottobre 2001), a cura di A. Minetti, Siena, 2003, pp. 63-77].

53 Cui pensa A. Rouveret, «ra», 1992, p. 170 sgg. 54 «Abitano con il cuore lontano da affanni nell’isole dei beati presso Oceano dai gorghi profondi, felici eroi ai quali dolce raccolto tre volte in un anno, abbondante, produce il suolo fecondo» (Hes., Op., 171-173, trad. G. Arrighetti). Per le eccezionali opportunità di caccia e di pesca vedi Diod., Sic., v, 19, 4. 55 d’Agostino, Cerchiai, 1997, p. 21 sg. Per i Beati intenti a intrecciare collane e corone v. Pind., Ol., ii, 74. 56 Od., x, 8 sg. (trad. di R. Calzecchi Onesti).

LA ‘DISCIPLINA’ E T RU S C A E LA DOTT RINA DELLA C IT T À F O NDATA *

I

n questo Seminario di studi storici, cui hanno voluto che partecipassi i colleghi Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco, che ringrazio di cuore, la mia è una voce un po’ fuori dal coro, la voce non di un romanista ma di un etruscologo. Un etruscologo tuttavia che non ha smesso di interessarsi di Roma fin da quando fu chiamato nel lontano 1959 da Antonio M. Colini a occuparsi, proprio qui in Campidoglio, nei locali ancora non allestiti dell’Antiquarium, delle ceramiche arcaiche dell’area sacra di S. Omobono, sia etrusche che ‘indigene’, a complemento dello studio di Enrico Paribeni sulle ceramiche importate dalla Grecia. Quei contributi,1 accompagnati da uno studio di più ampio respiro sulla fase orientalizzante della città,2 furono una delle prime e più concrete risposte che i ricercatori italiani seppero dare al monumentale Early Rome di Einar Gjerstad, e in particolare al suo terzo e massimo volume, allora appena uscito, dedicato al comprensorio urbano: volume3 che mirava ad accreditare definitivamente, su base archeologica, la radicale revisione della cronologia e della storia della Roma dei re, perseguita dalla ‘scuola’ svedese. Seguivo, in quei lavori giovanili, l’esempio del mio maestro Massimo Pallottino, che negli stessi anni polemizzava da par suo con le posizioni dogmatiche allora assunte da quella ‘scuola’. Né ho mai accantonato l’interesse per Roma e i Latini, procedendo per così dire in parallelo con quel riconosciuto “cultore di Roma” che è stato Pallottino,4 e sforzandomi sempre di cogliere, credo onestamente di poterlo dire, ciò che di originale e di innovativo la città ha saputo esprimere già nel primo ciclo della sua vita, ossia fino all’avvento dello stato repubblicano e alla conquista di Veio. Il tema che oggi mi è stato affidato concerne la Roma delle origini, e più precisamente l’asserita fondazione romulea della città, avvenuta a detta degli Antichi secondo uno specifico rituale, ritenuto più o meno apertamente di origine etrusca.5 Esplicito al riguardo è Plutarco, che parla di esperti fatti venire per la bisogna dall’Etruria (Rom., 11, 1). Ma quando Varrone afferma, trattando del lessico relativo ai luoghi e alle strutture della città, che oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, per quindi proseguire illustrando le modalità del rito (l.l., v, 32, 143), sembra evidente che con quei multi intenda in primo luogo Romolo (rivelandosi, per questo come per molti altri aspetti, come una delle maggiori fonti di Plutarco). Il rito etrusco della fondazione urbana è ricordato, senza riferimento a Roma o a Romolo, anche da Livio, a proposito dell’ampliamento del pomerio da parte di Servio Tullio (i, 44, 4), da Granio Liciniano, «uomo curiosissimo e dotto», che citava i libri Tagetici a proposito di un dato di carattere antiquario, il vomere * Comunicazione letta il 22 aprile 2002 in Campidoglio in occasione del xxii Seminario internazionale di studi storici «Da Roma alla terza Roma». 1 Apparsi in «Bullettino Archeologico Comunale», lxxvii (1959-1960), pp. 125-143 e lxxix (1963-1964), pp. 3-32. 2 Aspetti culturali della Roma primitiva: il periodo orientalizzante recente, «Archeologia Classica», xvi (1964), pp. 1-12. 3 Da me recensito ibidem, pp. 331-333. 4 Sì che, una volta attribuitogli meritatamente quel premio, mi fu chiesto dall’Istituto di Studi Romani di tracciare il profilo dello Studioso (apparso in «Studi Romani», xxx (1982), pp. 463-466). 5 Sull’argomento, con raccolta delle fonti, D. Briquel, I riti di fondazione, in Tarquinia: ricerche, scavi e prospettive, a cura di M. Bonghi Jovino e C. Chiaramente Treré, Milano, 1987, pp. 171-190; Idem, La leggenda di Romolo e la fondazione delle città, in Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, a cura di A. Carandini e R. Cappelli, Roma, 2000, pp. 39-44.

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bronzeo dell’aratro del fondatore (Macrob., sat., v, 19, 13), e da Servio, in termini invero generici, a proposito della nota teoria dell’urbs iusta (ad Verg., Aen., i, 242). Ma è significativo che gli autori reticenti nel nominare gli Etruschi non abbiano comunque attribuito al rito in questione una diversa paternità, per esempio albana, come sarebbe stato più che legittimo, esistendo un Albanus ritus (Liv. i, 7, 3), oppure gabina,6 né lo abbiano considerato un’invenzione propria dei due gemelli. Il silenzio più eclatante è quello di Dionigi di Alicarnasso, ma non sorprende più di tanto, dopo che Domenico Musti ha messo in evidenza l’orientamento ideologico, che ha portato lo storico a minimizzare sistematicamente l’apporto etrusco alle origini di Roma.7 Neutrale, o al più agnostico, possiamo definire il silenzio dei poeti, a cominciare da Ovidio nei Fasti, così come quello di Tacito negli Annali e di Giovanni Lido nell’opera sui Mesi, mentre per opere di frammentaria attestazione, come quelle di Catone, il silenzio può essere addirittura soltanto apparente. Nel De divinatione di Cicerone s’incontra una battuta polemica circa la competenza degli Etrusci haruspices in merito allo ius pomerii e agli auspici urbani (ii, 75), ma quella era competenza rivendicata dal diritto augurale, contenuto nei libri augurales, che Cicerone, augure egli stesso, chiama i nostri libri (i, 72), opponendoli ai più famosi libri degli Etruschi. Questi s’identificavano con la parte della Etrusca disciplina che era compresa nei libri rituales, citati sia a proposito della fondazione delle città (da Festo e Granio Liciniano, che li chiamava, come si è detto, Tagetici),8 sia a proposito della dottrina dei saecula, riguardante la vita delle città come degli uomini (da Censorino, che attingeva certamente a Varrone).9 Di fatto nel rito di fondazione romuleo, così come a noi tràdito, coesistono aspetti propri sia del diritto augurale che della Etrusca disciplina, inestricabilmente tra loro connessi: il che, trattandosi ovviamente di un rito romano, sistematicamente replicato in ogni fondazione coloniale, non può destare sorpresa. Al diritto augurale si riporta l’osservazione degli uccelli a scopo divinatorio, e tutto quel che è ad esso connesso, dall’inauguratio alla dottrina del templum, che una consolidata tradizione riferiva ai Sabini, agli Umbri e agli Italici in generale, ma anche ai Latini di Gabii, dai quali i Romani l’avrebbero appreso.10 E qui vorrei ricordare il bronzetto tardo-arcaico di augure con lituo, rinvenuto proprio in un santuario di Gabii negli anni ’70,11 cui fa da contrappunto il bronzetto alto-arcaico rinvenuto nell’area del Comizio romano12 (ma non nel deposito votivo del Niger Lapis, come si continua a ripetere). Invece gli aspetti più specificamente attinenti alla fondazione urbana, quali il mundus, il sulcus primigenius, il pomerium, il circuito delle mura con le sue porte, nonché la stessa organizzazione politica e militare dei cives, appaiono in linea di massima ispirati alla tradizione etrusca, ritenuta dagli Antichi non meno antica e veneranda di quella degli Italici. Tradizione etrusca che si rifaceva in ultima istanza alla “rivelazione” di Tagete, raccolta dal mitico ecista di Tarquinia, Tarconte, fondatore anche di Mantova e delle altre città dell’Etruria padana.

6 Nelle fonti si parla infatti anche di un Gabinus ritus, cui si è ricondotto con qualche forzatura il cinctus Gabinus del fondatore che conduce l’aratro (P. Catalano, in anrw , ii, 16.1, 1978, p. 453, nota 25). 7 D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d’Alicarnasso, «Quaderni urbinati di cultura classica», x (1970). Vedi anche P. M. Martin, «Caesarodunum», 1993, suppl. n. 63. 8 Fest., 358, L. e il passo di Macrobio citato sopra nel testo. 9 Cens., xi, 6; xvii, 5. 10 Catalano, op. cit., p. 491 (ivi le fonti). 11 Riprodotto senza commento in La grande Roma dei Tarquini, catalogo della mostra, a cura di M. Cristofani, Roma, 1990, tav. xi. Cfr. A. Mazzocchi, in Miscellanea etrusco-italica, ii («Quaderni di archeologia etruscoitalica», 26), 1997, p. 151, tipo iv. 12 G. Colonna, I Latini e gli altri popoli del Lazio, in Italia omnium terrarum alumna, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, 1989, p. 514, fig. 438; Mazzocchi, art. cit., p. 133 sg., tipo ii.

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Fig. 1. La struttura B dell’acropoli di Marzabotto.

In realtà non mancano in Etruria testimonianze di quegli aspetti e momenti del rito di fondazione romano, che possono aver lasciato una traccia nella documentazione archeologica. Prendiamo il caso del mundus. Da tempo è stato segnalato che esso trova un confronto, ben più antico e pertinente di quelli di Norba, Bolsena, Cosa e Caere, sui quali via via si è portata l’attenzione, nella struttura B dell’acropoli di Marzabotto (Fig. 1).13 È questa un nucleo murario quadrato di poco più di 4 metri di lato, emergente per un metro dal suolo e incassato in esso per più di 5 metri, entro un’enorme fossa scavata per ovvii motivi tecnici prima della costruzione dei due templi contigui, A e C, la cui stabilità altrimenti sarebbe risultata seriamente compromessa. Ne deriva che la struttura è stata la prima ad essere realizzata sulla terrazza dell’acropoli, verosimilmente all’epoca del più antico impianto urbano, ossia verso il 540 a.C. Verso il centro del manufatto è stata risparmiata verticalmente la canna di un pozzo, prolungata fino a raggiungere la falda a 7 metri di profondità, allargandosi sul fondo da m 0,44 a m 1,18. La funzione di pozzo per acqua appare tuttavia secondaria rispetto a quella di apprestamento cultuale, suggerita dall’inserimento in una piattaforma quadrata e sopraelevata, dalla posizione centrale che in essa gli è stata riservata e dalle ossa di animali domestici, rinvenute in gran copia nel suo interno, assieme a resti di corna di cervo. Si può ragionevolmente pensare che l’altissimus puteus sia stato destinato in primo luogo a consentire che un puer, nel corso di un rito propiziatorio di carattere ctonio, controllasse il livello della falda (prima dell’aratura e della semina?), al fine di pronosticare gli anni proventus, ossia l’atteso raccolto (schol. Bern. ad Verg., ecl., iii, 104). 13 Cfr. F.-H. Massa-Pairault, «mefra», 93, 1981, pp. 127-133, con bibl. Da ultimi D. Vitali, A. M. Brizzolara, E. Lippolis, L’acropoli della città etrusca di Mazabotto, Bologna, 2001, pp. 28-34, 255-257.

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Fig. 2. Pilastro interno (mundus) dell’altare i di Veio-Portonaccio (da «Notizie Scavi», 1953).

Ma non è questo l’unico tipo di mundus noto in Etruria. Possiamo infatti considerare tali anche gli altari collocati sopra una fossa scavata nel terreno e successivamente colmata, la cui esistenza è presupposta dal foro che attraversa verticalmente l’altare, o il terreno adiacente, per stabilire una comunicazione rituale con essa. Li incontriamo nei santuari di Veio-Portonaccio (Fig. 2), Pyrgi-area C (Fig. 3), Pyrgi-area Sud (Fig. 4), S. Marinella, Bolsena-Poggetto, Orvieto e Bagnoregio,14 databili a partire dal 540-530 a.C., età cui risale la prima fase dell’altare di Veio, come è stato recentemente chiarito.15 Sono altari consacrati a Menerva (Veio, S. Marinella) e a Tina, il Giove etrusco (area C di Pyrgi, Orvieto e Bolsena), entrambi nel loro aspetto ctonio, nonché all’infero Cul®ans (Bagnoregio). Ma nell’esempio di più recente scoperta, l’altare iota dell’area Sud di Pyrgi, la consacrazione dovrebbe riguardare proprio ±uri e Cavatha, la coppia divina corrispondente a Dis Pater e a Proserpina, cui era sacro il mundus romano, ubicato nel centro della città, presso il Comizio (teste Macrob., i, 16, 17), altrimenti chiamato sacellum Ditis o mundus Cereris (dove la madre Cerere, come talora si verifica, specie in Etruria, è tutt’uno con la figlia Proserpina).16 Né può meravigliare il ruolo 14 G. Colonna, «Archeologia Classica», xviii (1966), pp. 91-94; A. J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz, 1975, pp. 75-78 (definiti troppo restrittivamente “Libationsaltäre”); Idem, Festschrift Gerhard Radke, Münster, 1986, pp. 186192 (= Gesammelte Schriften, Wien, 1995, pp. 187-192). L’esempio dell’Area Sud di Pyrgi è venuto in luce nel 1998: cenno in «Studi Etruschi», lxiv, 2001, p. 422. 15 G. Colonna, «Monumenti antichi dei Lincei», ser. misc. vi, 3, 2002, pp. 141 sg., 149 sg., tavv. xiii a-b, xxv b. 16 F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, Roma, 1983, pp. 207-220; Idem, in Lexikon topographicum urbis Romae, iii, 1996, s.v. mundus, p. 288 sg.

Fig. 3. Area C del santuario maggiore di Pyrgi (da «Notizie Scavi», 1970, ii suppl., fig. 438).

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Fig. 4. Il supposto mundus dell’altare ny dell’area Sud di Pyrgi.

preponderante che avevano assunto le divinità infere nel rituale delle fondazioni urbane anche in Etruria, tenuto conto della tradizione secondo la quale Tarconte avrebbe consacrato a Dis Pater le dodici città da lui fondate nella Padania (A. Caec., apud schol. Veron. ad Aen., x, 200). Pyrgi non è una città ma accoglie nell’area Sud quello che possiamo considerare l’asylum di Caere nei confronti dello straniero proveniente dal mare, e sappiamo che a Roma l’asylum romuleo del Campidoglio era posto sotto la tutela di una divinità, Vediove (Ov., fasti, iii, 429-432), assai simile a ±uri/Soranus.17 Ma c’è di più. Nel caso dell’altare ny di Pyrgi Sud, che è un altare di pietre brute a pianta ovale, l’imbocco dell’adiacente foro di comunicazione col sottosuolo, posto a livello del terreno, al momento dello scavo era coperto da un blocco d’arenaria spaccato in due dal gelo, fungente da vero e proprio tappo, che lo nascondeva del tutto alla vista (Fig. 5). Rimosso il blocco si sarebbe veramente potuto esclamare, come avveniva tre giorni all’anno per il mundus romano: mundus patet (Varr., apud Macrob., sat., i, 16, 18). Quelli degli altari con foro per così dire incorporato che conservano almeno in parte il piano superiore (S. Marinella, Bolsena, Orvieto) mostrano che il foro poteva anche in essi essere tappato, inserendo nell’apposito alloggiamento un blocco o una lastra amovibile,18 sulla quale nulla impediva di accendere il fuoco. Penso che non vi sia migliore illustrazione del mundus romuleo quale è immaginato da Ovidio (fasti, iv, 819-822), ossia un altare fungente da novello focolare 17 G. Colonna, in Magna Grecia Etruschi Fenici. Atti del xxxiii convegno di studi della Magna Grecia, Taranto 1993, Napoli, 1996, pp. 363-368. 18 Vedi per quello di S. Marinella la ricostruzione di M. Torelli, in Santuari d’Etruria, catalogo della mostra di Arezzo, a cura di G. Colonna, Milano, 1985, p. 149, 8.1, e per quello di Bolsena la foto ibidem, p. 44, i.33.

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Fig. 5. L’altare ny dell’area Sud di Pyrgi col supposto mundus tappato.

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della città,19 sovrapposto a una fossa colmata di terra, dopo che sul fondo erano stati gettati cereali e zolle prese dal suolo circostante. Certo in Ovidio manca la menzione del pertugio che metteva in comunicazione l’altare con la fossa, ma questo può dipendere dalla sua estraneità al rito che il poeta sta illustrando, che è quello del natalis urbis, rievocato in occasione delle Parilia, il 21 aprile. Circa il momento successivo del rito, ossia il tracciamento del sulcus primigenius, indicante la posizione del muro e delle porte, e la connessa definizione del pomerium, che intendo anch’io con André Magdelain e Andrea Carandini come una linea e non come uno spazio, può essere interessante sapere che in Etruria ne abbiamo almeno un probabile esempio, già da me segnalato molti anni fa.20 Attiene non ad un’area urbana ma a quella di un grande santuario extraurbano, dotato di muro e di porte a imitazione di una città. Mi riferisco al santuario maggiore del già ricordato complesso sacrale di Pyrgi, edificato in due tempi tra il 510 e il 470-460 a.C. Il muro di recinzione è accompagnato dalla parte interna, a m 3,50-4 di distanza e per una lunghezza verificata di almeno 16 metri, da una fossa rettilinea a sezione grosso modo triangolare, profonda m 0,70 e larga alla base m 0,30-0,40, colmata interamente di pezzame di tufo e orientata con il muro invece che con i templi (Figg. 6-7). Si tratta evidentemente di un limite, relativo alla parte del temenos che in termini di diritto augurale possiamo dire ritualmente effata, liberata, inaugurata e consecrata, così da poter accogliere al suo interno i due grandi templi A e B, il primo dei quali sfiora quel limite col suo angolo posteriore sinistro. Il fatto degno di nota è che il limite in questione ha tutto l’aspetto di un sulcus continuo, analogo a quello che è lecito pensare sia stato ricalcato dal muro di cinta e che nel rito di fondazione delle città corrisponde al sulcus primigenius, tracciato con l’aratro. In altre parole il caso del santuario di Pyrgi induce a ritenere che, almeno nel rito praticato in Etruria, fossero in realtà previsti due sulci, invece dell’unico ricordato dalle fonti letterarie per Roma: uno per il muro e l’altro per il pomerio, il primo destinato a essere sostituito dalla fondazione del muro, il secondo invece destinato a restare, e pertanto per così dire pietrificato, ossia trasformato in un ‘cordone’ sotterraneo praticamente indistruttibile, segnalato in superficie probabilmente da cippi. Di questi l’Etruria ha restituito numerosi esempi iscritti, relativi sia ad aree urbane, cioè a fines publici, come quelli ben noti di Fiesole, cui se n’è aggiunto uno da Bolsena, sia alla parte suburbana dell’ager, come i tular rasnal di Cortona,21 sia ad aree sacre, intestati a Laran, il Marte etrusco (a Bettona), e a Selvans come divinità protettrice dei confini (a Tarquinia e a Bolsena),22 sia infine ad aree private. Anche il momento preliminare del rito di fondazione romuleo, ossia la presa degli auspici, ispirato alla dottrina augurale, risulta attestato in Etruria dai monumenti, sicché si deve ipotizzare un’antichissima infiltrazione di quella dottrina nel contesto della Etrusca disciplina. A Marzabotto non si ha solo il supposto mundus, rappresentato dalla struttura B, ma anche la purtroppo mal conservata struttura Y, insistente sul dosso più alto dell’acropoli, giustamente interpretata come l’auguraculum da cui è stato, in termi19 In accordo con Varrone, che a quanto pare faceva risalire il culto di Vesta a Romolo invece che a Numa (A. Fraschetti, Romolo il fondatore, Bari, 2002, p. 59). 20 G. Colonna, «Notizie Scavi», 1959, p. 167, fig. 16; 1970, ii suppl. (1972), p. 451 sg, figg. 5, 7 (sez. B-B e G-G) e 352. 21 Trattazione d’insieme di G. Colonna, in La formazione della città preromana in Emilia Romagna, Bologna, 1988, pp. 17-28, con bibl. precedente. 22 Laran: R. Lambrechts, Les inscriptions avec le mot “tular” et le bornage étrusques, Firenze, 1970, pp. 19-21; Selvans: Santuari d’Etruria, cit., p. 45, 1.35; M. Cataldi, in Tyrrhenoi philotechnoi, a cura di M. Martelli, Roma, 1994, pp. 63-68.

Fig. 6. Il cordone del pomerio del santuario maggiore di Pyrgi alle spalle del tempio A (da «Notizie Scavi», 1959).

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Fig. 7. Il percorso del pomerio alle spalle del tempio A (da «Notizie Scavi», 1970, ii suppl., fig. 5).

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Fig. 8. Attacchi d’ansa di brocche bronzee etrusche con raffigurazione di un aruspice (a sin.) e di un augure (a ds.) (da Gli Etruschi. Una nuova immagine).

ni augurali, ‘effato’, ‘liberato’ e ‘inaugurato’ il sito della città, separandolo dall’ager circostante.23 Questo di Marzabotto è il più antico esempio di auguraculum giunto fino a noi, essendo contestuale al primo impianto della città, risalente come detto al 540 a.C. Più tardi le due ‘mattonelle’ litiche iscritte con nomi divini, rinvenute su quella sorta di acropoli separata di Arezzo che è la collina di Castelsecco, sede di un imponente santuario ellenistico, fanno ritenere probabile che su quel colle sia esistito un vero templum augurale, un templum in terris simile a quello di Bantia.24 Né mancano, accanto a quelle di aruspici che scrutano il fegato, raffigurazioni di auguri che scrutano il cielo, esibite dai medesimi vasi rituali, ossia le brocche bronzee di tardo v-inizio iv secolo a corpo angoloso (Fig. 8).25 Probabilmente in Etruria gli aruspici avevano finito con l’acquisire anche competenze da auguri, nonostante le sprezzanti riserve di Cicerone. Da ultimo, per finire, vorrei abbozzare una spiegazione del perché tanta parte del rito di fondazione romuleo sia attribuita agli Etruschi. Che non si tratti soltanto di anticipazioni rispetto all’età dei re etruschi è ora dimostrato dagli scavi di Carandini e dei suoi collaboratori, che hanno portato alla scoperta di una cinta di mura risalente almeno al 23 Vitali, Brizzolara, Lippolis, citati a nota 14, pp. 57 sg., 241-255. 24 G. Colonna, in Les Étrusques, les plus religieux des hommes (xii es Rencontres du Louvre), Paris, 1997, p. 169, con bibl. precedente. 25 A. Maggiani, in Gli Etruschi. Una nuova immagine, a cura di M. Cristofani, Firenze, 1984, p. 143 sg.

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700 a.C., separante il Palatino dal restante e ben più esteso insediamento romano, con un’operazione indubbiamente dal forte significato simbolico.26 Se per essa ci si è ispirati agli Etruschi, ciò è avvenuto sulla falsariga di rapporti antichissimi e consolidati, risalenti alle prime fasi dell’età del Ferro, cui Roma deve lo stesso modello del suo sviluppo protourbano, come non mi stanco di ripetere.27 Certo i macroinsediamenti villanoviani non mostrano traccia di mura, ma intanto queste correvano a Roma quasi alla base della collina, dove in Etruria non le si è mai cercate. Ma soprattutto occorre tenere ben presente che è il pomerio l’elemento più antico e più significante, che siamo in diritto di attenderci negli insediamenti villanoviani. [La “disciplina” etrusca e la dottrina della città fondata, «StRom» lii, 3-4, 2004, pp. 303-311].

26 A. Carandini, Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, cit. a nota 6, passim. 27 Per es. in Etruria e Lazio arcaico, a cura di M. Cristofani, Roma, 1987, p. 55 sg.

TR A ARCHIT ETT URA E U RBA NIS T IC A (A PROPOSITO DE L T E M PIO DI MAT ER MAT UTA A S AT RIC U M ) Sono lieto di dedicare alla memoria di Jos de Waele, di cui mi onoro di essere stato amico oltre che collega, il testo della relazione letta l’11 giugno 1996 al convegno internazionale Satricum 1896-1996, che purtroppo non sono riuscito a mettere a punto in tempo per la sua pubblicazione negli atti (1997).1

S

ono grato agli amici olandesi per l’invito, premuroso e pressante, a intervenire al convegno, col quale hanno voluto degnamente celebrare il centenario degli scavi di Satricum. Un’impresa che onora l’archeologia italiana dell’800 non meno di quella olandese di oggi, che l’ha ripresa e proseguita con splendidi risultati, ai quali guardiamo tutti con ammirazione. Tratterò anch’io, come il collega de Waele, delle complesse vicende, edilizie e architettoniche, che ha conosciuto il tempio di Mater Matuta. È necessario farlo perché il progresso delle ricerche invece di avvicinare la prospettiva di un accordo tra gli studiosi in merito a tali vicende ha finito con l’allontanarla ancora di più. Il che è tanto più doloroso in quanto a essere in discussione è la storia non solo del tempio dell’acropoli, ma, indirettamente, dell’intera città. Il mio vuol essere un ripensamento delle tesi che sono in campo, a cominciare da quelle da me sostenute nel 1983,2 nella convinzione che sia oggi possibile raggiungere un accettabile compromesso, salvaguardante l’insieme dei dati obiettivi finora disponibili. Inizio dal c.d. sacello (Fig. 1, a destra). È tempo ormai di parlare, con la collega Maaskant-Kleibrink,3 di tempio 0, o meglio, prendendo il coraggio a due mani, per evitare una cifra che inevitabilmente può essere scambiata con una lettera o maiuscola, di tempio i, anche se la modifica nella numerazione dei templi che si sono succeduti e sovrapposti l’uno sull’altro al centro dell’acropoli potrà comportare inizialmente qualche confusione. Ma è opportuno farlo perché non sussiste alcuna sostanziale discriminante, se prescindiamo dalle dimensioni e dalla monumentalità, tra il primo edificio di culto in muratura e gli altri che ne hanno preso via via il posto. Il tempio, riconosciuto definitivamente come tale soltanto in anni recenti,4 è stato datato in un primo momento dal de Waele al 640 circa a.C., perché direttamente sovrapposto al fondo di capanna protostorico nel quale ravvisiamo concordemente la più antica ‘casa’ della dea satricana. Tuttavia il riempimento pluristratificato del fondo di capanna contiene unicamente ceramica di ix e viii secolo, più due soli cocci di «bucchero indigeno»,5 chiaramente insufficienti per una datazione così puntuale. Gli scavi dell’Università di Groninga nel-

1 I disegni alle figg. 1-4 sono stati eseguiti secondo le mie indicazioni da Sergio Barberini dell’Università di Roma “La Sapienza”, utilizzando come base, nel caso delle figg. 2-4, una pianta recente degli scavi dell’Università di Groninga (cfr. Maaskant Kleibrink, 1991, fig. 3). 2 Colonna, 1984, pp. 396-404. 3 Maaskant Kleibrink 1992a, p. 8 sgg. 4 de Waele, 1981, p. 24 sg.; Colonna, 1984, p. 396, nota 4. 5 de Waele, 1981, p. 46. Cfr. Stibbe, 1980, p. 176, nota 14 («un solo coccetto di bucchero chiaramente ‘infiltrato’ (Peroni)»). Sembra d’altra parte evidente che gli strati superiori della capanna, relativi al vii e prima metà vi secolo, siano stati asportati dagli scavatori dell’800, convinti di essersi imbattuti in una “favissa”.

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l’abitato antistante il tempio hanno d’altra parte rivelato che la cesura tra la fase edilizia ‘precaria’, consistente in capanne di frasche o case di legno, e quella delle case con muri su zoccolo in opera quadrata coincide con un generale livellamento dell’area (strato ii B), databile in un momento avanzato dell’orientalizzante recente, verso il 600-590 a.C.: da qui la proposta di datare il tempio i verso il 590-580.6 Data che può essere accolta, a mio avviso, soltanto come un terminus ante quem non, perché motivi di conservatorismo religioso possono aver ritardato l’adozione della nuova tipologia edilizia per la casa della dea.7 Fortunatamente i muri del tempio i contengono in se stessi un elemento datante, già da me segnalato nel 1983 ma che non vedo ancora preso nella dovuta considerazione. Mi riferisco agli incassi che l’accuratissimo rilievo di Raniero Mengarelli (1896), riprodotto in grande scala dal de Waele,8 registra sulla faccia superiore di molti dei conci dell’assisa più alta allora conservata, oggi quasi interamente mancante: incassi variamente disposti, la cui esistenza e conformazione è verificabile sull’unico concio tuttora sufficientemente conservato.9 Tali incassi non solo documentano l’esistenza di una terza assisa muraria completamente asportata dai costruttori del tempio ii, ma denotano il ricorso ad una tecnica raffinata per l’accostamento dei conci, con impiego di un paletto di ferro fungente da leva.10 Si tratta di una tecnica, di sicura ispirazione greca, che nel basamento dei templi non sembra affermarsi in area greco-occidentale prima della metà del vi secolo.11 Nell’Italia centrale la incontriamo con una certa frequenza nel Lazio (in tutte e tre le fasi del tempio di Satricum,12 nella ‘struttura’ j adiacente alla grande strada di Satricum in loc. Poggio dei Cavallari13 e sporadicamente nella seconda fase del tempio romano di S. Omobono),14 mentre altrove è stata segnalata solo assai raramente. L’esempio più antico a me noto è offerto sempre nel Lazio dalla non lontana Lavinium, dove appare nell’altare ix inferiore del santuario della Madonnella,15 spettante al primo impianto monumentale del santuario, databile verso il 560 a.C.16 Più tardi, tra la fine del vi e il v secolo a.C., ne abbiamo rare occorrenze in Etruria: a Tarquinia, associato agli incassi per il sollevamento, nella struttura beta inglobata nella terrazza anteriore del tempio dell’Ara della Regina,17 a Veio nella ‘fattoria’ di Casale Pian Roseto.18 A Satricum non vi è ragione di ritenere che tale tecnica sia stata introdotta prima che a Lavinium, dove risulta del tutto sporadica: il suo impiego sistematico nella fabbrica templare della città pontina depone per una data recenziore, probabilmente non anteriore 6 Maaskant Kleibrink, 1992a, pp. 15 sg., 123, seguita ora da de Waele, 1997, p. 70 sgg. 7 Esemplare al riguardo è a Poggio Civitate il contrasto tra il tempietto del cortile, coperto verosimilmente di strame senza alcun decoro architettonico, e il circostante “palazzo”, certamente ad esso coevo (Colonna, 1986, p. 434, tav. xiv). 8 de Waele, 1981, foglio 1 allegato. 9 Colonna, 1984, p. 400, nota 1, fig. 5. 10 Lugli, 1957, p. 231 sg.; Martin, 1965, pp. 235-238, fig. 110 sg.; Ginouvès, Martin, 1985, p. 124, tav. 28: 6 (in alto), 8. 11 L’esempio più antico è offerto, ancora a titolo sporadico, dalla krepis della “Basilica” di Poseidonia (Mertens, 1993, pp. 13, 76). La tecnica, strettamente collegata alla ‘pietrificazione’ della trabeazione del tempio dorico, appare per la prima volta nell’architrave dell’Apollonion di Siracusa (Mertens, 1996, p. 27 fig. 2). 12 Come risulta dal rilievo Mengarelli (cfr. nota 8). Si noti che, per quanto riguarda il tempio ii, gli incassi sono presenti su tutte e tre le assise conservate, come appare dalla lacuna all’angolo SW del muro del pronao. 13 Gnade, 2002, p. 54 sgg., tavv. 20-22. 14 Presentano incassi due blocchi del basamento dell’altare (vedi Joppolo, 1989, tavv. iv-vi), spettanti alla sopraelevazione attuata nella fase ii (Colonna, 1991, p. 52). 15 Cozza, 1975, p. 126, figg. 155, 157. 16 Torelli, 1984, p. 15 sg. 17 Arezzo, 1985, p. 71 (G. Colonna); Colonna, 1986, p. 491 fig. 390. 18 Murray Threipland, Torelli, 1970, p. 64, fig. 1, tavv. via, viib. (Torelli, 2001 ne conferma la datazione al tardo vi sec., ma pensa a un santuario).

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Fig. 1. Satricum, il tempio i di Mater Matuta (550-540 a.C.).

alla metà del vi secolo e alla grande svolta culturale di impronta ionizzante che investì allora Lazio ed Etruria. I muri superstiti del tempio i, costruiti con blocchi di tufo sia bianco che rosso, constavano pertanto al momento dello scavo di un’assisa di fondazione in tufo bianco, limitata alla metà posteriore dell’edificio, ben visibile nel rilievo Mengarelli e in una foto coeva,19 e di almeno due assise a faccia vista, in relazione con un alzato, completamente perduto, in mattoni crudi o in pietrame con armatura a graticcio,20 più che adatto a sopportare un normale tetto di tegole. Le dimensioni dell’edificio (m 6 per 10,40) corrispondono quasi perfettamente a quelle della fase serviana del tempio di S. Omobono a Roma (m 10,30 × 10,30), anch’esso sacro a Matuta, ove si prescinda dalle alae di quello, dovute all’adozione della pianta tripartita di tipo tuscanico.21 Nasce allora il sospetto che anche il tempio di Satricum, come quello di S. Omobono, sorgesse su un podio, sospetto che diventa praticamente certezza grazie al rinvenimento nel 1896 di parte di un concio di tufo rosso modanato a toro, definito da Barnabei-Cozza «il grande toro dello stilobate»,22 pressoché identico in altezza (cm 16-17) al toro che coronava il podio del tempio i di S. Omobono, costituendone l’unica modanatura.23 È ovvio che il podio, presupposto da questo concio, convenga assai meglio al tempio i a oikos che non ai due successivi

19 Colonna, 1984, p. 400, nota 13, fig. 4. 20 La larghezza di m 0,40 è pienamente compatibile con entrambe le alternative. Nell’ipotesi dei mattoni crudi, preferita da de Waele, 1981, p. 26, si dovrà pensare a mattoni quadrati o rettangolari collocati di taglio (cfr. le testimonianze delle case arcaiche di Pyrgi: Colonna, 1959, p. 254, figg. 92-94). 21 Colonna, 1991. 22 Barnabei, Cozza, 1896, p. 31 sg., fig. 4; Shoe, 1965, p. 86 sg., tav. xxiii, 3-4. Già da me attribuito erroneamente alla cella del tempio ii (Colonna, 1984, p. 404, nota 30). 23 Colonna, 1991, p. 53, fig. 2a.

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templi peripteri, per i quali l’ispirazione chiaramente ellenizzante ha fatto giustamente pensare a un crepidoma di uno o due gradini.24 Considero pertanto l’assisa modanata a toro come la quarta assisa del tempio i, anch’essa, come la terza, interamente asportata dai costruttori del tempio ii, a parte la scheggia in questione, e ricostruisco con essa un podio dell’altezza di poco più di un metro (Fig. 1, a sin.), contro il m 1,70 del tempio i di S. Omobono, accessibile in facciata con una scala di tre gradini e commisurato, con la sua modesta altezza, alla minore monumentalità del tempio satricano, che oltre tutto era collocato non ai margini di una bassura paludosa25 ma bene in vista e al sicuro sull’alto di un colle. L’ipotesi del podio consente altresì di giustificare meglio il rinvenimento nel 1896 di una parte del deposito votivo all’interno del rettangolo murario del tempio, che proprio per tale motivo fu erroneamente interpretato come una favissa.26 È infatti preferibile pensare che l’accumulo del materiale votivo, notoriamente non più recente del 550-540 a.C., sia avvenuto come riempimento di un podio in costruzione – come sembra essersi verificato a S. Omobono col deposito votivo più antico, rinvenuto entro il prolungamento, forse non portato a termine, del podio del tempio ii oltre il lato posteriore del tempio i27 –, invece che come un riporto seriore, scaricato entro il perimetro murario di un edificio semidemolito.28 In tale prospettiva ermeneutica il deposito votivo di Satricum sarà stato ammassato, al momento della costruzione del tempio, per una parte all’interno del podio (alto, come si è detto, più di un metro) e per una parte, probabilmente maggiore, in un cumulo alle spalle dello stesso,29 non troppo diversamente dalla sistemazione che si è intravista alle spalle del tempio di S. Omobono.30 Alla luce di quanto si è esposto acquista pieno credito la proposta di R. Knoop di riferire al tempio in questione (il c.d. sacello) il più antico ‘tetto’ decorato di Satricum, che è quello di stile ionico di impronta cerite, la cui datazione più alta possibile è appunto il 550-540 a.C.31 Knoop pensava, seguendo per l’edificio la datazione alta del de Waele, a un rifacimento della copertura originaria, con una ipotesi chiaramente debole, stante l’intimo legame che in un edificio come questo sussiste tra la progettazione del tetto e quella delle strutture portanti, come insegna ancora una volta il tempio romano di S. Omobono. Di tale ipotesi possiamo comunque fare tranquillamente a meno, se accettiamo che l’edificio è stato costruito, come tutto lascia credere, negli stessi anni in cui si datano le terrecotte. Dicendo questo rinuncio definitivamente, com’è ovvio, alla attribuzione del tetto di stile ionico a una ipotetica prima sottofase del tempio successivo, priva interamente di peristasi, che non appare documentata da obiettivi dati di fatto, una volta riferito al tempio i l’unico resto superstite della modanatura di podio. Il tempio i di Satricum rappresenta pertanto la prima monumentalizzazione, solo relativamente modesta, dell’aedes di Matuta, avvenuta, come insegnano le terrecotte del tetto, nel solco di una impronta culturale cerite, di segno nettamente ionizzante. Impronta mediata a quanto pare da Roma, a giudicare dalle affinità strutturali con la fase serviana del tempio di S. Omobono, rilevate a proposito della conformazione del podio, delle proporzioni dell’edificio e del seppellimento di parte del preesistente deposito vo-

24 de Waele, 1981, fogli 8-12, 15-18. 25 Vedi Joppolo, 1989, tav. i. 26 Colonna, 1984, p. 398. 27 Pisani Sartorio, Virgili, 1979, p. 41 sgg., figg. 2-3; Joppolo, 1989, p. 32 sg., fig. 12, tav. ii. Per l’interpretazione: Colonna, 1992, p. 52, nota 5. 28 Come ho a torto ritenuto (Colonna, 1984, p. 398). 29 Sostruito a valle da due muretti paralleli, l’inferiore registrato come traccia nel solo rilievo Cozza (Colonna, 1984, p. 400, fig. 2). 30 Cfr. nota 23. 31 Knoop, 1987, p. 211 sg. [cfr. N. Winter, Symbols of Wealth and power, Ann Arbor, 2009, pp. 398-400].

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tivo alle sue spalle, entro un’apposita area protetta. Le terrecotte rivelano comunque, come è stato bene elucidato dal Knoop, un aspetto notevolmente originale, frutto di una progettazione certamente eseguita in loco, nel Lazio costiero, da parte di coroplasti-architetti immigrati. Alcune recenti acquisizioni consentono di capire come si è arrivati a questa situazione. In un saggio da poco apparso ho potuto ricostruire i fortunati scavi compiuti ad Ardea nel 1852, che hanno portato alla scoperta, nel sito extraurbano della Banditella, di quello che tutto fa ritenere essere stato l’Aphrodisium ardeate, menzionato da Strabone e Plinio il Vecchio.32 Tra le terrecotte architettoniche allora portate alla luce, e subito acquistate dal marchese Campana, si annoverano due statue acroteriali recentemente edite da Françoise Gaultier, che ha loro attribuito una provenienza, erronea ma assai significativa, da Tuscania.33 Sono infatti opera di coroplasti della cerchia artigianale di Tuscania-Castel d’Asso-Acquarossa, pervenuti verso il 560 ad Ardea passando probabilmente per Caere, dove hanno lasciato traccia della loro attività.34 Ad essi, o ad altri artefici arrivati da Caere sulla loro scia, passando eventualmente per Roma, come si è detto, è da riferire il tempio i di Satricum, col quale in un certo senso arriva a compimento l’assetto urbanistico iniziato poco dopo il 600 a.C. con lo strato di livellamento ii B (Fig. 2). Con la costruzione del primo tempio dotato di peristasi, il tempio ii nella numerazione che ho proposto di adottare, si assiste a un radicale cambiamento di modello, che assume un rilevante significato storico. Il tempio ii infatti, come si è da tempo rilevato,35 è opera di maestranze venute dalla Campania, e assai più probabilmente da Cuma e Pitecusa che non da Capua.36 Lo dimostrano sia la pianta periptera, invero priva del posticum (come nel coevo tempio romano di Giove Capitolino), sia e soprattutto le terrecotte architettoniche, a cominciare dalle antefisse nimbate e dalle placche rivestenti il columen e i mutuli.37 Ciò è largamente noto: il fatto nuovo è l’accertamento che lo stesso fenomeno si è verificato ad Ardea, e anche in questo caso con un’evidente priorità cronologica rispetto a Satricum. Lo si rileva da un esemplare di antefissa tipologicamente assai più antica, a testina femminile di stile ‘dedalico’ entro una palmetta eretta, databile verso il 560-550 a.C., cui seguono le antefisse a Gorgoneion e finanche un’antefissa circolare a Gorgoneion di tipo ‘metapontino’.38 A Satricum se il tempio a oikos si data, come si è visto, verso il 550-540, per il pseudoperiptero che gli è stato sovrapposto, rispettandone rigorosamente l’orientamento, si è indotti a pensare alla data più bassa compatibile con l’utilizzazione delle antefisse di tipo campano in esso presenti, ossia il 530-520. Che è la data più verosimile per le antefisse dello stesso tipo rinvenute a Elea, per le quali è ovviamente impossibile risalire a un’età anteriore alla fondazione della colonia focea.39 L’aspetto profondamente innovativo del tempio ii è tanto più rilevante, in quanto si inquadra in un riassetto urbanistico, che ha investito a quanto pare l’intero quartiere circostante il tempio. Gli scavi dell’Università di Groninga hanno infatti rivelato che sia le case a oikos E, F, H, sia le grandi case a corte interna A e B cessano simultaneamente di esistere e vengono sepolte da un unico strato di distruzione (strato ii C), datato dagli scavatori verso il 540-530 a.C.40 Dopo questo evento traumatico, che ha segnato una

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Colonna, 1995. 33 Colonna, 1995, pp. 31 sg., 35-37, fig. 22 sg., con bibl. Colonna, 1995, p. 35, nota 105. 35 Colonna, 1981, pp. 159-162; Knoop, 1987, p. 214 sgg. Come sostengo da tempo, e vedo ora confermato da Rescigno, 1998, pp. 24, 385 sgg. Per queste ultime vedi ora Lulof, 1997, pp. 90-94. Colonna, 1995, pp. 37 sg., 41, figg. 24 e 27. Colonna, 1995, p. 37 sg., nota 111, con la bibl. ivi citata. Maaskant Kleibrink, 1992a, pp. 10, 139 sgg. Cfr. anche Maaskant Kleibrink, 1992b, p. 59.

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Fig. 2. Satricum, parte centrale dell’acropoli: in nero la fase del tempio i (550-540 a.C.) (ed. A, B, C, E, F, H e Lacus).

svolta nella vita della città, purtroppo completamente ignorata dalle fonti letterarie,41 il centro dell’acropoli fu ricostruito secondo un piano regolare – il primo ed unico per esso da noi postulabile –, diversamente orientato rispetto al tempio e alle case precedenti. A questo piano si adeguano sia l’imponente casa a cortile C’ che le case ‘a stoà’ A’, B’ e D’. I quattro edifici definiscono i lati N ed E di una vasta ‘piazza’ rettangolare, nella cui metà N, al di là dell’incrocio col maggiore asse viario della collina, la c.d. Via Sacra, venne a trovarsi il nuovo tempio (Fig. 3). Secondo la Maaskant-Kleibrink il tempio allora costruito è il grande tempio periptero (tempio iii nella nuova numerazione) il cui orientamento è lo stesso della ‘piazza’. Poiché il suo fastoso apparato di terrecotte architettoniche figurate, includente il ciclo acroteriale della Gigantomachia brillantemente ricostruito da Patricia Lulof,42 non può essere anteriore per ragioni stilistiche al 500-490, e forse al 490-480 a.C., si fa ricorso alla 41 Si può solo rilevare che la data coincide approssimativamente con la prima parte del regno di Tarquinio il Superbo la ripresa dei lavori del tempio di Giove Capitolino. 42 Lulof, 1996.

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Fig. 3. Satricum, parte centrale dell’acropoli: in nero la fase del tempio ii (530-520 a.C.) (ed. A’, B’, C-C’, D’ e Pozzo).

comoda scappatoia, metodologicamente inaccettabile e nella fattispecie priva di qualsiasi riscontro documentale, di un totale rifacimento del tetto alla data indicata.43 Per uscire dall’impasse ritengo sia indispensabile rinunciare a un’applicazione meccanica del criterio dell’orientamento a fini cronologici. Quando è in gioco l’orientamento di un edificio sacro è bene tenere conto, come già si è fatto per la tecnica edilizia a proposito del passaggio dalle capanne alle case, del fattore religioso, che può avere imposto l’adeguamento del nuovo edificio all’orientamento di quello da esso sostituito, anche se dissonante dal piano urbanistico nel frattempo affermatosi.44 A favore di tale possibilità militano nel caso specifico due dati di fatto, che finora non mi sembra siano 43 Si aggiunga che il tempio iii ingloba nelle sue fondazioni il lapis Satricanus, la cui datazione intorno al 500 a.C. è ormai comunemente accettata. 44 Come ci ricorda Prayon, 1997, p. 361: “l’orientation du temple reste invariable pendant toute la période archaïque, même en cas de reconstruction totale entre deux phases archaïques … le temple ne change normalement d’orientation qu’après le vie siècle av. J.-C.”.

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Fig. 4. Satricum, parte centrale dell’acropoli: in nero la fase del tempio iii (490-480 a.C.) (ed. A’, B’, C-C’, Fossa Votiva e Z).

stati rilevati. Il primo concerne la casa D’ affacciata sulla ‘piazza’ all’altezza del tempio. Il muro delimitante la casa dal lato della ‘piazza’ piega, nel tratto terminale verso N, in direzione NE, assumendo l’orientamento del tempio ii. La correzione di tracciato avviene in corrispondenza dell’angolo posteriore destro del tempio ii, là dove la distanza tra casa e tempio scenderebbe altrimenti a meno di tre metri, a causa dell’obliquità della pianta del tempio. Ovviamente la correzione sarebbe del tutto immotivata nel caso di una contemporaneità della casa con il tempio iii, che è ad essa parallelo. La seconda osservazione concerne il rapporto tra il tempio ii e la retrostante casa C-C’, che segue l’orientamento della ‘piazza’. Anche in questo caso la distanza minima tra il tempio e la casa non scende, nonostante la posizione obliqua del tempio, sotto i tre metri, nemmeno in corrispondenza dell’angolo posteriore sinistro dell’edificio, dove raggiunge il valore più basso. Invece la distanza tra il tempio iii e la stessa casa è uniformemente di appena un metro, il che crea una strozzatura nei confronti della circolazione, anche solo pedonale, certamente non prevista nel piano urbanistico originario e incompatibile con la progettazione della ‘piazza’.

a proposito del tempio di mater matuta a satricum

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Tutto ciò significa, a mio modo di vedere, che non è stato il tempio iii a determinare l’orientamento della ‘piazza’ e delle case circostanti, ma, al contrario, sono state queste a determinare l’orientamento di quello, una volta decisane la costruzione. Intorno al 490, o poco dopo, la mole del tempio è venuta a occupare quasi per intero la metà posteriore della ‘piazza’ (Fig. 4), lasciando libero alle proprie spalle nient’altro che un ambitus, nel senso stretto del termine, appena superiore ai due piedi e mezzo (circa m 0,74) che a Roma erano assegnati a tali distacchi edilizi fin dal tempo delle xii Tavole.45 In termini di discorso architettonico è evidente che il tempio, nonostante l’estensione della peristasi anche sul lato posteriore, era di fatto privo della possibilità di un punto di vista da quel lato, sicché paradossalmente si coglie nella sua progettazione una minore sensibilità spaziale rispetto a quella del tempio periptero sine postico che lo aveva preceduto. Nei confronti della grande casa a cortile retrostante, sul cui carattere gerarchicamente preminente rispetto alle case coeve non può esservi dubbio, il tempio afferma in questa fase una sorta di tutela, ponendosi con essa in un rapporto privilegiato, quasi che si trattasse di una sua dipendenza.46 La sacralizzazione dell’acropoli tocca di fatto col tempio iii il suo culmine, ulteriormente messo in evidenza dalla costruzione sul lato SW della ‘piazza’ del nuovo, enorme apprestamento per il deposito delle offerte votive (c.d. deposito ii), con l’annesso recinto Z.47 Concludo sottolineando come Satricum, a cento anni dal primo colpo di piccone, sia ancora un tema attualissimo di ricerca, che affratella olandesi e italiani in una nobile gara per il progresso della scienza. Bibliografia Arezzo, 1985: Santuari d’Etruria, cat. della mostra di Arezzo, a cura di G. Colonna, Milano. F. Barnabei, A. Cozza, 1896: Conca. Di un antico tempio scoperto presso Le Ferriere nella tenuta di Conca, «NSc», pp. 23-48. J. W. Bouma, 1996: Religio Votiva. The archaeology of Latial votive religion, Groningen. G. Colonna, 1959: Santa Severa (Roma). Osservazioni sull’area urbana etrusca e romana, «NSc», pp. 253-258. G. Colonna, 1981: La Sicilia e il Tirreno nel v e iv secolo, «Kokalos», 26-27, i, pp. 157-183. G. Colonna, 1984: I templi del Lazio fino al v secolo compreso, «ArchLaz», 6, pp. 396-411. G. Colonna, 1986: Urbanistica e architettura, in Rasenna, Storia e civiltà degli Etruschi, pp. 369-532. G. Colonna, 1991: Le due fasi del tempio arcaico di S. Omobono, in Stips votiva. Papers presented to C. M. Stibbe, Amsterdam, pp. 51-55. G. Colonna, 1995: Gli scavi del 1852 ad Ardea e l’identificazione dell’Aphrodisium, «ArchClass», 47, pp. 1-66. L. Cozza, 1975: Le Tredici Are. Struttura e architettura, in Lavinium ii , Roma, pp. 89-174. R. Düll, 1971: Das Zwöltafelgesetz, München. R. Ginouvès, R. Martin, 1985: Dictionnaire méthodique de l’architecture grecque et romaine, i, Roma. M. Gnade, 2002: Satricum in the post-archaic period, Leuven. G. Joppolo, 1989: Il tempio arcaico, in Il viver quotidiano in Roma arcaica, Roma, pp. 29-33. R. Knoop, 1987: Antefixa Satricana, Assen & Wolfeboro. G. Lugli, 1957: La tecnica edilizia romana, Roma. P. S. Lulof, 1996: The ridge-pole statues from the late archaic temple at Satricum, Amsterdam.

45 Tab. vii, 1 (Düll, 1971, p. 42). Per un’applicazione coeva di tali principi basti citare le case di Marzabotto (Colonna, 1986, p. 465, tav. xx). 46 Come già da me sottolineato (Colonna, 1984, p. 400, con l’ipotesi di “una domus publica: residenza del re o del suo succedaneo”). 47 Bouma, 1996; Gnade, 2002, p. 31 sgg.

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U N PI TTORE VEIENTE DEL C IC LO D E I RO S O N I: VELTHUR ANC IN IE S

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li enormi progressi compiuti nell’ultimo cinquantennio nella classificazione della ceramica etrusco-corinzia – per merito soprattutto di János G. Szilágyi – possono indurre a pensare che resti assai poco spazio per ulteriori approfondimenti. Il caso che mi accingo a trattare, concernente il più prolifico tra tutti i pittori di quella scuola ceramica, il Pittore dei Rosoni, che nella dimensione conferitagli da Szilágyi avrebbe dipinto 270 vasi sicuri e 8 probabili,1 dimostra che non è così. Anche in un campo così fruttuosamente indagato nuove scoperte o riscoperte, come sempre accade nella ricerca, possono rimettere in discussione ciò che sembrava ormai acquisito. Le novità nel nostro caso vengono dalla revisione dei materiali provenienti dallo scavo del santuario di Portonaccio a Veio, condotto prima dal Museo di Villa Giulia e poi dalla Soprintendenza dell’Etruria meridionale, tra il 1914 e il 1950 circa, e più precisamente dalla revisione di quelli provenienti dalla zona dell’altare, dove è venuto alla luce in più riprese il maggior deposito votivo di età orientalizzante e alto-arcaica finora noto in Etruria.2 Tra la massa di materiali, prevalentemente vascolari, scavati da Massimo Pallottino nel 1939 al disotto della platea dell’altare e delle sue adiacenze la giovane Valeria Martelli, poi signora Antonioli, incaricata della loro inventariazione, individuò nel 1947-1948 sette frammenti di ceramica etrusco-corinzia, di cui i due maggiori attaccanti tra loro (1a e 1b nelle Figg. 1-2),3 appartenenti a quella che in seguito sarebbe stata riconosciuta come una phiale ombelicata: eccezionale per il fregio animalistico dipinto su entrambe le facce, l’insolita sequenza di raggi (tredici) circondante la cavità dell’ombelico e soprattutto l’iscrizione di dedica (mini muluvanice laris. leıaies.), graffita nel fregio esterno sul corpo di un cinghiale.4 Pubblicando nel 1949 l’iscrizione, Pallottino diede una succinta notizia dei frammenti, corredata dalla riproduzione della sola faccia esterna dei due maggiori,5 sulla quale, oltre ai raggi e al cinghiale recante l’iscrizione, compaiono come unico tipo di riempitivo le rosette a punti non collegati,6 altrimenti pre-

1 Szilágyi 1998, pp. 344-67, p. 713, cui sono da aggiungere almeno due kylikes da Poggio Buco (Torino 2004, pp. 60-61, nn. 94-95, figg. 34-35). Per apprezzare i progressi compiuti ricordo che a suo tempo avevo potuto attribuire 32 vasi al Pittore dei Rosoni e 36 al Pittore dei Crateri, più 8 ai due insieme per difetto di documentazione (Colonna 1961a, pp. 50-62, con nt. 51; Colonna 1961b, pp. 16-17, nt. 8). I due pittori sono stati in seguito unificati, com’è noto, da D.A. Amyx (Amyx 1965, pp. 2-4), riscuotendo l’autorevole approvazione dell’amico Szilágyi. Pur concedendo che i confini tra le due mani, attive certamente nella stessa bottega, siano più sfumati di quanto non pensassi, ritengo che la questione, sulla quale tornerò brevemente a conclusione del contributo, debba restare ancora aperta. 2 Da ultimi Colonna 2001, pp. 38-39; Michetti 2001, pp. 45-56. 3 La numerazione dei frammenti è quella data ad essi in Szilágyi 1998, p. 348, n. 232. La ricostruzione grafica del vaso è opera del mio allievo dott. Lorenzo Minciotti (cfr. nt. 11), rivista da me con l’aiuto di Sergio Barberini. La collocazione dei frammenti è sicura soltanto per quanto riguarda la distanza dall’ombelico, determinabile sulla scorta delle fascette concentriche, suddipinte in rosso o risparmiate, che scandiscono entrambe le facce del vaso. 4 Ai frammenti fu apposta la sigla VTP e il numero 739 (per una svista divenuto 121 in Colonna et alii 2002, p. 181, n. 347, dove anche si dice erroneamente che l’iscrizione è stata incisa prima della cottura e segue un andamento bustrofedico anziché serpentino). 5 Pallottino 1949, pp. 259-61, Veio n. 60, fig. 2, tav. xvi:3. La faccia esterna dei cinque frammenti minori (2-6 nelle figg. 1-2) è stata riprodotta per la prima volta in Colonna et alii 2002, tav. xliv. 6 Distribuite negli intervalli della raggiera e tra le figure di animali, come appare dai frammenti 1a-1b, 2 (2 exx.) e 6, mentre in 5 vi è una rosetta a macchia graffita all’interno.

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Fig. 1. Phiale VTP 739 da Veio-Portonaccio firmata da Velthur Ancinies, faccia interna (dis. Minciotti-Barberini).

senti nel Ciclo dei Rosoni soltanto come ornato suddipinto in bianco sul collo e talora sulle anse di olpai e oinochoai.7 I frammenti, rimasti da allora separati dai restanti materiali del Portonaccio, risultarono irreperibili sia a me, quando alla fine degli anni ’50 iniziai ad occuparmi di ceramica etrusco-corinzia, sia a Szilágyi, nella sua prolungata frequentazione dei depositi del Museo. Riapparsi a insaputa di entrambi nel corso degli anni Ottanta,8 i due maggiori sono stati oggetto di un intervento di Alessandro Morandi, che già in precedenza li aveva ricercati a causa dell’iscrizione. Egli ne ha riconosciuto la pertinenza a una phiale e ne ha riprodotto per la prima volta la faccia interna, nel cui fregio compaiono un cervo e un rosone, attorniati, contro ogni aspettativa, da riempitivi unicamente del tipo a macchia: il che gli è parso sufficiente per attribuire il vaso non 7 Szilágyi 1998, p. 353. 8 Quando Valeria Martelli Antonioli tornò a occuparsi dell’inventario dei materiali scavati da Pallottino, aiutata dalla nipote Laura Martelli (Colonna et alii 2002, p. 130).

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Fig. 2. La stessa, faccia esterna (dis. Minciotti-Barberini).

solo al Ciclo dei Rosoni, il che è indiscutibile, ma addirittura al pittore eponimo.9 Attribuzione che è stata poco dopo accolta senza riserve da Szilágyi nel suo magnum opus.10 Il fatto nuovo è sopraggiunto nel 2001. Il laureando Lorenzo Minciotti, cui avevo affidato lo studio dei residui materiali dello scavo Pallottino conservati a Villa Giulia (non inventariati dalla Martelli Antonioli e dalla nipote perché riemersi solo negli anni Novanta dalle soffitte di Villa Giulia, col progredire del riordinamento dei depositi avviato da Francesca Boitani), ha rinvenuto un ulteriore frammento della phiale (1c nelle Figg. 1-2).11 Esso attacca al margine inferiore di quello iscritto e reca a sua volta un’iscrizione, graffita anch’essa sul corpo di un animale della faccia esterna del vaso (un felino dalla 9 Morandi 1989, pp. 581-84, fig. 1; Morandi 1991, pp. 90-94, tav. vii:1. In precedenza Morandi aveva attribuito i frammenti al Pittore della Sfinge Barbuta, rimproverando ingiustamente a Szilágyi di non averli presi in considerazione (Morandi 1985, pp. 41-42). 10 Szilágyi 1998, p. 348, n. 232, e p. 366. 11 Minciotti 2001, pp. 69, n. 40, e 131, tavv. lxxxv-lxxxvi.

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coda a S coricata, pantera o leone), ma con lettere più piccole e in posizione rovesciata rispetto alla precedente, così da risultare volutamente meno ‘visibile’ (Fig. 3). La nuova iscrizione, da me pubblicata nella REE del 2002, è una firma, lacunosa ma integrabile senza margini di dubbio: mi(ni) zinace vel[ıur a]ncinies.12 Compare dunque sul vaso non solo il nome di chi lo ha dedicato nel santuario di Portonaccio, dopo esserne stato con certezza il committente, ma anche, in posizione subordinata, quello di chi lo ha materialmente “fatto”, come vasaio e come pittore: Velthur Ancinies, unico artefice di cui hanno restituito il nome i quasi 3500 vasi etrusco-corinzi con decorazione figurata recensiti nel suo immane lavoro da Szilágyi.13 Il felino sul cui corpo è graffita la firma appartiene a un fregio di minore altezza, corrente al disotto di quello che accoglie il cinghiale e in prossimità dell’orlo del vaso. Sulla linea divisoria è dipinto un elemento vegetale del tutto insolito sui vasi etrusco-corinzi: una palmetta coricata di lato e suddipinta in rosso, dalle foglie rese con un ventaglio di linee distanziate che invadono entrambi i registri, coprendo in parte la zampa posteriore del cinghiale. L’elemento, privo di calzanti confronti iconografici,14 ricorda, pur in una veste alquanto aggiornata, gli inserti fitomorfi frequenti nei fregi animalistici tardo-orientalizzanti, dai buccheri e dagli impasti graffiti ai bronzi sbalzati e agli avori, inserti presenti anche sulle coeve ceramiche etrusco-corinzie di tecnica policroma (per esempio nel Pittore dei Cappi e nel Pittore Castellani). Grazie anche al frammento in questione possiamo attribuire al vaso un diametro di almeno cm 23, notevolmente superiore al diametro massimo delle phialai assegnate da Szilágyi al Pittore dei Rosoni (cm 14,9)15 e delle poche altre prodotte dal Ciclo, nonché di quelle assai più numerose della bottega tarquiniese del Pittore senza Graffito (cm 13,9).16 E superiore anche a quello della phiale già nella collezione Torno, avvicinabile alla maniera del Pittore senza Graffito (cm 18), che era finora la maggiore di tutta la produzione etrusco-corinzia e la sola, assieme alla nostra, a essere dipinta con fregi di animali su entrambe le facce.17 Il vaso risulta pertanto ancora più eccezionale di quanto già poteva apparire: i fregi figurati sono tre, le dimensioni si avvicinano al doppio del normale per una phiale etrusco-corinzia ed è l’unico tra tutti i vasi di quella classe ad accogliere, come si è detto, sia l’iscrizione di dono o, come in questo caso, di dedica, fatta apporre dal committente, sia la firma del ceramista, come si verifica in Etruria soltanto su taluni vasi di bucchero o d’impasto della seconda metà del vii-inizi del vi secolo a.C.18 Ma il maggiore interesse delle due iscrizioni è nei confronti della ricostruzione della carriera del ceramista di cui rivelano il nome. Sono state infatti sicuramente tracciate nell’officina che ha prodotto il vaso, come già aveva puntualizzato Pallottino per quella 12 In StEtr lxv-lxviii, 2002, pp. 359-63, n. 73, tav. xxxiii. Cfr. Morandi Tarabella 2004, pp. 58-59. Vedi anche nt. 21 (CIE 6449). 13 Cfr. Szilágyi 1998, p. 685. Una seconda firma di ceramista, di cui resta solo la finale ]nas, è graffita sul collo di una tarda olpe policroma di cui non resta che un frammento (CIE 10563). Per essa e per quelle su vasi di bucchero e d’impasto rinvio a Colonna 1975 e Colonna 1997. È degno di nota che anche sugli assai più numerosi vasi corinzi di vii-vi secolo giunti fino a noi compaiano solo due firme, entrambe di ceramografi, con i nomi di Chares e di Timonidas (Amyx 1988, rispettivamente p. 569 sg., n. 57, e p. 563 sg., n. 27). 14 Una ingannevole somiglianza offre il ‘cespuglio’ sotto il cavallo di Troilo nella tomba dei Tori, interpretato anche come un sole al tramonto (da ultima Rouveret 1989, p. 61). 15 Szilágyi 1998, p. 348, n. 236, da una tomba di Castiglione in Teverina (con uccelli del tipo “Crateri”). 16 Szilágyi 1998, p. 450, n. 179, da una tomba di Marsiliana d’Albegna. 17 CVA Milano, coll. H.A., 2, tav. 12 (E. Paribeni); Szilágyi 1998, pp. 451, n. 196 (con misure maggiorate rispetto a quelle del CVA e attribuzione di quattro fregi invece di tre), e 453-54. Si noti che, a differenza della nostra, il doppio fregio è sulla faccia interna invece che su quella esterna. 18 Veio: ET Ve x.1; Narce: ET Fa x.2 (cfr. REE 2002, apud 71); Bologna: ET Fe x.1.

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a

b Fig. 3. La stessa phiale delle Figg. 1-2, faccia esterna; a. frammenti 1a-b-c (foto Minciotti); b. frammenti 1b-c (dis. Minciotti-Barberini).

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da lui edita,19 essendo apposte sul corpo di quadrupedi lasciati appositamente privi, a parte la testa, dei consueti dettagli anatomici, graffiti invece e suddipinti con dovizia in rosso sul corpo degli altri sette animali di cui restano parti più o meno estese.20 E sono state tracciate altrettanto sicuramente a Veio, dato che mostrano una peculiarità esclusiva della scrittura di quella città, oltre che della vicina Narce, ossia l’associazione del segno a croce, X, notante la sibilante /s/ in alternativa al sigma, con l’interpunzione sillabica.21 Ne consegue che anche l’officina è da localizzare a Veio, ossia dove il vaso è stato rinvenuto. Nasce allora un’evidente aporia, dato che ha trovato unanime consenso la localizzazione a Vulci del Pittore dei Rosoni (e di quello dei Crateri), proposta molti anni fa pressoché contemporaneamente da W.Ll. Brown e da me. Si pongono al riguardo due possibilità: o il Pittore dei Rosoni come ricostruito da Szilágyi si chiamava Velthur Ancinies e a un dato momento della sua attività si è trasferito a Veio, oppure Velthur Ancinies non è lui (e quindi non è nemmeno il mio Pittore dei Crateri), ma un suo allievo, anch’egli vulcente,22 che si è trasferito a Veio in cerca di fortuna. La prima alternativa è puramente teorica, in assenza di altre e non equivoche tracce di un’attività veiente del Pittore dei Rosoni, anche nella dimensione datagli da Szilágyi, ed essendo di per sé abbastanza improbabile che il titolare di una florida bottega come la sua, fulcro di un intero ciclo di pittura vascolare, abbia finito la sua carriera in un’altra città. A favore invece della seconda alternativa, in cui a muoversi sarebbe stato l’allievo al posto del maestro, sta il fatto che la phiale presenta nella faccia esterna, che a giudicare dai due registri della decorazione figurata e dalle due iscrizioni graffite su di essa dobbiamo ritenere la faccia principale del vaso,23 più di un aspetto a ben vedere difficilmente conciliabile con le altre numerosissime opere riunite dallo Szilágyi sotto il nome del pittore. Intanto, quel poco che resta di un uccello nella parte inferiore del frammento 4 (Fig. 2) non sembra trovare in esse un confronto per il graffito dell’ala, e così anche il ricorso alle piccole squame suddipinte in rosso su tutti gli altri uccelli (?) del vaso.24 Ma ancor più imbarazzante è l’uso pressoché esclusivo delle rosette a punti.25 Mai il pittore, cui si deve l’innovazione dei riempitivi a macchia informe disposti a tappeto, di 19 «La mancanza di particolari anatomici graffiti o dipinti nel corpo dell’animale, evidentemente lasciato ad ombra scura per accogliere la scritta, e l’identità del tratto del graffito epigrafico e delle notazioni graffite della testa ci persuadono a ritenere che la iscrizione sia contemporanea alla decorazione del vaso, confermando così l’attribuzione di quest’ultimo ad una bottega etrusca» (Pallottino 1949, p. 260). Per Szilágyi invece «l’iscrizione fu posteriormente incisa sul corpo di uno dei cinghiali a Veio», il che presuppone che il corpo del cinghiale sia stato ‘risparmiato’ dal pittore perché altri lo iscrivesse a Veio: ipotesi in sé poco verosimile e comunque smentita ora dalla seconda iscrizione, che è una firma, come tale non delegabile ad altri. 20 Due sulla faccia interna (Fig. 1: cervo in 1b-c e pantera, a giudicare dalla coda, in 2), cinque in quella esterna (Fig. 2: cinghiale in 2, civetta in 3, uccello d’acqua in 4, uccello o serpente in 4 e in 5). Per altri esempi ceramografici dell’apposizione di iscrizioni sul corpo di figure animali o umane v. Bagnasco Gianni 1996, pp. 20810, n. 199, fig. 42; REE 2003, n. 12, tav. xxiv. 21 ET Ve 2.6, 3.13, 3.36, oltre a 3.44 che è la nostra; Fa 0.4. Sia il segno a croce che l’interpunzione sillabica sono comuni a Veio anche separatamente l’uno dall’altra, mentre compaiono raramente a Caere, eccezionalmente a Tarquinia (il solo segno a croce in ET Ta 2.5, su un vaso plastico rodio che potrebbe essere stato iscritto da un veiente) e mai a Vulci. Anche la struttura testuale trova il miglior confronto, a parte la posposizione del soggetto al verbo, nella firma veiente mi(ni) mamarce zinace (ET Ve 6.2), su vaso d’impasto di vii secolo. 22 Una conferma indiretta viene dal fatto che il gentilizio Ancinie(s) trova l’unico confronto nella vicina Tuscania, dove in età recente è attestato il femminile Ancnei (Morandi Tarabella 2004, pp. 58-59). 23 Destinata a restare in vista quando lo si deponeva su un piano d’appoggio (in posizione di norma capovolta, come è il caso delle kylikes nelle raffigurazioni delle pitture tarquiniesi: van der Meer 1984, p. 302, fig. 2), oppure lo si appendeva a un gancio o a un chiodo grazie ad eventuali fori di sospensione (presenti, tra le phialai conservanti in tutto o in parte l’orlo, in quelle del santuario di S. Cecilia ad Anagni, non a caso dipinte con l’unico fregio d’animali all’esterno: Szilágy 1998, p. 516, nn. 4-5). 24 Frammenti 3, 4 (parte superiore) e 5 di fig. 2. 25 Cfr. nt. 6.

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ispirazione mesocorinzia, assedianti le figure,26 ha fatto ricorso, nei fregi figurati della copiosa produzione attribuitagli, alle antiquate rosette a punti di ascendenza corinziotransizionale, che nella sua epoca – la “terza generazione” dei ceramisti etrusco-corinzi – sopravvivono in funzione di riempitivi solo nell’appartata Tarquinia e nell’opera di un artista non dei migliori, il Pittore delle Teste di Lupo (così come nella ceramica mesoe tardo-corinzia iniziale s’incontrano sporadicamente nell’opera di ceramografi minori).27 Ugualmente estraneo al Pittore dei Rosoni, anche nella versione Szilágyi, è l’elemento vegetale a forma di palmetta inserito tra i due registri dell’esterno, così come un certo qual disordine compositivo, che sembra far violenza alla suddivisione in registri della faccia esterna del vaso. Ad accreditare l’ipotesi che Velthur Ancinies sia un pittore vicino al Pittore dei Rosoni come ricostruito da Szilágyi, senza però potersi identificare con esso, sta inoltre, e acquista un peso decisivo al riguardo, il rinvenimento tra i materiali inediti provenienti dal Portonaccio, dovuto allo stesso Minciotti e a un’altra mia allieva, Veridiana Spitoni, di una seconda phiale, prodotta verosimilmente dalla medesima mano.28 Ne restano quattro frammenti del corpo attaccanti tra loro29 e due isolati dell’orlo, che consentono di attribuire al vaso cm 6,3 di altezza e cm 17,8 di diametro (Figg. 4-5), ossia quasi le stesse dimensioni della citata phiale già della collezione Torno, intermedia per grandezza tra quella firmata da Velthur Ancinies e quelle attribuite al Pittore dei Rosoni. L’esterno del vaso è decorato intorno all’ombelico come nella phiale precedente, ossia con una corona di raggi, qui più grandi e quindi meno numerosi (dieci), iscritta entro due linee rosse concentriche, mentre dall’alto si susseguono una larga fascia con fascetta mediana suddipinta in rosso, una fascetta risparmiata e una linea rossa. L’interno è occupato da un fregio figurato di dimensioni piuttosto grandi, composto da almeno quattro animali, rivolti al solito verso destra: un leone, un uccello d’acqua, quel che sembra un secondo leone (ne resta il tratto iniziale della coda piegato ad arco), un secondo uccello d’acqua (ne restano il collo e la ‘spalla’). Nel campo la funzione di riempitivo è affidata anche qui, come sulla faccia esterna della phiale di Ancinies, alle rosette a punti, di cui ne restano sei, tra intere e lacunose. Ad accertare la pertinenza al Ciclo dei Rosoni sono in questo caso gli uccelli e in particolare il meglio conservato, che per il graffito dell’ala è vicino alla formulazione irrigidita propria del tipo “Crateri”. Del tutto nuova invece per il repertorio iconografico del Ciclo è l’ingombrante figura del leone, che mostra, accan26 Colonna 1961, p. 54 sg.; Szilágy 1998, p. 354. 27 Il Frauenfest Painter e il Fine Silhouette Group (Amyx 1988, pp. 229-30 e 249 sg., tavv. 98:2 e 109:2a-b), forse influenzati dalla riesumazione della tecnica policroma da parte del White Bull Painter, che ha trascinato con sé le rosette suddipinte (ibidem, p. 232, tav. 101). 28 Minciotti 2001, p. 70, n. 227, tav. lxxxvii sg.; Spitoni 2001, pp. 182-83, tav. cxii, figg. 34-35. 29 Il maggiore, conservato nelle cassette trasferite nel corso del riordinamento dei depositi da Villa Giulia all’Ufficio Scavi di Isola Farnese, è stato rinvenuto, come precisa su mia richiesta la Spitoni, «in una scatola di cartone insieme ad altri frammenti minuti di ceramica etrusco-corinzia fra cui un piede di kylix col numero di inventario di scavo 3266, che corrisponde nel Giornale di scavo del Malavolta alla data del 19 giugno 1920». La provenienza è pertanto dal terrapieno del podio del sacello tardo-arcaico di Menerva chiamato da E. Stefani vano G (Colonna 1987, pp. 39 sgg.; Colonna et alii 2002, p. 149). L’attacco di frammenti vascolari scavati dallo Stefani con altri scavati dal Pallottino nel contiguo settore di scavo Z si era già verificato nel caso di una kylix laconica (Colonna et alii 2002, p. 154, fig. 8). Nelle cassette in questione la Spitoni ha rinvenuto un frammento di kylix attribuibile al Pittore dei Rosoni, tre di kylikes attribuibili al Pittore dei Crateri e altri di kylikes attribuibili al Ciclo di Codros e al Gruppo a Maschera Umana, al quale ultimo si riferiscono anche una coppetta e due frammenti di tazze a maschera umana (Spitoni 2001, pp. 184-91, tavv. cxiii-cxviii). Invece un frammento di phiale con uccello reso in outline, indicazione accurata delle penne nella stessa tecnica e riempitivi sia a cerchiello con punto che a ramoscello (ibidem, pp. 182-83, tav. cxiia), è un eccellente prodotto della “Bottega di Veio”, dubitativamente registrata in Szilágyi 1998, pp. 513-15.

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b Fig. 4. Phiale s.n. inv. da Veio-Pontonaccio: a. faccia interna (dis. Minciotti); b. due frammenti della stessa (foto Minciotti).

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b Fig. 5. La stessa phiale della Fig. 4. a. faccia esterna (dis. Minciotti); b. prospetto-sezione (dis. Minciotti).

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to alla consueta delineazione, graffita e suddipinta in rosso, della spalla e delle costole, cui si aggiunge quella altrettanto marcata e assai più rara del ventre,30 alcuni tratti decisamente aberranti: una criniera sporgente all’indietro con un ventaglio di treccine dritte come aculei, un pesante ‘collare’ a riquadri ugualmente suddipinti e una coda arcuata terminante a testa d’uccello. Tranne quest’ultimo particolare, che ricorda, alla pari delle rosette a punti, il Pittore della Sfinge Barbuta, è difficile trovare confronti per un siffatto leone-cavallo, anche se su alcuni dei crateri attribuiti da Szilágyi al Pittore dei Rosoni (tutti con uccelli del tipo “Crateri”) non mancano animali dal carattere ibrido, come un cinghiale-toro.31 La resa della criniera con treccine simili ad aculei ritorna, riferita al cimiero di un personaggio elmato di cui resta solo una parte della testa e del busto, su due frammenti attaccanti tra loro di un vaso etrusco-corinzio di forma chiusa (un alabastron?), rinvenuti anch’essi al Portonaccio assieme a un frammento dello stesso vaso con resti di un ornato (?) lineare (Fig. 6a).32 Sia questo frammento che uno degli altri due accolgono nel campo, privo di riempitivi, una croce di S. Andrea con punti intercalati, motivo che è comune nella ceramica etrusco-corinzia solo, per quanto so, nel Gruppo a Maschera Umana,33 dove viene per lo più banalizzato in una croce senza punti. La sua presenza denota una cronologia relativamente tarda del vaso, verso il 560 a.C. o poco dopo. Quanto al ventaglio di treccine della criniera e del cimiero si tratterà di una resa convenzionale del pelame agitato dal vento, di cui si rinviene un precedente in figurazioni del genere del cavallo impennato di una delle migliori opere del Ciclo dei Rosoni e di tutta la ceramografia etrusco-corinzia, il cratere detto dei Gobbi, uscito dalla cerchia del Pittore delle Code Annodate.34 L’identità di dimensioni e di sintassi decorativa, compresa la fitta corona di raggi intorno all’ombelico, consente di attribuire con qualche probabilità al nostro pittore anche una terza phiale proveniente dal Portonaccio, di cui non resta purtroppo che un solo frammento (Fig. 6b).35 Sulla faccia interna vi si osserva un grande uccello d’acqua graffito con cura, avvicinabile agli uccelli del tipo “Rosoni”, mentre la vicina macchia subcircolare evoca i riempitivi discoidali della “prima generazione” etrusco-corinzia, largamente continuati all’epoca del nostro soprattutto nella scuola di Tarquinia. Abbiamo a che fare, in conclusione, con un pittore diverso da quello dei Rosoni anche nell’accezione di Szilágyi, dal quale ha imparato il mestiere ma dal quale, una volta trasferitosi a Veio, si è allontanato sia fisicamente che nella maniera di dipingere. Se la phia30 Ottenuta con due linee graffite e suddipinte che partono dalla base della spalla e terminano poco oltre la metà del tronco piegate a uncino verso il basso. Il motivo, di matrice corinzia, è appena accennato su taluni cinghiali e stambecchi di vasi attribuibili alla variante “Crateri” del Pittore dei Rosoni (cinghiali: Szilágyi 1998, pp. 336-37, nn. 21, 24, 28, tavv. cxxxix:c, e, cxl:b; stambecchi: ibidem, n. 25, tav. cxxxix:f ). È invece normale, in forma irrigidita e senza piegatura, su tutti gli animali del Pittore delle Teste di Lupo (ibidem, p. 438, tavv. clxxii:d, clxxiii-clxxv), A linea unica e obliqua verso il dorso, con maggiore fedeltà verso il modello corinzio, il motivo compare nel Pittore dell’Ippocampo (ibidem, p. 484, nt. 165, tav. cxci sg.). 31 Szilágyi 1998, pp. 337 e 354 («un disegno riuscito male», il che non credo), n. 28, tav. cxl:b. 32 Minciotti 2001, p. 80, n. 344, tav. civ (da cui la nostra fig. 4b); Colonna et alii 2002, p. 252, tav. lxxii:g, in basso a d. (due frammenti). Szilágyi 1998, p. 515, 9 + 10. 33 A parte un piattello di cratere, forse da attribuire al nostro pittore (Stefani 1930, p. 321, n. 43, fig. 44) (Fig. 7a), il motivo compare nel Gruppo senza Graffito (Bagnasco Gianni 2004, p. 80, fig. 3) e nel Gruppo a Maschera Umana (Szilágyi 1998, p. 586 sg., n. 182, fig. 135). Il motivo arriva a Veio e Caere dalla Sabina tiberina, dove è assai frequente tra le stampiglie delle tipiche anfore d’impasto di produzione locale (Colonna 1986, p. 95 sg., nt. 26, fig. 4, con elenco cui sono da aggiungere Martelli 1977, pp. 32 sgg., tavv. vi, xvi, xviia; Firmani 1985, p. 124, tav. xxxv; Alvino 1997, pp. 62-63, nn. 6, 4, 6, 7, 10). La dipendenza è provata dal vaso del Gruppo a Maschera Umana sopra citato, in cui il motivo è ripetuto in sequenza come sulle anfore sabine. 34 Szilágyi 1998, p. 390, fig. 65a. 35 Minciotti 2001, pp. 70-71, n. 348, tav. lxxxvi.

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b Fig. 6. a) frammenti s.n. inv. di un vaso di forma chiusa da Veio-Portonaccio (dis. Minciotti); b) frammento s.n. inv. di una phiale da Veio-Portonaccio (dis. Minciotti).

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le firmata è ancora per così dire un vaso ‘bilingue’, con una faccia dipinta alla vecchia e una – la principale – alla nuova maniera, con la seconda e forse la terza phiale, non che con il vaso con guerriero di cui si è appena detto, il pittore è andato avanti sulla via dell’abolizione totale degli invadenti riempitivi a macchia, sostituiti con altri, più sobri e ‘ariosi’, ripresi dalla precedente tradizione etrusco-corinzia (rosette a punti e discoidali) e, a quanto pare, anche da quella degli impasti decorati a stampo (croci di S. Andrea con punti). Aggiungo che sarei propenso ad attribuirgli almeno uno dei due piccoli vasi di buona qualità dal campo del tutto sgombro di riempitivi, da me a suo tempo avvicinati al Pittore dei Crateri e ora ascritti da Szilágyi al suo Pittore dei Rosoni: l’aryballos globulare dal Portonaccio con cerva, rosone graffito a “margherita”, suddipinture solo in rosso, come nelle altre e più sicure opere del pittore, sottile croce di S. Andrea con punti sull’ansa.36 Arrivato a questo punto potrei ritenere concluso il mio intervento. Ma le considerazioni fatte comportano inevitabilmente un corollario: se Velthur Ancinies non avesse firmato la phiale o, pur avendola firmata, il caso non ci avesse fatto ritrovare il frammentino con la sua firma, o anche se l’avesse firmata, ma con una scrittura non così inconfondibilmente veiente, avremmo mai dubitato dell’attribuzione del vaso alla mano del Pittore dei Rosoni (o a quella del mio Pittore dei Crateri)? Certo un segnale forte di dubbio poteva e doveva venire dall’uso, improprio per quei pittori, delle rosette a punti nei fregi figurati, ma di fatto, alla luce di quel che è accaduto, esso non è bastato. Dico questo sia in generale, per una questione di metodo, nei confronti del grado di attendibilità che hanno le nostre attribuzioni, sia in riferimento specifico all’inventario del Pittore dei Rosoni, così come è stato ricostruito da Szilágyi. La falla che si è aperta in esso, minima in sé ma concernente un’opera di spicco, fa infatti tornare d’attualità la questione Rosoni versus Crateri. Dato che nella ricostruzione di quell’inventario fatta dallo studioso ungherese è presente sicuramente una mano diversa, quella del veiente Velthur Ancinies, non possiamo escludere che ve ne sia anche una seconda, e in misura ben più consistente: quella appunto del più volte citato Pittore dei Crateri. Tanto più che il numero dei vasi attribuiti da Szilágyi al Pittore dei Rosoni, pari a oltre un terzo dell’intera produzione della “terza generazione” vulcente (750 vasi), ripartita dallo Stesso in tredici tra pittori, “gruppi” e “sequenze”, è tale da indurre a un preliminare scetticismo sull’unicità della mano. L’esistenza del Pittore dei Crateri è stata contestata molti anni fa da D.A. Amyx, che, dandomi atto di non essere d’accordo, concludeva nel 1967 il suo secondo intervento scrivendo: «for me the question is still unsolved», salvo poi ad affermare sbrigativamente nel 1988: «I still believe, pace Colonna, that his Pittore dei Crateri and his Rosoni Painter are one and the same person».37 Maggiore la cautela dimostrata da Szilágyi, il quale ha fatto a lungo ricorso alla formula in qualche misura conciliatoria del “Pittore dei Rosoni e dei Crateri”,38 che ha trovato un largo seguito,39 finché nel 1984, pubblicando l’importante alabastron col tibicen Tuscus, in cui compare un uccello del tipo “Crateri”,40 ha parlato tout court di Pittore dei Rosoni, come poi ha fatto nel suo magnum opus. Nel quale invero ha concluso l’ampia disamina della questione ammettendo onestamente che quella della unificazione dei due pittori è «solamente un’ipotesi di lavoro resa verosimile da parecchi argomenti».41 E più avanti ha aggiunto: «sembra per ora un’impresa dispe36 Szilágyi 1998, p. 344, n. 172; Colonna et alii 2002, p. 186, n. 409, tav. xlvi. Il tipo di rosone, di origine greco-orientale, rinvia al Pittore tarquiniese dell’Ippocampo (Szilágyi 1998, p. 485, tavv. cxci-cxcii). 37 Amyx 1967, p. 102; Amyx 1988, p. 696. 38 Per es. Szilágyi 1975, pp. 124-25; 1977, p. 58. 39 Per es. Martelli 1987, pp. 28 e 291-92. 40 Szilágyi 1984. 41 Szilágyi 1998, p. 352.

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rata voler tracciare una linea di evoluzione interna nella sua opera [del Pittore dei Rosoni] … ed è per questo difficile prendere una posizione netta e decisa anche nella questione ‘Rosoni-Crateri’, cioè spingersi più in là dopo aver constatato che tra gli uccelli raffigurati sui vasi ci sono, nel senso attribuitogli dal Colonna, esemplari del tipo ‘Rosoni’ e del tipo ‘Crateri’”.42 Il che sembra un ritorno alla formula del “Pittore dei Rosoni e dei Crateri” e una forte limitazione della tesi dell’Amyx, pur condivisa, che riconduceva le differenze a una «questione di qualità, non di stile». In proposito devo dire che l’enorme incremento della documentazione disponibile, di cui siamo debitori al libro di Szilágyi, induce a rivedere il giudizio limitativo da me espresso a suo tempo sul Pittore dei Crateri nei confronti di quello dei Rosoni, giudizio che sembra aver molto pesato sullo sviluppo successivo della ricerca. Oggi direi che non si tratta di un allievo ma piuttosto di un collega giovane, attivo nella stessa bottega ma dotato di una sua personalità, capace di realizzare opere di qualità non inferiore a quelle del Pittore dei Rosoni, come dimostra il citato alabastron col tibicine. La distinzione delle due mani non è sempre agevole né sicura, per la tendenza iniziale dell’uno – il giovane – a imitare l’altro,43 e forse anche per qualche caso di interferenza delle due mani sullo stesso vaso. Ma sta di fatto che solo agli uccelli del tipo “Crateri” si accompagnano riempitivi peculiari quali i cerchielli con punto interno, di ascendenza transizionale,44 e caratteristici “svolazzi” serpeggianti, a volte quasi lineari,45 oltre a un uso del bianco nelle suddipinture particolarmente abbondante. Per dire di più bisognerebbe affrontare, partendo dall’opera fondamentale del maestro ungherese, una di quelle ricerche ulteriori che Egli stesso auspica nella chiusa del libro,46 citando l’invito di J.D. Beazley ai giovani di non scoraggiarsi dinanzi alle opere dei maestri, ma di servirsene come un trampolino per andare più avanti. Invito da me pienamente condiviso. Dedico queste pagine all’amica Maria Bonghi, con l’augurio di continuare a lungo a tenere alto il livello dell’etruscologia milanese, come ha fatto brillantemente finora. Addendum A bozze già impaginate mi accorgo che un riempitivo a croce di S. Andrea con punti, del tipo di cui a nt. 33, compare anche nel fregio di un altro vaso, forse un cratere, da Veio-Portonaccio, di cui restano tre frammenti attaccanti tra loro, da me reperiti l’11 febbraio 1989 nella cassa n. 69 del sottotetto di Villa Giulia (Fig. 7b). Il fregio conserva la parte posteriore di un uccello d’acqua dalla lunga coda e dalle penne graffite al modo del Pittore dei Rosoni e della sua cerchia, rivolto a sn. Sulla fascia sottostante è graffita l’iscrizione sinistrorsa mi me[nervas], inedita (comparirà nel prossimo fascicolo del CIE dedicato a Veio, a cura mia e di D.F. Maras) (CIE 6459). È possibile che il fregio appartenga al cratere a colonnette di cui Stefani ha pubblicato il piattello con testa di leone (cfr. nt. 33 e Fig. 7a), peraltro iscritto da mano diversa.

42 Szilágyi 1998, pp. 368-69. 43 Il che può spiegare il caso dell’olpe di Berkeley segnalato dall’Amyx (Amyx 1965, p. 4, tav. vb), in cui gli uccelli del fregio più alto, dipinto per primo, si avvicinano al tipo “Rosoni”, mentre quelli del fregio più basso sono del tipo “Crateri”. 44 Szilágyi 1998, pp. 336 sgg., nn. 10, 11, 24, 25, 244. Cerchielli presenti anche su una grande tazza a maschera umana dal Portonaccio, che ascriverei al pittore, assieme a un riempitivo serpeggiante in outline (Colonna et alii 2002, p. 184, n. 376, tav. xlv). 45 Per es. nei nn. 10, 11, 20, 21, 23-25, 28, 42, 216, 231, 235, 240, 241 dell’inventario Szilágyi. 46 Szilágyi 1998, pp. 701-02.

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b Fig. 7. a) piattello di cratere da Veio-Portonaccio (da Stefani 1930), b) frammenti forse di cratere da Veio-Portonaccio (foto D.F. Maras).

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L’OFF ICINA VE IE NT E : VULCA E GLI ALTRI M A E S T RI DI S TATUARIA ARCAICA IN T E RRAC OT TA enché affermatasi in leggero ritardo rispetto alla scultura monumentale in pietra, il cui esordio si pone nell’Orientalizzante Antico (tomba delle Statue a Ceri, frammento di statua seduta da Veio e coppia di statue da una tomba presso Casale Marittimo), la statuaria in terracotta conobbe in Etruria, e col tempo in tutta l’Italia non greca, una straordinaria fioritura, durata fino alla tarda età ellenistica. Gli antichi ne erano ben consapevoli: praeterea elaboratam hanc artem (cioè la coroplastica) Italiae et maxime Etruriae, si legge in quella enciclopedia del loro sapere che è la Naturalis historia di Plinio il Vecchio.1 Il quale cita come fonte Varrone, il sommo erudito, che nella sua sterminata opera, purtroppo quasi interamente perduta, non aveva mancato di occuparsi delle arti e delle loro manifestazioni, in un’ottica centrata ovviamente su Roma. Nel passo citato l’espressione praeterea elaboratam («assai perfezionata») non ha un valore assoluto, ma si riferisce allo stato di quell’arte al momento della sua introduzione in Italia, ricordata alcuni paragrafi prima, a opera di fictores dai nomi parlanti di Eucheir, Diopos ed Eugrammos, che sarebbero arrivati in Etruria al seguito del magnate corinzio Demarato, esiliato dalla sua città dopo che Cipselo vi ebbe instaurata la tirannide (intorno al 657 a.C.). Di fatto verso la metà del vii secolo a.C. o poco dopo, al tempo dell’Orientalizzante Medio, si registra in Etruria la prima affermazione di una statuaria fittile, che ebbe luogo, come insegnano le scoperte archeologiche, non a Tarquinia (dove Demarato, sposatosi, avrebbe dato i natali a quello che sarebbe divenuto il primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco), ma a Caere, città all’epoca ben più opulenta. Lo provano le figure di antenati seduti a banchetto nella tomba delle Cinque Sedie, la sfinge alata posta a guardia della tomba dei Dolii e, un poco più tardi, lo splendido sarcofago dei Leoni dal Procoio di Ceri. Mentre a Chiusi già si modellavano in terracotta, come insegnano le recenti scoperte in località Tolle, i primi “canopi”, ossia i coperchi di vasi cinerari conformati a testa umana (cui più tardi si sarebbero affiancati i coperchi sormontati da una figura stante in atto di compianto, del tipo degli ossuari Paolozzi e Gualandi). A queste manifestazioni tennero dietro, verso il 630-620 a.C., nella fase iniziale dell’Orientalizzante Recente, i primi apparati fittili architettonici, commissionati per il decoro esterno delle proprie “residenze” palaziali dalle casate aristocratiche di cui pullulava allora l’Etruria, in una gara tesa a esaltare il potere, politico ed economico, di ciascun gruppo gentilizio. Gli scavi di Acquarossa presso Ferento nel Viterbese e quelli di Poggio Civitate presso Murlo nel Senese hanno rivelato la complessità di tali apparati e l’enorme impegno richiesto dalla loro esecuzione, inducendo a retrodatare di quasi un secolo l’esordio in Etruria della coroplastica applicata all’edilizia, in precedenza collocato da una lunga tradizione di studi nel corso dell’arcaismo maturo, in un contesto storico totalmente diverso. In proposito va detto che la coroplastica architettonica non è stata importata di peso dall’esterno, come la saga di Demarato potrebbe far credere, ma è nata da recentissime innovazioni di ambiente corinzio e sicionio – quali la copertura dei tetti con tegole, l’in-

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1 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 35, 157.

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venzione di sime e antefisse e l’uso di matrici per produrle in serie –, innestate in una consolidata tradizione locale, risalente alle capanne di età villanoviana, che faceva sovrapporre alla copertura straminea dei tetti elementi lignei, a cominciare dagli acroteri di colmo, con funzioni insieme statiche e decorative, eventualmente rivestiti di lamine di bronzo martellate. Rivelatore del ruolo preminente avuto da Caere nell’elaborazione delle più antiche manifestazioni di coroplastica architettonica etrusca è l’estensione a essa, evidente nel caso di Acquarossa, della tecnica ceramistica del “bianco su rosso”, propria dell’industria vascolare di quella città, anche se largamente irradiata verso i Veienti e i Falisci assieme agli ornati più frequenti nel suo repertorio, come i caratteristici uccelli di origine subgeometrica, i cosiddetti aironi. Il primato di Caere fu comunque di breve durata. Già all’inizio del vi secolo a.C., con l’introduzione, sulle lastre di rivestimento e sulle sime, di fregi continui istoriati a rilievo, ottenuti con un uso sistematico di matrici – fregi di lontana ispirazione ionica, mediata forse da centri magnogreci quali Siri e Metaponto, destinati a restare in auge fin quasi alla fine del secolo –, il primato passa a Veio e a Roma. Con echi tra i Latini (Gabii), i Falisci (Vignanello), nell’agro vulcente (Poggio Buco) e, di riflesso ma con esiti particolarmente cospicui, presso i signori della lontana Poggio Civitate. A Roma incontriamo i primi esempi non più di “residenze” gentilizie ma di edifici pubblici decorati nella nuova maniera (la Curia Hostilia affacciata sul Comizio, la Regia), a Veio il primo esempio sicuro di un tempio decorato nella stessa maniera (quello, del tipo a unica cella con pronao tra ante, eretto sul colle di Piazza d’Armi, allora fungente da arx della città). Riprende con queste realizzazioni, che esprimono il definitivo prevalere degli istituti cittadini sulle strutture gentilizie, il dialogo serrato tra Roma e Veio, iniziato fin dall’età di Romolo con le prime produzioni vascolari di stile tardo-geometrico, destinato da questo momento a crescere e a prolungarsi con alterne vicende per tutto il vi e il v secolo a.C.2 È in questo clima culturale che compare sulla scena Vulca di Veio. Il suo nome è fatto da Plinio nell’abbozzo di una storia della plastice (termine impropriamente usato in riferimento alla coroplastica), delineato, come detto, sulla scorta di Varrone. Dopo la fase demaratea, che ha per esponenti i tre fictores greci prima ricordati, è a Vulca, chiamato a Roma da Tarquinio Prisco per eseguire la statua di culto del tempio di Giove Capitolino, che di fatto compete il ruolo di iniziatore della “maniera etrusca”, che terrà il campo nella città fino alla venuta dei greci Damofilo e Gorgaso, plastae laudatissimi iidem pictores, chiamati a decorare il tempio dedicato a Cerere, Libero e Libera sulle pendici settentrionali dell’Aventino (496-493 a.C.), contraltare repubblicano del tempio capitolino voluto dai Tarquini. Ante hanc aedem Tuscanica omnia in aedibus fuisse («prima di questo tempio tutto era [di stile] tuscanico nei templi»), scrive Plinio3 citando Varrone, in contrasto con Vitruvio che non sembra cogliere il carattere innovativo della decorazione del tempio, forse per l’incendio che l’aveva devastata nel 31 a.C., e la considera anch’essa realizzata Tuscanico more.4 Aggettivo che comunque in entrambi gli autori è ancora privo della connotazione negativa, sul piano formale, affiorante in Quintiliano.5 Grazie alla prestigiosa commissione ricevuta, a Vulca è spettato il privilegio di essere l’unico artista etrusco ricordato col proprio nome dalla tradizione letteraria (tutti i non 2 Tanto da giustificare la proposta, a suo tempo avanzata da chi scrive, di destinare la mostra, progettata negli anni ’80 dalla Regione Lazio per il suo “anno degli Etruschi”, al confronto tra le due città separate solo dal Tevere e quindi letteralmente “rivali”, mostra che si preferì polarizzare sulla Roma dei Tarquini. 3 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 35, 154. 4 Vitruvio, De architectura, 3, 3, 5. 5 Quintiliano, Institutio oratoria, 12, 10, 7.

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Fig. 1. Pianta ricostruita del tempio di Giove Capitolino (da Mura Sommella 1997-1998, fig 6).

pochi nomi di altri artifices di quella nazione a noi noti lo sono infatti attraverso la documentazione epigrafica, ossia attraverso le “firme” che hanno apposto, non troppo raramente in età arcaica, ai loro prodotti, per lo più vascolari, da Larice Crepus ad Arnth Praxias, da Velthur Ancinies a Metru e a tanti altri). Il nome del Nostro, sicuramente autentico, è l’adattamento latino del nome etrusco Velk/¯a, largamente attestato anche in epoca arcaica, sia direttamente sia attraverso i gentilizi da esso derivati (come il veiente Velkasnas),6 dalla base coincidente, forse non a caso, con quella del nome etrusco di Vulci (e della divinità Vel¯ del Fegato di Piacenza). Vulca secondo Plinio il Vecchio aveva plasmato due statue di culto per i templi romani: il citato Giove Capitolino, raffigurato assiso solennemente su una sella e con le carni ricoperte da uno strato di minio, e un Ercole noto per antonomasia come l’“Ercole di terracotta” (Hercules fictilis). La datazione del Giove è fissata agli anni intorno al 580 a.C. dalle testimonianze incrociate, entrambe risalenti a Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,7 che pone negli ultimi quattro anni del regno di Tarquinio Prisco, ossia negli anni 582-578 a.C. (in cronologia varroniana), l’inizio della costruzione del tempio di Giove Capitolino, votato in occasione della guerra contro i Sabini (Fig. 1), e di Agostino,8 secondo il quale per più di 170 anni, ossia di nuovo fino al 580 circa a.C., i Romani non avevano avuto simulacri, ossia statue di culto antropomorfe (né templa come quello Capitolino, ma solo aedes). L’apparente aporia di un simulacro fatto eseguire quando 6 CIE 6436, 6713. 7 Dionigi di Alicarnasso, 3, 69, 2. 8 Agostino, De civitate Dei, 4, 31, 20 = Varrone, Antiquitates rerum divinarum 1, frg. 18 Cardauns.

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il tempio destinato a ospitarlo era stato appena iniziato denota, da un lato, la volontà del re di esaudire sollecitamente, con l’istituzione del culto, il proprio voto, dall’altro la consapevolezza dei tempi lunghi richiesti dall’esecuzione del colossale progetto architettonico fin da allora concepito. Ovviamente nell’attesa il culto sarà stato officiato in una sede provvisoria, nella quale avrà trovato posto anche il simulacro di Vulca. Per essa il miglior candidato resta ad avviso dello scrivente il Capitolium Vetus del vicino Quirinale, ancora esistente ai tempi di Varrone.9 Un sacellum di cui nome ed epiteto non appaiono altrimenti giustificabili e nel quale, una volta traslato il simulacro nella fabbrica ormai completata del tempio capitolino, sarà stata lasciata una replica, se tale era il Giove fittile che angusta vix totus stabat in aede di cui parla Ovidio,10 a quanto pare per cognizione diretta. Che il simulacro avesse dimensioni superiori, e non di poco, al vero lo si può desumere in realtà da alcune informazioni di natura antiquaria. Anzitutto sappiamo che all’interno della base cilindrica della sella del dio (certamente una solida sella, nel senso chiarito recentemente da M. Torelli con riferimento ai troni delle tombe principesche dell’Orientalizzante e alla cosiddetta Sedia Corsini, continuata dopo l’incendio dell’83 a.C. da un solium) si conservò a partire dal tempo di Camillo il tesoro del dio, fortemente incrementato dall’oro prelevato da tutti i templi di Roma per pagare il riscatto della città ai Galli di Brenno: oro o non dovuto consegnare per l’intervento di Camillo o successivamente recuperato grazie ai Ceriti che intercettarono i barbari sulla via del ritorno. L’entità, e quindi l’ingombro, del tesoro era tale che, scampato al disastro dell’83 a.C., poté subire trent’anni dopo il furto sacrilego di ben 2000 libbre d’oro.11 Inoltre sappiamo che l’appalto per il periodico rinnovo del minio, inteso a rendere più evidente il volto del dio e nel contempo esaltarne la natura sovrumana, era tra i primi compiti assolti dai censori:12 il che significa che non era operazione di poco conto. Ma soprattutto sappiamo che sul fastigium dell’edicola in cui si trovava la statua furono sospesi nel 192 a.C. ben 12 clipei, ossia grandi scudi rotondi, dorati.13 L’edicola pertanto doveva essere larga più di 10 m, ossia poco meno dell’intera cella, di cui occupava, assieme all’altare del dio Termine, il lato di fondo. Sono dimensioni del tutto sproporzionate per un normale simulacro, che ricordano quelle riferibili al trono donato dal re etrusco Arimnesto nel santuario di Olimpia.14 Una statua di grandi dimensioni, dunque, certo non paragonabile alla statua crisoelefantina del greco Apollonios, ispirata allo Zeus fidiaco di Olimpia, che la sostituì dopo l’83 a.C., ma comunque da immaginare commisurata, anche se alla lontana, col tempio gigantesco cui era destinata. Per la sua esecuzione saranno state necessarie competenze tecniche del tutto particolari, per cui non meraviglia che sia stato chiamato un artista straniero, evidentemente di grido: il primo di quegli ingenia Graecorum et Tuscorum fingendis simulacris, che a detta di Varrone avrebbero finito con l’inondare la città, stravolgendo l’originaria fisionomia delle sue res divinae.15 Una statua che per le sue dimensioni è da presumere modellata in più parti montate insieme con adeguati accorgimenti, come era avvenuto già nel vii secolo a Caere nei casi sopra ricordati della sfinge della tomba dei Dolii e del sarcofago dei Leoni, e a Vulci nel caso di creazioni polimateriche, in pietra, bronzo e altro, quali la cosiddetta Iside rinvenuta nella tomba che da essa ha preso nome.16 È inoltre praticamente certo che il Giove Capitolino fosse dotato di at9 Varrone, De lingua latina, 5, 158, 3. 10 Ovidio, Fasti, 1, 201-202. 11 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 33, 14. 12 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 33, 112. 13 Livio, 35, 41. 14 Colonna 1993. 15 Varrone, Antiquitates rerum divinarum 1, frg. 38 Cardauns. 16 Roncalli 1998.

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tributi riportati in altra materia: forse il bronzo per lo scettro e il fulmine che stringeva nelle mani, di sicuro l’oro per la corona di lauro e per le spiraline avvolte intorno alle ciocche dei capelli che ne incorniciavano il volto: unico elemento arcaico presente nella testa del dio riprodotta sui denari del monetiere M. Volteius,17 coniati nostalgicamente all’indomani dell’incendio che aveva distrutto sia il tempio sia la statua (Fig. 2). Il requisito della monumentalità è pienamente in linea con le tendenze della grande scultura in pietra, dedalica e altoarcaica, cui dobbiamo le tante statue di kouroi, anche colossali, erette in Grecia nei Fig. 2. Denario di M. Volteius con la testa santuari e sulle tombe, di cui non mancadel Giove Capitolino di Vulca, riconoscibile per le spiraline alla base no echi, a livello di dimensioni, anche in delle ciocche di capelli incornicianti il volto, ambito italico, a giudicare dalla testa di 80 a.C. ca. (da Andrén 1976-1977). guerriero da Numana. Quanto al tipo del personaggio seduto in trono coi piedi su un suppedaneo, si tratta di una creazione risalente agli inizi della grande scultura in Etruria, ispirata dagli artisti vicino-orientali cui si devono gli altorilievi della tomba delle Statue di Ceri e la statua rinvenuta fuori contesto nella necropoli di Picazzano a Veio, nominata in apertura. La sua perdurante popolarità, anche all’epoca di Vulca, è dimostrata dagli ormai celebri acroteri fittili del secondo palazzo di Poggio Civitate, raffiguranti gli antenati nella veste di re-pastori dagli enormi cappelli, nonché dalle prime statue-cinerario in pietra di area chiusina. Molto poco si può dire purtroppo dell’altra, meno famosa, opera di Vulca, ricordata da Plinio il Vecchio come esistente in Roma ancora ai suoi tempi, l’“Ercole di terracotta”, così chiamato evidentemente per distinguerlo da un altrettanto noto “Ercole di bronzo” (forse l’ancor più antico Hercules triumphalis che si usava rivestire di tunica e toga in occasione dei trionfi: a quanto pare una sorta di manichino di lamina bronzea sbalzata, del genere del busto rinvenuto a Marsiliana d’Albegna in una tomba a circolo dell’Orientalizzante Medio). Se la statua fosse realmente da identificare, come proposto dallo scrivente, con l’Ercole «dal capo coperto» esistente presso l’Ara Maxima nel Foro Boario,18 forse nel tempio di Ercole restaurato da Pompeo che Vitruvio cita a esempio, come già detto, di tempio decorato al modo tuscanico, sapremmo che era quasi certamente del tipo iconografico di lontana origine cipriota, in cui il dio, stante e vestito di una corta tunica, aveva il capo coperto dalla leonté, alla pari dell’Ercole fungente con Minerva da acroterio nella seconda fase del tempio di Sant’Omobono, di cui si parlerà più avanti. In ogni caso è assai verosimile che l’Ercole Fittile sia più recente di qualche anno rispetto al Giove Capitolino e si riporti a una commissione ricevuta dal figulo al tempo del re Servio Tullio, ossia nel corso degli anni Settanta del secolo. Vulca può essere considerato l’iniziatore dell’officina di coroplastica statuaria i cui prodotti rappresentano il maggior contributo dato da Veio, nel corso del vi e del v se17 Andrén 1976-1977, fig. 4. 18 Macrobio, Saturae, 3, 6, 17; Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, 8, 288.

