Testi su testi. Recensioni e elzeviri da "Paese Sera-libri" (1960-1980) 9788842077237

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Testi su testi. Recensioni e elzeviri da "Paese Sera-libri" (1960-1980)
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© 2005, Gius. Laterza & Figli, per la raccolta

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Prima edizione 2005 Seconda edizione 2007

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Gianni Rodari

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Testi su testi Recensioni e elzeviri da “Paese Sera-Libri” (1960-1980) a cura di Flavia Bacchetti

Editori Laterza

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2007 Global Print srl - via degli Abeti, 17/1 20064 Gorgonzola (MI) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7723-7

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Storia Se è un fiume, bisogna dire che i giornali descrivono soltanto le sue schiume, e quasi mai la sua direzione; se è un cielo, i giornali generalmente non arrivano nemmeno alle sue [nuvole, si fermano al fumo dei comignoli. G. Rodari, Dizionario quotidiano, in «Nuova Generazione», Anno II, n. 2, 13 gennaio 1957

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Presentazione

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di Franco Cambi

Le ricostruzioni e le interpretazioni che di Gianni Rodari si sono delineate in venticinque anni di studi, dopo la morte, hanno sempre più decantato il volto di intellettuale dello scrittore di Omegna e di intellettuale di razza e a tutto campo, capace sì di «lavoro espressivo» ma anche di «lavoro riflessivo», in senso culturale e politico. Come intellettuale Rodari ha fatto parte di una precisa stagione della società e cultura italiane e, in essa, è stato schierato da una parte altrettanto precisa. Così è stato un intellettuale italiano del secondo dopoguerra che, tra «spirito del ’45» e «svolta di Salerno» più pensiero gramsciano (secondo l’operazione voluta da Togliatti e imposta dal realismo di Yalta), si è dato il compito di promuovere in un paese debole, civilmente e culturalmente, presso le masse, un’opera di formazione culturale, di cui il giornalismo era la via più efficace e il mezzo tecnicamente più appropriato. Già a cominciare dall’infanzia: età-di-base di ogni soggetto e bacino primario delle sue esperienze. A partire da quelle fantastiche, atte a sviluppare una facoltà (la fantasia, appunto) che già Novalis riconosceva come quella fondamentale dell’uomo, in quanto lo potenzia (disponendolo oltre il «dato», il «reale», il «consueto», il «normale» ecc.) e lo libera (creando capacità di dissenso, di creatività, di volontà utopica). Da qui il carattere e l’impegno del Rodari narratore per l’infanzia: rivolto a costruire quell’uomo nuovo a cui il socialismo democratico deve guardare, più soggetto autonomo e più socializzato al tempo stesso, ma socializzato per dar corpo a quell’uomo liberato a cui guardava già lo stesso Marx, da giovane e anche da pensatore maturo. Rodari – si è detto da parte di Argilli e Boero, di Zanzotto e Diamanti, fino a De Luca e anche al sottoscritto – è un narratore VII

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intellettuale o un intellettuale narratore, in cui il politico (partitico anche), il narrativo, il pedagogico e l’educativo si sintetizzano in modo mirabile e danno vita a un modello di lavoro intellettuale attivo e impegnato, etico e etico-politico che ha avuto, ieri e ancora oggi, non molti seguaci, anche nella capacità di «parlare al popolo», di dar vita a un messaggio che viene a toccare ampissime aree dell’opinione pubblica e a plasmarle. Rodari è stato un giornalista-educatore che ha pensato, in unum, da pedagogista e da politico. Lo ha fatto parlando ai ragazzi, parlando agli adulti (dalle pagine di «Paese Sera», soprattutto), parlando con la leggerezza calviniana del gioco e, insieme, con una forte passione etica e cognitiva. E lo ha fatto mettendo a fuoco una sua scrittura sottile e complessa, mai banale, sempre incisiva, sempre illuminante, sempre capace di agire in interiore homine. Pedagogicamente sì, ma sempre senza retorica. Di questa identità alta, complessa, raffinata del Rodari-intellettuale e del messaggio affidato alla sua stessa scrittura sono netta testimoninanza i testi recuperati (da «Paese Sera») da Flavia Bacchetti e che qui si presentano, per la prima volta, al pubblico. Soprattutto i testi accolti nella rubrica Le letture di Benelux, apparse sul «Paese Sera-Libri», che usciva il venerdì come supplemento al giornale, i quali rivelano una delle quote più alte e della scrittura e della riflessione di Rodari. In essi, infatti, la scrittura si sofistica, l’ideazione si lega a testi e metatesti uniti insieme, il «tono» narrativo si fa ironico, ludico ma anche critico, acutamente critico, e mordace talvolta. Sempre raffinato e inconsueto. Per puro esercizio di stile? Non proprio: per funzione pedagogica, direi. Per sviluppare nel lettore un «progetto» possibile di formazione mentale libera, aperta, colta ecc. di cui deve sentire il fascino e cogliere l’imprinting, e per legare la forma mentis a un soggetto etico, anch’esso libero e divergente. E passando qui dal bambino all’adulto. E complicando così la sua «pedagogia». Innalzandola, ma anche articolandola e rendendola antropologicamente più netta e più esposta a un tempo. Di tutto questo complesso lavoro che nel «cantiere giornalistico» di Rodari – e di quel Rodari pedagogista/giornalista che oggi, ma già ieri, ci appare come la «molla» stessa del narratore, pur creativo che questo fosse (e lo era, e molto: si pensi al riuso della fiaba, delle filastrocche, delle favole e alle sintesi stilistiche che VIII

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questi riusi accolgono), come il suo volto più autentico di intellettuale – occupa uno spazio primario (qualitativamente e strategicamente), il testo (anzi testi su testi, come ben rileva il titolo del presente volume sottolineando la sofisticazione e la portata intellettuale di tutta l’impresa del Rodari elzevirista) curato da Flavia Bacchetti dà preciso profilo e autentico sondaggio, recuperando così quella che è una certezza nel lavoro su Rodari, ma che non si è ancora tradotta in una posizione diffusa, passando dai critici ai lettori. A questa raccolta Bacchetti antepone una sua introduzione felicissima che ben coglie la complessità di Rodari, il suo statuto di intellettuale schierato e non (e al tempo stesso: dopo il «fatale ’56» soprattutto), il suo stile di pensiero raffinato e sottile, il suo essere-pedagogista senza retorica e politico attento, in particolare, all’eticità del politico, la sua capacità di scrittura piana e estrosa insieme, colta e lineare, sempre gravida di umori e densissima di significati. E lo fa con una sua prosa «rodariana», leggera e – al tempo stesso – densa. Il che non guasta. Tutt’altro. Firenze, 2 giugno 2005

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Introduzione

Rodari lettore e recensore

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1. Rodari giornalista Rodari giornalista: un Rodari minore? Sicuramente sì se il parametro d’interpretazione s’identifica con quello della notorietà, ma la prospettiva cambia se si tiene conto di altri registri: la dimensione temporale – dal 1945 al 1980 –, ad esempio, ma anche l’incidenza di quell’attività sulla formazione dell’intellettuale, prima, e dello scrittore, poi1. Giornalismo, dunque, come palestra di formazione, ma soprattutto – e va sottolineato – perché di giornalismo italiano si tratta. Quest’ultimo è un vero caso a sé nell’ambito della pubblicistica, tanto è impregnato ab imis del respiro politico ed è cresciuto – tra Ottocento e Novecento – nella politica e all’ombra del potere politico, ma non solo, anche di quell’economia che ha nutrito la politica, dettandone indirizzi, linee di tendenza e svolte. A questo proposito le annotazioni di Carlo Sorrentino ci sembrano esplicitamente pertinenti: «Quanto è accaduto è, di fatto, effetto e causa del particolare intreccio tra sistema politico e sistema informativo da sempre esistente in Italia. Se è vero, infatti, che una interdipendenza tra questi due sistemi è inevitabile, in Italia vi sono delle peculiarità che fanno essere tale rapporto più stretto»2. E le ragioni? Ancora politiche, anzi storicopolitiche. Per questo motivo è stato altro, naturalmente, il giornalismo anglosassone rispetto a quello italiano, ossia quello nato in sincronia temporale con l’edificarsi della nazione nelle fasi del 1 «Una vita dedicata al giornalismo, quella di Rodari, e Rodari, attraverso questa esperienza, coltiva e sviluppa la sua curiosità intellettuale, sociale, umana». F. Cambi, Rodari pedagogista, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 4. 2 C. Sorrentino, L’immaginazione giornalistica, Società editrice napoletana, Napoli 1987, p. 25.

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dopo Unità, facendosi soprattutto erede delle tensioni politiche risorgimentali e non recidendo mai quel cordone ombelicale, anzi rafforzando sensibilmente il legame in alcune epoche; in particolare in coincidenza con l’avvento determinante dei grandi capitali economici nelle proprietà editoriali, prima, e, poi, negli anni Settanta, quando si acclarò la centralità politica dei media. Per Gianni Rodari entrare su quel proscenio fu quantomeno naturale: l’intellettuale, lo scrittore e l’uomo non avrebbero potuto sottrarsi a quel tipo di pagina. Sì, perché la pagina di un giornale è altro rispetto a quella di un libro, non solo per l’immediatezza di fronte al fluire degli eventi: è una «plancia» privilegiata – in diretta – di lettura e di decodificazione della società, che altresì, qualitativamente, proprio per la natura del giornalismo italiano, è molto spesso l’immagine riflessa di un impegno politico, un penetrare in prima persona – «corsaramente» per Pasolini – nelle pieghe e nelle piaghe della società come testimone e, a volte, come mèntore in chiave etica e anche utopica3. Questo il terreno per enucleare «l’altro Rodari» – secondo la definizione di Pino Boero4 –, «altro» certamente per tipologia di pagina, rispetto al più noto Rodari, lo scrittore per l’infanzia5; al3 Sull’apporto fondamentale dell’attività giornalistica, Antonio Faeti ha rilevato: «Certo, nello scrittore per l’infanzia confluiva evidentemente tutto l’insieme delle risorse che Rodari ricavava dalla sua militanza giornalistica. L’osservazione minuziosa per una realtà che proprio nella cronaca evidenzia il paradosso e la finzione, deriva anche da un mestiere sempre fatto con lucida intelligenza e con passione. In fondo si potrebbe anche pensare che proprio la professione del giornalista abbia tanto aiutato Rodari a essere come era». A. Faeti, Mi manca Rodari, in M. Argilli, L. Del Cornò e C. De Luca (a cura di), Le provocazioni della fantasia. Gianni Rodari scrittore e educatore, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 137; cfr. P. Spriano, I suoi libri restano nelle nostre case, in «l’Unità», 16 aprile 1980, p. 3. 4 P. Boero, Una storia, tante storie. Guida all’opera di Gianni Rodari, Einaudi, Torino 1992, pp. 211-247. 5 Ha osservato Roger Salomon: «Molti indizi inducono a pensare che in segreto Rodari, col passare degli anni, sopportava sempre più difficilmente di essere catalogato come scrittore per l’infanzia – forse pure il più grande –, si sentiva soffocato dal suo ‘successo assassino’ – per riprendere l’azzeccatissima espressione di Luigi Malerba –, soffriva dell’essere pirandellianamente rinchiuso nell’immagine che tutti avevano di lui, prigioniero di quest’immagine stereotipata». R. Salomon, Gianni Rodari e Luigi Malerba ovvero le provocazioni della fantasia, in M. Argilli, L. Del Cornò e C. De Luca (a cura di), Le provocazioni della fantasia cit., p. 98.

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tro, ma non diverso, forse. A ben leggere, le matrici ideologiche e la tensione utopico-antropologica dell’intellettuale probabilmente, come tenteremo di dimostrare, sono le medesime; il messaggio, più o meno esplicito, è lo stesso, ciò che muta è il pubblico: da un lato l’infanzia, da cui decolla il disegno-progetto di un uomo nuovo e, di qui, prospetticamente del rinnovamento della società, dall’altro lato gli adulti, i genitori e gli insegnanti in primis, il cui ruolo è centrale e determinante in quest’opera, ma anche gli intellettuali, in particolare gli intellettuali della Sinistra italiana, così responsabilmente impegnati, nei decenni successivi alla Liberazione, nell’attività di rinascita e di ricostruzione, in senso ampio e lato, della nazione italiana. E Rodari dunque parla, attraverso i canali più idonei, all’infanzia, agli educatori, ai politici e agli intellettuali. Coerente, perciò, la strategia del suo impegno su più tavoli6. Gianni Rodari e la carta stampata: una stagione iniziata molto precocemente e assai lunga, per questo è probabilmente improprio denominarla stagione, poiché diacronicamente coincise con quasi tutto l’arco di vita; Rodari: giornalista innanzitutto7, scrittore quasi per caso, come giustamente ha sottolineato Argilli8. Se alla soglia dei trent’anni, infatti, non pensava minimamente di scrivere per l’infanzia, le sue prime fortunate opere si identificano con un collage di pezzi giornalistici. Dalle filastrocche pubblicate, via 6 Sulla produzione di Rodari si rimanda alla bibliografia di E. Petrini, M. Argilli e C. Bonardi, Gianni Rodari, Giunti Marzocco, Firenze 1981, e anche a quella di P. Boero, Una storia cit., pp. 289-295. Per l’attività pubblicistica fondamentale la ricostruzione per testate svolta da Giorgio Diamanti nel volume a cura del Centro Studi Gianni Rodari, Scritti di Gianni Rodari su quotidiani e periodici, Orvieto 1991. 7 Secondo Giorgio Bini «Rodari è stato prima di tutto uno scrittore per bambini, che andassero a scuola o no, anche se per campare ha dovuto fare sempre qualche altra cosa; anzi un’altra cosa: il giornalista ‘per adulti’, e l’ha fatta bene, con creatività, andando non a cercare la fantasia nella realtà nel senso di dare della realtà una descrizione fantastica, ma a cogliere spunti che gli venivano dalla realtà più banale per fare un piccolo lavoro ‘in più’ di fantasia». G. Bini, Fantasia e ragione, in F. Ghilardi (a cura di), Il favoloso Gianni. Rodari nella scuola e nella cultura italiana, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze 1982, pp. 155-156. Cfr. anche V. Mascia, Gianni Rodari scrittore quasi per caso, in C. Marini e V. Mascia, Gianni Rodari: educazione e poesia, Maggioli Editore, Rimini 1987, pp. 41-45. 8 Cfr. M. Argilli, Gianni Rodari. Una biografia, Einaudi, Torino 1990, p. 18.

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via, sull’«Unità» e su «Vie nuove» «nacque l’idea [...] di farne un libretto»9: Il libro delle filastrocche (1950), e l’idea, in realtà, non fu sua, ma di Dina Rinaldi, con la quale diresse il «Pioniere», mentre Il romanzo di Cipollino (1951) scaturì sulle orme del successo riscosso dal personaggio Cipollino dello stesso settimanale. Pubblicazioni che spiazzarono la consueta e appagante attività di giornalista tanto che Rodari confessò: «Avevo preso sempre più sul serio il mio nuovo lavoro. Non l’avevo scelto, mi era capitato, aveva un po’ buttato all’aria i miei programmi; ma giacché mi ci trovavo, valeva la pena di farlo bene, il meglio possibile»10. L’attività giornalistica, perciò, se fu centrale e prevalente, tuttavia si può scindere in due periodi ben distinti che corrispondono anche a due epoche dell’intellettuale Rodari, un intellettuale – tranne la breve parentesi gaviratese – sempre orientato a sinistra, certamente, anche se altro è il Rodari giornalista militante nelle file del Pci, altro ancora quello a partire dagli inquietanti avvenimenti del 1956, «quella durevole tragedia che fu l’invasione sovietica dell’Ungheria»11, durevole sicuramente se si pensa al disorientamento all’interno del Partito comunista italiano, ai dissensi e alla diaspora che ne seguirono. Due stagioni sul fronte della politica e della cultura comunista, e due stagioni ben distinte anche per l’intellettuale Rodari: quella di Varese12 e di Milano e quella di Roma. Sin dalla giovinezza Rodari aveva respirato stampa, proprio dal breve ma intenso periodo, dopo la prematura scomparsa del padre, trascorso tra Gavirate, Seveso e Varese, quando ricoprì l’incarico di presidente dell’Azione Cattolica gaviratese, occupandosi, tra l’altro, della «buona stampa»13, come si evince dai verbali delle adunanze. Ciò è sintomatico di come la sua attenzione si fosse già indirizzata ai problemi della formazione e al rapporto tra formazione e stampa, perché convinto soprattutto di 9 Gianni Rodari racconta come diventò scrittore. Storia delle mie storie, in «Il pioniere dell’Unità», inserto dell’«Unità», 4 marzo 1965. 10 Ibid. 11 N. Ajello, Intellettuali e Pci. 1944-1958, Laterza, Roma-Bari 1979, p. V. 12 Cfr. A. Vaghi, Quel giovane comunista di Varese con tante idee, in «Ordine Nuovo», n. 3, 1980, p. 5. 13 Cfr. L. Caimi e F. Lucchini, Gianni Rodari a Gavirate: gli anni giovanili, Nicolini Editore, Gavirate 1995, p. 27.

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quanto la formazione fosse modellata e orientata dalla pubblicistica. E ciò è ben evidente; se nel 1936 dà rilievo in uno di quei verbali – che egli stesso redigeva – all’imminente uscita del nuovo periodico per ragazzi «Il vittorioso», nello stesso anno non solo si fa promotore della tradizionale giornata parrocchiale della buona stampa, ma anche, nel corso delle adunanze di luglio e di quella plenaria di metà novembre, esprime opinioni precise: la stampa è «padrona delle opinioni, regolatrice delle azioni e quindi una delle prime forze motrici del mondo». Di qui la sua convinzione della straordinaria forza di coagulazione e di orientamento ideologico dell’opinione popolare da parte della carta stampata, da cui consegue – quale punto qualitativamente importante del programma di apostolato socio-culturale – il fermo proposito di diffondere quella buona stampa, «creatrice di opinioni saldamente orientate su principi buoni, e quindi motrice di opere buone». È il programma che si traduce pragmaticamente nelle pagine del settimanale diocesano «Azione Giovanile», in cui, tra l’altro, pubblica – fra maggio e dicembre 1936 – otto racconti. Ma quell’incipit giornalistico, d’impronta così dichiaratamente cattolica, è brevissimo: nel marzo dell’anno seguente, infatti, trascorsa anche l’esperienza di seminarista a Seveso, si dimette dalla presidenza dell’Azione Cattolica di Gavirate. La decisione era maturata da un travaglio interiore che era sì spirituale, ma anche e soprattutto politico, come ricordò – a distanza di anni, dopo aver quindi decantato quelle inquietudini, evidenti prodromi di una sofferta e definitiva svolta – a don Luigi Dossi in una lettera del dicembre 1946 in cui riesaminava il 1937, anno decisivo in quanto proprio allora cominciò a «riflettere sul concreto». Riflessione – e non è un paradosso – che gli permise di tornare alla fede, quella nutrita di impegno e intellettuale e sociale, poiché «sebbene per voi dell’Ac noi comunisti, a giudicare dai vostri giornali, siamo dei mostri, ti posso dire che ho trovato di che riempire la mia vita in modo nobile e degno – di che soddisfare il mio intelletto con una filosofia giusta, che mi fa scoprire valori vecchi e nuovi e dà un senso positivo e attivo alla presenza del mondo»14. Il documento è quanto di più emblematico per avvalorare non so14

La lettera è integralmente pubblicata ivi, pp. 49-51.

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lo il momento temporale del cambiamento radicale, ma anche per l’emergere di un progetto di vita, di lavoro intellettuale e di impegno politico, i cui cardini, al di là delle diverse declinazioni successive del suo pensiero politico, più o meno sintonico con l’establishment del Partito comunista, tuttavia si prestano a una lettura e a un’interpretazione omogenee, ossia secondo una linea evolutiva decisamente coerente sotto il profilo etico e pedagogico. Si apre il nuovo corso dell’intellettuale Rodari, del comunista Rodari – ha osservato Luciano Caimi – «pienamente convinto della scelta operata e della bontà della causa per cui si batte»15, uno status di aseità politica che, in quegli anni di lotta aspra e di contrapposizione netta tra il mondo cattolico e la Sinistra, costituirà il terreno sul quale sedimentare il progetto di una società e di una cultura rinnovate. Società e cultura che, nell’ottica rodariana, avevano un alveo/laboratorio comune; tra le istituzioni sociali quella fondamentale e, checché se ne dica, fondamentale perché incisiva, se non nel breve termine, certamente in quello più dilatato temporalmente: la scuola. Bisognava lavorare in quel settore per rinnovare il contesto della società attraverso l’azzeramento delle sperequazioni e delle ingiustizie. La scuola per tutti e di tutti, non intesa come appiattimento dei valori culturali; anzi, essa si configurava al contrario come palestra per riconoscere e riabilitare le capacità cognitive di ognuno, come ebbe a sottolineare in un’intervista, quando a briglie sciolte – si fa per dire, visto il suo temperamento così riservato!16 – parlando del suo impegno giornalistico osservò che «il più costante e durevole è stato quello sui problemi della scuola, sulle trasformazioni didattiche. Sono molte facce della parola ‘scuola’»17. Ivi, p. 45. Un ritratto significativamente incisivo si deve all’amico Marcello Argilli: «Chi ha conosciuto l’autore ormai famoso lo ricorda conversatore brillante, ma egualmente riservato. Segno di misura e di stile, ma anche di un temperamento molto chiuso, di un uomo che non amava condividere le sue emozioni e i suoi sentimenti. Sempre castissimo nel linguaggio, alieno da ogni discorso scabroso, il suo riserbo, dovuto anche a timidezza, faceva intuire un marchio moralistico che si portava dentro fin dall’infanzia, e anche un rigore connaturato». M. Argilli, Gianni Rodari cit., p. 34. 17 Intervista a Gianni Rodari condotta da Antonio Paoletti per l’emittente TVA, 1° marzo 1979, Quattro chiacchiere con..., in L. Marucci e A.M. Novelli (a cura di), Rodare la fantasia con Rodari ad Ascoli, Provincia di Ascoli Piceno, Tip. 15 16

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Sensibilità pedagogica di Rodari18, voce isolata o quasi tra gli intellettuali del Pci di quegli anni, che fa emergere i problemi scolastici sotto un’angolazione esplicitamente e dichiaratamente politica; sì, perché politicamente si trattava di una scelta di campo, di una strategia e di una prassi politico-sociale19. Cambiare la società attraverso la scuola s’identifica con il suo disegno ambizioso e, in parte, largamente utopico; cambiamento non solo del palinsesto strutturale scolastico (e quindi l’andare a incidere il come e il che cosa insegnare), ma anche, pedagogicamente, dello stile di approccio con i giovani20. E, in questo senso, Rodari fu maestro in una duplice direzione: non solo aprì sentieri innovativi per incrementare una società costituita da soggetti liberi e cognitivamente divergenti, appunto perché liberi, ma ascoltò, e tanto; diede parola ai suoi lettori, si confrontò con le loro opinioni, verificò ipotesi (pensiamo, ad Fast Edit, Acquaviva Picena 2002, p. 53. A questo proposito ha osservato Cambi: «C’è nella ‘pedagogia’ rodariana un elogio della scuola, netto, deciso [...]. È nella scuola, come luogo di approccio alla cultura formalizzata, sistematica, che avviene lo sviluppo della mente, anche se la scuola deve sempre più aprirsi a procedure di apprendimento creativo, a cominciare dall’infanzia». F. Cambi, Rodari e i saperi, in M. Piatti (a cura di), Un secchiello e il mare. Gianni Rodari, i saperi, la nuova scuola, Edizioni Del Cerro, Tirrenia 2001, p. 19; cfr. anche C. De Luca, Un giornalista con il gusto di raccontare, in Leggere Rodari, supplemento a «Educazione oggi», gennaio 1981, p. 190; Id., Introduzione a G. Rodari, Il cane di Magonza, Editori Riuniti, Roma 1982. 18 «Un maestro che ha fatto il giornalista o un giornalista che ha fatto il maestro (l’ordine dei fatti conta poco)». T. Duran, L’universalità di Rodari, in «Liber», n. 7, aprile-giugno 1990. 19 Tutta la produzione rodariana ha, per Spriano, questa matrice: «Tra quelle pagine e schizzi si è annidato anche il Rodari meno evidente ma più ricco di contraddizioni vitali: il Rodari rivoluzionario, il Rodari che covava rivolta, scatti, dubbi e smentite, che se la rideva ma anche soffriva per tutte le meschinità e le ambiguità della politica e della cultura, in attesa di ribaltamenti e di sorprese che possono venire dal di fuori e dal di dentro». P. Spriano, Gianni Rodari, poeta e favolista inventore, in «Notiziario Einaudi», giugno 1980. 20 In una di quelle riflessioni sotto forma di appunto immediato e stringato, con il consueto piglio icastico e anche ironico, sulla scuola osserva: «Tutti gli alunni amano le vacanze più che la scuola: i pigri perché possono fare a meno di studiare; gli studiosi, perché hanno più tempo per studiare sul serio e per leggere i libri che li interessano veramente: questa non è diffamazione della scuola, ma critica costruttiva. Portate nella scuola, non solo i libri, ma tutte le questioni che interessano veramente i giovani e le vacanze non avranno più il fascino di una liberazione ma quello, più modesto, di un periodo di riposo». G. Rodari, Vacanze, in «Nuova Generazione», Anno I, n. 5, 30 dicembre 1956, p. 3.

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esempio, all’elaborazione/verifica della Grammatica della fantasia). Questa, in definitiva, la funzione delle sue rubriche/«finestre» dialogiche, ora con i genitori, ora con gli insegnanti, ora con un pubblico eterogeneo come quello che sfogliava «l’Unità» o «Paese Sera»21. Ma, a questo proposito, diamogli la parola: Non è che gli italiani, analfabeti a parte, siano meno inclini degli inglesi a prendere carta e biro per dare pubblico sfogo ai loro pensieri: la vera differenza è questa, che l’inglese, appena può, scrive al suo giornale, mentre l’italiano scrive un libro di poesie, o un romanzo, o un saggio sul moto perpetuo. Da questo punto di vista, tuttavia, la situazione è in netto miglioramento. Lo si deduce dal crescente successo di talune rubriche di «posta dei lettori» pubblicate dai maggiori quotidiani italiani, tra cui, naturalmente, «Paese Sera». Bisognerebbe trovare il modo di incoraggiare la gente a scrivere di più, ma questo probabilmente non dipende da incentivi spiccioli, tipo assegnazione di buoni-punto, come per i dadi da brodo, bensì dall’instaurazione di un buon costume politico nazionale in cui l’opinione pubblica fosse tenuta in maggior conto. In pratica cosa succede? La gente legge nei giornali critiche spaventose, per quanto documentate, a questo o quello statista, grande o piccolo; e vede che non succede mai assolutamente nulla; lo statista, o staterellista, rimane al suo posto e il giornalista ci fa la figura di uno che passi il tempo a fare «blà blà blà». Allora si scoraggia e invece di scrivere al giornale scrive alla morosa22.

Parlare è formare e, anche, formarsi, e non vi è strumento più immediato e penetrante della stampa, quasi ad echeggiare i concetti espressi da Max Weber, sociologo ma anche giornalista; l’«uomo moderno» e la società moderna sono modellati dalla stampa: in chiave soggettiva, il soggetto, in chiave oggettiva, la cultura della società. Questo voleva indicare al Partito, ancora negli anni tra il 1953 e il 1956, dalla scrivania da cui dirigeva «Avanguardia», quel giornale per i giovani che, sebbene fosse l’organo 21 Prendendo spunto dai colloqui di Rodari con i lettori, Maurizio Dardano rileva che il cittadino diventa sempre più protagonista e, se il fenomeno s’intensifica tra gli anni Settanta e Ottanta, ciò è dovuto, da un lato, all’influenza del modello televisivo e, dall’altro lato, all’«evoluzione della scrittura giornalistica nonché [a] una più articolata strategia divulgativa e dialettica». Cfr. M. Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 455. 22 Le letture di Benelux, Dialogo in pubblico, in «Paese Sera-Libri», 12 settembre 1969, p. I.

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della Fgci, egli avrebbe desiderato più «leggero» rispetto a «Rinascita» e all’«Unità»; ma si rivolgeva anche al Partito così «distratto» in materia di politica scolastica, almeno negli anni immediatamente successivi alla Liberazione. Prioritari e urgenti erano altri problemi: Togliatti era da un lato «impegnato fino al collo nella politica di unità antifascista e nella costruzione del ‘partito nuovo’»23, dall’altro lato era politicamente assorbito dall’appuntamento elettorale – il referendum del 1946 –, prima, le elezioni politiche del 1948, poi. Ma non sottovalutava, anzi, il ruolo della stampa, semmai il suo limite era di guardarla sin troppo con l’occhio del militante: per questo si rivelò fruttuosa la soluzione di delegare l’abile factotum dell’«Unità» clandestina e del dopo Liberazione, Amerigo Terenzi, a guidare quel settore cruciale per l’orientamento dell’opinione pubblica. Scelta felicissima; la sua strategia fu in primis quella di disingessare progressivamente «l’Unità», all’inizio «un giornale professionalmente ingenuo e politicamente [...] dogmatico»24, dall’immagine di «organo di partito» al servizio dei dirigenti, e poi di dare impulso ai giornali della sera e a quelli fiancheggiatori, che poco piacevano invece a Togliatti. Rodari era approdato alla redazione milanese dell’«Unità» nell’estate del 1947, dopo aver diretto sino allo stesso anno «L’Ordine Nuovo», il periodico della federazione comunista di Varese. Giovane militante e promettente intellettuale, egli s’identificava con l’identikit dell’intellettuale organico – organico di allora, perché è fenomenologicamente che va interpretato il suo peso politico-culturale – che, come tutti gli uomini di cultura di cui Togliatti amava circondarsi, avrebbe svolto un compito di pedagogia intellettuale nel paese. Una pedagogia incentrata su un’equazione: cultura e antifascismo (si pensi, per esemplificare, alla cura di Togliatti nella preparazione, durante la primavera del 1944, della «Rinascita» chiamando Massimo Caprara a dirigerla dopo l’esperienza alla raffinata e forbita rivista «Latitudine»). Ma non solo; si trattava anche di far emergere la peculiarità del comunismo italiano, diverso non solo rispetto a quello sovietico, ma anche a quello di altri paesi occidentali come la Francia. Forse, con il senno di 23 P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra. 1943-1972, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 33. 24 Ibid.

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poi, identifichiamo nella ricerca di un’identità precisa del comunismo italiano, soprattutto nell’impatto con gli avvenimenti internazionali degli anni Cinquanta, la causa sia del successivo travaglio politico e culturale all’interno del Partito (le polemiche e gli imbarazzi dei vertici politici), sia dei conseguenti dissensi più o meno aperti e persino plateali. Si rompono le file da quello spartiacque che fu il 1956. Ognuno alla sua maniera, dalle dimissioni di sei intellettuali di spicco (i letterati Natalino Sapegno e Gaetano Trombatore, il giurista Vezio Crisafulli, gli artisti Domenico Purificato e Leoncillo Leonardi, l’architetto Claudio Longo) al «manifesto dei 101» – nomi rilevanti della cultura di sinistra, in particolare accademica romana, che tra il 1957 e il 1959 restituiranno quasi tutti la tessera di partito25 –, alle posizioni critiche di Vittorini e di Pasolini. E Rodari? Quelle tempestose temperie le aveva vissute da comunista e in diretta dopo essersi trasferito a Roma, nel 1950, su invito di Giancarlo Pajetta per dar vita e dirigere con Dina Rinaldi, fino al 1953, il periodico per ragazzi il «Pioniere», pur continuando la collaborazione sia alla redazione romana dell’«Unità», sia a «Pattuglia» (fino al 1951), poi sostituito da «Avanguardia» (fino al 1956), e a «Noi donne» (fino al 1968). Che la scelta di Pajetta non fosse stata casuale è assodato; Rodari, con alle spalle un passato seppur breve di maestro, aveva già manifestato una sensibilità pedagogica precisa durante l’esperienza giornalistica milanese attraverso la rubrica dell’«Unità» La domenica dei piccoli (dal 13 marzo 1949 al 5 febbraio 1950). Si apriva un nuovo corso nella sua attività di giornalista, ma anche di intellettuale della Sinistra comunista; scompariva l’inviato speciale e cronista, che aveva seguito con appassionata partecipazione fatti e vicende politiche che stanno all’origine della Repubblica. 25 Cfr. N. Ajello, Intellettuali cit., pp. 397-452. Lo stesso Ajello ha così descritto il clima: «gli eventi politici dei mesi successivi – l’Ungheria – dovevano concludere in maniera repentina la stagione del frontismo culturale. Certe perplessità si rivelarono, l’ansioso revisionismo di alcuni diventò chiara condanna e abiura, antiche solidarietà e amicizie politico-letterarie si frantumarono nella polemica, nel sospetto, nell’anatema. Gli anni Cinquanta si chiudevano con un po’ d’anticipo, e molti intellettuali ‘prestati’ alla causa che aveva dominato nel decennio presero altre strade. L’industria culturale era già pronta ad assorbirli». Id., Lo scrittore e il potere, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 79.

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A partire dal 1950, gli interessi giornalistici di Rodari fanno emergere una costante e preminente attenzione ai problemi legati all’educazione, dentro e fuori la scuola, dell’infanzia e dei giovani, alla loro organizzazione, alla famiglia, alle questioni sociali e politiche che li riguardano26.

Si tratta indubbiamente di un ampliamento del ventaglio delle tematiche, ma con quale metodologia affronta quegli argomenti? Non certo secondo i canoni di sistematicità della riflessione pedagogica. E politicamente, da militante pur sempre? Qui sta il nucleo del cambiamento, che si delinea con contorni sempre più netti e originali a partire dal 1950, ma che sarà conclamato dal 1958, anno in cui approdò a «Paese Sera», in poi in coincidenza con il periodo, senza dubbio, della maturità giornalistica rodariana. La stagione giornalistica romana fu alacre e prolifica come egli stesso, con la consueta naturalezza, aveva spiegato in una lettera del 1970 – anno in cui gli venne assegnato il premio Andersen – agli scolari di una scuola elementare: A Roma ho diretto un settimanale per ragazzi, poi un settimanale per i giovani. Poi sono tornato a lavorare in un quotidiano. Ora facevo il «capocronista», cioè dirigevo il lavoro degli altri cronisti, quelli che si occupavano di «cronaca bianca», di «cronaca nera» (i delitti, i furti, gli incidenti stradali), di «cronaca giudiziaria» (i processi), di «cronaca sindacale» (le questioni dei lavoratori, gli scioperi). Era molto bello, ma faticoso. Andavo a lavorare alle quattro del pomeriggio e lavoravo fino alle cinque della mattina. Però non potevo rincasare subito, perché mia figlia – che allora era molto piccola – si svegliava al minimo rumore: dovevo aspettare le sei, l’ora della prima poppata. Per far venire le sei andavo al Gianicolo a fumare una sigaretta, o restavo a chiacchierare con i tipografi.

Divideva spesso quelle albe sonnolente e il piacere di una sigaretta con l’amico e collega al «Pioniere» e ad «Avanguardia», Marcello Argilli (curioso – un caso? – che sulla copertina della sua

26 C. De Luca, Gianni Rodari. La gaia scienza della fantasia, Abramo, Catanzaro 1991, pp. 34-35. Della stessa opinione G. Diamanti (a cura di), I Benelux di Gianni Rodari, Genova 1988 (dattiloscritto), p. 8.

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biografia su Rodari, per Einaudi, compaia l’immagine dello scrittore con quella sigaretta, stretta pendula tra le labbra, tipico atteggiamento del fumatore consumato com’era Rodari), commentando avvenimenti, discutendo, ma anche imbastendo, da idee, progetti di lavoro. Sono gli anni in cui si reinterpreta il ruolo e la funzione del giornalista di sinistra, quello del dopo il «mal d’Ungheria» – per dirla con Ajello – quando «si può essere marxisti con licenza di dubbio; è perfino lecito professarsi marxisti e qualche altra cosa insieme»27. Rodari aveva sempre, ma ancor più in quegli anni, sentito come troppo limitati sia gli spazi di riflessione, sia gli ambiti tematici concessigli sulle colonne dell’«Unità», che da organo di partito esigeva una disciplina di scrittura politicamente allineata (forse le sole «isole» di libertà furono le sue rubriche: Il Novellino del giovedì, 1952-53, Il libro dei perché, 1952-57, e La posta dei perché, 1957-58); egli considerava sì il giornalismo una milizia – secondo la definizione del suo ultimo direttore a «Paese Sera»28 – ma in senso più etico che politico-dogmatico29. Ci sembra emblematico di quanto fosse stato netto e profondo lo strappo con il passato stalinista sovietico uno zoom di Benelux sui «libri rivoltanti» – come li definisce un nostalgico del mito di Stalin, lo scrittore sovietico Kocˇetov –, ossia quelli dello studio dell’esperto di letteratura russa, Vittorio Strada «che ha il torto di essere un marxista, invece che uno stalinista»30. È l’occasione per riflettere su quanto l’epoca stalinista sia stata una lunga parentesi storica di oscurantismo culturale; tra i libri banditi in Urss e invece presenti nelle librerie di Strada, certamente le opere di Trotski, N. Ajello, Lo scrittore cit., p. 81. Cfr. G. Fiore, «Paese Sera», 17 aprile 1980. 29 A tal proposito ha rilevato giustamente Lucio Lombardo Radice: «Rodari è un militante comunista che fa la sua milizia politica senza settarismo, cioè avendo di mira sempre gli ideali che lo hanno portato a quella scelta, ma è sempre un militante comunista e quindi, senza dubbio, risente di tutte le fasi della sua milizia. Risente della guerra partigiana, che lo segna nella prima giovinezza, risente della guerra fredda, risente della crisi del ’56 ed è senza dubbio sotto l’influenza delle ‘aperture’, speranze, forse anche illusioni, che nascono con l’inizio degli anni Sessanta». L. Lombardo Radice, Introduzione a F. Ghilardi (a cura di), Il favoloso Gianni cit., p. 3. 30 Le letture di Benelux, «Libri rivoltanti», in «Paese Sera-Libri», 10 ottobre 1969, p. I. 27 28

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dei formalisti russi – il «gruppo di scrittori [...] che ha sparato da solo tanta intelligenza, negli anni Venti» – e le riproduzioni delle opere di Chagall tenute, invece, «nelle cantine dei musei perché così aveva deciso Stalin, e ancora non è stato dato il contrordine». Rodari fu, come giustamente dice Argilli, un battitore libero del giornalismo italiano, che condivideva tante posizioni di dissenzienti comunisti; pur senza la sanguigna umoralità tutta siciliana di Elio Vittorini31 – redattore capo dell’«Unità» milanese dal 1945 –, tuttavia condivideva le sue preoccupazioni: il pericolo della mano forte politica sulla cultura e, di qui, la deprecabile strumentalizzazione degli uomini di cultura, «non meno sterile e superficiale di quella fascista»32. Proprio per questo sentiva a lui vicino anche Pier Paolo Pasolini33: non si era mai fatto strumentalizzare e l’impronta della sua scrittura era profondamente eticocivile. E i connotati sono contigui in entrambi soprattutto se si leggono – collocati nella «prima» – gli Scritti corsari sul «Corriere della Sera» e i corsivi di Benelux su «Paese Sera» non solo per contenuti, ma anche per stile: «quel ritmo più frequente e teso dell’attualità»34, di una lettura della realtà sincronica con lo svolgersi degli avvenimenti. E il compito sta all’intellettuale, soprattutto all’intellettuale impegnato politicamente: ne emerge, spesso attraverso temi forti, il poeta civile35, che «con leggerezza e forza d’impatto»36 spezza il ghetto delle pagine specialistiche, allargando, senza discriminazioni, il pubblico dei lettori. A ben guardare l’operazione s’identifica con un recupero deciso e netto della concezione che del giornalismo aveva avuto Antonio Gramsci37. Un Gramsci, tuttavia, liberato dai tentativi del 31 Secondo Romano Leporini dal suo «Politecnico» Vittorini rispecchiava, tra il 1945 e il 1947, «le contraddizioni di tutta la politica della sinistra marxista». R. Leporini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Edizioni di «Ideologie», Roma 1971, p. 35. 32 E. Vittorini, Lotta culturale e lotta politica, in «l’Unità» (Milano), 12 maggio 1945. 33 Cfr. A. Asor Rosa, Gianni Rodari e le provocazioni della fantasia, in M. Argilli, L. Del Cornò e C. De Luca (a cura di), Le provocazioni della fantasia cit., p. 7. 34 G. Barbiellini Amidei, Gli uomini di carta, Rizzoli, Milano 1989, p. 68. 35 Cfr. A. Faeti, Mi manca Rodari cit., p. 134. 36 G. Barbiellini Amidei, Gli uomini di carta cit., p. 68. 37 Cfr. A. Gramsci, Il giornalismo, Editori Riuniti, Roma 1991 (raccolta delle note sul giornalismo contenute in Quaderni del carcere), passim.

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Pci, nell’immediato dopo Liberazione, di «sforzare Gramsci fino a farlo coincidere con il realismo socialista zdanoviano e staliniano»38. Si materializza dunque negli anni Cinquanta, attraverso quelle voci, in maniera fedele, il «giornalismo integrale» così come era stato definito nel «Quaderno 24». Giornalismo che, se da un lato è teso a soddisfare tutti i bisogni del pubblico, dall’altro lato ne estende il campo. È attività intellettuale tesa «popolarmente», quindi proiettata all’interpretazione, in cui si fondono eticità e professionalità, libertà di espressione e ricerca della verità, nonché finezza del prodotto. Ma dove si attua il giornalismo «democratico» di Gramsci? In una società in cui si sia realizzata, in senso dialettico, l’unità storica tra società civile e società politica per cui, se la dialettica è reale e non solo concettuale, «il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla ‘società regolata’, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione)»39. In sintesi: in quella società lo Stato è superato dalla «società regolata». Queste premesse danno senso e ragione all’impegno di Rodari per una rifondazione della società attraverso l’informazione, campo inteso – proprio gramscianamente – nella sua forma storica, ossia come rapporto continuo e coerente con il pubblico, e che s’identifica anche con il terreno decisivo del moderno conflitto tra governanti e governati. Per quel Rodari ci voleva altro che «l’Unità», di cui peraltro era diventato caporedattore nel 1956. Di lì a due anni, il 1° dicembre 1958, siede alla scrivania di «Paese Sera», sino al 1980, anno della sua morte. 2. A «Paese Sera» Il giornale romano del pomeriggio nasce per iniziativa di esponenti comunisti il 5 dicembre 194940 per consolidare e, poi, asA. Moravia, Le parole non sono pietre, in «L’Espresso», 11 settembre 1966. A. Gramsci, Il giornalismo cit., p. 31. 40 Cfr. G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio e A.I. Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai giorni nostri, Utet, Torino 1997, p. 306; M. Grandinetti, I quotidiani in Italia 1943-1991, Franco Angeli, Milano 1992, pp. 225-226. 38 39

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sorbire (nel 1963) il quotidiano del mattino «Il Paese», sorto nel 1948, anno di elezioni politiche e, quindi, di infuocati scontri polemici, spesso con toni apocalittici e senza esclusione di colpi, fra la Dc e il Fronte democratico popolare41. È di proprietà della società editrice Il Rinnovamento, collegata al Pci, ma l’editore di fatto è Amerigo Terenzi, che crede fermamente nella struttura satellitare costituita dai giornali fiancheggiatori del Pci. Di qui il potenziamento della rete: tra il 1945 e il 1946, oltre alle quattro edizioni dell’«Unità» (Roma, Milano, Torino e Genova), la «Voce di Napoli», «La repubblica» a Roma, «Milano-sera», «Il progresso d’Italia» a Bologna, «Il nuovo corriere» a Firenze, la «Gazzetta» a Livorno, «L’ora» a Palermo, di cui alcuni, nell’imminenza del 1948, moltiplicano le edizioni. Vengono varate nuove testate, ma la novità, comunque, sono quelle pomeridiane42. Il carattere di «Paese Sera», firmato dallo stesso direttore del «Paese» Tomaso Smith, ma di fatto guidato da un «cronista nato», Fausto Coen, è presto detto: fatti di cronaca «montati» sapientemente e con uno spirito sarcastico oltreché di protesta, titolazioni e scrittura vivaci e brillanti, intraprendenza dei cronisti, accuratezza nella veste grafica e uso spregiudicato di fotografie, molte «firme» e tanto sport; il mix è gradito a Terenzi, che voleva un giornale col senso del colore dell’«Avanti!» di Pietro Nenni, ed è vincente: piace al pubblico romano, giornalmente in curiosa attesa di leggere i corsivi, non solo quelli di «Publio» (Ruggero

41 Dal 18 aprile del 1948 «la coalizione centrista sulla cui base politica la Democrazia cristiana attua, lungo più di un decennio, la restaurazione e il nuovo sviluppo capitalistico italiano, consente alla stampa quotidiana cosiddetta d’informazione [...] di fare della propria ‘indipendenza’ oggetto di culto nel momento stesso in cui questa indipendenza si vanifica, nella stessa misura in cui la Confindustria controlla la maggior parte delle testate e, attraverso l’organizzazione della pubblicità, regola il flusso degli introiti maggiori dei quotidiani». P. Spriano, L’informazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia, vol. 5, tomo II, Einaudi, Torino 1973, pp. 1858-1859. 42 «‘Milano-sera’, per esempio, organizza edizioni per Genova e Torino, con testate particolari (‘Genova-sera’ e ‘Torino-sera’)». P. Murialdi, La stampa italiana cit., p. 189, che prosegue: «A Roma i comunisti, che hanno già il pomeridiano ‘La repubblica’, fondano il 21 gennaio 1948 ‘Il paese’, quotidiano del mattino diretto da Tomaso Smith [allo scopo di] ‘curare le alleanze’ coi socialisti e con le frange sparse della sinistra, e di togliere spazio alla ‘Voce repubblicana’, che a Roma e dintorni ha ancora un’apprezzabile diffusione». Ivi, pp. 189-190.

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Zangrandi) ma soprattutto quelli, così succulenti, di Benelux43. E il «cittadino Benelux», Gianni Rodari (per vent’anni dopo il primo decennio a firma di Marco Cesarini Sforza, Antonio Ghirelli e Alfredo Orecchio), trova la sua collocazione ideale: nel giornale in cui avrebbe sempre desiderato lavorare, giornale coraggioso e spregiudicato nelle denunce e nelle inchieste (e che coraggio nel pubblicare, tra gli imbarazzi del Pci, stralci del rapporto segreto sui crimini di Stalin, e con la motivazione: «non bisogna lasciare sputare la ‘bomba’ soltanto dai giornali borghesi»)44. Parte il 1° dicembre 1958 la sua avventura giornalistica a «Paese Sera», che va considerata probabilmente la stagione più matura dell’attività pubblicistica rodariana per quantità, qualità e originalità, come è stato da più parti riconosciuto, tanto che il giornale cresce in misura proporzionale al suo contributo: da inviato speciale a, soprattutto, corsivista, abile, culturalmente raffinato e intelligente. «Da funzionario di partito a tempo pieno che svolge anche attività giornalistica, Rodari passa alla professione di giornalista a tempo pieno che svolge anche attività politica»45, e la metamorfosi è estremamente importante perché è proprio quel contesto – anche politico, ma non partitico – che permette a Rodari d’essere giornalista dallo stile, come sempre, antiaristocratico e, contemporaneamente, non divulgativo, ma ancor più sia di far interagire produttivamente attività giornalistica e produzione fantastica, sia anche di affrontare criticamente argomenti diversi, ma in particolare pedagogico-educativi. Da un lato, Rodari dà libero sfogo, riecheggiando Palazzeschi46 ma 43 Per Mario Isnenghi «Paese Sera» rappresenta il capolavoro della «democrazia progressiva» per «la forza di diffusione e di influenza di un battagliero giornale democratico-popolare d’opposizione che ha saputo rompere il cerchio della concorrenza dei giornali reazionari, conservatori o ministeriali [...] e tendere a un’opera di ‘conformizzazione’ proponendo a centinaia di migliaia di lettori [...] contenuti critici, valutazioni, alleanze [...] che suonano ben rari e diversi nella storia e nella geografia del giornalismo centro-meridionale». M. Isnenghi, Giornali e giornalisti, Savelli, Roma 1975, pp. 53-54. 44 P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 127. 45 M. Di Rienzo, «Opinion-maker» per la scuola, in F. Ghilardi (a cura di), Il favoloso Gianni cit., p. 93. 46 Cfr. C. Vivaldi, Introduzione a Poesia satirica nell’Italia d’oggi, Guanda, Milano 1964, pp. XIII-XV; cfr. anche P. Boero, Un classico del Novecento, saggio

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anche Gadda47, alla satira e all’ironia (si pensi, ad esempio, alle sue Favole minime) non disgiunte sia da spirito irriverente e fantastico, sia da echi surrealistici delle immagini e da volontà di dissacrazione non solo dei moralismi48, radicati saldamente nella società borghese, ma anche di un sapere, basato su una falsa razionalità, che appiattisce la conoscenza al comune buon senso; dall’altro lato, da questi presupposti stilistici e linguistici discende nei suoi articoli un lavorio pedagogico sottile, spesso sotto forma di «fiume carsico», teso a scardinare quel tipo di sapere soprattutto a partire dalla scuola. Certamente fu un pedagogista «sui generis e opinion maker» – come lo definisce Di Rienzo – o forse, secondo un’interpretazione restrittiva nel panorama interconclusivo in G. Rodari, I cinque libri, Einaudi, Torino 1993, p. 727. Interessanti anche le osservazioni di Andrea Zanzotto, che sostiene quanto in Italia sia stata limitata l’influenza del surrealismo, ad eccezione forse solo del poeta Alfonso Gatto, soprattutto nelle sue composizioni per l’infanzia, e «dalla stessa matrice si sviluppa anche la felice impresa di Rodari, che viene a ricollegarsi a Palazzeschi attraverso Prévert e il surrealismo. In Rodari la riduzione del proprio atto poetico quasi esclusivamente alla poesia per bambini e l’opzione che vi è sottintesa costituiscono un fatto di coscienza la cui validità si riflette su tutta la poesia di oggi, un gesto di chiarificazione, una scommessa compiuta secondo una nuova forma di umiltà e di allegria [p. 66]. Anche se Rodari parla dei propri componimenti come di ‘giocattoli poetici’ che servirebbero solo come avviamento a qualche cosa di superiore, e se afferma di essersi posto a servizio dei bambini, non della poesia, in realtà egli sente che ora incombe il pericolo della cancellazione stessa di quest’ultimo termine e cerca di salvarlo (per gli altri e per sé) appunto indicandone l’alone aurorale, autorizzandone, in primo piano, quella che ne sarebbe una propedeutica [pp. 66-67]. Così, in Rodari, l’insistenza ancora inevitabile sul rapporto poesia-infanzia [...] osa invece ridarsi in un’ipotesi di ripresa positiva. Dall’infanzia come nostalgia regressione irresponsabilità Rodari si volge all’infanzia come nucleo salvifico che, resistendo a ogni oltraggio, si dispone a crescere, a ‘rispondere’ per il futuro, anche se questo è indecifrabile come non mai: la poesia, trasformandosi in ‘giocattolo’ per questa infanzia, e situando ‘altrove’ una propria immagine maggiore, che da Rodari è presunta (per se stesso) inattingibile, si rivivificherà ‘quanto basta’ nel dialogo con il fanciullo». A. Zanzotto, Infanzie, poesie, scuoletta (appunti), in «Strumenti critici», n. 21, 1973, p. 67. Si veda anche, non solo per le assonanze con Palazzeschi, ma anche con Bontempelli, Zavattini, Calvino, Campanile e Flaiano, A. Asor Rosa, Gianni Rodari e le provocazioni della fantasia cit., p. 9. 47 Cfr. C.E. Gadda, Primo libro delle favole, Neri Pozza Editore, Venezia 1952. 48 Eugenia Martinez rileva come una delle note originali, nella produzione di Rodari, sia «la rinuncia al messaggio morale». E. Martinez, Ricordo di Gianni Rodari, in «Vita dell’infanzia», n. 9-10, giugno-luglio 1980, p. 46.

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pretativo su cui si sofferma Cambi, un «pedagogista dimezzato»49, o ancora non solo uno scrittore inserito nel «filone pedagogico-realistico [...] a forte impronta educativa» per Asor Rosa50, ma anche un elaboratore di una vera e propria teoria dell’infanzia, secondo Frabboni, che trova un’esplicita contiguità tra Rodari, Lucio Lombardo Radice e Bruno Ciari51. Che dire? Rodari usò le sue «armi» e la sua vastissima cultura, facendo emergere una diffusa attenzione sia d’informazione sia di riflessione educativa e pedagogica, che – rileva Cambi – si coagula in una sensibilità pedagogica essenzialmente a tre direzioni: «la sensibilità verso l’infanzia e l’adolescenza», «l’attenzione allo studio dell’ambiente» e «la fondamentale consapevolezza antifascista»52. Tre piste tematiche di una pedagogia che, se mette al cen-

49 F. Cambi, L’immagine «formale» della pedagogia nell’opera di Rodari, in G. De Luca (a cura di), Se la fantasia cavalca con la ragione. Prolungamenti degli itinerari suggeriti dall’opera di Gianni Rodari, Atti del convegno (Reggio Emilia, 10-12 novembre 1982), Juvenilia, Bergamo 1983, p. 45. 50 A. Asor Rosa, Gianni Rodari e le provocazioni della fantasia cit., pp. 1112. Giustamente lo storico pone l’accento sull’influenza del movimento culturale del neorealismo, seppure «in una chiave garbatamente ironica e surreale» frammista a un’«ideologia egualitaria e solidaristica», quella in cui prevalgono «i buoni sentimenti, la fiducia nel futuro, l’appello alla ragione, i buoni che alla fine vincono sempre, i cattivi che sono sempre puniti, ma senza spirito di vendetta né crudele rivalsa», ivi, p. 12. Neorealismo che, negli anni della guerra fredda, contagia tutti gli intellettuali della sinistra – sotto l’influenza del pensiero di Gramsci e soprattutto di Lukács (Saggi sul realismo del 1950 e Il marxismo e la critica letteraria del 1953) –, letterariamente, sulla scia di Verga e di De Sanctis, con l’opera-capolavoro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, e cinematograficamente con il De Sica di Ladri di biciclette e di Umberto D, ma anche del Luchino Visconti di La terra trema, per non dimenticare alcune pellicole di Rossellini, Lattuada, Soldati, Camerini e De Santis. Per gli intellettuali di sinistra neorealismo equivalse a «uno stato d’animo», quello che Rodari manifestò nella Filastrocca di pace, pubblicata sull’«Unità» il 14 ottobre 1951, oppure nelle pagine sia del Cipollino (1951) che di Gelsomino nel paese dei bugiardi (1959); neorealismo tuttavia degenerato in bozzettistica paesana, sino al passaggio dalla cronaca alla storia, segnato dal film di Visconti Senso, avviando così il neorealismo italiano verso il «grande realismo» europeo di Balzac e di Tolstoj. Cfr. N. Ajello, Intellettuali cit., p. 298. 51 Cfr. F. Frabboni, Gianni, Lucio e Bruno: la forza delle idee nei sentieri della pedagogia, in M. Argilli, L. Del Cornò e C. De Luca (a cura di), Le provocazioni della fantasia cit., pp. 196-199. 52 F. Cambi, L’immagine «formale» della pedagogia nell’opera di Rodari, cit., pp. 46-47.

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tro il rapporto tra educazione e società, s’identifica con una disciplina caratterizzata da un forte, se non predominante, impegno sociale. Per questo motivo nei giornali trova la sua ideale collocazione: il discorso pedagogico, seppur parcellare, occasionale, intermittente, e quindi concettualmente – per esigenze di scrittura, appunto, giornalistica – compresso, sta tuttavia lì, negli interventi giornalistici, e in particolare, nella stagione a «Paese Sera» (soprattutto tra il 1968 e il 1973), nella prima pagina del quotidiano e nell’inserto «Libri». Agli studiosi il compito di una ricomposizione e di una lettura critico-interpretativa di quei flash, per ricostruire organicamente gli alvei tematici delle tre traiettorie della pedagogia rodariana di cui parla Cambi; troveremo, infatti, in quell’inserto le tre traiettorie e gli alvei tematici di riferimento della pedagogia rodariana: l’infanzia, l’ambiente, l’antifascismo. Se, per Tullio De Mauro53, «Paese Sera» ha uno stemma: è il «giornale di ‘Benelux’», chi è Benelux? Il profilo biografico di questo personaggio, eslege, insinuante e con tanto spirito d’indipendenza nel riflettere sugli avvenimenti d’attualità, ce lo offre lo stesso Rodari in occasione del ventesimo compleanno di Benelux: un «ometto della strada» come tanti altri, sposato, con prole, cambiali, umori e malumori suoi, di mezza età, ma non insensibile al modo di vedere dei giovani. Impolitico, ma non apolitico. Di sinistra, ma non dogmatico. Plebeo, ma non qualunquista. Capace di arrabbiarsi e capace di ridere. Senza peli sulla lingua, ma bonario. Sincero, ma non fazioso. È sempre lui, sempre uno che fa repubblica per conto suo, sempre uno che pensa con la sua testa, ma, proprio perché pensa, capace d’imparare da quel che vede e da quel che succede.

E oltre: quel che conta è lui, il CITTADINO BENELUX, che è poi, fondamentalmente, più che un giornalista, un lettore di Paese Sera: un italiano senza orecchini al naso, che crede nell’intelligenza e nella passione degli 53 Cfr. G. Diamanti, Rodari e il Benelux di «Paese Sera», in «Riforma della scuola», n. 10, 1990, pp. 25-28; e Id., Il corsivo Benelux tra realtà e fantasia, in M. Argilli, L. Del Cornò e C. De Luca (a cura di), Le provocazioni della fantasia cit., pp. 69-78.

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altri italiani e crede anche, nonostante tutto, nel futuro di questo paese, che per lui è e rimane, al di là di ogni dubbio, il più bel paese del mondo.

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Questo il ritratto, ma l’origine del suo nome? Ce lo spiega: È noto che Benelux nacque nel lontano 1949, in corsivo. Perché quel nome? Quasi per burla. Ci sono dei padri che si burlano dei figli, all’anagrafe. Conoscevo un veneto il quale ebbe tre figlie: la prima la chiamò Una; quando nacque la seconda, la chiamò Rosa; quando spuntò la terza, la chiamò Fiorita. Ed ecco «Una Rosa Fiorita», in tre persone uguali e distinte. Benelux era solo e gli autori dei suoi giorni originariamente tre, che si davano il turno, per dirla con messer Ludovico Ariosto, «come a vicenda i mantici che danno, or l’uno or l’altro, fiato alla fornace». Dovendo trovare uno pseudonimo comune e impersonale, i tre si ispirarono, da autentici giornalisti, a un fatto del giorno: Belgio, Olanda e Lussemburgo, in quei tempi, davano vita a una comunità denominata, dalle loro sillabe iniziali (Belgique, Nederland, Luxemburg), «BENELUX». E «Benelux» fu anche per «Paese Sera»54.