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Fig. 3. Torso forse di Ercole del “Maestro del grande nudo maschile” da Veio, santuario di Portonaccio, 560-550 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Fig. 4. Bronzetto di Ercole da Castelbellino (Pesaro), 500 a.C. Ancona, Museo Archeologico Nazionale.

colo, alla storia dell’arte etrusca. Lo dimostrano le clamorose scoperte archeologiche effettuate in varie riprese a partire dal 1914 nel santuario di Portonaccio, sacro a una Minerva ctonia e oracolare, cui più tardi sono stati affiancati Ercole e Apollo, situato alle porte della città, su uno stretto terrazzo incombente sul Fosso della Mola. La prima testimonianza diretta dell’officina veiente, dopo quel che le fonti letterarie ci hanno tramandato di Vulca, è offerta dal torso maschile nudo, pertinente a una statua di formato alquanto superiore al naturale, messo in luce in un centinaio di frammenti nel 1939 da M. Pallottino e subito ricomposto, sì da poter essere esposto già alla fine di quell’anno nel Museo di Villa Giulia (Fig. 3). La statua, modellata in un sol pezzo tagliato a crudo a metà altezza, in corrispondenza del sesso, peraltro omesso, e del fondo schiena, allo scopo di cuocerne separatamente le due metà, alte ciascuna più di un metro, era stata quindi riassemblata mediante piastre e grappe metalliche, celando la macchinosa congiunzione con una sorta di ampio perizoma andato perduto, verosimilmente bronzeo, che fasciava la figura a partire da sotto l’ombelico. La presenza di questo indumento, assieme alla posizione attribuibile alle braccia in base alla tensione dei muscoli del torso, rende praticamente certo che la statua raffigurava un Ercole nell’iconografia, squisitamente etrusco-italica, che mostrava il dio “nudo”, con la leonté stretta intorno ai fianchi (in questo caso, come detto, riportata in metallo), la clava sollevata con la destra e l’arco proteso con la sinistra. Si tratta dell’iconografia, di cui questa è la più antica attestazione, rappresentata esemplarmente da uno dei più notevoli bronzi umbri di epoca arcaica, l’Ercole da Castelbellino (Fig. 4), forse echeggiante proprio il nostro Ercole, esposto in

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un santuario oracolare che non meraviglia sia stato conosciuto anche dagli Italici dell’alta valle del Tevere. La singolare tenuta del dio, simile a quella dei Luperci romani e dell’indigeno Fauno, consentiva di mostrarne appieno la possanza fisica, considerata evidentemente il principale connotato del grande persecutore di mostri e di malfattori. Il plasticatore veiente ha fatto sfoggio in questa sua creazione di schematiche notazioni anatomiche, rivelanti un’approssimativa conoscenza di kouroi greci del livello di quelli da Volomandra e Milani. Il che vieta di pensare a una datazione anteriore al 560550 a.C. e induce di conseguenza a mettere in dubbio l’ipotesi, espressa in passato da chi scrive, di un’opera tarda di Vulca, il maestro che all’epoca della sua chiamata a Roma doveva essere già all’apice della propria carriera. Se questa è circoscrivibile negli anni 600-570 a.C., meglio è pensare per l’autore del torso a un suo discepolo e forse erede, che si potrebbe chiamare il “Maestro del grande nudo maschile”, attivo nella generazione successiva a quella di Vulca, ossia negli anni 570-540 a.C. Tuttavia la struttura massiccia del torso, la sua volumetria contenuta a stento in un involucro solcato da intagli come se fosse uno xòanon ligneo, rivelano che l’artista affonda ancora le sue radici nella tradizione alto-arcaica. Alla quale rinviano anche il forzato allungamento del tronco, condiviso con bronzi quali un offerente da Chiusi conservato a Berlino (inv. Fr. 2159), e la stessa tecnica adottata nella composizione dell’impasto e nel processo di cottura, che ha conferito alla terracotta il tipico colore bruno scuro dei più antichi fregi fittili a stampo (colore che nelle parti nude del Giove Capitolino di Vulca era mascherato da un brillante rivestimento di minio). Circa la collocazione della statua, quanto si è detto esclude ovviamente l’iniziale suggestione del suo scopritore che, considerandola coeva al tempio di fine vi secolo e interpretandola come un acroterio, pensava a una figura di Giove, assiso in trono o piuttosto stante entro la cassa di una monumentale quadriga, simile a quelle esistenti sul tempio capitolino, di cui più avanti (ma di una tale quadriga nel tempio veiente non esiste la minima traccia, nonostante la gran quantità di terrecotte restituita dal santuario in tanti anni di scavo). La statua doveva invece ergersi isolata nell’area della piazza, purtroppo giunta a noi completamente devastata da una cava di tufo di età romana. Posta al riparo di un’edicola o anche allo scoperto, in funzione di simulacro di culto – e allora preceduta da un altare – o piuttosto di donario, è da ritenere in entrambi i casi dovuta a un’iniziativa pubblica, motivata da circostanze destinate a rimanere ignote. Nella generazione seguente, ossia negli anni 540-510 a.C., corrispondenti alla fase dell’arcaismo maturo, l’officina veiente continuò a essere assai produttiva, ma cambiò totalmente indirizzo stilistico, in consonanza con quanto si verificava dovunque in Etruria, e non solo in essa. Sono questi i decenni della grande ondata di apporti artistici provenienti dalla Ionia insulare e soprattutto asiatica, da Focea a Mileto, connessi all’arrivo in Occidente di mercanti e di artigiani: apporti che hanno dato vita all’arte cosiddetta ionico-etrusca, cui dobbiamo tra l’altro una fioritura di pittura parietale senza uguali nel mondo antico. Suoi centri propulsori sono nell’Etruria meridionale Caere e Tarquinia, la prima grazie al ruolo di leader della rinnovata talassocrazia etrusca, esercitato col porto di Pyrgi e gli annessi santuari, la seconda grazie all’emporio sorto presso il porto di Gravisca, frequentato in particolare da Greci della Ionia e da Egineti, a cominciare dal Sostrato ricordato da Erodoto per le sue ricchezze. Nella coroplastica (così come nella bronzistica, a quella da sempre indissolubilmente collegata anche sul piano tecnologico), il primato torna a Caere, come attestano sia i grandi sarcofagi fittili con la coppia coniugale banchettante, dalla splendida policromia, sia le statue acroteriali e le antefisse provenienti dai templi urbani, conservate a Berlino e a Copenhagen.

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Fig. 5. Statua votiva eponima del “Maestro del dignitario coi calcei” da Veio, santuario di Portonaccio, 540-530 a.C. Roma. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Fig. 6. Frammento di statua votiva del “Maestro del dignitario coi calcei” da Veio, santuario di Portonaccio, 540-530 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

A Veio si producono per il santuario di Portonaccio statue in terracotta di vario formato, pienamente improntate al nuovo stile, ma seguendo solo in parte i modelli dominanti nella scuola ionico-ceretana. Due sono i maestri che emergono, benché per levatura non paragonabili ai protagonisti già incontrati, e ancor meno a quelli della fase successiva. Il più originale è l’autore di una statua votiva a due terzi del vero, ricomposta e studiata da M.P. Baglione, raffigurante un dignitario che prega con la mano destra rivolta verso terra, come richiesto dalla locale Minerva ctonia, mentre protende un’offerta con la sinistra (mancante) (Fig. 5). L’abbigliamento (un chitone manicato lungo fino ai piedi, formante un vistoso fascio di pieghe tra le gambe, un mantello portato di traverso con lembo verticale ricadente sul dorso, alti calcei dalle lussuose rifiniture) offre un vero campione di habrosyne greco-orientale, in perfetta coerenza col dato stilistico delle ampie superfici scandite solo dai passaggi di colore e da pochi e tenui risalti (evitati del tutto nella chioma, resa come una massa indistinta che scende a casco sulle spalle), che ha fatto giustamente parlare di modelli samii e milesii. La modellazione in parti separate messe insieme prima della cottura (la testa, il volto, l’avambraccio sinistro, la parte inferiore delle gambe coi piedi) rappresenta una novità, indiziante un importante progresso nella tecnica di cottura e nella capienza delle fornaci. Allo stesso plasticatore, che si potrebbe chiamare il “Maestro del dignitario coi calcei” è da attribuire il frammento di una statua maggiore del vero, calzante anch’essa calcei a stivaletto e stilisticamente del tutto affine alla statua precedente (Fig. 6). Il formato fa

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Fig. 7. Statua acroteriale (?) di Minerva da Veio, santuario di Portonaccio, 530 a.C. ca. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

pensare in questo caso a una divinità, forse, restando tra gli dei del santuario, un Giove, un Apollo o un Mercurio. Assai interessante ne è la tecnica, che si avvicina a quella in uso nella coeva coroplastica gre- Fig. 8. Statua acroteriale di Minerva da Roma, ca, consistente nel rivestire le superfici con tempio di Sant’Omobono, 530 a.C. uno straterello di argilla più fine del nuRoma, Musei Capitolini. cleo sottostante e meglio adatta a essere levigata e dipinta. A un altro maestro, forse leggermente più recente, ma comunque più legato alle tradizioni d’officina, si possono ascrivere, oltre a opere minori, una rara raffigurazione di Mercurio, l’etrusco Turms, a un quarto del vero, di cui rimane parte del busto con la testa, e soprattutto una coppia di figure a metà del vero: una Minerva di cui resta il busto indossante la corazza a campana, con elmo ionico e scudo (Fig. 7), e un Ercole di cui resta solo parte del busto acefalo, raffigurato nella già menzionata iconografia “cipriota”, ossia con tunica e leonté. Le due statue erano probabilmente associate a formare un gruppo, forse in funzione di acroterio (sul piccolo tempio di Minerva allora eretto?). Il tema era in tal caso l’apoteosi dell’eroe, propiziata dalla dea: tema caro all’ideologia di tiranni e condottieri, da Pisistrato al crotoniate Milone, divenuto fortemente attuale anche nell’Etruria e nel Lazio, al tempo di Porsenna e di Tarquinio il Superbo. Il tema è riproposto a Veio alla fine del secolo, in tutt’altra iconografia e ben diverso stile, come si vedrà. Invece lo ritroviamo a Roma negli stessi anni, in una iconografia e in uno stile assai simili, ma in dimensioni maggiorate e con ricorso all’uso di matrici: ci si riferisce al noto acroterio, ricomposto da A. Sommella Mura, collocato al culmine della facciata del tempio di Sant’Omobono nella sua seconda fase, risalente al 530 a.C. (Fig. 8). L’acroterio è parte, con altri (tra i quali uno

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col gruppo assai lacunoso di Matuta col piccolo Portuno), di un “tetto” riccamente decorato con fregi narrativi a stampo e con antefisse, che ritroviamo uguali sia a Veio, dove quei fregi avevano, come si è accennato, una già lunga tradizione, sia a Velletri e in altri siti laziali. L’origine prima delle loro matrici è concordemente attribuita alla città etrusca, ma si preferisce parlare per gli acroteri di una fattura locale, genericamente consonante con le tendenze stilistiche in auge nell’Etruria meridionale. In realtà, alla luce delle testimonianze di statuaria veiente appena considerate, questa valutazione non pare soddisfacente. Le affinità sono tali, anche in dettagli iconografici (per es., le masse indistinte di capelli ricadenti sul dorso) e tecnici (vedi i minuscoli fori di sfiato, presenti anche nella statua con i calcei), da rendere verosimile che tanto gli acroteri del tempio di Sant’Omobono quanto le sfingi pure acroteriali del tempio di Velletri, cotte in due pezzi, siano da riferire allo stesso maestro veiente di cui discorriamo, che dalla sua opera più nota, ma non di migliore qualità, si potrebbe chiamare il “Maestro del gruppo di Sant’Omobono”. L’attribuzione non è peregrina, poiché è risaputo che i veienti, da Vulca al Maestro dell’Apollo, hanno avuto un posto preminente, anche se non esclusivo, tra i figuli etruschi attivi a Roma o per Roma durante tutto il vi secolo. Siamo così arrivati all’ultima generazione dei plastae veienti di età arcaica, quella attiva approssimativamente negli anni 510-480 a.C., al tempo dell’arcaismo finale. Tra essi di gran lunga il primo, sotto ogni rispetto, è l’appena citato “Maestro dell’Apollo”, definito con appassionata partecipazione da Massimo Pallottino fin dal 1945 nel senso di maestro di una “scuola” che a lui faceva capo. Maestro che egli tendeva a identificare con Vulca, per cui la sua sarebbe stata la “scuola di Vulca” (concetto per noi, che collochiamo il floruit di quel figulo intorno al 580 a.C., assai più esteso nel tempo e assai più vario quanto a personalità e tendenze). Nel maestro in questione può essere riconosciuto senza incertezze il progettatore, l’epistates potremmo dire alla greca, dell’intera decorazione coroplastica, giuntaci con particolare abbondanza di resti, del tempio costruito con l’annessa piscina tra il 510 e il 500 a.C. nel santuario di Portonaccio. Tempio di media grandezza, sorgente su un podio quadrato di soli m 18,50 di lato, dalla superficie pari a meno di un sesto del tempio di Giove Capitolino e a poco più della metà del tempio B di Pyrgi, ma dotato di un apparato di terrecotte senza uguali in Etruria e altrove per la quantità di parti figurate, a rilievo e soprattutto a pieno tondo. Occorre, per valutarlo adeguatamente, soffermarsi un poco sull’architettura dell’edificio, di cui nella mostra si propone una parziale ricostruzione. Chi scrive ne aveva elaborato a suo tempo con l’architetto Germano Foglia una completa restituzione grafica, tradotta nel 1993 in una ricostruzione “virtuale”; realizzata in situ dall’architetto Franco Ceschi per conto della Soprintendenza dell’Etruria Meridionale e col finanziamento della Regione Lazio (Fig. 9). Tale restituzione rende ovviamente del tutto superato il modello di tempio etrusco, ispirato al tempio di Portonaccio, approntato per la mostra etrusca del 1955-56 e tuttora comunemente riprodotto in manuali e cataloghi di mostre. Il tempio, di tipo tuscanico vitruviano – il più antico del genere finora rinvenuto in Etruria –, aveva le colonne (ne restano un rocchio e parte di un capitello) e probabilmente anche i muri in tufo, la trabeazione e il tetto in legno. Progettato facendo ricorso a un modulo di tre piedi attici, pari a m 0,89, corrispondente allo spessore di base dei muri e delle colonne, misurava 20 moduli di lato ed era suddiviso in un pronao profondo 8 moduli e in un posticum con tre celle affiancate, profondo 10 moduli (Fig. 10). La cella centrale era larga 6 moduli, le laterali, la cui esistenza è provata dai resti di cornici di porta di due diverse misure, 5 moduli. Il pronao si apriva in facciata con due colonne tra ante, alte 7 moduli: l’esistenza di pareti laterali è indirettamente provata dalle lastre pa-

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Fig. 9.

rietali dipinte, troppo numerose per la sola parete di fondo. La peculiarità del tempio risiedeva, come detto, nella profusione, nella varietà tipologica e nelle dimensioni delle parti figurate, presenti anche sulla fronte posteriore dell’edificio (rivolta verso quello che all’epoca era l’ingresso principale del santuario). Se gli altorilievi sovrapposti alle testate di columen e mutuli rientravano nella norma, questo non era il caso delle grandi antefisse con teste di Gorgone e di Acheloo, plasmate a mano entro un nimbo a conchiglia, e anche dei piccoli acroteri di sima con figure di combattenti appiedati o a cavallo, ricomposti da F. Melis e da C. Carlucci. Ma soprattutto eccezionale (con gli unici precedenti del palazzo di Murlo e in parte del citato tempio di Sant’Omobono) era la folla di statue che si ergevano sul tetto in funzione di acroteri di colmo e di falda. Tenendo conto non solo di quel che ne resta ma anche del numero dei plinti e delle basi ricostruite o ricostruibili, dovevano essere dodici le statue sul colmo del tetto, raffiguranti divinità (in maggioranza alte circa m 1,80, ossia un poco più del vero, ma tre di circa m 2,20 e almeno una di circa m 1,60), e otto quelle sugli spioventi dei due timpani, raffiguranti animali mitici (riconoscibili una sfinge, il serpente Pitone e un’idra). Tutte poggiavano coi loro plinti su basi a cassa rettangolare alte m 0,70, che contribuivano ad accrescerne notevolmente l’evidenza visiva, anche da lontano: variamente dipinte con figure di animali, occhioni apotropaici o scacchiere, erano poste a cavallo del filare dei grandi coppi di colmo e di quello dei normali coppi di falda contiguo alle sime frontonali. Un’eccezione era la statua perduta, forse di Giove, assisa diret-

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Fig. 10. Pianta ricostruita del tempio di Portonaccio a Veio (G. Colonna e G. Foglia).

tamente sul coppo di colmo della facciata entro una sorta di nicchia di cirri, alludente alla sede celeste del dio. Le altre statue di divinità, tutte stanti e in movimento più o meno concitato, erano coinvolte nella narrazione di episodi del mito greco in gruppi di due, tre e quattro figure: si riconoscono Apollo (Fig. 11) che, seguito probabilmente da Diana, affronta Ercole reclamando la liberazione della cerva cerinite sacra alla sorella (Fig. 12), a stento trattenuto dall’interposto Mercurio, e Latona che fugge col piccolo Apollo tra le braccia, minacciata dall’irato Pitone (Fig. 13). Tra le statue della massima dimensione si annoverano un probabile Giove, forse ritto sul colmo della fronte posteriore del tempio, del quale restano la destra stringente il fulmine (?) (inv. 2417) e forse un piede (inv. 1444), e una dea che è l’unico personaggio di tutto il pantheon del tempio a calzare i calcei (inv. 1447): per essa si può forse azzardare il nome di Minerva, di cui altrimenti meraviglierebbe l’assenza. Dovute a mani diverse, anche se approssimativamente contemporanee, recano tutte l’impronta di una personalità dominante, il Maestro appunto dell’Apollo, una delle personalità più geniali dell’arte etrusca di ogni tempo, capace di esprimere nel linguaggio ormai imperante della cultura ionico-attica una propria concezione formale, dinamica

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Fig. 11. Statua acroteriale di Apollo da Veio, santuario di Portonaccio, 510-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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Fig. 12. Statua acroteriale di Ercole da Veio, santuario di Portonaccio, 510-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

e vitalistica, che rappresenta per noi il vertice della maniera definita da Varrone come “tuscanica”. Il ruolo preminente avuto nel cantiere del tempio e l’eccezionale perizia dimostrata nel risolvere gli ardui problemi, statici e compositivi, posti dalle statue schierate sul tetto, ne rendono praticamente certa l’identificazione con «il Veiente esperto di coroplastica» (Veienti cuidam artis figulinae prudenti), che secondo Festo avrebbe ricevuto dai Romani la commessa delle quadrighe acroteriali del tempio capitolino, oggetto di una crescita prodigiosa nella fornace che avrebbe indotto i Veienti a negarne la consegna.19 Plutarco, che parla della sola quadriga di Giove,20 la dice commissionata dal re Tarquinio il Superbo «a taluni artefici di Veio» (T˘ÚÚËÓÔÖ˜ ÙÈÛÈÓ âÍ OéË›ˆÓ ‰ËÌÈÔ˘ÚÁÔÖ˜: le future maestranze del tempio di Portonaccio?), datandone la sofferta consegna al primo anno della Repubblica (508 a.C.). Il plurale usato da Festo (e da Livio,21 come anche da Plinio)22 induce a ritenere che sia esistita una seconda quadriga, posta sul lato posteriore del tempio, rivolto a NO, al culmine della terza falda del tetto, se questo era, com’è probabile, a tre falde. A essa doveva appartenere la statua fittile di Summano, il Giove Notturno, la cui testa, colpita da un fulmine e finita nel Tevere, fu ritrovata grazie a un intervento degli aruspici.23 19 Festo, 340-341 L. 20 Plutarco, Vitae parallelae, Poplicola, 13, 1. 21 Livio, 10, 23, 12. 22 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 28, 16; 35, 157. 23 Cicerone, De divinatione, 1, 16, 10: verso il 278 a.C. secondo Livio, Periochae 14.

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Fig. 13. Statua acroteriale di Latona da Veio, santuario di Portonaccio, 510-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Fig. 14. Torso dell’Ercole del “Maestro di Ercole e di Minerva” da Veio, santuario di Portonaccio, 500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

La carriera del Maestro dell’Apollo sembra in conclusione essere iniziata già prima del 510 a.C., probabile data della commissione avuta da Tarquinio il Superbo, e avere toccato il suo floruit con le statue del tempio di Portonaccio, intorno al 505-500 a.C., prolungandosi con ogni probabilità nei primi anni del v secolo a.C. A essa si affiancò quella di un secondo maestro, il “Maestro dell’Ercole e della Minerva”, che prende nome dal gruppo a tre quarti del vero, ricomposto in buona parte dallo scrivente, col quale è stato riproposto per l’ultima volta, intorno al 500 a.C., il tema dell’apoteosi dell’eroe. Gruppo certamente votivo e non acroteriale, non foss’altro perché non vi è posto per esso né sul sovraffollato tempio cosiddetto di Apollo né sul troppo piccolo tempio di Minerva. L’iconografia di partenza è quella genuinamente italica, che voleva l’Ercole “nudo”, con la leonté cinta intorno ai fianchi a mo’ di perizoma (Fig. 14), e la Minerva indossante la corazza (del tipo a campana, con gorgoneion appuntato su di essa a mo’ di medaglia) (Fig. 15). E anche la qualità del corpo ceramico, privo del rivestimento di argilla depurata, è quella tradizionale. Ma se si va a vedere il trattamento del nudo, della chioma riccioluta e della spoglia riccamente panneggiata dell’eroe, così come dell’elmo della dea, prezioso come un pezzo d’oreficeria, è difficile trovare confronti in ambito etrusco e laziale. In particolare quanto mai esplicite sono le differenze rispetto al Maestro dell’Apollo e ai suoi aiuti, a cominciare dalla tecnica. Come già aveva iniziato a fare il Maestro del

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Dignitario coi Calcei, ma con assai maggiore perizia, le due statue sono state modellate in parti separate, quasi tutte (tranne lo scudo e il cimiero di Minerva) congiunte a crudo con argilla liquida, riducendo al minimo lo spessore delle pareti per ottenere il miglior risultato in cottura, sì da evitare le fastidiose finestre di aerazione, tappate alla meglio sul dorso degli acroteri del tempio. Ma è soprattutto nello stile che le distanze sono enormi. Il Nostro non si è lasciato irretire dal talento del suo grande contemporaneo, dal suo prorompente vitalismo, dalle sue semplificazioni e forzature espressionistiche, ma è rimasto nel solco della grande tradizione ionizzante, con un’apertura inattesa alle esperienze artistiche che andavano maturando nell’Atene di Clistene. Lo dimostra il colorismo plastico che percorre e anima il nudo, così come la ricerca di un movimento capace di rompere dall’interno la costrizione della linea di contorno, ancora evidente nelle figure del Maestro delFig. 15. Testa della Minerva l’Apollo, iniziando a far interagire la statua del “Maestro di Ercole e di Minerva” da Veio, con lo spazio circostante. Innovazioni risantuario di Portonaccio, 500 a.C. Roma, maste senza seguito nell’Etruria del temMuseo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. po, destinate ad affermarsi solo a partire dalla metà del v secolo, in piena temperie classica, quando l’officina veiente seppe tornare a produrre opere di elevata qualità, culminanti nella testa Malavolta. Bibliografia In generale: Colonna 1986, spec. pp. 423-426, 434-444, 469 sgg.; Colonna 1994, spec. pp. 569-571, 574-576, 578-581 (ristampato, come molti degli scritti appresso citati, in Colonna 2005). Sulle premesse e la più antica coroplastica: Colonna, von Hase 1984. Inoltre: Strøm 1997; A. Maggiani, Le statue di Casale Marittimo, in Etruschi di Volterra 2007, pp. 102-105. Su Roma e il Lazio: Colonna 1988, spec. pp. 490-496, 513; Colonna 1988a, spec. pp. 311-314. Su Vulca, il tempio e la statua di Giove Capitolino: Andrén 1976-1977; Colonna 1981; Colonna 1987, pp. 63 sg.; G. Tagliamonte, S. De Angeli, s.v. Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus, aedes, templum, in LTUR III, 1996, pp. 144-153. Sui nuovi scavi del tempio: Mura Sommella 1997-1998; Mura Sommella 2000, pp. 20-26 (la lastra di rivestimento ricostruita rispettivamente a fig. 12 e a fig. 27 per le dimensioni “normali” sarà da riferire all’edicola della cella di Giove). Sulle firme d’artisti: da ultimo Colonna 2006, pp. 165 sgg. Sul nome personale Velk/¯a e il teonimo Vel¯: Rix 1998, pp. 210 sgg.; Colonna 2007, in StEtr 71, 2007, p. 178. Per la sella cfr. Torelli 2006a. Trono di Arimnesto: Colonna 1993a.

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“Iside’ di Vulci: Roncalli 1998, pp. 15-25. Testa di Numana: G. Colonna, in Piceni 1999, pp. 106-108, fig. 82. Acroteri di Poggio Civitate: Edlund-Berry 1992. Busto da Marsiliana: Cristofani 1985, pp. 288 sg., n. 109. Aedes Herculis Pompeiani: F. Coarelli, s.v. Hercules Invictus, Ara Maxima, in LTUR iii, 1996, p. 16 e F. Coarelli, s.v. Hercules Pompeianus, aedes, in LTUR iii, 1996, pp. 20 sgg. Sul santuario di Portonaccio: G. Colonna, Veio. Portonaccio, in Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 3744; Colonna et alii 2002, pp. 133-159. Sul grande torso maschile: Pallottino 1979b; Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 65-66, n. I.F.4 (G. Colonna). Ercole da Castelbellino: G. Colonna, in Piceni 1999, p. 90, fig. 63. Bronzetto da Chiusi: Antikenmuseum 1988, p. 217, n. 1 (con datazione troppo bassa). Dignitario coi calcei: Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 69-70, n. I.F.6.l, tav. iv (M.P. Baglione). Busto di Turms: LIMC viii, 1997, s.v. Turms, p. 100, n. 18 (M. Harari). Busti di Minerva e di Ercole: Colonna 1987b, pp. 423 e 436 sg., figg. 5-6 e 22. Gruppi di Sant’Omobono: Mura Sommella 1977, pp. 99-128; A. Sommella Mura, F.P. Arata, in La grande Roma dei Tarquini 1990, pp. 115-121; Mertens-Horn 1997. Tempio e sfinge di Velletri: F.R. Fortunati, in La grande Roma dei Tarquini 1990, pp. 201-205. Maestro dell’Apollo: Pallottino 1945 (= Pallottino 1979a); C. Carlucci e L.M. Michetti, in Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 57-64. Maestro dell’Ercole e della Minerva: Colonna 1987a; Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 67-68, n. I.F.5 (G. Colonna). Statue di v - inizio iv secolo a.C., da Portonaccio: M.P. Baglione, in Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 69, 71-77. Testa Malavolta: Brendel 1978, pp. 319 sg., fig. 241; Dohrn 1982, pp. 36-38, n. 2, tav. 20,2. Andrén 1976-1977 = A. Andrén, In quest of Vulca, in RendPontAc 49, 1976-1977, pp. 63-83. Antikenmuseum 1988 = Antikenmuseum Berlin. Die ausgestellten Werke, Berlin 1988. Brendel 1978 = O. Brendel, Etruscan Art, Kingsport 1978. Colonna 1981 = G. Colonna, Tarquinio Prisco e il tempio di Giove Capitolino, in PP 36, 1981, pp. 41-59. Colonna 1986 = G. Colonna, Urbanistica e architettura, in Rasenna 1986, pp. 369-530. Colonna 1987 = G. Colonna, Etruria e Lazio nell’età dei Tarquini, in Etruria e Lazio arcaico 1987, pp. 55-66. Colonna 1987a = G. Colonna, Il maestro dell’Ercole e della Minerva. Nuova luce sull’attività dell’officina veiente, in OpRom 16, 1987, pp. 7-41. Colonna 1987b = G. Colonna, Note preliminari sui culti del santuario di Portonaccio a Veio, in ScAnt 1, 1987, pp. 419-448, ora in Colonna 2005, pp. 1989-2014. Colonna 1988 = G. Colonna, I Latini e gli altri popoli del Lazio, in Italia. Omnium terrarum alumna, Milano 1988, pp. 411-528. Colonna 1988a = G. Colonna, La produzione artigianale, in Storia di Roma, i, Torino 1988, pp. 292-316. Colonna 1993 = G. Colonna, Strutture teatriformi in Etruria, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde etrusco-italique (Atti Tavola Rotonda Roma 1991), Rome 1993, pp. 321-347. Colonna 1993a = G. Colonna, Doni di Etruschi e di altri barbari occidentali nei santuari panellenici, in A. Mastrocinque (a cura di), I grandi santuari della Grecia e l’Occidente, Atti del secondo incontro trentino dedicato a problemi di storia antica (Atti Trento 1991), Trento 1993, pp. 44-56. Colonna 1994 = G. Colonna, Etrusca arte, in EAA, ii suppl., ii, 1994, pp. 554-605. Colonna 2005 = G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), i-iv, Pisa-Roma 2005. Colonna 2006 = G. Colonna, Un pittore veiente del ciclo dei Rosoni. Velthur Ancinies, in M. Bonghi Jovino (a cura di), Tarquinia e le civiltà del Mediterraneo (Atti Convegno Milano 2004), Milano 2006, pp. 163-185.

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L’ AP O LLO DI PYRGI, ± UR/ ± U RI (IL “ N E RO ” ) E L’APOLLO SO U R IO S

L

a prima parte di questo scritto è una risposta inevitabilmente polemica, e me ne scuso con i lettori, allo scritto non meno polemico di J.-P.Thuillier che compare nelle pagine precedenti (da me conosciuto anticipatamente in quanto, come l’autore ben sa, sono corresponsabile della direzione scientifica di Studi Etruschi). Invece la seconda e la terza parte, di carattere propositivo, intendono recare un ulteriore contributo da parte mia alle questioni che sono sul tappeto.1 Thuillier, benemerito studioso dei ludi etruschi e in generale dello sport nell’antichità, nell’affrontare nuovamente l’Apollo di Pyrgi parte, come nei suoi precedenti interventi,2 da due premesse, l’una più e l’altra meno esplicita. La prima, pienamente condivisibile e condivisa, è che la consultazione cerite dell’oracolo delfico a seguito della lapidazione dei prigionieri focei, così come la conseguente istituzione di ludi di natura allo stesso tempo funebre ed espiatoria,3 non significano di per sé l’introduzione di un culto di Apollo, e tanto meno la fondazione di un tempio o di un santuario del dio.4 La seconda, meno esplicita premessa è che avrei considerato il dio ±uri, contitolare con Cavatha dell’Area Sud di Pyrgi, «un avatar étrusque d’Apollon», il cui culto sarebbe venuto “tout droit de Delphes”, in seguito alla consultazione dell’oracolo. Sulla base di questa fuorviante premessa (ho sempre parlato dell’Apollo di Pyrgi come di una interpretatio Graeca dell’indigeno ±uri, ispirata non da Delfi ma, eventualmente, da Cuma),5 e con l’aiuto venutogli dal linguista tedesco D.H.Steinbauer, Thuillier perviene alla conclusione che il dio ±uri non è mai esistito, né a Pyrgi né altrove, e che assieme ad esso l’Apollo di Pyrgi, prodotto artificioso di un «puzzle (trop) soigneusement elaboré», esce definitivamente di scena (“un dieu de trop”, non esita a scrivere). L’argomentazione del collega francese inizia con due processi sommari, di natura affatto indiziaria, di ambito rispettivamente storiografico e filologico. Gli imputati sono nel primo caso Erodoto, nell’altro Eliano, entrambi in forza di valutazioni riconducibili al principio, peraltro sottaciuto, del testis unus nullus testis, di fatto inapplicabile nelle scienze dell’antichità al di fuori dell’ambito quantitativo e seriale proprio del record archeologico. Lo storico di Alicarnasso sarebbe colpevole di avere inventato, se non l’intera vicenda della consultazione dell’oracolo (a onore e gloria dei Greci sconfitti), almeno il responso concernente l’istituzione dei ludi, altamente sospetto per l’assenza della componente musicale e ancor più per la mancata menzione di un coinvolgimento preliminare di aruspici etruschi (come se da Erodoto ci si potesse aspettare una conoscenza dei costumi d’Etruria paragonabile a quella che dei romani hanno avuto un Dio-

1 Per semplicità adotto nelle citazioni non testuali dei due nomi del dio etrusco la grafia meridionale della sibilante. 2 Ricordo solo THUILLIER 1989; THUILLIER 1997, pp. 382-385. 3 I due aspetti in questo caso coincidono, nonostante LUBTCHANSKY 2005, p. 246 sg. 4 Anche se almeno in un caso ciò si è verificato, nello stesso torno di tempo e anche allora in Italia. Mi riferisco al culto oracolare di Apollo nell’agorà di Metaponto, distinto da quello preesistente di Apollo Lykeios nel vicino santuario e istituito, teste Erodoto (iv, 15, 3-4), in seguito alla consultazione della Pizia provocata da un’apparizione dell’‘iperboreo’ Aristea (il temenos del dio, rimasto a lungo in vita, è tornato alla luce coi recenti scavi: De JULIIS 2001, pp. 80-82, 170-173; MERTENS 2005, pp. 155, 212, figg. 268, 270). 5 Così in COLONNA 1996 c, pp. 372-375 (= COLONNA 2005, pp. 2354 sg.).

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nigi di Alicarnasso o un Plutarco).6 Eliano, considerato implicitamente una fonte tarda e quindi poco attendibile, avrebbe pasticciato con l’ambientazione nel santuario di Pyrgi dell’asportazione della trapeza di Apollo da parte di Dionigi il Vecchio: il nome del dio sarebbe, nella migliore delle ipotesi, “glissé par inadvertance de la Sicile à l’Étrurie”, nella sequenza degli atti di empietà rimproverati al tiranno. Detto questo Thuillier sfodera il suo asso nella manica, ossia la recente presa di posizione di Steinbauer, replicata in più sedi,7 contro l’esistenza stessa del teonimo ±uri. Grazie a tale pronunciamento, e a un corollario che, come vedremo, Thuillier ha creduto incautamente di aggiungergli, le riserve da lui avanzate più di vent’anni fa contro il culto cerite e pyrgense di Apollo, senza invero ottenere l’ascolto desiderato,8 riprendono inaspettatamente vigore e diventano un rogo, da cui il dio, come detto, uscirebbe incinerito. Non resta allora che prendere in considerazione quel che ha scritto Steinbauer. Prendendo le mosse dalla dedica congiunta a ±uri e a Cavatha (mi ±uris Cavaıas [-?-]) (Fig. 1), rinvenuta nell’Area Sud del santuario di Pyrgi,9 il linguista tedesco ha sostenuto che il lemma ®uris sarebbe non il genitivo del teonimo ±uri ma il nominativo/accusativo, per usare la sua terminologia, di un termine del lessico sacrale uscente in -s, finora rimasto da tutti ignorato, significante “dedica, consacrazione” (Weihung) o “dono votivo, donario” (Weihegabe).10 Interpretazione che Thuillier, andando, mi sia concesso di dirlo, un poco oltre le sue competenze, saluta come «quelque chose de tout à fait satisfaisant sur le plan archéologique comme sur le plan linguistique». Ma vediamo quali sono gli argomenti che farebbero di ±uri una vox nihili. In realtà l’argomento addotto da Steinbauer, proseguendo nell’intrapresa ‘bonifica’ del pantheon etrusco.11 è uno solo: l’interpretazione del lemma ®uris come genitivo di un nome divino «implica», traduco le sue parole, «che il supposto teonimo sia più volte menzionato in asindeto con altri teonimi, il che nelle iscrizioni etrusche di dedica è senza confronti (ohne Parallele)».12 Non è chiaro se Steinbauer ritenga che non si conoscano dediche etrusche con più teonimi, o se ritenga che in esse non compaia alcun esempio di asindeto.13 In entrambi i casi comunque si tratta di un’opinione manifestamente infondata. Lasciando da parte le iscrizioni in cui compare il contestato nome di ±uri, si possono citare:14 per l’età arcaica la notissima dedica veiente rivolta Aritimipi Turanpi, “a 6 La storicità della consultazione è stata recentemente ribadita da più autori in Atti Udine 2006, pp. 17 sg., 62 e 101, nota 60. 7 STEINBAUER 1999, pp. 268 sg,, 472; BENTZ, STEINBAUER 2001, p. 75; STEINBAUER 2004, p. 110 sg. 8 A giudicare anche dal più recente contributo su ±uri/Apollo, in cui si ambienta il massacro dei Focei senza la minima incertezza, e a torto, nei pressi dell’Area Sud, collegandolo alla costruzione del sacello beta (HACK 2006 b, pp. 246-250). 9 COLONNA 1985 b, p. 73 sg., fig. 18; COLONNA 1991 c, pp. 313 sg, 324, n. 21, tav. lviii; COLONNA 1996 c, p. 369, nota 60, fig. 9 (= COLONNA 2005, p. 2352); REE 2001, n. 36. Da ultimo BENELLI 2007, p. 216 sg., n. 96. 10 Sul lessico delle iscrizioni votive etrusche v. COLONNA 1991 a, e adesso la monografia del mio allievo D.F.Maras in stampa presso la Biblioteca di Studi Etruschi (MARAS 2009). 11 Complessivamente sono stati finora da lui messi in dubbio o addirittura cancellati i teonimi Aritimi, Calu e Calus, Vatlmi. Vei, Veive, Leinth, Lur® e Lurmi, Mari® (salvo eccezioni), Natinusnai, ±ur e ±uri, Rath e Rathiu, Sethumsai, Tec e Tecum(e), Farthan. Aggiunti ex novo sono gli affatto improbabili *Ver®ena e *Vucina, nonché gli epiteti Cleusin® e San® che, a differenza per es. di Farthan, non compaiono mai disgiunti dal teonimo di riferimento. 12 STEINBAUER 1999, p. 268. 13 La menzione dell’asindeto depone per la seconda alternativa (cfr. STEINBAUER 2004, p. 111: «questo mostra la curiosa peculiarità di comparire prevalentemente in compagnia di altri dèi, il che però non è mai espresso sul piano linguistico, mancando una pur necessaria congiunzione»). Sulla relativa frequenza dell’asindeto in etrusco v. PALLOTTINO, 1937, p. 64, § 119; PFIFFIG, 1975, p. 156 sg.; De SIMONE 1997, p. 188 sg.; Rix 2004, p. 963, § 5.4. Per Steinbauer invece l’asindeto si incontrerebbe, chissà perché, solo nel caso dei prenomi di due fratelli (STEINBAUER 1999, p. 149). 14 Le citazioni con una sigla di provenienza seguita da un numero d’ordine si riferiscono a Rix, ET.

l ’ apollo di pyrgi, ®ur/®uri (il “ nero ” ) e l ’ apollo sourios

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Fig. 1. Dedica a ±uri e Cavatha dall’Area Sud di Pyrgi.

Aritimi (e) a Turan” (Ve 3.34; CIE 6414),15 per l’età recente l’aequipondium cerite edito da M.Cristofani, dedicato Raıs Turmsal, ossia “a Rath (e) a Turms”;16 il bronzetto chiusino dedicato ±elvan®l Turn® £anral, “a Selvans (e) a Turan Thanria” (Cl 3.3);17 il cippetto bronzeo dedicato Estial atial Caıas, se da intendere, come credo, “a Esti, la madre, (e) a Catha” (REE 1993, n. 26; Colonna 2006, p. 140);18 la statua bronzea di formato ridotto simile all’Arringatore, già emigrata all’Estero ma or ora restituita all’Italia, dedicata eisera® £uflıas, “agli dèi (e) a Thufltha” (REE 2001, n. 115, con diversa interpretazione).19

15 Che Aritimi sia Artemide (pace STEINBAUER 2004, p. 108 sg.) è stato ribadito anche da KRAUSKOPF 1998, pp. 179-181, e dal compianto Helmut Rix in uno dei suoi ultimi scritti (Rix 2004, p. 952, § 4.2.2.1). 16 Come da me riconosciuto, contro l’opinione dell’editore e di altri (COLONNA 2001 b, p. 163; cfr. MARAS 2000-2001, p. 230, nota 60). 17 Lettura di MARAS 2001, p. 173 sgg., accolta tra gli altri da WYLIN 2004, p. 217. 18 Accolgo la lettura Estial in luogo di Espial proposta da De GRUMMOND 2004, p. 357 sg. 19 Locuzione equivalente (ma solo sul piano del contenuto!), a aiseras £uflıicla (OA 3.5 e, forse, Cl 3.7), “agli dèi quelli (stanti) presso Thufltha” (cfr. Rix 1984, p. 230, § 40), che sul Fegato sono Tina e Nethuns, abitatori delle caselle interrelate 2-3 e 20-21-22, in cui Tina compare quattro volte, Thufltha tre e Nethuns due (COLONNA 1994, pp. 123-126 = COLONNA 2005 a, pp. 2071-2073).

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L’asindeto inoltre ritorna anche per i nomi dei dedicanti (e nelle iscrizioni di dono per quelli dei donatori), quando sono più d’uno, in simmetria con quanto accade per i teonimi.20 Per l’età arcaica, in aggiunta alle iscrizioni coi nomi dei donatori in pertinentivo da Pontecagnano (Venelasi Vel¯aesi Rasuniesi, “da parte di Venela (e) di Velchae Rasunie”: REE 2002, n. 84) e da Narce (Laricesi …]naiesi clinsi Velıurusi, “da parte di Larice …]naie (e) del figlio Velthur”: Fa 3.2), si può citare la dedica veiente di Velıur Tulumnes Pesn(a N)uzinaie, “Velthur Tulumnes (e) Pesna Nuzinaie” (Ve 3.2; CIE 6419). Per l’età recente abbiamo la dedica volsiniese di Avle Havrnas tuıina apana, “Avle Havrnas (e) il pago (?) patrio” (REE 1989, n. 128) e quella cerite di Marce Lapicanes Turis Larıi Sucus Rupsai, “Marce Lapicanes Turis (e) Larthi Sucus Rupsai” (REE 1985, n. 45), senza contare le dediche funerarie poste da fratelli.21 Sicché allo stato della documentazione si può legittimamente affermare, all’opposto di Steinbauer, che nelle iscrizioni etrusche di dedica e di dono, se i nomi delle divinità e delle persone coinvolte (si tratti o no di fratelli) sono più d’uno, come talvolta si verifica, si ricorre per essi di norma all’asindeto,22 come del resto avviene di preferenza nelle sequenze di teonimi presenti nelle dediche votive greche al di fuori dell’Attica, almeno in età arcaica.23 Invece il ricorso al polisindeto è normale in etrusco per le coppie di teonimi menzionate nei testi di contenuto religioso diversi dalle dediche.24 D’altra parte va detto che l’interpretazione del supposto appellativo ®uris (sett. suri®), e talvolta il suo stesso isolamento, proposti da Steinbauer, urtano contro molte difficoltà, di ordine testuale, filologico e archeologico (queste ultime particolarmente gravi). Per quanto riguarda le prime meraviglia che un termine del lessico sacrale, che si vorrebbe attestato con un numero maggiore di occorrenze rispetto a cver/cvera e ad alpan, non compaia mai in associazione con un verbo di dono, a differenza di quel che si verifica, seppur raramente, per i termini citati.25 Ma molto di più si può dire sul piano filologico. L’isolamento di ±uri è sicuro nella sequenza ®urileıamsul della Tegola (TC 3), che Steinbauer interpreta come ®uri(s) Leıamsul,26 invece di annoverarla tra i casi di ‘Gruppenflexion’ al genitivo.27 Esiste inoltre almeno un caso in cui l’isolamento di ®uris rispetto a ±uri risulta improponibile: mi riferisco alla sequenza ®urisice della r.4 del Piombo arcaico di Chiusi (in ortografia meridionale), assente in Rix, ET perché a torto ritenuto falso (TLE 478; REE 1993, n. 34).28 Mentre infatti è arduo giustificare un eventuale lemma 20 Viceversa nell’unico caso a me noto in cui i nomi dei donatari, flessi in genitivo, sono due interviene la coordinazione per mezzo dell’enclitica -¯: mi(ni) mulvenece Puteres Ciaruıia¯ / Puzne Qa¯u, “mi ha donato a Putere e a Ciaruth Puzne Cachu” (CIE 11058). 21 Citate da STEINBAUER 1999, l.c. 22 Asindeto additivo e non “copulativo” (dvanda), come invece sembra ritenere, nella sua analisi delle menzioni “binarie” di teonimi, De SIMONE 1997, pp. 188 sg., 206, tipo ii a. 23 Nel corpus raccolto da LAZZARINI 1976, comprendente mille numeri, di cui alcuni doppi, compare l’asindeto nei nn. 491 (Tegea), 514 (Taso), 520 (Paro), 527b (Panticapeo) e 536 (Selinunte), la coordinazione nei nn. 38 (Atene), 754 (Attica) e 945 (Itaca). 24 Esempi in De SIMONE 1997, p. 206, tipo ii b. 25 Sui quali COLONNA 1991 a, p. 883 sg. (= COLONNA 2005, p. 2051 sg.). 26 STEINBAUER 1999, p. 472. 27 In cui i due teonimi, se Lethams è veramente una sorta di Genius (COLONNA 1994, p. 134, nota 34 = COLONNA 2005, p. 2077), in questo caso di ±uri, sono forse un esempio di asindeto “copulativo” nel senso del de Simone (supra, nota 22). Diverso è il caso del sintagma pure al genitivo savcnes ±uris della sors dalla Cipollara (AT 4.2), in cui savcnes è verosimilmente un aggettivo in posizione marcata (come in AV 2.3 mla¯ rispetto a Vanı), qualificante eufemisticamente il dio nel senso di “benevolo”, “propizio”, alla stregua dei Dii Manes, detti dii propitii in CIL vi, 2210 (citazione di PASCAL 2006, p. 71), e degli dei inferi evocati come aisos pa(cris) sulla sors plumbea in osco da Torino di Sangro (COLONNA 1971: cfr. CHAMPEAUX 1990, p. 300, nota 56; MAGGIANI 2005 b, p. 77 sg., n. 165). Sta di fatto che nella Tegola Savcne è un epiteto sostantivato (TC 2 e 6), sostituente con ogni probabilità l’omesso nome del dio, come altrove avviene ad es. per MÂÈÏ›¯ÈÔ˜ nei confronti di Zeus. 28 Cfr. anche BENELLI 2007, p. 266.

l ’ apollo di pyrgi, ®ur/®uri (il “ nero ” ) e l ’ apollo sourios 891 residuo *ice,29 l’isolamento di Sice come elemento onomastico (epiteto?), possibile anche nel Piombo di S.Marinella (Cr 4.10, r.5), è raccomandato dal sicuro confronto col nome individuale ±iki, graffito su un vaso approssimativamente coevo di Populonia (Po 0.10), e col gentilizio recente Secne (< *Sece-na-ie) di Orte (AH 1.24, 1.34),30 oltre che coi gentilizi Siccius e Sicinius di magistrati romani di età alto-repubblicana.31 Vi è poi il lessema sur, graffito da solo e in buona evidenza all’interno di una coppa di bucchero del santuario del Belvedere a Orvieto (CIE 10537, Vs 0.6), associata a due coppe pure di bucchero con dedica ad Apa (Vs 2.29-30). Che sur sia una forma alternativa del teonimo Suri (l’ortografia settentrionale della sibilante non meraviglia a Orvieto nell’età di Porsenna), e non dell’abbreviazione di un inesistente appellativo *suri®, è provato dalle molte occorrenze in Etruria settentrionale di nomi aventi alla base proprio quella forma del teonimo: sia nomi individuali, per lo più fungenti da gentilizi o da cognomi, sia nomi gentilizi di tipo patronimico. I nomi teoforici in questione sono:32 Sure (cfr. Cel-e, Usil-e), frequente a Chiusi, coi derivati Sur(e)-na, attestato a Perugia,33 e Zure-ı, attestato nel retroterra tarquiniese;34 Sur-te (cfr. £esan-t/ıe, Apur-t/ıe, Uni-ıiu),35 anch’esso noto solo a Perugia, coi derivati Surt(e)-li (femm.) e ±urte-na (arcaico, in ortografia meridionale);36 Siur-ine37 (cfr. Nurt-ine e umbro Nurt-ins vs. lat. Nortia, oltre ai cognomi latini del tipo Iovinus, Martinus, Saturninus, ecc.),38 attestato solo a Populonia. Ma la testimonianza principe resta quella di (pater) Soranus, il dio del Soratte e delle sue grotte mefitiche, sacro ai Falisci (Tav. i a), dato che teonimo e oronimo hanno entrambi alla base il nome del dio etrusco nella forma ±ur, falisco *S/Zor.39 È nota anche una 29 In teoria, ammettendo una precoce monottongazione *icei > ice, potrebbe trattarsi del locativo del pronome ica, ma il contesto sembra escluderlo (né appare affidabile il confronto col Piombo di S.Marinella, cui avevo dato credito in COLONNA 1985 b, p. 74, nota 51). 30 È possibile, e a mio avviso assai probabile, che il gentilizio, nella forma arcaica *secenie, sia alla base del nome reso in venetico come sekene.i. (dat.), iscritto su un bronzo proveniente dal sito etrusco di Bagnolo S.Vito (diversa interpretazione, prescindente dalla resa con k della velare, da parte di A.L.Prosdocimi, in De MARINIS 1986, p. 121, n. 245, e altrove). 31 T.Siccius Sabinus, cos. 487 a.C., C.Sicinius Vellutus, tr.pl. 494 o 471 a.C., e altri. 32 Si rinvia per le citazioni all’indice delle forme in Rix, ET. 33 Dove la tomba in loc. Monterone da cui vengono le iscrizioni Pe 1.78-92 ne ha restituito 13 occorrenze. Per i derivati latini v. SCHULZE, ZGLE, p. 235. 34 REE 1999, n. 30, da S.Giuliano. L’iscrizione conserva uno dei più antichi esempi etruschi, certamente a mio avviso influenzato dalla contigua area falisca, della scrittura con z della sibilante in posizione iniziale (in questo caso / š / ). 35 Per Uniıiu (diminutivo di *Uniıe, cfr. Raıiu): REE 2002, nn. 4, 7. L’oscillazione -te/-ıe (per £esanıe cfr. il recente £es(n)tia, femm., di AV 1.4) ritorna frequentemente negli etnici (Latite/Latiıe, Rumate/Rumaıe: altri esempi in Rix 1963, pp. 232-234) e nelle formazioni analoghe (Vipitene/Vipiıene, Presnte/Presnıe). L’inserimento di Apur-t/ıe presuppone ovviamente che *Apur, arc. *Aper/Apir, sia il plurale finora non riconosciuto di apa e significhi Patres, nella ben nota accezione semidivina di maiores. 36 Su Surte ritorno diffusamente nella seconda parte del contributo. 37 Po 2.31. Seguo la lettura siurine® dei primi editori (G.Buonamici, in REE 1929, p. 602 sg.; MINTO 1943, p. 235 sg.), senz’altro preferibile a quelle di Rix, ET (spurine®), MAGGIANI 1992, p. 180 sg. (nurine® o nuvine®), AMBROSINI 2002, pp. 425-427 (furine®). La scrittura si per / š / ritorna nelle scritture settentrionali sian® (Pe 5.2), sian®l (Cl 4.2), husiur (Pe 5.1, Pe 0.4) e siate (Pe 1.782). 38 Nurtine è in Vs 1.281, per Nurtins v. ROCCA 1996, p. 70 sgg., n. 9. Sui cognomi latini del tipo SCHULZE, ZGLE, p. 467 sg.; BUONOCORE 2000, p. 153. 39 Il teonimo con adeguamento, grazie al suffisso -ano-, ai teonimi latini del tipo di Silvanus, Summanus, Volcanus (COLONNA 1992, p. 96 sg. [= COLONNA 2005a, p. 2321], COLONNA 1996 c, p. 355 sgg. [= COLONNA 2005a, p. 2344]: particolarmente calzante il confronto col retico *Culsanus, scritto Cuslanus, derivato da etr. Culs). L’oronimo Soracte col cumulo del suffisso aggettivale -ac- (LEUMANN 1963, p. 244, § 176 iv A), presente da solo nella variante “volgare” del nome, Sorax (PORph., Horat., carm. i, 9, 1), e del suffisso -te, formatore in area centro-italica di nomi di luogo del tipo di Reate, Teate, Praeneste (cfr. ALESSIO, de GIOVANNI 1983, p. 19, nota 61, che però, ignorando l’etrusco Sur, tirano indebitamente in ballo il lat. sorex, “topo campagnolo”).

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forma ampliata del teonimo etrusco, *S/±ur-mi (cfr. le coppie Vatl / Vatlmi, Lur-/Lurmi), eruibile dai gentilizi settentrionali Surmi-e (cfr. Sur-e) e ±urm-eı-nei (femm.).40 Senza contare i molti derivati di S/±uri, anche e specialmente nell’ambito dei poleonimi e dei coronimi: basti citare *±uri-na, la Viterbo etrusca (cfr. l’etnico latino Sorrinenses), i Suriates della vi regione, M.Soriano di Narce, la Soriano del Cimino e quella di Lunigiana,41 nonché forse il nome mitico Soresios della cista prenestina Morgan.42 Ancora maggiori sono, come accennato, le difficoltà che la tesi di Steinbauer solleva sul piano archeologico, con particolare riguardo alla natura dei contesti. L’interpretazione del supposto appellativo *®uris come “dedica” o “dono votivo” è infatti incompatibile in più di un’occorrenza con la funzione dell’oggetto su cui si trova l’iscrizione. Il caso più evidente è quello delle sortes cleromantiche, classe di monumenti cui appartengono la barretta di bronzo con foro di sospensione dalla Cipollara (AT 4.1) e il dischetto plumbeo da Arezzo (Ar 4.2). Le iscrizioni relative, anche se consistono in un nome divino al nominativo o al genitivo, non possono a nessun titolo, in assenza di ulteriori e specifiche indicazioni, essere annoverate nella categoria delle dediche (il nome iscritto su di esse è quello del dio ‘titolare’, per così dire, della sors, al quale l’oracolo implicitamente prescrive di rivolgersi con preghiere e sacrifici, al fine di placarlo e/o di propiziarselo).43 E lo stesso può dirsi per i termini di confine, categoria di monumenti cui appartengono sia la stele opistografa proveniente dall’area urbana di Tarquinia, giustamente riferita dall’editore, M.Cataldi, al recinto di una non ancora identificata area sacra44 (a mio avviso pertinente a ±uri, dato che Selvans, il cui nome compare anche sulla faccia esterna della lastra, sembra piuttosto avere il ruolo di protettore del recinto),45 sia la “pietra” di Bettona iscritta col solo nome di ±uri, riferibile al recinto di un’area sacra al dio, situata in questo caso, come c’era da aspettarsi, in una zona di necropoli.46 Le iscrizioni dei termini, anche quando consistono, come ora si è visto, solo in un nome divino,47 non sono affatto omologabili alle dediche, né sono da aspettarsi in esse appellativi riferibili al lessico del dono e dell’offerta.48

40 Cfr. i gentilizi del tipo Veleına, ºurseına, sui quali mi sono soffermato in REE 1999, n. 30. 41 COLONNA 1992, p. 95 sg.(= COLONNA 2005 a, p. 2320); COLONNA 2005 b, p. 14 (Lunigiana). 42 Di cui tratto nell’Appendice. 43 Da ultimi, sulle sortes etrusche, MAGGIANI 2005 b, pp. 64-69, nn. 130-135, e KRAUSKOPF 2005, pp. 412-415 (con l’avvertenza che l’assenza del foro di sospensione non basta per ipotizzare l’utilizzazione della sors come ex voto, potendo il rimescolamento all’interno di un contenitore sostituire il distanziamento e lo sparpagliamento propri delle sortes appese a un filo (sul significato dei verbi tecnici extenuare e adtenuare v. COLONNA 2001 b, p. 169, nota 66). Altri nomi divini, iscritti su elementi metallici presumibilmente fungenti da sortes, sono, come mi ricorda Maras, Artum[es](Ta 4.14) e Lvrmit[la](Pe 4.4). 44 CATALDI 1994. Sulla stele, con qualche incertezza ormai superata sulla sua funzione, COLONNA 1992, p. 95 (= COLONNA 2005 a, p. 2320); COLONNA 1996 c, p. 355, fig. 5 (= COLONNA 2005 a, p. 2343). Cfr. anche BENELLI 2007, p. 221, n. 99. 45 Mentre ±uri compare solo sulla faccia interna, che è la principale, riconoscibile perché, a differenza dell’altra, è interamente levigata. Il caso è in parte analogo a quello del cippo di Bolsena sacro a Selvans Sanchuneta, pertinente al recinto del grande santuario del Pozzarello, in cui il dio aveva certo un posto ma non preminente (cfr. ACCONCIA 2000, pp. 158-160). L’associazione a Tarquinia delle due divinità risulta comunque dalla dedica del Putto Graziani (Ta 3.7), ove se ne accettino le integrazioni proposte ([±u]ris ±elvansl [Ap]as) e la si interpreti postulando ancora una volta un asindeto: “a ±uri (e) a Selvans Apa”. 46 Cfr. ora STOPPONI 2006, p. 31 sg. Lo stesso, in base alla provenienza dai pressi di S.Maria in Campis, può dirsi della stele di Foligno Supunne / sacr(u) (ROCCA 1996, p. 89 sgg., n. 12), che la sommità arcuata indica trattarsi di un termine. 47 Come si verifica anche con le tre stele iscritte con Tecsa(n®l) (Pe 8.5) (COLONNA 2008, c.s.). Altrimenti il teonimo è accompagnato da cver(a) o, in umbro, da sacru (come nella stele appena citata). 48 Cfr. per la Grecia GUARDUCCI 1969, pp. 430-440; GUARDUCCI 1974, pp. 227-245.

l ’ apollo di pyrgi, ®ur/®uri (il “ nero ” ) e l ’ apollo sourios 893 Il metodo rigidamente combinatorio, intralinguistico e autoreferenziale, cui si appella Steinbauer nella convinzione che «l’interpretazione di un testo ha, quanto alla sua comprensione ‘letterale’, immediata, poca relazione col contesto», in aperta polemica con quanto a suo tempo sostenuto da Pallottino,49 in casi come questi rivela esemplarmente la sua intrinseca debolezza.50 Né vale a riscattarlo l’esempio addotto dallo stesso Steinbauer della famosa dedica ai Dioscuri rinvenuta in una tomba di Tarquinia, perché essa rientra nella categoria, ignorata a quanto pare dai glottologi, delle dediche a divinità o a demoni connessi con l’Oltretomba (quali sono anche i Dioscuri), deposte nelle tombe invece che nei santuari o, più raramente, nelle case.51 Forse perché consapevole, pur senza riconoscerlo, che il punto più debole della tesi di Steinbauer risiede proprio nell’occorrenza del supposto appellativo su oggetti unanimemente classificati come sortes, Thuillier conclude la sua trattazione con una proposta, che vorrebbe essere l’uovo di Colombo: perché non tradurre *®uris con la parola latina sors, che tanto foneticamente gli assomiglia? Purtroppo (per lui) l’iscrizione di Pyrgi, da cui tutta la querelle ha preso le mosse, si trova sul piede di una kylix attica, e una kylix – il vaso potorio per eccellenza – non può essere in alcun modo equiparata, anche con la più spinta metonimia, a una sors. Né possono esserlo i vasi di forma chiusa sui quali a Pyrgi ricorre la parola, comunque inadatti, per l’esigua capienza o per l’eccessiva altezza rispetto al diametro della bocca,52 per un’eventuale utilizzazione come contenitori di sortes. E ancor meno possono avere a che fare con esse i termini appena citati di Tarquinia e di Bettona, per non parlare della statuetta bronzea vulcente con dedica a £ufl(ıas) ±uris, “a Thufl(tha) (e) a ±uri” (REE 1991, n. 68).53 Ma non basta. Thuillier si spinge fino a ipotizzare che la parola sors sia un imprestito dall’etrusco nel latino. L’inconsistenza delle premesse rende superflua una discussione. Rilevo solo che Ernout e Meillet nel passo del Dictionnaire citato da Thuillier possono sembrare «quelque peu dubitatifs» sul rapporto sors: serere della vulgata, dato che per giustificarlo si soffermano sulla tecnica di consultazione delle sortes. Ma ciò avviene perché poche pagine prima hanno già manifestato inequivocabilmente il loro pensiero: «à la racine de sero se rattache sans doute sors».54 * Vengo ora alla parte propositiva del mio intervento, concernente il nome del dio ±ur/±uri e, da ultimo, la sua interpretatio Greca come un Apollo (non delfico). Consideriamo anzitutto il nome. Finora non ne è stata tentata alcuna ricerca etimologica, ma fortunatamente esiste, e va esperita, una concreta possibilità di accertarla. Si è detto del gentilizio perugino Surte, derivato dalla variante Sur del teonimo (ortografia settentrionale), attestata in età arcaica a Orvieto nel santuario del Belvedere. Una pic49 STEINBAUER 2004, p. 107, § 2. 50 Cfr. COLONNA 1991 a, p. 886 sg., nota 3 (= COLONNA 2005 a, p. 2043); BENELLI 2007, p. 30 sg. 51 Rinvio a COLONNA 1996 b, pp. 174 sgg., 182-184 (= COLONNA 2005 a, pp. 2098 sgg., 2108-2110); COLONNA 1997, pp. 170-173 (= COLONNA 2005 a, pp. 2116-2122). 52 Rispettivamente REE 1991, n. 2 e REE 2003, n. 24, che è un’anfora vinaria. 53 Su cui ora SANNIBALE 2007, pp. 133-145. Si noti che l’area sacra a ±uri cui è ipoteticamente riferibile il terminus tarquiniese sopra citato (nota 44)(CATALDI 1994, tav. I, A) non è lontana dal luogo di ritrovamento di una notissima dedica a Thufltha (Ta 3.6)(Arezzo 1985, carta a p. 71 in alto, n. 3; CATALDI 1994, tav. i, 4). 54 ERNOUT-MEILLET 1959, p. 619, s.v. 2. sero. Cfr. anche WALDE-HOFMANN 1954, p. 563 sg.; LEUMANN 1963, p. 64, § 33, nonché, a proposito del termine falisco sorex, PERUZZI 1963, p. 437 sg.; HACK 2006 a, p. 42 sg.

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cola tomba a camera scavata a mo’ di grotta nel masso, rinvenuta a Perugia nel 1921 in loc. Monteluce,55 ci ha conservato la documentazione del gentilizio latino Sortes, ignoto a tutto il resto dell’Italia e del mondo romano, evidente traslitterazione, adattata nella morfologia ai nomi latini in -es,56 del gentilizio etrusco in questione,57 come è stato riconosciuto fin dal primo momento da tutti i commentatori. La scoperta meriterebbe un’analisi approfondita, che finora è mancata (come per la maggior parte dei contesti tombali perugini) e che in questa sede può essere solo abbozzata. La tomba conteneva otto urne cinerarie di travertino,58 la più antica delle quali, spettante verosimilmente al fondatore della tomba ma purtroppo anepigrafe (come lo sono più di una volta, e non solo a Perugia,59 le sepolture iniziali delle tombe gentilizie di età ellenistica), ha la forma di una piccola cassa lignea dotata di peducci e, particolare importante, di specchiature assai strette su tutte e tre le facce che erano in vista.60 È questa una tipologia nota a Perugia, per quanto conosco, solo dal sarcofago di arenaria anepigrafe della tomba iii dello Sperandio, che il ricco corredo acceduto al Museo Archeologico di Firenze data alla fine del iv-inizio iii sec. a.C.,61 mentre a Chiusi è ben documentata da sarcofagi e urne, che scendono fin verso la metà del iii secolo.62 Sia o no un’importazione da Chiusi, l’urna non dovrebbe essere posteriore a questa data: si tratterà di un manufatto eccezionalmente conservato per almeno un secolo prima di essere utilizzato (o riutilizzato) nella tomba in cui è stato rinvenuto. Il che fa pensare che provenga da una precedente tomba della famiglia, anteriore alla latinizzazione del gentilizio e all’acquisto, verosimilmente ad essa connesso, della cittadinanza romana, avvenuto quasi certamente prima, anche se di poco, del 90 a.C. Le altre urne, tutte iscritte (ma in una l’iscrizione, dipinta, non è leggibile),63 sono del tipo a cassa liscia, normale a Perugia, o, in due casi, assai sobriamente decorata con motivi ornamentali. In una di queste ultime il coperchio a doppio spiovente disposto di traverso rispetto alla fronte richiama nuovamente una tipologia estranea a Perugia e invece normale a Chiusi per le urne con coperchio non figurato.64 Le sei iscrizioni leggibili sono tutte latine e pertinenti a personaggi maschili,65 dei quali tre si fregiano del gentilizio Sortes, uno, imparentato coi primi, del gentilizio Nigidius, mentre i restanti due, un Aufidius e un Quintius, sono degli estranei, la cui presenza nella tomba, accompagnata dalla menzione della tribù – la locale Tromentina – , è probabilmente successiva all’estinzione o all’esilio dei Sortes/Nigidii (eventi connessi, come tutto lascia credere, al bellum Perusinum del 41-40 a.C.). I tre Sortes – due ingenui e un li55 PAOLETTI 1926, da cui dipende BUONAMICI 1927, pp. 516-518; SHAW 1939, p. 92 sg.; BRATTI 2007, pp. 174-176, n. 77, con bibl. La volta crollata ha fatto parlare di “fossa”, le tegole rinvenute saranno da riferire alla chiusura della porta d’ingresso. Notevole l’asserita assenza totale di corredo. 56 KAIMIO 1975, p. 149 sg. 57 Attestato come cognome (Pe 1.918, 1232) e come gamonimico (Pe 1.597, 783, 1196). Derivato da Sortes è il gentilizio Sortius/Surtius, presente a Perugia (REE 1970, n. 29) e più tardi ad Aquileia (CIL v, 1394). 58 Oltre a un blocco con incavo per le ceneri di un nono defunto. Le urne sono conservate ed esposte nel Museo Archeologico di Perugia, inv. 352-359 (SAIONI 2003, p. 9, inv. 352-359; CIPOLLONE 2004, pp. 57-59, nn. 199206, con foto di ognuna). 59 Dove il caso limite, ma tutt’altro che isolato, è quello della tomba dei Cutu (FERUGLIO 2002, p. 477). 60 CIPOLLONE 2004, p. 58, n. 199; BRATTI 2007, p. 175, lett. a. 61 MORETTI 1900, fig. 3; PAOLETTI 1923, pp. 46-49; HERBIG, Sark, p. 100, fig. 7; BRATTI 2007, pp. 129-131, con bibl. (aggiungi COEN 1999, p. 124 sg.). 62 THIMME 1954, p. 101, figg. 1 e 57; Artigianato Artistico, p. 47, n. 21; COLONNA 1993, pp. 345, nota 42, e 363 (= COLONNA 2005 a, pp. 1375 e 1390). 63 CIPOLLONE 2994, p. 59, n. 206 (l’iscrizione sarebbe etrusca). 64 Come rilevava già DAREGGI 1972, p. 16, nota 24. 65 DEGRASSI, illrp , n. 814; REE 1980, nn. 84-87, tav. lxxxix sg. (M.Stoppini); CIL I, 2, 4 (1986), p. 1076, nn. 2637-2642.

l ’ apollo di pyrgi, ®ur/®uri (il “ nero ” ) e l ’ apollo sourios 895 berto – appartengono alla stessa generazione, vissuta nei primi decenni del i sec. a.C. Sono: 1. L.Sortes D.f. Nic(er), sepolto nell’urna più grande e di lavoro più accurato, decorata sulla cassa con uno stretto fregio di patere alternativamente includenti un rosone, divise da schematici simpuvia diritti; 2. A.Sortes D.f. Fast(ia) Cea(r)t(ia) [natus],66 fratello (minore?) del precedente, sepolto in un’urna disadorna e di rozzo lavoro; 3. D.Sortes L.l. Dionisius, un liberto di L.Sortes D.f. che ha assunto il prenome non del patrono ma, come talora avviene in età repubblicana, del padre di lui,67 sepolto nell’urna conformata a cofanetto ligneo, mentre la sua è un’urna non solo disadorna ma vistosamente più piccola di tutte le altre.68 Ad essi fa seguito un personaggio, appartenente alla generazione vissuta nel secondo venticinquennio e alla metà del i sec.a.C.: 4. L.Nigidius L.f. Sors, scriba degli edili curuli del municipio, figlio del L.Sortes n. 1. È sua l’urna dal coperchio sopra citato di tipo chiusino e dalla cassa decorata con due rosoni a stella inquadranti la menzione della carica, isolata al centro del campo. Lo stemma della famiglia può essere così ricostruito (i nomi attestati indirettamente sono preceduti da asterisco e, se in etrusco, sottolineati, le datazioni sono molto approssimative): i ii iii iv

*L¯.(?) Surte  *D. Sortes L. (?) f. ~ *Fasti Cearthi  L. Sortes D. f. Nic(er) A. Sortes D. f. D. Sortes L .l. Dionisius  L. Nigidius L. f. Sors

160-130 a.C. 130-100 a.C. 100-70 a.C. 70-40 a.C.

È merito di Emil Vetter avere intuito, riscuotendo largo consenso, che il gentilizio Nigidius – di cui questa è l’unica occorrenza epigrafica di età repubblicana, da affiancare ai nomi del C.Nigidius, pretore intorno al 145 a.C., e del filosofo e scienziato P.Nigidius Figulus, amico di Cicerone, pretore nel 58 a.C.69 – non è altro che la ‘traduzione’ di etr. Surte,70 come Scribonius lo è di etr. Zicu in una celebre bilingue chiusina. Il nome etrusco, benché latinizzato da due generazioni nella forma Sortes, conservava evidentemente per i suoi portatori un significato trasparente, come poteva intuirsi già dal cognome Nic(er) portato dal padre di L.Nigidius.71 Ne consegue che, se sur-te corrisponde lessicalmente a *nig-ido-,72 da cui il gent. Nigidius, *s/®ur- corrisponderà a *nigo-, ossia al tema da cui è derivato, grazie al suffisso -ro-, il lat. niger.73 Il che rende praticamente certo che 66 Le integrazioni del gentilizio sono della Paoletti, corrette arbitrariamente da tutti, a partire da VETTER 1927, p. 227, in cnat(us). Il corrispondente gentilizio etrusco è attestato con la -e- solo a Perugia, altrove si ha Ciarıi (e già nel vii secolo s’incontra a Vulci l’idionimo Ciaruı), latinizzato in Ciartus (v. REE 1974, n. 242 sg.). Per i matronimici in ablativo con ellissi di (g)natus v. GASPERINI 1989, p. 188, tipo 3: la menzione anche del prenome materno è attestata non solo a Chiusi (ibidem, p. 193 sgg., nn. 10, 71, 81), ma anche a Perugia (FERUGLIO 2002, pp. 479 e 486, n. 52). 67 Cfr. VITUCCI 1957, p. 911. 68 Il che esclude che sia stato il padre dei due fratelli, come generalmente si è pensato, facendone addirittura il fondatore della tomba. 69 HARRIS 1971, p. 321 (sulla città d’origine di Figulus v. infra, nota 76). 70 VETTER, HdbItDial, p. 274 sg., n. 239a 2; Rix, Cognomen, pp. 47, nota 60, e 227; HARRIS 1971, p. 321 sg.; KAIMIO 1975, p. 181. 71 Cognome portato in Etruria nel i sec.a.C. solo da uno degli ultimi Lecne dei dintorni di Montepulciano, che latinizza il gentilizio in Licinius, sostituendo al prenome Vel l’altrettanto banale Gaius (AS 1.325; BENELLI 1994, p. 17 sg., n. 5). 72 La sostituzione di etr. -t/ıe con lat. -ido- non sorprende, dato il frequente ricorso a quel suffisso per gli aggettivi denotanti i colori (LEUMANN 1963, p. 225, § 172, X A 1b). 73 Invece Vetter e Rix (supra, nota 64), non conoscendo l’esistenza del teonimo etrusco, hanno messo in rapporto surte con got. swarts, ted.”schwarz”, lat. sordus (i.-e. *suord-: WALDE-HOFMANN 1954, p. 562 sg.), ipotiz-

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a *s/®ur- competa lo stesso campo semantico dell’aggettivo latino, la differenza tra *nigus- e niger concernendo solo il grado di luminosità e di brillantezza del colore. È noto infatti che nel sistema denominativo dei colori, comune al latino e all’umbro, è discriminante almeno fin verso il 100 a.C. l’opposizione lucido/opaco,74 affidata, almeno nel caso del nero e del rosso, alla presenza/assenza del suffisso -ro-.75 Nella fattispecie, poiché niger prima di Lucrezio è solo il nero lucido, *nigus sarà il nero opaco,76 in concorrenza con l’assai più comune ater, che propriamente è il nerofumo. Aggiungo che nella Perugia della fine della Repubblica, sia stata o no la patria del senatore P.Nigidius Figulus77 – uomo tra i più dotti del suo tempo, che leggeva l’etrusco ed era particolarmente esperto di divinazione78 – , si era con ogni probabilità ancora consapevoli, a livello colto, sia dell’etimologia del gentilizio Surte, sia delle competenze oracolari che al dio eponimo erano state attribuite. Un forte indizio in tal senso è offerto nella stessa tomba dal cognome assunto, al posto del Niger paterno, dallo scriba L.Nigidius: Sors, del tutto inusuale e privo di confronti nel pur vastissimo repertorio offerto dall’onomastica latina.79 Credo infatti che in esso sia da vedere non una meccanica retrofomazione dal gentilizio Sortes, gen. Sortis, come si è pensato, ma una voluta ‘citazione’ dell’appellativo sors, gen. sortis, richiamante lo speciale rapporto con la cleromanzia intrattenuto dal dio della gens.80 Rapporto che potrebbe avere già in precedenza motivato l’adozione da parte del supposto fondatore della tomba, come si è visto, del tipo di urna cineraria, eccezionale per Perugia, che meglio di ogni altro poteva evocare l’arca, ossia il repositorio per le sorti più comune nell’Italia antica.81 Se quanto si è detto sulla parentela dei nomi Surte/Sortes/Nigidius coglie nel segno, si guadagna al lessico etrusco un aggettivo / šur / significante “nero” (verosimilmente nero opaco), di cui il teonimo S/±ur non è che la sostantivazione conseguente al suo impiego come epiteto (il dio “Nero”),82 generatrice di molti derivati onomastici, come si è visto nella prima parte di questo contributo. Quanto alla forma S/±uri del teonimo, credo che alla sua base sia lo stesso aggettivo / šur/, ma in questo caso sostantivato metaforicamente come toponimo (“il [luogo] Nero”, quale per gli Antichi era per antonomasia l’Oltretomba). S/±uri sarà allora un derivato (aggettivale) in -i (“quello del

zando che il gentilizio riproduca un aggettivo umbro *sordo- significante “nero“, di cui peraltro manca qualsiasi attestazione (a differenza di adro, peio e niru: ANCILLOTTI, CERRI 1996, p. 94 sg.). L’assenza è confermata per l’intero dominio linguistico osco-umbro da UNTERMANN 2000 (anche se per l’ambito sabino e sannita si potrebbe citare l’idronimo Sordo, presente presso Norcia e presso Isernia). 74 ANDRÉ 1949 è il lavoro di base, integrato da BARAN 1983. Cfr. anche MASELLI 1987 e, importante per l’umbro, ANCILLOTTI, CERRI 1996, pp. 93-95. 75 Cfr. l’opposizione nel latino tra robus/rufus e ruber/rufrus, nell’umbro tra rofu e rufru. 76 Con un’opposizione di segno opposto a quella vigente per il rosso secondo ANCILLOTTI, CERRI 1996, l.c. (ma rubidus, formato come *nigidus, è un rosso scuro ed opaco, teste GELL. ii, 26, 14, e rufus è il rosso dei capelli e della pelle, che difficilmente può dirsi lucido). 77 A favore dell’origine perugina, o comunque etrusca, sono da ultimi HARRIS 1971, p. 371 sg.; ZECCHINI 1998, p. 244; FIRPO 1998, p. 265 sg., nota 45; CAMODECA 1982, p. 126; Mac INTOSH TURFA 2006, p. 174 sg., con bibl. Contro: TORELLI 1982, p. 278. 78 Come provano i suoi libri de extis, de augurio privato e de somniis, oltre a quelli di astrologia (PASCUCCI 1987, SCHMIDT 2006), nonché gli aneddoti narrati da SUET. Aug., 94, e da AUGUST. de civ. Dei, V. 3. 79 Se prescindiamo dalla personificazione in MART.Cap. i, 88 (come omnium garrula puellarum, equiparata a Nemesi, Fortuna e Nortia). 80 Un cognome quindi della categoria assai comune dei nomi di oggetti inanimati (KAJANTO 1965, pp. 90 sg., 341-348), nella fattispecie di un oggetto d’instrumentum. 81 KRAUSKOPF 2005, pp. 413-415, nn. 1659-1661. 82 Su cui si è soffermato per l’etrusco De SIMONE 1997, p. 188, con esempi a p. 207, tipo v (ma Cavuıas se¯is a mio avviso va col tipo iii a).

l ’ apollo di pyrgi, ®ur/®uri (il “ nero ” ) e l ’ apollo sourios 897 Nero”),83 come lautni lo è di lautn (cfr. il sintagma ®uıi lavtni di Ta.1.182), eteri di *eter (cfr. etera),84 ®uıi della radice verbale ®uı-.85 Oppure, con minore probabilità, sarà un’ipostasi ellittica (“quello [che è] nel Nero”, come noi potremmo dire di un astronauta “quello [che è] nell’Azzurro”), con -i morfo di locativo.86 La duplice accezione di S/±ur, come teonimo e come nome di luogo, non può sorprendere, essendo normale in greco fin dall’Iliade per ≠Aȉ˘,87 in latino fin da Ennio per Orcus e (dii) Inferi.88 Poiché, come tutto lascia credere, S/±ur, S/±uri e lo stesso Soranus sono epiteti sostantivati, dietro di essi si nasconderà un diverso nome divino, ovviamente più antico. Questo nome non è Calu/Calus, come pure si potrebbe pensare,89 ma Manth. Infatti Soranus era considerato da Servio un epiteto del latino Dis pater,90 che a sua volta veniva identificato con un dio etrusco dal nome reso latinamente come Mantus.91 Il recupero della forma etrusca del teonimo è consentito dalla recente scoperta della sua prima occorrenza epigrafica, databile all’inizio del v secolo, avvenuta a Pontecagnano, e proprio in un santuario di Apollo (!) (REE 1999, n. 33). Il nome era comunque già eruibile da: 1. alcuni gentilizi teoforici latini, rinvianti non a *Mantu- ma a Mant/ı-;92 2. il gentilizio Manıvate chiusino e perugino, coincidente con l’etnico di *Manı-va, lat. Mantua; 3. l’epiteto sostantivato *Manı-ra di un ignoto dio ‘minore’, reso in latino con Manturna e a Cortona nella forma umbrizzata Mantr(a)n®, dal quale a loro volta sono derivati il gentilizio arcaico Manıureie di S.Giuliano nell’agro tarquiniese e il poleonimo alto-medievale Manturanum nell’agro cerite (Monterano diruto presso Manziana).93 Possiamo pertanto essere certi che è Manı il teonimo di riferimento di S/±ur, S/±uri e Soranus, epiteti che con esso hanno coesistito da antichissima data, come dimostrano i tanti derivati passati in rassegna nella prima parte del contributo, fino a che nell’Etruria meridionale non hanno finito col prenderne definitivamente il posto. Il che sembra essere avvenuto alla fine del vi secolo, a giudicare dai nomi di insediamenti etruschi che solo allora sono nati 83 Da affiancare all’aggettivo *sur-va, eruibile dal locativo surve (i (COLONNA 1985b, p. 158), la famiglia onomastica si arricchirebbe del gentilizio tardo-arcaico Ritumena (ET Vs 1.47) e del recente Ritna (a Orvieto stessa e altrove), allora da separare dal rito riına della Tabula Capuana (CRISTOFANI 1995, p. 82 sg.). 49 SCHUMACHER 1992, p. 133, Sz 5 (reitu ®nu o, forse meglio, reitu®nu). 50 COLONNA 1993, pp. 343-347. Cfr. CRISTOFANI 2000, p. 408 sg. 51 Non è stata pubblicata finora una planimetria dell’intero centro urbano. Occorre rifarsi alla cartina di MENGARELLI 1936, p. 68, fig. 1; a quella di MOSCATI 1986, p. 30, fig. 5; e alla planimetria parziale di CRISTOFANI 1988, p. 89. 52 MENGARELLI 1936; NARDI 1989, pp. 52-54, n. 1. Il Mengarelli non potè sondare, come avrebbe voluto, la corrispondente parte del pianoro, dove riteneva che sorgesse il tempio, perché vi si trovava allora la vigna vecchia, assai cara al Parroco (e l’idea che non ne potevano rimanere resti di sorta, con cui cercò di consolarsi, ricorda la favola esopica della volpe e dell’uva, quanto mai adatta al caso).

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Fig. 12. Caere, piattelli Genucilia sacri a HÚ·.

del vi secolo all’età romana, tra le quali spiccano alcune splendide pitture parietali di stile ionizzante dipinte eccezionalmente su lastre fittili a forma di tegola,53 ma anche terrecotte votive e ceramiche. Tra queste attirò particolarmente l’attenzione un notevole numero di coppette a vernice nera, databili tra la fine del iv e i primi decenni del iii secolo, recanti suddipinto il nome HÚ·, solo in pochi casi abbreviato (HÚ o H), oltre a un piattello Genucilia recante dipinto sul labbro lo stesso teonimo e ad alcune olle grezze con resti del teonimo pure sul labbro, ma in questo caso graffito. È un’imponente concentrazione di testimonianze epigrafiche greche – seconda nell’Italia centrale soltanto a Gravisca – , cui si sono aggiunti una coppetta a vernice nera dal santuario del Manganello, altre due da tombe diverse della Banditaccia e tre piattelli Genucilia in collezione privata, forse anch’essi da tombe (Fig. 12), per un totale di venticinque vasi, iscritti tutti col solo teonimo che, almeno nei ventuno casi in cui non compare abbreviato, è sempre in caso zero.54 Si tratta, nel caso delle coppette e dei piattelli, di ceramiche assimilabili ai pocola deorum iscritti in latino o in etrusco,55 prodotti e messi in circolazione dallo stesso santuario in cui se ne è rinvenuto il maggior numero, dove erano offerti alla dea che evidentemente era la titolare del culto, ma utilizzabili e di fatto utilizzati anche in altri santuari o per forme di culto privato, sia domestico che funerario, come provano le provenienze da tombe (denotanti tra l’altro l’assimilazione della dea a una virgiliana Iuno inferna).56 Invece le olle grezze, cui nei luoghi di culto competevano funzioni non votive ma di servizio per l’alimentazione e i sacrifici (gli exta aulicocta), sono da ritenersi iscritte per significarne l’appartenenza al dio del santuario in cui sono state rinvenute.57 L’uso del 53 RONCALLI 1965, pp. 33-37, 82-84, 95 (540-520 a.C.). 54 Rinvio per tutta la documentazione, lo stato della questione e la bibliografia all’esauriente contributo di M.Donatella Gentili in questo stesso volume, che ho potuto leggere in anticipo grazie alla cortesia dell’Autrice. Contributo che in gran parte condivido, a cominciare dalla confutazione della teoria del Cristofani che, partendo dal preconcetto di una necessaria formulazione delle iscrizioni al dativo o al genitivo, ha escluso il nome di Hera sostituendolo con quello di Eracle abbreviato. 55 COLONNA 1994, pp. 137-139, cui si aggiungono quelli in greco da Pontecagnano (nota 59). Da ultimo, in generale, MARAS 2000, pp. 133-135. 56 Confermata dalla dedica ionica HÚ˘ di Vulci (REE 1984, n. 84), se proveniente da una tomba. 57 Come nel caso dell’olla col teonimo Vei dal santuario Sud della stessa Vigna Parrocchiale, sopra ricordata. Cfr. a Roma COLONNA 1981b, p. 56 sgg, nn. 12, 17; Falzone 2000, pp. 187, 194; a Volterra REE 1989, n. 2 (M.Bonamici), ecc. L’uso del greco è confermato alla Vigna Parrocchiale dalla lettera ¢, graffita “su un fondo di vaso di terracotta rossa”, probabilmente di un’olla (MENGARELLI 1937, pp. 431, 435, n. 134).

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greco pone un problema, risolto per lo più con l’ipotesi di frequentatori occasionali o di residenti greci che l’avrebbero richiesto, come io stesso in passato ho creduto.58 Ma, a parte il fatto che di una loro presenza nella Caere del tempo continua a essere difficile trovare traccia, come si vedrà, la frequenza, anzi addirittura l’esclusività della lingua straniera sia sui pocola che sulle olle di servizio fa pensare che a parlare greco erano gli addetti al culto della dea, invece dei fedeli che a lei si rivolgevano.59 Che la Hera dell’area Nord della Vigna Parrocchiale sia un’ipostasi di Uni lo si può arguire dall’unica iscrizione etrusca concernente la dea rinvenuta in quel santuario, graffita – si direbbe a mo’ di didascalia per una figurazione dipinta – su un frammento di “grossa lastra fittile”, che sarebbe interessante ritrovare. Ne resta solo la finale [- - -] Xia, in cui riconosciamo lo stesso epiteto che accompagna il nome di Uni nella tabella bronzea rinvenuta assieme alle Lamine di Pyrgi e ad esse coeva, riferibile all’Area C di quel santuario, sede di un culto manifestamente catactonio.60 Nella tabella la dea ha un compagno, un Tina dai molti epiteti, con ogni probabilità presente anche nel santuario cerite di cui si discorre, ma in posizione subordinata.61 A Pyrgi Uni Chia è chiaramente la preesistente dea indigena, cui è venuta ad affiancarsi, relegandola in secondo piano, la Uni-Astarte venerata nel contiguo tempio B. A Caere si direbbe che la medesima, appena afferrabile Uni Chia sia stata affiancata e ‘oscurata’, in un contesto cronologico e politico profondamente diverso, da una Hera che ha portato con sé la lingua e verosimilmente il rito greco, ereditando dalla dea etrusca la prestigiosa collocazione al centro della città, inattesa per una divinità forestiera,62 e forse anche il lato infero che si è aggiunto alla sua personalità. Quando, come e perché ciò sia avvenuto non possiamo saperlo con sicurezza, almeno con i dati per ora disponibili. Certamente l’‘arrivo’ di Hera è avvenuto non più tardi della fine del iv secolo, e forse proprio allora, a partire da un ambito dialettale dorico, che è arduo localizzare in base a questa sola constatazione. Il quadro storico tuttavia privilegia nettamente la Sicilia rispetto alle altre provenienze che ho avuto occasione di proporre.63 Milita in favore dell’isola la coincidenza cronologica di quell’evento con la cessazione della lunga, tradizionale ostilità che aveva contrapposto Siracusani ed Etruschi, culminata nel 384 a.C. con l’attacco di Dionigi il Vecchio a Caere e il saccheggio di Pyrgi. Alla fine del secolo la situazione è praticamente rovesciata. Sappiamo infatti che nel 307 a.C. una squadra etrusca di ben diciotto navi da guerra64 accorse in aiuto di Siracusa, che i Cartaginesi assediavano dal mare con trenta navi, ed ebbe un ruolo decisivo, assieme alle diciassette di Agatocle, nella sconfitta degli assedianti e nello sblocco della città.65 L’intervento militare presuppone una precedente alleanza, stretta all’inizio delle ostilità, nel 312 o al più tardi nel 310, quando Agatocle decise di attaccare Cartagine in Africa, sfidandone la flotta nonostante l’inferiorità della marina siracusana.66 58 Ma già in COLONNA 1985a, p. 77, nota 67, scrivevo «più un culto ‘greco’ che frequentatori realmente greci». 59 Come nel caso dei pocola con la scritta AÔÏ(ÏÔÓ) dal santuario di via Verdi di Pontecagnano (ibid.). 60 COLONNA 2000, p. 300. 61 Lo provano i graffiti votivi, sempre su coppette a vernice nera, Apas (MENGARELLI 1937, p. 393, n. 45; ET Cr 2.137) e Pa(pas)(ibid., pp. 431, 435, n. 136), noti entrambi già nell’area Sud di Pyrgi, oltre che, il primo, nell’area Sud della stessa Vigna Parrocchiale. 62 Vedi tuttavia ZIOLKOWSKI 1992, p. 275 sgg. 63 Sicilia: COLONNA 1981a, p. 183, nota 106. Area italiota: COLONNA 1965, p. 172, nota 19; COLONNA 1988-1989, p. 46. Campania: COLONNA 1997b. Si noti che anche il Lazio, a giudicare dalle terrecotte di Ardea e del Casaletto di Ariccia, si aprì allora a nuovi contatti con la Sicilia (COLONNA 1995, pp. 2, 52, nota 4; Zevi 1999, p. 322, nota 20). 64 Non tre come quelle inviate contro Siracusa nel 413 a.C. (TORELLI 1975, p. 59 sgg.). 65 Diod. xx, 61, 6-8. Cfr. CONSOLO LANGHER 1982, pp. 330-333, che pensa ragionevolmente a un ruolo importante avuto dalla flotta etrusca anche nel successivo traferimento delle ostilità nella provincia cartaginese di Sicilia. 66 Sono gli anni in cui si colgono a Roma i primi segni di una politica di espansione marittima deduzione di una colonia latina nell’isola di Ponza nel 313 a.C., potenziamento della marina con l’istituzione nel 311 dei

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Quali fossero le città etrusche in grado di allestire navi da guerra e di soccorrere Agatocle contro Cartagine, non ci viene detto: contro l’opinione tradizionale, che chiamava in causa Caere e Tarquinia,67 il Mazzarino nel 1947 parlò di Populonia, Vetulonia e Roselle, opinione alla quale io stesso ho aderito, limitatamente a Populonia, adducendo i crescenti interessi cartaginesi verso la Corsica, che minacciavano la città, ma anche ricordando il ruolo dominante, rivelato dai dati archeologici, avuto nei traffici marittimi, e non solo tirrenici, dalla Caere dell’epoca, in stretta simbiosi con Populonia.68 Mi domando oggi se la città, benché entrata da tempo nell’orbita romana, non abbia ugualmente partecipato alla spedizione, e con un ruolo non secondario, col tacito assenso di una Roma che, pur impegnata nel conflitto coi Sanniti e con gli Etruschi delle città dell’interno, non poteva non essere preoccupata dell’eccessivo potere che l’alleata Cartagine si avviava a conquistare nell’isola, e di conseguenza sul basso Tirreno e sullo Stretto.69 In ogni caso non vedrei occasione migliore di questa per l’introduzione a Caere del culto di Hera, anche se le circostanze e le motivazioni che stanno dietro a tale evento sono destinate a restare per noi del tutto ignote.70 Hera non contava tra le divinità più venerate a Siracusa71 e nel resto della Sicilia, ma era forse quella che ai Ceriti appariva come la più vicina alla loro Uni Chia e dalla quale probabilmente ritenevano di avere ricevuto un qualche speciale favore. Per una retta valutazione dei fatti sopra esposti è bene tener presente che nella zona centrale dell’antica Caere esistevano templi anche immediatamente fuori della Vigna Parrocchiale, nelle contigue Vigna Ramella a est, dove in età romana sorgerà l’anfiteatro, e nella già ricordata Vigna Marini-Vitalini a sud del teatro, nota per i ritrovamenti ottocenteschi. Non conosciamo le divinità in essi venerate, ma nel caso della Vigna Marini-Vitalini uno spiraglio di luce potrebbe venire dal ritrovamento di un pocolom in latino col nome di Venere.72 Il che riporta a Turan o meglio, tenuto conto delle forti affinità, sia tematiche che stilistiche, rilevate tra le terrecotte del tempio e quelle del tempio B di Pyrgi,73 alla Uni-Astarte colà venerata, introdotta da Thefarie Velianas. La dea infatti nel iv secolo, a giudicare dalle antefisse che la raffigurano affiancata da un giovane nudo, parzialmente sostituite a quelle dell’edificio delle venti celle, e anche da un resto di altorilievo coevo attribuibile al tempio,74 sembra avere assunto, com’era da prevedersi, i connotati per l’appunto di una Turan-Afrodite. * Se ci si volge a considerare le testimonianze epigrafiche di greci o di oriundi greci, restituite dall’immensa necropoli cerite, non si può non constatare che il loro numero è assai inferiore alle aspettative. Le uniche testimonianze dirette, ossia scritte in greco, duoviri navales, tentativo mal riuscito di un attacco dal mare contro i Sanniti di Nuceria nel 310 (Liv. ix, 28, 6; 30, 4: 38, 2-3). 67 Così ancora in Pareti 1959, p. 229; Humbert 1978, p. 301, nota 60. 68 COLONNA 1981a, pp. 181-183 (e la replica a p, 191). 69 Non a caso Cartagine si affretta nel 306 a.C., subito dopo la pace con Siracusa, a rinegoziare la propria alleanza con Roma, mentre Agatocle da parte sua non tarda ad assalire Lipari nel 304 (con l’aiuto delle navi etrusche?). 70 A differenza, per fare un esempio, di quelle retrostanti alla introduzione a Cartagine nel 396 a.C. del culto greco di Demetra e Persefone (Diod., xiv, 77, 5: cfr. WARMINGTON 1968, p. 129 sg.). 71 DUNBABIN 1948, p. 177; Gras 1990, p. 63, nota 27. 72 MENGARELLI 1937, p. 298, n. 58; COLONNA 1968, p. 452 sg. Secondo NARDI 1989, p. 62, nota 48, Mengarelli si sarebbe sbagliato e il ritrovamento sarebbe avvenuto in tutt’altra zona (il Vigneto Pescini, a poco meno di un km a NE). 73 Da ultimo CRISTOFANI 2000, pp. 399-404. 74 COLONNA 2000, pp. 283 e 294.

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sono le firme dipinte di due ceramisti, attivi a distanza di più di tre secoli l’uno dall’altro, e di statura ben diversa: il celebre Aristonothos, sul quale non mi soffermo,75 e un Apol(lonios) o Apol(lodoros), che ha lasciato il suo nome sotto il piede di un’oinochoe a figure rosse del 325 circa a.C. di fabbrica locale (Fig. 13), abbreviato come nel caso del Sokra(tes) di Falerii,76 artigiano ancor più modesto di lui. Quanto ai nomi di greci etruschizzati, ne conosciamo assai pochi (né mai si registra il caso eccezionale dell’attestazione in Etruria Fig. 13. Caere, firma di AÔÏ(---) anche del precedente nome greco, come su oinochoe cerite a figure rosse. per il Teace di un’anfora massaliota da Populonia di tardo v secolo).77 Per l’età arcaica, messo da parte il gentilizio Apiqu, il cui eventuale rapporto con gr. ¿ÔÎÔ˜ passa attraverso il lat. apicus,78 non resta che Telicle (< T‹ÏÂÎÏÔ˜ o TËÏÂÎÏɘ), da me segnalato già alla fine degli anni ’60, incontrando un quasi generale consenso.79 Il nome, portato in Grecia da personaggi anche di alto livello sociale, compare nell’iscrizione di possesso mi Larıaia Telicles le¯tumuza, apposta su un aryballos di bucchero della metà circa del vii secolo, già in possesso di L.Pollak, prodotto e iscritto probabilmente a Caere ma di provenienza ignota.80 Alla consolidata interpretazione, che vedeva in Telicles il gentilizio di Larthai, ereditato dal padre e formalmente identico al suo nome individuale81, si è voluto di recente sostituirne un’altra, che vede in esso il patronimico della donna,82 dimenticando sia che il patronimico nell’etrusco arcaico era espresso di norma in forma aggettivale (il ricorso al nome paterno in genitivo rappresentando, assieme all’ancor più raro metronimico, l’eccezione, motivata da esigenze di celebrazione/autocelebrazione o di distinzione anagrafica, manifestamente assenti nel nostro caso),83 sia che i gentilizi delle donne in etrusco, lingua che in linea di principio non usa il genere grammaticale, possono risultare privi del suffisso di mozione, soprattutto in età

75 MARTELLi 1987b, pp. 18, 263-265. n. 40. 76 CRISTOFANI 1987, p. 45, nota 7 (abbandono l’interpretazione della scritta come dedica ad Apollo, di cui al passo citato a nota 58). 77 REE 2001, n. 22 (A.Romualdi). Si tratta quasi certamente dello stesso mercante che da giovane, verso il 470-460 a.C., ha scritto o fatto scrivere a Gravisca una dedica in etrusco a Turan, aggiungendovi in greco il suo nome, ¢ÂÈ·ÎÔ˜ (CIE 10339). 78 La quantità lunga della vocale interna risulta dalla sua conservazione non solo in Apice ma anche in Apucu, che è la diretta continuazione, a Caere stessa, di Apiqu (per lo scambio -i-/-u- esempi in COLONNA 1987b, p. 59, nota 33; COLONNA 2000, p. 301, nota 197). Il nome rinvia a lat. *Apico, postulabile accanto al nome individuale *Apicus (cfr. Cato: catus), che è alla base del gent. Apicius. Diversamente De SIMONE 1970, p. 213; DE SIMONE 1978, p. 380; MARCHESINI 1997, p. 124. 79 A partire da DE SIMONE 1972, p. 508 sg., ma con le riserve di principio di Rix 1981b. 80 ET OA 2.2; BAGNASCO GIANNI 1996, p. 315, n. 313. 81 M.Cristofani, ad REE 1988, n. 19. 82 De SIMONE 1996, p. 11; MARCHESINI 1997, p. 164 (ma con riserve a p. 131). 83 Vedi la stele di Vetulonia e i pochi esempi offerti dalle iscrizioni lapidarie di Orvieto (Rix 1963, p. 193 sg.; COLONNA 1976, p. 22, nota 55), cui se ne aggiunge uno da Tarquinia, nell’affollata tomba delle Iscrizioni (ET Ta 7.24). Tra le iscrizioni strumentali si registra solo il caso del Larth Velthurus che ha siglato uno degli argenti della Regolini-Galassi, personaggio di rango principesco, se non regale (REE 2001, n. 29). Ovviamente da tenere a parte sono i patronimici in -®/sa di v secolo della Campania (Rix 1972, p. 746 sg.).

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arcaica e soprattutto a Caere.84 Continuo pertanto a ritenere che Telicle sia stato accolto nella cittadinanza cerite e abbia assunto il proprio nome come gentilizio, trasmettendolo alla figlia, o nipote che sia, Larthai Telicles, alla pari del coevo Tipe (T›‚ÂÈÔ˜) a Veio (vedi la donna Raqunthi Tipei) e del poco più recente Hipucrate a Tarquinia (vedi il citatissimo Rutile Hipucrates).85 Siamo nell’ambito degli arrivi ‘demaratei’, cui è seguita una rapida integrazione nel corpo civico, anche se non fino al livello dei massimi onori, come semFig. 14. Caere, iscrizioni funerarie di bra potersi dedurre dalla vicenda di Rantha Pri[cni] e di Uvie Crucra (CIE 6184-6185). Demarato: ma ciò è ben comprensibile in comunità precocemente strutturate e gerarchizzate come erano le grandi città etrusche dell’epoca. Assai di più possiamo dire della ‘biografia’ di un greco che ha scelto di diventare cerite in età più recente e che finora è del tutto sfuggito all’attenzione degli studiosi. Mi riferisco all’antenato dell’Uvie Crucra, titolare di una tomba a camera di media grandezza nel Nuovo Recinto della Banditaccia, affacciata sulla via delle Serpi a ridosso del tumulo Maroi.86 Tomba che, per essere dotata di ‘caditoia’, di un largo columen rilevato tra spioventi lisci e di sepolture su banchina continua, senza ricorso a loculi parietali,87 sembra rientrare nel i tipo della classificazione delle tombe ‘recenti’ operata da M.Cristofani, tipo che non dovrebbe scendere con le sue attestazioni più tarde oltre i primi decenni o la metà del iv secolo.88 Il Crucra, sepolto accanto alla moglie Rantha (sic) Pri[cni], il cui nome è stato dipinto più in alto del suo e forse prima di esso (Fig. 14), ha un gentilizio di tipo patronimico, formato, come nel caso di Carucra, col suffisso -ra e ugualmente in età anteriore alla sincope: la base in questo caso dovrebbe essere il nome Crucu, attestato più tardi come cognome ad Arezzo.89 Si tratta dell’adattamento in etrusco del raro nome greco KÚfiΈÓ, portato da un atleta di Eretria, vincitore a Olimpia nella corsa dei cavalli,90 e dal mitico antenato dei Krokonidai di Eleusi, addetti ai misteri (kroke era la benda di tessuto di lana degli iniziati). Naturalmente non si può escludere che alla base di Crucra stia un più banale *Cruce, rinviante a KÚfiÎÔ˜, nome personale di cui si hanno tarde attestazioni, anche in Campania,91 forse alludente non tanto alla pianta e al 84 Nell’elenco di occorrenze di gentilizi femminili, dato in MARCHESINI 1997, p. 169 sg., quelle prive di mozione sono addirittura in lieve maggioranza (nn. 8, 26. 37-38, 130-131, 140 e 157). 85 Per Tipe v. REE 2002, n. 71 (G.Colonna-A.Di Napoli), per Hipucrate EE Ta 6.1 (a favore dell’interpretazione lessicale di a¯apri v. ora Rei 1995, p. 300 sg.). 86 Tomba n. 4 sul lato sinistro (nord) della via, inedita (scavi Moretti). Cfr. CIE ad 6183-6185. 87 Come risulta dai cenni in REE 1966, p. 328 sg., nn. 3-5 (M.Cristofani). 88 CRISTOFANI 1965, pp. 18-21 (il i tipo corrisponde ai tipi 1-2 e 5-6 della classificazione di R.Mengarelli e al tipo F2 di quella di Fr.Prayon, 1975). Per la cronologia assoluta v. COLONNA 1973. Incomprensibilmente il Cristofani ha datato la tomba nella scheda della REE al iii-ii secolo, nel CIE ad età ellenistica. 89 ET Ar 1.4. Per il passaggio *crucura > crucra cfr. per es. pumpuni > pumpni. È ipotizzabile anche che il nome del *Cucrie (< *Cucra-ie), capostitipite dell’illustre gens cortonese dei Cucrina, sulla quale ha attirato l’attenzione la scoperta della Tabula Cortonensis, sia esito della dissimilazione *crucrie > *cucrie (cfr. lat. crebresco > crebesco). 80 PAUS. vi, 14, 4. La data è ignota, ma probabilmente anteriore al 490 a.C. (MORETTI 1959, p. 82, n. 177). 91 FRASER-MATTHEWS 1997, p. 260.

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profumo dello zafferano quanto al colore della sopravveste di origine dionisiaca, la crocota/corcota di Plauto e di Nevio,92 propria al loro tempo di uomini effeminati. Il personaggio in questione è arrivato a Caere (come cultore dei misteri? come mercante di tessuti o di profumi?) non dopo l’inizio del v secolo, poiché il figlio ha fatto in tempo a essere chiamato col patronimico *Crucura o *Crucera prima che intervenisse la sincope, ossia prima del volgere tra primo e secondo quarto del secolo. Una volta divenuto cittadino, il figlio ha assunto il proprio patronimico come gentilizio, fondando la gens dei Crucra, cui il Nostro appartiene probabilmente al livello della terza o quarta generazione. Non sappiamo quale prenome abbia assunto il capostipite, ma quello portato dal Nostro, Uvie, essendo come tale un hapax in Etruria, trova forse la migliore giustificazione nell’essere stato ereditato dall’avo. Si tratta di un nome italico, ben attestato nell’osco (Úvis, lat. Ovius), presente in etrusco come nome individuale già in età tardoarcaica nell’Etruria settentrionale93 e poi alla fine iv – inizio iii secolo ad Aleria,94 come gentilizio più tardi e ripetutamente a Bolsena, Chiusi e Perugia.95 Per stabilire da dove il nome sia arrivato a Caere è bene ricordare che in età tardo-arcaica se n’incontra un derivato latino a Roma, nell’area sacra di S.Omobono,96 il che depone a favore della Campania, dove più tardi è assai popolare in osco come prenome e dove è assai verosimile che il KÚfiÎˆÓ / KÚfiÎÔ˜ in questione (un cumano?) abbia imparato a frequentare gli Etruschi. Comunque l’integrazione sociale della gens nella comunità cerite è stata tale che il nostro Uvie ha potuto sposare una Pricni, donna di rango certamente elevato,97 e che una discendente di lui, Rantha (sic) Crucrai,98 ha potuto sposare nel corso del iii secolo addirittura uno dei Tarchna, gens tra le più in vista della città, dandogli almeno due figli, sepolti con lei in quello che almeno per noi è l’ultimo grande ipogeo gentilizio allestito nella necropoli cerite.99 * Vengo ora al nome etrusco di Caere, come promesso all’inizio. È ormai certo, grazie alla scoperta prima della lamina di Pyrgi con l’iscrizione semitica menzionante la città e poi della coeva stele funeraria di Saturnia col nome personale Kaiserithe, corrispondente al suo etnico,100 che il poleonimo della metropoli tirrenica alla fine del vi secolo a.C. era, tanto per gli Etruschi che l’abitavano quanto per quelli di una vicina, non meno importante città (Saturnia gravitava allora su Vulci), e per quei non Etruschi che allora intrattenevano rapporti diplomatici di alleanza coi Ceriti, Kaiseraie/Kaiserie,101 forme che presuppongono una base *Kaisera o, come vuole il de Simone, *Kaisura. Poco più tardi però, tra l’inizio e la fine del v secolo, ed è questo che qui ci interessa, si assiste a una netta divaricazione. Le testimonianze ceriti, o di area culturale cerite, mostrano che il nome, pur alterato dall’intervento della sincope interna, ha conservato intatta la sua 92 DAREMBERG-SAGLIO, s.v. crocota (E.Pottier). 93 MAGGIANI 1999 (anello d’argento del Museo Archeologico di Venezia con mi Uve®, di provenienza ignota). 94 ET Cs 2.15 (Uvi). 95 ET i, s.vv. uvia, uvial, uvies. 96 COLONNA 1981b, p. 57, n. 13; CIL i, 2, 4, 2829. 97 Leggiamo l’epitaffio di un’ava sua omonima scolpito nella tomba di Marce Ursus, che è una delle più importanti tombe a dado tardo-arcaiche della necropoli (CIE Cr 1.129). 98 ET Cr 1.48. Si noti la ripresa della rara variante Rantha del prenome Ramtha, attestata per la prima volta dalla Pricni sposa di Uvie Crucra. 99 CRISTOFANI 1965. Se il notissimo Laris Pulenas è oriundo di Caere (infra, a proposito di creals), è assai verosimile che i suoi maggiori siano vissuti in quella città, compreso il capostipite Pule Creice, che ha assunto il prenome Laris divenendo cittadino verso il 400 a.C. (COLONNA 1991a, p. 122, nota 59). 100 MAGGIANI 1999, pp. 51-61. 101 Maggiani scrive Kaiseri, ma vedi i giusti rilievi di De SIMONE 1999, pp. 213-219.

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struttura consonantica. Sul sarcofago di Venel Tamsnies,102 della prima metà o metà del iv secolo a.C., il nome compare nella forma Caisriva-, che penso sia da interpretare come l’atteso esito di un plurale in -¯va, nient’affatto insolito per un poleonimo, ricostruendo la trafila *Caiserie¯va > *Caiserieva > Caisriva. Nella lapide di Velthur Atinas, della fine del iv o dei primi decenni del iii secolo, proveniente dall’agro di Sutri, contiguo a quello cerite,103 il gentilizio del personaggio è seguito dal cognome Caisrs, abbreviato omettendo la Fig. 15. Vulci, kylix attica di Vel Chairitnas vocale precedente la -s. Poiché il gruppo (CIE 11197). più numeroso, tra i cognomi in sibilante noti, è quello in -is,104 si può ipotizzare nel nostro caso la restituzione *Caisris, avente forse a base una retroformazione del poleonimo partente da Caisriva. Ma non dovette dimenticarsi l’originaria terminazione in -ra. Lo prova la forma Cisra tràdita da Verrio, che ne sottolineava non tanto l’antichità quanto il carattere ‘nazionale’, in contrapposizione esplicita al nome Agylla datole dai Greci e implicita al nome Caere usato dai Romani (il nome Cisra sarebbe stato dato ad Agylla ab Etruscis conditoribus).105 Quanto alla vocale -i- del tema, può trattarsi dell’esito di una monottongazione ai > ei > e > i, ma è anche possibile la negligenza di un copista di Verrio, che ha omesso per errore la a di ai: allora non Cisra ma *C(a)isra. A questo filone di testimonianze, complessivamente coerente, se ne contrappone un altro al quale appartiene anche il nome ‘vincente’, Caere. La prima avvisaglia ne è data dall’iscrizione apposta su una kylix attica del 470-460 a.C., proveniente da Vulci, in cui leggiamo al genitivo il nome di un Vel Chairitnas, col prenome posposto (Fig. 15).106 Il gentilizio, depurato dalle conseguenze della sincope, rinvia all’etnico *Chairiete, relativo a un poleonimo *Chairie che è manifestamente un precedente di Caere. Poco più di un secolo dopo, verso il 340 a.C., incontriamo a Vulci, sul sarcofago bisomo d’alabastro del museo di Boston, il nome di una Ramtha Chairei (abl. Ramthes Chaireals), madre della sepolta, il cui gentilizio appare identico, rimossone il suffisso di mozione, al poleonimo *Chaire-Caere. Il che non può destare meraviglia, poiché s’iscrive in un fenomeno che in Etruria è largamente attestato (vedi i gentilizi Tarchna, Felsna, Seina e simili). Quasi un secolo più tardi, verso il 260-250 a.C., nell’epitaffio tarquiniese di Laris Pulenas107 l’ablativo Creals, fungente da aggettivo riferito al Pulenas, indica quasi certamente la città da cui traeva origine il personaggio, alla stregua di Truials nella tomba François. Questa città è di nuovo Caere, il cui nome ha ora assunto la forma *Cere,108 con la consonante velare non aspirata come nella corrispondente forma latina e la chiusura 102 ET Cr 1.161. 103 ET AT 0.13; nel CIE veiente in preparazione (G.Colonna-D.F.Maras) reca il n 6666. 104 Rix 1963, p. 267 sgg. 105 Schol. Verg. Veron. Aen. x, 183. 106 ET OA 2.46 (con lettura errata ¯eritnas); MASSA-PAIRAULT 1988, p. 37 sg., tav. v, figg. 7-8; REE 1989, n. 125 (M.Cristofani, ¯eiritnas); CIE 11097. 107 ET Ta 1.17. Per la datazione v. COLONNA 1991b, p. 115, nota 75. 108 COLONNA 1980, p. 163, nota 11. La sequenza c(e)reals tar¯nalı spurem lucairce significherà: “e lui, nato a Caere, a Tarquinia a livello statuale esercitò l’azione luca-“.

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del dittongo in e (che si verifica poco dopo anche per il gentilizio vulcente Chairitna, prima ricordato, che a Chiusi compare sempre come Cheritna),109 mentre l’omissione della vocale tematica è un fatto di scrittura, che ritorna nello stesso elogio anche in L(a)ris e in h(e)rmrier.110 Consegue da quanto detto che tanto il nome latino della città, quanto quello usato dagli Etruschi di Vulci e di Tarquinia si è venuto distinguendo da quello usato dai suoi abitanti per la consonante iniziale, che nell’etrusco non cerite è aspirata, almeno fino al iii secolo, per l’assimilazione del gruppo consonantico -sr- in -rr- e per l’uscita in -e invece che in -ie, almeno a partire dal iv secolo. Ma si può dire di più. Infatti Carlo de Simone ha il merito di averci ricordato, in uno scritto del 1976, che il tratto fonetico più rilevante e vistoso tra quelli segnalati, vale a dire l’assimilazione -sr- > -rr-, è estraneo sia all’etrusco che al latino, mentre è normale nel greco (ad eccezione dei dialetti tessalico e lesbio).111 Quanto all’aspirazione della velare iniziale, egli ha avanzato l’ipotesi dell’esistenza in greco «di una forma *X·ÖÚÂ, creata per etimologia popolare (paronomasia) sulla base di *K·ÈÚË», aggiungendo che tale suggestione «può essere mantenuta indipendentemente dalla nota tradizione antica sull’origine del nome di Caere (Caere àe ÙÔÜ ¯·ÖÚÂ), che ha certo carattere di un ÙfiÔ˜ leggendario».112 Tutto induce a credere che proprio questo sia ciò che è accaduto. Accanto al nome greco per così dire ‘ufficiale’ della città, Agylla, deve esserne esistito un secondo, di carattere colloquiale, in voga tra mercanti e navigatori, e in primis tra xénoi e meteci, il quale altro non era che il poleonimo etrusco pronunciato alla greca, ben presto modificato per effetto di un accostamento pseudoetimologico alla comunissima, banale espressione di saluto. Accostamento rivelato sia dall’aspirazione iniziale delle testimonianze etrusche che dall’uscita in -e sia di esse che del nome latino (fatti entrambi altrimenti difficilmente spiegabili). Il nome grecizzato della città ha insomma finito con l’imporsi, nel corso del v secolo, sia in Etruria che nel Lazio, a scapito del nome rimasto in voga tra gli stessi Ceriti. Il che è forse la migliore conferma dell’impatto che l’elemento greco ha avuto sulla città e sui suoi rapporti col mondo esterno. Bibliografia ANRW = Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (H.Temporini ed.), i, 2, Berlin-New York 1972. Baglione M.P. 1990, Considerazioni sui santuari di Pyrgi e di Veio-Portonaccio, in ScAnt 3-4, 19891990, pp. 651-667. Baglione M.P. 2000, I rinvenimenti di ceramica attica dal santuario dell’Area Sud, in ScAnt 10, pp. 337-382. Baglione M.P. 2004, Il santuario Sud di Pyrgi, in Attische Vasen in etruskischem Kontextfunde aus Haüsern und Heiligtümer (Beih. zum CVA Deutschland, ii), München, pp. 85-106. BAGNASCO GIANNI G. 1996, Oggetti iscritti di epoca orientalizzante in Etruria, Firenze. BERNARDINI C. 2001, Il gruppo Spurinas, Viterbo. BONAUDO R. 2004, La culla di Hermes. Immaginario e iconografia delle hydriai ceretane, Roma. BREYER G. 1993. Etruskisches Sprachgut im Lateinischen unter Ausschlluss des spezifisch onomastischen Bereiches, Leuven. COLONNA G. 1965, Ripostiglio di monete greche dal santuario di Pyrgi, in Atti del congresso internazionale di numismatica, Roma 1961, ii, Roma, pp. 167-177. COLONNA G. 1968,Su alcuni frammenti vascolari da Caere con iscrizioni dipinte, in StEtr xxxvi, pp. 451-453. 109 Come provano le attestazioni chiusine, quasi tutte riferite a donne (ET Cl 1.855, 1162, 1888, 1980 sg., 2644; 2.33). 110 Vedi anche, nella coeva epigrafia latina, scritture come Crere per Cerere (illrp 64). 111 De SIMONE 1976, pp. 175-178. 112 De SIMONE 1976, p. 180.

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STEINBAUER D.H, 1999, Neues Handbuch des Etruskisches, St.Katharinen. TORELLI M. 1975, Elogia Tarquiniensia, Roma. TORELLI M. 2000, I Greci nel Tirreno: un bilancio, in ScAnt 10, pp. 383-393. WARMINGTON B.H,, 1968, Storia di Cartagine, Torino (trad.it.). WIKÉN E. 1937, Die Kunde der Hellenen von dem Lande und der Völkern der Apenninhalbinsel bis 300 v. Chr., Lund. ZEVI F. 1999, Siculi e Troiani (Roma e la propaganda greca nel v sec.a.C.), in La coloniosation grecque en Méditerranée occidentale (Actes de la rencontre, RomeNaples 1995), Rome, pp. 315-343. ZIOLKOVWSKI A. 1992, The temples of mid-republican Rome and their historical and topographical context, Roma. [I Greci di Caere, «AnnMuseoFaina», xi, 2004 (atti del convegno internazionale I Greci in Etruria, Orvieto, 2003), pp. 69-94].

L’ I SCRIZIONE DI OST E RIA DE L L’O S A

P

rendendo lo spunto dal precedente intervento di M. Letizia Lazzarini, mi soffermo su uno dei maggiori fattori d’innovazione che incontriamo nell’viii secolo nell’Italia centrale, ossia l’introduzione della scrittura. La questione è stata toccata nella relazione Bartoloni-Nizzo solo marginalmente, nella nota 21, a proposito della tomba 482 di Osteria dell’Osa e del suo ormai celebre vaso iscritto. Io avrei ricordato, come già feci in Scienze dell’antichità, 3-4, 1989-1990, p. 112 sg., anche il ripostiglio di bronzi di Ardea studiato da Renato Peroni ed unanimemente collocato nella piena iii fase, in cui, anche ammettendo che il segno a tridente non valga chi ma il numerale 50,1 compaiono varie forme di sigma (e anche di iota sinuoso?), oltre a un possibile omicron a losanga (Fig. 1).2 Le lettere isolate non sono iscrizioni, ovviamente, ma presuppongono, come più tardi a Bologna nel ripostiglio di San Francesco,3 una conoscenza pur embrionale dell’alfabeto e la capacità di avvalersene, anche se solo a fini identificativi e di conteggio. Ma soprattutto c’è l’iscrizione di Osteria dell’Osa, a proposito della quale devo dire che mi ha un poco sorpreso, nella relazione Bartoloni-Nizzo, il ricorso addirittura alla testimonianza di chi ha scavato personalmente la tomba per accreditare la pertinenza ad essa del vaso, e quindi la sua datazione alla fine del ii periodo, invece che nel pieno iv: il che ha dato a M. Letizia lo spunto per l’intervento decisamente scettico e riduttivo che abbiamo ascoltato. Ora è vero che il vaso è tipologicamente un unicum, ma è anche vero

Fig. 1. Asce con segni grafici dal ripostiglio di Ardea. 1 L. Agostiniani, in Annali Istituto Orientale Napoli, Linguistica, 17, 1995, p. 54 sgg. 2 G.L. Carancini, Le asce nell’Italia continentale ii (Prähistorische Bronzefunde ix, 12), München 1984, nn. 2302, 2349, 2371, tavv. 25, 29, 31 (sigma coricato trilineare e quadrilineare, sigma eretto, o eventualmente iota, plurilineare, come appare anche nel ripostiglio di S. Francesco di cui alla nota seguente); n. 2395, tav. 33 (segno a losanga); n. 2494, tav. 38 (segno a tridente). 3 G. Sassatelli, in Emilia preromana, 9-10, 1981-1982 (1984), pp. 147-255.

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Fig. 2. Anforetta a spirali da Veio con le quattro lettere iniziali di un alfabetario in successione sinistrorsa e con ductus retrogrado.

che la foggia sua e soprattutto di altri vasi del contesto di appartenenza rinvia all’area ausonia ed enotria dell’Italia meridionale e trova pertanto una collocazione di gran lunga più soddisfacente all’inizio dell’viii, quando i contatti con quelle aree sono altrimenti attestati, tanto nel Lazio quanto nell’Etruria meridionale,4 che non nel vii secolo, quando al contrario è difficile trovarne traccia. Né può meravigliare la presenza in età così antica di parlanti greco nel Lazio tiberino – al quale si può senza forzature annettere Gabii –, solo che si rammenti il frammento di sostegno di stile geometrico dal Foro Romano, di poco più recente, ascrivibile con certezza a un vasaio euboico attivo a Veio o nella stessa Roma.5 Circa l’età della prima accettazione della scrittura nell’area tiberina disponiamo ora di un documento indiretto e seriore, ma non per questo meno degno di attenzione, già da me segnalato nel convegno dello scorso maggio a Tarquinia sull’emergere delle aristocrazie (e ora edito in Studi Etruschi, lxix, 2003, pp. 379-382). Si tratta di un’anforetta a spirali da Veio del secondo quarto del vii secolo, recante graffite sul collo le lettere alpha, beta, gamma e delta, interpretabili ovviamente come un inizio di alfabetario, scritte in successione sinistrorsa con l’ultima posta sotto la riga a mo’ di complemento, e curiosamente tutte con ductus retrogrado (Fig. 2).6 Mentre le altre lettere mostrano l’attesa forma euboica, bene attestata nell’Etruria dell’epoca dall’alfabetario di Marsiliana d’Albegna, l’alpha ha la forma ‘adagiata’ propria della scrittura fenicia, finora attestata 4 G. Colonna, in Aspetti e problemi dell’Etruria interna, Firenze 1974, pp. 297-299; F. Delpino, in Studi G. Maetzke, ii, Roma 1984, pp. 257-271. Da ultimo per parte mia in Storia di Roma, i, Torino, Einaudi, 1988, p. 297, con bibl. 5 Ibid., p. 298 sg.; J.Gy. Szilágyi, in Atti del ii congresso internazionale etrusco, ii, Firenze 1989, p. 616 sg. 6 Per l’alpha ciò vale nei confronti del ductus attribuito alla lettera nell’iscrizione del Dipylon (v. la nota seguente).

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nell’epigrafia greca solo dall’iscrizione dell’oinochoe del Dipylon,7 restando invece sconosciuta a Lef kandi, Eretria, Al Mina e Pithecusa.8 Il che riporta a un modello antichissimo di alfabeto euboico, che potremmo definire pre-pitecusano, databile al più tardi nella prima metà dell’viii secolo. A conferma della sua esistenza si può addurre il cinerario della tomba 21 Benacci-Caprara della Bologna villanoviana, risalente effettivamente a quell’età, che reca sul collo, graffita col vaso tenuto in posizione orizzontale, la sequenza sinistrorsa di un alpha adagiato e retrogrado come a Veio, seguito da quello che sembra esseFig. 3. Iscrizione con alpha adagiato re un lambda, forse anch’esso retrogrado dalla tomba Benacci-Caprara 21 di Bologna. (Fig. 3).9 Tutto sommato direi che ce n’è abbastanza per pensare che l’acquisizione della scrittura nell’Italia centrale sia stato non un evento puntuale, come finora abbiamo creduto, ma un processo ‘lungo’, svoltosi almeno in due tempi, e con conseguenze assai diverse. Un primo, timido passo verso la scrittura sembra essere stato compiuto nella bassa valle del Tevere, probabilmente a Veio, all’epoca delle frequentazioni euboiche ‘pre-coloniali’, con una fievole ripercussione a Bologna. Il secondo passo, decisivo perché non ha conosciuto ripensamenti, a differenza del primo, ha avuto luogo in una delle grandi città dell’Etruria meridionale costiera, forse Tarquinia, nella fase di transizione o agli inizi dell’Orientalizzante, trovando anch’esso un’eco, e ben più incisiva della precedente, a Bologna, come insegna in primo luogo il ripostiglio di S. Francesco, che ha restituito una delle più antiche iscrizioni etrusche finora conosciute.10 [Aggiungo in sede di revisione del testo (marzo 2005), col cortese consenso degli organizzatori, alcune considerazioni di merito sull’iscrizione di Osteria dell’Osa (Fig. 4). La constatazione che l’alfabetario di Veio e forse anche l’iscrizioncella Benacci-Caprara procedono in direzione sinistrorsa, ma con lettere costantemente retrograde, induce a sospettare che lo stesso si verifichi all’Osteria dell’Osa, fermo restando il riconoscimento delle singole lettere operato da Adriano La Regina e da tutti accettato (a eccezione del Peruzzi, che legge contro ogni evidenza euoin). Se questo è vero, l’iscrizione sarà da leggere non eulin ma nilue, con lambda retrogrado (rispetto al prototipo fenicio). E la lingua sarà da considerare non greca ma latina. S’impone infatti, se quella è la lettura, la divisione ni lue e l’interpretazione del testo come una prescrizione negativa, corrispon7 Dove compare sei volte e sempre con l’angolo a destra, all’opposto delle iscrizioni fenicie (e della testimonianza veiente). Sull’iscrizione: M.L. Lazzarini, in Scritture mediterranee tra il ix e il vii secolo a.C., a cura di G. Bagnasco Gianni e F. Cordano, Milano 1999, p. 64, fig. 7; T. Alfieri Tonini, ibid., p. 117 sg. 8 Vedi A. Bartonĕk in Die Sprache, 37, 2, 1995, pp. 129-237. 9 Rispetto al prototipo fenicio. Cfr. G. Bagnasco Gianni, in Scritture mediterranee, cit., p. 87, fig. 1 (riprodotta qui a Fig. 3). La lettura che propongo è pertanto al, lemma etrusco significante “dono”, di cui esiste ormai una ricca documentazione (rinvio a L’archeologia dell’Adriatico dalla Preistoria al Medioevo, Atti del convegno di Ravenna 2001, Bologna 2003, p. 166, nota 31), qui al caso da intendere come dono funerario, rivolto alla defunta. 10 L’antroponimo Aie (G. Colonna, in Studi e documenti di archeologia, ii, 1986, pp. 57-66, tavv. 21-23).

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Fig. 4. vaso iscritto dalla tomba 482 della necropoli di Osteria dell’Osa.

Fig. 5. Ipotesi di sospensione del vaso (dis. S. Barberini).

dente in latino classico a *ne luas. Non fanno difficoltà in proposito né l’imperativo presente né la variante ni (< *ne-i) della particella ne, peculiarità che ritornano entrambe nella lingua di Plauto11 e, associate tra loro come in questo caso, nella nuova iscrizione latina arcaica del santuario del Garigliano,12 mentre nel latino di Roma già nella prima metà del vi secolo,13 e poi nelle xii Tavole, incontriamo ne con l’imperativo futuro. Quanto al verbo luĕre, usato assolutamente, non par dubbio che esso compaia qui nell’accezione più antica che gli si può attribuire, quella di “sciogliere da un legame materiale”,14 con riferimento alle fibre vegetali con le quali il piccolo vaso, sprovvisto di una base d’appoggio (a differenza degli altri esemplari classificati dagli scopritori nel tipo del “vaso a fiasco”),15 doveva di norma essere sospeso nel luogo in cui era conservato, come più tardi lo saranno gli aryballoi dei palestriti (Fig. 5). “Sciogliere” equivaleva in tal caso a “prendere (in mano)”, il che, in senso pregnante, poteva equivalere a “ru11 Per es. ne time (Amph. 674), ne fle (Capt. 139), ni quid tibi in hanc spem referas (Ep. 339), quid ego ni fleam? (Mil. 1311), ecc. 12 Nella clausola finale nei pari med, isolata da M. Mancini, Osservazioni sulla nuova epigrafe del Garigliano, Roma 1997, pp. 21-25, seguito da B. Vine, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 121, 1998, p. 258, e da D.F. Maras in un contributo in corso di stampa in Archeologia Classica. Ricordo che la forma ni ricorre già nella coeva o di poco più antica iscrizione ernica di Anagni (S. Gatti, G. Colonna, in Studi Etruschi, lviii, 1993, pp. 321325). 13 Clausola ne med malos tatod del vaso di Duenos: H. Rix, Kleine Schriften, Bremen 2001, p. 158 sgg. 14 Thes. linguae Latinae vii, 2, col. 1844 sg., I C 1. 15 Dai quali differisce anche per il breve colletto verticale (cfr. D. Ridgway, in Opuscula Romana, xx, 1996, p. 89, fig. 2), funzionale all’inserimento di un tappo, e per il foro pervio praticato nella parte alta della parete, che consentiva di versare il contenuto del vaso senza togliere il tappo.

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bare”, sicché non è affatto escluso che si abbia qui, molto prima delle clausole finali dell’iscrizione di Duenos e di quella del Garigliano, un antichissimo esempio del ‘divieto di appropriazione’, attestato nell’epigrafia vascolare greca in forma indiretta fin dalla prima metà del vii secolo (lekythos cumana di Tataie), e in quella etrusca in forma diretta dalla seconda metà dello stesso secolo.16 Altrimenti si può pensare al significato di “scomporre”, “dissolvere”, “distruggere”, implicito nel termine lue(m) del carme dei Fratres Arvales e forse sottostante anche al teonimo Lua dell’antico pantheon romano.17 Avremmo allora un invito a preservare l’integrità del vaso e quindi del suo contenuto, ritenuto particolarmente prezioso.] [Intervento in Oriente e Occidente: metodi e discipline a confronto. Riflessioni sulla cronologia dell’età del Ferro italiana (atti dell’incontro di studio, Roma, 30-31 ottobre 2003), a cura di G. Bartoloni e F. Delpino, in Mediterranea, i, 2004 (2005), pp. 479-483. Nuova è la Fig. 5]. 16 L. Agostiniani, in Archivio glottologico italiano, lxix, 1984, p. 84 sgg., e specialmente p. 107 sgg. 17 G Dumézil, Déesses latines et mythes védiques, Bruxelles 1956, pp. 103-107. Diversa interpretazione in G. Radke, Die Götter Altitaliens, Münster 1965, p. 186 sg., seguita da A. Bendlin, in Der Neue Pauly, vii, 1999, p. 451, s.v.

CERVETER I. LA TOMBA DELLE ISCRIZ IO N I G RA F F IT E uando mi è stato chiesto di partecipare al convegno in memoria di Mario Moretti Q ho pensato di scegliere un argomento che fosse, come mi pareva ovvio, attinente alla mia ormai lontana militanza, cessata con l’ottobre del 1972, nella Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale, e nello stesso tempo interferente in qualche misura cogli interessi di ricerca coltivati da Colui che allora era a capo di quella Soprintendenza. Conciliare i due requisiti è apparsa però subito un’impresa non facile, poiché i centri e le zone archeologiche a me affidate non erano ovviamente quelle che più stavano a cuore al Moretti studioso dell’antica Etruria. Allora ho deciso di privilegiare, com’era opportuno in un’occasione come questa, il secondo requisito, e ho quindi scelto un argomento ceretano, stavo per dire ‘cervetrano’, che a Moretti sarebbe certamente piaciuto. Il che faccio tanto più volentieri in quanto mi consente di sgravarmi di un debito che ho con la Soprintendenza, e soprattutto con la scienza, contratto all’epoca di uno dei successori di Moretti, Paola Pelagatti. 1. La scoperta, lo scavo e la documentazione Il debito risale all’agosto del 1981. Fui allora raggiunto da una telefonata, non ricordo se della Pelagatti o di Giuseppe Proietti, all’epoca responsabile della zona archeologica di Cerveteri, che mi invitava a prendere visione delle iscrizioni esistenti all’interno di una tomba a più camere ‘aperta’ da cercatori clandestini nella necropoli della Banditaccia. Era il 12 del mese e mi trovavo per caso a Roma, essendo rientrato temporaneamente dal Terminillo, dove trascorrevo le ferie con la famiglia. Il giorno dopo visitai la tomba, ancora in parte invasa dalla terra (Fig. 1), e mi resi conto sia dell’importanza della scoperta, trattandosi di iscrizioni parietali arcaiche, rarissime a Cerveteri, sia degli ardui problemi che poneva il loro studio. Le iscrizioni apparivano infatti non incise nel tufo o dipinte su intonaco, come è normale, ma, caso pressoché unico in Etruria, come dirò a suo luogo, graffite con uno stecco su una pellicola d’argilla spalmata sulla parete più in vista della tomba, assieme ad alcune figure umane. Pellicola largamente deteriorata e a tratti del tutto disciolta, creando, assieme all’interferenza di segni e impronte di varia origine, dovute sia a interventi dell’uomo che all’azione della natura, ardue e in qualche caso insuperabili difficoltà di lettura.1 Iniziò così una lunga e faticosa vicenda di documentazione e di decifrazione, che solo oggi arriva, da parte mia, a conclusione, in attesa del dibattito scientifico che immancabilmente ne scaturirà. Sollecitai subito che la tomba fosse integralmente e accuratamente scavata, sia all’interno delle sue tre camere che all’esterno, mettendo in luce il perimetro della struttura a dado in cui le camere apparivano comprese e parte almeno dell’area circostante. Il che fu fatto nella primavera del 1982 (Fig. 2), sotto la guida dell’assistente della Soprintendenza Ercole Zapicchi, che con la sua competenza e la sua 1 La scoperta non sfuggì all’attenzione del G.A.R., allora assai attivo a Cerveteri, che ne diede una notizia di poche righe nel proprio giornale (Archeologia xx, 22, 5, ottobre 1981, p. 7). Successivamente l’unica menzione della tomba è in A. Naso, Architetture dipinte. Decorazioni parietali non figurate nelle tombe a camera dell’Etruria meridionale (vii-v sec. a.C.), Roma 1996, p. 112, n. 4.

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Fig. 1. L’interno della t(omba) delle I(scrizioni) G(raffite) al momento della scoperta (1981).

Fig. 2. Il dado della t. delle I.G. dopo lo scavo (1982).

cerveteri. la tomba delle iscrizioni graffite

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disponibilità, già in passato da me sperimentate, ha facilitato in ogni modo le indagini.2 Intanto la tomba e le iscrizioni venivano ripetutamente fotografate da Benito Fioravanti, altro tecnico di valore della Soprintendenza,3 mentre io stesso ne eseguivo gli apografi con l’aiuto di Sergio Barberini, mio fedele e validissimo collaboratore all’Università. Negli anni successivi la tomba veniva chiusa con una porta di ferro, a evitare il pericolo di danneggiamenti, e veniva avviato da parte di M. Antonietta Rizzo, succeduta a Proietti nella cura dell’archeologia ceretana, un programma di scavi nell’area contigua prospiciente sulla Via Sepolcrale, non esplorata da Mengarelli ed esposta alle sgradite ‘attenzioni’ dei clandestini. Veniva così portata alla luce, tra l’altro, un’eccezionale concentrazione di tumuletti di prima metà del vii secolo.4 Inoltre Fioravanti tornava, su mia richiesta, a fotografare con attrezzature più sofisticate le iscrizioni,5 e Barberini eseguiva il rilievo del monumento. Restavano ancora però troppe incertezze di lettura perché si potesse arrivare alla pubblicazione. Per cercare di superarle ho associato alla ricerca il mio allievo Massimo Morandi, esperto epigrafista, che con apprezzabile impegno tra il 1996 e il 1997 ha revisionato sul posto gli apografi ed esaminato presso il Magazzino degli Scavi, con l’aiuto di Zapicchi, parte dei reperti del 1982. Grazie al suo interessamento ho inoltre ottenuto nel 2000 che il Dott. Giuseppe Fabretti dell’Istituto Centrale del Restauro eseguisse accurate indagini multispettrali di controllo non distruttive sulla parete che accoglie i graffiti, indagini che hanno consentito di migliorare in più di un punto la lettura delle epigrafi e anche delle raffigurazioni.6 Da ultimo mi sono giovato dell’aiuto, come sempre generoso, sia di Barbara Belelli Marchesini, che ha curato il posizionamento topografico della tomba, l’analisi del suo rapporto spaziale con le tombe vicine e il rilievo delle cornici dei tumuli, sia di Laura M. Michetti, che ha completato il recupero e la documentazione dei reperti dello scavo del 1982 e ne ha affrontato lo studio. Ricerche queste di cui si darà conto compiutamente in altra sede. 2. Dati topografici e architettonici La tomba si trova nel settore della necropoli della Banditaccia chiamato da Mengarelli dell’«Autostrada» o della «Nuova Via» (la carrozzabile aperta nel 1930), e precisamente nella striscia di terreno che fiancheggia da O la Via Sepolcrale Principale, a circa 150 metri dall’ingresso del c.d. Vecchio Recinto (Fig. 3, n. 2A).7 Incombe alle sue spalle il tu2 Lo scavo ebbe luogo tra il 26 marzo e il 7 maggio, a cura dell’assistente Fabrizio Paganelli, che ha messo gentilmente a disposizione di L.M. Michetti i suoi appunti dell’epoca. 3 Una prima serie di negative, recante i numeri da 68154 a 68173, fu scattata da Fioravanti già nel luglio 1981, una seconda (nn. 69343-69356) nell’agosto dello stesso anno, in occasione della mia visita, una terza (nn. 7473674740) il 23/3/1982, una quarta, relativa solo all’esterno della tomba (nn. 75515-75526) il 4/5/1982, quasi al termine delle operazioni di scavo. A mia volta ho scattato nell’autunno 1982 alcune foto dell’esterno (neg. Pyrgi 82.21, 7-12, presso l’ex Istituto di Etruscologia dell’Università) e, a colori, dell’interno ripulito. 4 Tra i quali quello con cameretta semicostruita 2006, scavato nel 1986, di cui è stato pubblicato il ricco corredo (M.A. Rizzo, in Miscellanea ceretana i , Roma 1989, pp. 12-23, figg. 1-31). Cfr. anche nota 19. Tumuletti del tipo erano già stati scavati sul lato opposto della strada antica (R. Mengarelli, in Atti del iii convegno naz. di storia dell’architettura, Roma 1938, Roma 1941, pp. 5 e 13 dell’estratto, tavv. i: 9-10 e xii: 53). 5 Lastre nn. 153268-153273, scattate nel 1989, di cui ho avuto una copia formato 24x36. La tomba aveva nel frattempo ricevuto il numero d’ordine (convenzionale) 1999, come risulta dalle schede dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza. 6 Mi è gradito rinnovare il più sentito ringraziamento per la preziosa collaborazione sia al Dott. Fabretti che al Direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, Dott.ssa A. Mignosi. La relazione tecnica del Dott. Fabretti, datata 9/1/2001, comprende rilevamenti in luce radente, I.R. fotografico colore e riflettografia multibanda. 7 La carta riproduce, con qualche aggiunta, la metà sinistra di quella edita da B. Zapicchi, Cerveteri. Le necropoli della Banditaccia, S. Severa, s.d. (1996), che è la più aggiornata attualmente disponibile per la Banditaccia.

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mulo detto dell’Affienatora (Figg. 3, n. 21, e 4),8 risalente all’orientalizzante antico, esplorato solo parzialmente da Moretti negli anni ’50 e ancora inedito: tumulo che, col suo diametro di circa 25 m, è tra i maggiori esistenti a O della Via Principale e l’unico ad aver conservato almeno in parte la calotta terrosa.9 La tomba delle Iscrizioni Graffite sta in seconda fila rispetto alla Via Principale ed è cavata entro un dado a pianta rettangolare assai più lungo (m 8,70) che largo (m 5,10), parallelo alla strada e quindi orientato a SO (Fig. 6). Affaccia su uno spiazzo quadrangolare solo in parte sgombrato nel 1982,10 una sorta di ‘piazzetta incassata’, comunicante con la strada grazie a un varco nella sequenza dei dadi che la costeggiano, largo circa m 2,50. Lo spiazzo è delimitato a SE dal lato posteriore del dado includente la tomba 2305, a S dal varco citato, a SO dal fianco di un dado ancora sepolto, a O non sappiamo da che cosa, a N da un tumulo del diametro di 15 m, del tutto inedito e privo a quanto mi consta sia di numero che di nome (Fig. 7), la cui unica tomba, databile tipologicamente nell’orientalizzante recente,11 è orientata in direzione della strada. Tutto lascia credere che il piazzale sia stato creato in relazione a questo tumulo e alla tomba in esso contenuta, anteriormente alla costruzione del dado della tomba delle Iscrizioni Graffite. La riprova è data da una tomba individuale a fossa scavata nel piano pavimentale, quasi a filo con la fronte del dado in questione, che l’ha rispettata adottandone l’orientamento (visibile in primo piano a destra nella Fig. 2). La fossa, rinvenuta nel 1982 ancora suggellata in piano con lastroni, conservava un modesto corredo vascolare di tardo vii-inizio vi sec. a.C.12 Il dado che accoglie la Tomba delle Iscrizioni Graffite ha la forma di un parallelepipedo, composto da un basamento tagliato nel masso, limitatamente alla fronte e all’inizio dei lati lunghi, alto circa m 1,40, e da un alzato alto in origine circa m 1,80, consistente 1 = tomba delle Cinque Sedie; 2 = tomba del Lituo; 2A = tomba delle Iscrizioni Graffite; 2B = tumulo delle Due Croci, detto anche delle Ginestre; 21 = tumulo dell’Affienatora. La migliore rappresentazione del settore resta comunque quella offerta dalle foto aeree, in particolare della RAF ( J. Bradford, Ancient Landscapes, London 1957, p. 116 sg., tavv. 30-32). 8 Dal nome dato alla vicina depressione del terreno, dovuta a un’antica cava, cui adduceva la carrareccia detta appunto dell’Affienatora (menzionata a proposito del tumulo delle Due Croci da R. Mengarelli, in NS 1937, p. 406, n. 17). 9 Il tamburo, come appare dal settore contiguo al dado della tomba delle Iscrizioni Graffite, messo in luce nel 1982 (Fig. 5), è coronato da una cornice più alta della sottostante parete (come nel tumulo del Colonnello), composta da due fasce sottoposte a due tori (come nel tumulo ii, dove però i tori sono tre e il profilo è assai più rastremato) (cfr. Mengarelli, in Atti cit. a nota 4, p. 16 sg., tav. xv: 78-79; G. Colonna, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986, p. 397, tav. vii: 1-2). Una prima notizia del corredo dell’unica tomba rinvenuta, orientata a O (una enorme trincea scavata nel settore SO non sembra aver dato risultati), è in M. Martelli, in Prospettiva 48, 1987, p. 6 sg., figg. 1-4, 26-33, con datazione all’inizio o comunque nel primo quarto del vii secolo (per l’anfora attribuita al Pittore delle Gru v. anche Ead., La ceramica degli Etruschi, Novara 1987, p. 258 sg., n. 33). 10 La parte sterrata a mano dovrebbe corrispondere al «fossato davanti alla tomba» del cartellino ligneo della busta 12, il cui scavo è stato preceduto dalla rimozione con una pala meccanica il 4 e 5/V/1982 della «frana antistante l’ingresso della tomba», menzionata nei cartellini delle buste 9, 10 e 11. I materiali, di cronologia oscillante «fra la seconda metà del vii e la prima metà del iii sec. a.C.» (cito dalla relazione stesa da L.M. Michetti), includono anche due tegole intere «ombelicate», forse di gronda, riferibili alla copertura di tombe a fossa. 11 Bicamerale con camerette sul dromos, appartiene a un sottogruppo del tipo C (F. Prayon, Frühetruskische Grab- und Hausarchitektur, Heidelberg 1975, pp. 20-23), associante alle porte esterne a lunetta la porta interna rettangolare (tumuli ii, iv e x della Tegola Dipinta), che in questo e nel tumulo ii è accompagnata dalla cornice di tipo dorico, qui in una versione ancora sperimentale, con proiecturae eccezionalmente sporgenti. La cornice del tumulo, chiaramente ispirata a quella del tumulo i del Vecchio Recinto, consta di un toro tra due fasce, con inizio della calotta assimilato a un secondo toro e in parte riportato (cfr. Mengarelli, in Atti cit. a nota 4, tav. xv: 74; L.T. Shoe, in MAAR xxviii, 1965, p. 42, fig. 2, tav. iii: 3-4). 12 Consistente in un’olpe etrusco-corinzia ad archetti intrecciati, due aryballoi piriformi etrusco-corinzi a decorazione lineare, un’anforetta e una kylix di bucchero decorati con ventaglietti, un’olla biansata d’impasto rosso.

Fig. 3. Il settore sud del pianoro della Banditaccia con la «necropoli dell’autostrada» (da B. Zapicchi 1996, con aggiunte). La t. delle I.G. è indicata col n. 2A (per gli altri numeri vedi la nota 7 del testo).

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Fig. 4. Il ciglio ovest della Via Sepolcrale Principale a nord del tumulo dell’Affienatora (visibile in secondo piano).

Fig. 5. A sin. il lato posteriore est del dado della t. delle I.G., a destra il lato ovest del dado delle tt. 2302-2303, sul fondo il tamburo dell’Affienatora.

Fig. 6. Pianta con la t. delle I.G. e le tombe circostanti. Per la sezione v. Fig 20.

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Fig. 7. In primo piano il dado della t. delle I.G. nel suo stato attuale, nel secondo il tumulo Senza Nome con l’antistante piazzale.

Fig. 8. I lati ovest e sud del dado della t. delle I.G. dopo lo scavo (1982).

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Fig. 9. Il lato sud del dado della t. delle I.G. visto da est (1982).

in un terrapieno contenuto da un paramento di blocchi di tufo ben squadrati e connessi con cura, posti per taglio e quasi dovunque crollati, ispessito sulla fronte e sul lato destro da un filare di quattro rozze assise di blocchi posti in prevalenza di testa, che in corrispondenza dell’ingresso si prolunga internamente per creare una «caditoia» (Figg. 5, 810). Al piede del basamento rupestre, che è risarcito sullo spigolo sinistro con tre blocchi ben connessi di riporto, è addossato un filare di blocchi posti per taglio, fungente da zoccolo e insieme da sedile (Fig. 8). L’assisa più alta dell’alzato era sagomata con una «campana» a quarto di cerchio, di cui restava nel 1981 solo uno spezzone di blocco fuori posto. Con ogni probabilità la modanatura era direttamente sovrastata, come di norma nei dadi ceretani, da una bassa calotta di terra (Fig. 13), cui si accedeva mediante la scala addossata al fianco destro del dado, i cui primi quattro gradini sono anch’essi tagliati nel masso (Figg. 2, 8, 9).13 Alla tomba (Figg. 11-13) si accede da un varco a gradini aperto al centro della fronte nel vivo del basamento, sigillato esternamente da uno schermo di blocchi a filo dello 13 I due intermedi intaccati da una piccola tomba a cassa di età ellenistica, di cui restava parte del corredo.

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Fig. 10. Il lato nord del dado della t. delle I.G. visto da est (1982).

zoccolo, dei quali nel 1981 restavano in posto solo i due inferiori. Con una scala di soli tre gradini si scende in un angusto vano a pianta trapezoidale, coperto in piano dai blocchi dell’alzato, che lasciano sussistere al centro il citato cavo rettangolare della «caditoia». Dal vano, equiparabile a un dromos, si entra in una cameretta laterale e in due camere assiali, tutte e tre interamente cavate nel vivo del basamento, dotate di soffitti a due falde e columen scolpito, che nella prima delle due camere, più lunga e più alta della seconda, anche se un poco meno larga, corre in direzione trasversale.14 Nella parete divisoria tra le due camere la porta, rettangolare ma fortemente rastremata, è affiancata da due finestrelle di ugual forma, sia l’una che le altre incorniciate da un cordone a sezione convessa che circoscrive gli stipiti e l’architrave, dando a quest’ultimo la classica forma dorica con proiecturae, modanate, come accade precocemente a Caere, a becco di civetta.15 14 Dimensioni (larghezza per lunghezza): cameretta m 1,50 × 1,15; prima camera m 3,65 × 2,90; seconda camera m 3,95 × 2,25. 15 Porta dorica di tipo 3 (Prayon, Frühetruskische Grab-, cit. a nota 11, p. 39). Il cordone è sostituito al disotto dei davanzali da un listello.

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Fig. 11. Pianta dell’interno della t. delle I.G.

Il mobilio scolpito all’interno della tomba consiste in una serie di letti e in un sedile. I letti sono due per camera e tutti del tipo a kline, con cuscino a incavo semicircolare, unico nella cameretta, doppio nelle due camere di fondo, così che la tomba era predisposta per accogliere teoricamente dieci defunti inumati: due coppie di adulti in ognuna delle camere e due bambini, a giudicare dalla assai minore lunghezza, nella cameretta. A loro volta i letti della prima camera sono più lunghi ma più stretti di quelli della

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Fig. 12. Sezioni trasversali delle camere della t. delle I.G.

seconda,16 per lasciare maggior spazio libero al centro del vano, e sono diversi da tutti gli altri in molti dettagli: recano infatti scolpita da capo una gamba del mobile – piatta con ritagli laterali a profilo angoloso al disopra del piede (tipo Steingräber 3a) (Fig. 14) –, gli incavi dei cuscini sono incorniciati con un solco a omega e quello di destra è affian16 Lunghezza rispettiva, cuscino compreso: m 2,30 e 1,95.

Fig. 13. Sezione longitudinale della t. delle I.G. col dado parzialmente ricostruito.

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Fig. 14. Particolare del letto di sin. della prima camera della t. delle I.G.

cato ai piedi da un sedile liscio quasi cubico, forse a ricordo del trono o della sedia presenti in quella posizione in tombe più antiche.17 Tutti i letti sono inoltre accompagnati, dietro (nelle due camere) e a lato del cuscino (cameretta, seconda camera), da una banchina, nel primo caso assai esigua, per gli oggetti del corredo. 3. La decorazione dipinta e graffita La maggiore peculiarità della tomba risiede, come si è detto, nel rivestimento dell’intera parete divisoria, sulla faccia rivolta verso l’ingresso, con una pellicola di fine argilla caolinica (Fig. 15), come a Cerveteri si era già verificato nella tomba dipinta detta per questo dell’Argilla.18 La parete così preparata ha ricevuto una generale campitura di colore rosso chiaro, mentre in nero sono state dipinte le cornici della porta e delle finestrelle e in rosso scuro le superfici di quelli che nell’architettura reale erano gli stipiti e gli architravi lignei sia dell’una che delle altre. Inoltre al disotto delle finestrelle sono state battute con lo spago e quindi dipinte una striscia orizzontale rosso scura alta cm 6 e, quasi a contatto col ripiano posto a capo dei letti, una striscia nera di uguale altezza, separate da una striscia risparmiata, alta anch’essa cm 6. La fascia tricolore così creata separa la parte superiore della parete, in cui si aprono le finestrelle, da quella inferiore fungente da zoccolo (Figg. 12: sez. B-B’ e 16). Il partito della fascia multicolore separante il fregio

17 Prayon, Frühetruskische Grab-, cit. a nota 11, pp. 107-112; G. Colonna, in StEtr lii, 1986, pp. 55-57. 18 Catalogo ragionato della pittura etrusca, a cura di St. Steingräber, Milano 1985, p. 266, n. 4, fig. 186. Rivestimenti parziali in argilla sono segnalati anche in tombe di Monte Abatone (Naso, Architetture dipinte, cit. a nota 1, p. 74 sg.). Nell’agro chiusino un esempio a Sarteano (A. Rastrelli, in Pittura etrusca. Problemi e prospettive, a cura di A. Minetti, Siena 2003, pp. 94-99).

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Fig. 15. Veduta parziale della parete dipinta di fondo della prima camera della t. delle I.G.

figurato dallo zoccolo, lasciato nel colore della parete, s’incontra nelle tombe dipinte di Tarquinia a partire dalle tombe Bartoccini, del Barone e del Morente.19 Tutti gli altri, limitatissimi interventi pittorici sono stati eseguiti in entrambe le camere direttamente sul tufo. Nella prima camera sulle pareti laterali e d’ingresso è stata dipinta, a cm 80 dal piano dei letti, una striscia orizzontale in rosso chiaro tra due sottili linee nere, alta cm 4-5, e sulle pareti laterali, sotto l’attacco del columen, una striscia pure rosso chiaro da cui pendono tre brevi linee nere verticali in corrispondenza dell’asse mediano e dei fianchi del trave. Linee che ritornano nella stessa posizione, ma più lunghe e incise invece che dipinte, anche nella seconda camera, sicché par certa la loro funzione di riferimento per l’intaglio del trave e dei soffitti. Una funzione pratica simile, ma nei confronti dell’intero vano, sembra assolta nella seconda camera dalla spessa linea nera orizzontale, battuta con un cordino sulle quattro pareti, a cm 70 dal piano dei letti e m 1,50 dal pavimento.20 Alla decorazione dipinta di tipo «architettonico» se ne affianca una figurata, circoscritta alla parete rivestita d’argilla, come nella citata Tomba dell’Argilla ma, diversamente che in quella, realizzata con la stessa tecnica del graffito usata per le iscrizioni e inoltre del tutto disorganica e ‘spontanea’. Opera di mani diverse, anche quanto a capacità, è rimasta interamente allo stato di abbozzo, più o meno compiuto. Si distinguono 19 Il motivo a quanto pare è assente nelle altre «architetture dipinte» delle tombe arcaiche ceretane, in cui le fasce orizzontali rosse o rosse e nere sono abbastanza frequenti, specialmente nel settore del Laghetto, ma corrono nella parte superiore delle pareti, per lo più all’altezza delle finestrelle (Naso, Architetture dipinte, cit. a nota 1, p. 403 sg., figg. 39, 42, 50, 60, 64, 69, 72 sg., 75-77, 79-81). 20 Per questi e altri dettagli tecnici osservati nelle tombe «dipinte» ceretane si rinvia alle preziose osservazioni di R.E. Linington e A. Naso (Naso, Architetture dipinte, cit. a nota 1, p. 421 sg.: in particolare per le tre linee verticali incise sotto l’attacco del columen vedi p. 92 sg., fig. 64 sg.; p. 111, n. 3).

Fig. 16. Disegno integrale della stessa parete con le figurazioni e le iscrizioni graffite.

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a fatica tre figure umane intere e una testa, rivolte tutte verso sinistra, indipendentemente dalla loro collocazione (Fig. 17), oltre a tracce minori. a) Figura maschile alta cm 104, occupante in tutta la sua altezza lo spazio tra la finestrella destra e l’angolo della parete, con i piedi al livello del davanzale della finestrella e il gomito destro che sfiora la sommità dell’architrave della stessa. Probabilmente barbata, con i capelli che scendono in massa sulle spalle, avanza appena la gamba destra, arretrando la sinistra. Con la destra alzata, di cui non si distingue la mano, compie quello che sembra essere un gesto di saluto, mentre sorregge qualcosa, forse una sottile corona, nella sinistra abbassata. È disegnata in modo incompleto, ma ripassando le parti delineate. Le proporzioni atticciate, la grossa testa, il torso breve, le cosce carnose col gluteo sporgente richiamano lo stile ionizzante maturo di tombe dipinte come quelle degli Auguri, delle Leonesse e dei Baccanti, o, per rimanere a Caere, delle lastre dipinte Campana. b) Figuretta maschile alta cm 45, sovrapposta alla finestrella destra in atto di correre verso la porta. Il piede sinistro, spinto fortemente all’indietro, sembra far leva sulla cornice della finestrella, il destro, sollevato, è quasi orizzontale. Apparentemente barbata e con tre trecce di diversa lunghezza che scendono di traverso sul petto (cfr. la tomba delle Leonesse), alza anch’essa la mano destra in un vistoso gesto di saluto, mentre la sinistra, rivolta in basso, tiene con la punta retroversa delle dita una coroncina sollevata verticalmente dal vento della corsa.21 Il tratto è più sommario che in a), ma il disegno più sofisticato e non privo di efficacia: possibile comunque la comunanza di mano. c) Figuretta femminile (?) nuda, alta m 50, seduta o accosciata sopra la finestrella sinistra, schizzata dal ginocchio in su con poche e sommarie linee di contorno, senza pentimenti, a mo’ di ombra cinese, omettendo del tutto il braccio e la gamba in secondo piano. La testa è prolungata in alto con probabile allusione a un tutulus, il profilo della spalla si prolunga di lato in una prominenza puntuta, che potrebbe alludere a un’ala. Il braccio, esageratamente lungo, è proteso orizzontalmente in direzione di un qualcosa che sta sospeso per aria più in alto, consistente in un’asta verticale ‘avvolta’ da linee curve (una vela? uno stendardo? un ramo?). Mano certamente diversa da quella di a) e b). d) Testa maschile con sommità del busto, a quanto pare tunicato, isolata sullo stipite sinistro della porta, sopra l’iscrizione n. 4: alta circa cm 20, barbata, è sorretta da un collo taurino e calza sui capelli corti quella che sembra una cuffia a reticolo, in linea con la già evocata tomba dei Baccanti. e) Oggetto di sagoma ovale allungata con peduncolo in basso (una melagrana?), alto cm 12, appeso all’«orecchietta» destra della finestrella sinistra, appena sopra l’iscrizione n. 5. Si intravedono inoltre all’estremità destra dell’architrave della porta e alla sommità dello stipite sottostante, nello spazio lasciato libero tra le iscrizioni nn. 1 e 2, alcune linee assai sommariamente tracciate, in cui si potrebbero leggere i profili di due teste sovrapposte, la superiore più grande dell’altra, rivolte entrambe a sinistra. 4. Cronologia della tomba Indicatori utili per la determinazione della cronologia della tomba sono il suo rapporto spaziale con le tombe vicine, la tipologia architettonica, le figurazioni graffite e i resti del corredo, peraltro scarsi e problematici. 21 I tre grossolani segni paralleli tracciati quasi verticalmente tra le gambe, intersecando il disegno della figura, sono sicuramente dovuti a un intervento seriore.

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Fig. 17. Particolari della decorazione figurata della stessa parete.

Il dado in cui è inserita la tomba occupa un angusto spazio di risulta, compreso tra strutture tutte sicuramente preesistenti, alcune da antica data, in parte già menzionate (Fig. 6). Sono: a NE il tumulo dell’Affienatora (Figg. 4-5), a E il dado delle tombe 2302-

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2303, inglobante nel suo alzato i resti di due tumuletti del tipo a camera semicostruita, orientati a SO (2434 e 2435) (Figg. 18-19);22 a S i dadi unificati delle tombe 2304-2305, il primo dei quali ingloba un terzo tumuletto a camera semicostruita pure orientato a SO (2436) (Fig. 18); a O lo spiazzo antistante al tumulo Senza Nome, a NO il tumulo Senza Nome, orientato a SE (Fig. 7). I due tumuli monumentali risalgono, come s’è detto, rispettivamente agli inizi e alla fine del vii secolo, i tre tumuletti anch’essi agli inizi di quel secolo, se non alla fine dell’viii. Dei dadi, tutti affacciati sulla Via Principale e su di essa orientati (Fig. 18), il più antico è quello delle tombe 2302-2303, in origine monocamerali23 con dromos rettangolare, porta sormontata da lunetta nel caso della cameretta aperta sul dromos e, solo nella 2302, cornice dorica per la porta della camera: il che induce a una datazione non posteriore al secondo quarto del vi secolo.24 Seguono le tombe 2304 e 2305, che sono del tipo ad atrio con due camere affiancate sul fondo (tipo E di Prayon). Hanno porte e finestre di tipo dorico ma con proiecturae a becco di civetta, letti dell’atrio con zoccolo, nella 2304 entrambi del tipo a cassa lignea con specchiature (Fig. 20), nella 2305 il femminile a cassa liscia, il maschile con capitello a X incisa.25 La datazione dovrebbe essere contenuta nel terzo quarto del vi secolo. La tipologia architettonica della tomba delle Iscrizioni Graffite è da ritenersi derivata da quella delle tombe con atrio e due camere sul fondo (tipo E di Prayon), nonostante che la pianta a due camere coassiali abbia a Cerveteri una vetusta tradizione, risalente al tipo A, e la disposizione trasversale del soffitto della prima camera sia già presente nelle tombe del tipo C con prima camera più larga della seconda.26 Indicative del rapporto col tipo E sono le proiecturae della porta e delle finestrelle a becco di civetta pienamente sviluppato, diversamente che nel tipo D, e la conformazione dei letti della prima camera (tipo Steingräber 3a). Non mancano tuttavia indizi di seriorità rispetto al tipo E, propri del tipo F1: la «caditoia», i cuscini doppi dei letti e il superamento della distinzione di questi secondo il genere dei defunti, con l’abbandono del sarcofago a cassa lignea e l’adozione generalizzata della kline. Sono elementi che tuttavia fanno la loro apparizione a Caere già negli esempi più recenti del tipo E, quali la tomba Martini Marescotti (cuscini doppi e letti tutti a kline), la tomba dell’Argilla (letti a kline), la tomba di Marce Ursus (caditoia e letti a kline), la tomba degli Scudi Dipinti (cuscini doppi e letti a kline, associati alla campitura in rosso della parete divisoria).27 Ne deriva per la nostra tomba una datazione tra la fine del terzo e la prima metà dell’ultimo quarto del vi secolo, che è confermata dalle figurazioni graffite. Infatti lo stile marcatamente ionizzante di queste ultime, confrontabile con tombe dipinte del genere di quelle citate nel par. 3, 22 Del primo rimane quasi solo la cameretta, del secondo anche un ampio tratto della crepidine a filare di blocchi. Per il tipo, che è quello delle tombe 66 e 75 del Vecchio Recinto, cfr. Mengarelli, in Atti cit. a nota 4, pp. 5 e 13 dell’estratto, tavv. i: 8-9 e xii: 53; Prayon, Frühetruskische Grab-, cit. a nota 11, p. 16, tav. 3 (tipo A1); M. Moretti, Cerveteri, Novara 1977, pp. 7 e 22, tav. iii, fig. 8. 23 In seguito (nel v secolo) a ciascuna camera ne è stata aggiunta una seconda, più grande, dotata di banchina liscia continua e posta sullo stesso asse ma a una quota più bassa di quattro gradini, compresa in un ampliamento del dado di cui è stata messa in luce, sul lato adiacente al retro di quello della nostra tomba, l’assisa con la risega di fondazione (visibile nella foto saem 75520). Ancora più tardi (iv secolo?) le due seconde camere sono state messe in comunicazione tra loro. 24 Cfr. il secondo gruppo isolato nell’ambito delle più antiche tombe a dado (P. Brocato, in StEtr lxi, 1996, pp. 84-86), la cui cronologia entro il secondo quarto del secolo è ora confermata dalla pubblicazione del corredo della tomba 86 della Via dei Monti della Tolfa (A.M. Moretti Sgubini-L. Ricciardi, in Scavo nello scavo: Gli Etruschi non visti (catalogo della mostra di Viterbo), Roma-Viterbo 2004, pp. 169-175). 25 Cfr. Brocato, art. cit. a nota 24, p. 66, tav. xxb. 26 Per es. tomba della Quercia, tumuli iv e x della Tegola Dipinta e lo stesso tumulo Senza Nome. 27 Naso, Architetture dipinte, cit. a nota 1, pp. 78-81, figg. 48-50. La campitura in rosso dell’intera parete compare anche nella tomba Polledrara 21 (ibid., p. 87).

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Fig. 18. In primo piano gli ingressi delle tt. 2304 (a sin.), 2303 (al centro) e 2302 (a destra). Al di sopra si intravedono i resti dei tumuletti di età orientalizzante 2434, 2435, 2436, sul fondo il tumulo dell’Affienatora

Fig. 19. I tumuletti di età orientalizzante 2433 (in alto a sin.), 2434 (in basso a sin.) e 2435 (a destra), visti dall’alto.

postula una datazione negli anni 530-515, con preferenza per il termine più basso a causa del partito della fascia tricolore su zoccolo chiaro, il cui primo esempio è offerto, come si è detto, dalla tomba Bartoccini.

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Fig. 20. Sezione normale della Via Sepolcrale Principale (cfr. la pianta a Fig 6).

L’interno della tomba è stato visitato e depredato nel 1981 dagli scavatori clandestini, sicché non ha restituito altro che cocci, peraltro raccolti solo nel vano d’ingresso, nella cameretta laterale e soprattutto nella seconda camera, dove i clandestini avevano accumulato la terra rimossa dalla camera principale. L’orizzonte cronologico include non solo la seconda metà del vi ma, contro ogni aspettativa, anche buccheri a ventaglietti e impasti rossi, o bruni, di ultimo quarto del vii-prima metà del vi secolo.28 Al riguardo si può pensare o a vasi conservati a lungo nella casa prima di essere aggregati ai corredi deposti nella tomba o, più verosimilmente, considerata la loro intrinseca modestia, a vasi provenienti da tombe coeve o di non molto posteriori al Tumulo Senza Nome (come la fossa di cui si è detto all’inizio del § 2), distrutte per la costruzione del dado dopo averne pietosamente traslato il corredo all’interno della nuova tomba. Le ceramiche più significative tra quelle riferibili al periodo d’uso della tomba sono un frammento di anfora attica a figure nere con tìaso dionisiaco, attribuibile al Pittore di Chiusi o ad altro pittore del Gruppo di Leagros (Fig. 21),29 e tre frammenti di una grande kylix attica a figure rosse con scena di simposio e acclamazione mutila (Fig. 22), databile nel primo ventennio del v secolo, rinvenuti nello strato di superficie all’esterno del fianco destro del dado.30 5. Le iscrizioni Veniamo infine a quello che è l’aspetto di maggiore interesse della nuova tomba. Complessivamente sono riuscito a individuare dodici iscrizioni almeno in parte leggibili e tre 28 Secondo la valutazione di L.M. Michetti. 29 Busta 13, con cartellino «sporadico Tomba Iscrizioni». 30 Buste 4, 4A e 4B, del 28 e 29/IV/1982. Per la raffigurazione dello skyphos cfr. J. Boardman, Athenian RedFigure Vases. The Archaic Period, London 1975, figg. 131: 2 (Pittore di Kleophrades), 225 (Onesimos); A.A. Peredolskaya, Krasnofigurnye attischekie vazy, Leningrad 1967, tav. lvii: 2-3 (Makron). Cfr. in generale S. Batino, Lo skyphos attico dall’iconografia alla funzione, Napoli 2002 (segnalatomi da L. Ambrosini).

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Fig. 21. Frammento di ceramica attica a f.n. dall’interno della t. delle I.G.

Fig. 22. Frammento di ceramica attica a f.r. dall’esterno della t. delle I.G.

che non lo sono (nn. 2a, 6a-b), alcune delle quali in scrittura quasi miniaturistica, tutte eseguite a graffito e ubicate sulla parete di fondo della prima delle due camere coassiali: parete che è l’unica ad essere rivestita, come si è detto, di una pellicola d’argilla atta a essere dipinta e, per l’appunto, graffita. A parte le due collocate sull’architrave della porta (n. 1) e della finestrella sinistra (n. 9), le altre sono distribuite con apparente casualità sugli stipiti sia della porta (nn. 2-4) che della finestrella destra (n. 12), nonché sul tratto di parete intermedio tra la porta e le due finestrelle (nn. 5-8, 10-11) (Fig. 16). Le illustro iniziando dalla porta (nn. 1-4), per poi procedere verso la finestrella sinistra (nn. 5-9) e infine verso la finestrella destra (nn. 10-12). Premetto, a evitare inutili ripetizioni, che tutte le iscrizioni hanno andamento orizzontale o leggermente obliquo, sono sinistrorse e non mostrano alcuna traccia di interpunzione, né verbale né tanto meno sillabica.31 1. Si trova sull’architrave della porta, di cui occupa quasi per intero l’altezza (Fig. 23). È l’iscrizione senza confronto più importante, sia per la lunghezza e la complessità del testo, composto da 15 parole, sia per il formato delle lettere, sia per la collocazione nel luogo di massima evidenza. Tutto lascia pensare che sia stata anche la prima a essere tracciata (quando già tuttavia la pellicola d’argilla era stata intaccata da alcune lunghe e irregolari solcature ad andamento più o meno obliquo). Consta di 4 righe, di cui l’ultima assai più breve delle altre (nell’ordine: cm 109, cm 5 più 100, cm 90, cm 24). La riga 1 inizia a cm 9 dal limite destro dell’architrave e termina a cm 37 dal limite sinistro dello stesso, la 2 inizia a cm 4 dal limite destro ma dopo le prime due lettere prosegue, a seguito di 31 Nella trascrizione delle sibilanti ho adottato, seguendo H. Rix, il sigma greco per la sibilante marcata, qualunque ne sia la resa grafica in etrusco. Le citazioni delle iscrizioni comprese negli Etruskische Texte. Editio minor, a cura di H. Rix, Tübingen 1991, sono fatte direttamente con la sigla della provenienza e il numero d’ordine, senza la sigla ET né il nome del curatore.

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Fig. 23. L’iscrizione n. 1.

un ripensamento dello scriba, a cm 35 di distanza, allineata con la sottostante guancia della porta, e termina a ridosso del limite sinistro dell’architrave. Le righe 3 e 4 sono allineate con la 232 e terminano l’una ‘arrampicandosi’ sul becco di civetta sinistro e l’altra a cm 6 dall’asse verticale della porta. Come risulta dall’analisi linguistica del testo (vedi più avanti) le due lettere isolate all’inizio della riga 2 non costituiscono una falsa partenza e quindi non sono da espungere, contro quel che può apparire a prima vista. A prezzo di molti sopralluoghi e grazie a una reiterata compulsazione del copioso apparato fotografico di cui ho potuto avvalermi sono pervenuto a stabilire la seguente trascrizione. ramaıaspesiass¯. a[. .]ceıuistalıi i¯ larisarmas[. .]nasputuÛazi¯ ipave[.]iinaisiuıricelaricesi zu¯una I danni maggiori subiti dal graffito sono stati provocati dal secolare scorrimento sulla parete di tre esili rivoli, dovuti allo stillicidio generato da microfessurazioni del soffitto. Il primo da destra ha cancellato in tutto o in parte le lettere 14-15 della prima riga, 8 della seconda, 6-7 della terza e 6, ossia l’ultima, della quarta. Il secondo ha cancellato le lettere 17-18 della prima riga, 10 della seconda e 9 della terza. Il terzo, meno marcato, ha intaccato le lettere 13-14 della seconda riga e 13-14 della terza. Nonostante questi danni, e altri minori, la conservazione può dirsi nel complesso buona. La scrittura è abbastanza regolare, anche se l’altezza delle lettere varia da cm 3 (lettere finali della riga 3) o 5 (lettere iniziali della riga 1) a cm 10, attestandosi per lo più sui cm 78. Il ductus tende a essere curveggiante sia nel caso di c e di ı che in quello delle sibilanti, delle quali la s presenta la particolarità di avere la curva superiore assai più sviluppata dell’inferiore. Le traverse di a, z e t sono sempre ascendenti, come di norma a Caere, la a è angolosa, col primo tratto verticale e il secondo obliquo, il ı è vuoto nella prima occorrenza, puntato nella seconda e terza, le nasali hanno le aste di pari altezza, la r è quasi sempre dotata di codolo mentre la u e la ¯ tendono a esserne sprovviste. L’alfabeto è 32 Nello spazio rimasto vuoto tra la riga 1 e la sottostante iscrizione 2a sono state successivamente tracciate alcune linee forse spettanti al dorso di una figura, come detto alla fine del § 2, linee omesse nei disegni.

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quello cerite dell’ultimo quarto del vi secolo, quale lo conosciamo dal Piombo di S. Marinella, dalle Lamine di Pyrgi e dalla maggiore delle due tabelle bronzee di Pyrgi.33 Il dato più qualificante ne è, come nelle iscrizioni citate, il ricorso al sigma a quattro tratti (™) per denotare la sibilante marcata (putuÛa). L’altro tratto qualificante – la puntuazione con un punto – è assente sia in questa che nelle altre iscrizioni della tomba, ma la cosa non sorprende, trattandosi di graffiti. Concorda con la datazione paleografica l’assenza della sincope delle vocali brevi post-toniche (tranne, come si vedrà, dopo semivocale). La divisione delle parole e il riconoscimento dei nomi propri non presentano particolari difficoltà, così come l’integrazione delle tre brevi lacune, che risulta pressoché obbligata, come si vedrà. Ramaıa Spesias s¯. a[ni]ce ıui stalıi / i¯ Laris A.rmas[ii]nas putuÛa zi¯ / ipa Ve[l]iinaisi uırice L. aricesi / zu¯una L’iscrizione inizia col nome di una donna, Ramatha Spesias, fungente da soggetto del verbo di forma attiva e di tempo passato, s¯. a[ni]ce (per l’integrazione v. infra), che immediatamente lo segue, in posizione marcata rispetto alla determinazione locativa ıui stalıi, con la quale si chiude il primo enunciato. La -s finale del gentilizio è sicura, dato che precede una seconda s- con la quale inizia il verbo (quindi il gentilizio è Spesias, non *Spesia). Poiché la formula onomastica è in caso zero e il morfo -s del gentilizio non può denotare uno specifico rapporto di dipendenza, essendo impensabile che la protagonista dell’iscrizione di fondazione della tomba, perché di questo si tratta, sia una schiava, si ha la certezza che alla donna è attribuito il gentilizio sigmatico proprio dei membri maschili della sua gens, come si verifica non troppo raramente in Etruria, specialmente in epoca arcaica e specialmente a Caere.34 Eccezionale d’altra parte è la finale -ia(s) per un gentilizio maschile (Spes-ias, non *Spesies). Ai tardi esempi settentrionali di gentilizi e cognomi maschili con quell’uscita35 si può ora aggiungere il nome dell’autore di una dedica nell’Area Sud del vicino santuario di Pyrgi, Larz Asmaias (o, se il nome è in genitivo, Larza Maias).36 Può trattarsi di un’occasionale estensione al suffisso di matrice italica -ie- dell’«alternanza morfologica» -e/-a osservata per i prenomi maschili, come da me proposto commentando il graffito di Pyrgi.37 Ma altrettanto, e forse anche più verosimile, come oggi preferisco pensare, è un’alterazione di timbro della finale -ie del gentilizio per analogia con gli aggettivi formati con il suffisso di derivazione -ia,38 tra i quali si annoverano un epiteto divino maschile (Tular-ia, 33 M. Cristofani, in Atti Tübingen, pp. 55-60. Per la tabella lunga, da me riferita all’Area C, rinvio a Scienze dell’Antichità 10, 2000 (2002), pp. 298-302. 34 Alcuni esempi, cui altri se ne possono aggiungere, in REE 1988, n. 19 (M. Cristofani): istruttivi per il nostro caso specialmente £ane¯vil Luvciies (Ta 7.31) e Velelia(s) Eries (Vs 1.66). Non esiste l’inverso, poiché i rarissimi casi di gentilizi femminili dipendenti al genitivo da un prenome maschile in formule onomastiche non servili (Vs 1.26 e La 2.4) sono da considerare metronimici, assolventi la stessa funzione identificativa dell’omesso gentilizio, come fa il patronimico nel caso del Ları(ia) Velıurus della Regolini-Galassi (REE 2001, n. 21) e del Laris Larıiia della tomba tarquiniese delle Iscrizioni (Ta 7.24) (rettifico in parte quanto detto in Etruria e Lazio arcaico, a cura di M. Cristofani, Roma 1987, p. 59). 35 Asia, Vilia e ™elcia: Rix, EC, pp. 14, 239, 241. Ma vedi anche nomi come Ramıa Vania® ManaÛa (Cl 1.595). 36 REE 2001, n. 39 (D.F. Maras). Per un possibile esempio di iv secolo da Blera, inedito, v. M. Morandi, Prosopografia etrusca, i . Corpus. L’Etruria meridionale, Roma 2004, p. 61, n. 3, tav. VI: 2 (Ramıa Anias). 37 REE 2001, p. 414 sg. 38 Riconosciuto solo con la pubblicazione della dedica a Selvans Tularia da parte di C. De Simone, in REE 1987-1988, n. 128, che ha consentito la giusta analisi di aggettivi già noti da tempo, quali etera-ia, nacnva-ia, *rasna-ia (>rasnea). Cfr. L. Agostiniani, in Incontri linguistici 16, 1993, p. 37; M. Rendeli, in StEtr lix, 1994, p. 166; A. Maggiani, in StEtr lxii, 1998, p. 107; G.M. Facchetti, Frammenti di diritto privato etrusco, Firenze 2000, p. 27 (scettico rimane D.H. Steinbauer, Neues Handbuch des Etruskischen, S. Katharinen 1999, pp. 114, 292).

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riferito a Selvans) e un attributo qualificante persone di entrambi i sessi (ais-ia/es-ia).39 In entrambe le eventualità si ha indubbiamente a che fare con un riaffiorare nell’ambito dell’onomastica personale della ben nota indifferenza dell’etrusco verso la distinzione del genere. Quanto al gentilizio *Spesies/Spesias che è un hapax, si può solo dire che alla sua base è il nome individuale *Spe, da cui i gentilizi Spenu(i) e Spiu, o eventualmente la sua variante *Spes con -s tematica come in Vetus, Aris, Lau¯umes40 e simili. L’integrazione s¯a[ni]ce della voce verbale è consentita dall’occorrenza della stessa voce nel Liber, con ampliamento tematico -n-41 e ortografia ®canin-: sono attestati il passato ®canince (iii, 15-16) e l’imperativo ®canin (x, 8, 12), in contesti rituali di ardua interpretazione. Il verbo, sicuramente transitivo, in una delle occorrenze è preceduto dall’oggetto dell’azione (x, 11-12: vacl ®canin), che nelle altre tre sembra essere omesso. Anche nel nostro caso l’oggetto manca, ma sono indicati il luogo e, con un successivo enunciato, le modalità con le quali Ramatha Spesias ha agito. Il luogo è la tomba stessa, cui ci si riferisce con l’avverbio ıui, «qui»,42 seguito da un’ulteriore determinazione, stalıi; «nella (tomba) dello sta», espressa con una locuzione del tipo Unialıi, «nel (santuario) di Uni», presente già nella Tegola. L’analisi sta-l-ıi, in cui stal è manifestamente il genitivo II di sta, come rasnal lo è di rasna e ıval di *ıva,43 rinvia a un appellativo noto attraverso il genitivo I stas da tre attestazioni, dichiaranti l’appartenenza allo sta44 non solo di oggetti d’instrumentum, quali una fuseruola d’impasto45 e una coppa di bucchero,46 ma anche, nel caso di una tegola funeraria,47 di una persona, peraltro dotata di gentilizio e quindi non di condizione servile. La disparità di situazioni fa pensare a un lessema affine ai termini latini familia, comprensivo di cose e di esseri umani, e domus, comprensivo non solo di schiavi ma anche di liberti e clienti,48 vincolati a un dominus che poteva anche essere in Etruria, come nel caso della tegola citata, una donna. 39 Significante la damnatio memoriae del titolare, quasi certamente maschile, di una tomba a camera, scritta sul suo nome eraso (Vs 4.3), e la condizione di Arianna che muore per conseguire l’immortalità (La S.1: cfr. G. Colonna, in StEtr li, 1983 [1985], p. 156 sg., dove il mancato riconoscimento del suffisso mi ha fatto parlare per entrambe le occorrenze di aggettivi femminili). Formalmente aisia corrisponde, previa sostituzione di -na a ia, a aisna/eisna del Liber, così come, con intervento del suffisso -u, eteraia a eterau, tularia a tularu. 40 L. Agostiniani, in Linguistica è storia. Scritti in onore di C. De Simone, Pisa 2003, pp. 22-32. Cfr. anche REE 2001, n. 117 (G. Giannecchini, L. Reali); A. Maggiani, in Roma 2001, p. 153, ii.B.5.2. 41 Con valore di morfema causativo secondo Wylin, Verbo etrusco, pp. 119-121. Lo spazio della lacuna esclude nel nostro caso la presenza dell’ampliamento. 42 Di cui questa è per ora la più antica attestazione, assieme a Vs 1.299. 43 Cfr. il loc. ıve (G. Colonna, in Picus iv, 1984, pp. 95-105) e il gen. arcaico ıuva(s) di Pyrgi (e di Chiusi: REE 1993, n. 34, r. 3). 44 Voce a lungo considerata verbale, sulla base di errate letture o arbitrarie divisioni di parole. Vedi, tralasciando gli autori anteriori: E. Goldmann, in StEtr ii, 1928, p. 217; M. Pallottino, ibid. v, 1931, p. 246; S.P. Cortsen, ibid. viii, 1934, p. 244; G. Buonamici, ibid. xiv, 1940, pp. 397-399 (che traduce l’iscrizione della fuseruola di cui appresso «a Velena mi dona Lar»); M. Durante, ibid. xxii, 1952-1953, p. 422. I primi dubbi al riguardo sono sorti con la rilettura delle iscrizioni vascolari campane da parte di E. Vetter e F. Slotty. 45 Fa 2.5, la cui provenienza dall’agro falisco (ripresa anche da M. Cristofani, «pbsr» lvi, 1988, p. 15, nota 14) non risale al primo editore (nulla dice al riguardo R. Garrucci, in AnnInst 1860, p. 243), ma è una verosimile ipotesi di M. Pallottino (TLE 33), cui reca sostegno il gentilizio, attestato solo a Narce e a Orvieto (Fa 2.12, Vs 1.169) e formato a mio avviso sul nome falisco Uelos. Leggo con Cristofani Larz invece di Larv (Velenas mi stas Larz) e intendo «di Velenas Lar io dello sta (sono)», con formula onomastica in genitivo (per il prenome cfr. il gen. Lar® di Ar.2, e gli esempi di scrittura -z per -s raccolti da G. Van Hems, in StEtr lxix, 2003, p. 203 sgg.), anticipazione del gentilizio al prenome e incastro tra l’uno e l’altro del gruppo pronome + appellativo che ne dipende. 46 Ve 0.5 (nel CIE in preparazione a cura di D.F. Maras e mia n. 6677): ®ta® [- - -]. 47 Cl 1.783: Aule Puizna Velcial ®ta®, «Aule Puizna (membro) dello sta di Velci». Il gentilizio del defunto è noto altrimenti solo in riferimento a una donna (Cl 1.743-744). Per il valore di appellativo del termine sta v. già Rix, EC, p. 139. 48 C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, i, Roma 1994, spec. pp. 17 sg., 73 sgg., 80 sg., 383 sgg. Recentemente M. George, in RM 107, 2000, p. 193, con bibl.

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Le modalità dell’azione compiuta da Ramatha Spesias sono indicate perifrasticamente con una subordinata, che occupa l’intera riga 2 ed è introdotta dalla congiunzione i¯, «come», lat. ut. Segue, dopo una lunga pausa grafica dovuta, come si è argomentato, alla diversa impaginazione introdotta in corso d’opera dallo scriba, il nome di un uomo, Laris Armasiinas (per l’integrazione -ii- della lacuna vedi il successivo Veliina-), fungente da soggetto del verbo zi¯, posto secondo la norma in posizione finale: «scrive», verosimilmente in senso pieno, «prescrive». Si tratta di una nuova testimonianza di quello che è stato definito l’ingiuntivo a marca zero,49 coincidente con la nuda radice del verbo e formalmente indistinto dalla maggioranza degli imperativi. Nel nostro caso la forma era già attestata nel tardo vii secolo a Caere nella chiusa dell’iscrizione dell’aryballos Poupée (Asi ikan zi¯ Akarai, «Asi questo scrive in Akara» o «in A(n)kara»),50 nella prima metà del v nella chiusa del Piombo di Pech-Maho (zi¯ Hinu Tuzu[- ? -] «scrive Hinu Tuzu[- ? -]»).51 L’autore dello scritto cui si è conformata Ramatha Spesias nel compiere l’azione s¯a[ni]ce all’interno della tomba, Laris Armasiinas, ha un gentilizio che è anch’esso un hapax, alla pari di quello della donna. L’ovvia analisi Arma-sii-na(s) rinvia al nome individuale Arma, attestato in età recente come gentilizio a Chiusi,52 Montefiascone53 e, attraverso il femminile Armi,54 nella stessa Caere (Cr 1.153). Al gentilizio segue la forma articolata putuÛa che, non essendo *putu, per quanto sappiamo, una voce onomastica,55 va accostata ad appellativi quali sacniÛa, «il santo, il pio», e ıeluÛa, «il thelu».56 Come per altre forme in -u, quali zi¯u, il citato ıelu e *capu,57 dovrebbe trattarsi di un aggettivo verbale di significato attivo, rinviante alla radice put-/puts-,58 cui si possono fondatamente riferire il passato putuke della dedica votiva apposta sul «cippo» di Monteguragazza,59 l’ingiuntivo puts di una dedica vascolare60 e l’imperativo di ugual forma del Liber, 49 In G. Facchetti, Appunti di morfologia etrusca, Roma 2002, p. 98 sgg., che però lo ritiene solo di prima persona. 50 Cr 0.4. Cfr. per il valore verbale di zi¯ Wylin, Verbo etrusco, p. 198, per Asi come soggetto del verbo Facchetti, Appunti, cit. a nota 49, pp. 90 e 106 (il nome è altrimenti noto in età arcaica nella variante Asu, cfr. REE 2001, n. 101). Per il nome di luogo Akara, qui identificato per la prima volta, cfr. l’etnico Ac/¯rate, rinviante ad Acerrae (Rix, EC, p. 232) o, se dinanzi alla velare è caduta una n, come in A(n)¯esi (Cr 3.16), ad Ancarano nell’entroterra di Tarquinia (E. Colonna Di Paolo-G. Colonna, Norchia i, Roma 1978, p. 19 sg., nota 4, tav. xix). Per la formante -ra- cfr. il nome stesso di Caere, Kaisera-, e quello della vicina Blera (G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), i-iv, Pisa-Roma, 2005, i, pp. 17-19). 51 Seguo l’interpretazione di M. Cristofani, accolta da. Wylin, Verbo etrusco, p. 197 sg. 52 CIE 940, con lettura a torto emendata da Rix in Cl 1.1254 (come rileva E. Benelli, in StEtr lxiv, 2001, p. 234). 53 Specchio CIE 10899; Vs 2.37, in cui, a parte le didascalie delle figure, leggo Ar/m/as/ A(rn)ı L/a/rn/l/a, ossia «Arnth Armas (ha dato) a Larnai», col gentilizio della donna flesso al pertinentivo II (Larn(a)la: cfr. le forme arcaiche Vestiricinala, Venala e sim.) (giusta la lettura ma arbitraria l’ordinatio data al testo da A. Maggiani, in Caelatores (Atti della giornata di studio, Roma 2001), Roma 2002, p. 7 sg.). 54 Cfr. gli esempi in Rix, EC, p. 245. 55 La u interna del recente Puturna- (AS 1.3, 119) è infatti anaptittica (cfr. Putrna- di AS 1.2, che rinvia alla base Putere- di Vc 2.1 e 3.3). 56 H. Rix, in ArchCl xliii, 1991, p. 681 sg.; Wylin, Verbo etrusco, pp. 282-287 (non convincente per sacniÛa il significato «cosa consacrata» proposto da Facchetti, Appunti, cit. a nota 49, p. 59 sg.). 57 Wylin, Verbo etrusco, pp. 139-141; Facchetti, Appunti, cit. a nota 49, pp. 94-98. 58 Per l’ampliamento -s cfr. Wylin, Verbo etrusco, pp. 187-189. 59 Fe 3.3, con lettura della riga 2 da emendare in lariz aulna® putuke, considerando lariz scrittura anaptittica per larz (forma frequente a Spina: Sp 2.58, 71, 75, 94, su cui v. REE 1981, ad n. 38), di fatto attestata a Norchia (larizl: REE 1981, n. 25, lettura a torto emendata in AT 1.183b), e ritorno per la quartultima lettera alla lettura data in REE 1972, n. 232 (la supposta traversa inferiore non essendo che il prolungamento della linea divisoria tra le due righe). 60 OA 3.8, che intendo «Marce Svincinas come cosa buona (alpan) offre». Altra probabile attestazione del verbo nell’epitaffio di Pulenas (Ta 1.17, r. 6).

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scritto puıs.61 Si è pensato per questa radice al concetto di «porre»,62 nel senso sacrale che può assumere il latino ponere: *putu in tale prospettiva ermeneutica è «colui che pone» (cfr. zi¯u, «colui che scrive»), ossia «che fa offerte agli dèi», «che si comporta piamente», sia o no un sacerdote. Il che si accorda assai bene con l’avere prescritto l’azione, verosimilmente rituale, compiuta da Ramatha Spesias nella tomba. Il testo prosegue, e si conclude, con un terzo enunciato, che occupa per intero le righe 3 e 4. Lo introduce la parola ipa, di cui questa iscrizione conferma, credo definitivamente – ed è acquisizione di notevole portata –, il valore di pronome dimostrativo, corrispondente a lat. idem63 e quindi, in questo caso, a eadem. Infatti il riferimento è a Ramatha Spesias, soggetto del primo enunciato, al quale il terzo è coordinato per asindeto. Il pronome funge da soggetto del verbo uırice, che purtroppo è un hapax,64 avente in comune con s¯a[ni]ce il morfo del passato di forma attiva. Il verbo, manifestamente transitivo, ha come oggetto l’appellativo zu¯una, collocato in posizione anomala alla fine dell’enunciato. Si tratta di un aggettivo sostantivato, già noto in caso zero dal Piombo di S. Marinella, in un contesto peraltro oscuro (Cr 4.102), e dalla Tegola, dove compare flesso al locativo zu¯ne ( *Veliinais > Veliinaisi), anche al fine di mantenere la distinzione rispetto alla corrispondente forma di ablativo.72 La scrittura -ii- di Veliina- è un fatto puramente grafico, che denota in età anteriore alla sincope delle vocali brevi post-toniche la -/i˛ /- semivocale (es. Veliiunas, Vipiiennas, Numisiies), a sincope avvenuta la risultante vocale lunga -/i/- (es. Acriina, Cleiina, Rai®iis, tutti di v secolo).73 Veliina- corrisponde pertanto fonologicamente a /Velina-/, così come Armasiina-, se questa ne è la corretta integrazione, ad /Armasina-/. Poiché altrimenti la sincope è assente nell’iscrizione in esame (vedi le forme Ramaıas, Laricesi e zu¯una), se ne deduce che essa si è prodotta precocemente nei confronti delle vocali brevi in sillaba interna precedute da semivocale, la cui caduta non comportava, grazie all’assunzione da parte di quest’ultima di un valore vocalico, la creazione di una sillaba marcata, quali sono in etrusco le sillabe chiuse. Ciò consente di capire perché il gentilizio quadrisillabo scritto a Pyrgi nella Lamina maggiore Velianas e in quella minore Veliiunas, forme entrambe rinvianti a /VeliŒnas/, nella Lamina fenicia compare, ridotto a trisillabo, nella trascrizione WLNŠ invece che *WLYNŠ com’era da attendersi.74 Ne è stato giustamente dedotto75 che la pronuncia del nome, quale almeno veniva recepita da un orecchio straniero, doveva già allora essere /Velinas/: la nuova iscrizione conferma che quella era di fatto la pronuncia corrente tra i Ceriti, consentendo di acquisire un dato importante per la cronologia e il modus operandi della sincope etrusca. Chi era Larice Veliinas? Certamente uno dei defunti sepolti nella tomba in cui si trova l’iscrizione, fatto oggetto di particolari onoranze da parte di Ramatha Spesias, che è ragionevole pensare ne sia stata la vedova. Il gentilizio è lo stesso, in una redazione aderente alla lingua parlata e immune da preoccupazioni etimologiche, di un personaggio storico, il Thefarie Velianas/Veliiunas «regnante su Kaiserie»,76 autore della dedica del tempio B di Pyrgi registrata dalla Lamina fenicia e dall’etrusca maggiore.77 Considerata l’estrema rarità del gentilizio, di cui questa è per Caere e quasi l’intera Etruria l’unica attestazione, sia di età arcaica che di età recente,78 si tratta con ogni probabilità di un 70 Ne ho raccolto esempi in L’incidenza dell’Antico. Studi in memoria di E. Lepore, i, Napoli 1995, p. 337 sg., nota 56. 71 Secondo la «legge Kiparsky», enunciata nei confronti della fonetica delle lingue indoeuropee e anche dell’etrusco (L. Agostiniani, Le «iscrizioni parlanti» dell’Italia antica, Firenze 1982, p. 214 sg.; Id., in Lalies 11, 1992, p. 56). 72 Cfr. gli ablativi cuveis, turzais e riınaitultrais della Tegola. 73 Per Rai®iis: CIE 8849. Per il valore di -ii- v. H. Rix, in Atti Tübingen, p. 89 sg. 74 O. Szemerényi, in Studi micenei ed egeo-anatolici i, 1966, p. 125 (con l’ipotesi debole di un errore). 75 H. Rix, in Atti Tübingen, p. 89 sg. Cfr. Steinbauer, op. cit. a nota 38, pp. 45, 47, e P.C. Schmitz, in Journal of the American Oriental Society 115, 1995, p. 563 sg. 76 La vocalizzazione della seconda sillaba con -/e/- è consentita dalla scoperta di un’iscrizione arcaica con l’etnico kaiseriıe usato come prenome (A. Maggiani, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino, Pisa-Roma 1999, p 51 sgg.). 77 Della quale ora si è arrivati a ipotizzare l’esistenza di una replica conservata ed esposta a Caere (K. Wylin, in ParPass lviii, 2003, pp. 61-65), senza tenere conto dei deittici che l’ancorano a quel tempio e a quel santuario. 78 Il gentilizio compare infatti solo nel remoto agro di Fiesole e tra i Falisci, in entrambe le occorrenze nella forma Vilianas/® (Fs 1.5, su un cippo funerario a clava di vi secolo, e Fa 2.14, su una coppa a vernice nera di iv secolo con un testo stranamente arcaizzante, su cui Cristofani, art. cit. a nota 45, p. 23, n. 10). Altrimenti ne è

cerveteri. la tomba delle iscrizioni graffite membro della gens del «re» Thefarie. Un membro tutt’altro che collaterale, vissuto nella generazione che ha preceduto la sua, essendo morto, a giudicare dalla datazione della tomba, non dopo il 530-520 a.C., quando Thefarie probabilmente non era ancora «re», dato che nelle Lamine si afferma che era asceso al potere solo tre anni prima della dedica del tempio di Pyrgi, avvenuta al più presto intorno al 510 a.C.79 Nulla esclude, anzi tutto fa pensare che ne sia stato il padre. Ma sulla questione tornerò nelle conclusioni.

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Fig. 24. Le iscrizioni n. 2 e 2a.

2. Si trova quasi alla sommità dello stipite destro della porta, in posizione orizzontale con una pendenza appena percepibile verso sinistra (Fig. 24). È seconda per importanza solo alla n. 1 per numero di parole (cinque), formato delle lettere, regolarità della scrittura ed evidenza visiva. Si compone di due righe, di cui la prima occupa l’intera larghezza dello stipite, mentre la seconda si arresta a cm 3 dalla guancia della porta. Le lettere, alte da cm 2,1 a cm 4, sono abbastanza ben conservate, tranne le due al centro della seconda riga, intaccate da una caduta dell’argilla. Ne do la trascrizione. vel¯aÛitaras ÛeÛipeiarce La scrittura è in tutto simile a quella del n. 1, uso del sigma a 4 tratti compreso, che qui compare tre volte e sempre con ductus curveggiante. La divisione delle parole e il riconoscimento dei nomi propri anche in questa iscrizione non presentano difficoltà. Vel¯a ™itaras / ÛeÛ ipei arce L’iscrizione consta di un solo enunciato, costruito regolarmente con la sequenza SOV e una determinazione avverbiale collocata tra O e V, in penultima posizione.80 Soggetto questa volta è un uomo, Velcha ™itaras, dal prenome ben noto a Caere in epoca arcaica e sin dalla metà del vii secolo, sia direttamente (REE 1993, n. 20 e, al femminile, Cr 2.65) che attraverso i gentilizi Vel¯anas (Cr 3.11) e Vel¯ainas (Cr 3.10 e 13, La 3.1), il secondo basato sulla forma ampliata Vel¯ae (< Vel¯aie), ora attestata in pieno vii secolo a Pontecagnano (REE 2002, n. 84). Il nome sembra essersi propagato in Etruria e fuori (a Orvieto, Cortona, in Campania e finanche a Poseidonia)81 partendo da Caere, poiché nel vii-vi secolo a Veio abbiamo *Velka (cfr. il gent. Velkasnas di Ve 3.10 e di REE 2001, n. 102, che in un seriore graffito parietale tarquiniese è scritto Vel¯asnas: REE 1999, n. 15), a Chiusi noto, da un’iscrizione perduta su vaso «rozzo», come tale forse non posteriore al v secolo, proveniente dalla periferica Tolfa, un derivato, Velinie(s) (Cr 2.88), continuato in età recente nell’Etruria settentrionale da Velini(Cl 1.417 e 1193, su cui Rix, EC, p. 115) e Veline (Po 0.4, Co 1.15). Il non aver lasciato alcuna traccia nella prosopografia ceretana ha fatto pensare che Thefarie sia stato un homo novus alla pari di Porsenna (G. Colonna, in La lega etrusca dalla dodecapoli ai Quindecim Populi (Atti della giornata di studi, Chiusi 1999), Pisa-Roma 2001, p. 31). 79 G. Colonna, art. cit. a nota 33, p. 275 sgg. 80 Schulze-Thulin, art. cit. a nota 68, p. 184, n. 23. 81 Per le testimonianze, ma con diversa valutazione: Morandi, Prosopografia, cit. a nota 36, p. 185 sg.

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Vel¯e (REE 1999, n. 11), mentre a Tarquinia la gens dei Vel¯a, che ha reso illustre il nome, è nota solo a partire dal iv secolo (una sua origine forestiera è resa probabile anche dal fatto che è l’unica, tra le grandi gentes tarquiniesi, ad avere un «Vornamengentile»).82 Il gentilizio ™itaras è un hapax, di cui conosciamo il derivato ™itrinas di Nola (CIE 8737, da *™itara-ie-nas), di metà v secolo. La formante -ra- trova larghi confronti a Caere,83 mentre per la radice si può citare il gentilizio ™iıurnas di un’iscrizione di ignota provenienza, forse veiente Fig. 25. L’iscrizione n. 3. o falisca per il sigma plurilineare, di tardo vii secolo (REE 1996, n. 16). Il verbo arce non ha bisogno di commento: è il passato di diatesi attiva del più comune verbo di «fare» di età recente, attestato qui per la prima volta in età arcaica, a differenza delle forme ar e ara. Oggetto dell’azione è ÛeÛ, termine lessicale presente da solo in età recente su due coppe da Populonia nella forma ampliata ÛeÛa (Po 2.18, REE 2004, n. 8), che ritorna nel Liber flessa al loc. ÛeÛe (< ÛeÛa-i), forse con valore strumentale (LL iii, 20 e viii f 5). Si tratta con ogni probabilità di una cosa atta a essere offerta, forse una sostanza alimentare,84 per cui il verbo «fare» andrà inteso nel senso pregnante di «offrire» o «sacrificare», come notoriamente si verifica anche per ÔȤˆ, facio e il venetico fagsto.85 Le modalità dell’azione sono indicate dal loc. ipei (< ipa-i), finora attestato solo nel Liber (LL x, 7 e 9), che significherà o «nel medesimo (luogo)», eodem (loci), con riferimento all’azione compiuta da Ramatha Spesias menzionata nella soprastante iscrizione n. 1, cioè all’interno della tomba, oppure, meno probabilmente, «nel medesimo (modo)», eodem more, con riferimento a quanto scritto dal Laris Armasiinas menzionato nella stessa iscrizione. 2a. Alle due righe sopra esaminate ne seguono altre due, scritte con lettere quasi tutte più piccole e meno curate, certamente da altra mano, di lettura disperata (Fig. 24). txu[. .]iı[- - -?] [. . .]ui[.]xxau La a della r. 2 ha la traversa calante, a differenza di tutte le altre iscrizioni. La lettera seguente potrebbe anche essere un ı. 3. Si trova presso la sommità dello stipite sinistro, allo stesso livello dell’iscrizione precedente, con inizio a ridosso della guancia della porta (Fig. 25). Lettere alte cm 3, abbastanza regolari. Consta di una sola parola. ıe[.]anıe 82 Il che sembra sfuggire a A. Maggiani, in Pittura parietale, pittura vascolare (Atti della giornata di studio, S. Maria Capua V. 2003), Napoli 2005, p. 127, che pure vede nel fondatore della tomba degli Scudi un homo novus. Sui gentilizi tarquiniesi: Morandi, Prosopografia, cit. a nota 36, pp. 641-645. 83 Gentilizi Alıras, Veuras, Muras, Savras. 84 Così M. Bonamici nel commento alla seconda occorrenza da Populonia. 85 Rinvio al mio cenno in RM 82, 1975, p. 183 (= Colonna, Italia, cit. a nota 50, iv, p. 1797).

cerveteri. la tomba delle iscrizioni graffite

Fig. 26. L’iscrizione n. 4.

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Fig. 27. L’iscrizione n. 5.

Il segno verticale dopo l’ultima lettera, simile a una i, è certamente anteriore all’iscrizione e non ne fa parte, perché è in parte cancellato da un doppio fregio orizzontale cui si sovrappongono le ultime tre lettere di quella. È ovvio il riconoscimento del nome personale £e[s]anıe

Noto finora solo nella forma femminile £esa(n)ıei (Cr 7.1), gen. £esanıeia (Cl 2.8),86 in età recente £es(n)tia (AV 1.4), è un nome teoforico, derivato dal nome della dea Thesan, venerata tra l’altro nel tempio A di Pyrgi.87 4. Si trova più in basso sullo stesso stipite della porta, al disotto della testa maschile graffita d), con inizio vicino alla guancia della porta (Fig. 26). Lettere alte da cm 4 a cm 6, alquanto irregolari. Consta come la precedente di una sola parola. mama Anche in questo caso è ovvio il riconoscimento di un nome personale maschile. Mama Evidente «Lallname», attestato in falisco già nel vii secolo dall’iscrizione di Cerere (Vetter 241) e di sicuro radicamento in area sia latina che italica.88 Finora era noto in etrusco solo in età recente (OA 2.85, forse anche CIE 8825),89 quando a Chiusi s’incontra anche la probabile forma dissimilata Mana con valore di gentilizio (Cl 1.595, 805). 5. Si trova tra la porta e la finestrella sinistra, immediatamente al disotto dell’oggetto graffito, forse una melagrana, pendente dall’orecchietta» della finestrella, e precisamente all’altezza del peduncolo inferiore del frutto, se di questo si tratta (Fig. 27). Due righe 86 Attestato anche a Caere da un’iscrizione arcaica integrabile come [£es]anıeia (M. Pandolfini, in Miscellanea ceretana i, Roma 1989, pp. 71 e 74, n. 13). 87 Colonna, art. cit. a nota 33, p. 330 sgg. 88 Alle testimonianze raccolte in W. Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen, Berlin 1904, pp. 360, 516, va aggiunta quella, assai antica, dei Mamilii di Tuscolo. 89 Cfr. per l’iscrizione dello specchio K. Wylin, in StEtr lxx, 2004, p. 217. Un’attestazione arcaica è forse offerta dall’iscrizione vulcente CIE 11062.

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italia ante romanum imperium con sensibile pendenza verso sin., la prima occupante l’intera larghezza dello spazio disponibile, la seconda solo i primi cm 2,5. La prima riga mostra un netto ‘crescendo’ nel formato delle lettere, dalle iniziali alte poco più di cm 1 alle ultime tre che arrivano a cm 3,5. Lettura in parte incerta, specialmente per la seconda riga. rusivenıinas uxı Fig. 28. L’iscrizione n. 6.

La prima lettera può essere anche una p, ma i confronti onomastici che è possibile addurre fanno preferire la lettura r. La divisione delle parole e il riconoscimento dei nomi propri non presentano difficoltà. Rusi V.enıinas / uxı

Il nome individuale Rusi, qui fungente da prenome, non è attestato altrove, ma è presupposto dal gentilizio Rus(i), o Rus(ina), di Musarna (AT 1.134) e RuÛina di Chiusi (ET, 16 occorrenze), continuati dal gentilizio latino Rosius/Rusius coi suoi derivati,90 le cui più antiche attestazioni epigrafiche vengono proprio da Caere (CIE 6201) e dal non lontano agro di S. Giovenale,91 ma la cui origine sabina sembra sicura.92 Il nome s’inserisce nella serie rappresentata in età tardo-arcaica da Anıasi (Ta 7.27), £anursi (Cl 2.23) e Muki (Cl 2.13), in età recente da nomi, usati per lo più in funzione di gentilizio, quali Cusi (Vs 1.181, r. 5, Co 1.16), NumÛi (ET, 8 occorrenze a Chiusi e 2 a Perugina) e £ansi (Ta 1.149 e ET, 22 occorrenze a Chiusi, 2 nell’ager inter),93 che è alla base del gentilizio £ansina di una delle gentes più in vista di S. Giuliano (AT 1.192-194).94 Il gentilizio Venıina, formato su un nome individuale noto da un’unica attestazione, Venıi (Vc 7.30), è continuato a Perugia in età tarda dal gentilizio Venına (ET, 5 occorrenze). Incerta la lettura e l’interpretazione della parola scritta nella seconda riga. Potrebbe trattarsi del verbo u[r]ı di cui conosciamo dalla pietra di S. Marinella il necessitativo urıri (Cr 8.1, r. 5). Il verbo, che qui comparirebbe nell’ingiuntivo a marca zero (come nel caso di zi¯ del n. 1), nella pietra citata precede un altro necessitativo ad esso coordinato, uıari, corradicale del verbo uırice che esprime nel n. 1 l’azione compiuta da Ramatha Spesias a beneficio di Larice Velinas. Si può pertanto intendere, con la dovuta cautela: «Rusi Venthinas compie l’azione urı», verosimilmente anch’egli nei confronti di Larice Velinas. 6. Immediatamente al disotto dell’iscrizione precedente correva un’iscrizione di cui non sono leggibili che le lettere finali, a ridosso della finestrella, alte da cm 2 a cm 3,5, tracciate con forte pendenza sinistrorsa (Fig. 28). 90 Schulze, op. cit. a nota 88, pp. 222, 369. 91 Loc. M. Monastero: E. Colonna Di Paolo-G. Colonna, Castel d’Asso, Roma 1970, p. 34, nota 2; CIL i, 4, 3341a; E. Papi, L’Etruria dei Romani, Roma 2000, p. 13. 92 I Rosii sono una gens senatoria di Trebula Mutuesca (M. Torelli, in Tituli v, 1982, p. 196) e il più eminente dei tre personaggi dell’epitafio di M. Monastero reca il cognome Sabinus. 93 Rix, EC, pp. 218 sg., 256. 94 Morandi, Prosopografia, cit. a nota 36, pp. 250, 253.

cerveteri. la tomba delle iscrizioni graffite

Fig. 29. L’iscrizione n. 7.

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Fig. 30. L’iscrizione n. 8.

[- - -]naiie Prima della n sembra di intravedere una a. Finale di gentilizio in caso zero con geminazione -ii- come in Veliinasi e forse Armasiinas del n. 1. Lo spazio disponibile fa ritenere che l’iscrizione consistesse in una formula onomastica con la sequenza prenomegentilizio, quest’ultimo forse da leggere Anaiie. Si noti la forma non sigmatica e la conservazione della finale -ai(i)e, invece di -ae o -ie, come avviene in iscrizioni arcaiche soprattutto veienti (Ve 3.2 e 19, OA 0.1) e campane (Cm 2.9, 38, 50). Se la lettura Anaiie è corretta, il gentilizio, variamente graficizzato, trova confronti sia in epoca arcaica, a Tarquinia (Ta 7.14), che recente, a Caere stessa (Cr 2.133), Blera (v. supra, nota 36), Vulci (Vc 1.74), Bomarzo (AH 1.12), ecc. 6a. Di un’iscrizione sottostante, con lettere di pari altezza, non si leggono che due lettere in posizione centrale. [- - -]ia[- - -] 6b. Più in basso sembra di leggere, sempre in posizione centrale, la sequenza [- - -]af[- - -] Il supposto segno a 8 è ‘aperto’ sia in alto che in basso, sì da creare incertezza nel suo riconoscimento. 7. Ancora più in basso è chiaramente leggibile, sempre in posizione centrale, un’iscrizione a monoverbo tracciata in direzione orizzontale, con lettere assai piccole, alte circa cm 1,5 (Fig. 29). venel Il prenome Venel è qui, come detto, sicuramente isolato. 8. Sulla striscia nera della fascia tricolore dipinta al disotto della finestrella sinistra è tracciata un’iscrizione in lettere ancora più piccole che nella precedente, alte da cm 1 a cm 1,5 (Fig. 30).95 95 Individuata nel 1996 da M. Morandi.

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italia ante romanum imperium ıanursasie

Theta con croce obliqua interna, eccezionale a Caere. Probabilmente da espungere la sequenza -sa-, scritta per errore e sostituita da -sie. £anursie

Fig. 31. L’iscrizione n. 9.

Ovvio il riconoscimento del prenome teoforico attestato da Ve 3.30 e Ta 7.2 e, indirettamente, come base di gentilizi in -na, variamente graficizzata (Cr 3.14, Vs 1.13 e 52).

9. Si trova sull’architrave della finestrella sinistra, in posizione di grande evidenza, allineata con la guancia dello stipite destro (Fig. 31). Lettere alte da cm 3 (la s) a cm 6 (l’ultima a della r. 2). x[. . .]iu[.]a[.]i[. .] larispeiana[.?] La caduta della pellicola d’argilla ha gravemente danneggiato la r. 1. La prima lettera potrebbe essere una a. La n appare di tipo evoluto, con aste di pari lunghezza e traversa intersecante l’asta sinistra a una certa distanza dall’estremità inferiore, partendo più in basso della sommità dell’asta destra. Anche la r è di tipo evoluto, con occhiello grande e senza peduncolo. Sono caratteri che avvicinano fortemente la grafia dell’iscrizione a quella delle Lamine di Pyrgi.96 Non è possibile proporre integrazioni per la troppo mutila r. 1. La r. 2, di lettura sicura, si compone di una formula onomastica in caso zero. Laris Peiana[s?] Il gentilizio, probabilmente sigmatico, era noto finora nella forma ampliata *Paianiie(s) di Quinto Fiorentino97 e Paienaie(s) di Orvieto (Vs 1.36, con lettura a torto emendata in Palenaies), non che nella forma recente Paina/Peina, attestata a Tarquinia, Norchia e nell’Etruria settentrionale (Morandi, Prosopografia, cit. a nota 36, pp. 343 sgg., 362). Alla sua base è il nome Paie, attestato proprio a Caere (Cr 2.118, arbitrariamente corretto in Pale) e, nella forma Pai, in Campania (Atti Salerno-Pontecagnano, p. 368, VE 3). 10. Si trova tra la porta e la finestrella destra, ad altezza di poco inferiore all’orecchietta di questa (Fig. 32). Corre in direzione orizzontale ma con andamento oscillante. Conservazione mediocre. vxnerla[.]aie na Si tratta evidentemente di una formula onomastica in caso zero, completa di prenome e gentilizio. Sia la divisione dei due elementi onomastici che le loro integrazioni appaiono sicure. 96 M. Cristofani, in Atti Tübingen, pp. 55-60, fig. 5. 97 Lettura mia (in StEtr xlix, 1981, p. 89, nota 29) di Fs 6.2.

cerveteri. la tomba delle iscrizioni graffite

Fig. 32. L’iscrizione n. 10.

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Fig. 33. L’iscrizione n. 11.

V[e]ner La[p]aie/na La variante Vener del prenome Venel, attestata due volte su una coppa di v secolo da Capua (Cm 2.40, 42=CIE 8686 a-b), verosimilmente nasce per assimilazione a prenomi quali £ucer, Cuıer, Lucer (Ta 1.89).98 Il gentilizio, asigmatico, è formato su un ampliamento in -ie (cfr. Vel¯a/Vel¯aie) dell’appellativo *lapa, noto in latino come termine botanico, il cui impiego onomastico è provato in etrusco dal gentilizio arcaico Lapana(s) di Orvieto e dall’Individualnamegentilicium Lapie ( arvíen). Sul piano semantico l’enunciato «nel campo», in agro, è evidentemente ellittico: il riferimento più probabile è a una divinità venerata sia in urbe che in agro, così nota e così unica in tale condizione da potersene tacere il nome. L’iscrizione avrebbe in tal caso il compito di dichiarare l’appartenenza della coppetta all’instrumentum del santuario ex26 Untermann 2000, pp. 117, 124 sg. 27 Come nel dativo paleoumbro uobúrí (Rix 2002, p. 62, Um 41), esito di *uobúseí (Colonna 1999, p. 24 sgg.).

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italia ante romanum imperium

Fig. 8. Profilo della seconda coppetta con apografo dell’iscrizione (da Russo 2005).

traurbano del dio, distinguendola da eventuali consimili coppette appartenenti all’omologo santuario urbano. Se l’interpretazione che offro a Mario Russo, stimolato dal suo bel libro, coglie nel segno, la coppetta dovrebbe provenire non da una tomba ma da un’area sacra, alla pari probabilmente dell’altra: un’area sacra situata in qualche parte della piana di Sorrento, non troppo lontano dalla città. Abbreviazioni bibliografiche Agostiniani 2006: L. Agostiniani, ‘Rukes Haszuies: un tratto morfologico paleoitalico nelle parlate anelleniche di Sicilia’, in D. Caiazza (ed.), Samnitice loqui. Studi in onore di Aldo L. Prosdocimi per il premio I Sanniti, ii, Piedimonte Matese 2006, pp. 113-137. Bartonĕk 1995: A. Bartonĕk, in A. Bartonĕk, G. Buchner (edd.), ‘Die ältesten griechischen Inschriften von Pithekoussai (2. Hälfte des viii. bis 1. Hälfte des vi. Jh.)’, Die Sprache 37, 2, 1995, pp. 146 sg., 150-183.

presentazione di mario russo

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Cerchiai 2008: L. Cerchiai, ‘La Campania: i fenomeni di colonizzazione’, in La colonizzazione etrusca in Italia, «AnnMusFaina», xv, 2008, pp. 401-417. Colonna 1961: G. Colonna, ‘Italica arte’, eaa iv, 1961, pp. 251 sg., 257-274. Colonna 1975: G. Colonna, ‘Nuovi dati epigrafici sulla protostoria della Campania’, in Atti della xvii riunione scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Campania (13-16 ottobre 1974), Firenze, 1975, pp. 151-169. Colonna 1983: G. Colonna, ‘Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso dell’Italia preromana’, «Epigraphica», xlv, 1983, pp. 49-64. Colonna 1994: G. Colonna, ‘Le iscrizioni di Nocera e il popolamento pre- e paleosannitico della valle del Sarno’, in A. Pecoraro (ed.), Nuceria Alfaterna e il suo territorio. Dalla fondazione ai Longobardi, i, Nocera Inferiore, 1994, pp. 95-99. Colonna 1999: G. Colonna, ‘L’iscrizione del biconico di Uppsala: un documento del paleoumbro’, in Incontro di studi in memoria di Massimo Pallottino (Biblioteca di Studi Etruschi 14), PisaRoma, 1999, pp. 19-29. Colonna 2001: G. Colonna, ‘L’iscrizione di Tortora’, in M. Bugno, C. Masseria (edd.), Il mondo enotrio tra vi e v secolo a.C., Atti dei seminari napoletani (1996-1998), i, 1, 2001, pp. 243-252. Colonna 2005: G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998), i-iv, Pisa-Roma, 2005. Colonna 2006: G. Colonna, ‘Gli Etruschi nel Tirreno meridionale: tra mitistoria, storia e archeologia’, EtrStud 9, 2002-2003, pp. 191-206. Colonna c.s.: G. Colonna, ‘Dal Volturno al Garigliano. Tradizioni etniche e identità culturali (a proposito degli Osci e del loro nome)’, in Atti del xxvi convegno di Studi Etruschi ed Italici, Caserta, S. Maria Capua Vetere, Capua, Teano (11-15 novembre 2007), Pisa-Roma c.s. Cristofani 1996: M. Cristofani, Due testi dell’Italia preromana, Roma, 1996. Jeffery 1961: L.H. Jeffery, The local scripts of archaic Greece, Oxford, 1961. Mancini 1997: M. Mancini, Osservazioni sulla nuova epigrafe del Garigliano, Roma, 1997. Negri 2002: M. Negri, ‘Ancora di esum’, in D. Poli (ed.), La battaglia del Sentino. Scontro fra nazioni e incontro in una nazione (Atti del convegno di studi, Camerino-Sassoferrato, 10-13 giugno 1998), Roma, 2002, pp. 673-680. Pallottino 1974: M. Pallottino, ‘Un documento della presenza etrusca nella penisola sorrentina: l’alfabetario di Vico Equense’, «ac», xxv-xxvi, 1973-1974, pp. 472-490. Prosdocimi 2002: A.L. Prosdocimi, ‘Il genitivo singolare dei temi in -o nelle varietà italiche (osco, sannita, umbro, sudpiceno, etc.)’, «Incontri linguistici», 25, 2002, pp. 65-76. Rix 1972: H. Rix, ‘Zum Ursprung des römisch-mittelitalischen Gentilnamensystems’, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, i, 2, Berlin-New York, 1972, pp. 700-758. Rix 2002: H. Rix, Sabellische Texte. Die Texte des Oskischen, Umbrischen und Südpikenischen, Heidelberg, 2002. Rix 2005: H. Rix, ‘Alphabete im vorrömischen Kampanien’, in Th. Ganschow, M. Steinhart (edd.), Otium. Festschrift für Volker Michael Strocka, Remshalden-Grunbach, 2005, pp. 323-330. Russo 2005: M. Russo, Sorrento. Una nuova iscrizione paleoitalica in alfabeto ‘nucerino’ e altre iscrizioni arcaiche dalla Collezione Fluss, Capri, 2005. Untermann 2000: J. Untermann, Wörterbuch des Oskisch-Umbrischen, Heidelberg, 2000. [Presentazione del volume M. Russo, «Sorrento. Una nuova iscrizione paleoitalica in alfabeto ‘nucerino’ e altre iscrizioni arcaiche dalla Collezione Fluss», in Sorrento e la Penisola Sorrentina tra Italici, Etruschi e Greci nel contesto della Campania antica (Atti della giornata di studio in omaggio a Paola Zancani Montuoro (1901-1987), Sorrento, 19 maggio 2007), a cura di Felice Senatore e Mario Russo, Roma, 2010, pp. 25-39].

IV. STORIA DELLA RICERCA

ANCORA SULLA M O S T RA DEI CAMPANARI A LO ND RA The fantastic vaults of Campanari, with their elevated beds and mysterious gloom, his gay-painted tombs… (Hamilton Gray 1841, p. 12)

sistono eventi che segnano la storia degli studi, lasciando un’impronta duratura, non tanto sul piano propriamente scientifico e accademico, quanto su quello, tutt’altro che secondario, della promozione culturale e della propagazione delle conoscenze. Per quanto riguarda gli Etruschi, nel nostro secolo uno di questi eventi è stato indubbiamente la mostra sull’arte e sulla civiltà di quel popolo, che tra il 1955 e il 1956 ha percorso l’Europa occidentale, riscuotendo un enorme successo di pubblico e di stampa. Con essa Massimo Pallottino, dopo avere con i suoi scritti rinnovato gli studi di etruscologia, ha ottenuto di riportare gli Etruschi alla ribalta dell’attenzione internazionale, recuperando il terreno perduto nel clima di infatuazione romanistica degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, culminato in ambito espositivo con la peraltro pregevole Mostra Augustea della Romanità.1 Nel secolo scorso un evento paragonabile, anche per l’ampiezza dell’eco che seppe suscitare nella pubblicistica del tempo, è stato l’esposizione del Museo Campana a Parigi nel 1862 agli Champs-Elysées, nell’ultramoderno Palais de l’Industrie, a pochi anni di distanza dalla prima Esposizione Universale parigina, che vi aveva celebrato i suoi fasti.2 La mostra, organizzata all’indomani dell’acquisto di gran parte del Museo da parte di Napoleone III, cui era giustamente intitolata, diede una salutare scossa al conformismo classicista del Secondo Impero, schiudendo nuove prospettive allo sviluppo delle “arti industriali” e alla educazione artistica di sempre più larghi strati sociali. Anche l’alta cultura francese ne fu stimolata, come dimostrano nell’immediato la lussuosa edizione del libro di Adolphe-Noël des Vergers sugli Etruschi (1862-1864), e più tardi i manuali a larga diffusione di Jules Martha, il secondo dei quali interamente dedicato, non a caso, all’arte di quel popolo,3 che il Museo Campana aveva offerto all’ammirazione del parigino medio, del “tout Paris”, facendola uscire dalla cerchia privilegiata dei collezionisti. Sulle orme del Martha troviamo poco dopo attivi sul campo in Etruria e nel Lazio preromano giovani studiosi come Stéphane Gsell, Henri Graillot e, su un piano ben più modesto, anche l’oscuro Gustave Paille, di cui ha parlato in questo convegno Françoise Gaultier.4 Ancora più importante fu l’impatto avuto sui contemporanei dalla mostra delle “Tombe Etrusche”, come fu comunemente chiamata, aperta a Londra dal gennaio 1837 alla primavera del 1838,5 nel quartiere allora di gran moda del West End, e precisamente

E

1 Rinvio a quel che scrivevo in La cultura scientifica a Roma, 1870-1911, Venezia 1984, pp. 69 sgg. 2 Cfr. F. Gaultier, in Parigi 1992, pp. 350-361; G. Colonna, ibid., p. 347; Gran-Aymerich 1998, pp. 167 sgg. 3 Cfr. F. Delpino, in Parigi 1992, pp. 341-343. 4 Cfr. Gran-Aymerich 1998, pp. 248 sgg., 319 sgg. 5 La vernice, limitata alle prime quattro camere, cioè all’intero pianterreno, e al salone del piano superiore, ebbe luogo probabilmente il 25 gennaio (il giorno prima dell’articolo del Times illustrante la mostra, riportato, in versione italiana, in Colonna 1986, pp. 21 sgg.), e comunque dopo il 16 di quel mese, data della lettera di presentazione di Domenico Campanari, che partiva per Londra, a tutti i membri e sottoscrittori inglesi dell’In-

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al n. 121 di Pall Mall. La mostra fu organizzata da Carlo Campanari di Toscanella – la “città dei sarcofagi etruschi”, come si arrivò a chiamarla nel mondo anglosassone6 –, con l’aiuto dei fratelli minori Secondiano e Domenico, il primo dei quali ne scrisse la breve Description, peraltro senza firmarla, come avveniva per simili scritti d’occasione.7 L’intento era di fare opera di promozione, sia patriottico-culturale, per rendere partecipe il pubblico inglese dell’affascinante esperienza che si stava vivendo da dieci anni nell’Etruria meridionale, con la scoperta di migliaia di tombe ricolme di pregiate suppellettili,8 sia commerciale, per aprire alle antichità etrusche un mercato dalle ancora intatte possibilità quale era quello di Londra, la città che aveva superato da tempo i due milioni di abitanti e godeva ormai dell’indiscusso prestigio di capitale finanziaria, oltre che industriale, d’Europa. Questo secondo aspetto, inscindibile dal primo, perché senza un ritorno economico era alla lunga impossibile sostenere l’ingente onere degli scavi, ha finito col pesare negativamente sull’immagine complessiva dell’iniziativa, facendo calare su di essa l’incomprensione e il silenzio della cultura accademica, durati si può dire fino al saggio del 1978, da me scritto con la coscienza di compiere una autentica riscoperta.9 La mostra ebbe luogo in dodici camere, precedute da un vestibolo e distribuite tra il pianterreno, il piano interrato e il primo piano di un edificio da tempo scomparso, che si trovava, come recita il frontespizio della Description, «opposite the Opera Colonnade», ossia di fronte ai portici del Teatro dell’Opera. Teatro, anch’esso demolito (nel 1891), che era il più grande d’Inghilterra e toccava allora l’apogeo del suo splendore, sicché l’ubistituto di Corrispondenza Archeologica, firmata da C. Bunsen a nome del Direttore uscente E. Gerhard (Archivi del British Museum, fotocopia presso la Biblioteca Comunale di Tuscania, procuratami da G. Kezich). Domenico, qualificato come «restauratore dei vasi antichi del Museo Reale di Berlino», era stato impegnato fino allora nella direzione sul campo degli scavi di Vulci, condotti in società dai Campanari e dal Governo pontificio (Buranelli 1992, pp. 19 sgg., 23). Evidentemente egli raggiungeva Carlo per dare gli ultimi ritocchi alla mostra, iniziando così quell’esperienza londinese che si sarebbe protratta per lui fino alla morte, sopraggiunta a Londra nel 1876. La chiusura della mostra dovette avvenire poco prima dell’ingresso al Museo Britannico della maggior parte dei materiali che la componevano, per complessivi 191 «numeri», ingresso datato 8 giugno 1838 nel General Register del museo (riprodotto in Appendice dalla fotocopia avuta nel 1978 grazie alla squisita cortesia del Dr. D.M. Bailey e ai buoni uffici di mia moglie Elena Di Paolo). 6 Così Fr. Seymour, Up Hill and Down Dale in Ancient Etruria, London-Leipsic 1910, p. 294 (ma anche, a p. 297, «the City of Dismembered, of Unremembered Tombs!»). 7 A brief Description of the Etruscan and Greek Antiquities now exhibited at No. 121, Pall Mall, opposite the Opera Colonnade, London s.d. (1837), pp. 1-52 (di seguito abbreviato in Description). La guida apparve in questa forma non prima della fine di marzo (Colonna 1978, p. 82, nota 5), in occasione dell’apertura delle camere del piano interrato e delle due aggiunte al salone del piano superiore (cfr. a p. 48 l’espressione «lately added», riferita alla tomba di Bomarzo e a quella delle Iscrizioni). Le pagine 1-24 erano apparse come un fascicolo a sé in occasione della vernice, con un frontespizio lievemente diverso (in cui le Antiquities erano now open invece che exhibited e in calce si leggeva il prezzo di sixpence). Il testo anticipa, in forma abbreviata, scritti di Secondiano quali Pitture delle grotte tarquiniesi, in Giornale Arcadico lxxvii, 1838, pp. 1-42, e Pitture da una tomba vulcente, in dI 1838, pp. 249-252. 8 Scriveva Carlo a mostra ancora aperta: «Frattanto però li sepolcri d’Etruria erano di anno in anno richiusi in conformità alle Leggi Agrarie che obbligano gli scavatori a riporre il suolo in pristinum onde renderlo di nuovo atto alle facciende dell’agricoltura ed impedire che i pastori e gli armenti precipitassero in quelle profonde caverne. Tale misura, che tanto danno recava alla scienza, divenne motivo di generali lamenti per parte dei visitatori di Vulcia, i quali giungevan talvolta sul luogo quando già le tombe erano state di nuovo coperte di terra, e rese a tutti invisibili. Per rimediare a tali inconvenienti immaginai di far dei fac-simili delle pitture a fresco delle camere mortuarie più interessanti, di riunire gli oggetti rinvenuti nei medesimi sepolcri, recare il tutto in Londra, ove aperta un’esibizione di Tombe Etrusche potesse esser da tutti esaminata, e qualora meritasse l’approvazione del pubblico offrirla in vendita al Museo Britannico» (lettera aperta ai Trustees del Museo Britannico, del gennaio o febbraio 1838, riprodotta in Colonna 1986, pp. 25-28). 9 Colonna 1978, in parte ristampato in Colonna 1986, pp. 7-18. A dieci anni di distanza la rivalutazione della mostra appariva già «tradizionale» a Cristofani 1988, p. 44.