Quattro gli ingredienti del «pezzullo», secondo Murialdi; deve essere polemico, breve, succoso e brillante. Pochi quelli polemici (e mai gratuiti o pretestuosi)55 di Rodari, ma non mancano stringatezza, incisività e soprattutto verve e humor, in controtendenza rispetto alle tradizioni del giornalismo italiano così poco incline all’umorismo56. In quell’angolo si placa la polemica politica – e gli anni della guerra fredda ne offrono tanti di spunti – che infuria in altre pagine del quotidiano. Rodari, anche quando lancia qualche frecciatina al mondo del Palazzo, lo fa con leggerezza; a volte anche mordente, tuttavia la tonalità portante del corsivo s’identifica con l’umorismo, il riso rodariano, che è anche «sorriso pedagogico»57 a doppio taglio: quello in superficie e quello in profondità, a cui corrispondono sia due registri di lettura e d’interpretazione sia due tipologie di pubblico, infantile e adulto. Sì, è riso, ma anche «riso amaro» quello che conduce alla riflessione Benelux, in «Paese Sera», 21 dicembre 1969. Cfr. C. De Luca, Gianni Rodari cit., p. 14. 56 P. Murialdi, Come si legge un giornale, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 98. 57 Cfr. A. Zanzotto, Il sorriso pedagogico di Rodari, in C. De Luca (a cura di), Se la fantasia cavalca con la ragione cit., pp. 24-37. 54 55

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su temi alti quali l’esistenza, la condizione sociale umana, le ingiustizie e i soprusi, il problema della pace e la coesistenza nell’interculturalità a partire dagli avvenimenti dell’oggi. Solo un esempio: il lucido, rapido e pregnante pezzo sul 1º maggio del 1968, giorno particolare e ancor più in quell’anno/svolta sul piano nazionale e internazionale, ma la chiusa è serenamente equilibrata: «non è un Primo Maggio di soli garofani all’occhiello. Eppure, ne ricordiamo di assai più drammatici [...] sotto il fascismo. Proprio questo volevamo ricordare, oggi: che i cambiamenti sono sempre possibili»58. Temi che emergono in modo soft dalle argomentazioni dell’uomo comune nel fluire del vivere anonimo e quotidiano (dietro il quale si cela, sotto l’«ombrello» a volte provvidenziale dello pseudonimo, lo stesso Rodari, che può quindi parlare in libertà), anche apparentemente banali: la fiera agricola, il calcio, la gara di ciclismo, gli italiani all’estero, le condizioni meteorologiche... Per Rodari ogni giorno una scelta difficile – novantanove argomenti, diceva sorridendo, restano fuori –, un impegno intenso59 se solo si pensa ai vari altri fronti di attività: da quella letteraria, diventata importante (pubblica volumi dal 1960 – Filastrocche in cielo e in terra – sino alla morte con una cadenza biennale e a volte anche più frequente), a tutte le altre collaborazioni giornalistiche. Nella primavera del 1961 inizia a collaborare al «Corriere dei Piccoli» (sino al 1977) e alla «Via Migliore» (fino al 1976); pubblica sul «Caffè» poesie satiriche; nel 1964 inizia la collaborazione al «Giornale dei Genitori», che dirige dal 1968 al 1977, anno in cui dà vita su «Paese Sera» alla rubrica A porte aperte, dopo la precedente, Dialoghi con i genitori (1970-73), che aveva riscosso molto successo e che, peda-

Benelux, in «Paese Sera», 1º maggio 1968. Su quanto lo assorbisse l’impegno giornalistico la moglie Maria Teresa Ferretti ha osservato: «specialmente Benelux che era una riflessione sugli accadimenti quotidiani. Di lì veniva fuori la sua capacità d’interpretare certe situazioni, di spiegare un concetto complesso in poche parole chiare che tutti potessero capire. La rubrica doveva essere contenuta in un certo numero di righe, quindi la critica doveva essere necessariamente sintetica». A. Paoletti, Quattro chiacchiere con… cit., p. 158. 58 59

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gogicamente, rappresenta un tassello importante per ricostruire il suo pensiero educativo. La sua attività è dunque febbrile ma, nonostante ciò, Benelux non demorde, anzi vuole più spazio e più voce, tramutandosi dall’uomo della strada nel colto e raffinato uomo di lettere. Ed eccolo su quell’esile, ma denso fascicolo che «Paese Sera» pubblica settimanalmente: il supplemento dedicato ai libri. È il 26 gennaio 1969 e le sue «incursioni» si protrarranno sino al marzo dell’anno successivo. Ma gli interventi di Rodari, firmati o solo siglati – recensioni, schede, articoli –, saranno numerosissimi a partire dal 2 dicembre 1960 fino all’8 febbraio 1980. È un Rodari inedito o quasi quello che emerge: uomo di cultura, intellettuale e lettore infaticabile che setaccia minuziosamente gli scaffali dell’attualità editoriale, per l’infanzia e i ragazzi, sì, ma anche per gli adulti. Articoli, alcuni, che sono veri e propri «pezzi» o elzeviri da terza pagina, ma non sono collocati nella loro sede naturale, appunto la terza pagina, perché quest’ultima, proprio dagli anni Sessanta in poi, muta60 profondamente sia per un progressivo processo di osmosi tra rotocalco e quotidiano, sia per l’influenza – soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta – del modello televisivo e di altri media, che introducono nuove tematiche nel quotidiano: «un’evoluzione della scrittura giornalistica nonché una più articolata strategia divulgativa e didattica»61. Avviene una «trasformazione formale che corrisponde alla frantumazione di quella che era la sua struttura tipica nei tre articoli, l’apertura, il taglio e la spalla»62. Appaiono supplementi letterari, ma non solo63: pagine 60 Cfr. Il Campo (a cura di), La professione giornalistica in Italia, Quaderni della Fondazione Olivetti, Città di Castello 1990, p. 93. 61 M. Dardano, Il linguaggio cit., p. 455. 62 C. Ceccuti, Il quotidiano ieri e oggi, Uniedit, Firenze 1978, p. 232. Aggiunge polemicamente, pur rilevando la longevità del supplemento di «Paese Sera»: «tuttavia queste stesse pagine, nel tentativo di trasformare il giornale sempre più in servizio, in realtà hanno mostrato più chiaramente anche certe contraddizioni, anche ideologiche: il supplemento di ‘Paese Sera’, cioè di un quotidiano che vorrebbe rivolgersi alla classe operaia, è assolutamente illeggibile per un pubblico men che colto, poiché si apre, ad esempio, su due colonne con i problemi di Lukács o di Adorno». Ivi, p. 233. 63 Illuminanti e anticipatrici le osservazioni di Gramsci sull’importanza dei supplementi: «Un quotidiano ben fatto e che tenda a introdursi attraverso i sup-

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speciali sulla scienza, sull’arte, sui giovani, sulla donna..., dunque si creano spazi a carattere tematico più ampio e con una visibilità maggiore. Contemporaneamente, la pagina del giornale si fa più articolata: articoli più brevi – a carattere d’intervento – e uso di fotografie. Se la terza pagina diventa un contenitore ambiguo, in cui la notizia sottrae spazio alla cultura umanistica, l’«orticello» letterario – come l’aveva definita Panzini – si trasferisce nei supplementi letterari, in «Libri» di «Paese Sera», ma anche in quelli, più o meno coevi, allegati ad altri quotidiani, assumendone la stessa funzione culturale, oscillando tra informazione sistematica sui libri e pagine di carattere più ideologico e di dibattito64. 3. Tra mondo adulto e mondo infantile Titolazione forse ambigua: potrebbe prefigurare due mondi e, in corrispondenza, due visioni del mondo nette e contrapposte a confronto. Ma, guardando a Rodari, quanto sono sfumati i confini tra quei due emisferi, proprio quando l’ottica dell’adulto è filtrata, depurata anche, e ancor più riabilitata dalla «miopia» che spesso l’annebbia e l’ottenebra facendole manomettere immagini e avvenimenti; il «bambino», che è nell’adulto, sviscera e interpreta i fatti: «Come bambini? Ma sì, come bambini – dice –. Nessuno ci ha ancora pensato, ma la definizione più esatta dell’uomo, secondo noi, potrebbe essere la seguente: l’uomo è l’unico animale che riesca a restare sempre un po’ bambino»65. Forse nessuno scrittore come Rodari ha saputo leggere, anche giornalisticamente, il mondo con il disincanto, lo stupore e l’ingenuità infantile (ma è davvero ingenuità o piuttosto – smantellate le sovrastrutture – elementare realismo?). È un metodo di analisi della realtà che lo scrittore applica sin dagli esordi nel giornalismo – i plementi anche dove difficilmente penetrerebbe come quotidiano dovrebbe avere una serie di supplementi mensili, di formato diverso da quello del quotidiano seguito dalla speciale materia che vuol trattare». A. Gramsci, Il giornalismo cit., p. 29. E oltre: «I supplementi principali dovrebbero essere almeno: 1) letterario 2) economico, industriale, sindacale 3) agricolo [pp. 29-30]. Nel letterario dovrebbe essere trattata anche la filosofia, l’arte, il teatro». E per finire: «il supplemento letterario dovrebbe avere anche la parte scolastica». Ivi, p. 30. 64 Cfr. ivi, p. 233. 65 Benelux, in «Paese Sera», 21 maggio 1968.

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tempi della «gavetta», quelli della cronaca «bianca» e «nera» –, ma già allora lo stile non è asettico e impersonale; si fa largo, infatti, il suo gusto di raccontare e d’interpretare i fatti, ossia di andare in profondità a cercare cause, moventi anche intimi, che sfuggono alla cronaca pura, sommaria, appunto, perché superficiale; operazione, la sua, che smitizza il mito della presunta e aproblematica obiettività, perché «la gente non si accontenta più del particolare sensazionale, della narrazione concitata: vuole conoscere l’intimo processo dei fatti, scavarli a fondo»66. E ciò, quasi a sottolineare quanto fosse necessario assecondare negli italiani la progressiva crescita sia della coscienza civile sia della cultura in senso critico-democratico; la qualità della lettura, conseguentemente, si fa più attenta e la riflessione più raffinata. Rodari l’aveva compreso bene e il suo impegno di redattore fu certamente soprattutto di tipo giornalistico, ma si declinò anche in chiave politico-pedagogica, in sincronia con la cronaca mossa e densa degli anni Cinquanta e Sessanta: scontri politici accesi, tanta ideologia vissuta con passione e fede (quando il militante Rodari manifesta in piazza o, finita la giornata di lavoro, si attarda con i redattori e collaboratori di «Avanguardia» a studiare Il manifesto dei comunisti e il Corso di Togliatti), ma anche tanta cronaca nera. E quanta – tra il campeggiare di tante grandi immagini – ci è scorsa sotto gli occhi in quel nostro rincorrere, tra i numeri di «Paese Sera», i supplementi «Libri», non sempre regolari nelle loro uscite! Anche per questo la tiratura del giornale cresce notevolmente – quaranta-cinquantamila copie, un’affermazione per un quotidiano romano del pomeriggio – e in modo proporzionale all’incremento dell’interesse dei lettori non solo per le inchieste, ma anche per fatti locali (il caso Egidi o Montesi), e pure per gli eventi delittuosi che, sul finire degli anni Cinquanta, polarizzano l’attenzione degli italiani. Rodari ne è spesso il cronista; il suo modello rifugge – memore dei consigli di Gramsci67 – da toni

66 Benelux, Dal dramma di Ghiani alla tragedia di Nicky, in «Paese Sera», 4 maggio 1959. 67 Osserva che, ad eccezione del «Corriere della Sera», «la cronaca giudiziaria dei grandi giornali è redatta come un perpetuo ‘Mille e una notte’ conce-

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tragici o drammatici, se non farseschi; lo stile è asciutto e tuttavia proteso all’indagine en profondeur 68: ricerca l’uomo dal raptus al doloroso iter punitivo e, spesso, pseudo-riabilitativo imposto dalla società civile. Questa la metodologia che adotta nel recensire, ad esempio, un libro dell’ex detenuto Salierno69, incarcerato con l’effige del «giovane missino dalla pistola facile del ’53», ma tramutatosi nel corso degli anni nel «Chessman italiano», dunque in un «uomo colto e responsabile. Saragat lo graziò e fece molto bene». Ma, quasi ad evocare il pensiero foucaultiano di Sorvegliare e punire, Rodari asseconda Salierno quando afferma: «L’importante ora è che questo testo [...] venga utilizzato [...] per risvegliare l’opinione pubblica di fronte al problema della giustizia penale»70. Dal caso Salierno-Conforti all’eclatante caso giudiziario Ghiani-Fenaroli; nell’Italia alle soglie degli anni Sessanta, divisa ciecamente tra innocentisti e colpevolisti, Rodari invece spazia, investigando curioso tra le deposizioni, i documenti resi pubblici e le rivelazioni, scrive i servizi per il giornale riflettendo e trovando persino angolazioni pedagogiche; conquistare una più profonda coscienza del diritto costituisce un’occasione educativa nel processo di emancipazione civile della popolazione. Probabilmente è questa la molla che fa scattare l’interesse di Rodari non solo per i casi giudiziari dell’epoca, ma anche per le simulazioni processuali televisive, in particolare gli episodi di cui è protagonista l’avvocato Perry Mason, quell’americano «simpatico», certamente celepito secondo gli schemi del romanzo d’appendice». A. Gramsci, Il giornalismo cit., p. 39. 68 «Le cronache più ricche e più belle del delitto Martirano portano la sua firma. Si appassionava alle vicende di Ghiani, di Fenaroli, del ragionier Sacchi come più di un lettore di gialli; riviveva con il lettore passionalmente ogni giorno le vicende degli arresti, dei colpi di scena». A. Chiesa, Così diventò poeta: fu quasi per caso, in «Paese Sera», 15 aprile 1980. 69 Le letture di Benelux, Prigione sconfitta, in «Paese Sera-Libri», 20 giugno 1969, p. I. 70 E Rodari con sicurezza sottolinea: «di lui bisogna parlare, per allontanare il minimo sospetto che si tratti di un ‘delinquente redento dal carcere’. Si tratta, al contrario, di un uomo che ha costruito se stesso lottando contro il carcere, resistendo alla ‘istituzione’: della quale traccia ora un quadro documentato e spaventoso, resistendo anche alla tentazione autobiografica, per scrivere un ‘pamphlet’ di rara efficacia, sia nell’indicazione delle riforme più urgenti, sia nella ricerca di una trasformazione globale». Ibid.

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bre per «la sua diabolica abilità nel destreggiarsi nei labirinti della procedura penale, i trucchi destinati a lasciar senza fiato il procuratore distrettuale»71, ma anche per l’immagine di americano alla Beniamino Franklin, ingenuo e idealista, che si mette dalla parte dell’accusato, proiettando il lettore-spettatore verso «il dramma umano del processo, a rimettere in discussione personalmente le grosse e scottanti questioni della giustizia: il valore delle ‘prove’, l’attendibilità dei testimoni»72. L’intreccio processuale o quello di un «giallo» «è, prima di tutto, un giuoco»73 (terminologia insistita e ripetuta dallo scrittore, un perno saldo nella sua «teoria» pedagogica, e che ben travalica il letterale significato di ludico). E il gioco è avvincente per lo spettatore Rodari che, se prudentemente premette di non voler «fare le scarpe al critico televisivo», tuttavia, dagli appuntamenti settimanali ora con Gino Cervi nei panni di un Maigret «coi fiocchi»74, ora con Tino Buazzelli in quelli di Nero Wolfe, trae spunti originali e forbiti. Se, osserva, gli interpreti, in chiave sovente umoristica, «giocano [...] splendidamente» l’intreccio spesso ripetitivo, purtuttavia gli ingredienti più interessanti s’identificano sia «con poche ma efficaci variazioni», sia con il congegno tecnico – un «concerto grosso» – di cui Wolfe e il suo staff sono i solisti e l’ambiente, in cui si muo71 Cfr. G. Rodari, L’avvocato Perry Mason è «l’americano simpatico», in «Paese Sera-Libri», 5 novembre 1965, p. III. Tuttavia Rodari, abituale lettore di gialli e anche critico esperto, giudica i gialli di E.S. Gardner, l’autore di Perry Mason, inferiori «per originalità d’intreccio e di situazioni» a quelli di Agata Christie, di cui si occupa nella recensione Il millesimo giallo di Agata Christie, in «Paese Sera-Libri», 17 aprile 1968, p. I e cont. p. II. 72 Ibid. 73 Le letture di Benelux, La tribù di Wolfe, in «Paese Sera-Libri», 16 marzo 1969, p. I; cfr. anche G.R., Chi ha paura di Nero Wolfe?, in «Paese Sera-Libri», 16 febbraio 1972, p. IV. «I libri gialli – osserva – si dividono in due categorie: quelli settimanali, economici, di rapido consumo, che si amano alla follia e si conservano per decenni, nascosti nel baule della nonna perché a tenerli in vista si ha paura di fare una magra con gli amici intellettuali; quelli rilegati che sono spesso dei bei volumi, grossi come un Premio Strega, e possono figurare anche su uno scaffale sia in città che in campagna: lo scaffale disinvolto, che si può ostentare per civetteria anche nella buona società culturale». Le letture di Benelux, Chianti inglese, in «Paese Sera-Libri», 5 settembre 1969, p. I. 74 G. Rodari, Ritorno di Maigret, in «Paese Sera-Libri», 18 febbraio 1966, p. I. Di Georges Simenon recensisce il volume Romanzi autobiografici. Cfr. G. Rodari, Cominciò a raccontare per l’errore di un medico, in «Paese Sera-Libri», 12 maggio 1967, p. III.

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ve l’investigazione, è l’orchestra. L’attenzione curiosa di Rodari si dipana in uno scorrere tra passato e presente: l’intreccio giallistico e investigativo corre, allora, attraverso la storia. Dunque, perché non porre l’occhio e recensire un best-seller del tempo, uno scottante saggio storico-biografico di Mario Mazzucchelli, che attirò persino l’attenzione di «un famoso e severo procuratore della Repubblica»? Perché – s’interroga titolando Gianni Rodari – mettere sotto chiave gli amori della Monaca di Monza?75 L’autore solleva gli «scrupolosi veli» manzoniani con documentazione d’archivio e con la leggerezza dell’opera divulgativa; ne emerge il canovaccio del «romanzone», già in nuce nei Promessi sposi, ma anche con gli echi – osserva Rodari – di Sue, Diderot e Casanova in una mescolanza di sacro e perverso in cui emerge – serafica – la figura non tanto di Geltrude, la monaca di Monza, quanto della nobile e dissoluta Virginia Maria de Leyva. È la protagonista di un vero «romanzo nero», di un’«appendice truculenta» che lievita dai «bassifondi del Medioevo». Sì, la storia è torbida e fosca, e l’autore del saggio si muove in «questa materia scottante con disinvoltura [...], senza reticenze ma senza compiacimenti», tuttavia l’attenzione di Rodari è rivolta, non tanto alla ricostruzione storica, quanto, piuttosto, al delinearsi – attraverso la ricostruzione storica, ma anche a studi psicoanalitici sul personaggio – di questa tormentata figura femminile, che inquieta l’immaginario collettivo poiché emana un «fascino a cui i contemporanei sembrano particolarmente sensibili, perché la sua scintilla scocca tra i due poli del sesso e della religione, due elementi che stanno avendo nella vita italiana, per motivi eterogenei, un rilievo sproporzionato». «Vagabondando» ancora tra pagine storiche, indugia compiaciuto («non trovate – diceva – che i libri di storia sono quasi, mettiamoci un quasi, i più affascinanti?»). Sono gustose le osservazioni su un volume di Della Corte su Catone il Censore, non solo quello della «delenda Carthago», ma anche il protagonista di tanti aneddoti storici, e ancora, attraverso una ricostruzione dotta, il ritratto «di un self-made man dei secoli repubblicani»76, che «pre75 G. Rodari, Perché mettere sotto chiave gli amori della Monaca di Monza?, in «Paese Sera-Libri», 3 novembre 1961, p. 3 e cont. p. 8. 76 Le letture di Benelux, Tutto Catone, in «Paese Sera-Libri», 19 settembre 1969, p. I.

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dicava bene, ma i conti li faceva anche meglio» e che «i sindacati, a occhio e croce, non li avrebbe visti di buon occhio»; in sintesi: «il ritratto del castigamatti, di un rosso malpelo davanti al quale i vizi correvano a nascondersi, le nuove mode greche arrossivano di vergogna e le ‘virtù prische’ rivigoreggiavano, come una pianta da salotto dopo una cura di aspirina»77. Dalla storia romana, poi, al Medioevo, alla ricerca delle ragioni del rogo dei Templari, che Rodari liquida stringatamente: «il panorama è semplice e razionale: perduta la Terrasanta per la Cristianità, che ci stavano a fare, nella storia, i Cavalieri del Tempio, se non a mettere bastoni tra le ruote alla sua razionalità? Vedi Hegel, Croce e altri della ditta»78; tanto più che l’ordine – fondato da un francese – aveva costruito un sistema economico-bancario rilevantissimo, ma non tale da potersi radicare nel contesto commerciale fiorentino, osserva Rodari con un tocco di civetteria, rispondendo all’autore Bordonove che, da francese, ne esalta il potere conquistato internazionalmente. Gli interventi in cui si evidenzia tutta la cultura se non la raffinata erudizione storica di Rodari sono numerosi, ma i temi storici si prestano anche a una riflessione che si proietta sul piano non solo dell’informazione, ma anche della formazione critica delle giovani generazioni, nella prospettiva a più lunga gittata: il futuro della società, o meglio, la costruzione di una società, responsabilmente edotta e cosciente del passato, di cui la solidarietà e l’uguaglianza siano i cardini costitutivi e basilari. Il nodo è di natura pedagogica e perciò «bascula» tra il mondo degli adulti e quello infantile, ma proprio in quest’ultimo sta quell’incipit decisivo, il seme da cui germinerà una società rinnovata su basi democratiche. Non a caso – a partire da Rodari e da Calvino – la letteratura per l’infanzia cambia corso; abbandona decisamente l’insegnamento morale e si radica saldamente nella realtà storico-sociale, assimilando tematiche inusuali sino ad allora, come ad esempio quella della Resistenza. Avvenimenti e personaggi tragici e spesso di degrado rivissuti e descritti, attraverso una sorta di memoriale e di

Ibid. Le letture di Benelux, Templari al rogo, in «Paese Sera-Libri», 11 maggio 1969, p. I. 77 78

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testimonianza di guerra, dagli occhi di un bambino – Pin nel caso del Sentiero dei nidi di ragno, sotto cui si cela in verità anche l’io rimosso dello stesso scrittore – rappresenta (siamo nel 1947) nel panorama della letteratura per l’infanzia un momento di svolta e di rinnovamento. Rodari si pone su questa scia letteraria, perché convinto che la storia, soprattutto quella che allora era appena alle spalle, fosse un patrimonio di memoria di cui aver piena conoscenza non solo sotto il profilo culturale, ma soprattutto quale argomento di riflessione e, altresì, nutrimento per lo sviluppo di una coscienza civile. Interessanti, in questo senso, gli interventi sulle pubblicazioni che l’editoria colloca via via sul mercato, anche per i possibili percorsi didattici. Così avviene per una collana di letture per la scuola media – nove racconti e un’enciclopedia – che «illustrano ai giovanissimi, attraverso le vicende di loro coetanei, il periodo infuocato e luminoso della lotta di Liberazione»79. E Rodari dedica un lungo articolo a questa iniziativa delle tre associazioni partigiane e del Centro didattico nazionale per colmare, come sottolinea, una «lacuna della letteratura infantile». Gli occhi dei bambini di fronte alla tragedia di quella guerra ritornano in un volume che Rodari apprezza, La trottola, «una storia umana e delicata» di Adele Jemolo Morghen «ambientata negli anni e nel dramma della Resistenza»80, mentre appare più critico verso l’opera successiva dell’autrice, La nonna e i partigiani, in cui la guerra è giudicata da una nonna che, in riferimento all’attentato di via Rasella, esprime un messaggio «in cui l’ispirazione antifascista e l’ispirazione cristiana si fondono non senza drammi»81, accendendo per Rodari un’inutile e discutibile polemica. 4. Recensioni, elzeviri e altro In campo giornalistico esiste una sostanziale differenza tra recensione ed elzeviro, sia per il carattere del «pezzo» (presentazione

79

G. Rodari, La Resistenza e i ragazzi, in «Paese Sera-Libri», 5 marzo 1965,

p. IV. 80 G. Rodari, La nonna e la guerra partigiana, in «Paese Sera-Libri», 4 marzo 1966, p. IV. 81 Ibid.

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del tema e della sua articolazione in un volume, da un lato, racconto o saggio breve stilisticamente forbito, dall’altro), sia per la loro tradizionale e diversa collocazione nelle pagine del giornale e, spesso, per le firme che sono, nell’ambito cultural-letterario, particolarmente prestigiose negli elzeviri. Rodari, creativamente «disobbediente» come spesso è, rompe la netta separazione. Le letture di Benelux miscelano i due generi: sono recensioni, ma anche qualcosa di più, travalicando nell’elzeviro vero e proprio. E gli elementi ci sono tutti: brevità, cultura, stile letterario alto. Queste le caratteristiche delle Letture di Benelux, veri e propri viaggi, con il pretesto della recensione, nel mondo della storia, della letteratura, della sociologia e della politica sino all’economia, alla linguistica e ad una pedagogia intesa come formazione della coscienza civile. Tocchi rapidi più che approfondimenti, ma tanta perizia e disinvoltura culturale da far intravedere una solida e ampia cultura, sedimentata nel tempo e rielaborata nell’attualità del presente con sagacia e spesso con arguzia. Questi contributi, per il tono distaccato e spesso divertito, paiono quasi esercizi ludici dello scrittore, ma questa è solo l’apparenza; c’è studio, approfondimento di documentazione e d’informazione, c’è tanta riflessione seppure concentrata in poche righe, ma concettualmente dense. Da un lato temi culturalmente alti vengono raffrontati attraverso argomentazioni dotte e analogie tematico-strutturali, dall’altro – quando il Rodari giornalista prende il sopravvento – riportati all’oggi, ai dibattiti culturali e politico-sociali. Sì, questo doppio binario di lavoro costituisce forse la peculiarità dei Benelux per il supplemento «Libri», certamente più distaccati rispetto a quelli omonimi, necessariamente un po’ «d’assalto», per la «prima» di «Paese Sera». Qui c’è più tempo per decantare temi e spunti che provengono dalle novità editoriali. Rodari pare ritagliare, nel suo calendario di lavoro, «tempi morti» proprio per il Benelux culturale: le vacanze natalizie, un viaggio, un sabato pomeriggio sono momenti propizi per fuggire tra le pagine dei libri. E, in tema di ozio, per cominciare un libro scritto dal genero di Marx, Paul Lafargue, provocatorio non solo nel titolo – Il diritto alla pigrizia –, ma anche per le deduzioni e riflessioni socio-politiche che ne scaturiscono: sì, lavorare stanca – osserva convinto Rodari –, e in quanto salariato il lavoro è immorale, come l’autore del volume vuol dimostrare, tanto più che già la Bibbia lo aveva inteXL

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so come punizione. Si sgretola così il falso mito e la retorica del lavoro, ma ancora i tempi non sono maturi; l’avvento della macchina, che allevia la fatica umana, rappresenta l’utopia contenuta nel volume: «Rivediamoci dunque tra un cento o duecento anni, se ci state, e ne riparleremo»82. Si può fantasticare anche – ma fino a un certo punto, in quegli anni di guerra «fredda» – immaginando lo scoppio del conflitto atomico, provocato fortuitamente da una sigaretta e a cui neppure «un ‘giovin signore’ [Kennedy] colto, intelligente e sicuro di sé e un rozzo mugico [Krusciov]»83 possono porre rimedio. Un altro percorso di lettura, ancora fantastica, che lo scrittore suggerisce di affrontare « prima di andare al cinema, come è meglio leggere la guida prima di andare in Egitto: per avere un’idea, un filo qualunque da tenere in mano mentre si viaggia nel labirinto di Kubrick, per conservare l’illusione di ritrovare la porta d’uscita»84. Si tratta del Kubrick di Odissea nello spazio, labirintica pellicola tanto che «chi ha visto il film [...] ne è uscito con la testa piena, oltre che di smaglianti colori e di valzer viennesi, anche di punti interrogativi in sospensione [e] le risposte giuste si trovano nel romanzo che porta lo stesso titolo»85. Dalla fantasia alla realtà, colta – in uno scorrere diacronico – nelle analogie con il passato, a cui allude riferendosi non solo a testi storici, dall’antichità alla storia contemporanea, ma anche a testi letterari, come nel caso delle novelle di Masuccio Salernitano86, autore forse epigono di Boccaccio, ma tuttavia un «pubblicista di vena», un polemista e soprattutto un «cronista», «poco oggettivo e piuttosto borbottone, ma nell’insieme piacevole», che ha ritratto «i ‘casi della vita’ della società italo-meridionale di mezzo millennio fa: di un’epoca, cioè, in cui non esistevano giornali per tramandare agli archivi e quindi ai posteri la cronaca nera e la cro82 Le letture di Benelux, Diritto alla pigrizia, in «Paese Sera-Libri», 20 aprile 1969, p. I. 83 Le letture di Benelux, Arriva la bomba, in «Paese Sera-Libri», 26 gennaio 1969, p. I. 84 Le letture di Benelux, Odissea nello spazio, in «Paese Sera-Libri», 23 febbraio 1969, p. I. 85 Ibid. 86 Cfr. Le letture di Benelux, Il Santo Ginocchio, in «Paese Sera-Libri», 9 marzo 1969, p. I.

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naca rosa, né rotocalchi per eternare gli amori famosi della ‘jet society’». E se Masuccio, da snob nel senso etimologico del termine e quindi dispregiativo, ha «un occhio di riguardo solo per la nobiltà», lo stesso atteggiamento rileva Rodari, con tono ironico, seguendo Mario Soldati enologo in un viaggio attraverso l’Italia dei vini: «Bè, un Soldati snob non ce lo aspettavamo. Così brillante, fascinoso (al mio paese direbbero che ‘incanta la balena’) e così perduto in ammirazione dei gentiluomini di campagna che gli dicono male d’ogni altro vino all’infuori del loro...»87. Ma c’è un ambito che, più di altri, collega direttamente i Benelux con le recensioni e le schede: gli autori, i generi e i temi della letteratura per l’infanzia. Da un accenno fugace al capolavoro di Collodi, irripetibile come la Commedia dantesca («Collodi fece un solo Pinocchio. Era ben riuscito, ma non ne fece un altro. Toccava agli epigoni scrivere la storia di Pinocchio in dirigibile. Pinocchio palombaro. Pinocchio in monopattino, eccetera, e difatti i seguiti di Pinocchio non si contano, ma sono tutti brutti»88), all’autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, seppur in una veste quasi inedita, attraverso le sue Satire scelte89, sino alle fiabe cinesi, così affini alle Cosmicomiche di Calvino; e le fiabe ricorrono sovente nelle recensioni: dalle fiabe sonore90, alle «fiabe ‘cattive’ per bambini-beat»91, a «le fiabe con gli stivali»92 e, ancora, a quelle persiane93. Tra gli autori di fiabe indugia a lungo su Andersen, «tra Cristo e Cenerentola»94 oppure illustrato95, quindi a Car87 Le letture di Benelux, La cantina o la Bastiglia?, in «Paese Sera-Libri», 14 novembre 1969, p. I. 88 Le letture di Benelux, La famiglia Parkinson, in «Paese Sera-Libri», 28 novembre 1969, p. I. 89 Le letture di Benelux, La Cina, la Luna, in «Paese Sera-Libri», 6 febbraio 1970, p. II. 90 Cfr. G. Rodari, Fiabe sonore e racconti del terrore, in «Paese Sera-Libri», 10 dicembre 1967, p. IV. 91 Cfr. G. Rodari, Fiabe «cattive» per bambini-beat, in «Paese Sera-Libri», 14 gennaio 1968, p. II. 92 G. Rodari, Le fiabe con gli stivali, in «Paese Sera-Libri», 22 dicembre 1961, p. IV. 93 G. Rodari, Anche in Persia raccontano le fiabe, in «Paese Sera-Libri», 21 agosto 1962, p. II. 94 G. Rodari, Andersen tra Cristo e Cenerentola, in «Paese Sera-Libri», 18 dicembre 1977, p. 17. 95 G. Rodari, Andersen illustrato, in «Paese Sera-Libri», 1° gennaio 1961, p. II.

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roll96, e collocando «Perfino Schopenhauer tra i classici della fiaba»97. Il numero così consistente di recensioni di fiabe denuncia, da un lato, l’interesse culturale di Rodari per quel genere letterario, da studioso attento agli aspetti folkloristici ed etnologici98, dall’altro lato, la funzione formativa della fiaba stessa. Essa, come la sua personale esperienza di padre testimonia, rappresenta un incontro con la lingua materna, un incontro in cui è sempre ben disposto all’ascolto, e a lungo99, interiorizzando non soltanto le vicende ma anche le parole, in un’accezione che va al di là, tuttavia, del significato letterale: «il lupo della favola è un altro lupo [...] è un essere che riassume tutte le cose di cui il bambino ha paura: l’insicurezza, la bruttezza, la solitudine»100. Ma la fiaba, per Rodari così come per Bettelheim, decanta le paure, ha un effetto catartico per cui il bambino, dopo la lettura, è «‘più buono’ perché è più contento, più sereno di prima, perché ha compiuto imprese meravigliose, superato pericoli, vinto nemici. La fiaba, lungi dal distruggere il suo equilibrio, lo rafforza. Non insegna nulla di ‘pratico’, ma forma in lui una proficua disposizione alla serenità, all’umorismo, all’ottimismo»101. Le proposte sono tante, naturalmente, tra i classici di letteratura per l’infanzia, ma ci sono anche autori – a ribadire quanto il confine sia esile e a volte puramente formale – tradizionalmente considerati per gli adulti. Perché, allora, non suggerire Shakespeare per i più piccoli in una versione antologica? Non a caso Rodari, nell’incipit della recensione, ricorda quando sia importante nel processo di formazione il teatro, anche se osserva: «È abbastanza facile imbattersi in una polemica pedagogica, o più genericamente culturale, intorno all’utilità di un teatro per ragazzi o all’opportunità che l’incontro tra i ragazzi e il teatro avvenga, piuttosto, ad altissimo livello: con i classici, da Eschilo in

G. Rodari, I nemici di Alice, in «Paese Sera-Libri», 2 aprile 1978, p. 17. G. Rodari, Perfino Schopenhauer tra i classici della fiaba, in «Paese SeraLibri», 17 dicembre 1965, p. IV. 98 Si vedano, fra gli altri, gli interventi sul «Giornale dei Genitori», n. 11-12, 1968, e su «Paese Sera», 7 dicembre 1970. 99 Cfr. «Paese Sera», 8 dicembre 1970. 100 «Noi donne», n. 12, 1970. 101 Ibid. 96 97

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giù»102. Quella realtà educativa esiste in Urss, in cui i teatri stabili per i ragazzi «sono a centinaia», osserva, mentre in Italia «perfino gli oratori parrocchiali, che un tempo non trascuravano la filodrammatica, trovano ormai più conveniente darsi al cinema»103. Per adulti ma non solo, come dicevamo, anche Pusˇkin, di cui la collana «Il carosello» di Bompiani (dai sei agli otto agli undici anni) pubblica, in prossimità del Natale 1966, Lo Zar Saltan e altre fiabe, volume nel quale avviene «l’incontro tra il genio della poesia e il genio popolare della fiaba»104, e poi ancora, secondo le indicazioni dei programmi per le scuole medie che prescrivono letture di narrativa sia a casa che a scuola, Rodari, ai «genitori in cerca di letture per i ragazzi che crescono e non possono fermarsi alle fiabe»105, suggerisce un lungo elenco di opere, pedagogicamente e psicologicamente adatta all’adolescenza: «una riduzione di Guerra e pace, una scelta di novelle di Cˇechov, un ‘condensato’ dei due capolavori di Twain (Tom Sawyer e Huck Finn), i racconti di Pusˇkin» e tra i contemporanei «lo Steinbeck di La luna è tramontata [e] Il mio Carso di Slataper. Libri veri, insomma, per adolescenti pre-adolescenti che vogliano essere trattati da uomini, e non più da bambini»106. Su questa scia, tra i contemporanei italiani, perché non il Marcovaldo di Calvino, o anche una scelta di racconti di Bonaventura Tecchi, di Corrado Alvaro e «– udite! udite! – dei Racconti romani di Alberto Moravia: un coraggio che ci trova, più che consenzienti, entusiasti»107. Adulti e bambini di fronte al libro: non c’è confine alla curiosità di entrambi e quindi anche Pinocchio, alle cui ricorrenti pubblicazioni Rodari dedica spazio con saggi critico-interpretativi assai diversi per angolazione, sensibilità culturale e ideologica108, è 102 G. Rodari, Anche i ragazzi possono leggere Shakespeare, in «Paese SeraLibri», 24 marzo 1967, p. IV. 103 Ibid. 104 G. Rodari, Da Pus ˇ kin a Magellano, in «Paese Sera-Libri», 23 dicembre 1966, p. III. 105 G. Rodari, Moravia e Tolstoj letture per la scuola media, in «Paese SeraLibri», 6 maggio 1966, p. I. 106 Ibid. 107 Ibid. 108 Cfr. G. Rodari, Collodi educatore, in «Paese Sera-Libri», 9 aprile 1965,

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patrimonio della cultura di tutte le generazioni. L’esegesi del testo, infatti, va ben al di là della «rivolta antipedagogica» e Rodari, in un lungo e meditato intervento, a recensire due recenti saggi critici109, rileva che quel libro – quasi ad echeggiare Bruner – è scritto con la mano sinistra, dalla mano di un cinquantacinquenne con alle spalle una lunga attività di pubblicista, commediografo e autore di libri per l’infanzia, «pedagogo, moralista e burocrate dell’Italia granducale e umbertina, ma libertino nella vita privata, scettico e mordace nei giudizi verbali»110, che nel suo capolavoro, attraverso il burattino, se non abbandona il pedagogismo, tuttavia ne rivela l’intima contraddizione: Pinocchio è «ribelle mancato» e, nello stesso tempo, «un bambino mancato». Ma le avventure di Pinocchio s’identificano anche con la lenta trasformazione da burattino in uomo, processo di crescita e di «redenzione», che ha al centro l’uso dell’intelligenza e della conoscenza, leve per accedere, goethianamente, all’unica, positiva e valida ragione di essere: il lavoro. Naturalmente non c’è solo narrativa per bambini e adolescenti, ma anche fumetti, poesie e molti suggerimenti in ambito scientifico ed enciclopedico. Di divulgazione scientifica si occupa frequentemente, dalle trasposizioni di documentari dal rotocalco al libro, a storie con protagonisti animali, al regno vegetale, argomenti tuttavia che per Rodari hanno sempre un rapporto diretto se non simbiotico con l’evoluzione della civiltà umana; egli sottolinea più volte quanto sia importante superare la retorica dell’«amore della natura» per acquisire una capacità di comprensione e di contatto con la natura più dialettico e tale da far considerare, ad esempio, la geografia in termini di «scoperta viva dei rapporti tra natura fisica e società umana»111. p. II; Id., Pinocchio raccontato in versi per i bimbi più piccini, in «Paese Sera-Libri», 8 febbraio 1980, p. 7. 109 Si tratta dei volumi di Emma Nasti, Pinocchio per adulti, Quaderni della Fondazione Collodi, Firenze 1968, e dell’edizione di Pinocchio per la Nuova Universale Einaudi con la prefazione di Giovanni Jervis, pubblicata nel medesimo anno. 110 G. Rodari, Pinocchio per adulti, in «Paese Sera-Libri», 29 settembre 1968, p. I. 111 G. Rodari, Scienza per ragazzi, in «Paese Sera-Libri», 13 maggio 1966, p. IV.

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Leggere, tuttavia, presuppone un percorso di formazione che, prima ancora che la tecnica, riguarda un approccio positivo con il libro, che costituisce il primo passo non solo verso la frequentazione assidua e costante ma, via via, l’acquisizione del metodo per schedare libri. Le considerazioni di Rodari prendono spunto dalla lettura di un volume di Ravaglioli, Schedario bibliografico editoriale di scienze umane112, che costituisce un «viaggio ragionato e analitico tra i circa quattrocento titoli di pedagogia, psicologia e sociologia» pubblicati dall’editore Armando – la recensione ha un titolo quasi ironico: Auto-schede dell’editore! –, uno strumento utile, ma che tuttavia porge l’occasione a Rodari per indicare, sulla scia di Giuseppe Prezzolini, quanto sia importante apprendere l’«arte o piuttosto la tecnica del saper leggere», ma anche della confezione e dell’uso delle schede quale «strumento indispensabile per la conservazione di ciò che si è inteso, memoria organizzata e strutturata, qualcosa insomma come una ‘macchina per ricordare’». 5. La cultura di Rodari sullo sfondo La cultura è sfondo, nella scrittura rodariana, sia nella sua produzione letteraria sia, soprattutto, nel corpus giornalistico tutto; ciò, se costituisce una peculiare e strutturale costante – ancor più giustificabile quando si tratta di interventi su quotidiani –, tuttavia nel suo comparire fuggevole, per flash, è elemento che non solo si colloca prepotentemente al centro delle argomentazioni, ma anche sottende molto: una sedimentazione, maturata nel tempo, di percorsi di lettura e di formazione culturale. Essa c’è; agli studiosi il compito di farla emergere trovando linee di sviluppo tematico e disciplinare. È cultura ad ampio raggio, sintomatica di un’onnivora curiosità intellettuale; Rodari è lettore vorace e attento, ma rende sempre il suo patrimonio culturale uno strumento flessibile e funzionale alla lettura di un oggi in trasformazione e in evoluzione sotto vari fronti: politico, economico, sociale, educativo. È cultura,

112 G. Rodari, Auto-schede dell’editore, in «Paese Sera-Libri», 10 aprile 1970, p. II.

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dunque, non da erudito, da uomo colto, «crisalide» nel suo egoismo culturale, ma che si proietta invece mettendosi al servizio della società, delle sue variegate e complesse problematiche sociopolitiche. Ciò non stupisce per nulla; la giustificazione sta tutta nel profilo dell’intellettuale Rodari: marxista sì, nutrito anche di Lenin, ma, ancor più e profondamente, di Gramsci e di una cultura letteraria e pedagogica che, seppure d’area sovietica, è tuttavia eslege e spesso discordante dall’ortodossia politica di quel paese. Se tutto ciò riguarda il significato e la funzione della cultura, ora andiamo ai contenuti di quella cultura, secondo le traiettorie e gli alvei disciplinari; il compito non è facile – va ammesso – perché il ventaglio è ampio, molto ampio, spesso sfuggente poiché i temi sono solo accennati, ma sufficientemente denotativo di percorsi di ricerca e di studio che si mutuano e si sussumono, nel tempo, in personali e originali sintesi culturali. È, dunque, Gramsci uno dei principali punti di riferimento – non solo ideologico ma anche culturale – per Rodari; lo è anche, tra le righe, in molti interventi nel supplemento «Libri». Ci riferiamo innanzitutto al Rodari studioso della fiaba e recensore di libri appartenenti a questo genere letterario; al di là delle molte segnalazioni, alcune recensioni sono indicative per delineare la sua concezione sia della fiaba sia della sua funzione educativa, nonché il contributo che la fiaba arreca alla storia della memoria popolare. Tre tracciati, in cui Gramsci ha una parte importante, ma fino a un certo punto. Rodari, sulla scia soprattutto del massimo studioso italiano di etnologia e di folklore, Ernesto De Martino, considera sì, gramscianamente, il mondo magico e del folklore «come concezione del mondo e della vita»113, e in ciò sta l’incipit di una riscoperta, più politico-sociale che letteraria, del mondo contadino, in cui si rivela alla radice un altro volto dell’umanità: quello di una classe storicamente da sempre silente e, quindi, senza storia; ma con Levi e Calvino114, se non anche con Pasolini, egli va oltre. 113 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. III, p. 2311. 114 Socrate ha rimproverato a Calvino di non «sfruttarne le sollecitazioni per una visione delle fiabe nell’insieme del folclore come concezione del mondo e della società in contrapposizione con le concezioni ufficiali». M. Socrate, Le «fiabe italiane» di Calvino, in «Società», Anno XII, n. 6, dicembre 1956. Rodari si espresse, invece, in questo modo: «il primo grande corpo nazionale, in lin-

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Di lì la concezione della fiaba, rompendo gli argini del materialismo dialettico – e puntuali se non graffianti giungono le stroncature, o quasi, di Alicata e di Salinari –, evolve verso forme di gusto estetizzante, e persino decadenti. E forse questa può considerarsi una chiave di lettura delle recensioni di Rodari alle fiabe; risicato lo spazio dedicato alle fiabe popolari, spazio maggiore all’autore principe per antonomasia della fiaba d’arte – la Kunstmärchen, come definisce il genere Max Lüthi115 – Hans Christian Andersen116, l’autore che, se sicuramente crea una fiaba elitaria quanto a stile e nel cui sfondo non mancano reminiscenze dei suoi viaggi verso la solarità del Sud europeo e anche, a contrasto, i paesaggi nevosi e vitrei del suo Nord, tuttavia non affonda mai in un passato storico-sociale, come fecero ad esempio, in chiave nazionalistica, i fratelli Grimm o lo stesso Calvino. Gli intellettuali ortodossi avrebbero detto che l’elemento «inquinante», il «virus» – la letteratura – si è inserito nel «sistema», ma come e perché negare questa predilezione a uno scrittore come Rodari, benché marxista? E ancora, non a caso sempre nell’ambito della fiabistica, si sofferma sul «caso» Carroll: caso letterario e caso umano. Meglio glissare – pare osservare – su quest’ultimo; non approva neppure, infatti, il corredo di foto di bimbe sia all’edizione curata da Oreste Del Buono, sia alla successiva einaudiana del 1978, che recengua, della fiaba italiana. Avevamo raccolte regionali, parziali, ma non avevamo mai avuto un grande corpo nazionale curato da uno scrittore come Calvino. In Germania lo hanno avuto agli inizi dell’Ottocento, quando la Germania era occupata da Napoleone e c’era bisogno di un grande sforzo di unità nazionale: e la raccolta dei fratelli Grimm è stato proprio uno dei momenti di questo sforzo di ricerca dell’identità nazionale tedesca. Perché invece la grande raccolta di Calvino è arrivata solo vent’anni fa, dopo la seconda guerra mondiale? Perché anche quello è un momento della fantasia popolare italiana, [...] l’autore di questo libro è il popolo italiano, e questo può avvenire soltanto in un momento di grande unità nazionale, come è stato subito dopo la guerra, quando il popolo è diventato protagonista della sua storia». In AA.VV., Fiabe sul potere, a cura di P. Angelini e C. Codignola, Savelli, Roma 1978, pp. 157-158. 115 Cfr. M. Lüthi, La fiaba popolare europea. Forma e natura, Mursia, Milano 1979, p. 137. 116 Cfr. G. Rodari, Andersen illustrato, in «Paese Sera-Libri», 1° dicembre 1969, p. II; Id., Andersen tra Cristo e Cenerentola, in «Paese Sera-Libri», 18 dicembre 1977, p. 17.

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sisce, mentre sono estremamente interessanti le brevi note di natura letteraria, non solo come giudizio critico sull’autore inglese, ma anche per cogliere gli spunti archetipici della sua scrittura. I modelli ci riconducono a Novalis, passando per Queneau e il surrealismo francese sino ai futuristi e a Palazzeschi e poi a Gadda117, tuttavia il «nonsenso» e l’«assurdo» ci riconducono a Carroll e ai suoi predecessori (Lear, in particolare): in Carroll c’è un modo inimitabile di giocare con i bambini conservando fino in fondo una mente adulta. Egli capisce il loro gusto per il rovesciamento delle norme, per lo scatenamento delle parole e delle immagini in libertà e, invece di contrastare o imbrigliare quel gusto, lo rafforza, mette a sua disposizione gli strumenti culturali di cui dispone, mette anche la logica al servizio dell’assurdo. In questo gioco è implicito il rifiuto degli atteggiamenti dogmatici, solenni, retorici: sono implicite le coordinate di un’educazione alla libertà e alla tolleranza118.

Sottolineature importanti, che costituiscono gli architravi, ma anche le finalità educative della sua scrittura, non solo per l’infanzia ma anche giornalistica. Vi è disseminata una lezione che ha radici lontane: tra le pagine – letterarie sì ma anche pedagogiche – di Leone Tolstoj («A Jasnaja Poljana – scrive – egli tenterà di creare una scuola che sia tutt’uno con la vita, di realizzare quel rispetto assoluto per la personalità del fanciullo, per il suo libero sviluppo, nel quale, più ancora che Rousseau e Pestalozzi, la sua esperienza gli aveva fatto individuare il segreto di un’istruzione non fondata sugli schemi didattici, ma ‘sulle domande suscitate dalla vita’»119), ma anche dei pedagogisti sovietici dell’«Educazione libera», da Blonskij a Lunacˇarskij e Krupskaja120, e, sul côté italiano, dei maestri – nel senso letterale del termine, ma con un’accezione fortemente intrisa di valori etici – Danilo 117 Nel supplemento «Libri» parla compiaciuto dei «giochi della fantasia di Gadda» nella recensione I segreti della Brianza e quelli di... Gadda, 18 dicembre 1970, p. VIII. 118 G. Rodari, I nemici di Alice, in «Paese Sera-Libri», 2 aprile 1978, p. 17. 119 G. Rodari, Tolstoj maestro elementare, in «Paese Sera-Libri», 13 ottobre 1961, p. 5. 120 Cfr. F. Cambi, Collodi, De Amicis, Rodari. Tre immagini d’infanzia, Dedalo, Bari 1985, pp. 132-133.

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Dolci121 e Mario Lodi122. E qui, allora, è giunto il momento di scorrere dalla cultura pedagogica a una cultura più propriamente pedagogico-didattica. Sia Dolci che Lodi riportano Rodari sul terreno scolastico, in quel tormentato periodo pre e post sessantottino; la scuola non solo si rifonda sulla scorta di concezioni pedagogiche e di tensioni proiettate a riconfigurare il senso della formazione scolastica, la sua strutturazione e le sue finalità, ma si plasma a una visione dell’infanzia, in sé «letta» psicologicamente in maniera diversa, e altresì, prospetticamente, prima ed essenziale cellula per costruire una società alternativa democraticamente libera. Non è difficile identificare elementi gorkiani o di Makarenko123 in quell’«uomo nuovo» che, tra utopia e concreta progettualità, sta al centro del processo educativo, dentro e fuori la scuola. La leva educativa, dentro e fuori, s’identifica, come Danilo Dolci – il Socrate in Sicilia – insegna, con il dialogo, che si traduce in «metodo» per una «scuola nuova» in cui hanno voce non solo gli insegnanti, ma anche i ragazzi, e così pure madri e padri. Scuola come sinonimo, dunque, dello stare «insieme», di un crescere in una comunità, deweyanamente, democratica, e in cui si sviluppa, di pari passo, la potenziale creatività di ciascuno. Gli echi teorico-pedagogici sono tanti: sono solo tracce di percorsi di letture e di approfondimenti, che permangono quasi impercettibili, ma tuttavia indelebili nel «discorso» pedagogico di Gianni Rodari; non è casuale in questo senso il comparire, tra le recensioni per «Libri», di interventi sulle «macchine inutili» di Bruno Munari124, 121 Cfr. G. Rodari, Danilo Dolci, Socrate in Sicilia. Che tipo di scuola volete? Rispondono madri e figli, in «Paese Sera-Libri», 6 luglio 1973, p. I e cont. p. IV. 122 Cfr. G. Rodari, Un maestro e i suoi scolari, in «Paese Sera-Libri», 25 ottobre 1963, p. III. 123 Cfr. F. Cambi, Collodi, De Amicis, Rodari cit., p. 130. Si veda anche N. Siciliani de Cumis, I bambini di Makarenko. Il Poema pedagogico come «romanzo d’infanzia», Ets, Pisa 2002, p. 22. L’autore, fra l’altro, sottolinea l’esistenza di una linea di continuità fra Tolstoj e Makarenko: «Pur vivendo, come educatori, situazioni molto distanti tra loro, Tolstoj e Makarenko presentano, nella loro opera di pedagogisti, affinità nelle quali è possibile leggere un profondo, autentico interesse per l’uomo, considerato nelle manifestazioni originali della sua personalità e per le potenzialità del suo sviluppo morale e spirituale». Ivi, p. 190. 124 Cfr. G. Rodari, Munari smonta arance e piselli, in «Paese Sera-Libri», 17 aprile 1964, p. II; Id., Dalle macchine inutili agli oggetti funzionali, in «Paese Sera-Libri», 23 settembre 1966, pp. I-II.

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il geniale e poliedrico disegnatore e illustratore di tanti volumi di Rodari, «l’utopista [che] crede, sinceramente, profondamente, nella possibilità di educare il gusto delle masse: di migliorare il mondo, via»125 e, comunque, interprete, secondo uno stile personalissimo e forse irripetibile, di una cultura che fa perno sulla creatività e sulla divergenza, intese come capacità «democratiche». Se in ciò sta il nucleo pedagogico contenuto nella Grammatica della fantasia, esso è disseminato anche in un questo percorso giornalistico, con le tonalità concettuali, tra gli altri, del Bruner della «mano sinistra», di Read in senso artistico, di Vygotskij quanto all’immaginazione infantile e al linguaggio126, sino al Wittgenstein che identifica la fantasia con la grammatica profonda, e che sulla scorta di quella convinzione veste i panni di maestro in Austria127. Il linguaggio, proprio alla Vygotskij, non solo si sviluppa nella società, ma, attraverso l’interiorizzazione del dialogo, si traduce in pensiero; se il dialogo, come si diceva sopra, è centrale per Rodari, così come nel disegno educativo di don Milani, la parola si carica di una cruciale valenza non solo formativa, ma anche sociopolitica. Ciò si presta a una delle forse molteplici chiavi di lettura di questo vasto corpus di collaborazioni al supplemento «Libri» di 125 E prosegue: «Le molte direzioni in cui lavora, con la serietà che quelle sue dichiarazioni lasciano intendere, si possono in definitiva ridurre a due: lungo la prima, egli tiene occhi ed orecchie aperti (e insegna agli altri a fare altrettanto) ai suggerimenti della fantasia, del gioco, della ricerca apparentemente senza scopo; lungo l’altra, egli dedica la stessa appassionata attenzione ai suggerimenti della realtà quotidiana. Quando gli capita, in cucina, di scoprire che il cucchiaio di legno che si usa per mescolare la pasta mentre cuoce manca della punta, invece di correre a comprarne un altro riflette e capisce che ‘questa è la forma voluta dalla pentola, la quale, nell’attrito tra la sua parte interna piatta e il cucchiaio di legno, lo ha lentamente modellato per mostrarci come dovrebbe essere fatto un cucchiaio di legno per mescolare la pasta’». E ancora oltre: «Applicate alla poesia questo semplice ragionamento, e avrete la differenza tra D’Annunzio, poniamo, e Montale. Il designer Munari, anche quando parla di cucchiai per mescolare la pasta, dice qualcosa di essenziale per l’arte: e non solo per ‘l’arte come mestiere’». Ivi, p. II. 126 Sugli elementi di contiguità si veda C. De Luca, Gianni Rodari cit., pp. 89-90. 127 Cfr. G. Rodari, Un maestro favoloso, in «Paese Sera-Libri», 11 aprile 1975, p. 9 e cont. p. 12.

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«Paese Sera», il quale non è che un corollario, pedagogicamente coerente e coeso, con in primis la Grammatica della fantasia, ma anche con il messaggio educativo sotteso alla produzione letteraria tutta. Si potrebbe forse, a dire il vero, aggiungere una prospettiva educativa più specifica, anzi specialistica: l’educazione alla lettura. Rodari, attraverso queste pagine, insegna o, per meglio dire, conduce verso il libro, consiglia, sollecita l’attenzione e la curiosità, ma propone, anche e soprattutto, ai genitori e agli educatori un percorso di formazione alla lettura. Rodari è stato probabilmente un misconosciuto Pennac degli anni Sessanta e Settanta, avendo intuito come fosse fondamentale e anche atipico – sotto il profilo metodologico-didattico – il processo della lettura, in particolare nella sua fase di decollo, di avvio precoce, considerando prospetticamente quell’incipit determinante in senso sia evolutivo che involutivo. Rodari si pone tante domande: «a che età si deve imparare a leggere? è giusto accostare alla lettura i bambini tra i tre e i cinque anni? La scuola materna deve preparare alla scuola elementare o no?»128. Giustamente, asserisce che la questione è «annosa e aperta», tuttavia dà precisi orientamenti; se la libertà è uno degli elementi fondanti di un’educazione rinnovata, la lettura ne è costituzionalmente innervata: si legge quando se «ne ha voglia», quando la curiosità prende il sopravvento, «senza imposizioni (altrimenti non impara niente, o impara male), senza troppe preoccupazioni sistematiche, nella maniera più naturale possibile. Fissare un’età uguale per tutti per questa conquista sarebbe arbitrario»129. Ma era stato ancor più esplicito, quanto a indicazioni metodologiche, quasi un decennio prima quando, rovesciando l’ottica, indica sul «Giornale dei Genitori» i 9 Modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura130. Il primo modo («Presentare il libro come alternativa alla tv») è frutto di quell’epoca, quando stava decollando un reale confronto competitivo tra tv e libro e ciò si riverberava nel dibattito pedagogico: stigmatizzazioni feroci, 128 G. Rodari, A quale età imparare a leggere?, in «Paese Sera-Libri», 29 giugno 1979, p. 9. 129 Ibid. 130 G. Rodari, 9 Modi per insegnare ai ragazzi ad odiare la lettura, in «Il Giornale dei Genitori», n. 10, ottobre 1964.