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cazione della mostra poteva ben dirsi strategica, stante anche la particolare dimestichezza che gli italiani avevano con quell’istituzione.10 Undici camere, com’è noto, riproducevano gli interni di altrettante tombe etrusche a vano unico, con accenno, per la prima e per l’ultima, anche al loro aspetto esterno, autentico o fittizio che fosse, mentre la dodicesima, non numerata né menzionata se non di sfuggita nella Description, era il salone del primo piano, dal quale la signora Hamilton Gray iniziò la sua visita, stimolata dall’amico vescovo di Lichfield, nell’avanzata estate del 1837.11 Essa costituiva in realtà una mostra a sé, anzi il “Museo”, come è definito in una didascalia del progetto di allestimento,12 in implicita contrapposizione alle “Tombe”. Accoglieva infatti, quasi fosse appunto un museo, una serie di vetrine disposte a emiciclo, contenenti una ricca collezione di vasi, soprattutto greci, bronzi, gemme e oreficerie, che a quanto pare era possibile acquistare su richiesta, come avviene nelle nostre mostre-mercato.13 L’esposizione aveva pertanto un carattere marcatamente provvisorio, soggetto a rinnovi e cambiamenti, il che contribuisce a spiegare l’estrema laconicità della Description nei suoi confronti.14 Al momento dell’inaugurazione il giornalista del Times fu impressionato dalle oreficerie, mentre nella tarda estate, quando quelle probabilmente erano state in gran parte vendute, la Hamilton Gray rimase colpita dalle ceramiche a figure nere, che credeva si rinvenissero quasi esclusivamente nella Magna Grecia.15 Questa parte della mostra non fu compresa nella vendita finale al Museo Britannico, conclusa, dopo più di un anno di faticose trattative, l’8 giugno 1838,16 quando entrò in quel museo l’intero 10 Cfr. Souvenirs de Londres en 1814 et 1816, Paris 1817, pp. 24 sgg.; Chastenet 1961, p. 170 sg.; The London Encyclopedia2, a cura di B. Weinreb e Chr. Hibbert, London 1993, pp. 384 sgg. L’edificio al n. 121 di Pall Mall funse anche, a giudicare dalla lettera di sollecito ai Trustees del Museo Britannico in data 1 marzo 1838 (menzionata in Colonna 1986, p. 28, nota 1, e a me nota dalla copia procuratami da G. Kezich), da domicilio ufficiale di Carlo Campanari, che durante il lungo soggiorno londinese probabilmente vi abitò nei piani superiori con il fratello Domenico (in AdI 1837, p. 4, si dice che per quell’anno il recapito dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica a Londra era presso Domenico Campanari in Pall Mall 121). Ricordo che il n. 125 della strada era stato fino al 1823 la sede di Christie’s. 11 Hamilton Gray 1841, pp. 4 sgg. 12 Vd. nota 22. 13 Lo afferma esplicitamente Mrs. Hamilton Gray a proposito dei vasi (cfr. nota 15) e, indirettamente, quando riferisce che il vescovo di Lichfield, accanito collezionista, aveva acquistato, nei primi mesi di apertura della mostra, «a very large amount» di vasi e ornamenti, tra i quali un paio di preziosi orecchini che avevano eccitato la sua curiosità (pp. 3 e 6). Il pregio della collezione di vasi e di oreficerie esibita al piano superiore è confermato a chiare note dal giornalista del Times (Colonna 1986, p. 22). 14 «A collection of vases and other objects of antiquity» (p. 31). A rimpinguare l’esposizione avrà provveduto Domenico, inaugurando la sua attività londinese di mercante d’arte (cfr. nota 5). 15 «In one room were the vases for sale, of various sizes from very large to very small, of beautiful and graceful forms, made of red clay, with black figures or drawings upon them, generally highly polished, light of weight, and exibiting either grotesque satyrs and fauns, or mithological and heroical subjects… I was puzzled also by seeing a ware wich had always been considered peculiar to Magna Grecia, coming in such quantities from within seventy miles of Rome…» (pp. 4 sgg.). 16 Cfr. nota 5. Le trattative ebbero formalmente inizio con la lettera del 23 maggio 1837, con la quale Carlo offrì ai Trustees l’intera mostra, “Museo” compreso, per 1900 sterline (testo in parte trascritto in Cerasa 1993, p. 43). Poi ridotte a 1000 per le sole “Tombe” (com’è ricordato nella lettera aperta dell’inizio del 1838 di cui a nota 8). Per accrescere il pregio venale degli oggetti in mostra Secondiano aveva chiesto e ottenuto da P.E. Visconti una dichiarazione attestante il divieto di portare a Londra altri materiali (lettera del 13 gennaio 1837 in Buranelli 1992, p. 317, doc. 61: la risposta del Visconti, in data 16 gennaio, è in Colonna 1986, p. 27, nota 1, con errata datazione al 16 febbraio). Le trattative, sospese per la morte del re Guglielmo IV, sopraggiunta il 20 giugno, che rese difficile per i Trustees riunirsi in numero legale, furono riprese all’inizio del 1838, regnando la giovanissima Vittoria, con l’insistente richiesta di una controfferta (cfr. note 8 e 10), accompagnata da una petizione a favore dell’acquisto, sottoscritta da oltre trenta intenditori, tra i quali il duca di Northampton, S. Rogers, J. Lichfield, W. Betham, W.R. Hamilton e R. Westmacott (foglio ms. riprodotto in Colonna 1986, fig. 139). La conclusione si ebbe solo all’inizio di giugno, come già detto, con l’acquisto da parte del Museo Britannico di quasi tutto ciò che era esposto nelle “Tombe” per 600 sterline. Fu questa la prima e la più cospicua delle vendite dei Campanari al Museo. Seguirono, a cura ormai del solo Domenico, le vendite del 14 febbraio 1839

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contenuto delle “Tombe Etrusche”, compresi i quattro teschi collocati nei sarcofagi di cui si poteva vedere l’interno, con la sola esclusione di alcuni oggetti di particolare pregio già venduti, o che i Campanari vollero trattenere per sé.17 Essa diede invece luogo a una successiva vendita all’asta, che si svolse sul posto il 20 giugno 1838 a cura del Sig. C. Davis, entro quella che era chiamata la “Great Room” dell’edificio. Vendita della quale ci è giunto il catalogo a stampa, comprensivo di 124 numeri,18 provenienti, come tutti gli oggetti della mostra, da scavi precedenti o comunque diversi da quelli condotti a Vulci dai Campanari in società col governo pontificio tra il 1835 e il 1837. Il centro focale della mostra, la sua dirompente novità, come fu perfettamente percepito dai visitatori, a cominciare dal vescovo di Lichfield e da Mrs. Hamilton Gray, era l’insieme di stanze trasformate in tombe «della grandezza e forma di quelle d’Etruria, con i loro vestibulj, frontespizj, pilastri, colonne»,19 che, a differenza del salone, si visitavano alla luce di torce o di fumose lucerne, accompagnati, nel caso di ospiti di riguardo, da Carlo in persona, come capitò alla Gray. Le tombe così riprodotte erano, com’è noto, quattro tombe dipinte di Tarquinia (al pianterreno le tt. delle Bighe e del Triclinio, nell’interrato la t. del Morto, al primo piano la t. delle Iscrizioni), una di Bomarzo (la c.d. Grotta Dipinta, nell’interrato), l’unica tomba dipinta di Vulci (la t. Campanari, al primo piano), quattro tombe con sarcofagi di Tuscania (due al pianterreno e due nell’interrato) e un “colombario” del tipo pure ben noto a Tuscania (nell’interrato). È oggi possibile ricostruire assai meglio di quanto non mi riuscì di fare venti anni fa il contenuto e l’allestimento della mostra. Sono stati infatti resi noti nel 1992 tre elaborati progettuali, da poco reperiti nel Dipartimento delle stampe e dei disegni del Museo Britannico,20 che si aggiungono ai due pubblicati nel 1931 dal Pryce e alla veduta della (270 sterline per 336 numeri, in gran parte costituiti da ceramiche, terrecotte votive e vetri), del 9 novembre 1839 (300 sterline per 50 numeri, quasi tutti relativi al corredo della tomba tuscaniese dei Vipinana), dell’1 marzo 1841 (250 sterline per soli 22 numeri, di alto valore perché quasi tutti di oreficerie) e del 14 marzo 1842 (90 sterline per tre importanti vasi attici e una “bronze figure of Augur, found in Wiltshire”, assente nel catalogo del Walters, che sospetto sia il Turms dell’Ashmolean Museum di Oxford, detto proveniente da Uffington nel Berkshire). E questo per limitarci agli anni immediatamente successivi alla grande vendita del 1838. 17 Già venduti erano il tripode a verghette da Vulci (cfr. le note 74-77) e alcuni vasi attici, mentre tra le cose trattenute, evidentemente da Domenico, che se ne riprometteva una vendita separata, furono le oreficerie (vd. più avanti, p. 467). 18 A catalogue of a scarce and valuable Collection of Etruscan and Greek Antiquities, recently imported from Italy by Signor Campanari, who has expended ten years in excavating and searching the various Burying Places at Vulci, Tuscania, Tarquinia, and Palimarzo (frontespizio riprodotto in Colonna 1986, p. 19: il testo mi è noto da una fotocopia procuratami da G. Kezich). La vendita, stranamente ignorata nella letteratura, includeva il corredo di una delle tombe del “tumulo dei Guerrieri”, scavato nel 1833 (n. 76 del catalogo: cfr. Cristofani 1988, p. 45), l’anfora pontica del Pittore di Paride con la lotta tra Ercole e Giunone Sospita, conservato a Londra, BM 39.2-14. 17 (n. 92, per la quale è pertanto assai più verosimile la provenienza da Vulci, sostenuta da F. Gerhard, che non quella da Cerveteri risalente a S. Birch: cfr. LIMC viii, 1997, p. 167, n. 67, con bibl.), la lip-cup con galli affrontati a Cambridge (n. 16, cfr. CVA, Fitzwilliam Museum, tav. xix, 4, dalla coll. Leake), l’idria attica a f.n. con l’apoteosi di Eracle Londra B 318 (n. 54, cfr. CVA, British Mus. iii He, tav. 82, 2, dalla coll. Burgon), lo stamnos a Cambridge, coll. A.B. Cook, del Gruppo dell’Imbuto (n. 36: cfr. Beazley, EVP, p. 142, n. 8 bis), lo stamnos Londra F 486 pure del Gruppo dell’Imbuto (n. 37, a torto detto in seguito proveniente da Orbetello: cfr. Beazley, EVP, p. 142, n. 8; Cristofani 1992, p. 97), lo specchio con eroi argivi a Cambridge (n. 77: cfr. CIE 11191 e CSE, Great Britain 2, 1993, pp. 26 sgg., n. 8), gli specchi con la toeletta di Malavisch disegnati quando si trovavano a Roma e di cui si ignora la sorte (nn. 78 e 79, cfr. ES, ii, tav. 215 sgg. e LIMC vi, 1990, p. 347, nn. 2 e 4), il bacino bronzeo tripodato Londra Br 563 (n. 118, cfr. Jurgeit 1986, pp. 24 sgg., K 2, 6-8, tav. v), e molti altri oggetti di cui non sarà difficile accertare l’attuale luogo di conservazione, come un braciere bronzeo di tipo vulcente (cfr. Roma 1987, p. 213 sgg., n. 84, e il disegno di C. Ruspi al n. 60 delle Antichità figurate, ms. Lanciani 80 della Biblioteca romana di Archeologia e Storia dell’Arte), e tre fistule di piombo da Vulci col bollo M. Aurelius Mato fc (nn. 71 e 112). 19 Cito dalla lettera di C. Campanari in parte riportata sopra a nota 8. 20 Parigi 1992, pp. 404 sgg., nn. 506-508, e pp. 424 sgg. (C. Weber-Lehmann).

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tomba Campanari pubblicata nel 1930 dal Messerschmidt, servita per l’allestimento della relativa camera.21 Disponiamo oggi pertanto della seguente documentazione grafica, superstite di un dossier che a quanto pare contava in origine almeno 23 numeri: 1. la pianta d’insieme delle camere del pianterreno, con misure e scala in “Palmi romani”, fornita di didascalie pure in italiano (Fig. 1)22 e numerata in alto a ds. col n. 4; 2. la pianta della camera n. 2, riproducente la seconda tomba di Tuscania, integrata dai prospetti delle quattro pareti e dalla veduta zenitale delle due casse di sarcofago che avevano il coperchio semiaperto, comprensive di tutto il loro contenuto, affiancate dalla veduta laterale dei due candelabri posti agli angoli della parete di fondo, dinanzi alle estremità dei sarcofagi (Fig. 2); 3. la veduta prospettica del settore mediano e posteriore della stessa camera, a partire da un punto appena a destra dell’ingresso (Fig. 3), numerata in basso verso ds. col n. 23; 4. il prospetto “esploso”, in acquerello a colori, delle pareti e del soffitto della camera n. 3, riproducente la tomba delle Bighe, numerato in alto a ds. col n. 20 e integrato pure a colori da: a) la pianta del vano, con al centro la cassa scoperchiata di sarcofago in esso collocata, in veduta zenitale, esibente il defunto col suo corredo; b) il prospetto a monocromo delle quattro facce della cassa con i loro rilievi; c) i particolari della panoplia e dello strigile del defunto; d) la scala grafica sia in “Palmi romani” che in “English feet” (Tav. ii, 1); 5. la veduta prospettica, in acquerello a colori, del settore mediano e sinistro della stessa camera, da un punto di vista situato all’inizio della parete destra, alla luce di una lucerna a più becchi pendente dal soffitto (Tav. ii, 2); 6. la veduta prospettica dell’interno della tomba Campanari, presa dall’ingresso e limitata alla parte mediana e posteriore del vano (Fig. 4). Disegno presente nel dossier perché servito come guida nella ricostruzione della tomba realizzata nella camera n. 11 del primo piano.23 Assai importante, inoltre, è la recente pubblicazione del manoscritto Tuscania etrusca di Giuseppe Cerasa, che fu segretario comunale e anche, dal 1893, ispettore onorario dei monumenti e scavi di Tuscania, più per benemerenze di ordine pratico che per meriti scientifici.24 Il Cerasa, che aveva avuto parte nella vendita al Museo Archeologico di Firenze di molte pregevoli sculture del giardino Campanari,25 era venuto in possesso, 21 Cfr. nota 23. 22 “Corridore d’ingresso”, “Vestibulo che dà adito alli Sepolcri”, “Tuscania N. 1”, “Tuscania N. 2, “Tarquinia N. 3”, “Tarquinia N. 4”, “Corridoio che conduce alle camere del piano inferiore”, “Gradinata per salire al Museo”. 23 Che non si tratti di un elaborato progettuale alla pari degli altri è mostrato dai lunghi filamenti d’erba pendenti realisticamente dal soffitto e soprattutto dal vasto sgrottamento della parete sinistra, che nei facsimili delle pitture esposti nella mostra appare risarcito come una semplice lacuna dell’intonaco (Messerschmidt 1930, pp. 56 sgg., figg. 30 sgg., 35 sgg.). D’altra parte alcuni dettagli di ordine antiquario (l’appendice a cono rovesciato sotto i piedi del trono di “Plutone” e la piccola corona sulla testa di “Proserpina”), assenti nei disegni editi in MdI ii, tav. 53 sgg. e invece aggiunti nei facsimili approntati per la mostra (Messerschmidt 1930, p. 51, rispettivamente figg. 28 e 40), fanno ritenere che la veduta sia coeva a questi ultimi e sia stata disegnata anch’essa in occasione della mostra. Depone in tal senso anche il cratere laconico visibile tra le banchine, che sembra essere stato effettivamente esposto (cfr. più avanti a nota 131). 24 Cerasa 1993, pp. 35-64 (con la biografia dell’autore, vissuto dal 1862 al 1944, scritta da G. Musolino, alle pp. 11-33). Devo la conoscenza di questo libro alla cortesia del Prof. G. Giontella. 25 Come apprendiamo da Cerasa 1993, pp. 14 sgg., e da Weber-Lehmann 1997, p. 192, nota 7. Su tali vendite anche Colonna 1978, p. 97.

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Fig. 1. Pianta del pianterreno della mostra dei Campanari (British Mus., Dept. of Prints and Drawings).

verosimilmente per i suoi rapporti cogli eredi di quella famiglia, di una parte almeno delle carte di Carlo (morto nel 1871). Nel ms. ora pubblicato viene riportata una elenca-

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Fig. 2. Pianta, prospetti e dettagli della camera n. 2 della mostra (da Pryce 1931).

Fig. 3. Veduta della stessa camera (da Pryce 1931).

zione del contenuto delle prime nove camere della mostra, ossia di tutte quelle del pianterreno e del piano interrato, che è diversa e in generale assai più dettagliata della Description per quanto riguarda i monumenti esposti e la loro distribuzione.26 Essa è certamente anteriore agli ultimi ritocchi apportati all’esposizione, poiché la preziosa parure 26 Cerasa 1993, pp. 44-46.

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Fig. 4. Veduta della tomba Campanari di Vulci (da Messerschmidt 1930).

femminile, che il testo tràdito dal Cerasa dice collocata nel sarcofago di sinistra della camera 2, al momento dell’inaugurazione risultava spostata, e certo non solo per motivi di sicurezza, nel salone del primo piano, dove è stata vista dal giornalista del Times (il che spiega il silenzio della Description nei suoi confronti).27 Possiamo dire che il testo riportato dal Cerasa è un puntuale sommario del contenuto della mostra, scritto da Carlo come promemoria per la stesura della guida a stampa, affidata al più “letterato” Secondiano, e tesa ancor più di quella a esaltare la rarità e il pregio degli oggetti esposti. A sua volta il testo Cerasa presuppone già realizzati i disegni progettuali, perché ne ripete, per quanto possiamo verificare a proposito delle camere 2 e 3, quasi ogni particolare (salvo l’aggiunta, come si vedrà, del tripode bronzeo). Esso ha inoltre, rispetto alla Description, il pregio di esserci giunto nella versione originale italiana.28 Un altro interessante documento d’archivio recentemente ritrovato e pubblicato sono le istruzioni per ricostruire al vero una tomba etrusca, fatte avere amichevolmente da Secondiano a Pietro Ercole Visconti, principale responsabile dell’allestimento del Museo Gregoriano Etrusco, nel gennaio del 1838.29 Il testo, funzionale all’allestimento dell’ultima sala del nuovo museo, ultima anche nella successione dei lavori, la “sala della Tomba”, rispecchia fedelmente i criteri e le soluzioni adottate un anno prima nella mostra londinese, sia nella conformazione delle “facciate” delle tombe, sia nella scelta dei facsimili delle pitture, di cui si dice che devono includere la riproduzione di un Caronte, se possibile, nel vano della porta e comunque quella del soffitto, come appunto si era fatto a Pall Mall, sia infine per quanto riguarda la collocazione dei sarcofagi e del vasel27 L’identificazione della parure riposa sulla menzione dei rarissimi orecchini con la quadriga del Sole. Vd. più avanti, note 50-53. 28 Gli errori di traduzione, rettificati nelle pp. 1-24 in occasione della ristampa, rimangono nelle pagine successive, dove p.es. rendono poco perspicue le righe 2-3 di p. 26 e le righe 16-18 di p. 30. A lapsus dell’autore sono da ascrivere a p. 25 “four chambers” invece di “five” e a pp. 27 sgg. lo scambio tra parete destra e sinistra nella descrizione della tomba del Morto. Un refuso ha spostato le prime due righe della descrizione della tomba Campanari (p. 41) all’inizio di p. 32. 29 Buranelli 1992, pp. 35-40 e 328 sgg., doc. 72 (non firmato, ma attribuito dal Buranelli a Secondiano).

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Fig. 5. Pianta ricostruita del pianterreno della mostra (dis. S. Barberini).

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Fig. 6. Pianta ricostruita del piano interrato della mostra (dis. S. Barberini).

lame di corredo.30 Anche se le istruzioni, meticolose al punto da includere precise indicazioni di misure, risultano sproporzionate rispetto a quello che si intendeva realizzare, la tomba ricostruita resta comunque, pur nella sua modestia, un apprezzabile tentativo di ammodernare l’esposizione del museo, prendendo atto della lezione londinese. Con l’aiuto che ora ci viene dalla documentazione grafica di recente recupero, dal “testo Cerasa”, dall’elenco degli oggetti entrati nel Museo Britannico l’8 giugno 1838, e in fondo anche delle istruzioni inviate al Visconti, si può tentare di ricostruire meglio che in passato l’aspetto della mostra e la sua effettiva consistenza. Per facilitare il compito si sono delineate piante esplicative, con i numeri delle camere e le lettere di riferimento ai singoli oggetti o strutture, non solo del pianterreno (Fig. 5), ma anche del piano interrato (Fig. 6) e del primo piano (Fig. 7), per i quali, non essendoci pervenuto, a differenza del pianterreno, nessun grafico progettuale, il loro valore rimane puramente indicativo.31 Venendo dall’esterno si lasciava sulla destra la «Gradinata per salire al Museo» e si entrava nel «Vestibolo che dà adito alli Sepolcri» (Fig. 1).32 Sulla destra si apriva il «Cunicolo che conduce alle camere del piano inferiore»: un angusto e oscuro corridoio dal 30 «Li vasi si dispongono parte sopra le urne med(esime), parte a terra attorno di quelle, parte si attaccano alla parete, siano di coccio, siano di bronzo, siano di qualunque forma e denominazione, avvertendosi che li più grandi stanno sempre per terra o sopra le urne, ed alla parete si attaccano i più piccoli, le tazze ed i minuti arnesi di metallo». 31 Sono tutte dovute alla nota perizia di Sergio Barberini, del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Università di Roma La Sapienza. 32 Le espressioni tra virgolette corrispondono alle didascalie della pianta a fig. 1.

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Fig. 8. Prospetto della tomba ricostruita nel 1839 nel Giardino Campanari (foto dell’A.).

percorso tortuoso terminante a gradini, col quale l’accesso a quella parte della mostra era trasformato in una discesa nel sottosuolo. L’evocazione del dromos di una Fig. 7. Pianta ricostruita del piano superiore tomba ipogea era completata dal lastrone della mostra (dis. S. Barberini). (di tufo?) posto a sbarrare l’ingresso del corridoio (a), lastrone che ovviamente nella realtà doveva risultare spostato di lato. Di fronte sporgeva dalla parete il prospetto di una tomba del tipo a semidado, con porta “dorica” incorniciata da piedritti e architrave rilevati ma privi di cordone periferico, parete sovrastante con iscrizione eca ®uıi nesl e coronamento a cornicione orizzontale. Possiamo farcene un’idea dal prospetto, di circa un terzo più grande, costruito due anni dopo da Carlo e Vincenzo Campanari nel cortile della loro casa di Toscanella (Figg. 8-9), all’ingresso del vano in cui avevano sistemato una parte dei sarcofagi della tomba dei Vipinana appena scoperta al Calcarello. Prospetto che ritenevano pertinente, sul modello delle tombe rupestri di Norchia e Castel d’Asso, alla struttura a dado che avevano rinvenuto quasi del tutto disfatta al di sopra della camera sepolcrale.33 Nello

33 Colonna 1978, pp. 92 sgg., tav. xx sgg., e, per quanto concerne il dado della tomba dei Vipinana, pp. 100104 (da integrare con la testimonianza di Carlo Campanari, che in una lettera datata 28 gennaio 1839 ad A. Kestner, edita da Blanck 1992, pp. 12 sgg., nota 6, conferma l’esistenza di «uno strato di pietre quadrilunghe» al di sopra della camera e parla di un «cornicione avanti la porta», sul quale sarebbero state la statua del demone femminile – da lui provvisoriamente identificato con Diana – e quella del leone artigliante una testa di ariete, sulla cui collocazione vd. anche Maggiani 1994, p. 132, nota 49. L’esistenza sulla tomba di un dado interamente costruito, del tipo di quelli di Musarna, puntualmente confermati dagli scavi francesi, e del fondovalle di Norchia, a mio avviso assolutamente certa, sfugge invece del tutto a Weber-Lehmann 1997, pp. 196-201, che nel tentativo di fare chiarezza sulle circostanze del ritrovamento della statua di demone contribuisce purtroppo a renderle ancora più confuse, ipotizzando una provenienza dei blocchi e delle sculture da facciate di tombe rupestri poste a quota più alta, in insanabile contrasto con la natura pianeggiante e dominante del luogo. Ciò a prescindere dalla brillante proposta di identificare il demone con una Sirena. Da parte mia aggiungo che la citata testimonianza di Carlo rende certi che le tre colonne interne alla tomba erano di riporto, contrariamente a quanto da me creduto, e che una di esse, riconoscibile dall’imponente diametro, compare nella veduta disegnata dal Dennis del giardino Campanari, verso il fondo, dietro l’ultima quinta dei sarcofagi (Fig. 9).

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Fig. 9. Veduta del Giardino Campanari nel 1842 (da Dennis 1848).

spessore della porta, che dava accesso non solo alla camera 1, ma all’intero pianterreno e in un certo senso a tutta la mostra, era dipinto un Caronte etrusco per parte, ispirato al demone che montava la guardia alla tomba dipinta di Vulci scoperta dagli stessi Campanari.34 Tomba che era stata ricostruita al piano superiore con una diversa sistemazione di entrata, riservando al portone del pianterreno la raffigurazione di quei terrificanti custodi. La camera 1 imitava l’interno di una tomba a camera tagliata «in the massy natural rock». Contro la parete sinistra era collocato al centro (b) il sarcofago in nenfro D 23-24, raffigurante una donna anziana, la cui cassa, per economia nel trasporto dall’Italia, era stata sostituita da una copia eseguita a Londra, recante inseriti nel prospetto i calchi dei rilievi della cassa originale, ossia il Gorgoneion tra due delfini.35 A fianco, su una base squadrata (a), era la statua pure in nenfro36 D 107, raffigurante un fanciullo stante a grandezza quasi naturale, seminudo. La statua, praticamente inedita e dimenticata, confrontabile per la testa col Putto Carrara del Museo Gregoriano e con statue fittili votive da Vulci,37 dovrebbe provenire da un luogo di culto, peraltro ignoto, piuttosto che da una

34 Tutte le altre tombe con demoni dipinti o scolpiti nel vano della porta sono state infatti scoperte o comunque rese note dopo l’inaugurazione della mostra, compresa quella di Chiusi su cui E. Braun, in AdI 1837, p. 258, nota 2 (cfr. de Ruyt 1934, pp. 46 sgg., n. 38). La falce impugnata da uno dei demoni è una citazione della tomba Querciola ii, disegnata nel 1832 da Carlo Ruspi (Steingräber 1985, p. 344, n. 107). 35 Herbig 1952, pp. 37 sgg., n. 65 (rettifico quanto detto in Colonna 1978, p. 83, nota 6). Il testo Cerasa tace della cassa, mentre la Description la dice di “peperino”, termine all’epoca comunemente usato per “nenfro”, come il coperchio (p. 6). 36 Come è annotato nel Register al n. 16, la statua è considerata una copia nel registro ms. Acquisitions 18361839. 37 F. Roncalli, Arezzo 1985, pp. 37 sgg., 49, n. 1.24; Cristofani 1985, p. 299, n. 126 (con datazione troppo bassa). Ex voto fittili: Paglieri 1960, pp. 83 sgg., figg. 11, 14 e 33. Per il tipo stante cfr. anche l’abbondante serie di Brauron (da ultimo Kauffmann-Samaras 1988, pp. 296 sgg., fig. 10).

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Fig. 10. British Museum, lebete di bucchero H 211 (da Walters 1912).

tomba. Al fanciullo, considerato il figlio della donna sepolta nel sarcofago, erano arbitrariamente riferite le ceneri conservate nel vaso g, posto sul piedistallo f a destra della porta, vaso descritto nel testo Cerasa come una “urna cineraria di bucchero… con ornato all’interno [leggi: esterno] in rilievo di eccellente lavoro”, da identificare Fig. 11. Firenze, Mus. Arch., cippo funerariodi non con un inesistente Särglein38 ma col le- tipo vulcente (da Bianchi Bandinelli 1929). bete di bucchero pesante registrato nell’acquisto del 1838 da parte del Museo Britannico col n. 152 (Fig. 10).39 Di fronte era “a quadrangular piece of peperino, in front of wich is sculptured the outward form of a temple or shrine” (c), definito nel Register al n. 15 come “model of an altar in composition”, cioè in gesso, assente nel catalogo del Pryce. Si tratta evidentemente della copia di un cippo funerario a dado del noto tipo vulcente, con grande finta porta sulla fronte e coronamento modanato (Fig. 11).40 Sopra il cippo era collocato «a hearth of terra cotta, ornamented with a bas-relief representing the funereal rites», descritto nel testo Cerasa come una «ara di terracotta avente in giro due ordini di figure rappresentanti un funerale. Si vede il morto nel suo letto: una figura virile sembra farne l’elogio funebre, un Caronte armato di doppia scure sta a guardia di un suonatore di doppia tibia, di alberi e vasellame». Esegesi del tutto fantastica, poiché si tratta di un comune braciere ceretano di impasto rosso stampato a cilindretto con scena di banchetto, identificabile col n. 114 del Register41 (Fig. 12). L’evidente sopravvalutazione si deve al fatto che esso è tra i primi esemplari della classe en38 Così Herbig 1952, p. 38, n. 65. 39 CVA, Great Britain, iv Ba, p. 14, tav. 17, 3 (inv. H 211). Il vaso, fornito di quattro prese a rocchetto sull’orlo e decorato sulla spalla con un fregio di gocce contrapposte alternate a rosoni, appartiene alla produzione vulcente di prima metà del vi sec. a.C. (De Puma 1974). 40 Cfr. Maggiani 1978, pp. 21 sgg., fig. 16 sgg. L’originale, rimasto a Toscanella, dovrebbe essere quello collocato nel 1839 all’interno della ricostruzione della tomba dei Vipinana nel giardino Campanari, all’angolo sinistro della parete di fondo (Colonna 1978, p. 105, nota 96, tav. xxiii). Il cippo, dal 1894 al Museo Archeologico di Firenze (inv. 75971) (Fig. 11), è stato erroneamente ascritto a Vulci (da ultimo Maggiani 1978, pp. 20 e 30, nota 93, n. 14), in base a informazioni di seconda mano, fornite da G. Cerasa e dall’ancor meno affidabile F. Marcelliani. 41 Edito in CVA, Great Britain vii, iv Ba, tavv. 10, 1; 11, 2 (H 183). Cfr. Serra Ridgway 1986, pp. 284, n. 8, e 286 sgg., fig. 8 a-c, con bibl. Più di recente sulla classe: CVA, Frankfurt am Main 4, 1994, tav. 30; Colonna 1997; Nardi 1997.

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Fig. 12. Museo Britannico, sviluppo del fregio del braciere H 183 (da Walters 1912).

trati nel giro del collezionismo, a seguito delle recentissime scoperte di Cerveteri, culminate in quella del tumulo Regolini-Galassi e degli altri del Sorbo.42 Ai Campanari premeva esporlo, perché, come dice il testo Cerasa, “quest’ara presenta figure dello stesso stile e soggetto di quelle dipinte nelle camere sepolcrali di Tarquinia”, a cominciare dalla tomba del Triclinio ricostruita nell’adiacente camera 4. Alla porta che dava accesso a quella camera si riferisce con ogni probabilità l’elemento e, nel quale credo sia da ravvisare un lastrone (di tufo?), analogo a quello che nel vestibolo alludeva alla chiusura del corridoio di discesa al piano interrato. Alle pareti della camera erano appesi con chiodi, come nella camera seguente, vasi e oggetti di instrumentum di piccolo formato, secondo la prassi suggerita al Visconti da Secondiano,43 che nelle tombe arcaiche era effettivamente frequente. Il testo Cerasa precisa che erano appesi «due vasi di bronzo, di cui uno dorato, tre lacrimatoi di alabastro e uno di terracotta, cinque piccoli vasi di bucchero, uno strigile ed uno strumento per filtrare i liquori che conserva in parte la doratura». Quest’ultimo, certamente un colino, è identificabile col n. 66 del Register, mentre lo strigile è uno dei tre allora acquisiti (nn. 85-87 dello stesso). Al di là della commistione di oggetti arcaici ed ellenistici è evidente la volontà di ricreare, attorno a una madre sepolta accanto al suo unico figlio morto fanciullo, una commossa atmosfera di pietas funeraria. La camera 2 imitava un interno interamente intonacato e «painted blue, a common practice with the Tuscans»: equivoco duro a morire, generato dal frequente iscurimento naturale degli intonaci bianchi. I disegni 2 e 3 della lista data sopra mostrano che aveva il soffitto piano e liscio, mentre sulle pareti laterali erano state previste due finte porte a rilievo, del tipo con proiecturae a becco di civetta e uscio chiuso da battenti scolpiti. Nella realtà la porta di destra, soppresso l’uscio, era stata resa praticabile, come mostra la pianta 1, per consentire l’accesso alla camera 3. Contro le pareti erano stati collocati quattro sarcofagi di nenfro, due affiancati sulla parete di fondo e due contrapposti di faccia sulle pareti laterali, questi ultimi con il coperchio accostato alla parete e la cassa un poco avanzata per farne intravedere l’interno. L’intento era quello di mostrare «a sepulchre of a whole family», del genere più comune tra Vulci, Tuscania e Tarquinia in età ellenistica. Al capofamiglia era riferito il sarcofago c con corteo magistratuale, che il testo Cerasa chiama il «sarcofago del conquistatore, padre della famiglia seppellita in questa camera», deceduto, come si leggeva nell’iscrizione, a 63 anni, mentre il sarcofago contiguo d era detto del «giovane guerriero», che l’iscrizione, male interpretata, faceva ritenere morto a 50 anni e mezzo (in realtà a 33 anni). Il sarcofago a era invece detto della «giovane donna» e il sarcofago f del «sacerdote di Bacco», di cui non si sapeva precisare il rapporto col capofamiglia. In realtà le iscrizioni incise sulle casse dei sarcofagi c e d – 42 Dove al contrario erano stati assai sottostimati, venendo considerati come sottopiedi o basi per dolio (cfr. Pareti 1947, p. 438, nn. 645-647, nota 9). 43 Vd. nota 30. Cfr. Description, pp. 7, 9 e 14.

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databili all’inizio rispettivamente del secondo e del terzo quarto del iii sec. a.C.44 – attestano che tra i rispettivi defunti non sussisteva alcun rapporto di parentela, il primo essendo un Vel Atnas, il secondo un ±ethre Vipinan(a)s.45 Se i due sarcofagi provengono veramente dalla stessa tomba, come è affermato nella Description e come non v’è motivo di dubitare, si dovrà pensare che la tomba, apprestata dallo zilath Vel Atnas per sé e per la più giovane moglie, sepolta nel coevo sarcofago a, è successivamente divenuta proprietà (in seguito a estinzione della famiglia, non altrimenti attestata a Tuscania?), di un ramo cadetto della potente gens dei Vipinana, titolare della famosa tomba in loc. Calcarello.46 Poiché la tomba degli Atna è localizzata, come quella riprodotta nella camera 1, sulla strada Tuscania-Tarquinia, a breve distanza dalla città, e poiché sappiamo che la sua scoperta è avvenuta, o almeno è iniziata, nell’estate del 1836,47 ho proposto a suo tempo di collocarla in loc. Rosavecchia, a sud-ovest della città, dove sappiamo che nell’autunno di quell’anno erano in corso fruttuosi scavi a cura di Settimio Carletti, attivo nel 1841 anche nella contigua Val Vidone.48 Del sarcofago della donna (a, D 29-30) la Description sottolinea la conservazione della policromia del coperchio, in rosso e giallo, e la bellezza della testa, contrastante con la scarsa rifinitura del corpo, bellezza che non mancò di colpire Mrs. Hamilton Gray. Il testo Cerasa arriva a dirla «di buono scalpello greco», precisando che la cassa non era stata portata a Londra: nella mostra compariva infatti la copia che tuttora si conserva nel Museo Britannico, riconosciuta come tale già al n. 2 del Register. Anch’essa, come quella del sarcofago della camera 1, conserva incastonato nel prospetto il calco della raffigurazione a rilievo dell’originale, che era assai meglio rifinito del coperchio, come anche delle altre casse della tomba. Perduto è invece il fregio di otto rosette quadrilobate, che correva in un listello incassato nel margine superiore, come appare dai disegni 2 e 3 del dossier progettuale, riproducenti la cassa nel suo stato originale. Anche in quest’ornato la cassa appare pressoché gemella di quella sottoposta al sarcofago maschile, peraltro di esecuzione più accurata e verosimilmente un poco più antico, trasportato nel 1866 da casa Campanari alla villa di Monserrate a Sintra in Portogallo, dove tuttora si trova.49 Nell’interno, visibile, della cassa a erano collocati, come rivela il disegno n. 2, un teschio e molti piccoli oggetti, che il testo Cerasa precisa essere «tre lacrimatoi di vetro, uno specchio, due piattini, due balsamari, statuine di terracotta e vasetto a forma di cervo», quest’ultimo identificabile con l’unico vaso configurato dell’acquisto del 1838 (n. 20 del Register, detto tuttavia a forma umana).50 Il giornalista del Times aggiunge 44 Colonna 1978, pp. 113 sgg. Per il primo una data leggermente più alta è proposta da Maggiani 1998, p. 128 sg. 45 In Rix 1992 le iscrizioni sono riportate come rispettivamente AT 1.61 e AT 1.20 (quest’ultima attribuita alla tomba in loc. Calcarello, scoperta nel 1839!). 46 Per una donna della gens andata in sposa a Tarquinia vd. REE 1984, p. 287, n. 12, e M. Pandolfini Angeletti, in Cavagnaro Vanoni 1996, pp. 380 sgg., n. 5. 47 Il sarcofago d, o meglio la sua iscrizione, è illustrato da R. Lepsius nel fascicolo di settembre-ottobre del BdI 1836 (pp. 147-149), su informazioni avute da S. Campanari che lo aveva acquistato e gli aveva comunicato che era stato ritrovato «près de la ville de Toscanella, avec d’autres sarcophages et des statues». 48 Quilici Gigli, 1970, p. 130, n. 336, nota 3 sgg. (Rosavecchia) e pp. 138 sgg., n. 416, nota 8 (Val Vidone): cfr. Colonna 1978, p. 113, nota 123. Il Carletti era stato indiziato nell’agosto 1836 dalla Commissione consultiva di Antichità e Belle Arti di aver compiuto scavi non autorizzati, spacciandone gli oggetti rinvenuti, acquistati da E. Braun, come provenienti da Orbetello (Buranelli 1992, p. 290, doc. 27). Il che potrebbe spiegare la reticenza dei Campanari, che forse erano stati i maggiori acquirenti, a far parola delle circostanze dello scavo. 49 Come rileva giustamente Blanck 1994, pp. 306 sgg., tavv. 18a, 25b e 26. 50 A sua volta identificato da un’annotazione del Register con il vaso etrusco-corinzio a forma di scimmia, acefalo, edito da Higgins 1959, p. 50, n. 1685 (cfr. Szilágyi 1972, pp. 113 sgg.). Aggiungo che lo specchio è certamente il n. 67 del Register, corrispondente a Br. 701 (erroneamente ascritto alla coll. Payne Knight), decorato

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che il teschio era «surrounded with a chaplet of gold myrtle leaves», echeggiato imprecisamente da Mrs. Hamilton Gray («a wreath of bay… of pure gold»), mentre il testo Cerasa parla impropriamente di «una collana a doppia catena d’oro con le foglie di mirto attaccate e con due maschere teatrali in rilievo». Il gioiello, privato delle placche terminali a maschera, è stato ceduto da D. Campanari al Museo Britannico con la vendita dell’1 marzo 1841 (n. 13 del Register dell’acquisto).51 Il testo Cerasa associa alla «collana» una ricca parure, «ornamento nuziale» della donna, composta da «un braccialetto d’oro con rosette a filigrana di squisita fattura, un anello d’oro a tortiglione, un anello che porta incisa una testa virile con due lettere etrusche, forse le iniziali del nome della persona, un paio di pendenti d’oro di orecchini con la raffigurazione del sole tirato da quattro cavalli, con la luna e con sette piccole stelle attaccate a sottilissime catenelle d’oro». I pendenti, definiti «il più Fig. 13. Museo di Villa Giulia, copia Castellani squisito lavoro del genere giunto fino a di un orecchino da Bolsena al Louvre noi», sono ricordati dall’articolista del Ti(da Morandi 1990). mes come l’oggetto di maggior spicco della piccola collezione di oreficerie esposta al primo piano, perfettamente consonante col gusto del tempo.52 Il loro aspetto doveva essere assai simile a quello dei pendenti rinvenuti da D. Golini nel 1861 in una tomba di Bolsena, acceduti l’anno dopo al Musée Napoléon III e quindi approdati al Louvre tra la generale ammirazione, non senza tuttavia qualche riserva per la loro barocca macchinosità.53 Ispirati a modelli della Grecia settentrionale risalenti al primo ellenismo e finora considerati «un unico in Etruria»,54 essi trovano un puntuale confronto nei pendenti da orecchini della mostra londinese, presumibilmente rinvenuti dai Campanari nei loro scavi tuscaniesi o vulcenti. Pendenti che, venduti fin dai primi mesi dell’esposizione, così come tutti i preziosi esposti nelle vetrine del primo piano, assai ambiti dai collezionisti, sono purtroppo andati dispersi, alla pari degli altri ori della giovane sposa, con una Lasa e appartenente all’omonimo gruppo. Inoltre i tre lacrimatoi sono i nn. 159-161, i piattini i nn. 147 e 149 del Register (quest’ultimo identificabile con il piattello Genucilia del Museo Britannico, menzionato da Del Chiaro 1957, p. 256), le due statuette probabilmente le cariatidi di bucchero CVA, Br.Mus., tav. 12, 3 e 4 (H 201 e 202). 51 Marshall 1911, p. 264, n. 2292, tav. xlviii. 52 «Very beautiful and delicately manufactured earrings, representing the chariot of the sun drawn by four horses: the shape of these earrings is perfectly of the present fashion and the workmanship is equal to anything exhibited in the cases of modern juwellers». 53 Fontenay 1887, pp. 111 sgg. Ne riproduco una copia dovuta ad Augusto Castellani, conservata presso il Museo di Villa Giulia (Fig. 11) (A. Emiliozzi, in Morandi 1990, pp. 112 sgg., fig. 49). 54 Bordenache Battaglia 1991, p. 16.

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che agli occhi del pubblico inglese appariva piuttosto come una melanconica e ambigua «young priestess».55 Sulla parete soprastante e sulla contigua parete d’ingresso erano affissi, come si conveniva alla donna sepolta nel sarcofago, altri tre specchi, anch’essi a disco piccolo e lungo manico fuso, di tipo tardo, da identificare coi nn. 68, 69 e 79 del Register, e dodici vasi, in parte metallici. Tra di essi si riconosce un’olpe a rotelle etrusco-corinzia (n. 131 del Register), due attingitoi di bucchero (da ricercare tra i nn. 126-130), quattro oinochoai trilobate, verosimilmente pure di bucchero (da ricercare tra i nn. 116-121), un’anfora dipinta a decorazione lineare (n. 136), una piccola patera bronzea (forse identificabile con uno dei due «incense vases» nn. 90 e 91) e un’olletta bronzea biansata. Il sarcofago dell’anziano «conquistatore» (c., D 25-26) e quello del «giovane guerriero» (d, D 31-32) appaiono nei disegni nn. 2 e 3 inquadrati, per così dire, da due candelabri di bronzo ad essi antistanti, della cui base a treppiede la pianta n. 1 registra l’esatta posizione (b ed e). Il primo, più alto e con rebbi dal profilo più verticale e angoloso, è sormontato da una statuetta isolata, il secondo a quanto pare da un gruppo di due, tutte ovviamente non distinguibili per la piccola scala dei disegni. Ignorati sia dal testo Cerasa che dalla Description, che invece si soffermano sul grande tripode bronzeo assente nei disegni, di cui si dirà poco più avanti, sorge il sospetto che non siano stati portati a Londra, sostituiti in un certo senso dal tripode: di certo non furono compresi nella vendita al Museo Britannico, essendo assenti nel Register. È tuttavia possibile che siano entrati più tardi nel museo, con un successivo acquisto, diretto o indiretto, dai Campanari.56 Nel menzionare i coperchi dei due sarcofagi la Description sembra attribuire D 25 alla cassa D 32, poiché afferma che il coperchio di quest’ultima raffigura un uomo con anello al dito, particolare assente in D 31 e presente invece in D 25. Di fatto un disegno a monocromo compreso nel dossier Campanari del Museo Britannico mostra il coperchio D 31 non sulla cassa D 32, come ci si aspetterebbe, ma sulla D 26 con corteo di magistrato, avendo in calce il riferimento “in Tuscania N. 2, cat. pag. 12”, che è la pagina della Description in cui si parla della cassa in questione.57 È pertanto verosimile che sia stata quella la sistemazione inizialmente ricevuta dal sarcofago in casa Campanari e di cui è rimasta traccia nel disegno citato, oltre che nel lapsus calami di Secondiano, mentre nel progetto della mostra si era proceduto diversamente, certo in considerazione delle misure, che consigliavano appunto di sovrapporre il coperchio dell’anziano alla cassa con il corteo. La connotazione militare attribuita ai defunti dei sarcofagi della parete di fondo era manifestata visivamente dalle due lance, che il testo Cerasa dice di ferro, appoggiate all’angolo della parete dietro il busto del coperchio D 31, e dal «pezzo di lancia», collegato dallo stesso testo al coperchio D 25. Alla parete soprastante erano affissi quattordici vasi, di cui tre di bronzo secondo il testo Cerasa, ma cinque secondo i disegni 2 e 3, cioè due bacini ad anse mobili,58 l’oinochoe forma vii della fila superiore59 e le due olpette della fila inferiore.60 Tra i vasi fittili si riconoscono nella fila superiore un’oinochoe di 55 Hamilton Gray 1841, p. 6. 56 Il candelabro e potrebbe identificarsi, per la coppia della cimasa, con Br 590, acquistato da D. Campanari nel 1849, mentre il b potrebbe ancor più ipoteticamente identificarsi con Br 592, che è il più alto tra quelli sprovvisti di dati di provenienza. 57 Il disegno è riprodotto in Colonna 1986, fig. 14. Il sonetto, trascritto in calce al disegno, è quello composto da Vincenzo Campanari in occasione della scoperta a Tuscania di quello che è tuttora il più notevole sarcofago etrusco con corteo magistratuale (V. Campanari, Dell’urna con basso rilievo ed epigrafe di Arunte figlio di Lare trionfatore etrusco, Roma 1825). 58 Nn. 57-58 del Register. 59 N. 56 del Register. 60 Nn. 53-54 del Register.

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bucchero,61 un’anfora etrusca del gruppo di Micali,62 un’oinochoe a becco a vernice rossa63 e due oinochoai sovradipinte;64 nella fila inferiore un’anfora nicostenica e un’oinochoe, probabilmente di bucchero,65 e un’idria a figure probabilmente nere.66 Sui risvolti delle pareti laterali erano affissi altri tre vasi, tra i quali una patera bronzea (forse il secondo dei due «incense vases» nn. 90 e 91), e un simpulum pure bronzeo.67 Un variegato campionario anche questo, come si vede, di quel che poteva rinvenirsi in una tomba a camera etrusca, senza alcun riguardo alla cronologia dei sarcofagi. Alla parete destra era accostato il sarcofago del “sacerdote di Bacco” (D 27-28), che l’attributo del cantaro-cratere, chiamato prefericulum (sic!) nella Description e nel Times, fa effettivamente ritenere, assieme alla corona d’edera, un iniziato ai misteri bacchici.68 Semiaperto come quello della «giovane donna», mostrava all’interno, come ci informa il testo Cerasa, un teschio ornato da una corona d’oro, che l’articolista del Times e Mrs. Hamilton Gray precisano essere composta di foglie d’edera, alla stregua di quella della statua del coperchio.69 Trattenuta dai Campanari nel 1838, fu ceduta da Domenico anch’essa al Museo Britannico, come quella della «giovane donna», con la vendita dell’1 marzo 1841 (n. 10 del Register di quell’acquisto).70 Nella cassa si trovavano «un coltello di bronzo di forma rara usato per ricercare le viscere degli animali e trarne gli auguri», identificabile col rasoio lunato villanoviano n. 80 del Register,71 «due strani strumenti di bronzo, uno dei quali sembra destinato a fare strepito con degli uccelletti sospesi intorno e l’altro della forma di un aspersorio», identificabili coi nn. 77 e 93 del Register, «sette bottoni, ornamenti di abito sacerdotale, e frammenti di avorio», identificabili coi nn. 164-168, 171-175 e 182-189 dello stesso. Alla parete soprastante erano affissi «un calice di bucchero sostenuto da quattro piedi adornati con figure ed intagli di stile egiziano», detto «oggetto assai raro» per i tempi, identificabile col n. 146 del Register,72 «un rampone di bronzo con manico in cui vi è una serpe in rilievo, strumento che serviva per prendere le viscere delle vittime nei sacrifici», da identificare col n. 89 del Register, evidentemente un porta-fiaccole (c.d. creagra),73 e “uno strigile di bronzo”, da identificare con uno dei tre presenti nel Register (nn. 85-87). Si riconoscono inoltre nel disegno n. 2 l’anfora a figure suddipinte n. 138 del Register, spettante al gruppo di Praxias,74 la lekythos attica a f.r. n. 133 dello stesso (B 686) e l’oinochoe suddipinta Reg. n. 124.75 Verso il centro della stanza, di fronte all’ingresso, fu collocato, probabilmente in sostituzione dei due candelabri previsti nel progetto, ma non portati a Londra, «un zmagnifico tripode di bronzo con tazza per contenere il fuoco sacro, ornato con quindici statuine a rilievo ed animali di ottimo disegno», «a beautiful tripod of Etruscan workmanship… wich seems to have served in the performance of the funereal rites of 61 Probabilmente n. 116 del Register, uguale a CVA, Br.Mus. D iv Ba, tav. 22, 4. 62 N. 139 del Register, uguale a Spivey 1987, p. 37, n. 2. 63 Identificabile forse col n. 125 del Register, uguale a CVA Br.Mus. iv De, tav. 8, 10. 64 Nn. 115 e 123 del Register, uguali rispettivamente a CVA Br.Mus. iv Dc, tav. 8, 11, e a Beazley, EVP, p. 205, n. 3. 65 Rispettivamente la seconda da ds. e la prima da sn. 66 N. l35 del Register, probabilmente attica. 67 Uno dei nn. 64-65 del Register. 68 Colonna 1991, pp. 122 sgg., 131, n. 4. 69 «In the sarcophagus the skull is exposed to view, surrounded with a similar [a quella del coperchio] chaplet of pure gold, and well wrought. The sarcophagus also contains many curious objects of antique worship» (Hamilton Gray 1841, p. 5). 70 Marshall 1911, p. 265, n. 2294, tav. xlviii. 71 Probabilmente da identificare con Br 2423. 72 CVA Br.Mus. iv Ba, tav. 12, 2 (H 197). Cfr. Capecchi, Gunnella 1975, p. 81, n. 84. 73 Corrispondente a Br 784.1 (“harpago”). Sulla funzione dello strumento si discute dai tempi del Dennis (Dennis 1848, i, p. 453 sg., nota 1): vd. tra gli ultimi Adam 1984, pp. 70-72; Haynes 1985, p. 284 sgg.; Hostetter 1991, p. 93. 74 Szilágyi 1973, p. 98, Neckamphoren, b (B 700). 75 Beazley, EVP, p. 201, E (F 529).

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the deceased» (g).76 Si tratta del più monumentale e del meglio conservato di tutti i tripodi vulcenti conosciuti, rinvenuto in quella necropoli dai Campanari nel 1831 e da essi gelosamente fino allora custodito.77 Esposto nella mostra, attirò subito l’attenzione di quell’accorto collezionista che era il duca de Luynes, assai vicino all’ambiente dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica e buon cliente dei Campanari, il quale riuscì a farselo vendere già nella primavera del 1837, a mostra ancora aperta.78 Con la collezione del duca il tripode è successivamente pervenuto al Cabinet des Médailles della Biblioteca Nazionale di Parigi, di cui è senza dubbio uno dei pezzi di maggior pregio.79 Attraverso la finta porta destra, che nella realtà dell’allestimento espositivo era praticabile, si accedeva alla camera 3, riproducente l’interno della tomba delle Bighe di Tarquinia, scoperta dieci anni prima. Le pareti e il soffitto della camera erano nascosti da pesanti teli cui erano stati incollati i facsimili delle pitture, o “cartoni” come all’epoca erano chiamati, ottenendo un effetto pressoché identico a quello offerto dalle tombe dipinte ricostruite nei musei di Tarquinia e di Orvieto, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del nostro secolo, con le pitture originali riportate su tela. I disegni nn. 4 e 5 del dossier progettuale, da poco ritrovati (Tav. ii), mostrano che i facsimili della parete sinistra e dell’adiacente metà della parete di fondo (l’altra metà della stessa e l’intera parete destra sono lasciate in bianco) erano identici, tranne alcuni particolari di cui subito si dirà, a quelli eseguiti per il Museo Gregoriano Etrusco, che fortunatamente si sono conservati (Figg. 14 e 15).80 I facsimili vaticani sono, come tutti quelli posseduti dal museo, opera documentata del pittore romano Carlo Ruspi, basata sui lucidi che egli stesso aveva tratto dalla tomba nella campagna di rilevamenti del settembre 1835, svolta per incarico e a spese di re Luigi di Baviera.81 Quelli della mostra londinese non possono essere considerati, come vorrebbe C. Weber-Lehmann, una copia dei facsimili vaticani,82 perché a tale ipotesi si oppongono anzitutto le date. I facsimili londinesi furono infatti eseguiti al più tardi nel gennaio del 1837, mentre i vaticani, commissionati al Ruspi solo il successivo 28 febbraio,83 furono eseguiti tra il settembre e l’ottobre di quell’anno, come risulta dagli stati di avanzamento della commessa, resi noti dalla stessa studiosa,84 e quindi a non meno di nove-dieci mesi dai primi. In secondo luogo nel facsimile londinese della parete sinistra, riprodotto nei disegni 4 e 5, la figura di danzatrice equilibrista del fregio superiore appare trasformata in quella di un guerriero con elmo, lancia e una sorta di corazza, esattamente come accadeva nel lucido Ruspi del 1835, mentre nel facsimile vaticano sono omesse, per un sopraggiunto pentimento, le integrazioni più arrischiate, ossia la testa con l’elmo e il braccio destro con la lancia.85 Inoltre a Londra sono presenti, sempre nel piccolo fregio, una figura e una coppia di figure che il Ruspi, pre76 Description, p. 14. 77 S. Campanari, in AdI 1837, p. 162, nota 1. Più grande, con almeno diciotto statuette, era soltanto il tripode offerto ad Atena sull’Acropoli, di cui ci resta solo uno dei tre gruppi maggiori di statuette. 78 Vd. il suo articolo in Nouvelles annales publiées par la section française de l’Institut archéologique, ii, 2, 1839, pp. 240-247, tav. xxxiv. Il duca, tra l’altro, acquisterà intorno al 1849 da Domenico Campanari, per 80 o 100 sterline, i famosi dadi iscritti con numerali etruschi «da Tuscania», anch’essi pervenuti alla Biblioteca Nazionale di Parigi (Colonna 1978, p. 113). 79 Adam 1984, pp. 63-66, n. 65 (B.B. 1472). Cfr. Giglioli 1935, tav. ci. 80 Manca ancora un’edizione integrale di questi come dei facsimili delle altre tombe dipinte approntati per il museo. Vd. intanto figg. 7, 62 sgg., 66 sgg., 71: Roma 1986, tav. iii b. Devo le due foto qui riprodotte alla cortesia di F. Buranelli (Mus. Vaticani, arch. fot. i-20-18 e i-20-20). 81 Colonna 1984; C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, pp. 21-29. 82 In Parigi 1992, pp. 404, n. 506, e 421. 83 Malerei der Etrusker, pp. 220 sgg., n. xxv (H. Lehmann). In Roma 1986, p. 63, la data era stata letta (o è un refuso?) 18 febbraio. 84 Malerei der Etrusker, pp. 40, nota 109, e 231, doc. 36. 85 C. Weber-Lehmann, ibid., pp. 115 sgg., figg. 70 sgg.

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Fig. 14. Museo Gregoriano Etrusco, facsimile Ruspi della parete sinistra della tomba delle Bighe (foto Musei Vaticani, i-20-18).

Fig. 15. Museo Gregoriano Etrusco, facsimile Ruspi della parete di fondo della tomba delle Bighe (foto Musei Vaticani, i-20-20).

vedendo la censura delle autorità vaticane, aveva omesso nella redazione del Gregoriano, perché licenziose o suscettibili di essere interpretate come tali. Mi riferisco al lottatore prono a terra, la cui scomparsa rende poco perspicua la figura dell’avversario rimasto, sbilanciato com’è in avanti, e alla scena d’accoppiamento omosessuale sotto la tribuna.86 86 Ibid., figg. 60 e 75. La figura sotto la tribuna cancellata all’ultimo momento per espresso volere di Papa Gregorio (ibid., p. 231, doc. 36) è invece, come ha riconosciuto la Weber-Lehmann (in Roma 1986, p. 17), quella mancante sotto la tribuna della parete destra (ibid., tav. x, b), sfuggita all’autocensura del Ruspi.

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D’altra parte le aggiunte al facsimile della stessa parete, comuni alle redazioni di Londra e del Vaticano, rispetto al lucido del 1835 (e al facsimile di Monaco di Baviera),87 aggiunte consistenti in un danzatore del fregio grande e in tre atleti in corsa, più un discobolo, del fregio piccolo, rivolte come sono a colmare la lacuna esistente nella tomba all’estremità sinistra della parete, dando al facsimile l’intera lunghezza di quella, risultano motivate nella mostra londinese, in cui si volle ricostruire al vero la tomba, ma non nel Museo Gregoriano, in cui i facsimili, come già era avvenuto per quelli della tomba del Triclinio, erano destinati ad essere appesi separatamente come quadri. Per la stessa esigenza di completezza, non avendo il Ruspi a suo tempo tratto il lucido della mal conservata parete d’ingresso della tomba delle Bighe, si approntò per essa nella mostra uno pseudo-facsimile, prendendo a modello la corrispondente parete, invero assai più piccola, della tomba del Morto88 (ricostruita nella camera 8 del piano interrato della mostra senza il facsimile della parete d’ingresso, assente anche nelle serie di Monaco e del Vaticano). Autore di questi e degli altri facsimili di pitture, utilizzati nella mostra londinese, è certamente da considerare lo stesso Ruspi, che era l’unico a possedere i lucidi degli originali e che era stato pubblicamente lodato da Secondiano per l’opera commissionatagli dal re di Baviera, cui i Campanari guardavano con curiosità e ammirazione.89 Ricostruire le tombe nella loro interezza, connettendo tra loro i facsimili delle pareti e aggiungendo quelli, prima di allora mai eseguiti, dei soffitti, era in fondo il naturale corollario dell’idea di riprodurre le pitture delle tombe a grandezza naturale, concepita nel 1831 dal Ruspi e da lui messa in atto prima con la tomba del Triclinio, copiata per il Vaticano nel 1832, e poi, tra l’estate del 1835 e la primavera dell’anno seguente, con le altre cinque tombe tarquiniesi copiate per la Pinacoteca di Monaco.90 Tutto fa ritenere che il passo successivo, per cui «i detti cartoni poi riuniti formeranno l’intera cammera»,91 il Ruspi lo abbia compiuto solo grazie all’occasione, irripetibile, offerta dalla mostra di Londra. Purtroppo ignoriamo, a differenza dei veri e propri contratti stipulati con Monaco e col Vaticano, i termini dell’accordo intervenuto con i Campanari, presumibilmente rimasto segreto anche per tutelare il pittore nei confronti del re di Baviera, per conto del quale era stata eseguita la maggioranza dei lucidi utilizzati. Il Ruspi dovette comunque lavorare ai ventitré facsimili necessari per ricostruire le sei tombe della mostra, senza contare i soffitti,92 nei dieci mesi – vuoti di altri impegni a noi noti – che intercorrono tra il compimento dei ventidue facsimili destinati alla Pinacoteca di Monaco, annunciato dal curatore v. Wagner al re il 27 aprile 1836,93 e la commessa dei diciassette richiesti dal Vaticano, formalizzata il 28 febbraio 1837.94 87 Rispettivamente ibid., fig. 53 (per le aggiunte pp. 105 sgg., fig. 81) e Böttger 1972, p. 179, fig. 293. 88 Di cui il Ruspi aveva lucidato la pantera meglio conservata (C. Weber-Lehmann, in Malerei der Etrusker, p. 80, fig. 24). 89 Diss. Pont.Acc.Arch. vii, 1836, p. 72, nota 2. Cfr. Colonna 1984, p. 375. 90 C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, p. 25. 91 Malerei der Etrusker, p. 226, doc. 22. 92 Il Museo Britannico acquistò ventiquattro pannelli («frames of canvas»: nn. 25-48 del Register), includendo nel computo anche quello, privo di facsimile, della già ricordata parete d’ingresso della tomba del Morto. 93 Malerei der Etrusker, pp. 230 sgg., doc. 35. Si trattava, nell’ordine di preferenza del v. Wagner, perfettamente in linea col gusto del tempo (ibid., pp. 229 sgg., doc. 33), delle tombe del Triclinio, delle Bighe, Querciola, delle Iscrizioni, del Morto e del Barone (delle quali Bighe e Morto con solo tre facsimili, mancando, come detto, quelli della parete d’ingresso). L’avvenuta spedizione dell’enorme “rotolo” dei facsimili fu comunicata al re dal v. Wagner il 22 luglio (C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, p. 25). 94 Cfr. nota 80. I facsimili erano gli stessi di Monaco, tranne i quattro della tomba del Triclinio, che il Vaticano già possedeva dalla fine del 1833, e quelli della parete d’ingresso delle tombe Querciola e Barone. In più la commessa comprendeva un facsimile della tomba Campanari.

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Fig. 16. Lucidi delle teste di Ade e Persefone della tomba Campanari (da Messerschmidt 1930).

La serie dei facsimili eseguiti per la mostra di Londra non solo era numericamente più consistente e più impegnativa, Fig. 17. Museo Gregoriano Etrusco, specie se teniamo conto dell’aggiunta dei facsimile Ruspi del gruppo di Ade e Persefone della tomba Campanari soffitti e della prevista connessione “tridi(fot. Musei Vaticani, xxviii-10-343). mensionale” dei pannelli, rispetto alle due serie di Monaco e del Vaticano, ma si distingueva da quelle anche nella scelta delle tombe riprodotte, che invece la serie del Vaticano condivideva pedissequamente con la monacense.95 Se l’esclusione della celebrata tomba Querciola era certamente dovuta alle sue dimensioni abnormi, specialmente in altezza, tali da creare seri problemi per l’esposizione, quella della tomba del Barone tradisce il giudizio poco lusinghiero che si aveva di questa tomba, a partire dalla visita del re Luigi nel 1834, a causa della presunta ridipintura cui sarebbe stata sottoposta.96 Al loro posto i Campanari scelsero due tombe di stile classico o alto-ellenistico, che ritenevano giustamente più in linea coi loro amati sarcofagi e più accette ai gusti del gran pubblico inglese, ancora pervasi di reminiscenze neoclassiche: la Grotta Dipinta di Bomarzo, di cui possedevano lo splendido sarcofago, e la tomba vulcente che essi stessi avevano scoperto e che oggi chiamiamo col loro nome. Si parlerà di queste tombe più avanti, ma fin d’ora è opportuno precisare che i facsimili a grandezza naturale delle pitture della tomba Campanari, di cui fortunatamente abbiamo le fotografie, appaiono “spolverati” da lucidi di uguale scala (ne restano solo le due teste più importanti) (Fig. 16),97 e quindi rispettano l’oneroso procedimento inaugurato dal Ruspi nel 1831 e, per quanto sappiamo, non da altri praticato nel corso dell’Ottocento, prima del ciclo fatto iniziare da C. Jacobsen alla fine del secolo.98 Il Ruspi d’altronde è documentabilmente l’autore dell’unico facsimile della tomba compreso nella grande commessa vaticana del febbraio 1837 (Fig. 17), praticamente identico al corrispondente facsimile di Londra.99 Basta questo a provare che il lucido cui entrambi si 95 97 98 99

Cfr. nota 91. 96 C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, p. 85 sgg. Riprodotte in Messerschmidt 1930, p. 50 sgg., fig. 45 sgg., e stranamente ignorate in Malerei der Etrusker. C. Weber-Lehmann, in Parigi 1992, p. 422 sgg. A parte il dettaglio dei coni rovesciati sotto i piedi del trono, che qui è omesso (cfr. nota 23).

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Fig. 18. British Museum, disegno con particolari del sarcofago esposto all’interno della tomba delle Bighe.

rifanno è opera sua, e con esso tutti gli altri lucidi della tomba, così come i disegni a piccola scala pubblicati nel 1838 nei Monumenti inediti e commentati da Secondiano.100 Il Ruspi dovette eseguire gli uni e gli altri tra il marzo e il maggio del 1833, a spese in tutto o in parte dei Campanari, che erano gli scopritori della tomba, mentre a Tarquinia le ultime tombe dipinte venute alla luce erano disegnate dai tedeschi G. Semper e A. Kestner.101 Le pitture della tomba vulcente furono rilevate prima del disastroso tentativo di distacco,102 che a questo punto è lecito sospettare sia stato effettuato dallo stesso Ruspi, di cui è nota l’attività appunto di «estrattista di pitture».103 Non meraviglia, in tal caso, che anche sulla parte da lui avuta in precedenza nella documentazione grafica della tomba sia caduto il silenzio. Tornando alla camera 3, vi troneggiava al centro un «sarcofago rappresentante sacrifici e combattimenti di gladiatori scolpito dai quattro lati», giudicato «per la sua bella forma e grandezza forse superiore a qualsiasi altro sarcofago etrusco» (a, n. 8 del Register, D 21). Giudizio pienamente condiviso dal Times («the finest thing in this collection»), che ne interpretava i rilievi, echeggiando la Description,104 come raffigurazioni di 100 In AdI 1838, pp. 249-252. 101 C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, p. 21. 102 Di cui erano in corso i preparativi alla metà di maggio, quando visitò la tomba A. Kestner, che incoraggiò l’iniziativa (BdI 1833, p. 78). 103 Roma 1987, p. 183. 104 P. 19.

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sacrifici umani. L’acquerello n. 4 illustra, accanto ai facsimili delle pitture, anche i rilievi, con ottimi monocromi opera certamente dello stesso Ruspi, di cui esiste una copia a scala maggiore tra le carte del dossier Campanari del Museo Britannico (Fig. 18).105 Nulla sappiamo della provenienza di questo grande e pregevole sarcofago di tardo iv secolo a.C., a parte il fatto che l’iscrizione, apposta su uno dei lati corti, lo riferisce a un membro della gens Curuna, morto «essendo stato maru della città», non sappiamo se a Tarquinia oppure a Tuscania, dove la gens, com’è noto, è ancor meglio documentata che a Tarquinia.106 Nell’interno del sarcofago, privo di coperchio e bene illuminato da una lucerna pendente dal soffitto (Tav. ii, 2), i Campanari avevano collocato lo scheletro di un guerriero, con addosso una delle panoplie da loro rinvenute nel 1833 a Vulci nel “tumulo dei Guerrieri”.107 Consisteva in «un elmo, due lance, un grande scudo, uno schiniere [in realtà due, vd. Tav. ii, 1 a sn.]», corrispondenti ai nn. 81-84 del Register.108 Assieme giacevano nella cassa «due assi etruschi, due armille di bel lavoro [una Reg. n. 73], due vasi unguentari, un vasetto di vetro rigato a vari colori [Reg. n. 156], un vasetto bianco, due lacrimatoi [uno di essi è Reg. n. 169], una tessera d’avorio rappresentante un toro,109 un piattino di terracotta,110 uno strumento di ferro a guisa di accetta [Reg. n. 101], uno strigile [Reg. n. 87]». Oggetti che volevano sottolineare i ruoli alternativi assolti in vita dal guerriero, negli scambi (le monete, la “tessera” col toro), nel lavoro (l’accetta), nello sport (lo strigile, gli unguentari). Ritornati indietro nella camera 1, si accedeva da questa alla camera 4, che riproduceva l’interno della tomba tarquiniese del Triclinio. I facsimili delle celebratissime pitture, che erano state le prime a essere copiate dal Ruspi, con infinita acribia, a grandezza naturale, nel 1832, includevano l’intero soffitto, che tanto aveva entusiasmato al momento della scoperta il gonfaloniere Avvolta.111 Al centro era «la statua della sacerdotessa di Bacco in peperino» (a), ossia il coperchio n. 8 del Register (D 22), sovrapposto a una cassa liscia di gesso, approntata per la mostra (n. 21 dello stesso). Il coperchio, raffigurante realmente una mater thiasi,112 proviene in questo caso con certezza da Tarquinia, e precisamente dagli scavi del 1830-1831 nel fondo Marzi, nel corso dei quali fu aperta la tomba del Triclinio.113 L’attribuzione a quella, e non a un’altra delle tombe allora aperte, è dovuta soltanto alla suggestione di «Bacchanalian orgies, accompanied with dances of unbridled licentious mirth»,114 suscitata dalle pitture, anche per la profusione di foglie d’edera e di corimbi. Ritornati alla «gate of the Charons»115 e all’antistante vestibolo, si scendeva per un oscuro corridoio e una successiva scala nelle camere del piano interrato, la cui inaugu105 Riproduco la fotocopia fattami avere da G. Kezich. 106 Rix 1992, ta 1.196. Da ultimo sull’iscrizione Maggiani 1998, pp. 109 e 134, n. 26. 107 Un’altra l’avevano collocata nel salone del primo piano (cfr. nota 18). Sulle tombe di guerrieri scoperte dai Campanari da ultimo Cherici 1994, pp. 39 sgg., con bibl. 108 Solo lo scudo – un clipeo oplitico – è rintracciabile nel Museo Britannico (Br. 2705). 109 È la lastrina di cofanetto su cui Martelli 1985, p. 228, nota 75, fig. 73, forse identificabile col n. 181 del Register. 110 Acromo, con orlo distinto e iscrizione retrograda ti in rosso (Reg. n. 148). Cfr. Colonna 1994, p. 351, nota 40. 111 «Che elegantissima volta! e principiando da questa è a scacchi ma molto più belli di quella che conoscete, il trave poi in mezzo alla volta è una bella cosa», scriveva C. Avvolta a E. Gerhard appena visitata la tomba (Malerei der Etrusker, p. 224, doc. 11). 112 Colonna 1991, p. 122, fig. 9. 113 Come afferma il suo primo editore (Micali 1832, p. 89, tav. lix, 1-2), riproducendo un disegno di C. Ruspi (di cui esiste copia nel ms. Antichità figurate, cit. a nota 18, n. 48). Sugli scavi Fossati-Manzi nel fondo Marzi vd. C. Weber-Lehmann, H. Lehmann, in Malerei der Etrusker, pp. 19 sgg. 114 Description, p. 23. 115 Ibid., p. 25.

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razione dovette avvenire, alla pari delle due tombe dipinte del piano superiore, tra il 15 e il 23 marzo, come risulta dalla Description.116 La visita iniziava dalla camera 5, imitante, come le due seguenti, una tomba ellenistica di Tuscania. Di fronte alla porta era un «sarcofago di terracotta con coperchio pure di terracotta che raffigura una giovane donna» (a). Dal Register (n. 10) apprendiamo che la figura di donna era recumbente e che la cassa era decorata sulla fronte con «two palm branches»: si tratta dunque del coperchio del sarcofago D 799 e della cassa del sarcofago D 800. La Description aggiunge che la cassa era formata da «tiles», ossia da lastre distinte, alcune delle quali iscritte con «letters», evidentemente segni numerali per il giusto assemblaggio.117 Nel Museo Britannico ben presto tuttavia la cassa con gli schematici rami di palma è stata arbitrariamente Fig. 19. British Museum, associata al coperchio del sarcofago della biconico villanoviano H 55 (da Walters 1912). camera 7 (D 800), che è a figura supina e per di più di lunghezza minore.118 La camera 6 riproduceva secondo la Description un colombario rupestre, del tipo frequente a Tuscania («Tuscania is full of this kind of sepulchres»), la cui funzione non funeraria, ma di piccionaia, e la datazione non anteriore all’età tardo-repubblicana, è ormai generalmente riconosciuta.119 Il testo Cerasa parla solo di «otto urne e vasi cinerari contenuti nelle nicchie murali della camera con ceneri e ossa bruciate dei defunti». L’unico sicuramente rintracciato di tali vasi, che dobbiamo immaginare di impasto, bucchero e ceramica grezza, è il «vase of terracotta, one handle, coarse workmanship», di cui al n. 155 del Register, identificabile con un cinerario biconico d’impasto di tipo villanoviano, ma a collo con strozzatura mediana e decorazione limitata a una serie di brevi solcature verticali sulla spalla (Fig. 19).120 Il vaso trova un unico, puntuale confronto in un biconico rinvenuto a Vulci negli scavi Prada del tardo Settecento, conservato presso il Museo Gregoriano Etrusco e solo recentemente riprodotto.121 I due biconici offrono, per la forma 116 Che accoglie in appendice una lettera in data 23 marzo di Sir Betham, in cui si dà conto delle iscrizioni delle tombe «lately added» alla mostra, ossia della Grotta di Bomarzo e della tomba delle Iscrizioni, assenti nella trattazione di cui alla lettera in data 15 marzo, contestualmente pubblicata (cfr. nota 7). 117 Gentili 1994, p. 162 (presenti anche in sarcofagi tardi come B 159, pp. 109 sgg.). 118 Non è chiaro se lo scambio sia presente già in Birch 1858, p. 193 (ii ed., 1873, p. 44). Di sicuro è registrato in Walters 1903, p. 434, D 799 sgg., con l’errata provenienza da Vulci, attinta dal Birch, che addirittura dice entrambi i sarcofagi «removed from a tomb at Vulci». Lo scambio continua purtroppo in Gentili 1994, pp. 98, B 126, tav. lix, e 101, B 135, tav. lxii. 119 Colonna Di Paolo, Colonna 1978, pp. 90 sgg.; Quilici Gigli 1981. 120 CVA Great Britain iv Ba, p. 4, tav. 3, 16 (H 55). La provenienza da Cerveteri, affermata già dal Walters, alla luce del confronto di cui alla nota seguente, risulta inattendibile. 121 Inv. 15301. Cfr. Buranelli 1991, p. 35, fig. 34. Per l’ornato della spalla, di tradizione protovillanoviana, già il Pryce chiamava giustamente a confronto un biconico da Vulci, loc. Polledrara, a Berlino (Montelius 1910, tav. 258, 13).

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articolata del collo, un precedente dei tardi biconici piceni,122 che è assai interessante trovare a Vulci. Altri vasi forse di questa camera sono i nn. 141 e 150 del Register. La camera 7 imitava una tomba a camera di Tuscania, rinvenuta, secondo la Description, a pochi passi dal colombario della camera 6. Conteneva un sarcofago in terracotta (a) composto, come si esprime il testo Cerasa, da una cassa «rappresentante due delfini» e da una «statua rappresentante una giovane donna con la testa inghirlandata, giacente supina con un braccio sotto la testa e l’altro disteso». Sia la Description che il Register confermano l’associazione della cassa con i delfini a rilievo D 799 e del coperchio a figura supina D 800, giudicata erroneamente femminile. Come già detto, nel Museo Britannico il coperchio è stato più tardi associato alla cassa con rami di palma D 800. Il testo Cerasa informa inoltre che nella camera si trovava, forse affissa con chiodi alle pareti, una serie di vasi e di instrumenta. Il più notevole era un «vaso di stile egiziano antichissimo e raro con cinque ordini di animali in giro e sul collo». Evidentemente un’olpe protocorinzia, corinzia o etrusco-corinzia, non identificabile col n. 132 del Register perché esso corrisponde, a quanto è annotato sul Register, a OC 247, che è un’oinochoe transizionale policroma a decoro non figurato. Gli altri vasi erano «tre tazze di bronzo in cattivo stato» (forse i nn. 59-61 del Register) e «tre vasetti di bronzo, di cui uno conserva la doratura all’interno e all’esterno». Infine sono ricordati «uno strigile e una lampada di terracotta», quest’ultima forse da identificarsi col n. 162 del Register. La camera 8 era la riproduzione della tomba tarquiniese del Morto, ossia della più piccola tra le tombe ricostruite nella mostra. A differenza delle altre tombe dipinte il soggetto, che aveva particolarmente impressionato i contemporanei, è rapidamente accennato nel testo Cerasa: «facsimile delle pitture delle pareti rappresentanti il morto sul suo letto funebre, al quale la figlia chiude gli occhi». Lo stesso testo informa che erano esposti, verosimilmente dentro una cassa di sarcofago confezionata per l’occasione, il «teschio del morto, la spada (Reg. n. 102), due lance di ferro (Reg. nn. 97-98), una lampada rara rappresentante arnesi ed armi» (Reg. n. 162 o 163). Vi era anche un gruppo di vasi attici a figure nere, che non fu venduto al Museo Britannico: un’idria con «Bacco seduto col calice in mano e due tralci di vite», un’anfora con una quadriga per lato, e altri due di forma imprecisata, uno con «Ercole che strangola il leone» e l’altro con una «danza bacchica». Sono inoltre ricordati un vaso di bronzo e una «tazza nera». La camera 9 riproduceva la più grande delle tombe presenti nella mostra: la Grotta Dipinta di Bomarzo. Oltre ai facsimili delle quattro pareti sembra dalle parole della Description che il soffitto scolpito a lacunari fosse imitato in rilievo («of clay», ma si pensa al gesso). La camera accoglieva al centro il bellissimo sarcofago iscritto col nome di Vel Urinates, completo del coperchio (Reg. n. 12, D 20), raffigurante secondo il testo Cerasa il tetto di un tempio, mentre la Description sottolinea la policromia a quattro colori del monumento e una sorta di copertura locale a vernice, che veniva esaltata dalla luce delle torce. Nella camera erano esposti alcuni vasi attici a figure rosse: un’anfora o stamnos «grandissimo» con quadriga su cui stanno l’auriga e un guerriero, una kylix in frammenti e un cratere che le figurazioni, pur male interpretate,123 consentono di identificare con assoluta certezza con il celebre cratere Rosi, in cui il Beazley ha riconosciuto la raffigurazione di Athena che trascina via Athanasia da Tideo seduto che contempla mesto la testa recisa di Melanippo.124 È questa l’ultima collocazione nota del cratere, che igno122 Dumitrescu 1929, pp. 86 sgg., fig. 11, nn. 9-11, 14: Lollini 1977, p. 160, fig. 14, tav. 117. 123 Come Perseo che contempla la Gorgone, mentre Athena conduce per mano Andromeda. 124 Beazley 1947. Cfr. EAA i, 1958, s.v. Athanasia (G. Becatti); Paribeni 1969; Krauskopf 1974, pp. 44 sgg.; von Freytag gen. Löringhoff 1986, p. 201.

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riamo quando e a chi sia stato venduto dai Campanari, sicché da tempo è considerato perduto. Nella camera si trovava infine una lucerna trilicne d’alabastro, «destinata ad essere sospesa alla volta per illuminare il sepolcro». Al piano superiore della mostra, oltre alla «Great Room» con le sue vetrine ricolme di oggetti greci ed etruschi in vendita, si visitavano, dalla fine di marzo in poi, le ricostruzioni di altre due tombe dipinte. La camera 10 accoglieva i facsimili della tomba tarquiniese delle Iscrizioni, che tanto interesse suscitarono nel Betham, mentre la camera 11 riproduceva la tomba vulcente Campanari. Quest’ultima era preceduta da una “facciata” composta da una cornice orizzontale aggettante, in gesso (Reg. n. 23), sulla quale erano stati collocati i calchi D 6-7 (Reg. nn. 13-14) di una coppia di statue di leoni accosciati, con una soluzione che ritorna, con un unico leone passante, sulla facciata della tomba dei Vipinana ricostruita dai Campanari nel loro Giardino (Fig. 9).125 Gli originali delle statue, donati da Vincenzo Campanari al Museo Gregoriano Etrusco nell’ottobre 1837,126 furono collocati in quel museo a guardia dell’ingresso della tomba etrusca, ricostruita nell’ultima sala all’inizio del 1838.127 L’interno della tomba Campanari fu ricostruito a Londra sulla scorta di una veduta prospettica (Fig. 4), disegnata certamente dallo stesso Ruspi che aveva realizzato, come si è argomentato sopra,128 facsimili delle pitture, prima dell’infausto tentativo di distacco. Al centro si trovava il calco della colonna tuscanica col suo ricco capitello a fogliami, volute e teste mitologiche (Reg. n. 18, D 113), la cui pertinenza alla tomba è stata recentemente contestata senza validi argomenti.129 Per far meglio apprezzare colonna e capitello la porta della tomba era stata resa assiale, dislocando i facsimili delle pitture della parete d’ingresso diversamente da come le pitture apparivano nella realtà. Era importante valorizzare espositivamente la colonna, perché le pitture, a differenza di tutte le altre selezionate per la mostra, erano letteralmente ridotte a brandelli, a parte la coppia di Ade e Persefone, ponendo ardui problemi di leggibilità per il gran pubblico. La decisione di esporne i facsimili per intero e senza nessuna integrazione appare coraggiosa e anticipatrice sui tempi, tale da meritare un posto nella storia della museologia. Non esiterei ad affiancarla, pur su un piano incomparabilmente più modesto, alla decisione, presa vent’anni prima dal Canova, di non integrare i marmi Elgin del Partenone. Anche in questo caso, è stato il fascino dell’originale greco, o creduto tale, a giu125 Il leone visibile nel disegno del Dennis sulla cornice in questione è quello acquisito dal Museo Archeologico di Firenze, inv. 75963 (Brown 1960, p. 66, n. 19). 126 Buranelli 1992, pp. 29 sgg., 309 sg., doc. 53 e 54. 127 Cfr. sopra, nota 29 sgg. Una seconda coppia di leoni, assai simile anche stilisticamente a quella del Museo Gregoriano, era stata collocata all’ingresso della sede romana dell’Instituto di Corrispondenza archeologica almeno dal 1834 (Neudecker, Granino Cecere 1997, pp. 103-106, nn. 54-55), e una terza si trovava nel 1842 nel Giardino Campanari dinanzi alla cameretta adiacente alla ricostruzione della tomba dei Vipinana (Fig. 9: cfr. Brown 1960, p. 67, nota 1), forse identificabile con Hus 1961, pp. 46 sgg., nn. 23-24. 128 Cfr. le note 23 e 95 sgg. 129 Weber-Lehmann 1997, pp. 193-196. Il silenzio del primo illustratore della tomba, A. Kestner, significa solo che quando egli, a circa tre mesi dalla scoperta, la visitò, colonna e capitello erano stati già rimossi e trasportati a Tuscania. Come esempi di capitelli lavorati a parte e quindi inseriti in architetture funerarie rupestri si possono citare quelli della tomba cerite delle Colonne Doriche (Prayon 1975, pp. 29, 44, tav. 26, 2; Colonna 1986b, pp. 339 sgg., fig. 330), della tomba chiusina del Capitello eolico (Steingräber 1993, p. 173, tav. xiv c), della tomba della Colonna di Bomarzo (Baglione 1976, p. 58, tav. vii, 2, c 2-3), dei vani di sottofacciata a portico di alcune tombe di Norchia (PA 18, PB 9-10, ecc.: cfr. Colonna Di Paolo, Colonna 1978, pp. 190, 396, tavv. 246 sgg., 254). La presenza di un incasso per perno sulla faccia superiore denota niente di più che l’accuratezza della costruzione e lo scrupolo di ancorare bene il capitello al soprastante columen rupestre, contro il pericolo di terremoti. Quanto al tipo di tomba a piccola camera con colonna o pilastro centrale, basti citare gli esempi di Bomarzo (la tomba della Colonna e quella con pilastro, riprodotta in Baglione 1976, tav. vii, c, c 1) e di Grotte di Castro (Tamburini 1985, p. 189, fig. 9).

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stificare un comportamento innovatore: «these are, in short, true Greek frescoes, unmixed with the Etruscan manners», afferma la Description a conclusione della loro illustrazione.130 Per le due camere del piano superiore non ci è giunto il testo Cerasa, e quindi non sappiamo nulla della eventuale presenza di oggetti mobili. Nel disegno n. 6 dell’interno della tomba Campanari compare nell’angolo tra le due banchine un cratere a colonnette con orlo decorato, identificabile col n. 142 del Register. Corrisponde a un cratere laconico del Museo Britannico, a vernice nera con orlo dipinto a meandro, per il quale si è pensato erroneamente a una provenienza da Naucrati.131 Appendice Riporto il testo del General Register manoscritto del Museo Britannico nel quale, alla data dell’8 giugno 1838, è annotato l’ingresso nel museo di quasi tutti gli oggetti che si trovavano nelle undici camere della mostra dedicate alle «Etruscan Tombs», acquistati dal «Signor Campanari» con la spesa di £ 600. Il testo del ms. è quale appariva nel 1978: tra parentesi quadre e in corsivo sono riportate le aggiunte scritte da altre mani e in epoche diverse, per lo più recenti. Di mio ho aggiunto, sempre in corsivo, la distribuzione degli oggetti nelle singole camere (numerate secondo la Brief Description) ed eventualmente la collocazione al loro interno, quando sia conosciuta o sia ricostruibile con qualche sicurezza (i passi citati tra virgolette sono tratti dalla «descrizione» ms. di Carlo Campanari, edita in Cerasa 1993, pp. 44-46). L’asterisco segnala gli oggetti che nel Register risultavano assenti alla revisione inventariale del 1974 (in parte tuttavia ritrovati e reinventariati negli anni successivi). Il termine «composition» designa il gesso variamente trattato col quale erano state realizzate, per lo più col sussidio di calchi, le opere esposte in copia («model») nella mostra (che la Description dà invece per originali). 11. Cover of Sarcophagus, in form of recumbent female figure, peperino stone, 6 feet 4 × 2 feet. From tomb on old road from Toscanella to Corneto. [D 29] Camera 2, a. 12. Model of chest of same, female head between two dolphins, in composition; 6 ft 4 in. × 2 ft 3 in. [D 30] Camera 2, a. 13. Cover of sarcophagus in form of recumbent male figure, holding a diota; with its chest. peperino; 6 ft 1 in. × 2 ft. 2 in. From tomb on road from Toscanella to Corneto. [D 27-28] Camera 2, f. 14. Cover of sarcophagus in form of a recumbent male figure, holding a patera, in peperino. 6 ft 8 × 2 feet. From tomb on road from Toscanella to Corneto. [D 31] Camera 2, d. 15. Chest of sarcophagus; peperino; 6 ft 8 × 2 in. [leggi feet] [D 32] Camera 2, d. 16. Model of chest of sarcophagus; composition; 7 ft × 2 ft. 1/2. [D 24] Camera 1, b. 17. Cover of same, in form of recumbent female; peperino. 6 ft 8 × 2 ft. 3. [D 23] Camera 1, b. 18. Chest of sarcophagus; bas reliefs on all sides, peperino; 7 ft 6 × 2 ft 10 ½. [D 21] Camera 3, a. 19. Cover of a sarcophagus; priestess of Bacchus, supine, peperino; 6 ft 11 × 1 ft 5 ½. [D 22] Camera 4, a. 10. Sarcophagus with cover in form of recumbent female; in front two palm branches, terracotta 6 ft 9 × 4 ft [D 800] Camera 5, b. 11. Cover of a sarcophagus, female figure supine; in front, two dolphins. Terracotta, 6 ft 8 × 19 in. [D 799] Camera 7, a. 12. Sarcophagus with cover in form of the roof of a temple; at sides, winged figures, at ends, sphinxes. Peperino, 6 ft 9 × 2 ft 1. From Polomarzo (sic!). [D 20] Camera 9, a. 13. Model of lion or pard in composition. 2 ft 6 1/2 in × 22 inches. [D 6] Great Room, b. 14. Do Do Do. [D 7] Great Room, c. 130 P. 44 (cfr. S. Campanari, in AdI 1838, p. 252). Assai più sfumato era stato il giudizio del Kestner in BdI 1833, p. 80: «di buon disegno, non di stile greco, ma accostantesi al romano, e in riguardo alla pittura seguendo lo stile ornamentale dei Greci»). 131 Stibbe 1989, pp. 34 e 99, E 15.

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*15. Model of an altar in composition. 3 ft 4 × 20 inches. Camera 1, c. *16. Model of a boy in peperino [Acquisitions 1838-39: “composition”].132 2 ft 6 in. Camera 1, sopra il supporto a. *17. Model of a pilaster in composition. 2 ft 3 in × 17 ½ in. Camera 1, f. *18. Model of a column with heads of Paris and Helen in capital. Composition. 7 ft high. Camera 11, a. *19. Terracotta model of fruit. *20. Vase in shape of a human form seated [?] Terracotta. 3 3/8 inches high. [Higgings 1685] Camera 2, dentro il sarcofago a (se uguale a “vasetto a forma di cervo”). *21. Model of a sarcophagus for cover to No 9. supra; composition, bad state. Camera 4, a. *22. Model of pilaster, composition. Camera 1, a (cfr. il n. 16). *23. Model of moulding for tomb, composition. Great Room, a (supporto dei leoni nn. 13 e 14). *24. Sarcophagus with cover in form of a recumbent male figure, in front line of Etruscan characters, peperino. [D 25-26] Camera 2, c. *25. Frame of canvas. [Facsimiles of the decorations of the interior of the tombs on the road leading from Toscanella to Corneto, and at Polomarzo133 and Vulci] Stanze 3, 4, 8, 9, 10 e 11. *26. Do *27. Do *28. Do *29. Do *30. Do *31. Do *32. Do *33-48. Do Bronze *49. *50. *51. *52. *53. *54. *55. *56. *57. *58. *59. *60. *61. *62. *63. *64. *65. *66. *67. *68. *69. *70.

Skyphos [Spoutless jug. Ht. 11,5. Segue disegno] Do [Register number assigned to jug marked CP; no ‘skyphoi’ found] Do [Register number assigned to jug marked CP; no ‘skyphoi’ found] Do [Register number assigned to jug marked CP; no ‘skyphoi’ found] Olpa [handle terminating in animal hoof. One side broken away]. Camera 2, parete di fondo, in basso, al centro. Do. Camera 2, parete di fondo, in basso, ultimo a ds. Vase, one handle, unidentified. Bromias. Camera 2. Parete di fondo, in alto, terzo da sin. “Akatos”, handle[s] [Bowl] Camera 2, parete di fondo, in alto, al centro. Do. Camera 2, parete di fondo, in basso, secondo da sinistra. Do. Camera 7 (“tre tazze di bronzo in cattivo stato”). Do. Camera 7 Do. Camera 7 Do. Camera 1, a parete? Akatos, elevated globe and handles. [Omphalos] Camera 1, a parete? Simpula. Camera 2, parete sinistra. In basso, ultimo a destra. Do. Strainer Camera 1, a parete (“strumento per filtrare i liquori che conserva in parte la doratura”). Mirror [winged female fig. engraved, raised rim, notched below; handle lost below base.] Camera 2, dentro il sarcofago a. Do. Camera 2, parete d’ingresso, in basso, secondo da sinistra. Do. Ibid., terzo da sinistra. Disc of mirror [two opposed figures engraved; rim with ‘milling’ below, handle lost.] 132 Evidente equivoco del registro delle Acquisitions. Cfr. Pryce 1931, p. 153 sgg., D 107. 133 Corretto da altra mano in “Bomarzo”.

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Handle of mirror. [Etruscan: terminating in animal head, longitudinal grooves on shaft.] Fragment. [Handle from a vessel. Grey corrosion. Crystalline ht 8,7 cms. Segue disegno]. Armlet. Camera 3, dentro il sarcofago a. Ring. Do. Small mace. Small instrument [: flat handle; at one end a device formed of two dishes pierced around perimeter and hold together by wire rings (one dish pierced at centre, the other with centre lost), at the other a hook in the form of a ’s head, Corroded. D: 9,3 cm., L: 23,5 cm.] Camera 2, dentro il sarcofago f (“strano strumento… a forma di un aspersorio”). 1*78. Part of mirror. 1*79. Mirror Camera 2, parete d’ingresso, in alto, ultimo a ds. 1*80. Fragment [Razor, with handle broken off; crescent shaped, damaged. L.12.1 cm] Camera 2, dentro il sarcofago f (“un coltello di bronzo di forma rara usato per ricercare le viscere degli animali e trarne gli auguri”). 1*80. From a tomb at Tarquinia. Camera 3, dentro il sarcofago a (nn. 81-84). 1*81. Helmet. 1*82. Greaves. 1*83. Shield. 1*84. Ferule of a spear. 1*85. Strigil. Camera 1, a parete. 1*86. Do. Camera 2, parete ds., in alto, secondo da sin. 1*87. Do. Camera 3, dentro il sarcofago a. 1*88. Skyphos. 1*89. Small wheel, probably from a pair of fire-tongs. [Fleshhook, with spiralled stem emerging fr. monster’s mouth] Camera 2, parete ds., in basso, secondo da sin. 1*90. Incense vase. 1*91. Do. 1*92. Wheel [; 4 spokes, rim fractured; with a lump of corroded iron attached. Diam: 9,4 cm.] 1*93. Ornament. [Sphere with raised circumferential band with rosette motifs. Base in form of a nipple separated. Pellets on inner wall…] Camera 2, dentro il sarcofago f (“strano strumento… sembra destinato a fare dello strepito con degli uccelletti sospesi intorno”). 1*94. Spear head, iron. Camera 2, parete di fondo, angolo ds. 1*95. Do, do Ibid. 1*96. Do, do Ibid., angolo sin. 1*97. Do, do Camera 8, sarcofago a. 1*98. Do, do Ibid. 1*99. Iron blade, (apparently of sword). Camera 8, sarcofago a. *100. Do. Do. *101. Iron blade of an axe. Camera 3, dentro il sarcofago a (“uno strumento di ferro a guisa di accetta”). *102. Iron sword blade. [; upper part, with tang. L:23,5 cm.] Camera 8, sarcofago a. *103. Iron spear head. *104. Iron blade of an axe. [= 1975. 7-30. 5?] *105. Iron spear head. [= 1975. 6-26. 13?] *106. Human skull. Camera 2, sarcofago a. *107. Do. Do. Camera 2, sarcofago f. *108. Do. Do. Camera 3, sarcofago a. *109. Do. Do. Camera 8, sarcofago a. *[110]. Painted fictile vases *111. Kylix (broken) Camera 10 (“una tazza con figure gialle ridotta a pezzi”). *112. Black kotylos [, ivy wreath below lip. OC. 222. Cleaned at unknown date.]

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*113. Do. Do. *114. Circular vase of red earth. [Perhaps H. 183?] Camera 1, sopra il cippo c. *115. Black vase, with spout, vine leaves in white. [OC. 1783] Camera 2, parete di fondo, in alto, terzo da ds. *116. Oenochoe. Black. [OC. 37] Camera 2, parete di fondo, in alto, prima da ds. *117. Do. do. [OC. 32] *118. Do. do. [OC. 33] *119. Do. do. [OC. 34] *120. Do. do. [OC. 35] *121. Do. do. [OC. 36] *122. Painted oenochoe. Honeysuckle pattern. [OC. 222] *123. Black vase; single figure in white [drab, wit pale red tones. F. 528] Camera 2, parete di fondo, in alto, secondo da sin. *124. Do. Do and owl: orange. [F. 529] Camera 2, parete ds., in basso secondo da ds. *125. Red vase, white ornaments. [OC. 231] Camera 2, parete di fondo, in alto, primo da sin.? *126. Black vase, shape called bromia. [126/130 perhaps OC. 212/216?] Camera 2, parete d’ingresso, in alto, secondo da sin.? *127. Do. Do. Camera 2, parete d’ingresso, in basso, ultimo a ds.? *128. Do. Do. *129. Do. Do. *130. Do. Do. *131. Olpe. Phenician fabric. [OC. 333] Camera 2, parete d’ingresso, in alto, prima a sin. *132. Olpe. Phenician fabric. Large and coarser. [OC. 247] *133. Lekythos, single figure orange on black ground. [B. 686] Camera 2, parete ds., in alto, al centro. *134. Skyphos, black. *135. Hydria do [modern] [Satyrs within pa… OC. 220. “Black” (modern) removed in 1914; registered, in error, as 1914. 6.26.1] Camera 2, parete di fondo, in basso, terza da ds. *136. Chous, black [modern] [amphora, pale clay, red bands; dots on shoulder, ht. 21,8 cm. OC. 218, cleaned in 1974] Camera 2, parete sin., in alto, quarta da sin. *137. Do do [amphora; orange clay, under half brown-red. Ht: 22,8 cm. OC. 219, cleaned in 1974.] Camera 2, parete ds., in basso, terza da sin. *138. Chous [amphora]; painted, two ephebi with red sticks. [B. 700] Camera 2, parete ds., in alto, ultima a ds. *139. Do [Bf. amphora] do, winged lion. [B. 67] Camera 2, parete di fondo, in alto, seconda da ds.? *140. Diota, black [modern] [branches on shoulder. OC. 217, cleaned at unknown date] Camera 2, parete sin., in alto, quarta da sin.? oppure camera 6, in una delle nicchie? *141. Hyrke [?] black. Camera 2, parete di fondo, in basso, terza da sin.? oppure camera 6, in una delle nicchie? *142. Kelebe (broken) Etruscan buccher. [OC. 225] Camera 11, a terra tra i due letti. *143. Holkia, black; [bucchero calix] [OC. 103] *144. Do. [painted] do; “ “ [OC. 132] *145. Do. [do] do; “ “ [OC. 134] *146. Do, supported by 2 caryatids and 2 pilasters. Black [H. 147] Camera 2, parete ds., in basso, primo da ds. *147. Pinax, black. [OC. 298 N. assigned in 1974 to a bowl (‘pinax’ in O.C.) marked CP, but on evidence of shape of nos. 149 & 153, no. 147 is likely to be a stemmed dish.] Camera 2, dentro il sarcofago a, angolo sin. in basso. *148. Do, red [orange-pink: ti (retrogr., N.d.R.) in red at centre N. assigned in 1977 to stemmed dish bearing pencilled inscr. “Tomb of Old Warrior” (see also no. 169 below)] Camera 3, dentro il sarcofago a, angolo ds. in basso. *149. Upper part of painted pinax; head of female marine deity [F. 522] Camera 2, dentro il sarcofago a, angolo ds. in basso.

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Kypellon, black. Camera 6, in una delle nicchie? Lower part of a kylix skaped vase without handles [OC. 1055] Large “deinas”, 3 bones round the rim [H. 211] Camera 1, sopra il “pilastro” f. Pinax [?] red with Etruscan inscription [F. 600]134 Cover of a vase. Vase of terracotta, one handle, coarsest workmanship [H. 55] Camera 6, in una delle nicchie. Oval vase, blue, white and brown [MsC 2220] Camera 3, dentro il sarcofago a (“un vasetto di vetro rigato a vari colori”). *157. Alabaster ampulla [amongst 1967.11-70? or = 1966.6-9.1?] Camera 1, a parete. *158. Alabastron of arragonite. Camera 1, a parete. *159. Arystichos, green glass. [Aryballos] Camera 2, dentro il sarcofago a. *160. Do. do, “ Ibid. *161. Small arystichos, purple glass. “ Ibid. *162. Terra-cotta lamp Camera 7. *163. Do Camera 8 (“una lampada rara rappresentante arnesi ed armi”) *164. Fragment of blue glass stud. Camera 2, dentro il sarcofago f. *165. Do Do Ibid. *166. Do green glass stud Ibid. *167. Stud, white composition (? fayence) Ibid. *168. Do Do (? fayence) Ibid. *169. Small glass ampulla, [mouth lost. Label: “Tomb of old Warrior”. See 1974 register. Also registered 1974. 11-18.1.] Camera 3, dentro il sarcofago a. *[170. Manca] Ivory *171. *172. *173. *174. *175. *176. *177.

Circular ornament. Camera 2, dentro il sarcofago f. Do Ibid. Do. Ibid. Do. Ibid. Cylindrical ornament. Ibid. Do. Ibid. Fragment of comb. [Nos. 177 & 178 may be identifiable as 1974 10-9 nos. 153 & 154] Camera 2 sarcofago a? *178. Do. Ibid.? *179. Hairpin. *180. Flat ornament, terminating in a hand. *181. Flat band. Camera 3, dentro il sarcofago a (se uguale a “una tessera d’avorio rappresentante un toro”). *182. Spoon. Camera 2, dentro il sarcofago a. *183. Fragment. Ibid. *184. Hemispherical stud. Ibid. *185. Do Ibid. *186. Do Ibid. *187. Do Ibid. *188. Handle of a pin, terminating in a human hand. Ibid.? *189. Handle of a stylus. Ibid.? *[190. BRONZE. Saucepan, shallow, handle ending in silhouetted bird’s head.] *[191. “Saucepan, as above. Vessels 190-191 marked CP not described in Acquisitions and not hitherto entered in register] 134 Si tratta di un piattello del Gruppo Spurinas, riprodotto in StEtr 46, 1978, p. 380 sg., n. 141 da G. Camporeale (senza ricordarne la provenienza dalla mostra Campanari), con l’iscrizione Rix 1992, OA 2.33.

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italia ante romanum imperium Bibliografia

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Tav. i. Tomba del Citaredo, acquerelli di Gregorio Mariani.

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Tav. ii,1. Pianta, prospetti e dettagli della camera numero 3 della mostra, riproducente la t. delle Bighe (British Mus., Dept. of Prints and Drawings).

Tav. ii,2. Veduta della stessa (British Mus., Dept. of Prints and Drawings).

M ASS I MO PALLOT T INO E IL S A N T UA RIO D I V E IO

I

l mio intervento non può che iniziare con un ringraziamento all’Accademia dei Lincei per aver accolto nel suo denso programma di attività culturali anche la presentazione del volume illustrante gli scavi di Massimo Pallottino nel santuario di Portonaccio a Veio. Presentazione motivata sia dai notevolissimi risultati di quegli scavi sia dalla volontà di rendere omaggio, a otto anni esatti dalla sua scomparsa, a un grande Studioso, che nel secolo ormai trascorso ha fatto progredire più di ogni altro, in Italia e fuori, la conoscenza dell’Italia preromana, oltre ad essere stato un membro tra i più autorevoli di questa Accademia.1 Il volume è frutto della collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale e la Sezione di Etruscologia del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Università «La Sapienza», che si è assunta ormai da tempo il grave compito di dare l’edizione scientifica degli scavi del santuario di Portonaccio. Scavi condotti tra il 1914 e il 1950 circa da studiosi di notevole levatura anche se di diversa estrazione – in sequenza cronologica Ettore Gàbrici, Giulio Quirino Giglioli, Enrico Stefani, Massimo Pallottino, Maria Santangelo –, i quali però hanno pubblicato solo relazioni preliminari e sommarie delle loro scoperte, ove si prescinda dalle più insigni opere d’arte, quali il celebre Apollo nel caso di Giglioli, la Dea col bambino e il grande Torso virile nel caso di Pallottino, oggetto di specifici saggi o monografie. Inedito è invece rimasto il contesto, pur ricchissimo di reperti più o meno importanti, in cui quelle opere, e molte altre, sono state rinvenute, assieme ai dati stratigrafici e topografici e, in una parola, a tutti quegli elementi di contorno senza dei quali è impossibile ricostruire la vita e la storia del santuario. Che era il maggiore di Veio e uno dei maggiori d’Etruria, gareggiante con quello di Pyrgi per dovizia e qualità sia di decori architettonici che di donari. Pallottino scavò al Portonaccio nella primavera del 1939 e nell’estate del 1940, da funzionario dapprima della Soprintendenza alle antichità di Roma, addetto alla Direzione del Museo di Villa Giulia, e quindi della Soprintendenza alle antichità dell’Etruria meridionale (istituita con la legge del 22 maggio 1939, n. 823). Fu l’ultimo atto della sua breve esperienza di archeologo militante, iniziata nel 1933 e condotta dal 1937 in parallelo all’insegnamento dell’etruscologia, tenuto per incarico presso l’Università di Roma.2 Infatti nel dicembre del 1940, vincitore di concorso, iniziò il suo insegnamento di ruolo come professore di archeologia classica all’Università di Cagliari. Ottenuta all’inizio del ’46 la chiamata a Roma, sulla cattedra di etruscologia resa vacante dalla morte di Alessandro Della Seta,3 affidò poco dopo alla sua assistente di allora, la giovane Valeria Martelli, la catalogazione del materiale rinvenuto al Portonaccio, che giaceva ancora nelle cassette dello scavo. Iniziò così una lunga e tortuosa vicenda, legata da un lato alle ripetute dislocazioni subite dal materiale nei depositi del Museo di Villa Giulia (e più tardi anche di Isola Farnese e di Civita Castellana), dall’altro, e ancor più, alle vicende perso1 V. Aa.Vv., Ricordo di Massimo Pallottino nel trigesimo della scomparsa, Roma, 7 marzo 1995, «Rend. Mor. Acc. Lincei» s. 9, 6 (1995), pp. 3-31. 2 Frutto di tale insegnamento fu il volumetto Gli Etruschi, apparso a Roma all’inizio del 1939 per i tipi dell’Editore Colombo, destinato a essere sostituito nel 1942 dalla prima edizione della celebre Etruscologia. 3 Commemorato da Pallottino nell’Annuario dell’Università di Roma, anno accademico 1944-45, pp. 5-8 dell’estratto.

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nali della Signora Martelli, che, dopo aver compiuto la più onerosa e ingrata fase del lavoro, si è dedicata all’insegnamento nella scuola secondaria, allontanandosi dall’archeologia e soggiornando a lungo lontano da Roma. Ma va dato atto alla Signora Martelli, che vedo presente e che saluto con piacere, di non aver desistito dall’impresa e di aver anzi cercato in tutti i modi di venirne a capo, avvalendosi da ultimo anche della collaborazione della nipote Laura, già allieva della Scuola Nazionale di Archeologia. Finché, scomparso Pallottino, non è toccato a me assumere il coordinamento dell’iniziativa in vista della sospirata pubblicazione, il che ho fatto curando di persona l’edizione dei dati di scavo e affidando la revisione e l’aggiornamento critico del catalogo alla mia allieva Laura M. Michetti, che ha anche curato l’intera messa a punto redazionale dell’opera, mentre Daniele F. Maras ha presentato le iscrizioni e altre mie allieve, ormai laureate, hanno recato minori contributi. Non sta a me, ovviamente, dare un giudizio sul lavoro compiuto: ascolteremo cosa dirà in proposito Paola Pelagatti, che ha cortesemente acconsentito a prendere Fig. 1. Vignetta «storica» di M. Pallottino, parte a questa presentazione. Per parte con didascalia dello stesso. mia devo dire anzitutto che è stata una grande emozione avere in mano il taccuino di scavo del mio maestro e «scoprire» così quello che avevo potuto solo intuire in tanti anni di collaborazione sul cantiere di Pyrgi, ossia l’estrema attenzione portata al dato di scavo e alla sua puntuale registrazione, sentita quasi come un dovere morale. Pallottino già allora non vuole intermediari, non si avvale, come è stata a lungo ed è tuttora la prassi in molte Soprintendenze, di assistenti che finiscono col dirigere di fatto le operazioni di scavo, ma cerca di essere presente il più possibile sul campo e affida ai suoi dipendenti – il custode Angelici, il restauratore Falessi – compiti meramente esecutivi. Ciò è del tutto in linea col fatto che il suo è uno scavo rigorosamente stratigrafico, condotto con criteri di sorprendente modernità, come del resto aveva già fatto Stefani all’epoca del suo intervento, e mi riferisco soprattutto a quel che risulta dai taccuini inediti, fatti in parte conoscere da M. Paola Baglione.4 Anche Pallottino, pur non essendo un tecnico del mestiere come era Stefani,5

4 «Scienze dell’Antichità» 1 (1987), pp. 381-417. 5 V. per esempio Creta antica. Cento anni di archeologia italiana (1884-1984), Roma 1984, pp. 37, 169 sgg., figg. 230, 241-249, 299.

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Fig. 2. Il grande altare visto da nord (foto G. Colonna, circa 1970).

sa disegnare e fa largo uso nel suo taccuino di sezioni, schizzi e scorci di ogni genere,6 rendendo visivamente apprezzabile quello che annota o descrive, come dovrebbe saper fare ogni archeologo nel suo giornale di scavo (strumento questo che, sia detto tra parentesi, nessuna burocratica compilazione di schede, ancorché informatizzata, potrà mai sostituire). E, come e ancor più di Stefani, Pallottino fa ricorso alla fotografia per documentare lo stato di avanzamento dei lavori, avvalendosi del prezioso aiuto di Augusto Falessi. Rispetto a Stefani tuttavia Pallottino appare più cauto ed equilibrato nell’interpretazione, evitando per esempio, a proposito del grande altare (Fig. 2), di scambiare la sua concamerazione interna con una «fossa dei sacrifici» e il corso inferiore della sua fondazione con i resti di un supposto altare arcaico di uguale forma e dimensioni.7 Pallottino nel corso del suo lungo magistero esorterà spesso i colleghi archeologi a scavare di meno, e anzi a ricorrere allo scavo solo dove strettamente necessario, per ragioni di conoscenza o di conservazione, ma diceva questo evidentemente non per una ostilità preconcetta ma perché, al contrario, era ben consapevole di quanto impegno, personale e organizzativo, comportasse uno scavo scientificamente condotto.

6 Come amava fare fin da studente: v. le pagine di taccuino riprodotte da F. Delpino, in Le necropoli arcaiche di Veio (Giornata di studio in memoria di Massimo Pallottino), a cura di G. Bartoloni, Roma 1997, pp. 19-26. Riproduco una vignetta inedita di soggetto «tardo-villanoviano» rinvenuta tra le sue carte, forse risalente all’epoca della monografia su Tarquinia (Fig. 1). 7 Così come più tardi condannerà, come ricordo di avere udito più volte dalla sua voce, l’approssimativa anastilosi dei muri di fondazione del tempio, compiuta dal Soprintendente Aurigemma con la supervisione del vecchio Stefani, senza tenere alcun conto della giacitura dei conci superstiti, da lui meticolosamente registrata.

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Fig. 3. Il bothros al centro dell’altare arcaico, di cui si intravedono a destra in basso due blocchi (foto G. Colonna, 1999).

Un altro aspetto della personalità di Pallottino che emerge dalla lettura del taccuino di scavo è la continua, direi dominante preoccupazione di conservare nel migliore dei modi il monumento scavato, mettendo in opera tutti gli accorgimenti possibili, dall’indurimento del tufo a mezzo dei prodotti chimici, che allora cominciavano ad essere posti in commercio, alla copertura con una vasta tettoia di feltro incatramato, che costerà tre volte più dell’intero scavo del 19398 e che Pallottino ha cura di avviare a buon fine, assieme all’amico Luigi Crema, già suo collega nella Soprintendenza di Roma, lottando si direbbe con il tempo, prima di lasciare definitivamente il cantiere e prendere servizio a Cagliari. Le sue ben note doti di organizzatore risultano del resto anche al Portonaccio dalla rapidità sbalorditiva con la quale ottiene che il restauratore Falessi ricostruisca da circa 250 frammenti la statua della Dea col bambino (Figg. 4-5) e da oltre 100 frammenti il grande Torso maschile (Fig. 6): il trasporto della catasta indistinta dei frammenti a Villa Giulia avviene il 30 maggio del ’39, l’8 dicembre dello stesso anno le due statue ricomposte, e già fatte oggetto di una pubblicazione preliminare,9 sono ufficialmente presentate al ministro Bottai nella sala del museo dedicata al Portonaccio, allestita l’anno prima dallo stesso Pallottino nell’ala Nord del Museo di Villa Giulia trasferendovi l’Apollo di Veio.10 Ma già a metà agosto il restauro della Dea col bambino era sicura8 Quasi 30.000 lire (Il santuario di Portonaccio a Veio, p. 143, n. 49), contro le 10.000 spese per i tre mesi di scavo del 1939 (ibid., p. 136). 9 M. Pallottino, Le recenti scoperte nel Santuario “dell’Apollo” a Veio, «Le Arti» 2, 1 (ottobre-novembre 1939), pp. 17-24. 10 F. Delpino, in Villa Giulia dalle origini al 2000, a cura di A.M. Moretti Sgubini, Roma 2000, pp. 47 sgg., figg. 58 (la sala nel 1938), 59 (la sala alla fine del 1939) e 60 (foto di gruppo col ministro Bottai, dove i due protagonisti della giornata, il soprintendente Aurigemma e l’ispettore Pallottino, indossano la divisa, il restante per-

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Fig. 5. Particolare della statua della Dea col bambino.

mente terminato, dato che Pallottino poté illustrare la statua al Congresso internazionale di archeologia classica, tenuto a Berlino esattamente alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale.11 La Dea era ancora acefala, dato che la testa fu rinvenuta casualmente solo nel marzo del 1940 dal custode Angelici. Ed è commovente leggere l’annuncio che lo scopritore Fig. 4. La statua della Dea col bambino, direttamente rivolse al soprintendente Auancora acefala. rigemma: «oggi a me mi arriso (sic) la fortuna … il gelo ha corroso la terra, ha messo in luce un orecchio di questa bella testa. La prego di farlo sapere al Prof. Pallottino, che ne sarà molto contento … La prego di venire presto a vederla». Parole semplici, che rivelano il clima di entusiasmo e di attiva collaborazione che il Nostro aveva saputo creare tra i dipendenti, ottenendone in cambio prestazioni non comuni e manifestazioni di autentico affetto. Grazie alla pubblicazione del taccuino di scavo di Pallottino, con tutta la documentazione correlata, e del catalogo ragionato dei numerosissimi reperti rinvenuti possiamo acquisire oggi una conoscenza del settore orientale del santuario di Portonaccio, sacro all’etrusca Menerva e poi alla latina Minerva, assai più approfondita e puntuale rispetto al quadro tracciato da Stefani nel 1953, in quella che rimane l’unica relazione generale sul santuario di cui oggi disponiamo.12 Mi limito, prima di lasciare la parola a sonale della Soprintendenza la sola camicia nera). Per altra bibliografia sull’allestimento curato da Pallottino v. Il santuario di Portonaccio a Veio, p. 130, n. 15. 11 Il breve rapporto, tenuto la mattina del 22 agosto, si concludeva con quello che, come detto, era il suo pensiero dominante: «Il restauro del tempio e dell’ara sono tutt’ora in corso» (M. Pallottino, Scavi nei santuari di Veio (Etruria), in VI. Internationaler Kongress für Archäologie (Berlin 21.-26. August 1939), Berlin 1940, pp. 443 sgg.). 12 Per quanto segue mi permetto di rinviare alla trattazione data in Veio, Cerveteri, Vulci. Città d’Etruria a confronto, a cura di A.M. Moretti Sgubini, Roma 2001, pp. 37-44.

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Paola Pelagatti, a ricordare due fatti. Il primo è la scoperta dell’altare arcaico, che non si trova, come ho già accennato, al di sotto di quello ad ante scavato da Stefani, ma dislocato più a nord, avendo al suo centro il bothros a condotto verticale pubblicato nel ’53 da Stefani, che è rimasto in uso anche all’epoca del grande altare, ma allora con imboccatura a livello del lastricato pavimentale ad esso coevo (Fig. 3). L’altare documenta l’aspetto ctonio del culto di Menerva fin dal 540-530 a.C., in piena concordanza cronologica con l’altare della dea nel santuario di Punta della Vipera presso Santa Marinella scavato da Mario Torelli, dove è ugualmente associato a un preminente aspetto oracolare. Il secondo, ancor più notevole apporto conoscitivo è la determinazione, finalmente oggi possibile con piena cognizione di causa, della cronologia del grande alFig. 6. Il grande Torso virile. tare e delle vicine strutture porticate, non che della generale ristrutturazione del santuario di cui altare e strutture annesse furono l’episodio più importante. Tale ristrutturazione non ebbe luogo nel iv-iii secolo a.C., all’epoca della Veio romana, come riteneva Maria Santangelo, ma poco dopo la metà del v secolo, quando la Veio etrusca era nel pieno del suo fulgore: volendo indicare un referente storico, si può citare il re Lars Tolumnius, che avrebbe decretato giocando a dadi l’uccisione degli ambasciatori romani venuti a protestare contro i Fidenati e che sarebbe caduto in duello nel 437 sotto le mura di quella città: il re le cui spolia opima, certificate da un’iscrizione, si custodivano nel tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio.13 I dati di scavo consentono anche di capire che il seppellimento dell’altare arcaico è avvenuto ammassando intorno ad esso, come operazione preliminare, i quasi 400 frammenti della Dea col bambino e del Torso virile, statue che un qualche evento fortunoso, e penso in primo luogo a un fulmine, almeno per la Dea, issata in quanto acroterio sul tetto del tempio, avevano gravemente danneggiato. Un episodio di pietas religiosa del tutto distinto da quello che, alla fine del iv e forse addirittura nel iii secolo a.C., ha avuto per oggetto la statua famosa di Apollo, con quelle di Ercole e di Mercurio, anch’esse acroteriali, sepolte a ridosso del muro di peribolo del santuario, in un contesto che è quello dello smantellamento finale del tempio, ad opera in questo caso certamente dei romani di Veio. Nel caso delle statue rinvenute da Pallottino, così come del gruppo di Ercole e Minerva rinvenuto nei pressi del sacello della dea da Gàbrici e Stefani e da me pubblicato,14 si dovrà pensare a uno o più eventi traumatici, anche di natura politicosociale, intervenuti in pieno v secolo, quando il tempio era ancora in piedi, e che potrebbero avere motivato la stessa ristrutturazione del santuario documentata dal grande

13 Liv. iv, 17, 3. Cf. T.J. Cornell, The Beginnings of Rome, London-New York 1995, p. 311. 14 Da ultimo in Veio, Cerveteri, Vulci cit., pp. 67 sg., con bibl.

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altare ad ante e dalle strutture connesse. Ristrutturazione che ha riportato in primo piano il culto di Menerva, messo in ombra alla fine del vi secolo dalla costruzione del tempio e dai culti ad esso connessi, per i quali si è pensato a un ruolo primario di Apollo e di Ercole. [Massimo Pallottino e il santuario di Veio, «RendLinc», s. ix, xiv, 2003, pp. 703-710].

RAVENNA O PE RU G IA ? A PROPOSITO DELLA P ROV E N IE NZ A D EL MARTE CORAZ Z I A L E IDA elle sue accurate ricerche sui bronzi etruschi e sul collezionismo settecentesco in Toscana e nello Stato Pontificio Cristina Cagianelli ha recentemente compiuto una scoperta che arricchisce non di poco la “scheda anagrafica” del notissimo Marte di Ravenna.1 Si è infatti accorta, sfogliando la dimenticata opera prima del già anziano collezionista e antiquario romano Francesco Ficoroni2 (1664-1747), apparsa all’inizio del 1732, che questi menziona il bronzetto a proposito dell’iscrizione che il Putto Graziani, allora conservato a Perugia, reca sulla coscia destra. Scrive infatti che molte statuette presentano la particolarità di essere iscritte sul corpo, «l’ultima delle quali ritrovatasi nelle vicinanze di Perugia» raffigura un guerriero ed è da lui giudicata «il più antico monumento etrusco, che fin qui siasi ritrovato». Aggiunge di averla acquistata per la sua collezione e di averla poi ceduta al cortonese Galeotto Corazzi (1690-1769) – creduto finora il suo primo possessore –, in cambio di una gemma incisa «di particolar lavoro».3 Entrambe le informazioni sui passaggi di proprietà sono state confermate dalla Cagianelli documenti alla mano. La studiosa ha infatti scovato un disegno del bronzetto, recante in calce di mano del Ficoroni la scritta lo diedi in baratto di gemma incisa al Cav. di Cortona, incluso tra quelli raccolti da Anton Francesco Gori (1691-1753) per la preparazione delle tavole del primo volume del suo Museum Etruscum (1737),4 nel quale apparve la prima riproduzione del bronzetto (Fig. 1). Ha inoltre segnalato una lettera ms. del Ficoroni al Gori, datata 25 agosto 1736, che penso abbia accompagnato l’invio del disegno, in cui è ripetuta la notizia dell’acquisto e della successiva cessione al Corazzi.5 Partendo da queste premesse la Cagianelli ritiene che anche la provenienza dai dintorni di Perugia, ricordata dal Ficoroni nella sua operetta del 1732, sia un dato certo, da preferire alla provenienza da Ravenna, divulgata dal Gori pubblicando il bronzetto.6 La sua proposta di rettificare la provenienza vulgata ha incontrato un’eco quanto mai rapida e favorevole,7 anche a causa dell’assise particolarmente appropriata, il recentissimo convegno su Perugia etrusca, in cui è stata ribadita.8 Ma, spiace dirlo, una tale conclusione, che cancellerebbe quella che è stata considerata una delle maggiori testimonian-

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1 Cagianelli 1999, p. 372 sgg., con la bibliografia completa del bronzetto alle pp. 368-370, nota 4. 2 Ficoroni 1732. Il Gori elogia l’operetta in una lettera all’autore del 22 luglio 1732 (Cagianelli 1999, p. 375 sg., nota 34). 3 Ficoroni 1732, p. 21 sg. Lo scambio conferma che le quotazioni dei bronzetti si avviavano a gareggiare con quelle delle gemme, la categoria di anticaglie allora maggiormente richiesta sul mercato antiquario (nel Museum Cortonense due terzi delle opere illustrate sono gemme, seguite a distanza dai bronzetti e ancora più lontano dalle terracotte). 4 Cagianelli 1999, pp. 373-375, tav. iv. In realtà del Ficoroni dovrebbe essere anche il disegno ibid., tav. iii, assai meno accurato dell’altro nella resa dell’iscrizione, ma riferibile alla stessa mano, e forse eseguito per primo. 5 Lettera in parte riportata in Cagianelli 1999, p. 377. 6 Gori 1737, p. 231 sg., tav. cviii (qui a Fig. 1). Si noti che la riproduzione è basata non sui due disegni avuti dal Ficoroni ma su quello, includente la veduta posteriore della statuetta (Cagianelli 1999, tav. ii), che penso sia stato inviato dal Corazzi (cfr. lo scambio epistolare di cui a nota 13). 7 L’accolgono L. Cenciaioli (Perugia etrusca, p. 57), S. Stopponi (ibid., p. 230 sg.), L. Agostiniani (ibid., p. 303, nota 4), G. Sassatelli e R. Macellari (ibid., pp. 411 e 419). 8 Cagianelli 2002, p. 330 sg.

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ze della frequentazione volsiniese della via “umbra” verso Adria e il Delta padano, non appare sufficientemente fondata. Intanto è da tenere presente che il Gori conosceva e apprezzava, fin dal momento della sua apparizione,9 l’opuscolo del Ficoroni, che cita più volte nel suo libro, ma non a proposito del nostro Marte, di cui dice solo che «olim erutum Ravennae, nunc exstat Cortonae in Museo Corazio», dichiarandolo «perinsigne… tum propter magnitudinem (altum est enim pedem unum antiquum Romanum et circiter uncias tres) tum etiam propter Etruscam inscriptionem ‚˘ÛÙÚÔʉÔÓ [sic], in dextro latere insculptam, quae eius nomen facile declarat».10 Né aveva alcuna ragione personale per contraddire il vecchio Ficoroni, col quale intratteneva ottimi rapporti, testimoniati dal fitto carteggio intercorso tra i due a partire dalla fine del 1727, di cui restano 331 lettere scritte dall’erudito romano,11 senza parlare delle pubbliche lodi ripetutamente tributategli nel Museum Etruscum.12 Se il fiorentino, in genere assai parco e prudente nelle indicazioni di provenienza, dichiara senza alcuna esitazione che il Marte era stato «olim erutum Ravennae», definendolo nell’indice del libro «Ravennae erutum antiquissimum Etrusci Fig. 1. Il Marte Corazzi (da Gori 1737). Herois simulacrum»13 possiamo essere certi che disponeva di informazioni che mancavano al Ficoroni.14 Ma si può dire di più. La lettera già citata, che il Ficoroni invia al Gori nell’agosto 1736, ha tutto il carattere di una risposta alla richiesta dell’amico – allora nel vivo della preparazione del suo magnum opus, aspirante ad essere un informatissimo «thesaurus Etruscarum antiquitatum», come dirà in apertura15 – di precisare quanto aveva pubblicato nel 1732 sulla provenienza della statuetta. Nella lettera (che la Cagianelli lamenta di avere avu-

9 Cfr. nota 2. 10 Gori 1737, p. 231. Il Gori dà a intendere di saper leggere e interpretare l’iscrizione, ma poco appresso battezza il suo eroe con i nomi più strampalati (cfr. nota 13), ignorando quello del dedicante Thucer Hermenas e dando la preferenza ad Halesus falisco. 11 Giuliani 1987, p. 36, s.v. 12 Gori 1737, pp. 46 sg., 92 sg., 180, 392. 13 Ibid., p. 465. 14 Una garanzia al riguardo è nella pressoché totale separatezza tra l’asserita provenienza del bronzetto e l’esegesi propostane: in ordine decrescente di attendibilità vengono citati l’Halesus argivo-falisco, l’Halesus re dei Veienti, lodato dai Salii, Fontus figlio di Giano, Aunus, Malaeotus [sic] e Rhaetus. Soltanto i tre ultimi nomi possono essere stati suggeriti dalla pelasga e padana Ravenna. Risulta inoltre dalla corrispondenza col Corazzi che ancora all’inizio del 1736 il Gori interpretava il guerriero come un «Salio di Marte», senza alcun rapporto con la provenienza da Ravenna (Cagianelli 1999, p. 378 sg.). 15 Gori 1737, p. 1.

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to difficoltà a decifrare) il Ficoroni rivela di aver acquistato la statuetta da un «mercante» non meglio specificato, che peraltro in una precedente lettera del 9 agosto 1732 allo stesso Gori aveva indicato come il compratore dell’intera collezione di oggetti metallici del defunto Cardinal Gualtieri († 1728).16 Un mercante di grossa levatura, dunque, certamente come il Ficoroni residente a Roma, in bocca al quale, come suole accadere in simili casi, l’indicazione della provenienza da Perugia non avrà significato altro che di Perugia era chi gliela aveva venduta (senza che sia minimamente possibile ricostruire i passaggi di mano subiti dal bronzetto prima di approdare nella capitale dello Stato Pontificio). In ogni caso l’agro di Perugia, per una lunga serie di ritrovamenti antichi e recenti,17 era all’epoca tra i più credibili come area di provenienza di un bronzetto etrusco, e certo assai più di quello di Ravenna, fino allora del tutto muto al riguardo. E quanto alla capacità di acquisire informazioni veritiere, un confronto tra il Ficoroni e il Gori appare improponibile, poiché il secondo, teste il carteggio accuratamente conservato, era al centro di una rete di corrispondenti che arrivò ad annoverare oltre 700 persone, appartenenti alle più svariate categorie professionali, mercanti esclusi, e distribuite in tutta l’Italia, oltre che all’estero.18 Né la scoperta di un bronzo come il Marte Corazzi era di quelle che potevano avvenire senza suscitare curiosità e interesse a livello locale, considerate le sue dimensioni non comuni, la manifesta antichità e l’iscrizione incisa sulla coscia. Quanto detto trova del resto implicita conferma nella stessa lettera dell’agosto 1736. Il Ficoroni vi si mostra infatti estremamente reticente quanto alla provenienza del «soldato etrusco»: non parla più delle vicinanze di Perugia ma chiama in causa l’Etruria tutta («trovatosi nell’Etruria»), lasciando il più ampio spazio a eventuali rettifiche della sua precedente indicazione, senza chiudere la porta nemmeno all’ipotesi ravennate, considerato il panetruschismo del tempo.19 Né in seguito, per quanto sappiamo, lui o altri tornarono sull’argomento,20 mentre la provenienza da Ravenna, subito accolta da G.B. Passeri, che era di casa nelle Legazioni e che per primo si cimentò con la lettura e l’esegesi dell’iscrizione,21 fu ribadita dal Gori nel Museum Cortonense del 1750, col tacito consenso del Corazzi,22 né mi risulta che sia mai stata revocata in dubbio fino ai giorni nostri.23 16 Testo in Cagianelli 1999, p. 377, di cui seguo l’interpretazione. 17 Ultimo quello di Mandoleto, avvenuto nel 1710 e reso noto dallo stesso Ficoroni (Cagianelli 2002, p. 323 sgg.). 18 Negli anni immediatamente precedenti il 1737 era tra essi il benedettino ravennate Pietro Paolo Ginanni, oltre ai grandi eruditi pesaresi Annibale Abati degli Olivieri e Giovanni Battista Passeri, a Ottavio Bocchi, nume tutelare di Adria, e a molti altri possibili e qualificati informatori (Giuliani 1987, s.vv.). Tra l’altro grazie alla mediazione del Passeri il terzo volume del Museum Etruscum accoglierà un bronzetto di offerente rinvenuto a Rimini, probabilmente di epoca romana (Passeri 1743, p. 50 sg., tab. xiii: cfr. Romualdi 1987, p. 286, con bibl.). 19 Tra l’altro a Ravenna sarà attribuita una moneta con legenda etrusca (Abati Olivieri 1757, p. 45; Guarnacci 1767, ii, p. 259 sg.). 20 A parte il perugino Domenico Scutillo, che in un ms. del 1781 sulla storia della sua città si limita a riportare il passo del Ficoroni, senza nulla aggiungere di suo se non la citazione della tavola del Gori illustrante la statuetta (Cagianelli 1999, p. 379 sg.). Il passo è ambiguo, ma sta di fatto che l’iscrizione della statuetta non ha trovato posto tra quelle di origine locale nelle opere dei grandi etruscologi perugini dell’800 (alludo a Vermiglioli, Conestabile e Fabretti). 21 Passeri 1739, p. 315 sg. e, per l’iscrizione, pp. 338-340. Il Passeri parlava di un «Giovane armato» e divideva correttamente il testo, basandosi sul confronto con l’iscrizione interpunta della bella lucerna bronzea a più becchi del Museo Mediceo, edita nel De Etruria regali (attribuita da H. Rix a Cortona: Rix 1991, Co 3), ma l’interpretava erroneamente come «dono di Erminio a Marte». 22 Museum Cortonense, p. 25 sg., tav. xvii. Il testo del Gori ripete quello del Museum Etruscum (con alcuni refusi), ma, sulle orme del Passeri, nella didascalia della tavola e nell’indice del libro l’«heros Etruscus» è retrocesso più realisticamente a «miles Etruscus». 23 Infatti l’attribuzione del Lanzi all’Etruria propria (Lanzi 1824-1825, ii, p. 446 sg.) riposa esclusivamente su un fraintendimento del passo in cui il Passeri confrontava l’iscrizione della lucerna del Museo Mediceo con

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La documentazione prodotta dalla Cagianelli consente di fare un passo avanti anche riguardo alla cronologia dei passaggi di proprietà subiti dalla statuetta e degli stessi inizi del collezionismo del Corazzi. Tra i cinque disegni della statuetta reperiti dalla studiosa nel repertorio illustrativo radunato dal Gori per la preparazione delle tavole del Museum Etruscum, ve n’è uno che si distingue da tutti gli altri per il suo carattere di schizzo, privo affatto di chiaroscuro, e per la scelta, coerente con esso, della veduta laterale invece che di tre quarti, accompagnata da una minuscola veduta frontale e da tre particolari, di cui due chiosati a lato (Fig. 2).24 Il foglio reca in alto di mano del Gori la scritta Ex schedis Cl. Sen. / Phil. Bonarrotii / qui haec manu / sua adnotavit. Accanto è la scritta del Buonarroti di Bronzo alto un piede antico Romano / e circa 3 once del G[- - -] Ridolfini Corazzi. Nella riga sottostante si legge la data 172429, che intendo 29 gennaio 1724 (Fig. 3). Si tratta certamente di un foglio proveniente da uno dei taccuini del Buonarroti, raccolti in 60 volumi di cui sappiamo che il Gori Fig. 2. Il Marte Corazzi in un foglio venne in possesso alla morte del maestro disegnato nel 1724 da Fr. Buonarroti. (dicembre 1733).25 Apprendiamo dunque che il Buonarroti ha visto e disegnato di persona il bronzetto, dando un’ulteriore prova delle sue capacità di acuto osservatore, in particolare nella resa dell’elmo e del moncone di cimiero, non che nell’apografo dell’iscrizione, più preciso di quelli del Ficoroni e del Gori.26 Il mancato inserimento nell’apparato illustrativo delle Explicationes aggiunte al secondo volume del De Etruria regali sarà dovuto al fatto che nel gennaio del 1724 la stampa di quel volume era già avviata.27 Apprendiamo inoltre che a quella data il bronzetto si trovava già nella collezione Corazzi, di cui pertanto costituisce la più antica testimonianza giunta fino a noi, anteriore di qualche anno all’acquisto del Grifo pure iscritto proveniente dal Campaccio.28 Tutto sommato possiamo forse dire che sia stato proprio il fortunato acquisto del nostro Marte, avvenuto al più tardi alla fine del 1723, consentito dal modequella del Marte e, per giustificare l’ardita equiparazione delle forme turce e ıucer, si appellava al fatto che «l’uno [dei monumenti] in Toscana, e l’altro in Ravenna fu ritrovato» (Passeri 1739, p. 315 sg.). L’equivoco del Lanzi, che attribuiva alla lucerna la provenienza da Ravenna (Lanzi 1824-1825, ii, p. 422 sg., n. X11; iii, pp. x e 562, ad n. 1, con citazioni di pagina errate), ha lasciato lunga traccia nella letteratura (Müller, Deecke 1877, i, p. 138, nota 53; Bovini 1956, p. 41). 24 Cagianelli 1999, tav. v. 25 Gallo 1986, pp. 20 e 55, nn. 9-10. 26 Sui disegni del Buonarroti cenni in Cristofani 1983, p. 34 sg., e in Gallo 1986, pp. 16, 55 sgg., nn. 9, 10, 12, 40 e 41. 27 Anche se uscirà soltanto due anni dopo (Cristofani 1983, p. 30; Levi 1985, p. 109 sg.; Gallo 1986, p. 92 sg., n. 57). 28 Che è posteriore al 1726 (Levi 1985, p. 112).

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Fig. 3. Le scritte presenti nel foglio di cui a Fig. 2.

rato interesse che il Ficoroni nutriva verso gli Etruschi e viceversa dall’attrazione esercitata su di lui dalle gemme di stile bello, a suscitare la speciale attenzione verso i bronzi etruschi che connotò da allora il Corazzi.29 Quanto al Ficoroni, non si andrà lontano dal vero pensando che sia venuto in possesso del Marte intorno al 1720, se non prima. Il disegno infine dimostra che l’interessamento del Gori verso la statuetta è stato preceduto e preparato, per così dire, da quello del Buonarroti, dalla cui “scheda” egli ha tratto verbatim l’indicazione dell’altezza, normalmente da lui omessa nella trattazione dei bronzetti, a differenza di quanto usava fare il suo maestro. La corrispondenza col Corazzi era del resto iniziata piuttosto tardivamente, alla fine del 1730, e non sembra che il Gori conoscesse de visu il Museo del collezionista cortonese prima del famoso viaggio etruscologico intrapreso nel 1733.30 Non si può dunque escludere che la notizia della provenienza del bronzetto da Ravenna sia arrivata al Gori attraverso le carte del Buonarroti, ancora in gran parte da esplorare. Bibliografia Abati Olivieri 1757 = A. Abati degli Olivieri, Della fondazione di Pesaro, Pesaro 1757. Bovini 1956 = G. Bovini, «Le origini di Ravenna lo sviluppo della città in epoca romana», in Felix Ravenna lxx, 1956, pp. 38-55. Cagianelli 1999 = C. Cagianelli, «Sulla provenienza del Marte cosiddetto di Ravenna», in StClOr lxvii, 1, 1999, pp. 367-384. Cagianelli 1999a = C. Cagianelli, Bronzi etruschi a figura umana (Monumenti Musei e Gallerie Pontificie, Museo Gregoriano Etrusco, Cataloghi 5), Roma 1999. Cagianelli 2002 = C. Cagianelli, «Bronzi etruschi a figura umana da Perugia e dal suo territorio nella letteratura antiquaria», in Perugia etrusca, pp. 323-338. Cristofani 1983 = M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel ’700, Roma 1983. 29 Ibid., p. 117 sg.; Cagianelli 1999a, p. 41, nota 59.

30 Cristofani 1983, pp. 54-59.

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Ficoroni 1732 = F. Ficoroni, La bolla d’oro dei fanciulli nobili romani e quella in bronzo de’ libertini, Roma 1732. Gallo 1986 = D. Gallo (a cura di), Filippo Buonarroti e la cultura antiquaria sotto gli ultimi Medici, Firenze 1986. Giuliani 1987 = L. Giuliani, Il carteggio di Anton Francesco Gori, Roma 1987. Gori 1737 = A.F. Gori, Museum Etruscum exhibens insignia veterum Etruscorum monumenta, i-ii, Florentiae 1737. Gori 1743 = A.F. Gori, Museum Etruscum…, iii, Florentiae 1743. Guarnacci 1767 = M. Guarnacci, Origini italiche, o siano memorie istorico-etrusche, i-ii, Lucca 1767. Lanzi 1824-1825 = L. Lanzi, Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia, i-iii, Firenze2 18241825. Levi 1985 = D. Levi, «Collezionismo etrusco tra musei accademici e raccolte private (1724-1750)», in L’Accademia etrusca, a cura di P. Barocchi, D. Gallo, Cat. Mostra (Cortona 1985), Milano 1985, pp. 109-119. Müller, Deecke 1877 = K.O. Müller, W. Deecke, Die Etrusker, i-ii, Stuttgart 1877. Museum Cortonense = F. Valesio, A.F. Gori, R. Venuti, Museum Cortonense, Romae 1750. Passeri 1739 = G.B. Passeri, «Lettere Roncagliesi x e xi», in A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, xxiii, Venezia 1741, pp. 313-334 e 335-360. Passeri 1743 = G.B. Passeri, «Acheronticus, sive de ara sepulcrali, in qua etiam de Laribus et Geniis non pauca adnotantur», in Gori 1743, pars ii, pp. 17-78. Perugia etrusca = Perugia etrusca, Atti del ix convegno internazionale sulla storia e l’archeologia dell’Etruria, in AnnMuseo Faina ix, 2002. Rix 1991 = H. Rix (a cura di), Etruskische Texte. Editio minor, i-ii, Tübingen 1991. Romualdi 1987 = A. Romualdi, «La piccola plastica votiva e i luoghi di culto della Romagna nel periodo arcaico e classico», in La formazione della città in Emilia Romagna, a cura di G. Bermond Montanari, ii, Bologna 1987, pp. 284-300. [Ravenna o Perugia? A proposito della provenienza del Marte Corazzi a Leida, «ArchCl», liv, 2003, pp. 443-449].

P I N ELLI E LA PIT T UR A D I S TO RIA a quanto si è venuti dicendo dovrebbe risultare con chiarezza che l’Istoria è stata la chiave di volta di un percorso culturale, oltre che tematico, interamente svolto all’interno del genere storico e assai sottovalutato, fino a tempi recentissimi,1 dalla critica. Un percorso che in realtà non fu meno tenacemente e fruttuosamente perseguito dal Pinelli, come sapevano i biografi suoi contemporanei, di quanto lo fu quello concernente i celebrati costumi “pittoreschi” di Roma e di altri paesi. In proposito è commovente ritrovare il tema di uno dei grandi disegni del 1834, “Bruto condanna i suoi figli a morte” – un tema assai in voga durante la Rivoluzione2 –, già all’inizio della carriera artistica del Nostro, nel tondo modellato a rilievo col quale vinse a Bologna nel 1798, non ancora diciassettenne, il primo premio per la scultura del concorso dell’Accademia Clementina.3 Ma nel conto dell’interesse da lui dimostrato per la pittura di storia vanno messi anche, se realmente sono opera sua, i ventisei acquerelli a terra rossa con narrazioni mitologiche già Delaroff, di recente apparsi sul mercato antiquario e attribuiti ai primi anni romani del Nostro,4 quando sappiamo che «schizzò a penna alcuni fatti d’istoria con sì bel modo, con tanta vigoria, che bastarono que’ primi saggi ad acquistargli fama».5 E inoltre i quattro grandi acquerelli ritoccati a penna del Gabinetto nazionale delle Stampe con episodi dell’Iliade e della storia greca, firmati e datati 1806-07;6 l’acquerello a seppia con Telemaco e Anfitrite datato 1809;7 le cinquanta bellissime incisioni illustranti l’Eneide del 1811, edita dal Fabri, commentate con versi tratti dalla dimenticata versione di Clemente Bondi;8 le cinquantadue incisioni di Costumi antichi, pubblicate negli anni successivi dallo stesso editore9 e lo stesso Fregio di Giulio Romano dipinto alla Farnesina del 1813. Questa tutt’altro che sporadica frequentazione giovanile di temi classici culminò nell’Istoria Romana, l’opera che consolidò definitivamente la fama del suo autore, che con essa «dava principio al suo gran progetto», come scrive enfaticamente Falconieri, «presentando un gran quadro dell’istoria romana antica con animo veramente romano», e che «al primo apparire tutta svelò la potenza della sua fecondissima immaginazione, e la sapienza dell’arte alla quale era pervenuto».10 Né l’interesse per la storia antica venne meno, come s’è visto, nella seconda

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1 Praticamente fino a Mazzocca 1981. 2 Giardina 2000, pp. 127-129. 3 De Rosa-Trastulli 1984, p. 10. 4 Ibidem, p. 9 sg., con figura a p. 11. L’attribuzione al Pinelli non è condivisa da Gnisci 1992. 5 Gerardi 1835, p. 75. Sono probabilmente quei «piccoli disegni d’istoria, da lui fatti ad acquerello» quando frequentava l’Accademia di San Luca, che non piacquero ai suoi maestri e lo convinsero ad abbandonare l’Accademia (Raggi 1835, p. 30). 6 De Rosa-Trastulli 1984, p. 10, con due figure a p. 8. 7 Incisa Della Rocchetta 1956, p. 61, n. 26. 8 Raggi 1835, p. 37, n. 18; Incisa Della Rocchetta 1956, p. 45, nota 29. Vedine una in Mazzocca 1981, fig. 462. 9 Raggi 1835, pp. 25 e 37, n. 19; Incisa Della Rocchetta 1956, p. 42, nota 14; p. 189 sg., n. 482. L’opera, non datata, è apparsa prima del 1820, dato che il recapito dell’editore è in via Borgognona n. 66, come al tempo dell’Eneide e dei Costumi Svizzeri (ibidem, p. 42, nota 13), e non a Capo le Case n. 3, come nell’Istoria Romana del 1820 e in tutte le opere successive. Irriconoscibili la mano e le scelte dell’artista nella mediocrissima Raccolta completa / di / n.º 100 Tavole / dei / Costumi Antichi / con loro descrizione / disegnati dal celebre Pittore Romano / Bartolomeo Pinelli / ed incise all’acqua forte. Volume unico, Bologna, presso Giovanni Zecchi, 1830. 10 Falconieri 1835, p. 65. Non meno entusiastico è Raggi 1835, p. 27. Anche molto più tardi, nella biografia di V. Camuccini, Falconieri dirà del Pinelli «che a rappresentare la storia romana è, sopra ogni altra sua creazione, maraviglioso» (citato in De Rosa-Trastulli 1984, p. 14).

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metà della sua vita artistica, ma conobbe al contrario un continuo crescendo, fino alla vigilia della morte. Circa la genesi dell’Istoria Romana sta di fatto che prima di essa Pinelli si era mosso all’interno del genere storico con poca chiarezza di intenti, toccando quasi tutte le corde del neoclassicismo imperante, senza preferenze o approfondimenti di sorta. Le cento grandi incisioni dell’Istoria Romana assumono sotto questo aspetto il valore di una svolta, maturata in tempi, modi e circostanze che forse è possibile conoscere. Annessa Roma all’Impero napoleonico nel 1809, Pinelli aveva intrecciato un sodalizio artistico col più anziano e più famoso pittore Jean-Baptiste Wicar, appena rientrato da Napoli, dove Murat l’aveva esonerato dalla direzione dell’Accademia di Belle Arti;11 con l’incisore romano Filippo Pistrucci suo coetaneo, noto soprattutto come poeta improvvisatore (un genere di poeti allora assai in voga); e con Antonio Briccolani traduttore di Camoens. I quattro usavano intrattenersi la sera in un caffè di piazza Venezia, la piazza che era allora al centro della vita artistica cittadina per la vicinanza al Campidoglio, sede distaccata dell’Accademia di San Luca con l’Accademia del Nudo, oltre che di mostre memorabili;12 al palazzo Mancini, che aveva ospitato fino al 1803 l’Accademia di Francia; al palazzo di Venezia, che ospitava dal 1804 i giovani artisti delle accademie del Regno d’Italia; al palazzo Torlonia oggi demolito, allora fervente cantiere che vedeva al lavoro, grazie al mecenatismo del banchiere proprietario, gli artisti più accreditati presenti in città.13 Nella combriccola «quasi per sollazzo, l’uno proponeva il tema, Pistrucci ne cantava con versi improvvisi, e il Pinelli, in sullo istante medesimo, lo ritraeva in disegno».14 Che i temi trattati fossero temi in senso lato di storia è scontato, ma ne abbiamo comunque la conferma dal titolo e dal contenuto di un opuscolo pubblicato a Roma dal Pistrucci, nel quale si annuncia un’opera sulla storia romana.15 La data è da porre al più tardi nel 1813, poiché nel corso di quell’anno l’autore, divenuto «sospetto per motivi politici» alla polizia francese,16 fu costretto a riparare a Milano, capitale del Regno d’Italia. Dove pochi mesi dopo, caduto Bonaparte, pubblicò un’opera iniziata nella città natale, che apparve col titolo Storia Romana incisa e posta in versi, composta da settantatré tavole, alternate ad altrettanti sonetti, per lo più di autori diversi, e ad altrettanti componimenti propri in versi sciolti.17 La storia presa in considerazione è la stessa che poco più tardi avrebbe illustrato Pinelli, ossia quella delle origini e della Repubblica, da Romolo e Remo alla morte in questo caso non di Antonio ma di Cleopatra, con l’aggiunta di una tavola raffigurante il trionfo del 29 a.C. (“Augusto in Roma”). I versi che la commentano, a conclusione del libro, ne sono in un certo senso l’epigrafe: «Tutto finì! di libertade i giorni / non fur che un sogno, ferma base in Roma / prese l’impero, e su i trascorsi tempi / stende l’oblio l’impenetrabil manto. / Un uom mortal non è più Augusto, 11 Spinosa 2004, p. 32. Sulla data del rientro: Gorgone 2004, p. 48. 12 Raggi 1835, p. 30; Gerardi 1835, p. 75. Per le mostre: Di Majo 2003. 13 Roma 2003, pp. 280, 289, 407 sgg., 609 sgg., 615. 14 Raggi 1835, p. 25. 15 Improvvisi di Filippo Pistrucci dedicati ai suoi associati all’opera, che sta incidendo de’ gran fatti dell’Istoria Romana, Roma, presso Paolo Salviucci e figlio, s. a. Gli “improvvisi” hanno per soggetto il “sacrificio di Polissena”, il “convito di Atreo”, la “morte di Aristodemo”, il “suicidio di Jacopo Ortis”, i “vaticinj di Cassandra” e “Annibale al Trasimeno”. Un Corso di Storia Romana illustrato dall’artista era stato annunciato in realtà fin dal 1808 (Roma 2003, p. 611). 16 Mazzocca 1981, p. 354. Uno dei componimenti incriminati potrebbe essere stato il “Camillo che scaccia i Galli dal Campidoglio”, in ottave (Pistrucci 1814, pp. 19-22), in cui si potevano leggere ai versi 23-24 espressioni come “[…] non v’eran allor dentro le selve / belve peggiori delle Franche belve”. 17 Pistrucci 1815. L’anno di edizione in Mazzocca 1981, p. 354, nota 8, è il 1814, ma l’esemplare a me noto (Bibl. Nazionale di Roma) reca la data 1815. Una sua rielaborazione saranno i Fatti principali della Storia Romana, Milano 1822 (cito da Mazzocca 1981, p. 364: non vidi).

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è un Dio, / al suo gran nome, alle superbe gesta / archi e tempî s’innalzano dovunque. / Chi gli offre voti ad ambe mani aperte, / chi curvato per terra il piè gli bacia, e niun per sé, per lui respiran tutti. / […] / tal divenne il magnanimo, il feroce / popol altier che fe’ tremare il mondo. / […] / Quando Tiberio, Claudio, e con Nerone / Caligola demente in soglio avranno / la clamide imperial cinta, vedrassi / qual tra un Bruto, un Caton, un Scipio, un Tullio / differenza sarà; ma ciò fu scritto / dall’inconcusso ordin del fato, / e niuna cosa eternamente dura».18 Pinelli non possedeva la passione politica del Pistrucci, che a Milano si fece carbonaro, restò coinvolto nei fatti del 1821 e andò più tardi, fervente mazziniano, esule a Londra,19 ma le idee e i sentimenti espressi nella sua Storia Romana non potevano non essere conosciuti, e almeno in parte condivisi, dagli amici del gruppo di piazza Venezia, a cominciare dal Wicar.20 Sappiamo del resto che lo scontroso e solitario Pinelli di cui parla F. Hayez, avendolo probabilmente incontrato proprio in quella piazza che entrambi frequentavano, fu un assiduo lettore dell’Alfieri, oltre che di Dante.21 Le incisioni del Pistrucci, eseguite rapidamente al tratto (ne riproduciamo un campione alle Figg. 1-4), erano di modesta levatura, ancor più dei suoi versi, ma forse proprio per questo ebbero un peso determinante nello spingere il Nostro ad affrontare gli stessi temi con un’opera di ben maggiore impegno, veramente degna della sua patria. Opera che infatti immaginò gli fosse richiesta non, come aveva poetato Pistrucci, da un anonimo mecenate, facente appello alle sue duplici doti («Roman, pingi del Tebro il fasto avito, vate e pittor»),22 ma dalla Dea Roma in persona. Né, aggiungo, è ipotesi peregrina che l’amico, meno dotato ma più intraprendente, abbia fatto da battistrada al Nostro anche col suo Atlante dantesco e con gli album dedicati alla Gerusalemme liberata e all’Orlando Furioso, opere da lui pubblicate a Milano con qualche anno di anticipo rispetto a quelle di ugual soggetto del Pinelli,23 suscitando forse la sua emulazione. Come che sia, è evidente che l’interesse del Nostro verso il genere storico non è rimasto un fatto episodico e superficiale, la concessione a una ‘moda’, ma ha toccato corde profonde, definibili come patriottiche e nazional-popolari.24 Intanto la sua è una pittura di storia fortemente selettiva, che concede assai poco ai temi sacri, biblici, medievali, rinascimentali o barocchi, allora tanto ricercati.25 La storia degna di essere rievocata è per il Pinelli quella del mondo classico e in particolare del mondo romano, dei cui protagonisti credeva di cogliere ancora qualche barlume, non solo nei gesti nelle voci nei costumi, ma perfino nei volti dei suoi conterranei, come rivelano le scritte vero 18 Pistrucci 1815, p. 145. 19 Incisa Della Rocchetta 1956, p. 42, nota 15, con bibliografia. A Londra Pistrucci tra l’altro pubblicò la tragedia storica Marozia, tenne conferenze e impartì lezioni alla scuola italiana gratuita di Greville Street, fondata per gli esuli e i loro figli, annoverante ben trecento iscritti (Pistrucci 1842, l’anno del Nabucco di Verdi!). 20 Questi, già fervente giacobino, deluso dal Murat, che l’aveva allontanato dalla direzione dell’Accademia di Napoli, si era molto avvicinato a Luciano Bonaparte, che si trovava da tempo in rotta aperta col grande fratello (Gorgone 2004). 21 Falconieri 1835, p. 70 sg. («la lettura del divino Alighieri e dello Astigiano poeta era per lui giornaliera e sopra ogni altro prediletta»). 22 Pistrucci 1815, cit., p. 2. 23 Bibl. in Mazzocca 1981, p. 354 sg., nota 8. 24 «Continuamente costumava con quel minuto popolo [romano] (sì poco poté in lui la superbia) nel quale può dirsi essere rimasto ancora alcun che della indole, del coraggio e della fermezza d’animo degli antichi suoi padri. Egli si teneva a gloria essere nato italiano, ma al nome di romano insuperbiva» (Raggi 1835, p. 27). 25 A parte l’illustrazione di grandi opere letterarie quali la Commedia, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, il Don Chisciotte e i Promessi Sposi, il repertorio di storie ‘moderne’ del Pinelli resta circoscritto a pochi temi della Roma barocca (Meo Patacca, Maggio Romano, le dieci tavole degli Estremi casi della famosa Beatrice Cenci, edite, con un testo di Salvatore Muzzi, a Bologna nel 1861) e contemporanea (i Fatti di Pio VII). Acquerelli isolati come quelli riprodotti in Morpurgo 1968 non cambiano il quadro.

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Figg. 1-2. Due tavole della Storia Romana incisa e posta in versi di F. Pistrucci, Milano, Sonzogno, 1815.

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Figg. 3-4. Altre due tavole della Storia Romana incisa e posta in versi di F. Pistrucci, Milano, Sonzogno, 1815.

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discendente Romano e vera Romana di Trastevere, apposte sotto una coppia di ritratti a matita, anonimi, che sono tra le sue cose più riuscite (Figg. 5-6).26 A differenza del Pistrucci, che esaltava con enfasi da tribuno gli ideali di libertà e di democrazia della Roma repubblicana, calpestati ai suoi giorni dal cesarismo napoleonico, Pinelli è visceralmente legato al popolo che lo circonda, da cui a nessun costo è disposto ad allontanarsi, e crede di vedere in esso, seguendo una convinzione assai condivisa al suo tempo, in specie per gli abitanti di Trastevere,27 i campioni di una razza in via di estinzione, la razza dei Romani antichi. In questo senso esiste una sostanziale coerenza con l’illustrazione dei costumi popolari, cui il Nostro si è dedicato con una straordinaria capacità di «lucida ottica documentaria»,28 apprezzata specialmente dagli stranieri (Chateaubriand, ambasciatore a Roma tra la fine del 1828 e i primi mesi del 1829, narra di essersi recato da lui e di averne ottenuto la promessa di «douze scènes de danses, de jeux et de voleurs»),29 ma anche da un Mazzini, pur con riserve di ordine etico-politico.30 Grazie a questa sua capacità Pinelli ci ha lasciato un vero “monumento”, come possiamo chiamarlo col Belli, della plebe della città, allargato ai villani e ai briganti delle campagne laziali, abruzzesi e napoletane, partecipi della stessa dimensione arcaica e della stessa «énergie sauvage des Romains de la basse classe»,31 che tanto impressionavano il forestiero e che già prima di lui erano assurti a un vero e proprio ‘genere’ di pittura.32 Rispetto a tale “monumento” la prospettiva in cui si pone l’Istoria è certo diversa, ma a ben vedere tutt’altro che stravagante. Dettata dall’esigenza, vissuta in modo passionale e non erudito, di interrogarsi sul remoto passato della plebe di Roma e dell’universo rusticano che la circondava, evoca con la forza di immagini anche magniloquenti e teatrali (ma si era nell’età d’oro del melodramma italiano!)33 fatti, personaggi e miti del mondo antico, soprattutto romano, anzi a preferenza romano dell’età delle origini e 26 Mariani 1948, p. 82 sg., tavv. xxiii-xxiv. Scriveva Stendhal sotto la data 27 gennaio 1828 a proposito di Trastevere: «Un mauvais quartier, dit-on; superbe à mes yeux: il y a de l’énergie, c’est-à-dire la qualité qui manque le plus au xixe siècle…», «Le Transtévériens prétendent descendre des anciens Romains; rien de moins prouvé; mais ce grand nom leur donne du cœur: noblesse oblige» (Stendhal 1829, pp. 229 e 231). 27 In generale Barroero 2003. Per l’esaltazione già pre-rivoluzionaria dei Trasteverini come eredi privilegiati dei romani antichi: Giuntella 1971, pp. 69 sg., 205; Giardina 2000, pp. 204-208 (a proposito di Th. Desorgues e dello scultore romano Giuseppe Ceracchi, che finirà, assieme ad altri artisti, col tentare nel 1800 a Parigi il cesaricidio, pagandolo con la vita). Lo stesso Pinelli aveva firmato alcuni acquerelli del 1805 come “Francesco Pinelli tresteverino” (Incisa Della Rocchetta 1956, p. 55, n. 3). 28 Mazzocca 1981, p. 399. 29 Chateaubriand ed. 1952, xxx, 6, p. 242. L’incontro con Pinelli, uno degli artisti «pauvres et retirés» della Roma del suo tempo, cui va la simpatia dello scrittore, avvenne con l’artista alticcio («entre deux ivresses»), presente il suo mastino affamato («c’est dommage qu’il laisse mourir de faim son grand chien couché à sa porte»). 30 In un saggio scritto in esilio per una rivista inglese, senza ancora conoscere Roma (Mazzini 1841, pp. 114119), lodava l’arte del Pinelli («le sue incisioni all’acquaforte sono belle, i suoi acquerelli splendidi, la sua rapidità di esecuzione prodigiosa») e lo considerava un “pittore popolare” e di fatto “democratico” per la scelta dei soggetti, ma ne condannava il “materialismo”, ossia la mancanza d’ideali, che gli avrebbe fatto ritrarre il popolo “estrinsecamente” (cfr. Mazzocca 1981, pp. 358 e 399). Le riserve del Mazzini dovettero cadere nel 1849, se Pinelli fu l’unico romano del tempo cui la Repubblica decretò l’onore di un busto al Pincio. 31 Stendhal 1824, p. 107. 32 Vedi p.e. i disegni acquerellati dell’inglese Charles Grignon, eseguiti a Roma nel 1790 (Roma 1997, p. 129 sg., nn. 83-84), che direi il più diretto precedente dell’opera pinelliana. 33 Fuorvianti appaiono al riguardo le accuse di retorica e di frigidezza accademica, nate dalla concezione, alquanto idealistica, di un Pinelli diviso tra «gusto neoclassico imperante ed intima esigenza romantica» (Mariani 1948, pp. 83-87: la citazione da p. 86), così come l’artificiosa contrapposizione tra i disegni e le incisioni, espressione i primi di «sentimento romantico» e le seconde di «forma neoclassica» (ibidem, pp. 69-71: le parole citate a p. 69). Lo stesso critico del resto ha più tardi radicalmente rivisto tali giudizi, arrivando a definire l’Istoria un «poema figurativo delle origini della grandezza romana» (Mariani 1973, la frase citata a p. 12). Ancora meglio Maltese 1992, pp. 73-76.

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Figg. 5-6. Disegni di B. Pinelli, datati 1820, conservati nel Museo di Roma (da Mariani 1948).

della Repubblica. Non a caso la chiave di volta del nostalgico programma pinelliano resta, come si è detto, l’Istoria Romana, che è, come nel Rollin, la storia «dalla fondazione di Roma sino al fine della Repubblica con la morte di Marcantonio»,34 conclusa con l’icona dolente di Cleopatra che stringe tra le braccia il corpo dell’amato, in una sorta di romantica e laica Pietà (Fig. 7). Una storia sentita ancora in qualche misura come viva e attuale, nonostante l’immenso divario di civiltà, da un romano deluso come Pinelli (rivelatore in proposito il motto Tutto finisce ossessivamente ripetuto nei suoi autoritratti), poco sensibile ai valori del Cristianesimo ed esaltato invece dalla lettura edificante e moralistica che di quella storia, sulle orme di Livio e di Plutarco, aveva dato ottant’anni prima Charles Rollin. Perché Rollin? Ci si può domandare perché Pinelli abbia scelto proprio questo autore, oggi a malapena conosciuto dagli addetti ai lavori, come guida nella sua rivisitazione della storia di Roma antica. In realtà la scelta non desta alcuna sorpresa, anzi dovremmo meravigliarci del contrario, poiché allora, per chi non era uno storico di professione o comunque una persona di alta cultura, in grado di leggere direttamente gli autori antichi, risultava di fatto obbligata. Non esisteva infatti una narrazione altrettanto continua, ampia e letterariamente efficace dell’Histoire Romaine, pubblicata a Parigi nel 1738 dal quasi ottantenne Rollin, già rettore della Sorbona, allontanato dagli uffici all’inizio del secolo per il 34 Raggi 1835, p. 36, n. 6.

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Fig. 7. L’ultima tavola (101) dell’Istoria Romana.

rifiuto di sconfessare le idee gianseniste apertamente professate. Concepita sulle orme del grande Bossuet, la sua è «un’opera eminentemente retorica, che si pone nel solco della tradizione letteraria antica, ma cristianizzandola: Rollin vuole raccontare per educare», così come aveva inteso fare con l’Histoire Ancienne, pubblicata immediatamente prima, che era una sorta di storia universale, spaziante dagli Egizi e dagli Assiri fino ai Fenici e ai Greci (Fig. 8).35 Riedite più volte fino agli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento,36 assieme all’ancor più famoso manuale pedagogico Traité des Études,37 le due opere ebbero un’immensa fortuna anche in Italia, dove, come è stato scritto da un quasi contemporaneo, con una battuta scherzosa ma non troppo, le giovani dell’aristocrazia piemontese «sapevano bene il francese, poco l’italiano, per non dire nulla, avevano letto Rollin e Télémaque, né altro si richiedeva per la loro laurea».38 Il favore goduto dal letterato giansenista è testimoniato dal numero 35 Ampolo 1997, p. 26 sg. 36 Almeno sei edizioni delle Oeuvres complètes solo tra il 1807 e il 1841 (Raskolnikoff 1992, p. 507 sg.), delle quali quelle a cura del filologo J. A. Letronne (1821-1825) e dello storico protestante F. - P. - G. Guizot (1821-1826) iniziate contemporaneamente, in evidente concorrenza tra loro. L’ultima, a cura di É. Bères (1837-1841), illustrata superbamente da un atlante geografico di L. Vivien e da un “album antique” di A. Lenoir, contenente vedute di monumenti ricostruiti e animati con figure, fu ristampata nel 1845, con l’atlante rifatto da H. Dufour, mentre quella del Letronne fu ristampata a Parigi ancora nel 1846-1849. Della sola Histoire romaine si ebbero nella stessa epoca l’edizione parigina del 1818, presso Ledoux e Tenré, posseduta e chiosata dal Manzoni (v. nota 116), e quella del 1832-1833. 37 Quattro edizioni tra il 1726 e il 1733 e l’ultima, sempre a Parigi, nel 1845. Traduzioni italiane: Pesaro 1738, Padova 1755, Pesaro 1755, Venezia 1792, Reggio 1828, Roma 1836. 38 D’Azeglio 1867, parte i, cap. i, p. 46 sg.

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Figg. 8-9. Frontespizio del i tomo dell’Histoire Ancienne di Ch. Rollin (da Ampolo 1992) e del i tomo della traduzione italiana dell’Histoire Romaine dello stesso autore, Roma, G. Desiderj, 1785.

delle traduzioni susseguitesi nel nostro paese sia prima che dopo la Rivoluzione.39 Per i soggetti e le didascalie delle tavole della sua Istoria Romana Pinelli ha utilizzato, come prova la numerazione dei tomi citati, e com’era peraltro del tutto prevedibile, la traduzione pubblicata a Roma nel 1785 in sedici tomi, per i tipi di Giovanni Desiderj (Fig. 9). Traduzione dalla quale, per comodità del lettore, Daniele F. Maras ha tratto per questa riedizione dell’opera pinelliana i passi riportati a fronte di ciascuna tavola, facendoli seguire da una scelta delle fonti classiche relative agli eventi narrati. Né meno fortunata è stata la continuazione dell’opera del Rollin, l’Histoire des Empereurs Romains depuis Auguste jusqu’à Constantin, dovuta a un discepolo, Jean-Baptiste Louis Crévier, apparsa tra il 1738 e il 174840 e presa a guida per la sua Istoria degl’Imperatori dal Pinelli, che la cita nelle didascalie delle tavole col solo titolo, mostrando di attribuirla allo stesso Rollin.41 Da oltre un secolo e mezzo nessuno più cita Rollin, e tanto meno Crévier, ma all’epoca del Pinelli lo stesso B. G. Niebuhr, come è stato fatto rilevare da un nostro grande 39 Per l’Histoire Romaine: Siena 1775, Roma 1785, Livorno 1830-1833, Roma 1831-1836. Per l’Histoire Ancienne: Napoli 1760, Siena 1778-1780, Roma 1784, Genova 1792, Roma 1834. 40 Nuove edizioni: Parigi 1750-1756; 1818-1819, presso Ledoux e Tenré; 1824-1828, presso Didot. Traduzioni italiane: Treviso 1755-1761, Napoli 1762, Siena 1777, Napoli 1831 (assieme alla Storia del Basso Impero di Ch. Le Beau), Napoli 1845-1848, «fregiata di 100 incisioni di Bartolomeo Pinelli» (idem). 41 Come appare dalla didascalia della tav. 34 (Incisa Della Rocchetta 1956, p. 143). Sappiamo invece che è il Crévier ad aver messo mano agli ultimi due volumi dell’opera del Rollin, da lui lasciati incompiuti (Raskolnikoff 1992, p. 500, nota 92).

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storico, «sentiva il bisogno nelle sue lezioni di criticare Rollin, sia pure col debito distacco»,42 mentre a Parigi l’Académie Française gli tributava pubbliche lodi.43 E la considerazione addirittura di «philosophe bien hardi», in cui era tenuto a Roma nei salotti dell’aristocrazia, è annotata con ironia da Stendhal (anche se confonde la traduzione italiana del 1785, utilizzata dal Pinelli, con l’edizione commentata dal Letronne, a lui più familiare).44 Quest’ultima fu salutata al suo apparire sull’Antologia di Firenze, credo dallo stesso Vieusseux, con parole assai lusinghiere: «Son tutte meritamente tenute in pregio le Opere di Rollin, che ora inutile sarebbe qualunque lode che da noi si facesse. […] La sua storia antica e la sua storia romana son rimaste le due più belle storie che abbia la lingua francese», anche se bisognose di aggiornamenti e rettifiche.45 Non così benevolo si mostrò, dopo la sua conversione, Alessandro Manzoni, che negli anni ’20 fu un accanito lettore dell’Histoire romaine del Rollin, attento a rilevarne nelle ponderose Postille, scritte in francese e non destinate alla pubblicazione, errori, incongruenze logiche ed eccessi retorici, con animo decisamente polemico, esteso anche all’inseparabile Crévier.46 Ma proprio questo genere di critica conferma quel che è stato recentemente ribadito: quell’opera in Francia, da Napoleone in poi, era diventata «un véritable manuel d’histoire et de morale à l’usage des collégiens. C’est à travers le cours de Rollin que ceux-ci apprennent à voir l’Antiquité», e questo fino a tutto il Secondo Impero.47 Bisognerà attendere l’Histoire des Romains di V. Duruy (dal 1843), la Storia d’Italia di A. Vannucci (1851-1855) e soprattutto la Römische Geschichte di un Mommsen (1854-1856), perché Rollin inizi a esser dimenticato anche a livello scolastico, come già lo era da tempo tra gli studiosi di storia antica. Ma ancora alla fine del secolo un grande storico della letteratura francese, Gustave Lanson, laico e progressista, scriverà che «il y a une chose qu’il [Rollin] voit dans l’antiquité, et il la fait voir, sans se douter combien elle est subversive de l’ordre établi: c’est la raide énergie des âmes, le sacrifice volontaire et répété des intérêts, des affections, des existences à une idée de patrie, de liberté ou de vertue. Le cours d’histoire du bon Rollin, avec sa candide inintelligence du passé et son absence de critique, est un cours de morale républicaine […]».48 Parole che fanno bene intuire quello che, a torto o a ragione, molte anime generose anche nella Roma della Restaurazione credevano di sentire in Rollin, assimilandolo addirittura, come osservava divertito Stendhal, ai “philosophes” illuministi suoi grandi denigratori. Bibliografia Ampolo C., 1997. Storie greche, Torino. Barilli R., 1992. “Ragioni e percorso di una mostra”, in Il primo ’800 italiano. La pittura tra passato e futuro, cat. della mostra, Milano, pp. 11-34. Barroero L., 2003. “L’immagine classica e cristiana della città eterna”, in Roma 2003, pp. 75-78. Belli G. G., ed. 1998. Tutti i sonetti romaneschi, a cura di M. Teodonio, i-ii, Roma. Bertocchi M. F., 1797. Breve istruzione de’ principali successi del Vecchio e del Nuovo Testamento ai fanciulli Cristiani, munita di un’esatta cronologia e di alcune annotazioni. Roma, G. Puccinelli, 8º, pp. xii, 143.

42 Momigliano 1955, p. 128. 43 Saint-Albin Berville 1818. 44 «Les hautes classes, au contraire, ont horreur des mauvais livres, et j’ai trouvé sur les sofas une traduction italienne de Rollin, annotée par M. Letronne, qui passe, parmi les jeunes marquis, pour un philosophe bien hardi» (Stendhal 1829, p. 113). 45 Antologia 4, 1821, pp. 373-375. 46 Treves 1962, pp. 609-651. 47 Raskolnikoff 1992, p. 508. 48 Lanson 1895, p. 718.

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D E LA FOUILLE AU PA S T IC H E : LES CA SQUES EN BRONZE À C O U RO NN E S EN OR ÉT RUS QU E S

L

es collections archéologiques de la première moitié du xixe siècle nous ont transmis quatre casques en bronze découverts, aux dires de leurs premiers propriétaires, la calotte ceinte d’une ou plusieurs couronnes en or, étrusques ou supposées telles. Il s’agit d’un casque du British Museum, doté d’une gorge frontale et dégageant les oreilles1 (Fig. 1), d’un casque autrefois conservé au musée national de Budapest, transféré après 1950 au musée des Beaux-arts de cette même ville, proche du type Berru2 (Fig. 2), d’un casque de l’ancienne collection Campana du musée de l’Ermitage de Saint-Pétersbourg, de type corintho-chalcidien à couvre-joues mobiles3 (Fig. 3) et d’un casque issu de la même collection, aujourd’hui au musée du Louvre et du type pilos4 (Fig. 4). Ils sont cités ici dans l’ordre présumé de leur découverte, comme nous le verrons plus loin. Excepté le casque du Louvre, tous ont été depuis longtemps séparés des couronnes qui les entouraient au moment de leur entrée dans ces différents musées. Les trois premiers, découverts à Vulci, comme nous y reviendrons, sont de facture étrusque et sont

Fig. 1. Casque en bronze à couronne provenant de Vulci. Londres, British Museum, inv. GR 1837.6-9.91. (D’après A. Coen 1997, op. cit. note 1, fig. 5).

Fig. 2. Casque en bronze à couronne provenant de Vulci. Budapest, musée des Beaux-arts, inv. 56.145. A. (D’après A. Coen 1997, op. cit. note 1, fig. 7).

1 Alessandra Coen, «Elmi di bronzo e corone d’oro: una rara associazione simbolica nelle sepolture etrusche di iv secolo a.C.», Quaderni di archeologia etrusco-italica, 26, 1997, p. 106, nº 1, fig. 5. Pour la couronne: Eadem, Corona etrusca, Viterbe, Università degli Studi della Tuscia, 1999, p. 260, nº 51, fig. 50, pl. A 5. 2 A. Coen, op. cit. note 1, p. 106, nº 2, fig. 7. Pour la couronne: Eadem, op. cit. note 1, p. 246, nº 5, fig. 4. 3 A. Coen, op. cit. note 1, p. 106 sq., nº 3, fig. 8; cat. d’exp. Trésors antiques. Bijoux de la collection Campana, sous la direction de Françoise Gaultier et Catherine Metzger, Paris, musée du Louvre, 21 octobre 2005-16 janvier 2006, Paris, 2005, p. 49, note 60, fig. 6.2. Pour les trois couronnes considérées fausses: A. Coen, op. cit. note 1, p. 273, nº FA 22; cat. d’exp., Trésors antiques…, op. cit. note 3, p. 77, fig. 6.3. 4 A. Coen, op. cit. note 1, p. 107, nº 4, fig. 9. Pour la couronne: Eadem, op. cit. note 1, p. 248 sq., nº 13, fig. 12.

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italia ante romanum imperium

Fig. 3. Casque en bronze provenant de Vulci avec trois couronnes aujourd’hui séparées. Saint-Pétersbourg, musée de l’Ermitage, Antikensammlung, inv. B. 536. (D’après A. Coen 1997, op. cit. note 1, fig. 8).

Fig. 4. Casque en bronze à couronne étrusque provenant d’Apulie. Paris, musée du Louvre inv. BJ 2152. (D’après A. Coen 1997, op. cit. note 1, fig. 9).

datés de la première moitié du ve siècle av. J.-C. (casque de Saint-Pétersbourg) et de la fin du ve ou du début du ive siècle av. J.-C. (casques de Londres et de Budapest). Le quatrième est de fabrication apulienne et date de la deuxième moitié du ive siècle (casque du Louvre). Tous ont fait l’objet d’une publication spécifique de la part d’Alessandra Coen, qui, par son excellente thèse de doctorat en étruscologie a l’Université de Rome «La Sapienza», parue en 1999 à Viterbe sous le titre Corona etrusca, s’est imposée comme spécialiste des couronnes et des diadèmes étrusques. L’auteur ne remet pas en cause l’authenticité de l’association casques/couronnes, telle qu’elle est toujours maintenue dans un cas. Il est vrai que dans le monde grec classique et hellénistique, les exemples de casques semblablement couronnés ne manquent pas; citons seulement le célèbre portrait de Pyrrhus découvert dans la Villa des Papyri à Herculanum, dont le casque est ceint d’une couronne de chêne,5 ainsi que les très nombreuses autres représentations, monétaires surtout, cataloguées par P. Dintsis dans son monumental ouvrage sur les casques hellénistiques.6 Il s’agit, dans ces cas précis et jusqu’à preuve du contraire, de couronnes végétales, telle celle portée par un cavalier de haut rang en train de combattre sur la mosaïque de la Bataille d’Alexandre.7 Mais comme le soulignent les deux auteurs précédemment cités,8 les inventaires du sanc5 Petros Dintsis, Hellenistische Helme, Rome, Giorgio Bretschneider éd., 1986, p. 163 sq., nº 255, pl. 73: 2-3; Paolo Moreno, «Pirro, 3», EAA, ii suppl., iv, 1996, p. 379 sq., fig. 515. 6 P. Dintsis, op. cit. note 5, p. 67, note 89; A. Coen, op. cit. note 1, p. 98, note 41. 7 P. Dintsis, op. cit. note 5, p. 199, nº 1, pl. 3: 2. 8 Ibidem, p. 57; A. Coen, op. cit. note 1, p. 98.

les casques en bronze à couronnes en or étrusques

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tuaire de Délos mentionnent deux couronnes en or, dédiées à Apollon par les fils de Philippe V de Macédoine, Persée et Démétrios. Chacune d’elle est dite posée «sur un cône» (âd ÎáÓÔ˘), vraisemblablement un casque de type pilos9 (allusion possible, selon moi, au couvre-chef et attribut des Dioscures, entraînant l’assimilation implicite des dédicants aux Jumeaux divins).10 En outre, une couronne en or, produite en GrandeGrèce,11 ceignait, sans que nous puissions savoir si c’était le cas ab origine, un casque apulien du même type que celui du Louvre, autrefois dans la collection Basta de Canosa mais non localisé depuis de nombreuses années. Cependant, à l’exception des quatre cas examinés ici,12 force est de constater qu’en Étrurie et dans le monde italique, Rome comprise, les couronnes végétales ou métalliques, bien que souvent attestées par des témoignages directs (Alessandra Coen dénombre 105 couronnes en or, complètes ou fragmentaires, dans son catalogue) ou indirects, n’apparaissent jamais en association certaine avec des casques. Les rares représentations de personnages à casque couronné d’époque hellénistique (Alessandra Coen cite une ciste de Préneste et une urne de Volterra) appartiennent en réalité à un imaginaire épique ou mythologique dépendant entièrement de l’iconographie grecque.13 Ainsi, ce n’est pas une couronne de feuilles qui entoure la base d’un casque étrusque à visage humain de la fin de l’époque archaïque provenant de la tombe du Guerrier de Lanuvium, mais une guirlande, quelque peu surréaliste, de plumes d’oiseau. Semblables plumes figurent sur la calotte d’un casque étrusque contemporain et de type analogue dit provenir de Lombardie (Mantoue?).14 Sa base est entourée par les boucles d’une chevelure humaine et il prend, au niveau de la calotte, l’aspect d’un corps de cygne, allusion évidente à la métamorphose souhaitée pour le défunt en l’oiseau solaire cher aux Ligures du Pô,15 sous les auspices d’Apollon. Les cônes blancs couronnés de lierre, qui trônent sur le lit monumental et éponyme de la tombe peinte dite «du Lit Funèbre» de Tarquinia, ne sont ni des cippes ni des casques mais, comme je crois l’avoir démontré, les symboles aniconiques des Dioscures en forme de piloi, que les Étrusques, particulièrement attachés à ces divinités, appelaient struppi: c’est le lectisternium qui est représenté, célébré dans l’au-delà par les ancêtres des défunts, dans l’attente de l’arrivée 9 Pour utiliser la terminologie simplifiée de Götz Waurick, «Helme der hellenistischer Zeit und ihre Vorläufer», Antike Helme, Sammlung Lipperheide und andere Bestände des Antikenmuseums Berlin, Mayence, 1988, pp. 151-158. 10 Qui portent le pilos couronné de laurier sur les monnaies des Brettii (Antoine Hermary, «Dioskouroi», LIMC iii, 1, p 569, nº 8, pl. 456; Leila Nista (éd.), Castores. L’immagine dei Dioscuri a Roma, Rome, De Luca, 1994, p. 93, fig. 3) et sur des monnaies romaines (ibid., p. 79, fig. 9), sur un des frontons en terre cuite de Civitella di Chieti (ibid., p. 56, fig. 1), et ailleurs. Dans cette hypothèse, les dédicaces des deux frères seraient contemporaines et devraient dater entre 190 et 185 av. J.-C., c’est-à-dire dans l’intervalle entre les deux séjours que Démétrios fit à Rome comme otage. Elles ont pu être faites à la suite de la victoire remportée en 189 av. J.-C. sur les Dolopes et les Amphilochiens (Piero Meloni, Perseo e la fine della monarchia macedone, Rome, 1953, p. 121). 11 A. Coen, op. cit. note 1, p. 95, note 32 sq., avec bibl. 12 Le cinquième exemplaire catalogué par A. Coen, ibid., p. 107, nº 5, n’existe pas: il s’agit du même que note 2, dit dans les Cataloghi Campana «en possession du musée de Vienne» à la suite d’une lecture distraite des actes académiques où en était parue une illustration (cf. infra note 30). 13 A. Coen, op. cit. note 1, p. 98 sqq., fig. 14 sq. 14 Les deux casques sont cités ibid., p. 100 sq., note 46 sq. 15 Les casques sont à ajouter au matériel et à la bibliographie que j’ai rassemblés dans «Dall’Oceano all’Adriatico: mito e storia preromana dei Liguri», cat. d’exp. I Liguri, Genes, 2004, p. 12 sq., p. 29 sq. (cf. aujourd’hui Natacha Lubtchansky, Le cavalier tyrrhénien (befar 320), École Française de Rome, 2005, p. 119 sq., avec les témoignages funéraires capouans des fig. 34 et 53). L’épée recourbée en fer incite elle aussi à identifier le Guerrier de Lanuvium à un chef mercenaire venant de la zone adriatique située aux confins des territoires ligures, entre Rimini et Ancône, et parvenu chez les Latins à la suite de Porsenna (Giovanni Colonna, «Gli Etruschi e il Piceno» dans, cat. d’exp. Piceni popolo d’Europa, Francfort-sur-le-Main, 1999, p. 157 sq., avec bibl.).

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des Jumeaux qui accompagneront les titulaires de la tombe au royaume des Bienheureux.16 Il ne convient pas de se référer au rite romain du triomphe et à la place qu’y occupe la corona aurea, parfois appelée corona Etrusca, dans la mesure où nous savons que le triomphateur s’avançait en habit civil et non militaire, la tête découverte et couronnée de laurier, tandis qu’un serviteur public placé derrière lui maintenait la couronne en or au-dessus de la tête. De la même manière, dans les représentations étrusques offrant quelque point de comparaison avec le triomphe romain, les protagonistes ne sont ni armés ni coiffés du casque, et leur tête est elle aussi directement ceinte d’une couronne de laurier: ainsi le Vel Saties de la tombe François, drapé dans la somptueuse vestis picta;17 les deux Velthur qui ouvrent, chacun avec ses licteurs, le grand cortège de la tomba del Convegno18 à Tarquinia; le premier des deux Laris Pumpus de la tombe du Typhon19 (le seul dont la tête subsiste), et ainsi de suite. Les personnages couronnés représentés dans les tombes lucaniennes de Paestum dans la nécropole de Spinazzo20 sont, également, toujours dépourvus de casque. À ces raisons, conduisant à une méfiance de principe quant à l’association casquecouronne en or, au moins en Étrurie, s’en ajoutent d’autres, plus précises. Contrairement à la couronne des triomphateurs, celle du casque du British Museum n’est pas faite de laurier mais de lierre, dont sont bien visibles les nombreux corymbes. Comme l’observe Alessandra Coen,21 elle ressemble beaucoup à une couronne contemporaine trouvée parmi le mobilier intact d’une tombe de Tarquinia (lieu dit Poggio del Cavalluccio). Cette dernière était la sépulture d’une femme de la gens Camna, souvent considérée comme initiée aux mystères dionysiaques, à l’instar des membres de sa famille ensevelis dans les tombes voisines et parmi lesquels on compte un marunu¯ pa¯anati.22 La couronne du casque du musée de Budapest, quant à elle, est bien une couronne de laurier, mais avant d’être séparée du casque, elle y était positionnée de manière assez incongrue, les feuilles côté couvre-nuque et non sur le front, ainsi que l’avait déjà remarqué Lipperheide.23 Trois couronnes de différente nature (lierre, olivier et myrte) ceignaient le casque de l’Ermitage avant d’être retirées, il y a peu, par la direction du musée qui les a considérées de facture moderne.24 Alessandra Coen considère la couronne qui orne le casque du Louvre comme authentique et de facture indéniable16 Giovanni Colonna, «Il dokanon, il culto dei Dioscuri e gli aspetti ellenizzanti della religione dei morti nell’Etruria tardo-arcaica», Studi miscellanei 29 (Studi in onore di Sandro Stucchi), Rome, 1996, pp. 177-180 (= Idem, Italia ante Romanum imperium, vol. iii, Pise-Rome, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, pp. 2102-2105, 2111). Pour la localisation de la cérémonie dans l’Au-delà, je renvoie à ce que j’ai écrit dans «Osservazioni sulla tomba tarquiniese della Nave», dans les actes du colloque, Pittura etrusca. Problemi e prospettive, Sarteano-Chianciano, 2001, publiés sous la direction d’Alessandra Minetti, Sistema Musei Senesi, Quaderni archeologici 5, Sienne 2003, pp. 69-71. 17 Stephan Steingräber, Catalogo ragionato della pittura etrusca, Milan, Jaca Book, 1985, p. 380, fig. 185. 18 Ibid., p. 307, fig. 64. Cf. Adriano Maggiani, «Appunti sulle magistrature etrusche», Studi Etruschi, vol. lxii, 1996 (1998), p. 97, fig. 2; Elena Tassi Scandone, Verghe, scuri e fasci littori in Etruria, Pise-Rome, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, p. 46 sq. 19 S. Steingräber, op. cit. note 17, p. 351 sq., fig. 152 (cf. aussi Ranuccio Bianchi Bandinelli, Antonio Giuliano, Etruschi e italici prima del dominio di Roma, Milan, Rizzoli, 1973, p. 290, fig. 334). Le personnage se distingue des autres non seulement par sa couronne, mais aussi parce qu’il est seul à porter la tunique blanche à manches ourlées de rouge et la toge blanc-orangé. Photo du cortège entier dans Françoise-Hélène MassaPairault, La Cité des Étrusques, Paris, CNRS Éditions, 1996, p. 216. 20 Angela Pontrandolfo, Le tombe dipinte di Paestum, sous la direction de Marina Cipriani, Ingegneria per la Cultura, s.d. (2000), fig. 91 sq., 95, 98. 21 A. Coen, op. cit. note 1, p. 92. 22 A. Coen, op. cit. note 1, p. 260 sq., nº 52, fig. 51. À propos des tombes des Camna du Poggio del Cavalluccio: Giovanni Colonna, «Riflessioni sul dionisismo in Etruria», dans les actes du colloque, Dionysos. Mito e mistero, Comacchio 1989, Ferrare, 1991, pp. 136-140 (= Idem, op. cit. note 16 vol. iii, pp. 2032-2035). 23 Franz v. Lipperheide, Antike Helme, Munich, 1896, p. 261, nº 14. 24 Cf. supra note 3.

les casques en bronze à couronnes en or étrusques

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ment étrusque mais le casque, apulien, a été découvert en «Grande-Grèce» (lire Apulie) et est daté de la deuxième moitié du ive siècle, une époque où les rares importations étrusques avaient depuis longtemps cessé dans la région.25 Afin de comprendre le rapport entre les couronnes et les casques auxquels elles ont été appliquées, l’unique méthode consiste à remonter autant que possible aux sources concernant les provenances respectives des casques et des couronnes. On sait que le casque du British Museum a été acheté lors de la grande vente, anonyme mais en réalité quasi exclusivement Canino, qui eut lieu à Paris au printemps 183726 et dont le catalogue est dû au baron de Witte. Elle concurrençait, d’une certaine manière, la mémorable exposition de la collection étrusque des Campanari, ouverte à Londres en janvier de la même année et dont on attendait la mise en vente à brève échéance (celle-ci n’adviendra finalement qu’en juin 1838).27 Jusqu’à aujourd’hui cependant, on n’avait pas relevé que deux casques, chacun associé à une couronne en or, figuraient en réalité au catalogue de la vente parisienne: celui qui fut acheté par le British Museum, le principal acquéreur, succède, sous le nº 268 («casque rond, de forme aplatie, avec une couronne de lierres [sic] en feuilles d’or […]» (Fig. 1), au nº 267 qui correspond certainement au casque du musée de Budapest («casque en forme de piléus, surmonté d’un bouton. Une couronne de myrte en feuilles légères d’or entourait ce casque quand on l’a trouvé») (Fig. 2).28 Nous ignorons si ce dernier fut alors vendu et le cas échéant, qui en devint propriétaire: nous savons seulement qu’en 1852, il était en possession d’un dignitaire autrichien, son Exc. le comte Johann Keglevich, qui me reste inconnu par ailleurs. Celui-ci résidait probablement en Italie (en Lombardie-Vénétie?) car c’est à Chiusi que le casque et la couronne ont été acquis par le musée national de Budapest en 1884, vraisemblablement peu de temps après la mort du comte.29 Le catalogue de la vente de Paris indique que le casque avait été séparé de la couronne «à cause de sa fragilité», ce qui incite à imputer à Keglevich, ou à un éventuel propriétaire précédent, la position erronée, documentée par une illustration publiée dès 1853.30

25 Ettore M. De Juliis, «Importazioni e influenze etrusche in Puglia», Magna Grecia, Etruschi, Fenici (atti del xxxiii convegno di studi sulla Magna Grecia, Tarente 1993), Naples 1996, pp. 529-560. Dans les Cataloghi Campana, le casque, rapidement dit de provenance «étrusque» dans le catalogue proprement dit (classe ii, p. 3, nº 3), est plus précisément indiqué dans les paragraphes introductifs aux classes de matériel, comme provenant «des fouilles de Grande Grèce» (classe ii, p. vi) et comme retrouvé «dans un tombeau de Grande Grèce» (classe iii, p. 4). 26 Jean de Witte, Description d’une collection de vases peints et bronzes antiques provenant des fouilles de l’Étrurie, Paris, 1837. L’«avertissement» initial, avec annonce de la vente, porte la date du 17 mars et donne comme provenance (p. v) les fouilles de Vulci, Canino, Corneto et des zones voisines (où pour Vulci on entend le domaine de Camposcala et par Canino, celui du prince Lucien Bonaparte). Il était notoire que l’initiative de la vente revenait au prince de Canino, et que la grande majorité des objets lui appartenait (cf. Nicolas Plaoutine, «Note sur le nom du peintre Onésimos», RA 1937, 2, p. 31, note 1). 27 À ce sujet, je renvoie à mon article «Ancora sulla mostra dei Campanari a Londra», Ricerche archeologiche in Etruria meridionale nel xix secolo (atti dell’incontro di studio, Tarquinia 1996, a cura di A. Mandolesi e A. Naso), Florence, All’insegna del Giglio, 1999, pp. 37-62. 28 J. de Witte, op. cit. note 26, p. 126. 29 Comme le précise Ulrich Schaaff, «Keltische Eisenhelme aus vorrömischer Zeit», Jahrbuch des Römisch-Germanisches Zentralmuseums Mainz, vol. 21, 1974, p. 184, note 15, tandis que János Gy. Szilágyi, Acta antiqua Acad. Scient. Hungaricae, vol. v, 1957, p. 76, note 82, avait parlé de manière générique, à propos de la couronne, d’un achat fait en Italie. L’intérêt du Musée hongrois avait certainement été éveillé par le caractère présumé celte du casque. Dans ces années-là, W. Helbig jouait un rôle d’intermédiaire pour les musées allemands (Giulio Paolucci, Documenti e memorie sulle antichità e il museo di Chiusi, Pise-Rome 2005, p. 116 sqq.), comme le fera un peu plus tard L. Pollak. 30 Joseph Arneth, «Bericht über die Funde von Ruvo», Sitzungsberichte der Philosophisch-Historischer Class der Kaiserl. Akademie der Wissenschaften, vol. ix, 1853, p. 867, note 2, pl. xiii (la séance de référence est datée du 7 décembre 1852).

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Bien que Melchiade Fossati, de Tarquinia, ait participé comme vendeur aux enchères de 1837, il est certain que les casques provenaient de la collection du prince de Canino, Lucien Bonaparte. Le 12 décembre 1832, annonçant l’inauguration de son Musée Étrusque aménagé dans le buen retiro de Musignano, Lucien donne une rapide description de l’un d’eux, «trouvé avec une guirlande de feuilles d’or».31 Il s’agit peut-être, sans certitude, de celui du British Museum, dont la couronne est plus voyante et mieux conservée que celle du casque de Budapest. Mais avant cela, une lettre de sa femme, Alexandrine de Bleschamps, datée du 1er mars 1832, mentionne les deux casques. Citée par Françoise Gaultier dans le catalogue de la belle exposition du Louvre donnant lieu au présent colloque, cette lettre avait été envoyée au roi Louis de Bavière, et pourrait être qualifiée de «publicitaire». Les casques se trouvent alors à Florence, auprès d’Alexandrine qui les évoque dans l’ordre où ils apparaîtront cinq ans plus tard dans le catalogue de vente («Parmi les bronzes, il y a deux casques ornés de leurs diadèmes en feuilles d’olivier et de lierre» – les feuilles du casque de Budapest sont désignées, à tort, comme d’olivier, tandis que les feuilles de lierre du casque de Londres sont correctement identifiées).32 Selon toute évidence, les tractations avec le roi de Bavière ayant échoué, les deux casques et leurs couronnes aboutirent ensuite dans le musée privé que l’enthousiaste Lucien, se vantant d’avoir «fait venir de Rome toutes les antiquités [qu’il y avait] rassemblées», avait entre-temps aménagé à Musignano. La présence des deux couronnes dans la collection de Lucien est confirmée par un «rapport» du Cardinal Camerlingue Galleffi, qui accompagnait, en janvier 1835, le don fait au pape Grégoire XVI, d’une couronne découverte à Vulci peu de temps auparavant, lors de fouilles que le Gouvernement avaient entamées en association avec Vincenzo Campanari. Il y est dit en effet, dans la langue emphatique de l’époque, «[qu’] aucun de ces précieux ornements [les couronnes] n’a autant de valeur que celui-ci, exceptés les deux retrouvés autrefois par Monsieur le Prince de Canino».33 Les couronnes en or du modeste mais prestigieux musée de Musignano – unique musée étrusque de l’époque dans les États pontificaux – avaient dû, évidemment, susciter beaucoup d’intérêt. D’après la lettre de la princesse de Canino, les deux casques et leurs couronnes faisaient partie des «superbes objets» que l’entreprenante noble dame avait récupérés depuis peu en Toscane où elle s’était expressément rendue, dans la famille et chez les complices de l’infidèle Masagni, l’administrateur défunt de la propriété de Lucien. On le savait déjà, Masagni et ses complices avaient illégalement commencé à fouiller les tombes de la nécropole de Vulci pour leur propre compte, pratiquement un an avant que le prince, la société Campanari-Fossati-Candelori, et les autres propriétaires qui en avaient fait la demande, n’obtinssent le permis de fouilles du Gouvernement en août 1828.34 Pour se 31 Lettera di S.E. il Principe di Canino contenente la descrizione del suo Museo di antichità etrusche, Milan, Vallardi, 1833, p. 8. Le casque était présenté dans la salle iv du musée, qui contenait 500 objets de bronze. On ne peut l’identifier avec le casque de l’Ermitage, comme le voudrait Francesco Buranelli, «Gli scavi a Vulci (18281854) di Luciano ed Alexandrine Bonaparte Principi di Canino», Luciano Bonaparte. Le sue collezioni d’arte, le sue residenze a Roma, nel Lazio, in Italia (1804-1840), Rome, Libreria dello Stato, 1995, p. 97, note 76, parce que celuici était entouré par trois couronnes. 32 Cat. d’exp. Trésors antiques…, op. cit. note 3, p. 48 sq. (qui partage l’identification erronée du casque proposée par F. Buranelli, op. cit. note 31). 33 Document repris in-extenso dans Francesco Buranelli, Gli scavi a Vulci della società Vincenzo Campanari-Governo Pontificio (1835-1837), Rome, «L’Erma» di Bretschneider, 1991, p. 276 sq., nº 8. Sur la découverte: ibid., pp. 20 et 337, nº 19. La couronne en question correspond à A. Coen, op. cit. note 1, p. 249, nº 16, fig. 15. 34 F. Buranelli, op. cit. note 31, p. 7 sq.; Idem, op. cit. note 33, p. 81. Les fouilles clandestines, entreprises dans les derniers mois de l’année 1827, continuèrent entre avril et juin 1828 (Désiré Raoul-Rochette, «Notice sur la collection Dorow» Journal des Savants, mars 1829, pp. 1-20).

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soustraire à la sentence le contraignant à verser des indemnités, Masagni, condamné sur dénonciation de Vincenzo Campanari, s’était clandestinement expatrié (le château de l’Abbadia se trouvait aux confins du grand-duché de Toscane), emportant avec lui ce qui restait de ses vols après les ventes déjà réalisées.35 Nous ne savons pas où avaient été pratiquées les fouilles abusives, mais l’amende de 800 écus qui devait être versée à Campanari36 laisse penser qu’elles avaient aussi eu lieu, et peut-être même en majeure partie, sur les terrains de Camposcala, sur la rive droite du Fiora, immense propriété des frères Candelori dont l’exploration archéologique avait été concédée par le Gouvernement à la société dirigée par Campanari. Les tombes à casques étant pour le moins rares à Vulci, comme l’ont démontré les recherches menées sur près de deux siècles dans des milliers de tombes, la découverte de deux d’entre eux, durant les quelques mois de fouilles clandestines, incite à penser que le Poggio dei Guerrieri avait déjà été visité. Celui-ci deviendra célèbre grâce au chantier dirigé par le fils cadet de Vincenzo, Domenico, à l’automne 1832.37 Situé, selon le fouilleur, «non loin de l’antique Vulcia»,38 «précisément là où le grand aqueduc est le plus proche des murs de la cité», je le localiserais sur la petite hauteur plus ou moins circulaire naissant, sur le relevé d’échelle 1:2000 de 1959,39 à moins de 400 mètres de la porte ouest, et située entre l’aqueduc romain et le canal hydroélectrique qui la traverse dans une galerie souterraine: de toute la zone des nécropoles adjacentes à la cité, c’est l’unique relief qui atteigne et dépasse, même de peu, la cote des 80 mètres au-dessus du niveau de la mer (Fig. 5).40 Décrit avec une évidente exagération comme «un mont isolé, grand et rond», il abritait, sur le versant situé du côté de la cité, six «rangées» de petites tombes à chambre toutes semblables, contenant pour seul mobilier les «armes de toutes sortes» qui avaient appartenu au guerrier enseveli dans chacune d’elle. Au milieu de ces rangées, se trouvait une tombe plus grande, à deux chambres. Dans la première gisait un guerrier portant au doigt un gros anneau d’or et, sur la tête, un splendide casque de parade de type corinthien représentant la lutte pour la biche de Cérynie; daté vers 480 av. J.-C., il est aujourd’hui conservé à la Bibliothèque nationale de France41 où il est parvenu par l’intermédiaire du duc de Luynes. L’épouse du guerrier, richement parée de bijoux, avait été ensevelie dans la chambre voisine où ont été découverts les seuls vases à figures rouges de tout le complexe funéraire. Le précieux rapport du jeune Campanari précise que «différents casques montraient encore la trace des coups reçus, 35 Attaché à l’ambassade de Prusse, Dorow fut le principal acquéreur. Sa collection parvint peu de temps après aux musées de Berlin. 36 F. Buranelli, «Gli scavi a Vulci (1828-1854)…», op. cit. note 31, p. 81. 37 Et non en 1835, comme on le répète couramment, ni en 1833 (ainsi Armando Cherici, «Appunti su un corredo vulcente», Studi Etruschi, vol. lix, 1994, p. 39, note 1). Campanari parle, dans son rapport publié le 15 décembre 1835 (cf. infra note 38), d’une découverte advenue «il y a déjà trois ans». Sur l’ensemble (considéré à tort par la majorité comme un tumulus, à commencer par George Dennis, The Cities and Cemeteries of Etruria, Londres, 1848, p. 438 [cité d’après la ré-édition Londres-New York, 1907]), et dernièrement par A. Coen, op. cit. note 1, p. 125 sq.; A. Cherici, «Dinamiche sociali a Vulci: le tombe con armi», Dinamiche di sviluppo delle città dell’Etruria meridionale, Atti del xxiii convegno di studi etruschi e italici, 1-6 octobre 2001, Pise-Rome, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, p. 536 sq., 540 sq. 38 Domenico Campanari, «Sopra alcuni rari sepolcri volcenti», Bull. Inst., 1835, pp. 203-205. 39 Publié par Renato Bartoccini, Vulci. Storia-Scavi-Rinvenimenti, Rome, Istituto Grafico Tiberino, 1960, pl. xviii, et mis à jour pour les données archéologiques par Bruno Massabò, Vulci e il suo territorio in età etrusca e romana, Florence, Istituto Geografico Militare, 1979, fig. 2b. Sur les relevés suivants, le relief semble avoir disparu. 40 La zone se situe à la limite nord de la plaine de Pozzatella, qui se présentait à l’époque comme un quartier des faubourgs où «les zones funéraires alternaient avec des quartiers d’habitation» (Anna M. Sgubini Moretti, «Risultati e prospettive delle ricerche in atto a Vulci», Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale, op. cit. note 37, p. 463 sq. 41 A. Cherici, «Appunti su un corredo vulcente», op. cit. note 37, p. 40 sq., note 10 sq.

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Fig. 5. Détail du plan topographique de Vulci à l’échelle 1:2000 avec proposition de localisation du Poggio dei Guerrieri (lettre A). (Établi d’après Bartoccini 1960).

les entailles laissées par les épées ou les lances», et que «presque tous ces guerriers… étaient accompagnés de couronnes en or posées sur le crâne ou à côté d’eux», lesquelles sont décrites sommairement. En outre, «dans chacune des tombes il y avait un anneau en or» de forme variée et dans deux d’entre elles, «assez proches du guerrier», se trouvaient «les os d’un chien et d’un cheval».42 La découverte très singulière, et tout compte fait encore mal évaluée, évoquant ce qui, du vivant des guerriers, devait être une faction de sodales, peut-être analogue à celle de la fin du vie siècle, aujourd’hui attestée à Cerveteri par les témoignages épigraphiques de la tombe des Inscriptions gravées,43 fit alors beaucoup de bruit, notamment en raison de l’abondance des pièces d’orfèvrerie. Mentionnons seulement, dans le «rapport» au pape cité plus haut,44 que pour justifier la reprise des fouilles en commun avec la société constituée par Vincenzo Campanari à la fin de l’année 1834, le cardinal Galleffi rappelle non seulement l’abondance désormais connue des vases peints de la nécropole de Vulci, mais aussi «les ornements en or qui restent encore sur les os des défunts». Il précisait en conclusion que «de tels ornements entouraient les têtes [et non les casques] des Guerriers, morts peut-être dans quelque honorable entreprise». Des faits exposés ci-dessus, le plus important demeure le témoignage du fouilleur quant à l’emplacement des couronnes à l’intérieur des tombes, non sur les casques mais 42 Allusion probable à la chasse à cheval (cf. le célèbre fronton de la tombe peinte de la Chasse et de la Pêche), pratiquée par le guerrier dans son agoghé juvénile, à rapprocher des chasses princières en char, thème également évoqué dans des tombes de Vulci ou de ses environs, par l’inhumation de chiens (Giovanni Colonna, cat. d’exp. Carri da guerra e principi etruschi, sous la direction de A. Emiliozzi, Viterbe, 1997, p. 17). 43 G. Colonna dans Giornata di studio in ricordo di Mario Moretti, Civita Castellana, 14-15 novembre 2003, actes sous la direction de M. Pandolfini, L’Erma di Bretschneider, Rome, 2007 et dans «Rivista di epigrafia etrusca», Studi Etruschi, vol. lxxi, 2005, pp. 168-188. 44 Cf. supra note 33.

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directement sur les crânes, ou éventuellement à côté d’eux. Ceci est confirmé par la découverte, à Camposcala, en décembre 1835, d’une tombe où la couronne, ainsi qu’il est dit sans équivoque, était placée sur le crâne,45 comme on a pu aussi l’observer pour des tombes féminines du ive siècle trouvées à Ortebello et Chiusi,46 ou encore, pour les tombes de guerriers du cimetière bolonais Benacci-Caprara. Celles-ci contenaient non seulement une couronne mais aussi un casque qui avait été déposé à côté des jambes, comme dans les tombes de Ruvo.47 La confirmation de ce que nous venons d’observer, s’il en était encore besoin, est fournie de manière indirecte par le mobilier des tombes reconstituées en 1837 par les Campanari dans la fascinante exposition de Londres à but didactique, évocatrice d’un goût ouvertement romantique et dans l’esprit du roman gothique (Fig. 6).48 À l’intérieur des caisses entrouvertes ou sans couvercle de trois sarcophages de pierre, on pouvait observer, dans des salles mal éclairées, les squelettes des défunts, identifiés, grâce aux statues des couvercles ou par les reliefs des cuves mais plus explicitement encore grâce au mobilier qui les accompagnaient, comme ceux d’une jeune femme, d’un prêtre et d’un guerrier.49 Les crânes des deux premiers étaient ceints de couronnes en or dont le British Museum50 se rendra par la suite acquéreur, tandis que le crâne du troisième était couvert par un casque de type Negau51 qui rappelait le casque étrusque mis au jour à Olympie en 1817 et alors conservé au British Museum. Outre ce casque, le sarcophage contenait aussi une panoplie d’hoplite entière dont seul le grand bouclier est aujourd’hui identifiable parmi le matériel acquis par le musée londonien après la fermeture de l’exposition. Un autre exemplum fictum de mobilier de guerrier fut reconstitué par les Campanari en 1839 dans la cuve d’un sarcophage disposée au centre de la pseudoreproduction en maçonnerie de la tombe des Vipinana, érigée dans le jardin de leur maison de Toscanella.52 Sans couvercle, comme la tombe du guerrier de l’exposition, la cuve était ornée de reliefs alors interprétés comme des représentations de sacrifices humains. Nous savons de Mrs Hamilton Gray, qu’à l’intérieur, se trouvaient des armes – 45 F. Buranelli, op. cit., note 31, p. 370 sq.; Emil Braun, Bull. Inst., 1836, p. 170 sq. (repris dans F. Buranelli, op. cit. note 31, pp. 296-298, doc. 35); Dennis, op. cit. note 37, p. 464, note 2; A. Coen, op. cit. note 1, p. 262, nº 57 (= p. 280, nº NI 26). Le savant allemand confond la couronne avec celle donnée au pape un an auparavant et attribue de lui-même le crâne à un «brave guerrier», l’anglais l’interprête mal et associe la couronne à un casque inexistant (suivi avec des doutes par A. Coen, «Elmi di bronzo e corone d’oro…», op. cit. note 1, p. 91). La tombe était certainement féminine, puisqu’aux pieds du cadavre se trouvait une plaquette en ivoire constitutive d’un coffret (F. Buranelli, op. cit. note 31, pp. 61 et 371, nº 72; E. Braun, Bull. Inst., 1836, p. 169), qui a échappé au corpus de Marina Martelli («Gli avori tardo-arcaici: botteghe e area di diffusione», Il commercio etrusco-arcaico, Atti dell’incontro di studio, Rome, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1985, pp. 207-248). 46 A. Coen, op. cit. note 1, p. 104 sq., p. 257 sq., NI 8 et 15. 47 Ibid., pp. 107-109, 269 sq., FA 4. Pour Ruvo: J. Arneth, op. cit. note 30, p. 867, note 27. Les nombreux casques des tombes romagnoles n’étaient pas non plus associés à des couronnes. Cf. cat. d’exp. La Romagna tra vi e iv secolo a.C., Bologne, sous la direction de P. von Eles Masi, Imola, University Press Bologna, 1982. Du reste, la couronne en or aujourd’hui perdue qui provenait de la Tombe Avvolta de Tarquinia, dont la découverte en 1823 marque le début de l’archéologie romantique en Étrurie méridionale, ne ceignait pas le casque du guerrier, aux dires du fouilleur, mais avait été déposée sur un banc voisin (Elizabeth C. Hamilton Gray, Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839, 3e éd., Londres, J. Hatchard and Son, 1843, pp. 219, 234, 530 sq.; G. Dennis, op. cit. note 37, i, pp. 382, 395). 48 G. Colonna, op. cit. note 27. 49 Ibid., fig. 2-3, pl. ii, 1-2. 50 Femme: G. Colonna, op. cit. note 27, p. 48, note 51; A. Coen, op. cit. note 1, p. 263, nº 62 (= NI 23). Prêtre: G. Colonna, op. cit. note 27, p. 49, note 70; A. Coen, op. cit. note 1, p. 261, nº 53, fig. 52 (= NI 22). Les doutes et les incertitudes de A. Coen, op. cit. note 1, pp. 126-128, n’ont pas de raison d’être. 51 G. Colonna, op. cit. note 27, p. 53, pl. ii, 2. 52 Giovanni Colonna, «Archeologia dell’età romantica in Etruria. I Campanari di Toscanella e la tomba dei Vipinana», Studi Etruschi, vol. xlvi, 1978, p. 93 (= Idem, op. cit. note 16, vol. iv, Pise-Rome, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2005, p. 2406).

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Fig. 6 La salle 2 de l’exposition étrusque des Campanari à Londres, Pall Mall, 1837. (D’après D. Raoul-Rochette, Troisième mémoire sur les antiquités chrétiennes des Catacombes, Paris, 1838).

un casque, vraisemblablement sur le crâne, les cnémides, deux lances –, des dés et nombre d’autres petits objets, mais qu’il y manquait la couronne en or.53 Carlo Campanari en avait cependant montré une plutôt belle à son hôte.54 Il est temps de conclure. Les deux casques couronnés, en possession de la princesse de Canino au début de 1832, entrés au musée de Musignano en été ou à l’automne de la même année et mis en vente à Paris au printemps 1837, étaient, selon toute probabilité, des pastiches. Ils sont imputables soit au malhonnête «ministre» du prince, qui avait découvert, lors des fouilles clandestines de 1827-1828, deux tombes de guerriers où casques et couronnes devaient être séparés les uns des autres selon l’usage courant, soit à la princesse elle-même, désireuse d’accroître la valeur des «superbes objets» qu’elle entendait alors vendre (de l’étranger vers l’étranger, profitant du fait qu’elle se trouvait au Grand-duché où elle les avait par chance récupérés). L’initiative suggère la connaissance plus ou moins directe du portrait de Pyrrhus du Museo Borbonico ou celle des représentations monétaires hellénistiques citées plus haut. Mais elle relève surtout d’un goût pour les ornements et les décorations militaires, pareils à ceux des uniformes de gala à connotation très napoléonienne relevant du style Empire encore en vigueur, autant que de l’idéologie triomphaliste du commandant victorieux tombé sur le champ de bataille. Y adhérait, à la limite du grotesque, le banquier Campana, qui, dans son musée romain, avait appliqué à un casque acquis de Lucien en 1839,55 jusqu’à trois fines couronnes (re53 E. Hamilton Gray, op. cit. note 47, p. 318. Une mention aussi dans G. Dennis, op. cit. note 37, i, p. 465. 54 E. Hamilton Gray, op. cit. note 47, p. 315. 55 Document du 29 février 1840 repris par F. Buranelli, op. cit. note 31, p. 97, note 76, et dans cat. d’exp., Trésors antiques…, op. cit. note 3, p. 173, note 63, dans lequel une paragnatide isolée est indiquée comme appartenant au casque alors en possession de Campana (ce qui semble indiquer des fouilles récentes). La seule hypothèse que nous puissions faire quant à sa provenance, est que le casque appartienne à la tombe, découverte peu de temps auparavant, d’un guerrier «sur le cadavre duquel restent encore les armes de bronze», comme le dit un document du 3 avril 1839 relatif à la demande de renseignements à soumettre au prince (F. Buranelli, op. cit. note 31, p. 100). La face postérieure d’una cuirasse anatomique, vendue par le prince au Musée Grégorien à la même date 1840, pourrait provenir de la même tombe (ibid., p. 101, note 114, fig. p. 103).

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connues fausses) posées l’une sur l’autre, comme s’il s’agissait des grades cousus sur l’uniforme d’un officier, et peut-être aussi dans l’intention assez prosaïque de masquer les dommages inesthétiques de la calotte (Fig. 3). Plus tard, le même Campana n’hésitera pas à appliquer une lourde couronne étrusque à la base du casque apulien de son musée (aujourd’hui au Louvre), pourtant bien conservé mais dont la forme pouvait paraître disgracieuse et dépouillée aux yeux des habitués des décors néoclassiques (Fig. 4). La découverte des casques couronnés de la nécropole de Ruvo, signalée dans les actes de l’Académie de Vienne de 1853,56 a peut-être encouragé ces assemblages. Mais je crois qu’il est raisonnable de ne pas exclure l’influence inverse; même à Ruvo, casques et couronnes avaient pu aussi bien être trouvés séparément.57 Et leur association, affirmée mais de fait non documentée, excepté pour le cas assez douteux du casque de la collection Basta,58 reflétait finalement ce qui avait été montré au public dans le Musée Étrusque de Musignano et l’était encore dans le musée Campana, lequel, hors de Rome et au niveau européen, jouissait d’une notoriété qu’il est inutile de souligner. Commentant la collection de couronnes du musée Grégorien, George Dennis en exalte la délicate et réaliste imitation du feuillage végétal – ce qui lui fait penser à l’utilisation de procédés électrolytiques – puis conclut: «Aucun ornement n’était sans doute plus flatteur que ces guirlandes, encore qu’elles aient été davantage destinées, à vrai dire, à orner le casque bosselé du guerrier victorieux qu’à parer le front des belles dames».59 Le «casque bosselé» mais orné de couronnes auquel pense Dennis est sûrement celui du musée Campana, qu’il décrit quelques pages plus loin (Fig. 3),60 et qui, avec ses trois couronnes, devait représenter, pour cet heureux sujet de l’Empire britannique alors à son apogée, le symbole du guerrier victorieux tombé «au moment même de la victoire», selon les termes qu’il avait utilisés au sujet du Poggio dei Guerrieri de Vulci,61 inventant ainsi un rapport inexistant entre casques et couronnes. Mais au musée Campana, il n’y avait pas seulement le casque à triple couronne. Le Cavaliere était un homme de son temps et de son pays, l’Italie, alors parcourue des premiers frissons du Risorgimento. En tant que tel, il n’était pas resté insensible aux mises en scène des Campanari et à leurs représentations nationales-populaires du guerrier comme d’un quelconque soldat mort pour la patrie, la tête encore ceinte de son casque, même défoncé du coup létal. À l’intérieur de la tombe peinte portant le nom du banquier, «découverte» à Véiès en 1843, et dans laquelle il avait rassemblé un faux mobilier, le guerrier qui gisait sur la banquette de droite, la tête bien visible parce que tournée vers l’entrée, avait autour du crâne un casque défoncé,62 à l’instar, d’après le témoignage de Domenico Campanari,63 de nombre de ceux du Poggio dei Guerrieri et tels qu’ils furent avidement recherchés, particulièrement au xixe siècle, par les collectionneurs (Fig. 7).64 Mais dans son musée, le thème patriotique du soldat tombé au combat avait 56 J. Arneth, op. cit. note 30. 57 C’est ce que poussent à croire les rapports faits avec soin de H. W. Schulz, Bull. Inst., 1836, pp. 69-76, et d’Emil Braun, ibid., pp. 162-166, où l’on parle des casques sans évoquer de couronnes. 58 Cf. supra note 11. 59 G. Dennis, op. cit. note 37, ii, p. 456 sq. 60 Ibid., ii, p. 464. 61 Ibid., ii, p. 438. 62 Ibid., i, p. 125 sq. Cf. Filippo Delpino, Cronache veientane, i, Rome, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1985, pp. 116-127, fig. 68 et 72, et, pour le faux mobilier, pp. 135-143, avec bibl. 63 Cf. supra note 38. 64 Quelques exemples: A. Angelucci, Catalogo della Armeria Reale, Turin, 1890, p. 13, nº A’ 11; Francesco Buranelli, La raccolta Giacinto Guglielmi, Rome, Quasar, 1989, p. 56 sq., nº 64, avec fig. (ici Fig. 7, d’après une photo aimablement prêtée par Maurizio Sannibale); David Cahn, Antiken Museum und Sammlung Ludwig. Waffen und Zaumzeug, Bâles, Gissler Druck, 1989, p. 80 sq., nº W 38, fig. 39; Maurizio Sannibale, Le armi della collezione Gorga al Museo Nazionale Romano, Rome, «L’Erma» di Bretschneider, 1998, p. 109 sq., nº 126. L’origine ri-

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trouvé place à deux reprises: la première fois, au centre d’une pièce avec un lit métallique du type de celui de la tombe Regolini-Galassi, sur lequel étaient disposés le casque, la cuirasse, les cnémides et l’épée d’un guerrier mort;65 la seconde dans un loculus, reconstitué sur le modèle d’un des loculi de la tombe des Reliefs de Cerveteri telle que documentée par une aquarelle de la série peinte par l’égyptologue anglais G. Wilkinson, de passage à Rome peu après la découverte de la tombe advenue en hiver 1846-1847 (Fig. 8).66 Les deux ensembles furent reproduits plus ou moins fidèlement après leur transfert à Paris en 1862, dans l’éphémère Musée Napoléon, comme le montrent deux gravures parues dans les revues et journaux parisiens de l’époque (Fig. 9).67 Fig. 7. Casque en bronze provenant de Vulci. Rome, musées du Vatican, Domenico Campanari s’était déjà deMuseo Gregoriano Etrusco, inv. 39648. mandé si les guerriers ensevelis dans le Poggio dei Guerrieri qu’il avait fouillé s’étaient rendus méritants, selon ses propres mots, «pour quelque fier service rendu à leur patrie, de sorte que celle-ci pensa, contre la coutume générale, à isoler leurs sépultures des autres et à les déposer dans le lieu le plus éminent et honorifique, les rendant ainsi encore plus proche d’elle».68 Bien qu’on ignorât l’histoire de la cité et les raisons de cet aménagement, cette version fut ainsi admise. Nous ne sommes pas loin, à ce qu’il semble, de l’idée d’un tumulus du genre de celui de Marathon ou, si l’on veut, de Waterloo, lequel avait été, du reste, érigé peu de temps auparavant. Avec les sensationnelles reconstitutions de Campana, réalisées à la veille de 1848, nous nous trouvons face à l’anticipation, pourrait-on dire, des monuments aux Morts qui auront tôt fait de peupler les places d’Italie et d’Europe. Traduit de l’italien par Juliette Becq [De la fouille au pastiche: les casques en bronze à couronnes en or étrusques, in Les Bijoux de la collection Campana: de l’antique au pastiche (actes du colloque international, École du Louvre, 10 janvier 2006), a cura di F. Gaultier e C. Metzger, Paris, 2007, pp. 61-72]. tuelle et sans rapport avec quelque combat des coups reçus par les casques, est prouvée par l’énorme dépôt des exemplaires portant une inscription découverts à Vetulonia (voir désormais, Adriano Maggiani, Corpus Inscriptionum Etruscarum, vol. iii, 4, Roma, 2004, pp. 85-92, nos 12023-12064, pl. 29-35). 65 G. Dennis, op. cit. note 37, ii, p. 464. 66 Horst Blanck-Giuseppe Proietti, La tomba dei Rilievi di Cerveteri, Rome, De Luca, 1986, p. 11 sq., pl. iv b. 67 G. Colonna, Italia ante Romanum imperium, op. cit. note 52, vol. iv, p. 2484, pl. 1-ii. 68 Cf. supra note 38, p. 205.