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dalla Winn a Postman e ai molti epigoni, mentre Rodari intelligentemente optò, in anticipo sui tempi, per una via di coesistenza complementare di questi due media. Se il libro non costituisce un’alternativa alla tv, tantomeno al fumetto (difeso da Rodari come genere, e – va ricordato – a differenza di tutta l’area marxista, di Togliatti e di Jotti in particolare), tv e fumetti sono tuttavia potenziali fattori di erosione degli spazi e dei tempi di lettura, oggi più di un tempo, ma ciò non va detto ai ragazzi, secondo Rodari, e neppure che, rispetto al passato, le distrazioni sono troppe. Tra la quinta e la nona indicazione troviamo le osservazioni più significative e attuali in materia di approccio alla lettura. Quest’ultima, come in definitiva ogni tipo di apprendimento, prevede un processo eterodiretto, ma tuttavia non di tipo scolasticistico, per cui l’amore della lettura va coltivato precocemente, e se risulta carente non si può attribuirne «la colpa ai bambini». Così, come Pennac, Rodari131 accosta lettura e tortura, un’assonanza che va, sul piano pragmatico, decisamente evitata; leggere è impegno ma anche divertimento, un’alchimia di riflessione e di libertà «anarchica» che non soggiace a nessuna imposizione – ordine, dice Rodari – e così anche Pennac: Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo «amare»... il verbo «sognare»... Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: «Amami!» «Sogna!» «Leggi!» «Leggi! Ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!». «Sali in camera tua e leggi!». Risultato? Niente132.

Rodari e Pennac, scrittori entrambi di letteratura per l’infanzia, ma con una manifesta sensibilità pedagogica, se non didattica, che in Rodari – storicizzando il suo contributo – assume i connotati di una proposta innovativa nell’ambito scolastico e in quello familiare e, nel contempo, anticipatrice delle odierne teorie sulla lettura. 131 A tal proposito si veda E. Catarsi, Leggere le figure. Il libro nell’asilo nido e nella scuola dell’infanzia, Edizioni del Cerro, Tirrenia 1999, p. 28. 132 D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 1992, p. 11.

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Rodari, inoltre, attraverso questa raccolta di recensioni che presentiamo, ci indica come, giornalisticamente, l’attualità editoriale, nella sua varietà, si può proporre non solo ai piccoli lettori, ma ancor più ai genitori e agli insegnanti quale elemento sia di «motivazione alla lettura», sia di affinamento dell’apprendimento strumentale della lettura stessa e, ancora, di accesso all’articolato mondo dei saperi con una sempre crescente curiosità intellettuale e destrezza nelle scelte.

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6. Griglia di lettura del volume L’intero corpus rodariano contenuto nel supplemento «Libri» – articoli, recensioni, dibattiti, interventi di Benelux e schede – è stato ricomposto, collazionando i testi secondo la successione cronologica di pubblicazione, attraverso lo spoglio del quotidiano «Paese Sera» conservato all’Emeroteca della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Per integrare i numeri mancanti o danneggiati dall’alluvione, la ricerca è stata completata a Roma presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, dove la collezione delle annate di «Paese Sera» è completa. Il supplemento settimanale, a cui Rodari iniziò a collaborare il 2 dicembre 1960, veniva pubblicato inizialmente il venerdì, ma nel corso degli anni la giornata cambiò, seguendo la seguente successione: il venerdì dal 2 dicembre 1960; il martedì dal 24 aprile 1962; il venerdì dal 16 novembre 1962; la domenica dal 10 dicembre 1967; ancora il venerdì dal 16 maggio 1969; la domenica dal 17 aprile 1977; infine nuovamente il venerdì dal 1° giugno 1979, con qualche rara eccezione in coincidenza con le feste natalizie, pasquali e ferragostane oppure con la mancanza di finanziamenti per gli approvvigionamenti della carta. La raccolta consta di 324 contributi di Rodari, a volte firmati, a volte siglati con le iniziali del solo cognome o di nome e cognome, in carattere maiuscolo o minuscolo, o con lo pseudonimo. Si è tenuto conto degli articoli che, per contenuto e per stile letterario, sono attribuibili a Gianni Rodari, e ciò soprattutto per quanto concerne gli ultimi anni, quando un altro collaboratore usava le medesime iniziali. Nella prospettiva della sua pubblicazione, la frammentarietà, l’occasionalità ed anche la vasta e onnivora curiosità culturale di LIV

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Rodari, che contraddistinguono il voluminoso materiale, ci hanno posto di fronte a una serie di problematiche metodologiche. Se la successione temporale è un criterio estremamente importante e culturalmente significativo, che permette certamente di mettere a fuoco l’evoluzione, anche sul côté giornalistico, della cultura pedagogico-politico-letteraria di Rodari, tuttavia una simile soluzione è parsa sin dall’inizio estremamente complessa, pletorica se non destinata alla dispersione, per non parlare, forse, dell’improponibilità editoriale. A scapito dell’esaustività documentaria, si è pertanto cercata un’altra via, ossia lavorare per assaggi (con un’eccezione: Le letture di Benelux sono riportate integralmente), operazione difficile e forse opinabile; ma è stato necessario mettersi in gioco optando risolutamente per questa via che sul piano scientifico può essere anche rischiosa. Il rischio è insito sia nella parzialità della scelta dei contributi, sia nella soggettività che tale operazione inevitabilmente comporta, ancor più se si tratta, sul piano delle tematiche e della loro afferenza disciplinare, di privilegiare solo alcuni ambiti, alcuni settori e alcuni generi. Ma ciò in definitiva – lo si voglia o no – avviene in ogni lavoro scientifico: lo studioso, sotto le righe, porta un contributo necessariamente «inquinato» dal proprio percorso culturale; anche in questo caso, Rodari nella veste di giornalista, recensore e lettore viene colto in alcune, non in tutte, le sue matrici. Quali, in primo piano, dunque? Se l’assunto di partenza (discutibile quanto si vuole, ma tuttavia supportato da una vasta letteratura in materia) è quello di una consistenza pedagogica nel suo disegno di palingenesi politico-antropologica, siamo andati a estrapolare quei contributi giornalistici in cui l’accento pedagogico – pur sempre in senso lato, e quindi distillato sul piano letterario, storico, sociologico e politico – è presente. Pedagogia come attenzione all’infanzia, ai suoi problemi e alle sue esigenze, ma in particolare all’infanzia che legge e che, così, si forma in prospettiva verso l’età adulta e verso una partecipazione diretta e attiva alla vita sociale. Di quell’età incerta si è voluta cogliere non solo la complessità ma anche l’ambiguità, avvertibile persino nella denominazione della disciplina che più le è prossima, quella «letteratura per l’infanzia» che, in modo scientificamente provvidenziale, sarebbe meglio definire (opportuna l’indicazione offertaci ieri da Petrini, oggi da Lollo) «letteratura giovanile». Non paia capzioso l’argomento, tutt’altro; liberare il campo LV

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dall’ingombrante «per» l’infanzia significa cancellare linguisticamente una preposizione pedagogicamente pesante, perché carica di presupposti educativi di tipo precettistico, se non ancor peggio moralistico. Mettere al bando precettismi più o meno moralistici, come pure un messaggio educativo forte, precostituito dagli adulti, fu uno degli scopi del Rodari scrittore, tramutatosi da scrittore per l’infanzia a comunicatore «con» l’infanzia; fu autore, infatti, di testi letterari di diverso genere – dai romanzi alle fiabe, dalle filastrocche sino alle poesie e alle storie minime –, con la cura precipua di tenere sempre acceso il dialogo tra mondo infantile e mondo degli adulti. In quest’ottica, il «per» non ha più alcun senso: l’infanzia costituisce il «prima» dell’uomo non solo biologicamente, ma anche come presupposto/fondamento antropologico-culturale. Di lì ha inizio il processo formativo, di cui uno degli aspetti centrali – per le implicazioni direttamente connesse allo sviluppo di una mente divergente e insieme critica, e presupposto ineludibile, poi, di una criticità operativa nel contesto sociale e politico – è l’avvio alla lettura. Rodari, pur senza l’eco ottenuta sul piano internazionale da Daniel Pennac, ne anticipò, trent’anni prima, i cardini essenziali, evidenziando l’atipicità della lettura fra le discipline scolastiche, e orientando docenti e allievi ad un rapporto con il libro più «disinvolto», libero se non anche anarchico, quale fondamentale base di partenza per diventare lettori non solo abituali, ma anche culturalmente scaltriti. Premesso ciò e, dunque, fatta la scelta, le esclusioni sono ovvie ed è altresì ovvio, sul piano metodologico, costruire una griglia in cui si articolano tematiche letterarie e giornalistiche, ma che fanno pur sempre capo alla categoria della formazione, considerata tema conduttore e tessuto connettivo fra contributi così eterogenei e necessariamente sintetici: vi si colgono soltanto intuizioni (in verità spesso geniali), ossia frammenti e abbozzi di una teorizzazione tutta da ricostruire. Leggere, nell’accezione rodariana del termine, ha una rappresentazione iconografica che è quasi un manifesto per cogliere ciò che intendeva Rodari per lettura; ci riferiamo al logo che compare, chiuso in un rettangolo, accanto alle Letture di Benelux: un’amaca e un omino, rilassatamente disteso con un libro in mano. Ma l’originalità se non anche il senso metaforico si ritrovano LVI

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nei sostegni dell’amaca: da un lato un albero, dall’altro, in sospensione, una mongolfiera. L’atto della lettura ha queste due facce contrapposte: è solitudine, sradicamento e straniamento del soggetto, ma è anche penetrare più in profondità nella realtà stessa; e, in questo caso, s’identifica con una capacità di lettura, di decodificazione e d’interpretazione della realtà che cresce e si affina con l’intensificarsi della frequentazione di libri. Benelux, che a quanto pare legge tanto, consiglia libri per ogni circostanza (per un tragitto in treno, per un fine settimana, per trascorrere le vacanze...), indica percorsi e tematiche, deducendo – a libro chiuso – riflessioni, osservazioni, richiami eruditi e commenti ricondotti alla concretezza dell’attualità culturale, politica e sociale. La lettura, dunque, non è che uno strumento, anche attraverso uno spirito arguto e critico, di crescita cognitiva; tuttavia la metodologia che vi è sottesa, e che pare rivolgersi prioritariamente a genitori e docenti, non palesa alcuna traccia di scolasticismo pedantesco. Connotazione, quest’ultima, ben più evidente nella rassegna di libri per ragazzi: l’autore si muove tra ipotetici scaffali di una libreria suggerendo letture con argomenti accattivanti, e le sue segnalazioni sono ancor più nutrite con l’approssimarsi delle vacanze (ci sono pagine speciali con articoli, ma anche brevissime schede, evidentemente per infoltire l’informazione e offrire una vetrina di novità editoriali quanto più ricca e varia). Si spazia dalla narrativa di puro divertimento alla fantascienza, a molti libri di argomento scientifico, agli «scandalosi» fumetti (allora da taluni ritenuti diseducativi), ai viaggi e alle avventure western. Un’attenzione, sia di scrittore che di educatore, Rodari la manifesta nel recensire – anzi ancora prima nella scelta degli autori, tra classici e contemporanei – per l’infanzia. Se la fiaba è il primo prodotto letterario che storicamente ha nutrito l’immaginario dell’uomo, tale permane ancora, non solo per la sua rispondenza alla dimensione dell’immaginario infantile, ma anche per la valenza formativa insita nella simulazione virtuale di un percorso di vita; allo stesso modo la poesia, la filastrocca, attraverso il ritmo e la musicalità della lingua divertono ma anche insegnano, così per Rodari ma anche, per fare un nome tra i suoi eredi, per Piumini. E, per ritornare dalla meta-realtà alla realtà, la narrativa, quella consigliata come pure quella scritta da Rodari stesso, affonda nella concretezza del vivere quotidiano, è scrittura realistica, che foLVII

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tografa un contesto sociale a volte caratterizzato dall’indigenza, dal conflitto – anche di classe sociale –, ma tuttavia su quell’orizzonte la fantasia lavora proiettando un’energia quasi «rivoluzionaria», tesa ottimisticamente a destabilizzare un presente grigio e ingiusto. Il messaggio si carica di uno spessore ideologico forte e impegnativo; l’impegno parte dalla famiglia e dalla scuola, agenzie prioritarie nel processo di formazione, perché preposte a «leggere» la realtà sociale attraverso un filtro pedagogico. Nella scelta dei contributi di Gianni Rodari al supplemento «Libri» di «Paese Sera», seppure nella sua parzialità e incompiutezza, si potranno ritrovare molti elementi per un’analisi criticocomparativa sia sul piano di una teorizzazione pedagogica, seppur sommersa e intermittente, sia su quello di una teorizzazione che riguarda la storia della letteratura per l’infanzia e la letteratura per l’infanzia stessa, ma ancor più, in senso prospettico, questi contributi giornalistici si offrono quale termine di confronto, sia stilistico che contenutistico, con il corpus letterario, in senso stretto, di Gianni Rodari. F.B.

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Ringraziamenti

Ringrazio con viva riconoscenza la direttrice, dottoressa Barbara Cartocci, e il personale della Biblioteca della Camera dei Deputati per la squisita cortesia nell’avermi messo a disposizione tutte le annate sia di «Paese» che di «Paese Sera» nelle diverse edizioni giornaliere in cui compare il supplemento «Libri». Un sentito ringraziamento al dottor Sergio Marchini, direttore dell’Emeroteca della Biblioteca Nazionale Centrale, e al personale della casermetta di Forte Belvedere di Firenze per avermi concesso di visionare tutto il materiale disponibile e per avermi dato l’opportunità di verificare e di apprezzare il paziente, quanto altamente professionale, lavoro di recupero quasi insperato dei giornali, svolto nel dopo alluvione. F.B.

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Testi su testi Recensioni e elzeviri da “Paese Sera-Libri” (1960-1980)

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AVVERTENZA Il supplemento «Libri» ha inizialmente una numerazione romana, poi la numerazione, secondo l’edizione giornaliera, è ora araba, ora romana. Il deterioramento della carta, a volte, non ha permesso una trascrizione fedele della punteggiatura. Ci si è attenuti al criterio di intervenire seguendo il senso logico del testo e lo stile di scrittura di Gianni Rodari. La sigla PSL sta a indicare «Paese Sera-Libri».

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Le letture di Benelux

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ARRIVA LA BOMBA Ho letto, anzi riletto, A prova di errore, di E. Burdick e H. Wheeler, nella nuova edizione tascabile di Longanesi (pp. 278, lire 350, in tutte le edicole). Non è stato tempo sprecato. A parte la paura. Lo dico e lo confesso: un libro così è fatto per spaventare anche chi non crede ai fantasmi e ai vampiri. Più che un romanzo di fantascienza, o piuttosto di fantapolitica, è un saggio, razionale come un orologio, allucinante come un incubo, sulla possibilità che la guerra atomica scoppi per un banalissimo errore, non già nell’ipotesi drammatica che un aviatore impazzito si diriga col suo carico di megatoni su Mosca, o rispettivamente su New York, ma in quella di un piccolo guasto a un microscopico elemento delle macchine straordinariamente complicate a cui gli stati maggiori delegano il compito di sorvegliare il globo, di segnalare e identificare gli oggetti in volo, di scatenare l’allarme, di far scattare la molla della risposta totale alla prima mossa ostile. Si guasta, dunque, una vitarella; brucia un condensatore quasi invisibile. Fa un po’ di fumo, ma il sergente che sorveglia il dispositivo proprio in quel momento si sta accendendo la sigaretta e non se ne accorge. Tanto basta perché una squadriglia di bombardieri atomici, in volo sul Pacifico per un normale allarme, non riceva l’ordine di tornare indietro quando è giunta al punto X. La squadriglia procede: obiettivo Mosca. Il presidente americano, subito avvertito, è di fronte a due ordini di problemi: primo, come impedire che i bombardieri raggiungano la capitale sovietica; secondo, come convincere i russi che non si tratta di un attacco, ma di un errore. A raccontarvi quel che segue, vi farei un dispetto. Posso dirvi soltanto che il lieto fine è escluso. Mosca sarà rag3 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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giunta e distrutta. Per evitare la rappresaglia, che porterebbe alla guerra totale, il Presidente americano – dopo un estenuante colloquio con i dirigenti sovietici sul «filo rosso» che collega la Casa Bianca al Cremlino – non ha che un modo: ordinare lui stesso il bombardamento atomico di New York. Dalla prima pagina all’ultima del libro è tutta una escalation dell’orrore. Perfino troppo. Posso dirlo? La ricerca degli effetti di suspense è legittima in un «giallo», dove è fine a se stessa; in questo caso essa arriva di quando in quando a mettere in ombra la lezione che si vuol presentare. La indebolisce, mentre credeva di rafforzarla. La lezione rimane tuttavia chiara; ed è che non esistono sistemi «a prova di errore» per difendersi dalla possibilità di una guerra atomica non voluta. La sola difesa è il disarmo atomico. Meno chiara è l’altra lezione, e cioè che in un confronto atomico non vi possono essere né vincitori né vinti. Meno chiara, perché gli autori non rinunciano a sostenere, in qualche modo, la «superiorità» americana. I bombardieri americani sono tanto veloci che gli apparecchi sovietici non li possono raggiungere, sono tanto ben protetti che i missili russi gli fanno un baffo balistico, i russi non sono neanche attrezzati abbastanza per seguire i suggerimenti che ricevono dagli americani stessi per abbattere i bombardieri. Sul «filo rosso» corre un dialogo altrettanto impari, tra un «giovin signore» (nel presidente americano si indovina Kennedy) colto, intelligente e sicuro di sé e un rozzo mugico (chiamato col nome e cognome di Krusciov) che non sa che pesci pigliare. Insomma, ci sono tutti i presupposti perché il lettore americano, a libro chiuso, pensi di poter sfuggire alla lezione e invece di chiedere il disarmo chieda la punizione del sergente che non si è accorto del guasto, o l’introduzione del divieto di fumare nei sotterranei del Pentagono. Un lettore sovietico, a sua volta, potrebbe facilmente suggerire uno scioglimento meno umiliante per il suo paese. E saremmo da capo a dodici. E il punto è proprio questo, o si rinuncia a pensare il possibile «nemico» come un mezzo bruto armato di bombe atomiche, o la rinuncia alla forza sarà sempre impossibile. Mi dicono che da questo libro è stato tratto un film, ma io non l’ho visto: lo vedrò nel secolo venturo, quando lo daranno alla TV. PSL 26 gennaio 1969, p. I

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LE STRANE COPPIE Per un viaggio in treno Roma-Bologna e ritorno, per un sabatodomenica in campagna, per una breve cura serale di disintossicazione dalla TV, niente di meglio del romanzo Coppie di John Updike (editore Feltrinelli, pp. 496 – altro che quei romanzetti che non riempiono un pomeriggio –; lire 3.000: ma chi non trova, oggi, un libraio che gli faccia lo sconticino?). Interrogato sul senso della sua opera, dicono che Updike abbia spiegato: «Ho scritto per rispondere a questa domanda: che cosa c’è dopo il cristianesimo?». La risposta potrebbe essere riassunta, pressappoco, come segue: «A pregiata vostra del 7 corrente: vi informo che dopo il cristianesimo vi sarà essenzialmente l’adulterio plurimo, come dopo la Seicento c’è la Seicento Multipla. L’esemplificazione vi viene fornita col racconto delle relazioni interne ed esterne di alcune coppie viventi nella cittadina di Tarbox, presso Boston, Massachusetts, negli anni ’60. Il campionario di letti clandestini, accordi a tre, a sei, generalmente favoriti dall’uso della pillola, tranne in un caso disgraziato, che per altro risulta utile per introdurre nel romanzo i temi dell’aborto e del divorzio». Viene subito in mente la novel:la ottava dell’ottava giornata del Decamerone: «Due usano insieme: l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la moglie che l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace». Si veda anche la trascrizione in versi dell’abate Casti. Il riferimento è facile, ma non pertinente. Basta ricordare con quanta gioiosa franchezza il Boccaccio conduca le sue «coppie» alla serena conclusione: «E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna questione o zuffa mai per quello insieme averne». Invano i personaggi di Updike aspirano, consapevolmente o meno, alla pace di «quello insieme averne». Le loro radici puritane, il loro rigoroso senso della proprietà, i riti mondani cui obbediscono, li costringono a sperimentare i nuovi costumi sessuali con acuta sofferenza, in un perenne stato di crisi. Non credono più né in Dio né nell’America, ma della loro incredulità hanno una paura matta e si stordiscono con l’alcool, la pallacanestro (e meno male che non 5 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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si parla di baseball!), il pettegolezzo politico in abito da sera (e mai la politica, papa Giovanni o Kennedy sono per loro qualcosa di più che pettegolezzo). Gli rimane una cosa seria: il letto. Ma in fondo lo praticano senza accettarlo, senza riuscire a crederci. Insomma, il vuoto. E Updike finisce per essere la dimostrazione convincente che si può costruire sul vuoto, si può fare romanzo con personaggi intercambiabili tanto si somigliano, con situazioni che – a parte i dettagli di contorno – si ripetono fino alla monotonia. Un buon romanzo, che possiede tutti gli ingredienti del successo, compreso un nuovo gioco di società, descritto e manualizzato con ampiezza sufficiente perché possa essere ripreso e giocato la domenica, in casa, mentre si aspetta l’ora della partita televisiva. Ma in conclusione ne debbono ancora fare della strada, le «coppie» di Tarbox, per arrivare al crocicchio dove le aspetta messer Giovanni Boccaccio. PSL 2 febbraio 1969, p. I

I SEGRETI DEL CONFESSIONALE Tanti anni or sono (il fatto è sicuramente in prescrizione), lavoravo in un certo paese, morì il curato; e la Perpetua fu incaricata, o si incaricò (ormai sarebbe impossibile indagare) di svendere la sua biblioteca, e io mi comprai una bella Bibbia del Settecento, nel latino della Volgata, un «tutto Parini» e un «tutto Manzoni» in ottimo stato, l’Ideologia del Rosmini e – udite! udite! – il manuale per i confessori di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che poi regalai a un amico prete. Erano un sacco di volumi, non ricordo più quanti; in latino trasparente, un enorme romanzo teologico-morale nel quale c’era veramente da farsi una cultura su tutti i peccati e i vizi possibili e immaginabili. Strano che nessun romanziere abbia mai pensato davvero di farne la sua miniera di materia prima. Adesso è troppo tardi perché i romanzi non usano più. La Perpetua, i suoi commerci e sant’Alfonso mi tornano in mente leggendo I misteri del confessionale (editore Dellavalle, Torino, pp. 293, lire 3.500) che contiene una Dissertazione sul sesto comandamento del vescovo Bouvier, La chiave d’oro, dell’arcivescovo di Cuba, confessore di Sua Maestà Isabella II, e il Trattato 6 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di castità dell’abate Louvel. Roba dell’Ottocento, ripubblicata in Francia dall’editore di Barbarella che ne ha fatto un «best-seller» dell’erotismo e dell’umorismo involontario: uno scherzo che sarebbe piaciuto ad Apollinaire. Però, rispetto a sant’Alfonso, è roba un po’ di seconda mano. Uno va a bere il caffè a Parigi, quando può berlo a Napoli? Conosco qualche monsignore che riderà della nostra laica ingenuità. Detto questo per amor del vero, e non per scoraggiare i lettori, aggiungerò che anche da questi «manuali segreti» per confessori c’è da imparare in fatto di sesso, più che dalle edicole della Stazione Termini, traboccanti di manuali non segreti. La casistica è più ricca di quella nel «rapporto Kinsey», perché la Chiesa cattolica è più vecchia e la sa più lunga degli americani. Il linguaggio è preciso, la riflessione sottile, le conclusioni terribilmente severe. Se i confessori d’oggi eseguissero alla lettera queste istruzioni, le chiese sarebbero vuote da Capodanno a San Silvestro. Chi si aspetta da me delle citazioni rimarrà deluso e mi darà del cattivo. Il fatto è che sto pensando a quel curato. Morì di pomeriggio. Dal campanile si passava in una soffitta proprio sopra la sua camera da letto, e da quella soffitta, per una fessura, si vedeva ogni cosa, e la soffitta, quel pomeriggio, era piena di ragazzi silenziosi che spiavano, a turno, la morte. Non ricordo che cosa raccontarono, dopo. Fu la Perpetua a scoprirli e a cacciarli, troppo tardi. Era una vecchia che puzzava spaventosamente di tabacco da naso. PSL 9 febbraio 1969, p. I

ARRABBIATO A MORTE «Stamattina sono andato a scuola: vi era la divisione degli alunni. A me sarebbe toccato, tra gli altri, un figlio di industriale. – Ci stai a cambiarlo con tre figli di artigiani?, mi domandò Amiconi. – Cosa? – Tu passi a me il figlio dell’industriale, io ti passo tre figli di artigiani! – Non ci sto, dissi. 7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Quindi mi venne incontro il collega Cipollone: – Il tuo figlio di industriale in cambio di due figli di piccoli padroni e del figlio di... una buona donna. – Il figlio dell’industriale me lo tengo, dissi. – Quanti ne ha di bastardi dell’istituto derelitti? – Due. – Io ne ho trentadue –, gridò la Rapiani. – Si arrangi. – Lei ci ha però quindici figli di artigiani, un figlio di industriale, tre figli di commercianti; non è giusto; facciamo metà e metà». La citazione rende l’idea? Spero di sì, e che si capisca che Il maestro di Vigevano, da cui è tratta (l’ho riletto ieri, nella nuova edizione economica Oscar Mondadori, pp. 212, lire 500) è uno dei libri più «arrabbiati» che siano stati scritti in Italia. Arrabbiato con tutti: i maestri, gli scolari, i direttori didattici, la piccola borghesia, gli «industrialotti» delle scarpe, la vita in provincia, la vita in generale, le tasse, il benessere, il lavoro. Arrabbiato a morte. Arrabbiato anche con la lingua italiana perché sotto sotto, e spesso anche di sopra, è tutto parlato in un dialetto lombardo filtrato dalla rabbia e dalla sofferenza. Sì, rabbia e dolore impastati insieme, con le mani e con i piedi («le dita dei piedi» sono, nel libro, un ritornello ossessivo). Il libro è uscito sei anni fa, prima della «contestazione globale», e apparve un atto, sincero fino alla brutalità, di «contestazione personale». Non è invecchiato per niente, suona anarchico, disperato e appassionato come la prima volta. Mi ha subito fatto venire voglia di rileggere anche gli altri romanzi di Mastronardi: Il calzolaio di Vigevano e I meridionali di Vigevano. Ho anche pensato di rileggerli tutti e tre insieme, però prima scriverò a Mastronardi per sapere se per caso non stia pensando ad allungare la serie, con i «curati di Vigevano», «lo studente di Vigevano», «il deputato di Vigevano» eccetera. Se fossi il ministro della cultura cercherei un centinaio di Mastronardi, li manderei a vivere a mie spese per cinque anni in altrettante cittadine italiane, con l’obbligo di imparare il dialetto, arrabbiarsi, dimenticare la grammatica, Alessandro Manzoni, Flaminio Piccoli, le polemiche sulla morte del romanzo, sulla morte dell’arte eccetera. Non essendo ministro posso solo pregare gli dei che facciano nascere ed arrabbiare qualche Mastronardi ad Avellino, Car8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pi, Gallarate, Pordenone eccetera eccetera (il lettore può aggiungere altri nomi a piacere, saranno compresi nelle mie preghiere). PSL 16 febbraio 1969, p. I

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ODISSEA NELLO SPAZIO Chi ha visto il film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio e ne è uscito con la testa piena, oltre che di smaglianti colori e di valzer viennesi, anche di punti interrogativi in sospensione, sarà certo contento di sapere che le risposte giuste si trovano nel romanzo che porta lo stesso titolo (autore Arthur C. Clarke, editore Longanesi, pp. 340, lire 1.500) e che per l’appunto è stato ricavato per distillazione dalla sceneggiatura del film. Kubrick è Kubrick e Clarke è il suo profeta. Difatti nel libro tutto diventa chiaro, semplice e ragionevole, almeno quel tanto che possono essere definite ragionevoli le libere ipotesi della fantasia e della fantasticheria. Si potrebbe raccontare la trama a un ragazzino di intelligenza media e a un postino della Val Tonta. Il famoso Oggetto Misterioso, che nel film poteva essere o simboleggiare Dio, il Numero, la Coscienza, il Primo Mattone dell’Universo, l’Inconoscibile o la zia Giuditta travestita da parallelepipedo si rivela, laicamente, per un bellissimo trucco di segnaletica cosmica; ma è anche una porta per entrare in un’altra dimensione. Tutto va a posto: anche la stanza Luigi Sedici in cui il cosmonauta si ritrova, al termine del suo viaggio, per diventare il Bambino delle Stelle. Ci si resta perfino male, come quando il prestigiatore svela il giochetto e uno pensa che, con un po’ più di attenzione, ci sarebbe dovuto arrivare da solo. Il fatto è che con le parole non si scherza facilmente come con le immagini. Certe libertà con i significati plurimi, i simboli a doppia faccia, le atmosfere coinvolgenti, le sequenze travolgenti, le ironie ambigue eccetera se le possono prendere solo quei Grandi Imbroglioni che sono i grandi registi. Confrontato con il film, il romanzo si presenta dunque come il tentativo di descrizione di un quadro astratto o dada. Ricorda certi programmi dei concerti, in cui Bach e Beethoven sono spie9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gati, invece che con le note, con i verbi, gli aggettivi e i ruscelletti mormoranti tra l’erba. Secondo noi sarebbe meglio leggerlo prima di andare al cinema, come è meglio leggere la guida prima di andare in Egitto: per avere un’idea, un filo qualunque da tenere in mano mentre si viaggia nel labirinto di Kubrick, per conservare l’illusione di ritrovare la porta d’uscita. Naturalmente si può leggerlo anche se non si è visto il film e si è fatto voto di non vederlo, né oggi né mai. Allora però bisogna avere un tantino di propensione per la fantascienza, altrimenti si rischia addirittura di trovarlo ingenuo, nella sua pretesa di abbracciare la storia e la preistoria della vita sulla terra (svariati milioni di anni fa), la Galassia nostra, le Galassie altrui e altri siti ancora: il tutto preso terribilmente sul serio. E basta così. Non siamo qui per svelare segreti e far dispetto agli editori. Ci contenteremo di segnalare il finale a doppia sorpresa: doppia, perché oltre alla sorpresa con cui finisce il film, ce n’è un’altra. Un cilindro da cui, quando già si crede finito lo spettacolo e ci si alza per uscire, salta fuori ancora un coniglio, incute, se non altro rispetto. L’autore è un astronomo. Dobbiamo aver letto, in passato, altri suoi romanzi fantascientifici, ma non ci vengono in mente i titoli e ci dispiace per lui, perché ci sarebbe costato poco fargli un po’ di propaganda. PSL 23 febbraio 1969, p. I

I PENSIERI DI MARCO Gli esercizi possibili, e utili con I ricordi di Marco Aurelio (ne dà una bella edizione Einaudi nei «Millenni», pp. 200, lire 3.000) sarebbero tre: primo confrontarli con la biografia dell’imperatore, per verificare se razzolava bene quanto predicava; secondo, metterli faccia a faccia con le cose e gli uomini d’oggi, per vedere se funzionano («i pensieri di Marco», come «i pensieri di Mao»); terzo, tenerli a capo del letto, come un «breviario laico» onde sperimentare se le consolazioni della filosofia consolano ancora o fanno venir sonno. Per chi voglia dedicarsi al primo 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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esercizio ricorderemo che i Parti, la peste, i Marcomanni, i Quadi, la rivolta di Avidio Cassio tennero in costante agitazione il suo regno e che Marco, pur dedicandosi all’esame di coscienza quotidiano raccomandato da Seneca, impose ai romani imposte straordinarie di ogni genere, prestiti forzosi, eccetera: uno di quelli che aumentano il prezzo della benzina ad ogni luna nuova; ma una buona riforma che porti il suo nome non se la ricorda nessuno. Per chi voglia dedicarsi al secondo esercizio citeremo alcune delle sue massime: «Non sperare nello Stato di Platone, ma accontentati se la cosa più piccola va avanti» (è il criterio in base al quale vanno avanti i Piccoli, ma lo Stato no); «Certi omuncoli che si occupano degli affari di stato credono di operare secondo i precetti della filosofia, quanto sono meschini: bambini mocciosi!» (questa è meglio; esercizio supplementare: compilare un elenco dei «bambini mocciosi» d’oggi); «In Senato, e con tutti, parla con garbo e chiarezza: usa un linguaggio sano» (compito per casa: rileggere i resoconti del Senato per cercare tracce di «linguaggio sano»). Il terzo esercizio, quello privato, potrebbe rivelarsi il più produttivo. A patto di sgombrare il terreno dal problema della morte, che torna quasi ad ogni pagina: questo filosofo stoico doveva avere, in realtà, della morte, una paura sfottuta, se spende tanto tempo a convincersi che morire non fa male. Ma ogni tanto l’aforisma scoppia netto e luminoso come una folgore: «Ognuno vale quanto ciò che ricerca»... «Rivivere è in tuo potere: guarda di nuovo le cose come prima le vedevi, questo è rivivere»... «Se non sei diritto, drizzati!»... «Se non è bene non farlo; se non è vero non dirlo»... Le note richiamano, qua e là, echi inattesi, consonanze con l’Ecclesiaste, con San Paolo, col Vangelo di San Matteo. Si poteva citare anche il Marx delle glosse a Feuerbach, per questo appello a trasportare la filosofia dal terreno delle spiegazioni a quello delle trasformazioni: «Non più discutere su come deve essere l’uomo dabbene ma esserlo veramente». Ci sembra giusto anche prendere nota di qualche profezia. Ecco il fascismo: «Carattere nero: effeminato, caparbio, feroce, ovino, puerile, pigro, menzognero, pagliaccesco, bettoliere, tirannico». Ed ecco le correnti socialiste: «Sullo stesso tronco ma non 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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con gli stessi principi». Il Movimento Studentesco: «Butta via i libri e non occupartene più! Non vi è più tempo a questo». PSL 2 marzo 1969, p. I

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IL SANTO GINOCCHIO «Fra Nicolò da Nargni, innamorato de Agata, ottene il suo desiderio: vene il marito e la muglie dice il frate averla con certe reliquie liberata; trova le brache del frate a capo del letto, il marito si turba; la moglie dice di esser state de San Grifone, il marito sel crede e lo frate con solenne processione ne le conduce a casa». «La Massimilla, vagheggiata da un prete e da un sarto, promette lo suo amore a tutti due; gode in casa col sarto; il prete va per la promissa, vole entrare per forza; il sarto per paura si ricovera nel solaro, il prete intra e dice voler ponere il Papa a Roma; il sarto vede la festa e pensa non dover andare senza suoni; suona la piva, il prete fugge; il sarto repiglia possessione de la persa preda». Bei titoli. Non generici, avaramente chiusi in un paio di parole, come piacquero più tardi (I promessi sposi, Guerra e pace, Gli indifferenti), ma generosamente informativi: a capo della novella ci mettono il riassunto, perché uno si possa regolare a gusto suo, se leggere o saltare la pagina: c’è il «chi, che cosa, dove, quando, come, perché», secondo le regole del miglior giornalismo. Dai titoli, per semplici deduzioni, il lettore dovrebbe aver capito che il Boccaccio c’entra solo al cinquanta per cento, perché certi «meridionalismi» lui, toscano, non avrebbe nemmeno potuto inventarli. Stiamo parlando, infatti, del Novellino di Masuccio Salernitano (a cura di Roberto Di Marco, editore Sampietro, pp. 370, lire, ahimè, 2.800). Avete dedotto altro? Sì, che il quattrocentista Masuccio ce l’aveva con i preti corrotti, i frati libertini e le donne, le quali, secondo lui, si dividevano in due sole categorie: le false e le bugiarde. Un occhio di riguardo lo conservava solo per la nobiltà. Era un po’ snob, via. Critici e storici della letteratura hanno discusso per un pezzo se il Masuccio in oggetto andasse considerato, o no, un epigono del Boccaccio e per il momento sembrano aver concluso per il no, inclinando a vedere in lui piuttosto un satirico, un polemista, un 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«pubblicista di vena», un moralista dall’invettiva facile. A ciò li incoraggia, crediamo, anche l’apparato di esordi dedicatori e di commenti finali con cui lo scrittore introduce e conclude le sue novelle, avendo però il buon gusto di distinguerli nettamente dal testo della narrazione, a beneficio del lettore che voglia risparmiarsi i predicozzi e attenersi ai casi della vita. E l’importante è appunto, secondo noi, il prodotto, non il contenitore. Le novelle si leggono con divertimento proprio perché la loro materia prima sono i «casi della vita» della società italo-meridionale di mezzo millennio fa: di un’epoca, cioè, in cui non esistevano giornali per tramandare agli archivi e quindi ai posteri la cronaca nera e la cronaca rosa, né rotocalchi per eternare gli amori famosi della «jet society», che del resto allora non viaggiava in «jet», ma a cavallo, e la barca la usava poco perché c’era il rischio di cadere in mano ai corsari del Profeta. Come cronista, il Salernitano risulta poco oggettivo e piuttosto borbottone, ma nell’insieme piacevole. Una volta o l’altra ci vogliamo provare a scrivere le notizie alla sua maniera. Abbiamo già immaginato un titolo: «La diva Gina, viaggiando in auto con alcuni amici, ha un incidente; raccolta e trasportata in processione all’ospedale vi è affettuosamente curata da medici, giornalisti, radiocronisti, cineoperatori eccetera; indi per molti giorni la televisione espone all’ammirazione di milioni di spettatori il Santo Ginocchio». PSL 9 marzo 1969, p. I

LA TRIBU` DI WOLFE – Lei legge libri gialli? – Sì, signore, ne leggo due o tre al mese. – E non si vergogna? – Neanche un po’, neanche meno un po’. – Ma non è serio! – No, non è serio per niente. Ma nella vita non si fanno solo cose serie. Conosco un filosofo che gioca a briscola. Conosco un matematico che va a vedere tutti i film western. Conosco un monsignore che legge libri di teologia in sette lingue e la sera gioca con un trenino elettrico. Insomma, abbasso le persone tutte d’un pez13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zo, abbasso il dantista che legge solo Dante, e mai una volta l’Ariosto. Viva l’incoerenza. È soddisfatto? – Mi allontano da lei scuotendo la polvere dai miei calzari... Benissimo, ora che s’è allontanato, posso continuare. Da lettore di libri gialli, da discreto conoscitore dei romanzi di Rex Stout, potrei fare all’incarnazione televisiva di Nero Wolfe e del suo staff di segugi, cuochi e giardinieri, tante di quelle critiche da far venire, Dio guardi, l’itterizia agli autori; ma sarebbero tutte, me ne rendo ben conto, critiche private, fondate sulla personale immagine che mi sono fatto dell’investigatore da mezza tonnellata, e quindi sul livello, sul colore particolare della mia comprensione degli avvenimenti, sulla mia interpretazione delle atmosfere, eccetera. Non sarebbe giusto e non ne varrebbe la pena. Il giallo è, prima di tutto, un giuoco. Come lo giocano Buazzelli, Ferrari e soci, dalla regia in giù? Lo giocano, secondo me, splendidamente. Delle storie di Stout hanno colto l’essenziale, che non è tanto l’intrico poliziesco, sempre decoroso nel testo e sempre scorrevole, ben congegnato sul teleschermo; l’essenziale è la tecnica da «concerto grosso» con cui, di volta in volta, l’autore mette a confronto lo staff di cui si diceva (e al quale bisogna aggiungere l’ispettore Kramer e il suo sergente di ferro) con un nuovo «insieme» di personaggi. Mi spiego meglio. Wolfe, Goodwin, Fritz, eccetera, sono i solisti. La loro piacevolissima commedia interna continua, da un romanzo all’altro, con molto umorismo, con poche ma efficaci variazioni. L’ambiente esterno, in cui si svolge l’investigazione, fornisce, di volta in volta, la massa dell’orchestra, con alcuni elementi fissi (la bella ragazza per Goodwin prima d’ogni altro). Il gioco che nasce non è solo quello dell’indagine, ma un altro, più complesso e divertente. Maigret ha il contrappunto, discretissimo, della moglie, Sherlock Holmes ha una sua spalla comica in Watson. Wolfe si muove (o se ne sta in poltrona) circondato da tutta una tribù di personaggi e macchiette, fonte inesauribile di episodi di contorno ma non tanto, perché servono a diffondere sull’intreccio propriamente detto una luce di benedetta ironia. Questa luce si vede benissimo anche in televisione. Altri pregi? Certo. Telegraficamente: il ritmo, che schiva scrupolosamente le lungaggini all’italiana; la scelta, ottima, dei personaggi; la recitazione senza gigionerie. Insomma, io mi ci diverto. 14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Invece a vedere Sherlock Holmes mi annoiavo. E a vedere Maigret, pure. Passava del gran tempo in cui non succedeva niente, ma proprio nulla, zero al quoto. Resta inteso, però, che dicendo queste cose non ho l’intenzione di fare le scarpe al critico televisivo. Si sa che Benelux fa repubblica per conto suo. PSL 16 marzo 1969, p. I

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UNA STORIA TERRIBILE «Avanti, dunque, soldati di Cristo! Sterminate l’empietà valendovi di tutti i mezzi che Iddio vi suggerirà. Levatevi a combattere con vigore i fautori dell’eresia, e la vostra guerra sia più spietata di quella contro i Saraceni! I catari, infatti, sono una genia ancora peggiore. Quanto al conte Raimondo... perseguitatelo, cacciate lui e i suoi fautori dai loro castelli; privateli di tutti i beni, in modo che i domini tenuti oggi dagli eretici passino tutti saldamente nelle mani di cattolici ortodossi!» Così Papa Innocenzo Terzo scriveva, il 10 marzo 1208, ai «crociati» del re di Francia che, guidati da Simone di Montfort, intraprendevano la liquidazione degli Albigesi. La «crociata» fu, in effetti, spietata quanto doveva. I cadaveri si contarono a decine di migliaia. Donne e bambini furono bruciati vivi. Terre e castelli cambiarono padrone. Una storia terribile; che non merita davvero di essere ridotta, come capita spesso, a una semplice citazione. Voglio dire che ci sarebbe da fare un bel test. Pronunciare, in una qualunque compagnia di media cultura, la parola «Catari» e procedere alla classificazione dei presenti in due categorie: da una parte quelli che dicono subito «ah, sì, gli Albigesi, Arnaldo da Brescia, Giordano Bruno, L’Inno a Satana, ecc.», dall’altra quelli che si dichiarano alla massoneria ed al «libero pensiero». Certe polemiche del passato, tra clericali ed anticlericali, ci hanno lasciato in eredità una bella confusione. La tragedia dei Catari, di Ernest Fornairon (editore Sugar, pp. 287, lire 2.000) non è un libro classificabile tra i due partiti di cui sopra; ciò equivale a dire che non fa confusioni, ma storia, onesta e documentata storia, senza nulla nascondere e senza nulla ag15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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giungere. Si perde un po’ nelle origini dell’eresia catara e nella sua oscura teologia, quando la sostanza sta piuttosto nel movimento per un ritorno alla purezza evangelica che anticipava i grandi temi ideali della Riforma. Trascura singolarmente un sottofondo che non è sfuggito ad altri storici (italiani): le ragioni, piuttosto che della teologia, della miseria; in un’epoca in cui, in Lombardia come in Provenza, tisserand e tessitore diventarono addirittura sinonimi di eretico. Ma compie un lavoro di prim’ordine nel dimostrare come la «crociata» per la unità ortodossa fu una splendida occasione per i baroni del Nord della Francia e per il re di Parigi, poco popolare nel Sud, per liquidare la indipendenza provenzale, espellere dalla storia la civiltà occitanica, perfezionare la unificazione della Francia sotto la monarchia feudale. Dalla distanza di sicurezza di sette secoli e passa, l’autore riesce a mostrarci in conclusione vincitori e vinti, carnefici e vittime, coinvolti insieme da una logica brutale, incarnata nelle cose, che si serve di loro come di pietose o, secondo i casi, terrificanti marionette. Tragedia dei Catari, ma anche della Chiesa, che non sapeva di seminare martiri per i suoi nemici vicini e lontani, per la grande rivolta del pensiero moderno. Insomma, un bel libro, molto francese, cioè «chiaro e distinto» e, ogni tanto, mettiamo per i gusti di un critico tedesco, un po’ superficiale; quanto occorre per farsi leggere con profitto anche da chi, come noi, non è «addetto ai lavori». PSL 22 marzo 1969, p. I

FU VERA GLORIA? Se la Santa Pasqua, sciopero dei benzinai aiutando, vi procurerà un paio di giornate pedonali e casalinghe da poter riempire in santa pace con un libro adeguatamente durevole (non di quelli che basta un’ora per arrivare alla parola «fine»), impegnativo ma non fino al mal di testa, che rappresenti al tempo stesso un dignitoso e decorativo oggetto da biblioteca, posso consigliarvi Il memoriale di Sant’Elena, di Emmanuel A. Las Cases, nella bella edizione di Gherardo Casini (due volumi di pp. 1024 più 882, con due 16 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quinterni di stampe dell’epoca, lire 9.000, trattabili se siete in buoni rapporti col libraio). Contiene anche Gli ultimi giorni di Napoleone, di Francesco Antonmarchi, il medico che constatò il «mortal sospiro» dell’empereur ed eseguì l’autopsia della «salma immemore orba di tanto spiro». Il Las Cases è un chiacchierone di prima forza. Il figlio della sora Letizia non era da meno. Il risultato di diciotto mesi di convivenza sullo sperduto isolotto battente bandiera inglese è un’affascinante sbrodolatura, un chiacchiericcio che ipnotizza, un pettegolezzo storico-biografico-autobiografico in cui centinaia di aneddoti si mescolano a descrizioni di battaglie, e la tragedia alla patetica commedia degli scontri quotidiani tra Sua Maestà, che non scendeva mai da cavallo, e l’autorità britannica che sovraintende freddamente alla sua prigionia. Aggiungete che se Napoleone parla sempre di se stesso – perfino quando legge la Bibbia si interrompe per far notare che nel tal posto citato nel libro di Giuditta ha fatto e detto questo e quest’altro – il Las Cases ha la tendenza a portare il discorso sulla propria persona di perfetto cortigiano e consolatore di stile, nonché autore di un atlante storico che, nel suo memoriale, acquista il rilievo di una Bibbia. E anche questa è una commedia nel dramma. Ma non mancano le pagine in cui l’immaginazione di Napoleone si rivela più forte anche della gabbia di parole che la soffoca. Un giorno egli cerca un punto del pianeta da cui rivolgere un supremo appello ai Francesi, alle potenze, insomma, all’Urbe e all’orbe, e non lo trova, e prorompe: «Ah, se potessi abitare in una sfera fuori di questo globo...». Viene da pensare che, ai giorni nostri, la sola sede adatta per il suo esilio sarebbe un satellite artificiale, dal quale avrebbe continuato comunque ad avere il mondo ai suoi piedi. «Fu vera gloria?». Sia Las Cases che Napoleone lavorano tenacemente per dimostrarlo. Las Cases si stancò per primo dell’esercizio; difatti non è chiaro se l’incidente per cui venne allontanato da Sant’Elena non sia stato, almeno in parte, voluto da lui stesso. Napoleone non se ne stancò mai. Lo provano le conversazioni con Antonmarchi, quando già la morte era entrata nella sua stanza, si era seduta accanto al suo letto, entrava gelida nel suo corpo, cominciando dai piedi. PSL 30 marzo 1969, p. I

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PENSIERI DI STARACE I pensieri del federale (editore Bompiani, pp. 100, lire 1.000, copertina in camicia nera con grazioso teschio dal pugnale fra i denti) dovrebbero essere una lettura divertente. I testi, scelti nella raccolta dei «Fogli di disposizioni» che il segretario del partito nazionale fascista inviò ai gerarchi tra il 1931 e il 1939 (cioè nel periodo in cui Starace ricoprì quella carica) appartengono indubbiamente alla categoria del «comico involontario», figurerebbero benissimo in un’antologia mondiale del kitsch, se ne potrebbero ricavare dei poster da far sganasciare le pareti delle stanze giovanili e studentesche: proprio perché – com’è detto nella prefazione – «sono stati scritti sul serio», e tutte quelle pedanti, minute, ossessive ricette sul modo di salutare, di vestire, di scrivere le lettere, le cronache dei giornali, di salire su un palco, di circolare (preferibilmente in motocicletta), perfino di usare o tralasciare le maiuscole, sono state dettate e lette come brani di un «Talmud» fascista in fieri. Eppure non si ride. Chi ha una certa età non ride. Si arrabbia o si vergogna, ma non ride. C’è troppa tragedia, dietro quelle righe un po’ folli: è difficile ridere dei malati, dei matti, dei morti. Si legge, per esempio: «Il saluto romano non impone l’obbligo di togliersi il cappello. Tale obbligo è da osservare, quando il saluto sia reso in luogo chiuso». Se ne deduce che «in luogo chiuso» non ci si deve levare il cappello per buona creanza, ma per poter rendere ritualmente «il saluto romano». La logica è chiaramente manicomiale. Ma quel «saluto romano» c’è costato troppo. Passa la voglia, ecco: viene la malinconia. Poi si arriva all’ultima parte, alle raccomandazioni contro le raccomandazioni, contro la mania dei titoli e del gusto delle patacche, contro le adulazioni e la malinconia cambia specie: tocchiamo certi vizi nazionali, nati molto prima del fascismo; che contribuirono al successo del fascismo; che il fascismo poteva fingere di combattere, mentre in realtà se ne serviva; che sono sopravvissuti al fascismo intatti, come certi riti primitivi sopravvivono nei riti della società tecnologica, mimetizzando appena le loro strutture... Scopriamo, via, che il curatore della raccolta ci ha giocato un tiro e forse ha voluto dirci: non ridete tanto del fascismo, perché le cose di cui ridete sono 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ancora in voi, o nel mondo attorno a voi, pensateci sopra un momento, guardatevi in giro, immarcescibile è la Raccomandazione, immortale la Patacca, le loro Eccellenze amano ancora essere trattate da Eccellenze Loro, le lapidi continuano a recitare fregnacce, ai ragazzini si mettono ancora in bocca discorsi ai gerarchi, eccetera. Senza contare che ci sono ancora i fascisti propriamente detti, che invece di dire Roma dicono l’Urbe, si radunano con gagliardetti e bastoni e non basta riderne per farli sparire.

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PSL 6 aprile 1969, p. I

LA LOGICA NERA Jonathan Swift, anzi il reverendo Swift (ordinato sacerdote nel 1694, nominato parroco nel 1695, decano di San Patrizio a Dublino nel 1713; altre date, per i cacciatori di numeri, in qualsiasi dizionario biografico), aveva ottenuto la laurea del Trinity College a fatica, secondo si assicura, perché si era rifiutato di studiare la logica, guarda un po’ dove il contestatore Cohn Bendit è andato a cercarsi dei persecutori. Per la pena del contrappasso (caro proto, se mi fai dire «del contrabbasso» ci sarà un «giallo» tipografico-musicale) passò poi quasi tutta la vita ad esercitare la sua immaginazione senza inibizioni, i suoi malumori senza requie, i risentimenti dettati al suo cervello, probabilmente, anche da una «labirintite» quasi cronica, in costruzioni di una logica mostruosa. I viaggi di Gulliver, adattandosi ai bambini che se ne sono impadroniti, riescono oggi persino a sembrare divertenti, invece che tragici. I libelli su diversi argomenti (vedete un po’ le Satire scelte, a cura di Carlo Izzo, dell’editore Sampietro, 118 pagine di vetriolo e pepe di caienna, lire 1.000, cioè meno di dieci lire a pagina; però le pagine sono piccolette) conservano intatta, invece, la loro lucida, razionale cattiveria. Il primo saggio si intitola Una modesta proposta per evitare che in Irlanda i figli dei poveri siano di peso ai genitori e al paese, e per renderli utili alla società e parte dall’assicurazione che «un bimbo di un anno, sano e ben nutrito, è un cibo delizioso, nutriente e salubre, sia stufato che arrosto, al forno o bollito». Dei centoventimila figli di miserabili esistenti, se ne riservino dunque ventimila alla riproduzione («di cui solo una 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quarta parte maschi, il che è più di quanto si usa fare per gli ovini, i bovini o i suini»), gli altri centomila siano «offerti in vendita in tutto il Regno a persone appartenenti al censo e alla nobiltà». Certo, «sarà un cibo piuttosto caro, ma perciò adattissimo ai proprietari terrieri che, dopo divorato la maggior parte dei genitori, hanno i maggiori diritti sui figli». E così via, senza sbagliare un accento, come se parlasse di prosciutti e mortadelle. Segue un Discorso sul funzionamento meccanico dello spirito, una Meditazione sopra un manico di scopa, Un argomento per provare che in Inghilterra l’abolizione del cristianesimo potrebbe, così come stanno le cose, dar luogo a qualche inconveniente, e forse non produrre tutti i buoni effetti sperati, le Istruzioni per la servitù («leticate tra di voi quanto vi pare, basta che non dimentichiate di avere un Nemico comune, il Padrone») eccetera. Questa «contestazione globale» e atrabiliare dell’Inghilterra, dell’Irlanda, dell’universo e dell’umanità tutta quanta, si smorza improvvisamente in pura, quasi guicciardiana (sarà un’eresia?) tristezza, nei Propositi per quando sarò vecchio. Vi si legge: «Non sposare una donna giovane. Non stare in compagnia di giovani, a meno che non siano essi a desiderarlo. Non raccontare un monte di volte la stessa storia alle stesse persone. Non disprezzare il modo di fare e di pensare, le mode, gli uomini e le guerre del giorno di oggi. Non essere troppo prodigo di consigli e seccare soltanto chi proprio ci tiene ad averne...». Un vero e proprio «manualetto del matusa», da copiare e tenersi in tasca per quando sarà ora di consultarlo (ma allora quasi certamente avremo dimenticato di averlo). Frase giovanile di Jonathan citata in copertina: «Ho visto scorticare una donna e stenterete a credere quanto l’operazione ne peggiorasse l’aspetto». Non è «umorismo nero», è «logica nera». PSL 13 aprile 1969, p. I

DIRITTO ALLA PIGRIZIA «Le classi operaie delle nazioni in cui domina la civiltà capitalistica sono possedute da una strana pazzia. Questa pazzia porta con sé delle miserie individuali e sociali che torturano la triste umanità da due secoli a questa parte. Questa pazzia è l’amore per il lavo20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ro, la passione furibonda per il lavoro...». Non è Antonio Baldini che ve lo dice, per bocca del suo Michelaccio; non è Rabelais, in nome della Santa Bottiglia; non è nemmeno Benelux, pur convinto da un pezzo che il lavoro «nobilita», ma stanca. L’autore di quella recisa condanna è, nientemeno, il genero di Carlo Marx, il Paul Lafargue di cui la Forum Editoriale di Milano ristampa, provocatoriamente, in pieno culto della «produttività», l’opuscolo Il diritto alla pigrizia (pp. 200, quasi tutte belle e feroci, lire 1.000). Vi si dànno la mano la satira e l’utopia, per dimostrare che il lavoro salariato è immorale (diceva già Cicerone: «Chiunque offre il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso e si mette al livello degli schiavi»); e non solo immorale, ma dannoso al progresso, perché fin che si troverà gente disposta (diciamo costretta, via) a lavorare, l’invenzione di nuove macchine procederà a passo di lumaca. Diceva Aristotele: «Se ogni utensile potesse eseguire senza comando, da solo, le sue operazioni; se per esempio le spole dei tessitori tessessero da sole, il capofficina non avrebbe più bisogno di aiuti, né di padrone di schiavi». Pregasi sostituire alla parola «schiavi» la parola «salariati» ed eccovi la moderna teoria della «macchina liberatrice», del «Dio che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro, il Dio che gli farà dono dell’ozio e della libertà». E giù con l’inno alla pigrizia, «madre delle arti e delle nobili virtù». Non vale incolpare Paul Lafargue di eccessiva fiducia nell’automazione; non vale, per contraddirlo, sbattergli sulla faccia (anzi, sulla tomba) lo «stackanovismo» e il culto del lavoro in atto, ancora oggi, nei paesi socialisti. Per apprezzare il paradosso, basta rileggere la Bibbia, anche solo le prime pagine, in cui l’introduzione del lavoro ha il significato di una punizione. Diciamo piuttosto che Lafargue ha preso male le distanze col tempo: era convinto che il «secol d’oro» fosse lì, a portata di mano, girato l’angolo del calendario. Ma gli dànno ragione, oggi, anche i filosofi dei «futuribili», che per l’appunto cominciano a intravedere un mondo in cui faranno tutto le macchine, e le giornate saranno fatte solo di «tempo libero». Di tutta la retorica sul lavoro che cosa ce ne faremo allora? Rivediamoci dunque tra un cento o duecento anni, se ci state, e ne riparleremo. Del resto, chi vuole smascherare il presente e distruggere i suoi miti, bisogna sempre che si collochi molto al di sopra di esso, in 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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un futuro che lì per lì pare utopia. Ma quel che egli ottiene è un risultato critico di prim’ordine. Prendiamo la tragedia di Battipaglia. È triste che della gente debba ancora morire ammazzata, in un paese industrializzato, per il «diritto al lavoro». È due volte, cento volte più triste se si tiene presente che il lavoro è soltanto una dura necessità, non una legge eterna: che l’uomo non è nato per lavorare, ma per vivere, mentre le forze della natura e le macchine lavorano per lui. In ordine al futuro, la battaglia per il «diritto al lavoro» non può che apparire che una battaglia di retroguardia. Se ci siamo costretti, è proprio perché per certe cose, come dice la gente semplice, senza citare né Aristotele né Cicerone, «siamo indietro di cento anni». PSL 20 aprile 1969, p. I