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Fig. 8. Dépouille de guerrier dans un loculus de la tombe des Reliefs de Cerveteri reconstitué dans le musée Campana à Rome. Acquarelle de G. Wilkinson. (D’après Blanck-Proietti 1986).

Fig. 9. Dépouille de guerrier du musée Campana, exposée à Paris au musée Napoléon. (D’après L’Illustration. Journal Universel, 1862).

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arlare di Pallottino e Roma è come ripercorrere tutto l’arco della vita dello Studioso, poiché con l’arte, la civiltà e soprattutto la storia di Roma antica Egli ha intessuto un rapporto complesso e profondo, strettamente e inestricabilmente intrecciato con i pur dominanti interessi etruscologici. Quando noi allievi, volendo onorare il Maestro al compimento dei suoi 70 anni, organizzammo nel 1979, con l’appoggio dell’Università di Roma e del Rettore Ruberti, la presentazione di una scelta dei suoi scritti minori da noi curata1 e insieme un convegno scientifico a Lui dedicato, non trovammo un tema più appropriato che “Gli Etruschi e Roma”, con sua manifesta soddisfazione.2 Ricordo anche, con commozione, che gli ultimi lavori di Pallottino, al termine di una vita operosissima, sono stati il libro sulle “Origini e storia primitiva di Roma”, uscito nell’ottobre del 1993,3 e quello, rimasto incompiuto, su “La lingua e la letteratura degli Etruschi”, che stava scrivendo quando ci ha lasciato, la sera del 7 febbraio del 1995, come ben sa la cara Signora Maria, alla quale rivolgo un particolare saluto.4 Due grandi temi, gli Etruschi e la Roma antica, coltivati fino all’ultimo con pari amore e con pari, eccezionale fedeltà. Pallottino ha iniziato a occuparsi di archeologia e di monumenti romani appena divenuto Ispettore della R. Soprintendenza alle Antichità di Roma, ossia dal 1933, pubblicando nel Bullettino Archeologico Comunale i colombari di via Taranto5 e nelle Notizie degli Scavi del 1934, 1936 e 1937 relazioni su altri ritrovamenti e scavi, sia di Roma che del Lazio (Anguillara, Orte, Capena).6 È un’attività d’ufficio, che svolge con scrupolo, mentre pubblica gli ancor pregevoli “Elementi di lingua etrusca” e la monumentale monografia su Tarquinia:7 lavori grazie ai quali, conseguita meritatamente nel 1937 la libera docenza in Etruscologia e Archeologia Italica presso l’Università di Roma, ottiene l’incarico tanto nella Facoltà di Lettere quanto nella Scuola Nazionale di Archeologia, la disciplina essendo allora vacante per il comando di Alessandro Della Seta ad Atene. Il salto di qualità, nel rapporto con l’archeologia romana, interviene in quello stesso anno con la Mostra Augustea della Romanità, da cui ha tratto origine il Museo della Civiltà Romana dell’eur, voluta e organizzata in occasione del bimillenario augusteo (63 a.C. - 1937 d.C.) dal suo maestro, Giulio Q. Giglioli. Pallottino si impegna con giovanile ardore nell’impresa e cura la progettazione di nove sezioni della mostra, per complessive undici sale,8 1 Saggi di antichità, i-iii, Roma 1979. 2 Gli Etruschi e Roma, Incontro di studio in onore di Massimo Pallottino (Roma, 11-13 dicembre 1979), Roma 1981. 3 Origini e storia primitiva di Roma, Milano 1993. 4 Ne sono apparsi il sommario e il primo dei quattro capitoli, dedicato a “Sviluppo delle prospettive di studio e progresso delle conoscenze”, a cura di M. Cristofani, in StEtr 61, 1995 (1996), pp. 207-232. 5 In BCommArch 62, 1934, pp. 41-63. 6 Roma: NSc 1934, pp. 101-103; 1936, pp. 14-21. Anguillara Sabazia: NSc 1934, pp. 146-149. Orte: NSc 1934, pp. 144145. Capena: NSc 1937, pp. 7-28. Altri interventi in BA 30, 1936-1937, pp. 11-17 (torso virile del Museo delle Terme) e in Roma, xv, 1937, pp. 241-247 (decorazione del tempio di Venere Genitrice). 7 Elementi di lingua etrusca, Firenze, Il Rinascimento del Libro, 1936; “Tarquinia”, in MonAntLinc 26, 1937, coll. 1-615. 8 Mostra Augustea della Romanità, Catalogo della Mostra (Roma, 23 settembre 1937-23 settembre 1938), Roma 1937. Pallottino curò le sezioni sulla scuola e le organizzazioni giovanili, le scienze, la musica, le arti figurative, l’agricoltura e l’agrimensura, il vino e il pane, la caccia, la pesca e l’alimentazione, la vita economica e finanziaria, i giuochi, l’assistenza sociale (sale lxv, lxix-lxxv, lxxviii, lxxix, lxxxi, tutte al ii piano del Palazzo delle Esposizioni in Via Nazionale).

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ossia meno di quelle affidate ad Antonio M. Colini e a Carlo Pietrangeli, coinvolti in prima persona in quanto responsabili del servizio archeologico del Governatorato di Roma e “padroni di casa”, ma ben più di quelle affidate a qualsiasi altro dei molti collaboratori, mentre il condiscepolo Roberto Vighi cura il catalogo e Caterina (Catia) Caprino la redazione di gran parte delle schede.9 L’evento segna, possiamo dire, la personalità professionale di Pallottino, dandogli quel gusto di comunicare con un vasto pubblico, e non solo cogli addetti ai lavori, attraverso il mezzo espositivo, dispiegando in esso le sue non comuni capacità organizzative e il talento che gli è proprio per le grandi sintesi di storia e di archeologia: gusto che l’accompagnerà per tutta la vita, scandita, come raramente è accaduto per uno Studioso della sua levatura, da una serie di riuscitissime mostre. Nell’immediato l’evento acuì gli interessi scientifici di Pallottino verso le manifestazioni artistiche della civiltà romana, delle quali fu in larga misura il principale responsabile all’interno della mostra, accanto beninteso a Giglioli. Si deve a Lui la ricomposizione, mediante calchi appositamente eseguiti, dello smembrato, colossale fregio traianeo con le vittorie finali e il trionfo dell’imperatore, «centro di attrazione di tutta la mostra» per chi era «appassionato d’arte», come scrisse un critico non certo benevolo nei suoi confronti, R. Bianchi Bandinelli,10 mostrando di apprezzare anche il rigore filologico con cui Pallottino aveva illustrato il monumento nel 1938.11 E a Pallottino spetterà di scrivere, nella collana dei Quaderni della Mostra, quello più ponderoso e impegnativo, dedicato all’arte romana, apparso nel 1940.12 Sono gli anni che vedono Pallottino impegnato, in qualità di Ispettore della Soprintendenza, ma di fatto ormai anche come docente di Etruscologia, negli scavi di Cerveteri e di Veio, dove ai Campetti e soprattutto al Portonaccio compie scoperte memorabili, sulle orme di Giglioli,13 arricchendo il Museo Etrusco di Villa Giulia di nuove opere d’arte, illustrate già nel vi congresso internazionale di archeologia classica, tenuto a Berlino alla vigilia della guerra.14 Il che avviene mentre attende alla stesura del suo primo manuale di etruscologia, Gli Etruschi (titolo echeggiante, forse inconsapevolmente, quello di un libro allora assai letto, Gli antichi Italici di Giacomo Devoto), edito nello stesso 1939 e ristampato l’anno dopo, segno indubbio di successo.15 Nel contempo il trentenne Pallottino non trascura la sua Roma ma si occupa di un altro monumento tornato allora prepotentemente alla ribalta e ancora pressoché inedito, l’Ara Pacis,16 affronta la questione della svolta artistica aureliana nel primo numero della nuova rivista Le Arti,17 tratta degli archi trionfali nel v congresso di Studi Romani18 e infine, vincitore per concorso della cattedra di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana presso l’Università di Ca9 Mostra Augustea della Romanità, p. xvii sg. (G.Q. Giglioli). 10 “Il Maestro delle imprese di Traiano”, in Le Arti 2, 1939, ripreso in Storicità dell’arte classica2, Firenze 1950, pp. 211-228 (la citazione da p. 223). Bianchi Bandinelli ne aveva fatto l’argomento della prolusione al suo insegnamento nell’Università di Firenze nel gennaio 1939. 11 “Il grande fregio di Traiano”, in BullComm 66, 1938, pp. 17-56. 12 Arte figurativa e ornamentale (Quaderni della Civiltà Romana, 18), Roma 1940. 13 Il santuario di Portonaccio a Veio, G. Colonna (a cura di), i. Gli scavi di Massimo Pallottino nella zona dell’altare (1939-1940), in MonAntLinc, ser. misc. 6, 3, Roma 2002, G. Colonna, Massimo Pallottino e il santuario di Veio, in Rend Line, ser. 9, 14, 2003, pp. 703-710. 14 “Scavi nei santuari di Veio (Etruria)”, in vi . Internationaler Kongress für Archäologie, Berlin 1939, pp. 443-444. 15 Gli Etruschi, Roma 1939 (primo titolo della collana, non proseguita, I popoli del mondo romano. A cura della Mostra della Romanità). 16 L’Ara Pacis e i suoi problemi artistici, in BA 32, 1938, pp. 162-172. 17 Studi sull’arte romana: l’orientamento stilistico della scultura Aureliana, in Le Arti 1, 1938-1939, pp. 32-35. 18 “II trionfo romano, il Campidoglio, gli archi nella storia della civiltà”, in Atti del v congresso nazionale di Studi Romani, Roma 1940, pp. 375-382.

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gliari, dedica alla “Originalità e universalità dei valori dell’arte romana” la sua prolusione, tenuta nel gennaio del 1941.19 In Sardegna, dove si tratterrà per non più di due anni, lasciando tuttavia un duraturo ricordo, testimoniato recentemente con calde parole da Giovanni Lilliu,20 insegna anche Paletnologia e, nella sopraggiunta veste di Soprintendente alle Antichità, avvia gli scavi della città romana di Turris Libisonis (Porto Torres). Strascichi del suo innamoramento per l’arte romana, condiviso non solo con Giglioli ma con moltissimi altri studiosi, nel clima di infatuazione nazionalistica che pervadeva tanta parte della cultura italiana alla vigilia e agli inizi della tragedia della guerra, possono essere considerati la monografia sull’Arco severiano degli Argentari del 1946, rimasta insostituita,21 e il saggio sull’arte della Colonna Aureliana, apparso nel 1955 nella monografia sulla Colonna curata dal Comune di Roma.22 Ma ormai gli interessi scientifici di Pallottino erano mutati. La vocazione etruscologica, che nel 1942 era stata coronata dalla pubblicazione della prima edizione della classica “Etruscologia”,23 tante volte in seguito non solo tradotta in altre lingue, ma aggiornata, rielaborata e limata dal perfezionismo del suo autore, era tornata imperiosamente alla ribalta col richiamo del Nostro a Roma da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale per curare, in sostituzione dell’anziano Giulio Buonamici, il proseguimento del CIE, affidato nel 1940 dall’Accademia delle Scienze di Berlino all’Istituto Nazionale di Studi Etruschi.24 Incarico cui tenne dietro, a guerra cessata, il trasferimento sulla cattedra di Etruscologia e Archeologia Italica dell’Università di Roma, resa vacante a tutti gli effetti dalla scomparsa nel 1944 di Alessandro Della Seta, che ne era titolare dal tempo della sua istituzione nel 1925.25 Pallottino pubblica nel 1945 la “Scuola di Vulca”,26 nel 1947 l’“Origine degli Etruschi”,27 nel 1952 la “Peinture étrusque”, prima opera sull’argomento interamente illustrata con foto a colori,28 nel 1954 la prima edizione dei TLE,29 per poi dedicarsi nel 1955-1956 alla memorabile “Mostra dell’arte e della civiltà etrusca”.30 Un crescendo di traguardi, cui nel 1957 si aggiunge l’inizio dello scavo del santuario etrusco di Pyrgi, di cui parlerò domani. Nella produzione di Pallottino non c’è più posto per l’arte romana, che ha ormai altri e più qualificati cultori, a cominciare da Bianchi Bandinelli, divenuto suo collega nell’Ateneo romano, e da Giovanni Becatti. E allora avviene un fatto straordinario. Pallottino è rimasto colpito dalle scoperte che, specie a partire dal 1948, stavano rivoluzionando la conoscenza della Roma primitiva. Del resto lui stesso nel 1939 si era imbattuto a Veio nell’iscrizione di un Avile Vipiennas, risalente all’età di Servio Tullio come l’Aulo Vibenna della tradizione,31 e nel 1941 aveva pubblicato la prima iscrizione etrusca proveniente da Roma.32 Ed era andato 19 Pubblicata a cura di quella Università nel 1943 (= Saggi di antichità, cit., iii, pp. 1195-1208). 20 Nella prefazione alla ristampa da Lui curata de La Sardegna nuragica di Massimo Pallottino, Nuoro 2000, pp. 7-14. 21 L’Arco degli Argentari, Roma 1946. 22 “L’arte della Colonna”, in La colonna di Marco Aurelio, Roma 1955, pp. 45-60 (= Saggi di antichità, cit., iii, pp. 1209-1227). 23 Etruscologia, Milano 1942. 24 B. Nogara, (Gli Etruschi negli ultimi cento anni, in Bollettino della R. Università italiana per stranieri, 5, 1939, pp. 3-31 (spec. p. 19); A. Minto, in StEtr 14, 1940, pp. 451-453; Id., ibid., 17, 1943, p. 556 sg. Cfr. Ch. Wikander Ö. Wikander, Etruscan inscriptions from the collection of Olof August Danielsson. Addenda to CIE ii . 1, 4 (Medelhavsmuseet, Memoir 10), Stockholm 2003, pp. 25-27. 25 Lo studioso fu commemorato da P. nell’Annuario dell’Università di Roma, anno accademico 1944-1945, pp. 5-8 dell’estratto. 26 La scuola di Vulca, Roma, 1945 (= Saggi di antichità, cit., iii, pp. 1003-1024). 27 L’origine degli Etruschi, Roma 1947. 28 La peinture étrusque, Genève 1952. 29 Testimonia linguae Etruscae, Firenze 1954. 30 Catalogo a cura di M. Pallottino, Milano 1955 (ristampa 1956), tradotto in più lingue. 31 Edita in StEtr 13, 1939, pp. 455-457 (cfr. supra, nota 13, p. 138, nota 38). 32 “La iscrizione arcaica su vaso di bucchero rinvenuto ai piedi del Campidoglio”, in BullComm 69, 1941, pp. 101-107.

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concependo negli stessi anni un crescente interesse per la protostoria italiana e per le fasi formative dell’ethnos etrusco, come ci ha ricordato Delpino. Pallottino riversa allora il suo amore per Roma nello studio della più antica storia della città, ancora così irto di interrogativi e di problemi aperti. Nel Natale di Roma del 1957 pronuncia in Campidoglio un appassionato e appassionante discorso su “La prima Roma”, che è una vera dichiarazione programmatica.33 Il grande tema sul tappeto è la Roma delle origini, la Roma dell’età regia e della prima Repubblica, la “early Rome” di cui E. Gjerstad aveva iniziato a pubblicare sistematicamente le testimonianze. Pallottino parla di «un nuovo ciclo della storia della città di Roma, per l’innanzi sconosciuto come tale»,34 che crede possibile ricostruire con l’aiuto dell’archeologia. Chiude il discorso affermando che «Roma nacque negli stessi anni in cui nacquero le città greche d’Italia e le città etrusche, ed un unico ciclo di esperienze di vita storica le accomunò tutte per la durata di almeno tre secoli». A questo programma Pallottino è rimasto fedele nei quasi quaranta anni di vita che ancora aveva dinanzi a sé, fino ad arrivare al libro che ho citato in apertura, apparso poco prima della sua scomparsa. Il primo tempo della sua attuazione è stato occupato dalla polemica con la ricostruzione della storia di Roma sostenuta da Hanell e fatta propria da Gjerstad, che abbassava di quasi due secoli la data di fondazione della città, stravolgendo i dati della tradizione e i sincronismi da essa stabiliti. Si susseguono al riguardo le “Origini di Roma” del 1960,35 i “Fatti e leggende (moderne) sulla più antica storia di Roma” del 1963,36 di nuovo le “Origini di Roma” del 1972,37 in cui oggetto della polemica è anche il libro di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, del 1965, che considerava praticamente l’intera storia dell’età regia un’invenzione di Fabio Pittore. Pallottino mette in gioco tutto il suo senso della storia, il suo rifiuto degli schemi astratti, la sua attenzione verso il concreto delle persone e del loro agire. Valorizza l’apporto delle Lamine di Pyrgi per rivendicare la storicità del primo trattato tra Roma e Cartagine,38 dedica a Servio Tullio nel 1977 un saggio che ne ricostruisce a tutto tondo la figura,39 sottolinea l’importanza dell’iscrizione etrusca appena scoperta a S. Omobono e di quella latina di Publio Valerio da Satrico,40 grazie alle quali cresce il numero delle dramatis personae, dei personaggi che rivivono dinanzi a noi grazie alle scoperte epigrafiche, come già era accaduto per Aulo Vibenna, suscitando lo stupore del vegliardo De Sanctis.41 Nel contempo Pallottino allarga lo sguardo ai Sabini, con la mostra del 1973 e i successivi convegni,42 riscattandoli dai dubbi dell’ipercritica, e soprattutto fa compiere, con la mostra sulla “Civiltà del Lazio primitivo” del 1976, cui mi onoro di avere attivamente collaborato,43 così come all’edizione parigina dell’anno dopo,44 un enorme passo avanti 33 “La prima Roma”, in StRom, 5, 1957, pp. 256-268 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 201-213). 34 Ibid., p. 258 sg. 35 “Le origini di Roma”, in ArchCl 12, 1960, pp. 1-36 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 214-247). 36 “Fatti e leggende (moderne) sulla più antica storia di Roma”, in StEtr 31, 1963, pp. 3-37 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 248-277). 37 “Le origini di Roma: considerazioni critiche sulle scoperte e sulle discussioni più recenti”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, Berlin-New York, 1972, pp. 22-47 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 278-307). 38 Nuova luce sulla storia di Roma arcaica dalle Lamine d’oro di Pyrgi, in StRom, 13, 1965, pp. 1-13 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 377-390). 39 Servius Tullius à la lumière des nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques, in CRAI 1977, pp. 216-235 (= Saggi di antichità, cit., i, pp. 428-447). 40 Lo sviluppo socio-istituzionale di Roma arcaica alla luce di nuovi documenti epigrafici, in StRom 27, 1979, pp. 1-14. 41 Cfr. supra, nota 31. 42 Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, i-iii, Roma 1973-1977. 43 Civiltà del Lazio primitivo, Roma 1976. Cfr. G. Colonna, In margine alla mostra sul Lazio primitivo, in StudRom 24, 1976, pp. 57-61. 44 Naissance de Rome, Paris 1977, successivamente replicato a Bucarest e a Budapest.

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nella ricostruzione della protostoria dei Latini, utilizzando l’apporto delle innumerevoli novità emerse da scavi recenti e recentissimi, in larga misura all’epoca, e talvolta ancora, inediti. Si arriva così alla mostra su “La grande Roma dei Tarquini”, curata da Mauro Cristofani nel 1990 e aperta anch’essa alle più recenti acquisizioni, in cui primeggiano gli scavi di Andrea Carandini,45 e subito dopo al libro citato all’inizio sulle “Origini e storia primitiva di Roma”, che conclude con una magistrale sintesi le ricerche cui Pallottino ha dedicato generosamente la sua intera vita, suscitando l’ammirazione di noi contemporanei e ancor più, ne sono certo, di chi verrà dopo di noi. [Pallottino e Roma, in Massimo Pallottino a dieci anni dalla scomparsa (atti dell’incontro di studio, Roma, 10-11 novembre 2005), a cura di L. M. Michetti, Roma, 2007, pp. 73-78].

45 La grande Roma dei Tarquini, Roma 1990.

PALLOTTINO, PYRGI E L’UN IV E RS IT À D I RO M A

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iprendo la parola oggi per tratteggiare un altro aspetto della complessa personalità di Pallottino e della sua attività di studioso: quello del docente e dell’archeologo promotore di una grande impresa di scavo. Prima ancora però di toccare questi argomenti è bene rievocare ancora una volta gli esordii di Pallottino, anch’essi inscindibilmente legati all’Università di Roma, che allora, almeno per Lettere e Giurisprudenza, era di fatto, fisicamente direi, e non solo di nome, com’è ora, la storica Sapienza (allargata al contiguo palazzo Carpegna), con la sua ardita chiesa di S. Ivo, il sereno cortile, la splendida biblioteca Alessandrina a portata di mano. Pallottino ne era stato uno studente brillante: già Delpino ha parlato del suo curriculum e della laurea, conseguita nel 1931 con Giglioli dopo aver già pubblicato una recensione al libro del suo maestro di etrusco, Alfredo Trombetti (la prima delle innumerevoli che avrebbe scritto),1 e quattro articoli, tutti su periodici quanto mai autorevoli,2 che lo segnalavano come una sicura promessa per l’etruscologia. Giglioli insegnava allora Topografia dell’Italia antica – cattedra istituita da poco, nel 1925, accanto a quella di Topografia Romana, risalente a Rodolfo Lanciani – ma grondava da tutti i pori interesse per l’Etruria, reduce com’era dalla scoperta dell’Apollo di Veio. Già anni prima aveva assegnato una tesi su Chiusi, e alla persona giusta, Ranuccio Bianchi Bandinelli.3 Né sbagliò nel caso di Pallottino, assegnandogli Tarquinia (non aveva a quanto pare molta fantasia, ma sapeva scegliere le persone).4 Entrambe le tesi furono pubblicate dall’Accademia dei Lincei nei Monumenti, e restano tra le cose migliori prodotte in questo settore di ricerche da italiani, accanto alla Bologne villanovienne et étrusque di A. Grenier (1912) e alla Capoue préromaine di J. Heurgon (1942). La monografia di Pallottino apparve nel 1937 e, sommata agli Elementi di lingua etrusca del 1936, gli valse, come ricordavo ieri, la libera docenza in Etruscologia e Archeologia Italica presso l’Università di Roma, che dal 1925 aveva in statuto la disciplina, unica tra le università italiane e straniere. Poiché l’insegnamento era vacante, essendone titolare dal 1926 Alessandro Della Seta, comandato ad Atene a dirigere la Scuola Archeologica Italiana, ed essendo rimasto tale anche dopo il suo allontanamento, provocato nel 1938 dall’introduzione della discriminazione razziale, Pallottino per due anni lo ricoprì per incarico,5 sia presso la Facoltà che presso la Scuola Nazionale di Archeologia, nel mentre conduceva da Ispettore della Soprintendenza gli scavi di Cerveteri e di Veio (e nei taccuini di scavo recentemente editi vi è il ricordo delle visite degli studenti della Scuola). Vinto nel 1940 il concorso a professore di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana presso l’Università di Cagliari, ottenne dall’a.a. 1945-1946 il trasferimento sulla cattedra 1 BullComm 56, 1928, pp. 155-158. 2 “Saggio di commento a iscrizioni etrusche minori”, in StEtr 3, 1929, pp. 532-554; “Nuovi contributi alla soluzione del problema etrusco (dalle ultime note manoscritte di A. Trombetti)”, in StEtr 4, 1930, pp. 193-216; “Uno specchio di Tuscania e la leggenda etrusca di Tarchon”, in RendLinc 6, 1930, pp. 49-87 (= Saggi di antichità, ii, Roma 1979, pp. 679-707); “Il plurale etrusco”, in StEtr 5, 1931, pp. 235-298. 3 “Clusium. Ricerche storiche e topografiche”, in MonAntLinc 30, 1925. 4 “Tarquinia”, in MonAntLinc 36, 1937, coll. 1-615. 5 Non risponde infatti al vero l’affermazione che nel 1938 a Roma la cattedra di Etruscologia andava “per chiara fama” da Alessandro Della Seta a Massimo Pallottino (M. Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, 1938-1948, Milano 2005, p. 104). Pallottino ebbe infatti l’incarico, non la cattedra, e l’ebbe già nel 1937, un anno prima delle leggi razziali e del tutto indipendentemente da esse.

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romana che era stata del defunto Della Seta, di cui tracciò un commosso necrologio.6 Ebbe inizio così quell’insegnamento che ha fatto di Pallottino uno dei professori più prestigiosi della Facoltà romana, pur annoverante tanti docenti di valore: insegnamento protrattosi ininterrottamente per 35 anni, fino all’andata fuori ruolo nel 1980 (per Pallottino, sempre indaffarato, era inconcepibile accettare, come faceva qualche collega, i pur allettanti inviti di tenere corsi in Università straniere: ricordo che diceva, a proposito di Luisa Banti e di John Ward Perkins: “ma come fanno a lasciar tutto e partire?”). Pallottino docente ha avuto non pochi meriti, peraltro largamente riconosciuti. Il primo, di cui sono testimone in prima persona, è di aver saputo insegnare con passione e rigore, mai delegando ad altri i propri compiti, nemmeno in occasione degli esami o delle non infrequenti visite ai musei, benché sia stato sempre attorniato da assistenti;7 e di aver saputo insegnare, aggiungo, non solo dalla cattedra ma anche seduto con gli studenti intorno a un tavolo. Nei suoi seminari, sempre affollati, si discuteva molto ma non si poteva divagare o arrampicarsi sugli specchi senza incorrere in bruschi e talora cocenti richiami, come deve saper fare ogni vero maestro. Quante crisi e abbandoni intorno a quel tavolo, nella biblioteca dell’Istituto o altrove, compensate dalla nascita di autentiche vocazioni! Una scuola di metodo e di scienza, ma anche di vita. Tanto più apprezzabile se consideriamo la mole di impegni esterni che sempre più gravava sul Professore, per sua scelta o perché non sapeva tirarsi indietro di fronte alla prospettiva di nuove esperienze, non solo di ricerca e divulgazione – aveva infatti il gusto di comunicare e di sentirsi ascoltato – ma anche di partecipazione attiva alla vita pubblica, specie nel campo della tutela del nostro patrimonio storico e archeologico, a livello sia ministeriale che parlamentare. Già nei primi anni del dopoguerra Pallottino aveva contribuito attivamente alla rinascita della cooperazione internazionale in campo archeologico, ma su questo ci dirà con la sua competenza Michel Gras. Ricordo solo che il suo studio nella sede dei Fasti Archaeologici a Palazzo Venezia, non lontano dalla sua casa, era divenuto negli anni ’50 quasi una succursale di quello dell’Università: in esso Pallottino discuteva fino a tarda sera con i laureandi, come ho sperimentato io stesso, e dava corpo a iniziative che consentivano a laureandi, neo-laureati e allievi della Scuola Archeologica di compiere un effettivo tirocinio, all’epoca assai ambito. Ricordo in proposito la schedatura di una massa enorme di “pezzi” prescelti in prima istanza per la grande mostra sull’Arte e la Civiltà degli Etruschi, che emozionatissimi anche noi studenti andammo tutti insieme a visitare a Milano nel 1955: schedatura preliminare alla stesura delle schede del catalogo, che redasse una per una Lui stesso. Una fucina di lavoro, che dal 1956 trasferì armi e bagagli, in una dimensione ovviamente assai diversa, nella sede della Enciclopedia Universale dell’Arte, che si trovava nel vicino Palazzo Grazioli (chi non ricorda le attese interminabili per poterlo incontrare, anche ad ore impossibili?), e anni dopo, verso il 1965-1966, in

6 Annuario dell’Università di Roma, anno accademico 1944-1945, pp. 5-8 dell’estratto. Vale la pena di riportare la parte conclusiva dello scritto: «La bufera antisemitica ebbe come conseguenza, nel 1938, l’abbandono del Della Seta dalla cattedra di cui egli era titolare a Roma e dall’incarico di Atene. Egli passò gli anni dolorosi nella consolazione che gli derivava dai suoi privati studi, con una serenità che rimase inalterata anche quando, dopo l’armistizio e la proclamazione della sedicente repubblica sociale, la minaccia di persecuzione si fece grave e diretta. La morte lo colse immaturamente nel suo ritiro padano (29 settembre 1944) mentre in Roma già liberata si era compiuto l’atto riparatorio della sua reintegrazione nella cattedra ed il mondo scientifico italiano ed internazionale si attendeva di vederlo tornare, con vigore rinnovato, alla sua feconda opera di indagatore e di maestro». 7 Nei primi anni Giuseppe Bovini e Valeria Martelli, quindi M. Teresa Amorelli e Romolo A. Staccioli, ai quali mi aggiunsi io stesso tra il 1958 e il 1963.

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quella del Comitato per le attività archeologiche nella Tuscia, promosso nel 1970 nel Centro del C.N.R. per l’archeologia etrusco-italica da lui fondato, che si trovava in Corso Rinascimento, a pochi passi dalla sua casa e dalla vecchia Sapienza. Intanto Pallottino aveva saputo procurarsi degli spazi adeguati, e del personale per gestirli, anche all’Università, dove aveva fatto nascere, dalle costole dell’unico Istituto di Archeologia di un tempo – quello che dal 1949 pubblicava per iniziativa sua e di Giglioli la rivista Archeologia Classica, che mi onoro di dirigere8 – un Istituto a sé stante, l’Istituto di Etruscologia e Antichità Italiche, dislocato in parte nella sede distaccata dell’Università in via Palestro e dotato di una sua biblioteca, oltre che di archivi, di laboratori e finanche di un Museo didattico, filiazione da un lato del vecchio Museo universitario “delle Origini” fondato da Ugo Rellini, dall’altro della Mostra etrusca del 1955-1956. Museo di cui appena laureato, tra il 1957 e il 1958, ebbi affidato l’allestimento, in parallelo con quello del rinascente Museo delle Origini, curato dalla cara Alba Palmieri (penso che ne parlerà tra poco M. Paola Baglione). Poterono così prendere avvio, oltre agli scavi di cui dirò subito dopo, molte attività per così dire di laboratorio: la schedatura delle fonti letterarie sulla storia e la civiltà degli Etruschi, affidata allo scomparso Giovanni Baffioni ed ora da me ripresa con l’aiuto di Laura Michetti e di Daniele Maras, la schedatura delle tante tombe villanoviane inedite di Veio, affidata a Gilda Bartoloni e Filippo Delpino, la schedatura delle iscrizioni etrusche ai fini della realizzazione del Thesaurus, di cui ha parlato Maristella Pandolfini, la schedatura dei bronzi etruschi e italici della Collezione Gorga, affidata ad Antonia Rallo.9 Ma è tempo di parlare di Pyrgi. Pallottino, come prima di lui Giglioli e tanti altri cattedratici, veniva dalla salutare esperienza vissuta nelle Soprintendenze, a contatto con gli scavi e con il territorio, oltre che con i monumenti e i musei. Riteneva perciò indispensabile che la formazione dei giovani archeologi fosse completata dalla diretta e responsabile partecipazione almeno a un cantiere di scavo. Dopo avere organizzato vari piccoli scavi per conto della Scuola Nazionale di Archeologia, negli anni in cui ne fu Direttore (nel 1951 nella necropoli di Cerveteri, nel 1954 in quella di Norchia, ancora non toccata dalla riforma agraria dell’Ente Maremma: scavo questo cui potei partecipare pur essendo poco più che una matricola, ricevendo per così dire il mio “battesimo del fuoco”), Pallottino concepì nel 1956 il progetto di dar vita a un cantiere continuativo, stabile, dove addestrare gli aspiranti archeologi, da gestire in collaborazione con la Soprintendenza dell’Etruria Meridionale, con la quale intratteneva ottimi rapporti (quella benemerita Soprintendenza, lasciatemi dire, che un recente provvedimento ministeriale ha brutalmente accorpato alla Soprintendenza del Lazio, facendo compiere un salto all’indietro di 70 anni nella tutela e nella valorizzazione dei rispettivi territori, che rischiano di ripiombare nella grigia situazione di anteguerra).10 L’occasione era offerta dalle allettanti scoperte casuali avvenute quell’estate presso il sito dell’antica Pyrgi, il porto principale di Cerveteri: scoperte che Pallottino sospettava fossero in relazione con il non ancora localizzato santuario di Leucotea, celebrato dalle fonti per le enormi ricchezze che vi erano accumulate. Il santuario era può dirsi il maggiore, se non l’unico tassello ancora mancante per la ricostruzione della topografia sacra dell’Etruria laziale, dopo la scoperta, avvenuta qualche anno prima, del Lucus Feroniae presso Capena. Chiese pertanto e ottenne, a nome del Rettore Papi, una regolare concessione di scavo dal 8 Cfr. G. Colonna, “A Massimo Pallottino”, in ArchCl 46, 1994 (1995), pp. ix-x. 9 Con la collaborazione di Raffaella Papi, che ne ha tratto lo spunto per occuparsi dei dischi a decorazione geometrica, oggetto del suo libro apparso nel 1990. 10 Provvedimento poi revocato dal ministro Buttiglione.

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Ministero, sicché nel maggio del 1957 ebbero inizio i lavori,11 affidati sul campo a due neo-laureati, la compianta Antonia Ciasca e a me che vi parlo, rimasto ben presto solo a seguito del dirottamento di Antonia verso le nascenti ricerche italiane di archeologia fenicio-punica. Le attese di Pallottino si sono puntualmente verificate, sicché da allora sono state condotte 15 campagne sotto la sua direzione, fino al 1980, e 25 sotto quella di chi vi parla, che gli è succeduto sia sulla cattedra che nella gestione dello scavo. Campagne condotte con la collaborazione di M. Paola Baglione e con la partecipazione di legioni di allievi della Scuola Nazionale, poi Scuola di Specializzazione di Archeologia, e di studenti, anche stranieri (Fig. 1 a-b). Pyrgi è stato il primo, nel tempo, degli scavi dell’Università di Roma, cui hanno tenuto dietro Lavinio, Malatya in Anatolia, Malta, Mozia ed Ebla, per citare solo quelli iniziati entro gli anni ’60,12 Scavi che nel 1980 hanno ottenuto dal Rettore Ruberti, grazie a Pallottino e a Paolo Matthiae, reduce dalla scoperta dell’archivio reale di Ebla, la qualifica di scavi d’Ateneo, cui è assicurato un finanziamento annuale modesto, ma costante (caso unico in Italia). Le scoperte di Pyrgi sono state clamorose:13 due templi monumentali, che per dimensioni e conservazione non hanno l’uguale nell’Italia non greca, rivestiti da un complesso di terrecotte architettoniche anch’esso senza confronti, includenti il grande altorilievo tardoarcaico con due storie della saga tebana (Fig. 2) che sono un unicum iconografico, e la testa di dea di stile classico, opere d’arte di inestimabile valore (ma grazie ai buoni uffici di Pallottino non una lira è stata versata dallo Stato né all’ente proprietario del terreno né all’Università, a differenza di quel che purtroppo è accaduto a Lavinio). Ad esse si è aggiunto il trittico delle lamine d’oro iscritte in etrusco e in fenicio (Figg. 3-4), che hanno fatto la gioia di Pallottino, rivelando il nome di un re di Caere devoto di Astarte, vissuto nell’età di Tarquinio il Superbo e di Porsenna, ossia negli anni cruciali che videro il crollo della monarchia nell’Italia tirrenica e il Lazio conteso tra Chiusini e Cumani. La prosecuzione degli scavi ha portato negli anni ’80 alla scoperta di una seconda area sacra, contigua alla prima, con ritrovamenti meno clamorosi ma non meno importanti per la conoscenza della religione e della società etrusca.14 Basti dire che ha preso corpo, grazie alle molte iscrizioni, una coppia di divinità del pantheon etrusco finora pressoché ignorata, ±uri e Cavatha, corrispondenti ai signori degli Inferi, Ade e Persefone. Inoltre gli assai numerosi e pregevoli doni votivi hanno rivelato un’intensa frequentazione da parte di Greci, tenuti a quanto pare a compiere atti di culto nei confronti delle divinità locali per poter entrare in relazione con i Ceretani. L’intuizione di Pallottino si è rivelata pertanto quanto mai felice, e così il suo progetto di scavo, che siamo fieri, parlo anche a nome di tutti coloro che hanno collaborato, di aver portato avanti fino al punto cui è arrivato, nella consapevolezza, tuttavia, di non aver ancora esaurito il nostro compito. [Pallottino, Pyrgi e l’Università di Roma, in Massimo Pallottino a dieci anni dalla scomparsa (atti dell’incontro di studio, Roma, 10-11 novembre 2005), a cura di L. M. Michetti, Roma, 2007, pp. 73-87].

11 Cfr. la foto edita in G. Colonna, Italia ante Romanum imperium. Scritti di antichità etrusche, italiche e romane (1958-1998,), iv, Pisa-Roma 2005, p. 2504. 12 Per un’informazione generale: Scavi e ricerche archeologiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, a cura di L. Drago Troccoli, Roma 1998. 13 Per un bilancio, parziale, vedi “Il santuario di Pyrgi dalle origini mitistoriche agli altorilievi frontonali dei Sette e di Leucotea”, in Scienze dell’Antichità 10, 2000 (2002), pp. 251-336. 14 Mi limito a citare G. Colonna, “Altari e sacelli. L’area Sud di Pyrgi dopo otto anni di ricerca”, in RendPontAcc lxiv, 1991-1992, pp. 63-115; Id., “Sacred architecture and the religion of the Etruscans”, in The religion of the Etruscans, a cura di N. Thomson de Grummond - E. Simon, Austin 2005, pp. 132-168 (spec. pp. 132-141).

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Fig. 1 a-b. Pyrgi 1957. La firma di Massimo Pallottino sulla mandibola di balenottera rinvenuta sulla spiaggia e utilizzata nei primi anni dello scavo come albo dei partecipanti e dei visitatori (Antiquarium di S. Severa).

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Fig. 2. Le teste di Tideo e di Melanippo. Particolare dell’altorilievo del tempio A con la saga dei Sette contro Tebe.

Fig. 3. Apografi delle Lamine d’oro di Pyrgi tracciati da Massimo Pallottino per l’Antiquarium (1972).

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Fig. 4. Interpretazione autografa delle Lamine d’oro da parte di Massimo Pallottino per l’Antiquarium di Pyrgi (1972).

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B I O G RAFIA DI MASSIMO PA L LOT T IN O

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torico del mondo antico, archeologo ed etruscologo (Roma, 9/11/1909-7/2/1995). Laureatosi con G. Q. Giglioli nel 1931, è stato funzionario dell’amministrazione delle antichità e belle arti dal 1933 al 1940 (scavi a Capena, Cerveteri e Veio), ha insegnato Etruscologia a Roma come incaricato dal 1937 al 1940, quindi Archeologia e storia dell’arte greca e romana a Cagliari come ordinario dal 1940 al 1945, infine Etruscologia e antichità italiche a Roma dal 1945 al 1980. È stato fondatore e a lungo direttore dei Fasti archaeologici, cofondatore con Giglioli e direttore fino al 1983 di Archeologia classica, direttore di Studi etruschi da quando assunse nel 1972 la presidenza dell’Istituto nazionale di Studi etruschi fino alla scomparsa. È stato anche presidente dell’Union internationale des sciences préhistoriques et protohistoriques (1960-1962), direttore dell’Enciclopedia universale dell’arte (1956-1967), fondatore e direttore del Centro di studio (oggi Istituto) del c.n.r. per l’archeologia etrusco-italica (1969-1981). Innumerevoli i riconoscimenti accademici, sia in Italia che fuori, compresi prestigiosi premi internazionali. Già negli anni ’30, con la pubblicazione degli Elementi di lingua etrusca (1936), della monografia Tarquinia, che fa il punto delle conoscenze su una tra le maggiori città d’Etruria (1937), e del saggio Sulle facies culturali arcaiche dell’Etruria (1939), P. si afferma come una figura del tutto nuova di etruscologo, dalle competenze pluridisciplinari che abbracciano, con capacità di apporti originali, la linguistica, l’archeologia, la storia e la protostoria. Qualità subito dopo confermate con il classico “manuale” Etruscologia (1942), divenuto col tempo il testo base per l’insegnamento della disciplina, tradotto in molte lingue e più volte rielaborato (settima e ultima edizione: 1984). Contemporaneamente P. si occupa attivamente di arte romana, nell’orbita della Mostra augustea della romanità organizzata da Giglioli, scrivendo il saggio Arte figurativa e ornamentale (1940), lo studio sul grande fregio di Traiano e la monografia L’arco degli Argentari (1946), cui farà seguire nel 1955 L’arte della Colonna di Marco Aurelio. Salito sulla cattedra romana, P. sviluppa a pieno campo la sua vocazione etruscologica col saggio La scuola di Vulca (1945) e con L’origine degli Etruschi (1947), che introduce nel secolare dibattito iniziato da Erodoto il concetto innovatore della “formazione” in luogo della “provenienza”: concetto che P. estende anche ad altri ambiti e che costituisce l’aspetto teorico più originale del suo pensiero. Intanto elabora per l’ermeneutica dell’etrusco, in parallelo con K. Olzscha, il metodo storico-culturale, o“bilinguistico”, che, dopo le prime sortite degli anni ’30, applica estesamente nel saggio sulla Tegola di Capua (1948), senza tuttavia trascurare gli approcci tradizionali, con la misura e il distacco critico che contraddistinguono tutta la sua opera. Nel solco di questi interessi si colloca la silloge Testimonia linguae Etruscae (1954. 19682), rimasta fino all’uscita degli Etruskische Texte di H.Rix (1992) lo strumento di lavoro indispensabile a ogni etruscologo. Nel campo delle riflessioni sull’arte P. estende il concetto di formazione alla genesi e agli sviluppi dell’arte arcaica, intesa storicamente come un crogiuolo di esperienze diverse in cui l’Etruria detiene una posizione di piena originalità, accanto ad altre manifestazioni dell’Occidente mediterraneo. Sono di questi anni i saggi sulle importanti statue da lui stesso scoperte a Veio, l’agile sintesi su La peinture étrusque (1952) e l’iniziativa di una grande mostra sull’arte etrusca, che tra il 1955 e il ’56 viaggiò per tutta l’Europa con enorme successo. L’anno dopo P. iniziò con l’Università di Roma lo scavo del santuario di Pyrgi, avvalendosi fin dall’inizio della collaborazione di G. Colonna. La sco-

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perta dell’altorilievo mitologico del tempio A (1957-1963) e delle iscrizioni su lamine d’oro relative al tempio B (1964) segnano il culmine della parabola dello studioso, ormai internazionalmente riconosciuto come un caposcuola, mentre dirige l’Enciclopedia universale dell’arte e si impegna sia nella Commissione d’indagine del Parlamento italiano sui beni culturali che nel Consiglio d’Europa (1964-1966). Negli stessi anni P. rimedita in Cos’è l’archeologia (19682) la collocazione della disciplina nella cultura moderna. Gli anni successivi vedono P. ormai insediato alla testa dell’Istituto di studi etruschi e del Centro etruscologico del c.n.r., dedicarsi alla promozione di iniziative scientifiche e culturali di ampio respiro. Rilancia il Corpus inscriptionum Etruscarum, dà vita al Thesaurus linguae Etruscae, al Corpus speculorum Etruscorum e a quello delle ciste prenestine, organizza una serie di importanti convegni, culminata nel ii congresso internazionale etrusco del 1985, realizza mostre di tutto rilievo come Civiltà del Lazio primitivo (1976-77), Prima Italia (1980-81), La grande Roma dei Tarquinii (1990), Gli Etruschi e l’Europa (1992-93). Mostre che sviluppano i temi delle ricerche personali che nel frattempo conduce, sia nel campo della storia arcaica di Roma e dei Latini (dalla confutazione degli scritti di Gjerstad e Alföldi nei primi anni ’60 alla sintesi finale Origini e storia primitiva di Roma, del 1993), sia in quello dei popoli dell’Italia antica, intesi come una realtà profondamente interrelata (Civiltà artistica etrusco-italica, del 1971; Genti e culture dell’Italia preromana, del 1981; Storia della prima Italia, del 1984, senza dimenticare l’impulso dato alla ricerca sui Sabini negli anni ’70). Agli Etruschi in particolare è tornato a rivolgersi negli ultimi anni, con la mostra “europea” del 1992-93 e con un saggio sulla lingua rimasto incompiuto. Bibliografia La bibliografia di M. P. fino allora apparsa è raccolta in ArchCl 43, 1991, pp. xiii-l, nn. 1-670. Aa.Vv., Ricordo di M. Pallottino nel trigesimo della scomparsa, in Rend.Mor.Acc.Lincei, s.9, 6, 1995, pp. 1-31. Bonfante L., in AJA 100, 1995, pp. 157-159. Colonna G., Massimo Pallottino “cultore di Roma”, in Studi Romani 30, 1982, pp. 463-466. Colonna G., Presentazione di M.Pallottino in occasione del conferimento del v premio L.G.Borghese, Artena 1994, in StEtr 60, 1995, pp. 427-430. Colonna G., in Archeologia viva 15, n. 55, 1996, p. 82 sg. Cristofani M., in Enciclopedia italiana, v appendice, 4, 1994, p. 35 sg. Gli Etruschi e Roma, Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 11-13 dicembre 1979, Roma 1981, pp. 8-12, 19-22. Maetzke G., in StEtr 61, 1996, pp. ix-xiii. [Pallottino, Massimo, in Enciclopedia Archeologica. Treccani 2000, Il mondo dell’archeologia, cd rom , Roma, 2002].

INDICE LESSI C A L E A cura di Laura M. Michetti

Etrusco a() - 1052 abat - 439n ak[- - -] - 302 aka - 302 akara - 1018n akarai - 1018 acvilnas - 472n acil - 1052 akiu - 302 acna®ver - 779n *acna®-¯ver - 779n acns - 779n acrate - 1018n *a(cre) - 1052n acrie - 1052n ae - 302 aevz - 429 aveles - 808n avil - 430 avil[- - -] - 1049 avile - 347, 430, 472n, 952, 1050, 1051, 1054 avle - 43n, 890 aie - 989n aivas - 1067 aizaruva - 1069 *aisar - 1068 aiser - 1069 aiseras - 889n aisera® - 780n *aisia - 808, 1017 aisna - 1017n aita - 900n *aitra - 808 al - 173n, 301, 989n alce - 302, 948 aleına - 37 aleınas - 957 alza - 173n, 301 alıras - 1022n alice - 302 alpan - 890, 1018n al®aianasi - 950n alsiti(s) - 352 amake - 956

ame - 280 ameren(e)s - 127 amina(s) - 280 amnz - 439n anae - 1025 anaie - 363, 1025 anaiie - 1025, 1029 ancinies - 856, 858, 864, 871 ancnei - 858n anıasi - 1024 anias - 1016n an¯ - 631 a(n)¯esi - 1018n apa - 616, 617, 698, 891, 900n, 968n, 972n, 973n apana - 43n, 890, 897n apanes - 897n apas - 972n, 976n [ap]as - 892n *aper - 891n apice - 978n *apir - 891n apiqu - 978 aplu - 684 apucu - 978n ap(u)lu - 968n apuniie - 472n, 950n *apur - 891n apurıe - 891 apurte - 891 apus - 226 ar - 298, 299, 1022 ara - 299, 1022 *araıe - 219n araıenas - 219n arce - 299, 1021, 1022, 1028 aris - 1017 aritimi - 241n, 303, 678, 888n, 889 aritimipi - 888 arma - 1018 armas - 1018n armasiina - 1020, 1028 armasiinas - 363, 1015, 1016, 1018, 1022, 1025, 1029 armasina - 1020 armi - 1018 arnı - 23, 871, 1018n, 1051, 1052n arnıeals - 955

1182 arsina - 340n artum[es] - 892n *aru - 1048 *aruz - 1047, 1048 arunas - 1048 arus - 1047, 1048 *aruser - 1047, 1048 [aru]®er - 1051, 1053 aruseri - 1047 aru®erus - 1048, 1049 a® - 1047n aska - 955n asklaie - 1081 asi - 1018 asia - 1016n asmaias - 1016 asu - 299, 300, 1018n ata - 780n ataias - 808n, 1069n atalena - 780 atalenas - 782 *atalnas - 782 atana - 808n ate - 780n *atelenas - 780n atelinas - 701, 780n atena - 808n ati - 1068 atial - 889 *ati(ena) - 1048n ativu - 1068 atinana - 1048n atinas - 981 atnas - 1102 atr® - 948 *auzerie - 1048n auzrinas - 1048n aukanas - 301n aule - 1017n, 1051, 1052 aulna® - 1018n [au]®er - 1051, 1053 au®erus - 1049 a¯apri - 979n a¯rate - 1018n a¯us - 1051 ca - 39 ka - 300, 304 cavaıa - 750, 904, 905n, 967, 968n cavaıas - 616, 700n, 888, 968 kavza - 968n cavuıas - 896n kavuıas - 808n

indice lessicale cazlanies - 39 caıarnaial - 808 caıas - 889 kai - 173 kaile - 326 *kaineva - 219n *kaine¯va - 219n *kainva - 219n *kainu - 1069n *kainua - 219, 1069n kainuaıi - 218, 219 *kainuva - 1069n kais - 173 *kaise - 432 *kaisera - 980, 1018n *kaiser(a)ie - 145, 749, 980 kaiseri - 980n *kaiserie - 749, 980, 1020 *caiserieva - 981 *caiserie¯va - 981 kaiseriıe - 145n, 980, 1020n kaisie - 432 *c(a)isra - 981 caisriva - 981 *caisris - 981 caisrs - 981 *kaisura - 980 cal[- - -] - 197n kalatur - 971 cale - 225, 719n calie - 225 calu - 888n, 897, 900n calus - 888n, 897 calu®a - 954n calusi(m) - 778n calusna - 617, 968n calusurasi - 778n cana - 902n cape - 968 *capu - 1018 karcuna - 1048n *caruca - 971 carucra - 971, 972 qa¯u - 890n cea(l)c - 37 cearıi - 895 ceicna - 111 keivale - 214, 225, 226 ceise - 432 keisna - 432, 433 cel - 307, 974n cela - 778n cele - 891

indice lessicale celıe - 225, 307, 308, 712 celıestra - 307, 702, 973 cels - 808n celsclan - 308 celta - 225, 973 celtalu - 225, 712, 973 *celte - 973 keltie - 973 *cere - 981 c(e)reals - 981n ceriie - 342n ceriies - 173n, 301 ceseıce - 1051 ce¯a - 951 ce¯ase - 778n cver - 890 cvera - 890 cver(a) - 892n ci - 781n ciaruı - 895n ciaruıia¯ - 890n cilens - 432n cilı - 1052 cilıcva - 1052 cilıcveti - 1052 cisra - 981 clavtie - 1028 klavtie - 62 clan - 808n klanin®l - 1048 clen - 951 cleusin® - 888n cliniiaras - 781n clinsi - 890 cluvenias - 777 crap®ti - 897n creals - 980n, 981 creice - 980n crepu - 964 crepus - 871 crisiıa - 971n *cruce - 979 *crucera - 980 crucra - 979, 980 crucrai - 980 crucu - 979 *crucura - 979n, 980 cuclu - 971n *cucraie - 979n *cucrie - 979n kuvei - 955 cuveis - 1020n cuıer - 1027

culs - 891n cul(sans) - 782n cul®u - 897n cupe - 1081 cupures - 70 kuripe® - 1069n *kurse/kursike - 223 cursni® - 1051, 1052 cus - 304n cusi - 1024 kusnai - 667 cusul - 304n qutumuza - 430n ec - 38 eca - 698n, 1098 ecile - 616 *ecle - 616 ecn - 37 ecnate - 38 *eicle - 616 ein - 968 eisera® - 889 eisna - 1017n eleivana - 955n enistale - 226 eries - 1016n erucs - 786 esia - 808, 1017 espial - 889n estial - 889 eta - 807, 808 etan - 808n *eter - 897 etera - 897 eteraia - 1016n, 1017n eterau - 1017n eteri - 897 etnam - 1052 etra - 808 etras - 807 va - 311n vacl - 299, 1017 vanı - 890n, 900n vania® - 1016n var - 781, 782 [va]r¯ - 781n var¯a - 781n varnie - 781n vatie¯e - 777n vatl - 342n, 892 vatlmi - 342n, 888n, 892

1183

1184

indice lessicale

vka - 440n ve - 342n vea - 342n, 808n, 968n veal - 342n, 780n veane - 341 veka - 698n vei - 341n, 342, 808, 888n, 968n, 972n, 973n, 975n ve(i)a - 808n veiaıe - 341n veiane - 341n, 472n veianes - 472n veiens - 352 veies - 341n veive - 888n vel - 335n, 895n, 981, 1102 *velka - 1021 velkasnas - 354, 871, 1021 velka®na® - 354 velcenna - 438 velcial - 1017n veleına - 892n veleınice - 662 velelia(s) - 1016n velenas - 1017n velesi - 202 velzna - 111, 112, 432 *velıumna - 35 velıuna - 35 *velıunaie - 35 [ve]lıunaita - 34 *velıunie - 35 velıur - 858, 864, 871, 890, 981, 1047 vel[ıur] - 856 velıuri - 1047 velıurus - 978n, 1016n velıurusi - 890 velianas - 113, 335n, 364, 776, 777, 1020, 1028, 1030 velie®a - 1081 veliina - 1018, 1020, 1029 *veliinais - 1020 ve[l]iinaisi - 1015, 1016, 1020, 1025 veliinas - 363, 364, 1019, 1020, 1028, 1029, 1030 *veliinasi - 1020 veliiunas - 364, 1020, 1028, 1030 *velimna - 35n velina - 1020 velinas - 1020 veline - 1021n velini - 1021n velinie(s) - 1021n velisinas - 241n velsena - 35n velsenalıi - 34 velsi - 202

velsina - 55 velsna - 37 velsu - 35n veltune - 35, 47n [vel]uıunaita - 34 velus - 700 veluske - 37 v(e)l(usces) - 39 velusi - 1050 velusinas - 241n vel¯ - 871 vel¯a - 363, 871, 1021, 1022, 1027, 1029 vel¯ae - 280, 288, 1021 vel¯aesi - 890 vel¯aie - 1021, 1027 vel¯(a)na - 438 vel¯anas - 1021 vel¯ainas - 1021 vel¯asnas - 1021 vel¯e - 1022, 1051, 1052 *vemedovis - 226 *vemetuvies - 226 vemetuvis - 226 *venai - 678 venala - 950n, 1018n venel - 304, 363, 701, 981, 1025, 1027, 1028, 1029 venelasi - 890 venel(i)a - 280, 288 veneluz - 304 venelus - 173 venelusi - 1051 vener - 363, 1029 v[e]ner - 1026, 1027 venete - 225 venıi - 1024 venıina - 1024, 1028, 1029 venıinas - 363, 1024 venına - 1024 *ver®ena - 888n vestiricinala - 1018n vetus - 1017 veuras - 1022n vefariianaia - 355 vica - 698n vilia - 1016n vilianas - 1020n viliana® - 364, 1020n vinel - 1027 vinil - 1027 vinum - 955n, 1052 vipe - 69, 335n *vipi(ena) - 1048n vipiıene - 891n vipiiennas - 347, 472n, 679

indice lessicale vipina - 432 vipinana - 1048n vipinan(a)s - 1102 vipitene - 891n vi(p)®l - 1051 visc(e) - 127 visıinas - 303 vi®(l) - 1052 vl - 38, 39 vmranal - 440n *vucina - 888n vuvzie(s) - 69, 393 vuize - 69 vusi - 393 zavena - 430n zavenuza - 430n *zarva - 1068 zarve - 1068 zaru - 1068 zeke - 304n zerina - 37n zetun - 971n zvfr - 440n zicu - 895 zilacal - 955 zilaı - 777n, 956, 957, 1102 zilaımisalalatiamake - 218, 219 zila¯nce - 778n zila¯nuke - 956 zilci - 1050 zinace - 856, 858n, 1019n, 1049 zi¯ - 304n, 1015, 1016, 1018, 1024, 1028 zi¯u - 1018, 1019 zi¯unce - 1050, 1051 zuqume - 355 zureı - 891 zuta® - 957 zufr(e) - 299, 300 zufru - 300 zu¯ne - 1019 zu¯ni - 1019 *zu¯u - 1019 zu¯una - 363, 1015, 1016, 1019, 1020, 1028 *zu¯unai - 1019 ha - 451 ha[- - -] - 807 havrnas - 43n, 890 hahivas - 1065 hahifas - 1067n haıisnas - 354 haıi®na® - 354 haltva - 1069

haltna - 1069 haltu - 1069 haltuva - 1069 haltuna - 1069 hartans - 807n haspe - 1029 [h]aspe - 363, 1028 haspna® - 1028 hels - 948 hel® - 948 hene - 304n *heram - 1069 herama®va - 778, 779, 1069 *heramva - 1069 heramve - 777n, 1069 *heramu - 777n, 779 hercle - 34, 808n, 906 hercles - 698n herecele - 34 *heri - 754n hermenas - 70 h(e)rmrier - 982 hermu - 777n, 779 hescnas - 37, 38 hv - 303n hil - 1049, 1050, 1051, 1052, 1053 hilar - 1051, 1052 hilare - 1052 *hilarıu - 1052n hilarıuna - 1052n hilsc - 1052n hil¯ve(tra) - 1051 hinıie - 37 hinu - 304, 1018 hipucrate - 979 hipucrates - 979 hirume - 1048 hirumina - 952, 1048, 1049, 1054 hisa - 280, 288, 663, 950 hu - 309, 319 huinınaia - 618 hulcnie - 37 [hulus]i - 1051 hul¯nies - 957 hul¯niesi - 1050 hupni - 778n hus - 309n husiur - 891n husle - 1052 ıanacvilus - 355, 808n ıana¯vil - 779n ıane¯vil - 1016n ıanirsiie - 241n

1185

1186

indice lessicale

ıanral - 889 ıansi - 1024 ıansina - 1024 ıanursasie - 1026 ıanursi - 1024 ıanursie - 363, 908, 1026, 1029 ıare - 973n ıarmi(e) - 973n ıarni(e) - 973n ıarsna(i) - 973n ıaru - 973 – ıe - 307 ıelenı[as] - 1049, 1050, 1051, 1053 ıelu - 1018, 1053 ıelusa - 1053 ıelu®a - 1018 ıemiasa - 777 ıesan - 807, 808, 1022, 1029n ıesanıe - 891, 1029 ıe[s]anıe - 1022, 1023 ıesa(n)ıei - 807, 1023 ıesanıeia - 1023 ıesante - 363, 891 ıes(n)tia - 891n, 1022 ıefarie - 113, 335n, 364, 776, 1020, 1030, 1048n ıefarie(i) - 777 *ıva - 780n, 1017 ıval - 1017 *ıvaraie - 780n ıvarie - 780, 781, 782 ıvariena - 621, 780 ıvarienas - 782 ıve - 311n, 780n, 1017n ıina - 124 ıifarie - 335n ınal - 780n ıuc - 1047n ıucer - 1027, 1047 ıuceri - 1047 ıue - 780n ıue(s) - 780n ıue® - 311n ıuva - 778 ıuvas - 777, 780n, 1017n ıui - 363, 700, 778n, 1015, 1016, 1017, 1050, 1051 ıurmena/ıurmna - 352 ıusti - 700 ıuta - 777 ıuflıas - 889, 893 ıuflıicla - 889n, 897n ıu¯ - 1047n

ica - 778 ika - 300

ikan - 1018 *ice - 891, 891n *icei - 891n ilacve - 777 in - 897n ipa - 363, 1015, 1016, 1019, 1028 ipac - 1019n, 1049 ipai - 1022 ipei - 363, 1021, 1022, 1028 ita - 778, 808 it[a]n - 701 [ita]n - 700n i¯ - 1015, 1016, 1018 lac - 200 lavsie(s) - 69 lavtni - 897 lavtun - 897n *laıe - 1047n laıer - 1047n laiıiu - 363, 1027, 1029 *lapa - 1027 *lapaie - 1027 lapaiena - 363, 1029 la[p]aiena - 1026, 1027 lapana(s) - 1027 lapicanes - 890 lapie - 1027 lapse - 616, 1027n lar - 662 larv - 1017n larz - 111n, 1016, 1017n, 1018n larza - 1016 ları - 111, 112, 225, 328, 978n larıai - 978, 979 larıaia - 978 larıi - 890 ları(ia) - 1016n larıiia - 1016n larice - 363, 364, 871, 964, 1019, 1020, 1029, 1030 laricesi - 890, 1015, 1016, 1020 lariz - 1018n larizl - 1018n laris - 46n, 111n, 354, 363, 662, 853, 980n, 981, 1015, 1016, 1018, 1022, 1026 lari - 354 l(a)ris - 982 larisal - 173n lari®al - 1047n larn(a)la - 1018n lar® - 1017n *laruza - 430n *laruzu - 430n

indice lessicale larunita - 631 lasasa - 787n latiıe - 891n, 974 latine - 241n latite - 891n *lauciena - 431 laun - 1069 laus - 1069 lau® - 1069 lau®va - 1069 lau®(i)vaie - 1069 *lau®(i)vi - 1069 lautn - 897 lautni - 897 lau¯umes - 1017 leceniies - 173n lecne - 895n lecste - 214 *lecstie - 974 lecstina - 974n lecstinal - 225n lecstinei - 225n lecstini - 223, 225n lecstini® - 225n lecsutini - 225n lecu - 225 lecusta - 223, 225n, 974n lecuste - 214 lecusti - 223, 225n, 974n leıaies - 853 leıams - 890n leıamsul - 890 leiırmeri - 1027 leinı - 888n leinies - 1052n lestinal - 225n le¯tumuza - 430n, 978 lvrmit[la] - 892n lucairce - 981n lucer - 1027 luvce - 69 luvcie - 393 luvciies - 1016n luvzie(s) - 69 luv¯msal - 700 lupu - 778n lupuce - 778n lur - 892 lurmi - 888n, 892 lur® - 888n l(urs) - 631 ma - 1049, 1050, 1051 macstrna - 972

macuni - 700n maias - 1016 mama - 363, 1022, 1029, 1047n mamarce - 472n, 858n, 950n mamerce - 1081 mamer(ce) - 1047n mana - 1022 mana®a - 1016n mane - 310 manı - 219, 617, 897, 898, 905, 1069 *manıe - 219n, 1069n *manıeva - 219n *manıe¯va - 219n *manıva - 219n, 897, 1069 manıvate - 897 *manıra - 897 *manıu - 1069n *manıuia - 1069n manıuraie - 1069 manıureie - 897 mani - 174 mania - 174n manie - 319 maniies - 174n, 309, 319 manina - 174n, 309 manis - 173n, 174, 309 manos - 310 mant - 897 mantran® - 897n mantr(a)n® - 897 mantu - 897n mantua - 219n marce - 890, 980n, 1018n *marica - 342n maricane - 342n mari® - 888n marle - 897n marnu¯ - 1052n marunu[ci] - 952, 955, 1049, 1050, 1051 marunu¯va - 1068 marunu¯u - 1154 masani - 700n mataliai - 304 mean - 778n meani - 778n meılmı - 700 meılum - 1052 meılumes - 780n mele - 304n mene - 355, 950 menerva - 678 me[nervas] - 865 men(p)e - 968 menrvas - 23, 808n

1187

1188

indice lessicale

metena - 1067n metna - 1067 metru - 871 me¯ - 777 mi - 173n, 301, 303, 305, 307, 353n, 355, 438, 472n, 616, 700n, 712, 865, 888, 968, 973, 978, 980n, 1017n, 1048, 1049, 1050, 1069n, 1081 milvanice - 781n mine - 355 mini - 355, 853, 858n, 890n, 950n, 1048, 1049, 1051 mi(ni) - 856 [mi]ni - 1050 misala(la)ıi - 219 misalalati - 956 misalati - 956 mlakas - 951, 955n mla¯ - 18n, 808, 890n, 951 muki - 1024 muıiku - 225, 226, 328 mulvanice - 950n mulvenece - 890n muluvanice - 853, 950n muni - 778n municlat - 778n municleı - 778n muniie - 778n *muniistas - 778n munis - 778n, 779n muni(s) - 778 munise - 778n munisie - 778n *munisitas - 778n munistas - 777, 778n munisuleı - 778n munsle - 778n muras - 1022n muriie - 335n muriu - 335n muse - 352n mutilates - 438 n[- - -] - 37 nacna - 1068 nacnva - 1068 nacnvaia - 1016n nacnvaiasi - 778n nacnuva - 1068 nan[- - -] - 1068 nana - 1068, 1069 nane - 1069, 1070 nanes - 1068 *nanie - 1068 *naniva - 1068, 1069, 1070 nanivas - 1065, 1067, 1068

nanisiei - 1068 *nansie - 1068 nanu - 1069 nanu® - 1068 natinusnai - 888n nex[- - -] - 755 neıuns - 889n neme®us - 226 nemeties - 226 nemunius - 226 nesl - 1098 ne®l - 1052 *netuns - 755n ninur - 781 nuvine® - 891n nuzinaie - 890 num®i - 1024 *nun - 781n nuna - 299, 781n, 968 nunar - 781 nuniur - 781, 782 *nunur - 781 nurine® - 891n *nurti- - 342n nurtine - 891 nurtines - 342n nurtins - 891n nuz - 39 nuzrnas - 39 pava - 35 pai - 1026 *paianiie(s) - 1026 paie - 1026 paienaie(s) - 1026 paina - 1026 papalnas - 780n papas - 976n papr(®ina®) - 1051 parapum - 1051 pa¯anati - 1154 peiana - 1029 peianas - 363 peiana[s?] - 1026 peina - 1026 pepunas - 355 pes - 1048n pesna - 1048n pesn(a) - 890 pi - 303 piana - 1048n piana® - 353n pinaial - 808n pl(avte) - 1070n

indice lessicale pl(aisa) - 1070n pl(aise) - 1070n pl(ecu) - 1070n pleiana® - 353n *pl(eniunas) - 1070n plika®na - 665 *pl(inie) - 1070n praxias - 871 presnıe - 891n presnte - 891n pricni - 980 pri[cni] - 979 priumnes - 779n prucina - 432n *prucna - 432n pu - 303 puzne - 890n puıs - 1019 puizna - 1017n pule - 980n pulenas - 980n, 981, 1018n pulesnai - 955 pumpni - 979n pumpuni - 979n pumpu® - 440n pupu® - 440n purapum - 1051, 1052 pur(apumes?) - 1051 purze - 68, 69, 112 *purzena - 68, 112, 432 *purzenas - 112 *purzie - 69 *purzna - 111, 112 *purse - 112 *purseı(e)na - 112 *pursena - 68 *pursenas - 112 *pursienas - 112 *pursna - 111 put - 1018 putere - 1018n puteres - 890n putlumza - 430n putrna - 1018n puts - 1018 *putu - 363, 1018, 1019, 1028 putuke - 1018 puturna - 1018n putu®a - 1015, 1016, 1018 raqu - 174n raqunıi - 979 raquvu - 303 ravenna - 431, 433

1189

raı - 47n, 303, 678, 684, 888n, 906, 968n raıiu - 888n, 891n raıs - 700, 701, 889 rai®iis - 1020n ramaıa - 363, 364, 1015, 1016, 1018, 1019, 1020, 1022, 1029 ramaıas - 355, 808n, 1020 ramıa - 980n, 981, 1016n ramıes - 981 rana - 429, 430, 431 ranaza - 430, 431 ranazu - 430, 431 ranasu - 430n ranıa - 979, 980 rapalnas - 780n rasna - 432, 1017, 1052 *rasnaia - 1016n rasnal - 777n, 1017 *rasuna - 280, 288 rasunies - 280, 288 rasuniesi - 890 reiıvi - 432, 433, 974 reite - 974 reitnei - 974 reitu - 974 reitu®nu - 974n remens - 352 remni(e) - 352 riına - 974n riınaitultrais - 1020n ritna - 974n ritumena - 974n ruvrie - 662 rumaıe - 891n rumate - 891n runate - 27 rupsai - 890 rusi - 363, 1024, 1029 rus(i) - 1024 ru®ina - 1024 rus(ina) - 1024 rutile - 979 sacni®a - 1018 ®aksalu - 437n *sakse - 437n *saksu - 437n savcne - 890n savcnes - 890n savpunias - 23, 44n savras - 1022n sai - 304 *saie - 304n saina - 304n

1190 sal - 777 san® - 393, 888n san¯uneta - 892n sasuna - 437n *sater - 1047n satu - 1047n ®canin - 1017 se - 38, 39 ®ea - 780 ®eas - 782 *secenaie - 891 *secenie - 891n secne - 891 ®eıre - 1102 seıume - 755n seıumsai - 888n sei - 304 seie - 304 se(ies) - 38 seina - 981 sela - 955n ®elcia - 1016n seleitala - 777, 955 selvans - 43n, 892, 1016n selvan®l - 889 ®elvansl - 892n senınra - 787n sente - 787n sentenara - 787n sertur - 1047 serturi - 1047 ®e® - 363, 1021, 1022, 1028 ®e®a - 1022 ®e®ai - 1022 ®e®e - 1022 setume - 755n ®eu® - 780n, 808 se¯ - 968, 971n ®e¯ - 617, 968n se¯is - 896n, 968 svincnas - 1018n sian® - 891n sian(s) - 780n sian®l - 891n siate - 891n sice - 891 ®iki - 891 ®iıurnas - 1022 silqetenas - 781n ®itara - 1029 ®itaraienas - 1022 sitaras - 363 ®itaras - 1021, 1022 ®itrinas - 1022

indice lessicale siurine - 891 siurine® - 891n ®nu - 974n *spe - 1017 [s]pe[cas] - 302 spenu(i) - 1017 *spes - 1017 spesia - 1029 spesias - 363, 364, 1015, 1016, 1017, 1018, 1019, 1020, 1022, 1029 *spesies - 1017 spiu - 1017 spura - 780n ®pural - 1051, 1052 *spurazie - 782 *spurasie - 780n spurem - 981n spuriaza - 950n spuriaze - 780 spuriazes - 782 spur(i)e - 303 *spurieza - 780n spurieisi - 1020 spurine® - 891n sta - 1017, 1028 stalıi - 363, 1015, 1016, 1017 stas - 1017 ®ta® - 1017n sta(s) - 352n sucu - 1019n sucus - 890 ®uıi - 1098 ®(uıi) - 226 ®uıina - 355n, 778n sur - 891, 893, 895, 896 897, 898, 900 ®ur - 617, 888n, 891, 893, 895, 896, 897, 898, 900 sure - 891, 892 sur(e)na - 891 *surva - 897n *survai - 897n surve - 897n suri - 891, 892, 893, 896, 897, 898, 900 ®uri - 617, 684, 750, 888, 890, 892, 896, 897, 898, 900, 904, 905, 967, 968n ®(uri) - 226 ®urileıamsul - 890 *®urina - 892 *suri® - 890, 891 ®uris - 616, 700n, 888, 890, 892, 893 ®uri(s) - 890 [®u]ris - 892n ®urisice - 890 *®urisie - 908 ®urmeınei - 892

indice lessicale *surmi - 892 *®urmi - 892 surmie - 892 ®urnu - 897n ®urnus - 897n surte - 891, 893, 895, 896 surt(e)li - 891 ®urtena - 891 etiu - 355 ®uı - 897 ®uıi - 897 sunıeruza - 430n s¯a[ni]ce, 1015, 1016, 1017, 1018, 1019, 1028 s¯ani¯e - 363 ta - 39, 296n taliıa - 971 tamera - 778, 779 *tameraisca - 778 *tamerasica - 778 tameresca - 777, 778n tamsnies - 981, 1028 tar¯ies - 35 tar¯na - 980, 981 tar¯nalı - 981n tar¯nas - 1067 tar¯umenaia - 35n tar¯(u)nas - 35n tar¯unus - 35 tataie - 280 tatnas - 39 tauturial - 808n te[- - -] - 305n teace - 305 tec - 393, 888n tec(e) - 35n *tec-ie - 393 tecsa - 393n tecsa(n®l) - 892n tecsie - 908 tecum(e) - 35n, 888n tecum(na) - 35n tecumnal - 35n tequnas - 35n tevcrun - 971n *tezie - 393 teıunas - 35n teiıurnasi - 1020 telicles - 978, 979 tera® - 781, 782 tesanıe(i) - 974n tetnis - 955 tetuminas - 35n tina - 621, 807n, 808, 889n

tinana - 1029n tinas - 782 tina® - 218 tinia - 617, 968n tinias - 807n tinnuna - 280, 288, 663, 950 tin® - 218, 897n tipe - 979 tipei - 979 titaias - 808n tite - 241n tmia - 777, 778, 779 tra - 777n trau - 955n truials - 981 tuc(un) - 1047n tuz - 304 tuzu - 1018 tuzu(l) - 304n tuıina - 43n, 698n, 890 tul - 781, 948, 957 tular - 1051, 1052 tularia - 1017n tular(i)a - 43n, 1016 tularu - 1017n tulumne - 35, 679 tulumnes - 335n, 890 *tulune - 35 tunur - 781n turan - 303, 460, 678, 807n, 889, 1069 *turan(n)uva - 1069 turannuve - 1069 turanpi - 888 turce - 23 turzais - 1020n turice - 241n turis - 890 turms - 906 turmsal - 700, 889 turn® - 889 *turs(i)ce - 440 tursikina - 440 turuce - 700n, 701, 777, 808n, 1019n, 1049 turuns - 305 tu¯un - 1047n txu[. .]iı[- - - ?] - 1022 uka - 301n *ucal - 301 ucalu - 301 *uce - 301 ukva - 301n uci - 301 ucial - 301

1191

1192

indice lessicale

ukiia - 301 uku - 301 uve® - 980n uvi - 980n uvia - 980n uvial - 980n uvie - 979, 980 uvies - 980n uıari - 1019n, 1024 uırice - 1015, 1016, 1019, 1024, 1028 ulcnas - 38 umprea - 440n umrana - 440n umrce - 440 umrci - 440n umre - 440 *umrena - 440n umria - 440n umrie - 440 umrina - 440n *umrna - 440n unata - 957 unauras - 355 *unei - 780, 782 uneia - 808n uneial - 782 uneiıa - 782n uni - 621, 775, 781, 782, 783, 807n, 808, 976 unial - 808n unialas - 777n unialıi - 1017 *uniıe - 891n uniıiu - 891 uniiaıi - 807, 808 u[r]ı - 1024, 1028 urıri - 1024 ursus - 980n u®ele - 112 uselnas - 173n, 174n usil - 384 usile - 384, 891 utavu - 304 utavum - 304 uxı - 1024 fa - 317n faltu - 1069 fa(ltu) - 317n farıan - 617, 698n, 713n, 808, 888n farıans - 807n farına¯e - 955 fasti - 895 feleskenas - 241n felsina - 46n, 55

felsna - 37, 46n, 981 felsnas - 46n feluske - 37, 241n, 326, 1048n felzana - 46n felzna - 46n fersifnai - 968n *fersnai - 1048n fersnala® - 1048 fersnalna® - 1048 fersna¯s - 1048 fetiu - 303 fit[- - -] - 303 fit(iu) - 303 fle - 38, 39 flere - 37, 38, 897n f(le)r(es) - 38 fr - 38 fuflunsul - 808n fuflunusra - 616, 967 furine® - 891n furseı(e)nas - 112n furseına - 112, 892n ¯ainu - 219 *¯aire - 981 ¯aireals - 981 ¯airei - 981 ¯airie - 981 *¯airiete - 981 ¯airitna - 982 ¯airitnas - 981 ¯eiritnas - 981n ¯i - 698n, 781 ¯ia - 621, 780, 781, 782, 783, 807n, 976 ¯ias - 782 *¯ie - 781n ¯ielas - 781n ¯im - 781n ¯in[- - -] - 781n *¯is - 698n ¯i® - 781n *¯isvlica - 698n ¯isvlic® - 698n ¯isvli(c®) - 781n *¯isul - 698n [¯i]suli - 698n

[- - -]ai - 1028 [- - -]ainuaıi - 956n [- - -]au - 955n [- - -]af[- - -] - 1025 [- - -]asie - 1028 [- - -]aspe - 1028 [- - -]csne - 363, 1028, 1029

indice lessicale [- - -]e - 302 [- - -]enke - 219 [- - -]venke - 956n xırisna - 355 [- - -]xıunaitla - 34 [- - -]xi - 1049 [- - -]i - 1049 [- - -]ia[- - -] - 1025 x[…]iu[.]a[.]i[. .] - 1026 [- - -]naiesi - 890 [- - -]nas - 856n [- - -]ni - 1049 [- - -]pe[- - -] - 302 [- - -]rnas - 950n [- - -]®erus - 1047 […]ui[.]xxau - 1022 [- - -]ur - 781 ]uniur - 781n xuniur - 781n Greco ·ı·Ó]·È·È - 6 ·ÓÂ[- - -] - 968 ·ÓÂı[ÂÎÂ] - 969 ·ÓÂıÂ]Π- 4n ·ÓÂ[ıÂÎÂ] - 4n ·ÔÏ - 905 ·ÔÏÏ(ÏÔ‰ÔÚÔ˜) - 978 ·ÔÏ(ÏÔÓ) - 976n ·ÔÏÏ(ÏÔÓÈÔ˜) - 978 ·Ù·Ù·È·˜ - 1069n ‰·Ì·[- - -] - 969 ‰·Ì·ÙËÚ - 969 ‰Â·ÏÎÔ˜ - 305n ‰ÂÈ - 6 ‰ÂÈ·ÎÔ˜ - 305, 978n ‰ÂÈ·ÏÎÔ˜ - 305n ‰Ë - 12 ‰ËÌ[ËÙ] ÚÈ - 970 ‰È - 6 ‰ÈÔ - 6 ‰ÈỔ[ÂÈ] - 5 ‰È[ỔÂÈ] - 10 ‰]ÈÔ[̉ÂÈ] - 6 ‰ÈÔÌˉÂÈ· - 8 [‰Ô]ÚÔ[Ó - 6 ‰˘Ô - 969 ‰ˆÙÈÓË - 6 ÂÈ - 969 Â˘Ì - 296n

Â˘Ì·¯Ô˜ - 970 ¢ÔÈÓ - 989 ËÚ - 975 ËÚ· - 783, 975 ËÚ˘ - 975n ıÂÔ - 8

[hÈÂ]ÚÔ[Ó - 6 ÈÓ· - 12 ηÈÓÔÓ - 219 ηÈÓÔ˜ - 219 ηÏÔ˜ - 966 ÎÔÚË - 969 Ï·Ú - 111 Ï·ÚÔ˜ - 111 ÏÈÁ˘˜ - 225 ÏÈÁ˘ÛÙ˘ - 224 ÏÈÁ˘ÛÙÈÎÔ˜ - 224 ÌËÙÚˆÓ - 305n Ó·گԘ - 1069 ÔÌ - 6 Ô˘ÂÏÂÛÔ˜ - 201 Ô˘ÔÏÔÛÛÔ˜ - 201 ·È˜ - 966 ÚÂÙ - 974 ÛˆÎÚ·(Ù˘) - 978 [Ûˆ]ÛÙÚ·ÙÔ˜ - 968 ÙËÂÈ - 970 ÙÈÌÔÓȉ·˜ - 856n Ù˘ÚÛ·ÓÔ˜ - 1067n ˘ÊÛÔ[ÎϘ - - -] - 175 Ê·ÏÈÛÎÔÈ - 241 ¯·Ú˜ - 856n X™ - 12

[- - -]·˜ - 10 [- - -]È - 969 [- - -]ÎÔÚ[- - -] - 969

1193

1194

indice lessicale

[- - -]ÛÔÓ[- - -] - 973 [- - -]ÛÙÚ·ÙÔ˜ - 968

licinius - 895n loucios - 964 lue - 989 luem - 991 Latino

anabestas - 247 antonios - 1081 apollo - 351 appius - 948 aufidius - 894 bonum - 963 c[- - -] - 964 karkavaios - 948 cccccccccii - 310 cea(r)t(ia) - 895 ciartus - 895n consiliavit - 963 dardanium - 948, 957 deabus - 351 dionisius - 895 dis - 351 docetius - 239n doxa - 908 duenos - 951 eco - 1081 [e]ia - 963, 965 esom - 1080n falisceis - 241n fast(ia) - 895 gaius - 895n gnaivod - 954 granius - 431n hanc - 963 hercules - 352 i(o)uniei - 953n istor - 908 iuppiter - 351, 352 lab(e)ri(us) - 37n ladumeda - 908 [lai]uiei - 953n lauis - 908 leces - 908 libertas - 351

malos - 990n mamarcom - 962, 963 mamarcos - 962, 964 manios - 174, 309 mater - 352n med - 990n minerva - 351 musinus - 352 nei - 990n ni - 989, 990 nic(er) - 895 niger - 896 nigidius - 894, 895, 896 *nigido - 895 *nigus - 896 norbanus - 393n obilius - 948 *opesici - 241 *opesci - 241 *opsci - 241 pari - 990n pater - 713n patre - 954 pitumnus - 351 placiom - 962, 963 *placios - 962, 963 porcius - 69 posqos - 311, 319 prognatum - 954 prognatus - 954 publio - 954 pyrgensis - 713n qui - 963 quintius - 894 ranius - 431 remureine - 246, 247 rosius - 1024 rusius - 1024 sabeinus - 247n soresios - 892, 908 sors - 895, 896 sortes - 894, 895, 896

indice lessicale sortius - 894n stata - 352n surtius - 894n tarenteinus - 247n tatod - 990n tescum - 403 tita - 950 tolonio(s) - 35, 335n, 686 tonans - 352 tromentina - 894 veii[- - -] - 342n *velesici - 202, 241 *velesci - 241 vendia - 950 vetusia - 948, 950n viam - 963 victoria - 351 virum - 963 *volsci - 241 [- - -]ia - 962 [- - -]seliam a [- - -] - 1033n [- - -]sfliam a [- - -] - 1033 [- - -]uiei - 953n Altre lingue dell’Italia antica adaries (pal.-ital.) - 1081 adro (um.) - 896n aev (lep.) - 430 aisos (os.) - 890n apolonos (fal.) - 906 *arveíen (pal.-ital.) - 1083 arvíen (pal.-ital.) - 1083 arvo- (pal.-ital.) - 1083 *aternoi (pal.-ital.) - 239 atrno (pal.-ital.) - 239, 241 *auselo (sab.) - 384 belleno- (celt.) - 432n brímeqlúí (s.-pic.) - 239n kaialo- (ven.) - 174 kaios (fal.) - 174 cais (um.) - 174 caisioi (fal.) - 237 cauio (fal.) - 241 kdufenio- (s.-pic.) - 432n qdufeniúí (s.-pic.) - 239n cnaives (pal.-san.) - 1081 cnaiviies (pal.-san.) - 1081n

combifiatu (um.) - 940 kpp (lep.) - 439n krematra (um.) - 430n *culsanus (ret.) - 891n quormsklp (lep.) - 439n kusenku (ret.) - 956n kusenku(s) (ret.) - 956n cuslanus (ret.) - 891n doukioí (pal.-sab.) - 239 eluveitie (um.) - 433n esum (pal.-ital.) - 1080, 1081 efidans (s.-pic.) - 124n efies (pal.-ital.) - 1081 valaimo- (os.) - 202 vbr (um.) - 438 *veles(s)o (pal.-sab.) - 202 veskla (um.) - 430n vindo- (celt.) - 197n *vobos (um.) - 941 vofionio- (um.) - 940 *vofos (um.) - 941 *volaio- (os.) - 202 volaisumo- (os.) - 202 *volio- (os.) - 202 vollo- (os.) - 202 volo- (os.) - 202 vufru (um.) - 939, 941 v(u)fr(u) (um.) - 940 *zor (fal.) - 891 zuconia (fal.) - 1019 hu®inies (pal.-san.) - 1081n iuka (um.) - 430n iúkúí (vol.) - 239n iuvie (um.) - 237 latinaio (fal.) - 241 [- - -]lkx[--] (p.-ital.) - 1081n loiferta (fal.) - 940, 941 louco- (ital.) - 202n loukio (ital.) - 69 loudera (pal.-ven.) - 940, 941 loufir (pel.) - 940, 941 loufro- (os.) - 941 luvcies (pal.-san.) - 1081n lúvfreís (os.) - 940 mamerces (pal.-san.) - 1081n mefistrúí (s.-pic.) - 239n

1195

1196

indice lessicale

mesúuos (nov.) - 429n múreis (s.-pic.) - 335n

sum (pal.-san) - 1081 supunne (um.) - 892n

niru (um.) - 896n no (os.) - 241n nurtins (um.) - 342n, 891

tefra (um.) - 430n tefre (um.) - 237 titieno- (s.-pic.) - 432n titúí (s.-pic.) - 239n touto (s.-pic.) - 203 tútas (s.-pic.) - 124n

*ozel (um.) - 384 ombriíen (s.-pic.) - 440 p[a]ces (pal.-ital.) - 1081 pakis (san.) - 1081n pa(cris) (san.) - 890n pao (os.) - 241n pauks (os.) - 241n pauqs (os.) - 241n pafìeis (pal.-ital.) - 1080 peio (um.) - 896n plioiso (lep.) - 226 polies (os.) - 241n porca (um.) - 69 porco (um.) - 69 posmúi (s.-pic.) - 239n prn (lep.) - 439n *raki (s.-pic.) - 124n rakoi (ven.) - 174n *rana (um.) - 430 raneno- (cel.) - 432n ranu (um.) - 430 *ranum (um.) - 430, 431n rofu (um.) - 896n rufieis (pal.-ital.) - 1080 rufru (um.) - 896n sakaraklúm (os.) - 627 sacru (um.) - 892n sekenei (ven.) - 891n septumos (ital.) - 755n setupk (lep.) - 439n *sor (fal.) - 891 *sordo- (um.) - 896n sorex (fal.) - 893n spt (lep.) - 439n

ub(e)r (um.) - 440 úvis (os.) - 980 u(m)b(e)r (um.) - 440 uelaimes (s.-pic.) - 202 uelaimo (pal.-sab.) - 202 uelio (s.-pic.) - 202 uelos (fal.) - 202, 1017n uobos- (pal.-ital.) - 124 uobúr (pal.-um.) - 940, 941 uobúrí (pal.-ital.) - 124, 939, 941, 1083n *uobúseí (pal.-ital.) - 124, 941, 1083n uofiono- (um.) - 124, 940, 941 *uofo- (um.) - 941 *uofoio- (um.) - 941 *uofoiono- (um.) - 941 urufieis (pal.-ital.) - 1080 fagsto (ven.) - 1022 falesce (fal.) - 241 falisci (fal.) - 241 *falisici (fal.) - 241 falsc- (sab.) - 237 falsci (sab.) - 241 *falsciui (sab.) - 237 *falscui (sab.) - 237 flaviies (pal.-san.) - 1081 fufvod (en.) - 202 fufuvod (en.) - 202 [- - -]ciui fahls[c - -] (sab.) - 234, 237 Altre lingue *leudh- (ind.-eur.) - 124, 940

INDICE DEI N O M I A cura di Daria Colonna Sinisgalli e Alice Landi

Abbadia, castello dell’ (Canino) 1157 Abdera (Tracia) 768 Abderos, eroe greco 768, 769 Abella (Avella, av) 626 – Abellano, Cippo (Nola, Seminario arcivescovile) 497 Abbada (Alentejo, Portogallo) 325 Aborigeni, popolo mitico dell’Italia 425n Abruzzo 51, 53, 135, 199, 204, 369, 372, 374, 403, 404, 412-414, 416, 417, 665 – Soprintendenza Archeologica dell’ 373, 374, 397n Acaia, regione (Grecia) 89, 611, 703 Acarnania, regione (Grecia) 1044n Acasto, re di Iolco (Tessaglia) 908 Acca Larentia, personaggio mitico 703n Acconcia, Valeria 39n, 40n Acerrae (Acerra, na) 1018n Achei 89, 91, 93, 139n, 141, 274, 426, 427, 908 Acheloo, divinità 628, 685, 751, 752, 754-756, 879 Acheruntici, libri 712 Achille 27, 197, 611, 702, 756, 906n Acqua Acetosa Laurentina v. Roma Acquafredda (Agro Romano) 352 Acquapendente (vt) 42n, 804n Acquarossa (vt) 42, 57, 106, 122, 128, 187, 204, 259n, 306, 630, 670, 763n, 790n, 847, 869, 870 Acquatraversa (Agro Veiente) 338n, 352 Acuto, monte (Umbertide, pg) 393, 394, 490, 500, 503, 504 Acvilnas, Avile 472n Adam, Anne-Marie 716n, 718, 719n Adaries, Paces (Vico Equense, na) 1081 Ade, divinità 35, 127n, 617, 628, 897-899, 906n, 967, 969, 970, 1109, 1114, 1174 Adige, fiume (Trentino Alto-Adige, Veneto) 200, 212, 434, 435, 434, 435, 1047 Adone, paredro di Turan/Afrodite 765, 775n, 782n Adrasto, eroe greco 803 Adria (ro) 11, 12, 18-20, 46, 97, 155, 159, 162, 163, 165-176, 200, 204, 288, 301, 302, 309, 412, 424, 427, 428, 433, 439n, 594n, 949, 1134, 1135n – golfo di 428 Adriatico, mare 3, 4, 6, 7, 8n, 10, 12, 13, 15, 18-20, 49, 52, 54, 58-60, 78, 101, 115, 129, 155, 157-159,

162-169, 175, 183, 199-201, 203, 204, 207, 211, 221, 242, 271n, 289, 294, 379n, 426, 427n, 434, 500, 552n, 645 Adriano, P. Elio, imperatore 331n, 556 Aethra, titanide 808 Africa 785, 976 Afrodite, divinità 305, 306, 471n, 547, 630, 758n, 765n, 775, 785, 899, 977 Afrodite, santuario di (Erice) 747 Afuni Larth, urna di (Siena) 727, 731 Agamennone, eroe 88-90, 102, 141, 197, 276, 426, 426, 702, 908 Agatharchos di Samo, pittore greco 825 Agatocle, tiranno di Siracusa 976, 977 Agde (Linguadoca-Rossiglione) 292 Agnone (is) 627 Agostiniani, Luciano 310n, 393n, 1051, 1068, 1080n, 1081, 1133n Agostino d’Ippona, dottore della Chiesa 584, 871 Agrigento 342n Agro Romano, Carta archeologica dell’ 1035, 1036n, 1038, 1039 Aguzzo, monte (Veio) 346, 353 – tumulo di 344, 345 Agylla v. Caere Agyllei, v. anche Ceriti 79, 82, 83, 591 Agylleus, figlio di Eracle 774n Agyrion (Agira, en) 769n Agrios v. Agrio Agrio, re latino 96, 142, 271 Aiace di Oileo 459, 702, 908 Aiace suicida da Populonia, bronzetto (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 798n Aiace Telamonio, 459, 702, 1065, 1067, 1068n, 1070 Aielli (aq) 408 – gruppo, dischi bronzei 373, 378, 404, 408, 413, 414 Aigesta, donna troiana 787 Aigestos, eroe elimo 787 Aineia (Calcidica) 459, 460, 464, 473 Aita, dio etrusco, v. anche Ade 900n Aius Locutius, divinità romana 507 Akara, ipotetico nome di luogo etrusco 1018 Akrai (Palazzolo Acreide, sr) 970n

1198

indice dei nomi

Akrathe, gigante 28 Alalia (Corsica), v. anche Aleria 76, 77, 79, 80, 82, 281, 282, 293-295, 297, 298 Alalíe v. Alalia Albacete della Mancia (Castiglia-La Mancia) 322 Alcesti, eroina greca 770n Alatri (fr) 526n Alba Fucens (Massa d’Albe, aq) 374, 408, 409, 431n, 473n – gruppo, dischi bronzei 369n, 374, 378, 382, 404, 408, 409, 435 Alba Longa 474n, 755 Albegna, fiume (Toscana) 97, 122, 186, 196, 1048 Alburnus, portus (foce del Sele) 741n Alcamene, scultore greco 469n Alcibiade, politico greco 788n, 828n Alcimo, storico siceliota 103, 117, 142n Alcmane, poeta greco 166, 200, 756 Alentejo, regione (Portogallo) 322, 325, 326 Aleria (Corsica), v. anche Alalia 21n, 62, 75n, 76, 97, 294n, 302n, 304, 307n, 329, 387, 464n, 647, 980 Alessandria (Egitto) 552, 907 Alessandro Magno 114, 723, 725, 768, 769 Alessandro III, papa 3 Alethna, gens etrusca 37 Alfabeto, tomba dell’ (Colle Val d’Elsa, si) 662 Alfedena/Aufidena (aq) 21n, 163, 370, 371, 401, 417, 432n, 435n – anforette tipo Alfedena 647 – gruppo, dischi bronzei 370n, 386, 387 Alfieri, Vittorio Amedeo 1141 Alföldi, Andreas 1168, 1180 Algarve, regione (Portogallo) 322 Alghero (ss) 568, 592 Alicante (Valencia) 328 Alkisthenes, nobile italiota 747n Allia (fiume), battaglia dell’ 507 Allumiere (rm) 96 Almagro-Gorbea, Martín 320 Al Mina (Siria) 989 Almodóvar (Alentejo, Portogallo) 325 Alpi, catena montuosa 424 – Apuane 137n Alsa, mese etrusco 813 Alsietinus, lacus, v. anche Martignano, lago di (rm) 352 Alsium (litorale cerite) 76, 145n, 738, 739, 790 Altheim, Franz 15, 19 Altino (ch) 428n Alvino, Giovanna 163 Amadasi, Maria Giulia 587

Amalfi (sa) 538n – Ducato di 538n Amaltea, ninfa 756, 788n – Corno di 779n Amandola (fm) 557 Amaseno, fiume (Lazio) 432n Amasenus v. Amaseno Amasi, faraone 28 Amatrice (ri) 372n, 404n Amazzoni 716, 762n, 767, 768, 788n, 805, 809 Amazzonomachia 529n, 531n, 716n, 765n, 768, 772, 792n, 801n, 803 Ambrosini, Laura 447n, 686, 1013n Amburgo, Gruppo (statuaria etrusca) 532, 534n Amburgo, Museum für Kunst und Gewerbe 716n Amelia (tr) 125, 127n, 130, 904, 943 – v. Pantanelli, necropoli di Amerina, via 393, 500 Ameti, Giacomo Filippo 753, 813 Amiata, monte (gr) 186 Amico, re dei Bebrici 900n Amilcare Barca, generale cartaginese 788n Aminei, popolo campano 280 Amiternum (aq) 21, 204 Ammiano Marcellino, storico romano 693 Amorgo, isola (Cicladi) 1044n Amorelli, Maria Teresa 1172n Ampelos, loc. ligure (im) 207, 295 Ampolo, Carmine 141, 158, 166, 223, 286, 458n, 467, 473 Ampurias (Catalogna) 319 Amsterdam, Gruppo (statuaria etrusca) 534n Amulio, re di Alba Longa 335n Amyclae (Lazio) 774n Amymone, sorgente (Argolide) 766 Amyx, Darrell Arlynn 853n, 864, 865 Anagni (fr) 60, 122n, 409, 990n – S. Cecilia, santuario di 858n Anaie, [- - -] 363, 1025 Anassilao, tiranno di Reggio 68, 91, 94, 283, 787, 788 Anatolia 1174 Anaunia (Val di Non, tn) 974 Ancarano (te) 1018n Anchisa (Lazio) 473 Anchise, padre di Enea 457-462, 464-466, 469n, 470 Ancinies, Velthur, ceramografo veiente 853-866, 871 Anco Marcio, re di Roma 76, 253n, 339, 447, 1055 Ancona, Amilcare 404, 408 – collezione 408

indice dei nomi Ancona 19, 52, 56-58, 116, 147, 157, 162, 163, 200, 206, 416, 425-428, 1153n – Museo Archeologico Nazionale 547, 557, 874 Andalusia (Spagna) 321, 322, 331 Andreae, Bernard 718n Andronico, Livio, poeta romano 968n Anfiarao, eroe greco 798n, 799, 803n Anfitrite, nereide 1139 Angitia (Luco dei Marsi) 473 Angizia, dea marsica 385 Anguillara Sabazia (rm) 1036, 1039n, 1165 Aniene, fiume (Lazio) 20, 60, 63, 247n, 248, 252, 337, 403, 1048n Annibaldi, Giovanni 369, 371 Annibale 46n annibalica, guerra 39, 41, 331, 726, 806, 949 Annio da Viterbo 503 Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche 561 Ansciano, monte (Gubbio) 394n, 499, 505 Antemnae (rm) 248, 253n, 264n, 337, 351 Antenore, eroe troiano 162n, 167, 200 Anteo, gigante 796 Antibes (Costa Azzurra, Francia), v. anche Antipolis 224, 296, 318, 472n – relitto di 293, 296, 318 Antigono II Gonata, re macedone 714n Antiochia (Siria) 693 Antioco I di Commagene, re 564 Antioco di Siracusa, storico 19, 90, 115n, 116, 147, 210, 279, 472 – perì Italías 472n Antioco Hierax, re di Siria 730 Antion v. Antipolis Antipolis (Antibes) 295, 472 antiquaria romana 247, 265, 335-337, 383, 587 Antistene, filosofo greco 724 Antonini, Rosalba 1081n Antonino Augusto, imperatore 556 Antonino Liberale, scrittore 9 Antrosano (Avezzano) 408, 409 Anzio (rm) 219, 385n, 917 – Anziati 26, 319n Apa, epiteto divino etrusco 616-617, 698, 891, 900n, 968n, 972n, 973n, 976n Apamea (Siria) 693n – pace di 733 Aphaia, santuario di (Egina) 781, 1065 Apiro (mc) 640 – Giove da, bronzetto (Kansas City, Museum) 546, 547 Aplu, dio etrusco 684, 700n, 701, 717n Apollo, divinità 27, 29, 47n, 79, 82, 83, 145, 165, 211, 283, 349, 351, 554, 571n, 617-619, 630, 678,

1199

684-686, 691, 700-703, 704n, 711, 712n, 717, 739n, 755, 788n, 874, 877, 880, 882, 887, 888, 893, 897, 898, 905, 906, 907n, 908, 923, 968, 970, 976n, 978n, 1131, 1153 – Aleo, v. Punta Alice – Delfico 703n, 906 – del Triopio 542 – Iperboreo 712n – Licio 704, 887n, 1045n – Mageíros 906n – Palatino 902 – Sorano 703n, 906n – Sourios 887, 906 – Timbreo 702n – Tirreno 283 Apollo, Maestro dell’, coroplasta veiente 349, 453, 454, 566, 682, 684, 700n, 878, 880, 882, 883 Apollo dell’Agorà di Atene, statua bronzea 553 Apollo del Pireo, statua bronzea (Atene, Museo Archeologico del Pireo) 553 Apollo di Mantiklos, bronzetto (Boston, Museum of Fine Arts) 965 Apollo di Veio, statua fittile (Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) 349, 452, 676, 686, 880, 881, 1125, 1128, 1130, 1171 Apollo Pizio di Samo, statua perduta di Telekles e Theodoros 551-553 Apol(…), ceramista 978 Apollonio Rodio, poeta greco 271 Apollonios, scultore greco 872 Appennini, monti 19, 45, 47, 49, 52, 60, 116, 128, 212, 213, 224, 384, 403, 408n, 411, 423, 425, 428, 430, 434, 639 – Appennino abruzzese 17, 375 – Appennino bolognese 341 – Appennino romagnolo 136, 411, 424, 434 – Appennino tosco-emiliano 48, 221 – Appennino umbro-marchigiano 375, 415 Appia, via 247n, 257, 628 Apulia 9, 10, 12n, 19, 20, 62, 211, 221 Apunie, Mamarce 472n, 950 Aquae Caeretanae (Sasso di Furbara) 467, 774n Aquae Salviae (Agro Romano) 254n, 265 Aquae Veientanae (Campetti) 467 Aquileia (ud) 168, 423, 894n Aquilii, gens vulcente 589 Aracena (Andalusia) 322, 324 Ara della Regina, tempio dell’ (v. Tarquinia) Arae Muciae (Veio) 352 Arcadia, regione (Grecia) 898, 899, 1044n Ardea (rm) 255, 257, 270, 472n, 589, 847, 904n, 964n, 976n – Aphrodisium 847, 899n

1200

indice dei nomi

– Banditella, santuario 847 – ripostiglio dei bronzi di (Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”) 987 Ardenno (so) 432n Arduenna, selva (Gallia Belgica) 432n Arduini, Luigi 353n Arena, Renato 1035, 1074 Ares, divinità 27, 211, 212 Arezzo 113n, 309, 436, 438, 454, 455, 484n, 505, 618, 619, 684, 703, 723, 731, 772, 800, 811, 841, 892, 904, 967, 979, 1033 – Archivio Gamurrini 549n – Chimera di (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 535, 554 – v. Catona, santuario – Museo Archeologico Nazionale 24n, 437n, 901n – S. Iacopo, tempio di 703, 772, 800n Argantonio, re iberico 210 Argo (Argolide) 8n, 199, 769, 811 – Argivi 798n, 801, 811 Argolide, regione (Grecia) 766n, 899 Argonauti 73, 140n, 165, 473n, 671 Arianna, principessa cretese 671, 801n, 1017n, 1029 Ariano nel Polesine (ro) 166 Arias, Paolo Enrico 33, 257 Ariccia (rm) 26, 68, 73, 117, 152, 264, 549, 551, 976n – Aricini 18 – battaglia di 18, 26, 27 – v. Casaletto, stipe del Aricia v. Ariccia Aricinum, nemus 953n Arimnesto, re etrusco 872 Aristarche, sacerdotessa 76, 82 Aristea di Proconneso, iperboreo 887n Aristodemo, tiranno di Cuma 17n, 18, 23, 26, 27, 139n, 283, 541, 589 Aristofane, commediografo 617 Aristonothos, ceramista greco 665, 669, 978 Aristotele, filosofo 103, 167, 170, 279n, 428, 590 Aritimi, dea etrusca 303, 678, 888, 889 Arna v. Civitella d’Arno Arne (Beozia) 90, 91 Arniensis/Arnensis, tribù 341, 1041n, 1047n Arno, fiume (Toscana) 212, 213, 221, 326 Arnth Savpunias 23, 25-27, 34 Arntni Vel, sarcofago di (Museo di Chiusi) 730 *Arnus, fiume, v. Arrone 1047n aruspici 107, 363, 485, 590, 704, 832, 841, 881, 887 Arpi (fg) 159

Arringatore, statua dell’ (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 35n, 40, 454, 482-484, 485n, 506, 507, 698n, 889 Arrone, fiumi (Lazio), 340, 341, 351, 352, 1036, 1040, 1041, 1047 Arruns v. Arrunte Arrunte di Chiusi 18, 23, 26, 68, 69, 73, 100, 107, 112, 117, 567n Artemide, divinità 165, 455n, 684, 718, 889n, 968n Artemidoro di Efeso, geografo greco 907n Artemis v. Artemide Artemisio, dio dell’ (Atene, Museo Archeologico Nazionale) 553 Artena (Etruria e Lazio) 340n, 342n, 1040, 1054, 1055, 1058 Artumes, dea etrusca 633, 892n Arusini Campi (Campania) 1047 Arusnates, gens retica 1047 Ascanio, figlio di Enea 459, 460, 464, 465, 473 Asciano (si) 657 Asclepiade di Tragilo, scrittore greco 90n Asclepio, divinità 588, 691n, 724n, 810n, 812 Ascoli Piceno 21, 114, 130, 199 – ascolano, territorio 370n Ashby, Thomas 1039n Asia Minore 27, 88, 146n, 170n, 294, 665, 723 Asili, popolo mitico del Piceno 59 Asine (Argolide) 935 Assiria 569n – Assiri, popolo 1146 Assisi (pg) 393, 394n, 396, 397, 400, 401n, 402-404, 407-411, 413, 415, 432, 494, 497 Assteas, ceramografo pestano 523n – cerchia di 523n Assteas-Python, cerchia di 523n Astarita, idria (Città del Vaticano, Musei Vaticani) 459 Astarte, divinità 82, 103, 357, 359, 471, 579, 583, 584, 587-590, 592, 594, 621, 637, 763n, 765, 768n, 775-777, 779, 783-785, 787, 806, 808, 809, 930, 976, 977, 1174 Astianatte, troiano 702n Atalanta, eroina greca 1113n Atalena ±ea, epiteti di Tinia 780, 782 Atena, divinità 6n, 8, 9n, 12, 27, 159, 164, 349, 471n, 667, 668, 684, 702, 770, 772, 773, 774n, 775, 787, 796n, 798, 800, 803, 808n, 809, 812, 905n, 929, 930, 1106n, 1113 – Promachos 27, 30, 553 Atena Areia, tempio di (Platea) 702n Atene (Attica) 12, 27, 80, 102, 105, 170, 175, 201, 202, 296, 344, 428, 464n, 467, 473, 519n, 534n,

indice dei nomi 553, 559n, 681, 702, 709n, 787n, 825, 882, 890n, 907, 970, 1165, 1171, 1172 – Acropoli 105, 170, 533n, 534n, 553n, 681, 751n, 770, 772, 774n, 899, 1106n – Agorà 1067n, 1069n – v. Dipylon – Museo Archeologico Nazionale 730 – v. Partenone – Scuola Archeologica Italiana 735n, 1171 Ateneo di Naucrati, erudito greco 104, 105 Ateniesi 12, 25, 79, 96, 166, 167, 175, 201, 795n Aterno, fiume (Abruzzo) 52, 58, 203, 204, 642 Aternus, dio italico 898 Athanasia, personificazione dell’immortalità 796n, 801n, 809n, 1113 Athena v. Atena Athenodoros di Sandon, storico 17, 115 Atlante, gigante 455 Atlantide 139 Atri (te), v. anche Hatria 19, 34, 170n, 200, 417 Atta Clauso, nobile sabino 20, 21n, 31n, 63, 117, 118, 410 Attalo I Sotere, re di Pergamo 723, 724, 728, 730 attica, ceramica – Bespoken vases 713 – v. Brygos, Pittore di – v. Chiusi, Pittore di – v. Dinos, Pittore del – v. Duride – v. Eufronio – Gela, Pittore di 459n, 461n – Gigantomachia di Parigi, Pittore della 787n, 791 – v. Exechias – Floral Band Cups 610 – v. Fonderia, Pittore della – idria a figure nere (London B 318) 1092n – v. Kadmos, Pittore di – v. Kleophon, Pittore di – v. Kleophrades, Pittore di – v. Leagros, Gruppo di – v. Lydos – v. Makron – v. Meleagro, Pittore di – v. Oltos – v. Onesimos – v. Pentesilea, Pittore di – v. Phanyllis, Gruppo di – v. Phintias e Euthymides, cerchia di – Polignoto, Gruppo di 456 – v. Priamo, Pittore di – v. Semele, Pittore di – v. Sotades, Pittore di