LE UOVA DEL RE Se il presidente Saragat, nel corso della sua visita in Gran Bretagna, incontra per caso l’ex premier Harold Macmillan, può dirgli che il suo libro di memorie (tradotto da Mondadori col titolo Vent’anni di pace e di guerra, pp. 720, lire 3.500) è abbastanza simpatico, anzi quasi carino, tanto il suo protagonista riesce a somigliare, senza volerlo, all’inglese delle vignette umoristiche. Però con molta classe. Snob, understatement, humour, insularismo e così via predicando, le note «categorie» del genere nazionale gli appartengono in dosi giuste, insieme col piacere di citare le lettere alla moglie, il senso dell’aneddoto e – per quanto ci riguarda – quel pizzicotto di razzismo nei confronti dei latini in generale, degli italiani in particolare, che in un buon anglosassone non guasta, perché è folklore, non cattiveria, e chi lo possiede, se si fa l’esame di coscienza, riesce perfino a scambiarlo per benevolenza. Penso che del libro vero e proprio dovranno occuparsi gli storici: nella sua qualità di «ministro residente», dal ’42, presso il quartier generale anglo-americano ad Algeri e, in seguito, di presidente della commissione alleata in Italia, Macmillan ebbe le mani nella pasta della nostra storia recente, da Cassibile a Brindisi, da Napoli a Roma, fino alla liberazione del Nord, insomma è una «fonte» importante; e non solo per gli acuti ritrattini di Croce, Ba22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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doglio, Vittorio Emanuele, Roatta eccetera, per gli eventuali dettagli inediti (per esempio sulla preoccupazione con cui gli Alleati seguivano gli sviluppi del movimento partigiano, sui retroscena dei loro rapporti con i sovietici in Italia, ossia con quel furbone di Bogomolov), ma per l’insieme della sua angolazione, la specificità della «messa a fuoco», eccetera. Contrariamente a quel che sembra pensare l’editore, che ha «alleggerito» le memorie di alcune parti troppo legate alla politica interna inglese (ma il grosso «buco» dall’Abissinia a Monaco rientra nell’alleggerimento?), i capitoli meno «storici» del libro risultano assai interessanti. Il giovane «tory» Macmillan, deputato degli ultimi banchi, vi si rivela un «conservatore» tutt’altro che cieco di fronte alle prospettive di sviluppo di una moderna società industriale e delle sue strutture economiche e politiche. Un liberale italiano lo troverebbe spaventosamente «statalista», «dirigista» e «interventista». Un socialdemocratico della costellazione Tanassi-Preti sospetterebbe in lui il cripto-lombardiano. L’onorevole Bonomi farebbe fare indagini per scoprire i suoi rapporti segreti con – udite! udite! – i comunisti. Finalino con storiella. Macmillan e l’americano Murphy incontrano a Brindisi Vittorio Emanuele, in preda alla fifa. Cercano di tranquillizzarlo. Gli domandano se possono fare qualcosa per lui. «Dopo una pausa esistante disse: ‘La regina non è riuscita a trovare delle uova fresche. È possibile avere in qualche modo una dozzina d’uova?’ Non ci domandò altro». Con l’Italia «in tocchi», Casa Savoia pensava alla frittata. PSL 27 aprile 1969, p. I

TEMPLARI AL ROGO Il rogo dei Templari di Georges Bordonove (collana «Enigmi della storia» di Sugar editore, pp. 300, lire 2.500) racconta la storia della grandezza e della decadenza, seguita da fine violenta (processo, soppressione, fuoco di legna secca per i capi e pane e acqua per i cavalieri semplici) del famoso Ordine sorto con le Crociate e tramontato in sostanza, con le medesime. Già, a distanza di secoli il panorama è semplice e razionale: perduta la Terrasanta per 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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la Cristianità, che ci stavano a fare, nella storia, i Cavalieri del Tempio, se non a mettere bastoni tra le ruote alla sua razionalità? Vedi Hegel, Croce e altri della ditta. Ma la caduta di un Ordine tanto potente, come la caduta di Napoleone (e come del resto, in altri contesti, la caduta di san Paolo) sono cose che non si finirà mai di parlarne, per vedere come è andata, punto per punto. I Templari hanno avuto per secoli, ed hanno tuttora, come Ghiani e Fenaroli i loro «innocentisti» e i loro «colpevolisti». Nessuno nega che il re di Francia, Filippo il Bello, nell’accendere il fuoco sotto il rogo, abbia voluto far fuori una pericolosa (per lui) aristocrazia guerriera e mettere le mani sulle grandi ricchezze ammassate all’ombra della croce cucita sul cuore; né che il Papa, Clemente Quinto, abbia dato una mano alle accuse di eresia per motivi che con l’ortodossia avevano poco a che fare. Ma da questo all’apologia, ci corre. E il Bordonove calza con un piede la scarpa storica e con l’altro la scarpa apologetica. Francese, abbastanza naturale che trovi tutto bello di un Ordine fondato da un francese e che conservò sempre spiccati caratteri francesi. E poi c’è anche da tener conto del singolare meccanismo psicologico per cui anche gli storici, qualche volta, sposano la loro materia, invece di dominarla dall’alto, con la frusta in mano. Se uno si occupa degli Hittiti, è portato a vivere il suo lavoro come se non ne esistesse un altro più importante sulla terra. Io mi occupo dei Templari? Vuoi dire che erano bravi e belli, altrimenti perché me ne occuperei? Per esempio, il Bordonove ha una stima immensa del sistema commerciale e bancario messo su dai Templari, che passano per aver inventato addirittura l’assegno bancario. Ma io, furbetto leggo nella monumentale Storia di Firenze del Davidsohn (a proposito, non trovate che i libri di storia sono quasi, mettiamoci un quasi, i più affascinanti?): «I Templari non poterono conseguire mai a Firenze, la grande importanza che avevano in altre città, perché qui, dove il sistema aveva raggiunto così grande e molteplice sviluppo, le loro operazioni commerciali alquanto modeste (sottolineatura mia) non trovavano il terreno adatto». Bè, chi ha ragione? Non mi verrete a dire che il Davidsohn, tedesco di Danzica, può essere sospettato di campanilismo e di tifo per i «viola». Levato il moscerino, il vino è ottimo. Un bel libro, che si legge con piacere e che fa venire la voglia di andare a fondo dell’ar24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gomento. Quando la Biblioteca di Roma aprirà i battenti, ci andremo a leggere il Processo dei Templari del Michelet, poi vi diremo. PSL 11 maggio 1969, p. I

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KUPRIN NELLA «FOSSA» «Ai giovani e alle madri» dedicava Alessandro Kuprin il suo famoso romanzo sulla prostituzione (La fossa, ora nella «Garzanti per tutti», in edicola a lire 500, nuova e ottima versione di Giorgio Kraiski), per molto tempo, manco a dirlo, ritenuto scandaloso. «Ai giovani», si capisce perché: perché riteneva che il suo racconto potesse ispirare orrore e disgusto per le «case chiuse» e per l’amore venale. La dedica alle madri è più sottile; quando lessi il libro per la prima volta, decenni or sono, di nascosto (dalla madre, s’intende; che poi lo trovò e lo fece a pezzi, poveretta) il suo significato non mi fu per nulla chiaro. La rilettura mi ha fatto apprezzare meglio il profondo rispetto per la donna che corre di pagina in pagina, anche dove il documentario è più crudo. Prima di rileggere ho fatto un piccolo esperimento. Vediamo, mi sono detto, che cosa ricordo ancora. Lì per lì mi è tornata in mente solo la storia dello studente che si propone di «redimere» una prostituta, e fin dalla prima sera la «nuova via di redenzione» si perde nelle sabbie mobili. Ma non c’era anche un giornalista? Ah, sì, lo strano giornalista che va a vivere là dentro, per simpatia, e diventa il confidente, la coscienza, l’amico (disinteressato in ogni senso) delle ragazze. E poi una certa aria russa, un Dostoevskij passato alla scuola di Zola. Basta, la memoria non andava più in là. Nomi? Nessuno. Fortuna che non dovevo rispondere alla domanda da cinque milioni. A libro chiuso, le impressioni più forti, oggi, sono due: quella di una forte e sicura carica morale, che fa capire perché anche i vecchi socialisti di una volta, oltre a Kuprin, ne consigliassero la lettura ai giovani; e quella di un risultato che, scavalcata la classica tranche de vie (anche Tolstoj era scivolato in questo giudizio) si avvicina molto all’idea contemporanea del «romanzo-saggio». Ma questo è terreno minato, terreno per addetti ai lavori. Usciamone 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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in punta di piedi. Facciamo un altro esperimento. Confrontiamo il quadro della prostituzione di Stato dipinto da Kuprin e quello che tutti noi abbiamo conosciuto, prima della legge Merlin. Strano come sembrino poche le coincidenze, diverso il colore. Uno dice: possibile? Io tutti questi drammi, queste tragedie, non li ho visti, sarà la differenza dei caratteri nazionali... Ma è un sistema per mettersi il cuore in pace. Per vedere certe cose ci vuole un occhio speciale, come per vedere i microbi ci vuole il microscopio come ci vuole il telescopio per vedere le galassie. Kuprin era ancora uno di quegli scrittori che credevano di dover fare da microscopio e da telescopio per la società in cui vivevano; nella «fossa» di questo mondo erano loro a scoprire il dolore dove gli altri vedevano solo cipria a poco prezzo e creature umane, intensamente vive, dove gli altri trovavano giusto quel poco di cui andavano in cerca. Forse non era un Maestro con la maiuscola, ma credeva in quel che faceva, e si sente. Dalla nota premessa al testo si impara che Kuprin, prima di fare lo scrittore, fece il giornalista, l’agrimensore, il dentista, il direttore di circo e chissà che altro. Dopo la Rivoluzione emigrò in Francia, ma, vecchio, tornò a morire in Russia. Inquieto fino alla fine, anche lui, come i suoi personaggi. Uno che di pelo sulla coscienza se ne lasciava crescere poco. PSL 16 maggio 1969, p. I

BUBU` A ROMA Per un Premio Nobel magari no, per una domenica al mare (se ce la fate ad arrivarci, partendo qualche giorno prima) e per quattro ghignate, ottimo il romanzo, di Giancarlo Fusco, A Roma con Bubù (collana «Humour», editore Bietti, pp. 185 circa, lire 1.400). Primo tempo a Milano: un po’ di night, un po’ di mala (Gino il Meccanico, Bibì et Pelà, ovvero il pelato, l’osteria della Mocolosa), qualche entraineuse di quelle che a Parigi «metterebbero a guardare il cesso» (la sentenza è di Bubù, che oltre a Parigi conosce come le sue tasche Marsiglia e Casablanca). Intermezzo sull’Autostrada del Sole, con Beppe De Leonardis, fratello del celebre produttore, che somiglia come un gemello a... 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Stop. Censura. Il passaggio, meteorico, del talent scout porta al secondo tempo, tra via Veneto e piazza del Popolo, col narratore in cerca di sceneggiature da scrivere contrassegno e il grande Bubù, il donchisciottesco Bubù, il malato-della-Senna Bubù in caccia di una parte; nel cinema, s’intende, ma soprattutto nella gran torta romana, dove, si dice, basta allungare le mani per ritirarle piene di panna e di marenghi. Tutto finisce, a esaurimento dei quattrini e degli assegni a vuoto del commendator Bianchi della Romaforum (Roma-Formosa, coproduzione con Ciang Kai Scek), con Bubù crocifisso, tra lunghe file di cristiani in attesa, le braccia spalancate, del «ciak» che non viene. La «comparsata» è a Roma quel che a Milano è la «bidonata». Perciò ritorno alla nebbia («ti giuro che vado apposta in giro per respirarla») e agli amici che si chiamano Giulio il Bambino, tanto più che nel frattempo Meccanico è stato provvidenzialmente bevuto dalla Mobile. Una piacevole satira, con dentro un personaggio che potrebbe essere il Sordi milanese, se Sordi fosse più alto di statura e se a Milano nascesse uno come Sordi, tenuto su dai ricordi francesi invece che dal mito del Texas: un Sordi meno furbo, più bonaccione. Insomma, Sordi non c’entra proprio più niente, perché non fa pensare nemmeno un po’ a Tecoppa. Mi sono spiegato? No, naturalmente. Anche la satira è bonacciona. Giancarlo Fusco, in fondo, scrive per i suoi amici dell’osteria della Mocolosa e del «Tony Club», per raccontare loro le pittoresche diavolerie della capitale: anche lui con la nostalgia della nebbia. Scrive prendendosi in giro, con qualche «tic» da corsivista, con qualche manierismo d’alto livello; gli unghioni li fa vedere, perché ne è provvisto, e davvero «non è cascato giù con l’ultima pioggia» (come proclama di sé il Bubù), ma li ritira subito, perché in fondo non vale nemmeno la pena di graffiare troppo. Tra amici «ci si sfotte», non ci si graffia. E l’atteggiamento di Fusco verso il mondo è amichevole. Va là, gli dice, al pianeta, che sei una bella lenza. «Roma è come fu, e fu come sarà», dice il conte Chicco che ogni sera, allo scoccare della mezzanotte, festeggia il suo compleanno ordinando «trenta secchi» (di champagne, si capisce). Un sacco di gente, tra Canova, Rosati e il Café de Paris, si riconoscerà senza offesa. Quasi un peccato non aver conosciuto Fu27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sco in tempo per dirgli: «Mettimi dentro anche me (forma, a Milano, correttissima) se appena puoi». PSL 30 maggio 1969, p. I

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CATULLO PERSONAGGIO I classici, si sa, a piccole dosi. Non tutte le sere, per esempio. Date in mano a Orazio un uomo del nostro tempo, un’ora per sera, e potrebbe farne anche un filisteo. Datelo a Virgilio, e disimparerà a guidare l’automobile. A Marziale, e cesserà di interessarsi del movimento studentesco. I classici ti isolano, ti dànno l’impressione di saperla troppo lunga, ti trasformano la realtà in un pretesto per qualche bella citazione. I classici, bisogna adoperarli con prudenza e buoni contrappesi. Per esempio, Cicerone il lunedì, ma il martedì il libretto del generale Giap. Il mercoledì Seneca, ma il giovedì subito qualcosa sui «futuribili», o la Storia del partito comunista di Paolo Spriano. Comprendi l’importanza? direbbe Alberto Sordi. Prese queste precauzioni, pochi piaceri libreschi equivalgono alla rilettura di un classico, con la guida di un traduttore contemporaneo, uno che adoperi la lingua della televisione, di Gadda e di Montale, del cinema e di «Paese Sera», e ogni tanto anche quella della «mala», per scavare nel senso, nel suono, nel colore dei versi latini, senza ricorrere ai sinonimi più opachi o ai puntini di sospensione quando Marziale è «troppo spinto», senza trasformare il povero Catullo in un maldestro imitatore delle Odi Barbare di Giosuè Carducci. I due nomi non sono scelti a caso: Guido Ceronetti ha tradotto l’uno e l’altro, e questa settimana parliamo del suo Catullo (ovvero Catullo, Le poesie, versioni e una nota di Guido Ceronetti, testo latino a fronte, editore Giulio Einaudi, Torino, pp. 366, lire 4.500: costa un po’ più di una birra ghiacciata, ma ne vale ampiamente la pena). Di tutti gli antichi vizi dei traduttori (il culto dell’endecasillabo, della parola dotta e tronfia, della zeppa pesante) il Ceronetti non ne ha uno solo. Il «tabù» della fedeltà non lo riguarda. Un poeta che traduce un altro poeta non è un liceale che debba dimostrare di aver capito la sintassi e di sapersi destreggiare nel vocabolario: non è neanche un profes28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sore che voglia far vedere che il latino, a lui, gli viene fuori dalle orecchie: è un poeta che vive e rifà la poesia di un suo antenato, di un suo fratello maggiore. Così ha fatto a suo tempo, con Catullo, anche Salvatore Quasimodo, con questa differenza: che Quasimodo traduceva solo quei canti che, a un certo momento, facevano scattare dentro di lui la misteriosa molla della poesia, e questa è la condizione ideale; Guido Ceronetti, più umilmente, li traduce tutti, ciò che costituisce un bellissimo esercizio, ma naturalmente comporta i suoi guai, e ci sono anche le pagine dove uno si accorge subito che la molla non è scattata, l’esercizio è rimasto esercizio. Se si guarda al risultato, però, ecco che mentre Quasimodo ci dava soltanto alcune bellissime poesie in italiano da mettere a specchio con l’originale il Ceronetti ci restituisce intero il personaggio Catullo, il suo mondo, il suo tempo. La sua ispirazione vera, dunque, non sono i singoli versi ma un’immagine umana, con tutto il suo spessore. È come dire che, oltre ai canti, abbiamo il romanzo di Catullo. La versione, per capirla bene, non va letta, saltando qua e là, ma da cima a fondo; e soltanto dopo, se si vuole, si può tornare in cerca dei canti, più famosi, e dall’italiano, chi può, rientrare nel testo latino, come in una galleria ormai illuminata a giorno. PSL 6 giugno 1969, p. I

IL «MACHIA» CHE SCOTTA Fa un po’ impressione, sapere che lo chiamavano «il Machia», nel giro dei compagnoni con cui, politicamente disoccupato, se la spassava, mangiando, bevendo, giocando a carte e scrivendo canzoni amorose per la Barbèra. «Il Machia». È vero che, oltre il Po, il «commendatore» viene chiamato dagli amici «il commenda»; che il biglietto da diecimila viene detto familiarmente e affettuosamente «il deca»; e del resto, quando andavamo a scuola, avevamo un amico che si chiamava Massimiliano, ma tutti lo chiamavano «il Massi». Non parliamo di Roma. Quaggiù la madre diventa «a ma’», il padre «a pa’», e Federico Fellini, negli ambienti autorizzati, «a Fè!». Ma quel «Machia» lì, per Niccolò Machiavelli, sembra quasi una profanazione: è come venire a sapere che 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Laura chiamava «Ciccio» il suo Francesco Petrarca. Una sconvenienza: cose che non si dicono ai bambini, altrimenti perdono il rispetto. Tuttavia, se uno scrittore affigge questa sconvenienza sul frontespizio del suo libro (Renato Nicolai, Il Machia. Vita di Niccolò Machiavelli, con un saggio sul Machiavellismo e gruppi dirigenti, con una lettera di Gabriele Pepe, editore Tindalo, Roma) avrà le sue ragioni. Probabilmente di modestia: per chiedere scusa agli storici di professione se lui, giornalista, parcheggia la macchina nella loro «strada privata»; per far capire al pubblico che non gli sta tirando in testa un mattone, ma gli sta offrendo una lettura agevole, confidenziale. La «vita» è nata dall’idea di un film su Machiavelli e si presenta, appunto, come un «trattamento» cinematografico, che però, sul piano della serietà riceve da Gabriele Pepe un vero e proprio diploma al merito: «Magari ce ne fossero molte, di guide così aderenti alla storiografia di un personaggio storico e nello stesso tempo così piacevoli!». Anche l’esclamativo ce l’ha messo il professor Pepe. Parole non ci appulcro. Seguendo il consiglio dell’autore, abbiamo letto il libro cominciando dalla seconda parte, cioè dalla «vita». Per ultimo abbiamo letto il lungo saggio introduttivo. E qui si scopre il trucco. Dietro il nomignolo riduttivo che fa da titolo e le dichiarate intenzioni giornalistico-cinematografiche che fanno da schermo, il saggio è infatti un interessante e ambizioso tentativo di re-interpretare il Machiavelli e il machiavellismo come «cattiva coscienza della politica» e i rapporti tra il Segretario fiorentino e i gruppi dirigenti del suo tempo come «chiave» per studiare la dinamica di quei gruppi e, insieme, quella dei gruppi dirigenti del nostro tempo, la loro tendenza «protettiva e autoritaria» ad assumere «un processo di rinnovamento solo quando avviene un calo di voti, una diminuzione degli iscritti, un diradarsi delle vocazioni, un inaridimento del proselitismo e quindi dell’influenza sulla società civile». «Il Machia» di questo saggio è un «intellettuale, un artista», che sente e vive la «profonda, dolorosa scissione tra il mondo delle idee e quello della realtà» ed è finalmente sconfitto dai «politici professionali». È tutta una materia che scotta e che Nicolai presenta solo come anticipazione di un libro che scriverà più avanti. Lo aspetteremo con curiosità e con fiducia. PSL 13 giugno 1969, p. I

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PRIGIONE SCONFITTA Giulio Salierno aveva diciotto anni, nel 1953, quando commise il delitto per il quale fu condannato a trent’anni di carcere. Salierno-Conforti: per un vecchio cronista i due nomi di quel processo sono legati insieme come quelli di Romolo e Remo, Trento e Trieste o, se preferite, Ghiani e Fenaroli. Ci dev’essere una legge segreta, che presiede alla formazione di certe «coppie» di nomi propri, ma qui non abbiamo tempo per investigare in proposito. Dopo tre anni di carcere, Giulio Salierno chiese il primo libro «importante». Da allora, per quindici anni, da una prigione all’altra, non fece che leggere (storia, filosofia, economia politica) e studiare: nella Casa Penale di Alessandria prese il diploma di geometra, in quella di Perugia il diploma di radiotecnico e di tecnico televisivo, si era anche iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università di Roma ma, dopo due anni, ne fu cancellato perché non frequentava. Il detenuto che nel 1968 chiese la grazia al Presidente della Repubblica non era più il giovane missino dalla pistola facile del ’53. Era diventato un uomo colto e responsabile. Saragat lo graziò e fece molto bene. Si è parlato del «Chessman italiano», ma il confronto è superficiale. Nella cella della morte il Chessman propriamente detto era diventato scrittore e avvocato, ma il suo orizzonte era limitato alla porta della camera a gas: la battaglia per non entrarci non poteva non assorbire tutte le energie intellettuali di cui era capace. Salierno scrittore (esce ora presso l’editore De Donato La spirale della violenza. Memoriale di un detenuto, pp. 245, lire 1.200) è libero da problemi personali. Egli può scrivere, nelle prime pagine del suo libro: «L’importante ora è che questo testo non venga utilizzato per parlare di me, ma per risvegliare l’opinione pubblica di fronte al problema della giustizia penale...». Eppure anche di lui bisogna parlare, per allontanare il minimo sospetto che si tratti di un «delinquente redento dal carcere». Si tratta, al contrario, di un uomo che ha costruito se stesso lottando contro il carcere, resistendo alla «istituzione»: della quale traccia ora un quadro documentato e spaventoso, resistendo anche alla tentazione autobiografica, per scrivere un pamphlet di rara efficacia, sia nella denuncia, sia nell’indicazione delle riforme più urgenti, sia nella ricerca di una trasformazione globale. 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’incontro decisivo che sta alla base del libro è quello con Marx e con Gramsci, gli autentici autori della «rivoluzione culturale» che di un detenuto ha fatto un accusatore consapevole. Di solito, il carcere fa il delinquente, come il manicomio fa il matto. Il caso Salierno è, per il «sistema», una sconfitta grave. Al nuovo scrittore non è difficile predire che non avrà la vita facile; e del resto non è quella che cerca. PSL 20 giugno 1969, p. I

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BARE IN LUNA DI MIELE Ed e El, freschi sposini – (e protagonisti del romanzo Per vostra igiene e convenienza, di George Crowter, Feltrinelli, pp. 245, lire 2.000; la ditta potrebbe anche promettere di rimborsare i soldi se il libro non piacesse, non ci perderebbe una lira) – percorrono con la loro autentica automobile americana le autostrade e superstrade d’America, da un motel all’altro, da un bar all’altro, da un supermercato all’altro, mangiando autentiche bistecche americane e masticando autentica gomma americana, ascoltando la radio che parla in continuazione di minestre in scatola, e poi anche di una casalinga in bermuda e bigodini morta schiacciata sotto le sue amate scatole di minestra, ora preda contesa e ambita dei necrofori, imbalsamatori, pubblicitari produttori di minestre in scatola. Alla fine si può anche venire a sapere che la «casalinga condensata», vagante da una superstrada all’altra, da un nastro trasportatore al «set» di uno spettacolo televisivo è la stessa fresca sposina in luna di miele col suo marito autenticamente americano e col «manuale del matrimonio» che, notte dopo notte, essi si sforzano di mettere in pratica, paragrafo per paragrafo, ma non andranno oltre il nono paragrafo, per colpa delle note scatolette. Avete letto Il caro estinto? Bè, in quel libro la satira dei costumi mortuari autenticamente americani era divertente, ma bonaria: in questo qua è tutta all’acido muriatico. Avete in mente qualche libro che descriva l’autentico consumismo americano? Buttatelo via, perché non dice la metà del vero; in ogni caso, cento contro uno che non lo dica con la cattiveria del signor George Crowter, un inglese che non ha paura di turbare i 32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«rapporti speciali» tra il suo paese e gli «States». Un libro violento, penoso, ostinato come un «tam tam» e costruito con una bravura da triplo salto mortale senza rete. Dovrebbe bastare la trovata del racconto contemporaneo e intrecciato di ciò che accadde prima e di ciò che accadde dopo alla novella casalinga; del viaggio di nozze e dell’odissea nella bara, per tenere desta la vostra attenzione dalle prime ore della sera alle prime ore del mattino. Però bisogna avere il coraggio di superare le prime venti pagine, quando non si capisce ancora dove tira la tecnica della ripetizione applicata in modo ossessivo, quando ancora non ci si è abituati all’idea di un viaggio nell’inferno delle superstrade e dei supermercati. Dopo le venti pagine, la molla scatta, la macchina funziona e sotto il veleno si sente vibrare – il che, alla fine, non guasta – una profonda pietà. PSL 27 giugno 1969, p. I

PROVARE CON LA CAPRA «Lettore, hai tu spasimato? Hai tu pianto? No? Questo libro non fa per te». L’epigrafe, notevolmente insensata, è premessa da Cesare Cantù al suo romanzo, famoso una volta, Margherita Pusterla. Era di moda in quei tempi, presso i romanzieri, il Medio Evo, un po’ per colpa di Walter Scott, un po’ per colpa dei Romantici e naturalmente molto per colpa di Alessandro Manzoni, che, avendo fatto il primo romanzo storico, si era già pappato per conto suo il Seicento e sconsigliava i confronti diretti, spingendo i concorrenti intimiditi a sprofondare più nei secoli, per mettersi a distanza di sicurezza. Nel solco letterario aperto da Renzo e Lucia vennero a seminare i loro spasimi e i loro pianti caterve di eroine morte ammazzate, di castellane prigioniere per amore di paggi malinconici, cognati troppo biondi e nobili sfortunati. Tutti i panni sporchi delle illustri casate che avevano signoreggiato l’Italia, un pezzo «per omo» (o «per cranio», come si dice anche a Roma) vennero sciorinati in pubblico a mezzo stampa, con accompagnamento di spade balenanti, di invasori stranieri, di soldatacci di ventura, di frati intriganti, di cardinali dal sicario facile. Fu un’orgia d’amore e morte, che ebbe fine solo quando si fecero avanti prima i «Padroni delle ferriere», poi Carolina Invernizio, 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ed infine i film con Amedeo Nazzari, recentemente riportati dalla TV alla gloria degli altari. Telespettatore, hai tu spasimato? Hai tu pianto? No? Questo film sul primo canale non fa per te. Una cosa è inconfutabile: che la storia ha i suoi romanzi d’appendice bell’e pronti nei suoi millenari cassetti. Se vi hanno frugato i romanzi d’una volta, oggi che i romanzieri si occupano d’altro niente impedisce ad altri scrittori di metterci le mani. E tanto meglio se chi lo fa è un giornalista che ha lunga pratica di cronaca nera, come il nostro amico Tonino (Antonio Perria, Storie d’amore e di morte della storia d’Italia. Le Angioine. I Malatesta di Rimini. I Visconti di Milano, editore Sugar, pp. 328, lire 2.000; e quasi un cadavere per pagina, se vi piacciono le statistiche). Orripilanti, e perciò, data la «distanza di sicurezza» che ci divide da quei tempi, deliziose vicende di assassini, tradimenti, torture, avvelenamenti, esecuzioni capitali, eccetera, sono sparse a piene mani in ciascuna delle tre parti, da specialisti del genere, quali Giovanna di Napoli, Malatestino dell’Occhio, Paolo e Francesca, il grande Matteo, la volubile Isabella, Beatrice Lascaris e tanti altri carnefici o vittime della gelosia, dell’avidità, dell’ambizione, di tutti i sette vizi capitali. Tutto vero, parola per parola, anche la tortura della capra. Non la conoscete? Semplicissima. Basta avere un nemico, una capra, un secchio d’acqua e un pacco di sale. Si prende il nemico, lo si lega su un tavolaccio e lo si bagna con acqua e sale. La capra, golosa, comincia a leccare. Il nemico ride per il solletico, ma non sa che cosa lo aspetta quando la capra, continuando a leccare, comincerà a spellarlo vivo, mentre sulle piaghe voi, con regolarità e scrupolo, continuate a versare acqua e sale. Provare per credere. Insomma, una lettura estiva di tutto riposo, anche meglio della Estate gialla 1969 di Ellery Queen. PSL 4 luglio 1969, p. I

COLPA DELLE LUCERTOLE Osservavo, in un giardino, una lucertola che, secondo ogni evidenza, impediva ad un’altra, con minacciosa rincorsa, di oltrepassare un certo confine e ogni volta che quella, ostinata però, si 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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riavvicinava, tornava a metterla in fuga. Ma non stavo forse interpretando il comportamento dei due animaletti in modo arbitrario e, al solito, antropomorfico? E se quella lucertola difendeva effettivamente un suo territorio, perché lo faceva: perché era la sua riserva di caccia, o perché ci teneva la sua femmina? Allora era una specie di lotta fra maschi, quella cui assistevo? Una terza lucertola mi distrasse. Questa mi girava attorno, a distanza di sicurezza, e si fermava, sollevando la testa, a guardarmi. Sono sicuro che mi stesse guardando, perché se agitavo o battevo le mani per spaventarla si ritirava con un guizzo sotto l’erba. Ma dopo un po’ era lì, di nuovo, a tenermi d’occhio, con l’aria di dire: «Bè, come la mettiamo?». Questo è l’antefatto e dovrebbe spiegare perché qualche giorno più tardi mi sono affrettato a leggere un libro della Piccola Biblioteca Einaudi capitatomi per caso tra le mani: Il comportamento sociale degli animali, di Niko Tinbergen: un signore che meriterebbe un bacio in fronte solo per la battuta finale dell’ultimo capitolo, che dice: «Gli animali sono sempre più importanti dei libri scritti su di loro» (e io, subito, orgogliosissimo, perché non era stato il signor Tinbergen a portarmi dalle lucertole, ma le lucertole a guidarmi dal signor Tinbergen). Dopo il bacio, la stretta di mano: nel libro ho trovato anche la storia delle mie due lucertole. Dovevano essere proprio due maschi. Sulla strana condotta della terza, purtroppo, nessuna notizia. Dovrò fare altri esperimenti, per venirne a capo. Il libro (pp. 216, lire 1.200) esamina il comportamento sociale degli animali dal punto di vista biologico, come dire che spiega le ragioni dal di dentro, senza prestare agli aironi o agli scarafaggi motivazioni umane. Certo, anche gli uccelli difendono i loro piccoli, proprio come noi; ma se gli muore un figlio in battaglia sono capaci di mangiarselo. A proposito di mangiare, lo sapevate che i pesci rossi ingrassano di più in compagnia? Ma non è per la contentezza: è che quando mangia uno, tutti gli altri si affrettano a imitarlo, anche quelli che hanno già mangiato. In compagnia gli scarafaggi si orientano meglio che da soli. Anche tra gli animali, insomma, per ragioni tutte loro, vale il vecchio proverbio secondo cui in compagnia prese moglie un frate. Dopo aver spiegato al lettore come i gabbiani o gli spinarelli si comportano in rapporto alla riproduzione, alla vita di famiglia e a 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quella di gruppo, il signor Tinbergen lo consiglia di guardarsi gli animali da solo e gli spiega come fare. Non è soltanto uno scienziato che scrive per farsi capire dagli ignoranti come noi: è anche uno che non ha paura di farsi rubare il mestiere. Insomma, una perla. PSL 11 luglio 1969, p. I

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OCCHIO ALLA TERRA! Pochi libri sono affascinanti quanto quelli che dietro il banale ci rivelano il meraviglioso, dietro l’ovvio il misterioso e sotto le apparenze tranquille il mare in tempesta del reale. Quando Freud ci spiega che se picchiamo un ginocchio contro un tavolino lo facciamo apposta, per castigarci di chissà quali colpe reali o immaginarie, abbiamo la sensazione di scoprire un mondo insospettato e abissale sul quale i consuetudinari gesti d’ogni giorno galleggiano come turaccioli in ordine sparso. Bravo, sette più. E sette più al filosofo, marxista o strutturalista, o marx-strutturalista, che per gli stessi gesti ci fa sospettare altri significati e connessioni sbalorditive nello spazio, nel tempo e nella dimensione sociale. Del resto i poeti non fanno altro, quando alle parole del discorso quotidiano regalano campi semantici inattesi, un suono inedito, un potere di suggestione che i vocabolari non possono registrare. Però, c’è modo e modo di meravigliare il lettore. Il meno efficace è quello di dirgli ogni momento: «guarda come ti meraviglio, guarda come ti lascio senza fiato. E adesso sta attento, perché sto per vibrarti un colpo che ti farà vacillare dalle unghie ai capelli... Sei pronto? Uno, due, tre: dunque, pensa che...». E bang! bang! scoppia il segreto di Pulcinella. Questo – con tutto il rispetto per le sue doti di brillante giornalista e divulgatore di «archeologia spaziale» – ci sembra, ridotto all’osso, il metodo di Peter Kolosimo (vedi Il pianeta sconosciuto, editore Sugar, pp. 299, lire 2.000; è una ristampa, ma noi ne parliamo adesso perché prima non l’avevamo letto). Il libro parte da una giusta considerazione, che si potrebbe riassumere in una domanda: nel momento in cui non stiamo per esplorare la Luna, Marte e Altri Siti, siamo certi di co36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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noscere a sufficienza il pianeta in cui abitiamo? La risposta negativa è documentata da un ricco e interessante catalogo di problemi insoluti, di misteri inevasi, di domande che ne fanno nascere altre e che riguardano (citiamo alla rinfusa) l’origine della terra, la nascita dei continenti, Atlantide, l’abominevole uomo delle nevi, le tracce di civiltà scomparse, le parentele tra civiltà lontane, i mostri preistorici che sopravvivono qua e là, per una distrazione dell’evoluzione, gli strani indizi che potrebbero aver lasciato sul nostro globo visitatori provenienti da altri pianeti, e così via, tutto un repertorio che, a ritrovarselo davanti in panoramica, fa veramente impressione. Nuoce al successo del libro, per un lettore come Benelux, l’eccesso di zelo nel montaggio degli effetti di stupore. Dopo un po’ di pagine ci si stufa di fare «oh», «ah», e si sospetta nell’autore un entusiasta che usa troppo l’acceleratore e troppo poco il freno. Senza contare che egli cita con gran serietà la Bibbia – absit iniuria – come un testo scientifico e che, per buon peso, anche certe teorie scientifiche le presenta senza un margine di dubbio (per esempio, quelle del «big bang», da cui avrebbe avuto origine l’universo, ma non è ancora articolo di fede). Per conto nostro, insomma, il sei – a Kolosimo – glielo diamo volentieri; ma il sette più, in coscienza, non glielo possiamo dare. PSL 18 luglio 1969, p. I

UNIVERSI PROIBITI Se avete bisogno di provare una piccola scossa, di sentirvi un po’ inquieti, di liberarvi di qualche certezza o sicumera di troppo, provate a leggere Universo proibito di Leo Talamonti (Oscar Mondadori, lire 500 in tutte le edicole). Non è soltanto, come sta scritto in copertina, «una rigorosa inchiesta sulla dimensione occulta della vita: magia, chiaroveggenza, fantasmi, sdoppiamenti, medianità» ma una vera e propria introduzione alla «parapsicologia», scienza dell’avvenire, un viaggio in quella vasta estensione di «ignoto naturale» (la definizione è del professor Mackenzie, cui si pagano qui i diritti d’autore) che attende ancora il suo Copernico e il suo Galileo. 37 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Noi non abbiamo mai visto ballare un tavolino, non siamo mai stati colpiti in fronte da un sasso passato attraverso la finestra chiusa senza rompere i vetri, non abbiamo mai avuto (o almeno non ce ne ricordiamo) sogni premonitori, in famiglia nessuno sa alzare un oggetto con uno sguardo, diagnosticare una malattia guardando la fotografia di un malato sconosciuto, rivivere una scena dell’Antica Roma toccando un sasso del Colosseo. Ma siamo abbastanza vecchi per non ritenere pregiudizialmente «impossibili» i fenomeni che non rientrano nelle leggine della fisica (già superatissima) studiata a scuola; e abbastanza materialisti da non credere agli «spiriti» nel senso in cui i medium di una volta e i loro fanatici erano convinti di parlare effettivamente con i morti (e la Chiesa non negava, ma attribuiva tutto al diavolo). Siamo, insomma, abbastanza convinti che la scienza non ha ancora scoperto tutto quel che c’è da scoprire, altrimenti non ci sarebbe che da chiudere bottega. Il nostro atteggiamento di fondo, nei confronti dei fenomeni paranormali, è da un pezzo questo: «chi vivrà vedrà». Dopo aver letto questo libro, però, non siamo più tanto sicuri di poterci accontentare della nostra abituale «apertura all’ignoto» (cioè per noi al futuro della scienza). Prima di tutto, l’inventario dei «fatti» accertati appare veramente strabiliante e comprende stranezze di ogni genere, «miracoli», da far impallidire san Gennaro. Uno è ridotto a pensare che se non ha mai visto niente del genere è solo perché gli mancano delle diottrie. In secondo luogo il Talamonti scrive bene, senza strafare, ti toglie di dosso la paura di essere preso in giro (abbastanza naturale, dato l’argomento). Infine, le sue spiegazioni e ipotesi, che escludono la dimensione metafisica-spiritualistica, per tenersi al campo dell’inconscio e dei poteri della mente hanno una notevole forza di convinzione. Specialmente suggestiva la tesi che i fenomeni cosiddetti occulti riguardino qualcosa che l’uomo... potrà diventare. E già, per quello che ne sappiamo noi, tanto per dirne una, tra mille anni i nostri discendenti potrebbero benissimo parlarsi da Roma a New York senza telefono e senza radio, servendosi solo del loro pensiero. Se ne son viste tante, dai tempi dell’uomo di Neanderthal in poi... PSL 25 luglio 1969, p. III

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FELTRE E ALTROVE Il bel libro che mi ha fatto compagnia nelle (poco) tranquille giornate di Ferragosto (Cronache feltrine, di Silvio Guernieri, editore Neri Pozza, Vicenza, pp. 228, lire 2.000) è, in apparenza, una raccolta di articoli da «terza pagina». L’autore – allora professore, preside e consigliere comunale a Feltre – li scriveva per «l’Unità» di Milano e vi dava conto dei suoi incontri con persone, cose, problemi e paesaggi della città e dintorni. La felice condizione dello scrittore che non è tenuto a inseguire l’attualità giornalistica, è libero di scegliersi il tema e il punto di vista, può lavorare senza obbedire all’orologio e al calendario, gli permettevano di mettere insieme pagine che resistono alla prova del libro e possono essere rilette come la guida alla scoperta di un angolo d’Italia in tutto il suo spessore umano. Una catalogazione del genere, però, lascerebbe fuori, del libro, proprio la parte migliore, la sostanza più vera. Morandi, per dire, lavorò tutta la vita a dipingere bottiglie e vecchie caffettiere, ma classificatelo come un «pittore di nature morte» e vi sarà tolto il saluto. Scrivendo, per anni, di Feltre e delle sue ventitré frazioni, Silvio Guarnieri ha messo insieme, in realtà, un saggio, in forma di autoritratto, sul rapporto tra lo scrittore e la realtà, e quella che se ne ricava è una seria, appassionata lezione su un certo modo di concepire la cultura, di fare cultura. Più che nella prefazione, dove la lezione è resa esplicita («sento che oggi la cultura deve soprattutto ricercare il suo fondamento negli uomini, negli uomini vivi, presenti») bisogna cercarla nell’ultimo capitolo («Commiato da Feltre») che Guarnieri ha scritto a Pisa, dove ora vive, professore all’Università (e, di nuovo, consigliere comunale, per il PCI). Lontano dalle sue montagne, dai suoi Bepi e Vettor e Irmo, dalle piazzette dove ha tenuto comizio, dalle osterie dove ha ascoltato il suo dialetto, si aggira per la città nuova, tra gente sconosciuta, per strade e case che ancora non gli dicono niente, si ferma davanti alla sezione del suo partito, si figura i compagni che tra poco incontrerà, ai quali mescolerà la sua vita... «E per loro – dice – per questo mio innesto, per questa partecipazione alla loro esistenza, al loro mondo, arriverò a conoscere questa città; lentamente, ma sicuramente, per la via sicu39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ra, essa mi si rivelerà nella sua conformazione, con sempre più precise e coerenti connotazioni; finché in essa mi sentirò vivo, esigente, responsabile di uno stato e deciso ad operare per contribuire a condizionarla». È proprio così. Quello che capisce meglio il mondo, non è il saggio che sta sulla montagna, ma l’uomo che è solidale con gli uomini e dà una mano, anzi tutte e due, senza risparmio a cambiare la vita. Si conosce la realtà operando in essa. Con gli altri, non da soli. Feltre, o Pisa, o Minervino Murge, fa lo stesso. A questo punto, catalogare il libro diventa superfluo. Uno potrebbe anche definirlo un discorso sulla letteratura, o un discorso ai giovani. Insomma, come dicevo all’inizio, è proprio «un bel libro». PSL 22 agosto 1969, p. I

IL CANE E LE FF.SS. Lettore, ti piacciono i cani? No? Allora volta pagina, tira diritto a sinistra, questo libro non è per te. Dopo di che non vorrei che si affollassero da questa parte i patiti del cane «fedele amico dell’uomo», i cacciatori per i quali il cane è soltanto un prolungamento del fucile e simili. L’animale all’ordine del giorno (Lampo, il cane viaggiatore, di Elvio Barlettani, editore Garzanti, Milano, pp. 174, lire 1.200, con molte fotografie) è diventato famoso a suo tempo per tante qualità più una, cioè questa: che era un cane, ma si comportava in un certo senso come un gatto, cioè si faceva gli affari suoi. Gli piacevano i treni, come al mio povero amico Lelio, che era felice soltanto in treno e adesso, in Paradiso, spero che gli abbiano dato un posto vicino al finestrino. Gli piacevano, a Lampo, le Ferrovie dello Stato. Perciò aveva scelto come suo domicilio la stazione di Campiglia Marittima. Naturalmente, in cambio dell’ospitalità, assolveva a certi doveri: per esempio, accompagnava a scuola tutte le mattine la figlia del ferroviere Barlettani (che ora racconta la sua storia con grande semplicità, senza sentimentalismi, col tono virile con cui si ricorda un vero amico), che però abitava a Piombino. Questo dava modo a Lampo di combinare il dovere con il piacere. Difatti, prendeva l’accelerato a Cam40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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piglia, correva a Piombino ad accompagnare Mirna, tornava a Campiglia in tempo per accogliere i direttissimi con carrozza ristorante, per ricevere dal cuoco la sua parte (non sbagliava mai carrozza, né finestrino) e poi, se gli andava, saliva su questo o quel treno, scendeva dove gli pareva, prendeva la coincidenza. Conosceva a memoria la rete ferroviaria e gli orari. Tornò a Campiglia dalla Puglia e dalle Calabrie. Ma non tornava per morire sulla tomba del padrone, che per fortuna è vivo, camperà un bel pezzo e avrà molti altri cani: tornava alla sua «base», ecco tutto. Si considerava in servizio a Campiglia, nonostante l’ostilità di certi dirigenti ferroviari che, in omaggio ai regolamenti, per anni gli contesero omnibus, diretti, direttissimi e «merci». Un cane indipendente, con l’hobby della strada ferrata… Un indiano, credendo nella metempsicosi, potrebbe seriamente sostenere che in Lampo si era incarnata l’anima di un capo-treno; farebbe delle ricerche, sulla linea, tra Livorno e Grosseto, in cerca di date, di coincidenze, di indizi che lo aiutassero a dare nome e cognome al defunto; non perderebbe la speranza, ora che Lampo a sua volta è morto (sotto un treno, naturalmente: era ormai vecchio, aveva i riflessi appannati), di individuare la successiva incarnazione della sua anima, forse in un bambino che ha l’hobby dei cani, forse in un locomotore delle Effe Effe Esse Esse, chi può dire. Di Lampo hanno parlato i giornali e la televisione. Se passate da Campiglia Marittima potete vedere il suo monumento con la lapide. Da Roma a Campiglia fate in tempo a leggere il libro, l’indice, il risvolto e la prefazione di Enzo Grazzini, che però parla molto, chi sa perché, di sua nonna e di Cappuccetto rosso. PSL 29 agosto 1969, p. III

CHIANTI INGLESE I libri gialli si dividono in due categorie: quelli settimanali, economici, di rapido consumo, che si amano alla follia e si conservano per decenni, nascosti nel baule della nonna, perché a tenerli in vista si ha paura di fare una magra con gli amici intellettuali; quelli rilegati, che sono spesso dei bei volumi, grossi come un Premio 41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Strega, e possono figurare anche su uno scaffale, sia in città che in campagna: lo scaffale disinvolto, che si può ostentare per civetteria anche nella buona società culturale. A scatola chiusa (tre gialli inediti, editore Feltrinelli, pp. 487, lire 3.000) è rilegatissimo, come si capisce dal prezzo, e può stare sullo scaffale tra Hitchcock e l’opera omnia di Chandler. Ma non vale tanto. Non che sia proprio una bufala: Quello sporco diamante, di McGiven, è tutto uno svolazzare tra Londra e la Sierra Leone, con ladri, contrabbandieri, poliziotti e agenti segreti, anche di sesso femminile; la Colomba Nera di Wainwright contiene un paio di buone trovate (un furto in banca sincronizzato con la grande «corrida» di Pamplona; alcune variazioni sul culto alla Madonna). Però c’è il signor Calvin, autore del terzo romanzo, L’ordigno italiano, che si permette di far entrare il suo protagonista in una trattoria romana a ordinare un «polipo fritto» (al singolare, sic!) con... Chianti, e riesce a dire che la dimora di un «conte» romano (conte!), con quaranta generazioni di servi della gleba alle spalle (e allora è per lo meno un duca, no?) somiglia a «un municipio vittoriano costruito nell’anno del boom delle ferrovie». Ecco, dell’aristocrazia romana tante brutte cose si possono dire, ma non che le sue case siano state costruite, nel Cinquecento o Seicento, nello stile del Palazzaccio e dell’Altare della Patria. L’errore di fondo, poi, è quello di aver ambientato un romanzo di spionaggio industriale, anzi, elettronico, nella città meno elettronica d’Italia, ignorando Milano, Torino e Ivrea. Come spiegare tutto ciò? Si spiega facendo delle congetture sul traduttore. O è uno che traduce in fretta e se ne infischia se il suo autore ci fa la figura del fesso; o è uno molto furbo, che lascia a bella posta quelle alicette in cima alla pizza per dare al lettore la prova (la prova del Chianti) che l’autore del libro è veramente un inglese e non uno dei tanti poveri «negri» del «giallo» che adottano pseudonimi anglosassoni per non oltraggiare il cognome paterno, regolarmente iscritto all’anagrafe di Casalpusterlengo o di Tarquinia, già Corneto. Naturalmente il romanzo può essere letto anche come un saggio di umorismo involontario, ma in questo caso non può fare concorrenza nemmeno da lontano a un buon resoconto degli esami orali in qualunque liceo italiano. PSL 5 settembre 1969, p. I

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DIALOGO IN PUBBLICO Non è che gli italiani, analfabeti a parte, siano meno inclini degli inglesi a prendere carta e biro per dare pubblico sfogo ai loro pensieri: la vera differenza è questa, che l’inglese, appena può, scrive al suo giornale, mentre l’italiano scrive un libro di poesie, o un romanzo o un saggio sul moto perpetuo. Da questo punto di vista, tuttavia, la situazione è in netto miglioramento. Lo si deduce dal crescente successo di talune rubriche di «posta dei lettori» pubblicate dai maggiori quotidiani italiani, tra cui, naturalmente, «Paese Sera». Bisognerebbe trovare il modo di incoraggiare la gente a scrivere di più, ma questo probabilmente non dipende da incentivi spiccioli, tipo assegnazione di buoni-punto, come per i dadi da brodo, bensì dall’instaurazione di un costume politico nazionale in cui l’opinione pubblica fosse tenuta in maggior conto. In pratica, cosa succede? La gente legge nei giornali critiche spaventose, per quanto documentate, a questo o quello statista, grande o piccolo; e vede che non succede mai assolutamente nulla; lo statista o staterellista, rimane al suo posto e il giornalista ci fa la figura di uno che passi il tempo a fare «blà blà blà». Allora si scoraggia e invece di scrivere al giornale scrive alla morosa. Nel volume Le confessioni di carta (editore Longanesi, pp. 426, lire 1.600) Clara Grifoni raccoglie un buon numero di lettere di lettori a un quotidiano e di sue risposte ai suddetti. Da un dialogo del genere esce una specie di «rapporto» sulle idee, sui pregiudizi, abitudini, «modelli culturali» della gente: rapporto che non è meno interessante per essere informale. Lettere e risposte sono raggruppate per problemi (cronaca quotidiana, genitori e figli, l’amore, il matrimonio, ecc.). L’aria che tira è contraddittoria: la signora Clara è brava e coraggiosa quando difende le donne, un po’ codina quando vengono in ballo le novità del secolo, i giovani, ecc. Allora però è spiritosa. L’umorismo è facilmente reazionario perché, esercitandosi contro le deviazioni della norma, rassicura chi ama attenersi ai proverbi dei vecchi. Controprova: assai raramente i rivoluzionari sono degli umoristi. All’attivo del libro qualche ottimo, anche se innocuo, aforisma: «Vi sono momenti della vita in cui tutto va a gonfie vele e si crepa di salute. Non è il caso di allarmarsi. Poi passa». Aneddoti 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scelti condiscono qua e là la pagina. Il più bello è quello di Gertrude Stein decisa ad accontentare un eremita morente che ha ancora due desideri: vedere una locomotiva e vedere una donna nuda. Lei gli si mostra nuda. L’eremita: «Muoio contento, finalmente ho visto una locomotiva». Non è nuovissimo (è roba di Parigi, degli anni Venti, ovvero anni Hemingway) ma si conserva bene. PSL 12 settembre 1969, p. I

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TUTTO CATONE Catone Censore, per la maggioranza delle persone che in gioventù hanno masticato un po’ di storia romana, è quello del «delenda Carthago», ovvero: «Cartagine bisogna farla fuori». Altri, un po’ più intimi della cultura latina, ricorderanno aneddoti meno banali. Una volta, parlando del signor Manilio, o Manlio (poi magari, a guardar bene, si chiamava Fufezio, ma un po’ di mistero non guasta mai), reo di aver baciato la moglie in presenza della figlia, e per giunta in pieno giorno, sbottò severamente: «Io non ho mai abbracciato mia moglie, eccetto quando scoppiavano tuoni molto rumorosi». Per fortuna della povera signora a Roma, in quei tempi, non tuonava meno spesso di oggi. Ma Catone ne diceva anche di più feroci. Si discuteva, in Senato, se rimandare in Grecia o no i mille ostaggi portati a Roma una quarantina d’anni prima. E lui: «Onorevoli colleghi, avete proprio del tempo da perdere se state in seduta una giornata intera per decidere se quattro vecchierelli dovranno essere seppelliti dai becchini romani o da quelli greci». Qualcuna gliel’avranno anche fatta dire gli storici, per colorire il ritratto di un castigamatti, di un rosso malpelo davanti al quale i vizi correvano a nascondersi, le nuove mode greche arrossivano di vergogna e le «virtù prische» rivigoreggiavano, come una pianta da salotto dopo una cura di aspirina. Un ritratto più sfumato e documentato del vecchio Catone è quello che ne ha fatto, anni fa, il professor Francesco Della Corte. Il libro (Francesco Della Corte, Catone Censore. La vita e la fortuna, editrice La Nuova Italia, Firenze, pp. 322, lire 2.600) si ristampa ora, ad uso dei patiti del classico, che gusteranno come 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una delizia la seconda parte, nella quale, incantevolmente dotta, fluisce la storia dell’immagine che gli antichi si erano fatta del Censore. La filologia può pur essere «la bella cosa», meglio delle caramelle col buco. La prima parte è invece il racconto, godibilissimo anche dai non addetti ai lavori, della vita di un self-made man dei secoli repubblicani, cascato a Roma dalla Sabina, pieno di solide qualità contadine e di cipiglio, capace di farsi strada come politico, oratore, scrittore, comandante militare, furbo come un mercante d’olio. Da giovane, per arrampicarsi, si attaccò come un mastino al potentissimo Scipione Africano (che riuscì a mandare in pensione, disperato). Da vecchio temperò il moralismo con il capitalismo agrario, lo sfruttamento delle fonti termali, il commercio degli schiavi, le tintorie, i soldi a strozzo. Tutto fa brodo, quando si vuol lasciare al figlio, oltre a un sacco di buoni consigli, un patrimonio consistente. Predicava bene, ma i conti li faceva anche meglio. Fuoco e fiamme contro gli aristocratici, ma i sindacati, a occhio e croce, non li avrebbe visti di buon occhio. PSL 19 settembre 1969, p. I

LA SIGNORA DEL TIBET È morta poco tempo fa – la radio e i giornali ce ne hanno informati – la signora Alexandra David-Neel, la sola donna europea che abbia passato quattordici anni nel Tibet e dintorni, buddista tra buddisti, monaca tra monaci, esploratrice fra nomadi, parigina tra mistici, eremita tra maghi e stregoni. Un tipetto, via. Parlava e scriveva tutti i dialetti tibetani. Quando aveva freddo, su quegli altipiani, sotto la tenda, riusciva a scaldarsi i piedi con la forza della mente. Più dei piedi non ce la faceva. Certi personaggi, da quelle parti, possono tuffarsi d’inverno in un fiume gelato, poi, se gli mettete addosso una coperta bagnata, l’asciugano col calore che fabbricano a piacere, senza uno straccio di motorino. Tutto vero, cose viste. Le siamo andate a rileggere (Alexandra DavidNeel, Mistici e maghi del Tibet, editori L’Astrolabio e Ubaldini, Roma, pp. 242. Il talloncino del prezzo è saltato via, perché l’edizione è del 1965. Quando lo troverete, vedrete che il prezzo ci sarà), dicevamo a rileggere, con vero interesse. C’è di tutto, in fat45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to di «super-poteri», dalle apparizioni allo sdoppiamento del corpo (ubiquità), dalla telepatia al razionalismo più limpido. Già, questo è strano. Pare che i tibetani non attribuiscano per niente un carattere sovrannaturale alle esperienze che compiono, ai miracoli che vedono accadere, ma li considerino frutto di abilità. A livello degli addetti ai lavori, questo è abbastanza comprensibile. È strano che anche il popolino dei pastori partecipi di questo atteggiamento. Ecco qua un monaco molto famoso che insegna al suo allievo a far comparire un demone. Ci vogliono mesi di esercizio perché il giovanotto riesca a vederlo, altri mesi perché riesca a toccarlo, e poi addirittura a farsi accompagnare fuori dalla sua grotta. E poi? E poi il maestro gli dice: hai visto? È tutta roba che esce dalla tua mente, quei demoni non esistono per nulla, e ora ti insegno come farli scomparire. Naturalmente ci vuole un bel po’ anche per disabituarsi dall’avere delle visioni. Che cosa resta alla fine? Consapevolezza, dominio su se stessi, il gusto di un’esperienza eccezionale e il sapore della sua vanità. In altre parole – per esempio con quelle della signora Alexandra – c’è gente, sul tetto del mondo, che circa il funzionamento della mente la sa lunga davvero, anche senza aver studiato psicologia all’università. Uno si aspetta dal libro un colorito viaggio nella superstizione, in un Medio Evo esotico (del quale, tuttavia, esistono tutte le apparenze, nelle grandi città monastiche), e si ritrova un contributo allo studio dei fenomeni psichici. Insomma, peccato non aver sottomano quel monaco che ordina a distanza a un suo accolito di andare a prendere un secchio di latte cagliato: insegnerebbe anche a noi a risparmiare scatti del telefono per ordinare la spesa nei negozi sotto casa. Si trovano, qua e là, consigli spiccioli di facile applicazione per cominciare l’allenamento spirituale. Un giovane va da un eremita per farsi istruire. «Qual è la vostra occupazione ordinaria?» – «Guardiano di yak» – «Meditate su un yak». Dopo qualche tempo (mesi) non poteva più uscire, quel giovane, dalla sua caverna: glielo impedivano... le corna di «yak» che si sentiva in testa. Ecco un sistema un po’ lungo, ma facile, per farsi crescere le corna: basta identificarsi col pensiero in un bue romagnolo. PSL 3 ottobre 1969, p. I

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«LIBRI RIVOLTANTI» Debbo spendere qualche parola in difesa dei «libri rivoltanti». Ma prima l’antefatto. Sulla rivista sovietica «Oktiabr» è comparsa la prima puntata di un romanzo scritto dal suo direttore, Vsevolod Kocˇetov, membro – purtroppo – del Comitato centrale del PCUS. «Purtroppo», perché si tratta di un noto stalinista, il cui nome non può essere pronunciato davanti a qualsiasi scrittore o pubblicista sovietico perbene (e sono la stragrande maggioranza) senza vederlo fare gli scongiuri. Uno per il quale la maggior disgrazia del secolo, più o meno, è stato il Ventesimo Congresso, famoso per aver liquidato il mito e il culto di Stalin. Avete mai sentito qualche vecchio bigotto dir male di Papa Giovanni? Bè, questo è Kocˇetov quando parla di quel Congresso. Avete presente qualche cardinale reazionario, per il quale il Concilio, più o meno, è stato voluto dal Diavolo? Bè, chiamatelo pure cardinal Kocˇelov e non vi sbagliate. Il nuovo, chiamiamolo così, «romanzo» del suddetto è ambientato in Italia, spara a zero contro i comunisti italiani, fa la caricatura di Vittorio Strada, studioso di letteratura russa e sovietica che ha il torto di essere un marxista, invece che uno stalinista, e così via. Per i comunisti ha già risposto Pajetta, prendendo per il cravattino Kocˇetov e dicendogli che tutti i suoi sforzi per rendere odiosa l’URSS sono destinati al fallimento. Strada ha risposto per quello che lo riguarda, raccontando, tra l’altro, di quando Kocetov fu ospite suo, a Torino e a Varigotti, nel periodo di gestazione del «romanzo» in oggetto: bel modo, tra parentesi, di ricambiare l’ospitalità e di sputare nel piatto su cui ti è stato offerto il pane e il sale. Amen, così sia. Dai Kocetov, più che una denuncia alla Questura non ti puoi aspettare. A noi interessano, come si diceva prima, i «libri rivoltanti». È Kocˇetov che usa questa espressione per descrivere lo studio di Strada, nella sua casa di Torino: «una cella rivoltante, piena zeppa di libri rivoltanti». Noi a casa di Strada non ci siamo mai stati. Di persona non lo conosciamo nemmeno. Ma quei «libri rivoltanti» ce li possiamo benissimo immaginare. Debbono essere tutti quelli ai quali Kocˇetov e altri come lui hanno impedito di vedere la luce nell’URSS, perché giudicati disadatti ai minori di no47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vantanove anni. O magari i libri di Trotski. O quelli dei «formalisti» russi: cioè del gruppo di scrittori, lasciatecelo dire, che ha sparato da solo tanta intelligenza, negli anni Venti, quanta non ne sparerebbero in duecento anni diecimila Kocˇetov messi uno sopra l’altro. Insomma, gli stessi libri che noi teniamo, in casa nostra, nello scaffale d’onore. Magari le riproduzioni delle opere di Malevicˇ e di El Lissitski, di Chagall, eccetera, autentica gloria della pittura russa e sovietica, che i Kocˇetov tengono nelle cantine dei musei perché così aveva deciso Stalin, e ancora non è stato dato il contrordine. Sono i «libri rivoltanti» di cui vanno disperatamente in cerca migliaia di giovani intellettuali sovietici che credono nel socialismo di Lenin, non in quello di Kocetov, e hanno ragione. Chiunque sia stato una sola volta in Russia sa che amerà per sempre quello straordinario paese e il suo popolo straordinario; sa che lo spirito della Rivoluzione garantisce all’URSS, al di là di ogni dubbio, un grande avvenire; e sa anche che i Kocˇetov non riusciranno a far girare il Volga all’indietro. PSL 10 ottobre 1969, p. I