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– Stieglitz, Pittore di 791, 800 – Suessula, Pittore di 519n – Syriscos, Pittore di 615 – v. Tyskiewicz, Pittore di Attica, regione (Grecia) 522, 562n, 890 Audena, fiume (Emilia) 432n Auguri, tomba degli (v. Tarquinia) Augusta, fossa (delta padano) 426n Augusto, C. Giulio Cesare Ottaviano, imperatore 17, 53, 53, 57, 111n, 112, 115, 247, 248, 341, 357, 459, 502, 741n, 902, 947, 1140 Auleste, fondatore di Perugia 411, 427n Aunus v. Ocnus Aureli/Auseli, gens 383 Aurelia, via 145n, 338n, 340n, 352, 736n, 737, 744n, 927, 1041n Aureliano, L. Domizio, imperatore 58 Aurigemma, Salvatore 469n, 676, 1127, 1128n, 1129 Aurora, divinità, v. anche Eos 807-810 Aurora, Pittore dell’ 522 Auser v. Serchio Ausone, re mitico 88, 141, 274, 277, 539 Ausoni, popolo d’Italia 89, 91, 92, 95, 142, 223n, 271, 272, 274, 279, 539, 541, 1048n Ausonio I, cultura di 275, 277 Ausonio II, cultura di 275 Ausonio, mare, v. anche Tirreno mare 271, 272, 274, 276 Aveia (aq) 54 Aventino, colle (v. Roma) Averno, lago d’ (Campania) 35, 271n Avezzano (aq) 374, 377 Avieno, Rufo Festo, poeta latino 210 Avori, circolo degli (Marsiliana d’Albegna) 662 Avvolta, Carlo 1111 Avvolta, tomba (Tarquinia) 1159n

babilonia (Mesopotamia) 589n Baccano, lago di (Lazio) 352 Bacchiade, stirpe 669 Bacchilide, poeta greco 930 Bacco, divinità 1101, 1104, 1111, 1113, 1115 Backe-Forsberg, Yvonne 935n Baffioni, Giovanni 1173 Baglione, M. Paola 615, 681, 686, 735, 736, 876, 905, 943n, 970, 971n, 1126, 1173, 1174 Baglioni, Francesco 493n Bagni di Stigliano (Canale Monterano, rm) 703 Bagnolo San Vito (mn) 97, 424, 433, 891n, 898n Bagnoregio (vt) 41, 43, 44n, 66, 782n, 834 Bailey, Donald Michael 1090n Baltimora, Museo 569n

1202

indice dei nomi

Banditaccia, necropoli della (Cerveteri) 360, 590, 975, 979, 993, 995n, 997 – Affienatora, carrareccia dell’ 996n – “Autostrada” o della “Nuova Via”, settore dell’ 995, 997 – magazzino degli scavi 995 – Laghetto, settore del 1007n – Monti della Tolfa, via dei 1011n – Principale, via 996, 1011 – Sepolcrale Principale, via 360, 995, 998, 1013 – Tegola Dipinta, zona della 996n, 1011n – cd. Vecchio Recinto 360, 995, 1011n Banti, Luisa 402, 1172 Bantia (Banzi, pz) 841 Barano (vt) 42, 43 Baratti, golfo di (Piombino, li) 304 Barbarano Romano (vt), v. anche San Giuliano – Valle Cappellana 562n, 790n barbari 18, 20, 55, 57, 79, 92, 94, 101-103, 117, 138, 139, 142, 145, 146, 148, 175, 200, 212, 213, 423427, 472, 709, 712, 717, 718, 721n, 722-724, 768n, 872, 899, 973 Barberini, Sergio 357n, 378, 382, 386, 397n, 401, 451n, 465n, 493, 494, 495n, 496, 520, 521, 523525, 579n, 581, 582, 691n, 736n, 815n, 843n, 853n, 854, 855, 857, 923, 961n, 990, 995, 1034, 1042-1044, 1046, 1066, 1097, 1098 Barbi, Luciano 656 Bari 907 Barletta, colosso di 551n Barnabei, Felice 370, 845 Barocelli, Piero 372n Barracco, Giovanni, barone 569 Bartholdy, Jakob Ludwig Salomon, collezione 548n Bartoloni, Gilda 39n, 286, 350n, 447, 571, 652, 658, 987, 1173 Barumini (ca) 153 Baschi (tr) 125 Basilea, Antikenmuseum 469 Basta, collezione (Canosa, ba) 1153, 1161 Bastia Umbra (pg) 396, 397, 400, 401n, 402, 403, 408, 409, 413, 415 Bats, Michel 291, 293, 318 Battaglia di Alessandro, mosaico della (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) 1152 Battisti, Carlo 431 Baveno (vb) 432n Baza (Granada) 331 Bazzano (L’Aquila) 407 Beati, isole dei 711, 829 Beazley, John Davidson 716n, 718, 865, 1065, 1067, 1113

Becatti, Giovanni 1167 Bedini, Alessandro 265n Belelli Salvago Marchesini, Barbara 38n, 447n, 736n, 792n, 927, 904n, 930, 995 Bellante (te) 645 – stele di (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) 1080n Bellarmato, Girolamo 813 Bellelli, Vincenzo 387 Belli, Giuseppe Gioacchino, poeta 1144 Bellona, divinità 30n Bellori, Giovan Pietro 691n Belloveso, principe celta 221, 307, 424, 722 Belmonte Piceno (fm) 158, 164, 639, 640 Bellucci, collezione (Perugia) 373, 403n, 404n, 408n, 413, 416, 417 Benelli, Enrico 595, 947, 948n Benevento 437n Bentz, Martin 39, 40 Benveniste, Émile 940 Beoto, eroe 92 Beozia, regione (Grecia) 139, 703 Bergama v. Pergamo Berkeley, Museum of Anthropology 865n Berkshire, contea (Inghilterra) 1092n Berlino 1129, 1166 – Accademia delle Scienze 1167 – Charlottenburg, Antikenmuseum 693, 695, 803n – Musei Statali 404-406, 408, 538n, 540, 547, 548, 559n, 564, 691, 693, 792, 875, 1112n, 1157n – ex Museo Reale 1090n Berman Eugene, collezione 530n, 531n Bermond Montanari, Giovanna 183, 429n, 955n Bernabò Brea, Luigi 88n, 274, 277 Betham, William 1091n, 1112n, 1114 Bettona (pg) 838, 893 – pietra di 892 Bevagna (pg) 60, 404 Bevilacqua, Gabriella 691 Bianchi Bandinelli, Ranuccio 815, 927, 1166, 1167, 1171 Bibbia 545, 584 Biduino, scultore 558n, 563 Biella, Maria Cristina 1039n Bienkowski, Piotr 716n Bighe, tomba delle v. Tarquinia Bignasca, Andrea 469n Biondi, Luigi 353 Birch, Samuel 1092n, 1112n Bisenzio (vt) 42, 44, 183, 186, 190n, 193n, 194, 937n, 943n Blacas, duca di 369n

indice dei nomi Blera (vt) 352, 355, 535n, 609, 613, 656, 800, 811n, 1016n, 1018n, 1025 – v. Grotta Porcina Bloch, Raymond 38n, 45 von Blumenthal, Albrecht 431n Boardman, John 1067 Boccanera, lastre dipinte (Londra, British Museum) 454n Bocchi, Francesco Maria 169, 171n Boccea (Roma) 352 Bocchi, Ottavio 1135n Bodincus v. Po Boehlau, Pittore di 672 Boitani, Francesca 385, 448n, 509n, 589n, 676, 855 Bologna/Bononia, v. anche Felsina 12n, 96, 125n, 166, 173, 183, 200, 219, 220, 288, 301n, 345, 411, 417, 424, 429, 430, 433, 440, 631, 643, 655, 661, 664, 684, 703, 716, 801n, 939n, 950, 951, 956, 962n, 974, 987, 989, 1019n, 1073, 1139, 1141n – Accademia Clementina 1139 – Benacci-Caprara, sepolcreto 989, 1159 – v. Certosa, necropoli della – De Lucca, sepolcreto 956 – v. Fondazza via, cippi di – Giardini Margherita, necropoli 956 – v. Malvasia, pietra – Museo Civico Archeologico 351n, 439, 957 – S. Francesco, ripostiglio di (Bologna Museo Civico Archeologico) 303n, 664, 950, 962n, 987n, 989 – San Vitale 651 – Tofane via, cippo di 664 – Università degli Studi di 529n, 735n – cattedra di Etruscologia e Archeologia italica 529n – Villa Cassarini 684, 703 – v. Zannoni, stele Bolognese, territorio 432, 438, 719, 720 Bolsena (vt), v. anche Volsinii 33, 34, 36-38, 4044, 187, 194, 196, 321n, 342n, 432, 606, 617, 631, 782, 833, 834, 836, 838, 892n, 900n, 901n, 957, 958, 980, 1103 – dischi tipo Bolsena 371n – Poggetto 834 – Poggio Casetta 606, 631 – v. Poggio Pesce e Poggio Battaglini – Pozzarello, santuario del 39-41 – v. Val di Lago Bolsena, Gruppo 936n Bomarzo (vt) 26, 30, 43, 225, 719n, 954n, 1025, 1090n, 1092, 1109, 1112, 1113, 1114n, 1115, 1116 – Colonna, tomba della 1114n

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Bona Dea, divinità 640 Bonamici, Marisa 1022n Bonaparte, Luciano, principe di Canino 149, 1141n, 1155n, 1156, 1160 Bonaparte, Napoleone 1140, 1147 Bondeno (fe) 431n Bondeno (Gonzaga, mn) 431n Bondi, Clemente 1139 Bondì, Sandro F. 139 Bonfante, Larissa 617 Bonghi Jovino, Maria 287, 865 Boni, Giacomo 737n, 953n Bonn, Antikesammlung der Universität 718, 722 Bonocore, Marco 336n Bonomi, Simonetta 155, 170n Bonomi Ponzi, Laura 129n, 131n, 372, 379, 387 Bordighera (im) 295n Borelli, Gruppo, ceramica lucana 523n Borghi, Eliseo 943 Borgorose (ri) 60, 409, 648 Borgosesia (vc) 213 Bosforo, stretto 829 Boston, Museum of Fine Arts 417, 532n, 556, 559, 720n, 981 Bottai, Giuseppe 1128 Bottini, Angelo 658 Botto, Massimo 317n, 319n, 592 Bound, Mensun 292, 296, 318 Bovini, Giuseppe 1172n Braccesi, Lorenzo 12n, 51, 55, 114, 115n, 163n, 167, 213, 428n Braccianese, via (Lazio) 1036, 1039 Bracciano (rm) 742n, 897n, 1037, 1040n – lago di 341, 351, 352, 1036, 1039 Brasiai (Laconia) 810n Brasile 353 Braun, Emil 567, 571, 1102n Brauron (Attica) 1099n Breghi, Dionisio 396, 397, 401, 402, 404 Brenciaglia, collezione 36n Brendel, Otto Johannes 560, 566, 828, 927 Breglia Pulci Doria, Laura 139 Brenno, condottiero gallo 27, 872 Brenta, fiume (Veneto) 167 Brettii, popolo italico 48, 1153n Briona (no) 439n, 901n Briquel, Dominique 45n, 48, 92n, 93, 138n, 139, 140, 142, 145, 276, 311, 411n, 425, 426, 589n, 1035 Briseide, sacerdotessa troiana 702 British Museum F 63, Pittore del 523n Brocato, Paolo 121n, 196n Brolio (ar) 70

1204

indice dei nomi

Bronzo, età del 3, 52, 58, 96, 97, 166, 183, 211, 274, 275, 344, 352, 393-395, 404, 413, 414, 503, 639, 645, 651, 652, 654 bronzo, metallo 16, 35, 40, 42n, 100, 106, 115, 125, 127n, 164, 234n, 278, 372, 374, 413, 458, 481, 482, 503n, 507, 541, 545, 546, 548n, 552, 554, 558, 559, 564, 567n, 568n, 570, 579n, 583n, 591, 615, 621, 640, 642, 658, 693, 700, 756, 801, 808, 870, 872, 873, 891n, 892, 901, 902, 1097n, 1101, 1104, 1105, 1113, 1116, 1117, 1135, 1136 Brown, Frank Edward 723 Brown, William Llewellyn 560, 561, 858 Bruchmann, Karl Friedrich Heinrich 968n Brunswick, Leone di, statua bronzea 554, 563n Bruschi, tomba v. Tarquinia Bruto, L. Giunio, console 579 Bruto Capitolino, ritratto bronzeo (Roma, Musei Capitolini) 551n Bruun, Patrick 774n Bruxelles, Musée royaux d’Art et d’Histoire 60 – Unione Accademica Internazionale 1073 Brygos, Pittore di 103, 458, 461n, 702n, 791, 970 Budapest 1168n – Magyar Nemzeti Múzeum 1151, 1155 – Szépmu˝vészeti Múzeum 1151, 1152, 1154-1156 Budrio (bo) 438 Buffum, collezione (Boston) 417 Bunsen, Christian Karl Josias 1090n Buonamici, Giulio 492, 495-497, 498, 1167 Buonarroti, Filippo 431n, 1136, 1137 Bura (Acaia) 703n Burano, lago di (gr) 546 Buranelli, Francesco 149n, 1096n, 1106n Burton, Sir Richard Francis 3 Busca (cn) 225, 226, 301n, 327-329 – stele di (Torino, Museo Archeologico) 326328 Busiride, re d’Egitto 709 Butades, coroplasta greco 611 Butrium (Budrio) 427, 428n Buttiglione, Rocco, ministro 1173n

Cabras (or) 644 Caccia e Pesca, tomba della v. Tarquinia ¬a©e, Slobodan 4 Cacu, eroe mitico 722 Cadice, Museo 321, 322 Caecilia, via 59, 203 Caecina, Aulo, scrittore latino 423, 618, 902 Caere, v. anche Cerveteri 35n, 49, 60, 62, 75, 76, 79-81, 83, 93n, 100-107, 113, 117, 123, 28, 142n, 144, 145, 167n, 184n, 189n, 191, 194, 196, 225, 261, 262, 281, 282, 286, 287, 293, 295, 296, 299,

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

301n, 304n, 305-307, 309, 310, 318n, 319, 335n, 337, 340n, 341-343n, 345, 351, 352, 355, 359-361, 364, 426n, 460, 461, 467, 474, 481, 568, 583, 584, 587, 589, 590, 613, 617, 637, 642, 643, 647, 652, 653, 655-658, 663-667, 669, 672, 678, 683, 685, 691-693, 696, 702, 704, 705n, 709, 712, 720, 737, 738, 740, 744n, 747, 749, 755, 757, 762, 765n, 767n, 769, 774-776, 778n, 780, 781n, 783, 785, 789, 790n, 794-796, 801, 804, 806, 808, 810, 811, 833, 836, 847, 858n, 862n, 869, 870, 872, 875, 906, 927, 930, 943, 947n, 949, 950, 954, 955, 967, 971n, 972-982, 1002, 1009, 1011, 1015, 1016, 1018, 1019n, 1020-1022, 1023n, 1024-1026, 10281030, 1036, 1040, 1041, 1048, 1050, 1055, 1068, 1070, 1174 Affienatora, tumulo dell’ 365, 590, 995, 996, 998, 1010, 1012, 1030 Animali Dipinti, tomba degli 630, 652, 667 v. Aquae Caeretane Argilla, tomba dell’ 1006, 1007, 1011 Calabresi, terreno 696 Campana, tumulo 656 Capanna, tomba della, 663 Cinque Sedie, tomba delle 104, 286, 617, 670, 869 Colonne Doriche, tomba delle 1114n Colonnello, tumulo del 996n Dolii, tomba dei 869, 872 Dolii e Alari, tomba dei 670 Iscrizioni Graffite, tomba delle 361, 362, 365, 366, 590, 591, 822n, 993, 994, 996, 998-1007, 1011, 1013n, 1014, 1028, 1158 Lastre Campana, tomba delle 1009 Lituo, tomba del 996n Leoni Dipinti, tomba dei 560, 630, 667 Maclae, tomba dei 822n Marce Ursus, tomba di 980n, 1011 Maroi, tumulo 979 Martini Marescotti, tomba 1011 Mengarelli, tomba 652 v. Monte Abatone Monteroni, tumuli 652 Moretti Giuseppe, tomba, 790n Nave, tomba della 630, 667 Quercia, tomba della 1011n Regolini Galassi, tomba 372n, 561, 657, 664666, 978n, 1016n, 1101, 1162 Rilievi, tomba dei 362, 457n, 720, 1162, 1163 Sarcofagi, tomba dei 822n Serpi, via delle 979 Scudi Dipinti, tomba degli 1011 Senza Nome, tumulo 1000, 1011, 1013 Triclinio, tomba del 822n, 1101, 1108

indice dei nomi – Tumulo I e II 996 – 2302-2305, tombe 998, 1010-1012 – v. anche Banditaccia – v. anche Ceriti – v. anche Clavtie, iscrizione dei – v. anche Due Croci, tumulo delle – v. anche Montetosto Caere-Pyrgi, via 79, 306n, 359, 622, 737n, 749, 758n, 788, 907 Caere-Veio, via 1054 Caesena v. Cesena Caesii, gens 433 Cagianelli, Cristina 1133, 1134, 1136 Cagli (pu) 546n, 640 – Giove (o Ercole) da 546 Cagliari 570 – Cattedrale 563 – Museo Archeologico Nazionale 568-570 – Tuvixeddu 570 – Università degli Studi di 1125, 1128, 1166, 1167, 1171, 1179 Caico, fiume (Misia) 730 Caina, fiume (Umbria) 486n Caivano, Pittore di, ceramografo campano 523n Calabona (Alghero, ss) 568, 592 Calabresi, fratelli 698n Calace, Umberto (V. Giulia) 1033, 1034 Calcante, indovino greco 164, 540, 908 Calcarello (Tuscania, vt) 1098, 1102 Calcidica, regione (Grecia) 459 Cales (Calvi Risorta, ce) 519n Caligola, imperatore romano 497, 1141 Callimaco di Cirene, poeta e filologo 15-21, 26, 57, 62, 93n, 102, 114, 115, 206, 211, 276n, 282 Calore, fiume (Campania) 55 Calu v. Calus Calus, dio etrusco 555n, 617, 778n, 888n, 897, 900n, 954n Camarina (rg) 67, 787n Cambise, re di Persia 568 Cambridge, Fitzwilliam Museum 717, 1092n Camerano (an) 647 Camerino (mc) 128, 129, 173, 203, 242, 372 Camillo, M. Furio, condottiero romano 142n, 335, 341, 344, 685, 872 Camna, gens, tarquiniese 1154 Camoens, poeta 1140 Campaccio (Cortona, ar) 1136 Campagna Lupia (ve) 167 Campagnano (rm) 351 campana, ceramica a figure rosse 523n – v. Laghetto, Pittore del

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Campana, Gianpietro 353, 369n, 541n, 847, 11601162 Campana, collezione 121n, 123, 241, 261, 370n, 698n, 767n, 937n, 939n, 1151, 1153n – fosso (ri) 229 – tomba, v. Veio – tumulo, v. Caere – via (Lazio) 253, 264n, 336n, 337, 338n Campanari, famiglia 185n, 1089, 1090n, 1091n, 1092, 1099, 1102n, 1103, 1104, 1108-1111, 1114, 1159, 1161 – casa e giardino 1093, 1098, 1099, 1100n, 1102, 1104-1106, 1114, 1155 – mostra dei (Londra) 801n, 1089-1124, 1155, 1159, 1160 – tomba, v. Vulci Campanari, Carlo 1090, 1091n, 1092, 1094, 1096, 1098, 1115, 1160 Campanari, Domenico 1089n, 1090, 1091n, 1092n, 1103, 1104n, 1106n, 1108, 1157, 1161, 1162 Campanari, Secondiano 353, 1090, 1091n, 1096, 1101, 1102n, 1104, 1110 Campanari, Vincenzo 1098, 1104n, 1114, 11561158 Campania 21n, 24n, 55, 89, 90, 92, 94, 97, 100, 102, 103, 125n, 141-143, 146, 147, 159, 162, 206, 271, 273, 274, 276, 278, 280, 310n, 336-338, 353n, 337, 409, 458, 519, 532n, 538, 539, 541, 596n, 642, 663, 679, 783n, 786, 787, 789, 796n, 847, 947n, 978n, 979, 980, 1021, 1026, 1070, 1074, 1080n, 1081 Campetti (Veio, rm) 342, 344n, 351, 354, 448-452, 454, 462, 464n, 466-468, 470, 474, 1166 Campidoglio, colle (v. Roma) Campi d’Urne, civiltà dei 651 Campi Elisi 829 Campi Flegrei 276 Campo della Fiera, santuario di (Orvieto, tr) 900n, 901n, 917 Campo Marzio (v. Roma) Camporeale, Giovannangelo 482, 1073n, 1119n Camposcala (Vulci, vt) 1155n, 1157, 1159 Campovalano (Campli, te) 54, 202, 204n, 372n, 639 Campovaro, castello (ri) 230 Camuccini, Vincenzo 1139 Cancho Roano (Estremadura) 322 Canciani, Fulvio 1073n Candelori, collezione 461 – fratelli 1157 Canina, Luigi 353, 737, 742n, 1036n, 1040n, 1054 Canino (vt), v. anche Vulci 1155, 1156 Cannetaccio (Veio, rm) 347, 462, 676

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indice dei nomi

Cannicella, necropoli della (v. Orvieto) Canosa di Puglia (bt) 155, 159, 1153 Canova, Antonio 1114 Canu, Nadia 571 Capaneo, eroe greco 103, 796n, 798-800, 802, 803n, 811, 812, 927-930 Capanna, Ernesto 743n Capanna, tomba della v. Caere Capdeville, Gérard 47n, 66, 112, 113n Capena (rm) 60, 128, 133, 204n, 240, 241n, 335337, 341, 344, 351, 372n, 394, 432n, 647, 719n, 935, 937n, 941, 1165, 1173, 1179 – Capenate, agro 336, 337n – Capenati 336, 337, 341, 351, 464, 940 Capena, Gruppo, dischi bronzei 369n, 371n, 645, 663 Capestrano (aq) 21n, 52, 124n, 239n – Dama di (Chieti, Museo Archeologico Nazionale) 645, 376n – Guerriero di (Chieti, Museo Archeologico Nazionale) 370-372, 376n, 386, 645-647, 665, 937, 1080 Capo Linaro (Santa Marinella, rm) 743n Capo Palinuro (sa) 273, 282 Capo Monodendri (Turchia) 632 Capracotta (is) 372n, 378, 381, 408 – gruppo, dischi bronzei 369n, 373, 404, 408, 413 Capraia, isola (li) 9 Capri, isola di (na) 538n, 1073 Capua (ce) 6n, 97, 124n, 157n, 172, 173, 186, 219, 259n, 277, 281-283, 309, 336, 337, 394, 409, 424n, 473, 483n, 523n, 532, 538n, 541, 619, 623, 747, 754, 796n, 847, 1019n, 1027, 1068 – Diana Tifatina, santuario di 747 – v. anche Patturelli, fondo – tegola di (Berlino, Musei Statali) 796n, 890, 904, 974n, 1017, 1019, 1020n, 1179 Carabba de Fonseca, famiglia 491n Caracupa (Sermoneta, lt) 378n, 380 Carandente, Giovanni 530n Carandini, Andrea 97, 247, 252, 448, 449, 451, 467, 474, 735, 838, 841, 1169 Carcara Riuo, fiume (Lazio) v. anche Eri e Rio Fiume 813 Carcari v. Carcara Riuo Cardona, Giorgio Raimondo 583n Careiae, rovine di (Lazio) 352 Carletti, Settimio, scavatore 1102 Carlucci, Claudia 257, 682, 768n, 879 Carmenta, divinità 756n Carnèe, Pittore delle 816n Carniola, regione (Austria) 155, 163

Caronte, demone infernale 714n, 825n, 898900, 1096, 1099, 1100, 1111 Caronti, tomba dei v. Tarquinia Carpegna (pu) 431n Carri, tumulo dei v. Populonia) Carricini, popolo italico 52, 206 Carso, territorio (ts) 157, 158, 162 Carsoli (aq) 239n, 240, 385, 409 Cartagine 77, 80, 82, 95, 103, 117, 138, 223, 293, 294, 297n, 306, 307, 320, 328, 472, 566, 568, 570, 571, 579, 583, 584, 587, 589, 590, 592, 593, 714, 737, 776, 785, 809, 976, 977, 1168 – Cartaginesi 77, 82, 102, 138 148, 214, 224, 282, 283, 297, 329, 330, 571, 588, 589, 591, 597, 747n, 784n, 785, 930, 976 Carvilio, Spurio, console romano 114 Casacanditella, Gruppo, dischi bronzei 369n, 373, 378, 381, 404, 408, 413, 415 Casale del Fosso (Veio, rm), tomba 1036 106, 344-346, 353, 385, 386, 448n Casale Marittimo (pi) 104, 280, 643-644, 647, 664-665, 671, 869 Casale Massima (Agro Romano) 60 Casaletto (Ariccia, rm), stipe del 976n Casentino, territorio (ar) 432, 606 Caserta 369n, 373n, 376, 408 Casola Valsenio (ra) 429 Cassandra, principessa troiana 164, 459, 699, 702, 713n, 908 Cassia, via 41, 352 Cassio Vecellino, Spurio, console romano 570n, 592 Castelbellino (an) 640, 642, 874 – Ercole di, bronzetto (Ancona, Museo Archeologico Nazionale) 546, 547 Castel Campanile (Lazio) 1036 Castelciès, cippo di (bz) 1045n Castel d’Asso (vt) 631, 632, 656, 847, 1098 Castel di Decima (rm) 60, 254, 255, 257, 266, 338, 415 – Tumulo 247, 266 Casteldieri (aq) 937n Castel di Guido (Agro Romano) 352 Castel di Sangro (aq) 408 Castelgandolfo (rm) 254 Castel Giubileo (Agro Romano) 342, 343, 502n Castellammare del Golfo (tp) 785n Castellani, Augusto, collezione 1103 Castelletto Ticino (no) 435 Castellina del Marangone (Santa Marinella, rm) 36, 37, 663, 790 Castellina in Chianti (si), tumulo di 657

indice dei nomi Castello della Pieve (Mercatello sul Metauro, pu) 500 Castel Lombardo (Fiumicino, rm) 1054n, 1058 Castellonchio (vt) 42 Castelnuovo Berardenga (si) 106, 225, 226 Castelsecco (San Cornelio, ar), santuario di 841 Castel S. Mariano (Corciano, pg) 554n – bronzi di763n Castiglione del Lago (pg) 404, 406, 408, 481 Castiglione in Teverina (vt) 856n Castori, tempio dei (v. Roma) Castro, rovine di (vt) 306, 538, 632, 678 – Fondo Sterbini 538 Castrocaro Terme e Terra del Sole (fc) 434 Castrum Novum (Santa Marinella, rm) 753n, 754n Casuccini, sarcofago (Palermo, Museo Archeologico Regionale “A. Salinas”) 730 Catalano, Pierangelo 336n, 831 Cataldi Dini, Maria 815n, 892 Catalogna (Spagna) 101, 320 Catasto Alessandrino 753n, 813 Catasto Gregoriano 742n, 744n, 753n, 813 Catha, dea etrusca, v. anche Cavatha 889 Catharnai, Thanachvil (Pyrgi) 807 Catona (ar), santuario di 723 Catone, M. Porcio 57, 136n, 202n, 204n, 212, 424, 593n, 832, 1141 Caucaso, catena montuosa 464n, 467 Caulonia (rc), tempio dorico di 741n Cavalier, Madeleine 274, 277 Cavatha, dea etrusca 342n, 616, 617, 628, 630-631, 750, 755, 756, 782n, 806, 834, 887-889, 899, 904, 905, 967-970, 971n, 1174 – Sech, epiteto 617, 896n, 968, 971n Cavtha v. Cavatha Caylus, collezione parigina 693n Cel, dea etrusca 307, 308, 808n, 974n – Ati, epiteto 481, 482 Celano (aq) – Forca Caruso, valico di 372, 373, 408 – Le Castagne, necropoli 372 Celio Antipatro, L., storico romano 485n Celle (Civita Castellana, vt), tempio di 630, 757 Celti, popolo 18, 19, 55, 100, 115n, 148n, 204, 207, 213, 221, 225, 226, 307, 308, 326, 424, 430, 439, 709, 711-716, 718, 719, 720n, 722-725, 730-732, 973, 974 – Celthe 307, 973 Cenciaioli, Luana 493, 1133n Censorino, grammatico romano 832

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Centauri 455, 666, 772 Centauromachia 817n Centuripe (en) 562n Ceracchi, Giuseppe, scultore giacobino 1144n Cerasa, Giuseppe (Tuscania) 1093, 1096, 1097, 1099n, 1100-1105, 1112, 1113, 1115 Cerbero, cane infernale 562n, 766, 767, 898 Cerchiai, Luca 547, 703n, 1074n Cerchio (aq) 409 Cerere, divinità 264-266, 301, 342, 351, 473, 570n, 587, 588, 592, 834, 936, 982n, 1023 Cerere, Libero e Libera, tempio di (v. Roma) Cereris, mundus (Roma) 834 Cerfennia (Collarmele, aq) 432n Ceri (Cerveteri, rm) 21n, 61, 62, 104, 286, 329, 386, 387, 499n, 533n, 643, 647, 663, 664, 670, 869, 873, 1040 – Casaletti 1041n – Casalone di 1040 – v. Leoni, sarcofago dei – Procoio di Ceri 533n, 869 – v. Statue, tomba delle Cerie v. Cerere Ceriti, abitanti di Caere 75, 78, 79, 80n, 82, 93, 103, 106, 107, 145, 146, 297, 359, 589n, 590, 591, 655, 722, 736, 737n, 749, 769, 787, 872, 977, 980, 982, 1020, 1054, 1174 – Cerite, agro 352n, 703, 709, 897, 1039n, 1041n, 1054 Certosa, cultura della 49, 288, 424, 429, 435n, 436 Certosa, necropoli della (Bologna) 435n, 665, 713, 719n, 956 Cerva cerinite (Ercole) 703, 880, 1157 Cerveteri (rm), v. anche Caere 262n, 331, 357, 361, 362, 404, 409, 560, 590, 666-668, 696, 699, 704n, 721, 753n, 781, 972, 993, 1006, 1011, 1036, 1037, 1040, 1092n, 1101, 1112n, 1158, 1162, 1163, 1166, 1171, 1173, 1179 – Aequipondium 506n – v. Banditaccia, necropoli della – Fosso della Mola 697 – Fosso Vaccina 753n – v. Furbara – v. Gobbi, cratere dei – Manganello, santuario del 975 – Manganello, deposito votivo del 721 – Museo Archeologico Nazionale 329, 386, 404, 1040 – Polledrara, necropoli 1011n – santuario in loc. Sant’Antonio 467, 637, 691693, 696, 697, 699, 704, 705, 794, 906, 971n, 1028

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indice dei nomi

– Sucu, tomba dei 778n – Vigna Calabresi 696, 774n, 794n, 809n – Vigna Marini-Vitalini 762n, 768n, 974, 977 – v. Vigna Parrocchiale – Vigna Ramella 977 – Vignaccia 704, 720 Ceschi, Franco, architetto 448n, 676, 878 Cesena/Keisna 431n, 432, 433n Cesennia (Mignano Monte Lungo, ce) 432n Cesi (tr) 130 Cetina, cultura di (Balcani) 3, 10n Cevenna, monte (Gallia Aquitania) 432n Chairei, Ramtha (Vulci) 981 Chairitnas, Vel (Vulci) 981 Champagne, regione (Francia) 715n Champs-Élysées (Parigi) 1089 Chares, ceramografo corinzio 856n Charu, demone infernale 713n, 714, 726, 821, 900n Cherchel (Mauretania) 502n Chia v. Uni Chia Chiarone, fiume (Toscana, Lazio) 546 Chianciano Terme (si) 311, 549-551, 554, 609, 724, 780n Chiani, fiume (Toscana, Umbria) 486n Chianti, territorio (Toscana) 432 Chiaromonti (ss) 153 Chiavenna (so) 432n Chicago, Oriental Institute 567 Chieco Bianchi, Anna Maria 435 Chieti/Teate – Civitella 1153n Chigi, collezione 186 – Olpe (Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) 344, 558, 671 – Chigi, Pittore, protocorinzio 561n Chigi, Flavio cardinale 351n, 353 Chimere 187, 535, 554, 666 Chimere, Pittore delle 192, 194 Chio, isola egea 1044n Chiusi/Clusium (si) 18, 19n, 26, 35n, 42, 46n, 65, 68, 69, 73, 74, 107, 112, 113, 117, 121n 125, 148150, 152, 172-174, 185, 186n, 188, 191, 193, 196, 197, 225, 300, 309, 331, 341, 439, 440, 502, 505, 507n, 547, 548, 555n, 567n, 597, 647, 670, 671, 700n, 722, 724, 726, 730, 731, 869, 875, 891, 894, 895n, 948n, 949-951, 954, 956n, 980, 982, 1017n, 1018, 1019, 1021, 1023, 1024, 1068, 1099n, 1155, 1159, 1171 – v. Arntni Vel, sarcofago di – Capitello eolico, tomba del 1114n – v. Casuccini, sarcofago – Chiusini 20, 74, 1174

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Chiusino, agro 900n, 1006n v. Gualandi, ossuario Pania, tomba della 671, 672 v. Paolozzi, ossuario Pellegrina, tomba della 727, 728, 731, 732 v. Giulietti, sarcofago v. Matausni, tomba dei v. Obeso, sarcofago dell’ Piccole Patere, bottega delle 732 Piombo di Roma (coll. Vittorio Massimo) 890, 904, 1068 – v. Rosette e Palmette, bottega delle Chiusi, Pittore di 1013 Christiansen, Jette 763n Christie’s, casa d’aste (Londra) 1091n Cianfarani, Valerio 54 Cianferoni, Giuseppina C. 395n Ciasca, Antonia 1174 Ciasca, Raffaele, senatore 735 Cibele, divinità 456 Cicerone, M. Tullio 52, 87n, 111, 114, 271, 507, 587, 625, 747n, 832, 841, 895, 953 – De divinatione 832 Cicladi, arcipelago egeo 12, 536 Ciclopi 92n, 139n, 210, 276n, 455, 669, 721, 743n, 971n Cicno, eroe greco 211-213, 221, 772 Cicolano, territorio (ri) 403, 648 Cielo, divinità 755 Cifani, Gabriele 229n, 234 Cilens, divinità etrusca 432n Cilento, territorio (sa) 273, 282 Cima-Pesciotti, collezione 385, 530 Cimone, politico e stratega greco 907 Cinci, Giusto (Volterra) 148 Cincius, L., antiquario romano 625 Cinghiale d’Erimanto (Ercole) 767 Cingolani, Giovanni Battista 753n, 813, 1036n, 1037n Cinque Sedie, tomba delle, v. Caere Cipollara (Viterbo), necropoli 890n, 892 Cipro, isola, v. anche Kition e Salamina di Cipro 564n, 568, 569, 663, 691n, 783n, 785, 907 Cipselo, tiranno di Corinto 669, 869 – arca di 899, 965 Circe, maga 87n, 96, 116n, 142, 214, 271, 385, 539, 617 Circeo, monte (lt) 87n, 89, 473n Cirenaica, regione (Libia) 568 Cirene (Libia) 114, 175n, 207 Ciro di Persia, re 97, 568 Cisra v. Caere Citera, isola egea 553n

indice dei nomi Città della Pieve (pg), tomba dei Purni, urna (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 728, 730 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 943n – Capitolo di San Pietro 1037 – Cortile del Belvedere 564 – v. Marte di Todi – Musei Vaticani 353, 459, 1107, 1162 – Museo Gregoriano Etrusco 561, 666, 717, 721, 723, 807n, 1096, 1099, 1106-1109, 1112, 1114, 1160, 1161, 1162 – v. Putto Carrara – v. Putto Graziani – v. Sofocle Lateranense Città di Castello (pg) 396n, 500 Cittaducale, Gruppo, dischi bronzei 407 Civita Castellana (vt), v. anche Falerii 357n, 409, 594n, 1125 Civita di Arlena (vt) 42, 43 Civitalba (Arcevia, an) 714n, 723, 731 Civitaluparella (ch) 408 – Civitaluparella, Gruppo, dischi bronzei 369n, 373 Civitavecchia (rm) 229, 242, 736n, 742, 743n Civitella d’Arno (Perugia) 503n, 505, 1047n Civitella del Tronto (te) 371n Cizico (Propontide) 724 Clavtie, iscrizione dei (Caere) 1028 Clazomene (Asia Minore) 79 Clelia, eroina 65n Clemente Alessandrino, scrittore cristiano 16, 57, 62, 115, 206 Clermont-Ferrand (Francia) 531 Cleobulo di Lindo, savio 27 Cleopatra Tea Filopatore, regina d’Egitto 1140, 1145 Cleusin®, epiteto di divinità etrusca 888n Clistene, politico greco 883 Clitemnestra, regina greca 908 Cloatius Verus, grammatico romano 336n Clodia, via 337, 352 Cloelii, gens – Cloelio Siculo, Q., console romano 472n – Cloelio Siculo, T., tribuno consolare romano 472n Cluverio, Filippo 20n, 57, 742n Cnido (Asia Minore) 12, 542 Coarelli, Filippo 790n, 805n Cocchieri, Marino (V. Giulia) 1033, 1039n Coen, Alessandra 1152, 1153, 1154 Coleo di Samo, viaggiatore 166

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Colfiorito (Foligno, pg), santuario e necropoli 60, 128, 129, 372, 373, 376, 377, 379, 386, 387, 402n, 403, 404, 415-417, 434, 647 Colini, Antonio Maria 353, 386, 831, 1166 Collarmele, Gruppo, dischi bronzei 369n, 372n, 378, 404, 408, 409, 413, 416 Colle del Forno (Montelibretti, rm) 229, 241n, 280, 372n, 373n, 672 Colle del Giglio (Magliano Sabina, ri) 594, 937n Collelongo (aq), statua di 645, 647 Colle Madore (Lercara Friddi, pa), sacello di 786 Colle S. Agata (Veio, rm) 338n, 352 Colli del Tronto 408 Collignon, Maxime 552 Colonna, Giovanni 386, 595, 813, 864, 865, 880, 930, 1034, 1035n, 1127, 1128, 1179 Colucci, Giuseppe 55 Comeana (Carmignano, po) 280, 558n Commissione consultiva di Antichità e Belle Arti 1102n Como 97, 225, 430, 439 Compresso (Perugia) 487, 500, 505n Concordia Sagittaria (ve) 157n Cònero, monte (an) 57, 62, 116, 147, 162, 163, 175, 176n, 200, 201, 204, 212 Conestabile della Staffa, Giovanni Carlo 370, 374, 378n, 407, 491-494, 1135n Consentia (cs) 48 Conze, Alexander 691 Copenhagen, Museo Nazionale Danese 381n, 384, 801 – v. Efebo Sciarra – Museo Thorvaldsen 798n – Ny Carlsberg Glyptotek 261, 549, 736n, 762n, 766, 767, 875, 915 Coppola, Alessandra 162 Corchiano (vt) 36, 936n, 1019 Corciano (pg) 396n, 486n Corcira (Corfù) 10, 12, 1044n Corcyra v. Corcira Core, divinità 90, 342, 459, 588, 589, 617, 628, 905n, 906n, 920, 968, 969 – Soteira 968n – Tesmophoros 968n Corfinio (aq) 698n Corinna, poetessa greca 770n Corinto (Grecia) 12, 76, 89, 106, 168, 293, 533n, 702n, 783n, 784n, 810, 899, 905n, 970n, 1065 – Corinzi 158n, 294 – istmo di 559n, 1070n – v. Istmo, santuario dell’

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indice dei nomi

corinzia, ceramica – Fine Silhouette Group 859n – Frauenfest, Pittore 859n – White Bull Painter 859n Coriolano, Cn. Marcio 16n, 35n, 247n, 792n Còrito, mitico re etrusco 540 Cornelia, via 337, 340n, 1055 Cornelii, tomba dei (Roma) 954 Cornelio Gallo, poeta 15 Cornelius, C., augure patavino 704n Cornell, Tim J. 1035 Corneto v. Tarquinia Corsi, popolo 75n, 652 Corsica, isola 25, 75, 77-79, 82, 93, 291, 294, 295, 307n, 329, 330, 535, 654, 977 Cortona (ar) 35n, 43n, 96, 225, 393, 414, 433n, 482, 484, 499n, 504, 505, 540, 555n, 556, 631, 633, 655-657, 722, 749, 838, 897, 898, 1021, 1133, 1134, 1135n – v. Campaccio – Cortonensis, Tabula (Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona) 304n, 481, 482n, 483, 485n, 979n, 1048n – Cortonese, agro 504n – Cortonesi 484n, 485, 487n – Lampadario di (Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca) 554n – v. Melone II del Sodo – Montegualandro 484 – Museo dell’Accademia Etrusca 556 Corvaro (Borgorose, ri), tumulo di 648 Cosa (Orbetello, gr) 698n, 737n, 795, 833 – Antiquarium 698n – cd. Capitolium 698n Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana 507 Cossus, A. Cornelius, console romano 335 Cozza, Adolfo 42, 44, 526n, 845, 846n Crateri, Pittore dei 853n, 858, 859n, 864, 865 Crates, ghenos di Delfi 83 Crecchio (ch) 595n, 937n Crema, Luigi 1128 Cremera, fiume (Veio, rm) 338n, 340, 342 Crepus, Larice, vasaio etrusco 871, 964 Cresilas, scultore greco 798n Creso, re 27, 97 Crespellano (bo) 432 Creta, isola di 176, 428, 562, 829 Creta, Monte della (Agro Romano) 239, 254256 Cretaro (Avezzano, aq) 374, 377 Creteo, eroe mitico 91 Creusa, eroina troiana 459, 460, 464, 465 Crévier, Jean-Baptiste Louis 1146, 1147

Crimiso, fiume (Sicilia) 785n Criseide, fanciulla troiana 702, 971n Crispolti, Cesare 484 Cristofani, Mauro 292, 293, 296, 304n, 317, 318, 429n, 447, 584n, 696, 712n, 766n, 774n, 779n, 783n, 792n, 811, 822n, 889, 972, 974n, 975n, 979, 1017n, 1018n, 1019n, 1035, 1067, 1070n, 1169 Crizia, politico e scrittore 105 Croazia 3 Crocefisso del Tufo, v. Orvieto Crono, divinità 452n Crotone 747, 788, 1044n – v. Lacinio, Heraion del – Crotoniati 774n, 788 Crustumerium (Agro Romano) 229, 253n, 351 Cuccureddus (Villasimius, ca) 568n Cucrina, gens cortonese 483, 979n Cul®ans, dio etrusco 782n, 834, 891n Cuma (na) 12, 16-19, 24n, 26, 56, 77, 94, 117, 118, 142, 146, 168, 175, 200, 271, 279, 280, 283, 288, 293, 409, 541, 589, 619, 663, 667, 702n, 795, 847, 887, 930, 950, 965 – battaglia navale di 24n, 271, 795, 811 – Cumani 18, 26, 73, 103, 319n, 949n, 1174 – Heraion 741n Cupavone, eroe padano 212 Cupra, divinità italica 20, 53, 221n, 323, 342, 806n – Cupra, santuario di (ap) 12, 20, 55, 56, 58, 116, 200, 204, 239n, 427n Cupramarittima (ap) 20, 57, 157, 164n, 204, 407, 639 Cures (rm) 20, 21, 63, 118, 204, 241n, 410 Curio Dentato, Manio, console 129 Cursni, gens fiesolana 1051, 1052 Curuna, gens tuscaniese 1111 Cyane, ninfa 88-90, 94, 142, 274 Cyaneae (Licia), oracolo 907

Dafni, pastore siciliano 898n Dalmazia 9, 10, 12n, 157-159, 163 Damarato corinzio, Bacchiade 106, 166, 292, 294-296, 318, 447, 642, 669, 670, 869, 979 Damaste di Sigeo, storico greco 473 D’Amico, Alessandro 1034, 1039 Damofilo, pittore e coroplasta greco 567, 796, 870, 953 Danao, mitico re 766 – Danaidi 766 D’Andria, Francesco 158, 165 Dante Alighieri 1141 Dardani (cippi di Tunisia) 948, 957 Dario, re di Persia 55, 224, 564, 565, 568

indice dei nomi Dauni, popolo d’Italia 10, 16, 18, 19, 21n, 159, 162, 163, 166, 167, 175, 199-201, 294n, 409 Daunia 9, 10, 155, 157-159, 162, 164, 434 Dea col bambino (Latona e Apollo), statua della (Roma, Museo di Villa Giulia), da Veio 452, 454, 456, 460, 676, 1125, 1128-1130 Dea Roma, divinità (Pinelli) 1141 de Bleschamps, Alexandrine, principessa di Canino 1156, 1160 de Chateaubriand, François-René 1144 Déchelette, Joseph 379 Decima (Agro Romano) 415 Declona, divinità italica 506n Dedalo, eroe greco 144n, 671 degli Abati Olivieri, Annibale 55, 1135n Degrassi, Attilio 947 de Grummond, Nancy Thomson 637 de Guidobaldi, collezione (te) 371n Deifobo, principe troiano 702n De Juliis, Ettore M. 155, 159, 165 Delfi (Focide) 27, 29, 79, 80, 81, 83, 93n, 101, 117, 138n, 142n, 146, 165, 169, 282, 283, 295n, 534n, 542, 549, 571n, 591, 685, 702, 704, 722, 727, 772, 788n, 811n, 887, 899, 1082n – Auriga, statua bronzea (Delfi, Museo Archeologico) 551, 552 – Apollo, tempio di 571n, 901n – v. Marmarià – v. Pitone – v. Tesoro dei Massalioti – v. Tesoro dei Sifni De Marinis, Raffaele 424n, 433 Della Seta, Alessandro 1125, 1165, 1167, 1171, 1172 Della Volpaia, Eufrosino 249n Delo, isola (Cicladi) 12n, 87n, 165, 175n, 431n, 704, 724, 730, 810n – Apollo, santuario di 741n, 1153 Delpino, Filippo 183, 184n, 185, 1168, 1171, 1173 de Luynes, duca 1106 – collezione 460, 462 Demarato v. Damarato Demeteres, dèe (Demetra e Kore) 969, 970 Demetra/Demeter, divinità 342, 455n, 459, 481, 588, 589, 617, 619, 628, 898, 905n, 906n, 920, 969-971, 977n Demoni Azzurri, tomba dei (v. Tarquinia) Dempster, Thomas 741n De Nino, Antonio 372n Dennis, George 46, 335n, 737n, 1098n, 1105n, 1114n, 1161 d’Ercole, Vincenzo 157, 159, 369, 372-374, 403n de Riverdin, Olivier 1073 De Rossi, Giovanni M. 257

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De Sanctis Mangelli, collezione 40 De Sanctis, Gaetano 15-17, 40, 57, 114, 117, 206, 1168 de Simone, Carlo 35, 69, 219, 935, 980, 982, 1035 Des Vergers, Adolphe-Noël 1089 Detienne, Marcel 905n Devoto, Giacomo 431, 433, 1166 de Waele, Jos 843, 844, 846 de Witte, Jean 1155 Diagesbei, popolo sardo 137, 138, 142, 146 Diana, divinità 451, 880, 1098n – Nemorense 551 Dicearchia (Pozzuoli, na) 535 Dicearco, filosofo 167 Didyma (Ionia) 703n, 905n Dignitario coi calcei, Maestro del, coroplasta veiente 876, 882, 883 Dinomenidi di Siracusa dinastia di tiranni 90, 103, 116, 811 Dinos, Pittore del 519n Dintsis, Petros 1152 Diodoro Siculo 47, 88, 102, 103, 104, 137, 141, 224, 274, 539-541, 551, 552, 711, 717, 737n, 768 Diomede, eroe greco 3, 6n, 8, 9-12, 28, 55-57, 116, 155, 159, 162, 164-166, 175, 199-201, 205, 540, 645, 763n, 798n Diomede, re di Tracia 768 Diomedee, isole (Tremiti) 9, 55n, 162n Dione Crisostomo 114n Dionigi di Alicarnasso 17, 18, 20, 55, 92, 93, 95, 96, 111, 116-118, 139n, 140, 143, 144n, 146, 213, 245n, 246, 288, 344, 427, 457, 472n, 473, 832, 871, 887, 888, 953 Dionisio di Focea, ammiraglio greco 785 Dionisio il Giovane, tiranno di Siracusa 425, 429 Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa 425429, 630, 737, 747, 888, 927, 930, 976 Dioniso, divinità 102, 272n, 559n, 588, 713, 758n, 770n, 801n, 806, 812, 967, 970n Diopos, coroplasta greco 869 Diorio, Vincenzo 743n Dioscoride, medico greco 617 Dioscuri 12, 73, 259n, 701, 780n, 784, 819, 893, 1153 Di Paolo, Antonio 529n Di Paolo, Elena 1090n Di Puolo, M., architetto 448n Dipylon (Atene) 988n, 989 Dis Pater, divinità 342n, 617, 618, 755, 834, 836, 897, 898, 902, 904, 967, 968n Dite v. Dis Pater Dodona (Epiro), oracolo di 481, 756n

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indice dei nomi

Doganella (Vulci, vt) 97 Dohrn, Tobias 815 Dolenjska, cultura della (Balcani) 157, 163 Donario di Attalo (Pergamo) 711, 724, 728, 730 – Galata morente 728 – Galata suicida 724, 728 Donati, collezione (Lugano) 169, 262n, 264 Dorieo, eraclide 82, 587, 785, 787, 788 Doriforo da Stabia (Minnesota Museum of the Art), statua del 530n Dorow, diplomatico prussiano, collezionista 1156n, 1157n Dovadola (fc) 429 Doxa, personificazione della fama 908 Drago Troccoli, Luciana 902n, 905n Dresda, Albertinum 369n Ducati, Pericle 46, 714 Duce, tomba del, v. Vetulonia Due Croci, tumulo delle, detto anche delle Ginestre (Caere, rm) 996n Duenos, vaso di (Berlino, Musei Statali) 951, 953n, 966, 990n, 991 von Duhn, Friedrich 402 Dumézil, Georges 65 Duodecim populi, lega dei 49, 97, 111, 652 Duride, ceramografo attico 700n, 702n Duruy, Victor 1148

Ebe, divinità 769, 770, 773 Ebla (Siria) 1174 Eboli (sa) 96, 278, 279, 438, 949, 1047 – Montedoro 279 Ebusus v. Ibiza Ecate, divinità 428n, 617, 693, 898, 968n Ecateo di Abdera, filosofo greco 95, 142n, 168, 200, 207, 210, 282, 552 – Aigyptiaká 552 Ecateo di Mileto, storico e geografo greco 93n, 96, 143n, 168, 200, 207, 210, 282, 295, 426, 428, 473, 712, 749 Ecile, dea etrusca 616 Edipo, re di Tebe 798n Edlund, Ingrid E.M. 611 Efebo Sciarra, statua (Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek) 212, 554n Efeso (Asia Minore) 533, 551, 552n – Artemision 552n, 553n Efesto, divinità 772 Eforo di Cuma, storico greco 91, 92, 95, 102, 207, 277, 295n, 669 Egadi, isole (tp) 785n Egeo, mare 12n, 55, 101, 102, 163n, 175n, 294, 907, 970n

Egialea, eroina 8n Egina, isola (golfo Saronico) 12, 175, 176, 772, 781, 1041n, 1044n, 1065, 1069, 1070 – v. Aphaia – Egineti 12, 167, 175, 176, 200, 201, 294, 428, 875 Egisto, eroe greco 908 Egitto 545, 568, 569, 709n, 907 – Egizi 551, 1146 Elba, isola (li) 25, 75, 78, 101, 137, 140, 213, 223, 224, 294, 296n, 473n, 655, 796 Elche (Valencia) 328, 329n Elea (Ascea, sa) v. anche Velia 535, 541, 702n, 847 Elena, eroina greca 1116 von Eles, Patrizia 429 Eleusi (Attica) 979 – Eleusina mater 971 Elgin, marmi (Londra, British Museum) 1114 Eliadi, ninfe 211 Eliano, Claudio, sofista 92, 887, 888, 905 Elide, regione (Grecia) 667 Elimi, popolo siciliano 272, 784-788 Ellanico di Lesbo, storico greco 46, 47, 53, 425, 426, 458, 465, 472-474, 749, 768n, 769n, 787, 1068 – Le sacerdotesse di Argo 472 – Phoronís 473 – Troiká 458, 472, 787 Ellesponto (Dardanelli) 88, 149n, 722 elmi – tipo Berru 429n, 1151 – tipo Negau 74, 292, 1159 – tipo Novilara 163, 289, 647 Eloro, Koreion (Noto, sr) 741n Elpenore, compagno di Odisseo 473n Elysici, popolo ligure 307 Emilia, regione storica 432n, 665 Enea, eroe troiano 8, 95, 103, 117, 167, 212, 266, 410n, 447, 457-467, 469n, 470-474, 540, 704n, 739n, 749n, 756n, 785n, 786n, 1068 – Eneadi 464 – Eneide (Virgilio) 45, 87, 141, 212, 897n, 1139 Eneti, popolo, v. anche Veneti 167, 176n, 200 Ennio, Q., poeta 245, 246n, 247, 249n, 474n, 897 – Annales 245 Enotria, regione storica dell’Italia 19, 96, 271, 1044n Enotrie, isole 272 Ensérune, oppidum (Linguadoca-Rossiglione) 301n Eolie, isole, v. anche Lipari, isole 15n, 87, 88n, 89, 91, 94, 137, 142, 271, 272, 274, 276, 277, 281283, 541, 829 – v. anche Filicudi

indice dei nomi – v. anche La Canna – v. anche Salina – v. anche Stromboli Eolo, divinità 87-92, 102, 141, 142, 274, 275, 276, 426, 540, 541, 830 Eos, divinità, v. anche Aurora 763, 801n, 807 Epidamno (Albania) 165 Epidauro (Argolide) 587 Epigene, generale pergameno 730 Epigoni, eroi greci 811 Eptacordo, Pittore dell’ 669 Equi, popolo italico 16, 17, 60, 114, 340, 369, 403, 404, 431, 432n, 436, 437 Equicoli, popolo italico 17, 20, 60, 403 Era, divinità 8n, 306, 469n, 587, 588, 756, 758n, 769, 773, 774, 783, 787, 788, 792n, 806, 809, 975, 976, 977 – Era Aigophagos, tempio di (Sparta) 773 – Argiva 165, 768 – Henioche 763n Era, fiume (Toscana) 754n Eracle v. Ercole Eraclide Pontico, filosofo greco 103, 106, 712 Ercolano (na) 385, 1152 – Villa dei Papiri 1152 Ercole, eroe 28, 29, 89n, 90, 95, 103, 106, 127, 138, 140, 146n, 162, 165, 167, 207, 211-213, 217, 223n, 277, 292n, 295, 347, 349, 351, 370n, 428n, 438, 451, 459n, 460, 467, 469n, 562n, 616, 626, 640642, 676, 678, 680, 681, 683-686, 698n, 699, 700n, 701-703, 749, 756, 758n, 763, 765-770, 772776, 783n, 784, 786-788, 796, 803-805, 809, 811, 812, 871, 873, 874, 877, 880-882, 972n, 975n, 1092n, 1113, 1130, 1131 – Argivo 698n – v. Cerva cerinite – v Cinghiale d’Erimanto – Hoplisménos 772n – v. Fons Herculis – v. Idra di Lerna – Iperboreo 767n – v. Leone nemeo – Musinus 352 – v. Portus Herculis – Saxinas 438 – Triumphalis 873 – Triumphans 770 Ercole, Ara Maxima (Roma) 625, 703n, 760, 873 Ercole, colonne d’ 319, 763n, 829 Ercole Curino, santuario di (Sulmona) 703n Ercole da Portonaccio (Veio), statua di (Roma, Museo di Villa Giulia) 452 Ercole e Minerva, Maestro di, coroplasta veiente 882, 883

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Eretria (Eubea), 979, 989 – Apollo e Artemide, santuario di 747n Eri, fiume (Lazio), v. anche Carcara Riuo e Rio Fiume 753, 754, 813 Erice (tp) 271, 587, 589, 783n, 784-787, 788n – v. Afrodite, santuario di – v. Eryx Erìdano, fiume (Po) 211, 221 Erifile, eroina 812 Erinni, demoni 713n, 898 Ermes, divinità 681, 684, 700, 703, 704n, 770, 970n Ernout, Alfred 893 Erodoto 55, 75, 76, 77, 79, 88, 90, 96, 107, 145, 165, 167, 200, 201, 207, 294, 428, 749, 788, 875, 887, 1179 Eros, divinità 715n Errera, Pittore di, ceramografo campano 523n Eryx, eroe elimo 786, 787 Eschilo, tragediografo 105, 213, 825, 828, 929, 930 – I pescatori con la rete 828 – Oresteia 825 Eschine, oratore 40 Esculapio, divinità 451, 587, 588 Esìno, fiume (Marche) 52, 57, 58, 60, 425, 428, 640, 641, 647 Esiodo, poeta greco 87n, 95, 207, 277, 899 – Teogonia 87n, 95, 755 Esione, principessa troiana 787 Espi/Esti, dea etrusca 617, 889n Este (pd) 164, 167, 434-436 Estremadura, (Spagna) 322 Eteocle, eroe greco 196, 197, 798n, 802, 803, 811, 929 Etiopi 207, 709, 762, 765n Etna, Gruppo (ceramica siceliota) 523n Etolia, regione (Grecia) 828 Etra, madre di Thesan 807, 808 Etruria Meridionale, ex Soprintendenza Archeologica dell’ 354, 357, 447, 448n, 451n, 471n, 509, 523, 526-528, 530n, 531, 735, 791n, 853, 878, 993, 995, 1011n, 1033-1036, 1039, 1054n, 1059-1064, 1125, 1173 Etrusca disciplina 107, 832, 838 Etrusci haruspices 832 etrusca ceramica a figure rosse – v. Imbuto, Gruppo dell’ – v. Jahn, Pittore di – v. Londra F 484, Pittore di – v. Perugia, Pittore di – v. Praxias, Gruppo di – v. Vagnonville, Gruppo – v. Vaticano G 111, Pittore del

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indice dei nomi

etrusca ceramica a figure nere – Gerusalemme, Pittore di 172 – Micali, Gruppo di 1105 – v. Micali, Pittore di – Paride, Pittore di 1092n etrusco-corinzia, ceramica – Cappi, Pittore dei 856 – Castellani, Gruppo 345n – Castellani, Pittore 856 – Code Annodate, Pittore delle 862 – Codros, Ciclo di 859n – v. Crateri, Pittore dei – v. Feoli, Pittore di – Galli Affrontati, Ciclo dei 292 – v. Gobbi, cratere dei – v. Hercle, Ciclo della – v. Maschera umana, Gruppo a – v. Rosoni,Ciclo dei – v. Rosoni, Pittore dei – Rosoni e Crateri, Pittore dei 865 – Senza Graffito, Gruppo 320, 862n – Senza Graffito, Pittore 856 – Veio, bottega di 859n etrusco-geometrica, ceramica – v. Eptacordo, Pittore dell’ – v. Palme, Pittore delle etrusco-orientalizzante, ceramica – v. Chimere, Pittore delle – v. Gru, Pittore delle Ettore, eroe troiano 702 Eubea, isola (Grecia) 140n, 973, 1044n – Euboici 143, 146, 279, 281, 294, 663 Eudosso di Cnido, astronomo 55, 201-204, 210 Eufronio, ceramografo attico 464n, 467, 698, 701, 774n, 796 – cerchia di 791 Eugrammos, coroplasta greco 869 Eumene I, re di Pergamo 723 Eurimedonte, fiume (Panfilia) 907 Euripide, tragediografo 801, 812n, 828 – Il Ciclope 828 – Le Fenicie 801, 802 – Le Supplici 812n Euristeo, re di Micene 768 Eurito, re d’Ecalia 905n Eurynomos, demone infernale 713n, 899 Euryphaessa v. Aethra Eustazio di Tessalonica, erudito bizantino 9 Evans, Arthur, collezione 1065, 1066 Exechias, ceramografo attico 458

Fabbrecce (Città di Castello, pg) 402 Fabii, gens 335, 340, 809

Fabio Pittore, Q., politico e storico romano 1168 Fabio Rulliano, Q., console romano 954 Fabretti, Ariodante 491, 492, 494n, 1135n Fabretti, Giuseppe 361, 995 Fabriano (an) 60, 129, 157, 158, 280, 404, 411, 640 Fabulae Etruscae 411 Facchetti, Giulio M. 1019n Faenza (ra) 429-431, 439 Faina, maschere (Orvieto, Museo Claudio Faina) 714n Falacer, divinità 485n Falerii, v. anche Civita Castellana 29, 30, 36n, 123, 128, 231, 232, 241, 242, 335, 341, 394, 455n, 456, 459n, 464n, 474, 522, 541n, 596n, 618, 630, 663, 685, 703, 705n, 716, 757, 772, 792, 795, 906, 920, 970, 978 – v. Celle, tempio di – Fantibassi, cava di 341n – Giunone Curite, tempio di 541n, 630 – Sassi Caduti, santuario dei 792, 795 – Scasato I, santuario dello 685, 906n, 920 – Valsiarosa, necropoli di 464n – Vignale, santuario di 685, 703, 772 Falerii Novi (Fabrica di Roma, vt) 531n Falernus, ager (Campania) 336n Falessi, Augusto, restauratore 471n, 1126, 1127, 1128 Falisci, popolo italico 44, 60, 112n, 119, 125, 229, 231, 240-242, 336, 337, 340, 341, 351, 597, 617, 722, 765n, 870, 891, 1020n – Falisco, agro 341n, 593n, 619, 631, 716n, 900n, 936n, 941, 943, 1017n – Falisco-Capenate, agro 943 falisca, ceramica – v. Foied, Gruppo – v. Genucilia, Gruppo Falterona, monte (fi, ar) 555 Fano (pu) 58, 157, 454 Fanum Voltumnae 26, 105, 113 Fara S. Martino (ch) 408 Farfa, fiume (Lazio) 20, 63, 118, 122, 241n, 942 – cippo del 939n, 1044n Farsalo, battaglia di 704 Farthan, dio etrusco 451n, 617, 698n, 713n, 808, 888n Fasti consolari 35n, 241n, 411, 437 Fasti, v. Ovidio Fauno, divinità 664, 875 Faustolo, pastore mitico 245 Favor, divinità 482n Fedeli, Fabio 653

indice dei nomi Fegato di Piacenza (Piacenza, Musei di Palazzo Farnese) 35n, 440, 481, 482n, 505, 506, 871, 889n Felessei, popolo italico 55 Felsina, v. anche Bologna 45-50, 55, 175, 176n, 411, 424n, 433n, 438, 1069 Feluske, Kaile (?) 326 Fenea (Arcadia) 898 Fenelli, Maria 249n, 449, 464n Fenicia (Libano) 569, 785 – Fenici, popolo 138, 279, 294, 320, 328, 568n, 569, 784, 787, 1146 Feoli, Pittore di 672 Fere (Acaia) 703 Ferentino (fr) 409 Fèrento (vt) 42, 106, 186, 306, 670, 869, 963 Feriae Latinae, feste 589n Fermo (fm) 96, 128, 639 Feronia, divinità italica 342, 642, 756n, 967 Ferraguti, Ugo 149n Ferrara – Museo Archeologico Nazionale 915 – Ferrarese, territorio 431n, 434 Ferro, età del 60, 97, 131, 143, 158, 163, 184, 249, 276-278, 330n, 344, 407, 424 ferro, metallo 21, 62, 65n, 77, 116, 294, 329, 370, 372-374, 387, 402, 435n, 458, 512, 516, 547, 549, 551, 553, 554n, 571, 583, 591 Ferrone (Tolfa, rm), necropoli del 937n, 940n Ferroni, lamine (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 70 Feruglio, Anna Eugenia 23-25, 125n, 195n Fescennium (agro falisco) 432n Festo, Sesto Pompeo grammatico romano 106, 125, 202, 246, 260, 336n, 428n, 832, 881 Festoni, tomba dei, v. Tarquinia Fetonte, eroe 211, 221 Feziali, sacerdoti 247n Fibreno, fiume (Lazio) 432n Ficana, rovine di (rm) 248, 253n, 255, 338, 339, 351 Ficoroni, Francesco 431n, 1133-1137 Ficulle (tr) 486n Fidene, rovine di (rm) 20, 242, 253, 262, 335, 337, 338, 340, 343, 351, 432n – Fidenati 16, 1130 Fiesole (fi) 364, 436, 558n, 838, 957, 1019n, 1020n, 1051-1053 – v. Montagnola, tomba della – v. Mula, tomba della – Museo Civico Archeologico 958 – piazza della Cattedrale 1051n – piazza Mino 1051 – v. Quinto Fiorentino – Villa Marchi 1051n

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Figalia (Arcadia) 899 Filadelfia, University of Pennsylvania Museum of Archaeology 534, 954n Filetero, re di Pergamo 723, 724 Filicudi (Eolie) 829 Filino di Agrigento, storico greco 579n Filippo di Crotone, atleta greco 788n Filippo II di Macedonia, re 114 Filippo V di Macedonia, re 1153 Filisto di Siracusa, storico 19, 20, 55, 57, 58, 63, 92n, 93, 102, 116, 117, 142-148, 152, 204, 206, 210, 211, 221, 223, 271n, 276, 277, 425-429, 541, 737n, 749n – Sikeliká 426 Filocoro, storico greco 427n Filone di Biblo 210 Filottete, eroe greco 788n Filottrano (an) 719n Finocchio, Monte del (Agro Romano) 248, 249, 253, 254 Fiora, fiume (Toscana, Lazio) 1157 Fioravanti, Benito, fotografo 995, 1034 Firenze 559n, 1033, 1051n, 1073, 1147, 1156 – Archivio Mediceo 484n – Istituto Geografico Militare 395, 487, 744n, 746, 753n, 754n, 1036n, 1039 – Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria 1074n – Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici 319, 935, 951n, 1167, 1179, 1180 – Museo Archeologico Nazionale 38, 40, 183, 187, 188, 292n, 318, 351n, 353, 393, 394, 396-402, 404, 406, 413n, 482n, 502n, 504, 671, 698n, 725, 728, 801, 894, 901n, 958, 1093, 1100, 1114n – ex Museo Mediceo 1135n – ex Museo Topografico dell’Etruria 396, 402 – Università degli Studi di 1166n Firenze, Poggio di (fi) 1052 Firenzuola (fi) 641 Firmani, Massimo A.S. 229n, 231 Fiumicino (rm) 1033, 1034, 1036, 1039n Flaminia, via 57, 231, 242, 336, 351, 500, 942 Flaminia et Umbria, distretto amministrativo 428 Flaminio, C., console romano 485, 486 Flere, gens volsiniese 37, 38 Fliess, ripostiglio di (bz) 402, 435 Flumendosa, fiume (Sardegna) 754n Fluss, Roberto, collezione (Sorrento) 1073, 1074 Focea (Ionia) 297, 875, 973 – Focei 77, 79, 82, 107, 165, 166, 167, 200, 210, 214, 223, 282, 291, 293-297, 307, 318, 320, 329, 428, 535, 622, 633, 671, 769, 888n Foglia (ri) 229-242

1216

indice dei nomi

Foglia, Germano 448n, 676, 878, 880 Foied, Gruppo 234, 235 Foligno (pg) 372, 403, 434, 640, 892n Fondazza, via, cippi di (Bologna) 631, 665 Fonderia, Pittore della 553 Fons, divinità 774n, 1134n Fons Herculis (Caere, rm) 774n Fontanile di Legnisina (Vulci, vt) 619, 621, 623, 637, 757 Fontanini, Giusto 484n Fontus v. Fons Forcello di Bagnolo San Vito (mn) 97, 410, 424, 433, 898n Formello (Veio, rm) 343, 344, 351, 353, 558 – Museo Comunale 353n Foro Romano, v. Roma Foro Boario, v. Roma Foroneo, eroe mitico 625 Fortore, fiume (Campania, Molise, Puglia) 55 Fortuna, divinità 896n Fossa (aq) 54, 131, 133n, 372n, 373, 374, 376-379, 407, 415, 645 Fossati, Melchiade 1156 Fossati-Manzi, scavi (Tarquinia, vt) 1111n Fosso del Caolino v. Pyrgi Foti, Giuseppe 790n Francavilla Marittima (cs) 28n Franchi De Bellis, Annalisa 948n Franchi dell’Orto, Luisa 51 François, Alessandro 725 François, tomba (v. Vulci) Francolise (ce) 519n Fraschetti, Augusto 266 Fratte (Salerno) 97, 143n, 310n, 523n, 535, 538n, 750n, 754, 1070n Frattesina (ro) 96, 165, 166, 200 Fregene (Fiumicino, rm) 340, 432n, 472n, 742 Frentani, popolo italico 52, 56, 157, 204, 206, 641 – Frentania 157n Frey, Otto-Herman 157, 163, 165, 166, 648 Frigia (Asia Minore) 561n, 587 Früchtel, Ludwig 16, 17, 115 Fucino, lago (Abruzzo) 131, 369, 372n, 375, 384, 403, 404, 407, 409, 412, 436, 438, 644, 647-648 Fufluns, dio etrusco 717n, 808n Furbara, Scoglietti di (Cerveteri, rm) 742n Furrina, divinità 212 Furtwängler, Adolf 464 Furumark, Arne 935 Fusco, Ugo 448, 449n, 450, 451n

Gabelmann, Hans 560 Gabii (rm) 60, 246n, 337, 338, 589n, 630, 663, 700n, 832, 870, 937n, 988

– Gabini 17 – Gabinum, foedus 589n – Gabinus ritus 832n Gàbrici, Ettore 40, 353, 676, 1125, 1130 Gabrovec, Stane 163-165 Gades (Cadice, Andalusia) 698n, 703 Gaia, divinità 307 – Madre 481 “Gaio il romano”, eroe 15, 16, 18, 19, 57, 62, 114, 115 Galata morente v. Donario di Attalo Galata suicida v. Donario di Attalo Galati, popolo d’Asia Minore 308, 712n, 714n, 723, 727, 730, 733 Galeata (fc) 433n, 437n, 438 Galeote, capostipite dei Galati 712n Galeria, rovine di (rm) 352, 1041, 1058 – Galeria, fosso 338, 352, 1055 – Galeria, tribù rustica 340 Galleffi, cardinale 1156, 1158 Galli, popolo 52, 57, 58, 103, 115, 117, 204n, 211, 221, 225, 410, 426n, 427, 433, 715, 719-722, 724, 732, 872 – Boi 411, 423, 434, 723 – Cenomani 411, 432n, 433 – Gallicus, ager (rn, pu) 19, 52, 56-58, 76, 163, 211, 311, 411, 425, 426, 431, 641, 720, 732 – Gesati 423 – Lingoni 434 – Senoni 423, 732 Gallia 82, 213, 291, 292n, 293, 296, 297, 304-308, 317, 318, 319 – Aquitania 432n – Belgica 432n – Cisalpina 426 – Cispadana 423-425, 434 – Narbonense 301, 432n Galli Affrontati, Ciclo dei 292 – Toronto, Gruppo di 292 Gallura, regione (Sardegna) 214, 224, 294n Gambari, Filippo M. 165, 213, 221n Gamurrini, Gian Francesco 44, 549n Garbini, Giovanni 583, 588 Garda, lago di 167 Gargano, promontorio (fg) 3, 9, 10, 12n, 57, 157, 163, 164, 166, 168, 175, 199, 540 Garofoli, Marina 125n Gastaldi, Patrizia 287 Gaudo (Capaccio, sa), necropoli del 523n Gaultier, Françoise 847, 1089, 1156 Gazzo Veronese (vr) 424n, 434, 435 Gela (cl) 68, 319n, 461n, 471n, 739n, 787n, 962n, 970n

indice dei nomi Gell, William 231n, 249, 353 Gellio, Aulo, scrittore 625 Gelone, tiranno di Siracusa 68, 116, 570, 756, 779n, 788n Gennarelli, Achille 658 Genova 168, 224-226, 292n, 295, 298, 302, 303, 311, 900n, 1070n – Collina di Castello 295, 298 Gentili, Gino Vinicio 285, 286, 289, 429n Gentili, Maria Donatella 975n Genucilia, Gruppo 975, 1103n Gerhard, Eduard 1090n, 1092n, 1111n Gerione, gigante tricorpore 213, 223n, 763n, 766, 771-773, 786 Germalo, colle, v. Roma Gerusalemme – Museo d’Israele 460, 531 – v. Salomone, tempio di Ghiaccio Forte (Scansano, gr) 495n Giannutri, isola (gr) 75n, 76, 77 Giano, divinità 1134n Giasone, eroe greco 671 Giganti, figure mitiche 276, 308, 455, 714n, 773 Gigantomachia 28, 772, 773, 792, 801n, 848 Giglio, isola (gr) 24n, 75n, 292, 296, 305, 317, 594 – relitto del 292, 296, 305, 318 Giglioli, Giulio Quirino 353, 676, 1125, 1165-1167, 1171, 1173, 1179 Gildone (cb), santuario di 163 Ginanni, Pietro Paolo, benedettino 1135n Ginevra (Svizzera) 640 – v. anche Ortiz, George Giocolieri, tomba dei, v. Tarquinia Gioia dei Marsi (aq) 409 Giontella, Giuseppe 1093n Giorgi, famiglia (Veio) 353 Giovanelli, Enrico 461n Giovanni Lido, erudito bizantino 92n, 832 – De mensibus 832 Giove, divinità 100, 252, 349, 482, 485, 504, 579n, 640, 641, 663, 683, 698n, 774n, 834, 872, 875, 877, 879-881, 898, 940-942 – Capitolino 106, 217, 349, 579n, 626, 772, 871873, 875 – Laziare 589n – Libertas 351 – Notturno 881 – Tonans 352 Giovenali, ludi 167n Giovi, monte (fi) 504 Giuba, scrittore, re di Mauretania 246 Giuffrida Ientile, Margherita 145

1217

Giulietti, sarcofago (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 728 Giulio Cesare, C. 52, 57, 229n, 341, 497, 704 Giunone, divinità 146n, 264n, 584, 587, 679, 698n, 773n, 975 – Curite 763n – Lucina 806 – Regina 350 – Sospita 292n, 763n, 773n, 1092n Gizeh, Gallo di (Il Cairo, Museo Egizio) 711 Gjerstad, Einar 831, 1168, 1180 Gladiatorentypus, bronzi del 647 Glauberg, Guerriero di (Glauberg, Kelten Museum) 711 Gnade, Marijke 961, 966n Gobbi, cratere dei (Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale) 774n, 862 Golasecca, cultura di 424, 715n Golini, Domenico 37n, 42, 1103 Gorga, Evan collezione 40n, 370n, 371n, 401n, 1173 Gorgaso, pittore e coroplasta greco 567, 796, 870, 953 Gorgoni 630, 713, 879, 1113n Gori, Anton Francesco 431n, 1133-1137 Govi, Elisabetta 217, 220, 429 Gozzadini, Giovanni 370 Grächwil (Svizzera), idria di 165, 648 Gragnano (na) 526, 537, 530 – S. Maria delle Grazie 537 Graillot, Henri 1089 Granada (Andalusia) 322 – Museo Arqueológico y Etnológico 324 Granate, necropoli delle, v. Populonia Gran-Aymerich, J.M. Jean 319n, 320 Grandazzi, Alexandre 1035 Grande nudo maschile, Maestro del, coroplasta veiente 874, 875 Grand Ribaud F, relitto di 296, 309, 319 Gran Sasso d’Italia 52, 60 Grappignano (ri) 230 Gras, Michel 295, 297, 300, 317, 318, 1172 Grasceta dei Cavallari (Tolfa) 627, 631 Gravisca/Graviscae (Tarquinia) 166, 281, 293n, 294-296, 298n, 301n, 305, 306, 309, 318, 342, 428, 448n, 588, 589, 627, 630, 671, 672, 739n, 969, 970, 975, 978 – Adonion 775n Gray Hamilton, Elizabeth Caroline 1091, 1092, 1102, 1103, 1105, 1159 Greci, popolo 12, 13, 25, 26, 52, 55, 75, 87, 89-93, 95, 97, 101, 102, 104, 105, 115n, 139, 140, 142-146, 148, 155, 158, 164, 166, 168, 199, 200, 201, 206,

1218

indice dei nomi

207, 211, 223, 225, 271, 273, 277, 279, 281, 293, 295-297, 308, 473, 474, 541, 552, 627, 669, 671, 711, 722, 728, 737, 784, 785, 788, 872, 875, 887, 908, 967, 970n, 973, 977, 978, 981, 1115n, 1146, 1174 Grecia 12, 16, 69n, 76, 95, 105-107, 140, 144n, 145, 158, 170, 175, 207, 223, 459, 533, 545-547, 552, 558, 559, 562n, 567, 587, 611, 662, 703, 709, 718, 722, 741n, 756n, 773n, 783, 785, 812, 825, 831, 873, 892n, 899n, 906n, 927, 978, 1065, 1067, 1103 Gregorio XVI, papa 1007n, 1156 Gregorio Magno, santo, papa 308 Grenier, Albert 46, 1171 grifo 670, 711n – Grifo di Perugia 1136 Grignon, Charles, disegnatore 1144n Grimani, rilievo (Palestrina, Museo Archeologico Nazionale) 562, 564 Gromatici, corpus dei 100 Groninga, Università di 843, 847 Grossi, Giuseppe 370, 374n, 397 Grotta Bella (Avigliano Umbro, tr) 904 Grotta Caruso, santuario di (Locri, rc) 754n Grotta del Colle (Rapino, ch) 639, 641 Grotta della Regina (Fiumicino, rm) 1039 cd. Grotta Dipinta, tomba (Bomarzo, vt) 1092, 1109, 1112n, 1113 Grottammare (ap) 57, 157, 204 Grotta Porcina (Blera) 306, 606, 613, 616, 631 Grottazzolina (fm) 416, 641n – fibule, tipo 434 Grotte di Castro, Civita di (vt) 42-44, 194, 749n, 1019n, 1114n Grotta Gramiccia (Veio, rm) 344, 346, 353 Grotte S. Stefano (Viterbo) 768n Gru, Pittore delle 669, 996n Gruppo di Sant’Omobono, Maestro del, coroplasta veiente 878 Gsell, Stéphane 1089 Guadalquivir, fiume (Andalusia) 321 Gualandi, ossuario da Chiusi 869 Gualdo Tadino (pg) 381n Gualtieri, Filippo Antonio 1135 Guardabassi, Mariano 407 Guardiagrele (ch) 370, 371, 414, 645 Guarnacci, Mario 485n Gubbio (pg) 393, 394n, 401, 411n, 436, 488, 499, 500, 502, 504, 505, 940 – v. Ansciano, monte – corsa dei Ceri 499n – Iguvini 499n, 505 – Ingino, monte 394n, 499

– Monteleto 401, 498n – Porta Tesenaca 432n, 499, 500, 505 – Porta Trasimeno 499 – Porta Trebulana 499n – Porta Veia 499n, 940n – Tessenara 500, 505 Guglielmo IV, re inglese 1091n Guglielmotti, Alberto 743n Guglionesi (cb) 157n Guidotti, Maria C. 395n Guizot, François P. G. 1146n Guzzo, Pier Giovanni 437n

H

ades v. Ade Hafner, German 462n, 469n, 721 Halesus, avo di Morrius 335, 474n Halesus, re di Veio, fondatore di Falerii 1134n Hallin, Axel, diplomatico svedese 943 Hallstatt (Austria), necropoli e cultura di 164n, 289, 379, 716 Hamae (Literno, ce) 276 Hamilton, William R. 1091n Hanell, Krister 1168 Hanfmann, George M.A. 40n Hanunia, Seianti, sarcofago di 485n Hatria, v. anche Atri 59, 168n, 204 Hauran, regione (Siria) 564n Hayez, Francesco, pittore 1141 Helbig, Wolfgang 370, 1155n Helicone, artefice elvezio 567 Helios, divinità 616, 617 Helvinum, fiume (ap) 57, 58, 204 Hera v. Era Hera Akraia, santuario di (Perachora) 741n, 1065 Herakleia (Policoro, mt) 785 Heras Lutra, isola (Sardegna) 146n Hercle, Ciclo della 672 Hercle, dio etrusco 502n, 637, 697, 698, 700, 702, 703, 787n, 795n, 808n, 906, 971, 972, 1028 Hercules v. Ercole Herdonia (Ordona, fg) 155 Heriflumen v. Rio Fiume Hermes v. Ermes Hesperia 457, 829 Heurgon, Jacques 45, 364, 588n, 698n, 1035, 1171 Hieron v. Ierone Hipucrates, Rutile 979 Hiram, re di Tiro 545 Hirpi Sorani, sacedoti 906 Hisa Tinnuna 280, 288, 663, 950 Hispani, popolo 3330 Historiae Tuscae 411, 427n Höckmann, Ursula 725, 727n, 731n

indice dei nomi Holstenio, Luca 353, 538n, 742n, 744n Honos, divinità 941 Houston (usa), museo di 562n Huelva (Andalusia) 166, 210, 321, 322, 326, 328 – Museo Provinciale 320, 324 Huesca (Aragona) 336n Hus, Alain 531n Hyllos, incisore di gemme 564n Hypnos, divinità 899

Iaia, Cristiano 385 Ianiculum v. Aineia Iantinus, gladiatore frigio 594n Ianiculum v. Gianicolo Ianus Quirinus, divinità 357 Iapigia 55, 57, 158, 199, 201, 202, 204, 206 – Iapigi 55, 58 Iapusci, popolo dell’Italia adriatica 19, 136, 158n Iberia 144, 166, 207, 210, 213, 294, 331 Ibico di Reggio, poeta 6n, 8, 12n, 159, 199 Ibiza, isola (Baleari) 593, 773 Ideo, araldo troiano 702 Idra di Lerna (Ercole) 684, 765-768, 771-773, 879 Ierone, tiranno di Siracusa 94, 24n, 283, 788n, 795 Ifigenia, principessa greca 898, 908 Ifito, eroe greco 700n, 905n Igea, divinità 451 Igino, scrittore latino 808 Iguvine, Tavole (Gubbio, Palazzo dei Consoli) 19, 136, 158n, 237, 430, 432n, 439, 499 Iliaca, tavola (Roma, Musei Capitolini) 457-459 Iliade, poema 699, 702, 798n, 897, 1139 Ilioupersis, poema 457, 460, 699 Ilium Novum (Asia Minore) v. anche Troia 563, 564 Ilizia, divinità 146n, 737n, 769, 806 Illiria 12n – Illiri 9n, 58, 428 Imbraso, fiume (Samo) 747n Imbro, isola egea 96 Imbuto, Gruppo dell’ 1092n Imera (Termini Imerese, pa) 68, 91n, 214, 279, 283, 307, 535n, 537, 570, 756, 786-788, 809 – Imeresi 788 Imola (bo) 163, 410, 424, 429, 433n Imola-S. Martino in Gattara, cultura di 436 Incisa in Val d’Arno (fi) 549n, 550 Indiges, divinità 617 Inferi, dèi 890n, 897, 898, 900, 904, 905 Inghirami, Francesco 148, 149n Ino, eroina greca, v. anche Leucotea 590, 804, 806, 811, 898n, 927, 1173

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Instituto di Corrispondenza Archeologica 691n, 1089n, 1090n, 1091n, 1106, 1114n Insubri, popolo transpadano 221, 423 Interamna Nahartium v. Terni Iolao, eroe greco 138, 139, 144n, 146, 684, 765 Iole, principessa greca 700n Iolei, popolo mitico della Sardegna 138, 142-144 Ionia, regione (Asia Minore) 566, 569n, 810, 875, 907 Ionio, golfo 92, 168, 175, 271n Ionio, mare 9, 12, 91, 271n Ionios, eroe 168n Iperborei, popolo mitico 711, 712, 717, 720n Iperione, titano 808 Iperoco di Cuma, storico 103 Ippi di Reggio, storico 91, 93, 277 Ippocampo, Pittore dell’ 862n, 864 Ippocoontidi, ghenos di Sparta 772n Ippocrate, medico greco 898n Ippocrate, tiranno di Gela 68, 787n Ippolita, regina delle Amazzoni 768, 804, 809 Ipponio (Vibo Valentia) 756, 788n Ippote, padre di Eolo 88, 90, 94 Iscrizioni, tomba delle, v. Caere Isernia 896n Ishtar, dea babilonese 471 Iside, statuetta cd. di (Londra, British Museum) 872 Isidoro di Siviglia, scrittore 611 Isili (ca) 148n Isola di Fano (Fossombrone, pu) 454, 640, 800n Isola Farnese (Veio, rm) 344, 353, 471n, 1125 – Ufficio Scavi di 451n, 859n Issa v. Lissa Istanbul (Turchia) 546 Istituto per l’Archeologia Etrusca e Italica del c.n.r. (Roma) 696 Istmo, santuario dell’ (Corinto) 810 Istria 10, 157-159, 163, 165n, 168, 201, 288, 648 Itaca, isola ionica 890n, 1044n Itali v. Italici Italia 301n, 331, 335, 370, 401, 402, 426, 428, 473, 485, 503n, 507, 540, 545, 559, 611, 627, 642, 691n, 698, 702, 704, 719n, 739n, 869, 887n, 889, 896, 947, 1031, 1035, 1073, 1099, 1125, 1135, 1146, 1155, 1161, 1162, 1168, 1174, 1179 – Italia centrale 15, 18, 23, 26, 54, 58, 59, 61, 103, 119, 121, 122, 125, 201, 329n, 467, 530, 546, 591, 617, 665, 669, 732, 747, 785n, 844, 951n, 967, 975, 989, 1068n – appenninica 369 – tirrenica 661, 750 – Italia centro-meridionale 503n

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indice dei nomi

– Italia meridionale 588, 716, 988 – Italia tirrenica 639, 666 Italica (Iberia) 331 Italici, popoli 385, 436, 555, 643, 716n, 832 Ítalos, eroe 116, 143n, 425 Irno, fiume (Campania) 754n Iulia, gens romana 459 Iuno v. Giunone Iuppiter v. Giove

Jacobsen, Carl 1109 Jacoby, Felix 88n Jaén (Andalusia) 330 Jahn, Otto 691 Jahn, Pittore di 461 Jandolo, Augusto 462, 469n Jannot, Jean-René 112 Jarva, Eero 24 Jeffery, Lilian 1066, 1067 Jehasse, Jean 77 Jehasse, Laurence 77 Johannowsky, Werner 537n Johnston, Alan W. 4, 174, 309, 317, 1067n Jolivet, Vincent 716n, 718, 719n Jura, catena montuosa (Francia, Svizzera) 379

Kadmos, Pittore di 519n Kahil, Lilly 1073 Kaisrie v. Caere Kalapodi (Focide) 970n Kansas City (usa), museo di 640 Karlsruhe, Badisches Landesmuseum 322n, 416 Karthazies, Puinel (Cartagine) 593 Kaschnitz von Weinberg, Guido 721 Keglevich, Johann 1155 Keisna, Reithvi 432, 433 Ker/Keres, geni della morte 898 Kestner, August 1098n, 1110, 1114n, 1115n Kezich, Giovanni 1090n, 1091n, 1092n, 1111n Khorsabad (Iraq) 569n Kirigin, Branko 4, 6, 7, 10n, 11, 12n Kition (Cipro) 784n Klanin®, dio etrusco 1048 Kleanthes corinzio, pittore 667 Kleonai (Corinzia) 1041n, 1044n Kleophon, Pittore di 519n Kleophrades, Pittore di 702n, 1013n Kluge, Kurt 546 Knoop, Riemer R. 846, 847 Krauskopf, Ingrid 718n, 900n Krokonidai, sacerdoti di Eleusi 979 Kunze, Emil 24

Kusnai, dama etrusca 667 Kyaneiai v. Symplegades Kyknos v. Cicno

Labrouste, Henry 148 La Canna, scoglio (Filicudi, me) 829 Lacinio, Heraion del (Crotone) 537n, 747, 756, 773, 788n – promontorio 773n Laconia, regione (Grecia) 810n, 1041n Ladispoli (rm) 742, 1040n Ladumeda v. Ifigenia Laevius, Egerius, dittatore di Tuscolo 953n Laga, monti della (Abruzzo) 60 Laghetto, Pittore del 523n Làgosta, isola adriatica 3, 9, 12, 201 Laide v. Clitemnestra Laio, re di Tebe 798n Lamina bronzea di Pyrgi 581, 621, 775-776, 779, 807, 976, 1028, 1053 Lamine auree di Pyrgi (Roma, Museo di Villa Giulia) 113, 145n, 357, 364, 579-587, 588n, 621, 736n, 755, 761n, 775-777, 779, 780, 782, 783, 784n, 807, 808, 813, 947, 976, 980, 1016, 1020, 1021, 1026, 1028, 1030, 1053, 1067n, 1168, 1177, 1178, 1180 Lamone, fiume (Toscana, Emilia-Romagna) 427, 429 Lanciani, Rodolfo 249, 253n, 254, 350, 353, 1171 Langstrup, disco di (Copenhagen, Nationalmseet) 384 Lanson, Gustave 1148 Lanuvio (rm) 21, 810, 1153 – Ercole, tempio di 810 – v. Giunone Sospita – Guerriero, tomba del 1153 Lanzi, Luigi A. 485n, 947, 1135n, 1136n Laodamia, eroina greca 908 Laomedonte, re di Troia 699n, 772, 787 Lapiti 817n L’Aquila 408, 409 Lapse, epiteto di ±uri 616, 1027n Laran, dio etrusco 308, 838 La Regina, Adriano 497, 545, 559, 989 Larino (cb) 437n La Rustica (Agro Romano) 337 Lasa, dea etrusca 787n, 1103n La Tène, cultura di 711 Latini, popolo 18, 52, 60, 62, 70, 73, 75, 95, 96, 102, 105, 113, 117, 194, 225n, 229, 241, 255, 310, 335, 346, 351, 383n, 447, 448, 459, 472-474, 589, 617, 831, 832, 870, 954, 1153n, 1169, 1180 Latino, re 95, 96, 142n, 271

indice dei nomi Latium v. Lazio Latona, divinità 684, 686, 701, 880, 882 Lattes (Linguadoca-Rossiglione) 291, 297-303, 307n, 309n, 317, 318n, 319 Laurentina, via (Lazio) 60, 249n, 253n, 254n, 255, 264 Laval, collezione, v. San Pietroburgo Lavinio (Anzio, rm) 8, 246, 247, 255, 257, 338, 340, 458, 462n, 464n, 470, 471-473, 540, 617, 685, 686, 844, 1174 – Enea, tomba di 540n – heroon 472n – Lavinati 465, 474 – Madonnella, santuario della 844 – Tumulo 8, 247 Lazio 16, 19, 20, 23, 26, 27, 60, 63, 92, 106, 113, 116, 117, 159, 211, 212, 219, 221, 225n, 229, 254, 255, 271, 292, 338, 339, 343, 432, 447, 448n, 464n, 470, 472, 589, 592, 625, 627, 630, 640-641-642, 661-662, 681, 703, 785n, 787n 789, 831, 844, 845, 847, 877, 941, 942, 947n, 949, 950, 953, 957, 976n, 982, 988, 1035, 1037, 1044n, 1089, 1165, 1174 – Civiltà del Lazio primitivo, mostra 1168, 1180 Lazio, ente Regione 448, 676, 870n, 878 Lazzarini, Maria Letizia 987 Leagros, Gruppo di 1013 Lebadeia (Beozia) 763n Leboriae, Leborini campi (Terra di Lavoro, ce) 337n Lecce dei Marsi (aq) 372, 408 Lef kandi (Eubea) 989 Leggi delle XII Tavole 346, 851, 954, 990 Leida, Rijkmuseum 186n, 194n, 1133 Leinies, Arnth (Orvieto)1052n Leinth, divinità etrusca 888n Lejeune, Michel 303n, 1035 Lemno, isola egea 96 Lemuria, feste 246n Lenoir, Albert 1146n Lenta, fiume (Lazio) 742n Leone, golfo del (Mediterraneo occidentale) 307, 319, 672 Leone nemeo (Ercole) 562n, 766 Leonessa (ri) 403, 407 Leonesse, tomba delle, v. Tarquinia Leoni, sarcofago dei (Ceri, rm) 670, 869, 872 Leoni Dipinti, tomba dei, v. Caere Leontinoi (Lentini, sr) 68 Lepore, Ettore 1048n Leprignano (agro capenate) 337n Lepsius, Richard 1102n Lerici, fondazione (Milano) 815

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Lerna (Argolide) 766 Lesbo, isola egea 473 Lestrigoni, popolo mitico 92n, 210 Lethams, divinità etrusca 890 Letronne, Jean-Antoine 1146, 1147 Letto Funebre, tomba del, v. Tarquinia Levante 568, 907 Leucotea, divinità v. anche Ino 103, 146n, 294, 321n, 469n, 590, 637, 735, 737n, 763, 765, 804806, 808-812, 898n Leuttra (Beozia) 810n Libera, divinità 342, 473, 588, 942n Libero/Liber, divinità 265, 473, 588, 940-942 Libia 140, 224 Libico, mare 785n Liburni 19, 20, 58, 158, 162, 167, 204, 425, 426n, 428 Lichfield, vescovo di 1091, 1092 Licia, regione (Asia Minore) 907n – Lyciae sortes 704n Liciniano, Granio, storico romano 831, 832 Lico di Reggio, storico greco 9n Licofrone, poeta greco 6n, 88, 264n, 271, 276, 440, 458, 465, 749, 787, 1068 – Alexandra 458, 464 Lidia 88, 92n, 139, 589n – Lidi, popolo 95, 96, 145, 201, 260, 426n, 428, 749, 795n – Lido, eroe capostipite 88, 95 Ligure, mare 75 Liguri, popolo 45, 116, 138n, 147, 148n, 207, 210, 211-214, 221, 223-226, 295, 307, 326, 423, 425, 426n, 433, 434, 974, 1153 – Bagienni 432n Liguria 207, 210, 211, 213, 221n, 224, 271, 293, 295 Ligustina (Iberia) 210 Lilibeo (Marsala, tp) 785n Lilliu, Giovanni 144n, 1167 Limyra (Licia) 907n Lindo (Rodi) 105, 542 Linguadoca, territorio (Francia) 100, 210, 214, 291, 294, 297, 298, 304, 307, 318, 712 Linguaglossa (ct) 754 Linington, Richard E. 1007n Linteus, Liber (Zagabria, Museo Archeologico) 299, 485n, 507, 780n, 781, 782, 808, 897n, 1017n, 1018, 1022, 1051, 1052 Lipari, isole (me), v. anche Eolie, isole 15, 77, 8789, 93, 94, 102, 141, 200, 274-279, 281-283, 293, 519, 540-542, 785, 786, 788, 815n, 977n – castello di 274, 275, 277 – Lipara (me) 88, 91, 274, 785, 788n – Liparesi 80, 117n, 143n, 148, 276, 277, 279, 282, 541

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indice dei nomi

Liparo, re 88-91, 93, 94, 102, 141-143, 146, 274, 276, 279, 426, 427, 509, 539, 540n, 541, 542 Lipperheide, Franz von 1154 Lippolis, Enzo 218, 220 Lipsia, Antikenmuseum 716, 717 Liri, fiume 60 Lissa, isola adriatica 3, 9, 10, 157, 159, 168n Literno (ce) 276 Livadhostro, Poseidon di, statua bronzea (Atene, Museo Archeologico Nazionale) 553n, 554n Livio v. Tito Livio Locri, (rc) 309, 747n, 754n – Aphrodision 741n, 747n – Centocamere 741n – v. Grotta Caruso – Locresi 756 – Marasà 741n – Proserpina, santuario di 747n Loebesus, divinità 483n, 940, 941n Lollini, Delia 51, 369, 371, 377 Lomellina, territorio (pv) 165 Londa (fi), stele da 519n London Group, bronzi del 801n Londra 293n, 801n, 1089, 1090, 1091n, 1099, 1102, 1104-1106, 1114, 1141, 1155, 1156, 1160 – British Museum 293n, 369n, 373, 375, 376, 404, 405, 485n, 547-550, 555, 803n, 810, 1090n, 1091, 1092, 1094, 1097, 1100-1105, 1108-1113, 1115, 1124, 1151, 1154-1156, 1159 – Pall Mall, mostra 1090, 1091n, 1096, 1160 – Teatro dell’Opera 1090 – v. Tyskiewicz, testa – Victoria & Albert Museum 665 Londra F 484, Pittore di 717, 726 Long, Luc, subacqueo 309n, 310n, 311n Loreto Aprutino (pe) 378, 417, 645, 646 Lorium (Castel di Guido, Agro Romano) 352 Loro Piceno (mc) 596n Losna, divinità 900n Loudera, dea veneta 940, 941 Lua, divinità 991 Lucanati, popolo italico 206, 645 Lucania 46, 147, 597 – Lucani 48, 136 Lucano, M. Anneo, poeta romano 507 Lucarini, Rita 691, 693 Lucera (fg) 159, 164, 264n, 1080n Lucilio, Gaio, poeta romano 741n, 806 Lucina, divinità, v. anche Giunone 737n Luco dei Marsi (aq) 372n, 409 Lucrezio Caro, T., poeta romano 896 Lucumo v. Tarquinio Prisco

Lucumone di Chiusi 567n Lucus Angitiae v. Angitia Lucus Feroniae (Capena, rm) 335, 906, 1173 Ludovico di Tolosa, santo e vescovo 408n Lugano (Svizzera) 262-264, 437n Lugli, Giuseppe 219, 253n, 736, 1040 Luigi I di Wittelsbach, re di Baviera 1106, 1108, 1109, 1156 Lulof, Patricia 848 Luna, divinità 342, 808 Lund, Museo delle Antichità Classiche dell’Università di 762n Lunigiana, territorio (sp) 221, 225, 226, 643, 843 – Luni 137n, 795 Lupa, nutrice di Romolo e Remo 474 Lupa Capitolina, statua bronzea (Roma, Musei Capitolini) 545-547, 549-551, 553-561, 563566, 567n, 570, 571, 592 Lupercale (Roma) 549n, 563, 570n, 571n, 755n Luperci, sacerdoti 664, 875 Lurmi, divinità etrusca 888n, 892 Lur®, dio etrusco 352, 888n – Larunita 631 Lusus Troiae 671 Lúvfreís, epiteto osco 940 Luynes, duca di 1157 Lux dubia, divinità 321n Lydos, ceramografo attico 684 Lyttos (Creta) 1041n

Maaskant-Kleibrink, Marianne 843, 848 Maccarese (Fiumicino, rm) 337n, 340, 743n Macchia (Veio, rm) 341, 344n, 351, 353, 448n, 449 Macchia della Comunità (Veio, rm) 346, 353 Macchiatonda (Pyrgi) 744n Macellari, Roberto 424n, 1133n Macerata, Università di 900n, 901n Macerone, fiume (Umbria) 483, 484 machaira, spada 62, 329, 702n, 803n Machaireus, sacerdote greco 702n Maclae, tomba dei, v. Caere Macmillan, aryballos (Londra, British Museum) 558, 561n Macrobio, scrittore romano 832n Madrid, Museo Arqueológico Nacional 331 Magdelain, André 838 Maggiani, Adriano 25n, 124n, 125n, 135n, 294, 364n, 393, 394, 504, 592, 593, 696, 700n, 724, 732n, 951n, 980n, 1035 Magliana, via della (Roma) 249, 253, 255 Magliano, Piombo di (FI, Museo Archeologico Nazionale) 597, 904, 1041n

indice dei nomi Magliano dei Marsi (aq), dischi bronzei 408, 409 Magliano Sabina (ri) 121n, 229, 239, 594, 595, 937n, 942 – Museo Civico Archeologico 594n, 595 Magna Grecia 175n, 223, 309, 524, 534, 535, 605, 783n, 786, 1091, 1153, 1155 Magna Mater, divinità 587 Magonidi, famiglia cartaginese 568n Magrè (Schio, vi) 974 Maiella, massiccio della (Abruzzo) 645 Mainz, Röm.-Germ. Landesmuseum 370n, 403n Maiorca, relitto di 292n, 297n Makron, ceramografo attico 1013n Malaga (Spagna) 322, 323 Malatya (Anatolia) 1174 Malavisch, demone etrusco 1092n Malavolta, Natale 859n Malavolta, testa (Roma, Museo di Villa Giulia) 686, 883 Malco, condottiero cartaginese 330, 568n, 571n Maleos, re pelasgo 1134n Malibu (usa), J. P. Getty Museum 459, 698, 700n, 702n, 766n, 772 Malkin, Irad 297 Malnati, Luigi 155, 158n, 212, 220, 434 Malophoros, santuario della (Selinunte) 787n Malta, arcipelago di 587, 1174 Malvasia, pietra (Bologna, Museo Civico Archeologico) 664 Mamarce, firma di artefice 858n Mamarcina v. Marcina Mambella, Raffaele 170, 171n, 157n Mambor, Felice 525 Mamilii, gens di Tuscolo 1023n Mamurio Veturio, mitico fabbro 106 Manchester, Museo dell’Università 778n Mancinelli Scotti, Francesco 229 Mancini, Marco 1080n Mancini, Riccardo 188 Mandoleto (pg), deposito votivo 1135n Manerbio (bs) 711 Manfredonia (fg) 155 Manganello, deposito del, v. Cerveteri Manı v. Mantus *Manıra, epiteto di divinità 897 Mani, divinità 726, 890n Manios, fibula di v. Prenestina, fibula Manoppello (pe) 645, 646 Mansuelli, Guido Achille 46, 212, 219, 423 Mansueti, famiglia perugina 484n

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Manth v. Mantus Mantinea (Arcadia) 769n, 899 Manto, ninfa, madre di Ocnus 433, 897n Mantova 97, 220, 410-412, 423, 424, 433, 434, 436, 437, 540, 618, 832, 897n, 949, 1069n, 1153 – Mantovani 411 – Mantua 342, 618, 897, 898, 1069 – mantovano, territorio 431n Mantr(a)n®, epiteto di divinità 897 Manturanum (Monterano, rm) 342, 897, 1069 Manturna, epiteto divino 897 Mantus, dio etrusco 618, 897, 905, 1069 Manziana (rm) 742n, 753, 754, 897 Manzoni, Alessandro 1146n, 1147 Maras, Daniele Federico 447n, 775n, 865, 866, 888n, 892n, 968n, 1126, 1146, 1173 Maratona (Attica) 1162 Marcantonio, console e condottiero romano 1140, 1145 Marche 51, 58, 199, 204, 641n Marchesetti, Carlo 3, 8 Marce Camitlnas (tomba François) 196-198 Marcina (Campania)142n, 143n, 282 Marco Aurelio, imperatore 57 Marecchia, fiume (rn) 52, 413 Mare Sardo, battaglia del 566, 590, 591, 622 Maria Cristina di Borbone, regina di Sardegna 353 Mariani, Lucio 370, 401 Maria Teresa Cristina di Borbone, imperatrice del Brasile 353 Marica, divinità 342n – santuario di (foce del Garigliano) 342n, 990, 991, 1080n Marinetti, Anna 122n, 202 Marino del Tronto (ap) 404 Mario, Gaio, condottiero e politico romano 497 Maris, dio etrusco 385n, 481n, 888n Marmarià (Delfi) 79-83, 591n Marmor Parium 785n Marrucini, popolo italico 52, 57, 204, 206, 641 Marsala (tp) 785n Marsi, popolo italico 369, 372, 381, 384, 385, 403, 404, 432n, 436, 645 Marsia, eroe greco 906n Marsicum, bellum 385 Marsiglia (Francia) 291-298, 305, 307, 309, 318320 – Cattedrale di 297n, 318 – “Vicus Tuscus” 297n – Vieux-Port 311, 318 Marsili, Luigi Ferdinando 351n

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indice dei nomi

Marsiliana d’Albegna (Manciano, gr) 122, 662, 856n, 873 – alfabetario di (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 937, 939, 988, 1081n Marso, capostipite dei Marsi 385 Marspiter v. Marte Marte, divinità 31, 70, 237, 238, 385, 431, 437n, 438, 482, 555, 579n, 640-642, 838, 940, 1029, 1135n – Marte Corazzi, bronzetto (Leida, Rijkmuseum) 1133-1137 – Marte di Todi (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco) 554 – Marte umbro, bronzetto (Londra, British Museum) 547, 548 Martelli, Gino Luigi 492, 495 Martelli, Marina 174, 186, 188n, 190n Martelli Antonioli, Valeria 853, 854n, 855, 1125, 1126, 1172n Martha, Jules 1089 Martignano, lago di (rm) 352 Martius, lupus 555 Marzabotto (bo) 48, 97, 99, 169, 170, 173n, 217220, 298, 302, 424, 425, 433, 495n, 546n, 553, 617, 619, 621, 623, 631, 760, 795, 833, 838, 841, 851n, 901n, 956, 1069n – Kainua 1069n – v. Pian di Misano Marziale, Marco Valerio, poeta 111n Maschera umana, Gruppo a 786n, 859n, 862 Massalia (Marsiglia) 75-77, 79, 80, 82, 83, 207, 214, 281, 294, 295, 297, 301, 303, 304, 671, 973 – Massalioti 77n, 82, 83, 210, 294n, 295, 297, 318, 534n, 722, 974 Massalubrense (na) 94n, 538n Massa-Pairault, Françoise-H. 768, 798n, 811 Mastarna, condottiero etrusco, v. anche Servio Tullio 196, 198, 340 Mastrocinque, Attilio162, 165, 167, 171n, 175n Matausni, gens chiusina 726 – tomba dei (Torino, Museo di Antichità) 725, 726 Matelica (mc) 54, 157, 158, 435n Mater Matuta, divinità 383n, 385, 471, 737n, 783n, 805-807, 810, 878 Mater Matuta, santuario di, v. Satricum Mattei, Innocenzo, cartografo 753n, 813 Mattei, sarcofago (Roma, Palazzo Mattei) 563, 564 Matthiae, Paolo 1174 Mayer, Maximilian 55, 201 Mazzarino, Santo 15-17, 20, 46, 114, 115, 977 Mazzini, Giuseppe 1144 Mean, dea etrusca 502n

Mecenate, amico di Augusto 73, 111n, 112, 113n Medea, eroina greca 165, 191, 385, 671, 908 Mediterraneo, mare 291, 293, 294, 296n, 307, 337, 569, 661, 743, 785n, 907 Medma (Rosarno, rc) 462n Megara (Attica) 552n, 752n, 810 – Tempio di Apollo 552n Megara (Sicilia, sr) 277, 548n Meillet, Antoine 893 Meiser, Gerhard 69, 940n Melaneus, mitico arciere 898 Melanippo, eroe greco 796, 798-801, 928, 929, 930, 1113, 1176 Meleagro, Pittore di 519n Mele, Alfonso 18, 158, 164, 167, 787 Melenzani, anforetta (Bologna, Museo Civico Archeologico) 951 Melicerte, eroe greco, v. anche Palemone 804, 806 Meligunìs, isola (Lipari) 91 Melis, Francesca 679, 735, 791, 792n, 879 Melli, Piera 295n Melone II del Sodo (Cortona, ar) 631, 633, 656 Melos, isola (Cicladi) 1041n Melpum (Etruria padana) 424, 433 Melqart, divinità fenicia 782n, 784 Memnone, re degli Etiopi 768n, 782n, 801n, 807n, 809 Memnonide, uccello 762n Menadi 459, 460, 816n, 908, 969n Menerva, dea etrusca 23, 27, 29-31, 34, 539, 605, 631, 633, 678, 698n, 702n, 782n, 801n, 808, 834, 859n, 865, 971, 1129-1131 Mengarelli, Raniero 149n, 309n, 737, 744n, 844, 845, 974, 977n, 979n, 995 mercato antiquario 34, 35, 186, 191, 369, 460, 523, 524, 530, 531, 537, 935, 943, 1133n, 1139 mercenari 17n, 18, 21n, 25, 26, 57, 62, 116, 117, 136, 206, 214, 223-225, 307, 328-330, 427, 709, 712, 714, 783n, 787n, 974 Mercurio, divinità 483n, 703, 704n, 877, 880, 1130 Mercurio, statua da Portonaccio, Veio (Roma, Museo di Villa Giulia) 452 Mertens-Horn, Madeleine 805 Mesenzio/Mezenzio, re di Caere 102, 410n, 775 Mesopotamia 562 Messala, augure 247n Messapi, popolo d’Italia 784 Messerschmidt, Franz 1093 Messina, stretto di 293, 309, 756n, 785, 787, 829, 977 Metallifere, colline (Toscana) 294

indice dei nomi Metaponto (Bernalda, mt) 90, 91, 164, 223n, 534, 535n, 702n, 870, 901, 1044n – Apollo Lykeios, tempio di 901 – cippo iscritto di 1045n – S. Biagio, santuario di 535n Meteli, Aule, v. anche Arringatore, statua del 485 Metru, vasaio etrusco 871 Mevania (Bevagna, pg) 438 Mevaniola v. Galeata Mezzano, lago di (vt) 36n, 43 Mezzano, valle di (Spina, fe) 97 Micali, Giuseppe 138n, 737n, 822n Micali, Pittore di 172, 709, 711, 712, 716n, 772 Micene (Argolide) 89, 908 Michele, arcangelo 502n Michetti, Laura M. 571, 676, 995, 996n, 1013, 1126, 1173 Mida, re di Frigia 1068n Migiana di Monte Tezio (pg) 393-395, 486-489, 491, 493, 495, 497n, 500, 501, 503n – Chiesa di S. Biagio 486n – Chiesa di S. Pietro 486 – Fonte di 489 – Fontenova 492, 494-498, 502-506 – Villa di S. Pietro 491n Mignone, fiume (Lazio) 742n, 774n Mikon, pittore ateniese 825 Milani, Luigi A. 187, 188, 396, 397, 401, 402, 404, 413, 415, 504n, 551 Milano 42n, 48, 1140, 1141, 1172 – Museo Archeologico del Castello Sforzesco 327 – Università Statale 622 Milazzo (me) 275, 277 Mileto (Asia Minore) 516n, 533, 534n, 565n, 632, 875 – Milesii 103, 104 Milone, atleta greco 774n, 788n, 877 Milziade, stratega ateniese 96 Mincio, fiume (Veneto, Lombardia) 166, 200, 434 Minciotti, Lorenzo 853n, 854, 855, 857, 859-861, 863 Mimnermo, poeta 159, 166, 199 Minerva, divinità 23, 27, 29, 30, 36, 124n, 212, 347, 349, 351, 354, 583n, 640, 678-681, 682, 683-687, 698n, 717n, 770n, 873, 874, 876, 877, 880, 882, 883, 1129, 1130 Minto, Antonio 43, 402n Minturno (lt) 122n, 750n Mira (Licia) 907 Mirone, scultore attico 796n