LA VIRGOLA PAUSATIVA Chiunque può aspirare con successo ad avere una «doppia vita», non è necessario per questo rubare al dottor Jekyll il segreto della famosa pozione; ovvero, essendo notaio, acquistare un corredo di grimaldelli e darsi nottetempo al furto con scasso; combinare il decoro di un’onorata professione con la frequentazione (mi spiace, è brutta la rima in «one», ma non ho tempo ora di studiarne, pardon, l’eliminazione) di case ospitanti balletti rosa, verdi, ultravioletti. Basta, per fare un solo esempio, servire lo Stato la mattina in un ministero e il cinematografo in qualità di maschera. La parola cinema ci trasporta negli immediati dintorni di Leo Pastelli, critico cinematografico di un quotidiano torinese e uomo, per l’appunto, di doppia vita. In pubblico, per giunta. Come uno che avesse due mogli e due scaldabagni, a due diversi pianerottoli dello stesso condominio. Coram populo. Il Nostro tiene un piede nella scarpa del Porcile e del Satyricon; l’altra in quella di Basilio Puoti. Alle prime ombre della sera egli si ritira nelle sue 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stanze più tranquille, foderate di dizionari lessicali, grammaticali, ideologici, etimologici, fra ritratti di Paolo Segneri, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Picci, e si abbandona ai piaceri della lingua italiana, alle gioie della purità, proprietà, convenienza, alle ebbrezze della metafora e della concordanza. Di quando in quando, si sussurra, egli posa la penna e lancia a se stesso ed alle pareti che maternamente lo proteggono dai barbarismi, grida di incitamento e di plauso: «E sempre evviva la virgola pausativa! Esempio: il gallo virgola canta». «Bella cosa a vedere è l’infinito attivo preso in forza di passivo». «Lunga vita a Machiavelli, principe dell’anacoluto». Eccetera. Frutto di tali entusiasmi sono, a tempo e luogo, una rubrica giornalistica di bello scrivere e non poche opere e operette (Parlare italiano. Dizionario delle parole antiche. Racconto grammaticale) deliziose per quel che dicono e più ancora per come lo dicono, cioè con una sorta di umorismo nero circolante tra le pagine a far le boccacce al purista, satira e autosatira, ironia e autoironia di predicatore addetto a prediche inutili. Si veda (e qualcuno legga pure, mentalmente, «vedasi») il recentissimo Trattatello di rettorica. Contro l’anarchismo e la tecnocrazia trasportati nella lingua (editore Longanesi, Milano, pp. 208, lire 1.200). Lo si veda, dico, perché essendomi perso in divagazioni e preliminari non ho più spazio per parlarne. Se affermo che è più divertente di un romanzo, mi si crederà sulla parola? Se sostengo che la perentoria, quasi tracotante difesa del periodo che fa da perno a questo revival di un anacronismo arrabbiato, dunque simpaticissimo, sfiora la poesia, sarò a mia volta tenuto per matto? Si accetti almeno una profezia: l’«intermezzo primo» (La moglie delle macchie, ovvero «Un bel tacer non fu mai scritto») figurerà nelle future antologie tra i più bei racconti del decennio. PSL 17 ottobre 1969, p. I

UOMINI E DENARO «È comunissimo in Italia tenere più bilanci – disse un funzionario del Banco Ambrosiano, una delle banche non statali –. È un dato di fatto che quasi tutte le società, grandi o piccole che siano, 49 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne hanno due. Quando una banca fa credito a un cliente, non chiede mai di vedere il bilancio ufficiale. Si chiama al telefono l’amministratore delegato e si chiedono le cifre reali. L’ispettore del fisco non vedrà il bilancio vero. Si ha allora una specie di mercato. Lui dice ‘cento’ per averne cinquanta. Si risponde ‘dieci’ per pagare venti. Lui sa che si sta mentendo, e sa che lui lo sa». Questo ed altri gustosi quadretti sugli usi e costumi della finanza italiana si leggono nel quarto capitolo di Uomini e denaro, di Paul Ferris (sottotitolo: L’Europa finanziaria di oggi, editore Garzanti, Milano, pp. 314, lire 2.800, un po’ caro, ma dentro si parla tanto di milioni e di miliardi che il prezzo finisce per sembrare una miseria). L’autore sembra molto colpito dall’amore degli italiani per la riservatezza in questioni di denaro. Gli spiegano che dipende dalla paura del fisco. Se dici venti ti tassano per cento. Se vuoi essere tassato per venti, devi dire cinque. «Ho chiesto se si fosse verificato prima l’eccessivo carico fiscale da parte dello Stato o prima il pagamento inferiore al giusto da parte dei cittadini, ma il legale mi rispose che il problema era simile a quello dell’uovo e della gallina». Bene, qui secondo me l’asino casca. Al signor Ferris che del resto è tanto bravo, qualcuno doveva spiegare prima di tutto che in Italia c’è anche chi le bugie, al fisco, non le può dire. Gli piange il cuore di non potersi comportare come un grosso finanziere o una colonna della Confindustria, ma non ce la fa. Perché la «colonna» gli conta balle, al fisco, se si tratta di soldini suoi; ma i redditi dei suoi dipendenti li denuncia fino all’ultimo centesimo. Tiene il bilancio doppio, se sul libro mastro c’è scritto il suo riverito nome e cognome; ma per le buste paga, su cui ci sono scritti nomi e cognomi meno riveriti, niente doppia striscia, una per l’interessato e una per il fisco. Secondo, il signor Ferris dimentica che lo Stato italiano è ancora, in gran parte, quello che finanzieri e capitalisti si sono costruiti a loro immagine e somiglianza. È un uovo che hanno fatto loro, le brave gallinelle. Certo, a domandarglielo non lo dicono. Forse se ne sono dimenticati, in buona fede. Io, quell’uovo lì? Mai visto né conosciuto. Chi l’avrà fatto? Boh, Cavour, Garibaldi, l’onorevole Colombo. Insomma, c’è il segreto bancario anche sulla storia e sulle sue uova. Il libro è interessante. Si può leggere in società, favorisce la 50 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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conversazione. A tutti piace parlare di soldi, soprattutto a quelli che non ne hanno. È quasi come parlare di donne. PSL 1º novembre 1969, p. I

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LA CANTINA O LA BASTIGLIA? Per giudicare Mario Soldati scrittore ci vuole, inutile dirlo, un critico letterario con le carte in regola, in ogni caso meno avventurose di quelle di Benelux. Per giudicare Mario Soldati esperto di vini ci vorrebbe un esperto di vini al quadrato, non un semplice bevitore e innamorato del vino quale io umilmente mi professo. Non sono dunque autorizzato a parlare del nuovo libro di Mario Soldati Vino al vino (sottotitolo Alla ricerca dei vini genuini, editore Mondadori, pp. 204, lire 3.500, caruccio, ma ci sono anche cinquantun fotografie a colori di Soldati figlio, Wolfango, un elenco dei vini descritti, un indice generale dei nomi e una cartolina per ordinare cassette da dodici bottiglie all’Istituto Enologico Italiano). Perciò non parlerò del libro, ma di me come lettore del libro; di quel che mi succede tra la prima pagina e l’ultima. Comincio a leggere, saltando la «Dedica» (mi dispiace, post factum, ma in effetti l’ho saltata, non so cosa farci), da pagina diciannove. Di qui salto ulteriormente a pagina ventitré, dove comincia il viaggio vero e proprio, tra i vini dell’Etna. Poi non salto altre pagine, perché, se Dio vuole, i preliminari sono finiti. Da questo punto alla fine del viaggio, in Val d’Aosta, dove l’uva matura di notte, tra le rocce che conservano il calore del sole, il libro diventa una autentica tortura cinese. È un libro che mette sete. Di vino, naturalmente. Ma nello stesso tempo in cui desta in corpo una voglia irresistibile di piantar lì tutto e correre da Palermo a Siena, da Caserta a Sondrio, da Verona a Vercelli, per bere buono; nell’istante preciso in cui la convinzione che solo a Montepulciano potrai trovare la pace del cuore si erge a terribile e possente dominator di (tua) profonda mente, eccoti il Mario che si mette a parlare di duchi e di principi, di baroni e di contesse, e ti stende al suolo dimostrandoti che per placare la sete in modo degno occorre per prima cosa essere introdotti nell’Almanacco di Gotha, che difatti lui si è portato nella valigia, insieme al Trattato di Pier Giovanni Garoglio, auto51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rità mondiale nel campo dell’enologia: il Virgilio, insomma, del nostro Dante sommelier, non privo di baffi. Bè, un Soldati snob non ce l’aspettavamo. Così brillante, fascinoso (al mio paese direbbero che «incanta la balena») e così perduto in ammirazione dei gentiluomini di campagna che gli dicono male d’ogni altro vino all’infuori del loro... Insomma corro a bere o a occupare la Bastiglia? Prendo la sbronza o faccio la Rivoluzione Francese, che dopotutto in Italia non è stata ancora fatta? Che cosa vuole da me, esattamente, Mario Soldati? Lo so, cosa vuole: vuole dimostrarmi che un giocoliere come lui, nella libreria e nell’enologia italiana, non s’era visto ancora. Lancia in aria bottiglie e periodi a sette a sette, e io sto lì a guardarlo a bocca aperta, e per fortuna la meraviglia mi fa passare la sete. Chiudo il libro e sento, giuro che sento nell’aria un profumo – di Etna Bianco e Rosso, di Sassella, di aggettivi, di Gragnano, di verbi, di Carema, di virgole, di petits vins, di grands vins, di nomi comuni e propri, nobili e plebei – che mi fa sognare a narici aperte. PSL 14 novembre 1969, p. I

IL FUOCO E L’ACQUA Il mondo sulle scatole dei fiammiferi di H.G. Detters (editore Ruggero Aprile, Torino, pp. 150, lire 3.500, ma tenete conto che sono tutte pagine a colori, e poi non ve l’ha detto il dottore di comprarlo) è una guida ideologica e pratica della Fillumenia. Non sapete che cos’è? Non lo sapevo nemmeno io, prima di leggerlo nel libro; «fillumenia» vuol dire per l’appunto «collezione di fiammiferi». Il libro fa anche un po’ di storia dei fiammiferi medesimi, da Prometeo Ivar Kreuger, l’imperatore degli svedesi (si parla, ovviamente, di svedesi in scatola), che fu trovato morto nel 1932 in un albergo di Parigi, e ancora non si sa se fu suicidio da bancarotta o delitto da sicario. E poi, se si vuole, è un libro-museo, perché riproduce centinaia di famose etichette, comprese quelle licenziosette stampate in Francia o a Tokyo e quelle istruttive stampate nelle due Germanie dove, dai tempi del barone Liebig, non si concepisce carta se non coperta di utili nozioni e civili ammonimenti: «Piantate pioppi!», «Ce l’hai, il catarifrangente?», e simili. 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’Italia figura benissimo. Nel secolo scorso ci furono serie di scatole che riportavano tutto l’Orlando Furioso, tutta la Gerusalemme Liberata, tutto il Don Chisciotte. O tutto o niente! Che tempi, quelli della breccia di Porta Pia. Il collezionista troverà nel libro consigli pratici, indirizzi di associazioni internazionali e di bollettini informativi, esempi di tenacia e di fillumenica virtù, aneddoti edificanti, parodie della Traviata e perfino modelli di una specie di ikebana fatto, invece che con i fiori, con le scatole dei fiammiferi di diverse dimensioni. Da tutti questi materiali infiammabili ed incendiari tenete lontani, prego, i bambini. Mi dispiace di non aver trovato nel libro una nomenclatura completa dei tipi di fiammiferi e di scatole che si producono in Italia. Lo fornisco ai curiosi, recuperandolo da un ritaglio che mi trovo tra le mani, e non so più né perché l’ho ritagliato né da quale messaggio stampato: dunque c’è il Minerva, il Minerva gigante, il Minerva due ventotto, il cerino, lo svedese contro vento, il caminetto, il familiare, il bossolo paraffinato, il bossolo argento, il bossolo oro, lo strappo da cento, lo strappo da trecento. Che cosa sarà mai lo «strappo da trecento»? L’ho chiesto a un tabaccaio ma non lo sapeva. Non lo chiederò a un secondo tabaccaio: posso benissimo vivere continuando a ignorarlo. PSL 21 novembre 1969, p. I

LA FAMIGLIA PARKINSON Anni fa uno studioso di problemi economici ed organizzativi ebbe l’idea di descrivere l’universo della burocrazia e le sue leggi in chiave satirica. Il libro si intitolava La legge di Parkinson, ebbe successo nei ministeri di mezzo mondo, viene tuttora compulsato e citato quando occorre una formula paradossale per scherzare su uno dei tanti assurdi di cui sono produttori gli uffici pubblici e privati. Secondo me non valeva I misteri dei Ministeri del nostro Frassineti, ma essendo firmato con un nome anglosassone, si sa, partiva in vantaggio. Sciocchino il Frassineti a non capirlo. Perché non prende esempio dai nostri cantanti? Loro lo sanno che chiamarsi Johnny 53 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rende più che chiamarsi Giovanni, e Don Backy fa appeal mille volte di più che Vincenzo Scognamiglio. L’autore finora non citato, e che adesso citiamo, Charles Northcote Parkinson, incoraggiato dal successo, ha ripetuto l’impresa, con La legge della signora Parkinson (editore Bompiani, Milano, pp. 233, lire 1.800) che dovrebbe essere la descrizione scientifico-umoristica del mondo familiare, e magari lo è, perché parla di matrimonio, di cucina, di ospiti, di figli e di nipoti, però: 1) sulla fenomenologia della famiglia anglosassone non dice nemmeno il venti per cento di quel che riesce a dire il fumetto di Blondie e Dagwood; 2) come umorismo, non è nemmeno al livello del vecchio Jerome K. Jerome; 3) a un lettore italiano risulta zeppo di pseudo-problemi, senza il minimo riferimento con la realtà. Insomma non è divertente. Chi sa perché uno che ha scritto un libro divertente crede di poterne scrivere un secondo. Uno scrittore di buon gusto non sfrutta due volte una trovata. Dante Alighieri, dopo il successo della Commedia, era certamente assediato dalle belle signore stupite che gli telefonavano (si fa per dire) e lo esortavano: – Perché non scrivi il seguito? Ma lui, il seguito, non lo scrisse. Collodi fece un solo Pinocchio. Era ben riuscito, ma non ne fece un altro. Toccava agli epigoni scrivere la storia di Pinocchio in dirigibile. Pinocchio palombaro. Pinocchio in monopattino, eccetera, e difatti i seguiti di Pinocchio non si contano, ma sono tutti brutti. I cinematografari si buttano a copiare, ripetere e moltiplicare i titoli di successo. Da Pane amore e fantasia vennero fuori, come ognun ricorda, Pane amore e gelosia, Pane amore e malvasia, Pane amore e mamma mia, eccetera. Essi si giustificano citando Kant, che dopo aver scritto la Critica della ragion pura, scrisse anche la Critica della ragion pratica, lasciando in eredità a Sartre l’idea della Critica della ragion dialettica e a Umberto Eco (che però non ne ha ancora approfittato) quella della Critica della ragione semiologica. L’obiezione ha il suo peso sofistico, ma noi restiamo del nostro parere; e se vedremo in libreria, nei prossimi anni, La legge di Parkinson Junior, e La legge del cognato del signor Parkinson, tireremo diritto verso l’edicola dove ci aspetta Charlie Brown. PSL 28 novembre 1969, p. I

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SESSO CATTOLICO Quando uno legge, nell’introduzione di un libro sull’educazione sessuale, che «noi europei siamo più adatti a capire l’amore» e si trova, più avanti, l’elogio dell’enciclica sulla «pillola», avrebbe anche il diritto di chiuderlo e dimenticarlo, come si dimenticano tanti «bla bla bla» scritti e orali, confessionali e laici, italiani e prussiani. Ma noi siamo pazienti, prudenti e, toh, dove ci sono due rime ci sta bene anche la terza, indulgenti. Il libro in oggetto (Giorgio Rifelli, L’educazione sessuale nella scuola, Edizioni Dehoniane, Bologna, pp. 159, lire 1.000) fa appello alla nostra indulgenza se non altro perché si tratta della semplice rielaborazione di una tesi di laurea (ma diciamo pure una tesina, «sbigottita e deboletta»), e perché vi corre, timido e continuamente contraddetto dallo scrupolo dell’ortodossia, un certo desiderio di «dialogo», una tal quale volontà di rispettare le posizioni degli altri. Rimane, tuttavia, il libro delle cento paure: la paura che l’educazione sessuale non si confonda abbastanza con l’educazione alla castità prima del matrimonio; la paura che i laici non perdonino la secolare sessuofobia della Chiesa; la paura che gli eventuali programmi italiani si accostino troppo ai programmi già in atto in paesi più progrediti del nostro, eccetera. Così si sprecano i consigli di prudenza: per carità, facciamo pian pianino, prepariamo prima bene gli insegnanti specializzati, prendiamo tempo, facciamo largo al sessuologo, ma cum juicio, purché sia un sessuologo familiarizzato con i concetti cattolici di «persona», di «oblatività» e compagnia bella. A che vale, allora, rievocare, con la dovuta ammirazione, i parlamentari italiani (laici) che fin dal 1910 proponevano corsi di «igiene sessuale» nelle scuole, dalle elementari in su, se si conclude che adesso, oggi, qui, sessant’anni dopo, bisogna soprattutto... aspettare un altro pochetto? Finiremo per introdurre l’educazione sessuale nelle nostre scuole quando i fumetti pornografici saranno già arrivati nelle mani dei bambini dell’asilo, e ci arriveremo con una legge già vecchia rispetto ai mutati costumi. Conclude l’opera un catalogo di «pubblicazioni cattoliche di educazione sessuale», otto pagine fitte di titoli, per educatori, per giovani, per fidanzati e sposi; un’autentica valanga di sessuologia 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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con l’imprimatur, un «boom» del sesso cattolico, roba da far venire le orecchie rosse a sant’Alfonso Maria de’ Liguori che sui peccati le sapeva tutte, più una. Tale «corsa al sesso» dell’editoria parrocchiale, visto come vanno le cose, appare abbastanza patetica: è un po’ come se Benelux si mettesse in testa di battere Eddy Merckx in una gara a inseguimento in bicicletta. PSL 5 dicembre 1969, p. I

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IL RADESCONE Da una rubrica radiofonica, trasmessa lassù lassù col Gazzettino Padano, che dovrebbe essere il Campo dei Fiori di Piazza del Duomo, nasce questa Guida ai detti milanesi. Loro origine e significati di Silvio Menicanti e Attilio Spiller (editore Sugar, Milano, pp. 210, lire 2.500) che, dato il suo carattere divulgativo, la leggerezza del tratto e la prudentissima dosatura dei veleni scientifico-filologico-glottologici, può pure servire da introduzione ai misteri e ai piaceri del dialetto di Meneghino, di Carlo Porta e di Alessandro Manzoni: don Lisander, per i paesani. Uno che si dà arie da primo della classe? «El se sogna de vass vestì d’angiol», cioè sogna d’essere vestito da angelo; proprio perché i più bravi, una volta, andavano in processione in quel costume e spargevano petali di fiori dagli appositi cestelli. Uno scavezzacollo ve le tira fuori dalle mani? Avete voglia di «dagh ed macinato», di dargli il macinato: cioè una dose delle botte che volarono a destra e a manca ai tempi della tassa sul macinato. Volete mandar uno a quel paese, senza troppo infierire? Lanciategli un bel «tàacchet al tram», ossia attaccati al tram. E potete anche aggiungere, benché Menicanti e Spiller se ne siano stranamente dimenticati: «E poeu dì che te curret», e poi dimmi che corri. Da ultimo il «radescòn», «Varda che ciami el radescòn», si dice (o si diceva, fino a qualche anno fa) al ragazzino che non si voleva lasciar tagliare i capelli: «Guarda che chiamo il Radescone». E questo Radescone era per l’appunto un tosacani che assomigliava al maresciallo Radetski, anzi, qualcuno lo diceva suo figlio. Si sarà capito che il libro non considera il mondo dei prover56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bi, ma solo quello di certi modi che sono «lessico familiare» dei milanesi, anzi, dei milanesi vecchi, perché i giovani parlano ormai un dialetto italo-celtico-televisivo che farebbe aggricciare le viscere («viscida i busecch...») anche all’ingegner Carlo Emilio Gadda. Tali modi assai meglio dei proverbi – che passano senza sbagliarsi mai da un dialetto all’altro, da una lingua all’altra – esprimono lo spirito segreto di una parlata, sono la spia di certe particolari circonvoluzioni del cervello dialettale; sono cellule di creatività semantica. Peccato, insomma, che le duecentodieci pagine, stampate larghe larghe, con tanti margini, finiscano presto; come se gli autori avessero temuto di spaventare il pubblico con un eccesso di buon peso; o avessero calcolato di stuzzicargli, più in là, un piatto più sostanzioso. In questo caso prendono nota che «malconcio» non si dice solo, per contrario, «consciàa polito», ma anche «consciàa come el Belgio» (riferimento, ovviamente, al 1914). E che quando si invita uno a girare al largo dicendogli «gira l’Olanda», si può aggiungere, «che l’Italia l’è granda». (Proto romanesco: scrivi «granda», con la «a» come «anvedi questi...»). PSL 23 dicembre 1969, p. I

NELLA SCIA DEL «BOUNTY» L’ammutinamento del Bounty, di Frank Lloyd, prodotto nel ’35, fece in tempo ad arrivare sugli schermi italiani prima che la guerra tagliasse i ponti tra l’America e l’Europa. Chi non ha visto allora quel film in un piccolo centro di provincia, dove nessuno avesse mai letto né Conrad né Stevenson, né mai udito parlare del capitano Cook, dove insomma il mito dei «mari del Sud» e delle loro isole incantate piombasse senza preavviso, come un’eredità inaspettata, non può avere un’idea di quel che accadde. Per i «vitelloni» dell’epoca, tanto più innocenti di quelli di oggi da non sospettare nemmeno, fuori di certi confini dialettali, di meritarsi quell’appellativo reso famoso, ahiloro, troppo tardi, da Federico Fellini, la scoperta di Tahiti avvenne al seguito del tenente William Bligh e della sua ciurma turbolenta e avventurosa, anzi, più della ciurma che del comandante, odiatissimo da tutte le platee e fatto a pezzettini da chiacchiere furibonde intorno ai tavoli del ra57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mino e ai bigliardi dell’Italia padana e appenninica (per le isole non posso testimoniare, per giustificati motivi, ho il certificato medico). Allora avvenne la sostituzione – che per l’Europa era già vecchia di quasi un secolo – del paradiso medio-orientale con quello oceanico come luogo deputato di tutte le fantasticherie erotico-eroiche e patria di tutte le fughe sedentarie. Le Veneri seminude di Rarotonga, di Tongatapu, di Aitutaki, insomma, di quelle acque esotiche tra le isole Marchesi, la Samoa e le Figij spodestarono, da Busto Arsizio a Pescara e oltre, le Salomè di Algeri e di Beiruth (?). Era finalmente il crepuscolo, se non ancora degli dei, delle Mille e Una Notte. Nella scia della nave maledetta, a notevole distanza dal suo ultimo viaggio, cominciato nel Settecento Ottantasette, alla vigilia della Rivoluzione Francese, si agitavano ancora avvenimenti degni dell’osservazione del sociologo e dell’antropologo, in quegli «anni difficili» tra la presa di Addis Abeba e la fuga di Vittorio Emanuele a Brindisi. Di tutto ciò, ovviamente, non andremo a cercare traccia nel volume testé edito da Longanesi, William Bligh e altri, Il viaggio e l’ammutinamento del Bounty, a cura di F. Marenco (pp. 440, lire 4.500), che raccoglie i documenti e le testimonianze essenziali intorno al celeberrimo dramma del mare, cioè il resoconto del comandante, i verbali del processo contro gli ammutinati, eccetera, e che traccia insieme una rapida storia delle «fortune» letterarie e mitiche della ribellione, delle tesi che presero di volta in volta il sopravvento, ora riabilitando il Bligh dalle accuse di ferocia, ora assolvendo la ciurma da ogni reato per attribuirle intenzioni romantiche (la ricerca, appunto, del paradiso terrestre). Troppo rapida, a dire il vero, questa seconda storia. Un po’ troppo a tirar via, per dare la parola ai fatti, che poi sono parole anche loro, parole scritte in carta da bollo. È chiaro che ci volevano due volumi. Uno sul caso propriamente detto, uno sulla secolare fama del caso. E poi anche un terzo, con una bella inchiesta sul Bounty e gli italiani di prima del Quaranta, e quelli di adesso. E poi un quarto ... Ma basta dar tempo al tempo. Si scriverà ancora di sicuro, su quella vecchia barca, nel prossimo millennio. Se ne parlerà fin quando la parola «ammutinamento» conserverà un briciolo di significato e fin quando la gente non si stancherà di cercare in un qualsiasi «altrove» l’Eden perduto. PSL 23 gennaio 1970, p. I

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LA CINA, LA LUNA «La dea aspirò una boccata d’aria fresca e rovesciò indietro il capo per guardare il cielo. C’era un’enorme crepa. Allora si alzò e con le dita batté leggermente contro la volta celeste che emise un suono sordo, simile a quello di una ciotola incrinata... Riparare la volta celeste, era questa la prima cosa da fare. Giorno e notte, senza concedersi un istante di riposo, accatastò le canne... Quando la catasta raggiunse la crepa, andò in cerca di pietre turchine. Voleva usare pietre dello stesso colore del cielo, ma non ce n’erano molte; scartate le montagne, andò in cerca di frammenti di roccia in regioni brulicanti di vita...». Non è Luciano, naturalmente. Forse Italo Calvino, in una «cosmicomica» inedita? E invece è Lu Hsun, cinese, 1881-1936, il maggior narratore – come assicurano quelli che conoscono tutti – della Cina moderna. Riparazione della volta celeste è una specie di «mitocomica», una rielaborazione di vecchie leggende, a metà fra l’ironia e il divertimento linguistico. Ce ne sono altre sette (Fuga sulla luna, Il diluvio, La raccolta della veccia, Le spade, La traversata del passo, Contro l’aggressione, Resurrezione) in coda al volume Fuga sulla luna (editore De Donato, Bari, pp. 488, lire 4.000) che contiene anche – anzi, consta principalmente di – due sillogi di racconti, «Alle armi» e «Errare incerto»; racconti che possono ricordare Cˇechov e Gorki, o tutt’e due insieme, un Cˇechov, con un po’ della passione rivoluzionaria di Gorki, un Gorki con un po’ della divina finezza (la citazione d’obbligo sarebbe in francese, esprit de finesse) di Cˇechov. Compaiono, in questi bellissimi racconti, persone luoghi e atmosfere di una Cina sospesa nel doloroso interregno tra Celeste Impero e Rivoluzione, fra tradizioni in rovina e lotta di classe. Racconti, qualche volta poemetti. Uno di questi – La vera storia di Ah Q – è già un classico della satira moderna. Ce lo ricordiamo in un’edizione inglese di «Chinese Literature» di qualche anno fa. Chissà se la «rivoluzione culturale» lo ha rispettato o ci ha visto lo zampino retrospettivo di Liu Chao Chi. Ma la vera sorpresa sono per noi, scusateci tanto se siamo un po’ incoscienti, le «mitocomiche» delle ultime centotrenta pagine. Sono allegre, sottili, malinconiche, sfrenate, pasticcione, irri59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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verenti, gentili. Sono cinesi ma sono anche greche e francesi. Mentre ne parliamo ci viene, irresistibile, la voglia di rileggerle. Perciò arrivederci, scappiamo a casa. PSL 6 febbraio 1970, p. II

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VITA COL FALCO Libro raro, per palati difficili, questo (Il falco pellegrino, di J.A. Baker, editore Mondadori, Milano, pp. 225, lire 2.300), di un inglese ora quarantenne che ha passato anni, e infine un intero inverno, giorno per giorno, a osservare con amore e furore, nonché un binocolo e una bicicletta per corrergli dietro, un selvaggio uccello in via di estinzione, rapace e inavvicinabile, gran cacciatore fra cielo e terra. Le pagine sono per l’appunto il diario dell’inseguimento senza fine, di una passione che inventa il suo oggetto, di una caccia senza altra preda che i mutamenti infinitesimali dell’anima e della parola, gli spettacoli desolati e grandiosi di un’Inghilterra piatta e senza colore in riva a un mare grigio e senza vita; la storia, leopardianamente razionale e dolorosamente lucida, di un «pensiero dominante». Risultato involontario e non calcolato, è un «poema dell’uomo e della natura» (la definizione è di un letteratissimo che per una volta si è lasciato andare) pensabile soltanto, e non sia detto per rilasciare diplomi agli inglesi, in un paese in cui chi scrive sulla propria bandiera l’amore per la natura e per gli animali non rischia di essere preso garbatamente o sgarbatamente in giro, come nella nostra stracittadina provincia. Però è un fatto: da noi gli animali, bipedi o quadrupedi, volatili o terrestri, interessano solo quando il loro nome compare nel «menu», con adeguato contorno. Portiamo dunque le scolaresche, come in Germania e in Russia, d’inverno, a disporre casette per gli uccelli sugli alberi? Costituiamo associazioni di migliaia di... cacciatori col teleobiettivo, che passano il tempo libero a fotografare da lontano gli animali in libertà, per non disturbarli, come in America? Battiamoci il petto, mangiatori di usignoli e affini, strangolatori di gatti, campioni della tassa sui cani. E leggiamo, a nostra edificazione, anche Animali estinti e in via di estinzione, di Vincenz Ziswiler (Oscar Mondadori, pp. 200 e 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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100 illustrazioni, lire 800), nel quale è illustrato il terrificante risvolto dell’incremento demografico, del progresso tecnologico, dell’espansione geografica della nostra specie, e cioè la strage per sterminio diretto o indiretto, per distruzione di boschi, per inquinamento atmosferico, per irradiazione radioattiva, per densità di traffico stradale, per irrorazione di antiparassitari, di centinaia di specie di uccelli e mammiferi: duecento annientate negli ultimi trecento anni, altre tenute presenti all’anagrafe per virtù di pochi esemplari sopravviventi nei giardini zoologici, in isole lontane dove resiste ancora, precariamente, l’equilibrio naturale. Il libro è un lungo racconto di agonie e di orrori. Contiene anche una serie di idee e proposte, che sono poi quelle del Fondo Mondiale per la Natura. Fa voglia di coccolare un gatto, cambiar l’acqua a un canarino, passare un pomeriggio a far compagnia al dromedario o magari buttarsi per l’Agro a cercare un falco pellegrino da adottare, come ha fatto il signor Baker (dieci anni e duecentoventicinque pagine per arrivare a fargli una carezza). PSL 13 febbraio 1970, p. I

L’ACHILLE DEL CAUCASO Nelle pieghe del Caucaso, pressappoco ai tempi in cui le aquile di quei paraggi si sfamavano beccando il fegato a Prometeo, viveva un popolo di eroi e semidei, coraggiosi e burloni, goderecci e spacconi, accuratamente ignorato dagli dei ed eroi dell’Occidente greco-romano, del Nord germanico, del Sud-est indiano. I Narti – questo il loro nome, nuovo per queste piazze – hanno lasciato per secoli traccia delle loro gesta unicamente nei racconti orali degli Osseti; ultimamente, nelle raccolte degli antropologi sovietici. La loro saga sbarca tra noi con Il libro degli eroi, a cura di Georges Dumézil (edizione Adelphi, Milano, pp. 271, lire 3.000). Meno illustre di quella degli Argonauti, meno tetra di quella dei Nibelunghi, appena appena legata alla storia dall’esile filo che identifica gli Osseti con i resti degli Sciti e dei Sarmati di cui discorrono Erodoto e gli altri scrittori antichi di cose storico-geografiche, questa saga ha sulle altre il vantaggio di una freschezza barbara, non guastata da rifacimenti letterari. Non è più mito e 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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24-01-2007

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Pagina 62

non è ancora fiaba. È un po’ come avere davanti, genuini e informi, i materiali leggendari da cui un bonus Homerus avrebbe potuto ricavare uno o più poemi, come quello greco ha fatto con l’Iliade e l’Odissea: non c’è stato l’Omero degli Sciti, ed è poco probabile che gli Osseti abbiano il tempo e la voglia di partorirne uno, ormai, sicché i materiali rimarranno per sempre tali, pietre allo stato di natura che non faranno mai muro, marmi che non faranno mai statua. Un curatore appassionato (Dumézil è un po’, si direbbe, il profeta dei Narti) e una buona traduzione garantiscono la godibilità del volume, che può essere giulebbato come un libro di fiabe robuste e crude, mai filtrate dal gusto cortigiano di un Perrault, né svirilizzate dall’accademia femminile del «Cabinet des Fées», né ridotte agli angusti parametri delle co-produzioni per l’infanzia. Gli eroi vi appaiono nello loro dimensioni vichiane, gagliardi bestioni dediti alla pastorizia, alla rapina, all’adulterio, immersi in una natura ancora capace di vorticose metamorfosi. Batradz, per esempio, nasce con il corpo d’acciaio. All’età giusta se lo fanno temprare dal fabbro celeste, che lo tiene svariati mesi nel forno della sua fucina e quando è caldo al punto giusto lo getta in mare. Le onde cominciano a bollire e svaporare. Tutto il corpo di Batradz è ora d’acciaio ben temprato, salvo un budellino, che non fa in tempo a temprarsi perché il mare asciuga troppo in fretta. Egli morirà un giorno per colpa di quel budellino, come Achille per colpa del suo tallone. Ma noi conosciamo Achille nella misura umana che gli ha dato il suo cantore, arcaico ma non troppo. Batradz è un Achille più rustico e violento, tagliato in una roccia più profonda. E così è uno dei suoi soci e sodali e dei suoi amici, tutta una banda selvaggia refrattaria alla malinconia e alla sublimazione dell’esametro. PSL 6 marzo 1970, p. I

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Autori e testi

Ristampati i «Quattro libri di lettura» Documento acquistato da () il 2024/02/19.

TOLSTOJ MAESTRO ELEMENTARE Qualche settimana fa, alla televisione, ci fu un dibattito sui libri di scuola, e uno dei protagonisti, quello che rappresentava i maestri elementari, tra le tante cose sensate che disse, ricordò che i bambini non sono insensibili al fascino delle grandi pagine, «per esempio» citò «di un Tolstoj». Chissà che l’editore non abbia pensato anche lui alla riapertura delle scuole, dandoci proprio in ottobre, migliorata e resa più elegante, sebbene un tantino meno «economica», la seconda edizione di quei Quattro libri di lettura a cui lo stesso Tolstoj, in vecchiaia, confessò di tenere moltissimo; e chissà che qualche biblioteca scolastica o popolare non decida di sacrificare un po’ dei suoi magri fondi al prezioso acquisto. Pochi volumi lo meriterebbero nella stessa misura. Si tratta, come oseremo ricordare solo ad uso degli amministratori che eventualmente si opponessero all’acquisto, di un’opera singolare e, nel suo genere, altissima. Leone Tolstoj vi raccolse favole, storie vere, descrizioni, racconti, soggetti di conversazione, attingendo liberamente a Esopo, a La Fontaine, al folklore russo, a quello arabo, ai suoi ricordi d’infanzia, alle sue impressioni di viaggio, alla sua esperienza di vita, e dedicando esplicitamente il suo lavoro «a tutti i fanciulli, da quelli della famiglia imperiale a quelli dei contadini, perché ne traggano le loro prime impressioni poetiche». Ma la mano è la stessa che aveva già scritto l’immenso poema di Guerra e pace e nella sua versione Esopo diventa Omero, 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quell’Omero che Tolstoj leggeva nel testo originale, dopo aver imparato il greco a quaranta anni suonati. Si respira ad ogni pagina una semplicità epica, anche nei racconti che in seguito passarono al repertorio del Tolstoj più memorabile, come Il prigioniero del Caucaso. Ma i Quattro libri di lettura non nacquero per un’ispirazione improvvisa, per un atto di volontà lodevole, tra l’altro, per la sua modestia. In realtà Leone Tolstoj vi cristallizzò, pagina per pagina, tutta una parte della sua vita, anni di sforzi, di ricerche nel campo della pedagogia e della scuola popolare, l’esperienza di vita di uno scrittore d’eccezione, che appena qualche anno prima sembrava essersi chiusa con un completo insuccesso. Anche per lui i Quattro libri rappresentano, in qualche modo, una vittoria postuma: una smentita alla sua stessa teorizzazione dell’impossibilità di avvicinare il popolo alla lingua letteraria. Abbiamo riletto i Quattro libri tenendo sul tavolo una vecchia operetta di Rinaldo Kufferle (Leone Tolstoj maestro elementare, Roma 1929), in cui la passione pedagogica dello scrittore è seguita fin dalle sue prime, confuse aspirazioni umanitarie. Nel 1854, a 26 anni, Tolstoj annotava nel suo diario: «Per l’ultima volta mi dico: se passeranno tre giorni senza ch’io abbia fatto nulla di utile per gli uomini, io mi ucciderò». Cinque anni più tardi, a Jasnaja Poljana, egli apriva la prima scuola per i figli dei contadini. Ma l’esperimento gli serviva soltanto per constatare la propria impreparazione. Ed ecco Tolstoj battere l’Europa per aggiornarsi in fatto di pedagogia e didattica. Appartengono a questo viaggio certi giudizi fulminanti sull’educazione in Germania: «Sono stato in una scuola di Lipsia: è orribile. La preghiera per il re, busse, tutto s’impara a memoria; i bambini vengono spaventati e storpiati». Per reazione a quest’impressione, la sua scuola sarà senza disciplina alcuna, liberi i bambini di muoversi, di parlare, di andarsene in qualsiasi minuto se l’insegnamento non li interesserà. A Marsiglia, Tolstoj fa un’altra scoperta (sulla quale sarebbe da meditare seriamente anche oggi): «La scuola vera non è nella scuola, ma nei giornali e nei caffè». A Jasnaja Poljana egli tenterà di creare una scuola che sia tutt’uno con la vita, di realizzare quel rispetto assoluto per la personalità del fanciullo, per il suo libero sviluppo, nel quale, più ancora che Rousseau e Pestalozzi, la sua esperienza gli aveva fatto individuare il segreto di un’istruzione non 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fondata sugli schemi didattici, ma «sulle domande suscitate dalla vita». Queste intuizioni profonde, e per allora rivoluzionarie, non lo salveranno dai fallimenti nella pratica. Tolstoj capisce che non si può insegnare la storia se non si ottiene preventivamente un «interesse storico»; capisce che l’insegnamento della geografia deve partire dalla scoperta dell’ambiente (e si tratta di idee che cominciano appena adesso ad entrare, per esempio, nei programmi della scuola italiana): sogna una scuola che sia contemporaneamente un «laboratorio pedagogico», nel quale il maestro impari dagli stessi bambini che cosa sia bene e meglio per migliorare l’insegnamento. Ma le intuizioni geniali non bastano a fare un buon maestro, e le idee, per tornare alla vita che le ha fatte nascere, debbono poter disporre di una tecnica che solo decenni di studio possono produrre. I risultati migliori Tolstoj li ottiene per quel che riguarda la lettura e la composizione scritta, quando ne colloca l’insegnamento al mondo delle novelle e delle fiabe popolari, cioè al mondo contadino in cui vive la sua scuola; dopo aver tentato invano di appassionare i ragazzi a Pusˇkin e a Gogol’, Tolstoj e i suoi scolari riscrivono insieme quelle fiabe, insieme si fanno trascinare dall’esercizio della meravigliosa facoltà creativa della parola. Sono le ore più belle dell’esperienza di Tolstoj maestro, perché sono quelle in cui Tolstoj scrittore e grande artista può tuffarsi senza riserve, per rivivere la poesia della lingua all’unisono con menti aperte e ingenue, e, nel senso vichiano, poetiche esse pure. Appunto a quelle ore, anni più tardi, si riallaccia Leone Tolstoj per scrivere i Quattro libri, ed ecco che il miracolo da lui giudicato impossibile è lui stesso a realizzarlo: parlare ai ragazzi con la lingua di Pusˇkin e di Gogol’. Alle spalle dello scrittore che spiega la sua arte grandissima alla tavoletta, alla breve spiegazione scientifica (perché il gelo spacca gli alberi, perché il fiato appanna i vetri, che cos’è il calore) sentiamo lo sguardo attento e appassionato dei suoi indimenticabili scolaretti: li udiamo suggerire, criticare, rifiutare una parola, imporne un’altra. Anni di studio, di lavoro, di riflessioni, si fondono, ormai senza sforzo, sulla pagina felice. PSL 13 ottobre 1961, p. 5 e cont. p. 8

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HENRY MILLER DA SE STESSO

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[Walter Schmiele (presentato da), Henry Miller attraverso testimonianze e documenti fotografici, 65 illustrazioni, Longanesi, pp. 208, lire 2.200]

A tre anni Henry Miller ha il viso del cherubino; a dieci anni comincia a guastarsi; a tredici è uno scolaro con la faccia tonda. Con un colletto alto e una cravatta a biscia, Henry Miller diciottenne appare antipatico. In seguito, la sua faccia in fotografia migliora costantemente, sino ad oggi (è un bel vecchio, con una grinta da indiano ironico e faunesco); oltre le foto, nel libro c’è la biografia di Miller ricavabile dai suoi stessi libri, che poi null’altro sono se non un’interminabile autobiografia o travestimento e arricchimento di personali esperienze. Assistiamo da qualche anno a un rilancio dell’opera di Miller, portato avanti come uno dei genii del secolo. Come un’onda di riflusso, anche in Italia si nota qualche riviviscenza del millerismo, in Bianciardi ad esempio. Comunque, la raccolta compiuta da Walter Schmiele di brani autobiografici di Miller legati dal racconto coerente e minuzioso della vita dello scrittore sarà utilmente consultata dai milleriani: offre il ritratto di uno scrittore fisicamente vitalissimo, ma tutto in superficie, come un accordo in do maggiore. PSL 10 maggio 1963, p. II

WOYZECK E ALTRE OPERE DI BÜCHNER Woyzeck, di Alban Berg, si rappresenta con successo in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma. Pertanto, si è riacceso molto interesse intorno al nome di Georg Büchner, autore del Woyzeck da cui Berg ha tratto il libretto dell’opera. Esce a proposito lo splendido volumetto dell’editrice Adelphi che racconta gli scritti di Büchner e una scelta delle lettere, a cura di Giorgio Dolfini (pp. 302, lire 2.500). Esso contiene: La morte di Danton, Leonce e Lena, Woyzeck, lavori teatrali; Lenz, frammento di narrativa; Il messaggero Assiano, pamphlet politico; un estratto dello scritto scientifico Sui nervi del cranio; più lettere, come s’è detto. 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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La vita di Büchner è una luminosa meteora che si spegne bruscamente: drammaturgo, poeta, scrittore, scienziato, anche per tradizione familiare (egli è fratello di Ludwig Büchner, autore del celebre libro Forza e materia, vera bibbia dei materialisti dell’Ottocento), uomo politico tra i più radicali e conseguenti nel suo tempo, Georg Büchner si spegne a Zurigo, in esilio, a soli ventiquattr’anni, il 19 febbraio del 1837. Mentre era in vita, l’attività letteraria di Büchner poté sembrare marginale; ora, la sua memoria si affida a quegli scritti che spesso rimasero allo stato di frammento (Lenz) o di abbozzo incompiuto (Woyzeck), di difficile ricostruzione. Woyzeck è la nuda storia di un soldato che uccide l’amante, una povera prostituta da cui aveva avuto un figlio, per gelosia. Woyzeck è l’uomo nella più radicale nullità e miseria: zimbello dei superiori, vittima degli esperimenti scientifici di un medico, tormentato e beffato dal suo rivale in amore, ossessionato da allucinazioni e visioni, Woyzeck si vendica del destino con la suprema e distruttiva rivolta, la sola che resta ai miseri: l’assassinio, il suicidio. La frammentarietà delle scene, la secchezza del dialogo, l’infimo rango sociale del protagonista e della vittima, la crudezza dell’episodio (ispirato da un reale fatto di cronaca nera). L’acre e sottintesa polemica sociale fa di questo testo teatrale un classico dell’espressionismo ante litteram, un testo meravigliosamente moderno, se si pensa all’epoca in cui fu scritto, la prima metà dell’Ottocento. Le altre opere di Büchner confermano in pieno questa attualità dello scrittore: La morte di Danton propone il tema grandioso della lotta tra riformismo e estremismo, nell’evolversi di una rivoluzione; Leonce e Lena, una commedia in chiave ironica, beffarda; Lenz, che evoca il clima allucinante degli «Stürmer»; Il messaggero Assiano, violento e spietato nella sua denuncia politica e sociale, come potrebbe trovarsi in pagine di Marx. PSL 17 gennaio 1964, pp. I-II

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Vuol cambiare il mondo disegnando

DALLE MACCHINE INUTILI AGLI OGGETTI FUNZIONALI

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[Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, pp. 230, lire 900]

Intorno al 1933 cominciano a girare certe strane macchine costruite con sagome di cartoncino dipinto a tinte piatte, bastoncini e bacchette di legno di balsa, qualche volta una palla di vetro soffiato, il tutto tenuto insieme da sottilissimi fili di seta. Bastava un soffio a mettere in moto quelle costruzioni. Ruotando nell’aria esse presentavano varie combinazioni di forme e di colori, legate da rapporti armonici che solo un occhio esercitato poteva cogliere. Erano oggetti divertenti e, benché utilissimi per mettere in moto la fantasia di chi stava a guardarli, l’autore li aveva battezzati «macchine inutili», in quanto «non producevano beni di consumo materiale, non eliminavano manodopera, non facevano aumentare il capitale». Sono passati più di trent’anni, ma per molti Bruno Munari è rimasto «quello delle macchine inutili», uno a cui piace giocare con materiali più diversi e, un pochino, prendere in giro la gente troppo solenne. Altre creazioni di Munari hanno, nel tempo, alimentato quella fama: per esempio le sue sculture da viaggio, le sue «recensioni» dell’arancia, della rosa e del pisello dal punto di vista dell’industria design, le sue «ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari», le sfere in colonna di una famosa mostra di «arte programmata». I suoi libri per bambini pieni di buchi, di trappole, trabocchetti tipografici e filastrocche deliziosamente insensate («la scimmia scivola – con l’erre moscia – lungo la fascia – della camoscia – ma sulla sciabola – c’era una biscia ecc. ecc.»: cito a memoria). Intanto, però, si sapeva che lo spericolato giocoliere, precursore degli astrattismi e delle sculture mobili, inventore di fontane da tavolo e di proiezioni a luce polarizzata (le prime novanta composizioni di pezzettini di cellophane piegati a caso sono al Museum of Modern Art di New York), era contemporaneamente uno dei più apprezzati grafici dell’industria editoriale, addirittura indispensabile per la riuscita di una campagna pubblicitaria o per il successo di un padiglione alla Fiera di Milano, unico se si trattava (se si tratta) di disegnare una nuova sigla per una grande 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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compagnia. Si sapeva, si sa, che Munari è uno dei più ricercati designers d’Italia, e non solo d’Italia. Il designer, cioè l’invisibile mediatore tra estetica e produzione di massa, tra industria e consumo, colui a cui dobbiamo «le forme degli oggetti di cui l’industria popola la nostra casa: il televisore, la forchetta, il tritaquesto, il lavaquello, il frullatutto...». Allora, un furbo? Chi lo conosce, sa che Munari è limpido come un bambino; che se inventa una fontana la cui suggestione è data dalla caduta di cinque gocce d’acqua, non lo fa per prendere in giro nessuno, ma perché è capace di incantarsi a guardare i cerchi concentrici che si formano sulla superficie liscia, giusto come un bambino o un saggio; che il suo paese ideale è il Giappone delle case di legno, dove non ci sono mobili, dove non si portano scarpe, dove si possono fare e disfare le stanze componendo gli spazi in modo diverso, dove «non si può buttare le cicche per terra»; mentre «noi siamo più bravi, perché possiamo buttare le cicche tanto c’è il marmo che non brucia, sbattiamo le porte altrimenti non chiudono... non eliminiamo lo sporco, non cerchiamo di essere più educati, basta che non si veda e tutto va bene». Qual è il segreto di Munari, allora? Le poche pagine in cui ha raccolto una serie di articoli pubblicati sul «Giorno» ed altri testi, accompagnati da illustrazioni di sua mano, potrebbero anche non rivelarlo, al lettore distratto, che le scambierà per un manuale (geniale, brillante, ma tutto esteriore) del moderno designer. Ma basterà leggere con attenzione a pagina 20: «Quando noi mettiamo sul mobile del soggiorno un antico vaso etrusco, che consideriamo bellissimo, ben proporzionato e costruito con esattezza ed economia, occorre anche ricordare che quel vaso aveva un uso molto comune, probabilmente conteneva l’olio per la cucina. Allora l’arte e la vita erano assieme, non c’era un oggetto d’arte da guardare e un oggetto comune da usare... quando gli oggetti che usiamo quotidianamente e l’ambiente nel quale viviamo saranno anche opere d’arte, allora potremo dire di aver raggiunto un equilibrio vitale». Quello di Munari, insomma, è un sogno antico, vissuto con sensibilità assolutamente moderna. Dietro il presunto giocoliere scoprite addirittura l’utopista. Munari crede, sinceramente, profondamente, nella possibilità di educare il gusto delle masse: di migliorare il mondo, via. Le molte direzioni in cui lavora, con la serietà che quelle sue dichiarazioni lasciano intendere, si possono in definitiva 69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ridurre a due: lungo la prima, egli tiene occhio ed orecchie aperti (e insegna agli altri a fare altrettanto) ai suggerimenti della fantasia, del gioco, della ricerca apparentemente senza scopo; lungo l’altra, egli dedica la stessa appassionata attenzione ai suggerimenti della realtà quotidiana. Quando gli capita, in cucina, di scoprire che il cucchiaio di legno che si usa per mescolare la pasta mentre cuoce manca della punta, invece di correre a comprarne un altro riflette e capisce che «questa è la forma voluta dalla pentola, la quale, nell’attrito tra la sua parte interna piatta e il cucchiaio di legno, lo ha lentamente modellato per mostrarci come dovrebbe essere fatto un cucchiaio di legno per mescolare la pasta». Se in un negozio per accessori per auto vede «un apparecchio di paglia o di vimini o di plastica o di quel che ci vuole, di colori assortiti, per correggere la scomodità e l’areazione dei sedili», non gli viene in mente di inventarne uno «più bello», ma conclude: «Vuol dire che i sedili attuali sono scomodi»; e vi mostra, in un’automobile che voi ammirate, almeno altri dieci o dodici errori dovuti alla prevalenza di considerazioni pseudo-estetiche sui dati oggettivi dei problemi da risolvere. Il vaso etrusco per l’olio, non bastava che fosse bello: doveva contemporaneamente servire il meglio possibile al suo scopo. Applicate alla poesia questo semplice ragionamento, e avrete la differenza tra D’Annunzio, poniamo, e Montale. Il designer Munari, anche quando parla di cucchiai per mescolare la pasta, dice qualcosa di essenziale per l’arte: e non solo per «l’arte come mestiere». PSL 23 settembre 1966, pp. I-II

Le favole e le commedie del grande drammaturgo in una scelta antologica destinata ai più piccoli

ANCHE I RAGAZZI POSSONO LEGGERE SHAKESPEARE [«Primo incontro con Shakespeare», Storie e favole, a cura di Cesare Padovani, Zanichelli, pp. 178, lire 800]

È abbastanza facile imbattersi in una polemica pedagogica, o più in generale culturale, intorno all’utilità di un teatro per i ragazzi o all’opportunità che l’incontro tra i ragazzi e il teatro avvenga, piut70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tosto, ad altissimo livello: con i classici, da Eschilo in giù. Ma intanto mancano, quasi del tutto, le iniziative concrete. In un anno, è molto se una o due compagnie, di quelle serie, allestiscono uno spettacolo per i ragazzi o dedicano agli studenti uno spettacolo del loro repertorio normale. Vivacchia, qua e là, qualche teatro di marionette, semiclandestino. Di teatri stabili per i ragazzi, come ce ne sono a centinaia, per fare un solo esempio, nell’Unione Sovietica, non c’è nemmeno da parlare. Perfino gli oratori parrocchiali, che una volta non trascuravano la filodrammatica, trovano ormai più conveniente darsi al cinema. Nelle scuole, dove il gioco del teatro mobiliterebbe folle entusiaste, si crede più alla funzione educativa della analisi grammaticale (fatte, s’intende, le debite eccezioni, che per esser lodevoli non cessano di essere rare). In questo quadro, quasi completamente nero (ci smentisca chi può), è da accogliere non con favore, ma con giubilo, l’iniziativa della Zanichelli di allestire – se non uno spettacolo, che non è compito delle case editrici – un «invito al teatro» assai promettente. Si tratta, per ora, di un primo volume, nel quale sono presentate ai ragazzi le commedie e le favole drammatiche di Shakespeare; seguiranno un secondo volume dedicato ai drammi storici (I re d’Inghilterra) e un terzo dedicato alle tragedie. Se ce ne sarà un quarto per Goldoni, un quinto per Molière, un sesto per Terenzio e così via, sarà nata una collana unica nel suo genere, di quelle che veramente «riempiono una lacuna» (una frase che si usa spesso non perché, così bell’e fatta, viene subito alla mente, ma perché le «lacune» sono ancora, nell’editoria per i ragazzi, più di sette o più di quattordici). Il volume si apre con una «succinta» cronologia shakespeariana, cui segue una breve presentazione dell’autore e del suo tempo. Si entra quindi in scena, si sale sul palcoscenico, con la Commedia degli errori: due paginette spiegano il soggetto, non trascurando di accennare al genere e alla voga di cui poté godere in passato, da Plauto in giù, quindi è offerta in lettura la scena seconda dell’atto terzo, ben tradotta e accompagnata da qualche nota supplementare. Il criterio è lo stesso per le sedici pièces esaminate, dalla Bisbetica domata alla Tempesta, dal Sogno di una notte di mezza estate, al Mercante di Venezia, a Come vi piace, alle Allegre comari di Windsor. Le scene tradotte, per le commedie maggiori, vanno da 71 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tre a cinque. Per ogni opera, evidentemente, appena qualcosa più che un aperitivo. Ma il proposito essendo quello di offrire un panorama generale, per settori, dell’universo shakespeariano, una guida al futuro (si spera) frequentatore di teatro, non avremmo potuto indicare un criterio migliore. Ai «racconti di Shakespeare» (fatta eccezione per l’insuperato modello dei Lamb) non crediamo troppo; all’educazione teatrale, comunque, servono poco, anche nel caso (raro) che le novelle siano buone. Un’opera di teatro è una cosa troppo diversa da una novella. Del resto, quando i volumetti saranno diventati tre e sommeranno, grosso modo, poco meno che seicento pagine, questo «primo incontro» con Shakespeare non sarà poi un incontro tanto superficiale. Tanto meglio, infine, se le poche scene invoglieranno a leggere il resto, nei testi completi. Il carico di note è molto leggero e può darsi che la lettura faccia nascere problemi di cui il volume non offre la soluzione. Qua e là si desidererebbe una nota in più. Ma ai ragazzi, si sa, le note piacciono poco. In generale le saltano, anche quando sarebbero indispensabili. Le illustrazioni sono tutte funzionali: immagini shakespeariane, qualche fotografia di scena di allestimenti famosi. Forse si poteva dare, alla fine, qualche indicazione bibliografica per aiutare a scegliere tra le varie traduzioni ed edizioni di Shakespeare in Italia. PSL 24 marzo 1967, p. IV

La sconvolgente biografia di Ludwig Wittgenstein

UN MAESTRO FAVOLOSO La straordinaria esperienza con i ragazzi delle scuole elementari di tre villaggi austriaci [W.W. Bartley III, Wittgenstein maestro di scuola elementare, Armando, pp. 205, ill., lire 3.000]