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Misa/Misala (Marzabotto?) 956 Mischwesen 666, 752 Miseno (na) 94n, 540 Misia, regione (Asia Minore) 88 Modena 955 – modenese, territorio 434 Moie di Pollenza (mc) v. Pollenza Molise 416 Molossi, popolo epirota 473 Momigliano, Arnaldo 473 Mommsen, Theodor 579n, 1147 Monaco, principato di 207, 213, 472n, 530n Monaco di Baviera, Antikensammlungen 171n, 191, 192, 461, 463, 530n, 714, 716n – Glyptothek 1065 – Pinacoteca 1108, 1109 Mongibello, vulcano (Etna) 754n Monoikos (Monaco) 295 Monserrate v. Sintra (Portogallo) Montagna di Marzo (Piazza Armerina, en) 970n Montagnana (pd) 435n Montagnola, tomba della (Quinto Fiorentino, fi) 658, 1030 Montalcino (si) 900n – Abbazia di S. Antimo 901n – Museo d’Arte Sacra 901n Monte Abatone (Caere) 656, 669, 1009 Monte Campanile (Veio, rm) 344 Montecassiano (mc), dischi bronzei 370n Monte Castellaro (pi) 593n Montecastrilli (tr) 486n Montecchio (tr) 125, 127 Monte delle Piche (Agro Romano) 336n Montefeltro, regione storica 431 Montefiascone (vt) 41, 1018 Montefortino di Arcevia (an) 433, 640, 641 Montegiorgio (fm) – anelloni 401n, 415, 416 – dischi bronzei, tipo 401n, 415 Montegualandro (Tuoro sul Trasimeno, pg) 484 Monteguragazza (Vergato, bo) 341, 618, 623 – cippo di 1018 Monte Iato (San Giuseppe Iato-San Cipirello, pa) 786 Monte Landro (vt) 44 Monteleone di Spoleto (pe) 119n, 641n Monteluce, necropoli di (Perugia) 502, 894 Montemelini, famiglia perugina 484n Monte Michele, necropoli di, v. Veio Montepulciano (si) 895n, 1052 Monterado, Poggio (vt) 41

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Monterano (Canale Monterano, rm) 897, 1047n Montericco (Imola, bo) 410, 424, 429 Monteriggioni (si) 662, 1019n Monte Roncione (rm) 352, 1058 Monteroni, tumuli, v. Caere Monterozzi, necropoli dei, v. Tarquinia Monte Sirai (Carbonia, ci) 568n Monte Soriano (Narce) 504, 892 Monte Torre Maggiore (tr) 130 Montetosto (agro cerite) 69n, 613, 622-623, 663, 709 Monte Oliverio (Veio, rm) 346 Monti Prama (Cabras, or) 568n, 571n, 644 Morandi, Alessandro 580, 594n, 854, 855n Morandi, Massimo 361, 815, 995, 1025n, 1035n, 1039n, 1042n, 1047n, 1053n Morel, Jean-Paul 291, 317-320 Moretti Sgubini, Anna Maria 447, 509, 530n, 531, 675, 735 Moretti, Mario 357n, 524, 525, 526, 530, 815, 819n, 823, 979n, 993, 996 Morgan, cista (New York, Pierpoint Morgan Library) 892, 908, 923 Morgan, kore, bronzetto (New York, Metropolitan Museum of Art) 548 Morgantina (Aidone, en) 342n Morlupo (rm) 351 Morto, tomba del (Tarquinia) 1092, 1096n, 1108, 1113 Morrius, mitico re di Veio 335, 474n Mortorio, isola di (ss) 132n Moscati, Sabatino 51, 319n Mossineci, popolo asiatico 146n Mostra Augustea della Romanità 1089, 1165, 1179 Mozia (Marsala, tp) 786, 788n, 1174 – giovane di (Marsala, Museo Withaker) 791 Mozzano (ap), Gruppo, dischi bronzei 373, 403, 407, 414, 435 Mula, tomba della (fi) 657 Müller, Karl O. 20, 46, 139n, 142n, 503n Murat, Gioacchino 1140, 1141n Murlo (si) v. anche Poggio Civitate 106, 128, 164n, 306, 465, 583n, 592-594, 630-631, 664, 670, 869, 879 Musarna (vt) 37, 341n, 778n, 956n, 957, 958, 1024, 1098n – Alethna, tombe degli 778n Musignano (Canino, vt) – ex “Museo etrusco” 1156, 1160, 1161 Musino, monte (Sacrofano, rm) 336n, 352 Musti, Domenico 159, 832

Muthiku, Larth, v. Busca, stele di 328 Mutilum, castrum (Romagna) 438 Mutina (Modena) 438 Muzio Scevola 57, 115 Muzzi, Salvatore 1141n

Naharci, popolo umbro 136, 943 Nanas, re pelasgo 540, 1068 Nanos (Odisseo)1068 Nannos, re ligure 301 Napir-Asu, regina elamita 545 Napoleone III 1089 Napoli/Neapolis 369n, 491n, 541, 652, 1140 – Accademia di Belle Arti 1140, 1141n – golfo di 539, 655 – Museo Archeologico Nazionale 1080n – ex Museo Borbonico 1160 – Regno di 408n – napoletano, territorio 530n – Soprintendenza Archeologica 525 Narbona (Linguadoca) 207, 304 Narce (Mazzano Romano-Calcata-Faleria, vt) 129, 185, 187n, 193n, 299, 341, 504, 622, 623, 624, 637, 662, 760, 856n, 858, 890, 892, 1017n – Le Ròte 622, 624, 637, 760 – v. Monte Soriano Nardini, Femiano 353 Narnia v. Narni Narni (tr) 129, 130, 231, 242, 942n, 943 Naso, Alessandro 43, 158, 164, 286, 361, 415, 736n, 1007n Nasso, isola (Cicladi) 1044n Natinusnai, dea etrusca 888n Naucrati (Egitto) 671, 1115 Nave, tomba della, v. Caere Nave, tomba della, v. Tarquinia Naxos di Sicilia (me) 68, 277, 741n, 758n – Apollo Archegete, altare di 741n, 758n Nearchos corinzio 1069 Negri, Mario 1080n Negroni Catacchio, Nuccia 158 Nekyia 91, 825n Nemesi, divinità 896n Nemrud-Dagh, monte (Turchia) 564 Nenci, Giuseppe 158, 168 Neottolemo, eroe greco 702, 727 Nequinum v. Narni Nera, fiume (Marche, Umbria, Lazio), v. Valnerina 63, 129, 942, 943 Nerio, dea italica 31n Nerone, imperatore 1141 Nesazio (Istria) 157, 158, 163, 165, 648 Nesso, centauro 772

indice dei nomi Nestore, coppa di (Ischia, Museo Archeologico di Pithecusae) 951 Nethuns, dio etrusco 755, 889n Nettuno, divinità 335, 685, 755n Nevio, Gneo, poeta romano 335n, 474n, 980 New York, Brooklyn Museum 259 – Hirshborn, collezione 264n – Lawrence Fleischman, collezione 668 – Metropolitan Museum 1065 – Pierpoint Morgan Library 908 – Pomerance, collezione 258, 261 Nibby, Antonio 231n, 249, 254n, 255n, 353, 1037n Nicandro di Colofone, poeta greco 8n, 9 Nicia, Pittore di 519n Nicola di Mira, vescovo e santo 907 Nicosia, Francesco 69, 139 Niebuhr, Barthold G. 248, 249, 252-254, 1146 Nigidii, gens perugina 894 Nigidius, C., pretore romano 895 Nigidius, L., L.f. Sors 895, 896 Nigidius Figulus, P., filosofo e scienziato romano 895, 896 Nikaia (Aleria) 82, 278, 295 Nike, dea 787n Nikeratos, scultore greco 724 Ninfe 754-757, 765n – aigestaiai 787 Nissen, Heinrich 737 Nizza (Francia) 295, 472n Nizzo, Valentino 987 Nocera (sa), v. anche Nuceria 124n, 125n, 519n, 535, 536 – alfabeto di 1074, 1080, 1081n, 1082, 1083 – Inferiore, Ufficio Scavi 536 – Superiore 1074, 1075, 1080, 1081 Nocera Umbra (pg) 370n, 372, 376, 402n, 403, 404, 415-417 Nola (na) 21n, 92n, 142n, 277, 336, 532n, 626, 796n, 1019n, 1022, 1027, 1081 Norba (Norma, lt) 833 Norbanus Balbus, L., console romano 393n, 497 Norchia, rovine di (vt) 341n, 342, 370n, 385, 529n, 531n, 631, 632, 634, 656, 954n, 1018n, 1026, 1098, 1114n, 1173 – Lattanzi, tomba 531n Norcia (pg) 60, 128, 129, 203, 371n, 402-404, 408, 409, 415, 896n Nortia, dea atrusca 30, 342n, 891, 896n Notte, divinità 899 cd. Notte, statua perduta di Rhoikos 552n Novilara (pu) 58, 157, 158, 163, 185, 288, 289, 379, 411, 416, 439, 502, 639, 647-648, 665, 939n

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Nuceria v. anche Nocera 92n, 94n, 143n, 271n, 536, 977n Numa Pompilio, re di Roma 66, 106, 247n, 337, 626, 838n Numana (an) 12, 13, 54, 57, 58, 60, 157, 163, 164, 186, 200, 369n, 425, 428n, 434, 639, 644, 645, 647, 665, 873 Numana, Gruppo, dischi bronzei 369n Numico, fiume (Lazio) 739n Numisius Martius, divinità 483n Nurra, regione storica (Sardegna) 568, 592 Nylander, Carl 935n

Obeso, sarcofago dell’ (Firenze, Museo Archeologico Nazionale) 725 Obilius, L., L.f. hels 948 Obscum: Campania 336, Lazio 336, 352, 500 Oceano, divinità 755, 829, 830n – mare 307, 711, 720n – oceanine, ninfe 755 Occidente 296, 320, 321, 426, 459n, 519, 545, 562, 565, 566, 583, 589n, 605, 635, 661, 664, 669, 702, 756, 776n, 788, 792, 804, 805, 810, 828, 875, 907, 1179 Ocno, eroe etrusco 45, 49, 410, 424n, 427n, 433, 540, 897n, 1134n Ocre (aq) 211n Ocriculum (Otricoli, tr) 942 Oderzo (tv) 157n, 174 Odissea, poema 87, 89, 210, 617, 743, 827, 905n Odisseo, eroe greco 88-92, 94, 473, 539, 540, 617, 667, 810, 905n, 1068 Ofanto, fiume (Campania, Basilicata, Puglia) 156 Ofena (aq) 432n Ogulnii, gens 38, 557, 563n Oinoe, battaglia di 811 Olbia (ss) 77, 146, 210, 294n, 571 Olgiata (Agro Romano) 346 Olimpia (Elide) 24, 105, 165, 553n, 554n, 804, 872, 979, 1082n, 1159 Olimpii, divinità 773 Olimpo, monte (Tessaglia, Macedonia) 829, 898 Olmedo (ss) 152, 153 Olta, mostro etrusco 26, 65, 66, 71, 73 Oltos, ceramografo attico 702n Olzscha, Karl 1052n, 1179 Ombrici, popolo italico 55-57, 201 Ombrone, fiume (Toscana) 594 Onesimo, ceramografo attico 698-701, 702n, 1013n Onfale, regina di Lidia 460

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indice dei nomi

Opi (aq) 163, 416, 417 Opici, popolo italico 279 Oppeano (vr) 435, 437 Orazio Coclite, eroe romano 16, 17, 57, 114 Orazio Pulvillo, Marco, console romano 579, 583n Orbetello (gr) 1092n, 1102n, 1159 Orcus, divinità 897, 898 Oresteia, trilogia v. Eschilo Orcia, fiume (Toscana) 1048n Orco I, tomba v. Tarquinia Orco II, tomba v. Tarquinia Orientali, genti 709 Oriente 383, 471, 564, 662, 709n, 783n, 829 Origo gentis Romanae 246 Orioli, Francesco 353n, 491, 492 Oristano (Sardegna) 137 Orsi, Paolo 370 Orsilaos di Delfi 83 Orsini, famiglia romana 230, 231n, 742n Orte (vt) 66, 231n, 647, 891, 942, 954n, 1165 Orthros, cane infernale 562n Ortiz, George, collezione (Ginevra) 640 Ortucchio (aq) 409 Orvieto (tr), v. anche Volsinii 23, 24, 29n, 30, 3337, 41-44, 46n, 47n, 68-70, 75, 105, 112, 113, 127, 166, 172, 173n, 174n, 183-188, 191, 193-196, 302, 304, 393, 411, 437n, 495n, 505, 506, 534n, 592, 593n, 597, 606, 617, 628, 631, 656, 658, 678, 782, 795, 808n, 834, 836, 891, 893, 900n, 901, 920, 943, 951, 954, 955n, 968, 971n, 974n, 978n, 1017n, 1021, 1026, 1027, 1106 – Belvedere, santurio del 617, 795, 891, 893, 900n, 901, 968, 971n – Cannicella, necropoli della, 112, 125, 127n, 188-191, 194, 195, 342, 628, 631, 792n – Crocefisso del Tufo 632, 656 – Deposito Scavi Università di Macerata 917 – Fondazione per il Museo Claudio Faina 33, 47n, 67, 183, 958, 1035 – Golini I, tomba 35-37, 900 – Golini II, tomba 900 – Hescana, tomba degli 36n – Maschere Faina 714n – Museo Archeologico Nazionale 901n, 916 – Porano 43 – S. Giovanni Evangelista 798n – v. Torre San Severo Osa, fiume: Lazio 1048n, Toscana 1048 Oscano (Perugia) 336n, 500, 505 Osci, popolo italico 336 Osenna, fiume (Toscana) 1048n Osento, fiume (Abruzzo) 1048n

Osiride, dio egizio 588n ossidiana 10n Osteria dell’Osa, necropoli di (loc. Castiglione, comune di Roma) 987, 989, 990 Ostia (rm) 76, 246, 472n, 703, 742, 907 Ostiense, via (Roma)249, 253-255, 264, 266 Ostra (an) 431n, 780n Otranto, canale 12, 168 Otricoli (tr) 21n, 119, 125, 128-130, 136, 231, 242, 439, 942, 943 Ovidio Nasone, P., poeta 15, 202, 245, 246n, 507, 385, 805, 832, 836, 838, 872 – Fasti 832 Oxford, Ashmolean Museum 1092n

Pacciano, monte (pg) 500n Pacini, Giuseppe, antiquario 401, 404 Padana, valle 97, 103, 221, 295n, 381, 410, 423, 424n, 427, 433, 435, 652, 655, 665, 712, 836, 957 – padano, delta 1134 Padenna, fiume (Romagna) 431n Padova 157, 167, 174n, 200, 399n, 423n, 429n, 432n, 704 Paestum (Capaccio, sa), v. anche Poseidonia 470, 471, 1154 – v. Spinazzo, necropoli Paestum 5397, Pittore di (ceramica pestana) 523n Paflagonia, (Asia Minore) 167 Pafo (Cipro) 785 Paglia, fiume (Toscana, Lazio) 917 Paglieta (ch) – dischi bronzei, tipo 435n Paille, Gustave 1089 Palazzone, Antiquarium del, Ponte San Giovanni (pg) 493 – necropoli del, Ponte San Giovanni (pg) 2325, 31, 34 Palefato, mitografo greco 92 Palemone, eroe, v. anche Melicerte 103, 804806, 810 Palena (ch) 432n Palermo 297n, 786, 787 – Museo Archeologico Regionale “A. Salinas” 568, 569n, 730 – v. anche Panormos Palestrina (rm), v. anche Praeneste 21, 26, 263, 286, 337, 369n, 387, 403, 404, 416, 558n, 665, 801n, 891n, 900n, 954 – Colombella, necropoli della 387 – tomba Barberini 286 – tomba Castellani 558n Palidoro (Fiumicino, rm) 1036

indice dei nomi Palinuro (sa) 540 Pallade, divinità, v. anche Atena 23, 27 Palladio, simulacro 458 Pallano, monte (ch) 645, 647, 1048n Pallor, divinità 941 Pallottino, Massimo 45, 96, 112, 119, 317, 346n, 354, 447-449, 471n, 526n, 530n, 583, 584, 588, 605, 658, 661, 676, 678, 680, 735, 736, 737n, 778n, 780, 782, 790n, 791, 795n, 808, 831, 853, 854n, 855, 856, 859n, 874, 878, 893, 930, 947, 951n, 972, 1017n, 1031, 1089, 1125-1129, 11651169, 1171-1175, 1177-1179 Palme, Pittore delle 667 Palmieri, Alba 1173 Palo (Ladispoli, rm) 742n, 743n Pan, divinità 714n Panatenee, feste 455n Panciera, Silvio 947 Pandolfini, Maristella 974n, 1173 Pania, tomba della, v. Chiusi Pannucci, Umberto 36n Panopeo (Focide) 219 Panormos (Palermo) 785 Pantanelli, necropoli di (Amelia, tr) 904 Panticapeo (Bosforo Cimmerio) 890n Paoletti, Anna 895n Paolo Diacono, storico 124, 428n, 587n, 626 Paolo di Tarso, apostolo e santo 907 Paolozzi, ossuario (Chiusi) 670, 869 Papàla (vt) 943n Pa(pas), divinità 976n Papi, Giuseppe Ugo 1173 Papi, Raffaella 369n, 370, 373, 397, 402, 408n, 413n, 1173n Pap(r)®ina®: Au(le) e V(el)ch(e) 1051 Paratore, Emanuele 735 Pareti, Luigi 658, 737n Paribeni, Enrico 791, 795n, 796n, 811, 831, 1073 Paride, eroe troiano 454n, 702n, 775, 1116 Paride, Pittore di 1092n Parigi 1035, 1089, 1144n, 1145, 1146, 1155, 1160, 1162 – Académie française 1146 – Bibliothèque Nationale 148n, 310n, 460-462, 693n, 801n, 1106, 1157 – ex Cabinet des médailles 1106 – École Normale Supérieure des Jeunes Filles 1035 – Louvre 30, 104, 261, 369n, 534n, 547, 559n, 566, 642, 667, 668, 698n, 712, 716n, 719, 767n, 796, 809, 973n, 1103, 1151-1154, 1156, 1161 – ex Musée Napoléon III 1103, 1162, 1163 – Palais de l’Industrie 1089 – Sorbona 1145

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Parilia, festa 838 Parisi Presicce, Claudio 554n Parlesca (Perugia) 500 Parma, Duomo di 559n Parnaso, monte (Focide) 703 Paro, isola egea 691n, 890n Partenone (Atene) 927, 1114 Partenopeo, eroe greco 798, 801, 803n Pasquali, Giorgio 15, 114 Pasqualini, Anna 159 Pasqui, Angiolo 229 Passeri, Giovanni Battista 1135 Patara (Licia) 704, 907, 908 Pater Indiges, divinità 451n Pater Pyrgensis, divinità 617, 713n Pater Reatinus, divinità 540 Patrimonio di San Pietro 33 Patroclo, personaggio dell’Iliade 8, 197 Patturelli, fondo (Capua, ce) 619 Paul, E. 716n, 717n Pausania, scrittore greco 83n, 144n, 223n, 224, 552, 571n, 785, 899, 901, 965 Pavor, divinità 941 Payne Knight, collezione 1102n Pech-Maho, Piombo di 298, 304, 318, 597, 1018 Peianas, Laris 363, 1026 Pelagatti, Paola 87, 141n, 317, 360, 993, 1034, 1126, 1130 Pelagosa, arcipelago (Croazia) 3, 5, 6-13, 157, 159, 162, 175, 199, 201, 540 Pelasgi, popolo mitico 46, 55, 58, 92, 95, 96, 116, 139, 146, 147, 163n, 200, 201, 210, 295n, 410, 425, 426-428, 433, 469n, 473, 583, 737, 756, 811n Pelasgo, capostipite dei Pelasgi 766n Peligni, popolo italico 53, 56, 58, 202, 372 – conca peligna (aq) 417 Pellegrina, tomba della, v. Chiusi Pellegrini, Giovanni Battista 431-433, 1069 Pellegrini, Giuseppe 401 Peloponneso, regione (Grecia) 90, 91, 141, 167, 175n, 276, 426 Peltuinum (Prata d’Ansidonia-San Pio delle Camere, aq) 301n Penati, divinità 458 Penna Sant’Andrea (te) 55, 59, 203, 239, 645, 646, 937n, 1075n Pentatlo, condottiero greco 787 Pentesilea, Pittore di 899n Perachora (Corinzia) 379n, 559, 741n, 1044n, 1065, 1068, 1069 – v. Hera Akraia, santuario di Pergamo (Asia Minore) 533, 691-694, 723, 730 – altare di 714n

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indice dei nomi

– Cervo, casa del 693n – v. Donario di Attalo Pericle, politico e stratega greco 907 Perina Begni, Gabriella 526 Peroni, Renato 162, 163, 987 Persefone, divinità 35, 471n, 617, 628, 756n, 898900, 905, 906n, 967, 968, 977n, 1109, 1114, 1174 Perseo, eroe greco 1113n Perseo, re di Macedonia 1153 Persepoli (Persia) 564, 565, 567, 569, 570 Persiani, popolo 27, 82n, 103, 546, 568, 676, 907 – Persia 565 Perugia/Perusia 23-25, 30, 34, 36, 43, 113, 212, 225, 303n, 309, 336n, 341, 393, 395, 396n, 401, 402407, 408n, 410, 411, 415, 427n, 431n, 433, 435, 436, 438, 439n, 481, 483n, 484, 486, 494, 495, 497-500, 502-505, 554, 595, 597, 719n, 722, 724, 731n, 891, 894, 895n, 896, 949, 950, 980, 1024, 1047n, 1068, 1133, 1135 – Arco di Augusto 498, 499n, 500, 502 – Cattedrale 486n – Chiesa di S. Angelo 502 – cippo di (Perugia, Museo Archeologico Nazionale) 492n – Civitelle, monte 395, 487, 500, 503 – Comune di 491n – v. Compresso, loc. – Cutu, tomba dei 894n – Galleria Nazionale 551 – Grifo di, statua bronzea (Perugia, Galleria Nazionale) 551, 559 – Leone di, statua bronzea (Perugia, Galleria Nazionale) 559 – v. Monteluce, necropoli di – Museo Archeologico Nazionale 68, 71, 72, 369n, 373, 403n, 404n, 408n, 413, 416, 503n, 894n, 901n, 916 – Perugini 23, 396, 436, 485 – perugino, territorio 401, 408, 413, 415-417 – v. Oscano – Ponte Felcino 500 – Ponte Pattoli 500 – v. Ponte S. Giovanni – Porta Marzia 499n – Porta Pulchra v. Arco di Augusto – Porta Trasimena 499n – R. Accademia di Belle Arti 495 – rione S. Angelo 502 – v. S. Manno, iscrizione di – v. Sperandio, necropoli di – Verzaro 499n – Thorrena, via 499n – v. Volumni, tomba dei

Perugia, Pittore di 502n Perusinum, bellum 497, 894 Peruzzi, Emilio 989 Pesaro 431n, 874 – Museo Oliveriano 369n Pescara 371n Pescara, fiume (Abruzzo) 52, 413, 645, 647 Pesce, Gennaro 569n Petelia (Bruzio, kr) 48 Petit-Radel, Louis Charles F. 148n, 737n Pettino (L’Aquila) 372n Peuceti, popolo dell’Italia 15-21, 26, 52, 114-117, 206 Peucezia, regione storica (Puglia, ba) 19, 20, 165, 173 Peuketíon, eroe romano 16, 17, 115, 206 Pfeiffer, Rudolf 17, 19 Pfiffig, Ambros Josef 470n, 897n, 948n Phanyllis, Gruppo di 610 Pharai (Acaia) 611 Phersipnai, dea etrusca 782n, 968n Phillips, Kyle Meredith 592 Phintias e Euthymides, cerchia di, ceramografi 791 Phyromachos, scultore greco 724 Piacentino, territorio 432n Pian di Misano (Marzabotto, bo) 219, 220 Pian di Mola (Tuscania, vt) 538, 632, 634, 656 Piano di Comunità (Veio, rm) 344n, 350, 351, 447, 449, 464n Piano di Sorrento (na) 522n, 532n, 1081n – Museo Archeologico “Georges Vallet” 542 Pianosa, isola di (li) 9 Pian Sultano (Santa Severa, rm) 753, 774n Picazzano (Veio, rm) 346, 353, 873 Piceni, popolo dell’Italia 51, v. anche Picenti 52, 58, 60, 62, 63, 199, 331n Piceno, territorio (Marche, Abruzzo) 18n, 20, 21, 52, 55, 57, 58, 59, 63, 96, 122, 123n, 124, 125n, 157-159, 163, 164, 202, 205, 206, 211, 376n, 379n, 414-417, 425n, 428, 432n, 440, 594, 596, 597, 639-640, 647-648, 672 Picenti, popolo dell’Italia, v. anche Piceni 19-21, 52, 57, 58, 116-119, 136, 157, 202-204, 206 Picentini, popolo dell’Italia 63 – Picentino, territorio (sa) 57, 538n, 1070n Picetia (Lazio) 20, 117 Pieri, Silvio 432 Pietrabbondante (is) 329n, 387, 795 Pietrangeli, Carlo 1166 Pietra Pertusa (Agro Romano) 351n Pietrera, tumulo della, v. Vetulonia Pieve a Sòcana (Castel Focognano, ar) 606, 609, 620, 637

indice dei nomi Pieve S. Quirico (Perugia) 500 Pieve Torina (mc) 370n, 371, 373, 377, 403n, 404, 640 Pigmei, popolo mitico 720n Pigorini, Luigi 370 Pila (Perugia) 484 – castello di 507 Pinarii, gens romana 680 Pindaro, poeta 8, 617, 770n Pinelli, Bartolomeo 1139-1141, 1144-1146 Pinza, Giovanni 658 Pio V, papa 744n Piombino (li) 658 pirateria tirrenica 92, 93, 95, 101, 107, 140, 142, 143, 145, 200, 214, 271, 277, 279, 283, 747 Pirenei, catena montuosa 213, 221 Pirro, re d’Epiro 722, 726, 1047, 1152, 1160 Pisa 75n, 137, 138n, 213, 224, 293, 294, 295n, 301n, 302n, 305n, 310n, 369n, 558n, 562, 593n, 655, 712n, 900n – Battistero 563n – Camposanto 562, 563n – Duomo 563n – Pisano, agro 643, 664 – Università di 971n Pisandro, poeta greco 772 Pisani, Vittore 940 Pisano, Giovanni, Guglielmo e Nicola, scultori 563 Pisistrato, tiranno 27, 877 Pistoia, Chiesa di S. Andrea 563n Pissidi Cilindriche, tomba delle, v. Populonia Pistrucci, Filippo, incisore e poeta 1140-1144 Pisus, re celta 712n Pitagora 788n, 953 Pitecusa (Ischia, na) 271n, 276, 279, 280, 847, 989, 1029n, 1075n – v. Nestore, coppa di Pitigliano (gr) 186n, 472n Pitino di San Severino Marche (mc) 129, 164, 371, 372, 377, 378, 404, 639-640, 641, 672 Pitone, serpente 684, 879, 880 Pittau, Massimo 144n, 138n Pitumnus, divinità 351 Pizia, sacerdotessa delfica 79, 107, 887n Pizzughi (Istria) 164 platano, albero 9n, 766 Platea (Beozia) 27, 546, 702n – v. Atena Areia, tempio di Platone 107, 139, 140, 211, 55n – Timeo, 139 Plauto, T. Maccio, commediografo latino 311, 440, 597n, 963, 980, 990 – Poenulus 597n

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Ploutos, divinità 459n Plikasna, personaggio etrusco 665 Plinio il Vecchio, scrittore 9, 19, 20, 26, 34, 58, 63, 65, 66, 70, 71, 89, 106, 111, 113, 115n, 170n, 204, 206n, 411, 424, 426, 428, 437n, 570n, 611, 753n, 796n, 847, 869-871, 873, 881, 1070n – Naturalis Historia 869 Plutarco, scrittore 17, 18, 52, 74, 112, 114, 115, 245, 249n, 428n, 502, 703n, 705n, 831, 881, 888, 1145 Pluton/Plutone, divinità 904, 1093n Po, fiume 411, 423, 424, 426-428, 434, 949, 956n, 1153 Poccetti, Paolo 594, 595 Podalirio, eroe mitico 164 Poggio Buco, necropoli di, (Pitigliano, gr) 42, 188n, 853n, 870 Poggio Civitate (Murlo, si), v. anche Murlo 43, 106, 187, 465, 772, 844n, 869, 870, 873 Poggio della Melonta (tr) 606, 609 Poggio Evangelista (Latera, vt) 43 Poggiomarino (na) 279 Poggio Montano (vt) 119 Poggio Pesce e Poggio Battaglini (Bolsena, vt), necropoli 900n – santuario 901n Poggioreale (tp) 786, 1044n Poggio Sommavilla (Collevecchio, ri) 121n, 129, 133, 230, 237, 238, 241n, 641n, 937n, 939n, 940n, 942 Pointe Lequin 1A, relitto di 297 Polesine, territorio (ro) 165 Polibio, storico greco 57, 103, 167, 295n, 411, 424, 425n, 437, 440, 579, 581, 698n, 785 Policarmo, scrittore greco – Lykiakà 907n Polifemo, ciclope 212, 667-669 Polifonte, eroe greco 798, 930 Polignoto, pittore greco 698, 825, 899, 930 Polinice, eroe greco 196, 801n, 802, 803n, 811 Polissena, principessa troiana 611, 628, 702n Polla (sa) 279 Pollak, Ludwig 40, 570, 978, 1155n Polledrara, necropoli della (Vulci, vt) 1112n Pollentia (cn) 213 Pollenza (mc) 371, 377, 404 Polluce, eroe greco 900n Pomono, divinità 499 Pompei (na) 97, 279, 385, 495n, 535, 539, 703, 1070n – Foro Triangolare 535n Pompeo Magno, G. politico e generale romano 873 Pontecagnano (sa) 63, 96, 143, 173n, 183, 278283, 285, 287, 288, 301, 335n, 342n, 387, 538n,

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indice dei nomi

618, 661, 666, 890, 897, 899n, 905, 906, 949, 975n, 976n, 1019n, 1021, 1068, 1070 – tomba 3509 280, 281 – via Verdi, santuario di 905, 976n Ponte S. Giovanni (pg) 493 Ponto Eusino, mare 146n, 829 Ponza, isola di (lt) 976n Populonia (Piombino, li) 24n, 57, 67, 123, 131n, 132, 196, 206, 275n, 276, 283, 284, 286, 287, 292n, 293, 294, 301, 302, 304, 305, 308, 309n, 440n, 460n, 519, 651, 652, 654-658, 798n, 891, 968n, 977, 978 – Carri, tumulo dei 657 – Granate, necropoli delle 653 – Pissidi Cilindriche, tomba delle 657 – Poggio del Molino (o del Telegrafo) 653-655 – Rasoio di Bronzo, tomba del 652 Porano v. Orvieto Porcuna (Andalusia) 329, 715n, 718n Porfirione, gigante 773 Porfirione, Pomponio, grammatico 106, 643 Porsenna, re di Chiusi 15-21, 26, 27, 41, 55, 60, 61, 63-66, 103-106, 113, 138, 161, 180, 188, 340, 366, 411, 432, 571, 591, 774, 877, 891, 942n, 1021n, 1153n, 1174 Porto (Fiumicino, rm) 338n, 339 Portogallo 322, 1102 Portonaccio, santuario di, v. Veio Porto San Giorgio (ap) 19, 58 Porto Torres (ss) 1167 Portuno, dio romano 878 Portus Herculis – Porto Ercole (gr) 774 – Tropea (vv) 788n Posada (nu) 642 Poseidonia (Capaccio, sa), v. anche Paestum 533n, 535, 537, 541, 774n, 1021, 1070n – Athena, tempio di 534n – cd. Basilica 535, 844n – Cerere, tempio cd. di 471 – Nettuno, tempio cd. di 534n Posidone, divinità, v. anche Nettuno 90, 94, 766, 898 Posidonio, geografo e storico greco 103, 104, 137-139, 142, 213, 214, 711 Positano (sa) 537, 538n Postumia, valico (Slovenia) 157 Postumio “il Tirreno”, pirata 143n, 283 Postumo il romano 16, 17, 115 Potitii, gens romana 680 Potnia, divinità 264n Potniai (Beozia) 802 Poucet, Jacques 1035

Poupée, aryballos (Roma, Museo di Villa Giulia) 1018, 1028 Pourtalès, collezione 538n Pozzuolo (Veio, rm) 346, 353 Praeneste (Palestrina, rm), v. anche Palestrina 60, 280, 337, 665, 1153 – Foro di 562n Praga, Museo Nazionale 711 Praisos (Creta) 534n, 1041n Prata Aesuvia (Silva Arsia) 340 Praxias, Arnth, ceramografo etrusco 871 Praxias, Gruppo di 461, 1105 Prayon, Friedhelm 749n, 979n Prealpi, rilievi montuosi 424 Preneste v. Praeneste Prenestina, fibula (Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”) 309, 939, 950 Prestino (Como) 97, 430, 439 Pretoro (ch) 642 Pretuzi, popolo italico 19, 53, 55, 57, 58, 129, 202205, 204 Priamo, Pittore di 459 Priamo, re di Troia 460n, 469n, 699, 702, 779n Prile, lacus (Castiglione della Pescaia, gr) 447n Prima Italia, mostra 1180 Prima Porta (Roma) 351n, 352 Primato, Pittore del, ceramografo lucano 522n, 523n Princeton, University Art Museum 40 Priumnes v. Priamo Procéno (vt) 432n Procoio Nuovo (Riano, rm), tombe 351n Proculeius, L. (Perugia) 497n Proietti, Giuseppe 993, 995 Promachos, v. anche Atena 27, 30, 553 Promathion storico greco 503, 755, 782n, 805 Propertius, re di Veio 335, 337 Prosdocimi, Aldo L. 51, 203, 385n, 430n, 712n, 1035, 1080n Proserpina, divinità 264, 265, 342n, 617, 631, 756n, 834, 898, 902, 967, 968n, 1093n Protesilao, eroe greco 908 Protis, fondatore di Massalia 294 Provenza, (Francia) 100, 291, 295, 318n Prussia, ambasciata romana di 1157n Pryce, Frederick Norman1092, 1100, 1112n Pseudo-Aristotele, scrittore 9n, 143, 276n, 428 Pseudo Scilace, geografo, v. anche Scilace di Carianda 19, 57, 116, 206, 295 Pseudo Scimno, geografo 56, 295, 428 Pugliese Carratelli, Giovanni 33, 447 Puilia Saxa (Roma) 338

indice dei nomi Pule Creice, Laris 980n Pulenas, Laris 611, 980n – epitaffio di 781n, 981, 982, 1018n Pulesnai, Kuvei 955 Pumpus, Laris (Tarquinia) 1154 Punta Alice (Cirò Marina, kr) 702n, 741n Punta della Campanella (Massa Lubrense, na/ Positano, sa) 271n, 535 – Athenaion 535, 539 Punta della Vipera (Santa Marinella, rm) 633, 680, 704n, 781, 782n, 1130 Purni, gens 726 – tomba dei (Città della Pieve, pg) 728, 730 Putto Carrara, statua bronzea (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco) 485n, 1099 Putto Graziani, statua bronzea (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco) 35n, 40, 484, 485, 506, 892n, 1133 Py, Marcel 298n, 301, 302, 304 – tipologia anfore 292n, 299, 302, 309 Pyrgi (Santa Marinella, rm), v. anche Santa Severa 6n, 8n, 48, 75, 76, 77n, 82, 93, 97, 100, 103, 144, 145, 146, 148, 168n, 201, 217, 261, 263, 293296, 297n, 301n, 304, 306, 309, 318, 319, 321n, 357, 358, 360, 448n, 451n, 454, 455, 469n, 503n, 529n, 566, 580, 583-587, 589, 590n, 592, 594, 605-607, 609-611, 613, 617, 618, 620, 622, 623, 627-630, 637, 679-681, 683, 696, 697n, 698n, 700n, 702n, 704n, 709n, 713n, 716n, 722, 735741, 742n, 743, 747-749, 754n, 755, 756, 760, 763, 764, 765n, 766, 768n, 769, 771-775, 778, 779n, 780n, 781n, 782n, 784-787, 790n, 791, 792, 795, 796, 801, 804, 806, 808, 809, 812, 813, 834-839, 845n, 875, 878, 887-889, 893, 901-903, 905-907, 918, 923, 924, 927-930, 955, 967-972, 976, 977, 1016, 1017n, 1020, 1021, 1023, 1027n, 1028, 1035, 1041n, 1053, 1054, 1125, 1126, 1167, 1171, 11731175, 1179 – Fosso del Caolino 744n, 745, 753, 754, 813 – v. Lamine auree – v. Leucotea – v. Macchia Tonda – scorta Pyrgensia 806 – v. Sette a Tebe (altorilievo) – tabelle bronzee di 1016

Quarnaro, golfo (Istria) 157 Quattro Casette (Fiumicino, rm) 1040 Quattro Fontanili (Veio, rm), necropoli 344, 353, 354 Quintiliano, M. Fabio, scrittore latino 870

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Quinto Fiorentino (Sesto Fiorentino, fi) 280, 285, 657 Quirino, divinità 579n

Raddatz, Klaus 193n rame, metallo 292, 294, 296, 307, 318, 567, 568n, 570, 571, 591, 592 Rafi, Vel, architetto (Perugia) 485n Rallo, Antonia 1173 Rambona, abbazia di (Pollenza, mc) 555 Rapagnano (fm) 387 Rapino (ch) 639, 645, 647 – tavola di (Mosca, Museo Puškin) 641 – v. Grotta del Colle Rasenna 143n, 146, 203n, 280, 288, 427, 432 Rastrelli, Anna 395n Rasunie, Velchae 280, 281, 288, 890 Rath, dio etrusco 678, 684, 691, 699, 701-703, 888n, 889, 891n, 906, 968n Ratumenna, auriga mitico 35n, 111, 678 Ravenna 70, 116n, 175, 211, 289, 423, 426-429, 431433, 437n, 438, 500n, 1133-1135, 1136n, 1137 Rea, divinità 452n Reate (Rieti), v. anche Rieti 21, 540, 891n Regae (Vulci, vt) 97, 296, 306, 342n Reggio (Reggio Calabria) 784, 786n, 788 Reggio Emilia 955, 1050n – Musei Civici 955 Regolini, Alessandro 658 Regolini Galassi, tomba, v. Caere Rellini, Ugo 1173 Remedello-S. Ilario, cultura di 424 Remedello Sotto (Remedello, bs) 435n, 436 Remens (Agro Veiente) 352 Remo, gemello di Romolo 245-247, 252, 253, 255, 263, 265, 266, 555, 782n, 1140 Remoría/Remuria (Agro Romano) 245, 246, 248, 253, 255, 257, 258, 263, 265, 266n Rendeli, Marco 571 Repetti, Emanuele 432 Rescigno, Carlo 538n Resia, passo di (bz) 435 Reti, popolo 96, 200, 221, 434, 974 Richter, Gisela M. A. 1065, 1066, 1067 Rhaetus, capostipite dei Reti 1134n Rhea, titanide 503n Rheneia, isola (Cicladi) 431n Rhoikos, architetto e scultore greco 551, 552 Rho´me, donna troiana 473 Rhomis, mercenario (?) greco 787n Riace, bronzi di (Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale) 553, 791 Richardson, Emeline 471n, 548n

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indice dei nomi

Ricci, Achille 735 Ricci, idria (Roma, Museo di Villa Giulia) 770 Ridolfini Corazzi, Galeotto 1133, 1135-1137 – collezione 1134, 1136 Rieti v. anche Reate 129 Riis, Paul J. 551 Rilievi, tomba dei, v. Caere Rimini 54, 57, 58, 125n, 155, 163, 170, 175, 176n, 199, 200n, 288, 370n, 425, 426n, 427-429, 434, 438n, 641, 724, 939n, 1135n, 1153n – Riminese, territorio 426n – v. Villa Ruffi Ringorakel 693n Rio Carpena, fiume (Emilia-Romagna) 434 Rio Fiume, fiume (Santa Marinella e Tolfa) 743n, 753n, 754, 813 – v. anche Carcara Riuo – v. anche Eri Rio Galeria, fiume (Lazio) 352 Rio Grande, fiume (pg) 500 Riolo Terme (ra) 429n Rio Maggiore, fiume (rm) 1041, 1054 Riserva del Bagno (Veio, rm), necropoli 346, 353 Rix, Helmut 34, 69, 112, 125, 214, 219, 225, 299, 301-304, 364, 432, 492, 495n, 778n, 889n, 895n, 897n, 939n, 940n, 947, 1014n, 1018n, 1019n, 1048n, 1068, 1179 Rizzo, Maria Antonietta 696, 700, 702n, 995 Robert, Carl 825n Roberto d’Angiò, re di Napoli 408n Robigalia, festa delle 337, 338n Roccagloriosa (sa) 597 Rocca Romana, monte (Lazio) 351 Rocchetta di Pietramelara (ce) 387, 647 Rodano, fiume (Svizzera, Francia) 213, 221, 291, 294, 295, 307, 712 Rodi, isola (Dodecanneso) 105, 542, 907 Rogers, Samuel 1091n Rollin, Charles 1145-1148 Roma 15-21, 26, 27, 33, 35, 38, 40n, 42n, 44, 57-60, 62, 65-70, 74, 77, 82, 83, 95, 103, 106, 107, 111-117, 129, 138, 142n, 145n, 147, 159, 173n, 196, 198, 201, 204, 206, 210-212, 214, 223, 229, 231n, 241, 245-249, 252, 253, 255, 258, 260, 266, 285, 294, 295, 301, 302, 310, 317, 319, 335-337, 340-344, 346, 347, 353, 369n, 385, 410, 411, 428n, 429-431, 447, 448, 462, 464n, 467, 471-474, 485, 495, 499, 500n, 502n, 503, 524, 526, 530n, 533n, 538, 540n, 545, 549n, 555-568, 570, 571, 579, 581, 584, 587, 589, 591, 592, 593n, 617, 633, 640, 642, 652, 661, 663, 666-669, 672, 675, 679, 680, 683, 685, 700n, 701, 703n, 712, 722, 726, 733, 736, 755,

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

760, 765n, 774, 775, 784, 785n, 786n, 787, 794, 796, 801, 805, 809, 810, 811n, 827, 831, 832, 836, 838, 842, 845-847, 851, 869, 870, 873, 877, 878, 902, 927, 941, 942, 949, 950, 953, 954, 957, 958, 964n, 966, 967, 976n, 977, 980, 988, 993, 1035, 1037, 1040, 1050, 1052, 1053n, 1054n, 1055, 1091n, 1092n, 1106n, 1125, 1126, 1135, 1139-1141, 1144-1146, 1148, 1153, 1156, 1161-1163, 1165-1168, 1171n, 1172n, 1179, 1180 Accademia del Nudo 1140 Accademia di Francia 1140 Accademia di San Luca 1139n, 1140 Accademia Nazionale dei Lincei 526n, 584n, 1073, 1125, 1171 Acqua Acetosa Laurentina 248, 249n, 250, 252, 265n, 964n v. Aquae Salviae Ara Pacis 357, 471n, 1166 Argentari, arco degli 1167 Augusto, foro di 459 Aventino, colle 77, 245-249, 252, 253, 265, 265, 473, 588, 592, 770n, 870 Basilica di San Paolo f.l.m. 254n, 264, 559n Biblioteca Alessandrina 1171 Biblioteca Nazionale 1140n British School at Rome 354 Campidoglio, colle 627, 652, 678, 762n, 836, 1130, 1140, 1168 Antiquarium 831 Campo Marzio 617, 678 Capitolium Vetus 872 Castori, tempio dei 637, 765n, 784, 794, 795 Cerere, Libero e Libera, tempio di 870 Chiesa della Madonna del Riposo 340n Chiesa di S. Ivo 1171 c.n.r. 317, 1053n Istituto (ex Centro di studio) per l’archeologia etrusco-italica 696, 1173, 1179, 1180 Circo Massimo 680 Collegio Germanico e Ungarico 249n Comizio 342n, 540n, 541n, 563n, 617, 832, 834, 870, 901 Comune di 1167 Consiglio di Stato 529 Colonna Aureliana 1167 Curia Hostilia 870 Diana, tempio di 953 Ditis, sacellum 834 École Française 736n Ente Maremma 470n, 531, 1035-1037, 1039n, 1173 v. Ercole, Ara Maxima Esquilino, colle 556n, 825, 827

indice dei nomi – eur 248-251, 254, 255, 257-265, 1165 – Foro Boario 106, 625, 703n, 760, 770, 805n, 810, 873 – Foro Romano 357, 637, 784, 988 – cippo del 951, 953, 966, 1041n, 1044n – Forte Ostiense 248-251 – ex Gabinetto Nazionale delle Stampe 1139 – Galleria Borghese 462n – Gruppo Archeologico Romano 448, 993n, 1040 – Germalo, colle 245 – Gianicolo, colle 66, 212, 337, 340, 473n, 589n – Giove Capitolino, tempio di 106, 217, 349, 448, 579n, 583n, 635, 640, 686, 772, 847, 848n, 870, 871, 878, 1050 – Giove Feretrio, tempio di 627, 1130 – Istituto Archeologico Germanico 191, 524, 562n, 815n – Istituto Centrale del Restauro 361, 362, 779n, 995 – Istituto di Studi Romani 584, 738, 815n, 831n, 843n – Istituto Nazionale di Statistica 529n – Laterano 556 – Lavernale, Porta 254 – v. Lupercale – v. Magliana, via della – ex Ministero dell’Educazione Nazionale 1167 – Ministero della Pubblica Istruzione 526-530, 1174 – ex Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti 526, 529, 531 – ex Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti 525, 530n – ex Divisione Musei 526 – Monte Sacro 252 – Musei Capitolini 670, 877 – Museo Barracco 260n, 569, 571 – ex Museo Campana 1089, 1161, 1163 – Museo della Civiltà Romana 1165 – Museo delle Terme v. Museo Nazionale Romano – Museo di Roma 1145 – Museo di Villa Giulia 29, 190n, 257n, 317, 385, 462, 509, 510, 513, 514, 516-519, 523, 526, 529532, 537, 558, 676, 686, 735, 744n, 779n, 797, 813, 815n, 853-855, 859n, 865, 874, 876, 877, 881-883, 908, 920, 927, 928, 951n, 952, 1033, 1034, 1039n, 1103, 1125, 1128, 1166 – ex Antiquarium della Scultura 526n, 531n – Portico 531n – Tempio di Alatri 526n – ex Museo Kircheriano 40n, 743n

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– Museo Nazionale Romano 257, 262, 270, 462n, 1165n – Ospedale S. Spirito in Saxia 736n, 742 – Niger Lapis 832, 901, 966 – Palatino, colle 97, 106, 245-249, 254, 263, 266, 301n, 571n, 652, 842, 964n – Palazzo Carpegna 1171 – Palazzo dei Commendatori di S. Spirito 753n – Palazzo delle Esposizioni 1165n – Palazzo Grazioli 1172 – Palazzo Mancini 1140 – Palazzo Torlonia (demolito) 1140 – Palazzo Venezia 1140, 1172 – Pincio, colle 1144n – Porta Collina 555 – Quirinale, colle 786n, 872 – Raudusculana, Porta 254 – Regia 679, 870 – v. Romuli, casa – San Paolo, Porta 253n, 254 – San Paolo, Rupe di 248, 249, 251, 252 – v. Sant’Omobomo, area sacra di – Scalae Caci 247 – ex Soprintendenza Archeologica del Lazio 1173 – ex Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale 526, 528, 529, 1125, 1166, 1171 – ex Soprintendenza alle antichità della provincia di Roma 353, 1125, 1128, 1165, 1166, 1171 – Taranto, via 1165 – v. Tarentum – v. Tiberinus, portus – v. Tre Fontane, Fosso delle – v. Trionfale, via – Venere Ericina, santuario di 786n – Venere Genitrice, tempio di 1165n – v. Vestae, aedes – Vicus Alexandri 249, 254, 255n – Vicus Tuscus 27, 35, 47, 297n – Villa Borghese 558n Romagna 19, 20, 48, 183, 211, 221, 410, 423n, 427, 429, 430, 433, 434, 437n, 438, 641, 665 – v. Appennino romagnolo Romani, popolo 15, 23, 27, 34, 36, 52, 57, 60, 63, 65, 66, 74, 97, 100, 105, 106, 107, 115-118, 138, 139n, 142n, 168n, 197, 203, 207, 219, 242, 294, 295, 321n, 337, 340, 341, 351, 423, 425n, 432, 447, 473, 474, 555, 557, 570, 571, 588, 589n, 591, 611, 617, 618, 733, 785, 832, 871, 872, 881, 899, 904n, 981, 1047n, 1055, 1130, 1141, 1144 romanizzazione 199, 471n Romano, agro 337, 1036 Romanus antiquus, ager 336n, 337, 1052

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indice dei nomi

Romilia, tribù 337, 340 Romo, figlio di Enea 473 Romolo, fondatore di Roma 335, 336n, 337, 410, 473n, 474, 499, 555, 563, 776n, 782n, 831, 838n, 870, 901, 953, 1140 – tomba di 540n, 541n Romualdi, Antonella 652, 655-656, 658 Romuli, casa (Palatino, Roma) 652 Roncalli, Francesco 130, 197n, 493, 598, 798n, 1035 Rondinelli, Giovanni 484n Rondini, Pittore delle 672 Rosenberg, Arthur 431 Roselle (gr) 293, 447n, 597, 625, 626, 652, 977 Rosette e Palmette, bottega delle 732 Rosi, cratere (perduto) 801n, 1113 Rosii, gens 1024n Rosoni, Ciclo dei 133, 472n, 672, 853-856, 859, 862 Rosoni, Pittore dei 853, 856, 858, 859, 862, 864, 865 Rossignoli, Benedetta 55n Ruberti, Antonio 1165, 1174 Rubicone, fiume (Romagna) 57, 58, 429 Rubiera (re) 218, 219, 595n, 665, 955, 956, 1050n Ruspi, Carlo 1092n, 1099n, 1106-1111, 1114 Russi (ra) 429, 434 Russo, Mario 509n, 530n, 532, 537, 1073, 1074, 1080-1083 Rutelli, Francesco 448 Rutilio Namaziano, poeta latino 145n Ruvo di Puglia (ba) 28, 1159, 1161

S. Angelo in Formis (Capua, ce) 523n S. Bernardino (Briona, no) 439n, 901n S. Ginesio (mc) 370n S. Giovanni in Galdo (cb) 627 S. Maria degli Angeli (Bastia Umbra, pg) 403n S. Maria in Campis (Foligno, pg) 892n S. Martino in Gattara (Brisighella, ra) 424, 429, 430, 439 S. M. Maddalena di Cazzano (Budrio, bo) 438440 S. Omobono, area sacra di (Roma) 301n, 302, 533n, 592, 593n, 633, 680, 681, 772, 831, 844846, 873, 877-879, 964n, 980, 1168 S. Polo d’Enza (re) 430n, 700n S. Rocchino (Massarosa, lu) 292 S. Severino Marche (mc) 370n S. Silvestro in Capite, Gallo di, statua bronzea (Roma) 554 S. Varano di Forlì (fc) 665 Sabate (Lazio, rm) 352

– Sabatina, regione 1041n – Sabatina, tribù 341 – Sabatini, monti 351 Sabazio, divinità 456 Sabina, regione storica 20, 54, 58, 128, 129, 133, 136, 201, 202, 229, 231, 232, 239, 241, 372n, 403, 408-410, 648, 672, 722, 862n, 942, 1044n Sabini, popolo 16, 20, 21, 52, 55, 58-60, 63, 96, 117, 119, 122, 125, 129, 136, 201-204, 229, 231n, 239, 241, 335, 340, 384, 410, 428, 432n, 832, 871, 940, 1080n, 1168, 1180 Sacrofano (rm) 336n Saeculares, ludi 617 Saffo, poetessa greca 785n Saint-Blaise (Rodano-Alpi), oppidum 297-299, 301-304, 317, 318n, 319 Saint-Louis (usa), Museo 371n Sakçagözü (Turchia), statua di leone 561 Sala Consilina (sa) 96, 278 Salamina di Cipro, tomba 79 285 Salaria, via 15, 60, 204, 206, 337, 502n Salento (Puglia) 756n Salerno 310n, 523n, 535, 538n, 1070n, 1074n – golfo di 293, 538n, 663 – Salernitano, territorio 541 Salii, sacerdoti 335, 448, 782, 948, 1134n Salina, isola, v. anche Eolie, isole 272 Sallustio Crispo, Gaio, scrittore latino 144n, 223 Salomone, tempio di (Gerusalemme) 545 Salpinum (Etruria) 44 Sammartano, Roberto 90n, 93 Samo, isola egea 293, 296, 533, 551, 552, 554n, 611, 973, 1044n – Heraion 551, 552n, 741n, 747n, 754n – Samii 294, 428, 671 San Basilio di Ariano nel Polesine (ro) 97, 166, 170, 171n, 174 San Canziano (Slovenia) 158, 289 San Casciano in Val di Pesa (fi) 558n San Cassiano (Badia, bz) 309 Sancu, divinità 506, 507 San Domino, isola di (Tremiti) 9 San Giovenale (Blera, vt) 631, 632, 679, 781n, 964, 1024 – Pontesilli, sepolcreto di 749n San Giuliano, v. anche Barbarano Romano (vt) 562n, 631, 651, 891n, 897, 937n, 1024 Sangro, fiume (Abruzzo, Molise) 641, 645, 647 Sanguineto (Tuoro sul Trasimeno, pg) 484, 486 – valle di 393, 483, 504 San Lorenzo Nuovo (vt) 43 S. Manno, iscrizione di (Perugia, ipogeo omonimo) 311, 780n, 1019n

indice dei nomi San Nicola, isola di (Tremiti) 9 San Martino in Gattara (ra) 183 Sannibale, Maurizio 554n, 1161n Sanniti, popolo 16, 52, 55, 103, 136, 143, 188, 206, 223, 642, 942n, 977 – Sannio 432n, 627, 648 San Bartolomé de Almonte (Andalusia) 320 Sanlúcar de Barrameda (Andalusia) 321, 322 San Pietroburgo, Ermitage 369n, 554, 711n, 801n, 1151, 1152, 1154, 1156n – Laval, collezione 801n San®, epiteto etrusco di divinità 888n San Sperate (ca) 152 Sant’Agnello (na) 537 – Municipio 537 – giardino del Pizzo 538n – piazza Sant’Agnello 537 – rione Angri-Cappuccini 538n – San Martino, necropoli di 537, 538 Santa Lucia di Tolmino (Slovenia) 97 Santa Marinella (rm) 704n, 735, 741n, 742n, 743, 753n, 781, 834, 836, 1019n, 1053, 1130 – v. Castrum Novum – Fosso di Castelsecco 753n – Fosso Eri 753n, 813 – La Selciatella 743n – Prato Rotatore 742n – Terre Nuove 752, 753n – Pietra di (Civitavecchia, Museo Archeologico Nazionale) 1024, 1027, 1028 – Piombo di (Civitavecchia, Museo Archeologico Nazionale) 310n, 891, 904, 1016, 1019, 1028, 1047n, 1053 – v. Punta della Vipera Sant’Anatolia di Narco (pg) 129, 130 Sant’Angelo a Bibbione (San Casciano in Val di Pesa, fi) 647 Santangelo, Maria 354, 447n, 448, 449, 676, 686, 1125, 1130 – Carte 471n Santangelo, cisterna (Portonaccio, Veio, rm) 676 Sant’Angelo, monte (lt) 352 Sant’Antioco (ca), v. anche Sulcis 569, 570 Santa Severa (Santa Marinella, rm), v. anche Pyrgi 737n, 742, 743n, 752-754, 927, 1035 – Antiquarium 735n, 743, 917, 919, 958, 1175, 1177, 1178 – Casale della Scaglia 753n, 754 – Castello, Casale o Fortezza 736-739, 741-743, 744n, 753, 907 – Castrum 753n – Colonia Marina 753

– – – – – – – – – –

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Mola 753, 754 v. Pian Sultano Pro Loco di 735 “Rimessone” 744n v. Rio Fiume Rocca 736n, 741, 742, 744n Torre 742n, 744n cd. Torre Saracena 741n Torretta o Torre dei Cavallari 744, 752, 758 Vigna/Vigna murata o di S. Spirito 744, 753, 754, 756 766, 788 Santa Venera, fiume (Naxos) 741n, 758n Santerno, fiume (Toscana, Emilia-Romagna) 429, 431n, 641 Sant’Imbenia (Alghero, ss) 568n Sanzeno (tn) 974 Sapinia, tribù 411, 437, 438 Sapis v. Savio Sappinates 437n Saraceno, monte (fg) 376n, 377, 645 Sardegna 75n, 76, 77, 93n, 97, 100, 117, 137-140, 142-148, 152, 224, 275293, 307, 320, 330, 353, 427n, 568-570, 571n, 587, 592, 593, 642, 644, 652, 654, 655, 1035, 1167 Sardi 571n Sardi (Asia Minore) 533, 534n, 568n Sardo, mare 293 Sardonio, mare 75, 77, 83, 137, 138n, 146, 272, 282 Sardus Pater, divinità 571n Sarno, fiume (Campania) 94, 276, 279, 532 Sarsina (fc) 410, 411, 423, 431n, 433, 434, 437, 438 – Foro 438n – Museo Archeologico Nazionale 438n – Sarsinati 393, 410-412, 433, 434, 436-438 Sarteano (si) 556, 900, 914, 1006 – Quadriga Infernale, tomba della 558n, 914 Sarti, Prospero, collezione 40 Saserna, L. Ostilio, magistrato monetale 714n Sassari 137, 152 – Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico “G.A. Sanna” 569n Sassatelli, Giuseppe 45n, 155, 175, 176n, 218, 220, 289, 423, 429, 430n, 431, 714, 715, 1133n Sassi Caduti, santuario dei, v. Falerii Sasso (Cerveteri, rm) 467 Sassula (Equi), oppidum 437 Saties, Vel (Vulci) 1154 Satiri 451, 455n, 459n, 616, 712, 713, 714, 717, 762, 765n, 908, 1091n Satricanus lapis (Roma, Museo Nazionale Romano) 849n, 953, 966 Satricum/Satrico (Borgo Le Ferriere, lt) vedi anche Satrico 29n, 110n, 111n, 112n, 184n, 217,

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indice dei nomi

221n, 244, 245, 255, 364, 385n, 471, 583n, 595n, 630, 709n, 772, 773n, 783n, 792, 843-851, 939n, 961, 1168 – Mater Matuta, santuario di, 630, 843-846, 966 – Poggio dei Cavallari 844 Satrienus, L. e P. magistrati monetali 555, 556 Satrienus, Publius, Saturnia (gr) 145n, 188n, 198, 342, 737n, 951n, 980 Saturno, divinità 700n, 968n Saulini, collezione 40, 369n Savcne, dio etrusco 890n Savio, fiume (Emilia-Romagna) 411, 434, 437 Scaenici, ludi 954 Scandinavia 326 Scasato I, santuario dello, v. Falerii Schauenburg, Konrad 469n Scheggia, passo della (pg) 500 Scheid, John 1035 Scholia Veronensia 755n Schöne, Richard 169, 171 Schulze, Wilhelm 239n, 431-433 Scichilone, Giovanni 51 Scilace di Carianda, geografo, v. anche PseudoScilace 55, 57, 62, 204, 428, 472 – Periplo 55, 162, 204, 224, 295, 472 Scilla (rc) 283 Scilla, mostro mitico 89n, 92, 94, 271 Scipione Barbato, L. Cornelio, console romano 954, 955n Scipione l’Africano, P. Cornelio, condottiero romano, 507, 954, 1141 Scipioni, famiglia 485n – Scipioni, tomba degli (Roma) 954 Sciri, stele di (Sicilia) 1044n Sciti, popolo euroasiatico709, 716, 717, 763n Scoltenna, fiume (Emilia-Romagna) 432n Scoppito (aq), cippo di 239, 241 Scrofa di Krommyon (Teseo) 767 Scrofa Nera, tomba della v. Tarquinia Scurcola Marsicana (aq) 131, 372n, 408, 409, 645 Scutillo, Domenico 1135n Scutum pseudoesiodeo, poema 772 Secchia, fiume (Emilia-Romagna, Lombardia) 955 Sedia Corsini (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Corsini) 286, 871 Segesta (Calatafimi Segesta, tp) 747, 784, 785n, 786, 973 – Segestani 785, 787, 788 Segni, cd. Capitolium (rm) 795 Seiante, fratelli (?) (Chiusi, tomba della Pellegrina) 727, 728 Seii, gens volsiniese 38

Selciatella (Fiumicino, rm) 1040 Sele, fiume (Campania) 538n, 773n, 949, 1047 – v. Sileraioi Sele, Heraion del (sa) 741n, 773, 774n, 1070n Selinunte (Castelvetrano, tp) 349, 786, 787n, 890n, 962n, 965, 1044n Selvanera (Capalbio, gr) 546, 549n Selvans, dio etrusco 482n, 555n, 838, 889, 892, 1017 – Apa 892n – Calu®tla 555n – Sanchuneta 892n – Tularia 1016 Semele, eroina greca 806 Semele, Pittore di 12n Sena Gallica v. Senigallia Senatore, Felice 1073 Seneca, Lucio Anneo, filosofo e drammaturgo romano 213, 223, 224, 330 Senigallia (an) 157, 723 – Montedoro 157 Senofane di Colofone, poeta e filosofo greco 276n Sentinate, gens chiusina 726, 730-732 – Sentinate, Cae, urna di 727n – Sentinate Larcna, Laris, sarcofago di 726-728, 730 Sentino, battaglia del 52, 722, 723, 732 – fiume (Marche, Umbria) 639 Sepeia, battaglia di 811 Sepino (cb) 213 Septem Pagi (Agro Romano) 66, 253n, 337, 340, 352 Serchio, fiume (Toscana) 1048 Sermugnano (vt) 184 Serravalle di Chienti (mc) 370n, 404 Serse, re di Persia 564 Servio e Servio Danielino, grammatici latini 87-91, 93, 102, 111n, 114, 141-143, 145, 224, 274n, 276, 335n, 410, 411, 426, 433, 436, 618, 652, 712n, 737, 747, 832, 897, 898n Servio Tullio, re di Roma, v. anche Mastarna 77, 105, 286, 337, 340, 346, 447, 472, 594, 831, 873, 966, 1055, 1141, 1167, 1168 Sessa Aurunca (ce) 546n, 547, 549 Sestino (ar) 431n Sesto Calende (va) 165 Sette a Tebe, altorilievo ricomposto dei, da Pyrgi (Roma, Museo di Villa Giulia) 127n, 451n, 455, 735, 788, 808, 809, 1176 – frammenti di altri altorilievi dei 735, 801-803 Sette a Tebe, eroi greci 455n, 774n, 798, 800, 802, 810-812, 927, 929, 930, 968

indice dei nomi Settecamini, Pittore di 37, 193n Settimello (Calenzano, fi), cippo di 519n Sethumsai, dea etrusca 888n ±eu, dèi 780n, 808 Sfinge Barbuta, Pittore della 460, 672, 855n, 862 Sfingi 519, 531n, 533, 541, 552n, 554n, 565n, 648, 656, 663, 670, 679, 869, 872, 879 Sheih Saad (Siria), leone 561n, 564n Sibari (Cassiano all’Ionio, cs) 774n, 788 – Sibariti 103, 104 Sibillini, libri 701, 953 Sibillini, monti (ap) 60 Sicalenum (Casacalenda, cb) 432n Sicani, popolo 90, 95, 144, 210, 786 Siccius Sabinus, T., console romano 891n Sicelo, eroe 147 Sicilia 15, 28, 68, 77, 80, 82, 87, 90-92, 95, 102, 116, 136, 147, 158, 175n, 210, 211, 214, 221, 223n, 271, 272, 274, 275, 277-279, 281, 293, 306, 307, 309, 319n, 425, 535, 587, 588, 605, 642, 669, 670, 673, 712n, 783n, 784-786, 888, 970n, 973, 976, 977, 1044n, 1081 Sicinius Vellutus, C., magistrato romano 891n Sicione (Corinzia) 1041n Siculi, popolo 19, 58, 90, 92, 116, 147, 210, 211, 221, 223, 272, 425, 426, 428, 472 Siculo Flacco, gromatico 162n Sidney, Pittore di 523n Sidone (Fenicia) 523n Sidonio Apollinare, poeta 704 Siena/Saena 671 – Duomo 563n – Museo Archeologico Nazionale 186, 727, 731 – Senese, territorio 326, 432, 869 – Senesi 556n – Università di 658 Sikanos, fiume (Iberia) 144, 210 Síkelos, capostipite dei Siculi 425, 472n Sileni 351, 459, 460, 773, 795n, 798n, 969n Sileraioi, mercenari, v. anche Sele 136 Silio Italico, poeta latino 111n Silqetenas, Araz 593 Silva Arsia (Lazio) 340 Silva Ciminia (Lazio) 352 Silva Maesia (Lazio) 338, 339 Silvano, divinità 340n, 499n, 891n Simon, Erika 900n Sinalunga (si) 810, 900n, 901n Sinello, fiume (Abruzzo) 52, 644, 645 Siniscalco, Paolo 831 Sinope (Ponto) 907n Sintra (Portogallo), villa Monserrate 1102 Siponto (fg) 159

1239

Siracusa 25, 68, 80, 93, 116, 117, 143n, 158n, 206, 211, 221, 223, 427n, 472n, 570, 712n, 747, 787n, 788n, 796, 844n, 927, 968n, 976, 977, 1044n – Apollonion 844n – Siracusani 56, 94, 116n, 142n, 146, 223, 283, 426, 427, 472n, 541, 790n, 795, 796, 930, 976 Siracusa, Pittore di 459n Sirene 538n, 539, 540, 667, 711n, 1098n Siri (Nova Siri, mt) 870 Siria 561n Sirolo (an) 60, 404 Siviglia (Andalusia) 331 Slotty, Friedrich 1017n Slovenia 10, 155, 157, 159, 162-164n Smindja (Tunisia) 948 Smirne (Asia Minore) 533, 534n Sofocle, tragediografo 40, 81n, 182, 192, 200, 210, 282, 459n, 779n, 825n, 828 – Laocoonte 459n – Nausicaa 828 – Triptolemos 271 Sofocle lateranense (Città del Vaticano, Museo Gregoriano Profano) 40 Sol, divinità 383, 385, 617, 808 – Sol Indiges 471 – Sol Iuvans 617 Soleluna, loc. (Velletri, rm) 628 Solin, Heikki 947, 949n Solis oculus, pianta 617 Solunto (Palermo) 786n, 787 Somma-Vesuvio, complesso vulcanico (na) 532 Sommella Mura, Anna 462n, 877 Sorano (gr) 898 Soranus, divinità 617, 685, 836, 891, 897, 899, 907n, 967 – Pater 504, 891 Soratte/Soracte, monte (rm) 394, 504, 618, 891, 906, 914, 970 Sorbo, necropoli del (Caere) 1101 Sordi, Marta 948n Sordo, fiume (Molise) 896n Sordo, fiume (Umbria) 896n Soresio, personaggio mitico 892, 908 Soriano (Lunigiana, ms) 892 Soriano nel Cimino (vt) 892 Sorrentino, Claudio 971n Sorrento (na) 141, 274, 509, 524, 532, 537-541, 1073, 1074, 1075n, 1076, 1082, 1083 – Ducato di 538n – Sorrentini 540n Sorrina (Viterbo) 342, 892, 898 Sostrato di Egina, mercante greco 875, 968

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indice dei nomi

Sotades, Pittore di 713, 899 Sourisseau, Jean-Christophe 299 Sovana (Sorano, gr) 42, 197, 632, 656, 904 Sozzi, Federigo 726 Spagna 319, 320 Spagna, famiglia 353 Sparta (Laconia) 772n, 773, 785, 968n, 1041n – Spartani 811 Sperandio, necropoli di (Perugia) 502, 894 Spina (Ostellato, fe) 6n, 10-12, 18, 46, 48, 49, 55, 56, 79n, 97, 101, 105, 107, 155, 159, 163n, 164, 168, 169, 176n, 200, 202, 204, 211, 220, 289, 298, 307n, 412, 424, 426n, 427, 428, 430n, 433, 437n, 456, 457, 460, 594n, 595, 713, 721, 778, 807, 899, 915, 967, 970n, 1018n – v. Mezzano, valle di – Spineti 79, 80n – v. Valle Trebba Spina, Pittore di 721n Spinazzo, necropoli di (Paestum) 1154 Spoleto, ducato di 502n Sposi, sarcofagi degli (Roma, Museo di Villa Giulia/Parigi, Louvre) 554n Spurinas, Gruppo 302, 472n, 775n, 808n, 954, 968n, 1119n Spurinna, Velthur, duce etrusco 87n, 283 Stabia (Castellammare di Stabia, na) 352n, 530n, 532n, 537, 538n Staccioli, Romolo Augusto 1172n Staffolo (an) 640 Stata Mater, divinità 352n Statue, tomba delle (Ceri, rm) 643, 663, 869, 873 Stazio, P. Papinio, poeta romano 774n, 801, 811n – Tebaide 774n, 801 Stefani, Enrico 131, 353, 449, 676, 678, 679, 683, 859n, 865, 1125-1127, 1129, 1130 Stefano di Bisanzio, grammatico greco 201n, 207, 210, 246, 427n, 428, 440, 473 Steinbauer, Dieter H. 887, 888, 890, 892, 893 Steingräber, Stephan 815 Stellatina, tribù rustica 341 Stellatinus, campus (Campania) 336 Stellatinus, campus: Campania 336, Lazio 336, 341, 352 Stendhal (Henry Beyle) 1144n, 1146, 1148 Stesicoro, poeta siceliota 94n, 212, 457, 772, 796n, 798, 812, 930 Sti©na (Slovenia)164 Stieglitz, Pittore di 791, 800 Stige, fiume infernale 898, 899 Stopponi, Simonetta 900n, 1035, 1133n Stosch, gemma (Berlino, Charlottenburg, Antikenmuseum) 803n

Strabone, geografo e storico greco 9, 20, 79, 83, 92, 95, 107, 116n, 137-142, 144n, 145n, 146, 148, 176n, 200, 207, 223n, 224, 247n, 282, 294, 423, 424, 426-428, 434, 651, 722, 737, 806, 847 Strettweg (Austria) 647 Stromboli, isola di, v. anche Eolie, isole 89, 94, 141, 272 Studniczka, Franz 716n Styra (Eubea) 973 Suasa (Castelleone di Suasa, an) 431n Subasio, monte (pg) 394n Sucu, tomba dei, v. Cerveteri Suessula (Acerra, na) 694 Suessula, Pittore di 519n Sulcis (ca), v. anche Sant’Antioco 587, 593 Sulmona (aq) 409, 703n – v. Ercole Curino Summano, divinità 686, 881, 891n Supunna, dea italica 892n Sura (Licia) 906, 907, 921, 922 – Apollo Sourios, tempio di 921, 922 ±uri, dio etrusco 6n, 145, 483n, 504, 616-618, 628, 630, 631, 684, 702, 750, 755, 782, 806, 834, 836, 887-893, 896-901, 904-906, 908, 967, 968n, 969, 970, 1174 – Fuflunusra 967 – v. Lapse Suriates, popolo italico 892 Surrentum (Sorrento, na) 538 Susa (to) 213 Susa (Persia) 545, 546, 565, 566, 570 Sušac, isola adriatica 9 Susini, Giancarlo 423n, 429n Sutri (vt) 351, 981 Symplegades, isole 828 Syriskos, Pittore di 615 Syros, dio anatolico 907n Szemerényi, Oswald 364 Szilágyi, János György 71, 133, 166, 296n, 853856, 858, 859, 862, 864, 865

Tacito, P. Cornelio, storico romano 832 – Annali 832 Tadinati, abitanti dell’umbra Tadinum 136 Tagete, profeta etrusco 107, 485n, 507, 832 Tagetici, libri 831, 832 Tagliamonte, Gianluca 52, 58, 159 Talamone (Orbetello, gr) 225, 732 Taltibio, araldo greco 702 Tamburini, Pietro 33, 42, 43n, 194 Tampone, Gennaro 654 Tanagra (Beozia) 799n Tanit, dea punica 471n

indice dei nomi Taormina/Tauromenium (me) 541, 762n Taranto 12, 43, 159, 168, 519, 524 Tarchetios, re di Alba Longa 755, 782n Tarchna, gens ceretana 980, 1068 – tomba dei v. Iscrizioni, tomba delle, v. Caere Tarchunus, Avle 35 Tarconte, eroe etrusco 88, 107, 141, 146, 212, 213, 224, 276 277, 335, 423, 433, 618, 832, 836, 902 Tarentum (Roma) 617, 680, 897n Tarquinia/Tarquinii (vt) 24n, 42, 49, 68, 75, 105, 107, 112, 123, 186, 196, 225, 276 (foro), 282, 293, 295, 305, 310, 340n, 341, 344n, 345, 361, 417, 485n, 589n, 620, 622, 623, 625, 630, 636, 651, 653, 657, 663, 669, 672, 720, 726, 763n, 772, 787n, 792n, 808, 815, 820n, 822, 823, 832, 838, 844, 858n, 859, 862, 869, 875, 892, 893, 900n, 947n, 949, 950, 954, 955n, 956n, 977, 978n, 979, 981n, 982, 988, 989, 1007, 1018n, 1022, 1025, 1026, 1029, 1068, 1092, 1093n, 1101, 1102, 1106, 1110, 1111, 1115-1117, 1127, 1153-1156, 1171 – Alberelli e Corone, tomba degli 822 – Anina, tomba 821n – Ara della Regina, tempio dell’ 217, 620, 623, 630, 633, 636, 792n, 844 – Auguri, tomba degli 361, 820, 1009 – Avvolta, tomba 1159n – Baccanti, tomba delle 1009 – Barone, tomba del 1007, 1108n, 1109 – Bartoccini, tomba 822, 1007, 1012 – Biclinio, tomba del 819n, 822n – Bighe, tomba delle 816n, 1092, 1093, 11061108, 1110, 1124 – Bruschi, tomba 720 – Camna, tomba dei 1154n – Civita (area della città antica) 622, 630 – Orco I, tomba 37, 778n, 900, 958 – Orco II, tomba 471n, 822, 899, 900 – Caccia al Cervo, tomba della 822 – Caccia e Pesca, tomba della 822, 825, 829, 1158 – Cardarelli, tomba 820, 822n, 1068n – Caronti, tomba dei 820n – Citaredo, tomba del 821, 822, 1123 – Convegno, tomba del 1154 – Demoni Azzurri, tomba dei 819, 825n, 899 – Festoni, tomba dei 821n – Foro di 276 – Fustigazione, tomba della 820, 822n – Gallo, tomba del 816n, 821 – Giocolieri, tomba dei 709 – Giustiniani, tomba 816n – cd. Guasta, tomba 822n – Guerriero, tomba del 417, 821

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– Iscrizioni, tomba delle 364, 365, 1016n, 1028, 1029, 1090n, 1092, 1108n, 1112n, 1114 – Leonesse, tomba delle 820, 822, 1009 – Letto Funebre, tomba del 819, 822, 1153 – Maggi, tomba 816n, 822 – Monterozzi, necropoli dei 823 – Morente, tomba del 1007 – Museo Archeologico Nazionale Tarquiniense 560n, 717n, 815n – Nave, tomba della 815-826 – Poggio del Cavalluccio 1154 – Poggio Gallinaro 560n – Porta di Bronzo, tomba della 820 – Pulcella, tomba della 821, 822n – Querciola I, tomba 819, 1108n, 1109 – Querciola II, tomba 1099n, 1108n, 1109 – Scrofa Nera, tomba della 767, 819 – Scudi, tomba degli 900, 1022n – Tarquiniese, agro 897 – Tarquiniesi 589, 655 – Teschio, tomba del 820 – Tifone, tomba del 1041n, 1154 – Topolino, tomba del 534n, 821n, 822 – Tori, tomba dei 822, 856n – Triclinio, tomba del 816n, 822, 823, 1092, 1111 – Vigna Grande 726 – 1560, 2327, 3098, tombe 822 Tarquinia, Pittore di 791 Tarquinia-Gravisca, via 749n Tarquini v. Tarquinii Tarquinii, gens romano-tarquiniese 340, 346, 570, 669, 809, 810 – i re 567, 685, 775 Tarquinio il Superbo, re di Roma 27n, 35n, 65, 106, 319, 337, 340, 349, 472, 589-591, 594, 683, 774, 848n, 877, 881, 882, 942, 1174 Tarquinio Prisco, re di Roma 17, 106, 196, 294, 340, 347, 349, 447, 472, 594, 626, 682, 869-871, 1055 Tarquinio il Romano (Tomba François) 196198 Tartara, Patrizia 1036n, 1039, 1040 Tartaro (Oltretomba) 898 Tartaro, fiume (Veneto) 428n, 434 Tartesso (Iberia) 166, 207, 317, 320, 331 Taso, isola egea 305n, 774n, 890n Tataie, lekythos di (Londra, British Museum) 991 Tauride (Crimea) 898 Teace, gresco “etruschizzato” 978 Teagene, tiranno di Megara 752n Teano (ce) 539n Teate, v. Chieti891n

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indice dei nomi

Tebe (Beozia) 8, 103, 196, 798, 801, 803, 811, 927930 – Tebani 410, 433 Tec, divinità, v. anche Tecum 505-507, 888n – San® 393-395, 481-485, 492, 494, 495, 498, 500, 504, 506 Tecce, Giorgio 447, 735 Tecum, divinità, v. anche Tec 481, 482n, 505, 506, 888n Tegea (Arcadia) 890n Telefo, eroe greco 277 Telekles, scultore greco 551, 552 Telemaco, figlio di Odisseo 19n, 1139 Telemaco, atleta greco 788n Telicle 978, 979 Tellenae (Latium vetus) 432n Tell Taynat, palazzo di (Turchia) 665 Tellus, divinità 941 Telys, tiranno di Sibari 788 Temple, William 369n, 373 – collezione 375 Teodoto il Liparese 15, 788n Teofrasto, scrittore greco 63, 93n, 103, 115n, 473n Teopompo di Chio, storico greco 56, 103, 104, 115n, 146n, 168n, 428 Teramo 371n Teratios, servo di Tarchetios 782n Terenzio Afro, P., commediografo romano 963 Terillo, tiranno di Imera 788 Termine, divinità 872 Terminillo, monte (ri) 993 Termoli (cb) 157 Terni 128-131, 133, 186, 231, 403, 416, 942n, 943 – biconici, tipo 936n – tomba 1/1998, (loc. Alterocca) 124n – stele di 130 Terra, divinità 307, 755 Terra di Lavoro (ce) 98, 278, 281, 336 Terone, tiranno di Agrigento 68 Terontola (Cortona, ar) 403n, 407 Tertulliano, scrittore cristiano 106 Teseo, eroe ateniese 671, 767, 828n, 899n – v. Scrofa di Krommyon Tesiame, nome di giorno etrusco 813 Tesoro dei Massalioti e Tesoro dei Sifni v. Delfi Tespiadi, popolo mitico della Sardegna 139, 140n, 142, 146 Tespie (Beozia) 899 Tessaglia, regione (Grecia) 426, 552n, 1044n, 1045n – Tessali 426 Tessalonica (Salonicco, Grecia) 459

Teste di Lupo, Pittore delle 859, 862n Testruna (Alta Sabina) 21, 204 Tethys, ninfa titanide 502, 503n, 755, 756, 774, 805, 806, 906 Teti, nereide 702, 756, 788n Tetnie, gens vulcente 955 Teutria, isola adriatica 9 Tevcrun, eroe mitico 971n Tevere/Tiber, fiume (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Lazio) 19-21, 26, 29, 39, 42, 60-63, 66, 74, 75, 113, 115, 119, 122, 125n, 128, 131, 133, 147, 175, 186, 191, 196, 203, 204n, 229, 230, 231n, 241, 242, 246, 248, 249, 252, 253, 255, 257, 293295, 335-340, 342, 351, 352, 394, 396n, 403n, 409, 410, 411, 432n, 434, 436, 437, 447, 472n, 486, 500, 503, 505, 594, 663, 755, 782n, 870n, 875, 881, 914, 942, 943, 989, 1047n, 1048n, 1141 Tezio, monte (pg) 393-399, 401-404, 407-409, 413, 416, 434, 436, 438, 481, 486-489, 498, 500, 502505 – Chiesa di S. Egidio 486n – v. Migiana di Monte Tezio – Tezino, monte 394, 486, 487, 489, 500 Thanatos, divinità 898, 899 Than(u)r, dea etrusca 483 Tharros (Cabras, or) 297n, 568, 569, 571n, 592 Thebris, mitico re di Veio 335 Theia v. Aethra Theodoros, artista greco 551, 552, 553n, 554n Thera, isola (Cicladi) 324n, 1041n, 1044n Thesan, dea etrusca 294, 321n, 469n, 483n, 590, 637, 697n, 763, 807-809, 811, 812, 1023, 1029n Thetis v. Teti Thimme, Jürgen 724, 726 Thufltha, dea etrusca 889, 893, 897n Thuillier, Jean-Paul 774n, 887, 888, 893 Thuluter, dèi etruschi 40 Tiberina, alta valle (Toscana, Umbria) 396n, 403 Tiberina, via 351n, 942 Tiberinus, portus (Roma) 588n, 741n Tiberio, imperatore 497, 562, 1141 Ticino, fiume (Piemonte, Lombardia) 225, 424 Tideo, eroe greco 8, 103, 796, 798, 800, 801, 802n, 803n, 809, 811, 812, 927, 928, 930, 1113, 1176 Tifata, monte (Matese, ce) 394 Tifernum Tiberinum v. Città di Castello Timavo, fiume (Croazia, Slovenia, Italia) 10, 162, 167, 200 Timeo di Tauromenio, storico siceliota 16, 55, 88, 90, 91, 94n, 103, 115n, 140n, 142, 144, 274, 426, 458, 465, 541, 581, 769n, 773n, 906 Timoleonte, politico siceliota 143n, 283

indice dei nomi Timonidas, ceramografo greco 856n Tina v. Tinia Tinia, dio etrusco 66, 358, 454, 483n, 617, 663, 684, 697n, 780, 782, 794, 807n, 808, 834, 889n, 950, 957, 973n – Calusna 617, 968 – Spuriaze, epiteto 780, 782 – Thvariena 621, 780-782 Tiresia, indovino greco 433, 471n, 899, 908 Tiro (Fenicia) 545 Tirolo, (Austria, Italia) 381n, 402, 435 Tirreni, popolo, v. anche Tusci 16, 46, 55, 88n, 89, 92, 93, 95, 96, 102, 138-140, 142-147, 271, 272, 277, 282, 426, 427n, 433n, 472, 788n, 881, 1068 Tirreno, mare 18, 19, 60, 62, 75-79, 82, 92n, 94n, 97, 98, 101, 141, 146, 148, 167, 200, 201, 204, 206, 207, 210, 213, 214, 223, 224, 271, 272, 274, 276, 278, 279, 281-283, 293, 294n, 427n, 434, 541, 594, 605, 655, 749, 756, 785, 796, 829, 907, 977 Tirreno di Lidia, eroe capostipite 88-95, 102, 138n, 139, 141-146, 148, 213, 224, 276, 277, 423, 749 Tirreno, eroe ausone 426, 427, 541 Tirseno, mare v. Tirreno, mare Titani 780n, 808 Tito Livio, storico romano 35, 96, 105, 106, 111, 129, 176n, 219, 266n, 307, 350, 424, 428n, 434, 437, 579n, 589, 756, 831, 881, 954, 1040, 1054, 1055, 1145 Tito Tazio, re di Roma 96, 248, 253, 266n, 410, 1050 Tittoni, proprietà (Tragliatella, rm) 1058 Tittoni, Tommaso, senatore 742n, 754, 1040 Tivoli (rm) 703 – base di (Roma, Museo Nazionale Romano) 951, 962, 1044n Tiora Matiene (Alta Sabina) 432n Tlenasie, dio (?) etrusco 483n, 504n Todi (pg) 70, 119, 127, 237, 438n, 719n – v. Marte di Todi Tofani, Francesco, parroco 742n, 753n Tolenus v.Turano Tolfa (rm) 96, 121n, 125n, 754n, 1021n – v. Rio Fiume – Tolfetano, agro 935 Tolfa, Gruppo della 906n Tolfa, monti della (rm) 627, 655 Tolentino (mc) 404, 415, 640 Tolle, necropoli di (Chiusi, si) 869 Tolomeo, Claudio, astronomo e geografo 9, 433 Tolomeo I Sotere, re macedone 552 Tolone (Francia) 319

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Tolonio, L. (Veio) 686 Tombarelle (Crespellano, bo), tomba 432, 974 Tomedi, Gerhard 369n, 370-374, 378, 397, 402, 404, 407, 408, 413n, 416 Tolumnius, Lars, veiente 35n, 335, 340 Torcello (ve), Museo provinciale di 158n Torelli, Mario 462n, 464n, 737n, 765n, 872, 1130 Tori, tomba dei v. Tarquinia Torino, Museo Archeologico 327 Torino di Sangro (ch) 890n Torno, collezione 856, 859 Toronto, Royal Ontario Museum 190, 194, 264n Torre di Palme (fm) 416 Torre San Severo (Orvieto, tr) 43, 611, 614 Torrimpietra (Fiumicino, rm) 1039 Tortora (cs) 1080 – cippo di (Tortora, Museo di Blanda) 201, 237n, 1044n, 1080 Torso virile, statua da Portonaccio (Roma, Museo di Villa Giulia) 548n, 676, 678, 686, 874, 875, 1125, 1128, 1130 Toscana427n, 507, 1133, 1136n, 1156 – Granducato di 432, 1157, 1160 – Soprintendenza Archeologica della 394n, 395n, 396-400, 658, 736n, 796 Toscanella (Tuscania, vt) 1090, 1098, 1100n, 1102n, 1115, 1116, 1159 Traiano, imperatore 52, 1179 Tragliata, ex tenuta della (Fiumicino) 1036, 1037n, 1040, 1058, 1060 Tragliatella, ex tenuta della (Fiumicino, rm) 470n, 1035, 1036, 1037n, 1039n, 1047n, 10581060 – Cippo di (Roma, Museo di Villa Giulia) 951953, 955, 1033-1064 – oinochoe della (Roma, Musei Capitolini) 670672, 1029, 1040 Transpadana 307, 423, 424 Trasacco (aq) 408 Trasea Peto, senatore romano 153n Trasimeno, lago (pg) 393, 401, 404, 406, 407, 409, 432n, 481, 482, 483, 484n – battaglia del 483, 507, 774n Trastevere (Roma) 1144 – Trasteverini 1144n Trebatius Testa, C., giurista 625 Trebbia, fiume (affluente del Po) 704 Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino, ri) 1024n Trebula Suffenas (Ciciliano, rm) 432n Tre Fontane (Agro Romano), Fosso delle 249, 255, 257n, 265

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indice dei nomi

Tremiti, arcipelago (fg), v. anche Diomedee isole 8-10, 12 – v. San Domino, isola di – v. San Nicola, isola di – v. Teutria, isola Trestina (Città di Castello, pg) 402 Trevignano Romano (rm) 345, 352 Treviso 157n, 435n Trezene (Argolide) 1044n Triclinio, tomba del v. Tarquinia Trieste, golfo di 3, 157, 162, 165, 168 – Civico Museo di Storia ed Arte 3n, 369n Trigno, fiume (Molise, Abruzzo) 647, 648 Trionfale, via (Roma) 352, 678 Tritoni 455, 726 Troade, regione (Asia Minore) 702 Troia (Asia Minore) 8, 167n, 196, 199, 207, 427, 457, 458, 459n, 460, 465, 768n, 787, 803 – cavallo di 460 – guerra di 89, 91, 92, 95, 200, 211, 274, 277, 472 – Troiani 212, 702, 749n Troiká v. Ellanico Troilo, principe troiano 702n, 856n, 906n Trombetti, Alfredo 431n, 1171 Tromentina, tribù 341, 894 Tromentus, campus (Lazio) 341, 352 Tronto, fiume (Lazio, Marche, Abruzzo) 19, 21, 130, 163, 203, 403, 641 Truentum (ap) 19, 58, 204 Trundholm, carro di (Copenhagen, Nationalmuseet) 381 Trysa (Licia), heroon di 455n Tubinga, Istituto archeologico 920 Tucidide, storico greco 82, 88n, 90n, 95, 97, 144, 210, 279, 785 Tuffatore, tomba del (Paestum) 798n Tulera, mese etrusco 813 Tullo Ostilio, re di Roma 66, 335, 662 Tulumne, gens veiente 35, 103, 317n, 679 – Velthur 890 Tunisi, Museo del Bardo 948 Tunisia – Cippi di 440, 948, 957 – corazza (Ksour-es-Saaf ) 28 Tuoro sul Trasimeno (pg) 484 Turan, dea etrusca 299, 303, 305, 547, 678, 765n, 775, 807n, 888, 889, 899, 977, 978, 1069 – Thanria 889 Turano, fiume (Lazio, Abruzzo) 432n Turms, dio etrusco 454, 795n, 800n, 877, 889, 906 Turms, bronzetto (Oxford, Ashmolean Museum) 1092n

Turno, re dei Rutuli 755 Turris Libisonis (Porto Torres, ss) 1167 Tuscania (vt), v. anche Toscanella 35, 43, 47n, 112, 306, 385, 352, 437n, 440n, 529n, 531n, 538, 631, 632, 634, 656, 678, 700n, 847, 858n, 954n, 1092, 1093, 1101, 1102, 1104, 1106n, 1111-1113, 1114n – Ara del Tufo 631 – Biblioteca Comunale 1090n – v. Campanari, famiglia – Curuna, tomba I dei 529n – v. Pian di Mola – Rosavecchia, necropoli di 1102 – v. Val Vidone Tuscanicae dispositiones 681, 784, 789 Tuscanico more 216, 784, 870 Tusci, popolo, v. anche Tirreni 424, 427, 747, 872 Tuscolo (rm) 589, 1023n – Tuscolani 26 Tute, gens vulcente 955 Tyrrhenía 427n, 502, 755 Tyrsenoi v. Tirreni Tyskiewicz, Pittore di 616 Tyszkiewicz, testa (Londra, British Museum) 549 Tzetzes, Giovanni, grammatico bizantino 15

Ubaldi, Francesco 495, 498 Ugento (le) – Zeus di, bronzetto (Museo Civico) 547, 553, 554, 784 Ugium (Saint-Blaise) 301 Ugium (Saint-Blaise, Francia) 301 Ulisse v. Odisseo Umbertide (pg) 393, 396n, 490, 503 Umbri, popolo, v. anche Ombrici 16, 18, 19, 31, 46, 52, 55, 57, 58, 60, 95, 116, 117, 119, 122, 136, 147, 157, 162, 166, 170, 173-176, 200, 201, 203, 204, 206, 210, 211, 221, 225n, 231n, 242, 393, 409, 410, 411, 423-431, 433, 434, 436, 437, 439, 440, 486, 506, 832, 942 Umbria 33, 52, 57, 127-129, 133, 211, 241, 384, 408, 427, 428, 431n, 433, 437, 440, 486, 640, 904, 942 – Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’ 393, 492, 493, 503 Università Roma “La Sapienza” 350, 354, 357, 397n, 447, 448, 451n, 491n, 493, 580, 676, 735, 738, 815n, 843n, 918, 923, 930, 961, 995, 1034, 1035, 1097n, 1125, 1165, 1167, 1171-1174, 1179 – ex Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche 1097n, 1125 – Facoltà di Giurisprudenza 1171 – Facoltà di Lettere e Filosofia 1165, 1171, 1172 – ex Insegnamento di Etruscologia e

indice dei nomi Archeologia Italica 1165, 1167, 1171, 1179 – Insegnamento di Etruscologia e Antichità Italiche 1179 – ex Istituto di Archeologia 1173 – ex Istituto di Etruscologia e Antichità Italiche 354, 522, 995n, 1172, 1173 – ex Istituto di Topografia Antica 354, 1171 – Museo dell’Arte Classica 448n, 562n, 735 – Museo delle Origini 1173 – Museo dell’Orto Botanico 743n – Museo di Antichità etrusco-italiche 760, 789 – Odeion 448n – Scuola di Dottorato in Archeologia 461n – ex Scuola Nazionale di Archeologia 353, 1126, 1165, 1171-1174 Usil, dio etrusco 384, 483n, 762n Unata Zuta®, Marce 957 Uni/Unei, dea etrusca 82, 144, 263, 301, 303, 306, 319, 357, 469n, 483n, 583, 584, 619, 621, 637, 697n, 756, 757, 763, 769, 774-777n, 780-784, 787, 806n, 807-809, 813, 904, 967, 976, 1017 – Huinthnaia, epiteto 619 – Uni Astarte 359, 584, 590, 637, 765, 775, 779, 783, 806, 976, 977 – Uni Chia 358, 621, 697n, 780-783, 806, 807n, 976, 977 Untermann, Jürgen 322, 325, 326, 328 Uobúr, divinità (?) 939-941, 1082n Uppsala (Svezia), Museum Gustavianum 119, 121, 123, 136, 239, 384n, 439 – biconico di 384n, 439, 935, 939-943 – Università di 935 Urartu 561n Urbano VIII, papa 753n Urbino 431n Urinates, Vel 1113

Vaccareccia (Veio, rm) 346, 351, 353 Vadimone, lago, battaglia del 722, 732 Vagnetti, fittili votivi, tipo 462n, 464n Vagnonville, Gruppo 816n Valadier, Luigi M. 149n Valdarno 432, 652, 654, 655 Val di Chiana (Umbria, Toscana) 30, 66, 70, 98, 113, 432 Val di Lago (Bolsena, vt) 33, 41, 42 Valente, imperatore romano 693 Valerii, gens romana 55, 202, 680 Valerio Poplicola, P., console romano 74, 364, 953, 1029, 1168 Vallese, cantone (Svizzera) 440 Valle Trebba (Spina, fe) 778 Valnerina (tr) 128-130, 136n, 186, 486n

1245

Val Vidone (Tuscania, vt) 1102 Vannucci, Atto 1147 Vanth, demone femminile etrusco 726-728, 821, 890n, 900n Var, fiume (Francia) 295 Varenna (lc) 432n Varese 327 Varrone, M. Terenzio, erudito romano 8n, 52, 65, 66, 69n, 73, 87n, 88, 90, 91, 93, 106, 111, 113, 152, 167, 246, 247n, 260, 341n, 411, 428n, 541n, 567n, 611, 625, 633, 642, 643, 784, 831, 832, 838n, 870-872, 881, 953 Vasto (ch) 54, 55n, 157, 199, 200 Vaticano G 111, Pittore del 716n Vaticanus, ager 337 Vatin, Claude 311n Vatlmi, divinità 342n, 888n, 892 Vatrenus v. Santerno Vediovis, divinità 145, 836 Veggiani, Antonio 429n Vegoia, ninfa 100, 107 Vei, dea etrusca 341n, 342, 351, 354, 617, 619, 780n, 782n, 808, 888n, 905n, 968n, 972n, 973n, 975n Veio/Veii (rm) 35, 44, 66, 67, 74, 75, 100, 103, 105, 106, 112, 142n, 194, 196, 212, 229, 241, 242, 253, 280, 286, 299, 300, 301n, 310, 335, 336n, 337, 338n, 340-342, 344, 346, 352n, 353, 354, 370n, 385, 386, 411, 447-449, 459n, 460, 462, 464n, 467, 469n, 470-472, 473n, 474, 533n, 548n, 554n, 570, 587, 593n, 605, 619, 627, 630, 631, 637, 642, 653, 663, 667, 672, 675, 676, 679, 685, 686, 700n, 702, 760n, 762, 772, 773n, 774, 775, 781n, 782n, 792, 809, 831, 834, 844, 853, 854, 856n, 858, 860, 862, 863, 865, 866, 869, 870, 873, 874, 876-878, 880-883, 943, 949, 950, 979, 988, 989, 1019n, 1021, 1036, 1041, 1053, 1055, 1058, 1070, 1125, 1130, 1161, 1166, 1167, 1171, 1173, 1179 – v. Aguzzo, monte – Anatre, tomba delle 346, 667, 669 – v. Aquae Veientane – Campana, tomba 193, 346, 541n, 617, 672 – v. Cannetaccio – v. Casale del Fosso – Casale Pian Roseto 352, 844 – v. Cremera, fiume – Fosso della Mola 342, 344, 448, 675, 874 – v. Isola Farnese – Lanciani, deposito 350 – Monte Michele, necropoli di 344, 346, 353, 354, 749n – municipium Augustum Veiens 341 – Oliveto Grande 346, 353 – Piazza d’Armi 343-344, 346, 350, 351, 353, 354, 449, 627, 630, 680, 870

1246 – – – – –

indice dei nomi

v. Picazzano Pilastri, tomba dei 346 Pisciacavallo 346 Porta Caere 448, 449 Portonaccio, santuario di 340, 346, 351, 353, 354, 355, 447-449, 451, 452, 456, 462, 466, 469n, 470, 471, 472n, 548n, 587, 605, 619, 631, 637, 675-677, 679-680, 700n, 703, 760n, 762, 768n, 772, 773n, 781n, 782n, 792, 795, 834, 853, 854, 856, 859, 860, 862-866, 874, 876-878, 880-883, 1028, 1053, 1125, 1128, 1129, 1166 – Quarante Rubbie 344 – v. Quattro Fontanili, necropoli – v. Riserva del Bagno, necropoli – v. Tolonio, L. – v. Tolumnius, Lars – v. Tulumne – Valle La Fata, necropoli 344, 353 – Veiana, gens 341n – Veientana, via 346, 352 – Veiente, agro 336, 337n, 352, 354, 464n, 500, 685, 1034 – Veienti 16, 66, 204n336, 338, 340, 341, 342, 346, 447, 472n, 474, 589, 678, 870, 881 – Veio, Progetto 350, 354, 448, 451n, 676 – Vignacce 341, 344n – v. Volusia Veio-Roma-Velletri, serie di terrecotte architettoniche 680, 953n Veive, dio etrusco 888n Velenas, Lar 1017n Velethnice, Laris 662 Velia (Ascea, sa), v. anche Elea 519 Velianas, Thefarie, tiranno di Caere 82, 103, 113, 335n, 357, 359, 364-366, 583-590, 683, 696, 776778, 809, 811, 813, 904, 930, 955, 967, 977, 1020, 1021, 1030 Veliinas, Larice 363-365, 590, 1019, 1020, 1024, 1029, 1030 Velino, fiume (Lazio, Umbria) 409 Vel¯, divinità etrusca 871 Vel¯a, gens tarquiniese 1022 Velleio Patercolo, Gaio, storico latino 277 Velletri (rm) 23, 628-629, 681, 774n, 878 *Venai, dea etrusca 678, 950n Vendia, Tita 937n, 950 Venere/Venus, divinità 321n, 739n, 899n, 977 – Ericina 587 – Libitina 619, 899 Veneti, popolo, v. anche Eneti 8, 57, 157, 159, 162, 165-168, 170, 171n, 173, 174, 176n, 199, 200, 202, 212, 225, 326, 383, 411, 423, 428n, 433, 471n, 679 Venetia, regione storica 433

Veneto 157, 289, 428n Venezia 3, 167, 168 – Museo Archeologico Nazionale 980n Venthinas, Rusi 363, 1024 Venturino Gambari, Marica 221n, Venilia, ninfa 755 Verani, Cesare 229n, 231n, 234n Verdi, Giuseppe 1141n Vergiate (va), stele di (Milano, Museo del Castello Sforzesco) 326, 327 Vermiglioli, Giovanni Battista 486n, 489, 491, 492, 495, 497n, 1135n Verona 1047 – Veronesi, Valli 435 ver sacrum 21, 117, 223, 335, 336, 384, 409 Verrio Flacco, grammatico 65, 73, 246, 247, 423, 562n, 587, 981 – De verborum significatu 587 Versilia (Toscana) 292, 302 – Versiliese, agro 664 Vertumno, divinità 454, 800n – v. anche Voltumna Verucchio (rn) 48, 58, 155, 158, 163, 164, 166, 175, 280, 285-289, 411, 424, 426n, 429, 655, 665 – tomba del Guerriero e sacerdote 286, 289 – tomba Lippi 89 285, 287 – tomba Moroni 24 285, 286 Verzár, Monika 770, 790n Vespignani, Francesco 353 Vesta, divinità 838n – Vestae, aedes (Roma) 626, 652 Vestali, sacerdotesse 430 Vestini, popolo italico 52, 53, 57, 203, 204, 206, 373, 415, 432n, 645 Vesuna, dea etrusca e umbra 499 Vetter, Emil 895, 908, 1017n, 1048n Vetulonia (Castiglione della Pescaia, gr) 24n, 37, 75, 104, 134, 184n, 293, 326, 342n, 447n, 643, 647, 651, 655-657, 663, 664, 666, 670, 956, 977, 978n, 1028, 1048, 1162n – dischi corazza, tipo di 435 – Duce, tomba del 134n, 666 – Pietrera, tumulo della 643, 657, 664, 670 – stele di (Vetulonia, Museo) 1048 Veturia, dama romana 16n Vibenna/Vipina 111, 198, 432, 679 – fratelli 71, 183, 196, 340, 432, 722 – Vibenna, Aulo 197, 340, 1167, 1168 – Vibenna, Celio 340 Vicentino, territorio 974 Vicino Oriente 545, 568, 589n, 663, 665 Vico Equense (na) 423n, 532, 535, 538n, 1074, 1075n, 1080-1082 – via Nicotera, necropoli di 535

indice dei nomi Victoria, divinità 351 Vicus Tuscus v. Roma Vienna, Accademia di 1161 – Kunsthistorisches Museum 772n, 1153n Vienna (Gallia Narbonense) 432n Vieste (fg) 3, 157, 159 Vieusseux, Giovan Pietro 1147 Vighi, Roberto 1166 Vigna di Valle (Bracciano, rm) 1036 Vignanello (vt) 619, 623, 870, 943 Vigna Parrocchiale (Cerveteri, rm) 342, 637, 757, 775n, 781, 783, 794, 809, 949n, 972-974, 975n, 976, 977 Villa Cassarini (Bologna) 684, 703 Villa Ruffi (Rimini) 641 Villard, François 75n Villaricos (Andalusia) 320 Villetta Barrea (aq) 409 Vipe, Vel 335n Vipienna v. Vibenna Vipiennas, Avile 347, 472n, 1167 Vipinana, gens 1102 – tomba dei (Tuscania, vt) 1092n, 1098, 1100n, 1114, 1159 Vipinan(a)s, ±ethre 1102 Vipiteno (bz) 432n Virgilio Marone, P., poeta 102, 111, 212, 410, 618, 747, 898n Visconti, Alessandro 254 Visconti, Pietro Ercole 1091n, 1096, 1097, 1101 Vitellii, gens romana 589 Vitellia, via 340, 352, 589n Viterbo, v. anche Sorrina 619, 892, 898, 967, 1152 – Museo Rocca Albornoz 958 – Viterbese, territorio 427n, 656, 869 Vitruvio Pollione, M., architetto 426n, 448, 633, 673, 681, 783, 784, 825, 828, 870, 873 Vittoria, regina d’Inghilterra 1091n Vivenzio, idria (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) 702n Vofiono, dio umbro 940, 941 Volcanale (Foro Romano) 953 Volcanus, divinità 891n Volcena, gens ravennate 438 Volsci, popolo italico 16, 60, 202, 241, 247, 340, 432n, 792n Volsimo Lucullo, re mitico 58 Volsinii (Orvieto, TR/Bolsena, vt) 26, 33-41, 43n, 44n, 47, 65-70, 73, 111-113, 117, 174, 197, 212, 304, 310n, 341, 342, 432, 554n, 947n, 949, 950, 954, 957 – Pozzarello, santuario del v. Bolsena – Volsiniense, bellum 733

1247

– Volsiniese, territorio 33-44, 119, 169n, 170, 176, 900, 901, 936n – Volsiniesi 20, 26, 43, 44, 74, 175, 176 Volteius, M., monetiere romano 873 Volterra (pi) 148, 149, 225, 293, 300, 301n, 303, 304, 326, 327, 664, 724, 731, 795, 1153 – Museo Etrusco Guarnacci 72 – Volterrano, territorio 302, 326, 327, 643, 654, 754n Voltumna, divinità, v. anche Vertumno 34, 35, 47, 107, 505 Volturno, fiume (Molise, Campania) 336, 432n, 756n Volumni, tomba dei (Perugia) 23, 43, 212, 494, 497n, 822n Volumnia, gens 16n, 35n Volumnius Violens, L. (Perugia) 497n Volusia (Veio, rm), necropoli 352 Vomano, fiume (Abruzzo) 55, 59, 203, 645 von Eles Patrizia 285-287, 289, 429 Vulca, coroplasta veiente/scuola di 347, 349, 448n, 453, 626, 640, 642, 678, 682, 869-875, 878 Vulci (Montalto di Castro, vt) 36n, 42, 43, 68, 69, 75, 76n, 97, 112, 123, 133, 166, 169, 172, 174, 183, 184-186, 196, 217, 219, 225, 226, 282, 293, 300, 304, 305, 306, 309, 318n, 341, 342, 344n, 352, 459n, 460n, 461, 463, 472n, 474, 531n, 532, 533, 538, 593n, 619, 621, 631, 637, 648, 656, 657, 662, 663, 672, 678, 681, 712, 716n, 718, 749n, 757, 770, 783n, 801n, 811n, 858, 872, 895n, 898, 900n, 901n, 943, 947n, 948, 951, 954, 955n, 975n, 980-982, 1019n, 1025, 1070, 1090n, 1092, 1096, 1099, 1100n, 1101, 1111-1113, 1116, 1151, 1152, 1155-1158, 1161, 1162 – Carraccio dell’ Osteria, santuario 342n – Cuccumella, tumulo della 149, 151, 152, 533n, 538, 631, 656, 657 – Cuccumelletta, tumulo della 631 – Campanari, tomba 1092, 1093, 1096, 1108n, 1109, 1114, 1115 – v. Doganella – François, tomba 196-199, 474, 558n, 593n, 811n, 972n, 981, 1154 – Guerrieri, tumulo dei 1092n, 1111 – Iscrizioni, tomba delle 1041n – Iside, tomba cd. di 672, 681 – Poggio dei Guerrieri 1157, 1158, 1161, 1162 – v. Polledrara, necropoli della – Vulcente, agro 617, 870 von Wagner, Johann Martin 1108

Ward Perkins, John B. 338n, 354, 1172 Waterloo (Belgio) 1162

1248

indice dei nomi

Waurick, Götz 1153n Weber-Lehmann, Cornelia 816n, 1106, 1107n Wesseling, Peter 737n Westmacott, Richard 1091n White Bull, Painter 859n Wicar, Jean-Baptiste 1140, 1141 Wikén, Erik 428n Wilkinson, John Gardner, egittologo 1162, 1163 Williams, Dyfri 702n Wiltshire, contea (Inghilterra) 1092n Wiseman, Peter T. 245, 248, 249, 252, 266 Worcester Art Museum (usa) 726 Wünsch, Richard 691, 692 Würzburg, Martin von Wagner Museum 669 Wylin, Koen 779n, 1042n, 1047n, 1053n

Xenocrita, eroina cumana 18 Yale, Università di, Museo dell’ (usa) 723 Yntema, Douwe 157, 159

Zancani Montuoro, Paola 509, 524, 526n, 530, 532, 537, 1073, 1074n

Zancle (Messina) 68, 279, 281, 787n Zanelli, Antonio, disegnatore 815n Zannoni, stele (Bologna, Museo Civico) 664 Zapicchi, Ercole 993, 995, 1040n Zara (Croazia) 12, 201 Zefiro, vento personificato 829 Zenodoto di Trezene, storico greco 201n Zetun, eroe greco 971n Zeus, divinità 9n, 90, 213, 280, 452n, 553n, 554n, 684, 756, 781n, 798, 800n, 804, 806, 829, 872, 890n, 928, 930 – Herkeios 699 Zevi, Fausto 474 Zifferero, Andrea 655 Zincirli, palazzo di (Turchia) 665 Zis (Messapia) v. Zeus Zosimo, storico bizantino 431n Zschille, Richard, collezionista 404 Zucca, Raimondo 146n, 292n Zuffa, Mario 289, 429 Zufr(e), Asu 299 Zurigo, Paläontologisches Museum 264n Züst, Giovanni, collezione (Basilea) 469n

comp osto i n c ar att e r e s e rr a da n t e da l la fab r i z i o s e r r a e d i tor e, p i sa · ro m a . stampato e r i l e gato n e l la tip o gr af i a d i agnan o, agna n o p i sa n o ( p i sa ) . * Luglio 2016 (cz2/fg21)

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