In una vecchia foto-ricordo scolastica del 1923 si vede un maestro in mezzo a una trentina di ragazzi e bambine. I ragazzi portano 72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tutti il cappello, come i piccoli spazzacamini di una volta, e fanno proprio venire in mente gli spazzacamini, così mascherati da adulti, taluni con panciotto e cravatta. Le bambine sono vestite come si vestirebbero oggi a carnevale per imitare la nonna, con lunghe gonne, lunghe sciarpe, mantelline, cappellini. Il maestro indossa un ampio giubbotto di pelle, pantaloni infilati nei calzettoni da alpinista, scarpe grosse, niente cravatta. La scuola che s’intravede alle spalle del gruppo è un edificio piuttosto squallido. È la scuola di Puchberg, nella Bassa Austria. Il maestro è il filosofo Wittgenstein. La fotografia è riprodotta dal volume Wittgenstein maestro di scuola elementare di William Warren Bartley III, con introduzione di Dario Antiseri. Il titolo originale del libro, nell’edizione americana, è semplicemente Wittgenstein. Il titolo italiano, più appetitoso e divertente, non è però soltanto una trovata pubblicitaria dell’editore: lo giustifica il fatto che la novità del lavoro sta tutta nei capitoli centrali, che fanno luce sugli anni meno noti della vita e dell’attività del personaggio, ricavandone anche tesi interessanti. Per esempio quella secondo cui in quegli anni Wittgenstein, uscito dall’esperienza traumatizzante della guerra e della prigionia in Italia (era stato catturato da soldati italiani a Trento, il 3 novembre del 1918), mosso forse dall’esempio di Tolstoj, si fosse impegnato, consapevolmente o no, in una sorta di «imitazione di Cristo» laica, per «mostrare» ciò che «non può essere detto» secondo la più famosa delle sue proposizioni. O l’altra, secondo cui fu il contatto con i bambini e con il loro linguaggio a influenzare decisamente la svolta tra il filosofo del Tractatus e quello delle ultime opere. Questa tesi, per la verità, è piuttosto enunciata che dimostrata, come sarebbe stato affascinante vedere. Ma non si può volere troppo dalla vita. Eccentricità pericolose Al pedagogista interesserà di più scoprire la partecipazione di Wittgenstein al grande tentativo di riforma scolastica portato avanti dai socialisti in Austria negli anni venti e contrastato, finalmente soffocato dalla controriforma cattolica-fascista di Dollfuss. La riforma va sotto i nomi paralleli di Otto Gloeckel e di «Arbeitschule», che alquanto impropriamente si traduce con la nostra espressione di «scuola del lavoro»: nella formulazione tedesca la parola «Arbeit» non ha a che fare solo con 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’addestramento dei bambini al lavoro manuale e all’introduzione nella scuola di attività pratiche, ma con il concetto di partecipazione attiva dei bambini al processo dell’apprendimento. I riformatori pensavano a una «scuola attiva», non nel senso tecnico che ha poi preso questa dizione, ma come a un momento della battaglia per il rinnovamento democratico del paese e per la liberazione dei lavoratori dai condizionamenti autoritari, in parte ancora feudali. È difficile sapere che cosa Wittgenstein pensasse davvero di questa riforma. È possibile che ne accettasse le idee generali spingendone l’applicazione in direzioni più personali. Nei tre paesini in cui insegnò per sei anni passava per un socialista, ma certo non era un militante politico. Egli stesso fu vittima della reazione conservatrice che mobilitava i contadini. Ma non si può fare a meno di pensare che nei suoi confronti, e a suo danno, agirono piuttosto il suo stile di vita e i suoi atteggiamenti, che dovevano essere scambiati per eccentricità pericolose. A Trattenbach, a Puchberg e Ottenthal il maestro Wittgenstein, noto per essere figlio dell’uomo più ricco dell’Austria, creatore dell’industria siderurgica, andò ad abitare in alloggi primitivi, stanzette impossibili, soffitte. Il suo abbigliamento era il contrario assoluto di ogni decoro magistrale: calzoni grigi e camicia senza cravatta, una giacca a vento, d’inverno gli stivali. Pranzava presso le famiglie più povere. Si preparava la cena da solo, con cacao e farina di avena, un po’ di latte. Metteva tutto nella stessa pentola, che non lavava mai. Col tempo, una crosta interna aveva talmente ridotto il volume della pentola che il cacao poteva essere preparato per una sola persona alla volta, come riferivano ai genitori orripilati gli scolari invitati a cena. Curiosità inappagate L’unica persona con cui riuscì a legare, tra gli adulti, fu il parroco Neururer, definito dalla gente «un socialista capellone». Se aveva mai nutrito sul serio illusioni tolstoiane sui contadini, la realtà brutale della loro vita e la schiavitù delle tradizioni che pesava su di loro gliele tolsero ben presto. Di «tirar fuori i contadini dal letamaio» parlò una sola volta, in una lettera. Poi si chiuse nelle sue incredibili stamberghe e nella compagnia dei ragazzi. Una volta che il motore a vapore del locale lanificio si guastò, e ingegneri chiamati da Vienna sentenziarono che bisognava 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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smantellarlo, Wittgenstein, che aveva studiato ingegneria, si offrì di ripararlo, ma lo fece per mezzo di terze persone, nella sua incapacità di avere rapporti con la gente. Con quattro operai riparò il motore. La cosa fu ritenuta miracolosa. Rifiutando il compenso, chiese poi al direttore del lanificio di distribuire delle maglie di lana ai bambini del paese; ma non le distribuì di persona, lo fece fare al parroco... Con i bambini fece cose straordinarie. Insegnava loro – a nove, dieci anni – l’algebra. Costruiva con loro modelli meccanici, scheletri di animali. Compilò con loro un dizionario, che venne poi pubblicato come testo scolastico, nel quale significati e costruzioni erano esemplificati col dialetto. Insomma, partiva dal dialetto per arrivare alla lingua e alla grammatica, aiutando i bambini a scoprire le regole e l’ortografia. Dopo le ore di scuola tratteneva, o si portava a casa per ore, o nei boschi a raccogliere pietre e erbe, o su un terrazzo a studiare le stelle, il gruppo dei più attivi e brillanti: con grande rabbia dei genitori che ne avevano bisogno per il lavoro nei campi. Poneva ai ragazzi questioni di logica. Alcuni dei suoi antichi scolari ricordano ancora «il paradosso del mentitore» (un bugiardo dice «Ora sto mentendo». Se quel che dice è vero, dice il falso; se è falso, dice il vero). Li portava in gita a Vienna, regalava loro cibi e oggetti di vestiario. E li picchiava. Con la bacchetta. A schiaffi. Non li picchiava più degli altri maestri di quel tempo, forse era meno illogico nelle punizioni. Ma il fatto resta in lui abbastanza incomprensibile. E fu causa della sua rovina come maestro, perché un’accusa di sadismo lo portò in tribunale. Fu assolto, ma lasciò la scuola elementare. La congiura contro l’intollerabile intellettuale che osava preferire i bambini ai maestri, alla società, ai notabili, era riuscita anche perché, probabilmente, Wittgenstein aveva già esaurito l’esperienza umana e didattica che l’aveva affascinato. Il libro si apre con la vita sessuale (omosessuale) del filosofo, come chiave per interrogare la sua perenne inquietudine, gli aspetti più drammatici della sua personalità. Nei tre paesi in cui visse da maestro, tuttavia, nessuno ebbe mai sentore, né tra gli adulti né tra i ragazzi, di quella sua «diversità». Ricordano solo che non frequentava donne. Più in genere, forse, la psicanalisi andrebbe lasciata agli psicanalisti. Nell’insieme il racconto degli anni di Wittgenstein maestro di 75 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scuola elementare appare abbastanza nutrito dal punto di vista biografico, meno da quello dell’interesse specifico: molte curiosità restano inappagate, per ciò che riguarda, nell’uomo, l’insegnante. La ricerca negli archivi della scuola austriaca resta ancora da fare. PSL 11 aprile 1975, p. 9 e p. 12

Ancora scoperte nello Zibaldone

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LEOPARDI ANTICIPO` LE IDEE FREUDIANE [Lea Canducci, Giacomo Leopardi: autoanalisi di un poeta, Bulzoni, pp. 114, lire 3.000]

Leopardi può ancora sorprendere? Ci sono ancora filoni da scoprire nelle già tanto inesplorate miniere dello Zibaldone? Sono domande legittime per chi abbia appena letto questo libro in cui per la prima volta viene studiato il Leopardi psicologo, e in esso è rivelato un anticipatore di moderne teorie psicologiche, anzi, addirittura un precursore di Freud. Concetti fondamentali del freudismo s’incontrano negli scritti leopardiani sotto forma di intuizioni non fuggevoli. Le anticipazioni sono spesso nel lessico. La teoria del piacere Ricorrono nello Zibaldone, pressoché con lo stesso significato che noi vi attribuiamo dopo Freud, termini come «frustrazione», «repressione», «sublimazione», «rimuovere», «resistenza». Leopardi non nomina l’inconscio ma ne suppone esattamente l’esistenza quando descrive un’intimità del cuore, un «fondo nascosto anche a lui» che giace nell’uomo. La sua «teoria del piacere», la sua descrizione del «desiderio» (libido?), dei «mezzi di difesa» (dove si può leggere senza eccesso di forzatura «meccanismi di difesa»), la sua intuizione di un piacere quasi «imitazione della insensibilità e della morte» (non è il principio del nirvana come lo vede Freud?) sono altrettanti punti che l’autrice indaga con acutezza per riscontrarvi singolari affinità con le tesi freudiane. A volte la corrispondenza, pur evidente, rimane un po’ vaga, come quando Leopardi indica l’importanza del vissuto infantile 76 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nello sviluppo della personalità adulta: «...anche da ciò si deve inferire quanto siano importanti le benché minime impressioni della fanciullezza e quanto gran parte della vita dipenda da quell’età e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell’altra azione ecc. derivino bene spesso da minimissime circostanze della loro fanciullezza... mentre se ne cercherà la cagione e l’origine in tutt’altro, anche dai maggiori conoscitori dell’uomo» (ma non certo, in seguito, da Freud). Altre volte l’affinità si fa ideologica. È abbastanza sorprendente il confronto con la Ginestra e il suo sistema di idee e una pagina in cui Freud indica il compito principale della civiltà, di fronte alle grandi catastrofi naturali, nel dovere di preservare il genere umano contro «lo strapotere della natura». Ma non manca, nello Zibaldone, perfino una chiara anticipazione della spiegazione freudiana degli «atti mancati». Mancano le prove Da tutto ciò l’autrice non deriva, anzi esclude esplicitamente la tesi di una sudditanza di Freud a Leopardi per alcune delle sue scoperte più famose. Non esistono prove che Freud conoscesse lo Zibaldone. Non esiste pagina di Freud in cui Leopardi sia citato. Ma proprio questo finisce per sembrare freudianamente sospetto se si ricorda che Freud conosceva l’italiano; che viaggiò di frequente in Italia dopo la pubblicazione dello Zibaldone; che era non superficialmente interessato allo studio delle grandi personalità artistiche; che leggeva ed apprezzava Nietzsche, il quale, per suo conto, giudicava Leopardi il massimo poeta dell’Ottocento. Mancano le prove, ma gli indizi sono tutti lì. La prudenza impone di leggerli in chiave di pura sorpresa. Ma certo il fatto che Leopardi all’inizio del secolo e Freud alla sua fine, crescendo all’interno di culture tanto diverse, abbiano pensato allo stesso modo certe cose e nominato con le stesse parole taluni oggetti della ricerca sull’uomo pone questioni a cui bisognerà forse cercare risposte più approfondite. Per intanto bisogna essere grati a Lea Canducci per la sua coraggiosa ricerca. PSL 30 luglio 1978, p. 13

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Tra pedagogia e scuola

L’esperienza didattica di Mario Lodi Documento acquistato da () il 2024/02/19.

UN MAESTRO E I SUOI SCOLARI [Mario Lodi, C’è speranza se questo accade a Vho. Pagine di diario, Società Editrice Avanti!, pp. 300, lire 2.500]

Qualche anno fa, su «Paese Sera», abbiamo presentato un singolare libro per ragazzi, Cipì, nato dalla collaborazione tra un maestro e i suoi scolari. Erano le avventure di un passero che aveva fatto il nido su un tetto davanti alla scuola ed era diventato oggetto di osservazione e di simpatia per i ragazzi: era, anzi, la vita stessa di quegli scolaretti di campagna, rispecchiata nelle vicende esemplari di un’altra creatura. Dietro quel libro c’era tutto un modo speciale di intendere la scuola e il rapporto tra maestro e bambini, c’era una grande sensibilità poetica e un’acuta intuizione delle curiosità e degli interessi infantili. Un maestro meno attento e più tradizionale, il giorno in cui avesse sorpreso occhiate «distratte» rivolte alla finestra anziché alla lavagna, avrebbe semplicemente richiamato all’ordine il piccolo colpevole. Per il maestro Lodi, evidentemente, non esistono «distrazioni» del genere: se i bambini si interessavano a quel passero, a quel pezzo di mondo fuori dalla finestra, il meglio da fare era di incoraggiare la loro curiosità, di guidarla e nutrirla, perché diventasse vera capacità di guardare, di fare esperienza, e quindi di scriverne, con lo stesso impegno. Lodi appartiene a un fortissimo gruppo di maestri (il Movimento di cooperazione educativa) che ha approfondito, applicato all’Italia e sviluppato in nuove direzioni le tecniche didattiche del francese Freinet: il «testo libero», il disegno, la tipografia in 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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classe, l’esperimento che sostituisce (o precede, organizzandola) la nozione, eccetera. Sono maestri che fanno molto per il rinnovamento della scuola italiana dal di dentro, e meriterebbero di essere meglio conosciuti dai maestri che cercano un modo più vivo e moderno di far scuola, nonché dai genitori (anche questi per fortuna in numero crescente) che non ritengono di aver esaurito il loro compito di educatori quando hanno affidato i figli al maestro, o magari, più semplicemente, al bidello. Le Pagine di diario del maestro Lodi, che ora l’editrice Avanti! presenta con un titolo un po’ ermetico ma di buon augurio (C’è speranza se questo accade a Vho) sono un’occasione preziosa per intendere che bella cosa potrebbe diventare la scuola il giorno in cui non la governassero più l’astratto formalismo dei regolamenti e l’arido meccanismo delle pagelle, ma la «scienza nuova» dell’educazione che pur sta nascendo, e si fonda sulle leggi della psicologia infantile. Il libro si riferisce alle esperienze scolastiche vissute da Mario Lodi tra il 1951 e il 1961 in due scolette della provincia di Cremona, San Giovanni in Croce e Vho di Piàdena. Giorno per giorno il maestro riflette sul suo lavoro, annota appunti, conversazioni con i bambini, ricopia intere pagine di quaderni e di giornalini di classe e così, non teorizzazioni, ma per via di esempi e di fatti concreti, narrati con grande semplicità ed efficacia, ricostruisce la sua conquista di un metodo personale e insieme valido – come egli stesso ha ragione di sostenere – «per qualsiasi comunità scolastica in qualsiasi situazione media della scuola italiana dell’obbligo». La ricerca di quel metodo nasce dall’ispirazione di creare nella scuola le condizioni perché il bambino vi porti la stessa carica di impegno morale, di fantasia, di attività creativa che mette nei suoi giochi spontanei. La polemica contro l’insegnamento di tipo tradizionale, autoritario e verbalistico, è pacata, non libresca, condotta anzi sul filo di una costante autocritica. Il maestro appare pronto in ogni momento della giornata a imparare dalla vita, a modificare i suoi piani, ad adottare i progetti che fioriscono dall’attività della piccola società scolastica. Il suo scopo fondamentale non è quello di farsi ascoltare, ma quello di far parlare i bambini, di portarli non certo a fare quello che vogliono, ma a volere intimamente quello che fanno, a conquistare tutto, dalle lettere dell’alfabeto alle cono79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scenza scientifiche, per una decisione loro, con una loro attività. Dette così, sono belle frasi, teorie già note. Ma nel diario di Lodi c’è il costante, severo confronto delle teorie e delle intenzioni con i problemi didattici di ogni giorno, di ogni ora, di classi diverse, di «materie» diverse: le quali, miracolosamente, non sembrano più «materie», fette di «sapere» da mangiare una dopo l’altra, ma momenti della vita stessa. La vita rigetta da sé, come scorie, gli elementi più esteriori della scuola. Non ha più senso classificare con dei numeri (i voti) il suo scorrere. Le pagelle diventano un’imposizione, un ostacolo; e infatti, un bel giorno il maestro Lodi chiama le mamme e spiega loro perché non consegnerà le pagelle ai bambini, per non distrarli dal loro più vero lavoro, per non turbare con una formalità la loro vita più vera. I libri? Il vero libro di lettura nasce in classe, giorno per giorno, dai «testi liberi» in cui i bambini narrano le cose che fanno e che vedono e che, raccolti ogni fine mese, stampati con la tipografia in classe, compongono un giornalino da portare a casa, da mandare agli amici. Da un’esclamazione, da una frase alla lavagna, dal particolare stato d’animo di una mattina, nasce anche la poesia, e ogni parola di essa, ogni verso, ha un significato profondo, desta echi di vita vissuta. Le osservazioni della natura, il diario e le riflessioni sugli esperimenti condotti in classe, sulle libere ricerche nate dagli interessi più profondi, si raccolgono a loro volta in altrettanti minuscoli «libri» di storia, di geografia, di scienze. Libri nati e stampati in classe, giorno per giorno. Le pareti si arricchiscono di splendide pitture, perché il bambino, ogni bambino, se è messo nelle condizioni di esprimersi, è un pittore nato. La disciplina nasce spontaneamente, come un bisogno d’ordine: ci sono giornate in cui ogni scolaro è intento a qualcosa di diverso, a un lavorio suo (la «scuola su misura» di cui tanti hanno parlato, e molti invano), non ci si può disturbare l’un l’altro, bisogna per forza sentirsi responsabili. Ed ecco che la piccola comunità scolastica sente l’esigenza di darsi delle leggi. Le propone, le discute, le approva o le respinge, le affigge alle pareti. Il maestro è lì per tener viva la vita: per aiutarla a incanalarsi nelle direzioni più utili, per salvarla dalle dispersioni, per arricchirne il senso, per stimolarne il moto. Non ci sono momenti morti, la noia è bandita. Nessuna curiosità è soffocata. Dalla «distrazione» di un 80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bambino, o da una sua domanda buttata là quasi per caso, può nascere una fervida attività di settimane e di mesi. Tutte cose documentate, pagina per pagina, nel diario del maestro Lodi. Ne risulta una narrazione che anche persone impreparate alla pedagogia possono leggere con grande interesse e con notevole profitto, mentre al maestro, al pedagogista apparirà chiaro il valore pressoché rivoluzionario di questo libro che ha tutti numeri per diventare, e glielo auguriamo di cuore, un classico.

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PSL 25 ottobre 1963, p. III

UN MAESTRO CON LA CHITARRA [Renée Reggiani, Domani dopodomani, collana «L’arganello», Vallecchi, pp. 234, lire 1.500]

Un giovane maestro fuori ruolo, Antonio Lasala, capita a Monte Bruno, un paesino sperduto fra le gravine lucane, per formarvi una scuola elementare «sussidiata»: di quelle che i maestri aprono a loro spese, dove lo Stato non arriva, e si rifanno poi a giugno, ricevendo dallo Stato medesimo 5.000 lire per ogni alunno promosso dalla seconda alla terza e undicimila per ogni promosso dalla terza alla quarta. Il solo locale disponibile è un porcile, dal quale vengono sbrigativamente sloggiati i maiali. Là dentro il maestro vive, si fa da mangiare, dorme coi topi e si conquista gli scolari uno per uno, con la chitarra, con il coraggio, perfino con la temerarietà, come quando si offre di guarire a un ragazzo il suo leprotto malato. Gli scolari – tra cui spiccano fin dalle prime pagine Salvatore, quello del leprotto, e Giuliano, che si tira eternamente dietro la sua capra, alla quale ha dato un nome da briganti – sono, come il paese, come zì Vincenzo il «maciaro», che fa «l’affascino» per far assumere i disoccupati all’ENI, immersi in un mondo fuori della storia. Un mondo prelogico, magico, nel quale i ricordi dei briganti del Sessanta sono più veri dello strano «uccello lincotero» (l’elicottero) di cui favoleggia chi è stato giù, nel mondo dei vivi... a Pisticci, e ha perfino mangiato il gelato. Il maestro Lasala, che qualche volta vorrebbe piantar tutto, 81 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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correre al Nord, lottare per avere un provino alla TV, con la sua chitarra, pure resiste, e fra le difficoltà indicibili d’ogni giorno individua il suo vero problema: riuscire a liberare dal guscio arcaico, dal velo magico, le coscienze dei ragazzi, a rompere il magma amorfo di una comunità stagnante per destarvi la fiammella della personalità. Il romanzo è la storia di questa liberazione, del passaggio lento, tortuoso, a scatti, e infine irruento, impetuoso, dal mito alla storia, dalla favola al vero, non solo dei ragazzi, ma intorno a loro degli uomini, anche dei vecchi che scoprono a loro volta l’alfabeto, come una chiave per entrare nel mondo in cui il «maciaro» e il bandito lasciano il posto all’ingegnere, al medico. Accanto a episodi drammatici (il lupo sulla porta della scuola, il ragazzo che si tormenta perché crede di aver fatto ammalare un compagno con le sue «male arti») vi sono pagine di intensa poesia, come quelle in cui il maestro smonta (demistifica) la paurosa tradizione paesana del brigante ucciso che continua a battere il suo tamburo sulle rive del fiume, svelando ai ragazzi il fenomeno dell’eco: ed è il momento che segna la vittoria del reale, della vita, della storia nelle loro menti e nei loro cuori. Renée Reggiani (già ben nota, in Italia e fuori, per due belle storie: Le avventure dei cinque ragazzi e un cane e Il treno del sole) non ha dato soltanto, in questo romanzo che ha vinto il «Premio Orvieto», la piena misura delle sue qualità di scrittrice, della sua capacità di interpretare un ambiente e di illuminare gli intimi scatti del suo cammino verso la civiltà; essa ha scritto anche un’opera da porsi accanto a quelle che meglio interpretano la battaglia per la scuola del Sud, e in generale per il progresso del Mezzogiorno. PSL 10 dicembre 1964, p. VI

NOSTRO FIGLIO ARTISTA [Viktor Löwenfeld, L’arte del vostro bambino, La Nuova Italia, pp. 186, lire 1.700]

Tra i tanti libri che si occupano del disegno infantile (tanti, ma non troppi: c’è ancora molto da scoprire nel mondo del bambino), questo di Viktor Löwenfeld – un pedagogista austriaco emi82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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grato in America nel ’38 e colà morto nel ’60 – trova una sua collocazione originale perché si rivolge direttamente ai genitori, con un linguaggio molto semplice, comprensibile ai «non addetti ai lavori». Le ricerche scientifiche sull’argomento, le esperienze culturali e pedagogiche dell’autore sono come sottintese e fanno da sostegno invisibile alla sua opera di divulgatore. La nascita del libro spiega il suo carattere. L’autore lo ha ricavato dalle conversazioni avute con i genitori, in un periodo di sei anni, in occasione di conferenze su problemi educativi. Si parte dalle domande più generali e generiche: «Perché è importante che mio figlio crei?», «Devo intromettermi nell’espressione artistica di mio figlio?», «Debbo lodarlo o criticarlo?», «Debbo appendere alle pareti i suoi lavori?», per arrivare a quelle che introducono nel dialogo problemi più complessi: «Come posso capire il significato del lavoro artistico di mio figlio?», «È proprio necessario che mio figlio disegni rispettando le proporzioni?». La materia è suddivisa in capitoli che presentano una successione logica (prima i problemi generali, poi i problemi che sorgono alle varie età del bambino). L’indice, particolareggiatissimo, nasce col rappresentare una specie di «repertorio», in cui ogni genitore può trovare la risposta al suo particolare problema, se vuole, senza leggere tutto il libro. Lo spirito pratico che l’autore ha assorbito dall’ambiente americano arriva perfino a suggerirgli una specie di «tabella riassuntiva» di consigli generali su «che cosa i genitori devono fare e non fare». Per esempio, devono «considerare l’arte del figlio come un documento della sua personalità», e perciò «non devono correggere od ‘aiutare’ il bambino che lavora, imponendo così la loro personalità»; devono «far sì che il bambino diventi più sensibile nelle relazioni con l’ambiente», mentre «non devono fornire al bambino alcun album da colorare o modelli che mortifichino al sua naturale sensibilità»; devono «cercare di capire che le proporzioni ‘errate’ esprimono quasi sempre un’esperienza», e quindi «non devono correggere le proporzioni sbagliate». E così via. I consigli, ovviamente, non sono perentori, ma ragionati, illustrati con paziente esemplificazione. Alla fine del libro un genitore di media cultura (e diamo pure al vocabolo «media» un valore molto basso) non solo saprà come comportarsi di fronte al bambino che scarabocchia o al ragazzo che dipinge, ma avrà anche 83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’impressione – giustificata – di conoscere meglio suo figlio, come se avesse seguito un corso popolare di psicologia infantile. I concetti-guida del volume, per chi conosce un poco l’argomento, non hanno nulla di eccezionalmente originale. Si può sottolineare semmai l’insistenza con cui l’autore – condividendo l’atteggiamento di chi assegna al disegno infantile un significato psicologico, piuttosto che estetico – torna continuamente con gli esempi e le raccomandazioni sul concetto che «soltanto attraverso esperienze individuali il bambino può approfondire le sue relazioni sensibili». L’esperienza dell’adulto non può sostituire la sua: bisogna dunque che il bambino sia sempre il più possibile libero di esprimersi come vuole, con i materiali che preferisce (dai pastelli alla creta da modellare), secondo la sua esperienza e la sua logica. Lo si aiuta quando lo si stimola a fare nuove esperienze, o ad approfondire esperienze già fatte, non quando gli si mostra con l’esempio come si disegna un naso o gli si dice senz’altro ciò che deve fare per migliorare il suo disegno. Ci sembrano di particolare interesse i consigli relativi alle due «età difficili» del disegno infantile: il momento – verso gli otto, dieci anni – in cui insorgono nel bambino le prime preoccupazioni veristiche che possono far da freno al suo slancio creativo: e l’altro momento, assai più complesso, dell’adolescenza. Sono difficoltà ben note a maestri e genitori. L’autore le riporta, con molta finezza, agli sviluppi della mente infantile, che passa dall’inconsapevolezza alla coscienza di sé e del mondo. L’esemplificazione è sottile, e non si potrebbe qui illustrare in breve. L’autore indica la possibilità di attenuare il peso delle preoccupazioni visive («non sembra vero») tenendo desto nel bambino prima, nel ragazzo poi, l’interesse alla sua personale esperienza delle cose: rendere questa esperienza è più importante (e più bello) che rappresentare fotograficamente le cose. Mai, dunque, puntare sull’accuratezza dell’esecuzione, ma sulla capacità del ragazzo di rappresentare la propria esperienza. In questi capitoli l’autore aggiunge non poche scoperte personali a quelle che ormai sono registrate in tutti i manuali. Il volume è arricchito di illustrazioni scelte in riferimento alla questioni trattate. PSL 22 ottobre 1965, p. II

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Gli insoliti «appunti» di un grande pensatore

I SEGRETI DEL BAMBINO NEI PENSIERI DI ALAIN

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[Alain, Pensieri sull’infanzia, Armando, pp. 127, lire 1.000]

Autentica novità per gli educatori o semplice curiosità per i patiti di Alain, che non sono pochi nemmeno tra noi, questi Pensieri sull’infanzia dello scrittore e filosofo francese che Armando Armando pubblica in prima traduzione italiana dalla recente edizione delle Presses Universitaires de France? Difficile dirlo, a una prima lettura; difficile dire se questi esquisses, appunti, scalette per una trentina di lezioni di pedagogia tenute da Alain, nel ’24, a un corso di allieve maestre giardiniere, possano realmente servire alla storia della pedagogia, o non riguardino invece la storia di Alain, rivelando il suo modo di lavorare, i suoi «segreti d’officina» per dirla con un’immagine corrente. Il libro, intanto, si fa guardare con interesse proprio per la forma insolita. Intorno ad ogni tema scelto per la lezione, Alain stende prima di tutto alcune definizioni, per l’amore di chiarezza che in lui era quasi un vizio: «Definisco bambino l’essere umano in piena crescita, non ancora interamente toccato dalle passioni (altruismo), che non abbia la preoccupazione di guadagnarsi da vivere o, che è la stessa cosa, che non abbia la possibilità di istruirsi per diretta esperienza, e perciò nutrito e protetto dalla famiglia». È il primo periodo del primo capitolo ed è proprio un cominciare da zero, avendo messo tra parentesi tutto ciò che è stato detto e pensato sull’argomento. Si pensa subito alla lezione di Cartesio, supremo maestro del metodo e massimo nume del firmamento di Alain. Si pensa anche all’istinto organizzatore di Comte, la seconda stella fissa dello stesso cielo. Sono i due nomi che tornano con più frequenza nel libro, accanto a quelli che forniscono le coordinate culturali di un educatore che, tra i contemporanei, accetta quasi solo il nome di Dewey. La stesura, però, si rompe subito in una fuga di esempi, di tavole geometrizzanti («1) Matematica; 2) Astronomia; 3) Fisica; 4) Chimica; 5) Biologia; 6) Sociologia»), di rapide associazioni d’idee («L’amore. Invenzione del XII secolo. Certamente questo sentimento si è sviluppato e codificato, con il mutar dei costumi, della 85 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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politica, della religione. La donna emancipata. Le corti d’Amore. I romanzi. Il teatro. Non è vero perciò che l’amore sia un sentimento individuale, dipendente dalla biologia e dalla psicologia biologica»), di aforismi staccati («L’azione divora ogni cosa, e distrugge quel che ha creato», «La scienza deve basarsi sul giudizio, altrimenti non val nulla»). Le osservazioni dirette, tratte dalla vita quotidiana, sono seminate a piene mani ed hanno spesso il fascino di quelle che Alain seminò per decenni nei «Propos» che scrisse per i giornali: pezzi brevi, densi, che sono ancora oggi modelli insuperati di giornalismo «scritto». Si ritrovano spesso, di pagina in pagina, osservazioni, abbozzi di sistema, intuizioni sparse in altre opere (per esempio, in Les idées et les âges quelle sulle fiabe e sui giochi; altre in Les sentiments familiaux). Non si ha, purtroppo, l’equivalente per la pedagogia della operetta di divulgazione filosofica (ma a quale livello!) che Alain scrisse per i ciechi. Non si ha, soprattutto, il «sistema dell’educazione» da mettere a fare pendant con il bellissimo Système des beaux arts. Ma la mente che pensa i problemi dell’educazione è pure la stessa che ha pensato l’arte, o la guerra, o la politica: insofferente di codificazioni assolute, sempre in movimento su se stessa, ma sempre applicata alla vita, sempre intonata a una severità culturale, a una «robusta sostanza morale» (Mario Petroni). Circa il contenuto pedagogico, dopo aver notato che il punto centrale della ricerca di Alain potrebbe riassumersi nella quindicesima lezione, che si apre con un aperto riconoscimento («il pragmatismo era destinato a rinnovare la pedagogia») delle correnti più vive della modernità, non sembra essenziale, per gustare il libro, pretendere di ricavarne una visione organica dell’educazione: Alain prescinde troppo, in fin dei conti, dalle più attente ricerche pedagogiche e psicologiche del nostro tempo (del suo s’intende) perché il libro possa entrare oggi nel dibattito culturale. Vale per le continue illuminazioni dei particolari. Per esempio, per ciò che dice della geometria, della ginnastica, dei classici. Vale per certe formulazioni epigrammatiche: «...L’idea della Scuola Unica, l’idea grande che non è lecito scegliere tra i fanciulli, e che tra gli autori bisogna scegliere i Grandi». Vale, giova ripeterlo, come modello di serietà, di concretezza. Può anche essere pericoloso. Il suo appello alla serietà della 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scuola, la sua concezione severa di ciò che è disciplina, lavoro, fatica, possono anche essere fraintesi, da chi non inserisca questa concezione nella vastità e ricchezza culturale dell’opera di Alain. Il suo ideale del buon maestro potrebbe apparire piuttosto simile a quello del «buon ufficiale» (e questo sarebbe una bella ricerca da fare: l’idea del «buon ufficiale» di Alain è nei ricordi di guerra, per esempio di Carlo Emilio Gadda). Potrebbe dar armi a una polemica retriva, che si ammanta di moralismo per rivendicare una scuola più dogmatica in un paese in cui il nemico principale è pur sempre, dentro le mura della scuola, l’autoritarismo. Di cui Alain fu, nella scuola e fuori, avversario senza compromessi. PSL 20 ottobre 1967, p. II

Lévi-Strauss e Mao, Don Milani e Che Guevara, Kerouac e Sanguineti fra gli autori proposti ai ragazzi in 3 interessanti volumi

L’ATTUALITÀ PIU` SCOTTANTE SI FA STRADA NELLE ANTOLOGIE È stato detto e ridetto che la scuola italiana non è una palude in cui tutto affonda, ma un campo di battaglia in cui il nuovo e il vecchio si affrontano vivacemente; che c’è, se non altro, professore e professore, come del resto c’è studente e studente. Ma c’è perfino libro e libro. Da qualche anno in qua succede sempre più spesso di imbattersi in testi scolastici che rifiutano la routine, l’Arcadia, l’accademia letteraria, la cultura mummificata, per aprirsi coraggiosamente a tutti i venti. Segnalarli, per chi li trova è quasi un dovere. Noi lo facciamo senza la pretesa di indicarli tutti, né di indicare i migliori: parliamo semplicemente di quelli che ci sono capitati tra le mani. L’anno scorso l’editore Morano ha presentato un’antologia di Augusto Vegezzi e Franco Fortini per il biennio delle medie superiori, Gli argomenti umani, che è stata probabilmente la prima a far entrare nelle mura della scuola certi autori – da Lévi-Strauss a Mao, da don Milani a Che Guevara –; a operare, cioè, un robusto rimescolamento di carte e una coraggiosa saldatura con gli in87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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teressi più vivi e brucianti nei giovani. Ma non si trattava solo di nomi. Qualche volta i nomi possono essere usati come alibi per perpetuare la trattazione retorica. In quell’antologia le normali periodizzazioni della storia, della letteratura e della cultura lasciavano il posto a sintesi nuove, e i materiali erano collocati sotto queste partizioni: L’età della borghesia (Illuminismo, Romanticismo, ecc.), L’età dell’imperialismo (Imperialismo, Crisi della cultura borghese), L’età contemporanea (Problemi della civiltà tecnologica, Aspetti del Terzo Mondo, Aspetti dell’Italia contemporanea). L’audacia di aprire con Kant e Voltaire invece che con Alfieri e Parini; di includere Montale, Ungaretti e Tomasi di Lampedusa sotto la voce «Crisi della cultura borghese»; di far appello all’impegno ideologico, anziché, mettiamo, al «senso del bello», è forse costata qualche adozione in meno. L’effetto di choc, al confronto con le antologie ancorate al punto di vista meramente letterario, è stato pagato dall’editore con un successo limitato. Ma chi rompe gli schemi tradizionali sa pure che raccoglierà i risultati del suo lavoro a scadenza più lunga. Tra i testi usciti quest’anno, ecco, per esempio, Grandangolo, di Rosanna Serpa e Elvira Finelli (Letture di varia umanità e materiali di lavoro sui secoli XVIII-XIX-XX ad uso della scuola secondaria superiore, editore Sansoni). Se il titolo di Fortini era una citazione umanistica (dalla Commedia), questo è mutuato dal linguaggio della tecnica fotografica e dichiara l’intenzione di abbracciare un panorama più ampio di quello che la scuola ha reso ufficiale. L’antologia abbraccia infatti letteratura, storia, scienze umane, tecnica, arti figurative, teatro, cinema, non come figure da museo o oggetti di contemplazione, ma come fatti della vita e della battaglia culturale di oggi. Come strumenti per discutere il mondo. Il passato si fa presente. La cultura, vita. Il discorso di De Sanctis ai giovani studenti del suo tempo è accostato a quello di Concetto Marchesi agli studenti di Padova, famoso negli anni della Resistenza, a uno scritto di Rudi Dutschke sulla ribellione studentesca. Del Risorgimento parlano Gramsci, Leone Ginzburg, Carlo Morandi, Denis Mack Smith; della questione sociale, Giorgio Spini; del marxismo, Marx ed Engels. I «contemporanei» sono veramente i contemporanei dei giovani d’oggi, da Sanguineti a Kerouac, da Franz Fanon ai ragazzi 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di Barbiana. Il giovane lettore si imbatte in ogni pagina in se stesso, nei suoi problemi, nelle sue domande, nelle sue passioni. Può riscoprire senza sforzo – e, immaginiamo, con eccitazione – che la letteratura, la storia, eccetera, «parlano di lui»: ciò che è sempre vero, in teoria; ma quasi sempre negato dalla tradizione dell’insegnamento retorico-burocratico. Gli sembrerà più viva, più vera, più contemporanea anche la voce di Giacomo Leopardi (che qui compare tra il Porta e il Belli, immerso nella realtà del suo tempo e di ogni tempo). Culture, di Pietro Bonfiglioli e Marzio Marzaduri, dell’editore Zanichelli, è un’antologia di letteratura italiana, di letterature straniere, di letture storiche, scientifiche, economiche, ecc. concepita per gli istituti professionali (un solo volume – dall’Ottocento ad oggi – per i corsi biennali, due volumi per i corsi triennali). Il plurale del titolo vuol essere un affronto alla corrente concezione burocratica della storia e della cultura: operazione necessaria anche questa, per sprovincializzare la scuola, per aprire le sue porte e finestre alla realtà d’oggi, alla scala mondiale che tutte le cose vanno assumendo. I testi dei vari campi culturali sono scelti in base a una visione che collega sempre i fatti economico-sociali a quelli politici, letterari e scientifici, struttura e sovrastrutture. È naturale che i saggisti finiscano, ad esempio, per prevalere sui narratori: ciò che del resto corrisponde a quanto avviene nell’editoria; e corrisponde alla domanda dei lettori giovani, come qualunque libraio può confermare. Tra i testi contemporanei figurano pagine che scottano, come il rapporto di Krusciov su Stalin, lo scritto di Mao sulle «contraddizioni nel popolo», il don Milani di «Obbedienza e obiezione»: ma anche Ionesco, Sartre, Beckett. Su un’antologia del genere – come sulle altre due citate – non si vede come possa innestarsi senza crisi l’insegnamento tradizionale legato alla catena esercitazione-interrogazione-voto. Sono libri che possono soltanto suscitare la discussione più vivace ed aperta. Prima che ad altri libri rimandano immediatamente alla lettura dei quotidiani e delle riviste culturali. Impongono, insomma, un diverso legame tra scuola e società, scuola e realtà. In altre parole, sono interventi attivi, intelligenti, combattivi, nella battaglia pedagogica e perfino, in un certo senso, nella lotta politica. E c’è da prevedere che non entreranno nella scuola senza bat89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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taglia, senza destare paure, senza suscitare la resistenza dei pregiudizi. Ma bisogna anche dire che sono nati perché erano attesi, prima ancora che dagli insegnanti, dai giovani, che nei libri vogliono trovare la vita, non i famosi, e superflui, «esempi di bello stile»; e nella scuola – della società, della cultura, della letteratura – vogliono trovare le ragioni del presente, non il raccontino edificante. PSL 8 maggio 1970, p. II

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Una serie di guide per la scuola

COME SI INSEGNANO «CERTE COSE»? [Laura Conti, Sesso e educazione, Editori Riuniti, pp. 160, lire 900 H.S. Arnstein, Guida ai problemi dello sviluppo sessuale, Armando, pp. 238, lire 2.000 Marcello Bernardi, Il problema inventato. Orientamenti di educazione sessuale dall’età prescolare all’adolescenza, Emme, pp. 228, lire 2.000 Roberto Leoni, Evoluzione sessuale ed educazione sessuale, Bulzoni, pp. 160, lire 1.800 Mario Gioia, Preliminari per una coscienza sessuale, Armando, pp. 168, lire 1.500]

Che cosa si deve intendere per «educazione sessuale»? Chi la deve dare, e a chi? Come va data? Le risposte a queste ed altre domande della stessa serie si possono cercare, ormai, in un ricco scaffale di manuali, resoconti di esperienze e dibattiti, lavori di sessuologi italiani e stranieri, laici e cattolici. Sull’argomento siamo sempre alla fase preparatoria. La prima legge per l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole è stata «preparata» prima della guerra del Quindici, ma nessuno è in grado di prevedere in quale decennio di questo secolo o del prossimo si comincerà a fare in Italia ciò che si fa da tempo in altri paesi. La lamentela non toglie interesse, anzi l’aggiunge, alla lettura dei cinque nuovi libri che si sono allineati nelle ultime settimane sullo scaffale in oggetto. Presentarli insieme comporta il rischio di coinvolgerli alla pari nel discorso. Meglio allora rischiare un’ingiustizia di segno diverso e dire subito che di essi il più superfluo ci sembra quello di Mario Gioia, in cui la pur notevole informazione biopsicologica è soffocata da un ideologismo anacronistico, 90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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da una eloquenza che non disdegna gli appelli diretti: «Sappia la gioventù italiana meditare su questo gigante del pensiero (Socrate, n.d.r.) ed essa non potrà mancare al suo destino». La Guida di Helene Arnstein si propone «di guidare i genitori ad una migliore comprensione dei problemi della formazione nel periodo dello sviluppo dalla primissima infanzia all’adolescenza» e a questo proposito tiene fede lodevolmente nella parte iniziale, diciamo fino alle soglie della pubertà. Nei capitoli dedicati al neonato, al lattante, all’addestramento delle funzioni corporali («aiutare il bambino ad evitare sentimenti di dubbio e di vergogna nei confronti del proprio corpo») il libro non manca di finezza. Molto meno convincente riuscirà, ad un pubblico italiano, la parte in cui si viene delineando una specie di codice del comportamento sessuale dell’adolescente, troppo legato al costume americano e ispirato a un puritanesimo temperato dall’ipocrisia. Degli altri tre libri il più nuovo è quello di Laura Conti, il più utilizzabile quotidianamente in famiglia quello di Marcello Bernardi, mentre quello di Roberto Leoni reca un contributo apprezzabile alla discussione sugli aspetti scolastici dell’educazione sessuale. Ai tre libri è comune in notevole misura il concetto che l’educazione sessuale non può essere concepita come una «materia» d’insegnamento, ma come parte integrante dell’educazione: nel senso che «non ci può essere educazione, cioè formazione della personalità, se non c’è anche educazione sessuale». L’educazione sessuale, dice Bernardi, deve «svilupparsi col bambino», in casa e a scuola. «Molta chiarezza e nessuna censura» sono le condizioni perché essa avvenga con successo. A scuola, spiega Leoni, deve fondersi con l’insegnamento di ogni giorno, con le occasioni fornite dalle varie materie (dalle scienze alla letteratura): sarà compito del maestro nelle elementari (ma bisognerà dargli la preparazione necessaria), dovrà entrare più largamente nell’insegnamento scientifico della secondaria, e questo non escluderà corsi speciali, a cura di specialisti. Quando? Speriamo presto. Sulla formazione di un sano comportamento dei ragazzi verso il sesso, i tre autori convergono fino ad un certo punto, cioè fin che si tratta di descrivere la nascita di un atteggiamento responsabile, in cui la sessualità sia insieme amore, rispetto dei desideri e dei diritti altrui, componente di una «unione» completa. «Il pro91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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blema dell’uso della sessualità – egli dice – non è diverso da quello dell’uso della propria intelligenza o di qualsiasi altra dote. È questione semplicemente di sapere quello che si fa e perché lo si fa». Sia Bernardi che Laura Conti sono favorevoli alle esperienze prematrimoniali e insistono sullo stato di crisi che si determina nei giovani della società industrializzata per la contraddizione tra la raggiunta maturità sessuale e sentimentale e la condizione di inferiorità, di dipendenza economica in cui sono tenuti. Per il Leoni, invece, «l’atto sessuale per essere umano e normale esige anche una maturità morale... che, per i cristiani, crediamo debba considerarsi consistere nel valutare l’unione lecita, valida, solo nell’ambito di un solido rapporto amoroso sfociante nel matrimonio». E anche qui – senza arrivare ad atteggiamenti repressivi – ci sembra che finiscano col prevalere sulla scienza preoccupazioni ideologiche. L’interesse del libro di Laura Conti (che raccoglie e sviluppa una serie di articoli apparsi nel «Giornale dei genitori») è nel modo originale in cui affronta il problema di fondo, che è quello di determinare nell’adulto, nell’educatore, prima che nei ragazzi, un diverso atteggiamento verso i problemi del sesso: non su base moralistica, né entro i limiti della fisiologia, ma illustrando il significato del sesso, anzi, dei sessi, nella storia naturale della specie. Affondano in questa storia le radici lontane dei nostri comportamenti. Capire perché l’evoluzione ha prodotto due sessi, e quale sia nel mondo animale «la parte della madre» e «la parte del padre» è importante per giungere a una conoscenza meno superficiale delle ragioni della vita fisica e della vita sociale. Senza questa consapevolezza sarà difficile ai genitori agire nel modo giusto, capire dal di dentro i problemi dello sviluppo infantile e quelli dei giovani. Il libro è ricco di osservazioni penetranti e offre una piattaforma su cui, al limite, i genitori potranno darsi essi stessi i consigli di cui hanno bisogno. Invece di molti precetti spiccioli, che potrebbero essere di scarsa utilità, il lavoro offre alcuni concetti-guida, esposti e illustrati con grande forza di convinzione. In conclusione Sesso e educazione e Il problema inventato ci sembrano i due libri migliori della serie. PSL 18 giugno 1971, p. III

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Danilo Dolci, Socrate in Sicilia

CHE TIPO DI SCUOLA VOLETE? RISPONDONO MADRI E FIGLI «Chissà se i pesci piangono» raccoglie una serie di incontri testimonianze per la creazione di un nuovo centro educativo

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[Danilo Dolci, Chissà se i pesci piangono, Einaudi, pp. 266, lire 3.500]

«Tutti sappiamo – dice Danilo Dolci alle mamme di Partinico, nella prima pagina del suo nuovo libro – come è necessaria una scuola nuova. Si potrebbe far crescere con le idee della gente, o senza le idee della gente. Siamo qui per domandarci quali sarebbero i consigli per questa scuola, come sognate una scuola per i bambini vostri, come la vorreste...». Le mamme, dapprima timide e disorientate, prendono via via coraggio a parlare, raramente interrotte da una domanda, dall’invito a precisare un concetto, da una sottolineatura. Il Socrate che coordina il dialogo, lo pungola, lo alimenta discretamente di stimoli non è il furbo stratega che guida i suoi Fedoni e Fedri e Critoni per una strada nota a lui solo, perché arrivino dove vuole lui: ha in mente una meta, la creazione di un nuovo centro educativo, ma non vuole precisare senza il contributo «della gente»; ha esperienza e cultura, ma sa ripartire alla pari con l’interlocutore più semplice, primo perché rispetta la sua esperienza e la sua cultura (magari analfabeta) di cui lo sa portatore, secondo perché pensa che la nuova istituzione avrà fondamenta più profonde se crescerà «con la gente» e farà crescere tutti coloro che ci lavoreranno. Quello che gli interessa fondamentalmente è sempre un «discorso sul metodo». Così è stato per la diga sullo Jato. Così dev’essere per la scuola nuova. Perciò comincia col far parlare le mamme, i padri, i bambini, i ragazzi, ai quali domanda: «Se dovessimo costruire una casa tutta per voi, come la vorreste?» e dice «casa», non «scuola», rompendo col vocabolario della tradizione, perché non vuole che i ragazzi parlino da «scolari», ma da ragazzi: che prescindano totalmente dai modelli che conoscono, che partano da zero, anche loro. O piuttosto, non da zero, ma da se stessi: dalle loro esigenze e dalle loro fantasie, dalla loro capacità di reinventare il mondo. 93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Le bambine di otto anni vorrebbero una casa «grande... larga... in campagna per prendere aria... con gli alberi, i fiori... che ci mettiamo d’accordo, chi fa una cosa, chi quell’altra cosa... ci mettiamo intorno a un tavolo, in cinque o in sei... a tavolo rotondo... che studiamo un poco e poi ce ne andiamo in giardino...». I ragazzi dagli undici ai quattordici anni la vorrebbero «vicino alla montagna e all’acqua di un ruscello, tra molti alberi, anche con animaletti... a un unico piano, che non si sentano i passi sulla testa; diversi gruppi, ma non troppo vicini...». Ci vorrebbero il telescopio, il laboratorio musicale, il campo di calcio, la biblioteca, il giornale, la radio, la televisione a circuito chiuso. E lavorarci a gruppi, con un coordinamento a turno. Ma il ragazzo dovrà avere anche «il suo tempo personale»... Un viaggio in America Danilo interroga gli studenti di liceo, gli insegnanti delle scuole locali, i contadini impegnati nelle nuove cooperative. Interroga architetti, pittori, musicisti, sindacalisti. Farà poi anche un viaggio in America per visitare, da Est a Ovest, decine di centri educativi nati con una idea nuova, fuori del quadro ufficiale. Abbiamo letto gli appunti di questo viaggio: per ogni visita una rapida informazione a uso della memoria, rilievi positivi e negativi che si incollanano in un catalogo di pericoli da evitare e di sentieri da tentare. Ma la cosa più preziosa, ad ogni pagina, sono i nomi e gli indirizzi delle «persone interessanti»: quelle che hanno una cosa da insegnare. Forse quelle che varrà la pena di invitare al Borgo Trappeto, per continuare a discuterci. E del viaggio nel libro non si fa ancora parola. In primo piano vi rimangono costantemente le voci dei diretti interessati, soprattutto dei ragazzi. È con loro che va sperimentato il metodo della ricerca. Ed ecco l’affascinate resoconto di un «seminario», al quale hanno partecipato venti ragazzi tra i nove e i quattordici anni, dedicato alla «ricerca espressa attraverso la parola». I ragazzi scelgono di approfondire questi argomenti: «Cosa è la noia? E la rabbia? – Incontro con dei padri – Incontro con delle mamme – I perché a cui vorremmo una risposta – Cosa è il dolore? E la gioia? – Quali diversi silenzi possono esistere?». Essi convengono che ciascuno inizierà con lo scrivere un breve autoritratto e cercherà poi di esprimere quanto vede «in un passo di terra, o in una persona, o in un albero, o in un animale, 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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o in una situazione». Gli autoritratti sono ancora scolastici, schematici, poco vivi. Sono scritti nella lingua dei «temi». Tutt’altra cosa sono i testi scritti dopo che le conversazioni e le attività comuni hanno liberato nel gruppo la possibilità della parola, e lo stesso modo di stare insieme e lavorare insieme ha fatto nascere un linguaggio ricco di motivazioni interiori. Le discussioni sono coordinate, a turno, da un ragazzo. Danilo è presente e interviene. Ma alla pari, compiendo lo stesso sforzo che agli altri è richiesto, di cercare onestamente ciò che sa, o sente, o pensa di un argomento. Non è il Socrate che aspetta i discepoli sul traguardo del concetto, ma il ricercatore che avanza con i compagni, crescendo con loro, educandosi con loro. Non è da stupire, dunque, se la parola chiave del libro finisce per essere la bella, antica parola eternamente legata a Socrate: la «maieutica». Essa entra a più riprese nel capitolo conclusivo del libro, riservato alle «indicazioni essenziali» di ciò che dovrà essere la nuova scuola; che di scuola, però, rifiuta anche il nome, per chiamarsi «centro educativo», non in omaggio al concetto-moda di «descolarizzazione», ma per proporsi chiaramente come alternativa alla tradizione. Il «processo maieutico di gruppo» viene al secondo posto, subito dopo la «scoperta dell’individuale», nell’elenco dei metodi di apprendimento e sviluppo previsti, perché il fine è di «riuscire a formare essenzialmente una società maieutica». L’educatore – che nella rinnovata nomenclatura sostituirà il maestro, il professore, l’insegnante – sarà tale «in senso maieutico, cioè soprattutto educatore a un metodo». Egli è «essenzialmente un esperto di maieutica: intesa come processo di chiarificazione teorica e pratica di gruppo, che avviene sulla base dell’esperienza e della intuizione di ciascuno». Fin dai primi anni (il centro è concepito per ragazzi dai quattro ai quattordici anni) avvierà «i ragazzi del gruppo a sperimentare come si può ricercare insieme, come ci si può comprendere, come si può decidere insieme, come si può decidere insieme, come si può agire insieme: come ci si può coordinare e come ciascuno può diventare maieuta». Il metodo dei metodi E ancora: «l’impostazione maieutica» è vista come l’unica via di scampo dal falso dilemma tra il «rapporto autoritario» (della scuola tradizionale) e il «quasi-caos dello spon95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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taneismo per reazione» (della contestazione anarchica). Ma bisognerà stare attenti che «l’avvio maieutico» non sia furbescamente utilizzato come «tecnica di sensibilizzazione e attivazione degli interessi affinché l’adulto possa poi appioppare la sua lezione con più successo». Danilo Dolci prevede e anticipa l’obiezione più facile: «la maieutica era giustificata da Socrate in quanto il conoscere era per lui reminescenza di quanto aveva già saputo». E risponde: «occorre individuare oltre la favola socratica – e il modello socratico stesso – il nodo essenziale: come approfondire e allargare l’osservazione; come esercitarla ed esprimerla nelle forme diverse; come approfondire e valorizzare l’esperienza personale per cercare di risolvere i problemi che la vita ci chiede di risolvere». All’obiezione risponde del resto, come s’è visto, l’intero libro. E vi rispondono le «indicazioni essenziali» dalle quali il progetto del nuovo centro educativo e dei suoi programmi risulta già sufficientemente chiarito: ma su questo punto non mancheranno le occasioni di tornare con attenzione, via via che il centro prenderà vita. Ci è sembrato più importante riferire sull’esperienza educativa della «ricerca» che Danilo Dolci ha condotto, con i suoi collaboratori, per far nascere quel progetto, perché il metodo seguito in quella «ricerca» si prefigura come «il metodo dei metodi», l’autentico nocciolo intorno a cui nascerà il centro. Il frutto è diverso dal fiore, ma la legge che li forma è unica. La «legge» per Dolci, è stata nella ricerca, e non potrà non essere nel centro: «cercare insieme», «agire insieme». Bisogna leggere nel suo giusto significato anche questa parola: «insieme». In una scuola, quando si dice «insieme», si può pensare a insegnanti e ragazzi, nel migliore dei casi: già i bidelli restano fuori... (ma non, per esempio, nelle scuole per l’infanzia emiliane). «Insieme», per il nuovo centro educativo, vorrà dire anche «insieme con la gente». Anche gli educatori Danilo Dolci non li cerca soltanto tra i diplomati e i laureati. Ci sono professori che non sono educatori. E ci sono contadini che meritano invece quel titolo. Un settore del libro è intitolato «educatori» e vi si trovano brevi, affettuosi profili: di Franco La Gennusa, che lavora tra i contadini del consorzio irriguo dello Jato; dei musicisti Eliodoro Sollima, Salvatore Cicero, Giovanni Perreira, Edwin Alton (un ex farmacista inglese che da anni vive in Sicilia, per insegnare il flau96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to dolce ai bambini); del pittore Ernesto Treccani, che a Borgo Trappeto è di casa; del fotografo Mario Molino; e ancora di artigiani, avvocati, architetti; accanto a quelli di «professionisti dell’educazione» come Lucio Lombardo Radice o Johann Galtung. «Educatori», per Danilo Dolci, sono tutte le persone che sanno aiutare gli altri a costruirsi. Non basta (ma è indispensabile, naturalmente) che essi dispongano di una tecnica corretta per insegnare quello che sanno: occorre che siano interessati agli altri; che sappiano stare tra gli altri come una persona che insegna e impara in ogni momento, da se stesso e da tutti. La cattedra non fa il maestro. E nel nuovo centro educativo non vi saranno cattedre. PSL 6 luglio 1973, p. I e p. IV

QUANT’E` BELLO GIOCARE Già puntualmente segnalato da Francesca Lazzarato nella sua rubrica dedicata ai libri per ragazzi, questo libro di Lucio Lombardo Radice (Il giocattolo più grande, editore Giunti Marzocco, lire 5.500) che l’autore definisce «forse il più serio di tutti quelli che ho scritto» si presta a qualche ulteriore considerazione. Per esempio, sarebbe tutto da riportare «L’elogio del gioco» con cui si conclude e nel quale Lucio Lombardo Radice, dopo aver indicato nel consumismo, nella passività e nella non-partecipazione il fenomeno che corrode la nostra «civiltà occidentale», invita a reagire, a recuperare la creatività, la gioia di inventare, il «gusto di suonare (male), di dipingere (peggio), di recitare (da cani), di fare film (pessimi), ma di suonare, dipingere, recitare, fare film noi». È questo lo sfondo su cui si collocano gli intelligenti giochi collettivi che il libro illustra, spiega ed esemplifica, giochi, appunto, da fare. Con il «giocattolo più grande», cioè con un cervello. Quali giochi? Niente di trascendentale: i mimi che debbono suggerire in gesti il titolo di un film, o presentare le sciarade figurate, le gare di versi su temi e schemi obbligati, l’invenzione di ideogrammi, il gioco dello spelling e così via, tra proposte che discendono direttamente dall’enigmistica popolare e altre che rinnovano l’atmosfera dei vecchi «giochi di società», tra idee che hanno un piede 97 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ben calcato nella logica matematica e altre che approdano al «gioco di inventare dei giochi» per rimatori, calcolatori all’inverso, scommettitori, eccetera. È francamente da ammirare la scrupolosa serietà con cui il professore di algebra astratta descrive i giochi, discute le regole proposte, precisa le condizioni per stabilire regole nuove: per esempio, per inventare collettivamente dei cruciverba, invece di risolvere quelli già pronti, o per individuare le fissazioni scelte dai presenti (divertentissimo quello in cui ciascuno decide di credere il proprio vicino di destra). La prima cosa che viene in mente, a lettura finita, è che il libro, oltre che per le famiglie, sarebbe prezioso per i maestri e i professori di matematica che ogni tanto volessero usare i giochi intelligenti al posto di qualche noiosissimo testo. Più in generale, avverte l’autore, «imparare a giocare, stabilendo e imparando a rispettare regole oneste, crea l’abitudine a una convivenza civile più che non lunghe prediche di educazione civica». Naturalmente la serietà dell’impianto e dei contenuti, il valore pedagogico o didattico delle proposte, tutto ciò sta ben nascosto tra le pagine, che anche un bambino può gustare senza difficoltà e che sono anche ricche di fotografie a colori e illustrazioni. In questa sorta di understatement Lucio Lombardo Radice è un maestro; tocca al lettore accorgersi che la sua semplicità è un punto d’arrivo ed è sorretta da un rigoroso spessore scientifico e da una profonda umana passione. PSL 4 gennaio 1980, p. 6

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Polemiche e flash

Un libro coraggioso su uno scottante problema Documento acquistato da () il 2024/02/19.

LOTTA SENZA QUARTIERE IN NOME DELL’ALFABETO [Anna Lorenzetto, Alfabeto e analfabetismo. Realtà e problemi dell’educazione degli adulti, Armando, pp. 182, lire 1.300]

In questo nostro affascinante e strano paese, dove tutti siamo così pronti a discutere, a progettare, a maneggiare idee generali e programmi palingenetici, e tanto poco disposti a fare, a coltivare con passione un orto, piccolo o grande, che non sia il nostro personale, il nome di Anna Lorenzetto dice probabilmente poco al grande pubblico, distratto da celebrità più facili. È il nome di una fragile signora e insieme di una formidabile organizzazione che da sedici anni dirige, prima con F.S. Nitti, poi con Arangio Ruiz, l’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo: U.N.L.A. per chi si contenta delle sigle. Per lei l’analfabetismo non è stato e non è un «cavallo di battaglia», per correre un torneo politico; non è stato e non è nemmeno il lodevole oggetto di un’iniziativa personale e missionaria, ma limitata, come fu per certi pionieri ed apostoli. Il libro (Alfabeto e analfabetismo) in cui espone le vicende e riassume i risultati provvisori di quindici anni di attività, e insieme dibatte con grande calore i concetti cui tiene e che ha visto chiarirsi in una coraggiosa esperienza, illumina prima di tutto una personalità nuova e moderna: capace di audacia, come i pionieri, ma capace insieme di valersi degli strumenti più moderni, delle tecniche organizzative d’oggi. Una delle affermazioni variamente ricorrenti nel libro è che l’analfabetismo, nell’Italia del Sud, non è solo un problema stati99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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stico: non si tratta solo di «alfabetizzare» gli analfabeti, o di «rialfabetizzare» gli analfabeti di ritorno, cioè di «stabilire o ristabilire nelle mani del contadino lo strumento del leggere e dello scrivere»; perché «se le strutture della società, le forme dell’economia e della politica non sono pronte a sostenere adeguatamente questo sforzo, e cioè non sono tali da inserire necessariamente lo strumento del sapere nella vita quotidiana, il tempo strapperà a poco a poco dalle mani del contadino il conquistato alfabeto, ricoprendolo d’oblio». L’alfabeto sarà una conquista permanente solo se la democrazia saprà rinnovare l’intera vita della società meridionale, rivalutare le energie e la capacità di iniziativa e di responsabilità del cittadino. Da questo però non deduce, la Lorenzetto, una priorità delle trasformazioni di struttura. Al contrario, la sua fiducia nella cultura come strumento di democrazia le mostra nella lotta contro l’analfabetismo un contributo a quelle trasformazioni. Quel che più conta, poi, essa nutre di queste idee la ricerca di un metodo adatto, che illustra nella parte più ricca del suo libro la storia dei Centri di cultura. Il Centro di cultura è appunto il nucleo originale ideologico e pratico di quel metodo. Di tali Centri ne esistono oggi 74, alcuni in funzione da un decennio, altri da pochi mesi, in numerose province dell’Italia meridionale. Di che si tratta? Di creare, con il Centro, «un ambiente nell’ambiente, un ambiente che è scuola di attività e di responsabilità in un ambiente che è scuola di inazione e di irresponsabilità». L’adulto che frequenta il Centro non vi trova solo un maestro che gli consegna una certa dose di sapere, ma una comunità democratica, nella quale compie un’esperienza nuova, «la piccola cellula di un nuovo tipo di società», in cui non scopre solo «l’alfabeto minore», ma anche quello che la Lorenzetto chiama «l’alfabeto maggiore»: sezioni culturali, gruppi di studio, seminari, gruppi di lavoro civico, iniziative che stimolano il suo intervento non tanto di scolaro quanto di cittadino. Intorno al Centro nascono anche corsi professionali, attività sportive, imprese a favore della comunità. Il Centro è apolitico, ma sarebbe meglio dire apartitico. L’assistenza viene sospesa almeno due mesi prima delle elezioni, e ri100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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presa soltanto dopo, e non c’è bisogno di spiegare il perché; il dirigente del Centro, se si presenta alle elezioni amministrative, deve lasciare il suo posto a un altro. Uno statuto drastico ma necessario in una società facile ai clientelismi, e nella quale abbonda la corruzione spicciola. «L’educazione non è la soluzione di problemi, anche ottimi e necessari sul piano dell’amministrazione e della politica, ma la formazione di persone capaci per sé e per gli altri di affrontare questi problemi». «Essere così fortemente fuori dai partiti è concepibile – scrive la Lorenzetto – solo se si è altrettanto ferocemente democratici. Il sacrificio del dirigente apre la strada della democrazia ai cittadini». Si può girare parecchio intorno a dichiarazioni del genere: ma non si può sottovalutare l’onestà, nella preoccupazione di tenere lontana dai Centri – «scuola di democrazia» – l’intolleranza e la faziosità: di farne un ambiente dove le opinioni politiche personali non mettono a disagio nessuno. Non creerà, questo atteggiamento, dei limiti ideali e morali alla stessa attività culturale dei Centri? No, se sarà chiaro che «la volontarietà del lavoro, l’utilizzazione e la preparazione delle forze locali, la democrazia interna, l’evoluzione e la differenziazione delle sezioni, le molteplici attività civiche e di sviluppo di comunità, la continuità e l’assiduità dell’opera culturale non bastano: devono anzitutto avere un terreno concreto e cioè morale, devono inserirsi in un movimento di idee che comprenda e giustifichi la stessa istanza educativa». E ciò rende più chiara la bella pagina in cui Anna Lorenzetto denuncia un altro analfabetismo: «Quello di chi sa benissimo leggere e scrivere, ma che volutamente ignora l’esistenza di un alfabeto maggiore, in una parola di chi specula sulla miseria altrui, di chi si vale della propria istruzione e del proprio potere per sopraffare»; «l’analfabetismo degli intrallazzi, dei compromessi, delle riforme fatte più per sembrare che per essere, sempre e solo restando nel campo dell’educazione». PSL 20 settembre 1963, p. IV

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Una polemica azzeccata contro i libri scolastici

METTONO NEI GUAI PERSINO GLI ADULTI

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[Carlo Bascetta, La lingua dei libri di testo. Esame comparativo, Armando, pp. 138, lire 900]

«Sono pronto a sfidare una persona di media cultura a dire su due piedi cosa significhino le seguenti parole che si leggono in libri di scuola destinati ad una terza elementare della scuola italiana: bulla... cubicolo... cella penaria... carpento... calcoli... carruca... fibula... impluvio... labaro... laticlavio... larario... mùrice... mirmillone... naumachia... pètaso... pupa... popine... pili... reziario... reda... scribi... tablino... triclinio... viridario... Libri impostati lessicalmente nel modo che ho descritto sin qui possono servire al più a preparare alla soluzione delle parole crociate, non a far capire un ambiente o una civiltà». La sfida e l’ovvia, legittima conclusione si leggono a pagina 29 del libro dedicato da Carlo Bascetta all’esame della lingua dei libri di testo in uso nella nostra scuola primaria. L’autore, del quale è già stata segnalata su queste colonne una acuta e anche divertente indagine sul linguaggio sportivo contemporaneo, edita da Sansoni, si è occupato ora, nei tre saggi che compongono il volume, dei libri di storia della terza elementare, dei libri di scienze adottati nella quinta elementare e dei sillabari, studiandone il lessico e analizzandone lo stile. Si tratta probabilmente della prima descrizione propriamente scientifica di una situazione intorno alla quale si è già tanto discusso (tra l’altro anche dal Bascetta, che presso lo stesso editore Armando ha pubblicato, in collaborazione con L. Volpicelli e V. Guzzi, il volume intitolato Il libro di testo). Per spiegarci meglio: l’autore, nel primo saggio, non intende insegnare a scrivere storia, né battersi per una metodologia piuttosto che per un’altra: vuol dire e dimostrare, piuttosto, «in che modo un libro di storia non va assolutamente scritto». Nei testi esaminati (e il lettore, seguendo pagina per pagina, prove e documenti alla mano, non può che dargli ragione) egli trova «povertà di riflessioni quando non sono estrinseci punti esclamativi, fallita missione di educare al giudizio storico, che non è bene inteso giudizio totalitario, miserevole neutralità linguistica... Cristallizzazioni: i Romani, una commistione di crudeltà e di virtù, il mazzetto 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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virtuoso fino alle guerre cartaginesi e il mucchietto vizioso dopo; i Greci schematicamente ridotti al gruppo della forza (Sparta) e a quello dell’intelligenza (Atene)... Personaggi che spuntano non si sa da dove, perché e come, e che hanno solo l’aria di Tom Mix o Nembo Kid venuto a risolvere la situazione... Giudizi perentori: ‘Assiri e Babilonesi furono popoli crudelissimi’, ecc. ecc.». Ecco un caso da Nembo Kid, o da «arrivano i nostri». A Roma, Galli e senatori disputano, al presente storico e con uso esclusivo del discorso diretto, intorno alle bilance su cui vien pesato il famosissimo oro: «Eccoti l’oro – dice il vecchio senatore, – Mettilo sulla bilancia, lo dobbiamo pesare – comanda Brenno, – Sono mille libbre – osserva il senatore, – Non vedi che la bilancia ne chiede ancora? – sghignazza Brenno, – È falsa! – grida il senatore sdegnato, – Se è falsa paga con l’oro anche questa mia spada – ribatte Brenno, – Guai ai vinti! Ma che cosa succede? Lontano si ode un rumor d’armi. È Camillo che giunge sul suo cavallo bianco. Vede l’oro e la bilancia, capisce e grida: – Romani, soldati fedeli e valorosi, la libertà della Patria si conquista non con l’oro, ma con la spada. Rovescia la bilancia e dà inizio alla battaglia. I Galli hanno la peggio». Quanto ai libri di scienze per la quinta elementare, un semplice inventario del loro lessico tradisce la loro natura di manualetti zeppi di nozioni e di termini scientifici, ma assai poveri, o addirittura privi della sola qualità che si vorrebbe lodare in loro: quella di saper stimolare la curiosità dei bambini verso la natura e le sue leggi. «In un’età come la nostra, nella quale si propongono ai bambini, dai sette anni in poi, scatole-giocattolo per esperimenti di chimica, di fisica, di elettricità, per le osservazioni botaniche», nei testi ci si limita ad aride descrizioni, ad una «scomposizione lessicale dell’universo». Della «spaventevole massa lessicale», vera e propria gabbia verbale, nella quale è destinato a morir prigioniero ogni slancio di autentica e vitale curiosità, l’autore dà un saggio elencando per due o tre pagine di fila i vocaboli incontrati in otto di quei testi: vocaboli, anche qui, che molti adulti sarebbero imbarazzati a spiegare con esattezza: «amalgama, amidi, alpacca, antimonio, apparato, anellidi, automazione, branchie, bradipi, bolo... (e così via in ordine alfabetico fino a) traiettoria ellittica, traiettoria parabolica, traslucidi, tarso, tossine, tegumento, taccare (nel varo delle navi), umor acqueo, ecc.». Gran parte di simili termini appaiono «in forma di tecnicismi 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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assoluti, senza cioè una spiegazione che li chiarisca o consenta almeno un grado sufficiente di ricordabilità», esempio: «il succo enterico prodotto dall’intestino stesso»; altro esempio: «l’aria raggiunge la membrana pituitaria che essendo umida trattiene le particelle odorose». Dal tecnicismo ci si allontana, ahinoi solo per cadere nella cattiva letteratura o... nella jettatura: «Il telefono – Pronto? Parlo col dottore? – Sì, sono il medico. – Venga subito per piacere: la mamma si sente male. Nel microfono, al quale si avvicina la bocca per parlare, si trova una sottile lamina di metallo che poggia, dalla parte interna, su granellini di carbone...». C’era proprio bisogno, per spiegare il telefono, di far correre al lettore miserello il rischio di diventare orfano di mamma? «Il commento sdegnato dopo la lettura di molti di questi libri di scienze potrebbe essere la risposta di Amleto a Polonio, mutando il verbo al passato: What do you read, my lord? – Words, words, words...». Cioè: parole, parole, parole. E assai spesso (vedi il terzo saggio) parole scelte male. PSL 27 marzo 1964, p. IV

L’importanza di saper parlare italiano

CONDANNATI AL CAPESTRO PER UN ERRORE DI PRONUNCIA Una pronuncia sbagliata può costar cara. Può anche arrivare a costare la vita, come scoprirono a prezzo della loro gli Angioini di Sicilia, all’epoca dei Vespri, quando gli insorti, per distinguere i francesi dai siciliani, li costringevano a pronunciare la parola «ceci», e chi sbagliava era morto. L’aneddoto, oltre che vecchio, è crudele. In nessun modo se ne potrebbe ricavare una lezione adatta ai nostri tempi. Basta aprire la televisione ed ascoltare le dichiarazioni dei nostri uomini politici in arrivo o in partenza da Fiumicino, all’ingresso o all’uscita dal Quirinale, o durante una conferenza stampa. Novanta volte su cento si può indovinare la loro origine dagli errori di pronuncia. A occhi chiusi. Col metodo dei «Vespri», sarebbe una strage. Analfabeti o scrittori, registi cinematografici o magistrati, so104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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no ben rari gli italiani che non pronunciano con un accento dialettale. Si può fare un’eccezione per gli attori di teatro (non per quelli del cinema) e per gli annunciatori della RAI. Se volete smascherare un padovano, un milanese, un bolognese provocateli a leggere una lista di parole come «zampa, zecchino, zazzera, alzare, Svizzera, zavorra, manzo», eccetera: tra zeta «sorde» e zeta «sonore» sarà una magnifica confusione. Le stesse parole, per altri tipi di pronuncia sbagliata, tradiranno il napoletano, il siciliano, il sardo. Le conseguenze di errori del genere sono, più che altro, pittoresche; nessuno potrebbe sostenere che le pronunce regionali ostacolano l’unità nazionale. Se un settentrionale pronuncia «e» chiusa dove ci vorrebbe «e» aperta, nessuno lo accuserà di sopraffazione. Se un triestino dimezza le consonanti doppie (o lunghe) o se un meridionale raddoppia le consonanti semplici, parlando del più e del meno, nessuno inorridisce. Anzi, si potrebbe perfino trovare un lato positivo, in questa generale e molteplice fedeltà ai dialetti: tra sconosciuti, è un modo di presentarsi, di dichiarare sinceramente la propria identità: la polizia può ricercare criminali con l’accento piemontese o pugliese; in treno, con un po’ d’orecchio, si possono evitare argomenti pericolosi per la suscettibilità o il campanilismo degli ascoltatori. Se tutti pronunciassimo allo stesso modo, e diventasse impossibile distinguere un modenese da un bergamasco, un napoletano da un fiorentino, probabilmente l’Italia ci sembrerebbe di colpo meno colorita, più standardizzata, una specie di unica, modernissima «Autostrada del Sole» invece delle cento stradette. Questa è la sola obiezione, irriverente e addirittura frivola, lo riconosciamo, a un’opera come quella del professor Carlo Tagliavini, ordinario di glottologia all’Università di Pavia, che ci presenta edito dalla Capitol di Bologna, La corretta pronuncia italiana: corso discografico di fonetica e ortoepia, pp. 324 di testo (illustrato con grafici, disegni, radiografie, palatogrammi, ecc.) e ventisei dischi a trentatré giri CEB, a doppia facciata, per un totale di cinquantadue lezioni. (Il prezzo è di 30.000 lire.) Sei anni di lavoro, centinaia di registrazioni a titolo di test, centinaia di militari di leva delle classi 1938-39 mobilitati per fornire un campionario completo delle pronunce sbagliate, delle sibilanti scorrette, delle affricate confuse, dei vari modi di non imbroccare una 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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consonante mediopalatale o di spostare ad arbitrio un accento tonico. Alla base di tutto questo lavoro una constatazione quasi ovvia, ma non per questo meno esatta: nessuno insegna agli italiani a parlare in italiano. A scuola impariamo a leggere e a scrivere, questo sì, e guai ai ragazzini che sbagliano una doppia nel dettato o un apostrofo nel componimento: agli stessi ragazzini, però, nessuno insegna la differenza tra i diversi valori della vocale «e» e i diversi timbri della vocale «o». E nessuno glielo insegna per la semplice ragione che anche i professori, generalmente, non hanno un’idea precisa della retta pronuncia: ognuno si tiene la pronuncia imparata dalla mamma o dalla balia. L’ortografia è curata, è addirittura (nelle elementari) materia d’esame; l’ortoepia, a scuola, non esiste. Il professor Tagliavini ha certamente ragione quando sostiene che l’importanza del «parlato» nella vita pubblica va continuamente aumentando con la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione. Una volta un milanese poteva vivere fino a cent’anni senza mai sentir parlare un siciliano. Oggi il cinema, la televisione, la radio, per tacere del turismo, degli affari e dell’emigrazione interna, provocano continui incontri e scontri tra le diverse pronunce regionali. Il problema non è semplice. Per il momento, i soli maestri in funzione sono le colonne sonore dei cinema e l’audio dei televisori. Intanto, i meridionali che emigrano al Nord si affrettano a imitare le pronunce locali, per ovvie necessità di inserimento, se non vogliamo dire di mimetizzazione, nelle comunità che li hanno accolti; e i settentrionali che, per lavoro o per affari, vivono o capitano a Roma, assorbono beatamente, insieme al gusto per la pasta al dente, quello di un gergo italo-romanesco molto comodo, ma assai poco corretto. Lo stesso professor Tagliavini nota perfino qualche caso di stoscanizzazione della Toscana, dove le persone colte tendono ad adottare la pronuncia settentrionale della consonante «s» intervocalica, in parole come «casa», «Pisa» con la sonora: una pronuncia «che, qualche decennio fa, sarebbe sembrata intollerabile ai ben parlanti». L’esempio ci è servito per sottolineare l’assenza, in questo monumentale e, a suo modo, affascinante corso discografico, di un fanatismo filotoscano che, suscitando reazioni analoghe a quelle della polemica sulla lingua scritta, metterebbe in pericolo qual106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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siasi iniziativa unificatrice. Modello toscano, dunque, ma senza rigidità, senza pregiudizi puritani. A questo criterio il professor Tagliavini ne associa un altro, la cui forza di convinzione non è minore di quella che può emanare da un bel brano di pronuncia toscana pura: ad ogni regola empirica per la retta pronuncia delle vocali, delle consonanti e dei gruppi consonantici, si accompagnano spiegazioni di grammatica storica, che a nostro parere non appesantiscono affatto, ma chiariscono e giustificano la regola, per lo meno a chi non manchi di un minimo di cultura filologica. Quando si precisa che i due differenti valori di «e», chiuso o aperto, sono in relazione con differenti vocali, o differenti quantità della stessa vocale, nella voce latina da cui è derivata la parola italiana, non si dà certo una guida utile e sicura a chi non conosca il latino: ma si aggiunge, alla forza del modello toscano, la forza di un argomento scientifico. Insomma, si sa perché bisogna pronunciare «nero» con la «e» chiusa e «viene» con la «e» aperta. Anche i bambini, se di una norma gli si spiega il perché, si piegano con maggiore convinzione a rispettarla. Il metodo del corso, dunque, appare in generale questo: di ogni vocale e consonante viene insegnata e giustificata la retta pronuncia (accompagnandola con gli indispensabili elementi di fonetica, con radiografie e palatogrammi che indicano il luogo e il modo di articolazione dei singoli suoni, o fonemi): seguono, a confronto, dizioni di elenchi di parole nella buona pronuncia toscana e nelle pronunce regionali più lontane al buon modello. Caso per caso, vengono abbondantemente illustrate le «opposizioni fonologicamente rilevanti», rappresentate da parole che si scrivono allo stesso modo ma acquistano diverso significato se l’«e» o l’«o» o altra lettera vengono pronunciate con un timbro o con un altro. Ben otto lezioni su cinquantadue sono dedicate alla vocale «e», ed altre sette alla vocale «o»; rispettivamente quattro e cinque alla lettera «s» ed alla «zeta». In fondo, basterebbe mettersi d’accordo, dalle Alpi alla Sicilia, su queste quattro lettere dell’alfabeto e sarebbe fatto quasi metà del lavoro per l’unificazione della pronuncia italiana. A parte le «cadenze»: per quelle, bisognerebbe fare tutt’altro discorso. Quando gli capita, il professor Tagliavini non trascura di mettere in luce anche le incongruenze dell’ortografia italiana: per 107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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esempio, una infinità di «q» che potrebbero essere tranquillamente «c», proprio come scrivono gli scolari più asini, forse segretamente avvertiti dal genio della lingua. Noi scriviamo «questo, quello»: se i vecchi grammatici avessero saputo che «questo» deriva da eccu istum e «quello» da eccu illum, ci avrebbero permesso di scrivere, come sarebbe più comodo, «cuesto» e «cuello». Teniamo da conto l’osservazione per quando gli scolari insorgeranno a chiedere una riforma dell’ortografia. Una riforma più semplice da realizzare suggerisce invece il professor Tagliavini al Touring Club Italiano: non sarebbe utile che i nomi locali, i cartelli indicatori lungo le nostre strade, portassero un accento grafico? Eviteremo così a italiani e stranieri di leggere «Teràmo» al posto di «Tèramo», «Trapàni» per «Tràpani», e, a Firenze, «Borgo degli Albìzzi» invece che «Borgo degli Àlbizzi», con l’accento sull’«a». PSL 18 giugno 1965, p. III

Storia dell’obiezione di coscienza

«NESSUNA BANDIERA E` SACRA, SECONDO LA SCRITTURA...» [Oreste Gregorio, L’obiezione di coscienza, Borla, pp. 144, lire 800]

L’obiezione di coscienza vista da tutte le «angolazioni» possibili: ci sembra che così possa definirsi il libro che Oreste Gregorio, giornalista di lunga esperienza, ha pubblicato nella nuova collana dell’editore Borla: «Diritto e Rovescio». Non è un romanzo, anche se l’argomento potrebbe offrire più di una «trama» alla fantasia degli scrittori. Con linguaggio spoglio e sincero, Gregorio ha condotto invece una vera e propria inchiesta di chiara impronta giornalistica. Egli ammette esplicitamente di non approvare l’obiezione di coscienza, ma la sua non è una posizione preconcetta, perché le «testimonianze» e le vicende sono equamente considerate, siano pro o contro, come del resto è giusto pretendere da una «cronaca» veramente serena. Il libro prende l’avvio dal caso di Enrico Ceroni, che nel 1948, 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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chiamato sotto le armi, giunto al CAR e sottoposto ai consueti tests di selezione attitudinale, quando fu invitato a scrivere sotto dettatura la frase: «La bandiera è sacra», restituì il foglio sul quale, con la sua incerta calligrafia di bracciante, aveva scritto invece: «Secondo la Sacra Scrittura, nessuna bandiera è sacra». Enrico Ceroni, 16 anni, piemontese, fu il primo obiettore di coscienza d’Italia da poco divenuta Repubblica. Era un «testimone di Geova», e spiegò che la sua fede gli vietava di indossare la divisa, di impugnare le armi e perfino di salutare i superiori. Lo considerarono un anormale, e ciò si spiega col fatto che il Codice penale militare non prevedeva quel tipo di «reato». La perizia psichiatrica stabilì, comunque, che Ceroni era sanissimo di mente, e per processarlo furono costretti a ripiegare sul disposto dell’art. 173 del Codice penale militare (che punisce il reato di disobbedienza). Da allora, tutti i processi contro gli obiettori sono stati basati su tale articolo: il caso Ceroni, insomma, è divenuto un «precedente» al quale la Giurisprudenza continua a rifarsi ad ogni occasione. Dal bracciante piemontese, a un impiegato di Ferrara, Pietro Pinna (allievo ufficiale, anche lui «testimone di Geova»); agli anarchici Mario Barbani e Ivo Della Savia, fino ai cattolici Giuseppe Gozzini, Giorgio Viola e Fabrizio Fabbrini (tanto per citare i casi più noti), il libro di Gregorio li ricorda tutti rievocandone la vicenda (sempre conclusa con una condanna davanti ai tribunali militari), offrendoci una vera e propria «antologia» di questo problema dell’obiezione di coscienza che anche in Italia è divenuto un fatto di notevole importanza politica e sociale. L’autore critica i fautori dell’obiezione, ma al contempo ricorda che in molti Paesi la questione è stata coraggiosamente affrontata e risolta, seppure parzialmente. Un libro che non ci trova concordi nell’impostazione, ma al quale si deve riconoscere il merito di proporre in termini umani (e quindi accessibili a chiunque) i grandi temi della «non violenza» come una strada verso una vera pace. PSL 21 ottobre 1966, p. III

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Un’inchiesta sugli ideali degli adolescenti europei

UN PAPA CHE GIOCHI A PING PONG

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[G. Lutte, C. Mattioli, G. Proverbio, S. Sarti, Adolescenti d’Europa. Modelli di comportamento e valori, Società Editrice Internazionale, pp. 190, lire 1.800]

Trentaduemila ragazzi e ragazze tra i dieci e i diciassette anni, di sette paesi europei, tra cui l’Italia, inviati a descrivere l’ideale cui vorrebbero assomigliare, hanno indicato la mamma, Papa Giovanni, Napoleone, Gianni Rivera, Bobby Solo, Kennedy, Alessandro Magno, Don Bosco, Gigliola Cinquetti, Tarzan, Nembo Kid, la Madonna, Cassius Clay. Qualcuno è ricorso al ritratto sintetico, come questa ragazza di quattordici anni: «Per la voce vorrei assomigliare a Rita Pavone, per l’altezza alle sorelle Kessler, per la bellezza a Virna Lisi, per i capelli a Brigitte Bardot, per la comicità a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, per la bravura nel presentare a Mike Bongiorno...». Qualche altro, saltando a pie’ pari tutti i modelli inferiori, ha parlato di Dio: «Vorrei essere come lui perché ha creato il mondo in un attimo. Egli comandava e le cose si facevano poi...». Un ragazzo (non appartenente al campione italiano) ha dichiarato di voler assomigliare a Dio «per poter fare agli uomini tutto il male che voleva...». Tra quelli che si sono costruiti un ideale senza preciso riscontro in personaggi esistenti, c’è un singolare tredicenne che ha descritto un Papa del futuro: «Egli è alto e magro, giovane... Un Papa moderno che viaggia in macchina, all’era in cui non ci sono più riti sontuosi ma semplici e cordiali tra i fedeli. La sua età è appena di 30 anni, infatti io penso che nel 2000 ci saranno preti giovani a dirigere la Chiesa anche se non hanno esperienza come i più anziani... Per divertirsi gioca a ping pong e a pallavolo con i segretari e Cardinali... Il suo nome è quello che mi piace di più: Federico Primo». In attesa dell’avvento di Papa Federico, vale la pena di riflettere sui risultati di questa inchiesta di proporzioni inusitate, svolta in Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio, Spagna e Portogallo da una équipe di specialisti, coordinata da Gérard Lutte, che ora firma con alcuni collaboratori il volume in cui sono illustrate le linee generali del lavoro ed esaminate analiticamente le risposte dei ragazzi italiani. Il libro è dedicato «Ai giovani di Prato Roton110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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do – una borgata alla periferia di Roma – e al gruppo di trenta liceali e universitari – che con loro ‘cercano’ un mondo più umano – in segno di amicizia – di ammirazione e di solidarietà...». Noi ricordiamo il professor Lutte (quaranta anni, docente di psicologia dell’età evolutiva al Pontificio Ateneo Salesiano di Roma) proprio fra le baracche di Prato Rotondo, dove i bambini non lo chiamavano né «professore» né «padre», ma Gerardo, e gli dàvano del tu. Abbiamo visto anche il «computer» con cui sono stati elaborati i dati dell’inchiesta, ma di quello abbiamo capito poco. Lutte è poi stato discretamente allontanato dall’Italia, come altri suoi colleghi. Aiutare i bambini a organizzarsi per conquistare una casa non aiuta un professore di psicologia a fare carriera. Del resto, non ricordiamo queste cose per spirito di polemica, ma per fornire qualche prova del profondo interesse umano, e non soltanto scientifico, che ha fatto da base al vasto «incontro con i giovani» di cui ci stiamo occupando e che si rivela ancora nei commenti alle risposte dei ragazzi. Altruismo e socievolezza Queste – per tornare all’inchiesta – sono state classificate e analizzate nei contenuti con molto rigore. I diversi tipi di ideale sono stati raggruppati in undici classi: genitori, familiari, insegnanti, adulti simpatici, compagni, santi, eroi, divi (del cinema, dello sport, della televisione, della canzone), eroi dei fumetti, ideali personalizzati (cioè creati dallo stesso adolescente), «me stesso» (quando il soggetto si dichiara soddisfatto della propria personalità). Le rassomiglianze tra i diversi paesi sono notevoli. Tedeschi, belgi, francesi, italiani, spagnoli e portoghesi fanno trovare al primo posto, tra le preferenze, un ideale personalizzato: solo gli olandesi indicano come modelli più popolari i divi e i compagni. Nel modello ideale i giovani tedeschi apprezzano soprattutto l’altruismo, poi il senso del dovere e la socievolezza; l’altruismo è al secondo posto per gli olandesi, al primo per i belgi, al secondo per i francesi, al terzo per gli italiani (senso del dovere e socievolezza sono le qualità più apprezzate), al quarto per gli spagnoli (dopo i valori religiosi), al secondo per i portoghesi. Nei modelli di comportamento che scelgono o descrivono, sembra dunque che i ragazzi sappiano esprimere un ideale morale comune. Da questo a dedurre «l’esistenza di una gioventù europea già molto largamente unificata al di là delle 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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frontiere nazionali», ci sembra che corra un salto troppo lungo. Lo stesso Lutte, del resto, conclude: «Perché i giovani europei siano profondamente attirati da un ideale esplicito di unificazione politica, bisognerà presentare questo ideale non soltanto nei suoi aspetti economici, ma soprattutto nella sua realtà umana», e aggiunge: «Solo un ideale di portata mondiale è capace, in questo momento, di attirare la gioventù europea». Tra l’altro, nei modelli indicati mancano assolutamente proprio i profeti della «piccola Europa» (Adenauer, De Gasperi, ecc.). Rifiuto di modelli L’inchiesta, a una prima lettura, ci sembra offrire non pochi elementi per meglio conoscere le psicologie dell’adolescente e lo sviluppo della personalità tra l’infanzia e la giovinezza: per trarne conclusioni di ordine politico o sociologico avrebbe dovuto poter spaziare oltre i suoi limiti geografici (per esempio, manca tutta l’Europa Orientale) e sociali (l’inchiesta si è svolta nelle scuole, e taglia fuori tutti i giovani lavoratori); in Italia la ricerca è stata condotta tra i giovani di quattro città: Torino, Roma, Napoli, Palermo. Un campione veramente rappresentativo dei giovani italiani avrebbe richiesto, tra l’altro, un impiego di capitali e di mezzi «troppo superiori alle possibilità di un gruppo di ricercatori privati». Questo ci dice, almeno, che «conoscere i giovani» non è tanto semplice e facile come sembrano credere quelli che tranciano giudizi sulla gioventù senza avere nemmeno cominciato un’inchiesta come quella di cui ci stiamo occupando. Anche in questo campo, più si sa, e più si scopre che si sa troppo poco. I ragazzi italiani, dunque, hanno indicato come modelli i loro genitori nella modestissima misura del quattro virgola otto (meno che in Germania ma più che in Francia); i loro compagni nella misura del diciotto virgola sei (i Santi, solo il cinque virgola due; gli Eroi, solo il cinque virgola tre). I divi dello sport, del cinema eccetera contano per il quattordici virgola due per cento. Non è nemmeno troppo. Segno che i ragazzi non sono così vuoti e moralmente poveri come si crede. L’ideale personalizzato è indicato nel ventiquattro virgola cinque per cento: il che significa che «un adolescente su quattro si forgia un suo modello, definisce i suoi interessi, il suo avvenire, le sue prospettive». Questo risultato è leggermente superiore alla media europea (ventidue virgola cinque). L’ideale personalizzato 112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nasce come desiderio di compensazione: «Non sono contenta di me stessa: vorrei somigliare a una persona immaginaria...». Esso può rappresentare un’evasione dalla realtà: «Io vorrei assomigliare ad un uomo fornito di straordinari poteri ed invulnerabile, dotato di forza incalcolabile, che possa volare...». Talora è il semplice rifiuto di modelli: «Io a dir la verità non vorrei assomigliare a nessuna delle persone che conosco...». Quando l’adolescente prende coscienza di sé, va in cerca di un ideale su misura, di una meta concreta: «vorrei assomigliare a un’edizione riveduta e corretta di me stesso». È il suo vero problema, il suo compito più vero. Ed è commovente scoprire che anche un compito così serio, impegnativo, concreto, può essere vissuto con entusiasmo: «La cosa più bella che un uomo possa avere è una idea modificabile secondo i frutti dell’esperienza...». PSL 27 marzo 1970, pp. I-II

La tragedia dei bambini-pastori suicidi nella campagna pugliese alla luce di una ricostruzione che affronta l’orrendo fenomeno della «tratta dei calzoni corti»

MORIRE DI MURGIA [Bianca Tragni, Morire di Murgia, Gea Editrice, pp. 80, lire 2.000]

Il pastorello tredicenne che si è impiccato pochi giorni or sono nelle campagne di Andria è subito associato, nella memoria, al bambino-pastore di Altamura che due anni fa mise fine con il suicidio a una grama e disperata esistenza, fatta di solitudine e di maltrattamenti. L’uno e l’altro si iscrivono nella storia della «tratta dei calzoni corti». In certe piazze pugliesi ti mostrano l’angolo dove ogni anno si svolge il mercato dei ragazzi, che le famiglie più povere si vedono costrette ad «affittare» come pastorelli o garzoni a proprietari, si direbbe, di non molti scrupoli. La cosa figura nelle statistiche, sotto la voce «lavoro minorile». I giornali vi dedicano periodicamente commenti commossi, inchieste di inviati. Poi tutto torna nel silenzio, nel «buio» di tante povere vite fuori della storia. Un bambino-lavoratore di undici anni, Nunzio Lojodice, di Altamura, così ha descritto la propria infanzia, quando si è imbattuto, a scuola, in un maestro che lo aiutava a prendere coscienza della 113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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propria condizione e ad esprimerla in parole: «Come un immenso sole – così è la gioia di un ragazzo – Come un immenso buio – così è la tristezza di un ragazzo maltrattato». Il testo è prezioso, perché nasce dal di dentro della tragedia, non dal di fuori, non è la voce di un testimone, partecipe o distratto, ma di un protagonista. Allo stesso modo appare prezioso il libro che Bianca Tragni dedica all’argomento, Morire di Murgia, perché nasce dal mondo stesso dei ragazzi venduti e dei pastorelli suicidi: è una voce della cultura pugliese che vuole porsi come protagonista del riscatto della sua terra. Il libro consta di una parte narrativa, in cui la tragedia del bambino-pastorello di Altamura è ricostruita con gli strumenti del racconto e dell’immaginazione; e di una parte documentaria, in cui la questione della «tratta dei calzoni corti» è presentata e discussa in modo diretto, con gli strumenti della sociologia o del giornalismo (la stessa autrice, laureata in giurisprudenza, oltre a insegnare storia e geografia è attiva giornalista). La parte narrativa, a sua volta, si divide in due: c’è il racconto di cui è protagonista il piccolo suicida e c’è il seguito, di cui sono protagonisti, in modo emblematico, due giovani di Altamura, in funzione di coro che commenta l’accaduto. Dei due giovani, la ragazza è cattolica, e si chiede che cosa abbia fatto la Chiesa per quel ragazzo, per la sua famiglia, per i diseredati del Sud; il ragazzo s’indovina comunista e si chiede se l’azione del movimento operaio sia adeguata alle esigenze più profonde dei contadini meridionali; l’uno e l’altro non sono avari di accuse nei confronti delle maggiori forze culturali e politiche presenti nella regione. La materia potrebbe fare di Morire di Murgia un libro a tesi, se non fosse invece vivificata da un profondo sentimento di amore per la terra di cui parla, i suoi paesaggi, i suoi personaggi; un amore che spesso è costretto ad esprimersi in dialetto. E sono le parole del dialetto che danno al racconto la forza e la poesia di una voce della Murgia che riflette su se stessa, che s’interroga sul suo presente e sul suo futuro. Una voce piuttosto timida, se si vuole (così si spiega la relativa abbondanza di documentazione che minaccia di soffocare il racconto), ma autentica. Un piccolo libro che potrebbe rappresentare un grande segnale. PSL 11 giugno 1978, p. 15

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Tra serio e faceto: profili

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NOTIZIARIO NEL 2000 «Washington: firmato l’accordo Stati Uniti-Marte. Mosca: aumentati gli scambi commerciali URSS-Saturno. Roma: rotti i rapporti tra Frascati e Castelfranco Veneto dopo gli incidenti di ‘Campanile Sera’» [Mosca, L’Italia in 120 vignette, Rizzoli, pp. 145, lire 2.000]

«Perdonatemi il disegno. Io so fare soltanto un uomo, una donna, un bambino, un cavallo, un elefante. Non troverete nemmeno il cavallo e l’elefante. Soltanto l’uomo, la donna e il bambino, riuniti e moltiplicati in varie combinazioni. Se le mie vignette valgono qualcosa, è per la battuta». Così Mosca presenta (anzi, presentava: il libro è ormai in circolazione da mesi) una scelta del singolare diario illustrato che tiene da anni sul «Corriere d’Informazione». Singolare proprio perché il gusto della battuta gli fa compiere giorno per giorno i più singolari «salti della quaglia» ideologico-politici. È di destra? Eccovi la battuta sul ministro che «non si dà delle arie, ma delle aree». È di sinistra? Eccovi la battuta antisovietica, anticomunista, la frecciata a Moravia, al cinema realista. È cattolico? Eccovi, a proposito di un cardinale che si occupa di donne in pantaloni: «Ma non ha argomenti più siri?». Qualunquismo, allora? È l’accusa che facciamo a Mosca nei giorni in cui la sua vignetta non è di nostro gusto. La satira non è gran che tenuta alla coerenza, non ha gli stessi doveri della propaganda. Se esprime umori autentici – individuali o pubblici – il lettore saggio dovrebbe riuscire a gustarla anche quando essa, in qualche modo, lo colpisce. L’umorista, a un cer115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to punto, ha un solo dovere: quello di non vietarsi la battuta, se è bella, neanche quando essa (pesata su una bilancia privata) può fargli perdere un amico. Di recente Mosca ha dedicato una vignetta ai frati di Mazzarino. Ci si vede un confessore che congeda il penitente con la formula: «Io ti ricatto nel nome del Padre ecc., ecc.». Probabilmente Mosca va a Messa tutte le domeniche, e di questa vignetta, a suo tempo, dovrà accusarsi in confessione. Però l’ha fatta. A sfogliarlo senza pregiudizi di parte, il suo album di vignette contiene certo qualcuna delle tessere che domani, ai signori posteri, serviranno a ricostruire il mosaico dell’Italia d’oggi. PSL 4 settembre 1962, p. II

STRANEZZE DEL LESSICO SPORTIVO [Carlo Bascetta, Il linguaggio sportivo contemporaneo, Sansoni, pp. 278, lire 2.000]

Il cronista sportivo, il tifoso, il calciatore, il corridore ciclista, il giocatore di pallaovale (o «pallovale»? o «pallaovale»?) potranno leggere in questo libro, di volta in volta inorgogliendosi o arrossendo di vergogna, il resoconto accurato, pignolo e scientifico dei loro personali contributi alla formazione della lingua parlata e scritta, il severo catalogo dei luoghi comuni e delle frasi fatte di cui si entusiasmano, dei barbarismi di cui abusano, delle parole straniere che contrabbandano, dei termini dialettali e addirittura gergali cui ricorrono. Coloro che dicono e scrivono «bambola» per «cotta», «buco» per calcio mancato, «castagna» per tiro secco, «melina» per gioco ostruzionistico, scopriranno forse con sorpresa di aver sollevato delicati problemi lessicali e filologici. Sfogliano intanto questo dodicesimo, attualissimo volume della biblioteca di «Lingua nostra», dai tre capitoli saggistici («Sport e linguaggio sportivo», «Il lessico sportivo», «Grammatica e stile nel linguaggio sportivo») alla nota bibliografica e al folto «glossario di termini tecnici sportivi in uso», da «abbinamento, abbuono, accasato» a «zona cesarini», passando per «callalessa» (tiro debole, fiacco) e riservando una rapida prece ai termini contras116 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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segnati da una crocetta, perché morti o moribondi: «back» per terzino, «water-polo» per pallanuoto e simili. Quali sono le fonti della ricerca? Innanzitutto i giornali, «banca di scambio tra lingua scritta e lingua parlata». Ascoltando parlare un tifoso, con un po’ di esperienza, potreste indovinare che giornale ha in tasca. Non per le opinioni che esprime, ma per il vocabolario che adopera. Altra fonte di prim’ordine la lingua inglese. Quasi tutti gli sport moderni sono di origine inglese e, diffondendosi per il vasto mondo, hanno riempito i meridiani e i paralleli di termini inglesi. L’italiano, a conti fatti, non ha rivelato un gran potere «cattivante» ed ha accettato ogni sorta di esotismi, barbarismi, francesismi, da «goleador» a «arbitraggio», «penalizzare», «controllare (l’uomo, la palla)». Lo sport ha favorito paurosi slittamenti di significato: «accasato» non significa più sposato, ma affiliato a una «Casa» industriale; «l’anello» si è incredibilmente allargato: circondava un dito, ora circonda una pista; il «catenaccio» era di ferro, oggi è di carne e ossa. Il linguaggio sportivo ha rubato un po’ a tutti: ai meccanici («rodaggio, carburazione» eccetera), ai postelegrafonici («tiro telefonato»), ai cantanti («un acuto di Lojodice»), agli scienziati («catalizzatore»), ai bari («tris d’assi»). Ecco poi gli scambi interni: gli alpinisti prestano ai ciclisti «lo scalatore», Gardini passa a Manfredini il «pallonetto», Nedo Nadi cede a Niccolò Carosio la «stoccata» e il «fendente». Però, siamo giusti: «La lingua quotidiana, dopo aver prestato certi vocaboli allo sport, se li è ripresi arricchiti di significato. Anche un commendatore, oggi, può dire di «sentirsi in forma», o può lagnarsi perché non «ingrana». Gustosissimo il capitolo sullo stile. C’è un catalogo addirittura omerico di epiteti epici: «i canarini», «i partenopei», «gli eugubini», «gli scaligeri», «gli zebrati», «gli alabardati», «i gigliati». Anche un bambino ce ne spiegherebbe il significato. Lo stesso bambino, intervistato a «Lascia o raddoppia» saprebbe riconoscere i personaggi nascosti sotto i nomignoli «Marisa», «la Signorina», «Trottolino», «il Frascatano», «il Cit». Ma ormai ci vorrebbe il nonno per riconoscere «la locomotiva umana», «l’eterno secondo», il «cornettista di Cittiglio». Ai giornalisti sono in particolare dedicate le osservazioni sull’ag117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gettivazione monotona o provinciale (eh, quante volte nelle cronache sportive abbiamo letto «coriaceo, clamoroso, deludente, guizzante, micidiale, plateale», formule standard che ormai non hanno più alcun valore espressivo) e sulle locuzioni fisse: l’autore ne elenca addirittura sedici pagine, da «il portiere si accartoccia sulla palla» a «fare il vuoto innanzi a sé». È il repertorio che permette ormai anche ai vigili urbani di trasformarsi in corrispondenti sportivi; ma che non serve più a «trasferire sul piano fantastico ed emotivo i momenti della gara», secondo la definizione che Giacomo Devoto ha dato alla funzione del giornalismo sportivo. Una funzione, dunque, non puramente descrittiva, ma essenzialmente valutativa. Qui sta la nobiltà di una professione, qui si nascondono anche i pericoli maggiori: valutare, significa stabilire un contatto affettivo col lettore. Quindi coi tifosi. E dei tifosi si può essere tentati di subire, di volta in volta, il fanatismo, lo spirito bellicoso, la superficialità. Allora la lingua non tende più alla necessaria «brevità», ma si gonfia di retorica; all’espressività auspicata e funzionale si sostituisce l’abbondanza barocca, il grossolano fuoco d’artificio verbale. Spunta il giornalista «trombone», tutti ridiamo: e forse anche lui, rileggendosi la settimana dopo, si mette le mani nei capelli. PSL 16 ottobre 1962, p. IV

UMBERTO E LA LOREN INSIEME IN EDICOLA [A. Lanocita, Sofia Loren, Longanesi, pp. 165, lire 400 S. Bertoldi, Umberto, Longanesi, pp. 215, lire 400]

L’unico punto in comune tra Sofia Loren e Umberto di Savoia era rappresentato, fino a ieri, dai loro guai con la frontiera italiana: definitivi e irrimediabili per Umberto, a cui difficilmente la legge repubblicana consentirà di rimettere piede di qua dalle Alpi; passeggeri, fortunatamente, per Sofia, all’epoca del suo matrimonio messicano e della denuncia per bigamia. L’attrice e il sovrano in esilio si dividono ora l’onore di inaugurare una nuova collana dell’editore Longanesi, in cui compariranno profili biografici di personaggi viventi: «Gente famosa». Sofia ha il numero uno. Umberto il numero due. Giustissimo. Sofia è, al presente, l’italiana più famosa del 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mondo; Umberto è un patetico fantasma. Umberto può credersi re; ma Sofia è certamente, a suo modo, regina. Quando si sia detto anche che Umberto è nato «qualcuno» ed è finito «nessuno», mentre Sofia ha seguito il percorso inverso, cessa ogni possibilità ulteriore di trattare i due personaggi con la tecnica delle «vite parallele». Un vitellone «ante litteram» «Umberto venne al mondo – scrive Silvio Bertoldi, autore della biografia – con un titolo a una colonna a pagina quattro del ‘Corriere della Sera’ del 16 settembre 1904». In quei giorni c’erano state sparatorie e sciabolate della forza pubblica contro i contadini, in Sicilia e in Sardegna; per il 17 si annunciava lo sciopero generale e già le comunicazioni stavano interrompendosi, i treni si fermavano, mancava l’energia elettrica, i locali pubblici abbassavano le saracinesche. Giolitti ebbe i guai suoi ad attraversare l’Italia per correre a Racconigi a fungere da notaio della corona. Ci furono morti a Milano e un po’ dappertutto nel Nord. Il vicesegretario presso il ministero della Real Casa, Eugenio Roncali, era stato appena arrestato sotto l’accusa di aver avvelenato la moglie per gelosia. La dama di corte che tenne in braccio il principino durante la stesura dell’atto di nascita fu a sua volta uccisa, sette anni dopo, in un albergo romano, dall’amante con cui era scappata. Il felice «attacco» della narrazione non è smentito dai capitoli seguenti, ricchi di notizie e non privi di considerazioni acute, eppure svelti e godibili come un buon servizio di terza pagina. Si leggono con gusto particolare i capitoli di mezzo, dedicati agli anni beati della gioventù di Umberto, idolo della buona società torinese, vitellone ante litteram, pazzerellone capace di infilare una lepre nel letto di un’amica e di nascondersi dietro la porta per godere i suoi strilli, o di far segare le gambe alle sedie perché i suoi invitati franino a terra. Il resto – la sua obbedienza passiva al padre, alla madre, al duce, ai tedeschi, agli americani – è storia nota e Bertoldi la racconta col distacco e, se non l’indulgenza, la mancanza di animosità che il tempo lascia ormai convivere con la freddezza del giudizio. Una storia intensa e dura Meno brillante, forse, la biografia di Sofia, scritta da Arturo Lanocita, un tantino troppo scrupoloso filologo per concedersi del tutto al piacere di raccontare. Ma, intanto, chi vada in cerca di notizie esatte sulla carriera della «pizzaiuola» ne tro119 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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verà quante se ne possono desiderare, e alla fine il ritratto è convincente, perfino commosso. Dalle prime «comparsate» a Cinecittà al film che sta interpretando con Brando sotto la direzione di Chaplin, la storia di Sofia è intensa e dura, piena di lotte e di trabocchetti. La sua bellezza non basta a spiegare il suo successo: il carattere e la forza di volontà c’entrano per la loro buona parte. Sofia è il caso esemplare di un forte istinto nativo che l’educazione non ha soffocato, ma messo in grado di esprimersi, di espandersi in direzioni nuove. Piace in tutto il mondo per la «carica vitale» con cui rappresenta la femminilità italiana, senza bisogno di occhioni neri: per «l’atteggiamento popolaresco, di orgoglio e di sfida», per «umanità eccezionalmente ricca». Piace agli italiani perché non possono invidiarla, sentendo che il destino non le ha regalato nulla. PSL 17 giugno 1966, p. I

UN RITRATTO IMPERTINENTE DI FANFANI [Piero Ottone, Fanfani, Longanesi, pp. 194, lire 400 Adele Cambria, Maria José, Longanesi, pp. 158, lire 400]

Maria José e Fanfani, rispettivamente per opera di Adele Cambria e di Piero Ottone, forniscono il terzo e il quarto volume della collana «Gente famosa» dell’editore Longanesi (numero uno Sofia Loren, numero due Umberto). L’accostamento tra «l’unico uomo di Casa Savoia» e il nostro attuale ministro degli esteri è puramente casuale, s’intende. Tra l’altro, le strade dei due personaggi non si sono mai incrociate, nemmeno durante il fascismo, quando Fanfani era un professorino in bilico tra il Vangelo e le corporazioni ed elogiava Mussolini per la conquista dell’Etiopia e Maria José, principessa di Piemonte, pur essendosi «lasciata tentare dalla vanità dell’Impero», come tanti altri, continuava a ricevere Umberto Zanotti Bianco e a proteggere la sua Associazione per il Mezzogiorno. Ambizioni parallele A voler giocare con i paralleli, si potrebbero mettere a confronto certe ambizioni e il loro fallimento: di Maria José, la velleità di diventare un polo d’opposizione al regime; di Fanfani, il tentativo di presentarsi come unico erede di De Gaspe120 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ri; aspetti decisivi della storia personale dell’uno e dell’altra. Ma chi teorizzasse su elementi tanto labili sarebbe un ben debole teorico. Proprio come Fanfani quando teorizza sull’alternanza al potere di longilinei e di brevilinei. Meglio lasciar parlare i fatti, ciò che i due autori fanno egregiamente, la Cambria forse con uno zinzino di partecipazione femminile al personaggio e con un’assenza di malignità in lei assolutamente inattesa ma, nel caso, lodevole; Piero Ottone con maggiore distacco e spesso con una calcolata ironia. Il ritratto di Maria José è quello di una principessa assai ricca e passabilmente moderna (si vantava di avere un padre socialista), finita, grazie o per colpa di un matrimonio quasi fatale, combinato un po’ da tutti quando i due sposi erano ancora bambini, nell’ambiente gretto e quasi dialettale dei Savoia; di una straniera innamorata dell’Italia che viene a contatto con l’Italia peggiore, quella del fascismo, in cui lo spirito è sospetto; di una moglie delusa che, conquistata con l’esilio «la libertà di essere se stessa», ha saputo contare per i figli più del padre, mero manichino di convenzioni. Questi quattro figli sono famosi per incidenti di macchina, spogliarelli e amori contrastati: ma le loro abitudini «si inseriscono nella norma dell’ambiente a cui oggi appartengono: l’international set, o come si vuole chiamarlo». (Quando il libro è stato scritto, il giovane Vittorio Emanuele non aveva ancora compiuto il raid su Napoli che ha fatto drizzare le vertebre ai monarchici italiani e ridere il resto del mondo). Il libro è ricco di testimonianze dirette, citazioni del diario di Maria José, aneddoti. Come un leit-motiv ricorre insistente, ad ogni proposito, il richiamo della distinzione che Maria José ha sempre tenuto a fare tra sé e i Savoia: atteggiamento che finisce per parere, e forse è, semplicemente snobistico. È, poi, come se Maria José non volesse ammettere di avere perso anche personalmente la partita. Ma non è lei che va scrivendo i libri sugli antenati di Umberto? Ecco, forse avrebbe voluto che Umberto avesse la stoffa di un Emanuele Filiberto. Il suo interesse per quelle vecchie storie ha della fantasticheria nostalgica. Una vita fallita cerca il suo compenso il più lontano possibile dal nostro tempo, in un mondo puro e ideale, o in un sogno da giovinetta che non vuol rassegnarsi al tramonto inglorioso del suo principe azzurro. Il Fanfani di Piero Ottone è un omino attivissimo, di scarsi e deboli principi (a parte l’indiscussa onestà personale) e di grandi 121 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ambizioni, una su tutte: quella di trattare da pari a pari con i potenti della terra. Nel suo bagaglio ha un po’ di dilettantismo, un bel po’ di tatticismo, il gusto del potere: per quel che riguarda il petrolio, l’energia elettrica e la politica estera, più avventurismo che buon senso. Un uomo di cui il paese diffida. Un leader travolto dalle risse interne della Democrazia Cristiana. Dentro questo schema piuttosto facile, o addirittura banale, cronaca, storia e pettegolezzo si muovono con notevole eleganza. Sono colti felicemente i saggi linguistici rivelatori di taluni tipici difetti fanfaniani, per esempio l’ampollosità: «Non drizzeremo mai la nostra prora verso il mare di Moscovia, né verso bracci più o meno noti che in esso possono in definitiva sboccare». Fanfani scrittore fa anche di peggio: per dire (nella «Pieve d’Italia») che era faticoso camminare in discesa, scrive che «le proprie gambe... in verità dovevano impegnarsi seriamente, più che nell’azione di moto, in quella di freno del moto». Conclusioni ragionevoli Rendono miglior giustizia a Fanfani le ultime pagine del libro in cui, abbandonata ogni pretesa di liquidare il personaggio mostrando solo i suoi punti deboli o i suoi errori (alcuni dei quali, inoltre, sono errori per Ottone e per una certa parte politica e meriteranno un’analisi più serena), gli si riconosce il merito di essere stato, da giovane, «l’esponente nella democrazia cristiana di una sinistra moderata, che si ispirava in parte a Keynes, in parte a San Francesco»; di non aver voluto «diventare il portavoce degli interessi costituiti»; di aver propugnato in anticipo sugli altri la politica di centro-sinistra, eccetera. «Può darsi infine – scrive l’Ottone – che l’avvenire ci tenga in serbo il Fanfani migliore». Insomma, un libro divertente, in parte ingiusto e in parte, com’è inevitabile, dominato dalle convinzioni politiche dello scrittore. PSL 29 luglio 1966, p. IV

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Aforismi e consigli del Duca di Bedford

COME SI DIVENTA UNO SNOB PERFETTO Fra i consigli pratici: cercate di avere molti quattrini, imparate a calunniare il prossimo, indossate vestiti nuovi che abbiano l’aria di essere vecchi, non ammalatevi mai

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[Duca di Bedford, in collaborazione con George Mike, Il libro degli snob, disegni di Francesco Tullio Altan, Sugar, pp. 214, lire 2.000]

«L’Inghilterra non è una democrazia. È una snobocrazia. Non che gli snob mirino al dominio e al prestigio; sta di fatto che li posseggono. Il vero snobismo è adamantino e disinteressato. Non aspira ad acquisire dominio, ricchezza e prestigio. È fine a se stesso». «La snobocrazia non pretende nulla dall’uomo comune... solo che rimanga comune. Come puoi guardare il proletariato dall’alto in basso, se è composto di gente più educata, più intelligente e più ricca di te?... Dove andrà mai a finire il mondo se non c’è abbastanza gente da disprezzare?...». «Questo è un modo di vedere le cose logico e normale. Tuttavia io non riesco a condividerlo. Voglio spalancare le porte e rivelare i nostri segreti. Voglio insegnarvi come diventare uno snob di successo...». «Tutti possiamo sentirci superiori ai nostri vicini. Tutti possiamo essere ricchi, diventare Lord. Tutti possiamo disprezzarci l’uno con l’altro...». Questi, ed altri consimili, sono gli aforismi teorici con cui il tredicesimo Duca di Bedford, Mentore e Virgilio, prende per mano i suoi Telemaco e Dante nel momento in cui si accinge a guidarli dall’inferno dei «comuni» al paradiso degli snob. Ma innanzitutto, che cos’è uno snob? Le antiche università inglesi contrassegnavano i nomi degli studenti provenienti da famiglie non titolate con la sigla «snobilitate», abbreviata poi con «snob». Il termine venne così a indicare «qualcuno che, pur appartenendo ad una volgare famiglia borghese, tentava di competere con i figli dei nobili, e di distinguersi un filino più di loro». Secondo l’Oxford Dictionary, lo snob è «persona con esagerato rispetto per le posizioni sociali, o per la ricchezza, con tendenza a vergognarsi dei parenti di classe sociale inferiore e comportamento servile nei confronti di chi è di classe superiore». Secondo il Duca di Bedford lo 123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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snob è essenzialmente qualcuno che non bada mai all’essenza delle cose, ma solo all’apparenza: nel mondo dello snobismo «l’apparenza è realtà». Non importa avere un titolo: importa essere amico di un titolato. Essere ricchi è piacevole e indispensabile: ma conta di più potersi mostrare a braccetto con i ricchi. Conoscere uno scrittore è interessante: ma lo scrittore dev’essere di quelli i cui libri superano la tiratura di ventimila copie. Diventa così evidente che «lo snobismo è un privilegio di tutte le classi». «Se un commesso di supermarket viene promosso vicedirettore del reparto pesce in scatola, saprà stare alla dignità del suo grado e non permetterà alla marmaglia di commessi di ritenerlo semplicemente uno di loro». Anche a un comizio comunista sarà presente lo snob che ama mostrarsi al fianco dell’oratore. «Lo snobismo non è altro se non il disperato desiderio di far parte di una classe sociale o di un ambiente di cui non si fa parte affatto. Al vero snob non basta mai il fatto di restare un esponente della sua classe sociale altamente onorato e molto simpatico ai più. Sempre aspira ad essere tollerato e ridicolizzato in una classe sociale un gradino più su della sua». Un esempio: l’operaio che si definisce appartenente alla classe media e vota conservatore, perché è più chic che votare laburista. Dopo i primi capitoli dedicati alla «teoria» e intessuti, com’era inevitabile, di buone battute e di banalità, il Duca di Bedford e il suo collaboratore (che è un giornalista di successo), passano alla «pratica» e il divertimento aumenta notevolmente. Il primo consiglio pratico è quello di «avere molti quattrini». È inutile pensare a salire, aspirare a far parte dei «pesi massimi» dello snob, se non se ne hanno. Il secondo consiglio suona: «Fatevi forti. Bisogna avere la pelle dura... Se qualcuno si è preso la briga di essere villano con voi, vuol dire se non altro che siete passato inosservato». Bisogna imparare a calunniare con poche parole, di effetto devastatore. «In questo modo si arriva a definizioni quali ‘MIF’ (Milk in first) (prima il latte): sigla che stigmatizza milioni di persone irrimediabilmente inferiori, che osano aggiungere il tè al latte – il che è ridicolo e sconveniente – invece di aggiungere il latte al tè, il che è giusto, nobile e lodevole». Il terzo consiglio è: «aver fede». «Dovete accettare l’intera pazzia con tutto quel che comporta... Se avete istinti filantropici, estirpateli dalla vostra anima. Potete, anzi, dovete devolvere grosse somme in beneficenza. Ma 124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scoprite quel che ci si aspetta da voi, qual è la forma benefica preferita da Lord X o Lady Y... La vostra generosità non deve essere di aiuto ai bisognosi: deve essere d’aiuto a voi stessi». Linguaggio – «Con perseveranza, attenzione e con l’aiuto di qualche amico potete imparare a barbugliare e a borbottare. Il che va molto bene. Una enunciazione troppo chiara non è... di straniero. Eliza Doolittle per via della sua perfetta dizione – e senza dubbio giustificatamente – fu presa per una ungherese (insulto tra i peggiori)». Vestiti – «Gli abiti debbono essere di stoffa eccellente, inutile precisarlo; ma benché debbano essere nuovi, devono avere l’aria di essere vecchi. Una soluzione possibile è riempire le tasche di un abito nuovo di sassi ed esporlo poi alla pioggia. Un’altra soluzione è quella di fare sempre indossare gli abiti nuovi per un paio d’anni dal vostro uomo, sì, insomma, dal vostro cameriere personale». Automobili – «Dovete scegliere o una delle auto più costose o un minicar. Non c’è via di mezzo. Il punto con il minicar è che potete dire che vi siete stancati di una macchina grossa: difficoltà di parcheggio, coda a non finire e storie belle». Ricevimenti – «Non dimenticate che voi ricevete la gente per fare colpo; così non dovete mai presentare qualcosa tolto da una scatola, con due sole eccezioni: il caviale e il foie gras, che vanno bene». «Guardarsi dalle abitudini americane: non preparatevi mai tutti i bocconcini pronti (come si fa per i bambini) per poi sistemare il coltello da una parte del piatto. Ma perfino questa usanza è meno deplorevole di quella di pasteggiare a caffè: questo veramente è la fine della nostra civile Europa». Fiori – «All’indomani di un invito mandate un mazzo di fiori alla vostra ospite. È un’abitudine molto sciocca: la vostra ospite ha dovuto comprare i fiori per l’occasione, per riceverne a mazzi quando non gliene occorrono più. Tuttavia dovete mandarglieli dopo». Sport – Da escludersi: calcio, rugby, tirassegno, corse automobilistiche, hockey e... perfino il cricket. «Acquistare cavalli, possedere una scuderia è il goal migliore». «I veri sport della snobocrazia sono la caccia e il tiro al piattello: lo yacht con qualche riserva; le corse e il polo». «Dovete riuscire a perdere fingendo di mettercela tutta per vincere». «Qualsiasi cosa succeda, non dimenticate 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mai la regola base: voi siete qui per stabilire un rapporto sociale con la gente importante, non per battervi nei vari sport». Conversazione – «A nessuno interessa un accidente di voi, ma tutti sono sfrenatamente affascinati da loro stessi. Prendete un’aria incantata, annuite con ammirazione al punto giusto e vi guadagnerete la reputazione di conversatore eccellente e spiritoso». Malattie – «Non è affatto distinto contrarre qualsiasi tipo di malattia, tenersela e alla fin fine morirsene anche. Una cosa simile non serve affatto alla vostra reputazione, anzi può danneggiarla». Sono consigliabili solo la gotta, i disturbi reumatici, gli esaurimenti nervosi e l’ernia del disco. Del tutto sconsigliate le vene varicose e il ginocchio della lavandaia. PSL 2 settembre 1966, pp. I-II

L’autobiografia di Georges Simenon

COMINCIO` A RACCONTARE PER L’ERRORE D’UN MEDICO [Georges Simenon, Romanzi autobiografici, primo volume della collana «Tutte le opere di Georges Simenon», Mondadori, pp. 913, lire 5.000]

La raccolta completa (per ora) dei libri di Georges Simenon comprenderà ventiquattro volumi di novecento-mille pagine l’uno, per un terzo dedicati alle indagini del commissario Maigret, croce e delizia dello scrittore belga (francese di formazione, svizzero d’adozione e, quanto alle sue preferenze, «cittadino del mondo»): si sa infatti che egli considera i romanzi polizieschi come frutto della sua mano sinistra e affida la sua fama, oltre la popolarità mai immediata, quanto mai larga, ai romanzi della mano destra. Il primo volume che abbiamo sott’occhio – ormai lanciatissimo, dopo la recente tournée dell’autore in Italia – comprende: I tre delitti dei miei amici, Piove, pastorella, Ricordo..., Pedigree, riuniti all’insegna del romanzo autobiografico. Il primo, in realtà, è più un esercizio che altro: dignitoso esercizio di mestiere, che consiste nel collegare e intrecciare tra loro tre diverse vicende il cui unico punto di contatto è il punto di vista dell’autore-testimone. Tante cose di Simenon sono «mestiere»: abilità tecnica, disinvoltura im126 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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pressionistica, senso cinematografico del dialogo. Quasi tutto «mestiere» è Maigret, per sua stessa ammissione (con in più quell’aura da cinema francese degli anni Trenta che Simenon ha assimilato con perfetto mimetismo). Il «mestiere» così intenso da noi non è mai stato di moda, e nessuno potrebbe convincerci che non sia un peccato. Dei quattro romanzi, Piove, pastorella è il più saldamente costruito nella sua brevità; Pedigree il più ambizioso, perché dovrebbe costituire, nell’opera di Simenon, l’equivalente di un «ritratto dell’artista da giovane». Ricordo... si presenta invece come un taccuino che contiene, allo stato grezzo, la materia di Pedigree: «Nel dicembre del 1949, alcuni mesi dopo l’invasione della Francia, mi trovavo ritirato nella foresta di Mervent, in Vandea, quando un medico, a conclusione della visita, diagnosticò per errore un’angina pectoris e mi annunciò che restavano due o tre anni di vita. Il mio primo figlio, Marc, aveva diciotto mesi. Non speravo di avere altri bambini. È dunque per lui che, in alcuni quaderni e senza la minima preoccupazione letteraria, raccontai i miei primi passi nella vita. Quel testo, romanzato ed ampliato, doveva diventare Pedigree. In quanto ai quaderni originali fu per caso, per ragioni assai complesse, che ne permisi la pubblicazione nel 1945 sotto il titolo Ricordo...». L’assenza di preoccupazione letteraria (in presenza, però, di un lungo allenamento a raccontare, a suggerire atmosfere, a cogliere gesti significativi, a preparare il terreno alle parole-chiave), il dovere della sincerità, uno stato d’animo doloroso, danno al libretto un tono inconfondibile. Predomina – ma anche a questo Simenon era allenatissimo – il presente: un presente dimesso, tutto informazione, una guida discreta e sensibile alla scoperta di un mondo che Simenon continuerà per anni a descrivere, a scavare, a circondare d’odio e d’amore, il mondo della sua infanzia. In queste pagine Simenon confessa il rancore che circola, non sempre nascosto, nelle sue innumerevoli descrizioni della provincia piccolo borghese, un ambiente e una classe con cui forse non è mai riuscito a fare definitivamente i conti, se si è portato dentro quel rancore, anche dopo essere diventato ricco, famoso, assiduo alle serate di casa Chaplin, eccetera. Nella galleria dei ritratti di famiglia sono riconoscibili i prototipi di decine e decine di personaggi simenoniani. Spiccano su 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tutti quello del padre – di una bontà suggellata in anticipo dalla morte, che egli solo sa di doversi attendere improvvisa e rapace – e quello della madre, nevroticamente tesa alla ricerca di una rispettabilità che costa alla sua virtù patteggiamenti continui con la meschinità, l’ipocrisia, l’inganno; formica instancabile guardata con le lenti divergenti dell’affetto e della satira. Ciò che vi è di abbozzato, di non ripulito, la «bavetta» di una fusione frettolosa, contribuisce all’efficacia e all’intensità di queste pagine.

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PSL 12 maggio 1967, p. III

Ritorna con nuove avventure l’investigatore sedentario reso popolare dalla televisione

CHI HA PAURA DI NERO WOLFE? Sei indagini di Rex Stout [Rex Stout, Chi ha paura di Nero Wolfe? Sei indagini in poltrona, Mondadori, pp. 680, lire 4.000]

Non è sempre vero che i piaceri del «giallo» nascano in definitiva dalla scoperta del colpevole di un delitto ottenuta a sorpresa attraverso una catena di deduzioni e di ricerche. Il fatto è che questo schema originario, da cui ebbe origine il genere così popolare del romanzo poliziesco, si è venuto complicando e affinando. Scoprire il colpevole è insieme una tecnica e un’arte: ed entrambe esigono un tecnico e un artista. Nasce così la figura del detective che adatta con mirabile intuito ed infinite risorse ad una molteplicità di casi sempre lo stesso metodo. Sicché il piacere del lettore sta nel ritrovare l’identico personaggio e l’identica situazione fondamentale, calati tuttavia in una vicenda nuova, strana e ingarbugliata, al punto che sembrerebbe mettere questa volta in scacco matto sia il detective che il suo metodo. Ma lo scioglimento viene a dar ragione alla infallibilità del sistema. Si prenda Nero Wolfe, il ciccione investigatore che compie le sue indagini sprofondato in una poltrona, senza muoversi dalla 128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sua casa a New York, bevendo birra e pensando alle sue amatissime orchidee, collezionate nella serra sottotetto. La televisione ha reso popolare questo personaggio. Il suo metodo di lavoro sembrerebbe escludere ogni efficienza; ma non è così. Nero Wolfe fa lavorare il suo cervello ed inoltre ha aiutanti di prim’ordine, come Archie Goodwin, che racconta poi le storie in proprio. Nero Wolfe non va mai di persona sul luogo del delitto o alla caccia dei colpevoli: per così dire, aspetta che gli indizi e i colpevoli vengano a casa sua, li raccoglie e se li convoca davanti, senza che debba smuoversi dalla sua amatissima poltrona. Ed eccoci alla gran scena finale, in cui tutti gli indiziati si trovano nello studio di Nero Wolfe in un clima di suspense giacché si sa che il colpevole del delitto è presente. E qui il ciccione si dimostra inimitabile regista e detective, nel riassumere, nel dedurre e nel dimostrare: stretto nella morsa delle prove raccolte il colpevole si rivela a sorpresa. Nei suoi romanzi che Mondadori mette insieme nel piacevole volume lo schema è rispettato, tranne in uno: Nelle migliori famiglie (in cui vediamo un Wolfe dimagrito e travestito, nei panni di un finto gangster, negli abissi della malavita). Morto che parla, che apre il volume, è la storia più complicata, più sorprendente, più ricca di umanità e di humor. Un volume raccomandabilissimo, dunque; un «classico» del giallo. PSL 16 febbraio 1972, p. IV

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Viaggi

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UN GIORNALISTA NEL PAESE DEL MAI MAI [Filippo Sacchi, Viaggio al paese del Mai Mai, Cappelli, pp. 221, lire 1.200]

Un volume magro magro: «una vita di giornalista in ventiquattro articoli», come si legge nel risvolto. Si apre con una corrispondenza che reca la data del 1914, e disegna senza la minima macchia retorica un ritratto di Trieste alla vigilia della guerra, e si chiude con una breve «moralità», quasi un corsivo, sui corpi dei cinque alpini ritrovati più di cinquant’anni più tardi in un crepaccio dell’Adamello: poche righe asciutte ma piene di calore, in cui l’assenza di retorica è diventata polemica contro la retorica, contro il falso patriottismo, un dimesso ma franco appello alla tolleranza, alla comprensione. L’ultima pagina risponde alla prima, in una coerenza ammirevole, ma parla da un piano più alto: un giornalista scrupoloso ed acuto è diventato un educatore (e non per nulla, intanto, il romanziere Sacchi, il critico di cinema Sacchi è diventato autore di due testi di educazione civica). Il fatto è che tra l’articolo che apre e quello che chiude la raccolta guerre, rivoluzioni, controrivoluzioni hanno mutato la faccia del mondo e il giornalista, a un certo punto, non si è accontentato di essere testimone e cronista, sia pure di primissima qualità: ha abbracciato un suo «calmo dovere» (sono parole sue), ha scelto la sua parte, ha reso sempre più esplicita la lezione delle «cose viste». Questo cammino appare evidente, per esempio, da Esegesi di una dittatura, che è del ’23, e con acre distacco descrive le prime ore di Madrid dopo il colpo di stato di Primo de Rivera, e Lo zoccolo di Genny Marsili, un episodio della strage perpetrata dai 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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marxisti a Sant’Anna nel 1944, «un episodio di lettura», narrato ormai dall’interno di una forte passione civile. E il grido di rivolta era già alto anche poco prima, quando l’episodio era detto. Sarebbe ingiusto però isolare questi toni dagli altri assai vari e complessi, attraverso i quali di brano in brano si rivela non tanto il giornalista che sa passare senza incespicare «dall’inchiesta politica al profilo di attualità, dalla corrispondenza di viaggio al racconto aneddotico», quanto lo scrittore capace di registrare la ricchezza e la complessità della vita, con un’intima partecipazione, così come ai suoi grandi drammi, anche alle sue invenzioni estrose e tristi (La casa delle arpe), alle sue stravaganze (Una notte parigina), ai suoi più amari spettacoli (L’erba di Verdun, Magonza anno zero), alla solennità che persiste fin nella farsa (La morte di Gide), ai grandi spettacoli naturali (I giardini dell’Oceano, Volo sulla Genesi). Al fondo di tutto, e specialmente nei bellissimi articoli del viaggio in Australia (La strada che cammina, La repubblica del Mai Mai) sentiamo appunto una ferma fede nella vita: tutt’altro che cieca, tutt’altro che ottimista, costretta sempre in un’espressione misurata e avara di lodi, ma di tanto più resistente. La distanza dalle cose e dagli uomini non serve a Filippo Sacchi per disprezzarli, ma per capirli meglio, e infine per amarli di un amore contenuto ma sicuro. La lezione del giornalista è di prima qualità: una lezione di scrupolo, di precisione, di ripulsa alle tentazioni del «brillante», del «colore» e simili. Ma ancora più alta è la lezione dello scrittore e dell’uomo, ed è soprattutto questa che fa di Sacchi un maestro. PSL 17 novembre 1961, p. 7 e p. 10

UNA GUIDA SCANZONATA AI SEGRETI DELLA RUSSIA [Paolo Pardo, Guida facile alla Russia europea, Tindalo, pp. 380, lire 3.500]

Paolo Pardo è stato per anni corrispondente del «Paese Sera» da Mosca. La semplice notizia tuttavia non dà il senso dell’accaduto. Bisogna aver visto Pardo a Mosca, nel suo appartamento dalle parti del lungofiume Frunze, sprofondato nella sterminata e affa131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scinante metropoli, intento ad assorbirne pazientemente gli umori, gli odori, le voci, a lasciarsene penetrare, con pazienza ma non con passività, come un peperoncino immerso in una bottiglia di vodka ucraina, per capire come sia potuto nascere, e perché sia nato com’è, il libro Guida facile alla Russia europea che abbiamo appena finito di leggere. Il verbo, stavolta, è esatto: una guida è di solito un libro da consultare, per decidere un itinerario, per conoscere l’orario d’apertura dei musei, un inventario cui si chiede prima di tutto completezza, e in questo senso sarebbe difficile trovare una lacuna in queste pagine dove ci sono anche consigli pratici e psicologici sul miglior modo di reagire con un vigile urbano russo quando sta per appiopparvi una multa, e sulla tecnica da usare in un ufficio per esserne «adottato» e rilasciato al più presto con i timbri e i bolli necessari. Ma la guida è proprio da leggere, come un libro di viaggi o lo stenogramma di una lunga conversazione, nella quale all’informazione si mescola l’aneddoto, alla notizia la battuta, all’elenco degli alberghi la divagazione sul perché a Mosca una guida dei telefoni è praticamente introvabile (e Pardo, con diligenza incredibile in un uomo che non ha il mito dell’efficienza, ne fornisce una minima per quel che riguarda le agenzie di viaggio, le ambasciate, i teatri, i centri sportivi, gli alberghi). Il frasario essenziale C’è qualcosa di più arduo di un «frasario essenziale» che permetta la turista di balbettare, nella lingua del paese che lo ospita, almeno le parole: mangiare, bere, buongiorno, dov’è la farmacia più vicina? Ma per il nostro, nemmeno la compilazione di un frasario può restare una operazione tecnicoburocratica. Intorno alle parole ha bisogno di suscitare una situazione vissuta, un piccolo alone colorito. Un esempio: «Noi siamo della delegazione italiana; dov’è il tavolo riservato? (segue la traduzione in russo. E poi: «Consigliamo i lettori di servirsi il più possibile di questa frase sia pure con la dovuta discrezione: negli affollati ristoranti sovietici le ‘delegazioni’ hanno sempre la preferenza sui singoli o sui gruppi di semplici avventori. D’altra parte il visitatore straniero, salvo rare eccezioni, può sempre considerarsi accolito di qualche delegazione o raggruppamento più o meno ufficiale, in senso stretto o in senso lato...». 132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Le ultime due battute del frasario sono una piccola farsa: «Alla salute!». «Chiamatemi un taxi...» «Per favore, chiamatemi un taxi, non mi reggo in piedi... (Naturalmente è assai improbabile che quest’ultima frase sia mai letta al momento in cui serve davvero)». Ma Pardo non dimentica il linguaggio dei gesti: «Per esprimere il desiderio di bere, formare una O con l’indice e il pollice della mano destra, tenendo discoste le altre dita: avvicinare la mano alla gola sul lato destro, indi calcare ripetutamente la gola con l’indice. Una bottiglia di vodka comparirà da qualche parte». La guida si struttura in tre parti: Il continente russo («Una nuova dimensione turistica», «Quel che bisogna sapere», «Frasario essenziale», «Valuta denaro e prezzi»); Le Metropoli («Mosca: l’incontro di due mondi», «Le zone monumentali», «I tesori da scoprire», «Per l’automobilista», «Come passare la serata», «Mosca gastronomica», «In giro per acquisti», «Indirizzi utili a Mosca»; «Leningrado: I pionieri della pianificazione», «Le cose da vedere», «La Leningrado ancora inedita», «Per l’automobilista», «Piccola guida del Pigro», «Indirizzi utili a Leningrado»); Scoperta di un paese («Il cammino di Napoleone», «Verso il Nord: I paesi baltici», «La pianura delle cattedrali», «Al Sud: La strada della grande Caterina», «Discendendo il Volga»). Per avere un’idea del punto di vista con cui Pardo affronta, di volta in volta, il suo compito di Cicerone, ecco l’introduzione alla «Piccola guida del Pigro»: «Leningrado stanca il turista perché è spropositatamente vasta e perché, per goderne appieno il fascino antico e sottile, bisogna percorrerla a piedi. Uno dei soliti pedanti che si divertono a tracciare statistiche ed analogie matematiche ha calcolato che se un turista quarantenne volesse soffermarsi un quarto d’ora davanti a ciascuna delle cose interessanti in mostra in questa città arriverebbe a 85 anni avendo coperto appena metà del programma e dovrebbe perciò trasmetterne la continuazione agli eredi: come fanno i protagonisti dei romanzi cinesi di due o trecento volumi. È concepibile perciò che un determinato temperamento di turista mandi al diavolo tutte le visite meramente ‘culturali’, tutti i musei, tutte le memorie imperiali, gli archi di trionfo e i capolavori dell’architettura e limiti la sua visita a un indolente girovagare per i negozi e i marciapiedi a un tiro di 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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schioppo dal suo albergo. A lui vanno dedicati i brevi paragrafi che seguono...». L’aggettivo «indolente» è la chiave. Pardo è uno di quei rari personaggi che riescono a combinare un mestiere nervoso, agitato e al tempo stesso pignolo (le notizie debbono essere precise, non debbono mancare i particolari) come quello del giornalista, con una sorta di indolenza, di distacco più romanesco che filosofico. Ha girato la Russia in lungo e in largo, e si sente che scrive del vero, di cose che ha visto con gli occhi suoi, di cui ha preso nota con scrupolo professionale: ma dappertutto lo ha accompagnato questa sua «indolenza», che è poi la sua capacità di abbandonarsi alle cose, di lasciarsene penetrare senza schemi, senza fretta, in attesa che la realtà gli riveli il suo vero volto. L’indolenza, a un certo punto, può diventare amore: per il paesaggio, per la gente, per lo straordinario paese sovietico, che per lasciarsi capire veramente vuole essere visitato come suggerisce Pardo, cioè con calma, con intelligenza, con i sensi aperti alla grande ricchezza umana. PSL 4 settembre 1970, p. I

Aneddoti e curiosità in una piacevole guida

I SEGRETI DELLA BRIANZA E QUELLI DI... GADDA [Guida ai misteri e segreti della Brianza, a cura di Mario Spagnol e Luciano Zeppegno, Sugar, pp. 408, lire 4.000]

Tre sono i santi patroni – due morti da un pezzo, il terzo per fortuna vivente – di questa Guida ai misteri e segreti della Brianza; tre santi che sono poi tre famosi romanzieri: Stendhal, Alessandro Manzoni e Carlo Emilio Gadda. Intorno alla triade si dispongono altre costellazioni, come quella dei fratelli Verri e stelle isolate, ma di prima grandezza, come l’abate Parini e Carlo Porta. È come dire che il repertorio abituale a queste «Guide», di stregonerie, diavolerie, apparizioni, miracoli, leggende, eccidi, disgrazie e stramberie, senza rinunciare ai suoi diritti, si nobilita stavolta nella dimensione del «viaggio letterario». Il folklore rende omaggio al134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’aneddoto culturale, il che gli permette, in una certa misura, di impadronirsene. Ne risulta un ibrido molto piacevole. La Brianza è – (al pubblico romano non suonerà offesa la spiegazione) – una regione di colline, ville, paesotti e paesini – ma oggi anche di autostrade, di fabbriche e di acque inquinate – che si estende a nord-nord-est di Milano, tra Monza e Lecco, detto un po’ approssimativamente. Per le grandi famiglie milanesi, una volta, la villa in Brianza era di rigore come il frak alla Scala. Dopo una parentesi di svariati dirottamenti turistici, la corsa alla «casa in Brianza» è ripresa oggi con altro significato. Vi partecipano professionisti, artisti, industrialotti. Non è solo la moda del week-end: aumenta progressivamente il numero dei pendolari di lusso. Il paese del resto è così bello che imbruttirlo del tutto sarà difficile. Stendhal percorse la Brianza nell’agosto del 1818. Il «Journal» di questo viaggio è riportato nella Guida. È scritto parte in prima persona, parte in terza. Un diario freschissimo che mostra uno Stendhal camminatore, ingenuo ma instancabile cacciatore di donne, pronto a godersi ogni attimo della sua giornata, scrupoloso nella tenuta dei conti: «Oggiono, altre spese (in lire) caffè, 1; vedova ‘soi-disant belle’, 1; peccatrice, 3,7». Alessandro Manzoni presenta sette punti di «brianzolità»: 1) fu a balia in Brianza; 2) fu in collegio in Brianza; 3) passava, da ragazzo, le estati in Brianza; 4) ebbe, ragazzo, in Brianza una visione (stava per rubare della frutta e gli comparve su un muro la scritta: «Dio ti vede»); 5) ebbe, si mormorava, un amore ancillare brianzolo; 6) non ebbe, da adulto, una villa in Brianza (ce l’aveva a Brusuglio, e la Brianza la vedeva solo dalla finestra); 7) scrisse un romanzo di ambiente brianzolo. Questa è poi la traccia di uno speciale articolo dedicato dalla Guida al Manzoni brianzolo. Al romanzo, invece, sono dedicate belle e spiritose ricerche sotto le voci di luogo (principalmente Lecco) più appropriate. Fin qui il lavoro dei raccoglitori è diligente, curioso, ironico. Il vero acquisto è quello del folklore gaddiano, che si apre addirittura con una cartina della Brianza di Carlo Emilio Gadda, quella che fa da sfondo topografico dell’immaginaria repubblica sudamericana in cui si ambientano le sofferenze, le ire, le nevrosi di don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino (La cognizione del dolore). Dunque, il Maradagàl del romanzo è ovviamente l’Italia; la regio135 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne detta Keltikè, o Nea Keltikè è la Lombardia; la Brianza è l’«arrondimiento del Serruchon» (il Serruchon, poi, è il Resegone che domina il paesaggio brianzolo); Lukones, presso il Seegrun, è Longone al Segrino; la città di El Prado è Erba; Novokomi è Como; la capitale morale, Pastrufazio è Milano, ma il nome le viene da quello del generale Pastrufazio, che invece è Garibaldi. Certe cose della Cognizione del dolore – dice e prova la Guida – si possono spiegare anche un po’ con la Brianza; e non solo nel senso della identificazione dei luoghi, bensì in quello dell’origine stessa di certi temi gaddiani, di certe sue ossessioni. Rilette allora certe pagine della Cognizione (sulle ville, sulle campane, sul formaggio gorgonzola) si rivelano ancora più ricche che alla prima, balordita lettura; altri aspetti della sua arte – l’impasto o imbroglio coi dialetti – anche più rabelaisiani. Lavorando a ricostruire, a posteriori, i giochi della fantasia di Gadda, a ritrovare la radice di certe invenzioni verbali, il senso nascosto di certe matte sfuriate, la Guida ha la saggezza di restare a sua volta, almeno con un piede, sul terreno del gioco: niente, insomma, che abbia il candore e la goffaggine di certe ricerche sui luoghi manzoniani. Esplorazione fantastica, non filologica: questa la chiave usata di preferenza per aprire i sotterranei della Cognizione del dolore. Un buon boccone è, tra gli altri capitoli, la «Gita in Brianza descritta alla suocera» da Carlo Porta, in italiano questa volta: ma un italiano così svelto e aderente alle cose, più che alle patrie lettere, da sembrare perfino tradotto dal milanese. Infine, omaggio alla riscoperta dei canti di lavoro e di protesta, più che al folklore, i Canti della filanda: «El mestee de la filanda – l’è el mestee degli assassini – poverette quelle figlie – che son dentro a lavorar – Siam trattati come cani – come cani alla catena – non è questa la maniera – o di farci lavorar...». La Guida mostra una certa attenzione anche al folklore vivente. «A un chilometro da Magreglio, sulla strada di Bellagio si arriva al Ghisallo (754 metri d’altezza) dove spesso sono passate le carovane del Giro d’Italia ciclistico. Nel piccolo santuario dedicato alla Madonna del Ghisallo (patrona appunto dei ciclisti) si possono vedere biciclette e maglie dei vari campioni, offerte per ringraziamento (come altrove stampelle e cinti erniari)». In questa direzione si poteva certo fare di più. Una guida dell’Italia con136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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temporanea, fatta tutta di notizie che non risalgono più indietro di cinquant’anni, non sarebbe davvero né povera né noiosa. PSL 18 dicembre 1970, p. VIII

LA CINA DI MAO (E DI MARX)

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[Giorgio Melis, Cina di Mao. 1949-1969, Longanesi, pp. 790. lire 5.000 Antonio Banfi, Europa e Cina, La Nuova Italia, pp. 256, lire 2.300]

Poche settimane di turismo in Cina non dànno a nessuno il diritto di atteggiarsi a sinologo. Ma può capitare di continuare idealmente il viaggio con qualche lettura, per cercare nei libri il senso delle cose viste, o per saggiare le proprie impressioni su quelle di altri. È quello che sta capitando a noi. Con ciò, naturalmente, più che nella critica siamo nell’autobiografia e il lettore avrà tutte le ragioni per rifiutare la nostra opinione sui libri di cui parleremo. C’è addirittura di peggio: con l’autore di uno di questi libri (Giorgio Melis, Cina di Mao, 1949-1969) ci siamo incontrati poche settimane fa a Hong Kong, nel ristorante di un italiano profugo da Shanghai, per un reciproco bisogno di lumi, noi in arrivo da Canton e lui, da decenni, fermo sulla soglia per lui invalicabile del solo paese del mondo che lo interessi davvero; di un altro (Antonio Banfi, Europa e Cina) conserviamo un ricordo struggente, del tutto personale. Insomma, sprofondiamo addirittura nella sfera del privato. A chi ci seguirà possiamo promettere solo delusioni. Giorgio Melis, ovvero il dramma del sinologo. La Cina è il suo «pensiero dominante» e certamente l’oggetto del suo amore, se non altro come la preda lo è per il cacciatore. Anno dopo anno egli raccoglie pazientemente brandelli di informazione, ritagli di notizie, collezioni di giornali consentiti, pezzi sparsi di giornali vietati allo straniero, impressioni di viaggiatori. Passa molte ore al giorno ad ascoltare, avendo conoscenza perfetta del cinese, non solo radio Pechino, o radio Shanghai, ma tutte le emittenti cinesi di provincia che è in grado di captare, e dalle quali si attende, giustamente, la comunicazione di particolari interessanti, di sfumature significative, di indizi anche minimi da coltivare in un archivio scrupolosamente ordinato. Per pazienti approssimazioni, per 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lente manovre di sottile filologia, con gli innumerevoli e minutissimi tasselli di cui viene in possesso compone un mosaico storicosocio-culturale da cui nessun fatto è assente; a cui però mancherà in misura disperante il sapore del vissuto, l’odore immediato del vero. È come fare dell’archeologia sul presente. Perché nella Cina propriamente detta egli non mette piede. Il più distratto dei turisti ha su di lui un vantaggio incalcolabile. Non parliamo di chi, come Edgar Snow, o come il dottor Horn, o l’autore americano del Fanshen, o gli svedesi del Rapporto su un villaggio cinese, vi ha passato mesi, anni, lustri, ascoltando la gente viva e non le voci degli annunciatori radiofonici. È vero, naturalmente, che sull’andamento della guerra può sapere di più il generale, vivendo lontano dalle cannonate, del soldato semplice che non può vedere più in là dei sacchetti di sabbia della sua trincea. Ma il sinologo non può fare a meno di invidiare l’uomo d’affari che è stato un giorno a Pechino e al massimo, oltre al suo albergo e all’ufficio ministeriale in cui è ricevuto, conosce la via degli antiquari dove ha comprato un souvenir di qualità. Tutto questo per dire che il libro di Giorgio Melis, frutto di un enorme e di un attento lavoro, sostenuto da una solida e vasta conoscenza della cultura cinese del passato, non riesce ad avere il tono convincente di altri, ben più modesti, reportages. I fatti – dalla Liberazione del ’49 alla chiusura, per altro provvisoria, della Rivoluzione Culturale – ci sono tutti. Ma si ha l’impressione di muoversi più nel loro cimitero che nel loro campo di battaglia. Nessuno ha dato finora, in Occidente, un quadro panoramico di tale vastità dei primi vent’anni di potere popolare in Cina, dalla fase della «dittatura della democrazia popolare» a quella della «dittatura del proletariato», dalla prima riforma agraria alle Comuni del popolo, dalla collaborazione alla rottura con l’URSS; nessuno un racconto altrettanto completo ed articolato della Rivoluzione Culturale, di cui Melis ha saputo vedere i prodromi in certe campagne politico-ideologiche dirette o volute personalmente da Mao Tse-tung (in linea, senza saperlo, col racconto visivo che il turista si trova davanti nelle sale dell’Esposizione della Storia del Partito Comunista Cinese a Canton). Le note – quasi cento pagine fitte fitte – costituiscono uno sforzo di documentazione veramente imponente. Eppure la ricostruzione operata in queste pagine ha più dello schema che del racconto di fatti e aderisce alla realtà come 138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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un occhio miope può rendere conto dell’estrema ricchezza delle forme concrete del vero: è «sinologia», cioè scienza provvisoria e arbitraria delle cose cinesi. È deduzione, non rappresentazione. Non parlano mai i testimoni, se non come nei verbali delle deposizioni «per sentito dire». Il dubbio metodico, doveroso in qualsiasi osservatore, diventa sospetto sistematico, che è un’altra cosa. Il meccanismo dell’interpretazione prevale, prevarica, la forza ai materiali raccolti. Domina il libro da un capo all’altro, ad esempio, il parallelo – «sinologico», più che storico – tra l’avvento della Nuova Cina e la vittoria del Primo Imperatore Chin sui più antichi Chu, nella Cina del terzo secolo avanti Cristo. Mao non sarebbe che il fondatore di una nuova dinastia. La fonda con gli stessi metodi del suo predecessore: la conquista armata, la riforma agraria, l’imposizione di una dottrina ufficiale obbligatoria per tutti. Mao come nuovo imperatore. Mao come nuovo Confucio. La Rivoluzione Culturale come l’imposizione violenta di un successore di Mao. La storia cinese non sarebbe che l’ossessiva ripetizione di uno stesso schema, fissato in eterno dalle condizioni cinesi. Tesi non nuova, quella «dinastica». Nuovo l’apparato culturale con cui è sostenuta l’imperturbabilità dello stampo di una «Cina di sempre» entro cui si calerebbero, volenti e nolenti, le vicende della Cina d’oggi. Si riducono così a pure parvenze, a ribollimenti di superficie, le due grandi rotture rivoluzionarie col passato: quella del ’49, che ha distrutto le strutture della «Cina di sempre», e quella della Rivoluzione Culturale, che ha spinto bruscamente l’acceleratore nel processo di trasformazione del modo di pensare e di agire di settecento milioni di uomini. Sfugge, per la tangente socio-strutturalista, il nocciolo, anzi, la sostanza stessa delle cose. Antonio Banfi, che era stato in Cina nel 1952, e che non è vissuto abbastanza per confrontare quella sua esperienza con gli avvenimenti del ’66-’69, aveva visto più a fondo. Nel suo libro, che raccoglie diari di viaggi, corrispondenze per l’«Unità» e conferenze sulla filosofia cinese in rapporto al pensiero occidentale, si possono incontrare riflessioni illuminanti come questa: «Ciò che non poté né il Cristianesimo né l’Illuminismo sulla civiltà cinese lo poté il marxismo, ma questo suo potere nacque non dall’essere introdotto come dottrina ideale di verità ma dal vivere come coscienza concreta ed attivamente efficace di un rinnovamento sto139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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rico corrispondente non a una idea astratta ma alle esigenze effettive di tutto il popolo cinese... La cultura europea entrava col marxismo, non come forma ideale di una civiltà compiuta, ma con la coscienza che la stessa civiltà europea era in crisi, entrava con la concretezza e la sua analisi critica... entrava come metodo di pensiero e di azione...». A Banfi il marxismo, anzi il marxismo-leninismo (non si parlava ancora del «pensiero di Mao Tse-tung» nei termini in cui se ne parla oggi) appariva insieme come l’elemento di rottura e di trasformazione della realtà e della cultura cinese, e come il ponte su cui passava una nuova possibilità di comprensione tra cultura europea e cultura cinese. Un punto di vista, oltre che più convincente, più produttivo della riduzione del marxismo a puro strumento di potere operata dal Melis. Il quale ha certamente ragione quando chiede agli... esploratori della Cina di non sostituire ai fatti le loro «intuizioni»: ma nel negare all’introduzione del marxismo il carattere di «fatto» si priva, probabilmente, dello strumento più adatto a organizzare in autentica conoscenza la grande mole di materiali che ci offre nel suo libro. PSL 26 novembre 1971, pp. I-II

SE NON SIAMO STUPIDI IL MERITO E` DEI FRANCESI [Enzo Biagi, Francia, Rizzoli, pp. 242, lire 7.000]

Sesto volume della «geografia di Biagi» (dopo quelli sull’America, l’Italia, la Russia, le Germanie e la Scandinavia), anche questo sulla Francia risulta da un’addizione minuziosa di informazioni, aneddoti, citazioni, battute, dati, interviste, un pulviscolo che si aggrega intorno ad alcuni temi emergenti (la vita politica, la donna, gli intellettuali ecc.) senza mai assumere i toni e darsi le arie del saggio: la materia prima resta raccontata sempre come in un servizio giornalistico di attualità. Di Biagi, a leggere i suoi articoli, si dice facilmente che scrive come parla. I libri, poi, li scrive come scrive gli articoli, per essere capito anche dall’ultimo della classe, con un rigoroso rispetto della semplicità, che per lui è un punto d’arrivo. 140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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I materiali raccolti sono sempre ricchi, spesso originali, come le statistiche consultate, dalle quali risultano notizie insospettabili: sul numero dei ponti francesi distrutti durante la seconda guerra mondiale, il numero degli alberi abbattuti a Parigi nel maggio del ’68, quello dei castelli, che sono quattromila, quello dei preti spretati, o degli studenti disoccupati; ma per entrare nella prosa di Biagi tutti i materiali debbono sciogliersi senza residui, perdere peso, diventare trasparenti. La lingua resta fino alla fine quella delle primissime battute: «È così per ogni paese: ognuno ha la sua idea, e spesso è legata a un oggetto, a una parola, a una immagine, a un ricordo. Francia? Le Gauloises, Brigitte Bardot, il Concorde, il Club Mediterranée, Marilyn Monroe che a chi le chiede cosa indossa per dormire risponde ‘Chanel numero 5’, le coq au vin, o una bottiglia d’annata di Romanée Conti». Si può prendere, a caso uno degli innumerevoli elenchi in cui si raccolgono le annotazioni di Biagi. La provincia francese: «Se vai a Saint-Malo trovi l’Hotel de l’Univers e ce ne è uno dappertutto; se ti fermi una notte ad Avignone, nel tuo albergo è in mostra la chiave della stanza dove dormì Napoleone, ce n’è una ovunque e non si capisce come abbia trovato il tempo per fare anche la guerra. Hanno ancora le vasche di ghisa smaltata. Si cena all’ora fissa e la padrona porta in tavola e quello che discute nell’angolo è l’ispettore delle finanze che conversa col comandante della guarnigione. Si sentono ancora i galli all’alba, e il fabbro che batte sull’incudine. Del resto i villaggi danno un senso di vuoto, non si vede quasi mai nessuno sulla strada. Un terzo del territorio è disabitato». Quest’ultima proposizione è un esempio dello stile, o se si vuole del meccanismo, che trasforma in una battuta a effetto un arido dato statistico. Biagi ha il gusto dei particolari precisi, si fida della loro capacità di produrre significati, di comunicare emozioni. Ha il gusto dei personaggi, di quello che hanno da dire. «Un anziano parroco mi ha detto: ‘Ho sessantacinque anni, prendo la pensione e mi ritiro. E sposo la mia governante. Mi aspetta da venti’. Anche il matrimonio, come la vocazione religiosa, è un appello. Credo che nel futuro finirà così. La Chiesa ha sempre condannato l’amore carnale e disprezzato la donna, salvo che per le sue funzioni di madre. Quanto alla sensualità, si è nel paradosso: il prete deve spiegare ad altri problemi che torturano la sua esistenza». Con la stes141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sa immediatezza dell’anonimo parroco parlano decine e decine di intervistati maggiori e minori, illustri o sconosciuti, religiosi, laici, militari, borghesi, artisti, giornalisti, nobili, donne. Scorre dall’inizio alla fine del libro, come un’interminabile conversazione sulla Francia, il suo presente, le sue prospettive, la sua cucina, i suoi itinerari religiosi, le sue industrie, i suoi formaggi. La curiosità dello scrittore spazia a trecentosessanta gradi, senza disprezzare alcun aspetto della vita, senza farsi guidare da un qualsiasi genere di faziosità intellettuale per istituire gerarchie tra le notizie da portare alla luce per conto del committente-lettore. Sempre trasparente è la simpatia di Biagi per la Francia. Ma questa è dichiarata fin dall’inizio, in una breve introduzione: «Il mio amico Fellini sostiene che se la nostra generazione non è cresciuta proprio del tutto stupida è davvero un miracolo: io penso che una buona parte di questo prodigio lo dobbiamo alla Francia. Ai suoi libri e ai suoi film: i romanzi populisti e i personaggi di Carné ci insegnarono a insinuare, tra le tante certezze del fascismo, il dubbio. È stata, per noi, la patria del ragionamento e della speranza...». La storia di questa simpatia e di questo debito, del resto, è già scritta nei libri di ricordi di un’intera generazione di antifascisti emigrati in Francia. PSL 15 ottobre 1978, p. 17

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Bibliografia degli articoli apparsi su «Paese Sera-Libri» (1961-1980)

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Questo elenco dei contributi di Gianni Rodari al supplemento «Libri» di «Paese Sera» non è completo: la scelta si limita ad indicare i testi più propriamente rivolti ad un pubblico adulto.

1961 PSL 31.03.61 p. 6 Letteratura educativa PSL 01.09.61 p. 6 Ragazzi e Religione PSL 13.10.61 p. 5 e cont. p. 8 Tolstoj maestro elementare PSL 03.11.61 p. 5 e cont. p. 8 Perché mettere sotto chiave gli amori della Monaca di Monza? PSL 17.11.61 p. 7 e cont. p. 10 Un giornalista nel paese del Mai Mai

1962 PSL 29.05.62 p. I e II Cultura per tutti in una nuova enciclopedia PSL 04.09.62 p. II Notiziario nel 2000 PSL 16.10.62 p. IV Stranezze del lessico sportivo PSL 23.10.62 p. II Proverbi coreani PSL 06.11.62 p. II Letteratura per ragazzi PSL 16.11.62 p. III Meraviglie del corpo umano

1963 PSL 04.01.63 p. III I primi eroi del fumetto ci fanno tornare bambini PSL 18.01.63 p. I e cont. p. II I bambini imparano come nascono PSL 10.05.63 p. II Henry Miller da se stesso PSL 14.06.63 p. IV Piacerebbe ad Apollinaire il dizionario di Bulg PSL 20.09.63 p. IV Lotta senza quartiere in nome dell’alfabeto PSL 25.10.63 pp. II-III Il sesso degli angeli / Un maestro e i suoi scolari 143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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1964

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PSL 17.01.64 pp. I-II Woyzeck e altre opere di Büchner / Una nuova «universale» PSL 07.02.64 p. II Figure nel tempo PSL 20.03.64 p. II Enciclopedia delle scienze PSL 27.03.64 p. IV Mettono nei guai persino gli adulti PSL 17.04.64 p. II Munari smonta arance e piselli PSL 24.04.64 p. II Enciclopedia delle scienze PSL 17.07.64 p. II I «grandi» per i piccoli PSL 30.10.64 p. II Leggende pugliesi PSL 27.11.64 p. II Dizionari figurati PSL 10.12.64 p. VI Un maestro con la chitarra

1965 PSL 05.03.65 p. IV La Resistenza e i ragazzi PSL 19.03.65 p. II Il gergo dei giornalisti PSL 26.03.65 p. II Impariamo a giocare / Scienza senza alambicchi PSL 18.06.65 p. III Condannati al capestro per un errore di pronuncia PSL 23.07.65 p. II L’enciclopedia in miniatura / Hitler e i Khan contro la Russia / Dante ai giovani PSL 30.07.65 p. II Esiste il «boom» di letteratura infantile? PSL 22.10.65 p. II Nostro figlio artista PSL 05.11.65 p. III L’avvocato Perry Mason e «l’americano simpatico» PSL 12.11.65 p. II Il generale si diverte PSL 03.12.65 p. III Non date mance alla hostess e chiamatela signorina / Lo specchio della società PSL 17.12.65 p. IV Perfino Schopenhauer tra i classici della fiaba PSL 31.12.65 p. II Il diario di un osservatore

1966 PSL 11.02.66 p. III Sempre più difficile il mestiere di genitore PSL 18.02 66 p. I Ritorno di Maigret PSL 04.03.66 p. IV La nonna e la guerra partigiana PSL 29.04.66 p. III Aspettiamo segnali intelligenti da altri mondi PSL 06.05.66 p. I Moravia e Tolstoj letture per la scuola media PSL 20.05.66 p. II Perché piange il bambino? PSL 03.06.66 p. IV Un western all’italiana PSL 17.06.66 p. I Umberto e la Loren insieme in edicola 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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PSL 01. 07.66 p. III Tre librai romani espongono opuscoli stampati alla macchia PSL 08.07.66 p. I Cara Claudia... Lettere dei «fans» alla Cardinale PSL 15.07.66 p. III Le idee dei grandi PSL 29.07.66 p. IV Un ritratto impertinente di Fanfani PSL 02.09.66 pp. I-II Come si diventa uno snob perfetto PSL 09.09.66 p. IV Canto popolare e nuova canzone PSL 16.09.66 p. III Scambia il cappello con quello d’uno sconosciuto e ne rivive la vita PSL 23.09.66 pp. I-II Dalle macchine inutili agli oggetti funzionali PSL 21.10.66 p. III Vita col padre nelle memorie di Michael Chaplin / «Nessuna bandiera è sacra, secondo la Scrittura...» PSL 09.12.66 p. IV Otto Strasser: «Chi sarà Hitler II» PSL 16.12.66 p. III Due adulti giocano con i bambini PSL 23.12.66 p. III Da Pusˇ kin a Magellano

1967 PSL 24.03.67 p. IV Anche i ragazzi possono leggere Shakespeare PSL 12.05.67 p. III Cominciò a raccontare per l’errore d’un medico PSL 07.07.67 p. II Cambia il linguaggio anche nella pedagogia PSL 28.07.67 p. IV Vi chiamate Antonio, Carlo o Francesco? Questi libri sono per voi PSL 20.10.67 p. II I segreti del bambino nei pensieri di Alain PSL 01.12.67 p. IV «Se fossi grande comincerei all’indietro...» PSL 24.12.67 p. IV I segreti delle stelle e... la civiltà peruviana

1968 PSL 24.02.68 p. IV Italia: Fantascienza e ideologia PSL 07.04.68 pp. I-II Il millesimo giallo è di Agata Christie PSL 02.06.68 p. IV Uomini e robot di Isaac Asimov PSL 09.06.68 p. IV Dall’alluvione ai western all’italiana PSL 29.09.68 p. I e II Pinocchio per adulti PSL 15.12.68 p. IV Pinocchio visto da... Marcuse

1969 PSL 05.12.69 p. IV Verne, Ionesco e la vispa Teresa PSL 23.12.69 p. IV Un bel giallo francese e inviti alla natura 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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1969-1970

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Le letture di Benelux

PSL 26.01.69 p. I Arriva la bomba PSL 02.02.69 p. I Le strane coppie PSL 09.02.69 p. I I segreti del confessionale PSL 16.02.69 p. I Arrabbiato a morte PSL 23.02.69 p. I Odissea nello spazio PSL 02.03.69 p. I I pensieri di Marco PSL 09.03.69 p. I Il Santo Ginocchio PSL 16.03.69 p. I La tribù di Wolfe PSL 22.03.69 p. I Una storia terribile PSL 30.03.69 p. I Fu vera gloria? PSL 06.04.69 p. I Pensieri di Starace PSL 13.04.69 p. I La logica nera PSL 20.04.69 p. I Diritto alla pigrizia PSL 27.04.69 p. I Le uova del Re PSL 11.05.69 p. I Templari al rogo PSL 16.05.69 p. I Kuprin nella «fossa» PSL 30.05.69 p. I Bubù a Roma PSL 06.06.69 p. I Catullo personaggio PSL 13.06.69 p. I Il «Machia» che scotta PSL 20.06.69 p. I Prigione sconfitta PSL 27.06.69 p. I Bare in luna di miele PSL 04.07.69 p. I Provare con la capra PSL 11.07.69 p. I Colpa delle lucertole PSL 18.07.69 p. I Occhio alla Terra! PSL 25.07.69 p. III Universi proibiti PSL 22.08.69 p. I Feltre e altrove PSL 29.08.69 p. III Il cane e le FF.SS. PSL 05.09.69 p. I Chianti inglese PSL 12.09.69 p. I Dialogo in pubblico PSL 19.09.69 p. I Tutto Catone PSL 03.10.69 p. I La signora del Tibet PSL 10.10.69 p. I «Libri rivoltanti» PSL 17.10.69 p. I La virgola pausativa PSL 01.11.69 p. I Uomini e denaro PSL 14.11.69 p. I La cantina o la Bastiglia? PSL 21.11.69 p. I Il fuoco e l’acqua PSL 28.11.69 p. I La famiglia Parkinson PSL 05.12.69 p. I Sesso cattolico PSL 23.12.69 p. I Il Radescone 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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PSL 23.01.70 p. I Nella scia del «Bounty» PSL 06.02.70 p. II La Cina, la Luna PSL 13.02.70 p. I Vita col falco PSL 06.03.70 p. I L’Achille del Caucaso

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1970 PSL 16.01.70 p. III Il libraio e la TV PSL 27.03.70 pp. I-II Un Papa che giochi a ping pong PSL 10.04.70 p. II Auto-schede dell’editore PSL 08.05.70 p. II L’attualità più scottante si fa strada nelle antologie PSL 19.06.70 p. II Le sorelle spose dei popoli Incas PSL 04.09.70 p. I Una guida scanzonata ai segreti della Russia PSL 27.11.70 p. IV Uomini famosi PSL 04.12.70 p. IV Avventure nello spazio PSL 11.12.70 p. IV Da Gozzano a Garcia Lorca PSL 18.12.70 p. VIII I segreti della Brianza e quelli di... Gadda

1971 PSL 18.06.71 p. III Come si insegnano «certe cose»? PSL 10.09.71 p. IV La macchina dei sogni PSL 26.11.71 pp. I-II La Cina di Mao (e di Marx)

1972 PSL 16.02.72 p. IV Chi ha paura di Nero Wolfe? PSL 15.09.72 p. IV Impariamo a contare

1973 PSL 06.07.73 p. I e cont. p. IV Che tipo di scuola volete? Rispondono madri e figli

1975 PSL 31.01.75 p. I e cont. p. IV Com’era l’uomo delle caverne? PSL 11.04.75 p. 9 e cont. p. 12 Un maestro favoloso PSL 07.11.75 p. 11 Momenti d’ozio 147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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1976 PSL 10.12.76 p. I e cont. p. VI Baudelaire batte Annibal Caro

1977 PSL 02.10.77 p. 13 Visse con qualche secolo di ritardo PSL 06.11.77 p. 15 Tante immagini per giocare PSL 18.12.77 p. 17 Andersen tra Cristo e Cenerentola

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1978 PSL 02.04.78 p. 17 I nemici di Alice PSL 11.06.78 p. 15 Morire di Murgia PSL 30.07.78 p. 13 Leopardi anticipò le idee freudiane PSL 15.10.78 p. 17 Se non siamo stupidi il merito è dei francesi PSL 10.12.78 p. 17 Ama la Cina soffre e racconta

1979 PSL 14.01.79 p. 15 I vedovi inconsolabili «traditi» dalla Cina PSL 01.06.79 p. 15 Ricordare con il naso PSL 29.06.79 p. 9 A quale età imparare a leggere? PSL 07.12.79 p. 11 La Cina dopo Mao / Non fate troppi elogi

1980 PSL 04.01.80 p. 6 Quant’è bello giocare

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Indici

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Indice degli articoli

Anche i ragazzi possono leggere Shakespeare, 70. Arrabbiato a morte, 7. Arriva la bomba, 3. Bare in luna di miele, 32. Bubù a Roma, 26. Catullo personaggio, 28. Che tipo di scuola volete? Rispondono madri e figli, 93. Chi ha paura di Nero Wolfe?, 128. Chianti inglese, 41. Colpa delle lucertole, 34. Come si diventa uno snob perfetto, 123. Come si insegnano «certe cose»?, 90. Cominciò a raccontare per l’errore d’un medico, 126. Condannati al capestro per un errore di pronuncia, 104. Dalle macchine inutili agli oggetti funzionali, 68. Dialogo in pubblico, 43. Diritto alla pigrizia, 20. Feltre e altrove, 39. Fu vera gloria?, 16. Henry Miller da se stesso, 66. Il cane e le FF.SS., 40. Il fuoco e l’acqua, 52.

Il «Machia» che scotta, 29. Il Radescone, 56. Il Santo Ginocchio, 12. I pensieri di Marco, 10. I segreti del bambino nei pensieri di Alain, 85. I segreti del confessionale, 6. I segreti della Brianza e quelli di... Gadda, 134. Kuprin nella «fossa», 25. L’Achille del Caucaso, 61. L’attualità più scottante si fa strada nelle antologie, 87. La cantina o la Bastiglia?, 51. La Cina di Mao (e di Marx), 137. La Cina, la Luna, 59. La famiglia Parkinson, 53. La logica nera, 19. La signora del Tibet, 45 La tribù di Wolfe, 13. La virgola pausativa, 48. Le strane coppie, 5. Le uova del Re, 22. Leopardi anticipò le idee freudiane, 76. «Libri rivoltanti», 47. Lotta senza quartiere in nome dell’alfabeto, 99. Mettono nei guai persino gli adulti, 102. 151

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Morire di Murgia, 113. Nella scia del «Bounty», 57. «Nessuna bandiera è sacra, secondo la Scrittura...», 108. Nostro figlio artista, 82. Notiziario nel 2000, 115. Occhio alla Terra!, 36. Odissea nello spazio, 9. Pensieri di Starace, 18. Prigione sconfitta, 31. Provare con la capra, 33. Quant’è bello giocare, 97. Se non siamo stupidi il merito è dei francesi, 140. Sesso cattolico, 55. Stranezze del lessico sportivo, 116. Templari al rogo, 23. Tolstoj maestro elementare, 63. Tutto Catone, 44.

Umberto e la Loren insieme in edicola, 118. Un giornalista nel paese del Mai Mai, 130. Un maestro con la chitarra, 81. Un maestro e i suoi scolari, 78. Un maestro favoloso, 72. Un Papa che giochi a ping pong, 110. Un ritratto impertinente di Fanfani, 120. Una guida scanzonata ai segreti della Russia, 131. Una storia terribile, 15. Universi proibiti, 37. Uomini e denaro, 49. Vita col falco, 60. Woyzeck e altre opere di Büchner, 66.

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Indice del volume

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Presentazione di Franco Cambi Introduzione. Rodari lettore e recensore

VII XI

1. Rodari giornalista, p. XI - 2. A «Paese Sera», p. XXIV - 3. Tra mondo adulto e mondo infantile, p. XXXIII - 4. Recensioni, elzeviri e altro, p. XXXIX - 5. La cultura di Rodari sullo sfondo, p. XLVI - 6. Griglia di lettura del volume, p. LIV

Ringraziamenti

LIX

Le letture di Benelux

3

Autori e testi

63

Tra pedagogia e scuola

78

Polemiche e flash

99

Tra serio e faceto: profili

115

Viaggi

130

Bibliografia degli articoli apparsi su «Paese Sera-Libri» (1961-1980)

143

Indice degli articoli

151

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Finzi, R., Civiltà mezzadrile. La piccola coltura in Emilia Romagna De Felice, F., La questione della nazione repubblicana De Rosa, L., Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento Silvestre, M.L. - Valerio, A. (a cura di), Donne in viaggio. Viaggio religioso politico metaforico Preta, L. (a cura di), Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica Donghi, P. (a cura di), Limiti e frontiere della scienza Allovio, S., La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Destro, A. - Pesce, M., Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni Università degli Studi di Bari - Facoltà di Lettere, Cinquant’anni di ricerca e didattica. Atti del convegno 25-27 febbraio 1998 Forni Rosa, G., Il dibattito sul modernismo religioso Macioti, M.I., Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto Careri M. - Cattaneo, R. (a cura di), Cambiare la Pubblica Amministrazione. L’esperienza della Regione Lombardia Viazzo, P.P., Introduzione all’antropologia storica Kowohl De Rosa, C.S., Storia della cultura tedesca fra «ancien régime» e Restaurazione. Cronache e personaggi Negrotti, M., Artificiale. La riproduzione della natura e le sue leggi Amendola, G. (a cura di), Scenari della città nel futuro prossimo venturo Losano, M.G., Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale Donghi, P. (a cura di), Aree di contagio Amoruso, V., La letteratura americana moderna. 1861-1915 Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. I Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. II Piromallo Gambardella, A., Le sfide della comunicazione

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Fabris, A., Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare Bartolini, F., Roma borghese. La casa e i ceti medi tra le due guerre Losano, M.G., Cinque anni di legge sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni Artioli, U., Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano Fanizza, L., Senato e società politica tra Augusto e Traiano Villari, R. (a cura di), Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo Folin, M., Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano (versione on line) Bravo, A. - Pelaja, M. - Pescarolo, A. - Scaraffia, L., Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea Sportelli, A., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione Ferrari, S., Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia Battimelli, G. - De Maria, M. - Paoloni, G., L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Storia di una comunità di ricerca Narducci, E., Lucano. Un’epica contro l’impero (non uscito) Fedele, M., Il management delle politiche pubbliche Piasere, L., L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Bentivegna, S., Politica e nuove tecnologie della comunicazione Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Universalismo e nazionalità nell'esperienza del giacobinismo italiano Bocchini Camaiani, B., Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità Donghi, P. (a cura di), La nuova Odissea Lotti, L. - Villari, R. (a cura di), Filippo II e il Mediterraneo Biscardi, L. - De Francesco, A. (a cura di), Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli Chiarini, R. (a cura di), Quale Europa dopo l’euro Pazé, V., Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea Maniscalco, M.L., Sociologia del denaro Favole, A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Lo Piparo, F., Aristotele e il linguaggio Cappelli, O. (a cura di), Mezzo mondo in rete Di Giovanni, P., Filosofia e psicologia nel positivismo italiano Pecchinenda, G., Videogiochi e cultura della simulazione Sebesta, L., Alleati competitivi. Origini e sviluppo della cooperazione spaziale fra Europa e Stati Uniti Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Donghi, P. (a cura di), Il governo della scienza Petrilli, R. - Piemontese, M.E. - Vedovelli, M. (a cura di), Tullio De Mauro. Una storia linguistica

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Cavalluzzi, R. (a cura di), L’anima e le cose. Naturalismo e antinaturalismo tra Otto e Novecento Bazzicalupo, L. - Esposito, R. (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti Baccelli, L., Critica del repubblicanesimo Battimelli, G. - Patera, V. (a cura di), L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La ricerca italiana in fisica subatomica De Bartolomeis, F., Riflessioni intorno al sistema formativo Gusman, A., Antropologia dell’olfatto Antinucci, F., Comunicare nel museo De Marinis, M., Visioni della scena. Teatro e scrittura Alonge, R., Donne terrifiche e fragili maschi. La linea teatrale D’Annunzio-Pirandello Giusti, M., Pedagogia interculturale. Teorie, metodologia, laboratori Prospero, M., Politica e società globale Piasere, L., I rom d’Europa. Una storia moderna Zoppini A. (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici Leijonhufvud, A., Informazione, coordinamento e instabilità macroeconomica Lorenzetti, R. - Stame, S. (a cura di), Narrazione e identità. Aspetti cognitivi e interpersonali Frauenfelder, E. - Santoianni, F. - Striano, M., Introduzione alle scienze bioeducative Accardo, A. - Baldocchi, U., Politica e storia. Manuali e didattica della storia nella costruzione dell’unità europea Maeran, R., Psicologia e turismo Mininni, G., Psicologia e media Ramat, P., Pagine linguistiche. Scritti di linguistica storica e tipologica Botta, F. - Garzia, I. (a cura di), Europa adriatica. Storia, relazioni, economia Carandini, G., Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia Dematté, C. - Perretti, F. (a cura di), La sfida cinese. Rischi e opportunità per l’Italia Taffon, G., Maestri drammaturghi nel teatro italiano del ’900. Tecniche, forme, invenzioni Tedeschi, E., Sociologia e scrittura. Metafore, paradossi, malintesi: dal campo al rapporto di ricerca Artioli, U., Il ritmo e la voce. Alle sorgenti del teatro della crudeltà Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Di Ciommo, E., I confini dell’identità. Teorie e modelli di nazione in Italia Zucchermaglio, C. - Alby, F., Gruppi e tecnologie al lavoro Ricuperati, G., Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia

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Rodari, G., Testi su testi. Recensioni e elzeviri da Pussetti, C., Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Izzo, F., Morfologia del moderno. Antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes D’Amico, R., Le relazioni di coppia. Potere, dipendenza, autonomia The World Political Forum, 1985-2005. Twenty Years that Changed the World Maccabelli, T. - Provasi, G. (a cura di), La globalizzazione tra politica ed economia. Scenari del XXI secolo Arioti, M., Introduzione all'antropologia della parentela Predieri, A., Sharî‘a e Costituzione Bazzicalupo, L., Il governo delle vite. Biopolitica ed economia Machetti, S., Uscire dal vago. Analisi linguistica della vaghezza nel linguaggio Donghi, P. (a cura di), Alterando il destino dell’umanità Donghi, P., Sui generis. Temi e riflessioni sulla comunicazione della scienza

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